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Italian Pages 351/361 [361] Year 2011
Passages · 13 ·
La volta del cielo progetto di Massimo Quaini ed Eugenio Turri direzione Massimo Quaini
In copertina Jean Antoine Claudet, The Geography Lesson dagherrotipo stereoscopico, 1851
Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)
ISBN 978-88-8103-775-9
© 2011 Edizioni Diabasis seconda edizione © 2005 Edizioni Diabasis prima edizione via Emilia S. Stefano 54 I-42121 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it
Luisa Rossi
L’altra mappa Esploratrici viaggiatrici geografe
DIABASIS
Ringraziamenti Nel quasi decennale lavoro di ricerca approdato a questo libro, che non avrei potuto scrivere senza l’affettuoso incoraggiamento e la generosa disponibilità di Massimo Quaini, ho contratto molti debiti di riconoscenza nei confronti di studiosi e studiose, amici e amiche che mi hanno sostenuta con il loro sapere e il loro aiuto. A loro devo informazioni, consigli, documentazione, pazienti letture del manoscritto, traduzioni, immagini. Li ringrazio tutti, nella speranza di non avere dimenticato qualche nome: Emi Arcuri, Françoise Ardillier, Liana Borghi, Claudia Borri, Ilaria Caraci, Franca Cipriani, Zeffiro Ciuffoletti, Gisella Cortesi, Giorgio Cusatelli, Paola Roberta Faggioni, Lia Formentini, Nadia Fusco, Davide Galimberti, Graziella Galliano, Maria Luisa Gentileschi, Vincenzo Manuel Gismondi, Eli Greci, Claudio Greppi, Anna Guarducci, Juan Jil, Kim Leslie, Patrizia Licini, Ivo Lisi, Isabelle Montfort, Giorgio Mangani, Mary Mcmichael Ritzlin, Algerina Neri, Dida Paggi, Chiara Pagliettini, Benedetta Paoli, Monique Pelletier, Rossana Piccioli, Felice Pozzo, Marzia Ratti, Luisa Reina, Marie Claire Robic, Leonardo Rombai, Roberto G. Salvadori, Mirella Scriboni, Simona Sperandio, Francesco Surdich, Judith A. Tyner, Vladimiro Valerio, Cristoph Wegmann, David Woodward. Un ringraziamento particolare alle giovani laureate e laureande che hanno accolto con entusiasmo le mie proposte di tesi e di ricerca: Claudia Borgioli, Ilaria Catalano, Francesca Goldoni, Carla Gucci, Elettra Gullè, Chiara Lombardi, Diletta Mazzucchi, Antonella Passarelli, Stefania Scaravelli. Per la seconda edizione mi sono stati di prezioso aiuto Valentina de Santi e Carlo A. Gemignani. Ringrazio infine la casa editrice Diabasis per aver creduto nel mio progetto.
Luisa Rossi
L’altra mappa Esploratrici viaggiatrici geografe
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Introduzione
Uno «schizzo» di storia della geografia femminile Parte prima AI MARGINI DELLA GEOGRAFIA LE IMMAGINI
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I. II.
La biblioteca nel vascello La storia della monaca alfiere: esperienza vissuta o viaggio immaginario? Il vulcano nel paniere. Sibylla Merian Canterbury a Loreto. Cecilia Redi Una donna sulla Stella. Jeanne Baré L’altro orientalismo. Mary Montagu
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III.
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Parte seconda IL VIAGGIO FEMMINILE: UNA RIVOLUZIONE GEOGRAFICA
159 165 187 210 232 254 271
IV. V. VI.
I. II. III. IV. V. VI.
Chi ha “soppresso” Alexander von Humboldt? Diario dai ghiacci. Léonie d’Aunet «El mundo es poco». Ida Pfeiffer Meccanica “Rosa”. Mary Somerville Una sola Europa. Dora d’Istria Lhasa in Provenza. Alexandra David-Néel
Epilogo
Dalla strada alla cattedra. Ellen Semple e la nascita della geografia scientifica femminile 297
Fonti
303
Letteratura
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Indice dei nomi
a Max
Introduzione1
Uno «schizzo» di storia della geografia femminile
Il biografo, a questo punto, si trova di fronte a una difficoltà; e tanto vale confessarla, piuttosto che ricorrere a scappatoie. Nel narrar la storia, documenti storici e privati ci hanno reso possibile, finora, di adempiere al primo compito di un biografo, il quale dovrebbe essere quello di porre i propri piedi, senza guardare a dritta e a manca, entro le indelebili orme della verità; e senza pur lasciarsi sedurre, né indurre a riguardi da fiori come da ombre, procedere con metodo […]. Virginia Woolf, Orlando
1. Un mondo senza geografe Qualche decennio fa, in Uno schizzo di storia della geografia in Italia, Lucio Gambi rifletteva sull’idea corrente che faceva coincidere la nascita della geografia con il suo regolare insegnamento nelle università o con la fondazione delle società geografiche e delle riviste geografiche. In disaccordo con tale impostazione, egli affermava che «la geografia – come ogni ramo della scienza – prima che su istituzioni (scuole, società, periodici ecc.) è costruita su problemi, e più precisamente su una capacità o idoneità a partecipare – coi suoi metodi di ricerca e armi di lavoro – alla soluzione di determinati problemi». Quindi, proseguiva, «per cogliere le origini della geografia moderna bisogna esaminare quando – al di là di ogni loro ripartizione e denominazione – i problemi a cui la geografia moderna si è rivolta con particolare efficienza emergono, sono coltivati, stimolano su diverse direzioni iniziative coordinate di studio». E continuava motivando la sua convinzione che quel momento fosse da ricercarsi nell’Illuminismo2. Ricordo l’epoca esaltante della geografia italiana – esaltante perché Una geografia per la storia, il libro di Gambi in cui lo «schizzo» ha sede, squarciava a noi studenti di allora un velo sulle diverse nature di una disciplina che ci avevano insegnato positivista, oggettiva, unica, elencatoria, mnemonica, e che scoprivamo umana – per fare alcune considerazioni. La prima è che né in quelle pagine, né nei successivi lavori, anche più ampi, di Massimo Quaini3 e di Ilaria Caraci4 (per non dire di ricostruzioni più tradizionali, per epoca o impostazione), fu trovata una ragione per ricordare qualche donna appartenente alla storia della nostra cultura che, se non dal Settecento, almeno dal tardo Ottocento in qua, avesse partecipato alla costruzione dell’edificio della «geografia di casa nostra». In effetti di figure femminili la geografia italiana è stata fino al secondo dopoguerra piuttosto
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sguarnita, e se ci furono (come nella prima metà del Novecento qualcuna ci fu), la loro esistenza non presentava sufficiente interesse da sollecitare la considerazione di chi si stava dedicando a una riflessione rifondativa della geografia nazionale. In verità, nel lavoro di Ilaria Caraci un nome femminile lo si trova, là dove viene ricordato un articolo intitolato Per le monografie locali, pubblicato nel 1895 in un fascicolo della «Geografia per tutti». Si tratta di un saggio nel quale l’autrice, una certa Ernestina Macchi, «proponeva i primi schemi di monografie regionali»5. Forse Arcangelo Ghisleri, il più popolare e democratico dei geografi del tempo, aveva scoperto e dato spazio nella propria rivista a una sorta di Vidal de La Blache italiano e donna? Nient’affatto. Dietro il nome di Ernestina Macchi si nascondeva il giovane Luigi Filippo De Magistris che, unico episodio nel panorama degli studi che ho compiuto in questi anni (è accaduto sempre alle donne di dover indossare, per riuscire ad affermarsi, abiti, e habitus, maschili), ambendo a un confronto con due importanti cattedratici come Giovanni Marinelli e Filippo Porena, usò questo stratagemma per attirare la loro attenzione sulle proprie riflessioni. «La sconosciuta» che trattava «metodicamente di quote d’altitudine, di confini, di dati geografici e topografici, di regime idrografico, di clima eccetera» raggiunse lo scopo: alla «Signora» che mostrava «di volersi occupare di veri e propri argomenti geografici» rispose Porena (non si sa se ignaro del trucco o stando al gioco, sospetta Caraci) con Una lettera del prof. Filippo Porena sulle monografie locali 6. Tornando allo «schizzo» di Gambi e alla sua idea di geografia moderna come sapere territoriale, precedente ed esterno a quello disciplinare-istituzionale, egli indicava una serie di direzioni di indagine: «ricerca sopra i tenori di vita di determinate popolazioni, esame di relazioni fra la situazione economica e la condizione ambientale di singole regioni, a volte pure indagini di specifici insiemi naturali (clima, idrografia, vegetazione, suoli) in funzione degli insediamenti umani». Più in dettaglio, Gambi citava i settori di intervento (e gli uomini: Arduino, Pini, Vallisneri, Fortis, Spallanzani, Perelli, Ximenes…) di un sapere geografico al servizio dei vari stati dell’Italia settecentesca (acque e foreste, viabilità e demografia, catasti) cui andavano sommate, con l’epoca napoleonica, le conoscenze derivate dalla statistica applicata a ogni aspetto dell’organizzazione e dell’amministrazione dello Stato7. Ebbene, tanto meno in una geografia così intesa, in questo sapere geografico extra-accademico prodotto dalla gestione del territorio e dalla pratica del terreno, le donne fanno comparsa. A considerazioni analoghe mi ha portato lo studio della storia della cartografia ufficiale che, da noi, non fa emergere l’esistenza di carte a stampa o manoscritte realizzate da donne, a parte l’affascinante ipotesi che riguarda la
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grande mappa mundi di Ebstorf. Essa è stata messa in relazione con la presenza a Ebstorf, fra il 1223 e il 1234, del priore Gervasio, ma, come afferma Harvey, non è certo che si trattasse proprio di Gervasio di Tilbury (ca 11601235?), d’origine inglese e docente di diritto canonico a Bologna. Le controversie non riguardano invece la datazione della mappa mundi in questione (andata distrutta durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale) che, per i suoi contenuti geografici, viene fatta risalire alla fine del secolo XIII. Trattandosi di un monastero femminile, essa è stata ritenuta da qualche autore opera delle monache8. L’ipotesi delle religiose cartografe è, a mio parere, plausibile: dati i contenuti del documento – il mondo, rappresentato come il corpo del Cristo, è il simbolo dell’esperienza terrena compiuta per la salvezza degli uomini – essa corrisponde a quanto per secoli è stato considerato adatto alle donne in tema di geografia. Che, poi, l’aver tenuto le donne lontane dagli effettivi saperi geografici abbia ingenerato solidi pregiudizi, non è cosa che desti stupore. La geografa francese Claire Hancock ci ricorda come la convinzione della oggettiva incompatibilità fra carte e attitudini femminili sia radicata tanto da essere divenuta proverbiale: «La saggezza popolare, diffusa da numerose pubblicazioni di volgarizzazione, attesta il fatto che “le donne non sanno leggere le carte” e che le loro “attitudini spaziali” sono molto meno sviluppate, per natura, di quelle degli uomini»9. In Italia, si deve arrivare al nostro tempo per riscontrare, nella presenza delle “cartografe” impiegate presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze e nelle geografe colpite dalla passione per i Geographical Information Systems (GIS) l’evidenza di donne che hanno avuto accesso alla cartografia; una cartografia, comunque, prodotta al computer e spossessata di una concreta pratica del terreno. Da queste iniziali considerazioni ha preso le mosse il mio lavoro, un lavoro nato dal desiderio di scoprire se e da quando ci sia stato e quali caratteristiche abbia avuto il contributo delle donne alla conoscenza e rappresentazione degli spazi geografici. Fissata l’attenzione sul dato che in Italia i principali studi di storia della disciplina non registrano, neppure per l’Ottocento inoltrato e per il primo Novecento, l’esistenza di donne geografe, italiane o straniere – a parte il caso dell’americana Ellen Semple, nota per essere stata ostinata e fin troppo zelante allieva di Ratzel – la verifica si è imposta in maniera comparata, quindi a una scala non solo italiana, e ha preso più direzioni, per raggiungere sia eventuali studiose operanti all’interno delle istituzioni, sia donne che, dall’esterno, abbiano elaborato scritti geografici di una qualche natura, anche nel senso che Gambi indicava. I risultati delle lunghe ricerche non hanno ribaltato l’idea di una storia della geografia occidentale senza donne ma l’hanno molto attenuata. Per l’at-
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tività geografica intesa in senso scientifico-disciplinare, se non accademico, al nome della Semple se ne è aggiunto subito un altro importante: quello di Mary Somerville, autrice di un trattato di geografia fisica molto famoso nel secondo Ottocento10. Lunghissima, poi, la lista delle cultrici di una geografia non disciplinare, legata alla pratica del viaggio, feconda di risultati conoscitivi. Fra le pieghe della storia della cartografia ho anche scoperto l’esistenza di un certo numero di cartografe. Scavando in un secolo come il Settecento, ritenuto, e non solo da Gambi, il secolo delle origini della geografia moderna e, d’altra parte, «secolo delle donne», come ci ha ricordato Arlette Farge11, per aver dato spazio, meglio del successivo, alla loro affermazione culturale (almeno a quelle di ceto elevato), ho trovato la francese Madame Lepaute (o le Paute), che verso il 1760 entra da protagonista in un dibattito astronomico-cartografico che coinvolge scienziati del calibro di Lalande, Bonne, Delisle e Rizzi Zannoni12. Più abbondante la rassegna di disegnatrici di carte didattiche e di oscure collaboratrici dei cartografi, le quali, alla morte dei padri, fratelli o mariti, ne hanno ereditato le botteghe e una qualche notorietà. A proposito di importanti botteghe d’editoria cartografica stupisce il caso di Maria Sibylla Merian. Avendo una personalità spiccata e interessi individuali ben definiti, questa donna acquista fama autonoma in un settore del tutto diverso da quello vedutistico-cartografico coltivato con successo dai parenti, cosa che non ci ha privato di un suo originale contributo alle conoscenze geografiche. Come il nome rivela subito, la Merian appartiene a una famiglia molto nota. Paesaggisti, vedutisti, incisori e pittori il padre, Matthäus Merian il Vecchio, i fratelli, Matthäus il Giovane e Caspar, il patrigno, Jacob Marel, e pittore e incisore anche il marito, Johann Andreas Graff, a sua volta allievo di Marel. Dai gabinetti di questi artisti sono usciti importanti atlanti e vedute che hanno rappresentato l’Europa barocca. Come se non bastasse, Maria Sibylla aveva anche una relazione di discendenza, se pur indiretta, con il famosissimo illustratore di viaggi Théodore de Bry. Maria Sibylla era, non meno di tutti loro, un’artista, una disegnatrice d’eccezione, abile nell’arte dell’incisione, eppure non troviamo la sua firma in nessuna veduta, in nessuna carta. È, invece, autrice di straordinarie tavole entomologiche. Proprio sul finire del Seicento Maria Sibylla si imbarca per il Suriname da dove riporterà, dopo un biennio di permanenza, una collezione naturalistica e una serie di meravigliosi disegni, non di piante come mappe ma di piante come vegetazione con i loro fiori e frutti e i loro ospiti: bruchi, insetti, farfalle; tutto un universo naturalistico ancora sconosciuto in Europa che, esattamente cento anni dopo, Humboldt e Bonpland torneranno, da scienziati, a indagare13. Sibylla non è una vera e propria scienziata, è
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piuttosto una studiosa-pittrice i cui precisi interessi, la cui tendenza all’approfondimento e le cui indubbie capacità tecnico-artistiche consentono di dare alla scienza un contributo di non secondaria importanza. Sibylla Merian può pertanto essere presa a simbolo di tutte le esploratrici e viaggiatrici che, fra il secondo Seicento e la metà del Novecento hanno contribuito alla costruzione e alla divulgazione del sapere naturalistico, geografico-umano, antropologico. Anche Sibylla scriverà – e disegnerà – una grande e preziosa opera. Come Humboldt dovrà darsi da fare in modo da recuperare, attraverso le sottoscrizioni, le spese della costosissima edizione. Per restare nel campo delle discipline definite scientifiche, se gli studi, pur non sistematici, della Merian avranno un certo riconoscimento, come anche dimostra il nome attribuito da Linneo a una falena, la Tinea Merianella14, Mary Wortley Montagu, altra viaggiatrice, altro mondo di provenienza e altre mete, è un secondo esempio di “scienziata per caso”. A questa donna, ben più interessata alle lettere che alla medicina, l’Occidente deve, e questo fa riflettere sul modo delle donne di guardare il mondo, l’introduzione in Europa della vaccinazione antivaiolosa. Di questa pratica medica, consueta nella società turca, si accorse la viaggiatrice benché non si contino i viaggiatori di tutti i tipi che, ben prima di lei, ebbero modo di conoscere quella realtà. Se la scoperta fu di eccezionale portata, il viaggio di Mary, da un altro punto di vista, non vale di meno, dal punto di vista della Costantinopoli di primo Settecento e per altre “scoperte” il cui campo è stato più tardi definito come antropologico-culturale. La nostra identità e la coscienza della differenza nascono dall’incontro con l’altro. Il contatto con l’altro pone in modo radicale la questione di chi siamo in quanto individui e in quanto società. Negli anni in cui Joseph-François Lafiteau (1618-1746) meditava quello che può essere considerato come uno dei testi fondatori del discorso etnografico15, Lady Montagu incontrava, prima di ogni altro occidentale, le donne nel segreto dell’harem e ne lasciava una testimonianza scritta che, senza certo rappresentare un lavoro organico sull’alterità, ne costituisce senz’altro una straordinaria intuizione16. Lo spirito di Lady Montagu è molto vicino allo spirito dell’Illuminismo e, nel suo guardare con meraviglia ed empatia la società turca, la viaggiatrice compie la medesima operazione di spaesamento che provocatoriamente Montesquieu, con l’invenzione delle Lettres persanes, mette in scena tramite il viaggio di Usbek: «Ispahan, Com, Tauris, Erzerum, Tocat, Smirne, poi Livorno e Parigi; lo spazio è delimitato con precisione, scandito con la verisimiglianza cronologica di un vero viaggio, lungo una rotta contraria a quella percorsa dai viaggiatori occidentali i cui racconti hanno alimentato le informazioni di Montesquieu. La conquista del sapere, per Usbeck, implica il moto, l’apertura verso l’esterno e soprattutto il rifiuto di restare sottomesso all’autorità della sola “cultura” del paese nata-
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le»17. Vedremo come Mary Montagu ha effettuato il suo “percorso inverso” all’interno del mondo misterioso delle donne turche. La Merian e la Montagu sono, nel mio discorso, rappresentative di un sapere geografico femminile presente e attivo nella cultura occidentale di epoca moderna, ma in grandissima misura autonomamente costruito al di fuori della scienza ufficiale. «Com’è potuta emergere una cultura scientifica così strana, una cultura che da un lato proclamava con tanta audacia la potenza della specie, e dall’altro, e contemporaneamente, rifuggiva inorridita da una metà della specie medesima?» Da questa domanda muove la riflessione di David F. Noble in un lavoro che si propone di «spiegare storicamente come, quando e perché la cultura della scienza occidentale abbia imboccato la strada singolare che è stata la sua»: la strada di un mondo senza donne, come recita il titolo del suo libro18. L’autore non concorda con l’opinione largamente diffusa che «sia sempre stato così»: l’idea di un mondo senza donne sempre esistito è, a suo avviso, fatalista ed errata e «un mondo completamente diverso» va individuato nei primi anni dell’era cristiana, quando si crea, almeno in parte, una frattura con il retaggio greco, le sue accademie platoniche omosociali e la sua misoginia aristotelica19. Se da una parte il primo Cristianesimo, nell’interesse dell’unità e dell’ordine, esorta ad osservare le norme dell’autorità costituita, inclusa la subordinazione della donna, d’altra parte esso è anche portatore di una promessa escatologica di uguaglianza sulla quale si basa la predicazione che annuncia il superamento delle divisioni sociali, comprese quelle tra i sessi. Questa feconda ambiguità rende possibile la parentesi di un mondo con le donne20. Nelle famiglie del primo periodo cristiano, quando il celibato dei sacerdoti non era stato ancora introdotto, c’erano donne che avevano il ruolo di capofamiglia, gestivano attività economiche e disponevano di un patrimonio indipendente; donne che viaggiavano con i loro schiavi e assistenti personali, donne evangelizzatrici e insegnanti. In tutte le comunità cristiane che vantassero fedeli e sostenitori appartenenti alle classi superiori, le donne occupavano posizioni di rilievo21. Con l’avvento e la progressiva affermazione dell’ascetismo clericale, l’ambiguità iniziale si risolve (negativamente), il processo di emarginazione sociale delle donne si riconferma e, con esso, la loro esclusione dall’istruzione, dalla scienza e, quando sorgono, dalle università: come la cultura clericale di cui era parte, la cultura accademica diventa un mondo senza donne22. La tesi di Noble è largamente anticipata in un saggio del 1892 di Georg Simmel, che a proposito della considerazione in cui venivano tenute le donne nell’antichità classica ricorda le posizioni in merito di Christian Lehms:
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La filosofia di Democrito, Euripide, Aristotele e altre simili linguacce, assai poco saggia malgrado la sua celebrata saggezza, si è fatta idee così ridicole di questo amabile sesso che non voglio provocarmi il disgusto di citarle. Ma opinioni analoghe […] ricorrono anche oggi, specialmente in molte Università23.
Simmel, che vede nella guerra un fattore fortemente inibitore dell’emancipazione delle donne, spiega la loro posizione favorevole nella società romana dei primi tempi del Cristianesimo, sia con la «buona novella del Gesù che non faceva differenza fra uomini e donne» – il riferimento è a San Paolo – sia con l’allentamento della rigidità dell’organizzazione guerriera dello Stato. Detto in sintesi, anche per lui sono la misoginia dei Padri della Chiesa, l’assunzione da parte di questa dei caratteri di potenza centralizzata e militare (ecclesia militans) e il celibato sacerdotale a ridurre di nuovo le donne in sottomissione e a privarle dell’istruzione24. Ho trovato nel Libro della Città delle Dame, in cui a inizio Quattrocento la veneziana vissuta alla corte di Francia Cristiana da Pizzano mette in scena l’utopia urbana femminile, il segno, o il sogno, di un sovvertimento dell’ordine spaziale dominante che vuole le donne fuori dalla cittadella della scienza. Cinta di mura, fatta di alti palazzi turriti e attraversata da ampie strade, abitata solo da donne illustri e meritevoli: è di una città nella quale le donne hanno diritto all’istruzione che Cristiana da Pizzano discute25 . Da qualche decennio sono state soprattutto le studiose a ricostruire tempi, modalità e cause del ritardo femminile nelle scienze. Esse hanno analizzato il fenomeno nelle diverse realtà culturali occidentali e messo a confronto le tendenze per disciplina. Il punto di partenza è stato, come Cristiana da Pizzano auspicava, il diritto all’istruzione, conquistato in tempi lunghi anche dalle donne dei ceti più elevati. Con il passaggio dal XVI al XVII secolo il dibattito è soltanto quello relativo all’istruzione femminile elementare finalizzata alla formazione di una buona madre cristiana e basata sull’apprendimento della lettura e del catechismo26. Di insegnare alle donne il latino, lingua indispensabile per accedere ai saperi alti, non se ne parla neppure27. Ma sappiamo che dalle maglie privilegiate della società sfuggono esperienze speciali. Nei ricchi ambienti borghesi della Francia di metà Seicento si afferma l’era dei salotti. Già nel Rinascimento, o anche prima, esistevano cenacoli culturali sorti intorno alle grandi dame delle corti europee ma «il salon, come scrive Dulong, esiste solo dal momento in cui questi focolai di cultura migrano dalle corti e dai palazzi per sciamare nella città, in case di privati». Sono i salotti tenuti da parigine di buona estrazione, indipendenti perché sposate a uomini liberali, oppure vedove o nubili, in possesso di un qualche elemento di cultura classica che si erano procurate «giocando d’astuzia», per esempio ascoltando di nascosto, da bambine, le lezioni impartite ai fratelli28.
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Conosciamo i nomi delle principali signore che li animano: de Rambouillet, de Scudéry, de Sévigné, de La Fayette, de Geoffrin, famosa protettrice dei philosophes. Il salon tenuto da Suzanne Necker sarà la scuola in cui si formerà, come è noto, sua figlia Germaine de Staël. Nei salotti delle femmes savantes (le preziose che Molière del tutto strumentalmente ridicolizzò per “fare cassetta”), spazi più funzionali agli intellettuali uomini che li frequentavano con intensità che alle signore che li tenevano, non si conversava solo di «belle lettere». Essi furono i luoghi protettivi in cui si discutevano liberamente le nuove teorie scientifiche tenute fuori dalle università ancora rigidamente chiuse nel loro dogmatismo. Verso le scienze esatte queste donne si rivolgevano con curiosità ma senza strumenti, dato che l’insegnamento di base eventualmente ricevuto non includeva nessuna disciplina che le preparasse in tal senso29. E tuttavia durante il Sei-Settecento qualche nome riesce ad emergere, oltre che nella letteratura, nella storia, nell’arte e, limitatamente a Francia e Inghilterra, nel giornalismo (al quale si dedica anche Mary Montagu30), anche nella filosofia, nel diritto, nelle scienze naturali, nella matematica, fisica e astronomia31. E nella geografia? A questo proposito potrebbe trarci in inganno l’episodio, relativo appunto alle précieuses, riportato da Mireille Pastoureau. Nel 1655 il nome del celebre cartografo Nicolas Sanson d’Abbeville compare nel programma che il Palais Précieux, come era stato ribattezzato l’Hotel d’Anjou in rue de Béthisy, propone «per i begli spiriti dei due sessi». Per la cifra di tre pistoles la settimana, gli abbonati si vedono suggerire: «il lunedì danza e teatro con distribuzione gratuita di limoni dolci e arance del Portogallo, il martedì musica strumentale, il mercoledì morale dalle due alle quattro e, dalle quattro alle cinque, il corso di storia e geografia tenuto da Nicolas Sanson […]»32. Per quanto concerne le allieve, le lezioni di geografia e gli elementi di cartografia forniti da Sanson non sembrano avere dato risultati scientifici, ma le lezioni devono essere state seguite con attenzione se proprio dalla penna di una delle “preziose” è uscita la più celebre carta femminile mai disegnata, dove il sapere topografico (segni e toponimi) è applicato al dominio dei sentimenti: L’infatuazione delle preziose per le scienze dette «pittoresche» – continua la Pastoureau – in particolare la geografia, la storia e l’astronomia, è noto. Le lezioni di Sanson danno i loro frutti e Mlle de Scudéry traccia nella «Carte du pays de Tendre» il percorso pieno di insidie di un cuore innamorato. Partito dalla città di Nuova Amicizia, esso deve scegliere l’itinerario favorevole che passa per Piccole Cure, Versi Graziosio Generosità. Arriverà così senza intoppi alle oasi deliziose di Tenero su Inclinazione, Tenero su Riconoscenza o anche Tenero su Stima. Ma esistono anche degli ostacoli ed esso può fuorviare verso Orgoglio, Oblio, o incagliarsi nel Mare dell’Inimicizia o nel Lago dell’Indifferenza33.
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Un’altra opera, il trattatello settecentesco Lettere familiari del marchese di… al conte di… suo amico, darebbe l’idea di una geografia in qualche modo accessibile alle donne. Descrivendo la «Dama cristiana nel secolo», l’anonimo autore rappresenta la signora in conversazione «dare un ragguaglio ben distinto e formato d’un’azion militare accaduta» segnandone «i tempi, i luoghi, le circostanze, le conseguenze; e con la carta o sia tipo alle mani» renderlo «intellegibile e piano». Ma i documenti sulla pratica del sapere geografico da parte delle donne, anche in un paese fecondo in questo campo come la Francia, non sono in verità molti, mentre sono diverse le testimonianze, sia di autori francesi, sia italiani, che ritengono le discipline geografiche inadatte al gentil sesso, anzi, inutili e anche disdicevoli. Così, a fronte dell’anonimo marchese si trova subito un Baretti che, proprio commentando su «La Frusta letteraria» l’operetta citata, sostiene con veemenza come «per l’universale consentimento di tutti gli uomini, sconvenga a una dama di parlare con minutezza e con la carta topografica in mano di battaglie e di fatti guerreschi»34. Oppure un Le Moyne, che denuncia gli eccessi della passione cartografica da parte di qualche dama capace di trascurare i propri doveri domestici o rinunciare agli onesti piaceri della società «per chiudersi in una camera tappezzata di carte e arredata di sfere ed astrolabi»35. Più articolato il pensiero di Rollin, pedagogista che meritò gli elogi di Voltaire, di Montesquieu e di Chateaubriand36. Rollin scrisse nel 1726 un’ampia opera pedagogica, il Traité des études, che fu edita più volte fino al 1854 a dimostrazione della condivisione dei principi che l’avevano ispirata37. All’educazione delle fanciulle Rollin dedica uno specifico capitolo in cui spiega quali erano gli studi ad esse più convenienti. Oltre ad illustrare le prevedibili scrittura, lettura (anche dei poeti), aritmetica, musica, danza, lavoro manuale e cura della casa, il pedagogista riserva interessanti riflessioni al latino e all’insegnamento della storia. In particolare considera quest’ultimo «lo studio più adatto a ornare lo spirito delle fanciulle e anche a formare il loro cuore». Ma la storia sulla quale «occorre fermarsi più che su ogni altra e fare in modo che una fanciulla la possegga alla perfezione» è, secondo Rollin, la storia sacra38, e solo all’interno di questa egli introduce la geografia non a caso accompagnata dalla cronologia, i due “occhi della storia” come le due scienze erano definite fin dal Cinquecento39. L’autore precisa subito che, per le fanciulle, lo studio di queste discipline «deve ridursi a ben poca cosa […] per non caricare troppo la loro memoria», e che le esercitazioni vanno limitate al «mostrare sulla carta, via via che nel corso della spiegazione storica si presenta, qualche nome di provincia, di città, di fiume, di montagna»40. Ben più esplicito e ampio risulta, nel trattato di Rollin, il ruolo assegnato alla geografia nella formazione degli adolescenti maschi41.
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Nella parte del capitolo dedicato all’educazione femminile in cui prende in considerazione l’insegnamento del latino, troviamo la chiave di lettura dell’impostazione pedagogica di Rollin. Egli riconosce che le ragazze sono in grado di apprendere altrettanto bene dei compagni maschi le lingue antiche («il sesso di per se stesso non pone differenze nelle menti», afferma), che sono poi quelle che «aprono la porta a tutte le scienze», ma molto pragmaticamente aggiunge che tali insegnamenti risulterebbero per loro del tutto inutili dato che il mondo non è governato a caso: i differenti Stati in cui esso è ripartito non sono lasciati al nostro capriccio. Vi è una provvidenza che regola le condizioni e assegna a ciascuno i suoi compiti. Fra gli uomini, molti sono quelli destinati a impieghi che richiedono una certa ampiezza di conoscenze per ben svolgere le loro funzioni […]. Non è così per le donne. Esse non sono destinate per nulla a istruire i popoli, a governare gli Stati, a fare la guerra, a esercitare la giustizia […]42.
Quello che fu l’avvicinamento delle donne alla geografia è riletto ancora negli anni Cinquanta del Novecento a dir poco con preoccupazione dal père Dainville, che pure rimane uno dei maggiori storici del pensiero geografico per lo straordinario libro che egli dedica a La geographie des humanistes, ovvero alla geografia – non ancora separata dalle altre scienze, in particolare matematiche – elaborata nei trattati dei gesuiti. Ricordando la passione della buona società parigina di secondo Seicento per indianerie e cineserie, spezie e paraventi, lacche e porcellane, esplosa con la pubblicazione delle relazioni dei viaggi in corso e le informazioni divulgate dalla China Illustrata di Athanasius Kircher, con il fiorire dei commerci fra Francia ed Estremo Oriente e con quell’evento straordinario che fu l’arrivo nella capitale francese del sontuoso corteo dell’ambasciata del Siam che «diede alla testa» ai parigini, «o meglio, alle Parigine», Dainville attribuisce la responsabilità di queste «giravolte della moda» e della «superficialità con cui, in quest’ultimo terzo di secolo, la curiosità francese svolazza da un oggetto all’altro» proprio «all’egemonia assunta dalle donne nelle correnti intellettuali». Secondo Dainville, il generale aumento della ricchezza aveva affrancato le donne dalla soggezione a una serie di impegni consentendo loro di dedicarsi, insieme alla filosofia «di cui vanno pazze», alla conoscenza della morale, della politica, della storia, della favola, della poesia, delle relazioni di viaggio, in una parola, delle belles-lettres, potendone esse ormai parlare senza vergognarsi di averle apprese. «Si concedeva loro – ironizza l’autore – perfino la geografia che M.me de Maintenon e Bossuet ammirano nei programmi di educazione femminile, a condizione tuttavia che la conoscenza della sfera terrestre non le facesse di botto saltare… de la terre au ciel»43. L’esotismo delle relazioni di viaggio «era fatto apposta per sedurre le anime leggere di
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queste donne di mondo, incantate dalle stoffe variopinte venute dalle lontane Indie, disseminate di uccelli, di fiori e di ramages. La conversazione alimentava l’incantamento dei loro sogni»44. A proposito di conversazione, Dainville ricorda l’affermazione di de Vaumorière che ne L’art de plaire dans la conversation del 1688 aveva affermato: «Occorre che le donne non si sforzino di apparire troppo geografe facendo uso di parole che sulla loro bocca sono sconvenienti. Lasciamo correre termini come clima, zona e stretto e qualche altro [sapere descrittivo], ma non voglio proprio che vengano a spaventarmi con delle longitudini e delle latitudini [sapere astratto]»45. La diffusa concezione della geografia come scienza inadatta alle donne, da somministrare loro moderatamente anche come materia di insegnamento, insieme alla convinzione, onestamente riconosciuta da Rollin, dell’inutilità di una loro formazione geografica, sono apparentemente in contraddizione con tutta una tradizione pittorica – quasi un genere – che attraversa qualche secolo e autori di diversa fama, da Pietro Longhi al paesaggista ligure del secondo Ottocento Gio Batta Valle, nella quale le donne, globo alla mano, sono le protagoniste esclusive delle lezioni di geografia. Imparagonabile la linea iconografica di scene allegoriche o realistiche, solenni, celebrative o private, raffiguranti la relazione fra carta, potere, conquista: re e principi con la carta in mano o in compagnia dei loro geografi, cartografi, generali. Non è un caso, scrive Brian Harley, «se il ritratto di Luigi XIV è stato rappresentato con un carta del suo regno di Cassini, se papa Pio IV sorveglia la bonifica delle paludi pontine e se Napoleone è spesso rappresentato con carta in mano, che fosse a cavallo nel corso di una campagna, o seduto a discutere delle conquiste fatte o future»46; un’immagine, questa volta letteraria, di Napoleone con Bacler d’Albe, rende bene l’idea dell’intimità che si è stabilita fra l’imperatore e il cartografo: Napoleone si piega sulla carta insieme a Bacler d’Albe. Sono così vicini l’uno all’altro che si toccano la fronte. Napoleone alza il capo. Ha fiducia in quest’uomo che conosce da anni, che nella campagna vuole avere sempre presso di sé, nella propria tenda. Lo interroga. Bacler d’Albe ha conficcato sulla carta degli spilli colorati che segnano la strada del colle di Somosierra47.
Non toglie senso, evidentemente, a questa interpretazione, qualche figura di “donna con mappa”, trattandosi generalmente di donne di potere come la fastosa Elisabetta I Tudor che un’ampia iconografia rappresenta con il globo (il mondo) in mano e con con la sua brava carta d’Inghilterra sotto i piedi. Tutto questo ci porta, con un balzo cronologico giustificato da una storia che non mostra in proposito soluzione di continuità, direttamente alla famosa tesi enunciata da Yves Lacoste secondo la quale «la geografia serve in-
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nanzi tutto a fare la guerra»48 o, se vogliamo, all’evidenza che la guerra non può fare a meno della geografia e della cartografia. La critica rivolta da Lacoste, ma anche da alcuni nostri geografi49, a una geografia al servizio della guerra e del potere, era indubbiamente di lunga vista. Assistiamo da qualche anno al dilagare nella società di una cultura geografica non istituzionale, cresciuta “dal basso” (ma che trova ovunque sostegno in studiosi e personalità di riconosciuta statura culturale e morale, molto spesso femminili), formatasi su una sorta di mappa mentale collettiva disegnata su categorie come protezione dell’ambiente, valorizzazione delle identità locali, pianificazione del territorio “partecipata” e, prima di tutto, rifiuto della guerra. Questo nuovo modo di pensare lo spazio geografico – una “novità” che affonda le sue radici, per esempio, nelle prese di posizione contro la schiavitù da parte di Humboldt, nell’utopismo geografico di Elisée Reclus, nella precoce riflessione ambientalista di George P. Marsh – sta proficuamente contaminando, insieme ad altre discipline, anche la geografia, come si vede da numerosi studi e convegni. È, in proposito, illuminante il fatto che nel corso del Festival della Geografia di Saint-Dié-des Vosges – il più importante appuntamento europeo in fatto di divulgazione geografica alta, dedicato nel 2004 a Nourrir les hommes, nourrir le monde – una delle iniziative centrali fosse il dibattito tenuto da Jean-Robert Pitte, Antoine Bailly ed altri sul tema A quoi sert la géographie? A construir la paix50. Sarà questa delle geografe femministe americane, dei movimenti pacifisti ed ecologisti, delle donne, degli emigrati, dei religiosi e laici sparsi nei ghetti disperati delle città del mondo, dei contadini di Terra Madre, di Rigoberta Menchu,Vandana Shiva, di coloro che sono contrari a una globalizzazione senza regole, a sostituire la geografia uscita dal colonialismo del secolo XIX? Tornando all’Ottocento, la rarità di nomi femminili nelle file delle scienze territoriali ancor più che nelle altre scienze, va appunto ricondotta al carattere marcatamente strategico dei saperi geografici e alla carta come strumento e simbolo del potere piuttosto che al disinteresse delle donne per questi studi o alla loro presunta incapacità di misurarsi con le difficoltà e le ostilità della pratica del terreno51. Il numero consistente di viaggiatrici che soprattutto dopo l’antico regime hanno volontariamente affrontato fatiche e disagi inauditi ne è la dimostrazione. Da tali riflessioni scaturisce la tesi di questo libro che individua nei risultati della pratica del viaggio il principale corpus di documenti sui quali si esprime il sapere geografico femminile. Quando, nel corso del XIX secolo, le scienze andarono precisando il proprio statuto e le donne iniziarono lentamente ma sempre più frequentemente ad inserirsi in molti campi di studio, quelle, di loro, naturalmente versate o per qualche ragione interessate al-
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le questioni geografico-territoriali, a parte casi eccezionali realizzarono le proprie inclinazioni nell’unica maniera in cui era per loro possibile farlo: attraverso il viaggio e la scrittura di viaggio. Più complessivamente, vedere nel fenomeno del viaggio femminile di epoca moderna e contemporanea – ancora abbastanza limitato, almeno quello extraeuropeo, nel Settecento, quasi un’esplosione nell’Ottocento – semplicemente la risposta al bisogno di realizzare un’esperienza conoscitiva personale o marcatamente touristica, a ricerca svolta appare oltremodo restrittivo. Le mete raggiunte, le modalità con cui il viaggio è stato praticato, l’attività di vera e propria esplorazione e, con tutti i limiti comprensibili, di ricerca, che spesso le donne hanno svolto, il legame fra viaggio e scrittura intesa, questa, non solo come esercizio letterario di redazione di un journal intime ma come intenzionale registrazione di informazioni e riflessioni critiche relative all’itinerario percorso, consentono di affermare che il viaggio femminile è andato quantitativamente e qualitativamente ben oltre oltre le ipotesi formulate prima di iniziare la ricerca. Anche per quanto riguarda lo specifico Grand Tour, Elisabeth Garms-Cornides, ponendosi la domanda se sia o meno esistito un Grand Tour al femminile, ha dato una duplice risposta: negativa, e coerente con quanto già affermato da altri studiosi, come Antoni Maczak, se si pensa alla pratica in voga nell’Europa sei-settecentesca con il suo principale carattere formativo e iniziatico dei giovani di classe aristocratica52; positiva, se si indaga nelle pieghe di questa pratica vistosamente maschile e si scopre una percentuale non indifferente di donne che, per esempio, a riguardo degli inglesi, scozzesi e irlandesi, può essere valutata «dal 15% al 20% del numero totale». Si tratta in generale di donne che effettuano un viaggio per salute, piacere e cultura all’interno di una compagine parentale, inserite in un rapporto di coppia o di famiglia, con figli al seguito e non raramente partorendo nel corso del viaggio53. Nel complesso, la valutazione che si deriva dagli studi sul viaggio di tipo “granturistico” effettuato dalle donne fra Seicento e primo Ottocento è quella di una esperienza non a sé stante ma connessa a quella maschile da parte di donne (mogli, amanti, figlie) di classe aristocratica (ma sappiamo che questo non voleva dire indipendenza economica dai maschi della famiglia) che hanno percorso contrade “facili” – l’Europa e in special modo l’Italia – seguendo gli itinerari convenzionali delle principali città d’arte: Venezia, Firenze, Roma, Napoli. Questo non ha significato necessariamente la loro riduzione a un ruolo subalterno, sia nella pratica del viaggio, durante il quale le donne hanno assunto spesso compiti organizzativi, sia sul piano culturale, data la loro partecipazione attiva alle visite di siti e musei. Sul piano della rappresentazione, le donne hanno lasciato con i loro diari o dipinti, testimonianze interessanti dell’esperienza compiuta. In sintesi, se il Grand Tour al femminile
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non si configura ancora come viaggio di rottura di schemi, tuttavia esso rivela una mobilità femminile inattesa ed alcune personalità speciali54 e può essere letto come una sorta di preparazione al viaggio femminile ottocentesco quando la base sociale delle partecipanti si allarga, mutano finalità e modalità del viaggio, e si dilata a scala planetaria la mappa degli spazi attraversati. Insieme alle nobili, non si contano le viaggiatrici borghesi, alle quali si affiancano perfino donne di condizione operaia, che si sono messe in viaggio affrontando situazioni difficili e compiendo imprese impegnative e feconde di risultati. Si tratta di esperienze talvolta collettive (quando la viaggiatrice si unisce a spedizioni esplorative) oppure condivise con un marito o una compagna di viaggio, altre volte organizzate individualmente ed effettuate sotto la spinta di interessi che spesso si intrecciano: spirito di avventura; desiderio di allargare i propri orizzonti culturali; interessi geografici e scientifici; amore per la montagna; la ricerca di uno spazio “vergine” ove realizzare un modello sociale utopistico; la ricerca spirituale; lo spionaggio: in ogni caso, la sfida agli uomini su un terreno – quello della mobilità – tradizionalmente considerato, dal mito fondativo di Ulisse/Penelope in poi, di monopolio maschile. Queste donne hanno seguito percorsi poco consueti, talvolta molto pericolosi, spesso con scarse risorse economiche e mezzi precari; al loro ritorno hanno tenuto conferenze, elaborato i materiali raccolti, ordinato le informazioni, scritto lavori corposi, lasciato un cospicuo numero di scritti che in buona misura restano da analizzare. Nell’impossibilità, per le ragioni che si sono dette sopra, di praticare le scienze geografiche, esentate in quanto donne dallo scrivere «i libri più preziosi fra tutti i libri», prerogativa del geografo a tavolino55, le viaggiatrici sono state, con tutti i limiti comprensibili, e talvolta al di fuori delle proprie stesse intenzioni, “geografe” sul campo. Volendo individuare una prima differenza fra il “fare geografia” delle donne e quello degli uomini, direi che, mentre questi hanno storicamente ricoperto sia il ruolo di esploratore sia quello di studioso di cabinet, le donne, sconfessando mito e storia che le hanno quasi sempre rappresentate stanziali, sono riuscite a ritagliarsi uno spazio più ampio come viaggiatrici, mentre sono rimaste a lungo ai margini del mondo scientifico. Una marginalità che talvolta già si profila nella difficoltà a pubblicare le proprie relazioni e a farle accogliere dai lettori. Scrive, per esempio, nel 1839 Henriette d’Angeville introducendo il diario in cui racconta la famosa ascensione (non «conquista» ma «consumazione», dice Simon Schama che le dedica qualche bella pagina nel suo libro sul paesaggio e la memoria56) del Monte Bianco – il suo «fidanzato di ghiaccio» – effettuata l’anno precedente:
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Quando non gli si possa offrire [al pubblico], come risultato d’un viaggio, neppure una osservazione scientifica, nessuna descrizione completamente nuova (perché sullo stesso tema sono già apparse numerose relazioni interessanti), e quando non si ha alcun titolo per diventarne il beniamino, e nessuna consorteria vi esalta, quando si è donne, e di provincia per di più, bisogna essere temerarie per dirgli: «Ecco la mia opera». Quindi scriverò per amici e familiari, non per il pubblico57.
Léonie d’Aunet, che per il suo viaggio si era ispirata proprio all’esempio della d’Angeville, nel 1852 riuscì a pubblicare il suo Voyage d’une femme au Spitzberg grazie all’interessamento, molto strumentale, di Victor Hugo, di cui era stata a lungo l’amante. Volendo allontanarla, lo scrittore, «deviò la passione di Léonie verso la letteratura». Sta di fatto che, nonostante l’interesse del libro, e le ripetute edizioni, negli annali letterari del XIX secolo la d’Aunet è ricordata molto più per la relazione con Hugo che per il suo bel lavoro58. Sul tema dell’emarginazione delle viaggiatrici da parte del mondo letterario si è soffermata Bénédicte Monicat in un libro del 1996 nel quale prende in considerazione una consistente schiera di autrici ottocentesche che, pur avendo fondato la scrittura femminile del viaggio, non avevano riscosso l’attenzione degli studiosi: È per lo meno bizzarro constatare lo scarto tra la rarità degli elementi biografici disponibili riguardanti la maggior parte delle viaggiatrici e la ricchezza della riflessione critica e teorica che i loro percorsi e i loro scritti suscitano. Itinerari biografici del tutto spogli da una parte, e scritti dalle multiple risonanze dall’altra59.
Fra le autrici considerate dalla Monicat si trovano Cristina di Belgioioso, Dora d’Istria, Carla Serena che, italiane di nascita o di adozione, scrivevano in francese. Il caso della principessa milanese Belgioioso, figura assai conosciuta, sembrerebbe contraddire quanto sopra osservato; in realtà essa ha attirato l’attenzione dei biografi non in quanto viaggiatrice ma come protagonista delle vicende risorgimentali. Solo in anni recenti gli scritti che derivò dal suo viaggio in Oriente – che non riguadarono solo l’epistolario (Souvenirs dans l’exile) e il diario di viaggio (Asie Mineure et Syrie) ma anche i racconti (Récits turquo-asiatiques) – sono stati oggetto di analisi critiche attente alla sua biografia60. Lo stesso si può dire della rumena vissuta lungamente a Firenze Dora d’Istria, anch’essa principessa, che si era fatta “un nome” nella cultura europea non tanto per i suoi scritti di viaggio veri e propri ma piuttosto per le sue riflessioni politiche e le relazioni intrecciate con gli intellettuali dell’epoca. Le ricerche che ne hanno ricostruito la biografia e valorizzato l’opera odeporica sono recenti61. Il caso della Serena, belga di nascita ma veneziana per matrimonio, di estrazione borghese, è invece esemplare dello scarto di cui parlava Bénédicte Monicat: i resoconti dei suoi viaggi nell’area caucasica furono subito pubblicati in Francia, sia a puntate nel «Tour
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du Monde» sia in libri, e in qualche caso perfino recensiti dal «Bollettino della Società Geografica Italiana»62. Di chi fosse non si diceva nulla e anche recenti lavori a lei dedicati non ne hanno del tutto rivelato la biografia63. La Monicat, ovviamente, non prende in considerazione Amalia Nizzoli, autrice di un resoconto in lingua italiana sulla sua esperienza di viaggio e di permanenza in Egitto pubblicato nel 1841 e ripubblicato recentemente: né allora né oggi si è scavato sulla sua biografia di cui si conosce il poco che l’autrice stessa ha voluto dire di sé64. Non fanno eccezione le viaggiatrici di primo Novecento, anzi, si può osservare che esso sono ancor meno studiate di quelle del secolo precedente. Restando in Italia, a fronte dei libri su Africa e Oriente pubblicati fra il 1913 e il 1935 da Elena D’Aosta, nota per l’appartenenza al casato regnante e per l’assiduo impegno come infermiera di guerra65, sono numerosi i titoli di libri di viaggio che i cataloghi delle biblioteche registrano con nomi di autrici ignote. È esemplare il caso della Baronessa di Villaurea, nom de plume solo apparentemente inventato dell’ autrice di un diario del viaggio in Giappone uscito nel 1914. Se ne è rivelata la biografia solo dopo insistenti ricerche effettuate a partire da esili tracce66. Tornando alle viaggiatrici in generale, all’evidente ostracismo del mondo letterario si sommavano non meno evidenti condizionamenti sociali di cui non sarebbe difficile enumerare la fenomenologia. Venivano scoraggiate a partire perfino quelle che intraprendevano il viaggio nelle condizioni più favorevoli: all’interno di una iniziativa ufficiale e in compagnia del marito. Le francesi Jane Dieulafoy e Adèle Hommaire de Hell, per esempio, sono accomunate dal fatto di aver seguito due importanti spedizioni. Adèle partecipa fra il 1840 e il 1844 al viaggio del marito esploratore nella regione caucasica. Da parte sua Jane fra il 1881 e il 1886 collabora attivamente con il marito Marcel Dieulafoy, ingegnere dei Ponts et Chaussées e archeologo degli scavi di Susa in Persia, impresa i cui risultati sono tutt’oggi riscontrabili al Louvre. Ebbene, entrambe insistono nei loro scritti sulle pressioni a non partire di cui furono oggetto. Si possono di conseguenza immaginare i contrasti a cui dovettero far fronte, le critiche malevole e le manifestazioni di derisione con cui furono bersagliate le “famose” bas bleu67, donne che hanno scelto di partire da sole per regioni più o meno lontane e pericolose, prive, oltre che dell’avvallo sociale, del sostegno economico di un’istituzione. Eppure nessun condizionamento è riuscito a inibire il loro desiderio di viaggiare per conoscere e, attraverso la relazione del viaggio far conoscere, il mondo. Nella notevole varietà di situazioni, motivazioni, risultati, il viaggiare, e lo scriverne, è stato il modo di gran lunga prevalente per le donne di fare geografia e produrre sapere geografico68. Per molte l’intenzione di trasmettere cono-
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scenze è implicita, insita nella stesura della relazione. Per alcune la finalità “scientifica” è esplicitata. Carla Serena parla dei suoi viaggi come di pellegrinaggi intrapresi proprio a scopo scientifico e, autoinvestendosi del ruolo di scrupolosa annotatrice di ciò che vede, scrive: Viaggiare allo scopo di vedere, di studiare, è una scienza che, come ogni altra, sviluppa il desiderio di approfondirla a mano a mano che vi si entra. Il Caucaso è stato per me una rivelazione. Conoscerlo meglio e descrivere ciò che più mi aveva colpito divenne un’ossessione69.
In effetti i viaggi le varranno l’accoglimento nelle società geografiche di Vienna e di Parigi. «Questo secondo riconoscimento, scriverà, mi dà ancora una volta la certezza che il lavoro delle donne non resta sempre senza ricompensa»70. Troviamo in questa affermazione la consapevolezza della propria subalternità e, insieme, un senso di fiducia. L’eco di quei riconoscimenti, peraltro abbastanza limitati, non ha superato le soglie della geografia del suo tempo. In generale, l’attività delle viaggiatrici, non combaciando con gli standard della geografia scientifica, è stata pochissimo considerata71. Questo vale, come vedremo fra poco, anche per l’Italia dove le viaggiatrici sono state, nella ricerca geografica, anche in quella fatta dalle donne, sistematicamente escluse: la geografia ufficiale non le ha mai “interrogate”, con la conseguenza di un quadro storico disciplinare qualitativamente dimezzato. L’analisi delle fonti del viaggio femminile e la scoperta delle modalità conoscitive proprie delle donne consentono di ricostruire la storia mai scritta del sapere geografico da loro elaborato fintanto che anch’esse non sono diventate vere e proprie studiose e sono entrate nelle istituzioni accademiche. 2. Geografia e femminismi Qualche anno fa Mechtild Rössler, prendendo in esame, a partire da quello di Anversa del 1871, i primi dieci congressi internazionali di geografia e i successivi congressi dell’Unione Geografica Internazionale – UGI, fondata nel 1922 –, ha ricostruito il processo di inserimento delle donne in questa comunità scientifica. La presenza delle donne nell’organizzazione può essere periodizzata in tre fasi che la ricercatrice riconduce alle donne eccezionali, alle pioniere e alle geografe professioniste. Le «donne eccezionali» sarebbero le poche figure di studiose presenti ai primi congressi insieme a un buon numero di «accompagnatrici». Al congresso di Parigi del 1875 partecipò Clémence Augustine Royer (1830-1902), filosofa naturale, geografa, antropologa e traduttrice in francese dei libri di Darwin, femminista militante. Dalla documentazione degli anni successivi emergono i nomi delle «pioniere»: Ellen Semple, membro effettivo al congresso di Washington del 1904, e Martha Krug-Genthe, che aveva conseguito nel 1901 a Heidelberg con Al-
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fred Hettner il dottorato in geografia. Un’altra pioniera fu Millicent Todd Bingham (1880-1968), che fra il 1909 e il 1911 aveva studiato geografia a Berlino e nel 1923 era stata insignita del Ph.D. presso il Dipartimento di Geografia e Geologia ad Harward con una dissertazione sul Perù. A parte le figure femminili emergenti, la situazione generale è ben rappresentata nei verbali del X congresso svoltosi a Roma del 1913. I partecipanti erano suddivisi in due elenchi: «membri effettivi» e «membri aggregati». Il primo includeva centinaia di uomini e soltanto sei donne, di cui quattro erano studiose di geografia, una era moglie di un geografo e la sesta una studentessa di «belle lettere». Esattamente capovolta la situazione del secondo elenco che contava una schiera molto nutrita di mogli, figlie e altre parenti dei partecipanti ufficiali. Nel congresso di Amsterdam del 1938, ai vari consigli in cui l’UGI era organizzata (Comité Exécutif, Comité National, Comité d’Organisation) venne affiancato il Comité de Dames, un consiglio di tredici donne incaricate di elaborare il Ladies’ Program. Questo «programma per signore», la cui formula sarebbe durata a lungo, prevedeva una serie di iniziative quali «visita al Museo Nazionale, escursione a Aalsmeer, colazione a Schiphol, thè al Giardino Zoologico, escursione al mercato dei formaggi di Alkmaar». Per la sera erano previsti spettacoli come «danze e musiche giavanesi» presso il Koloniaal Instituut, «serata a sorpresa al castello», «cena e ballo campestre». Del congresso di Washington del 1952 restano le fotografie di donne eleganti che assistono all’inaugurazione e accompagnano i mariti al banchetto ufficiale. All’organizzazione del «programma per signore», con i suoi pranzi raffinati, i suoi tè e le visite allo zoo, parteciparono attivamente anche le componenti della Society of Women Geographers, che le geografe avevano fondato nel 1925 non potendo accedere al New York Explorers Club (interdizione mantenuta fino al 1981). In questo panorama si distinse, nel periodo fra le due guerre, Marguerite Lefèvre, allieva di Paul Michotte in Belgio, di de Martonne e Demangeon a Parigi e di Douglas W. Johnson a New York, presente al congresso del Cairo del 1925. Un’attività scientifica intensa le valse il ruolo di vicepresidente dell’UGI dal 1949 al 1952, ma non la possibilità «di una carriera normale di insegnante universitaria perché in Belgio lo sciovinismo maschile nel mondo accademico era ancora molto forte»72. Riuscì, invece, prima francese, a salire in cattedra Jacqueline Beaujeu-Garnier (1917-1996). Nel 1947 essa conseguì il dottorato in geomorfologia alla Sorbona e nel 1959 la libera docenza nella stessa università ma, osservano Marie-Claire Robic e Mechtild Rössler, nonostante il notevole impegno nella ricerca e l’attività svolta nell’UGI, la studiosa non risulta aver ricoperto incarichi nel comitato esecutivo73. Numa Broc vede nel 1942, anno in cui la
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Garnier ebbe l’incarico di assistente alla Sorbona, una tappa «storica»74. Broc parla dei meriti di Mlle Lefebvre e di Mlle Beaujeu-Garnier in un articolo uscito nelle «Annales» appunto dedicato alle prime collaboratrici della rivista – tutte successive alla prima guerra mondiale – e alle loro tendenze di ricerca. Fra di esse, egli identifica quattro «grandi», di cui due – Thérèse Sclafert, allieva di Raoul Blanchard, e Myriem Foncin, entrata nel 1931 nel Dipartimento Cartes et plans della Biblioteca Nazionale di Parigi – avevano «illustrato un genere oggi molto trascurato, la geografia storica»75. Senza generalizzare, è vero che – accadrà anche nel caso delle prime geografe italiane e la stessa geografia della Semple fu soprattutto una geografia storica – le ricerche geostoriche, per il loro carattere più umanistico che fisico, venivano sentite dalle donne in maggior consonanza con la propria preparazione. «Descrivere il lento arrivo delle donne nella geografia francese senza sollevare il problema degli ostacoli e delle reticenze che hanno potuto incontrare, significa occultare un aspetto essenziale, e lasciar credere che la loro assenza fosse dovuta un caso sfortunato», scrive la geografa Claire Hancock a commento dell’articolo di Numa Broc, osservando, con Liz Bondi e Mona Domosh, che non possono essere ignorati i modi in cui potere e autorità sono costruiti socialmente su basi maschiliste76. Vedremo fra poco l’analisi delle femministe americane a cui Claire Hancock fa riferimento. Sta di fatto che quando i tempi furono maturi perché le geografe tenessero il primo incontro congressuale della loro organizzazione si era già nel 1984. Il femminismo, che aveva fatto irruzione nella comunità scientifica dando la stura agli Women Studies, era penetrato anche nell’UGI – già esistevano gruppi nazionali, ad esempio presso l’Institute of British Geographers – culminando nella creazione, al congresso di Sidney, del gruppo di lavoro Gender and Geography presieduto da Janet Momsen (Regno Unito), con Janice Monk (Stati Uniti) vicepresidente e María Dolors García-Ramón (Spagna) segretaria77. Queste presenze sono lo specchio del peso delle geografe femministe anglofone nel quadro internazionale della geografia di genere e, più complessivamente, nella riflessione postmodernista e femminista. Si tratta non già di un gruppetto ghettizzato, ma di un discreto numero di studiose solidamente inserite nel dibattito della geografia angloamericana che da alcuni anni va esprimendo le tendenze più innovative: dall’analisi spaziale di Peter Haggett alla geografia radicale di cui David Harvey costituisce la figura centrale. L’incontro fra femminismo e geografia produce anche uno scontro molto forte proprio con Harvey: ma su questo torneremo. Nel 1995, Susan Hanson, presidente della Association of American Geographers, afferma che il femminismo «cerca di costruire un mondo in cui non sia più il genere la dimensione essenziale a partire dalla quale si definiscono
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le opportunità e l’impiego delle risorse»78. La geografia femminista, di cui Hanson è autorevole rappresentante, rappresenta un passo avanti rispetto alla “geografia delle donne” «interessata semplicemente a porre in rilievo le attività femminili e la loro ripercussione nello spazio»79. Essa si innesta nel più complessivo pensiero femminista e con esso sui concetti di identità e di genere (gender), termine che indica le differenze socio-culturali fra uomo e donna (là dove sesso indica le differenze biologiche), nato nella metà degli anni Settanta in coincidenza con la transizione del femminismo da una fase di politica attiva diffusa a una fase di elaborazione teorica. La vita sociale ordinata sul sistema patriarcale incardina sulla differenza di genere un ineguale ordine di potere e un asimmetrico accesso alle risorse, materiali e simboliche. Per le donne si tratta quindi di pensare la propria identità non come negazione ma come riconoscimento delle differenze, nella quotidianità come sul piano della conoscenza80. Per questa via le femministe hanno dimostrato la sistematica esclusione delle donne dai luoghi della produzione del sapere e, nell’effettuare una critica serrata alle pretese universaliste del pensiero egemone e in particolare delle metanarrazioni di matrice illuminista, si sono incontrate con il poststrutturalismo e il postmodernismo, anche se l’universo femminista, in sintonia con la postmodernità a cui appartiene, non presenta una omogeneità di pensiero. A questo proposito sono molto lucide le analisi di Liz Bondi e Mona Domosh nel presentare alla platea dei geografi francesi e italiani il percorso di ricerca compiuto dall’insieme delle geografe femministe inglesi e americane81. La delineazione delle diverse tendenze e l’esplicitazione della propria appartenenza non rispondono al solo bisogno di inquadramento delle questioni affrontate ma a un preciso metodo di lavoro che implica la dichiarazione da parte delle due autrici del proprio stesso posizionamento, altra categoria fondante dell’analisi femminista insita nella stessa critica alla conoscenza che le pensatrici femministe conducono insieme ai decostruzionisti. Nel criticare la metafisica occidentale strutturata secondo principi binari o dicotomie i cui termini, nella fattispecie uomo/donna, non sono valutati in maniera uguale dato che un termine occupa la posizione strutturalmente dominante e detiene perciò il potere di definire il suo opposto, le femministe hanno messo in luce il fatto che in un sistema androcentrico le donne possono soltanto contribuire alla produzione di conoscenza legittimata in base a condizioni determinate dagli uomini. Del pensiero, molto articolato, delle femministe non è qui il caso di dire più di quanto è necessario per farsi un’idea della sua influenza sulla ricerca geografica. Va anche sottolineata la mutuazione da parte loro di categorie geografiche. Queste sono fondamentali nella filosofa udinese (ma internazionale per formazione e attività) Rosi Braidotti che concepisce la donna co-
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me Soggetto nomade (1994) capace di ribaltare il concetto convenzionale di spazio definito dalla fissità di un centro organizzatore e ordinatore (lo spazio euclideo della carta): Braidotti interpreta il “nomadismo” femminile attraverso tre spazi: quello reale, segnato dall’opposizione fra noumos (spazio aperto, privo di padroni, di recinzioni e confini) e polis (lo spazio metropolitano sede del potere); quello della letteratura (in cui i testi sono cartografie, le teorie sono tende piantate, gli women’s studies nuove frontiere); quello, infine, delle idee che trova nel nomadismo filosofico il bisogno di recidere ogni legame con i discorsi istituzionalizzati, il modo di resistere all’assimilazione e all’omologazione82. Poco dopo (1996) l’antropologa californiana allieva di James Clifford, Caren Kaplan, pubblica Question of Travel (1996) in cui dedica un capitolo alle Postmodern Geographies mettendo geografi (Doreen Massey, Edward Soja, David Harvey) e categorie geografiche al centro della sua riflessione83. Prima di loro, è stato notevole il segno impresso nella riflessione femminista da parte della biologa e filosofa Donna Haraway84. Proprio sulla riflessione della Haraway si ricompone l’aspro dibattito accesosi fra Harvey e le femministe che criticavano il marginale interesse del nuovo marxismo per le questioni di genere. Queste – ma lo stesso Harvey riconosce il femminismo come un arcipelago di posizioni differenti – avevano accusato l’autore di The Condition of Modernity85 con «critiche spesso personali e insultanti» cui egli aveva risposto con un articolo in «Antipode», la rivista di geografia radicale di cui era stato fondatore. Harvey ci racconta la querelle in un saggio autobiografico nel quale, con un atteggiamento autocritico raramente riscontrabile, recupera alcune istanze del femminismo riconoscendo il carattere innovativo delle tesi avanzate fra le altre da Donna Haraway: Mi resi conto che non avevo fatto quanto uso avrei dovuto di alcuni lavori femministi di ottima qualità, ed ho sentito il bisogno di rivalutare gli scritti di alcune donne come Emily Martin, Donna Haraway [...] e molte altre che avevano dato contributi inestimabili in numerosi campi. Mi preparai ad affrontare questo lavoro sotto diversi aspetti, ma restai assolutamente contrario al femminismo che si fonde totalmente con il postmodernismo o a quello che si limita alle questioni di identità politica e che ignora i problemi di classe, il luogo del lavoro e le conseguenze di un processo di accumulazione del capitale sempre più neoliberista86.
Donna Haraway, fonda il suo pensiero sul concetto di cyborg (contrazione di cybernetic organism) che indica «il miscuglio di carne e tecnologia che caratterizza il corpo modificato da innesti di hardware, protesi e altri impianti»87. Sorta di Chimera della contemporaneità, creatura di un mondo post-genere non condizionata dalla riproduzione biologica, cyborg è una figurazione della soggettività capace di nuove forme di interazione e comunica-
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zione, un concetto paradossale e ironico che incorpora multiple identità. A differenza delle ecofemministe antitecnologiche come Maria Mies e Vandana Shiva88, cui riconosce di aver forse «insistito più di chiunque altro su una versione del mondo come soggetto attivo, non come risorsa di cui tracciare una mappa e appropriarsi secondo progetti borghesi, marxisti e maschilisti»89, Haraway legge nella tecnologia potenzialità radicali di cambiamento per le donne in un orizzonte che definisce femminismo socialista postmoderno. Haraway teorizza infatti la possibilità di sovvertire non solo il concetto di genere, ma anche quelli di razza, di classe, di nazione, con possibilità di riscatto per tutte le minoranze, recuperando in tal modo il marxismo. Inoltre, attraverso il cyborg, Donna Haraway decostruisce la pretesa neutralità della scienza e ne mostra le implicazioni politiche, sociali, ideologiche e filosofiche. La scienza, dice, «è stata utopica e visionaria fin da i suoi esordi; questo è uno dei motivi per cui “noi” ne abbiamo bisogno». Ma la scienza di cui abbiamo bisogno non è quella del discorso filosofico e politico occidentale, quella che fonda il processo conoscitivo sul «termine, curioso e ineluttabile, di “oggettività”» sui cui è stato versato tanto «inchiostro tossico». Il femminismo ama un’altra scienza: le scienze e politiche dell’interpretazione, traduzione, del balbettio e della comprensione parziale. Il femminismo ha a che fare con le scienze del soggetto multiplo che possiede una visione (almeno) doppia. Il femminismo ha a che fare con la visione critica che segue un posizionamento critico in uno spazio sociale non omogeneo e sessuato90.
Nella riflessione sui «saperi situati» il femminismo si incontra come è evidente, con il pensiero di Merleau-Ponty: Lo scienziato contemporaneo non ha più, come l’aveva quello dell’età classica, l’illusione di un accesso al cuore delle cose, all’oggetto stesso. Su questo punto, la fisica della relatività conferma che l’oggettività assoluta e ultima è un sogno; dimostrandoci come ogni osservazione sia strettamente legata alla posizione dell’osservatore, sia inseparabile dalla sua situazione, essa rifiuta l’idea di un osservatore assoluto. Noi non possiamo illuderci di pervenire, nella scienza, attraverso l’esercizio di un’intelligenza pura e non situata, a un oggetto scevro da ogni traccia umana e simile a quello che potrebbe essere visto da Dio91.
In questo quadro teorico le femministe geografe, che in particolare qui ci interessano, hanno sviluppato una serie di analisi critiche che hanno dimostrato come nella maggior parte delle ricerche disciplinari il genere sia assente o sia inadeguatamente concettualizzato. Ancora Domosh e Bondi si sono impegnate nella decostruzione degli assunti-chiave dominanti nella letteratura geografica: universalità, neutralità, oggettività, comunicabilità e unicità della verità. Su ciascuno di questi concetti le ricercatrici articolano os-
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servazioni che incardinano la teoria femminista alla critica alla geografia positivista sviluppata, ad esempio, da Derek Gregory, alle riflessioni sulla opacità del linguaggio di Foucault e Derrida e all’analisi del «pensiero dualistico» in geografia. Nell’impossibilità di dare qui conto dell’insieme della riflessione delle geografe femministe vorrei soffermarmi su due aspetti. Nel prendere in considerazione il «credo molto diffuso: quello dell’esistenza di una conoscenza che prescinde dal contesto e che è indipendente dal tempo e dal luogo», le geografe d’oltreoceano sferrano un feroce attacco alle “verità” che «hanno guidato la rivoluzione quantitativa» e «all’attuale entusiasmo per i GIS (Geographical Information Systems)»: I GIS promettono infatti di produrre rappresentazioni specifiche grazie all’incrocio di una miriade di variabili interconnesse tra di loro; hanno quindi la pretesa di fornire delle “istantanee” su come tutti i fattori considerati “rilevanti” si combinino in uno spazio cartesiano tridimensionale al quale i modelli dinamici dei GIS aggiungono una quarta dimensione lineare, quella temporale. Questo tipo di griglia spazio-temporale implica l’esistenza di un punto di vista esterno dal quale ogni cosa sulla Terra può essere “fissata” in maniera univoca. Una sorta di God’s eye view, di prospettiva divina, a partire dalla quale tutti i problemi sono risolvibili a patto di avere a disposizione strumenti informatici in grado di elaborare i dati appropriati […]. Nelle sue varie interpretazioni, l’idea stessa dell’esistenza di una forma universale di conoscenza geografica – “esterna” all’osservatore – rinnega la parzialità e la posizionalità di qualsiasi punto di vista. Essa, inoltre, rinviene la fonte della sua auto legittimazione semplicemente nell’esercizio della propria autorità. Si tratta, in altre parole, di un ottimo esempio dell’intima connessione tra potere e conoscenza messa in evidenza da Foucault (1980): questa autolegittimazione ha successo soltanto in quanto autorizzata da chi detiene il potere; a sua volta, il mito di una forma universale di conoscenza aggiunge autorità a quelli che la controllano. La componente maschile è coinvolta in questo nesso potere/sapere in due maniere. In primo luogo, la capacità di produrre questa “vera” conoscenza dipende dall’acquisizione di particolari competenze tecniche; l’accesso ad una God’s eye view è infatti un privilegio concesso a pochi, i quali vengono investiti di grande autorità. Ora, nel quadro dell’attuale divisione del lavoro per generi, questi produttori di sapere sono nella maggior parte uomini. In secondo luogo, l’analisi femminista suggerisce che le posizioni che assicurano una tale autorità sono implicitamente maschili, anche se occasionalmente occupate da donne […]92.
L’altro aspetto che mi preme sottolineare – ancora in relazione alla ricerca dell’oggettività del sapere che rimane «un’ossessione della ricerca geografica» – in quanto strettamente inerente al tema principale del mio lavoro, è il riferimento che le due autrici fanno al viaggio geografico: «È un dato di fatto, dicono Bondi e Domosh, che le esplorazioni sono sempre state un’at-
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tività dominata dagli uomini. Ed è importante rilevare, peraltro, che le esperienze e le aspirazioni di quelle donne eccezionali che divennero esploratrici erano assai diverse da quelle delle loro controparti maschili. Le ricerche sulle differenze fra i generi nella cultura occidentale contemporanea sembrano inoltre suggerire che le donne e gli uomini si relazionano in maniera diversa con l’Altro e che il sistema di valori delle donne tende ad essere più particolarista, mentre quello degli uomini più universalista. Pertanto la scienza non è soltanto dominata dai maschi, ma viene associata a tutto ciò che culturalmente è definito maschile». Poco prima le due studiose avevano ricordato, questa volta con la filosofa belga Luce Irigaray, che «l’enfasi posta sulla vista, intesa come il senso che assegna all’osservazione della realtà una posizione unitaria e apparentemente esterna, è stata interpretata dalle femministe come un’ossessione tipicamente maschile, la cui controparte è stata la svalutazione degli altri sensi più strettamente associati con la “femminilità” (soprattutto l’olfatto)»93. L’analisi della geografia femminista non ha con il postmodernismo solo punti di convergenza. Il discorso postmoderno fatto dagli uomini, secondo le geografe tende a perpetuare la tradizione del discorso maschile essendo ancora profondamente «segnato dal genere». L’atteggiamento della maggior parte dei postmoderni sembra suggerire che la critica femminista al sapere androcentrico sia stata accettata, ma di fatto i postmoderni non hanno tenuto sufficientemente conto della natura profondamente gendered, cioè influenzata dalla divisione del lavoro per genere, della conoscenza. Senza questo approccio, il richiamo al femminile è poco convincente e la loro ansia di “entrare nel femminile” da un posizionamento maschile costituisce una forma di gender tourism che ha come effetto la rielaborazione piuttosto che la dissoluzione dell’androcentrismo. Il tema dell’esplorazione coloniale offre alle geografe femministe, preoccupate dei tentativi «della critica postmoderna di annettersi la geografia femminista», l’occasione per lanciare un ponte fra il gender tourism, che rappresenta la donna come un «Altro esotico» che deve essere analizzato e di cui ci si deve appropriare, e lo zelo esploratore della geografia coloniale: L’Altro, che si tratti di un “nativo” di un’isola esotica o di una donna, è molto attraente, difficile da comprendere, forse, ma certamente in grado di offrire una rosa di nuove possibilità. Esattamente come la “scoperta” di culture aliene era parte integrante del pensiero illuminista, così l’improvvisa scoperta del “femminile” sta diventando parte integrante del discorso postmoderno. L’uso del gender symbolism nel postmoderno deve far alzare il livello di guardia alle femministe94.
È vero che il femminismo e il postmoderno contestano entrambi l’autorità di alcuni gruppi dominanti, ma lo fanno richiamandosi a differenti relazio-
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ni di potere. Per i postmoderni gli “altri” sono quasi sempre gruppi minoritari che si collocano al di fuori della cultura occidentale; per le femministe, che svolgono la critica ai rapporti tra conoscenza e potere partendo da se stesse, cioè dal proprio posizionamento, gli “altri” messi a tacere esistono anche all’interno di questo sistema. In geografia, le forme dominanti del sapere pretendono di trascendere qualsiasi posizionalità, ma sono di fatto allineate con la collocazione privilegiata di un soggetto maschile, bianco e occidentale. Alle geografe femministe pare compito centrale della geografia esplorare e “contestualizzare” la natura eminentemente spaziale del discorso culturale contemporaneo. Riconoscono a Edward Soja «una mossa in questa direzione» ma osservano che egli tende comunque a sottovalutare le trame nascoste nella costruzione sociale dello spazio e a disconoscere di fatto la prospettiva femminista95. L’interpretazione del genere come frutto di una relazione sociale è, invece, stata possibile quando la geografia femminista ha cominciato a portare l’attenzione non più sugli uomini e le donne quali soggetti sociali e attori territoriali ma sulle strutture che influenzano e si intrecciano alla loro quotidianità. Il patriarcato è la struttura chiave sulla quale si concentrano la maggior parte di riflessioni, trattandosi del riferimento attraverso cui si costruiscono le relazioni di genere nella maggior parte delle società. Sono stati però i queer studies [...] a dare impulso alla comprensione del genere come paradosso e alla sua decostruzione, portando l’attenzione sul ruolo delle strutture sociali nella formazione del concetto di eteronormatività»96.
La citazione ci porta all’ultimo punto di questa rapida analisi sulle relazioni fra femminismo e geografia, un punto che chiama in causa la filosofa statunitense Judith Butler la quale mette in discussione la fissità del paradigma della differenza uomo/donna come di qualsiasi norma sessuale: gay, lesbiche, bisessuali, transgenders, travestiti, drag queens..., categorie che secondo la Butler possono essere “indossate” secondo gli individui ma anche secondo i momenti della vita97. E poiché lo spazio pubblico è costruito sui comportamenti “normali” escludendo i comportamenti non centrati sulla monogamia e l’eterosessualità, le analisi della geografia di genere permettono di individuare come lo spazio «incorpori e rifletta rapporti di potere squilibrati e inneschi meccanismi di controllo sociale forti e violenti, che molto spesso hanno nel controllo del corpo la propria ultima applicazione»98. Si tratta di una visione post-strutturalista interessante in quanto può al suo interno incorporare tanto la microfisica del potere e del controllo del corpo derivata dalle analisi di Foucault, quanto, come si è visto, le analisi neomarxiane di David Harvey. Come si è collocata nei processi descritti la geografia italiana?
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In modo sintetico si può dire che le geografe (e qualche geografo) hanno dapprima effettuato studi su tematiche da riferirsi al quadro della “geografia delle donne”, quindi hanno sempre più largamente partecipato all’entrata e al radicamento della geografia di genere con pubblicazioni declinate sul piano teorico e su quello della ricerca: traduzione di saggi significativi, riflessione sulle nuove tendenze europee e statunitensi, studi di casi. Nell’insieme, tali contributi sono stati piuttosto limitati fino agli anni Novanta quando, sull’eco di quanto avveniva nella geografia internazionale, gli studi hanno hanno iniziato ad apparire con più frequenza, a diversificarsi nell’oggetto delle ricerche e a vedere la partecipazione di qualche studioso (uomo). A proposito dell’interesse dei geografi italiani per questa materia, esso è raro e, appunto, recente. Sono emersi dapprima gli interventi di Claudio Minca che ha incontrato la geografia femminista essendosi occupato di portare da noi la discussione sul postmoderno in geografia99. Da parte sua Massimo Quaini, senza essere entrato in modo sistematico nel discorso del genere, ha dato un contributo teorico inserendo la riflessione delle geografe femministe in un «dialogo» sui sensi della geografia, e un contributo “sul campo” coinvolgendo, non per caso, collaboratrici donne in una esperienza di pianificazione territoriale (che, pure, è testimoniata nello stesso libro)100. Di sicuro dimentico qualche nome, ma non mi pare che vi siano stati altri casi di grande eco. Non si è interessato alla riflessione femminista uno dei nostri geografi più attenti alla epistemologia della disciplina. In Geografia (2003), in cui ripercorre e interpreta il sapere geografico della cultura occidentale, nel chiamare in causa pensatori e geografi di tutti i tempi, Franco Farinelli non fa entrare le donne, con le esigue eccezioni della citazione di qualche autrice e di qualche bel titolo. Nel vasto orizzonte storico, geografico e mitologico di Farinelli, nella sua affascinante geografia affollata di modelli spazio-temporali e di metafore, la donna, che pure è metafora geografica tanto potente da aver dato l’identità a Gea, non compare neppure come tale, e perfino i labirinti sono senza Arianne101. Successivamente lo studioso recupera invece metafore e miti fondativi, anche femminili, di cui intesse L’invenzione della Terra102 e, da ultimo, fa uno stringato riferimento, per i suoi «esseri biotecnici», a Donna Haraway103. Implicazioni epistemologiche o lavori “sul campo” dei nostri geografi a parte, come geografa storica è stato per me interessante vedere come, sulla linea di una tradizione umanistica, alcune geografe femministe degli Stati Uniti abbiamo lavorato nel solco della tradizione umanistica ed abbiano trasportato la visione femminista nella geografia storica104 per interrogarmi sul disinteresse delle colleghe del mio “settore” sia a studiare l’evoluzione territoriale come costruzione sociale gendered, sia a ricomporre una storia delle geografe (vale a dire la propria storia di studiose)105. Resta in gran parte da fa-
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re un lavoro di ricerca negli archivi degli atenei, di spoglio delle riviste geografiche, di analisi degli atti dei congressi per individuare come (quale inquadramento teorico, quali temi di ricerca, quali eventuali contatti interdisciplinari o internazionali) si sia configurato l’impegno delle ricercatrici e docenti geografe da quanto son entrate nell’università. I risultati di quanto analizzato fino ad oggi, paragonati alle tendenze dell’UGI, mostrano la tardiva affermazione delle geografe italiane, le quali hanno conquistato con fatica posizioni di peso accademico e scientifico. Dai primi fascicoli del «Bollettino della Società Geografica Italiana» si apprende che lo statuto, approvato il 26 gennaio 1868, affermando genericamente che la Società si componeva di «un numero indefinito di Soci», non nominava le donne, ma non le escludeva106. Nel primo elenco dei soci, al primo agosto 1868, non risulta nessuna donna ma già in quello «a tutto agosto 1869» erano registrati una quindicina di nomi femminili. Si trattava tuttavia di donne sconosciute o nomi che dicono qualcosa per essere collocati accanto a quelli di illustri mariti: le fiorentine Carlotta Menabrea ed Eleonora Rinuccini Corsini, la bolognese Laura Acton Minghetti, ed altre simili contesse, marchese e principesse per nessuna delle quali si ha per ora notizia di qualche interesse effettivamente scientifico107. Va peraltro notato che, il «traguardo dei mille soci» raggiunto dal sodalizio nei primi tre anni dalla nascita, rivela, anche a riguardo degli uomini, una composizione molto eterogenea (un gran numero fra professori, ingegneri, medici, militari, parlamentari e perfino ministri) che spiega la crescita della Società «del tutto sproporzionata rispetto ai magrissimi contingenti di geografi e cultori della geografia»108. Una ricerca circoscritta agli atenei di Milano (Statale e Cattolica) e di Pavia, ha mostrato come nel lungo periodo compreso fra il 1890 e il 1968 l’unica presenza femminile di rilievo in campo geografico sia stata Angela Codazzi (1890-1972109) ricordata alla sua morte da Aldo Sestini e Gaetano Ferro. Allieva di Giuseppe Ricchieri, dopo essere entrata nei ruoli delle scuole secondarie e della Biblioteca Nazionale di Roma, dal 1930-31 la Codazzi risulta assistente volontaria dell’istituto di geografia della “Statale”, dapprima sotto la direzione di De Magistris, poi di Aldo Sestini. Dal 1937 viene indicata negli annuari come assistente per le esercitazioni e nel 1946-47 le viene affidato l’insegnamento di geografia, rimasto vacante, insieme alla direzione dell’istituto, direzione passata nel 1960-61, al suo arrivo, a Lucio Gambi. Fra il 1946 e il 1948 è bibliotecaria della Società Geografica Italiana ove si dedica al riordino e studio dei volumi più preziosi (codici tolemaici) e delle carte. Il 12 gennaio 1949, a cinquantanove anni, ottiene la libera docenza. La sua presenza nella Facoltà di Lettere è attestata fino al 1969. Oltre alla geografia, la Codazzi ha insegnato storia della geografia e lingua araba e anche nella ricerca – caratterizzata, come ebbe a scrivere Gaetano Ferro, da un «notevo-
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le valore scientifico» – si è dedicata a temi storico-geografici e orientalisti. Nel corso del tempo la studiosa aveva raccolto una notevole quantità di volumi, specialmente sulla cultura e sulla geografia del mondo arabo. Generosamente lasciati in donazione all’istituto in cui aveva lavorato, essi sono andati a formare il «Fondo Codazzi» che in anni recenti è stato sciaguratamente smembrato110. Dimenticato in Italia, il contributo della Codazzi allo studio di Leone l’Africano, è stato messo in evidenza da Natalie Zemon Davis, una delle maggiori storiche contemporanee111. Quanto ad altre geografe dell’Università Statale, alcune assistenti volontarie sono registrate negli annuari ma esse sono passate per l’istituto di geografia milanese lasciando scarse tracce, cosa accaduta, del resto, anche nell’ateneo pavese. Il caso dell’Università Cattolica, fondata nel 1922 dal padre Agostino Gemelli, è ancora più desolante: i geografi che vi hanno insegnato (Revelli, Nangeroni, Massi, Pracchi, Saibene) in cinquant’anni di vita dell’istituzione non sono stati affiancati da alcun nome femminile, non solo di docente, ma neppure di semplice assistente112. Senza voler fare eccessive generalizzazioni (sappiamo che in altre realtà universitarie, qualche studiosa è emersa), è significativo quanto raccontava Gaetano Ferro nel necrologio scritto in occasione della morte di Emilio Scarin: Dagli allievi ed assistenti esigeva una dedizione assoluta, un impegno costante ed assiduo. Fino a ritenere (si era nel 1950) che una assistente non potesse, per il solo fatto di maritarsi, continuare a svolgere attività scientifica nel campo geografico ed indurla così ad abbandonare l’università, passando nei ruoli della scuola media113.
In queste premesse possono risiedere, fra altre, le ragioni di un avvio meno consistente e di una configurazione meno radicata degli studi sulle donne e di genere nella geografia rispetto ad altre discipline come dimostrano la nascita di Diotima, comunità delle donne filosofe, fondata già nel 1983; la Società Italiana delle Storiche (1989); la Società Italiana delle Letterate (1996); la più recente Fondazione Pasquale Valerio per la storia delle donne (2003). In alcuni atenei sono stati attivati corsi e seminari, ad esempio presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Milano esiste dal 2003-2004 un insegnamento di “Storia delle donne e dell’identità di genere”. Tutti centri di elaborazione scientifica e didattica dai quali sono usciti libri e riviste, convegni di carattere teorico o tematico. Si registra inoltre l’impegno in tal senso in campo sociologico, antropologico, nelle scienze naturali, ecc. Insomma, si sono moltiplicati nelle università italiane i focolai attivi. La creazione, nel quadro della geografia italiana, di una “scuola” o di un periodico dedicati al tema del genere non mi risulta che sia mai stata neppure in agen-
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da; ancora nel 2003 Antonella Rondinone poteva parlare di «file un po’ scarne della geografia italiana di genere»114. Questo non significa che nella geografia di casa nostra non si sia assistito, come dicevo sopra, a uno sviluppo, dapprima sporadico e, con il tempo, più convinto, di ricerche115. La premessa di quella che definirei come prima fase è rappresentata dai pochissimi saggi (ruolo della donna in agricoltura, in ambiente urbano, immigrazione) usciti nel corso degli anni Settanta116. Fra i nomi delle poche autrici (e ancor meno autori) ricorre quello di Gabriella Arena che, dopo un primo saggio (1978), prosegue in queste ricerche nel corso degli anni Ottanta quando iniziano ad affiancarla su temi analoghi Maria Luisa Gentileschi (1982), Paola Bonora (1988) e poche altre. Si deve arrivare al 1990 per quella che per l’Italia si può ritenere come l’iniziativa fondativa di inquadramento degli studi geografico-femminili e femministi: la pubblicazione, curata appunto da Gabriella Arena, di Geography and gender uscito nel 1984 come risultato dei lavori del “Women and Geography Study Group” britannico. Riletto oggi, il libro è interessante proprio per ricostruire la storia, e le atmosfere culturali, dell’entrata – linguistica e concettuale – del “genere” nella riflessione e negli studi geografici in Italia. I nove autori inglesi (le donne erano otto) si preoccupano di spiegare nella prima parte le ragioni per cui adottano il temine, ma Arena esita a trasferirlo nel suo libro che infatti intitola Geografia al femminile. Dal momento che, spiega, in italiano il sostantivo “genere” da noi rimanda ai generi della grammatica, «per mantenere l’impatto immediato della espressione inglese Geography and Gender, abbiamo scelto la dizione Geografia al femminile che ci è sembrata corrispondente anche al carattere introduttivo, problematico e in qualche modo provocatorio del contenuto del lavoro inglese. All’interno della trattazione, invece, il termine gender è stato tradotto in maniera di volta in volta diversa, in rapporto al contesto in cui era inserito: spesso con la dizione differenza (o anche distinzione) di sesso, oppure semplicemente come sesso; talvolta come differenza di ruolo o, in altri casi, come genere distintivo»117. Le esitazioni sul termine e l’espressione «in qualche modo provocatorio» attribuita al contenuto, dicono qualcosa circa la predisposizione della comunità scientifica ad accogliere il lavoro inglese nel quale si sosteneva, illustrandone le diverse tendenze (radicale, socialista, marxista e umanista) l’importanza dell’approccio femminista nella ricerca geografica. Di come si potevano condurre le ricerche il gruppo forniva quattro esempi: «le trasformazioni della struttura urbana, i conseguenti cambiamenti dell’assetto regionale, l’accesso ai servizi, il cammino verso lo sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo». A questi, venivano fatti seguire dalla curatrice alcuni propri scritti (già pubblicati e inediti) e un saggio di Paola Bonora118.
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È curioso che, dopo questo libro, Gabriella Arena non abbia proseguito nel solco indicato alle altre geografe. Se la sua iniziativa è stata assolutamente importante, lo scarto temporale fra l’edizione inglese e quella italiana rivela in effetti una certa lentezza nell’attecchimento delle tematiche femministe nella geografia italiana. A parte qualche perdita, gli studi sono comunque proseguiti nel corso degli anni Novanta con l’ingresso di nuove autrici e un nome che rappresenta una solida continuità: quello di Maria Luisa Gentileschi. Vediamo Gentileschi, insieme a Gisella Cortesi, curare nel 1996 un volume, vale a dire un altro “pilastro” del nostro percorso: Donne e geografia. Studi, ricerche, problemi. Lo “schema” dell’opera è simile a quello del libro precedente: sono messi a disposizione dei lettori alcuni scritti significativi nella riflessione geografica femminile e femminista (María Dolors García-Ramón, Susan Hanson, Janice Monk) che offrono il quadro dello “stato dell’arte” a livello internazionale. Oltre a una preziosa rassegna critica delle tendenze, vi troviamo sottolineata, nel saggio a due mani di Hanson e Monk, l’importanza assegnata dalle geografe femministe alla scala di indagine dei loro studi nei quali si privilegia la scala locale, data la necessità di una ricerca analitica per cogliere le differenze di genere e di classe e comprendere processi di più vasta portata119. Seguono quattro saggi empirici di geografe italiane (fra le quali troviamo Marina Marengo che a sua volta costituirà, con Gentileschi e Cortesi, la figura di maggior continuità fino ad oggi) che per approccio epistemologico e per argomenti trattati proseguono nella linea già tracciata: il soggetto è «la donna» e gli argomenti sono il lavoro, la mobilità, la salute. Nella seconda metà degli anni Novanta, una serie di scelte politiche e di provvedimenti attiva un processo di crescita degli studi di genere: nel luglio del 1997 viene istituito in seno al Ministero il gruppo di lavoro “Culture delle differenze e studi delle donne nell’istituzione universitaria” finalizzato ad favorire anche nelle università italiane la sensibilità per gli studi gender oriented; un’ulteriore accelerazione si ha con l’istituzione della “Conferenza delle delegate d’ateneo per le Pari Opportunità” in collegamento con la “Conferenza dei Rettori delle Università Italiane” (CRUI). D’altra parte con la riforma del regime concorsuale e soprattutto con il numero elevato dei concorsi banditi si favoriscono, dalla fine del decennio in poi, la crescita numerica delle donne ricercatrici e docenti (che nel 1998 rappresentavano soltanto un terzo del corpo docente complessivo) e il passaggio da un livello di carriera all’altro «come da più anni non si verificava». Dal punto di vista dei contenuti, didattici e di ricerca, i «grandi numeri» portano con sé l’apertura di spazi disciplinari nuovi120. Questo clima, che a fronte delle attuali politiche di riduzione drastica dei finanziamenti all’università e alla ricerca appare un’età dell’oro, ha i suoi ri-
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flessi positivi anche nel campo di studi geografici. Nuovi nomi firmano articoli che, se pur a ritmi non vorticosi, escono nelle riviste, negli atti dei congressi e dei convegni disciplinari. In occasione del XXVIII Congresso Geografico Italiano (Roma 2000) Maria Luisa Gentileschi coordina una sezione dedicata al “genere”. I contributi delle partecipanti, oltre ad essere pubblicati negli atti del congresso, hanno dato vita a un volume121. A Torino, Anna Segre coniuga la ricerca di genere a quella ambientale. Si inquadra in questa prospettiva il lavoro esemplare del gruppo interdisciplinare formatosi in quell’ateneo – del quale proprio Anna Segre era componente appassionata e attiva – intorno al tema della critica di genere al concetto di sviluppo, che ottiene il finanziamento triennale dal Ministero. In proposito le studiose annotano: «È tuttora insolito, almeno in Italia, che un gruppo di sole docenti donne, su un tema concernente le donne, per di più con un’impostazione così interdisciplinare, ottenga un finanziamento pubblico»122. Anna Segre mancherà troppo presto (2004): per l’impegno scientifico e sociale che ha caratterizzato la sua biografia, le viene dedicato un volume incentrato sui “suoi” temi per cui una parte corposa riguarda Genere, sviluppo e territorio123. Già da tempo avvicinatasi alla UGI Gender Commission, Gisella Cortesi viene nominata membro della commissione: in quel ruolo (che ricopre fino al 2004) organizza a Roma il convegno internazionale Gendered Cities: identities, activities, networks. A life-corse approach (2003). I risultati delle numerose sezioni troveranno spazio in una doppia pubblicazione: in inglese e in italiano124. Un nuovo impulso agli studi viene impresso dal 2005 con la creazione del gruppo “Geografia e Genere” in seno all’Associazione dei Geografi Italiani (AGEI). Dopo un triennio di incontri organizzativi e seminariali, l’attività coordinata da Gisella Cortesi sfocia nella pubblicazione del numero monografico di «Geotema» dedicato a Luoghi e identità di genere (2007). È questo il lavoro che segna la transizione alla seconda fase. La costituzione del gruppo infatti, era avvenuta con la partecipazione di donne (con qualche se pur sporadica presenza maschile) che avevano portato all’allargamento dei temi di studio. Alle ricerche “classiche” su emigrazione, lavoro, città si affiancano analisi inquadrate nella riflessione sul postmodernismo. È dunque la stessa Cortesi ad accompagnare la transizione che viene siglata dal passaggio del coordinamento del gruppo di genere AGEI a Marcella Shmidt di Friedberg. Rachele Borghi e Antonella Rondinone, giovani e attivi membri del gruppo, pubblicano nel 2009 il libro intitolato (finalmente) Geografie di genere a distanza di un ventennio da quello di Gabriella Arena: come allora ospitate dalle edizioni Unicopli, si tratta ancora di traduzioni di saggi di area anglosassone, ma il libro, sia in tali interventi, sia nelle introduzioni e riflessioni delle nostre autrici, è lo specchio dei cambiamenti avvenuti in seno alla
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geografia dal punto di vista che qui ci riguarda125. Cambiamenti ben presenti anche nel convegno di studi Lo spazio della differenza (ottobre 2010): uno sguardo al programma, folto di partecipanti, testimonia come, rispetto al lontano Geografia al femminile, il quadro degli interessi sia mutato: in termini numerici, interdisciplinari e internazionali, di coinvolgimento di studiosi uomini, di tematiche analizzate: dagli women’s studies ai gender e ai queer126. Il panorama, qui descritto nelle sue linee essenziali127, non mi consente di affermare che siamo in presenza di una geografia di genere quantitativamente molto consistente se misurata alla scala della geografia italiana nel suo complesso. Ma il dato quantitativo andrebbe (in una sede che consenta il necessario approfondimento) rapportato alle resistenze di una comunità scientifica che è stata da questo punto di vista a lungo molto tradizionale e che, anche quando non ha guardato con sufficienza o ironia a questi studi, non li ha ritenuti utili a confrontare anche su di essi la propria ricerca: neppure quelli di autrici come Donna Haraway che fuori dall’Italia hanno “costretto” al confronto David Harvey. 3. Interrogare le viaggiatrici Nell’importante tradizione ottocentesca italiana relativa alla storia del viaggio e delle esplorazioni le donne occupano un piccolissimo posto. La rassegna di viaggiatori italiani pubblicata nel 1869 da Gaetano Branca non ne ricorda nessuna mentre non dimentica le nostre principali viaggiatrici Pietro Amat di Sanfilippo che nel 1873 inserisce nella sua Bibliografia sia il diario di Amalia Nizzoli, sia i due libri “orientali” di Cristina di Belgioioso. Si è detto di due opere di Carla Serena citate nel «Bollettino della Società Geografica Italiana» del 1881 e 1882. Il primo vero e proprio articolo dedicato ad una viaggiatrice comparso sul «Bollettino» del 1890 (scritto dal socio Rizzetto) aveva riguardato Alessandrina Tinne, viaggiatrice africana128. Sui viaggi compiuti a Hail (Arabia) da Anna Blunt (1879) e, dopo trentacinque anni, da Gertrude Bell, abbiamo il saggio di Olga Pinto uscito nel 1935 sulla «Rivista Geografica Italiana». Nel 1967 Silvio Zavatti, viaggiatore egli stesso e direttore dell’Istituto Geografico Polare di Civitanova Marche, dava alle stampe il piccolo e noto Dizionario degli esploratori che, nella sua sinteticità, ancora oggi costituisce un primo strumento di lavoro, anche per la bibliografia che accompagna ogni esploratore considerato. Nella sua ovviamente lunghissima rassegna di uomini, Zavatti annovera alcune donne: Ida Laura Pfeiffer, Alexandrine Tinne, Ann Blunt, Elena di Savoia, Rosita Forbes, Isabella Bishop, Gertrude Bell, Louise Boyd129. In anni più vicini a noi, gli studi dei geografi sul viaggio delle donne non si sono molto arricchiti. L’impulso maggiore è venuto dalla «Miscellanea di
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Storia delle esplorazioni» diretta da Francesco Surdich, studioso dell’esplorazione impegnato in un discorso scientifico sull’alterità. E difatti la sua «Miscellanea» è una pubblicazione aperta a studi riguardanti non solo le donne, ma più completamente i generi, le minoranze, il tema dell’interculturalità ecc., appunto effettuati attraverso la lente dell’esplorazione e del viaggio130. Alcuni interventi hanno trovato posto in atti di convegni e riviste geografiche131. Marina Sechi Nuvole ha curato l’edizione del viaggio fatto nel 18481850 dalla gentildonna inglese Mary Davey in Sardegna132. Più recentemente, Rachele Borghi ha dedicato alle viaggiatrici un paragrafo, breve ma di carattere critico, nel capitolo di un libro133. A proposito di resoconti di viaggio, vorrei soffermarmi brevemente sulla geografia della percezione, o umanistica, per la quale essi sono fonti privilegiate. Definita come reazione su base fenomenologica alla geografia neopositivista e quantitativa134, la geografia della percezione è giunta verso la fine degli anni Settanta in Italia introducendovi il dibattito su concetti come spazio vissuto, spazio percepito, carta mentale, vale a dire la presa in considerazione, nell’analisi geografica, al di là dello spazio oggettivo, delle immagini individuali e collettive che esso ha suscitato. I resoconti di viaggio, da sempre utilizzati, incrociati con altre fonti, per lo studio della storia dei luoghi o dell’esplorazione, vengono a costituire, in quanto usciti dalla “mente del viaggiatore”, i documenti più utili alla ricostruzione delle immagini, individuali e collettive, personali, convenzionali o stereotipate, di un dato luogo in una data epoca. Ebbene, neppure in un campo così favorevole alle loro rappresentazioni, le autrici sono state prese in considerazione. In un significativo libro del 1993, Guglielmo Scaramellini, che cito in positivo come il geografo umanista che in Italia ha dato, sul piano dell’analisi delle fonti odeporiche, il più consistente impulso agli studi sulle rappresentazioni di viaggio, ancorava il suo ragionamento a una serie di testi di carattere sia “statistico” sia decisamente letterario135. Nessuno di essi era riferibile a una viaggiatrice e anche la breve chiamata in causa di «Potocka» non chiariva come si trattasse di una donna, ricordata perché nel visitare Brescia, ne aveva riportato qualche considerazione sugli aspetti sociali, distinguendosi dalle schiere di colleghi che visitavano le città italiane solo per soffermarsi su monumenti, musei e pinacoteche136. In un secondo e recente libro, qualche (raro) nome di autrice Scaramellini lo prende in considerazione, senza che tuttavia cambi la sostanza. Trattando della percezione della montagna alpina di età romantica, l’autore richiama il Frankenstein di Mary Shelley di cui riporta anche, nella parte dedicata ai documenti, lo specifico passo in lingua originale137. Il riferimento è del tutto pertinente ma il nostro autore non inquadra il testo e lo sguardo della Shelley in un discorso scientifico ormai consolidato nella critica odeporica di genere. Né ha ritenuto utile
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dare spazio, nel vasto repertorio di autori esaminati, ad altre rappresentazioni femminili della montagna, che sappiamo numerose e talvolta piuttosto significative138. Il panorama sommariamente tracciato sullo stato degli studi dell’odeporica femminile in geografia non pretende di essere esaustivo ma soltanto indicare una tendenza che non accenna a invertirsi: in Italia, il contributo dei geografi è stato assai limitato e raramente ha interessato autori e autrici che pure lavorano in campi (come la geografia storica oltre che la geografia della percezione) in cui le fonti femminili sarebbero di più proficuo impiego. Gli studi sul viaggio femminile sono dunque rimasti dominio delle discipline storiche e soprattutto di ambito letterario-linguistico: essi sono stati preziosi per il mio lavoro, che nella sua obbligata interdisciplinarità – d’altra parte lo studio del viaggio è da sempre un tema di confine – si vuole comunque configurare in modo disciplinare e si propone come primo gradino verso una più ampia composizione dell’edificio della storia della geografia femminile a cui mi auguro che altri ricercatori vogliano partecipare. Nel tracciarne questo primo “schizzo”, la mia ricerca mi ha portato a riconoscere due fasi che vengono fatte corrispondere alle due parti del libro. La prima, che ho intitolato «ai margini della geografia» e che arriva a includere il Settecento, scopre o riscopre figure ed episodi “irregolari”. Le esperienze compiute da queste anticipatrici del viaggio geografico, e le rappresentazioni che ne scaturiscono, non contengono ancora gli elementi fondamentali che consentano di inquadrarle come viaggiatrici-“geografe”, se pur fra virgolette. Talvolta la rappresentazione derivata da queste esperienze è molto interessante dal punto di vista della pratica del viaggio e sul piano biografico, ma marginale dallo stretto punto di vista delle rappresentazioni geografiche (Catalina de Erauso); altre volte la rappresentazione è ben altro che una descrizione dei luoghi visitati, come nel caso della Merian, la quale, come si è detto, del Suriname disegna piante, fiori e bruchi. Altre volte ancora, manca del tutto il diario, non perché sia andato perduto ma perché non è stato mai scritto (Baré). Può accadere che esistano dei testi ma siano del tutto inventate le viaggiatrici che li avrebbero prodotti o ispirati. Così, la prima parte del volume si snoda fra giri del mondo e piccoli pellegrinaggi effettivamente compiuti, e geografie metaforiche come del resto ci ha insegnato la storia della geografia ufficiale, cioè maschile, già con Marco Polo e Mandeville: viaggi che sembrano veri e sono inventati e viaggi reali che fanno fatica ad essere riconosciuti come tali139. Tutto questo fino ad arrivare alla Montagu, collocata alla fine della prima parte come tramite fra questa presentazione di casi pre-geografici nei quali tuttavia si possono riconoscere le radici del viaggio femminile moderno, e la più classica lettera-
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tura di viaggio femminile di cui occupa la seconda parte del lavoro. Un ruolo, quello della Montagu che una bella mostra londinese ha qualche anno fa confermato140. Il percorso di ricerca e di analisi della seconda parte riguarda alcuni casi di viaggiatrici-esploratrici appartenenti all’Ottocento, epoca dell’esplosione del viaggio femminile, con un prolungamento a Novecento inoltrato con Alexandra David-Néel che, essendo vissuta lungamente, ha appartenuto culturalmente e fisicamente ai due secoli e ha personalmente sperimentato il passaggio dal viaggio ottocentesco al viaggio contemporaneo. Questa parte del lavoro ha dovuto soffrire delle più drastiche rinunce data la insospettata quantità di personaggi incontrati e di materiali raccolti. Fra le più conosciute ho dovuto per esempio tralasciare figure come quella di Freya Stark, altra viaggiatrice estremamente longeva (nata a Parigi nel 1893 è morta ad Asolo nel 1993), che con itinerari, spirito, modalità e finalità del viaggio del tutto diverse dalla David-Néel non è meno interessante per l’approfondimento, nel suo caso, della conoscenza del Medio Oriente. I suoi libri più noti su Arabia, Yemen e Irak, editi anche in Italia, insieme a quelli su Kurdistan e Afghanistan, da noi inediti, sono preziosi documenti redatti all’epoca in cui l’Occidente metteva in campo i presupposti per la più tragica conflittualità della geopolitica del XX e XXI secolo. Per non dire della scoperta delle lettere dall’Italia che danno bei quadri dell’estremo Ponente ligure e della collina veneta dove la Stark visse lungamente. Sulla Stark vale qui la pena di aprire una parentesi sulle finalità che dice di dare ai suoi viaggi. Se non vanno generalizzate, esse sono tuttavia significative di tanta parte del viaggio femminile. Come per gli uomini, anche il viaggio femminile può essere in alcuni casi classificato in base alle sue principali motivazioni di esplorazione: naturalistico, archeologico, diplomatico, eccetera. Sta di fatto che nelle donne queste motivazioni, quando esistono, si iscrivono di norma in esperienze di viaggio compiute al seguito di un familiare e delle sue ragioni. Poi, le donne si ritagliano la propria autonomia di azione e di sguardo, come ci dimostreranno Lady Montagu e Léonie d’Aunet. Talvolta – è il caso della Merian e della Pfeiffer – la motivazione abbastanza ben definita (naturalistica per la prima ed esplorativa per la seconda) è fin da principio autonoma. Ma più spesso il viaggio femminile, a differenza di quello maschile, si caratterizza per essere poco o nulla finalizzato. La Stark racconta che nei suoi viaggi fu sempre “tallonata” dalle stesse domande. Perché sei qui sola? Che cosa farai? Domande che discendevano, scrive, da «due Virtù gemelle, esiziali alla joie de vivre del nostro Occidente civilizzato […]. Consapevolezza e Finalismo».
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Confesso – scrive – che non mi ero mai domandata perché fossi venuta, né tanto meno perché fossi venuta sola: in quanto a quello che avrei fatto, non avevo motivo di arrovellarmi, trattandosi di cosa ancora nebulosa. In effetti, in me la consapevolezza era scarsa, e lo scopo inesistente. Quando mi venivano rivolte con insistenza domande in proposito, l’unica spiegazione che mi veniva in mente era la mia curiosità della lingua araba; ma questa risposta di rado veniva accolta dall’interlocutore con lo stesso candore con cui la davo. Arrivai alla conclusione che chi vuole viaggiare in pace deve trovarsi un pretesto più spirituale del puro godimento. Spesso, nel nostro mondo utilitaristico, fare le cose per divertimento passa per fatuità, anzi per immoralità. Personalmente, credo che il mondo abbia torto, e nel mio intimo sono convinta che la migliore ragione per fare una cosa stia nel fatto che ci piace farla; però consiglio a chi non vuole trovarsi di fronte i visi corrucciati degli addetti ai passaporti, di partire con una qualifica di entomologo, di antropologo o di qualsivoglia “ologo”, che reputi adatto e propizio141.
Con la Stark ho dovuto trascurare le tante viaggiatrici vittoriane, molte delle quali confermerebbero il suo spirito142, e ho preferito dare spazio a Maria Somerville, più significativa in questo lavoro per gli aspetti che vedremo tra poco. Quanto alle italiane, essendone emerse, oltre a quelle ottocentesche ricordate – Belgioioso, Nizzoli e Serena – diverse, è in corso una specifica ricerca e pubblicazione143. Sarà invece difficile trovare il tempo per organizzare, sui già troppi materiali raccolti, un lavoro organico che presenti in Italia la galleria di francofone che hanno un ruolo di primo piano nella storia del viaggio femminile a cominciare dalle “granturiste” di Sei-Settecento fino a Isabelle Eberhardt, morta nel 1906 a vent’anni nel Sahara algerino, e a Ella Maillart, “collega” del viaggiatore e iconologo svizzero Nicolas Bouvier. Fra le prime e le seconde si situa una vasta bibliografia di viaggiatrici ottocentesche nella quale emergono i nomi delle citate Hommaire de Hell e Dieulafoy, delle “africane” Alexandrine Tinné e Odette du Puigaudeau, delle operaie utopiste Suzanne Voilquin e Flora Tristan144. Infine, dell’esperienza di Isabelle Eberhardt mi preme almeno ricordare il significato di passaggio dal viaggio conoscitivo nelle sue varie vesti al viaggio esistenziale, di sperdimento, che caratterizzerà il viaggio del secondo Novecento. Di fronte alla gran quantità di materiali complessivamente raccolti, ho preferito prendere in considerazione un numero limitato di autrici con le loro opere, dando al mio studio un’impostazione verticale (o, se vogliamo, a grande scala) piuttosto che procedere orizzontalmente, a piccola scala, con un ampio “catalogo” di donne considerate per tipologia di viaggio o per regioni visitate. Nell’economia del libro, il procedimento per “casi” mi ha consentito di dare spazio, nella misura in cui le fonti lo hanno consentito, alle biografie delle viaggiatrici analizzate.
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Lo studio biografico, tradizionalmente presente in letteratura, si è da tempo affermato nella ricerca storica, ed è entrato ormai abbastanza in uso anche in quella storico-geografica. Applicato in modo esemplare alla storia delle donne da Natalie Zemon Davis145, esso mi pare più che mai adatto a questo lavoro sulle viaggiatrici. Quantunque siano risultate assai più numerose di quanto mi aspettassi all’inizio della ricerca, esse non hanno rappresentato di certo una categoria sociale le cui caratteristiche potessero essere colte sulla base delle metodologie storiografiche tradizionalmente applicate alle collettività e alle strutture. Senza mitizzare la biografia, cosa da cui Pierre Bourdieu ci mette in guardia146, è attraverso di essa, e per mezzo dell’autobiografia, che si riesce a penetrare meglio nel tessuto normativo tradizionale e nelle condizioni materiali che sembravano predeterminare le vite individuali, a inserirsi negli interstizi e nelle contraddizioni della storia che a piccola scala non rivela le incoerenze strutturali presenti fra le norme stesse. Inoltre, lo studio della singola biografia consente di cogliere la percezione degli eventi e della realtà di un dato ambiente e di una data epoca da parte del soggetto studiato e, nel caso dell’autobiografia, la percezione che egli aveva di sé. La biografia e l’autobiografia rappresentano insomma strumenti privilegiati per lo studio della rappresentazione e dell’autorappresentazione147. Se non tutte le figure comprese nella prima parte del libro hanno lasciato relazioni di viaggio, l’elemento fondamentale e unificante di quelle analizzate nella seconda parte è la pratica della scrittura: dei loro viaggi queste donne hanno lasciato documentazione scritta e, cosa importante, si tratta in ogni caso di donne accomunate dalla consapevolezza del loro ruolo di “esploratrici scrittrici”, di autrici, cioè, che deliberatamente, anche se nelle condizioni e per le ragioni più varie, hanno scelto di affrontare l’alterità e di raccontarla. I diari di viaggio, oltre a costituire i libri delle loro geografie, sono anche, insieme ad altri generi letterari a cui diverse di loro si sono dedicate, i principali documenti da cui ho derivato le notizie per i profili biografici, per i quali mi sono comunque avvalsa, quando è stato possibile, di altri scritti autografi e, sempre, di un’ampia documentazione indiretta, edita e inedita. Dal momento che la mia ricerca, nei suoi molti limiti, costituisce un primo approccio sistematico alla geografia di viaggio femminile, fra i tantissimi testi raccolti, la mia scelta non è caduta necessariamente sugli inediti o su autrici del tutto ignote. Talvolta lo sono; altre volte si tratta di viaggiatrici studiate, come ho già detto, in campi di matrice non geografica. Nell’insieme ho scelto le figure che più mi sono parse rappresentative delle principali articolazioni che il viaggio femminile ha assunto. Mi è sembrato interessante cercare, e poi sottolineare, i contatti personali, pur esili, che alcune di esse hanno avuto con Humboldt, e come il nome e l’opera del geografo tedesco siano insistentemente citati nelle loro relazioni.
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L’area geografica “di partenza” delle viaggiatrici prese in considerazione corrisponde a quella della cultura europea occidentale con l’inclusione della citata Dora d’Istria vissuta a lungo in Svizzera e in Italia. All’interno di questi limiti, la ricerca ha confermato il deciso squilibrio fra regioni centro-settentrionali e regioni mediterranee che alcuni lavori usciti in altri paesi hanno messo in evidenza e che, del resto, non desta stupore, anche se non è mancata qualche sorpresa. Nella scelta delle viaggiatrici da approfondire ho cercato di rispettare, anche se non rigorosamente, queste tendenze in modo che le donne “interrogate” incidessero sul lavoro in modo abbastanza proporzionato alle aree geografico-culturali di provenienza. Per quanto riguarda, invece, le mete dei viaggi, l’indagine non si è data limiti, in sintonia con quello che il viaggio femminile moderno, fin dalle sue origini, è stato: i documenti reperiti hanno messo in luce una straordinaria mobilità delle donne sia all’interno dell’Europa stessa, sia verso altri continenti. Non escludendo dalla mia considerazione le donne che si sono dedicate alla conoscenza di spazi europei, la mia attenzione si è soprattutto concentrata su quelle che hanno percorso anche altre contrade per mettere in evidenza la dimensione “estrema” che il viaggio femminile, non meno di quello maschile, ha avuto, e per rimarcare il contributo femminile, raro per quanto riguarda l’oggettiva scoperta di nuove terre, a una ri-esplorazione condotta sul filo di uno sguardo in grado di posarsi in modo “differente” sulla complessità territoriale e di coglierne aspetti inediti. La selezione che ho dovuto attuare non rende appieno l’idea del privilegio dato dalle viaggiatrici ai paesi mediterranei “esotici”: Nordafrica, Vicino e Medio Oriente. Qui le donne hanno ricalcato e talvolta anticipato (le Letters da Costantinopoli di Mary Montagu sono del 1717-18) gli itinerari dei viaggiatori spinti da interessi scientifici e geografico-territoriali come Volney148 e quelli dei viaggiatori che oggi definiamo orientalisti. Vedremo se e in che misura gli interessi delle viaggiatrici considerate si sono avvicinati ai primi o ai secondi. Non ho invece preso in specifica considerazione la pratica “granturistica” che, per le cose che si sono dette, costituisce un’esperienza di mobilità femminile specifica e, senza negarne il valore geografico, non appare la più significativa da questo punto di vista. Su di essa, peraltro, si è proficuamente lavorato dall’angolatura letteraria149. La mia ricerca esclude inoltre il viaggio delle missionarie che, pure, hanno lasciato manoscritti delle loro esperienze. Si tratta di un aspetto del viaggio femminile di epoca moderna di grande interesse che si è svolto con mezzi, modi e finalità particolari tali da farne oggetto di ricerca a sé, e qualche studiosa se ne è occupata150. E veniamo a due figure “speciali”: incentrata necessariamente sull’evoluzione del viaggio femminile, la mia indagine non ha trascurato di tenere d’occhio nelle riviste geografiche, negli atti dei congressi internazionali e dei con-
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vegni nazionali la comparsa delle prime vere e proprie geografe, per cogliere il momento, cronologico ed epistemologico, in cui alla vecchia pratica del viaggio e della relazione odeporica subentra (o si sovrappone) l’attività di geografe “a 360 gradi”: la ricerca scientifica, la docenza universitaria. Ho detto fin da principio che le protagoniste della transizione dal sapere geografico odeporico alla scrittura scientifica sono, a quanto finora risulta, Mary Somerville, personaggio di pieno Ottocento, ed Ellen Semple che si colloca, cronologicamente e culturalmente, fra Otto e Novecento. La Somerville, più che geografa fu matematica e astronoma ma, lo vedremo, di geografia scrisse un corposo trattato, intitolato Geografia fisica (di fatto, uno studio delle relazioni fra ambiente fisico, società animali e uomo). Esso è stato tradotto e pubblicato più volte in Italia con un’introduzione che l’autrice firma dalla Spezia, allora città turistica con una nota tradizione di frequentazione da parte dei viaggiatori inglesi. È significativo il fatto che la dimensione del viaggio sia stata vistosamente presente nella biografia della Somerville e ancora di più della Semple. Nel caso di quest’ultima il viaggio, lungi dall’essere racconto di una lunga esperienza odeporica (anche la Semple fece il suo bravo giro del mondo), si riversa nella sua produzione scientifica. Ellen Semple va considerata “geografa” nel senso più pieno del termine: essa non fu solo la prima donna ad ottenere una cattedra di geografia; fu anche la prima donna a dare al suo lavoro un inquadramento teorico. Se la geografa americana mutua molto dal determinismo di Ratzel – talvolta avvicinandosi, per dare un supporto scientifico all’idea del primato degli Stati Uniti e al loro espansionismo, al teorico dello «spazio vitale», più spesso al Ratzel della Antropogeographie – essa non si appiattisce del tutto sul pensiero del maestro tedesco e manifesta feconde contraddizioni che rimandano a una visione del mondo incerta fra il maschile e il femminile. Su questa figura – studiata in modo sufficientemente approfondito per la prima volta in Italia da Francesca Goldoni – di geografa-viaggiatrice (peraltro contemporanea di alcune delle viaggiatrici-geografe che ho preso ad esempio come eredi di una geografia odeporica al di fuori delle istituzioni) si conclude il mio lavoro, alle soglie della nuova e tutto sommato recente fase in cui le donne si fanno geografe a tutti (o quasi) gli effetti. Il “quasi” si riferisce al fatto che, almeno in Italia, ancora oggi nessuna donna è stata, per esempio, presidente della storica Società Geografica Italiana (SGI) né della assai più giovane Associazione dei geografi (AGEI), e solo nel 2001 alla testa della fiorentina Società di Studi Geografici, è stata eletta Maria Tinacci.
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4. Relazioni di viaggio e sapere geografico In un’interessante relazione del 1995 Lorenza Mondada muoveva da Humboldt per chiarire i nessi fra Relazione di viaggio e scrittura del sapere151. Tornato dal celebre viaggio nelle Regioni equinoziali del Nuovo Mondo, intrapreso con lo scopo preciso di pubblicare opere puramente scientifiche, Humboldt supera la sua dichiarata extrême répugnance a scrivere la relazione dell’esperienza compiuta allorché si accorge delle difficoltà e dei limiti che la sola forma del trattato scientifico presenta152. La scrittura di viaggio, capace di suscitare entusiasmo, curiosità e sorpresa, stabilisce fra lo studioso e i suoi lettori una comunicazione più diretta e ampia di quanto non faccia il trattato scientifico, per sua natura destinato a selezionare un più ristretto gruppo di lettori. Caratteristiche che Humboldt sperimenterà più volte, nelle sue conferenze, in particolare presso il pubblico femminile, tanto che la protagonista delle Affinità elettive di Goethe esprimerà la ben nota esclamazione sul fascino dei racconti humboldtiani. Le ragioni per cui la relazione di viaggio costituisce un genere molto apprezzato e seguito, non solo dal pubblico femminile, consiste in primo luogo nel fatto, come dice Mondada, di mescolare «racconto drammatico e dati scientifici: essa unisce testualmente elementi della narrazione delle vicende del viaggiatore e elementi della descrizione delle sue osservazioni. Nella relazione di viaggio la rottura fra oggetto e soggetto non è ancora consumata: essa infatti si focalizza alternativamente sulle prodezze del viaggiatore e sulle meraviglie che incontra; in maniera più generale collega sapere e punto di vista facendo dell’atto del viaggiare e delle emozioni del viaggiatore uno strumento conoscitivo»153. Mondada continua motivando, ancora con l’esempio della Relation historique di Humboldt, la validità della relazione di viaggio che, essendo «organizzata in base all’ordine cronologico e lineare del percorso e non, come il trattato, su di un ordine concettuale che distribuisce in classi prestabilite i fenomeni da trattare» non implica, a differenza del trattato scientifico, l’esclusione di «dettagli che non possono essere inseriti in nessuna di esse» ma che spesso «permettono un’osservazione nuova, una teorizzazione diversa»154. Per questa via l’autrice, attraverso la letteratura odeporica e la sua particolare organizzazione testuale, valorizza un sapere che per quanto legato all’esperienza soggettiva si apre o almeno non esclude elementi e punti di vista nuovi anche nel campo strettamente scientifico. Se questa tesi vale per diverse scienze – si pensi alle discipline naturalistiche ma anche alle nascenti scienze umane come la storia, l’archeologia e l’etnografia – a maggior ragione vale per la geografia. Con lo strumento del viaggio e della conseguente descrizione del paesaggio vengono superati i limiti del sapere a tavolino dei “geografi del re” e più in generale quelli della geo-
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grafia di antico regime diffusa in tutta Europa prima di Volney e di Humboldt. Scrivono Humboldt e Bonpland nella Relation historique: Il carattere di un ambiente selvaggio o coltivato si dipinge sia attraverso il racconto degli ostacoli che il viaggiatore incontra, sia attraverso le sensazioni che egli prova […] e il suo racconto ci interessa quanto più un certo colore locale si espande sulla descrizione del paesaggio e degli abitanti155.
Non a caso sono oggi in molti a sottolineare il valore innovativo e rivoluzionario, in tutte le scienze che si esprimono attraverso la pratica del terreno, della relazione di viaggio rispetto alle tradizionali pratiche conoscitive del tutto cristallizzate in un lavoro di gabinetto, che comunque ha sempre avuto bisogno delle informazioni attinte dal viaggiatore. Il rinnovato interesse per le istruzioni scientifiche lo dimostra156. Fra Settecento e Ottocento emerge come novità il fatto che è lo scienziato stesso a dedicarsi al viaggio. Ciò facendo riconosce, come in particolare accade a Humboldt, tutto il valore della percezione soggettiva che come abbiamo appena visto è alla base della sua idea di paesaggio. Potremmo dire che a fronteggiarsi sono allora l’esprit de finesse, che si esprime nella relazione dei viaggiatori e nell’attenzione per i dettagli, rispetto all’esprit de géometrie che si esprime nei vecchi trattati dei geografi da tavolino amanti delle generalizzazioni. Tutto questo vale non solo storicamente – cioè per un periodo chiave nella formazione delle scienze naturali e umane – ma vale in fondo anche oggi o, meglio, ha interessanti risonanze nel problema più che mai attuale della definizione del discorso geografico e della costruzione degli oggetti del sapere che la geografia umanistica ha avuto il merito di mettere sulla scena. Basterebbe a questo proposito ricordare uno dei pionieri della geografia umanistica, Pocock, citato da Bailly: L’approccio umanista non si accontenta di studiare l’uomo che ragiona, ma anche quello che prova sentimenti, che riflette, che crea… Ogni separazione rigida fra mondo oggettivo, esterno, e mondo soggettivo, interiore, è respinta perché il mondo trova la sua coerenza nei nostri concetti organizzatori e perché esso costituisce una estensione della nostra coscienza. Dal momento che il soggetto è coinvolto nel processo di conoscenza, non vi può essere separazione fra fatti e valori. Descrivere e capire, insistendo sull’empatia con gli uomini: questi sono i principali obiettivi della geografia umanistica157.
È dunque chiaro che il nostro modo di rapportarci ai viaggiatori e ai geografi del passato non può non risentire della cultura geografica attuale, del nostro modo di fare scienza oggi. Come giustamente nota ancora la Mondada, nella storia delle relazioni di viaggio – cosa che è diventata patrimonio comune per la storia delle rappre-
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sentazioni cartografiche – non si tratta tanto «di chinarsi sulle rappresentazioni che la relazione di viaggio veicolerebbe» dal punto di vista che qui per brevità abbiamo definito “oggettivo”, ma «sulle pratiche del rappresentare di cui essa costituisce la traccia». In altre parole, piuttosto che inseguire, con tutte le difficoltà del caso, «referenti discorsivi scomparsi» (con i metodi che sono propri di altre discipline come la storia e la geografia storica), qui si tratta soprattutto di «studiare i modi di costruzione degli oggetti discorsivi, costituiti cioè da strategie discorsive, da scelte linguistiche […] messe in relazioni testuali»158. Capire, in sintesi, come a seconda dei tempi e dei modelli dominanti, le nostre viaggiatrici, al di là del singolo referente oggettivo o del particolare territorio descritto, hanno guardato al mondo, gli hanno conferito un senso, ne hanno scoperto un ordine più o meno intelligibile. È chiaro che a questo punto entrano in gioco i modelli culturali – per esempio la particolare cultura dell’osservazione e la visione dell’Altro – che, a differenza delle opere strettamente scientifiche, hanno maggiore visibilità nella relazione di viaggio, in quanto questa «oscilla costantemente fra un discorso personale dell’io e un discorso generalizzante che si focalizza sugli oggetti stessi, senza più alcuna mediazione soggettiva sugli oggetti oggettivati»159. In questo continuo passaggio dal polo dell’io al polo dell’egli, come li definisce la Mondada, ad emergere sono le categorie e le procedure della descrizione: essa utilizza necessariamente diversi linguaggi, comprese le voci delle altre culture oltre a quella del soggetto che vede e riferisce il viaggio, usando la prima persona; il «polo dell’egli» è invece rappresentato dalla voce dei precedenti viaggiatori, dalle guide e soprattutto dagli informatori locali portatori di un’altra cultura. Da questo punto di vista, bisogna riconoscere che altri autori hanno applicato la polarizzazione fra l’io e l’egli alla storia del viaggio e in particolare al viaggio femminile, che in verità rimane fuori dall’orizzonte di studio della Mondada. Bénédicte Monicat, che nel lavoro ricordato, sostiene un dialogo serrato con le conclusioni di Sara Mills, studiosa delle viaggiatrici Alexandra David-Neél, Mary Kingsley (Travels in West Africa, 1897) e Nina Mazuchelli (The Indian Alps, 1876)160, non solo ha riconosciuto come non vi sia «nulla di più complesso dell’intrusione dell’altro genere – della differenza sessuale – nel genere letterario che parte alla scoperta dell’Altro»161, ma ha valorizzato, contrariamente alla Mills che rimane legata a un approccio più oggettivo, «i discorsi autobiografici come il luogo privilegiato dell’articolazione della problematica del racconto di viaggio al femminile», ritenendo che proprio «la scrittura autobiografica è la più apertamente rivelatrice delle tensioni, contraddizioni e giochi intessuti tra le multiple voci che definiscono questo genere letterario»162.
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In particolare, completando in tal modo le osservazioni della Mondada e rivelando la specificità del viaggio femminile, la Monicat scrive che la viaggiatrice, riunendo i due poli di cui si è detto e per la sua stessa condizione sociale e culturale, implica una doppia alterità: essa è l’Altro che guarda l’Altro. È anche l’Altro che si vede nell’Altro, che si identifica nell’Altro. Ma è anche l’Altro che rigetta la propria immagine, è lo specchio spezzato, è l’essere oppresso che di rimando opprime163.
Infatti, anche la donna occidentale che viaggia partecipa, in genere, al paradigma colonialista dominante, ma lo fa in maniera del tutto particolare. Se essa non può certo sottrarsi alla cultura colonialista dell’Ottocento, alla visione del centro, il suo posizionamento è più ambiguo di quello degli uomini, data la sua appartenenza dal momento al “centro” colonizzatore e insieme, per la sua stessa condizione di donna, ai “margini” di esso. La forma di colonizzazione che la viaggiatrice, in quanto donna, subisce, la fa partecipare come l’Altro alla lotta per la propria affermazione, per la propria emancipazione. In questa feconda ambiguità sta senz’altro uno dei lati più affascinanti dell’indagine sulla donna viaggiatrice. Infatti, per dirlo ancora una volta con le parole della Monicat, se da un lato «si tratta della presa di potere di colei che ne ha spesso poco sugli esseri che la “civiltà” sommerge nel gorgo della sua conquista del mondo», d’altra parte, con l’esperienza del viaggio, si verifica «anche l’affermazione di sé al di fuori dello stereotipo, l’emergere di un soggetto femminile altro»164. Per tornare a un punto di vista più strettamente geografico, si comprende bene come la complessa esperienza del viaggio femminile si inserisca perfettamente nel progetto scientifico della geografia umanistica e sia, invece, rifiutata o sminuita dalla geografia dominante. Quello che colpisce della geografia, dice Claire Hancock, è il modo in cui le pratiche e i ragionamenti degli studiosi di oggi tardino a liberarsi della finzione del «soggetto oggettivo»: il geografo insiste a presentarsi come puro spirito e puro sguardo, mentre altre scienze umane riconoscono la parte del posizionamento del ricercatore nella costruzione dei saperi. La geografia coltiva un certo numero di tecniche di messa a distanza del suo oggetto di studio destinate a negare l’implicazione personale, collocando il ricercatore nella posizione convenzionale di divinità onnisciente e distaccata. La carta è il più tradizionale strumento di cui il geografo dispone per distanziare e normare i suoi punti di vista sullo spazio, ma l’arsenale si è arricchito con la diffusione delle analisi quantitative e dei modelli. Nel grande entusiasmo suscitato dai GIS si può vedere l’ultima mutazione di questo «positivismo anacronistico». Per concludere, si può ancora dire con Claire Hancock che la geografia ufficiale si è data il compito di una descrizione esaustiva del mondo, ren-
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dendosi complice dell’eurocentrismo e del colonialismo. Le società geografiche hanno rifiutato di riconoscere che i diari di viaggio scritti dalle donne potessero avere valore di contributo scientifico, e non hanno ammesso, in principio, le donne come membri. Scienza della conquista e dell’appropriazione dello spazio, di “terre vergini” da penetrare e sottomettere, la geografia è stata segnata nella sua impostazione da un taglio sessuato165. Note 1. Fra il 2005 – quando uscì L’altra mappa – e oggi, il progresso degli studi che ne ispirarono la scrittura e che certamente si è verificato, non è stato tale da ritenere superato il lavoro fatto allora. Rimane del tutto valido il quadro teorico interdisciplinare di riferimento: il pensiero della differenza, che resta il punto fermo cui dagli anni Settanta-Ottanta del Novecento si ispira la maggior parte degli studi di genere; le riflessioni e le ricerche effettuate da autrici e autori attivi nel campo della storia e della storia delle letterature (italiana, straniere, comparate) che prima dei geografi si sono occupati di viaggio femminile; il metodo biografico e la scala microstorica come metodologia di ricerca più adatta a far emergere personalità, contesti, pratiche delle viaggiatrici studiate; infine l’occhio (questo sì, geografico-disciplinare quanto a riferimenti epistemologici) con cui ho analizzato le fonti dando rilievo tanto alle descrizioni “oggettive” di percorsi, territori, paesaggi, società, quanto ai modi delle viaggiatrici di interpretarli. In questi anni si è invece arricchito il catalogo dei contributi (convegni, pubblicazioni, lavori scaturiti dai corsi di dottorato) fra i quali ancora scarsi sono stati quelli provenienti dal mondo dei geografi. Per dar conto di tali tendenze, rispetto alla prima edizione sono intervenuta in alcune parti dell’introduzione e con l’aggiunta di alcuni titoli nella bibliografia finale. Quanto ai capitoli, ho ritenuto opportuno eliminare quello sulle cartografie (e relative immagini), precedentemente inserito per far emergere la presenza femminile, sia attiva sia simbolica, in ogni settore della “scrittura della Terra”, limitandomi ad alcune considerazioni e rimandando per l’approfondimento a una più specifica pubblicazione. Le rappresentazioni di viaggio costituiscono la base, certo integrata con una ben più ampia documentazione, su cui si fonda questa “storia della geografia delle donne” che intende anche sollecitare, grazie al discorso sull’alterità – fil rouge che attraversa tutto il libro – una riflessione sulla contemporaneità. 2. Lucio Gambi, Uno schizzo di storia della geografia in Italia, in Una geografia per la storia, Einaudi, Torino 1973, p. 3. 3. Al lavoro di Gambi era seguito quello, dedicato a una storia della geografia allargata alle tendenze europee, di Massimo Quaini, La costruzione della geografia umana, La Nuova Italia, Firenze 1975 e poi, dello stesso autore, Dopo la geografia, Espresso Strumenti, Farigliano (CN) 1978. 4. Ilaria Luzzana Caraci, La geografia italiana tra ’800 e ’900 (dall’Unità a Olinto Marinelli), Pubblicazioni dell’Istituto di Scienze Geografiche, XXXVII, Brigati, Genova 1982. 5. Ibidem, p. 46. 6. Ibidem, pp. 50-51, nota. 7. Lucio Gambi, op. cit., p. 4 e ss. 8. AA.VV., Segni e sogni della Terra. Il disegno del mondo dal mito di Atlante alla geografia delle reti, De Agostini, Novara 2001, p. 69. 9. Claire Hancock, L’idéologie du territoire en géographie: incursions féminines dans une discipline masculiniste, in Christine Bard (dir.), Le genre des territoires, féminin, masculin, neutre, Presses de l’Université d’Angers, Angers 2004, p. 165. Il tema della cartografia fem-
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minile in Italia, dopo la prima edizione de L’altra mappa (2005) è stato ripreso e sviluppato da vari autori in Luisa Rossi, Raffaella Rizzo (a cura di), Disegnare il mondo. Le donne e le carte geografiche, Società Geografica Italiana, Roma 2008. 10. Mary Somerville, Geografia fisica, Barbera, Firenze 1868 (terza edizione italiana). 11. Arlette Farge, Il secolo al femminile: poteri senza potere, in Europa 1700-1992. La disgregazione dell’Ancien Régime, Electa, Milano 1987, p. 177. 12. Sulla figura della Lepaute e sul tema complessivo delle cartografe si veda Luisa Rossi, Carto-grafie femminili, in Luisa Rossi e Raffaella Rizzo, op. cit., pp. 33-36. 13. Voyage aux régions équinotiales du Nouveau continent, fait en 1799, 1800, 1801, 1802, 1803 et 1804 par Alexander de Humboldt et Aimée Bonpland, Schoell, Paris-Maze et Gide, Dufour 1807 e successivi. Dei 30 volumi che compongono l’opera, alla botanica sono dedicati i voll. I-XIV (Botanique), il vol. XX (Géographie des plantes équinotiales) e il XXVII (Géographie des plantes). 14. Maria Gregorio, Spunti per un profilo di Maria Sibylla Merian, in Maria Sibylla Merian, La meravigliosa metamorfosi dei bruchi, Rosemberg & Sellier, Torino 1993, p. 199. 15. Joseph-François Lafiteau, Moeurs des sauvages américains comparés aux moeurs des premiers temps, Maspéro, Paris 1983, 2 voll. 16. Fra la vasta letteratura sul tema, cfr. Tzvetan Todorov, Nous et les autres. La réflexion française sur la diversité humaine, Seuil, Paris 1989. 17. Jean Starobinski, Introduzione, in Montesquieu, Lettere persiane, BUR, Milano 1996, p. 24. 18. David F. Noble, Un mondo senza donne. La cultura maschile della Chiesa e la scienza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 11. Ho trovato conferma di alcune affermazioni di Noble in Alfredina Storchi, Donne dell’élite romana in viaggio, in Maria Luisa Silvestre e Adriana Valerio (a cura di), Donne in viaggio, Editori Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 22-30. 19. David F. Noble, op. cit., p. 11. 20. Ibidem, p. 64. 21. Ibidem, p. 25. 22. Ibidem, pp. 175-185. 23. Georg Simmel, Nel centenario del movimento delle donne (1892), in Id., Filosofia e sociologia dei sessi, a cura di Gabriella Antinolfi, Edizioni Cronopio, Napoli 2004, p. 84. 24. Georg Simmel, Il militarismo e la posizione delle donne, in ibidem, pp. 132-133. 25. Cristiana da Pizzano (1364-1429 ca) era figlia del filosofo naturalista bolognese Tommaso da Pizzano. Il suo libro fu illustrato da Anastasia, la più famosa miniaturista di Parigi. Cfr. Armanda Guiducci, Medioevo inquieto. Storia delle donne dall’VIII al XV sec. d.C., Sansoni, Firenze 1990, pp. 279-303. Sul ruolo di Anastasia nella storia dell’arte femminile si veda Françoise D’Eaubonne, Histoire de l’art et lutte des sexes, Editions de la Différence, Paris 1997, pp. 131-144. 26. Martine Sonnet, L’educazione di una giovane, in Natalie Zemon Davis e Arlette Farge (a cura di), Dal Rinascimento all’età moderna, Storia delle donne diretta da Georges Duby e Michelle Perrot, Laterza, Bari 1991, p. 122. Sull’istruzione delle donne in Italia cfr. il corposo volume di Simonetta Soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita nell’Italia dell’Ottocento, Franco Angeli, Milano 1989, dove tuttavia non si entra nel caso dell’istruzione geografica. 27. Sull’insegnamento del latino cfr. l’ampio lavoro di Françoise Waquet, Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), Feltrinelli, Milano 2004. 28. Cfr. Claude Dulong, Dalla conversazione alla creazione, in Natalie Zemon Davis e Arlette Farge (a cura di), Dal Rinascimento…, cit., pp. 406-407. 29. Ibidem, p. 411 e ss. 30. Nina Rattner Gelbart, Le donne giornaliste e la stampa nel XVII e XVIII secolo, in ibi-
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dem, p. 438. 31. Fra le prime laureate e docenti non restarono indietro le italiane: la matematica Maria Gaetana Agnesi (1718-1799) e la filosofa e fisica Laura Caterina Bassi (1711-1778), entrambe docenti a Bologna; l’onegliese Maria Pellegrina Amoretti (1756-1787), prima laureata in diritto, a Pavia. Su questo tema cfr. Arlette Farge, Il secolo al femminile…, cit., p. 179. Sull’argomento, oltre all’ampio Natalie Zemon Davis e Arlette Farge (a cura di), Dal Rinascimento…, cit., si veda ora anche Jean-Pierre Poirier, Histoire des femmes en France. Du Moyen Age à la Revolution, Pygmalion, Paris 2002. 32. Nicolas Sanson d’Abbeville, Atlas du Monde, 1665, presenté par Mireille Pastoureau, Sand & Conti, Paris 1988, p. 24. 33. Ibidem. Carte satiriche di altri autori sui Royaumes Imaginaires delle Preziose sono conservate nel Cabinet des Estampes della Biblioteca Nazionale di Parigi. Cfr. Au temps des Précieuses. Les salons littéraires au XVIIe siècle, Bibliothèque Nationale, Paris 1968, p. 41 e ss. 34. Giuseppe Baretti, La Frusta letteraria, introduzione di Massimo Bontempelli, vol. I, Istituto Editoriale Italiano, Milano s.d., pp. 70-71 (riedizione della rivista pubblicata dal Baretti fra il 1763 e il 1764). 35. Pierre Le Moyne, Oeuvres poétiques, Billaine, Paris 1671. Questa lettura di Baretti e Le Moyne è stata tracciata da Massimo Quaini, La cartografia a grande scala: dall’astronomo al topografo militare, in Marica Milanesi (a cura di), L’Europa delle carte, Mazzotta, Milano 1990, p. 36. 36. Nouvelle Biographie Générale, tome XLII, Didot, Paris 1863, pp. 569-571. 37. Traité des études par Rollin, 3 voll., Didot, Paris 1854. 38. Ibidem, vol. I, p. 82. 39. Nelle pagine introduttive con le quali nel 1663 presenta il suo atlante in dodici volumi a Luigi XIV, Blaeu scrive: «La geografia è l’occhio della storia […], le carte geografiche ci mettono in grado di contemplare a casa nostra e davanti ai nostri stessi occhi cose remotissime». Citato da Svetlana Alpers, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 267. 40. Traité des études…, cit., p. 89. 41. Ibidem, p. 64. 42. Ibidem, p. 75. 43. Lascio la significativa espressione in francese che esprime bene l’idea che le donne debbano attenersi alle sfere basse mentre non spetta loro accedere al mondo delle idee. 44. François de Dainville, La Géographie des humanistes, Slatkine, Genève 1969, pp. 474476. 45. P. de Vaumorière, L’art de plaire dans la conversation, Guignard, Paris 1688: citato da François de Dainville, op. cit., p. 476. 46. Brian Harley, Cartes, savoir et pouvoir, in Peter Gould et Antoine Bailly (ed.), Les pouvoir des cartes. Brian Harley et la cartographie, Anthropos, Paris 1995, p. 43. 47. Georges Blond, Storia della Grande Armée 1804-1815, Rizzoli, Milano 1981, p. 235. 48. Yves Lacoste, La géographie, ça sert, d’abord, à faire la guerre, Maspero, Paris 1976. 49. Massimo Quaini, Dopo la geografia, Espresso Strumenti, Farigliano (CN) 1978; Giuseppe Dematteis, Le metafore della Terra, Feltrinelli, Milano 1985. 50. 15e Festival International de Géographie, Saint-Dié-des-Vosges, 1 ottobre 2004. 51. Massimo Quaini, La cartografia a grande scala…, cit., p. 36. Oltre alla fatica e alle difficoltà poste dalle condizioni ambientali, Quaini allude all’ostilità (quando non vere e proprie aggressioni) con cui le popolazioni accoglievano i cartografi. 52. Nel suo ampio lavoro Maczak si rammarica di dover «riservare poco spazio alle donne, sebbene non manchino prove che spesso la vita e il mestiere richiedevano anche ad esse viaggi più o meno lunghi». A proposito delle prime viaggiatrici nell’Europa moderna questo autore porta ad esempio alcune regine e dame di corte che accompagnavano gli uomini nei
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viaggi ufficiali ma cita anche una vera e propria turista, la principessa Cecilia di Svezia, che al futuro marito Cristoforo, mangravio di Baden, pone come condizione delle nozze un viaggio in Inghilterra, in effetti intrapreso il 12 novembre 1564. Ma sono soprattutto due le figure su cui Maczak si sofferma: Lady Ann Fanshawe, nata nel 1625, autrice di un libro di memorie sul viaggio effettuato in Spagna con il marito diplomatico, e la contessa d’Aulnoy che, invece, senza essere stata in Spagna scrisse due relazioni di viaggio in questo paese che ebbero grandissima fortuna editoriale. Cfr. Antoni Maczak, Viaggi e viaggiatori nell’Europa moderna, Laterza, Bari 1992, pp. 215-218. 53. Cfr. Elisabeth Garms-Cornides, Esiste un Grand Tour al femminile?, in Dinora Corsi (a cura di), Altrove. Viaggi di donne dall’antichità al Novecento, Viella, Roma 1999, passim. 54. Fra il 1750 e il 1758 Anne-Marie Le Page du Boccage (o Bocage) scrive lettere dall’Inghilterra, dall’Olanda e dall’Italia; Madame de Genlis (Stephanie-Felicité Ducreste De Saint Aubin) scrive verso il 1780 Adèle et Théodore, una serie di lettere di contenuto edificante inquadrate in un percorso odeporico; Madame de Gonzague (Elisabetta Rangoni) scrive le sue lettere da Italia, Francia e Germania nel 1779 e anni successivi; Elisabeth Vigée-Lebrun, famosa ritrattista di Maria Antonietta, trasforma il suo esilio (nell’ottobre del 1789 era fuggita da Parigi travestita da popolana ed era venuta in Italia) in un viaggio culturale ed artistico. Dopo l’Italia si sposta in Austria, Russia e Germania, rientra a Parigi nel 1801 ma continuerà a viaggiare in Europa. Hester Lynch Piozzi pubblica nel 1789 il suo diario attraverso Francia, Italia e Germania; le tedesche Sophie von La Roche (amica di Goethe) ed Elisa von der Recke sono autrici di un Tagebuch, rispettivamente, sulla Francia e sull’Italia, nel quale raccontano i viaggi compiuti negli anni Ottanta del Settecento e nel 1804-6. 55. Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani, Milano 1991, p. 76. Come è noto ai cultori della disciplina, il dialoghetto è emblematico della marcata “divisione del lavoro”, che ha caratterizzato la geografia di età moderna, fra il viaggiatore, che svolge l’attività pratica di osservazione empirica sul terreno, e il geografo che sulle informazioni del primo costruisce i suoi trattati teorici e scientifici. 56. Simon Schama, Paesaggio e memoria, Mondadori, Milano 1997, pp. 506-509. 57. Henriette d’Angeville, La mia scalata al Monte Bianco, Vivalda, Torino 2000, p. 29. 58. Bénédicte Monicat, Itinéraires de l’écriture au féminin. Voyageuses du 19e siècle, Editions Rodopi B.V., Amsterdam-Atlanta 1996, pp. 42-43. 59. Ibidem, p. 45. 60. Federica Frediani, Uscire. La scrittura di viaggio al femminile: dai paradigmi mitici alle immagini orientaliste, Diabasis, Reggio Emilia 2007. Alla Belgioioso è qui dedicato un lungo paragrafo (A cavallo fra due culture. L’esilio orientale di Cristina Trivulzio di Belgioioso) in cui la viaggiatrice italiana viene accostata all’inglese Mary Montagu (pp. 119-128). 61. Oltre a quelle di chi scrive (cfr. il capitolo a lei dedicato nella seconda parte di questo volume), si veda la corposa monografia di Antonio D’Alessandri, Il pensiero e l’opera di Dora d’Istria fra Oriente europeo e Italia, Gangemi Editore, Roma 2007. 62. In Francia la Serena pubblicò le sue relazioni in volume e nei periodici «Le Tour du Monde» e «Bulletin de la Société de Géographie». Due scritti, Une Européenne en Perse (Dreyfous, Paris 1881) e Trois mois en Kakhetie, uscito anche nell’edizione italiana «Giro del Mondo» (Tre mesi in Kakhezia, vol. XLIV, ottobre-novembre 1882), furono recensiti dal «Bollettino della Società Geografica Italiana» del 1881 e del 1882. 63. Della Serena aveva scritto Mirella Scriboni nel saggio Il viaggio al femminile nell’Ottocento: La principessa di Belgioioso, Amalia Nizzoli e Carla Serena, «Annali d’Italianistica», vol. 14, 1996, pp. 304-325, in cui troviamo anche alcune informazioni sulla vita. Dieci anni dopo è uscito il volume di Daniela Pizzigalli (Il viaggio del destino. Carla Serena da Venezia al Caucaso, Rizzoli, Milano 2006), ma si tratta di un lavoro di carattere divulgativo che non ricostruisce correttamente la biografia della Serena (tranne averne scoperto il nome da nubile: Caroline Hartog Morgensthein) e ne ricostruisce i viaggi in modo narrativo. Troviamo piut-
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tosto informazioni biografiche e analisi critica nella tesi di laurea di Claudia Borgioli, La geografia dell’area caucasica negli scritti di una viaggiatrice dell’Ottocento: Carla Serena, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2005-2006. 64. Ad Amalia Nizzoli sono stati dedicati il citato saggio di Mirella Scriboni e la riedizione del diario a cura di Sergio Pernigotti (Amalia Nizzoli, Memorie sull’Egitto, Le edizioni dell’Elleboro, Napoli 1996), ma in entrambi i lavori non si danno più notizie biografiche delle poche che la viaggiatrice stessa rivela nella sua relazione. 65. Su Elena D’Aosta è stato pubblicato il volume di Camillo Albanese, La principessa beduina, L’avventurosa vita di Elena di Francia duchessa d’Aosta, Mursia, Milano 2007. Ricco di informazioni biografiche non rigorosamente accompagnate dall’indicazione delle fonti (prima parte) e carente di un inquadramento critico delle relazioni dei viaggi di cui si ricostruisce la vicenda in modo narrativo (seconda parte), il libro risente fortemente in entrambe le parti dell’impostazione celebrativa. 66. Angelina Fatta, nata a Palermo il 2 marzo 1870; a 23 anni sposata a Francesco De Michele, barone di Villaurea; morta a Palermo il 15 maggio 1963. La biografia di Angelina Fatta, ricostruita di recente da Luisa Reina, sarà oggetto di uno scritto nel volume a cura di Federica Frediani, Ricciarda Ricorda, Luisa Rossi, in corso di preparazione. 67. «Calze blu» era il modo con cui venivano ironicamente definite le giramondo ottocentesche. 68. Cfr. in merito anche Mona Domosh, Toward a feminist historiography of geography, «Transactions Institute British Geography», N.S., 16, 1991, pp. 95-104. 69. Carla Serena, De la Baltique à la Mer Caspienne, Dreyfous, Paris 1881, p. 107. 70. Ibidem, p. 357. 71. Mona Domosh, Toward…, cit., p. 96. 72. Mechtild Rössler, From the Ladies’ program to the feminist session, in Marie-Claire Robic et Anne-Marie Briend, Mechtild Rössler (dir.), Géographes face au monde. L’Union Géographique Internationale et les Congrès Internationaux de Géographie, Présentation de Philippe Pinchemel, L’Harmattan, Paris 1996, pp. 259-267. 73. Marie-Claire Robic, Mechtild Rössler, Sirens within the IGU. An analysis of the role of women at International Geographical Congresses (1871-1996), «CYBERGEO. Journal européen de géographie», n. 14, 1996. Interessanti, a proposito di marginalizzazione delle geografe, le osservazioni della Robic sulla partecipazione delle donne al Festival International de Géographie di Saint-Dié des Vosges. Cfr. Marie-Claire Robic, Exclusion, régression… Du “Ladies’ Program” au “sans femme”?, «CYBERGEO. Journal européen de géographie», n. 22, 1997. 74. Numa Broc, Géographie au féminin: les premières collaboratrices des Annales de Géographie (1919-1939), «Annales de Géographie», a. 110, n. 618, marzo-aprile 2001, p. 180. 75. Ibidem, pp. 175-181. Le altre due «grandi» erano Marie-Louise Arviset, interessata alla modernizzazione dell’insegnamento della geografia, e Geneviève Vergez-Tricom, che lavorava sotto la guida di de Martonne. 76. Claire Hancock, op. cit., pp. 165-166. 77. Mechtild Rössler, From the Ladies’…, cit., pp. 264-265. 78. Citata da Christine Chivallon, Introduction a Les Géographies féministes. Un playdoyer convaincant pour la constitution de connaissances «situées», in Jean-François Staszak et al. (dir.), Géographies anglo-saxones. Tendences contemporaines, Belin, Paris 2001, p. 58. 79. María Dolors García-Ramón, Per non escludere dallo studio la metà del genere umano: una sfida pendente in geografia umana, in Gisella Cortesi, Maria Luisa Gentileschi (a cura di), Donne e geografia, Franco Angeli, Milano 1996, p. 26. 80. La “scoperta” del genere ha segnato la transizione dal femminismo tradizionale (uguaglianza dei sessi) al “postfemminismo” (differenza radicale fra i sessi): a tale passaggio hanno dato un consistente contribuito le riflessioni di quello che le femministe d’oltre Atlantico hanno definito «French feminism», rappresentato in primo luogo dalla filosofa, linguista e psi-
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coanalista belga Luce Irigaray che supera il paradigma paritario di Simone de Beauvoir, afferma la non neutralità della parola e sottopone a serrata critica Lacan e la psicanalisi in quanto disciplina patriarcale. 81. Liz Bondi e Mona Domosh, Other Figures in other Places: on Feminism, Postmodernism and Geography, «Society and Space», 10, 2, 1992, pp. 199-215. L’articolo è uscito in Francia (Autres figures en d’autres lieux. Féminisme, postmodernisme et géographie, in JeanFrançois Staszak et al. (dir.), Géographies anglo-saxones…, cit., 2001, pp. 63-79) e in Italia: Other Figures in other Places, in Claudio Minca (a cura di), Introduzione alla geografia postmoderna, Cedam, Padova 2001, pp. 215-235. 82. Rosi Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, a cura di Anna Maria Crispino, Donzelli, Roma 1995, p. 32 e ss. (Nomadic Subjects. Embodiment and Sexual difference in Contemporary Feminist Theory, Columbia University Press, Cambridge 1994). Sulla spazialità femminile si veda il sintetico ma ineccepibile saggio di Marcella Schmidt di Friedberg, “Importa poco sapere per dove devi andare”: il (dis)orientamento delle donne, in Luoghi e identità di genere, «Geotema», anno XI, n.3, settembre/dicembre 2007, pp. 27-33. 83. Caren Kaplan, Postmodern Geographies. Feminist Politics of Location, capitolo 4 in Question of Travel. Postmodern Discourses of Displacement, Duke University Press, Durham and London 1996, pp. 143-187. 84. Storica della scienza e autorevole voce accademica, Haraway appartiene al “leggendario” dipartimento di “History of Consciousness” dell’Università di California a Santa Cruz insieme ad Angela Davis e Teresa de Lauretis. Allieva del filosofo francese Georges Canguilhelm, è stata attenta studiosa di Foucault e poi di Bruno Latour. 85. David Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, il Saggiatore, Milano 1993 (edizione originale: 1990). 86. David Harvey, Souvenirs et désirs, in Peter Gould et Antoine Bailly (dir.), Mémoires de Géographes, Anthropos, Paris 2000, pp. 174-175. 87. Rosi Braidotti, Introduzione in Donna J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Interzone Feltrinelli, Milano 1995, p. 11. 88. Maria Mies, Vandana Shiva, Ecoféminisme, L’Harmattan, Paris 1998 (Ecofeminism, Zed Book, London & New Jersey 1993). La coniugazione della prospettiva femminista con l’ambientalismo aveva portato, a scala internazionale, all’affermazione del cosiddetto “ecofemminismo” (Cfr. The Dictionary of Human Geography, edited by Ron J. Johnston, Derek Gregory, Geraldine Pratt, Michael Watts, Blackwell Publisher, Oxford 2001, voce «ecofeminism», pp. 188-190). Ne era stato il manifesto un lavoro (nel quale il termine compare per la prima volta) della parigina Françoise D’Eaubonne che aveva lanciato un ponte fra fertilità e fecondità mostrando come nella società patriarcale sfruttamento della terra e sfruttamento della donna rispondessero a una medesima logica che, se non superata, avrebbe portato alla rovina del pianeta. 89. Donna J. Haraway, Manifesto cyborg, cit., p. 125. 90. Ibidem, p. 120. 91. Maurice Merleau-Ponty, Conversazioni, SE, Milano 2002, pp. 19-20. Il brano si riferisce alle Causeries redatte dal filosofo francese nel 1948. 92. Liz Bondi e Mona Domosh, Other Figures in other Places, in Claudio Minca (a cura di), cit., pp. 220-221. 93. Ibidem, p. 221. 94. Ibidem, p. 231. 95. Ibidem, pp. 232-234. Cfr. Edward W. Soja, Postmodern Geographies. The reassertion of space in critical social theory, Verso, New York 1989. 96. Rachele Borghi, Introduzione (ad una geografia [de]genere), in Rachele Borghi, Antonella Rondinone (a cura di), Geografie di genere, UNICOPLI, Milano 2009, p. 21. 97. Cfr. Judith Butler, Troubles dans le genre. Pour un féminisme de la subversion, La Dé-
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couverte, Paris 2005 (Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, 1990). 98. Rachele Borghi, Introduzione, cit., pp. 21 e ss. Sulla questione del controllo del corpo è in corso di pubblicazione Luisa Rossi, Massimo Quaini, Ivo Lisi, “Io, Adalgisa Conti, questa è la mia vita”. Geografia umana e spazio alienato, intervento al convegno internazionale “Lo spazio della differenza”, Università di Milano-Bicocca, 20-21 ottobre 2010. 99. Claudio Minca, Introduzione..., cit.; Claudio Minca, L. Bialasiewicz, Spazio e politica. Riflessioni di geografia critica, Cedam, Padova 2004. 100. Massimo Quaini, La mongolfiera di Humboldt, Diabasis, Reggio Emilia 2003. 101. Franco Farinelli, Geografia, Einaudi, Torino 2003. 102. Franco Farinelli, L’invenzione della Terra, Sellerio, Palermo 2007. 103. Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009, p. 205. 104. Janice Monk, Il luogo è importante. Prospettive comparate di geografia femminista, in Gisella Cortesi, Maria Luisa Gentileschi (a cura di), Donne e geografia, cit., p. 48. 105. Luisa Rossi, Storia di un deserto. Esplorazioni e genere nella geografia italiana, convegno di studi “Storie e geostorie”, Roma, 15-16 marzo 2001. 106. «Bollettino della Società Geografica Italiana», I, 1, agosto 1868 (articolo terzo dello statuto). 107. Ibidem, II, 2, febbraio 1869 e ibidem, I, 3, 3, settembre 1869, pp. 529-558. 108. Massimo Quaini, Dopo la geografia, cit., pp. 100-101. 109. In occasione della morte escono i necrologi di Sestini e di Ferro rispettivamente nella «Rivista Geografica Italiana» (serie LXXIX, 1972, pp. 223-224) e nel «Bollettino della Società Geografica Italiana» (serie X, vol. I, f. 10-12, ottobre-dicembre 1972, pp. 729-730). 110. Ivi e Diletta Mazzucchi, Le donne nella geografia delle università lombarde, tesi di laurea discussa presso l’Università di Parma, Facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 2002-2003, pp. 73-80. 111. Natale Zemon Davis, La doppia vita di Leone l’Africano, Editori Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 5-6 e 300. 112. Diletta Mazzucchi, op. cit., pp. 111-128. 113. Gaetano Ferro, Emilio Scarin (1904-1980), «Rivista Geografica Italiana», LXXXVII, 1980, p. 423. 114. Antonella Rondinone, Le donne mancanti: lo squilibrio demografico di genere in India, «Rivista Geografica Italiana», CX, 1, 2003, p. 69. La Rondinone ha ripreso il tema in un secondo articolo (Silvia De Zordo, Antonella Rondinone, Politiche demografiche e questioni di genere: India e Brasile a confronto, «Rivista Geografica Italiana», CXI, 4, 2004, pp. 727-757) e nel volume Donne mancanti. Un’analisi geografica del disequilibrio di genere in India, Firenze University Press, Firenze 2003. 115. Volendo essere puntuali, come alcune studiose suggeriscono, va sottolineata la differenza fra ricerca sulle donne e ricerca per le donne: nella prima muta l’oggetto studiato ma non è detto che muti la filosofia del ricercatore. Nel secondo caso è la prospettiva che cambia radicalmente. Si può parlare di prospettiva femminista «quando le scelte metodologiche si orientano verso concetti e strumenti capaci di recepire l’esperienza delle donne; quando è all’opera una sogettività cosciente che, rimpiazzando il paradigma dell’oggettività avalutativa della ricerca tradizionale, si pone in relazione all’oggetto, diventando un’intersoggettività». Cfr. Terri Mannarini, Le donne soggetti di conoscenza, in Bianca Gelli, Rita D’Amico, Terri Mannarini, L’Università delle donne. Saperi a confronto, Franco Angeli, Milano 2002, p. 35. A questo proposito, dato che, quando si risale “all’archeologia” degli studi geografici sul tema della donna, vengono sempre ricordati i due precoci saggi di Giacomo Corna Pellegrini (1963 e 1965), faceva bene Gisella Cortesi a osservare che «la distinzione fra uomo e donna veniva intesa, in quegli anni, più come suddivisone statistica che come modo per sottolineare la differenza fra i sessi». Cfr. Gisella Cortesi, Si può parlare di una geografia di genere in Italia?, in
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Gisella Cortesi, Maria Luisa Gentileschi (a cura di), Donne e geografia, cit., p. 18. I saggi di Giacomo Corna Pellegrini sono anche citati da Gabriella Arena (a cura di), Geografia al femminile, UNICOPLI, Milano 1990, p. 164. 116. Fra i primi interventi critici in tema di lavoro femminile troviamo un riferimento al caso francese di Franca Cipriani (Proletariato del Maghreb e capitale europeo, in AA.VV., L’operaio multinazionale in Europa, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 77-107). Questa ricercatrice scriverà poi due brevi ma precoci saggi sulla questione della femminilizzazione dell’università negli anni Settanta: La donna e l’Università, «Pubblicazioni della Facoltà di Magistero dell’Università di Ferrara», Università degli Studi di Ferrara, 1980, vol. V, n. 7, pp. 139-150 e L’istruzione femminile universitaria in Italia e in Emilia-Romagna, in AA.VV., Riflessioni geografiche sull’Emilia-Romagna, UNICOPLI, Milano 1982, pp. 347-352. Una più recente indagine sulla questione donne/università nell’ateneo bolognese sta in Paola Rossi Pisa, Silvia Gaddoni, Fiorella Dallari (a cura di), Ricerca e didattica all’Università di Bologna. Dieci anni al femminile, Bononia University Press, Bologna 2005. 117. Gabriella Arena (a cura di), Geografia al femminile, cit., p, 18. 118. Ibidem, pp. 161-164; il saggio di Paola Bonora Lo spazio della donna, dimensione emergente nella società è alle pp. 217-224. 119. Susan Hanson, Janice Monk, Collocare la geografia femminista: le differenze, il contesto, la scala di studio, in Gisella Cortesi, Maria Luisa Gentileschi (a cura di), Donne e geografia, cit., pp. 60-62. 120. Bianca Gelli, Introduzione in Bianca Gelli, Rita D’Amico, Terri Mannarini, op. cit., pp. 10-12 e 18-19. 121. Maria Luisa Gentileschi (a cura di), Geografie e storie di donne. Spazi della cultura e del lavoro, CUEC, Cagliari 2004. 122. Angela Calvo, Elisabetta Donini, Anna Segre, Un approccio geografico ai problemi di genere e sviluppo, «Rivista Geografica Italiana», CX, 1, 2003, p. 225, nota 1. Del gruppo, oltre a una geografa e due cartografe, hanno fatto parte studiose di diverse discipline (antropologia culturale, sociologia, matematica, fisica, filosofia della scienza). 123. Egidio Dansero, Giovanna Di Meglio, Elisabetta Donini, Francesca Governa (a cura di), Geografia, società, politica. La ricerca geografica come impegno sociale, Angeli, Milano 2007. 124. Gendered Cities: identities, activities, networks. A life-corse approach, edited by Gisella Cortesi, Flavia Cristaldi and Joos Droogleever Fortuijn, Società Geografica Italiana, Roma 2004. Gisella Cortesi, Flavia Cristaldi, Joos Droogleever Fortuijn, La città delle donne. Un approccio di genere alle geografia urbana, Pàtron Editore, Bologna 2006. 125. Il libro consiste nelle introduzioni critiche delle curatrici al volume e alle traduzioni di sette saggi che vanno da quello di apertura di Susan Hanson e Janice Monk (1982) finalizzato a «fornire una critica costruttiva sulle modalità di integrazione della prospettiva femminista in geografia», a quello conclusivo di Maria Dolores Garcia Ramon e della stessa Monk (2007) che aggiorna il panorama, diventato largamente internazionale, della riflessione di genere, ne sottolinea il diverso peso e ne auspica lo sviluppo dal momento che «gli studi di genere in geografia sono emersi con l’obiettivo di migliorare la giustizia sociale e l’equità, così come dal valore alle differenze». In mezzo, saggi che affrontano le problematiche della eteronormatività (David Bell, Jon Binnie, Julia Cream, Gill Valentine 1994), della costruzione sociale della mascolinità (Peter Jakson 1991), della “razza” (Andrey Kobayashi, Linda Peake 1994), questioni metodologiche (Faranak Miraftab 2004) e una riconsiderazione della riflessione femminista in tempo di globalizzazione (Saraswati Raju 2002). Cfr. Rachele Borghi, Antonella Rondinone, op. cit. 126. Convegno internazionale “Lo spazio della differenza/L’espace de la différence/ Spaces of difference”, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Milano, 20-21 ottobre 2010. Gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione nel «Bollettino della Società Geografica
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Italiana». 127. Per una sintesi critica sull’argomento si veda anche Rachele Borghi, Elena dell’Agnese, Genere, in Elena dell’Agnese (a cura di), Geo-grafia. Strumenti e parole, UNICOPLI, Milano 2009, pp. 291-315. 128. R. Rizzetto, Alessandrina Tinne, viaggiatrice africana: conferenza, «Bollettino della Società Geografica Italiana», III, III, X, ottobre 1890, pp. 886-912. 129. Silvio Zavatti, Dizionario degli esploratori e delle scoperte geografiche, Feltrinelli, Milano 1967. 130. Si vedano gli indici dei numeri della «Miscellanea» sul web. 131. Massimo Quaini, Luisa Rossi, Da Erodoto a Isabelle Eberhardt, «I viaggi di Erodoto», Ed. Bruno Mondadori, anno 9, n. 27, settembre-dicembre 1995, pp. 68-79; Massimo Archetti Maestri, Un’amazzone in Persia: Jane Dieulafoy (1851-1916), in Flavio Lucchesi (a cura di), L’esperienza del viaggiare. Geografi e viaggiatori del XIX e XX secolo, Giappichelli, Torino 1995, pp. 117-143; Daniela Galassi, Nervi nelle pagine di Anastasija Cvetaeva Alla fine del viaggio, Diabasis, Reggio Emilia 2006, pp. 219-224; Graziella Galliano, Viaggio e geografia negli scritti di Alexandra David-Néel in ibidem., pp. 280-287. Gli atti del convegno CISGE di San Faustino (27-30 settembre 1995) ospitavano diversi saggi di tema femminile (di Marina Sechi Nuvole, Carla Scardini, M. Cristina Fanelli, Claudia Borri, Luisa Rossi, Anna Guarducci): cfr. Graziella Galliano (a cura di), Rappresentazioni e pratiche dello spazio in una prospettiva storico-geografica, Brigati, Genova 1997. Per l’insieme dei miei lavori sull’argomento si veda la bibliografia in questo volume. 132. Mary Davey, Icnusa. Due piacevoli anni nell’isola di Sardegna, a cura di Marina Sechi Nuvole, Magnum-Edizioni, Sassari 2002. 133. Rachele Borghi, Viaggio, scrittura e esplorazioni geografiche, in Elena dell’Agnese (a cura di), Geo-grafia, cit., pp. 298-299. 134. Massimo Quaini, Rappresentazioni e pratiche dello spazio. Due concetti molto discussi fra storici e geografi, in Graziella Galliano, Rappresentazioni..., cit., p. 19. 135. Guglielmo Scaramellini, La geografia dei viaggiatori. Raffigurazioni individuali e immagini collettive nei resoconti di viaggio, UNICOPLI, Milano 1993. 136. Ibidem, p. 23. In bibliografia «A. Potocka» (p. 152). Cfr. Potocka, Comtesse Anna, Voyage d’Italie (1826-1827). Publié par Casimir Stryienski, deuxième édition, Plon, Paris 1899. Anna Tyszkiewicz, di nobile famiglia polacca, era nata nel 1776, aveva sposato l’anziano conte Potocki, nel 1810 si era trasferita a Parigi dove è morta nel 1867. Di lei esiste un bel ritratto eseguito da Angelica Kauffmann. 137. Guglielmo Scaramellini, Paesaggi di carta, paesaggi di parole. Luoghi e ambienti geografici nei resoconti di viaggio (secoli XVIII-XIX), G. Giappichelli Editore, Torino 2008, pp. 73-74, 77, 103-104. 138. Cfr. Luisa Rossi, La rappresentazione del paesaggio alpino nella pratica femminile della montagna, «Geotema», n. 27, IX, 2005, pp. 177-188. 139. Numa Broc, La geografia del Rinascimento, a cura di Claudio Greppi, Panini, Modena 1989, p. 13. 140. Dea Birkett, Off the Beaten Track. Three Centuris of Women Travellers, National Portrait Gallery, London 2004, p. 47. 141. Freya Stark, Le valli degli Assassini, Longanesi, Milano 1983, pp. 11-12. Sulla Stark ha pregevolmente lavorato Carla Gucci, La geografia nel viaggio di Freya Stark, tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, a.a. 1999-2000. 142. Sul viaggio femminile di epoca vittoriana è stato scritto molto da autrici anglofone, sia sul piano teorico che biografico, a partire dal “classico” di Doroty Middleton, Victorian Lady Travellers, Routledge & Kegan Paul, London 1965. 143. Federica Frediani, Ricciarda Ricorda, Luisa Rossi (a cura di), Spazi segni parole.
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Viaggiatrici italiane prima e dopo l’Unità, in corso di preparazione. 144. Per una bibliografia di viaggiatrici di lingua francese cfr. Bénédicte Monicat, Pour une bibliographie des récits de voyage au féminin (XIXe siècle), «Romantisme. Revue du DixNeuvième Siècle», XXII, n. 77, 1992, pp. 95-100. 145. Natalie Zemon Davis ha applicato in modo esemplare lo studio biografico in Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento, Einaudi, Torino 1984; Donne ai margini, Tre vite del XVII secolo, Laterza, Roma-Bari 1996; La doppia vita di Leone l’Africano, cit. Per una sintesi sul tema della biografia cfr. il resoconto di Giulia Barrera, Scuola estiva di Storia delle donne: «Raccontare, Raccontarsi», Pontignano, 26-31 agosto 1991, «Rassegna degli Archivi di Stato», LII/1, Roma, gennaio-aprile 1992, pp. 134-146. 146. Pierre Bourdieu, L’illusion biographique, «Actes de la recherche en sciences sociales», 62-63, 1989, pp. 69-72. 147. Giulia Barrera, op. cit., passim. 148. Constantin-François de Volney, Voyage en Egypte et en Syrie. Oeuvres, tome troisième, Bruxelles, Wahlen, Paris 1823 (seconda edizione). 149. Gli studi su questo aspetto sono stati aperti dal convegno organizzato a Firenze dalla Libreria delle donne nel 1986, tradottosi nel libro Viaggio e scrittura. Le straniere nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Liana Borghi, Nicoletta Livi Bacci, Uta Treder, Libreria delle donne, Firenze-CIRVI, Moncalieri 1988. 150. Lucetta Scaraffia,Viaggiando con le missionarie, in Maria Luisa Silvestre e Adriana Valerio (a cura di), cit. 151. Lorenza Mondada, Relazione di viaggio e scrittura del sapere, in Graziella Galliano (a cura di), Rappresentazioni..., cit., pp. 53-67. 152. Alexander von Humboldt, Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente… Relazione storica, a cura di Fabienne O. Vallino, Palombi, Roma 1986, 3 voll. 153. Lorenza Mondada, op. cit., pp. 53-54. 154. Ibidem, p. 54. 155. Alexander von Humboldt, Relation historique, citato in Lorenza Mondada, op. cit., p. 54, nota. 156. Cfr. Silvia Collini e Antonella Vannoni (a cura di), Le istruzioni scientifiche per i viaggiatori (XVII-XIX secolo), Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux-Edizioni Polistampa, Firenze 1997; Maurizio Bossi, Claudio Greppi, Viaggi e scienza. Le istruzioni scientifiche per i viaggiatori nei secoli XVII-XIX, Olschki, Firenze 2005. 157. Antoine Bailly, Renato Scariati, L’humanisme en géographie, Anthrophos, Paris 1990, p. 156. 158. Lorenza Mondada, op. cit., p. 57. 159. Ibidem, p. 60. 160. Sara Mills, Discourses of Difference. An analysis of women’s travel writing and colonialism, Routledge, London and New York 1991. 161. Bénédicte Monicat, Itinéraires…, cit., p. 5. 162. Ibidem, p. 33. Ciò che manca alla Mondada, della quale peraltro condivido pienamente la griglia metodologica, è la consapevolezza espressa dalla Monicat in modo molto evidente in questi termini: «Essere donna e viaggiare, essere donna e scrivere la storia del proprio viaggio non può essere assimilato senza distinzione a una teoria del viaggio che concerne unicamente l’esperienza di viaggiatori uomini» (p. 6). 163. Ibidem, p. 5. 164. Ibidem. 165. Claire Hancock, op. cit., pp. 168-169.
Parte prima AI MARGINI DELLA GEOGRAFIA
I. La biblioteca nel vascello
Allora Shelmerdine costruiva sul suolo un modello in miniatura del Capo, con qualche ramoscello, delle foglie secche e un paio di gusci di lumaca vuoti. «Qui è il Nord» diceva. «E qui il Sud. Il vento viene da questi paraggi qua. Il brigantino fa vela verso Ovest; abbiamo abbassato or ora il parrocchetto di mezzana; e vedi, qui, dove c’è questo filo d’erba, entriamo nella corrente segnata – dove sono la mia bussola, le mie carte, nostromo? Ah, grazie, benissimo – segnata da questo guscio di lumaca.» Virginia Woolf, Orlando
Nel 1577 usciva a Firenze un doppio trattato, intitolato Del flusso e reflusso del mare e dell’inondatione del Nilo1, scritto in forma dialogica da Girolamo del Borro, nato ad Arezzo nel 1512, laureato in filosofia, medicina e teologia a Padova nel 1535, docente di filosofia nello Studio di Pisa e poi di Siena e Perugia2. L’opera rispecchia l’ambiguità della concezione rinascimentale del mondo, ancora in bilico fra l’impianto aristotelico della visione «generale» (cosmografia), e il realismo della descrizione delle varie parti del globo (geografia). La prima parte, Del flusso…, tratta delle maree, spiegate con l’azione di forze lunari «meccaniche», e della circolazione delle acque continentali, ritenute acque marine che spinte dalla stessa pressione del mare dentro le cavità terrestri, le risalgono finché fuoriescono per tornare ad esso. Nella seconda, il Ragionamento dell’inondazione del Nilo, l’autore, oltre ad illustrare un’accurata geografia dell’Egitto, insiste nello spiegare con i Metereologica di Aristotele il famoso fenomeno dello straripamento3. Dell’opera dell’autore aretino, a colpire maggiormente il mio interesse non è il fascino dell’«esposizione di una cosmologia in cui, entro la consueta struttura aristotelica trovano posto temi e dottrine care alla tradizione araba e neoplatonica»4. Né riguarda da vicino l’argomento del mio lavoro il fatto che il Borro abbia un piccolo posto nella storia del viaggio per essere stato ospite del più precoce autore del viaggio in Italia: Michel de Montaigne. Scrive infatti da Pisa nel 1581 Montaigne nel Journal de voyage: «Mi venne a visitare in casa parecchie volte Girolamo Borro medico dottor della Sapienzia. Et essendo andato a visitarlo il 14 di luglio, mi fece presente del suo libro
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Parte prima
del flusso e reflusso del mare in lingua volgare: e mi fece vedere un altro libro latino ch’avea fatto de i morbi de i corpi»5. Ciò che giustifica la presenza del Borro in questa storia della geografia femminile è l’incredibile entrata in scena delle sue figlie. Nell’introduzione al Flusso e Reflusso, dedicata alla granduchessa di Toscana Giovanna d’Austria, moglie di Francesco I de’ Medici, una dei protagonisti del dotto dialogo, si legge: Quando ammedue le mie figliuole, ad un medesimo parto nate, si furono condotte à quella età, in cui l’altre simili à loro sogliono dar principio all’imparare, io in una Nave ben fornita di quanto bisognava per la comoda vita humana, in compagnia di donne, e d’huomini per gli anni e per gli costumi e per le scienze venerandi molto, e con assai numero di buoni libri, le mandai à solcare il mare: accioche in un tempo medesimo elle vedessero, e leggessero, e udissino tutto quello che del suo ordinatissimo flusso e reflusso era loro possibile vedere, e di leggere, e di udire: havessero anche notitia dell’inondazione del Nilo, e degli altri fiumi, che come il Nilo inondano: però entrate nello Egitto si condussero nelle colonne di Mercurio Trismegisto, nelle quali, con lettere Hieroglifice, erano scritti i primi principij della filosofia che alle mie figliole furo dichiarati dalli Bragmani, huomini scientiati: dalli medesimi furo guidate lungo al Nilo, per lo Egitto inferiore, e superiore, e per la Etiopia, e infino sopra gli altissimi monti della Luna alle prime fontane del Nilo: onde à pieno conobbero le cause dell’inondatione non solamente del Nilo, ma anche del Nero: fiumi, che dalle medesime fontane nascono: Di ciò non contente piegarono il cammino in verso l’Indie, e con Navi a ciò apparecchiate trapassarono il grandissimo fiume Gange, e si condussero alli Ginnosofisti, huomini dotti in quella provincia: e dallo Iarca loro: il quale dopo l’essersi cavato la sete nella fonte di Tantalo, saliva sopra una Cathedra di fin’oro, e sedendo scopriva i nascosti segreti della Natura, fù insegnata loro la cagione dell’inondazione del Tigri, e dell’Eufrate, e del Gange: alli quali, con l’autorità d’Arriano scrittor grandissimo, fu aggiunto l’Indo6.
Il Borro continua affermando che le fanciulle «udirono anche disputare del movimento di molti altri fiumi, e paludi, e laghi, e stagni e pozzi, e fontane, che ò nel medesimo modo, ò in altra maniera, si muovono», notizie delle quali pare essersi servito per dare sostanza alle proprie argomentazioni. Il racconto appare sconcertante anche per chi conosce la particolare personalità di Girolamo Borro, «aristotelico arrabbiato» – come lo definisce lo stesso Montaigne negli Essais – ostinato sostenitore di teorie che lo portarono più volte davanti all’Inquisizione (la cui condanna al rogo evitò per intercessione di cardinali e di papi) e, a quanto pare, padre capacissimo di decidere per le proprie figlie una formazione del tutto singolare. Una formazione, peraltro, assai approfondita, avendo egli «deliberato che queste figliuole pellegrinando si trattenessero tanto, che si conducessero alla matura età, e alla perfetta dottrina».
La biblioteca nel vascello
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Il programma non sarebbe giunto a completa realizzazione. Saputo «non so come» di loro, continua l’autore, la granduchessa chiese di averle al proprio servizio come dame di compagnia. Il padre le richiamò, e dopo le immaginabili affettuose accoglienze le informò del nuovo compito, che esse accettarono «con allegrezza»7. Nel corso della trattazione non si trovano, oltre a quelli presenti nelle pagine introduttive, altri riferimenti alle due giovanissime geografe-esploratrici, tuttavia, mescolate alle puntigliose argomentazioni sulle maree e alle informazioni consolidate derivate dai classici cui l’autore fa ampiamente riferimento, saltano all’occhio alcune osservazioni molto immediate, tipiche del racconto di viaggio. «Le vigne dello Egitto […] d’uve cariche traboccano tanto, che grandissima maraviglia è à vederle»8; «le Città, e i famosi castelli già passarono diciottomila. Al tempo di Tolomeo Lago più di tremila: hora sono assai meno. La moltitudine degli abitatori nello Egitto già fu di settecentomila: hora di poco passano trecentomila»9. Oppure: «già si pigliava il Cocodrillo con ami coperti di carne: hora con reti grosse e con archibusi»10. Dalle pagine più precisamente dedicate alla descrizione esce così un’interessante rappresentazione dell’Egitto che il Borro, dando la parola a uno dei protagonisti del dialoghetto scientifico, afferma essere «una delle più belle, amene e piacevoli, e abitate, e ben poste provincie di tutto il Mondo»11. In particolare, l’attenzione del narratore si sofferma sul Nilo, sui suoi benefici influssi nelle attività umane, sulle coltivazioni praticate lungo le sue rive, sui curiosi animali che le popolano: […] infra gli altri nutrisce il Nilo il Cocodrillo: il quale in terra vive, e in mare […]. Partorisce il Cocodrillo d’intorno alla ripa del Nilo in terra uova piccole come quelle dell’Anatre, e diventa il picciol parto una fiera grandissima […]. Cosa mirabile a vedersi, e a udirsi, è, che picciolo animaletto, non punto maggiore di un Cagnolino, chiamato Cneumone, da se stesso si prende piacere d’andar cercando l’uova del Cocodrillo, e tutte le rompe se le truova: come le ha rotte le lascia; e senza mangiarle allegro ne va cercando dell’altre; e quante ne truova, tante ne rompe: quasi prendendosi diletto di tor via di questa vita fiere à gli huomini nemiche […]. Oltre il Cocodrillo genera e nutre il Nilo una fiera, che in acqua e in terra vive, e è chiamata Cavallo, perché ha quattro piedi, e due orecchie, e la coda, e la voce simile al Cavallo; salvo che l’unghia è in due parti divisa, come quella del Bue, ha tre denti da ogni parte nelle mascelle, grandi, e più distesi in fuora che qual si voglia altra bestia; il resto del corpo non è molto dissimile dal corpo dello Elefante12.
Il medico cinquecentesco derivò queste vivaci descrizioni dalle notizie raccolte dalle sue “inviate”? Saremmo tentati, data la particolare personalità del Borro, di stare al ben congegnato gioco, e credere che egli abbia effettiva-
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Parte prima
mente inviato le figlie sul posto per procurarsi informazioni dirette sulle questioni che lo interessavano; e che, spingendo le giovinette in questa straordinaria avventura, abbia, con assoluta precocità, tracciato le linee di un’educazione femminile prevalentemente geografica e basata sul viaggio. L’immagine del vascello-biblioteca che veleggia verso l’Egitto avendo a bordo le due ragazze, alcune donne che le accompagnano e gli anziani sapienti che le istruiscono è quanto di meglio potevo aspettarmi per dare inizio a un lavoro sulla partecipazione delle donne alla scoperta e rappresentazione del mondo. A stare al racconto del padre, l’itinerario del viaggio compiuto dalle due esploratrici imporrebbe la revisione di qualche pagina della storia del viaggio di metà Cinquecento: esse risalgono il Nilo fino ai monti della Luna e alle (supposte) sorgenti e, «non contente di quanto visto e appreso», si imbarcano su altre navi per raggiungere l’oceano Indiano e il Golfo del Bengala, si spingono a «trapassare» il Gange e giungono «alli Ginnosofisti» dove vengono loro spiegati i segreti della geografia fisico-idraulica. Nonostante il tono assolutamente serio dell’esposizione, si capisce fin dalla prima lettura di essere davanti al classico artificio letterario del viaggio inventato di cui, tuttavia, non è ben chiaro il senso. Ho trovato la spiegazione fra le righe di un raro esemplare del Flusso, una ristampa voluta dal Borro nel 1583. Il testo, di poco diverso da quello della precedente edizione, è corredato di una nuova introduzione. Borro vi riprende il discorso sulle figlie per dire che erano rimaste presso la granduchessa Giovanna con «intera contentezza» fino alla sua morte (avvenuta nel 1578); erano rientrate allora «alle loro case antiche» accolte «con paterno amore»; ma erano subito tornate alla corte fiorentina richiamate da Bianca Cappello con la quale Francesco I si era immediatamente risposato e alla quale Borro dedica la nuova edizione della doppia operetta13. Si scopre qui che le due figlie di Girolamo Borro non sono altro che i due trattati geografici cui l’autore “padre” attese per anni con grandissima cura come dimostrano la reiterata edizione e le due dediche: ce lo rivela il Borro stesso quando, raccontando del rientro a casa delle due “ragazze”, scrive: «nel conversar domesticamente insieme con loro, mi accorsi che in ognuna di loro erano alcune macchie nate, ò veramente dal mio picciol sapere, ò dalla non intiera diligenza degli Stampatori: i quali perché sono huomini, però inclinati all’errare, per diligentissimi che siano, alcuna volta son forzati aggiugnere, scemare, ò mutare alcuna di quelle cose, che lasciate, aggiunte, ò mutate, sogliono fare bruttezza, e mancare di vaghezza, e leggiadria: onde il meglio, che io seppi, mi ingegnai pulire, e tor loro quelle imperfettioni che io conobbi»14. Cade così l’illusione di una cinquecentesca esplorazione femminile dell’Egitto all’incirca contemporanea a quelle del fiorentino Andrea Pitti15 e
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del ligure Pellegrino Brocardo16, esperienze di cui Girolamo Borro, interessato dal suo punto di vista a “temi egiziani” doveva avere avuto diretta o indiretta notizia. Studioso en chambre ma non estraneo a una visione sperimentale della scienza, con la sua invenzione letteraria Girolamo Borro pare voler affermare, almeno dal punto di vista programmatico, la necessità di ancorare la teoria alla verifica sul terreno. Non è dunque difficile capire perché egli abbia recuperato il viaggio come metafora conoscitiva e imbarcato i suoi trattati sul veliero che, del resto, campeggia sul frontespizio del suo libro. Resta tutto da spiegare il genere dei viaggiatori scelti per l’immaginaria esplorazione. Perché inventare due donne in una tradizione del viaggio, reale e archetipico, tutta maschile? Qualche testimonianza riferisce che Girolamo Borro aveva delle figlie. È poi innegabile il suo interesse intellettuale per la figura della donna. A personaggi femminili – le due granduchesse Medici – dedica le sue operette. Sotto lo pseudonimo di Alesforo Talascopio aveva scritto nel 1561 la prima versione del suo doppio trattato dove all’argomento poi sempre ripreso sulle maree seguiva, invece del dialogo sul Nilo, una discussione sulla Perfettione delle donne. Con il nome di Filogenio vi interveniva egli stesso insieme a cinque personaggi femminili metaforici – Lionora, Clarice, Livia, Girolama, Isabellina e Cassandra – per disquisire della superiorità della donna, di amore, di bellezza e armonia femminile in senso morale e in senso fisico. Ancora una volta il trattato era dedicato a una nobildonna: Isabetta Cibo della Rovere marchesa di Massa17. In questa passione dell’erudito per le figure femminili sta forse la chiave dell’invenzione che collega pratiche territoriali, sapere geografico e genere? Un legame che fra Medio Evo ed Età moderna non sembra essersi espresso in casi reali ma esclusivamente sul piano simbolico. La cultura geografica rinascimentale, come lo stesso Borro dimostra, procede a partire da una sintesi fra tradizione medievale e recupero della classicità. Questo accade anche a livello di simbologie ed allegorie cartografiche. Nelle carte disegnate dopo la scoperta del Nuovo Mondo troviamo gli elementi sia realistici sia mostruoso-fantastici della iconologia medievale ma anche i riferimenti ai miti del mondo classico. Le rappresentazioni dell’ecumene esplosa oltre il cerchio del fiume Oceano riportano figure di navi, rose dei venti, stemmi, notizie, paesaggi, lunghe legende esplicative insieme ad allusioni fantastiche e mitologiche. Progressivamente, via via che la carta diventa “oggettiva” e geometrica, la simbologia leggendaria è espulsa dalla carta e gli elementi estranei al disegno topografico, che restano – perché i nuovi globi, atlanti e carte non cessano di essere specchio della cultura a cui appartengono e veicolo di ideologie – tendono a raggiungere margini e frontespizi18.
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Soprattutto qui si concentra, insieme a nuovi messaggi, la tradizione allegorica e metaforica antica dei continenti-donna che ha generato il mito immortale (ancora ai nostri giorni continua a trovare interpreti) di Europa19. Abramo Ortelio, che nel 1566 pubblica anche una carta dell’Egitto, forse non ignota al Borro, fa uscire nel 1570 la prima edizione del suo celebre Theatrum Orbis Terrarum dove i quattro continenti sono raffigurati, in sintonia con il loro nome femminile, come fanciulle: una dominante e riccamente abbigliata Europa con i segni del comando temporale e religioso nelle mani, una civile Asia portatrice di incensi, un’opulenta e ambrata Africa poco vestita, una giovanissima America completamente discinta20, allegorie ripetute nel Seicento da Mercatore, da Blaeu e altri. Ma esiste un altro filone di femminilizzazione geografica: quello della tradizione delle carte somatopiche che attraversa i secoli XIV, XV e XVI (e oltre21). Nel 1335 Opicinus de Canistris disegna per la corte papale di Avignone la carta di un’Europa-Madre Chiesa le cui sembianze femminili, più che mai evidenti nel “viso” della Hispania, sono doppiamente giustificate22. Ancora una carta somatopica dell’Europa Regina è incisa nell’edizione della Cosmografia Universalis di Sebastian Müntzer pubblicata a Basilea nel 15501554, edita più volte. L’assai meno noto Nicolas de Lorraine disegna verso il 1536-1538 una Provence en figure de femme: la carta della Provenza con la sua forma e suoi segni topografici (fiumi, montagne, insediamenti) è una morbida coperta appoggiata sul corpo disteso di una donna dormiente23. La tradizione dei territori-femmina non investe soltanto lo specifico campo della cartografia. Essi trovano ampio spazio in un’opera di grande fortuna, la Iconologia del perugino Cesare Ripa, che esce a Roma a fine Cinquecento e si diffonde in numerose edizioni per tutto il Seicento tuttavia costruita, come recita il titolo originale, sulle Imagini universali cavate dall’antichità e da altri luoghi. La Iconologia raffigura come donne le “Parti del mondo” (al solito preziosamente vestite l’Europa e l’Asia e seminude l’Africa e l’America)24, l’Italia e le varie regioni della nostra penisola. La Toscana del Ripa «bellissima donna di ricchi panni vestita, sopra de’ quali haverà il manto del Gran Ducato di velluto rosso foderato di armellini […]», raffigurata con le sue doti di «salubrità d’aere e di fertilità di terre per essere abbondante di Mari, Porti, Fiumi, Fonti, Giardini, ben piena di Città celebri, e grandi, e sontuosissimi edifitij»25 è senz’altro in sintonia con lo spirito di Girolamo Borro26. Quanto alla Terra tutta, Ripa la descrive come «una Matrona a sedere, vestita d’abito pieno di varie herbe e fiori, con la destra mano tenghi un globo, in capo una ghirlanda di fronde, fiori e frutti, e dei medesimi ne sarà pieno un corno di dovitia, il quale tiene con la destra mano, e a canto vi sarà un Leone, e altri animali terrestri»27 e come «donna con Castello in capo, e con una torre,
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nelle mani tenga diverse piante, il vestimento sarà di tané, con una sopraveste di color verde»28. Estromesse dallo studio e dalla pratica della scienza geografica, assenti dall’esplorazione della Terra, le donne ne sono paradossalmente simbolo di grande evidenza in una Imago Mundi rinascimentale destinata a perdurare. Note 1. Girolamo Borro Aretino, Del flusso e reflusso del mare & dell’inondatione del Nilo, Giorgio Marescotti, Firenze 1577. Stessi autore, titolo ed editore nella ristampa del 1583, poco diversa dalla precedente. Le due pubblicazioni seguivano a un’altra opera del Borro, in parte sullo stesso tema: Dialogo del flusso e reflusso del mare d’Alseforo Talascopio. Con un ragionamento di Telifilo Filogenio della perfettione delle donne, il Busdragho, Lucca 1561. Ringrazio Zeffiro Ciuffoletti della segnalazione della figura del Borro. 2. Dizionario biografico degli Italiani, voce Borri (Borro, Borrius) a cura di G. Stabile, vol. VIII, Istituto della Enciclopedia Italiana-Società Grafica Italiana, Roma 1971, pp. 13-17. 3. Ibidem. 4. Ibidem. 5. Michel de Montaigne, Viaggio in Italia, Laterza, Bari 1991, p. 309. 6. Girolamo Borro, Del flusso…, cit., ed. 1577, pp. 2-3. 7. Ibidem, p. 4. 8. Ibidem, p. 193. 9. Ibidem, p. 185. 10. Ibidem, p. 194. 11. Ibidem. L’intera descrizione dell’Egitto occupa le pp. 183-195; segue la dissertazione scientifica. 12. Ibidem, pp. 193-195. 13. Girolamo Borro, Del flusso…, cit., ed. 1583, pagine introduttive. 14. Ibidem. 15. E. von Berger, Andrea Pitti. Tre viaggi in Egitto, Firenze 1893 (citato nel dizionario di Zavatti). I viaggi del Pitti risalgono al 1541-1555. 16. Su Brocardo, in Egitto nel 1556, cfr. Gigliola Fragnito, Verso quali origini: il viaggio di Pellegrino Brocardo, in Id., In museo e in villa. Saggi sul Rinascimento perduto, Arsenale Editrice, Venezia 1988, pp. 109-158. 17. Girolamo Borro, Dialogo…, cit. 18. Alcuni aspetti di questo argomento stanno in Numa Broc, La geografia del Rinascimento, a cura di Claudio Greppi, Panini, Modena 1989, pp. 31-33. Sugli elementi cosiddetti decorativi della carta nella loro versione femminile si veda qui anche il capitolo Ai margini della carta. È inoltre in coso un mio specifico studio i cui primi risultati ho presentato al convegno internazionale «Conoscere il Mondo. Vespucci e la Modernità», Firenze, Palazzo Vecchio, 28-29 ottobre 2004. Cfr. Luisa Rossi, Il corpo come metafora. Iconologia femminile geocartografica, «Memorie Geografiche», n.s., 5 (2005). 19. AA.VV. Il mito di Europa da fanciulla rapita a continente, Giunti, Firenze 2002 e Luisa Passerini, Il mito d’Europa. Radici antiche per nuovi simboli, Giunti, Firenze 2002. 20. Segni e sogni della terra. Il disegno del mondo dal mito di Atlante alla geografia delle reti, De Agostini, Novara 2001, p. 98. Sulla nudità come preteso simbolo di inciviltà cfr. Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Einaudi, Torino 1992, pp. 41-43.
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21. Espressione interessante di questa tradizione sono la serie di figure di stati europei disegnati da William Harvey nel 1869. Cfr. Darby Lewes, The Female Landscape, «Mercator’s Word», gennaio-febbraio 1999, pp. 38 e 40. 22. Ibidem, p. 34. Sul tema cfr. il più ampio studio dello stesso autore: Darby Lewes, Nudes from Nowhere. Utopian Sexual Landscapes, Rowman & Littlefield, Lanham 2000. 23. Bibliothèque Nationale de France, Département des Manuscrits, Français, 5694. 24. Cesare Ripa, Iconologia, a cura di Piero Buscaroli, prefazione di Mario Praz, TEA, Milano 1992, pp. 295-302. 25. Ibidem, 210-211. 26. La prima edizione della Iconologia è del 1592 (non illustrata); segue la versione illustrata del 1603. Non è compito di questo studio approfondire eventuali contatti fra Borro e Ripa, sta di fatto che gli spazi e i tempi in cui si mossero furono in parte gli stessi. Girolamo Borro aveva vissuto alcuni anni a Siena, come il Ripa, e gli ultimi anni della vita a Perugia, la città del Ripa, dove Borro era morto proprio nel 1592. Ibidem, p. XIV. 27. Ibidem, p. 114. 28. Ibidem, p. 115.
II. La storia della monaca alfiere: esperienza vissuta o viaggio immaginario?
Là seduto davanti a un boccale […] prestava ascolto alle storie che i marinai narravano delle miserie, degli orrori e delle crudeltà delle terre di Spagna, e come taluno avesse perso l’alluce, tal altro il naso. Poiché la storia parlata non era mai così gentile, né attenuata di vari colori come la storia scritta. Particolarmente gli piaceva sentirli berciare le loro canzoni delle Azzorre, mentre i pappagalli, che da quelle parti avevano portato, beccavano le anella ai loro orecchi, picchiavano il duro becco di rapace ai rubini che recavano alle dita, e bestemmiavano altrettanto grossolanamente quanto i loro padroni. Virginia Woolf, Orlando
Donna quasi sempre in abiti maschili, monaca impegnata in azioni di guerra piuttosto che nelle pratiche religiose, Catalina de Erauso è una delle figure femminili più controverse del Siglo de Oro1. Basca di nascita, trascorse molti anni in America ma la sua vicenda, diversamente da quella delle molte ispaniche che dalla scoperta in poi si trasferirono nel Nuovo Mondo, si identifica meglio in una lunga esperienza di viaggio piuttosto che di emigrazione2. Del viaggio reale l’avventura della Erauso ha le caratteristiche fondanti: la partenza, un ampio percorso nel territorio “altro”, il ritorno e, con il ritorno, il racconto: la Historia de la Monja Alférez escrita por ella misma3. Lo scritto si sviluppa come testo itinerario nel Vicereame del Perù di primo Seicento e tuttavia non può essere considerato un vero e proprio resoconto di viaggio. Si tratta di un memoriale autobiografico piuttosto breve (ma un vero rompicapo dal punto di vista filologico, e per questa ragione oggetto di numerosi studi da parte di ispanisti4), essenzialmente giocato sulla narrazione di vicende personali che incarnano lo spirito paradossale del barocco. Non si trovano in questo testo descrizioni pittoresche né osservazioni naturalistiche, geografiche o sociali. L’intenzione della viaggiatrice non è quella di esplicitare contenuti di questa natura però in parte lo fa, dal momento che essa stessa si colloca in uno spazio e in un tempo determinati. Non è semplice dar conto della gran quantità di testi manoscritti e a stampa attribuiti alla Erauso o aventi come tema la sua bizzarra Historia dal Seicento fino alla fondamentale edizione parigina del 1829 e oltre5. È poi questione non ancora risolta se e di quale documento Catalina de Erauso sia sta-
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ta effettivamente autrice. La sua formazione in convento («leggevo bene il latino», ci dice6) e altre fonti la indicherebbero alfabetizzata. Non essendo ancora stato ritrovato il manoscritto primitivo della Historia non si può escludere che la Erauso abbia dettato ad altri le sue memorie o, ancora, che qualche contemporaneo si sia documentato sul suo peraltro celebre viaggio e lo abbia messo per iscritto in prima persona7. L’incertezza riguardante il testo non va invece estesa all’esistenza storica della Erauso e alla veridicità del viaggio anche se è comprensibile che la sua «autobiografia epica faccia dubitare della sua esistenza reale»8. La storia delle relazioni di viaggio di grande popolarità ci ha insegnato, come osserva Numa Broc, che «i lettori non fanno sempre distinzione fra viaggi reali e viaggi immaginari. Così si considera spesso il Milione di Marco Polo un repertorio di favole e di meraviglie mentre le fantasie di John Mandeville sono prese sul serio»9. Non basta, per spiegare l’eccezionalità della vicenda americana di Catalina, rifarsi alla storiografia della conquista ove si dice che per le spagnole trasferite nelle colonie del Nuovo Mondo, la quotidianità non consentiva stili di vita molto femminili e che non di rado le donne intervenivano a fianco degli uomini nei combattimenti contro gli indigeni. Fra i casi più conosciuti, quelli di Isabel de Guevara arrivata nel 1536 in America per partecipare alla spedizione di Pedro de Mendoza nell’area rioplatense, di Inés Suárez compagna di Valdivia nella conquista del Cile e di Maria de Estrada che lottò a fianco di Cortés in terra messicana10. I modi in cui si esplicano la partenza e la permanenza in America di Catalina de Erauso vanno ben oltre l’avventurosa normalità delle donne dei conquistadores. Catalina intraprende il suo viaggio da sola, celata in ruolo e abito maschili e non ha sicuramente in testa l’idea di andarsi a trovare in America un marito o una buona posizione. La sua esperienza si svolge come continuo pericolo e come esercizio di una libertà che non è condizionata da alcun progetto e da alcuna regola sociale o morale. Durante il viaggio conosce tutti i mestieri: grazie alla rete di biscaglini stabiliti oltre Atlantico diviene mercante, soldato, maggiordomo, pastore. Conosce la sete nel deserto del Cile, la fatica sugli altipiani della Cordigliera, la guerra contro gli indiani a Valdivia o sul mitico Río Dorado. È senza sosta in cammino in cerca di nuovi orizzonti. Ad ogni tappa, lascia dietro di sé risse, duelli, cadaveri. In un’epoca in cui il protagonismo delle donne è praticamente nullo Catalina vive invece platealmente, un po’ da picaro e un po’ da eroe in battaglia. Da una parte evoca figure di vagabondo come quella di Lazarillo de Tormes, consuete nella letteratura ispanica, d’altro canto, come mujer guerrera, richiama miti geografici classici trasmigrati con fortuna in quel territorio franco e regno dell’immaginazione che è il Mundus Novus. Le carte e le cronache
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della scoperta e della conquista hanno popolato l’America di amazzoni che fanno la loro apparizione nella mappa di Martin Behaim. Nel suo primo viaggio Colombo vede nell’isola di Matinino soltanto donne. Pietro Martire colloca amazzoni nelle Antille e il frate Gaspar de Carvajal scrive delle gigantesche donne guerriere viste da Orellana nella sua esplorazione del Rio giustamente chiamato delle Amazzoni e di quelle da lui stesso incontrate che in una battaglia gli procurarono la perdita di un occhio11. Gente governata da una «Giganta» popolava un’isola della California secondo quanto si trova scritto nel memoriale di Cadorna derivato dalle relazioni di Jerónimo Márquez e Francisco Vaca12. Sir Walter Raleigh, sbarcato con le navi inglesi nel 1595 a Trinidad per conquistare alla corona d’Inghilterra i territori spagnoli scrive con dovizia di particolari delle sanguinarie donne che restavano sistematicamente incinte in aprile e perfino l’accademico di Francia la Condamine in viaggio scientifico (1743) si convincerà della loro esistenza13. Si dovrà giungere a Humboldt per vedere sgombrato il campo da queste fantasie14. Niente di strano quindi che l’imponente e combattiva monaca-alfiere appaia al lettore della Historia personaggio letterario e mitico e che siano sorti dubbi non solo sulla autenticità del suo scritto ma anche sulla sua effettiva esistenza. Il fatto è che negli archivi iberici le tracce della sua esistenza reale sono numerose e una valida testimonianza è di facile riscontro, essendo contenuta nellle lettere-diario di un nostro viaggiatore, Pietro Della Valle, detto «il Pellegrino», contemporaneo di Catalina: Allì 5 giugno. Venne per la prima volta in casa mia l’Alfiere Caterina d’Arcusio Biscaina, venuta di Spagna & arrivata in Roma appunto il giorno innanzi. Era costei una donzella d’età d’hallora di trentacinque in quarant’anni in circa, la qual da fanciulla in Biscaglia suo paese, dov’era ben nata, s’era allevata in Monasterio […]. Io sapeva già di lei nell’India Orientale, dove n’haveva sentito parlare, che fin là era arrivata la sua fama, e più volte ne haveva desiderato particolare informatione; onde essendo venuto a Roma il Padre Roderigo di San Michele, Agostiniano scalzo mio amico […], che sapeva questo mio desiderio, & era arrivato in Roma per via di Venetia molti giorni prima di me, ricorrendo ella a lui subito arrivata a Roma, come a suo paesano, egli è stato che me l’hà condotta in casa, dove ragionando insieme buona pezza, mi raccontò diversi accidenti suoi strani, che l’erano incontrati nel corso della sua vita, de’ quali mi è bastato riferir qui solamente li più importanti, e più certi, come di persona rara a tempi nostri. Io poi l’hò fatta conoscere in Roma a diverse Dame, e Cavalieri, de’ quali assai più, che delle donne amava la conversazione. Il Signor Francesco Crescentino, che sa dipingere molto bene, l’hà ritratta di sua mano. Ella è di statura grande, e grossa per donna, che non si può per quella conoscere, che non sia huomo: non ha petto che da giovinetta, mi disse di aver fatto non so che rimedio per farselo seccare, e restar quasi piano […]: di viso non è ingrata, ma non bella, e si conosce esser strapazzata alquanto, & horamai d’età, e co i capelli negri, e corti da huomo con un poco di
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zazzeretta, com’hoggi s’usa; rappresenta in effetto più un Eunucho, che una donna: Veste da huomo alla Spagnuola, porta la spada, ben cinta, e così anche la vita; ma la testa bassetta alquanto; è come un poco aggobbatella, più tosto da soldato stentato, che da cortegiano che vada su l’amorosa vita. Alla mano solo si può conoscere essere donna, che l’ha pienotta, e carnosa, e forte, e la muove ancora donnescamente alquanto15.
Oltre a fornire queste preziose notizie, Della Valle riassume i dati più salienti, «e più certi», della avventurosa vita della Erauso. Le affermazioni del Della Valle – l’occasione precisa in cui conobbe la Erauso, la sua qualifica di alfiere, la disinvoltura con cui essa portava la spada, la provenienza, la fama americana da cui era circondata e che sembra addirittura aver fatto il giro del mondo («fino alle Indie Orientali») la descrizione della figura e dell’abbigliamento, l’età anagrafica – concordano in gran parte con quanto si apprende dal diario di viaggio della Erauso. Messe a confronto con la documentazione d’archivio, le notizie autobiografiche contenute nel diario rivelano qualche discrepanza; probabilmente Catalina descrisse le sue vicende come «memoriale di servizio», documento con cui si sosteneva una richiesta economica o di promozione sociale, una sorta di “curriculum” che Catalina può avere aggiustato alla bisogna e che in effetti le fece ottenere il risultato voluto. Nella Historia Catalina racconta di essere nata da una famiglia di piccola nobiltà nel 1585, il certificato di battesimo riporta invece la data del 159216. Nessun dubbio sulla sua città di origine, San Sebastián, porta iberica di quel cammino per Santiago che, se ispirò alla piccola religiosa il senso del viaggiare, non fu certo quello del viaggio pellegrinale e penitenziale. Collocata a quattro anni in un convento di monache domenicane, a quindici ne era fuggita. Subito travestita da uomo (una identità non del tutto estranea alla sua personalità, e difatti scrive il suo diario in parte al femminile e in parte al maschile) per tre anni aveva girovagato attraverso le strade e i villaggi di Spagna, sola o con l’occasionale compagnia dei mulattieri incontrati per via, dormendo all’aperto o in modeste locande, sostando a lungo nelle città dove si procurava da vivere servendo qualche signore locale oppure rubacchiando. Solo in prima battuta l’esperienza di Catalina de Erauso può essere assimilata a quel «viaggio di fuga» che Maria Serena Mazzi ha così ben descritto a proposito di tante disgraziate donne “marginali” di epoca bassomedievale. Viaggio vissuto «essenzialmente come strumento per modificare l’esistente», da parte di donne che hanno già alle loro spalle un atto di trasgressione, un fallimentare atto di evasione, o la rottura di un patto, la disobbedienza a un sacro impegno. «Fughe da un luogo di segregazione, sia un monastero, sia un postribolo […] per unirsi a un gruppo di mendicanti, di zingari, di girovaghi che non faranno domande e accoglieranno tra le proprie
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fila la fuggitiva» finché essa riuscirà a raggiungere il mare «eccellente via di fuga se si riusciva a corrompere qualche marinaio o a convincere il capitano di una nave a prenderti a bordo […]»17. L’esperienza di Catalina de Erauso sembra rispondere solo in parte a questo modello. Certamente la giovane monaca vuole cambiare la propria esistenza, ma la sua fuga dal convento appare meno necessaria, la sua scelta più consapevolmente deliberata, il suo indugiare per tre lunghi anni per le strade della Spagna contrasta con l’andare furtivo e ansioso delle disgraziate di cui parla la Mazzi, terrorizzate dal rischio di essere riconosciute e catturate (e, dato l’imperversare dell’Inquisizione, al tempo di Catalina i timori non avrebbero dovuto essere meno angoscianti di quelli che avevano attanagliato quelle donne). Infine, se è vero che anche per la Erauso l’orizzonte è il mare, esso non costituisce l’agognata conclusione del viaggio, come nel viaggio di fuga, ma l’inizio, come, invece, nel viaggio di avventura e di scoperta. Catalina de Erauso non spiega come sia maturata in lei l’idea del viaggio in America ma non è difficile figurarsi da quali e quanti racconti poteva rimanere influenzato l’immaginario di un girovago nella Spagna di fine Cinquecento e nel suo affollato mondo di strada. Oltre le notizie filtrate nel convento attraverso i missionari, le informazioni sul Nuovo Mondo arrivate a Catalina dovevano essere quelle diffuse nelle taverne, nelle piazze e nelle strade della penisola dagli avventurieri, dai mercanti e dai marinai che facevano la spola fra il vecchio e il nuovo continente. «Il pubblico conobbe l’America tanto per mezzo di conversazioni che di letture. Il ruolo della diffusione orale che fu, senza alcun dubbio, capitale, sfugge quasi totalmente alle nostre ricerche. Possiamo tuttavia cogliere attraverso i rapporti delle spie, l’interrogatorio dei marinai e i testi amministrativi, quelle che potevano essere le notizie che correvano nei porti»18. Il grande viaggio di Catalina ha inizio nel 1603, quando a Sanlúcar de Barrameda, abituale porto per “l’India”, si imbarca come mozzo in un galeone diretto a Punta de Araya e Cartagena. Malgrado la straordinaria novità del paesaggio e di tutto quanto la circonda, Catalina non spende una parola per questa città portuale, nodo della Carrera de Indias, che sappiamo dal mercante fiorentino Francesco Carletti, più o meno contemporaneo di Catalina, essere stata «popolatissima e ripiena d’ogni cosa necessaria al vivere […] e non ve ne mancano dei fruttieri che sempre producono fiori o frutti d’ogni tempo, perché sempre regna state o primavera e non mai inverno né altra stagione cruda»19. Poco prima che la nave, caricato l’argento, salpi per rientrare a Cadice, Catalina sottrae con l’inganno al capitano una somma di denaro e si dà alla fuga. L’itinerario per mare e per terra che ne segue, lunghissimo per gli spazi e i tempi, si dipanerà attraverso gli attuali Panamà, Colombia, Ecuador,
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Perù e Cile fino alla meridionale Valdivia per poi toccare, al ritorno, anche Argentina e Bolivia e, di nuovo, Perù e Colombia. Fin dal 1539 l’intero paese Inca era entrato sotto la dominazione spagnola, ma una sessantina d’anni dopo, all’epoca della viaggiatrice, esistevano ancora numerosi focolai di ribellione. Il diario della Erauso riporta diversi episodi in proposito ed è infatti combattendo contro gli amerindi che la ex monaca si guadagnerà il titolo di alfiere e la pensione20. Particolarmente insicuri erano i territori cileni a sud del Río Maule, tradizionale confine fra l’impero incaico e i popoli araucani, cacciatori e raccoglitori nomadi che hanno continuato per secoli ad opporre fiera resistenza al dominio spagnolo e alla conversione. Ai conquistatori si erano infatti subito accompagnati i missionari: francescani, domenicani, agostiniani e monaci dell’ordine della Mercede la cui presenza è ripetutamente segnalata nel racconto della Erauso21. Una geografia della fuga Dei ventisei capitoletti che compongono la Historia, a parte il primo nel quale la Erauso sintetizza la propria biografia dalla nascita al momento della partenza per le Indie, gli altri sono scanditi come tappe: Catalina si fa allora “topografa” e registra porti, città appena fondate, villaggi tradizionali, percorsi, distanze, tempi e mezzi con cui si sposta. Si è detto che il racconto di Catalina non vuole essere descrittivo: qualche squarcio paesistico-territoriale si apre nella trama delle incredibili vicende vissute dalla monaca-alfiere ma ciò che emerge soprattutto è la realtà sociale dell’America della conquista, il coacervo di personaggi e figure che popolano i radi centri disseminati nei grandi spazi vuoti come le prime carte che li rappresentano: uomini di chiesa e di governo, soldati e mercanti, indios pacifici o ribelli, schiavi neri e ragazze da maritare. Sullo sfondo, l’origine di tutti i conflitti: l’oro. Di Lima da poco fondata, riflesso simbolico e concreto delle mitiche ricchezze peruviane, la Erauso scrive: Partito da Trujillo e percorse più di ottanta leghe, entrai nella città di Lima, capitale dell’opulento regno del Perù che comprende centodue città, senza contare molti villaggi, ventotto tra vescovati e arcivescovati, centotrentasei procure e le rappresentanze reali di Valladolid, Granada, Charcas, Quito, Cile e La Paz. Lima ha un arcivescovo, una cattedrale simile – ma non così grande – a quella di Siviglia, con cinque gerarchie, dieci canonici, sei congrue intere e sei a metà, quattro arcipreti, sette parrocchie, dodici conventi di frati e monache, otto ospedali, un eremo, un tribunale d’inquisizione, (l’altro sta a Cartagena), una Università. Ha un vicerè, e l’Audiencia reale che governa su tutto il resto del Perù, e altre grandiosità22.
L’attenzione prevalente a riconoscere con precisione “statistica” l’organizzazione del presidio istituzionale e religioso che gli spagnoli hanno im-
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postato in terra americana sul modello della madrepatria è in sintonia con gli episodi violenti vissuti e raccontati senza emozione: «Stavamo sempre con le armi in pugno, per il gran numero di indios che vi erano […]»23. «In uno di questi scontri mi battei contro un capitano indio fattosi cristiano […]; gran bel soldato, ma ci teneva continuamente in allarme […]. Lo feci impiccare ad un albero […]»24. «Dovunque andammo, in sei mesi, distruggemmo piantagioni e incendiammo seminati»25. Nello scontro fra spagnoli e indigeni, la scelta di campo di Catalina non mostra esitazioni. Il diario rappresenta ogni avvenimento, anche il più crudo, con ostentato distacco; il benché minimo moto di simpatia e di pietà per le popolazioni locali è assente. Quando Catalina compie la sua esperienza americana è passato un secolo dal quarto viaggio dell’Ammiraglio e la transizione dall’ideologia assimilazionista (che presupponeva nei confronti degli indiani un’eguaglianza di principio) all’ideologia schiavista (affermazione della loro inferiorità), già presente in Colombo26, era ampiamente consolidata e Catalina non fa eccezione. Non la colgono i dubbi che dovevano avere angosciato cinquant’anni prima Gerolamo Benzoni, ricordato da Humboldt proprio per la «sensibilità poco comune agli storici del tempo» con cui egli aveva descritto gli esempi di crudeltà dei quali era stato testimone partecipando, nel 1542, alle spedizioni organizzate «per fare razzia degli infelici indigeni»27. Anche la descrizione delle difficoltà incontrate nel percorso andino di ritorno, da Concepción a Tucumán, è stringato resoconto, non indulge al commento: Iniziai a camminare lungo la fascia costiera, incontrando molte difficoltà e scarsità d’acqua, di cui quella zona era completamente priva […]. Proseguimmo sull’alto della cordigliera, avanzando per trenta leghe senza trovarvi mai, nemmeno nelle altre trecento che percorremmo, un boccone di pane e rare volte l’acqua; alcune erbacce, piccoli animali, poche radici con cui sfamarci, e qualche indio in fuga. Dovemmo sopprimere uno dei cavalli e farne carne secca […]. Entrammo in una zona fredda, tanto fredda che gelavamo […]. Riposai un poco, poi mi rialzai e ripresi a camminare: pare che uscii dal regno del Cile ed entrai in quello di Tucumàn, lo capii dall’aria più dolce28.
A Tucumán Catalina resta per un breve periodo in una ricca fattoria appartenente a una donna: l’annotazione conferma il ruolo sociale che le donne ispaniche o di discendenza spagnola ebbero nelle nuove terre, ruolo per loro impensabile in patria29. Catalina precisa che questa proprietaria era «figlia di uno spagnolo e di una india», quasi a rimarcare il processo di integrazione che costituisce effettivamente un aspetto peculiare della storia della conquista30. Il viaggio prosegue per Potosí, «andando per oltre tre mesi attraverso lande fredde e desolate», e registra diverse digressioni, andirivieni e lunghe per-
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manenze. Sono questi – Tucumán, Potosí, Charcas31 – vaste e impervie regioni poste fra Argentina settentrionale, Bolivia, e Perù. I territori più inesplorati dell’America meridionale dalla metà del Cinquecento sono solcati da bande di spagnoli alla ricerca delle favolose terre – il paese di Ophir che forniva a Re Salomone spezie, avorio e oro, o il suo omologo regno di César – che lo stesso Colombo aveva trasferito nel Nuovo Mondo e che l’avida fantasia dei conquistatori aveva sintetizzato nell’Eldorado. Il mitico paese dai molti nomi e dalle molte ubicazioni ha caratteristiche “ambientali” ben identificate: una grande laguna (o un fiume) che bagna il territorio ricchissimo di prezioso metallo e svuotato di abitanti, il clima paradisiaco32. Anche nella “geografia positiva” della Erauso l’Eldorado si presenta in queste forme. Catalina racconta di avere partecipato in prima persona alla spedizione «contro i Chuncos dell’Eldorado, popolo di indios guerrieri a cinquanta leghe da Potosí, la cui terra era ricchissima di oro e di pietre preziose»33. La battaglia a cui partecipa Catalina non sembra diversa da quelle che si vanno combattendo da un cinquantennio e che evocano presenze sanguinarie come Lope de Aguirre, anche se nel racconto della donna la crudele corsa all’oro della guarnigione in cui si è arruolata sembra esitare un istante, catturata dalla memoria del paesaggio iberico e dalla fame: Partiti da Potosì contro i Chuncos, giungemmo a un villaggio chiamato Arzaga, abitato da indios pacifici, dove restammo otto giorni. Reclutammo guide per il cammino, tuttavia ci perdemmo, e ci trovammo in serio pericolo su dei lastroni di pietra da cui precipitarono cinquanta mule, cariche di viveri, e dodici uomini. Addentrandoci nella zona scoprimmo delle pianure piene di un’infinità di mandorli come quelli spagnoli, di oliveti e di alberi da frutta. Il governatore avrebbe voluto seminare per supplire alla mancanza che avevamo di viveri, ma la fanteria non volle farlo dicendo che non eravamo venuti per seminare ma per conquistare e prendere oro […]. Andammo avanti e il terzo giorno scoprimmo un paese di indios […]. Ci buttammo su di essi con una rabbia spaventosa: la strage che seguì fu tale che in fondo alla piazza correva un rivolo di sangue come un ruscello, e li inseguimmo massacrandoli fino al fiume Dorado. Qui il governatore ci ordinò di ritirarci, ma lo facemmo malvolentieri, perché nelle case del luogo avevamo trovato più di sessantamila pesos in polvere d’oro, e sulla riva del fiume ancora di più, tanto da riempire i cappelli. Sapemmo poi che la bassa marea, alla luna calante, ne lascia sul greto più di tre dita34.
Nell’avventura di Catalina la corsa all’oro è solo un episodio. A Charcas la Erauso trova il modo di andare da una provincia andina all’altra accettando l’incarico di comprar grano nelle pianure di Cochabamba, trasportarlo ai mulini e portare la farina a Potosì. Per questa attività le affidano – dice – più di cento indios e diecimila capi di lama, animali estranei agli europei che avevano colpito qualsiasi viaggiatore ma verso i quali Catalina non mostra alcuna curiosità35.
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Di Cuzco, l’antica capitale degli incas la cui magnificenza aveva sbalordito gli spagnoli che avevano potuto vederla prima dell’incendio che nel 1535 l’aveva quasi completamente distrutta36, Catalina non sembra trovare altro da evidenziare che la consueta capillare organizzazione ecclesiastica e civile importata dai colonizzatori confermandoci i limiti di uno sguardo riduttivamente “statistico”. Arrivai a Cuzco, città che non riconosce la superiorità di Lima, né come ricchezza, né come persone; sede vescovile, consacrata la sua cattedrale all’Ascensione di Nostra Signora, servita da cinque diaconi, otto canonici, otto parrocchie, quattro conventi di frati francescani, domenicani, mercedari e agostiniani; quattro collegi, due conventi di monache e tre ospedali37.
Il viaggio prosegue a cavallo in direzione di Lima, scandito sul territorio come nella mappa mentale della donna-soldato dalle tappe via via attese e superate: il ponte sul fiume Apurimac, confine della giurisdizione di Cuzco; Andahuilas; Huancavélica; il passaggio sul fiume Balsas; Huamanga: Entrai a Guamanga dove trovai alloggio in una locanda […]. Uscii per dare un’occhiata alla città che mi parve graziosa, con begli edifici, i più belli che vidi in Perù. Vidi tre conventi, di francescani, mercedari e domenicani: uno di monache, un ospedale: moltissimi indigeni, molti spagnoli; ottimo clima di pianura, né freddo né caldo; abbondanti raccolti di grano, uva, frutta e sementi; una bella chiesa con due arcidiaconi e un santo vescovo agostiniano, fra’ Augustín de Carvajal, che fu la mia salvezza38.
Huamanga, in territorio peruviano, rappresenta la tappa “fatale”. Arrestata dopo un’ennesima rissa, la Erauso confessa la propria identità all’esterefatto vescovo della città. «Non si stupisca se la sua diversità mi provoca dei dubbi», le dice il prelato, già interprete dell’incredulità che accompagnerà per sempre il personaggio. Poi la perdona, la convince a indossare di nuovo le vesti di religiosa e la invia in convento, prima a Huamanga e poi a Lima dove Catalina risiede fra il 1622 e il 1624. Ciò che le sue memorie registrano di questo periodo riguarda essenzialmente la notorietà acquisita: la voce delle sue imprese era «corsa dappertutto» e grandi folle venivano a visitarla; «coloro che mi avevano conosciuto prima, e gli altri che presto o tardi seppero la mia storia in tutte le Indie, si meravigliarono», racconta39. Ottenuto il permesso di rientrare in Spagna, Catalina lascia Lima per Bogotá. Seguendo il cammino tracciato lungo il Río Grande de la Magdalena raggiunge Zaragozza e, per via fluviale, Tenerife. Il lunghissimo viaggio termina a Cartagena dove nello stesso 1624, dopo ventuno anni dalla partenza, Catalina de Erauso si imbarca per Cadice.
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Durante il ritorno Catalina avrebbe iniziato a scrivere, parlando di sé quasi sempre al maschile, il racconto delle sue memorie che si conclude a Napoli il 5 luglio 1626. Dopo il rientro in patria l’inquieta monaca-alfiere era infatti ripartita per recarsi dal papa e le ultime pagine del diario riferiscono della partenza in nave da Barcellona, delle soste a Genova e a Roma e della visita a Urbano VIII. Non parla, invece, dell’incontro, avvenuto in quell’occasione, con Della Valle ma, va detto, il resoconto non indulge mai a dettagli dal suo punto di vista poco rilevanti. La Historia della monja alférez, piccolo capolavoro nel suo genere, è una somma di ambiguità: l’effettiva esistenza della Erauso di fronte al mito che avvolge la sua vita e la sua morte40; la certezza del viaggio e l’incertezza dell’identità di chi lo abbia effettivamente tradotto in racconto scritto; l’incontestata ambiguità sessuale della protagonista; la sua condizione di personaggio trasgressivo e ai margini della società da una parte, e di zelante difensore dell’ordine ispanico dall’altra41; lo scarto, infine, fra un percorso scandito sul piano geografico da topografo dotato di uno sguardo soprattutto statistico e sul piano esistenziale da personaggio letterario. Non per questo il diario di Catalina de Erauso è meno significativo per la storia del viaggio femminile. Quando anche nessuno dei manoscritti pervenutici fosse di suo pugno ed essa avesse dettato le proprie memorie o addirittura la sua storia fosse stata raccolta e descritta da altri, Catalina de Erauso resta una figura rilevante della storia del viaggio. Data l’eco suscitata dalla sua impresa nel mondo ispanico del tempo, non si può negare che anche la sua “cronaca”, come la trasmissione orale delle sue avventure, abbia contribuito alla diffusione dell’immagine del Nuovo Mondo. Inoltre, direttamente o indirettamente la Erauso dà voce alle numerose donne che hanno probabilmente partecipato a grandi viaggi senza lasciarne traccia documentaria. L’idea che possano essere esistite nella prima fase dell’esplorazione transoceanica altre donne oltre a Catalina non è solo un’ipotesi teorica. Fra le righe della storia dell’esplorazione trapela il caso di Isabel Barreto, moglie di Alvaro de Mendana de Neira. Partito il 19 novembre del 1567 dal porto di Callao per scoprire le isole occidentali del Mare del Sud e l’arcipelago della Nuova Guinea, presunto nuovo continente vicino al quale si sarebbe dovuta trovare la Cipango-Ophir australe con le sue favolose miniere d’oro, d’argento e di pietre preziose, Mendana raggiunse le «isole di Salomone»42. Tornato in Spagna il navigatore preparò un secondo viaggio per colonizzarle. Il 17 giugno 1595 salpava dal porto di Paita con quattro imbarcazioni e 354 persone, di cui 107 fra donne, bambini e servitori. Una delle donne era la moglie. Seguendo una rotta più meridionale Mendana si imbatté nelle isole Marchesi e poi nell’isola di Santa Cruz dove, malato, morì il 18 ottobre 1595. Fra la perdita dell’ammiraglia,
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gli ammutinamenti, le morti dovute alle infezioni tropicali e le ribellioni degli indigeni, la spedizione ebbe sul piano pratico esito disastroso. Juan Gil ne racconta la conclusione: «La vedova di Mendana, una donna di ferro, l’11 febbraio 1596 riuscì ad arrivare al porto di Cavite, dopo un viaggio costellato di pericoli. Per consolarsi, nella capitale filippina sostituì il vestito da lutto con quello da sposa, unendosi in seconde nozze con un uomo importante di Manila […]»43. La vicenda di Isabel Barreto, indubbiamente eccezionale per le contingenze che vennero a crearsi con la morte di Mendana, non trasgrediva tuttavia agli schemi socio-culturali dell’epoca: la donna viaggiava con il marito. È la morte di lui a dare spazio alle sue capacità e una qualche visibilità alla sua figura che, diversamente, non sarebbe forse passata alla storia neppure come citazione. Difficilmente si potrà giungere a scrivere una storia sufficientemente attendibile della partecipazione femminile al viaggio nei primi secoli dell’età moderna, qualsiasi ne sia stato lo spessore quantitativo e conoscitivo. Se e quando hanno viaggiato, le donne non hanno potuto tramandarcene documentazione, diretta o indiretta. E non solo perché poche sapevano scrivere ma perché l’esperienza del viaggio come scelta volontaria e autonoma era loro negata per ragioni culturali, sociali, economiche. A quelle che in ogni caso decidevano e trovavano il modo di effettuarla conveniva farlo di nascosto. Questo non le salvava da critiche feroci: le donne che «viaggiavano nascoste oppure travestite da uomini» erano bollate come «un branco di prostitute da galera e di ladre […]»44. Il travestimento e l’occultamento della propria identità sono stati a un tempo i mezzi usati dalle donne per viaggiare e la causa della loro “inesistenza” storica quando qualcosa non è intervenuto a rompere il silenzio. Il caso di Catalina de Erauso fa eccezione perché la scrittura l’ha sottratta all’oblio. Inoltre, l’essere personaggio davvero eccessivo la espone più all’ammirazione che alle critiche. In lei anche il travestimento non risponde solo alla necessità di celare la propria reale identità per poter viaggiare e svolgere mestieri maschili (mozzo, soldato, mercante eccetera) come sarà per Jeanne Baré che vedremo clandestina nella spedizione intorno al mondo di Bougainville: esso corrisponde all’identità effettivamente androgina della monaca-alfiere che dalla propria ambiguità sessuale trae la capacità di trasgredire alle regole e di autorappresentarsi anche come viaggiatrice. E tuttavia, malgrado l’eccezionalità della sua esperienza e la personalità effettivamente virile, ritroviamo in lei un elemento che identifica molte esperienze di viaggio femminili successive: l’assenza di uno scopo e di una meta precisa, il senso dell’erranza. Catalina non si spinge nelle Indie Occidentali per interessi materiali precisi (come si è visto la “corsa all’oro” costituisce un episo-
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dio del tutto casuale nel susseguirsi delle vicende narrate nel diario) né per ragioni scientifico-conoscitive. Il significato più profondo del viaggio della Erauso può essere ben compreso attraverso la lettura che essa stessa ne suggerisce, sia quando, raccontando del proprio rifiuto di un impiego stabile che le era stato offerto a Lima, afferma: «la mia inclinazione era solo quella di andare in giro e vedere il mondo»45, sia quando, ricordando di aver incontrato, durante il suo vagabondare per la Spagna, un carrettiere diretto a Bilbao, scrive: «sistematami con lui, partimmo l’indomani, senza che io avessi la minima idea di che fare e dove andare, sino dejarme llevar del viento como una pluma»46. Note 1. Ángel Esteban (a cura di), Historia de la Monja Alférez, Catalina de Erauso, escrita por ella misma, Cátedra, Madrid 2002, p. 11. 2. Le prime europee a raggiungere l’America furono la trentina di donne ammesse ad imbarcarsi nel terzo viaggio di Colombo. Da allora, i dati registrati nei documenti della Casa de la Contratación e messi a disposizione degli studiosi dall’imponente lavoro di Peter Boyd-Bowman mostrano l’ampiezza del fenomeno. Causa ne fu la notevole eccedenza di donne, tipica di tutta l’Europa tardo-medievale. Il Nuovo Mondo offriva alle donne buone possibilità di matrimonio e la loro emigrazione fu in linea di massima favorita dalle autorità. Cfr. Carla Scardini, L’emigrazione femminile spagnola al Nuovo Mondo (1493-1579), in Graziella Galliano (a cura di), Rappresentazioni e pratiche dello spazio in una prospettiva storico-geografica, Brigati, Genova 1997, pp. 267-275 e Richard Konetzke, America centrale e meridionale, vol. I, La colonizzazione ispano-portoghese, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 61-62. Peter Boyd-Bowman, Indice Geobiográfico de mas de 56 mil pobladores de la América Hispana I 1493-1519, Fondo de Cultura Económica, Mexico 1985. 3. Catalina de Erauso è inserita in una rassegna di viaggiatrici per la prima volta dal geografo Richard Cortambert (Les illustres voyageuses, Maillet, Paris 1866, pp. 16-23) e poi da Marie Dronsart (Les grandes voyageuses, Hachette, Paris 1894, pp. 61-77). 4. L’unica pubblicazione italiana della Historia è uscita solo in anni recenti come curiosità letteraria più che come edizione critica aggiornata. Cfr. Catalina de Erauso, Storia della monaca alfiere scritta da lei medesima, presentazione ed epilogo di Jesús Munárriz, traduzione di Lucrezia Panunzio Cipriani, Sellerio, Palermo 1991 (versione dell’edizione Catalina De Erauso, Historia della Monja Alférez escrita por ella misma, presentación y epílogo de Jesús Munárriz, Hiperión, Madrid 1986). Invece, nel 1975 era uscita la traduzione di Umberto Melli con l’introduzione di Jorge Luis Borges dell’opera The Spanish Military Nun in cui lo scrittore de Quincey (1785-1859) nel 1847 aveva trasformato il diario della Erauso in un lungo e brillante racconto biografico “alla Carroll”: cfr. Thomas de Quincey, Avventure di una monaca vestita da uomo, Franco Maria Ricci, Parma-Milano 1975. 5. Catalina avrebbe iniziato a scrivere il suo diario durante il viaggio di ritorno dal Perù nel 1624. L’ultimo capitolo del racconto è datato 5 luglio 1626. Non si capisce come avrebbe fatto a darlo nel 1625 a Madrid a Bernardino de Guzmán che lo avrebbe stampato (Ángel Esteban, op. cit., p. 26). In ogni caso l’edizione è andata perduta. Uno dei primi studiosi della Erauso, lo scrittore franco-cubano José Maria Hérédia, afferma che Guzmán avrebbe stampato a Madrid, nel 1624 una Relación verdadera de la vida de la Monja Alférez e nel 1625 una Segunda relación de la vida de la Monja Alférez, anch’esse perdute. Hérédia dice di dovere al-
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l’eminente erudito don Pedro de Madrazo le indicazioni sulle due relazioni (Cfr. José Maria de Hérédia, Note bibliographique, in Catalina de Erauso, La Nonne soldat, La Différence, Paris 1991, p. 123, edizione in francese derivata dalla precedente del 1894). Esteban attribuisce ad Hérédia un’affermazione in parte diversa: la prima relazione sarebbe stata pubblicata da Guzmán a Madrid nel 1625 mentre la seconda nel 1626 da Simón Fajardo a Siviglia (Ángel Esteban, op. cit., p. 26). Non si comprende l’errore della Enciclopedia Universal Ilustrada Europeo Americana, tomo XX, Espasa-Calpe S.A., Bilbao-Madrid-Barcelona s.d., p. 413, che attribuisce una Relación verdadera, stampata prima a Madrid (1625) poi a Siviglia (1626) al poeta Cándido Maria Trigueros, nato solo nel 1736. Il poeta Trigueros (peraltro noto falsificatore di testi) è invece ritenuto da tutti il copista (o l’autore?) del documento intitolato Vida i sucessos de la Monja Alférez… che fa ricomparire a metà Settecento il diario della Erauso. Esso è a sua volta ricopiato nel 1784 dallo storico delle Indie Juan Bautista Muñoz y Ferrandiz (1745-1799). Alla morte di questi il manoscritto viene trasferito nella Biblioteca de la Real Academia de la Historia di Madrid dove è ancora conservato. All’inizio del secolo XIX esso è copiato ancora una volta da Felipe Bauzá, direttore del Deposito Hidrografico de la Marina di Madrid, che lo passa all’amico editore Joaquín María Ferrer. Ferrer lo pubblica nel 1829 in lingua originale a Parigi per i tipi di Didot con il titolo Historia della Monja Alférez, doña Catalina de Erauso, escrita por ella misma. Al famoso testo allega il certificato di battesimo di Catalina e La Monja Alférez comedia famosa che intorno al 1626 Juan Pérez de Montalván, allievo di Lope de Vega, aveva scritto sulla storia della Erauso. Il testo del passaggio Muñoz-Bauzá-Ferrer è alla base della gran parte delle successive edizioni (cfr. bibliografia). Invece, la più approfondita edizione critica – Rima de Vallbona, Vida y sucesos de la Monja Alférez. Autobiografia atribuida a Doña Catalina de Erauso, Center for Latin American Studies Press, Arizona State University 1992 – si riferisce direttamente al manoscritto di Muñoz conservato alla Real Academia (Ángel Esteban, op. cit., pp. 27-30). Quanto a Esteban egli adotta il testo di Ferrer mettendolo a confronto con quello curato da Vallbona: le differenze risultano poco consistenti. 6. Catalina de Erauso, Storia della monaca alfiere…, cit., p. 21. 7. Lo studio di Antonio Sánchez Moguel («La Ilustración Española y Americana», XXXVI, 8 giugno 1892) dimostrerebbe come apocrifa la versione del Ferrer, mentre darebbe per originale il Memorial de los méritos y servicios del alférez Erauso conservato nell’Archivio Nacional de las Indias. Cfr. Enciclopedia Universal…, cit., tomo XX, pp. 412-413 e tomo XXXVI, p. 175. Sta di fatto che in tutti i testi citati l’impianto della bizzarra storia della Erauso è sostanzialmente lo stesso, il che confermerebbe l’autenticità del viaggio e del manoscritto originario, come ritiene probabile anche Juan Gil. 8. Sylvie Steinberg, La confusion des sexes. Le travestissement de la Renaissance à la Révolution, Fayard, Paris 2001, p. 77. 9. Numa Broc, La geografia del Rinascimento, a cura di Claudio Greppi, Panini, Modena 1989, p. 13. 10. Ángel Esteban, op. cit., p. 50. 11. Ibidem, pp. 46-47. 12. Juan Gil, Miti e utopie della scoperta. Oceano Pacifico: l’epopea dei navigatori, Garzanti, Milano 1992, pp. 157 e 173 nota. 13. Juan Gil, Miti e utopie della scoperta. L’Eldorado. Alla ricerca della città dell’oro, Garzanti, Milano 1993, pp. 256 e 112-113. 14. Pietro De Koster, Le Amazzoni ed i Lapilli verdi, lettera XIII, L’America latina, pensieri, ricordi e reminiscenze di un viaggiatore italiano, «Rivista Contemporanea», vol. XXV, dicembre 1863, pp. 442-447. 15. Pietro Della Valle [1586-1652], Viaggi di Pietro Della Valle il Pellegrino, parte terza, L’India co’l ritorno alla patria, Longhi, Bologna 1676, pp. 602-605. Non si è individuato il ritratto dedicato a Catalina dal buon pittore Francesco Crescenzi, romano (nato nel 1585 e fra-
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tello dell’architetto Giovan Battista Crescenzi) di cui parla Della Valle mentre è noto quello fatto alla viaggiatrice nel 1630 dal pittore sivigliano Francisco Pacheco, conservato nella Galleria Shepeler di Acquisgrana. Cfr. Enciclopedia Universal…, cit., tomo XX, p. 412 e Libro de Descripción de Verdaderos Retratos de Ilustres y Memorables Varones, edición de Pedro M. Piñero Ramírez y Rogelio Reyes Cano, Sevilla 1985. 16. La discordanza confermerebbe il carattere di novela historica del diario, sostenuto nella Enciclopedia Universal, cit., tomo XX, p. 175. Considerandolo invece autentico, Munárriz ipotizza che la Erauso si sarebbe aumentata gli anni per far figurare più ampio il periodo trascorso al servizio della Spagna e ottenere una adeguata pensione. Cfr. Catalina de Erauso, Storia della monaca…, cit., p. 11. 17. Maria Serena Mazzi, Viaggiare per fuggire, in Dinora Corsi (a cura di), Altrove. Viaggi di donne dall’Antichità al Novecento, Viella, Roma 1999, pp. 53 e ss. 18. Charles-André Julien, Les voyages de découverte et les prémiers établissements, in Histoire de l’expansion et de la colonisation française, Parigi 1948, citato da Numa Broc, op. cit., p. 21. 19. Francesco Carletti, Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo, a cura di Paolo Collo, Einaudi, Torino 1989, p. 24. 20. L’arruolamento si capisce nel contesto del sistema di difesa impostato dalla Spagna nelle colonie americane. Essendo troppo costoso per la madrepatria mantenervi eserciti permanenti, la difesa fu articolata in reparti dell’esercito inviati da Madrid in caso di necessità, in encomenderos che difendevano i possedimenti in cambio del diritto a percepire tributi dagli amerindi, mercenari reclutati con pubblici bandi. Era inoltre fatto obbligo a tutti i cittadini accorrere alle armi in caso di sollevazioni di indiani o di attacchi esterni. Cfr. Richard Konetzke, op. cit., pp. 25 e 153-167. 21. La Spagna aveva inizialmente vietato l’ingresso in America agli ordini di clausura e contemplativi e favorito gli ordini mendicanti (che troviamo ripetutamente ricordati nella cronaca della Erauso) più attivi e “specializzati” nell’opera di conversione: le colonie furono aperte ai gesuiti solo dopo il 1566. Ibidem, pp. 236-275. 22. Catalina de Erauso, Storia della monaca…, cit., p. 36. Per le citazioni si è utilizzata la traduzione dell’edizione italiana alla quale si sono apportate alcune correzioni quando dal confronto con l’edizione in lingua originale sono parse non rispettarne il senso. 23. Ibidem, p. 41. 24. Ibidem, p. 43. 25. Ibidem. 26. Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Einaudi, Torino 1992, p. 56. 27. Cfr. Alexander von Humboldt, Viaggio alle Regioni Equinoziali del Nuovo Continente. Relazione Storica, a cura di Fabienne O. Vallino, Palombi, Roma 1986, tomo primo, p. 62. Benzoni prende in considerazione il Perù nel libro III della sua Historia del Mondo Nuovo pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1565. I tre libri della Historia sono stati “trasferiti” iconograficamente nelle Partes IV, V e VI dei Grands Voyages di Théodore de Bry (15941596). Cfr. Ilaria Luzzana Caraci, La scoperta dell’America secondo Theodore De Bry, Sagep, Genova 1991, pp. 19-22. Questo lavoro è anche uno studio su Benzoni e contiene in appendice il libro III del viaggiatore milanese. 28. Catalina de Erauso, Storia della monaca…, cit., pp. 49-51. La traduzione dell’edizione italiana recita «lo capii dal paesaggio», cosa che appare una forzatura dato che il testo spagnolo, nella edizione a cura di Esteban, recita: «según el temple reconocí» (Ángel Esteban, op. cit., p. 121). Con «temple» Caterina allude alla maggior dolcezza del clima («templado» significa temperato) con il passaggio da un ambiente all’altro. Nell’edizione francese tradotta da Heredia si legge «Il me sembla reconnaître à l’aire plus tiède que j’étais sortie du Royaume du Chili et entrée dans celui de Tucuman»: Catalina de Erauso, La Nonne soldat, cit., p. 48. 29. Carla Scardini, op. cit., p. 274.
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30. Gli spagnoli trovarono l’etnia amerinda tutt’altro che sgradevole e l’unione degli spagnoli con le donne indie non fu, a parte il primo periodo, un fatto di necessità. Cfr. Richard Konetzke, op. cit., pp. 81 e ss. Sull’approccio dei conquistatori nei confronti delle donne indie cfr. Tzvetan Todorov, La conquista…, cit., pp. 58-60. 31. In questo andirivieni andino Catalina registra la propria presenza a La Plata che non poteva essere la nota città argentina. In effetti nella provincia boliviana di Charcas esisteva una città con questo nome, ribattezzata nel 1825 Sucre (dal nome del presidente A. José de Sucre). 32. Juan Gil, Oceano pacifico…, cit., pp. 284-288. 33. Catalina de Erauso, Storia della monaca alfiere…, cit., p. 57. I Chuncos (Chunchos) erano una popolazione della provincia di Tarma in Perù, situata presso il fiume Apurimac. Quanto al Rio Dorado non è facilmente identificabile; si tratta forse del Río San Juan del Oro (provincia peruviana di Caravaya) nei cui dintorni fu appunto trovata dagli spagnoli una gran quantità d’oro e, a quanto annota Ferrer, la più grossa pepita prodotta dalla natura. Cfr. Ángel Esteban, op. cit., pp. 125-126, nota. 34. Catalina de Erauso, Storia della monaca alfiere…, cit., pp. 58-60. 35. Ibidem, p. 66. L’edizione italiana traduce «carneros de la tierra» con un generico «animali da carico» invece che «lama», perdendo un elemento importante della realtà andina. 36. Carla Perugini, Lo spazio dell’Inca. Spazialità andina e interferenze ispaniche, «Miscellanea di storia delle esplorazioni», XVI, 1991, p. 64. 37. Catalina de Erauso, Storia della monaca alfiere…, cit., p. 83. 38. Ibidem, pp. 96. 39. Ibidem, pp. 102-103. Già prima del ritorno in patria le sue gesta extra-ordinarie avevano suscitato scalpore: i suoi biografi danno notizia di un documento a stampa del 1618 che riporta un Capitolo di una lettera da Cartagena delle Indie in cui si riferisce di una monaca che, in abiti maschili, fu soldato in Cile e Tipoan (Catalina de Erauso, Storia della monaca alfiere…, cit., p. 10). 40. La Erauso sarebbe ritornata in America pochi anni dopo: la si troverebbe registrata nell’elenco dei passeggeri diretti verso la Nuova Spagna nell’anno 1630 (documento dell’archivio dell’Istituto del Commercio per le Indie di Siviglia citato da Jesús Munárriz, op. cit., p. 124). La meta di tale viaggio era il Messico: sarebbe una relazione dettata dal frate cappuccino basco Nicomedes de Rentería al confratello Diego di Siviglia a testimoniare la presenza di Catalina a Vera Cruz. La relazione riferisce che Catalina de Erauso si faceva chiamare allora Antonio de Erauso, dimostrava una cinquantina d’anni, girava vestita da uomo, portava la spada. Aveva una mandria di muli con i quali trasportava capi di vestiario in varie parti ed era considerata persona di grande bontà. Pochi anni dopo altre testimonianze ne registrano la morte come avvenuta nel villaggio di Cuitlaxtla, sulla strada di Vera Cruz, dove si dice sia stata sepolta. Ibidem, pp. 125-127. Altri affermano invece che non si hanno notizie di lei dopo il 1635. Cfr. F.C. Sainz De Robles, Diccionario de mujeres celebres, Aguilar, Madrid 1959, p. 407. 41. Uno degli interrogativi che si sono posti gli studiosi riguarda come la Erauso, eroina e patriota sì, ma anche fuori dalle regole sociali e responsabile di diversi delitti, non sia incappata nelle maglie dell’Inquisizione. Catalina sapeva quali principi non avrebbe dovuto trasgredire per farsi perdonare gli errori: verginità, integrità della fede cattolica, difesa della corona e salvaguardia dell’onore personale. Cfr. Ángel Esteban, op. cit., p. 74. 42. Juan Gil, Oceano Pacifico…, cit., pp. 88-89. 43. Ibidem, pp. 101-105. Gil commenta che «non getta molta luce sulla figura di questa donna avventuriera e dispotica l’opuscolo di M. Bosch Barret, Doña Isabel Barreto, Adelantada de las islas Salomón, Barcellona 1943». Ibidem, p. 126. 44. Natalie Zemon Davis, Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 174. Sul tema del travestimento cfr. Sylvie Steinberg, La confusion des sexes…, cit. 45. Ángel Esteban, op. cit., p. 110. 46. «se non di lasciarmi portare dal vento come una piuma». Cfr. Ángel Esteban, op. cit., p. 97.
III. Il vulcano nel paniere. Sibylla Merian
Così avevano trovato un’occupazione che bastava a riempire un’intera mattinata, tenendo d’occhio le mosche in volo (a quella stagione, erano così insonnolite da metterci un’ora a fare il giro del soffitto) fino a che una bella mosca color blu bottiglia non finiva col far la sua scelta […]. Virginia Woolf, Orlando
Il Seicento volgeva al termine quando una donna di mezza età, in sola compagnia di una ragazza, si imbarcava ad Amsterdam su un battello transoceanico. Il fatto non rivestirebbe di nessuna particolarità se la signora in questione fosse stata la rispettabile moglie di un coltivatore di canna da zucchero che con la figlia andava a raggiungere il marito in qualche colonia, o se si fosse trattato di due donne di scarsa reputazione dirette «ad aprire un caffè per marinai a Batavia»1. Invece la viaggiatrice, che rispondeva al cognome di Merian, molto noto nel mondo dell’arte e dell’editoria europea, era un’affermata studiosa naturalista e pittrice specializzata nel disegno dei fiori e degli insetti. La sua partenza rappresenta probabilmente l’esordio del viaggio scientifico femminile e difatti Maria Sibylla Merian è entrata con rilievo, oltre che nella storia dell’arte, in quella delle scienze naturali. Ma di Sibylla Merian non si parla solo in testi strettamente disciplinari, attinenti a quello che fu il campo a cui si dedicò per l’intera esistenza e che le fece meritare l’attribuzione del suo nome a una farfalla notturna (Tinea Merianella) nella classificazione di Linneo2 e lo spazio di una bella tavola con esplicita citazione («Ho fatto copiare tutte le figure di questa tavola dalle tavole miniate della signorina Merian» avverte Diderot nel commento alle figure) nell’Encyclopédie 3. Le rappresentazioni che questa donna della buona borghesia francofortese ci ha lasciato hanno colpito l’immaginario di personaggi della cultura europea lontani fra di loro come Goethe, suo concittadino, che le attribuisce quella sapienza del fondere scienza ed arte che le è riconosciuta anche oggi4, e come Michelet che le ha dedicato più di una pagina ne L’Insecte. Un’affascinante donna tedesca, la signorina Merian, trapiantata in quelle regioni di fuoco, ci ha raccontato con semplicità lo spavento procuratole dalle meraviglie di quei luoghi. Figlia e nipote di illustri e attivi incisori, artista e letterata, essa ci ha lasciato un’ammirevole opera pittorica in latino, olandese e francese su-
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gli insetti del Suriname. La sapiente signora, nella sua esemplare vita di disgrazie e di virtù, ebbe una sola follia (chi non ha la propria?): l’amore per la natura. Lasciò la Germania per l’Olanda attirata dalle sue straordinarie collezioni, ricche di tesori dei due mondi. Non le bastò: passò in Guyana dove restò a dipingere per parecchi mesi. Metteva insieme nella stessa tavola (metodo eccellente) l’insetto, la pianta di cui esso vive, il rettile che vive dell’insetto. Scrupolosa com’era, cercava e faceva posare i suoi temibili modelli, di cui comunque aveva paura. Una volta che gli Indiani selvaggi le avevano portato un paniere di insetti, essa si addormentò sul lavoro. Ma uno strano sogno venne a turbare il suo casto sonno. Le sembrava di sentire una lira, una dolce melodia. Poi la melodia si infiamma, non è più un canto, è un incendio. Tutta la camera è invasa dal fuoco… Si sveglia, ed è tutto vero. Il paniere era la lira, il paniere era il vulcano. Per fortuna si accorse subito che il vulcano non bruciava. I prigionieri erano Fulgoridi; il loro canto era un canto di nozze e la fiamma era fiamma d’amore5.
L’episodio descritto si riferisce a quanto raccontato in toni meno letterari dalla stessa pittrice entomologa a commento di una delle tavole realizzate durante il soggiorno americano. Il disegno rappresenta «una specie di mosca» che gli olandesi chiamano lierman, cioè «suonatore di organetto» per il ronzio che emette. La mosca è “presa” nelle fasi della sua metamorfosi, quando diventa un insetto dalla testa trasparente come il vetro da cui esce di notte una luce di lanterna «tale che non sarebbe difficile leggerci un libro dai caratteri simili alla Gazzetta d’Olanda […]». La viaggiatrice spiega che alcuni «indiani» le avevano portato diversi esemplari di questa specie di lucciola. Ignorandone la caratteristica notturna, li aveva chiusi «in una grande scatola». Di notte è svegliata dal rumore proveniente dal “paniere” che, aperto, lascia uscire «tante fiamme quanti erano gli insetti»6. L’interesse per la natura è l’anello di congiunzione fra lo storico della Francia e della Rivoluzione e la pittrice tedesca che nel giugno del 1699, all’età di cinquantadue anni, accompagnata dalla figlia secondogenita, la ventunenne Dorothea Maria, salpa da Amsterdam per il Suriname. La natura che stimola Michelet a parlare di Maria Sibylla Merian è infatti quella fantasmagorica dei tropici che la viaggiatrice più che descrivere disegnò, e solo da un particolare punto di vista o, se vogliamo, da una particolarissima scala: non quella della mappa, che riduce ed elimina, ma quella del microscopio che ingrandisce e consente di registrare ciò che l’occhio non coglie7. La personalità della Merian si colloca nella ricca tradizione della pittura femminile del Seicento8 e la sua formazione va inquadrata nell’intreccio delle parentele di una riconosciuta famiglia di autori i cui nomi dicono molto nel mondo dell’editoria geografica dell’Europa rinascimentale e barocca: Théodore de Bry e il figlio Johann Theodor9, Matthäus Merian il Vecchio e i due figli Matthäus il Giovane e Caspar10. I rapporti parentali che legano la
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pittrice a questi personaggi sono stretti: Johann Theodor de Bry è suocero di Merian il Vecchio, padre di Sibylla; Matthaus il Giovane e Caspar sono i fratellastri della nostra viaggiatrice. Altri legami riguardano i pittori Jacob Marell, secondo marito della madre11, e Andreas Graff, l’allievo di Marell che Sibylla sposa a diciotto anni12. Sullo sfondo, le grandi scuole di incisione e di pittura fiamminghe e tedesche. Indagare nella produzione di questi artisti nella quale si possono individuare, in estrema sintesi, tre filoni principali – l’iconografia di viaggio, le vedute urbane, i fiori – significa scoprire le radici degli interessi della stessa Sibylla ma anche la sua autonomia intellettuale e una mobilità superiore a quella degli uomini della famiglia. Come è noto, i de Bry sono passati alla storia delle rappresentazioni geografiche per i magnifici volumi che illustrano i Grands et Petits Voyages nelle terre che si andavano scoprendo: mappe, vedute, genti. Le immagini dei de Bry, che Numa Broc definisce «la più bella espressione di ciò che si può chiamare “barocco geografico”», accompagnano e integrano una serie di relazioni di veri viaggiatori fondendo geografia ed etnografia, realtà, pregiudizio, mito. Numerose tavole riproducono lo spazio americano affollato di figure umane. La diversità dell’indigeno, che nelle forme fisiche è reso secondo il gusto pittorico rinascimentale, «vigoroso, pieno di forza e d’eleganza», è data dai mazzetti di piume, dalle collane di conchiglie e dagli altri ornamenti che ne “vestono” le figure, dai tatuaggi e disegni sulla pelle che costituiscono spesso l’unico abbigliamento, dalla rappresentazione esasperata delle pratiche primitive13. Quando Sibylla si recherà in Suriname ed entrerà a diretto contatto con la realtà amerinda, affronterà da scienziata il problema della novità e della differenza dando ragione degli usi locali e delle tecniche adoperate dagli indigeni che da piccola aveva avuto modo di osservare negli atlanti degli avi de Bry. Johann Theodor de Bry aveva anche un altro interesse, che attraverso Merian passerà a Maria Sibylla: gli erbari14. Il nome dei Merian uomini è invece essenzialmente legato alle figure urbane. Nel 1635 stampano il Theatrum Europaeum – «un viaggio da Londra a Costantinopoli senza consumarsi i piedi», come lo definisce lo stesso Merian – e, fra il 1642 e il 1688, i trenta volumi delle Topographiae realizzate in collaborazione con Martin Zeiller: più di 2000 fra vedute e piante di città che costituiscono una fonte straordinaria per lo studio della storia urbana del vecchio continente15. Matthäus il Giovane, oltre che disegnatore e incisore alla scuola del padre, fu amico e seguace di Van Dyck e divenne esso stesso buon pittore: qualche autore gli attribuisce il ritratto che rappresenterebbe la sorella, conservato a Basilea16. Matthäus aveva compiuto la sua formazione artistica e arricchito le sue conoscenze geografiche viaggiando in Olanda e Fiandre, in Francia, in Inghilterra e in Italia. Da qui aveva riportato immagini famose
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nella storia del Grand Tour come il Prospect des Seeports und Hafens zu Lerice, del 1640, una precoce rappresentazione del Golfo della Spezia17. Il filone che costituisce la parte più importante dell’opera del padre e dei fratelli è quello a cui Sibylla non risulta avere in alcun modo partecipato: Maria Sibylla Merian non si dedicò a rappresentazioni territoriali per un disinteresse del tutto personale o era una regola l’esclusione delle donne da questi soggetti? Sappiamo che alle donne erano abitualmente vietate la pittura di grandi dimensioni di argomento storico e le rappresentazioni del nudo (soggetti peraltro assenti negli atelier dei Merian e di Marell)18, ma non si è finora trovata documentazione di casi di esplicita inibizione delle donne relativamente ai temi cartografici e vedutistici. Sta di fatto che le donne che si sono occupate di questo settore sono state rare e anche la Merian lo trascurò per dedicarsi invece alla pittura naturalistica, un suo modo, comunque, di “leggere” il territorio e di lasciarcene la descrizione. In famiglia, la pittura naturalistica era stata specialità di Jacob Marell, autore di un famoso album di tulipani: il patrigno fu senz’altro per Sibylla il maestro più significativo. Alla sua scuola Maria Sibylla individua il filo, anzi, i non solo metaforici fili che la guideranno per vie solo apparentemente traverse verso il viaggio in Guyana. Si afferma presto come pittrice floreale e come tale pubblica un album19 prendendo tuttavia le distanze dalla moda, dilagante all’epoca, dei fiori, specialmente nella forma di passione estrema per i tulipani. Giunto in Olanda dalla Turchia nel XVI secolo, il tulipano era divenuto negli anni 1636-37 oggetto di una vera e propria mania collettiva sfociata in una colossale speculazione finanziaria20. Sibylla Merian la stigmatizza senza mezzi termini nella premessa al suo Neues Blumenbuch: «Sono molti – scrive – quelli che possedevano belle e preziose dimore e proprietà e che hanno venduto tutto, e impegnato somme di denaro importanti, e chiesto prestiti a forti interessi, per rischiarli nell’acquisto di fiori senza gusto e senza odore […]»21. Maria Sibylla applica le sue capacità alla creazione di manufatti artistici: tavole genealogiche in pergamena, preziosi lini dipinti trompe-l’oeil, ricami. Fonda una scuola di disegno e ricamo per ragazze e, secondo l’uso dell’epoca, fa lavorare le allieve su modelli che essa stessa crea, incide su rame e stampa. Dalla sua scuola escono pittrici di una certa importanza. L’altro filo afferrato da Sibylla è un filo di seta. «Fin dalla giovinezza mi sono dedicata all’osservazione degli insetti – scriverà nella prefazione alla Metamorphosis Insectorum Surinamensium che è il risultato del suo viaggio nella Guyana olandese – ho cominciato a Francoforte sul Meno, la mia patria, con i bachi da seta […]»22. Nel 1679 pubblica, utilizzando il cognome del marito, un primo volume sui bruchi e nel 1683 un secondo, entrambi editi da Graff 23: nell’insieme cen-
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to incisioni, con il loro testo esplicativo a fronte, nelle quali «sono raffigurati dal vero una o più specie di insetti nei vari stadi del loro ciclo di vita: bruco o larva; crisalide con o senza bozzolo; falena, farfalla o mosca, in volo o a riposo»24. Ogni immagine è organizzata intorno a una sola pianta, per lo più rappresentata al momento della fioritura o con il suo frutto. Le descrizioni sono accompagnate dalle date esatte in cui sono state fatte le osservazioni. Sul modello dei due volumi riguardanti La meravigliosa metamorfosi dei bruchi europei la Merian imposterà la più importante Metamorphosis. Le tavole entomologico-botaniche che la compongono non obbediscono alla consueta impostazione tassonomica di altre opere del genere. Esse non presentano una rassegna di figure disanimate e schematizzate, ma una galleria di soggetti – «creature», le definisce la Merian – disegnati dal vero quindi vivi, posizionati «sulle piante, fiori e frutti di cui si nutrono»25 e raffigurati in tutte le fasi della loro trasformazione. Ogni tavola costituisce un dettaglio di ambiente di cui Sibylla mette in scena le diverse componenti. Nelle schede descrittive divaga in preziose osservazioni che collegano soggetti rappresentati, spazio geografico, cultura locale: Questo grande bruco è stato trovato sulla pianta del cacao, di cui si nutre; esso era di un verde tendente al giallo. Tutto il suo corpo era coperto di peli acuti, verdi alla radice e gialli vicino alla punta. Il 21 giugno filò il suo bozzolo e si trasformò in una crisalide bruna, e il 16 settembre ne uscì questa grande farfalla notturna di colore rosa […]. Questo bruco è di una specie molto velenosa. Mi punse le dita con cui l’avevo toccato: esse divennero subito rosse e livide e mi provocarono un fortissimo dolore che si estese alla mano e al gomito. Feci immediatamente ricorso al tradizionale rimedio dell’olio di scorpione e in meno di mezz’ora guarii. Avendo esaminato il bruco al microscopio, notai che era ricoperto di punte e aculei verdi e spessi alla base, neri e sottili in alto; le punte nere si erano spezzate ed essendomi rimaste nella carne avevano provocato l’intossicazione. Hanno scoperto che l’olio di scorpione è un rimedio sempre sicuro contro le punture di questo bruco e di altri insetti26. Questo bel bruco giallo diventa rosso verso il ventre mentre sulla coda ha una sorta di doppia riga che forma una fiamma. Sta sulla pianta di limone delle cui foglie si nutre. Se ne trovano di rado. Il 25 febbraio esso fila il suo bozzolo e si trasforma in crisalide. Il suo filo è una specie di seta, anzi, più brillante e più abbondante di quello dei bachi da seta; è un peccato che di questi bruchi se ne trovino così pochi, perché sono convinta che si potrebbe trarne più profitto che dai bachi stessi se si potesse nutrirli altrettanto facilmente, cosa che comunque non credo sia mai stata provata da alcuno. Il 25 marzo ne uscì la farfalla notturna che si vede nella tavola. È molto grande, di colore rosso e oro, con delle strisce bianche sia sulle ali superiori sia su quelle inferiori, in ciascuna delle quali si trova una macchia chiara e trasparente come il vetro, circondata da due cerchi, bianco quello interno e nero quello esterno, in modo che queste macchie sembrano proprio uno specchio con la sua cornice. Perciò gli amatori chiamano questa farfalla porta-specchio […]27.
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In tal modo la donna Merian si inserisce con autorevolezza nel dibattito tutto maschile che caratterizza il suo secolo per diversi aspetti. Contribuisce allo smantellamento della teoria della derivazione spontanea degli insetti dalla materia putrescente ancora largamente diffusa28. Partecipa alla affermazione dell’arte come imitazione fedele della natura che soltanto con il Rinascimento era divenuta oggetto di precisa osservazione e di studio. Una biografa della Merian, Helga Ullmann, ipotizza che possano valere per lei le osservazioni fatte per altri autori del tempo, ispirati in modo determinante da Dürer «a liberare con una riproduzione esatta della loro forma proprio l’essenza delle piante e degli animali, a delineare le forme con grafia esatta, a modellare plasticamente i corpi e a situarli in modo rigoroso nello spazio»29. Nella relazione del suo grand tour del 1520 nei Paesi Bassi, Dürer sostiene che nessuna occasione meglio del viaggio può consentire all’artista di esprimere quella «contraffazione del naturale» che è l’obiettivo della nuova arte, ritrovata nell’autorità e nella pratica degli antichi fuori dalla committenza di temi sacri e profani30. A questo è anche collegata la partecipazione della Merian al processo di rinnovamento dell’illustrazione botanica messo in atto, di nuovo, da Dürer questa volta sotto l’influenza dei viaggi compiuti fra fine Quattrocento e inizi Cinquecento in Italia31. Nella prefazione alla Metamorphosis Maria Sibylla Merian spiega il modo in cui è giunta a utilizzare il disegno come metodo di studio degli insetti: Fin dalla giovinezza mi sono dedicata all’osservazione degli insetti; ho cominciato a Francoforte sul Meno, la mia patria, con i bachi da seta. Avendo poi notato che le più belle farfalle, sia quelle che volano di giorno, sia le notturne, uscivano dai bruchi, ho cominciato a raccogliere tutti quelli che trovavo per studiarne le trasformazioni. Per fare le mie osservazioni con più precisione, ho abbandonato qualsiasi compagnia, e mi sono applicata nel disegno per poter dipingere questi insetti dal vero. Così ho raccolto e dipinto su pergamena tutti gli insetti che ho trovato a Francoforte e a Norimberga. Essendo la mia collezione capitata nelle mani di alcuni amatori, essi mi esortarono a rendere pubbliche le osservazioni che avevo fatto sugli insetti per la soddisfazione dei naturalisti. Cedetti ai loro consigli e pubblicai la prima parte dell’opera in quarto nel 1679 e la seconda nel 1683 dopo aver inciso personalmente le tavole. Passai poi in Frisia e in Olanda dove ho continuato l’osservazione degli insetti: soprattutto in Frisia, perché in Olanda mi è mancata l’occasione di fare le mie ricerche, specialmente nella palude e nella brughiera32.
«Il fatto di concentrare l’attenzione – scrive la storica americana Zemon Davis – sulla riproduzione, sull’habitat e la metamorfosi degli insetti è in bella consonanza con la pratica domestica di una madre e moglie del XVII secolo. Qui non siamo di fronte a una mente femminile a disagio con l’analisi o in
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un rapporto senza tempo con il mondo organico […], bensì in presenza di una donna che, per un’impresa scientifica, ha stabilito il suo osservatorio su un margine creativo – per lei un ecosistema risonante di ronzii – tra il laboratorio domestico e la dotta accademia»33. La studiosa prosegue osservando che «più esplicitamente importante del “genere” fu per Maria Sibylla Merian la legittimazione, o meglio, la santificazione della sua opera di entomologa da parte della religione»34. Ancora più affascinante l’interpretazione di Bouvier: «Maria Sibylla Merian, molto segnata dal pietismo olandese […] ritrova nella metamorfosi dei suoi bruchi i tre stati – soggiorno sulla terra, morte e resurrezione del corpo – della condizione cristiana»35. L’idea del viaggio in America matura in condizioni che hanno a che fare con scelte personali e spirituali che la riportano a Francoforte e successivamente a trasferirsi nella comunità labadista di Waltha, in Frisia36. La setta aveva una filiazione in Suriname ma per Maria Sibylla il passaggio dalle brughiere e dalle paludi della Frisia alla giungla e alle paludi della Guyana olandese non fu né facile né immediato. Lasciata la comunità, nel 1691 si era stabilita ad Amsterdam e sarebbero passati ancora diversi anni prima della realizzazione del progetto37. La fervente città portuale, sede di collezionisti, di naturalisti, di agenzie delle Indie, le aveva aperto un universo di contatti e di possibilità di studio che l’avevano più che mai sollecitata a partire. Nei reperti e nei disegni che portavano alla conoscenza dell’Europa le meraviglie della natura arrivate da altri mondi, la Merian coglie il limite di un approccio che non registra la loro metamorfosi. A suo stesso dire, la spinta a partire viene proprio dall’ambizione di colmare tali lacune: […] non ho visto in Olanda niente di più curioso dei diversi insetti che sono stati portati dalle Indie, soprattutto quando ho avuto il permesso di visitare lo studio dell’illustre signor Nicolas Witsen, borgomastro di Amsterdam e direttore della Compagnia delle Indie Orientali […]; e poi quello del Signor Levin Vincent e di molti altri, dove ho trovato un numero enorme di insetti, di cui però non si conosceva né l’origine, né la generazione, cioè il modo in cui i bruchi si trasformano in crisalidi e gli altri cambiamenti. È questo che mi ha fatto decidere di intraprendere il lungo viaggio americano, in Suriname, paese caldo e umido, da dove le persone di cui ho appena parlato avevano ricevuto la maggior parte dei loro insetti38.
Priva, a differenza delle spedizioni maschili che venivano solitamente finanziate39, di qualsiasi contributo tranne un prestito da parte del borgomastro della città, il 23 aprile 1699 Maria Sibylla Merian deposita il proprio testamento e nel giugno dello stesso anno parte per il Suriname. Vi arriva nell’agosto: Ho attraversato l’oceano nel giugno del 1699 e sono rimasta in quel paese fino al giugno del 1701 per avere il tempo di fare le mie osservazioni con cura. Sono allora tornata in Olanda, dove sono arrivata il 23 settembre […] essendo quel cli-
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ma di un tale calore che non andava bene al mio fisico, più che averlo deciso sono stata costretta a rientrare40.
Resta pertanto due anni in quella regione, dove assiste alla nascita del secolo dei Lumi disegnando senza sosta le sue tavole. I risultati scientifici e artistici del viaggio sono ancora oggi riscontrabili in tutto il loro valore nella Metamorphosis, un solo volume in-folio, scritto in latino, uscito per la prima volta ad Amsterdam nel 1705. Si tratta di un’opera straordinaria, formata da sessanta tavole disegnate, incise su rame, acquarellate e commentate dalla Merian che si era fatta anche carico di trovare i fondi per l’edizione dell’opera, per cui compare anche come stampatrice41. Da allora la Metamorphosis sarà edita più volte e in varie lingue: mai in italiano42. Un paesaggio al microscopio Gli scritti lasciati dalla Merian riguardano essenzialmente le prefazioni e i commenti alle tavole e indulgono assai poco a osservazioni autobiografiche come, del resto, la serie di lettere scritte dopo il ritorno43. Della permanenza nella colonia olandese non ha lasciato un diario: la sua attenzione era tutta rivolta all’osservazione e al disegno, oltre alla raccolta e alla conservazione di reperti che, venduti ad Amsterdam, le avrebbero consentito di restituire il prestito e di finanziare la costosa edizione della Metamorphosis. «Non è per interesse che ho intrapreso quest’opera: cerco solo di recuperare quello che mi è costata; per far piacere agli intenditori non ho risparmiato né sull’incisione né sulla carta […]», scriverà44. Le spiegazioni alle figure contengono tuttavia annotazioni attraverso le quali si possono in parte ricostruire i modi del suo soggiorno in Guyana e cogliere diversi dettagli descrittivi di quella realtà territoriale e sociale. Più in generale, l’insieme dei commenti alle tavole e le tavole stesse, illustrando, con le parole e con il disegno, la flora e la fauna del Suriname, possono essere letti, oltre che con “occhio naturalistico”, con “occhio geografico”, come componenti di uno spazio alla cui conoscenza Maria Sibylla Merian ha indubbiamente dato un apporto di grande rilievo. In Suriname la Merian disegna soprattutto insetti ma anche altri animali. Di volta in volta conferma o corregge le informazioni di altri studiosi e viaggiatori. Come molti di loro, si stupisce della straordinaria grandezza del coccodrillo, «che nelle Indie Orientali è detto Caimano», rispetto all’uovo che lo genera. Spiega perché non è vero che la «Vipera amphisboena» ha due teste45. Osserva che la trasformazione delle rane americane, abbondanti nei fiumi Cornawina-Creeke e Pirica, avviene, al contrario di quelle europee, nel marzo-aprile, quando «le rane dei due sessi si cercano e si congiungono negli stagni e nelle paludi»46. Studia con paziente attenzione gli insetti nel loro habitat per confutare concezioni errate: a proposito degli enormi ragni neri
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trovati su un ramo Guaiava precisa: «non filano bozzoli molto lunghi come alcuni viaggiatori hanno voluto farmi credere»47. Disegna piante, fiori e frutti di cui erano state date sommarie descrizioni dai primi storici della conquista (Gómara, Oviedo) e da viaggiatori come Benzoni, l’“informatore” di de Bry48. L’ananas «essendo il più eccellente dei frutti commestibili» occupa le prime due tavole: anche se «diversi studiosi hanno parlato a lungo di questo frutto, tanto bello a vedersi quanto piacevole al gusto […] è opportuno che in quest’opera abbia il primo posto nell’ordine delle osservazioni», scrive. Ne rappresenta un ramo in fiore e il frutto. Anche la descrizione è pittura: «Le foglioline screziate che si trovano sotto il frutto paiono seta rossa punteggiata di giallo […]. Le foglie sono lunghe, dalla parte esterna di un verde color del mare, all’interno di un verde prato, il bordo rossastro è pieno di punte acute […]»49. Poi, siccome il frutto sarà anche noto agli scienziati ma di certo non alla maggior parte dei possibili lettori, Sibylla si sforza di rappresentarne gusto e profumo fondendo nella memoria sapori consueti. Come farà per ogni altra specie non manca, inoltre, di indicarne gli usi locali: Il sapore di questo frutto è lo stesso che avrebbero uva, melagrane, ribes, mele e pere fuse insieme. L’odore è forte e gradevole; quando lo si taglia profuma tutto l’ambiente […]. Lo si mangia come si vuole, crudo o cotto. Con il fuoco e il torchio se ne può trarre del vino o dell’acquavite molto buona che supera tutte le altre bevande di questo tipo50.
Così, descrizione dopo descrizione e disegno dopo disegno, Maria Sibylla Merian compone il suo libro delle meraviglie, la sua speciale e policroma mappa del Suriname di fine Seicento. Le cose nove che disegna e che descrive richiamandone eventuali somiglianze alle specie già note agli europei costituiscono i brani separati di un paesaggio tropicale che lo sguardo all’insieme dell’opera consente di ricostruire. Sono i gelsomini che crescono da ogni parte nelle campagne e che si annunciano da lontano con il loro intenso profumo51. Sono alte piante come l’Anona dai frutti cattivi e inutili delle cui varie specie si trasportano ogni anno dall’America all’Europa i semi: ne esistono, dice Sibylla, tre enormi esemplari nel Jardin des Plantes di Amsterdam52. È la manioca dal fusto rosso, detta in America cassava, dalla cui radice si ricava un pane di cui fornisce i metodi di preparazione53. Sono i diversi tipi di banano i cui frutti tengono nel Nuovo Mondo il posto occupato in Europa dalle mele. La Merian si dilunga a descrivere la forma e il peso dei caschi, la grandezza straordinaria delle foglie che «gli Americani […] mettono sotto il pane prima di metterlo in forno», la meraviglia dell’infiorescenza composta di «cinque foglie spesse come il cuoio e rosse come il sangue, ma con la parte inferiore […] coperta da un
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fiore azzurrognolo»54. Racconta dell’albero detto in Suriname palissandro di cui gli indigeni si servono per costruire le loro palafitte «i cui quattro angoli sono quatto pali piantati in terra che servono a sostenere le assi»55. A proposito del cotone spiega che esso «cresce molto rapidamente in Suriname, dato che sei mesi dopo essere stato seminato diviene un albero alto quanto i cotogni in Europa. Gli Americani ne applicano le foglie verdi sulle ferite, sia per rinfrescarle sia per guarirle. Esso porta due tipi di fiori: rossi e giallo-zolfo: la fibra viene solo dai gialli. Quando il fiore cade, una specie di bottone ne prende il posto, cresce, e quando è maturo, e di un bel colore bruno, si apre e mostra il cotone di un bel bianco […]. Essi lo filano e ne fanno la tela di cui sono fabbricate le loro amache, o letti sospesi»56. Sibylla passa in rassegna l’albero della gomma, il cacao, la vaniglia, il pepe, la papaia, la palma da olio, specie in parte note in Europa perché già importate dalle Indie orientali, tutte secondarie alla canna da zucchero nella considerazione dei coloni. Analizza anche piante e fiori di cui non sa riferire alcun nome, né latino, né europeo e neppure locale, tanto la sua attenzione si ferma su qualunque manifestazione botanica collocandola nell’habitat in cui l’ha scoperta: foresta, palude, campo… Le descrizioni di Sibylla relative all’uso estetico, alimentare e medicinale che delle varie specie fanno le popolazioni locali (una sorta di resoconto della cultura materiale del Mondo Nuovo) sono «piene di simpatia [per la] farmacopea folclorica e [per la] magia popolare delle genti indigene»57. A proposito degli usi estetici è comprensibile che l’artista sia colpita dalle decorazioni con cui gli indigeni trasformano i propri corpi in quadri viventi. Non li disegna, né descrive le decorazioni – l’oggetto della sua osservazione sono le piante e il loro uso, non il corpo dell’uomo – ma di certo, vedendole, la sua memoria deve essere corsa alle tavole di de Bry: Il Rocu è un grande albero dai fiori rosso chiaro […]. Quando cadono, lasciano il posto a un “cofanetto” ovale coperto di punte come il guscio che chiude la castagna; esso contiene dei grani di un bel rosso che gli Indiani fanno imbevere d’acqua; la tinta rossa se ne distacca e precipita al fondo; si versa l’acqua con cautela e si fa seccare il colore che si raccoglie dal fondo. Se ne servono per dipingersi per ornamento ogni sorta di figura sulla pelle […]. Gli Indiani chiamano l’albero che porta questo frutto tabrouba. Ha piccoli fiori bianco-verdastri di cui si nutrono le scimmie. Dal frutto, che contiene una gran quantità di grani bianchi, come quelli dei fichi, gli Indiani spremono un succo che lasciato al sole diventa nero e di cui si servono per disegnarsi sul corpo delle figure che non si riesce a cancellare neppure lavandosi per nove giorni con il sapone. Dopo questo periodo spariscono da sole58.
Quanto agli usi alimentari di frutti, semi o radici la viaggiatrice spiega che la papaia si cucina a metà maturazione con la carne «come fondi di carciofo»
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oppure, se matura, la si taglia a fette lunghe e sottili per farne una confettura dall’ottimo sapore59. Le radici della batata sono di un rosso un po’ più chiaro delle barbabietole europee, si preparano come queste, ma il loro gusto è simile a quello delle castagne60. Gli indiani strofinano il frutto del pepe nel pane mentre gli olandesi lo tagliano a pezzetti e lo mangiano con la carne o il pesce oppure lo usano per fare salse e confetture nell’aceto61. Si è già detto della “ricetta” del pane: Con questa radice chiamata Cassava [manioca] si fa il pane di cui si nutrono in America Indiani ed Europei. Dopo aver grattato la radice, se ne spreme tutto il succo, che è velenoso. Poi si mette la radice ben pressata su una piastra di ferro […], vi si accende sotto un fuoco moderato per eliminarne ciò che resta di umidità e in questo modo si forma una pasta che non ha nulla da invidiare al miglior biscotto del nostro paese. Se l’uomo o l’animale bevono il liquido che ne è uscito muoiono fra dolori lancinanti, ma se l’acqua viene bollita se ne ricava una bevanda molto buona […]. Quando ero in Suriname, il grande bruco dal corpo a righe gialle e nere con capo e dorso rosso sangue faceva molti danni nei terreni dove si trovava questa pianta: devastava intere piantagioni destinate alla sussistenza degli abitanti62.
La Merian dimostra scarsa fiducia nella capacità degli europei di valorizzare le risorse naturali locali ed esprime una chiara critica nei confronti di una impostazione dell’economia coloniale che va nel senso della monocoltura «perché, in quel paese, gli Europei non coltivano altro che della gran canna da zucchero»63. Immediatamente ai margini di Paramaribo, dove madre e figlia risiedono, si estende la foresta tropicale. Lungo il fiume Suriname, ancora più immerse nella foresta, si trovano le aziende delle piantagioni di canna. Providence, la comunità labadista nelle proprietà delle sorelle Sommelsdijk, costituisce l’insediamento olandese più interno che la viaggiatrice, nella sua continua ricerca di specie nuove, non esita a visitare. Nella colonia non è raccomandabile né il clima meteorologico – «nessuno intraprenderebbe un viaggio tanto difficile e costoso per un motivo come il mio, perché in quel paese fa tanto caldo che si lavora con estrema difficoltà, ed io l’ho quasi pagato con la vita e per questo non sono potuta restare più a lungo. Anche la gente del luogo si è stupita che io ne sia uscita viva poiché laggiù la maggior parte delle persone per il gran caldo muore, così che il mio lavoro non solo è raro, ma è destinato a restare tale», racconterà a posteriori in una lettera64 – né quello sociale. Alcuni studi condotti da storici olandesi e americani hanno ricostruito la composizione della popolazione e la geografia umana del Suriname di fine Seicento. I coloni occidentali, come è logico soprattutto olandesi, erano oltre un migliaio; gli schiavi più di ottomila con netta preponderanza di africani; il numero degli schiavi indigeni era esiguo; i coloni si rivolgevano alla manodopera schiava nera e indigena con metodi violenti65. Non era così fra la studiosa e gli schia-
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vi «rossi e neri» al suo servizio. I commenti alle tavole fanno intuire un rapporto di collaborazione e rispetto. Con il loro aiuto Maria Sibylla si occupa di raccogliere i materiali utili alle sue ricerche. Trapianta e coltiva nel giardino della propria abitazione le specie di cui vuole osservare lo sviluppo. La natura che circonda la sua abitazione e quella degli amici coloni è la ricchezza che a lei interessa: «Nell’anno 1700, nel mese di aprile, ero in Suriname nella piantagione della Signorina Sommelsdijk, chiamata La Provvidenza, dove potei fare parecchie osservazioni sugli insetti. Camminando per la campagna trovai molte piante di gommagutta, di cui ho disegnato qui un ramo; esse somigliano alle betulle europee, e all’esterno sono coperte da una scorza bianca rigata. Vi si praticano incisioni da cui cola la gomma […]»66. Alcune fra le specie che la Merian disegna e descrive durante la sua permanenza a Paramaribo sono del tutto sconosciute agli studiosi europei. «Non ho mai visto questa pianta né descritta né disegnata da alcuno», scrive a commento di una figura67; «pianta cresciuta nel mio giardino senza che nessuno me ne abbia potuto dire né il nome né le proprietà», aggiunge a commento della tavola successiva. «Ho dato alle piante i nomi con cui le chiamano gli abitanti del luogo e gli Indiani», aveva detto fin da principio la viaggiatrice68, molto più in sintonia con gli indigeni che con i compatrioti che non comprendono tanto impegno intorno a fiori e vermi: Ho trovato questa pianta in un bosco, ma dato che in quel paese non si può tagliare un ramo che subito appassisce, l’ho fatta sradicare da uno dei miei schiavi e subito l’ho fatta trapiantare nel mio giardino […]. Là non hanno alcuna curiosità di fare simili ricerche e si burlavano di me perché raccoglievo ben altro che zucchero, benché, a mio avviso, in quei boschi si potrebbero trovare molte altre cose se fosse possibile entrarci dentro, pieni come sono di cardi e spini, tanto che ero obbligata a mandare avanti qualche schiavo che con molta fatica mi apriva un varco a colpi di accetta69.
Nel viaggio scientifico di Sibilla gli schiavi occupano un posto importante. Ricordandoli spesso non solo per il lavoro materiale che essi svolgono al suo servizio, ma anche per le informazioni che le forniscono circa specie e pratiche locali, essa riconosce loro la funzione di mediatori culturali. Nei loro confronti dimostra sempre un atteggiamento umanitario. La descrizione del fiore giallo e rosso che chiama «cresta di pavone» (Flos Pavonis) le dà modo di fare una lunga digressione sulla condizione delle donne schiave: Il suo seme è usato dalle donne durante il travaglio perché le fa subito partorire. Le Indiane schiave degli Olandesi, essendo trattate con moltissima durezza, se ne servono per abortire, perché non vogliono mettere al mondo bambini che nascerebbero soltanto per essere miseri come loro. Quanto alle Nere che vengono
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portate in Suriname sia dalle coste della Guinea, sia dall’Angola, esse cercano di non fare bambini ed effettivamente ne hanno di rado, e anche se poco maltrattate, si suicidano nella convinzione che andranno a raggiungere la loro famiglia nel paese natale dove sperano di godere della libertà. Così le ho udite raccontare70.
Simili osservazioni, criticate come poco scientifiche, sono preziose per capire la personalità della viaggiatrice ma anche qualche aspetto della società coloniale del Suriname del 1700. Come è evidente l’opera di Maria Sibylla Merian rappresenta in primo luogo un pilastro per la conoscenza dell’ambiente naturale della colonia olandese. Le meravigliose figure della Metamorphosis non costituirono però gli unici “reperti” portati dall’America dalla viaggiatrice. La storia della scoperta del mondo è anche “scritta”, come ci dice Marie-Noëlle Bourguet, dall’infinità di oggetti naturalistici raccolti dagli esploratori che percorsero le varie regioni della Terra. Piante, pesci, fiori, conchiglie, pietre costituiscono il legame concreto fra il terreno dell’esplorazione e il gabinetto dello scienziato71. Una lettera scritta dopo il ritorno in Europa dalla viaggiatrice al naturalista di Norimberga Johann Georg Volckamer rende l’idea delle cose nove che, un secolo esatto prima di Humboldt, avevano riempito i bauli del suo bagaglio. Tutte le creature contenute in questo libro le ho portate via con me, pressate e ben riposte in scatole, così che chiunque le possa vedere. Inoltre, ho tutt’ora immersi nel brandy in contenitori di vetro un coccodrillo e un’ampia varietà di serpenti ed altre creature, oltre a venti scatole rotonde con ogni tipo di farfalla, scarafaggi, uccelli canterini, lucciole conosciute nelle Indie come «suonatori di organetto» per via del forte rumore che fanno, ed altre creature che sono in vendita; se ne desiderate qualcuna, potete inviarmi l’ordine72.
Troviamo la descrizione dei metodi usati dalla Merian per la conservazione degli animali in una lettera scritta prima del viaggio: Per conservarli, serpenti e creature di quel tipo vanno riposti in barattoli di vetro con del normale brandy e sigillati con legno di sandalo. Per le farfalle si deve riscaldare sulla fiamma la punta di uno spillo e, quando è rossa e rovente, infilarla nel corpo delle farfalle; esse muoiono immediatamente e senza danni per le ali. Poi si cospargono le scatole con del lardo per tenere lontani i vermi che le consumerebbero73.
Anche dopo il rientro dal viaggio Sibylla proseguirà indirettamente, attraverso intermediari conosciuti in loco, la raccolta di reperti naturalistici. «In America ho persone che catturano queste creature che poi vendo. Spero di riceverne anche dalle Indie Occidentali spagnole, non appena sarà aperto un passaggio d’accesso per far attraccare le navi, ma Dio sa quando […]», scrive74. Farà venire anche dall’Oriente animali conservati per venderli e procurarsi il denaro per la costosa edizione dell’opera:
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[…] Potrei fare un’ulteriore parte con creature diverse: serpenti, coccodrilli, iguana e simili, e anche creature delle Indie Orientali, poiché il marito della mia figlia più giovane si è recato là e farà del suo meglio per trovarne il maggior numero possibile75.
Lo scambio epistolare con Volckamer le dà modo di ricordare la permanenza in Suriname, le difficoltà incontrate, il metodo di lavoro, le ragioni che le hanno fatto sopportare un viaggio tanto impegnativo: Dopo essere tornata dall’America ho lavorato e sto ancora lavorando per riprodurre su pergamena tutto ciò che ho trovato e visto nella sua perfezione, nella speranza di finire in due mesi, salute permettendo. Si tratta di una collezione di larve e bruchi che ho nutrito e osservato quotidianamente finché hanno raggiunto la trasformazione finale; questo è il motivo per cui, quando mi trovavo in America, dipingevo e descrivevo le larve e i bruchi, così come il loro tipo di cibo e le abitudini […]. Ora sto dipingendo allo stesso modo in cui lo facevo quando ero in Germania, ma tutto su pergamena di grande formato, alla reale grandezza delle piante e delle creature, ciò è molto interessante perché riguarda parecchie cose straordinariamente rare che non si sono mai viste prima76.
Maria Sibylla Merian è consapevole dell’importanza del suo lavoro: «Non c’è bisogno che vi dica che si tratta di un’opera molto ricca, diversa da qualsiasi cosa vista prima», scriverà a James Petiver, farmacista e studioso che si occupa di trovarle abbonamenti a Londra77. Le preoccupazioni relative a un’adeguata edizione dell’opera e al recupero delle spese di viaggio costituiscono il motivo dominante delle lettere scritte dopo il ritorno ad Amsterdam. A Volckamer dice: Vorrei che la mia opera fosse stampata per il piacere di studiosi e appassionati, in modo che potessero vedere le meravigliose creature e cose create da Dio in America, ma costerà molto denaro e potrò procurarmelo solo attraverso una sorta di abbonamento […]; infatti mi pare che dovrà contenere, nell’esemplare originale, 60 incisioni su rame in folio, quindi più grandi dell’Amsterdam Hortus Medicus. Quando le copie saranno vendute, dovranno rimborsare i costi del viaggio […]. Vi prego di riflettere, insieme ad altri interessati, su questo aspetto, e di consigliami sul modo più adatto a realizzare la mia opera senza perdite e con piena soddisfazione di studiosi e amatori. Se io vendessi i dipinti sarebbe perché un compratore, apprezzandone la rarità, sarebbe disposto a pagarmi il loro valore e le spese del viaggio, ma così riuscirebbe a possederli soltanto una persona. Tuttavia, come ho detto, stamparli costa molto. Se le persone intenzionate ad abbonarsi e anticipare i soldi fossero numerose, allora potrei correre il rischio78.
La Metamorphosis Insectorum Surinamensium vedrà la luce, in latino, nel 1705. Nell’aprile Maria Sibylla aveva scritto a Volckamer: «Ho miniato una copia del libro» e poi: «Non ho potuto stamparlo in tedesco perché ne sono state ordinate solo 12 copie»79.
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Dopo la morte, avvenuta ad Amsterdam il 13 gennaio 1717, furono realizzate diverse edizioni del capolavoro della pittrice naturalista80. Queste, e gli acquerelli originali, sono oggi conservati in importanti collezioni pubbliche e private, musei e biblioteche: in Danimarca nella Galleria Reale delle Stampe di Copenaghen, in Gran Bretagna nel British Museum e nella Royal Library del castello di Windsor, a New York nel Metropolitan Museum of Arts, e perfino a San Pietroburgo81. Il riconoscimento del loro straordinario valore rende incomprensibile il fatto che il contributo alla conoscenza dell’America di Maria Sibylla Merian, viaggiatrice, scienziata e artista, sia rimasto del tutto ignoto alla cultura geografica italiana. Note 1. Natalie Zemon Davis, Donne ai margini, Tre vite del XVII secolo, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 174. Per la biografia della viaggiatrice, oltre allo studio della Zemon Davis si sono utilizzate nel presente lavoro, insieme alle fonti, le opere: Helga Ullmann, Maria Sibylla Merian, son époque, sa vie et ses oeuvres, in Maria Sibylla Merian, Les aquarelles de Léningrad, a cura di Ernst Ullmann, La Bibliothèque des Arts, Paris-Ernst Ullmann, Leipzig 1974, pp. 1775; Elisabeth Rücker, The life and personality of Maria Sibylla Merian. The Surinam work. Letters, in Elisabeth Rüker, William T. Stearn, Maria Sibylla Merian in Surinam. Commentary to the facsimile edition of Metamorphosis Insectorum Surinamensium (Amsterdam 1705) based on original watercolours in the Royal Library Windsor Castle, Pion, London 1982, pp. 1-75. 2. Maria Gregorio, Spunti per un profilo di Maria Sibylla Merian, in Maria Sibylla Merian, La meravigliosa metamorfosi dei bruchi, Rosenberg & Sellier, Torino 1993, p. 199. 3. Diderot-D’Alembert, Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, nouvelle impression en facsimilé de la première édition de 1751-1780, Friedrich Frommam Verlag (Günther Holzboog), Stuttgart-Bad Cannstatt, vol. 27, 1967, Tavola LXXXI e pp. 14-15. Nel vol. V (edizione parigina per i tipi di Briasson, David, Le Breton, Durand, MDCCLV) a p. 315, sotto la voce Ecole (de peinture) allemande si legge: «Merian, Maria Sibylla […] è nota per il suo interesse per la storia degli insetti, per l’intelligenza con cui ha saputo disegnarli e dipingerli, per i viaggi fatti a questo scopo nelle Indie, e infine per le opere illustrate a stampa che ne sono conseguite». 4. Wolfgang Johann Goethe, Werke, Cotta, Stuttgart-Tübingen, vol. 39, 1830, p. 233 (citato da Elisabeth Rücher, op. cit., p. 1). 5. Jules Michelet, L’insecte, Hachette, Paris 1880, pp. 161-163. 6. Dissertation sur la Generation et les Transformations des Insectes de Surinam: dans laquelle on traite des Vers et des Chenilles de Surinam, des Plantes, fleurs, et fruits dont ils vivent et dans lesquels on les a trouvez. On y parle aussi des Crapaux, Lezards, Serpens, Araignées, et autres petits animaux du même païs, peints sur les lieux d’après nature et depuis gravez avec beaucoup de soin. On y a joint un traité des changemens des poissons en grenouilles et des grenouilles en poissons. Par Marie Sibille Merian, Pierre Gosse, La Haye 1726, tav. XLIX. È un esemplare di questa edizione in latino e francese, conservato nella Biblioteca Marucelliana di Firenze, che si è utilizzato per il presente lavoro. La prima edizione dell’opera americana della Merian, di 60 tavole, era uscita nel 1705 in latino: Metamorphosis Insectorum Surinamensium. In qua Erucae ac Vermes Surinamenses, cum omnibus suis Transformationibus… Per Mariam Sibyllam Merian, Sumptibus Auctoris et apud Gerardum Valck, Amstelodami 1705. 7. Zemon Davis afferma che la Merian non usava microscopio ma la lente d’ingrandimento: nel commento ad alcune tavole la Merian dice, esplicitamente: «en considerant ce pa-
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pillon avec le secours du Microscope […]». Cfr. Natalie Zemon Davis, op. cit., p. 156 e Maria Sibylla Merian, Dissertation…, tavv. VI e IX. 8. Ann Sutherland Harris, Linda Nochlin, Le grandi pittrici 1550-1950, Feltrinelli, Milano 1979. 9. Théodore de Bry (1528-1598), ugonotto di Liegi esiliato dalla Controriforma a Francoforte, vi fonda un atelier da cui sono uscite, fra il 1590 e il 1598, le prime sei parti dei Grands Voyages, straordinaria cronaca illustrata di viaggi che erano stati compiuti nel Nuovo Mondo nel XVI secolo. L’opera fu conclusa dai figli (Johann Theodor e Johann Ismaël) e dal genero del primo, Matthäus Merian il Vecchio, con la realizzazione di altre quattordici parti di cui dodici Petits Voyages relativi all’Oriente (onde l’insieme fu chiamato Collectiones Peregrinationum in Indiam orientalem et occidentalem). Cfr. Le Théâtre du Nouveau Monde. Les Grands Voyages de Théodore de Bry, présenté par Marc Bouyer et Jean-Paul Duviols, Découvertes Gallimard Albums, Paris 1992, p. 129 e Ilaria Luzzana Caraci, La scoperta dell’America secondo Theodore De Bry, Sagep, Genova 1991, p. 30. Nel testo di Numa Broc, forse per problemi di traduzione, ci si confonde di una generazione quando si afferma che Merian è il genero di Théodore de Bry essendo invece il genero di Johann Theodor. Cfr. Numa Broc, La geografia del Rinascimento, a cura di Claudio Greppi, Panini, Modena 1989, p. 27. Anche Natalie Zemon Davis sembra confondere i due de Bry (op. cit., p. 147). 10. Matthäus Merian (1593-1650), basilese, disegnatore di vedute di città e di paesaggi, incisore su rame, editore, aveva sposato nel 1617 in prime nozze Maria Magdalena de Bry. Dalla coppia nascono otto figli di cui due, Matthäus il Giovane (1621-1687) e Caspar (1627-1686) proseguono l’attività del padre. Rimasto vedovo nel 1645, Merian si risposa a 53 anni con Johanna Sibylla Heim, sorella del predicatore calvinista olandese Wilhelm Christoph Heim. Il 2 aprile 1647 nasce Maria Sibylla; tre anni dopo Merian muore. 11. Jacob Marell, secondo marito della vedova di Matthäus Merian, era nato nel 1614 nella colonia formata dai pittori olandesi esuli nel Palatinato. La sua formazione all’interno di questa scuola (che ha il merito di aver determinato il passaggio dalla pittura paesaggistica del fantastico e immaginario tipica del XVI secolo al realismo caratteristico del XVII) e poi a Utrecht, dove era stato allievo del pittore di nature morte Jan Davidsz de Heem e, ancora, a Francoforte presso Georg Flegel, autore di minuziosi disegni di insetti, dovette in qualche modo influenzare Sibylla anche in quest’ultimo tipo di interesse. 12. Johann Andreas Graff (1637-1701) sposa la Merian, conosciuta nell’atelier di Marell, nel 1665. Nativo di Norimberga, Graff aveva studiato a Roma e Venezia la pittura architettonica. La sua produzione riguarda una serie di incisioni di paesaggi urbani, scene di strada, vedute di architetture. Dalla coppia nacquero due figlie: nel 1668 Johanna Helena ed esattamente dieci anni dopo Dorothea Maria, compagna della madre nel viaggio in Suriname. 13. Per un’accurata analisi dell’iconografia del de Bry cfr. Michèle Duchet (a cura di), L’Amérique de Théodore de Bry. Une collection de voyages protestante du XVIe siècle, Editions du CNRS, Paris 1987. 14. Sotto il titolo di Florilegium renovatum et auctum, Merian ripubblica nel 1641 il Florilegium novum di Johann Theodor del 1612. 15. Helga Ullmann, op. cit., p. 29. 16. Il ritratto, del 1679, raffigurante una donna con orecchini e collana di perle, spilla di granati, perle sui capelli, colletto di pizzo, è un olio su tela di cm 59 x 50 e si trova nel Kunstmuseum di Basel (Inv. N. 436). Lo stesso museo conserva l’originale dell’incisione riprodotta nel frontespizio della Metamorphosis-Dissertatio. La figura rappresenta una giovane donna seduta circondata di putti che giocano con le scatole di una collezione naturalistica; sullo sfondo, oltre una grande arcata, si estende un paesaggio tropicale (olio su tela, cm 59 x 50,5 Inv. N. 346). La Merian non ci ha invece lasciato un autoritratto. 17. La tavola fu pubblicata nell’edizione del 1640 dell’Itinerarium Italiae Nov-Antiquae… di Martin Zeiller (p. 105) e illustra il capitolo quinto che riguarda il percorso da Genova a Fi-
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renze. Cfr. Marco Sassetti, La diffusione dell’immagine della Spezia nell’iconografia a stampa dal XV al XIX secolo, in Massimo Quaini (a cura di), Carte e cartografi in Liguria, Sagep, Genova 1986, pp. 260-261. 18. Natalie Zemon Davis, op. cit., p. 148. 19. Si tratta di un album di modelli senza testo destinato ai pittori floreali e agli appassionati di fiori: il Florum fasciculus primus del 1675. Seguono altri due fascicoli nel 1677 e nel 1680; l’insieme viene ristampato come Neues Blumenbuch, Graffen, Nürnberg 1680. 20. L’argomento è analizzato nell’interessante lavoro di Simon Schama, Il disagio dell’abbondanza. La cultura olandese dell’epoca d’oro, Arnoldo Mondadori, Milano 1993, p. 360. 21. Maria Sibylla Merian, Neues Blumenbuch, citato. Cfr. Helga Ullmann, op. cit., p. 39. 22. Maria Sibylla Merian, Dissertation…, cit., Préface. 23. Maria Sibylla Gräffinn, Der Raupen wunderbare Verwandelung…, Johann Andreas Graff, Nürnberg 1679 e Id., 1683. La rappresentazione dell’intima connessione fra la flora dei prati e delle brughiere dell’Europa centrale e gli insetti che li popolano è confermata in Erucarum ortus, pubblicato postumo dalla figlia. Cfr. Maria Sibylla Merian, Erucarum ortus, alimentum et paradoxa metamorphosis, Joannem Oosterwyk, Amstelaedami 1718. 24. Natalie Zemon Davis, op. cit., p. 152. 25. Maria Sibylla Merian, Dissertation…, cit., Préface. 26. Ibidem, tav. LXIII. 27. Ibidem, tav. LXV. 28. La questione aveva visto intervenire l’inglese Thomas Mouffet, l’acquarellista e naturalista tedesco Johannes Goedaert, l’olandese Jan Swammerdam, Francesco Redi, Marcello Malpighi. 29. Helga Ullmann, op. cit., p. 45. Dürer aveva elaborato tutta una teoria sul significato sociale della pittura che attraverso immagini fedeli rende possibile la conoscenza «esprimendosi l’essenza delle cose attraverso la loro forma». Ibidem, p. 43. 30. Albrecht Dürer, Viaggio nei Paesi Bassi, a cura di Adalgisa Lugli, UTET, Torino 1995, p. 16. 31. Dal “momento” salernitano, ai Tacuina sanitatis tardo trecenteschi, all’erbario di Francesco Novello Carrara in poi, questa specialità aveva in Italia una tradizione illustre. Cfr. Giovanni Romano, Studi sul paesaggio, Einaudi, Torino 1991, pp. 61-64. 32. Maria Sibylla Merian, Dissertation…, cit., Préface. 33. Natalie Zemon Davis, op. cit., pp. 160-161. 34. Ibidem, p. 161. 35. Nicolas Bouvier, L’Échappée belle, éloge de quelques pérégrins, Editions Metropolis, Genève 1996, p. 75. 36. Helga Ullmann, op. cit., pp. 45-48. 37. Ad Amsterdam la Merian conosce il direttore dell’Orto Botanico Caspar Commelin che la aiuterà ad attribuire i nomi latini agli esemplari disegnati nella Metamorphosis. La scelta del Suriname è legata a conoscenze fatte a Waltha, come le sorelle del governatore Sommelsdijk. Inoltre, la figlia primogenita di Sibylla, Johanna Elena, aveva sposato un membro della comunità che a sua volta se ne era distaccato per dedicarsi ai commerci con il Suriname. 38. Maria Sibylla Merian, Dissertation…, cit., Préface. 39. Qualche anno prima della Merian era partita la spedizione di Charles Plumier nelle Antille, finanziata dal re di Francia (Description des Plantes d’Amérique, 1693) ed è del 1687 il viaggio naturalistico in Giamaica, favorito dal governo britannico, dell’inglese Hans Sloane. Quanto al borgomastro Witsen, egli aveva finanziato ricerche di naturalisti in India, Persia, Egitto. Cfr. Natalie Zemon Davis, op. cit., pp. 174-175. Sui naturalisti nell’area, si veda anche Jean Lescure, L’épopée des voyageurs naturalistes aux Antilles et en Guyane, in AA.VV., Voyage aux Iles d’Amérique, Archives Nationales, Paris 1992.
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40. Maria Sibylla Merian, Dissertation…, cit., Préface. 41. Maria Sibylla Merian, Metamorphosis…, edizione del 1705, citata. 42. In Italia sono uscite alcune tavole e descrizioni tradotte in Tropico degli insetti. Sibylla Merian entomopittrice nel Surinam, «Kos», vol. III, n. 25, settembre 1986, pp. 54-64. Più o meno le stesse tavole stanno in Suriname ovvero Avventure nella Guyana olandese alla caccia di schiavi fuggiaschi e di insetti tropicali, a cura di Gianni Guadalupi, Franco Maria Ricci, Milano 1992. Nel 1957 l’editore Görlich di Milano aveva pubblicato una cartella con dodici tavole a colori sotto il titolo Metamorfosi delle farfalle a Surinam. 43. La Rücker ha pubblicato una serie di lettere scritte dalla Merian da Francoforte (16821685) e da Amsterdam (1702-1712). La Merian parlava tedesco e olandese. Per comunicare con i corrispondenti inglesi si avvaleva di un traduttore che volgeva le sue lettere in francese. Elisabeth Rücker, op. cit., pp. 61-75. 44. Maria Sibylla Merian, Dissertation…, cit., Préface. 45. Ibidem, tav. LXIX. 46. Ibidem, tav. LXXI. 47. Ibidem, tav. XVIII. 48. Nel libro I della sua relazione, dedicato all’area antillana e alla fascia costiera dell’America meridionale, Benzoni aveva parlato di «maiz», «cazabi», «battata», «haie», uve selvatiche, olive «di tristo odore e sapor peggio» e altri diversi frutti come «hovi, platani, pigne, guaiane, mamei, guananave», abbondanti «ortaglie» (ma mancavano cipolle ed agli). Benzoni fa riferimento alle importazioni alimentari dall’Europa necessarie ai coloni e dice che degli alberi «condotti di Spagna» pochi avevano attecchito: «pomi granati, naranci, cedri, limoni e alcuni fichi; in quanto alle viti fanno piccoli racimoli». Ma già al suo tempo più importante di tutto era la produzione di zucchero. Cfr. Gerolamo Benzoni, Historia del Mondo Nuovo, libro I, in Ilaria Luzzana Caraci, op. cit., pp. 129-133. 49. Maria Sibilla Merian, Dissertation…, cit., tavv. I e II. 50. Ibidem, tav. II. 51. Ibidem, tav. XLVI. 52. Ibidem, tav. III. 53. Ibidem, tav. V. 54. Ibidem, tav. XII. 55. Ibidem, tav. XI. 56. Ibidem, tav. X. 57. David F. Noble, Un mondo senza donne. La cultura maschile della Chiesa e la scienza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 253-254. 58. Maria Sibylla Merian, Dissertation…, cit., tavv. XLIV e XLVIII. 59. Ibidem, tav. LXIV. 60. Ibidem, tav. XLI. 61. Ibidem, tav. L. 62. Ibidem, tav. V. 63. Ibidem, tavv. VII, XXXIII, IX, XIII. 64. Lettera scritta l’8 ottobre 1702 al naturalista Johann Georg Volckamer. Cfr. Elisabeth Rücker, op. cit., p. 65. 65. Cenni sulla condizione degli schiavi all’epoca del viaggio della Merian stanno in Natalie Zemon Davis, op. cit., pp. 178-181. Sulla schiavitù in Suriname nella seconda metà del Settecento riferisce ampiamente la relazione dello scozzese J. G. Stedman. Cfr. John Gabriel Stedman [1744-1797] Voyage à Surinam, Buisson, Paris 1799. 66. Maria Sibylla Merian, Dissertation…, cit., tav. XX. 67. Ibidem, tav. XXXVIII. 68. Ibidem, Préface.
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69. Ibidem, tav. XXXVI. 70. Ibidem, tav. XLV. 71. Marie-Noëlle Bourguet, La Collecte du monde: voyage et histoire naturelle (fin XVIIe siècle – début XIXe siècle), in Claude Blanckaert (a cura di), Le Muséum au premier siècle de son histoire, Muséum National d’Histoire Naturelle, Paris 1997, pp. 163-164. 72. Lettera a Johann Georg Volckamer dell’8 ottobre 1702, in Elisabeth Rücker, op. cit., p. 65. 73. Lettera alla pittrice e amica Clara Regine Imhoff del 29 agosto 1697, in ibidem, p. 64. 74. Lettera a Johann Georg Volckamer dell’8 ottobre 1702, in ibidem, p. 65. 75. Ibidem. 76. Ibidem, pp. 64-65. 77. Lettera al farmacista dell’Hospital of the Royal Society di Londra, James Petiver, datata 4 giugno 1703. Ibidem, p. 67. 78. Lettera a Johann Georg Volckamer dell’8 ottobre 1702. Ibidem, p. 65. 79. Lettera a Johann Georg Volckamer del 16 aprile 1705. Ibidem, p. 71. 80. La seconda edizione, di 72 tavole, fu realizzata nel 1719 (due anni dopo la morte dell’autrice) ad Amsterdam per i tipi di Joannes Oosterwich con il diverso titolo Dissertatio de Generatione… che si conserva nelle edizione successive sia in latino sia in altre lingue. Nel 1726, oltre all’edizione bilingue in latino e francese utilizzata nel presente lavoro, era uscita anche la prima edizione in inglese della Library of the Linnean Society di Londra. Un’altra edizione olandese è del 1730 e nel 1771 l’opera è edita di nuovo in latino e francese a Parigi. 81. Un fondo cospicuo di acquarelli della Merian è conservato nell’Accademia delle scienze di San Pietroburgo dove si era trasferita la figlia minore il cui marito era stato chiamato dallo zar a dirigere la galleria d’arte.
IV. Canterbury a Loreto. Cecilia Redi
[…] conosceva trecento ricette diverse per fare l’insalata, e tutto quel che conoscere si poteva in fatto di mescolanze di vini; suonava una mezza dozzina di strumenti musicali […]. Che poi non distinguesse un geranio da un garofano, una quercia da una betulla, un campo arato dall’incolto; che non capisse un’acca dell’altalenarsi dei raccolti, che preferisse una qualsiasi vista di città a qualunque paesaggio, formava oggetto di stupore […]. Virginia Woolf, Orlando
Le sue calze erano di un bel rosso scarlatto ben attillate, le scarpe morbidissime […]. Era una donna ricca di meriti che in vita sua aveva condotto ben cinque mariti sulla porta della chiesa, senza contare altre amicizie in gioventù. Tre volte era andata a Gerusalemme, e di fiumi stranieri ne aveva attraversati molti: era stata a Roma, a Boulogne, a San Giacomo in Galizia e a Colonia. Aveva insomma parecchia pratica di viaggi.
Così Geoffrey Chaucer ci presenta Alisonn di Bath, personaggio di spicco della composita «brigata» dei pellegrini diretti da Londra a Canterbury, «una donna che amava, insieme al piacere, i pellegrinaggi»1. Dall’invenzione letteraria con cui lo scrittore rappresenta, nella cornice del viaggio pellegrinale, uno spaccato della società inglese di metà Trecento, muove la studiosa italiana Dinora Corsi per analizzare i pregiudizi e gli stereotipi che hanno storicamente accompagnato il viaggio reale delle pellegrine. La finalità religiosa non giustificava l’uscita delle donne dai confini dello spazio domestico. Ponendo il proprio corpo in un territorio libero come quello della strada, esse mettevano gli uomini in tentazione e, se violate, era loro la colpa dello stesso peccare maschile. Le figure che rappresentano il diavolo abbigliato da pellegrina che seduce un monaco sono, in proposito, documenti eloquenti. Il pellegrinaggio femminile era dunque, nel basso Medio Evo, vietato, e le donne che lo praticavano venivano imprigionate e severamente punite. Volendo proprio effettuarlo, conveniva loro ricorrere alla consueta scappatoia del travestimento. Ancora una volta, la necessità di rendersi invisibili è una delle cause della scarsissima documentazione diretta pervenutaci. Tanto che, per trovare la fonte di un pellegrinaggio realmente avvenuto, ampia e autografa, si deve risalire ai primi secoli del cristianesimo – quando il viaggio per fede era «se non
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incoraggiato, ampiamente tollerato»2 – e, nella fattispecie, alla celebre relazione della galiziana Egeria partita nel 382 dal suo paese per Gerusalemme3. Un salto di tredici secoli ci porta dalla Galizia alla Toscana, da Gerusalemme a Loreto e da Egeria a Cecilia Redi, autrice della Descrizione del Viaggio alla S.ta Casa di Loreto fato dal Sig:re Balì Gio:Batta Redi, Sig:ra Sua Consorte e Figlia, S:a Sua Cognata, e Figlia et il Sig: re Cav:re Tommaso Burali, e Sig:ra Sua Consorte 4. Fra Egeria e Cecilia spazi e tempi si annullano solo per una curiosa coincidenza di conservazione di documenti. I loro scritti – noto, studiato e pubblicato quello, ben più importante, della prima, inedito quello della Redi – sono infatti entrambi conservati nella piccola sezione manoscritti della biblioteca della città di Arezzo. I punti di contatto fra i due documenti, come vedremo, finiscono qui. Pur ricondotto a tempi più recenti di quelli dell’intenso mondo di strada medievale, e a spazi nostri, il viaggio della pellegrina aretina di fine Seicento, che come era consuetudine viaggiava in gruppo5, non può neppure essere assimilato all’esperienza letteraria vissuta dai trasgressivi componenti la comitiva di Canterbury. Tuttavia, qualche traccia di quello spirito vi si conserva, proprio per l’atmosfera di viaggio di piacere, che nel caso del tragitto per Loreto è declinato in senso decisamente gastronomico. Il gruppo, formato da alcuni membri delle famiglie Redi e Burali, parte da Arezzo per il famoso santuario il 14 maggio del 1695. Il primo cognome ci riporta a uno dei più autorevoli casati aretini e al Redi scienziato degli insetti. I pellegrini rappresentano bene uno spaccato del ceto dominante dell’Arezzo tardomedicea: una società in stagnazione economica, con una popolazione in discesa per il frequente ripetersi di carestie, epidemie, alluvioni e con una netta separazione delle classi che si rifletteva anche nell’uso degli spazi urbani. Il bando del 1687, che aveva vietato alla «plebaglia» di trattenersi «nell’atrio e scale della piissima Fraternita e nel Corso delle Logge sotto pena alli trasgressori della cattura et arbitrio», testimonia come i luoghi pubblici avessero assunto nuovi significati e ruoli: da spazi della partecipazione e dello scambio a luoghi della selettività sociale. Ad Arezzo, come nell’insieme dello Stato toscano, era prevalsa una struttura dirigenziale ed amministrativa a carattere cortigiano e l’intera «vita aretina viene presentata come riflesso cortigiano, di quanto accade al di fuori della città o come occasionale punto di tangenza tra episodi esterni e piccoli eventi cittadini»6. Un «piccolo evento» è appunto anche quello raccontato da Cecilia: la comitiva in partenza è salutata dai nobili Montauti, e attesa al ritorno a un miglio dalla città da quattro carrozze con tutti i maggiorenti, vescovo compreso. Come vedremo, il resoconto è tanto meticoloso nel registrare i movimenti quotidiani quanto è privo di descrizioni di paesaggi. Il viaggio si snoda in un paesaggio toscano, umbro e marchigiano impliciti, solo evocati da topo-
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nimi che ci riportano alle rappresentazioni più alte dell’arte italiana: agli affreschi di Piero della Francesca, per esempio. Senza voler stendere un vero e proprio ponte fra il diario di Egeria e quello di Cecilia, che sarebbe troppo ardito, si può ricordare che anche a proposito della pellegrina basca è stato sottolineato lo scarso interesse per la descrizione dei luoghi, anche se una lettura più attenta dell’opera ha consentito a Elena Giannarelli di attenuare questo giudizio7. In ogni caso, se è vero che l’attenzione di Egeria è in gran parte catturata da tutto ciò che ha risonanza religiosa, non è per lo stesso motivo che Cecilia, assai più di Egeria, cancella dalla sua percezione i caratteri dello spazio geografico attraversato. La scrittura della pellegrina aretina è tutta rivolta a rendere conto del viaggio come stretto spostamento e come susseguirsi di incontri conviviali; non indugia mai nelle descrizioni dei paesaggi che le scorrono a lato nel cammino, nei quali si incastonano le mistiche Assisi e Gubbio, così rappresentative della fede che si reca a celebrare. Nelle poche ma fitte pagine della sua relazione ben scritta e puntuale, Cecilia esercita una sorta di bulimia del registrare: mezzi di trasporto e miglia percorse, tempi di percorrenza e tempo meteorologico e soprattutto movimenti, soste, pranzi e vivande e tanti nomi: nomi cognomi e titoli della gran quantità di «madame e cavalieri» ad ogni tappa incontrati. Se tutto questo priva il suo racconto del fascino di tanta letteratura di viaggio femminile che bada più allo spirito dei luoghi, e dei popoli, che al viaggio materiale, se in esso non si trova la minima traccia della spiritualità che informa l’itinerario orientale di Egeria, proprio per essere così schematico, materiale e terreno il racconto del pellegrinaggio dei piccoli nobili aretini di fine Seicento suscita un certo interesse. «Circa le ore 20»8 di quel piovoso 14 maggio, «al nome Santissimo di Dio», la comitiva prende congedo dai signori aretini che li hanno accompagnati a San Lazzaro, fuori dalle mura entro le quali la città seicentesca, aggrappata al colle su cui è sorta, è ancora totalmente racchiusa9. I sette viaggiatori (cinque donne e due uomini) sono sistemati su lettighe e calessi. La carovana ha al suo seguito «una cameriera et altra donna», il cappellano dei Redi, tre servitori a cavallo e un buffone a piedi. «Grandissima acqua, grandine e vento» accompagnano il primo tratto di strada. Alla Scesa di Cortona incontrano il nobile Laparelli, il quale usa «ogni forza» per condurli a casa propria, ma i viaggiatori rifiutano per arrivare «a un ora e mezzo di notte», dopo 15 miglia di cammino e «ben rinfrescati dall’acqua», a Camucia. Qui, «dopo essersi alquanto ristorati» si mettono a tavola e vengono raggiunti da un inviato dell’ospite mancato che porta loro «due grosse fiasche di squisito vino di Montepulciano di più sorti». Terminata la cena non resta tempo, come registra Cecilia, che per un breve riposo
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e difatti alle nove si riparte, ancora «accompagnati dall’acqua», per giungere «alla Magiona», sul lago Trasimeno: ma la viaggiatrice non lo nomina né, come si è detto, si lascia andare a qualche dettaglio sui luoghi. Registra invece l’arrivo «alle 17 ore avendo fatto miglia 16», e la celebrazione della messa. Poi, si ripete l’altro immancabile rito, il desinare, di nuovo irrorato da «due grosse fiasche di squisito vino di Montepulciano» per fornirli del quale il messo del Laperelli continua generosamente a inseguire la comitiva. Sono le 19 quando questa riprende il cammino, questa volta con tempo buono. Alle 23, dopo altre 10 miglia, i viaggiatori raggiungono Perugia. Scesi all’osteria, vengono subito raggiunti da un gruppo di dame e signori locali (Oddi e Ansidei) arrivati lì – Cecilia non lo spiega ma evidentemente non per caso – con un paio di carrozze. I viaggiatori, pressati con «sì premurose e replicate istanze con atti di somma violenza che fu necessità il cedere all’immensi favori e singolari grazie di tali dame e cavalieri», vengono portai a vedere il duomo e poi subito a casa del conte Oddi. Più della cattedrale (su cui Cecilia non fa osservazione alcuna), meraviglia la nostra pellegrina il banchetto: […] si viddero le tavole sontuosamente apparecchiate, e dopo lunghe e complimentose cerimonie comparvero diversi rinfreschi di cioccolata, e circa alle ore 4 s’entrò a tavola, accompagnati a questa mensa dalle sopraddette dame e cavalieri, et in detta mensa si viddero e si gustorono sontuosissime e copiosissime vivande, con lautissimi vini, terminata questa fu a ciascheduno assegnato il suo appartamento per il riposo con certa speranza di poter la ventura mattina seguitare il viaggio ma ciò non poté succedere […]10.
Infatti, prosegue Cecilia, «appena levati di letto comparvero per raddopiarci le grazie» gli Ansidei e altri personaggi della nobiltà locale che insistono per trattenere i viaggiatori a Perugia e, «con sei carrozze di comitiva», li conducono a vedere «le più cospicue chiese della città». Essendosi fatta l’ora del desinare, che si rivela non meno ricco della cena precedente, i viaggiatori sperano di poter proseguire. Ma gli intrattenimenti non finiscono a tavola: dopo il pranzo compaiono diversi strumenti, le sinfonie suonate sono numerose, Cecilia e il cavalier Burali vengono sollecitati a cantare due arie e neppure dopo tutto questo il gruppo riesce a riprendere la via di Loreto. Fatti risalire in carrozza, vengono condotti presso le monache di Santa Lucia per ascoltare i delicati canti delle religiose e anche Cecilia e Burali devono esibirsi di nuovo. «Rimontati in carrozza, continua la narratrice, andammo per appagare la curiosità alle Monache di Santa Caterina che portano in testa veli ad uso di cresta». L’incostanza del tempo inibisce altri giri, per cui la compagnia rientra a casa del conte dove, «dopo qualche discorso, fu preparato un festino di gio-
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cho, e circa alle tre ore fu portato un lauto rinfresco di canditi, confetture diverse, cioccolate con sorbetti di più sorti e nell’istesso tempo cantate diverse ariette da quei virtuosi. Terminato il festino, circa alle 4 ore fu apparecchiata la cena». Nella descrizione che riguarda la giornata non proprio di astinenza, nessun accenno al fatto che quel 16 maggio 1695 era un venerdì santo. La mattina del 17 maggio la partenza è alle dieci, non prima di aver ricevuto in dono dalla padrona di casa «un Baccile di Pinocchiati e un Baccile di Biscottini di Savoia». Alle 22 il gruppo giunge ad Assisi dove la magnificenza dell’ospite perugino, che li fa precedere dal suo segretario per ben sistemarli presso i Padri Francescani ed accompagnarli a visitare i santuari, ancora li conforta. Il giorno seguente, 18 maggio 1694, si viene finalmente a sapere dal diario che è Pasqua e la giornata in Assisi scorre «facendo ciascheduno le parti del bon cristiano», godendo della buona musica nella messa solenne, desinando nell’albergo e poi, prima di ripartire, assistendo, di nuovo, al vespro cantato. Il racconto prosegue con ritmi ora più stringati come, del resto, il viaggio meno rallentato, almeno fino all’arrivo a Loreto, da incontri mondani. Resta tuttavia un viaggio modulato più sui tempi dei pasti che su quelli della preghiera. Così, giorno dopo giorno, i pellegrini si spostano da Assisi a Foligno, da qui a Serravalle – dove sostano, «civilmente trattati», dalla «Vedova Ostessa all’insegna di San Marco» – da Serravalle a Valcimarra e Tolentino, «albergati all’insegna del Porco trattati sudicissimamente», da Tolentino a Macerata e Recanati. Il 22 maggio, esattamente dopo otto giorni di viaggio, raggiungono, alle 15 e percorrendo l’ultimo tratto a piedi, «la Santa Casa di Loreto». È un villaggio chiuso da mura e fortificato contro le incursioni dei Turchi, in posizione un poco elevata donde domina una bellissima piana, e, vicinissimo, il mare Adriatico o golfo di Venezia […]. Non ci sono altri abitanti che quelli necessari ai vari servizi di questo luogo di pellegrinaggio, come parecchi osti (però le locande sono parecchio cattive) e molti mercanti, per esempio venditori di cera, d’immagini, di rosai, di agnus Dei, di redentori e simili, con numerose botteghe riccamente fornite […]. Il Santuario è una misera vecchissima casetta di mattoni11.
Questa la descrizione che aveva dato un secolo prima Montaigne arrivando a Loreto da Roma nell’aprile del 1581. La Redi, invece, come d’abitudine, non si perde in descrizioni del luogo, vi entra e si racconta; elenca come sempre ogni spostamento e incontro conviviale: subito a venerare la Vergine e a messa, poi a desinare, poi a visitare, grazie all’intercessione degli immancabili signori conoscenti, il «Santo Cammino» e a baciare la «Santa Scodella». Cecilia e una compagna di viaggio ricevono la grazia di essere «elette per spazzare
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la Santa Cappella», poi tutti, dice, «s’andò godendo il rimanente della giornata in veder la città et andando a spasso a Monte Reale». I pellegrini restano a Loreto fino al 25 maggio, passando il tempo fra le suppliche e le botteghe «a provvedersi di corone e medaglie», visitando il tesoro, la cantina, le campane e la spezieria del santuario. E cosi via fra pranzi, cene e funzioni, incontri musicali anche l’ultima sera «fino all’una di notte, alla presenza d’alcuni cavalieri bolognesi li quali doppo, mentre eramo a cena, regalorono la Madama Cecilia Redi d’un bellissimo Baccile di mortadella di Bologna». Il diario, come il viaggio, non finisce qui. Continua raccontando un viaggio di rientro che non ripete a ritroso l’andata ma diventa un vero e proprio tour che tocca il mare (Ancona, Senigallia), risale il Montefeltro, va a passare per Gubbio, sbocca a San Sepolcro e Città di Castello per rientrare ad Arezzo il 3 giugno «nell’ore due di notte». L’esposizione qui fatta rende solo sommariamente l’idea dei limiti e, comunque, dell’interesse del documento steso dall’aretina. Dal punto di vista della storia del viaggio l’interesse risiede nell’indiscutibile precisione delle distanze fra le tappe e, soprattutto, nella rappresentazione dell’epicurea esperienza pellegrinale che non coinvolge solo i sette principali componenti ma l’insieme di una classe sociale più o meno nobile con cui essi per tutto il percorso hanno a che fare e che vive, come si diceva all’inizio, separata anche negli spazi più simbolici della fede. Rimozione mentale o (improbabile) assenza fisica, per la durata del pellegrinaggio la Redi non registra, in luoghi che sappiamo polarizzare i miseri, i bisognosi, gli ammalati, un solo questuante, un solo storpio. Cecilia Redi mette in scena unicamente se stessa (come pellegrina e non come persona: della propria indentità ci fa capire solo la propria passione per la musica e il canto), i parenti e gli amici e, da questo punto di vista, la sua relazione è uno specchio deformato, ma uno specchio. Proprio perché tanto stringata, senza commenti e divagazioni, proprio perché cronaca, se pur selettiva, la scrittura della pellegrina svela senza mediazioni le modalità di una pratica nella quale non è presente la principale cosa che dovrebbe contenere: la dimensione mistica. In quel triangolo di terra fra Toscana Umbria e Marche che esprime forse il più elevato tenore mistico della nostra cultura, immagini sacre e fiaschi di generoso Montepulciano, reliquie e biscottini di Savoia, processioni e coppie di capponi, messe cantate e «Bacili di Bellissimi Sparagi» (era primavera), si mescolano indifferenziati nell’ingenuo racconto della nobildonna. La Descrizione di Cecilia Redi è dunque l’interessante testimonianza femminile di come il viaggio devozionale non contenesse il senso originario, che il diario di Egeria esprimeva, di ricerca della sapienza, fuga dalla città (ogni città è Roma) identificata come concentrato di valori effimeri, rifiuto della
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mondanità, desiderio di ritorno alla semplicità evangelica12. D’altra parte, l’eccessiva diffusione e la cattiva interpretazione della pratica del pellegrinaggio, la faciloneria di chi cercava di dare all’itinerario religioso un valore salvifico che non poteva e non doveva avere, i grandi concorsi di folla che si trasformavano in occasioni di gozzoviglia, sono fenomeni che gli studiosi della «teologia del viaggio», cioè della valutazione teologica del viaggio, fanno risalire già al secolo IV, gli stessi tempi di Egeria13. La Descrizione è un piccolo documento un po’ misterioso14 che merita di essere approfondito e meglio inquadrato nella storia sociale della città da una parte e del pellegrinaggio dall’altra, come andrebbe ricostruita la biografia della sua autrice, di cui conosciamo solo il nome e la famiglia di appartenenza15. Tornando agli aspetti più descrittivi, fin da principio si è detto come nel diario di Cecilia resti del tutto inespresso il paesaggio. Nella Descrizione del Viaggio alla Santa casa di Loreto il percorso non è un itinerario ma una teoria di luoghi in successione fra i quali non esiste nulla se non il dato numerico astratto della distanza. Un riferimento, ad esempio, alle caratteristiche delle strade la viaggiatrice lo fa soltanto una volta quando, fra Fano e Fossombrone, scrive: «passato Fano ritrovammo strade così pessime che ci cagionarono non poca apprensione». Per il resto, lo spazio geografico è una sorta di carta bianca con pochi e sempre ripetuti, segni: solo quelli con cui la brigata ha strettamente a che fare (chiese, monasteri, osterie e dimore degli ospiti: niente mai, comunque, descritto). Non una collina, un bosco, un villaggio, un torrente. Non si può sapere se Cecilia avesse familiarità con il mare: da aretina, e dati i tempi, il mare non doveva averlo visto spesso, se già era accaduto prima del pellegrinaggio. Ad Ancona la troviamo, come sempre, in gran movimento: oltre a partecipare ai soliti pranzi e cene, assiste alla solenne processione che porta «la Ponta della Lancia che aprì il Costato a Gesù Cristo», ascolta nella chiesa dei Padri Filippini una «decente Musicha», incontra una quantità di personaggi della nobiltà locale, visita la città elencandone genericamente teatro, cattedrale, chiese e, di sfuggita, il porto. Anche a Senigallia non si sbilancia molto di più: «doppo udita la messa e veduto il porto con altri luoghi cospicui nelle 12 ore partimmo». Vede il porto, non il mare.
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Note 1. Citato in Dinora Corsi (a cura di), Viaggi di donne dall’Antichità al Novecento, Viella, Roma 1999, p. 17. 2. Ibidem, pp. 12-13. 3. Egeria, Diario di viaggio, a cura di Elena Giannarelli, Edizioni Paoline, Milano 1992. 4. Biblioteca Città di Arezzo, MS 27, Descrizione del Viaggio alla S.ta Casa di Loreto fatto dal Sig:re Balì Gio:Batta Redi, Sig:ra Sua Consorte e Figlia, S:a Sua Cognata, e Figlia et il Sig: re Cav:re Tommaso Burali, e Sig:ra Sua Consorte descritto dalla M.ma Cecilia Redi, 6 fogli (pp. 240-243 della filza). 5. Il «turismo cristiano» è, fin dai primi tempi, preferibilmente un’esperienza collettiva e mista. Egeria, che, nel suo caso, è l’unica donna, viaggia in compagnia di santi uomini – un prete, dei diaconi, e alcuni fratelli, cioè monaci – la compagnia è accolta da scorte nei tratti di percorso più pericolosi. 6. Vittorio Franchetti Pardo, Le città nella storia d’Italia. Arezzo, Laterza, Bari 1986, p. 97. 7. Elena Giannarelli, note a Egeria, cit., p. 157. 8. Riporto le indicazioni relative agli orari come risultano scritte nella relazione ma va tenuto presente che all’epoca considerata le ore erano calcolate sul corso quotidiano del sole, la mezzanotte corrispondeva all’incirca con l’ora successiva al tramonto ed era quindi variabile. Devo l’informazione a Roberto G. Salvadori. 9. Si vedano le figure di Teofilo Torri, Veduta di Arezzo, 1602 (particolare dell’affresco della cappella della villa agli Orti Redi) e di Marcantonio Bettacci, Città di Arezzo antica in Toscana, 1643 (pianta della città conservata nell’Archivio del Duomo). 10. Biblioteca Città di Arezzo, MS 27, cit., f. 1. 11. Michel de Montaigne, Viaggio in Italia, Laterza, Bari 1991, p. 228. 12. Egeria, op. cit., pp. 10-11. 13. Ibidem, pp. 23-24. 14. Il racconto del viaggio è sempre rigorosamente in prima persona plurale a dimostrazione di un’esperienza collettiva in tutti i suoi momenti. Quando cita se stessa, l’autrice non lo fa in prima persona ma con nome e cognome. Se il titolo Descrizione del Viaggio alla S.ta Casa di Loreto…, descritto dalla M.ma Cecilia Redi non sembra sollevare dubbi circa la paternità della relazione, quest’ultima modalità potrebbe significare qualcosa. Ad esempio che il testo possa essere stato trascritto da altri. Potrebbe anche essere stato dettato da Cecilia a uno scrivano: il documento (cinque pagine oltre la pagina del titolo, vergato dalla stessa mano) è perfetto e senza cancellature, la scrittura minuta, serrata, omogenea e molto ordinata. In ogni caso, il testo, che racconta al passato, è stato steso al ritorno sulla base di appunti molto dettagliati, data la meticolosità delle indicazioni cronologiche. 15. Non si sa quali fossero i legami di parentela di Cecilia con Francesco Redi, grande scienziato sì, ma anche legato a filo doppio ai Gesuiti, al bigotto Cosimo III e alla Controriforma più retriva. Anche Cosimo ha al suo attivo un pellegrinaggio a Loreto proprio nel 1695. Sia all’andata sia al ritorno, il granduca si ferma ad Arezzo dove è accolto con il fasto che si conviene a una persona del suo lignaggio. Stessa esperienza farà la principessa Violante, a Loreto nel 1714. Roberto G. Salvadori, Arezzo tra Seicento e Settecento: una società chiusa, in Franco Cristelli (a cura di), Arezzo e la Toscana tra i Medici e i Lorena (1670-1765), Edimond, Città di Castello (PG) 2003, pp. 115-151.
V. Una donna sulla Stella. Jeanne Baré
Per quanto sembrino cose di secondaria importanza, la missione degli abiti non è soltanto quella di tenerci caldo. Essi cambiano l’aspetto del mondo ai nostri occhi, e cambiano noi agli occhi del mondo. «Ah, se soltanto potessi scrivere!» esclamò. Non disponeva d’inchiostro, e di pochissima carta solamente. Fabbricò dell’inchiostro con delle more e del vino; e utilizzando alcuni spazi vuoti […], poté descrivere il paesaggio […]. Virginia Woolf, Orlando
Il viaggio intorno al mondo del barone Louis Antoine de Bougainville, il cui nome è indissolubilmente legato alla sfolgorante specie botanica che ben conosciamo, ha inizio il sabato 15 novembre 1766, quando la fregata Boudeuse salpa dalla rada di Nantes1. Due mesi e mezzo dopo dal porto di Rochefort parte l’altra unità della spedizione, l’Etoile, un’imbarcazione larga e pesante, adatta al trasporto delle vettovaglie. Le due navi si riuniscono alla metà del giugno 1767 a Rio de Janeiro e il 15 luglio ripartono per Montevideo da dove nel novembre riprendono il mare imboccando, il 5 dicembre, lo stretto di Magellano2. Al tempo di Bougainville, la Terra Australis Incognita – nome sotto il quale si indicavano il territorio antartico vero e proprio e tutte le terre comprese fra questo e i continenti – era uno spazio ancora largamente inesplorato. Di esso si sapeva quello che i viaggiatori avevano scoperto o credevano di avere scoperto dal Cinquecento in poi: notizie in parte rispondenti alla realtà, in parte fantastiche. Con la missione di Bougainville, la Francia si propone di rimuovere dalle Malvine il presidio coloniale installato negli anni precedenti restituendo le isole alla Spagna per poi procedere alla scoperta di terre nuove nel Pacifico dove impiantare colonie, stabilire commerci con la Cina, reperire le piante delle spezie da far acclimatare nell’Ile de France (Maurizio). Per il suo viaggio Bougainville ha tratto ispirazione soprattutto da de Brosses, presidente della Compagnia francese delle Indie, che nel 1756 aveva pubblicato l’Histoire des navigations aux Terres Australes. Oltre a fare il quadro delle missioni fino allora compiute dagli europei in quelle regioni, de Brosses prende le distanze dalla filosofia espansionistica degli spagnoli, fon-
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data su «avarizia e crudeltà» e caldeggia da parte della Francia non già lo stabilimento di «possessi» ma di «negozi» da collocare «in un piccolo numero di colonie ben situate con qualche buona fortezza per difenderle», convinto che «il sistema più sicuro per tenere i popoli selvaggi in un’utile soggezione sia nel fare in modo che essi abbiano sempre bisogno di darci le produzioni delle loro regioni per avere quelle della nostra»3. La traversata dello stretto di Magellano, dove la spedizione incontra patagoni e fuegini, durerà oltre cinquanta giorni; le due navi entrano nel Pacifico il 31 gennaio 1768 e il primo aprile avvistano un’isola meravigliosa e accogliente, che il capitano chiama Nouvelle Cythère, dove restano dal 6 al 15 di quel mese. All’Eden tahitiano seguirà una lunga erranza oceanica, durante la quale le due navi avvistano le Samoa, le Nuove Ebridi, la grande barriera australiana, le isole Salomone e la Nuova Guinea, finché approdano a Batavia, nelle Molucche olandesi, dove gli equipaggi stremati possono trovare ristoro. Una rotta senza più ostacoli le porta all’Ile de France e sulla via del ritorno con scali al Capo di Buona Speranza e all’isola di Ascensione. Il 16 marzo 1769 la Boudeuse è a Saint Malo, mentre l’Etoile arriverà a Rochefort il 12 aprile. Il viaggio, eccezionalmente conclusosi con il rientro di entrambe le imbarcazioni e dei due equipaggi quasi al completo, fu un successo sul piano delle tecniche di navigazione grazie all’applicazione sistematica di nuovi metodi di calcolo della longitudine, ma non realizzò molto degli obiettivi perseguiti. Gli studiosi che se ne sono occupati sono concordi nel riconoscere i limiti dell’impresa. Tahiti, dice Taillemite, era probabilmente stata vista da Quiros all’inizio del Seicento, e di sicuro l’inglese Wallis vi era sbarcato dieci mesi prima di Bougainville. Le Samoa, le Nuove Ebridi e la Nuova Guinea erano già state avvistate da diversi navigatori, anche se il viaggio del parigino ne aveva individuato più esattamente la posizione a vantaggio di un miglioramento delle carte. In ogni caso saranno Cook e La Pérouse ad attribuire le sue reali dimensioni al Pacifico, definito da Pierre Chaunu «filiforme» per la navigazione lineare che se ne era fino ad allora fatta4. Più che scoperte geografiche e presidi coloniali, Bougainville ottenne come risultato del suo viaggio la conoscenza delle popolazioni di quelle regioni. La sua testimonianza cominciò a mettere in discussione l’esistenza dei giganti della Patagonia e va soprattutto a lui il merito di aver fondato l’etnografia polinesiana; in questo gli fu prezioso “mediatore” Autourou, il tahitiano che egli portò con sé a Parigi e che «seppe interrogare con abilità»5. Il viaggio intorno al mondo di Bougainville è descritto nel giornale di bordo autografo del comandante6 e nella cospicua documentazione prodotta da diversi componenti della spedizione. Viaggiano su La Boudeuse compilan-
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do i loro journals il giovane volontario pilota Charles-Pierre Félix Feche7, lo scrivano Louis-Antoine Starot de Saint-Germain8, il passeggero volontario principe Nassau-Siegen d’Orange9 e Joseph Hervel, imbarcato come pilota solo a Maurizio10. Sull’Etoile si trovano il chirurgo François Vivez (o Vivès)11, Jean-Louis Caro, esperto dei mari indonesiani12, Pierre Duclos-Guyot, volontario13, il secondo pilota Constantin14 e, figura di primo piano, il medico e botanico Philibert Commerson, considerato «una specie di genio», autore di «un erbario eccezionale. Nessuno meglio di lui sa scoprire le piante e farne uno studio preciso, vivo, colorato»15. Data la statura del personaggio, Bougainville lo invita a sistemarsi con lui sulla capitana. Si capirà fra poco la vera ragione del rifiuto, motivato da Commerson con il pretesto che l’Etoile gli offre maggiori comodità e la possibilità di collocare i suoi «immensi» accessori: casse, libri, strumenti. Il naturalista ha al suo seguito l’aiuto-disegnatore Jossigny e un domestico16. Bougainville raccontò la propria esperienza anche in un volume, il Voyage autour du monde (1771), che secondo qualche studioso dette il via alla fama di Tahiti, mentre secondo altri non ebbe la fortuna editoriale che gli è attribuita17. Tirature del libro a parte, il viaggio ebbe grande risonanza, come dimostra il dialoghetto filosofico Supplément au Voyage de Bougainville di Diderot18. Paradossalmente per una missione che voleva essere esplorativa, scientifica ed economica, i riflessi più significativi e duraturi dell’impresa si sono avuti proprio sul piano culturale e letterario con la creazione del mito della Nouvelle Cytère, determinante nella percezione collettiva di quelle terre. Oltre a Diderot, un certo numero di philosophes e di scrittori si impadronì di Tahiti per farne una sorta di paradiso ritrovato, di nuova Arcadia modellata su personali teorizzazioni più che sulle effettive descrizioni del capitano, il quale ha per questa via inconsapevolmente contribuito alla visione da sogno dei mari del Sud che dura fino ai nostri giorni19. Il modo in cui il navigatore racconta l’arrivo nell’isola, chiarisce come il suo impatto con l’alterità si iscriva in una visione del “selvaggio” che da Rousseau porta a Gauguin20: Ben presto più di cento piroghe di diverse grandezze e tutte a bilanciere circondarono le nostre imbarcazioni. Erano cariche di noci di cocco, di banane e di altri frutti locali. Scambiammo in buona fede questi frutti con varie cianfrusaglie […]. Via via che ci si avvicinava alla terra, gli isolani circondavano le nostre navi. L’affluenza fu così grande che non riuscivamo ad attraccare in mezzo a tanta folla e rumore. Tutti venivano gridando tayo, che significa amico, offrendoci mille testimonianze della loro cordialità. Tutti ci chiedevano chiodi e orecchini. Le piroghe erano piene di donne che non sono da meno, per la gradevolezza del viso, della maggior parte delle europee e che, per la bellezza del corpo, potrebbero di gran lunga superarle tutte. La maggior parte di queste ninfe erano nude […].
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E poi: […] La giovinetta lasciò cadere negligentemente il drappo che la copriva e apparve agli occhi di tutti come Venere era apparsa al pastore della Frigia: essa ne aveva le forme divine21.
Il corpo celato Il Voyage di Bougainville contiene pagine molto interessanti sullo sbarco alla Nouvelle Cythère ma tace, di quello sbarco, un episodio che è invece registrato dal navigatore nel giornale di bordo, un fatterello che consegna una donna alla storia della grande esplorazione: Sabato 28 - domenica 29 [maggio 1768]. Bel tempo, bel mare fresco piacevole di S-SE, governato a O-NO fino alle 8 del mattino, poi a O 1/4N-O per quasi tutta la notte. Abbiamo navigato con le vele basse […] per aspettare l’Etoile che viaggia più lenta che mai. Eppure siamo nelle condizioni di non dover perdere un istante. Lo stato dei viveri esige che si arrivi a qualche presidio europeo […]. Nota: questo arcipelago delle Grandi Cicladi, a giudicare dalla vastità della parte attraversata e per quanto abbiamo potuto vedere da lontano, può estendersi per 4° di latitudine e 5° di longitudine22. Nota: ieri, a bordo dell’Etoile, ho dovuto prendere atto di un fatto molto singolare. Da qualche tempo si vociferava fra le due navi che il domestico del Signor Commerson, di nome Baré, fosse una donna. La sua struttura fisica, la sua scrupolosa attenzione a non cambiarsi mai di biancheria e a non effettuare alcun bisogno davanti ad altri, il tono della voce, il mento imberbe e diversi altri indizi avevano sollevato e accreditavano il sospetto. Questo sembrò essersi mutato in certezza in occasione di una scena verificatasi nell’isola di Citera. Il Signor Commerson era sceso a terra con Baré che lo seguiva in tutte le sue erborizzazioni portando le armi, le provviste, i quaderni per le piante con un coraggio e una forza tali che il nostro botanico lo chiamava “la mia bestia da soma”. Appena il domestico scende a riva, gli haitiani lo circondano, gridano che è una donna, e gli vogliono fare gli onori dell’isola. È stato necessario che l’ufficiale di guardia venisse a toglierlo d’impaccio. Sono dunque stato obbligato, in osservanza alle ordinanze reali, ad assicurarmi che il sospetto fosse fondato. Baré, con gli occhi pieni di lacrime, mi confessa di essere una ragazza, di aver ingannato il suo padrone presentandosi a lui, a Rochefort al momento dell’imbarco, in abiti maschili, di essere già stata al servizio di un ginevrino a Parigi, come lacché; racconta che, nata in Borgogna e orfana, la perdita di una causa l’aveva ridotta in miseria, così aveva deciso di travestirsi da uomo; quanto al resto, sapeva che imbarcandosi si sarebbe fatto il giro del mondo e un tale viaggio aveva stuzzicato la sua curiosità. Penso che sia l’unica del suo sesso e io ammiro molto la sua determinazione tanto più che si è sempre comportata con la correttezza più scrupolosa. Ho preso provvedimenti perché non le accada nulla di spiacevole. Penso che la Corte le perdonerà la disobbedienza alle ordinanze. L’esempio non dovrebbe essere contagioso. Non è né brutta né bella e non arriva a 25 anni23.
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Sulla partecipazione di Jeanne Baré (o Baret) all’impresa di Bougainville non si sa molto di più delle notizie qui condensate. Qualche altro particolare sulla vicenda lo si deriva dai diari di Saint-Germain, di Vivez e di Nassau-Siegen. Saint-Germain, riferendo della donna «giovane e non bella» imbarcatasi a Rochefort, giustifica Commerson pur esprimendo qualche perplessità: Sono convinto che il Signor Commerson, alla sua età e consapevole come dev’essere dello scandalo che questo poteva provocare nell’equipaggio in una lunga campagna come la nostra e che il fatto è totalmente contrario all’Ordinanza del re, imbarcandola non ne conoscesse il sesso. Ma quando siamo arrivati a Montevideo ne era di sicuro al corrente, se ne hanno le prove certe. Perché non l’ha rimandata a Montevideo insieme agli abitanti delle Malvine?24
Da Vivez è invece dedicato alla Baré il lungo spazio di un paragrafo dal titolo Storia particolare (e Storia mascherata25). Vivez racconta con tono molto ironico che Commerson, volendo «approfondire e aumentare le conoscenze della natura e dei suoi prodotti», assunse come aiutante una ragazza travestita da uomo che si diceva della Borgogna. Appena lasciata l’Europa fu afflitta da un forte mal di mare, come del resto il suo padrone, cosa che gli tolse la possibilità di «compatirla», tranne la notte; essa gli si era infatti così attaccata che, temendo che Commerson si sentisse male durante le ore del sonno, si fece carico di stare nella sua camera, cosa che «mi pareva normale», specifica Vivez. Il primo mese passò molto tranquillamente ma «un po’ troppo in fretta» per i due, dato che «il dolce riposo di cui da tempo godevano» fu interrotto dal mormorio sollevato dall’equipaggio convinto che a bordo si trovasse una donna. Sul cameriere si appuntarono gli occhi di tutti: egli aveva in effetti caratteristiche fisiche femminili e «un viso ornato di rossore, voce tenera e chiara, mano abilissima e delicata». Gli ufficiali fecero finta di nulla finché, divenuto il brontolio generalizzato, furono obbligati a far osservare al naturalista l’inopportunità di passare le notti con il suo servitore, al quale fu trovato un posto su un’amaca sotto il cassero di poppa insieme agli altri domestici. Subito i compagni vollero «far visita» alla «nuova ospite» che «ebbe la crudeltà di rifiutare le loro proposte» e anche il coraggio «di lamentarsene» facendoli punire. Il «nostro uomo posticcio», prosegue Vivez, continuò a sostenere di essere un maschio ma di essere fatto «come coloro che i sultani pongono a guardia del serraglio». Per apparire quale si era dichiarato si dette a lavorare «come un negro». Durante il soggiorno alla Plata andava per pianure e montagne ad erborizzare con il suo padrone, caricato di fucile, carniere, provviste alimentari e quaderni per le erbe. A Buenos Aires ebbe una lunga malattia che si pensava conseguenza del mal di mare26. Nello stretto di Magellano lo vedevano tut-
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to il giorno affaticato e al freddo entrare nell’acqua per catturare conchiglie o nel fitto dei boschi, con la neve, la pioggia e il ghiaccio, per raccogliere piante27. Quindi Vivez, che nel racconto si riferisce a Baré talvolta al maschile e talvolta al femminile, aggiunge: […] a suo merito va detto che tutti i lavori che ella faceva è impossibile perfino concepirli28.
Nei manoscritti di Vivez è poi riportato un episodio (non riferito da Bougainville) che, anche se di poco, anticipa la reazione degli isolani alla vista di Baré. Secondo Vivez, il primo ad accorgersi della falsa identità del cameriere era stato il “selvaggio” Boutavery (Autourou) al quale, appena arrivati ad Haiti, era stato permesso di salire a bordo dell’Etoile. Insinuante, Vivez indugia nei particolari: Boutavery aveva subito preso a corteggiare con insistenza la donna, astenendosi dal farlo solo quando il naturalista gli aveva fatto capire che essa era «sposata». Si era allora accontentato del «piacere di farsi pettinare, incipriare e vestire», cosa che essa faceva «con molta grazia». «Ci sarebbe stato ancora molto da dire, conclude Vivez passando alla descrizione delle meraviglie della Nouvelle Cythère, sull’imbarazzo del medico naturalista in questa circostanza, ma la digressione si sarebbe fatta troppo lunga»29. Si è detto che Vivez non stese il suo resoconto durante il viaggio ma lo redasse a posteriori: subito dopo il ritorno il manoscritto conservato a Rochefort, e fra il 1773 e il 1774 la copia di Versailles, che è stato possibile datare proprio in base al fatto che vi è registrata la morte di Commerson, avvenuta nell’Ile de France nello stesso 1773. In entrambi i documenti Vivez riporta altre notizie riguardanti la Baré la quale, a suo dire, dopo la partenza da Tahiti non rinunciò a sostenere il consueto ruolo maschile, finché gli altri servitori riuscirono a sottoporla a una visita forzata. L’umiliazione fu attenuata dai riflessi positivi di un’imposizione che, liberandola dall’obbligo del mascheramento, la sollevò dal portare fastidiose fasciature che con il gran caldo di quelle regioni le procuravano malattie alla pelle, anche se continuò a vestirsi da uomo. Malgrado le pressioni dei marinai, la donna manterrà per tutto il viaggio un’inalterata fedeltà al suo compagno. È ancora Vivez a riferire che né la Baré né Commerson ritorneranno in Francia con Bougainville; essi si fermeranno all’Ile de France dove la Baré «poco dopo l’arrivo» si sarebbe sposata con il fabbro dell’arsenale reale in quel porto30. Forse proprio per il fatto che Vivez scrive le sue note a posteriori e per sentito dire, quanto riferisce a questo proposito non trova riscontro nelle altre relazioni, né, come vedremo, nei documenti ufficiali, secondo i quali Jeanne Baré, sbarcata nell’Ile de France con Commerson, resta al fianco del bota-
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nico continuando ad accompagnarlo anche nelle lunghe spedizioni scientifiche nell’isola di Réunion e in Madagascar. Solo dopo la sua morte sposa un soldato e torna in patria, da dove si occupa di far rientrare le casse con tutti i materiali dello scienziato31. A dirci qualcosa della Baré è infine uno dei manoscritti di Nassau-Siegen. Egli accenna brevemente, ma con ammirazione, al noto episodio tahitiano: I marinai hanno scoperto a bordo dell’Etoile una ragazza vestita da uomo al servizio del Signor Commerson. Non voglio sospettare il naturalista di averla ingaggiata in un viaggio tanto pericoloso e mi piace accordare solo a lei l’onore di un’impresa così ardita, per la quale ha abbandonato le tranquille occupazioni del suo sesso e osato affrontare le fatiche, i pericoli e tutti gli accadimenti che ci si possono aspettare in una traversata di questo genere. Credo che la sua impresa meriti un posto nella storia delle donne celebri32.
Dalla documentazione analizzata risulta evidente come la fama della Baré sia casuale, dovuta all’imprevisto di essere stata scoperta e poi “raccontata” da personaggi come Bougainville e Diderot33. A differenza di Vivez che, lo abbiamo visto, tratta il caso con eccessiva ironia e continue insinuazioni, Bougainville minimizza lo scandalo e le possibili conseguenze penali per la donna (si limiterà a richiamare «amichevolmente ma con fermezza» Commerson infliggendogli un mese di arresti34) e non lesina benevolenza al finto cameriere. Svelato il trucco che da mesi faceva sussurrare gli equipaggi delle due navi, Bougainville si sente in dovere di proteggere la clandestina dagli indigeni ingenui e intuitivi35 come dai propri uomini dei quali, pochi giorni prima, a proposito dell’esplosione di entusiasmo per le meravigliose haitiane nude che si mostravano con l’innocente castità dell’età dell’oro, aveva scritto: «[…] come trattenere ai loro compiti, in mezzo a un simile spettacolo, quattrocento francesi, giovani, marinai, che da sei mesi non vedono una donna?»36 La presenza clandestina della Baré non sembra contrariare Bougainville, anzi, egli dichiara senza mezzi termini di «ammirare molto» la donna che, pienamente consapevole di imbarcarsi per una rischiosissima circumnavigazione del mondo, aveva deciso di parteciparvi. Il riconoscimento di Bougainville troverà una conferma ufficiale quando, diversi anni dopo, il ministro della Marina firma l’attribuzione alla Baré di una pensione con la motivazione che ella si dedicò in particolare al servizio del signor Commerson, medico e botanico, e condivise il lavoro e i pericoli di questo scienziato con il più grande coraggio […]. Morto Commerson, la Baré, il cui sesso era stato riconosciuto, sposò Dubernat, vecchio sottufficiale del reggimento di Royal-Comtois. Essendo ora entrambi giunti all’età che porta le infermità e non potendo più sopravvivere del loro lavoro, il Signor Ministro ha avuto la benevolenza di concedere a questa donna straordinaria una pensione di invalidità di 200 lire a partire dal primo gennaio 178537.
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Il riconoscimento morale ed economico del coraggio e dell’impegno dimostrati dalla Baré nel corso del viaggio e oltre non è poca cosa, ma mi sembra necessario chiedersi se i suoi meriti siano riducibili soltanto a coraggio e impegno. Nella storia dell’esplorazione, nonostante il favore con cui fu giudicata da Bougainville e da Nassau-Siegen, la sua esperienza resta ai margini della biografia di Commerson. In effetti non esiste prova di un suo personale contributo alla conoscenza delle caratteristiche geografiche, etnografiche o naturalistiche di quelle nuove terre: allo stato attuale degli studi non risultano relazioni, appunti, schizzi di suo pugno38. Resta peraltro difficile credere che in tanti anni passati attivamente a fianco dello scienziato seguendolo costantemente nelle campagne di raccolta delle piante, la viaggiatrice non abbia avuto anche un ruolo a tavolino, nel descriverle, ordinarle, nominarle. Jeanne Baré parrebbe un caso esemplare di donna che ha contribuito al sapere nel silenzio, facendo scienza all’ombra di un uomo. Le testimonianze che ho riportato non lasciano dubbi sulla sua partecipazione attiva alla ricerca sul campo praticata dal naturalista di Châtillon-sur-Chalaronne39. Dal giro intorno al mondo sull’Etoile Commerson ha lasciato, lo si è detto, numerosi documenti. In primo luogo, logicamente, materiali e osservazioni di carattere naturalistico. Ma anch’egli, come Bougainville, fu attratto dalle caratteristiche e dalle abitudini dei popoli nuovi. In particolare una sua nota contribuirà a diffondere il mito di Tahiti40, ma nei suoi appunti parla lungamente anche dei popoli dello stretto di Magellano41. In questi testi, ampio spazio è dedicato alle tahitiane non solo per descriverne la fatidica bellezza: Queste donne sono molto abili, fanno dei lavoretti molto belli: stuoie e coperte per dormire con la parte esterna disegnata, piccoli cappelli per sé, borsette per mettere i piccoli utensili, il tutto in giunco o paglia […], e infine una specie di mussolina, fatta di scorza d’albero battuta, con cui coprono seno e sesso. […] Le donne sanno nuotare bene come gli uomini. Ho visto lungo la riva rovesciarsi una piroga sulla quale stavano tre uomini, due donne e un neonato attaccato alla mammella. Non appena la madre si trovò in acqua, prese il bimbo per le ascelle in modo da tenergli la testa fuori e nuotò all’incirca per la lunghezza della nostra nave fino a raggiungere un’altra piroga senza per nulla allarmarsi, e tanto meno si preoccuparono le altre donne, che ridevano dell’incidente42.
A proposito della Terra del Fuoco, dopo aver osservato «Non credo che esistano sulla terra esseri più infelici di questi che non hanno altro asilo che boschi e montagne coperte tutto l’anno di neve e che sono quasi completamente nudi», aveva scritto: Inoltre, le donne sembrano caricate di tutti i compiti più pesanti, sono loro che pagaiano e portano le piroghe, sono loro che preparano da mangiare a terra e che co-
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struiscono le capanne, semplici intrecci radi fatti di rami ricurvi sui quali stendono delle pelli che si portano via quando se ne vanno43.
Gli esempi riportati – niente più di un dettaglio – sono la scusa per porre un interrogativo quasi certamente destinato a rimanere senza risposta. Quanto, dello sguardo di Jeanne sul mondo nuovo, è “incorporato” nello sguardo di Commerson? E poi, quanto dei materiali contenuti nelle trentaquattro casse, accompagnate da un inventario steso dall’intendente dell’Ile de France, rientrati a Parigi nel 1774 per essere inseriti nella collezione del Jardin du roi (poi Jardin des plantes)44 si deve al lavoro di Jeanne? Nei suoi cahiers de mémoires Commerson non lo dice. Non commenta neppure l’episodio di Tahiti. Il suo diario di viaggio manca di quei giorni: come ho detto c’è un passaggio di mano fra lui e Duclos-Guyot. Nella primavera del 1767, egli cede la penna al compagno il primo aprile. Dunque è Duclos a registrare, in data 18 luglio: è piovuto molto durante la notte… Hanno scoperto che il domestico del Signor Commerson, medico, era una ragazza, passata fino ad ora per un uomo45.
Di sicuro Jeanne Baré aveva trovato in Commerson il proprio pigmalione. La biografia piuttosto scarna ci dice di una donna di famiglia contadina, rimasta orfana e senza risorse a vent’anni46. La condizione di orfana e povera è ricorrente in questo ultimo secolo dell’Ancien Régime. È così che si trasferisce a Toulon-sur-Arroux al servizio del medico Philippe Commerson rimasto vedovo con un figlio da allevare. Ne diviene l’amante ma anche, data l’intelligenza viva e la voglia di imparare, allieva e collaboratrice nelle ricerche. Dopo una gravidanza e la nascita di un bimbo che, da donna senza marito, dichiara di padre ignoto e abbandona, la troviamo a Parigi con Commerson. Risiedono vicino al Jardin du Roi. Grazie al collega Poissonier e, probabilmente, all’appartenenza alla stessa loggia massonica di Bourg-en-Bresse fondata dall’amico Joseph-Jérôme de Lalande, Commerson viene nominato naturalista della spedizione di Bougainville con il titolo di naturalista del re47. La figura di Jeanne Baré ha recentemente suscitato l’interesse di qualche studioso sia a proposito del posto che essa meriterebbe nella storia della scienza48, sia per il significato che assume nella storia delle donne la pratica del travestimento, la cancellazione dell’identità femminile come modo per sopravvivere in una comunità maschile. Sylvie Steinberg muove dalla Baré per parlare di «corpo celato»49. Si tratta di un elemento importante anche nello studio del ruolo delle donne nelle esplorazioni geografiche: il travestimento come mezzo indispensabile per una donna che deve (vuole) affrontare viaggi molto impegnativi, un elemento in più da considerare in quel capitolo della storia dell’esplorazione che di solito riassumiamo sotto
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il titolo viaggio materiale. La preparazione del travestimento come la preparazione della carrozza, l’organizzazione del pasto, la ricerca della locanda… Se questo è senz’altro vero, nell’interpretare il travestimento la Steinberg va oltre l’idea di un escamotage di squisito carattere tecnico: il mascheramento del corpo risulta più facile e più credibile quando entrano in campo gli stereotipi legati al genere. Come riconoscere, si chiede Bougainville, una donna in questo infaticabile Baré, botanico già molto esperto, che abbiamo visto seguire il suo padrone in tutte le erborizzazioni, in mezzo alle nevi e sui monti ghiacciati dello stretto di Magellano, e per di più portando in queste marce forzate le provviste, le armi, i quaderni per le piante, con un coraggio e una forza da meritarsi dal naturalista il soprannome di sua bestia da soma? «L’ammirazione si mescola allo stupore», commenta Steinberg. L’idea che una donna non potesse avere istruzione rifletteva una concezione largamente diffusa. Incontrare una femme savante nel salotto di madame du Deffand o di Julie de Lespinasse non avrebbe avuto nulla di straordinario. Ma che una ragazza semplice avesse conoscenze botaniche appariva molto strano, o stravagante. Quanto alla resistenza fisica, sarebbe certamente parsa naturale all’esploratore se riferita a una contadina francese, o a una schiava nera delle Antille, non a una persona delicata, educata alle raffinatezze come è in fondo un domestico. «Il pregiudizio prolunga così bene la realtà che la gente nata bene ha finito per incorporare l’idea che le donne manchino totalmente di forza fisica»50. La storia del viaggio femminile potrebbe essere scritta, oltre che come una storia della geografia femminile, come storia di un lungo impegno fisico e morale delle donne per il superamento dei pregiudizi.
Note 1. Il viaggio di Bougainville è stato studiato in tutti i suoi aspetti soprattutto da Jean-Etienne Martin-Allanic, Bougainville navigateur et les découvertes de son temps, Presses Universitaires de France, Paris 1964, 2 voll. 2. Etienne Taillemite, Bougainville et ses compagnons autour du monde (1766-1769), Imprimerie Nationale, Paris 1977, vol. I, p. 184. 3. Louis-Antoine de Bougainville, Voyage autour du monde, édition critique par Michel Bideaux et Sonia Faessel, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, Paris 2001, pp. 8-9. L’Etoile è comandata da Chenard de La Giraudais, mentre il secondo pilota è il giovane astronomo Pierre-Antoine Véron. 4. Etienne Taillemite, op. cit., vol. I, pp. 18, 96 e 104. 5. Ibidem, p. 104. Il tahitiano, che durante il suo soggiorno a Parigi fu presentato al re e a noti personaggi della cultura come Buffon e Mademoiselle de Lespinasse (cfr. Jean-Etienne Martin-Allanic, op. cit., vol. II, pp. 969-970), secondo gli accordi riprenderà la via del ritorno nella propria terra ma non riuscirà a giungervi: muore il 6 novembre 1771 a Fort Dauphin in
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Madagascar. Su Autourou sono molto interessanti le osservazioni fatte nel suo Voyage à l’Ile de France (1818) da Bernardin de Saint-Pierre che lo aveva incontrato. Cfr. Michel Bideaux et Sonia Faessel, op. cit., pp. 424-425. 6. L’originale, in due volumi, è conservato in Archives Nationales (4JJ/142/17 bis et ter). Nello stesso archivio si trova una copia letterale di esso, senza data (ma di fine Settecento), con errori e, come rileva Taillemite, di scarso interesse. 7. Il Journal di Feche è conservato nella Bibliothèque du Muséum d’Histoire Naturelle di Parigi (MS 1896-1898). 8. Gli scritti di Saint-Germain sono stati pubblicati a cura di Charles de la Roncière con il titolo Le Routier inédit d’un compagnon de Bougainville, L. A. de Saint-Germain, écrivain de La Boudeuse, 1767-1768, «La Géographie», marzo 1921. 9. Di Nassau-Siegen esistono tre manoscritti, conservati rispettivamente in Archives Nationales, fonds de la Maison du Roi, O1 597, n. 28; Archives du Ministère des Affaires Étrangères, Mémoires et Documents, France, 2115 (f. 128-175); Archives Nationales, Marine, BB4 1001, plaquette n. 2. 10. Il diario di Hervel è complementare a quello di Bougainville, dato che il capitano smise di scriverlo dopo lo scalo ad Ascensione. Esso è conservato in Archives Nationales, Marine, 4JJ/83/104. 11. Del Journal di Vivez esistono due manoscritti: uno, steso subito dopo il suo arrivo in Francia, è conservato nelle Archives de la Marine di Rochefort, l’altro, redatto fra la fine del 1773 o gli inizi del 1774, si trova nella Bibliothèque Municipale di Versailles. 12. Archives Nationales, Marine, 4JJ/144/K n. 2. 13. Egli viaggiava prima sulla Boudeuse; si alternò a Commerson nello scrivere il diario. 14. Si tratta di un piccolo testo conservato nella biblioteca del Muséum (MS 680). Ricordato in Etienne Taillemite, op. cit., vol. I, p. 136. 15. Jean-Etienne Martin-Allanic, op. cit., vol. I, p. 461. 16. Ibidem, pp. 555-556. Anche i numerosi scritti e materiali di Commerson sono conservati nella biblioteca del Muséum. 17. Cfr. Michel Bideaux et Sonia Faessel, op. cit., pp. 19-22. 18. Denis Diderot, Supplément au Voyage de Bougainville ou Dialogue entre A. et B. in Bougainville, Voyage…, cit., pp. 289-340. 19. Etienne Taillemite, op. cit., vol. I, pp. 105-106. 20. Su Gauguin “geografo” si veda il recente e interessante lavoro di Jean-François Staszak, Géographies de Gauguin, Bréal, Rosny-sous-Bois 2003. 21. Bougainville, Voyage autour du monde par la frégate “La Boudeuse” et la flûte “L’Etoile”, Saillant & Nyon, Paris 1771, pp. 138 e 140-141. 22. Si tratta dell’arcipelago delle Nuove Ebridi, in realtà esteso per 7° di latitudine e 3° di longitudine. 23. Journal de Bougainville, 28 maggio 1768, foglio 181 del manoscritto trascritto e pubblicato da Etienne Taillemite, op. cit., vol. I, pp. 348-349. 24. Etienne Taillemite, op. cit., vol. II, p 101 (nota alla data 22-23 maggio 1768 del Journal di Feche) 25. Journal de Vivez, trascritto Etienne Taillemite, op. cit., vol. II, p. 237. I due titoli (Histoire particulière e Histoire masquée) compaiono rispettivamente nel manoscritto di Rochefort e in quello di Versailles, i cui contenuti variano di poco. 26. Nel manoscritto di Versailles il riferimento alle conseguenze del mal di mare è molto più ironico: «La cronaca scandalistica pretende che ella abbia avuto a Buenos Aires un’importante malattia acuta, conseguenza delle cure dedicate a sollevare il suo padrone dalla debolezza delle notti in cui l’aveva vegliata». Ibidem, p. 238. 27. La spedizione soggiornò nell’area dello stretto fra il 5 dicembre 1767 e il 26 gennaio 1768. Etienne Taillemite, op. cit., vol. I, p. 109.
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28. Journal de Vivez, in ibidem, vol. II, p. 238. 29. Ibidem, pp. 238 e 240. 30. Ibidem, pp. 240-241 e 267-268 (Suitte de l’histoire particulier). Questo nel manoscritto di Rochefort. Nel documento di Versailles Vivez aggiunge che la donna, sposata con il fabbro, conduceva «un très bon ménage» mentre Commerson era morto dopo nello stesso luogo senza aver potuto dare al pubblico le osservazioni fatte durante il viaggio, fatto che costituiva una gran perdita per la botanica e la storia naturale (p. 241). 31. Etienne Taillemite, op. cit., vol. I, p. 89; Jean-Pierre Poirier, Histoire des Femmes de Science en France. Du Moyen Age à la Révolution, Pygmalion, Paris 2002, p. 340; Michaud, Biographie Universelle Ancienne et Moderne, tome VIII, Desplaces, Paris-Brockhaus, Leipzig, s.d., ristampa anastatica: Schmidt Periodicals, Bad Feilnbach/Allemagne 1998, pp. 688-690. 32. Journal de Nassau-Siegen, trascritto da Etienne Taillemite, op. cit., vol. II, p. 408. 33. Diderot racconta la scoperta della Baré in questi termini: «B. Questa scena di benevolenza e di umanità fu interrotta dalle grida di un uomo che chiedeva aiuto; era il domestico di Bougainville. Alcuni giovani tahitiani gli si erano buttati addosso, l’avevano steso a terra, lo spogliavano e si apprestavano a fargli la “civilité”. A. Cosa? Un popolo così ingenuo, dei selvaggi così buoni, così onesti?… B. Vi sbagliate; questo domestico era una donna travestita da uomo. Passata inosservata all’intero equipaggio per tutta la durata del viaggio, i tahitiani indovinarono il suo sesso alla prima occhiata. Era nata in Borgogna; si chiamava Baré; né bella né brutta, aveva ventisei anni. Non era mai uscita dal suo villaggio e il suo primo pensiero fu di fare il giro del globo; mostrò sempre saggezza e coraggio. A. Questi fragili congegni racchiudono talvolta animi molto forti». Cfr. Denis Diderot, op. cit., p. 303. 34. Jean-Etienne Martin-Allanic, op. cit., vol. I, p. 721. Il divieto di imbarcare donne sulle navi del re era regolato dall’ordinanza del 15 aprile 1689 (le donne non potevano salire a bordo che per brevi visite e non vi potevano passare la notte, pena un mese di sospensione per gli ufficiali e quindici giorni di ferri per l’equipaggio) e precisata da quella del 25 marzo 1765 che comprendeva nel divieto anche i giorni di festa. Etienne Taillemite, op. cit., vol. I, p. 90. 35. A questo proposito Steinberg scrive che «l’osservazione dei bambini come quella dei tahitiani non si riconduce a tutta una serie di codici che negli adulti sono profondamente integrati per cui la manifestazione dell’estraneità è spontanea e non passa attraverso l’autocensura del ragionamento». Cfr Sylvie Steinberg, Jeanne Baré. Aventurière et travestie, «Lunes», n. 20, luglio 2002, p. 46. 36. Bougainville, Voyage…, cit., p. 141. 37. Il documento, datato 13 novembre 1785, è riportato in Etienne Taillemite, op. cit., p. 88. 38. Per quanto la documentazione di Commerson sia stata studiata non pare che qualcuno l’abbia analizzata nell’ottica di individuare eventuali interventi di mano della Baré. 39. Phlibert Commerson vi era nato nel 1727 da un notaio, aveva studiato medicina a Montpellier, quindi si era dedicato allo studio della botanica e della storia naturale. Aveva iniziato fin da giovane la formazione di un erbario che lo rese noto fra gli studiosi del settore fra cui Linneo. Dopo aver percorso le Alpi svizzere e savoiarde erborizzando, si era stabilito nella propria città natale dove aveva realizzato un giardino botanico di grande interesse. Nel 1764 si stabilisce a Parigi dove viene incaricato dal governo, dapprima di redigere le istruzioni di un viaggio naturalistico nelle terre Australi, poi di accompagnare Bougainville. È lui a classificare e dare il nome (ispirandosi, come Linneo, a persone conosciute), a numerose specie nuove osservate e raccolte durante il viaggio. Cfr. Michaud, op. cit. 40. Michel Bideaux et Sonia Faessel, op. cit., p. 38. Si tratta della Description de l’isle de la Nouvelle Cythère où nous avons relâché le 6 avril 1768 vers le 3 h après midy, e di un Post-scriptum sur l’isle de la Nouvelle Cythère ou Tayti, conservati nella biblioteca del Muséum e trascritta da Etienne Taillemite, op. cit., vol. II, pp. 496-509. 41. Ibidem, pp. 493-496.
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42. Ibidem, p. 497. 43. Ibidem, p. 496. 44. I materiali di Commerson, inviati a Parigi dal disegnatore Jossigny, sono pervenuti in modo frammentario e spesso informe. Jussieu, che li doveva pubblicare, non li mise mai in ordine e restarono in una cassa fino al loro ritrovamento in un granaio in casa di Buffon. Lacépède ne usufruirà ampiamente per la sua Histoire des poissons. Cfr. Etienne Taillemite, op. cit., pp. 134-135 e Michel Bideaux et Sonia Faessel, op. cit., p. 28. Questi autori correggono un’affermazione della Biographie Universelle di Michaud, secondo la quale Jussieu e Lamarck avevano pubblicato i lavori di Commerson. Cfr. Michaud, op. cit. 45. Journaux de Commerson et de Duclos-Guyot, Troisième cahier des mémoires, trascritti in Etienne Taillemite, op. cit., vol. II, p. 485. 46. Jeanne Baré, o Baret, risulta nata da famiglia contadina in un villaggio nei pressi di Autun il 27 luglio del 1740. Cfr. Jean-Pierre Poirier, op. cit., p. 337. 47. Jean-Pierre Poirier, op. cit., p. 337. 48. Si tratta appunto del lavoro di Jean-Pierre Poirier, cit, pp. 332-342. 49. Sylvie Steinberg, La confusion des sexes. Le travestissement de la Rennaissance à la Révolution, Fayard, Paris 2001, pp. 131-132. 50. Sylvie Steinberg, Jeanne Baré…, cit., pp. 47-48.
VI. L’altro orientalismo. Mary Montagu
[…] dopo essersi lavata, aveva indossato una di quelle casacche, e pantaloni alla turca, che s’addicono indifferentemente ai due sessi […]; finalmente, si passò al collo alcuni fili di smeraldi e di perle del più bell’oriente, che avevano fatto parte del suo guardaroba d’ambasciatore. Virginia Woolf, Orlando
«Non sono stata qui neanche un anno e già sto per andarmene: è il mio destino di girovaga», scrive Mary Montagu all’abate Conti il 19 maggio 17181. In effetti la ventinovenne Lady era giunta a Costantinopoli, meta non proprio consueta per una donna, pur nobile, del suo tempo, dopo un lunghissimo itinerario via terra attraverso mezza Europa, necessariamente frammentato in tante tappe, complicato da tratti ripercorsi a ritroso per consentire al marito ambasciatore gli abboccamenti necessari. Per lui, in missione diplomatica, un viaggiare precisamente finalizzato. Per lei, che lo accompagnava, un esaltante girovagare. E tuttavia la nobildonna inglese non poteva sapere, allora, quanto il suo sarebbe stato davvero un destino da nomade. L’altra esperienza determinante del suo “destino” è stata la scrittura: poesie, articoli giornalistici, saggi, ma soprattutto lettere. Ben novecento lettere raccontano la sua biografia sullo sfondo di una geografia settecentesca che scorre come una sequenza di acquarelli. Prima, gli ordinati paesaggi agresti e i lussuosi interni londinesi dell’Inghilterra aristocratica, poi, i microcosmi inesplorati del sontuoso Oriente (l’harem e l’hammam), quindi altri scenari mediterranei come quelli di Tunisi e di Genova e quelli pastello della Venezia del Canal Grande, della pianura bresciana, del lago d’Iseo. Infatti, oltre che dal viaggio in Oriente, la vita di Lady Montagu è segnata da una lunghissima permanenza in Italia: più di ventitré anni interrotti da soggiorni in Svizzera e Francia. C’è quanto basta per intuire come l’epistolario di Lady Montagu rappresenti il grande esordio della scrittura di viaggio femminile. Nata nel 1689 a Thoresby, nella contea di Nottingham, e rimasta prestissimo orfana di madre, Mary Pierrepont trascorre l’infanzia nel castello di Salisbury, affidata alla nonna paterna2. Quando, nel 1698, anche questa muore, Mary ritorna dal padre, duca di Kingston, eletto in Parlamento, vivendo fra
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la casa di città, a Piccadilly, e la casa di Thoresby: una magnifica dimora di campagna in stile palladiano, provvista di una vasta biblioteca. Della propria formazione avrebbe avuto modo di dire che era stata «la peggiore del mondo». Un’insoddisfazione già manifestata nella prefazione a una serie di poesie composte da adolescente: «Primo: sono una Donna; secondo, senza alcuna Istruzione; terzo, tutto questo è stato scritto a quattordici anni». In altri scritti racconta di aver intrapreso lo studio del latino da sola, ignara delle difficoltà, e di essere riuscita a impararlo grazie a una memoria non comune e a una forte volontà. Aveva appreso presto il francese; il padre si era preoccupato anche di procurarle un maestro per «studi gentili» come l’italiano e il disegno3. La futura Lady Montagu riesce, in tal modo, ad acquisire una cultura che darà spessore, senza togliere leggerezza, alla descrizione del viaggio in Oriente. Il diario che, senza eccedere, contiene citazioni storiche e letterarie, riferimenti ai classici e al mito, risulta brillante, ironico, mai appesantito dal pedante eruditismo di certa letteratura odeporica. Durante il percorso di ritorno scrive da Tunisi una lettera intensa in cui racconta il «viaggio attraverso le parti più gradevoli del mondo, dove ogni vista rievoca un pensiero poetico»: la partenza da Costantinopoli, la vista di Gallipoli nel golfo del Chersoneso, il passaggio dei Dardanelli, la visita a Troia di cui «rimane solo il luogo ove sorgeva». Abbandonandosi, «come Don Chisciotte sul monte Montesinos», per parecchie ore a piacevoli fantasticherie, Lady Montagu in sella a un asino contempla «queste pianure e questi fiumi tanto celebrati, ammirando l’esattezza geografica di Omero» di cui tiene in mano l’Iliade4. Tornano alla biografia giovanile, nel 1712 sposa Edward Wortley Montagu, ex studente di Cambridge avviato alla politica e alla diplomazia, fratello dell’amica Anne Wortley, morta precocemente nel 1709. Il padre aveva per lei altri progetti e quando Wortley gli aveva chiesto la mano di Mary, tra i due uomini si era aperta sulla questione della dote una sgradevole trattativa, che aveva fatto sentire la giovane donna in vendita «come una schiava». Dato che un accordo non era stato raggiunto, Mary propone al fidanzato la fuga e il matrimonio segreto. Il tema della dote tornerà più volte negli scritti di Lady Mary e le darà motivo per la stesura, nel 1726, del pamphlet significativamente intitolato Saggio sull’errore di dare patrimoni alle donne nel matrimonio5. Più in generale, saranno al centro delle sue riflessioni le problematiche femminili e i diritti delle donne, in primo luogo all’istruzione. Dalle lettere di quegli anni risulta con evidenza che fra Mary e Wortley non esisteva intesa; non sembra pertanto azzardato supporre che abbia voluto sposarlo, inventandosi una storia romantica, per spirito di ribellione. Tutto concentrato nella propria carriera, assente fisicamente ed affettivamente, Wortley non è il compagno desiderato.
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Nel 1715 Lady Mary segue a Londra il marito deputato dei Comuni per il partito whig. Ben accolta, conduce una vita molto brillante, frequenta la corte di Giorgio I e intellettuali come l’Abbé Antonio Conti, matematico e letterato padovano, e il poeta Alexander Pope, ai quali indirizzerà diverse lettere dal viaggio in Oriente. In questo stesso periodo viene colpita dal vaiolo; non ne muore, come era accaduto al fratello, ma rimane sciupata nel viso. Nel 1716 Edward Montagu è incaricato dal Parlamento di una delicata missione diplomatica a Costantinopoli: l’Inghilterra si propone di mediare la pace fra austriaci e turchi. Piena di entusiasmo, la moglie lo segue con il figlio di tre anni; in Turchia nascerà una bambina. La permanenza sarà assai meno lunga del previsto. Le trattative condotte da Wortley non sono condivise dal centro, l’ambasciatore a Vienna trama per sostituirlo nell’incarico e vi riesce: nel 1718 i Montagu devono rientrare a Londra. Del vasto epistolario di cui Mary Montagu è autrice – le prime lettere documentate risalgono al 17086 – il nucleo più interessante è senz’altro costituito dalle lettere scritte in quei due anni di viaggio. Siamo all’epoca e in un ambiente in cui le lettere di questo genere circolano pur senza essere pubblicate, di modo che la fama “turca” precede Lady Mary al rientro in Inghilterra7. Delle lettere realmente scritte nei due anni di viaggio soltanto una è arrivata a noi. Tutte le altre sono state riscritte fra il 1719 e il 1724 sulla base di appunti e del diario personale, poi bruciato dalla figlia. La lunga rielaborazione e la prefazione che la nostra autrice chiede all’amica femminista Mary Astell, testimoniano come pensasse alla loro pubblicazione, sia pure postuma8. In effetti le “lettere turche” furono stampate per la prima volta, sia in inglese sia in francese, un anno dopo la morte della viaggiatrice, e successivamente ristampate numerose volte in entrambe le lingue9. L’edizione francese del 1764 contiene la prefazione firmata «M.A. 18 dicembre 1724» accompagnata dalla precisazione che si tratta di «una signora a cui Milady Montagute aveva affidato queste lettere nel 1724». In tale introduzione la Astell spiega che la Montagu «ebbe occasione di conoscere ciò che era sfuggito alle ricerche degli altri viaggiatori». Quindi prosegue: «L’autrice mi ha affidato il suo manoscritto per soddisfare la mia curiosità sui suoi viaggi. Rispettando la sua volontà l’ho fatto stampare solo dopo la sua morte […]. I critici, che “mordono” soprattutto le opere migliori, non mancheranno di attaccare questa, ma penso che il pubblico si renderà conto che le donne sanno meglio degli uomini trarre partito dai loro viaggi. Il lettore non sarà per niente annoiato dalla monotonia dei lunghi dettagli che i racconti di viaggio di solito presentano»10. Al rientro da Costantinopoli Lady Montagu vive fra la casa di Covent Garden, a Londra, e quella di Twickenham, villaggio fuori città, cenacolo di intellettuali. Pope, dopo un’amicizia molto stretta, infastidito dal fatto che
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Lady Mary continuava a vantare doti poetiche pari alle sue, comincia a bersagliarla per posta con scritti fortemente satirici. Si scatena fra loro uno scontro pubblico a colpi di penna che procura alla scrittrice la fama di donna scandalosa. Nell’introduzione a un’edizione ottocentesca delle lettere si attribuisce piuttosto lo scontro all’opposta appartenenza politica, tanto è vero che ad accusare con violenza Lady Mary interviene anche un illustre amico di Pope, il tory Jonathan Swift11. Non dovette essere estraneo alla questione il clima di fastidio, quando non di odio e derisione che, nell’Inghilterra come nella Francia dell’epoca, si creava intorno alle femmes savantes. E Lady Mary femme savante lo era senz’altro, con la sua cultura di continuo accresciuta da una sorta di «bulimia da lettura» che la accompagnerà per l’intera esistenza. Ce lo ha spiegato bene Michèle Plaisant che, analizzando le lettere della Montagu con attenzione a questo specifico aspetto, ne ha messo in evidenza l’ampia e non pedante erudizione. In esse è la stessa scrittrice a minimizzare continuamente la vastità delle proprie conoscenze. Un atteggiamento deliberatamente «strategico» proprio per non apparire troppo istruita. Secondo Plaisant, il fatto che la società italiana fosse da questo punto di vista più aperta non sarebbe stato ininfluente nella decisione di Mary di partire alla volta della penisola12. Separata in sostanza dal marito, Mary Montagu non aveva avuto più fortuna con il figlio, figura stravagante e irregolare, che gli studiosi del costume inglese del Settecento annoverano fra i personaggi eccentrici. Malgrado essa stessa avesse meritato la reputazione di eccentrica, Lady Mary non seppe essere indulgente con il giovane Edward che, «dongiovanni inturbantato e poliglotta, visse a suo agio fra gli arabi mentre la famiglia lo rifiutò come irresponsabile»13. Mary Montagu ha quarantasette anni quando nel 1736 incontra il giovane veneziano Francesco Algarotti che era arrivato in Inghilterra dalla Francia e stava scrivendo Newtonianismo per le dame14. Se ne innamora e, per rincorrerlo, nel luglio del 1739 lascia l’Inghilterra. Il suo “viaggio sentimentale” ha come prima meta Venezia. La sua casa sul Canal Grande è un salotto dove si ritrovano letterati e “granturisti” inglesi. Nel corso degli anni 1740 e 1741 la nobildonna non fa che girovagare per l’Italia. Fra l’agosto e l’ottobre del 1740 è a Firenze (di cui descrive i monumenti), ospite a palazzo Ridolfi. Il 19 ottobre raggiunge Roma. Vi resta un mese frequentando clero e famiglie illustri. Trasferitasi a Napoli tenta, senza riuscirci dato che non ottiene il permesso speciale del re, di visitare gli scavi di Ercolano appena aperti. In compenso sale sul Vesuvio la cui eruzione risale solo a quattro anni prima. Di Napoli apprezza il clima; trova i napoletani migliori dei veneziani e dei fiorentini, ma fra il gennaio e il febbraio del 1741 è di nuovo a Roma per cinque settimane. Il 24 febbraio è a Livorno; vi
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resta diverse settimane e poi, passando da Genova torna nel marzo a Torino, dove si riunisce per breve tempo ad Algarotti. Nel maggio Lady Mary riprende la strada di Genova. Dopo esservi rimasta circa quattro mesi, allarmata dall’avvicinarsi delle truppe spagnole, riparte, passa di nuovo da Torino e, nell’ottobre, va in Svizzera. Le lettere continuano immancabilmente a scandire spostamenti e permanenze. Quelle indirizzate ad Algarotti, inutili appassionate missive spesso senza risposta, testimoniano il suo disagio. Da Ginevra Lady Montagu si sposta a Chambéry dove resta fra il novembre del 1741 e la primavera del 1742. Le sue lettere parlano di un luogo che assomiglia ai vecchi villaggi inglesi. Nell’aprile è a Lione, e nel maggio ad Avignone, dove si ferma per quattro anni. Ottiene in donazione dalla città un’antica torre in pietra dalla quale gode di un’ampia e magnifica vista sulla campagna provenzale e della Linguadoca: «il paesaggio più bello che io abbia mai visto», dice15. I suoi spostamenti sono spesso contrassegnati dall’acquisto di una dimora. Nel luglio del 1746 ritorna in Italia dopo aver conosciuto e stretto una relazione con un altro italiano, un certo conte Ugolini Palazzi che si sarebbe rivelato uno sfruttatore. Arrivano a Brescia il 20 agosto e dopo una malattia durata due mesi, Lady Mary si trasferisce in campagna a Gottolengo, quindi, attirata dalle qualità terapeutiche delle sue acque, a Lovere sul lago d’Iseo. Vivrà fra Lovere, Gottolengo, Venezia e Padova, sempre in abitazioni di sua proprietà. Della sua biblioteca veneziana ricca di volumi in latino, che Lady Montagu dichiara ormai di trascurare per un più forte interesse per il romanzo, parla un’altra viaggiatrice, Madame du Bocage, che le fa visita passando per Venezia al principio dell’estate 175716. Prodiga, come d’abitudine, di superlativi, di Lovere, di cui ha lasciato nelle lettere ampie descrizioni, Lady Mary scrive: «io ora sono in un luogo che è il più meravigliosamente romantico che abbia mai visto»17. Nel gennaio del 1761 la figlia, unico solido affetto di tutti questi anni, le comunica la morte di Wortley. Rientrata a Londra, Lady Montagu vi muore il 21 agosto 1762. Mary Montagu è un’autrice ben nota a chi si occupa di studi letterari nel mondo anglosassone, in Francia e anche in Italia. In particolare ha un cultore specializzato, Robert Halsband, che ha scritto molto su di lei, ne ha pubblicato – accuratamente annotata – l’intera raccolta epistolare, e ne ha ricostruito la dettagliata biografia. Se dalle opere curate da Halsband non si può prescindere, è arduo fare la rassegna delle edizioni delle lettere sul viaggio in Turchia incessantemente uscite dopo la prima edizione e, del resto, non è così necessaria alla mia ricerca l’analisi esaustiva della bibliografia critica internazionale, quasi esclusivamente inquadrata nella prospettiva letteraria. La stessa prospettiva riguar-
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da gli studi usciti in Italia, non molti, in verità. La Montagu è anche da noi autrice molto conosciuta e citata, le sono stati dedicati alcuni lavori18, ma l’opera più significativa è rappresentata dalla pubblicazione delle “lettere turche” derivata dall’edizione francese introdotta dall’ottimo studio di Anne Marie Moulin e Pierre Chuvin19. In ogni caso, non mi pare che la viaggiatrice sia comparsa nel panorama degli studi geografici. L’insieme dell’epistolario della Montagu risulta invece un corpus documentario interessantissimo: a parte le lettere dalla Turchia, la cui importanza nella storia del viaggio in Oriente è macroscopica, le successive costituiscono documenti preziosi per lo studio del viaggio settecentesco in Italia. Tuttavia è vero che nelle lettere della seconda fase, scritte dalla Svizzera, dalla Francia e appunto, con netta prevalenza, dall’Italia, Mary Montagu presta spesso più attenzione alle questioni personali che al mondo esterno: se il più accentuato autobiografismo è uno degli elementi che caratterizzano la scrittura di numerose viaggiatrici rispetto a quella dei viaggiatori, nella Montagu questo aspetto è della massima evidenza. In particolare nelle lettere indirizzate ad Algarotti la scrittura è malinconicamente catturata dai sentimenti inappagati: qui lo spazio geografico sfuma e spesso nemmeno compare, e i documenti diventano preziosi per comprendere la personalità dell’autrice, drammaticamente in bilico fra ragione e passione. In ogni caso, l’intero epistolario registra lo scorrere di un’esistenza in cui il viaggio geografico, materiale, è stato lo specchio del viaggio interiore, sentimentale. A questa chiave di lettura danno trasparenza i seguenti brani che, messi a confronto, risultano emblematici delle due fasi in cui possiamo considerare articolarsi la “biografia itineraria” di Mary Montagu: Se potessi seguire le mie inclinazioni viaggerei, cosa che è il mio primo e più ardente desiderio. Il mio compagno ideale […] dovrebbe essere qualcuno da amare molto e da cui essere molto amata; qualcuno che pensi che questa è la cosa essenziale per essere felici, e che un uomo non perde la sua dignità a stare con una donna intelligente, qualcuno che non consideri la tenerezza come una debolezza […]20. Sono stata la Penelope della vostra assenza, dimenticando tutte le cose che vedevo, perennemente presa dal fascino di un fuggitivo, di cui non conoscevo neppure la dimora, dubitando qualche volta della sua stessa esistenza21.
La prima citazione, tratta da una lettera scritta il 26 ottobre del 1710, esplicita senza equivoci il senso che la giovanissima Mary dà al viaggio. Essa è rivolta al futuro marito e precede di qualche anno la loro partenza per Costantinopoli. Il desiderio di viaggiare sarà, come si è visto, appagato, ma Edward Montagu non corrisponde al compagno di viaggio – e di vita – desiderato: «Dopo aver descritto la persona che vorrei amare [e con cui vorrei viaggiare] non ho bisogno di aggiungere che non si tratta di te…», aveva concluso
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rivolgendosi all’uomo cui sembra essersi unita, malgrado la ribellione alla famiglia e la fuga dalla casa paterna, più che altro su basi di amicizia e comunque piena di dubbi. La seconda frase, scritta quasi trent’anni dopo all’inutilmente amato Algarotti, riguarda il lunghissimo periodo (che si concluderà solo con la morte) in cui il viaggiare di Mary corrisponde alla ricerca del luogo ove stare. Per una donna che ha trasgredito alle convenzioni, che si è allontanata da marito e figli e che ha fatto del viaggio, e del raccontare il viaggio, uno stile di vita, quel sono stata la Penelope della vostra assenza dimenticando tutte le cose che vedevo, è un’ammissione “tragica”. Geografie di guerra Letterariamente, il viaggio in Oriente comincia il 3 agosto 1716 da Rotterdam dove Lady Montagu, sbarcata dopo l’attraversamento della Manica, scrive la prima lettera alla sorella Lady Mar descrivendole la città, come farà per i successivi centri in cui sosta. L’intero viaggio seguirà un percorso circolare. Dopo Rotterdam, i viaggiatori con il seguito toccano l’Aia e Nijmegen (oggi Nimeguen). Poi Colonia, Norimberga, Ratisbona (Regensburg), Vienna. Qui sostano tutto il settembre e l’ottobre del 1716. Nel novembre, dopo essere risaliti a Praga, i Montagu devono tornare in territorio tedesco. Ad Hannover si trova Giorgio I e Wortley deve concordare con lui le trattative con i turchi. Le lettere sono infatti datate, oltre che da Praga (17 novembre), il 21 novembre da Lipsia, il 23 da Braunschweig, il 25 novembre e primo dicembre da Hannover e il 17 dicembre da Blanckenburg. Nel gennaio del 1717 Mary scrive di nuovo da Vienna22, il 30 da Peterwaradin (Petrovaradin, in Serbia) e il 12 febbraio da Belgrado. L’arrivo ad Adrianopoli (odierna Edirne), dove risiede il governo del sultano Ahmet III, coincide con un’esplosione di entusiasmo. Da qui il primo di aprile Lady Mary scrive ben nove lettere in una delle quali afferma: «Mio figlio non è mai stato meglio in vita sua. Questo paese è certo uno dei più belli del mondo […]»23. I Montagu si trasferiscono infine a Costantinopoli (la prima lettera è del 29 maggio), dove risiedono per un intero anno nel sobborgo di Belgrado e nell’elegante quartiere europeo di Pera, sede di ambasciate e banche. Il ritorno è per mare: il 31 luglio 1718 Mary scrive da Tunisi, a fine agosto da Genova. Nel settembre, dopo una sosta a Torino e l’avventuroso passaggio del Moncenisio (una bella pagina di “scoperta femminile della montagna”24), raggiunge Lione e Parigi. L’ultima lettera, scritta da Dover, è datata 1 novembre 1718. Per i geografi, almeno per coloro che si sono convinti che lo spazio geografico non sia solo lo spazio fisico più o meno antropizzato ma anche lo spazio della percezione, del senso che gli uomini come individui e per appartenenza culturale gli attribuiscono – sia, insomma, spazio vissuto25 – le relazioni di
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viaggio si pongono come fonti interessanti da analizzare per i dati oggettivi che vi si possono rinvenire e per l’infinita mutevolezza che i luoghi assumono sotto i differenti sguardi e nelle diverse rappresentazioni dei viaggiatori. Non meno affascinante è la scoperta di come (o se) il viaggio cambi il viaggiatore, penetri nella sua mente, influisca sul superamento degli stereotipi26. In altre parole, esiste una circolarità fra il viaggio, i luoghi e il viaggiatore. L’esperienza del viaggiare contiene la dimensione, a cui non sempre si dà la dovuta importanza, della reciprocità fra uomini e luoghi: i luoghi trasformano i viaggiatori e risultano a loro volta in qualche modo anche materialmente trasformati dall’immagine che i viaggiatori ne offrono, soprattutto quando questa riesca ad incidere su una realtà di rapporti non molto mutata nel corso dei secoli precedenti: si pensi, per fare un esempio evidente, a quanto Venezia si sia adeguata alle rappresentazioni che ne hanno dato i viaggiatori romantici. Da questo punto di vista si potrebbe anche dire che la storia dell’Oriente non è più la stessa dopo la Montagu. Almeno per quanto riguarda la sua esperienza in Turchia27, le sue lettere mostrano una straordinaria capacità di fare «tabula rasa di tutte le immagini acquisite», di superare i pregiudizi della cultura da cui proviene; Lady Mary ha un gusto «quasi dispettoso nel cogliere in fallo i suoi informatori»28 come nel correggere le notizie dei viaggiatori che l’hanno preceduta, sulle cui relazioni si mostra tanto critica quanto ben documentata. Da Vienna a Belgrado i Montagu percorrono, fra il gennaio e il marzo del 1717, il tratto più impegnativo dell’intero viaggio. Data la stagione invernale, la carovana (Lady Mary parla di «scorta numerosa» e di «carrozza e carri»29) non aveva potuto approfittare della più facile via fluviale del Danubio. La via di terra che passa per Buda, Peterwaradin, Belgrado, l’antica capitale serba di Nissa e Sofia, per raggiungere, valicati Balcani e Rodope, Filippopoli (oggi Plodviv, in Bulgaria) ed Adrianopoli, è obbligata ma insidiosa. Non si tratta solo di affrontare il rigore del clima o i consueti problemi della viabilità settecentesca. Da Vienna a Belgrado la delegazione ricalca il cammino che l’armata turca ha da poco battuto in ritirata, passa frontiere appena smobilitate, si imbatte in scaramucce ancora in corso. Solo sei mesi prima il comandante delle truppe imperiali, Eugenio di Savoia, ha sconfitto proprio a Peterwaradin gli ottomani30. L’Inghilterra ha inviato Wortley a trattare con i turchi appunto per contenere gli effetti dei successi austriaci. Per raggiungere Esseek, presso la Drava, carri e carrozza devono attraversare il Danubio gelato; prima c’era «uno dei più straordinari [ponti] del mondo, lungo ottomila piedi e tutto costruito in legno di quercia», finito in cenere con la città nel 1685 nel corso degli scontri fra imperiali e turchi31. Da Peterwaradin a Belgrado, dove è giunta senza essere incappata in eccessivi disagi, Lady Mary registra per la delegazione un bilancio del viaggio
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meno negativo del previsto: tempo migliore rispetto alla media stagionale (anche se la neve era tanto alta da costringere i viaggiatori a montare le carrozze sulle slitte), sistemazioni più che accettabili, ospiti gradevoli. Il suo racconto conferma e sottolinea, invece, tutte le previsioni sulle conseguenze della guerra. Lo sguardo rapido ma attento della viaggiatrice in transito coglie la naturale fertilità di pianure «uniformi come se fossero state lastricate», la ricchezza delle vaste foreste pullulanti di cacciagione, la bellezza delle antiche città. Ma le pianure sono deserte di contadini, i boschi sono infestati da branchi di lupi, nelle città i più bei palazzi sono diroccati32. Tutto è compromesso dalla guerra contro la quale Mary Montagu si scaglia quando si trova a passare per la piana di Carlowitz: I segni di quel giorno pieno di sangue e di gloria sono ancora visibili, poiché la campagna è disseminata di teschi e di ossa di uomini, di cavalli e di cammelli insepolti. Non potevo fare a meno di guardare con orrore tutti quei grovigli di membra umane, riflettendo a quanto sia ingiusta la guerra che rende l’atto di uccidere non solo necessario ma addirittura meritorio […]. L’abitudine, è vero, ha reso la guerra inevitabile, ma può forse esserci una prova migliore di questa nostra mancanza di razionalità di una consuetudine così radicata e pur così contraria all’interesse dell’uomo in generale?33
C’è una buona dose di pacifismo illuminista ante litteram in queste parole, che tuttavia non vanno ricondotte soltanto alla razionalità settecentesca, se pur interpretata in maniera molto personale: troviamo qui quell’estraneità allo spirito della guerra, quella ribellione a una sua pretesa inevitabilità che contraddistinguono tanta scrittura femminile del secolo successivo. A Bocowar, poco prima di Peterwaradin, i viaggiatori sono ricevuti dal governatore e dalla moglie, un’ungherese bella come lo sono le ungheresi, e molto ben abbigliata con il suo «vestito di velluto scarlatto foderato e bordato di zibellino», corsetto «abbottonato davanti con due file di bottoncini d’oro, perle e diamanti», gonna lunga fino ai piedi, copricapo ricamato d’oro e ornato di pelliccia pregiata. Se a Lady Montagu non sfuggono dettagli di questa natura, sui quali indulgerà nel descrivere i costumi turchi, quello che apprezza di più è la conversazione «raffinata e piacevole» dei suoi ospiti34. Le bugie dei viaggiatori Come si vede già da queste prime battute, lo sguardo curioso e libero e la capacità di comunicare sono i principali strumenti con cui Lady Montagu costruisce la sua geografia delle regioni visitate: osservare e ascoltare per poi riferire nelle lettere di un mondo sconosciuto ai più e, in ogni caso, conosciuto male, perché generalmente rappresentato in modo distorto quando non del tutto menzognero. A Belgrado, ormai in territorio turco, Lady Mary è
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ospite «in una delle case migliori» della città, quella del nobile Ahmet; qui ha come «unico passatempo» la conversazione con il padrone di casa, persona dalla più raffinata educazione che pranza con gli ospiti ogni sera e «beve vino senza restrizione», osserva Lady Mary dando il via al suo lavoro di demolizione dei pregiudizi sulla cultura islamica. Piuttosto, secondo la miglior tradizione dei grandi califfi, egli possiede una ricca biblioteca dove «trascorre la maggior parte della sua vita»; parla perfettamente l’arabo e il persiano oltre che, evidentemente, il francese (allora lingua della diplomazia): Lady Mary non conosce ancora il turco, che imparerà prendendo lezioni appena giunta a Costantinopoli. Discutono di poesia araba e di metrica ma anche delle «differenze tra i nostri costumi e particolarmente sulla reclusione delle donne», racconta la viaggiatrice, toccando per la prima volta l’argomento che le sta più a cuore. E aggiunge: «Mi assicura che non c’è proprio niente di straordinario. Noi abbiamo soltanto il vantaggio – dice lui – che quando le nostre donne ci tradiscono, nessuno lo sa»35. La provocazione è forte: l’informatore la lancia, Lady Mary la raccoglie e ne farà il motivo dominante della sua rappresentazione della realtà sociale turca. Già nelle prime lettere dal viaggio si profilano i temi centrali della scrittura di Lady Mary, interessanti da un punto di vista storico-geografico altrettanto se non di più di quello letterario. Oltre a descrivere i mezzi e i modi del viaggiare, ci parla di climi e di vegetazione, di campagne e di città; riserva grande attenzione alla vita materiale e ai caratteri culturali delle popolazioni o delle persone incontrate; discetta di politica e di religione. È stato detto che la scrittura di viaggio «dimostrò di saper offrire alle donne una comoda chiave di accesso a generi e temi […] tradizionalmente solo maschili e, d’altra parte, consentì di scrivere di sé attraverso un genere legittimato artisticamente e moralmente»36: le lettere della Montagu ne sono forse la principale testimonianza. Gli stessi temi, approfonditi nella lunga permanenza, danno spessore alla corrispondenza da Costantinopoli. Se durante il trasferimento Lady Montagu ha personalizzato con le sue osservazioni un itinerario obbligato, durante i dodici mesi di soggiorno a Costantinopoli la nobildonna inglese costruisce del tutto autonomamente i propri percorsi nella città, fermamente intenzionata a scoprire e rappresentare la Turchia “vera” smascherando le bugie raccontate dai viaggiatori. Lady Montagu dichiara, e dimostra, di aver letto molto delle relazioni dei visitatori che l’hanno preceduta, ad alcuni dei quali non risparmia caustiche critiche. La questione di una rappresentazione veritiera che si differenzi da quelle dei “soliti” viaggiatori – tema antico quanto Erodoto e peraltro punto d’impegno, almeno a parole, di ognuno di essi – percorre il diario di viaggio di Lady Montagu lettera dopo lettera. Scrivendo già da Vienna alla sorella, aveva esordito:
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Ho scritto una lettera a Lady… che credo non le piacerà e, a pensarci bene, credo che avrei fatto meglio a lasciar perdere. Ma ero profondamente irritata da tutte le sue domande e dalla sua ridicola idea delle gran meraviglie che avrei viste e tenute per me per pura malignità. La stizzisce il fatto che io mi rifiuti di raccontar storie come gli altri viaggiatori. Sono convinta che si aspetta che le parli degli antropofagi e degli uomini che hanno la testa sotto le spalle37.
Più avanti racconta all’abate Conti che «questa parte del mondo è visitata quasi esclusivamente da mercanti a cui interessano solo i loro affari o da viaggiatori che soggiornano troppo brevemente per essere in grado di raccontare con precisione cose apprese per esperienza diretta»38. Poi, di nuovo rivolta alla sorella che, annoiata dalla monotonia londinese, le chiede novità, risponde: «Cercherò di stimolare la tua gratitudine facendo un resoconto completo e genuino di questo luogo»39. A un certo punto parla perfino di «stupidità degli altri viaggiatori», e lo fa a proposito di una lettera d’amore turca che è riuscita a procurarsi e che intende portare in Europa, cosa che nessun viaggiatore aveva ancora fatto40. La curiosità delle sue corrispondenti sulla questione della poligamia dà modo a Lady Mary di spiegare che, pur consentendo la legge islamica ai maschi di prendere quattro mogli, un uomo di rango non lo fa né una signora di classe elevata lo sopporterebbe, per cui, se un uomo è infedele, tiene l’amante in una casa separata e va a trovarla di nascosto. Di conseguenza, commenta: «Come vedi, cara sorella, le consuetudini dei popoli non sono poi tanto diverse da quanto ce lo vorrebbero far credere gli scrittori di viaggi. Forse sarebbe più divertente se aggiungessi qualche usanza stupefacente di mia invenzione, ma niente mi piace più della verità […]»41. «Sono andato e ho visto con i miei occhi fino alla città di Elefantina, di ciò che c’è al di là io ne parlo per sentito dire e mi sono informato ponendo domande» aveva scritto Erodoto che, mentre affermava la superiorità dell’autopsia sul “sentito dire” (senza, con questo, sottrarsi alle accuse di testimone inattendibile e bugiardo soprattutto da parte dei geografi-cartografi, per esempio Marino di Tiro e Tolomeo, più inclini a dar credito alla mappa che al racconto) praticava un’inchiesta in cui era a un tempo rapsodo e geometra42. L’ambiguità dello spirito di Erodoto, che è poi l’ambiguità della geografia, sembra serpeggiare nelle lettere della Montagu. L’abbiamo vista più volte ostentare l’esattezza delle notizie da lei fornite e stigmatizzare le menzogne dei racconti di viaggio. Con le sue osservazioni critiche sembra realizzare il programma espresso da Montaigne nel celebre saggio sui Cannibali, là dove parlando dei viaggiatori, scriveva: «Mi accontento quindi di queste informazioni senza occuparmi di quel che ne dicono i cosmografi. A noi occorrerebbero dei topografi che ci descrivessero nei particolari i luoghi dove sono stati. Spesso, invece, solo perché hanno su di noi il vantaggio di aver visto la Pa-
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lestina, vogliono godersi il privilegio di darci le notizie di tutto il resto del mondo»43. E tuttavia la nostra viaggiatrice si lascia trascinare dalla narrazione: «Senza rendermene conto, dice alla sorella, ti ho scritto una lettera così lunga che me ne vergogno. È proprio un brutto segno: corro il rischio di degenerare in una vera e propria cantastorie»44. Il timore di degradare la propria scrittura a racconto da cantastorie e l’esaltazione dell’oggettività non significano apprezzamento da parte di Mary Montagu dello sguardo “statistico” del connazionale Paul Rycaut «le cui osservazioni penso avessero lo scopo di dire cosa grata alla corte, nel 1679» chiosa in una lettera del maggio, ricordando che egli aveva steso «un resoconto completo e fedele dei visir, dei beglerbey, del governo civile e religioso, degli ufficiali del Serraglio eccetera, tutte cose di cui è facilissimo procurarsi liste e alle quali si può prestare fede, mentre per altri aspetti, Dio solo lo sa (non voglio dire di più), ognuno si sente libero di metterci del suo»45. Una cosa è trascrivere elenchi, altro rappresentare i luoghi nella loro complessità. Poco prima aveva detto a una corrispondente: Son certa che Lei a questo punto si aspetta la descrizione di quello che ho visto, ma io non mi sento per niente in vena di ricopiare quello che è stato ripetuto centinaia di volte. Perché dovrei dirle che Costantinopoli è l’antica Bisanzio, che è stata conquistata da un popolo che discende dagli Sciti, che ci sono cinque o seimila moschee, che Santa Sofia è stata fondata da Giustiniano eccetera? Le assicuro che non è per mancanza di erudizione che evito di parlare di tutti questi soggetti illustri. Potrei anche, con minimo sforzo, citare Knolles e sir Paul Rycaut per darle la lista di tutti gli imperatori turchi, ma non ho intenzione di parlarle di quello che si può trovare in qualsiasi autore che si sia occupato di questo paese. Mi sento invece più incline, per uno spirito di contraddizione tutto femminile, a raccontarle quanto siano false per la maggior parte le cose che si trovano scritte nei vari autori, quale ad esempio l’incomparabile signor Hill che asserisce, con tutta la dovuta gravità, che a Santa Sofia c’è una colonna che trasuda un balsamo salutare per le malattie mentali46.
Insistendo sulle «idee sbagliate» che circolano sulla Turchia (la lettera di un’amica, osserva, ne è «piena, dal principio alla fine»), ne attribuisce la colpa al viaggiatore francese Jean Dumont, «quel degno autore che ha scritto con un’ignoranza pari solo alla sua prosopopea». Provo un piacere particolare – spiega – a leggere quei racconti di viaggio in Oriente perché di solito sono così lontani dalla verità e così pieni di nozioni assurde che per me costituiscono un divertimento. Non mancano mai di descrivere la condizione delle donne che certamente non hanno mai potuto appurare, o di parlare con sicumera dell’acume di uomini alla cui compagnia non sono stati mai ammessi; molto spesso descrivono anche le moschee dentro le quali non hanno mai avuto il coraggio di dare nemmeno una sbirciata47.
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Tuttavia, la viaggiatrice sembra a un tratto riconoscersi nella “categoria” dei viaggiatori fino ad allora criticati, facendosene interprete e difensore. Non è un caso che Eric J. Leed, per illustrare la «caratteristica doppia difficoltà» che affliggeva i viaggiatori di epoca moderna che volevano dire la verità sul mondo, prenda ad esempio proprio le osservazioni di Lady Montagu su questa vecchia polemica: quando la verità raccontata non contiene novità, i viaggiatori sono accusati di essere noiosi o monotoni, mentre per ogni novità che raccontano viene confermata la loro reputazione di bugiardi. Noi viaggiatori – scrive lady Mary – ci troviamo veramente in difficoltà. Se ci limitiamo a ripetere quello che è già stato detto siamo dei barbosi e non abbiamo visto niente, se raccontiamo cose nuove ci ridono dietro come a dei favoleggiatori […]48.
Grazie agli sforzi suoi e degli autori del diciassettesimo e del diciottesimo secolo – conclude Leed in proposito – si formarono i canoni della saggistica sui viaggi e il viaggio cominciò a essere considerato come un modo di accedere alla “verità” invece che a un mondo romanzato49. L’altro Oriente Mary Montagu è, e ne ha piena coscienza, un “viaggiatore” privilegiato. La sua condizione di donna, unita indubbiamente a una cultura e a una personalità non comuni (la moglie dell’ambasciatore francese, che come lei si trova a Pera, non riesce, malgrado le sue sollecitazioni, a liberarsi di un modo convenzionale di vivere la sua esperienza in Turchia50) le consente di dare alla realtà in cui si trova molto più di “una sbirciata”. Se del mondo con cui è venuta a contatto Lady Mary non trascura di registrare alcun aspetto (dalle campagne alle città, dai paesaggi alle architetture agli interni delle abitazioni, dai mercati alle questioni sanitarie, dal sistema politico alla religione alle usanze matrimoniali e patrimoniali), tranne, volutamente, dati arcinoti o noiose «geografie»51, il resoconto effettivamente inedito degli spazi riservati alle donne fa delle sue lettere dei documenti eccezionali. Su questo tema, ancor più che sugli altri contenuti, la viaggiatrice riesce ad essere a un tempo originale e veritiera. Raccontare la società femminile, entrando nel territorio proibito che i viaggiatori uomini avevano potuto solo approssimativamente riferire di seconda mano, ha significato per Lady Montagu essere “favolosa” descrivendo con la consueta precisione la realtà. Una realtà in effetti fiabesca, perché componeva l’elevato benessere di una classe sociale aristocratica quanto quella inglese con il tripudio di sete, velluti, ori, pietre preziose, giardini, colori, incensi, musiche e pratiche di una cultura orientale che aveva già incantato l’Occidente dai tempi di Marco Polo, che aveva riconfermato il proprio fascino con la recente scoperta delle Mille e una notte52, e che attraverso la Montagu lasciava rappresentare liberamente la sua parte più segreta.
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La prima descrizione riguarda il bagno di Sofia, «una delle più belle città dell’impero turco […] dove la gente va sia per divertimento, sia per ragioni di salute». Del bagno, che trova «già pieno di donne», scrive: Si tratta di una costruzione a cupola fatta di pietra e con finestre solo sul tetto ma capaci di illuminare a sufficienza. Ci sono cinque di questi ambienti a cupola comunicanti; il primo è il più piccolo e serve da vestibolo con una portinaia all’entrata […]. L’ambiente successivo è molto vasto, con il pavimento di marmo e due sedili pure di marmo, uno sopra l’altro, che corrono tutt’intorno. In questa sala ci sono quattro fontane d’acqua fredda, con l’acqua che prima cade dentro vasche di marmo e poi, scorrendo in scanalature fatte apposta nel pavimento, raggiunge la sala successiva, un po’ più piccola, con gli stessi sedili di marmo, ma talmente satura dei vapori solforosi caldissimi dei bagni contigui, che è impossibile tenere i vestiti addosso. Gli altri due ambienti a cupola corrispondono ai bagli caldi, uno dei quali munito di rubinetti d’acqua fredda perché le bagnanti possano regolare la temperatura a loro piacimento […]. Il primo sedile era coperto di cuscini e di ricchi tappeti e lì sedevano le signore; nell’altro, dietro, stavano le loro schiave, ma non era possibile fare alcuna distinzione di rango dai vestiti poiché tutte erano allo stato di natura. Cioè, per dirlo chiaro e tondo, erano tutte completamente nude con difetti e bellezze bene in vista. Eppure non c’era fra di loro traccia né di sorrisi equivoci, né di gesti impudichi […]. Le confesso che ho avuto la cattiveria di desiderare in segreto che il signor Gervaso53 potesse essere presente, invisibile naturalmente. Penso che la sua arte avrebbe guadagnato molto dalla vista di tante belle donne nude in pose diverse: alcune intente a chiacchierare, altre a lavorare, altre ancora a sorseggiare il caffè o il succo di frutta; molte mollemente abbandonate sui cuscini con le schiave (quasi tutte graziose ragazze sui diciassette o diciotto anni) che intrecciavano i loro capelli in varie fogge civettuole. In breve, questi bagni sono il caffè delle donne, dove commentano la città, dove inventano gli scandali ecc. Di regola si concedono questo svago una volta la settimana e rimangono là quattro o cinque ore, senza prendersi infreddature passando dal bagno caldissimo a una sala più fredda, cosa di cui mi sono molto stupita […]. Adieu, Signora. Sono sicura di averla svagata con il racconto di cose che non ha mai visto in vita sua e che non potrebbe trovare in nessun libro di viaggi: un uomo che venga scoperto in un luogo simile rischia niente di meno che la morte54.
Quando Lady Montagu osserva la scena del bagno con lo sguardo del pittore non può certo immaginare quanto il suo racconto affascinerà effettivamente gli artisti dell’orientalismo. Che siano ispirati alle sue lettere i dipinti di Ingres La grande odalisca e Il bagno turco è cosa assai probabile, dato che nei documenti del pittore è stata trovata la traduzione di alcuni brani55, ma l’attrazione di questo autore per la figura di Lady Mary è indubbiamente confermata dal disegno che egli le dedicò un secolo dopo che era morta: il Progetto di tomba per Lady Montagu 56. Tornando alla scoperta del bagno di Sofia, la viaggiatrice descrive l’incontro fra lei e le donne: un confronto nel quale due culture femminili che sap-
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piamo ancora oggi distanti, tre secoli fa si osservavano con reciproca civile curiosità, ammirazione e rispetto. Io avevo il mio vestito da viaggio, che è poi un costume da cavallerizza, e certo deve essere parso loro molto strano; eppure nessuna ha mostrato il minimo segno di sorpresa o di curiosità impertinente. Al contrario mi hanno accolta con la massima urbanità e gentilezza. Non conosco nessuna corte europea dove le signore si sarebbero comportate in modo così cortese verso una straniera57.
Via via che la viaggiatrice penetra geograficamente e mentalmente nel mondo turco, il discorso sulle donne e con le donne si approfondisce. L’empatia è tale che ella inizia a vestirsi alla turca: un abbigliarsi il cui significato va ben oltre il piacere estetico per la moda esotica58. Alla sorella fa la descrizione minuziosa del costume adottato, per poi estendere le sue osservazioni alla complessità delle acconciature delle donne turche, alla loro abitudine di tingersi le unghie di rosa (la sola usanza che le pare strana e non bella) alla loro, invece, generalizzata bellezza fisica e alla loro moralità che giudica «né più né meno che da noi». Qui si meraviglia della «stupidità di tutti gli scrittori che hanno parlato di loro» sostenendone la mancanza di libertà. Ed è proprio sull’uso del ferigée che le copre, oltre che sul fatto che ormai conosce «un po’ il loro modo di fare», che Lady Montagu rovescia l’immagine della mancanza di libertà delle donne islamiche. È molto facile capire che hanno più libertà di noi perché nessuna donna, a qualsiasi classe appartenga, ha il permesso di andare per la strada senza due veli di mussola, uno che le copre tutta la faccia meno gli occhi e un altro che le copre tutta la testa e le ricade fino a mezza schiena; le loro forme sono completamente nascoste da quello che chiamano ferigée senza il quale nessuna donna può farsi vedere. Questo indumento ha lunghe maniche che arrivano all’estremità delle dita e le avvolge tutte a mo’ di cappa. È fatto di panno d’inverno e di semplice tela o di seta d’estate. Ti lascio immaginare come sia perfetto questo travestimento visto che non permette di distinguere la gran dama dalla sua schiava e che il marito più geloso non riesce a riconoscere la moglie quando la incontra; e poi nessun uomo oserebbe toccare o seguire una donna per la strada. Quest’eterna mascherata dà loro completa libertà di seguire le loro inclinazioni senza pericolo di essere scoperte[…]59.
Ma c’è un altro argomento che sappiamo caro alla nostra Lady – quello della dote – che le fa apparire privilegiata la condizione delle donne turche: […] le donne ricche non devono nemmeno temere troppo il risentimento del marito, visto che sono padrone del proprio denaro, che prendono con sé al momento del divorzio con l’aggiunta della somma che il marito è obbligato a versare. A conti fatti, penso che le donne turche siano i soli esseri liberi dell’impero60.
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La descrizione di un altro bagno visitato a Costantinopoli nel quale assiste al ricevimento di nozze di una giovane sposa, le dà modo di ribadire la sua critica alle rappresentazioni della società femminile fino ad allora imposte dai viaggiatori e, al contrario, il proprio sostanziale apprezzamento, che questa volta può estendersi anche alla condizione di donne meno abbienti. L’avvio di una lettera in merito a un’amica non cela l’ironia: È anche divertente notare con quale intenerimento lui61 e i suoi colleghi viaggiatori-scrittori lamentino la penosa reclusione delle signore turche che sono, forse, più libere delle altre donne dell’universo e certo le sole al mondo a fare una vita che è un seguito ininterrotto di piaceri: sono libere da qualsiasi preoccupazione e il loro tempo lo passano in visite, ai bagni o nella piacevole occupazione di spender denaro o d’inventare nuove mode. Un marito che esigesse un po’ di economia dalla moglie sarebbe considerato un pazzo: solo il capriccio della signora può porle dei limiti nel suo desiderio di spendere. A lui sta di guadagnare il denaro e a lei di spenderlo e questa nobile prerogativa si estende anche alle donne di modestissima condizione. C’è qui un tale che va in giro a vender fazzoletti ricamati che porta sulla schiena, un povero diavolo come tutti i rivenduglioli di quel genere, eppure, l’assicuro, sua moglie non si degna d’indossare altro che vesti di tessuto d’oro ed ha la sua bella pelliccia d’ermellino e il suo bel fermaglio di gioielli per la testa. Le donne vanno fuori tutte le volte che ne hanno voglia. È vero che i bagni sono il solo luogo pubblico dove possono andare e là vedono solo persone del loro sesso, però questo è uno svago che dà loro molto piacere62.
Varrà la pena di tornare sul senso di queste affermazioni con le quali la viaggiatrice commenta la scoperta dell’harem, luogo chiuso per eccellenza, chiostro “altro”. Grazie alla sua condizione di donna e di ambasciatrice, ad Adrianopoli può infatti far visita alla favorita dell’uomo di fatto più importante dell’amministrazione turca dopo il gran visir. La descrizione degli spazi interni divisi in stanze e giardino, vero locus amoenus, è più che mai giocata al superlativo. L’ambiente, nel quale regnano la stessa pulizia delle case olandesi63 e il più gran lusso, è un vasto padiglione circolare con le finestre dai telai dorati e il soffitto dipinto con cesti traboccanti di fiori che danno l’illusione di cadere spargendosi a terra; gli alberi intorno immergono la dimora in un’ombra protettiva mentre gelsomini e caprifogli intrecciati ai loro tronchi emanano sottili profumi. Dalla fontana di marmo sistemata lungo una parete della stanza, zampilli d’acqua ricadono dentro piccole vasche. La donna, bella fino alla perfezione, tanto da eclissare tutto ciò che le sta intorno, è adagiata su un sedile coperto di preziosi tappeti persiani e cuscini di raso. Indossa un caffettano di broccato d’oro a fiori d’argento; le sue braccia e l’alta cintura sono ornate di diamanti, i capelli sono raccolti con fermagli di pietre preziose. Riceve l’ospite inglese con tale maestosa gentilezza da farle di-
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re: «[…] son convinta che essa potrebbe venire improvvisamente trasportata sul più civile trono d’Europa e tutti la prenderebbero per una gran dama, nata e cresciuta per essere regina, benché sia stata educata in un paese che chiamiamo barbaro»64. Quando, più avanti, Mary Montagu tenta di descrivere all’abate Conti l’immenso edificio fatto costruire sul Bosforo da un nobile turco per ricevere la sua sposa, dimora troppo complessa da rappresentare per lettera per le circa ottocento stanze che la compongono, per la pianta irregolare («non c’è parte che possa venir propriamente chiamata facciata o ala»), per i porticati, i giardini, le fontane, i bagni, gli intarsi di marmi e madreperle e tutto il resto, ribadisce: Come vede, signore, questo popolo non è poi rozzo quanto ce lo raffiguriamo noi. Certamente la loro grandiosità rivela un gusto differente dal nostro, forse migliore. Sono propensa a credere che la loro concezione della vita sia quella giusta […]65.
La condizione delle donne e l’organizzazione degli spazi femminili sembrano essere gli elementi sui quali Lady Montagu, confrontando il mondo da cui proviene e quello in cui è giunta, misura il grado di civiltà/barbarie e non ne trae conclusioni a favore della cultura a cui appartiene. Confermerà questi giudizi successivamente, in altri scritti. Quando, verso il 1732, scriverà in francese il significativo saggetto intitolato Sur la Maxime de Mr de Rochefoûcault. Qu’il y a des marriages commodes, mais point des Delicieux, ricordando le conversazioni a Costantinopoli con «la più amabile donna conosciuta nella vita» osserverà: […] essa aveva ragione di preferire i costumi musulmani alle nostre ridicole usanze che sono una sorprendente confusione di severe regole del Cristianesimo mescolate a tutto il libertinaggio dei Lacedemoni66.
Se la sua interpretazione della società femminile turca ha fatto molto discutere, l’attenzione ad essa riservata le consente di effettuare scoperte di indiscutibile portata sfuggite, forse perché pregiudizialmente disprezzate, agli altri viaggiatori. A propos, di malattie – scrive da Adrianopoli a un’amica – ti voglio raccontare una cosa che, ne sono certa, ti farà desiderare di essere qui. Il vaiolo, così diffuso e così fatale da noi, qui è stato reso del tutto innocuo dall’invenzione dell’innesto (è il termine che usano). C’è un gruppo di donne anziane specializzate in questa operazione. Ogni autunno nel mese di settembre, quando il gran caldo è passato, le persone si informano tra loro per vedere se qualcuno della famiglia ha intenzione di prendere il vaiolo. Organizzano delle riunioni a questo scopo e quando sono tutti assieme (di solito quindici o sedici persone), viene una vecchia con un gu-
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scio di noce pieno di pus del tipo del vaiolo più benigno e chiede che le si indichi quale vena deve aprire. Le punge quindi con un grosso ago (che non fa più male di un comune graffio) e introduce nella vena tutto il veleno che può stare sulla punta […]. I Greci di solito, per superstizione, vogliono queste punture nel mezzo della fronte, sulle braccia e sul petto, in modo da formare il segno della croce. Ma gli effetti di quest’uso sono assai negativi perché queste piccole ferite lasciano delle cicatrici. Così, quelli che non sono superstiziosi se le fanno fare sulle gambe o nella parte nascosta delle braccia. I bambini e i pazienti giovani continuano a giocare insieme per il resto della giornata e stanno perfettamente bene fino all’ottavo giorno. Poi viene loro la febbre e devono rimanere a letto due giorni, raramente tre. Di solito non hanno più di venti o trenta pustole in faccia, che non lasciano mai la cicatrice e nel giro di otto giorni stanno bene come prima[…]. Ogni anno migliaia di persone si sottopongono all’operazione e l’ambasciatrice francese dice scherzando che qui la gente prende il vaiolo per passatempo, come in altri paesi si prendono le acque. Non so di nessuno che sia morto e puoi ben credere che ho piena fiducia nella riuscita di questo procedimento, tanto che ho voglia di provarlo anche sul mio figlioletto. Ho abbastanza spirito patriottico per volermi prendere la briga di portare in Inghilterra la moda di questa utile scoperta, e non mancherei certo di comunicare per iscritto tutti i particolari a qualcuno dei nostri dottori se ne conoscessi almeno uno abbastanza virtuoso da essere disposto ad annullare per il bene dell’umanità una fonte così considerevole di guadagno. Ma una malattia come questa è troppo lucrosa per loro, e tutto il loro risentimento si riverserebbe sull’intrepido che tentasse di porvi fine. Ma, chi sa, forse troverò il coraggio di mettermi in guerra contro di loro67.
Mary Montagu tocca qui il tema del possesso da parte delle donne di saperi curativi dei quali in Europa sono state espropriate nei tempi e con i metodi che chi conosce la storia delle donne ha ben presenti68, e che, invece, nella società tradizionale turca evidentemente sono ancora pienamente consentiti e apprezzati. Come si era proposta, Mary Montagu vaccinò il figlio e poi, tornata in Inghilterra, anche la figlia. Nel suo paese si adoperò per l’affermazione di questa preziosa pratica, incontrando non poche resistenze. Anche se il suo nome, alla fine, ha avuto il riconoscimento di essere citato nei dizionari di storia della scienza69, la sua notorietà a questo proposito non è pari alla lunga fama di scrittrice che, con giudizi diametralmente opposti, ha attraversato tre secoli. La donna nel mondo islamico, una lunga questione Le lettere della Montagu hanno suscitato fin dalla loro uscita un intenso dibattito fra autori (viaggiatori “professionisti”, come è ovvio uomini) che si sono divisi sulla sua interpretazione della condizione delle donne turche. Di questa polemica si trova testimonianza già in una delle prime edizioni francesi delle lettere dove un certo «Monsieur G…» (Pierre-Augustin Guys70), dotto commerciante di Marsiglia, «uomo di spirito che ha passato molti an-
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ni nel Levante» prende le difese della scrittrice le cui lettere erano state aspramente criticate sulle pagine del Journal Encyclopédique dell’agosto 1764 e del novembre del 1765 da un altro viaggiatore, François de Tott71. Nel difendere la Montagu il mercante marsigliese sembra dapprima trovare elementi che giustificano possibili errori nei suoi resoconti. Fa notare come le lettere, benché poi pubblicate, fossero state pensate per la lettura privata dei suoi corrispondenti. Già questo doveva bastare a giustificare la mancanza di una rigorosa esattezza, un certo «lasciar scorrere la penna senza preoccupazioni e con quella libertà che ci si permette nello scrivere a un familiare» allo stesso modo in cui madame de Sévigné aveva scritto le lettere alla figlia. Guys rimprovera inoltre de Tott di anacronismo: da quando le lettere erano state scritte era passato diverso tempo, e sotto il crudele Amurat IV i costumi erano molto cambiati. «A Costantinopoli non si vedranno più, dice, i turchi, soprattutto le donne, godere della libertà che avevano sotto il generoso Ibrahim Pacha. Dunque non mi stupisce che Milady abbia rilevato allora più licenza, intrighi galanti, appuntamenti nelle botteghe degli ebrei, nudità nei bagni che ora non si vedono e non si permettono più». La viaggiatrice aveva messo molto bene a profitto il poco tempo passato in quel paese. Se fosse stata in Turchia quanto il barone de Tott, cioè un decennio, insiste a questo punto più che ironico il marsigliese, «è evidente che sarebbe stata in grado di offrire al pubblico un’opera altrettanto dotta e interessante di quella che questo autore è in grado di prometterci». Alla fine, Guys conclude con un giudizio privo di esitazioni: avendo egli stesso visitato quei luoghi era in grado di affermare che «niente è più preciso, né più fedele di ciò che Milady racconta dei bagni e dei dintorni di Sofia, della città e della campagna di Filippopoli, di Selivrea, e degli altri posti che ella ha visto bene»72. Le argomentazioni del marsigliese non impediscono ai promessi Mémoires sur le Turcs et les Tartares di de Tott, quando nel 1784 effettivamente escono, di insistere sulla critica alle «pretese lettere di Milady Montagu». Esse, dice de Tott «sono piaciute, cosa che l’Autrice voleva e di cui il lettore si accontenta troppo spesso». La testimonianza di de Tott traeva credibilità dalla lunga esperienza di diplomatico e consigliere del governo ottomano che poteva vantare. Quanto alle informazioni sulla società femminile, egli ne sosteneva la validità avendole scritte «sotto dettatura» della moglie che, in compagnia della madre, aveva potuto visitare l’interno del serraglio del sultano, discutere con la principessa e raccoglierne l’ammissione circa la mancanza di libertà propria e delle altre donne73. Se per de Tott l’harem era né più né meno che «un soggiorno dell’orrore», non si distaccano molto dalla sua visione altri viaggiatori come Volney o come l’inglese James Dalloway, a sua volta a Costantinopoli per diciotto mesi a fine Settecento74, una linea, del resto, che trova sostenitori, e sostenitrici,
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anche nel secolo successivo. Con differenti sfumature e da vari punti di vista, troviamo la disapprovazione dell’istituzione dell’harem nelle descrizioni dei viaggi di Sarah Belzoni, in Egitto con il marito archeologo nel 1816, della svizzera Valérie Boissier, contessa di Gasparin, nel Levante nel 1847, della sansimoniana Suzanne Voilquin, in Egitto fra il 1834 e il 1836, proprio «per studiare le donne», di Cristina di Belgioioso, in Anatolia e Siria agli inzi del 1850, che non commette l’errore di considerare tutti gli harem uguali, della tedesca Ida Hahn-Hahn (a Costantinopoli nel 1843) che, rispetto alla Montagu, produce un vero e proprio «contro-immaginario» della donna turca75. Per contro, la visione idealizzata delle donne orientali segna profondamente, come è noto, gran parte della letteratura di viaggio maschile sia del secolo dei Lumi sia, soprattutto, ottocentesca. In questo contesto, possono le lettere della Montagu essere considerate un momento molto precoce di quella lunga tradizione – firmata da autori quasi unicamente uomini benché ricca di raffigurazioni a soggetto femminile – definita orientalismo? L’orientalismo, dice Edward Said, è la rappresentazione che dell’Oriente ha l’Occidente a prescindere da ogni corrispondenza con l’Oriente «reale»76. Nel marcare la differenza fra Oriente e orientalismo, fra Oriente reale e Oriente inventato, la tesi di Said è che credere che l’Oriente sia stato creato o, come mi piace dire, «orientalizzato» per il solo gusto di esercitare l’immaginazione, sarebbe alquanto ingenuo, oppure tendenzioso. Il rapporto tra Oriente e Occidente è una questione di potere, di dominio, di varie e complesse forme di egemonia […]. L’Oriente è stato orientalizzato non solo perché lo si è trovato «orientale», soprattutto nel senso che a tale aggettivo è stato attribuito dagli europei del secolo scorso, ma anche perché è stato possibile renderlo «orientale». Non è di consenso che si tratta allorché dall’incontro di Flaubert con una cortigiana egiziana nasce uno stereotipo letterario della donna orientale destinato ad avere grande fortuna; ella non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità, la propria storia. È Flaubert a farlo per lei. Egli è uno straniero di sesso maschile e di condizione relativamente agiata, e tale posizione di forza gli consente non solo di possedere fisicamente Kuchuc Hanem, ma anche di descriverne e interpretarne l’essenza, e di spiegare al lettore in che senso ella fosse «tipicamente orientale». Io ritengo che la posizione di forza di Flaubert nei confronti di Kuchuc Hanem non fosse un fatto casuale o isolato. Al contrario esemplifica bene il complessivo rapporto di forze tra Occidente e Oriente allora esistente, e il discorso sull’Oriente che tendeva a scaturirne77.
L’analisi di Said ci consente di collocare le “lettere turche” di Lady Montagu “prima dell’orientalismo” ovvero in una prospettiva diversa, addirittura divergente dall’orientalismo letterario francese e inglese che si sarebbe affermato fra la metà Settecento e metà Ottocento.
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Si può inoltre osservare che, per quanto concerne la costruzione dell’immagine femminile, fra le rappresentazioni degli autori orientalisti ottocenteschi e quelle dei viaggiatori che precedettero la Montagu in Oriente (l’impostazione dei quali non diverge molto dalla “linea de Tott”), esiste un filo di continuità. Le relazioni del francese Thevenot e dell’inglese Rycaut, pubblicate a più riprese, avevano fornito informazioni sulla società turca ancora influenzate dal «fantasma medievale». La Turchia incarna «la figura satanica dell’Islam distruttore che incombe sulla cristianità come un’ombra minacciosa[…]. La religione di Maometto è un’impostura religiosa di una vivacità stupefacente, grazie al dispotismo ininterrotto dei vari califfi arabi e ottomani che ha potentemente sostenuto». La figura femminile è evocata solo per parlare della poligamia e dimostrare «il carattere voluttuoso del Profeta» e la permissività islamica che diverrà il pretesto all’erotismo letterario sotto veste orientale78. La rappresentazione dell’Oriente data da Lady Montagu si distacca sia da queste figurazioni pre-orientaliste sia da quelle del più classico orientalismo. Nella sua descrizione della società turca e nell’assegnare alle orientali una libertà che non trova appartenere alla donna occidentale del suo tempo, rovescia l’interpretazione dominante dei rapporti fra i sessi in Oriente: a differenza di come farà Flaubert, da donna non si pone nei confronti delle donne con un ruolo di potere, dà loro voce riconoscendole come soggetti. Il che significa anche, se è corretto il passaggio che Said compie a proposito dei rapporti interpersonali come esemplificazione (o prolungamento) dei rapporti politici, un rovesciamento nella considerazione della diversità individuale come dell’alterità culturale, un discorso sull’Oriente in controtendenza rispetto a quello che si è più largamente affermato in seguito. Anche se è vero, e non poteva essere diversamente, che l’orientalismo “dominante” si porrà nei confronti delle lettere di questa viaggiatrice con giudizi non univoci: ora apprezzandole, ora, più spesso, contestandone l’eccentricità delle considerazioni ma anche inglobandole nel proprio discorso, come abbiamo visto accadere con Ingres. In ogni caso, dalla pubblicazione in poi le lettere turche di Mary Montagu non sono passate inosservate. Anche senza aderire totalmente alle lettura “ideologica” dell’orientalismo fatta da Said non si può fare a meno di riconoscere che per avere, dall’esterno, una simile lettura della società islamica a riguardo della condizione femminile, bisogna arrivare a tempi molto più vicini a noi, a un’impostazione che si avvicina a quella di Said e a un’altra esperienza di viaggio femminile nel mondo islamico, quella assai più recente della principessa giornalista siciliana Vittoria Alliata. È cioè sul terreno di un particolare sguardo femminile che si possono meglio cogliere la specificità dell’approccio di Lady Montagu e i paradossi che
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si intrecciano nella sua visione del mondo e che pongono le donne mediterranee – o almeno quelle su cui si è soffermata – in una insospettata condizione di privilegio rispetto alle inglesi o alle francesi. Lady Mary, infatti, non applica la sua lettura della società soltanto a quella turca ma con la stessa curiosità e lo stesso approccio guarda anche alla condizione della donna in una società evoluta come quella genovese. Giunta a Genova nell’agosto del 1718 al ritorno dalla Turchia, vi sosta una decina di giorni. Ne riconosce la bellezza decantata da tanti viaggiatori e la «splendida architettura» anche se, «abituata a quella di Costantinopoli», è consapevole di non poterla apprezzare fino in fondo. Ad impressionarla maggiormente è ancora il mondo femminile, in questo caso la pratica del cicisbeato: una «moda che è cominciata qui ed è dilagata per tutt’Italia, dove i mariti non sono quelle creature terribili che pensiamo noi. Insomma non ce n’è uno che sia talmente rozzo da voler trovare qualcosa da ridire a proposito di una voga» che in poche parole significa grande libertà per le dame genovesi e addirittura subordinazione dell’uomo alla donna: I cicisbei sono dei gentiluomini che si consacrano al servizio di una dama (voglio dire di una donna sposata; le ragazze, confinate nei conventi nessuno le vede). Hanno l’obbligo di accompagnarla dappertutto: a teatro, all’opera e alle riunioni, che qui si chiamano «conversazioni», dove si mettono dietro la sua seggiola, si occupano del suo ventaglio e dei suoi guanti se lei gioca, hanno il privilegio di sussurrarle all’orecchio ecc. Quando lei esce le fanno da lacchè, trottando gravemente al lato della carrozza. È loro dovere farle un dono ad ogni occasione di gala e così pure per il suo compleanno. In breve, devono mettere tutto il loro tempo e il loro denaro a sua disposizione e lei li ricompensa seguendo la sua inclinazione (e certamente non gliene mancano le occasioni), ma ai mariti non è permesso di avere l’impudenza d’immaginare che possa esserci molto di più che una semplice amicizia platonica79.
Al di là del giudizio di Lady Montagu sul cicisbeato e le sue ragioni storiche80, questo secondo esempio genovese dimostra come al cuore delle descrizioni della nostra viaggiatrice ci sia ciò che di recente Leili Anvar-Chenderoff ha definito «il paradosso più forte di questa opera epistolare, cioè il paradosso della liberta delle donne». Infatti è chiaro che Lady Mary coltiva volontariamente il paradosso poiché alla classica immagine della reclusione della donna mussulmana, rappresentazione molto diffusa nell’immaginario europeo, oppone l’immagine di una donna eminentemente libera. Criticando i viaggiatori precedenti pone, come niente fosse, una questione cruciale, di una modernità incredibile: che cos’è la reclusione? Cos’è una prigione? Essa non nega la reclusione della donna mussulmana ma la reinterpreta in un modo del tutto personale. In numerose descrizioni, quando evoca il bagno, l’harem, il velo, di fatto dà una misura della reclusione. Ma lo fa per far ca-
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pirne meglio l’intimità sacra […]. Spazio esclusivamente femminile, proprietà delle donne, universo da cui gli uomini (compreso il padrone di casa) sono esclusi perché non vi entrano quando e come vogliono, l’harem diventa sotto la penna della Montagu il luogo inviolabile dell’intimità. Essa nota che lì perfino la tirannia turca non penetra e non esita ad affermare che considera le donne turche come «il solo popolo libero di questo paese»81.
Si è detto che uno degli aspetti più interessanti della storia del viaggio è la comprensione del rapporto che si stabilisce fra uomini e luoghi (intesi anche come società), si potrebbe dire della relazione fra geografie interiori e geografie esterne. Su questo aspetto si gioca la differenza forse più sensibile fra il viaggio femminile e quello maschile. E su questo, le lettere di Mary Montagu segnano in modo indelebile la storia del viaggio. L’esperienza turca, dice ancora Anvar-Chenderoff, l’ha condotta a porsi, consapevolmente o inconsapevolmente, il quesito di fondo del secolo dei Lumi: «cos’è la libertà? Cos’è la mia libertà come individuo e come donna?»82. La questione, per quanto concerne il giudizio dell’occidente sulla condizione delle donne nella cultura islamica, è ancora ai nostri giorni irrisolta. La cronaca e gli studi ci aggiornano quotidianamente su questo tema con testimonianze opposte come lo furono quella di de Tott e di «Monsieur G». In ogni caso l’interpretazione proposta dalla Montagu di una donna islamica meno assoggettata all’uomo di quanto si pensi è tutt’altro che datata e superata. È interessante da questo punto di vista il confronto fra le lettere della Montagu e la relazione di Vittoria Alliata che per ragioni di studio viaggia e soggiorna lungamente nei paesi arabi negli anni Sessanta del Novecento83. Diario di viaggio e saggio politico, il libro della Alliata è una riflessione sulla complessità del mondo islamico e non soltanto sulla questione femminile; della condizione delle donne rileva, a differenza della Montagu, la restrizione, ma anche aspetti che già alla Montagu erano parsi da prendere in considerazione. Certo, oppresse, in senso occidentale, lo sono: non dispongono di libertà di movimento, hanno sinora scarso accesso alla cultura, non partecipano ufficialmente al governo, possono essere divorziate con estrema facilità. Di libertà sessuale, poi, non ne parliamo. Dunque, di primo acchito, sembrerebbe un mondo di vergini e di martiri da compatire e compiangere. In realtà la situazione è ben diversa. La donna di ogni ceto sociale, nei paesi islamici, dispone in assoluta autonomia dei propri beni patrimoniali, quelli che eredita e quelli che il marito le dà in dote al momento del matrimonio. Questo patrimonio nessuno, al di fuori di lei, ha il diritto di amministrarlo; ciò significa che in caso di divorzio, oltre che sulla obbligatoria ospitalità del padre o dei fratelli, essa potrà sempre contare sulla propria indipendenza economica. Non male, se si pensa che in Occidente il Law Reform Married Women Property Act del 1785 fu il primo decreto che assegnò alle donne il diritto all’eredità. E poiché anche in Arabia il denaro è potere, e tanti secoli di oculata gestione dei propri beni hanno
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insegnato alle donne le più elaborate tecniche da Financial Times, non è esagerato sostenere che esse detengono di fatto il 50% del potere economico del paese. Lo esercitano direttamente come mercantesse, speculatrici fondiarie, finanziere o tramite agenti che operano per loro sia in patria che all’estero. […] Le ricche sono molto più represse delle meno ricche. Una sceicca non gira per strada, una popolana può andare dove le pare, una schiava ha una libertà pari alle donne occidentali. […] In Arabia, il problema del lavoro domestico non si era mai posto. La donna, per povera che fosse, non muoveva un dito in casa: per questo c’erano gli schiavi. La casa non era il suo campo di lavori forzati, ma il suo centro di potere, un settore di sua esclusiva competenza. Se il marito le lesinava qualcosa, o non le forniva, come d’obbligo, la spesa quotidiana dal mercato, la donna aveva tutti i diritti di far fagotto e andarsene. Nessun giudice le avrebbe negato il divorzio. Una moglie che sgobba in casa è una vergogna […]. Le arabe non sono state allevate tra romantici miti e competitive passioni, non sognano l’amore eterno, o una taille da mannequin, non si dilaniano l’un l’altra per affermarsi. L’uomo […] viene collocato su un piedistallo di dimensioni assai modeste: rispetto, certo, stima, devozione, ma pur sempre un margine d’ironia, una sospensione di giudizio, e la consapevolezza di essere tutto sommato loro, le donne, il fattore di coesione della tribù, quindi di stabilità del paese84.
Vittoria Alliata scrive negli anni Ottanta del secolo appena passato. Il ponte, lungo due secoli e mezzo, fra le due autrici, si regge sulla comune convinzione, straordinariamente precoce nella Montagu, della relatività dei canoni culturali. Per il particolare posizionamento “ambiguo” delle viaggiatrici, outsider che specchiano nell’alterità la propria condizione e che nel viaggio cercano la conoscenza di se stesse non meno di quella dei territori visitati, le rappresentazioni delle donne possono arrivare, pur in modo polifonico, là dove il viaggiatore difficilmente arriva. Se poi, il ricercatore si propone di andare oltre lo specchio di queste rappresentazioni, su un tema come quello della condizione delle donne nelle società di religione mussulmana la parola va data alle donne che il viaggio lo hanno fatto, o lo vanno facendo, all’interno del loro mondo. Lo si scoprirà, anch’esso, ricco, sia storicamente, sia attualmente, di differenze. Ce lo racconta (ma Simmel lo aveva già sottolineato), in un bel libro la sociologa marocchina Fatema Mernissi, nata e cresciuta in un harem: Zia Habìba disse qualcosa anche a proposito del tempo e dello spazio, su come gli harem cambino da una parte all’altra del mondo, e da un secolo all’altro. L’harem del califfo abasside Harùn al-Rashìd, nella Baghdad del nono secolo, non aveva niente a che vedere con il nostro. Le sue jàriya, o giovani schiave, erano donne molto istruite, che ingoiavano libri di storia e religione più svelte che potevano […]. Gli uomini di quel tempo, infatti, non apprezzavano la compagnia delle donne illetterate e incolte, e non era possibile attirare l’attenzione del califfo se non si era in grado di abbagliarlo con nozioni di storia, scienze e geografia […]85.
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Note 1. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali di una signora inglese, Edizione italiana a cura di Luciana Stefani, Il Saggiatore Mondadori, Milano 1984, p. 223. 2. La personalità di Mary Montagu è troppo complessa, ricca di sfaccettature e di contraddizioni, per essere qui rappresentata in modo esauriente. La biografia fondamentale è quella di Robert Halsband, The Life of Lady Mary Wortley Montagu, Oxford University Press, New York 1960. In Italia, sono usciti i profili scritti da Anita Desai (Introduzione, in Mary Wortley Montagu, Tra le donne turche, a cura di Ferdinanda Invrea, Archinto, Milano 1993, pp. 1-37), che fa capo ad Halsband senza citarlo come fonte, e da Silvia Mantini che si avvale, oltre che della stessa Desai, di un’ampia bibliografia. Cfr. Silvia Mantini, Dalla corte inglese alla tenda dell’harem: il viaggio di Lady Montagu, in Dinora Corsi (a cura di), Altrove. Viaggi di donne dall’antichità al Novecento, Viella, Roma 1999, pp. 297-313. Per quanto mi riguarda, sulla base soprattutto del lavoro di Halsband, di alcuni studi interessanti usciti in Francia e delle fonti primarie costituite dalle lettere, ho cercato di delineare la figura della viaggiatrice più che della letterata. 3. Robert Halsband, The Life…, cit., pp. 1-7. 4. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., p. 226 e ss. 5. Silvia Mantini, op. cit., pp. 299 e 303. 6. The complete Letters of Lady Mary Wortley Montagu, edited by Robert Halsband, vol. I 1708-1720, vol. II 1721-1751, vol. III 1752-1762, University Press, Oxford 1965, 1966 e 1967. 7. La cosa è documentata dalla lettera con cui Nicolas-François Rémond, che non conosceva personalmente la viaggiatrice, le testimonia grande ammirazione per una lettera da lei scritta al comune amico Conti che gliela aveva passata: «L’ho letta – le scrive –; l’ho riletta cento volte; l’ho copiata e non la lascio né di giorno né di notte». Cfr. The complete Letters…, cit., vol. I, p. 395. 8. Leili Anvar-Chenderoff, Une anglaise parmi les Turques: Lady Mary Wortley Montagu, in L’Orient des femmes, Textes réunis par Marie-Elise Palmier-Chatelain et Pauline Lavagne d’Ortigue, ENS Editions, Lyon 2002, p. 162. 9. La prima edizione è Letters of the Right Honourable Lady M… W… M…e: Written, durihg her Travels in Europe, Asia and Africa…, T. Becket and P. A. de Hondt, London 1763. 10. Cfr. Lettres de Milady Wortlay Montagute écrites pendant ses voyages en diverses parties du monde, traduites de l’anglois par le P. Jean Brunet, Duchesne, Paris 1764, pp. 1-6. Ai due volumetti è stato aggiunto nel 1768 un terzo: Troisième Partie. Pour servir de supplément aux deux premiers. On y a joint une réponse à la critique que le Journal Encyclopédique a faite des deux premieres parties de ces Lettres par M.G… de Marseille, Duchesne, Paris 1768. Questa prefazione della Astell contrasta con la versione, piuttosto macchinosa, riferita da Robert Halsband, secondo la quale Lady Montagu, sostando a Rotterdam al ritorno dall’Italia nel 1762, avrebbe affidato il manoscritto al reverendo Benjamin Sowoden, perché lo pubblicasse. Per impedirlo, la figlia se le sarebbe fatte restituire dietro il pagamento della somma importante di 500 sterline. Ma l’anno dopo, come sappiamo, le lettere uscirono. Il reverendo avrebbe spiegato di aver ricevuto la visita di due gentiluomini inglesi che se le erano portate via con uno stratagemma, per riconsegnarle volontariamente il giorno successivo, evidentemente dopo averle copiate. Cfr. Robert Halsband, The Life…, cit., pp. 287-288. 11. Lettres choisies de Lady Montague traduites de l’anglais par Paul Boiteau d’Ambly, Hachette, Paris 1853, p. IX. Sulla questione cfr. Robert Halsband, The Life…, cit., p. 129-136. 12. Michèle Plaisant, Lady Mary Wortley Montagu: paradoxes et stratégies du savoir, in Alain Morvan (éd.), Savoir et violence en Angleterre du XVIe au XIXe siècle, Presses universitaires de Lille, Lille 1987, pp. 34 e ss. 13. Daniel Levier, Anatomie de l’Excentricité en Angleterre au XVIII siècle, in Michèle Plaisant (ed.), L’excentricité en Grande-Bretagne au 18e siècle, Université de Lille, Lille 1976.
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15. Sull’eccentrico figlio di Lady Mary, che si era «talmente identificato con la vita dei mussulmani che l’imam più scrupoloso non avrebbe potuto accusarlo di negligenza» cfr. anche Michaud, Biographie Universelle Ancienne et Moderne, Desplaces, Paris-Brockhaus, Leipzig, s.d., tome XXIX, ristampa anastatica: Schmidt Periodicals, Bad Feilnbach/Allemagne 1998, pp. 11-13. 14. Francesco Algarotti (Venezia 1712 - Pisa 1764) olografo e viaggiatore, si era fatto una certa fama di scienziato a Bologna. Appena rientrato in Italia, dà alle stampe il Newtonianismo per le dame (Napoli 1737). Nel 1738 ritorna in Inghilterra da dove parte per la Russia. Cfr. Francesco Algarotti, Viaggi in Russia, a cura di Ettore Bonora, Einaudi, Torino 1979, p. VIII. 15. The complete Letters…, cit., vol. II, p. 315. Lettera del 20 dicembre 1743 ad Edward Wortley. 16. Recueil des oeuvres de Madame du Bocage, tome III, Chez les Freres Perisse, Lyon 1764, pp. 177-178. Anne Marie Le Page du Bocage, nata a Rouen nel 1710 e morta a Parigi nel 1802, è anche autrice di un famoso poema di maniera dedicato all’impresa colombiana. Cfr. Alessandro D’Ancona, Il viaggio di Madama Du Boccage, in Id., Viaggiatori e avventurieri, Sansoni, Firenze 1974, pp. 211-219. 17. The complete Letters…, cit., vol. II, p. 433. Lettera a Lady Bute del 24 luglio 1749. 18. Senza pretendere di essere esaustiva, i principali scritti che hanno riguardato la Montagu usciti in Italia mi risultano essere il saggio di Silvia Mantini, del 1999, citato; il volume a cura dell’anglista Giovanna Silvani dedicato ad alcune lettere di contenuto privato indirizzate al marito, ad Algarotti e alla figlia (Lady Mary Montagu, Lettere scelte, a cura di Giovanna Silvani, Editrice Università degli Studi di Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, Trento 1996) e l’Introduzione di Anita Desai, citata. Nella rivista «Aurea Parma», anno LXXIII, fascicolo II, maggio-agosto 1989, sono state pubblicate cinque lettere degli anni 1749 e 1759 in cui la viaggiatrice ricorda questa città (Anna Francesca Valcanover, Parma nelle lettere di Lady Mary Montagu, pp. 108-116). Assai prima di questi interventi sono state pubblicate le lettere riguardanti il tratto italiano del viaggio di ritorno dall’Oriente. Cfr. Impressioni italiane di viaggiatori inglesi del secolo XVIII. Pagine scelte dalle lettere di Lady Montagu e Tobia Smollett, traduzione di C. Albini Petrucci, Carabba, Lanciano 1916. 19. Lady Mary Montagu, L’islam au péril des femmes. Une Anglaise en Turquie au XVIIIe siècle, Introduction, traduction et notes d’Anne Marie Moulin et Pierre Chuvin, Maspero-La Découverte, Paris 1991, pp. 7-111. 20. Robert Halsband, The complete Letters…, cit., vol. I, p. 61. Lettera a Edward Wortley del 26 ottobre 1710. 21. Ibidem, vol. II, p. 116. Lettera a Francesco Algarotti, 11 luglio 1738, sottolineatura mia. 22. Del viaggio in Turchia le lettere qui tradotte iniziano con quella scritta da Vienna alla sorella il 16 gennaio 1717, un paio di settimane prima di lasciare definitivamente la capitale dell’Impero (cfr. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., p. 119). Mancano dunque le ventuno lettere scritte dal 3 agosto 1716 in avanti, di cui dieci da Vienna. 23. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., p. 134. 24. Cfr. Luisa Rossi, La scoperta femminile della montagna, in AA.VV., La montagna come esplorazione permanente. Gli aspetti storici e naturalistici dell’esplorazione scientifica delle Alpi, Regione Toscana, Firenze 2004. 25. Sul tema dell’espace veçu si ricorda l’intramontabile saggio di Armand Frémont, La regione, uno spazio per vivere, a cura di Marica Milanesi, prefazione di Massimo Quaini, Franco Angeli, Milano 1990, settima edizione. 26. Eric J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, il Mulino, Bologna 1992. Si veda in particolare il capitolo Il viaggio e le trasformazioni dell’individuo, pp. 251-275. Su questo tema cfr. anche Guglielmo Scaramellini, La geografia dei viaggiatori. Raffigurazioni individuali e immagini collettive nei resoconti di viaggio, UNICOPLI, Milano 1993.
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27. Assolutamente contro-corrente nell’interpretare il mondo turco, Lady Montagu non si dimostra alla stessa altezza nel giudicare le donne, che le «ricordano così da vicino i loro compaesani, i babbuini», di un villaggio tunisino che incontra, del resto di fuggita, quando, nel corso del viaggio di ritorno, visita le rovine di Cartagine in «quella terra di barbari». Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., pp. 236 e 237. 28. Anne Marie Moulin e Pierre Chuvin, Introduzione a Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., p. 16, lettere da Tunisi e da Genova. 29. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., pp. 122, 127. 30. Nel 1683 le armate del gran visir Kara Mustafa erano arrivate ad assediare Vienna ma erano state respinte dagli imperiali. Eugenio di Savoia, al servizio dell’imperatore, sconfigge gli ottomani a Zenta nel 1697. Con il trattato di Carlowitz del 1699, l’Impero turco aveva perso l’Ungheria. Ibidem, p. 252, note 3 e 11. 31. Ibidem, p. 127. 32. Ibidem, pp. 122-129. 33. Ibidem, p. 130. 34. Ibidem, pp. 122-129. Giovanni Francesco Gemelli Careri (1651-1725) aveva pubblicato il suo Giro del Mondo a Napoli nel 1679. 35. Ibidem, pp. 132-133. 36. Lia Guerra, Scandinavia 1795. Rapporto dai confini d’Europa, «Studi Settecenteschi», 15, 1995, p. 283. 37. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., pp. 121-122. Queste parole dimostrano come l’autrice fosse al corrente della più recente letteratura di viaggio ma fosse anche a conoscenza dei viaggi medievali in Oriente come quello di Mandeville e della tradizione dei trattati più fantasiosi sulle meraviglie e i mostri. 38. Ibidem, p. 140. 39. Ibidem, p. 150. 40. Già prima aveva stigmatizzato la «stupidità estrema di tutti i viaggiatori» che avevano parlato della mancanza di libertà delle donne turche. Ibidem, pp. 215, 152. 41. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., pp. 153-154. 42. Massimo Quaini, Luisa Rossi, Da Erodoto a Isabelle Eberhardt. Riflessioni e passi scelti del viaggiatore e della viaggiatrice, «I viaggi di Erodoto», anno 9, numero 27, settembre-dicembre 1995, pp. 69-70. 43. Michel de Montaigne, Essais, dir. André Lauly, livre I, ed. Libr. H. Champion, Paris 1989, p. 223. 44. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., p. 201. 45. Ibidem, pp. 222-223. 46. Ibidem, p. 216. 47. Ibidem, p. 188. Jean Dumont aveva pubblicato nel 1694 il suo Nouveau Voyage au Levant che era stato tradotto in Inghilterra due anni dopo. Anche sul resoconto da Costantinopoli di Francesco Gemelli Careri, che pure apprezza «sopra tutti gli altri scrittori di viaggi» e della cui veridicità ha «fondata fiducia», trova qualcosa da ridire là dove il viaggiatore napoletano afferma che «di Calcedonia non resta più niente». Avendo traversato «in galea lo stretto braccio di mare che sta tra quella città e Costantinopoli» Lady Mary riscontra il contrario e tuttavia giustifica l’errore di Careri come probabilmente dovuto «alla sua guida» e al suo troppo breve soggiorno dato che la Turchia era stata solo una tappa del suo lungo viaggio intorno al mondo. Cfr. Ibidem, p. 224. 48. Ibidem, p. 199. 49. Eric J. Leed, op. cit., pp. 135-136. 50. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., pp. 148, 192. 51. Ibidem, p. 221.
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52. Nel 1706 l’orientalista Antoine Galland (1646-1715) aveva tradotto l’opera persiana in francese. Da questa fu tratta fra il 1708 e il 1717 l’edizione in inglese. Cfr. Leili Anvar-Chenderoff, op. cit., p. 167. 53. Il signor Gervaso a cui si riferisce è il ritrattista Charles Jervas (1675?-1739) che nel 1710 aveva dipinto la giovane Montagu vestita da contadinella. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., p. 253, nota. 54. Ibidem, pp. 139-140. 55. Leili Anvar-Chenderoff, op. cit., p. 165. I due dipinti di Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867) sono entrambi conservati al Louvre. 56. L’aquarello, del 1860, è conservato nella National Gallery of Victoria di Melbourne. 57. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., p. 138. 58. Della Montagu sono rimasti una decina di ritratti di cui Isobel Grundy (Lady Mary Wortley Montagu. Comet of the Enlightenment) ha fatto la rassegna e la descrizione; sei di essi suggeriscono, per l’abbigliamento e lo sfondo, il viaggio in Turchia. Cit. da Leili AnvarChenderoff, op. cit., p. 161, nota. 59. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., p. 152. 60. Ibidem, p. 153. 61. Aveva poco prima citato il viaggiatore inglese Aaron Hill (1658-1750) che nel 1703 aveva pubblicato un lavoro sull’Impero ottomano. Cfr. ibidem, p. 216 e p. 255, nota. 62. Ibidem, p. 217. 63. Il riferimento diventa chiarissimo con la lettura del diario della viaggiatrice Léonie d’Aunet che, a proposito delle case olandesi, descrive un ordine maniacale. 64. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., pp. 170-171. 65. Ibidem, pp. 224-226. 66. Cfr. Lady Mary Wortley Montagu, Essays and Poems…, in Robert Halsband and Isobel Grundy (ed.), Claredon Press, Oxford 1977, p. 164. 67. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., pp. 161-163. 68. Cfr. in proposito il recente lavoro di Vanna de Angelis, Le streghe. Storia di donne che nacquero fate e morirono amanti del diavolo, Edizioni Piemme Pocket, Casale Monferrato 2002. 69. Marilyn Ogilvie and Joy Harvey (editors), Biographical Dictionary of Women in Science, Routledge, New York and London 2000, voce «Montague, Lady Mary Wortley». 70. Pierre-Augustin Guys (1721-1799), figlio di un commerciante, è inviato una prima volta a Costantinopoli nel 1739. Nel 1744 scrive le Lettres, diario di un viaggio da Costantinopoli a Sofia, poi il Voyage da Marsiglia a Smirne e da qui di nuovo a Costantinopoli (descritta anche in molte lettere del 1748). Ma la sua opera più importante è il Voyage littérarie de la Grèce, edito nel 1771, poi nel 1776 e di nuovo nel 1783. Cfr. Michaud, op. cit., tome XVIII, pp. 293-294. Cfr. anche M. Prevost, Roman D’Amat, H. Tribout de Morembert, Dictionnaire de biographie française, Letourey et Ané, Paris 1989. 71. Cfr. Lettres de Milady Montagute…, cit., terzo volume intitolato Troisième Partie…, cit. La critica a de Tott, redatta sotto forma di lettera indirizzata a un certo Monsieur Bourlac de Montredon, suo compagno di viaggio in Oriente, è alle pp. 85-178. 72. Troisième partie pour servir de supplément…, cit., pp. 85-104. 73. Mémoires du Baron de Tott sur le Turcs et les Tartares, s.e., Amsterdam 1784, p. XXVII e pp. 84 e ss. Il barone François de Tott (1733-1773), è a Costantinopoli prima per accompagnare il padre in missione diplomatica per la Francia, poi egli stesso come funzionario dell’ambasciatore cavaliere di Vergennes. Egli resta a Costantinopoli fra il 1757 e il 1763 e dopo altre esperienze in Oriente pubblica i Mémoires. Cfr. Michaud, op. cit., tome XLII, voce «Tott, François baron de». 74. Sarga Moussa, La relation orientale. Enquête sur la communication dans les récits de voyage en Orient, Klincksieck, Paris 1995, pp. 176, 182-183.
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75. Ibidem, pp. 184-198; Rita Calabrese, Sconfinare. Percorsi femminili nella letteratura tedesca, Luciana Tufani Editrice, Ferrara 2003, pp. 148-153; Suzanne Voilquin, Memorie di una figlia del popolo. La sansimoniana in Egitto, Giunti, Firenze 1989, pp. 137, 217 e ss. 76. Edward W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 3. Il termine «orientalismo» può essere definito riconducendolo alla sua accezione accademica come insieme di discipline che studiano i costumi, la letteratura la storia dei popoli orientali: l’«orientalistica» appunto. Può essere visto nella sua accezione più ampia di complesso di rappresentazioni che fanno riferimento a uno stile di pensiero fondato sulla distinzione ontologica tra l’Oriente, da un lato e – nella maggior parte dei casi – l’Occidente dall’altro, adottata da un gran numero di poeti, romanzieri, filosofi, ideologi, economisti, funzionari e amministratori coloniali. Può, infine, riferirsi anche all’insieme delle istituzioni create dall’Occidente allo scopo di gestire le proprie relazioni con l’Oriente «gestione basata oltre che sui rapporti di forza economici, politici e militari, anche su fattori culturali, cioè su una serie di nozioni veritiere o fittizie sull’Oriente». Ibidem, pp. 4-5. 77. Ibidem, p. 8. Sulla stessa linea critica si esprime Todorov. Cfr. Tzvetan Todorov, Nous et les autres, Seuil, Paris 1989, p. 333 e ss. La tesi di Said non ha trovato, sul piano scientifico, soltanto consensi. A Moussa è sembrato eccessivamente semplificativo considerare il discorso occidentale sull’Oriente dal XVIII secolo in poi come un insieme coerente di stereotipi dispregiativi (a parte qualche eccezione) al fine di legittimare un comportamento imperialista. Cfr. Sarga Moussa, op. cit., pp. 11-12. 78. Anne Marie Moulin e Pierre Chuvin, Introduzione…, cit., pp. 9-10. 79. Mary Wortley Montagu, Lettere orientali…, cit., pp. 238-239. 80. Cfr. Edoardo Grendi, Fonti inglesi per la storia genovese, in Studi e Documenti di Storia Ligure in onore di don Luigi Alfonso per il suo 85° genetliaco, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XXVI, vol. 2, 1996, pp. 353-354. 81. Leili Anvar-Chenderoff, op. cit., pp 168-169. 82. Ibidem, p. 172. 83. Vittoria Alliata si reca a sedici anni in Medio Oriente in seguito al tema scelto per la sua precocissima tesi di laurea sui rapporti tra «Stato e comunità religiose in Libano». Ancora più giovane aveva compiuto un viaggio in Terrasanta (da Palermo a Gerusalemme), in macchina, con la nonna, la governante e l’autista. Vittoria Alliata, Harem. Memorie d’Arabia di una nobildonna siciliana, Garzanti, Milano 1980, pp. 36-37. 84. Ibidem, pp. 64-67. 85. Fatima Mernissi, La terrazza proibita. Vita nell’harem, Giunti, Firenze 1996, pp. 146147. Mernissi ha anche scritto un lungo e scrupoloso saggio che muove dalle fonti per dimostrare una considerazione paritaria delle donne nei testi del Profeta e una loro diversa condizione nella società islamica delle origini: cfr. Fatima Mernissi, Donne del Profeta. La condizione femminile nell’Islam, ECIG, Genova 1997. Di una realtà islamica diversa parlano sia Armanda Guiducci, sia, molto prima, Georg Simmel. La Guiducci ricorda la cultura femminile «ben poco nota» fiorita negli harem della Spagna del IX e X secolo dove le donne si imposero, fra le prime, con le loro abilità di artiste, trovatrici, calligrafe e bibliotecarie. A Rhadia, ex ospite dell’harem di Cordoba, «il califfo al-Hacham II (961-976), aveva concesso una pensione per consentirle di viaggiare e di scrivere resoconti di viaggio». Cfr. Armanda Guiducci, Medioevo inquieto. Storia delle donne dall’VIII al XV secolo d.C., Sansoni, Firenze 1990, pp. 3544 (Il confronto con la diversità). Anche Simmel distingue nella cultura islamica i momenti e gli elementi favorevoli alla condizione femminile, fra cui quello che sarà citato dalle scrittrici. Cfr. Georg Simmel, Il militarismo e la condizione delle donne (1894), in Id., Filosofia e sociologia dei sessi, a cura di Gabriella Antinolfi, Edizioni Cronopio, Napoli 2004, p. 130.
LE IMMAGINI
Fig. 1. Stefano Bonsignori, Egitto, 1578 (particolare). Firenze, Sala delle Carte Geografiche in Palazzo Vecchio.
Fig. 2. Frontespizio del volume di Girolamo Borro, Del flusso, e reflusso del mare e dell’inondatione del Nilo, 1577. Fig. 3. Frontespizio del volume di Thomas de Quincey, Avventure di una monaca vestita da uomo, 1975. Fig. 4. Catalina de Erauso vestita da soldato. Disegno realizzato a partire dal ritratto eseguito dal pittore Francisco Pacheco nel 1630. Archivio iconografico L.R. Fig. 5. Ritratto attribuito a Maria Sibylla Merian, 1679. Basel, Öffentliche Kunstsammlung Kunstmuseum.
Fig. 6. Carta del Suriname di A. Maars, in Beschryvinge van de Volk-Plantinge Zuriname, 1718. Harvard University, Houghton Library.
Fig. 7. Ritratto di Maria Sibylla Merian eseguito da Georg Gsell e inciso da Jacob Houbraken per la pubblicazione di Der Rupsen Begin…, Amsterdam (1713-1717). Basel, Öffentliche Kunstsammlung Kupferstichkabinett.
Fig. 8. Frontespizio dell’opera di Maria Sibylla Merian Metamorphosis Insectorum Surinamensium…, edizione postuma del 1719. Firenze, Biblioteca Marucelliana.
Fig. 9. Tavola dell’opera di Maria Sibylla Merian Metamorphosis Insectorum Surinamensium…, edizione postuma del 1719. Firenze, Biblioteca Marucelliana.
Fig. 10. Tavola raffigurante la papaia dell’opera di Maria Sibylla Merian, Metamorphosis Insectorum Surinamensium…, edizione postuma del 1719. Firenze, Biblioteca Marucelliana.
Fig. 11. Particolare con il Santuario di Loreto nella mappa di Giacomo Lauro Alma Domus Urbs, Agerque Laureti Miracela, 1626. Collezione Cartografica della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro. Fig. 12. Particolare con il Santuario di Loreto nella mappa di Giovan Battista da Cassino, Provincia Piceni, 1712. Collezione Cartografica della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro.
Fig. 13. Jeanne Baré travestita da marinaio durante il viaggio compiuto tra il 1767 e il 1769. Disegno anonimo, Museum of New South Wales.
Fig. 14. Banano di Tahiti disegnato da Jules-Louis Lejeune nel viaggio di Louis-Isidore Duperrey sulla corvetta La Coquille (1822-1825). Archivio iconografico L.R. Fig. 15. «Paniers et caisses pour recueillir les plantes durant le voyage», di Gaspard Duché de Vancy, XVIII secolo. Archivio iconografico L.R.
Fig. 16. Bouganville a Tahiti nella Baia di Matavai, 1768. Archivio iconografico L.R.
Fig. 17. Charles Jervas, Ritratto di Lady Mary Wortley Montagu, inizio XVIII secolo. Archivio iconografico L.R.
Fig. 18. Jean-Baptiste Van Mour, Lady Wortley Montagu con il figlio, 1717. London, National Portrait Gallery.
Fig. 19. Jean-Baptiste Hilair, Dames du harem à la promenade, 1797 (particolare). Paris, Musée du Louvre.
Fig. 20. Jean-Baptiste Hilair, Appartament d’une dame mahométane avec le tandour, 1790. Paris, Bibliothèque Nationale de France.
Fig. 21. Carle van Loo, Deux sultanes travaillant à la tapisserie, 1755. Paris, Musée des Arts décoratifs.
Fig. 22. Eduard Hildebrandt, particolare dello studio di Humboldt, XIX secolo. Berlin, Archiv der Alexander-von-Humboldt Forschungsstelle, Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften.
Fig. 23. François-Auguste Biard, La corvetta La Recherche nel viaggio di L. D’Aunet alle isole Spitzbergen, agosto 1839. Archivio iconografico L.R.
Fig. 24. François-Auguste Biard, ritratto di Léonie D’Aunet, 1842. Archivio iconografico L.R.
Fig. 25. Ritratto di Ida Reyer Pfeiffer eseguito da Franz Hanfstaengl, 1856. Wien, Bildarchiv der Österreichischen Nationalbibliothek.
Fig. 26. Frontespizio del volume di Ida Pfeiffer, Visit to the Holy Land, Egypt, and Italy, 1853.
Fig. 27. Dai viaggi di Ida Pfeiffer. Disegno di A. de Bar da Hugh Low in «Le Tour du Monde», 1861.
Fig. 28. Ida Reyer Pfeiffer in costume da viaggio. Litografia di Adolf Dauthage, 1855. Wien, Bildarchiv der Österreichischen Nationalbibliothek.
Fig. 29. Route dans l’intérieur de Madagascar dai viaggi di Ida Pfeiffer. Disegno di Evremond de Bérard, in «Le Tour du Monde», 1861.
Fig. 30. Agostino Fossati, La marina di Spezia dall’Hotel Croce di Malta alla collina dei Cappuccini, metà XIX secolo. Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia.
Fig. 31. Frontespizio del volume di Mary Somerville, Geografia fisica, 1856.
Fig. 32 e Fig. 33. Due ritratti (1870 e 1882) di Elena Ghika principessa Koltzoff-Massalski (Dora d’Istria). Foto Alinari. Paris, Bibliothèque Nationale de France.
Fig. 34. Lettera di Dora d’Istria ad Angelo de Gubernatis scritta da Firenze il 9 novembre 1872. Archivio iconografico L.R.
Fig. 35. Plans d’Athenes et du Pirée, in «Le Tour du Monde», 1862.
Fig. 36. «Vue de Delphes» in Onésime Reclus, La terre à vol d’oiseau, 1893.
Fig. 37. Alexandra David-Néel e il figlio adottivo Lama Yongden in Tibet, 1921. Digne-les-Bains, Fondation Alexandra David-Néel.
Fig. 38. «Carte de l’Asie», in Onésime Reclus, La terre à vol d’oiseau, 1893.
Fig. 39. «Le monastère de Séra, a Lhassa», in Alexandra David-Néel, Mystiques et magiciens du Thibet, 1929. Fig. 40. Campo di Alexandra David-Néel nel massiccio di Kangchenjunga nel 1912 (particolare). Digne-les-Bains, Fondation Alexandra David-Néel.
Fig. 41. Lo studio di Alexandra David-Néel a Dignes-les-Bains. Digne-les-Bains, Fondation Alexandra David-Néel.
Fig. 42. Ritratto di Ellen Churchill Semple eseguito a Lipsia, all’epoca in cui assisteva alle lezioni di Ratzel (1891-1892 circa). Courtesy University of Kentucky Library, Semple Collection.
Fig. 43. «Philippine Islands-Distribution of Civilized and Wild Peoples» in Ellen Churchill Semple, Influences of Geographic Environment, 1911.
Parte seconda IL VIAGGIO FEMMINILE: UNA RIVOLUZIONE GEOGRAFICA
I. Chi ha “soppresso” Alexander von Humboldt?
Non conosceva la geografia, trovava la matematica insopportabile, sosteneva, a volte, certe fanfaluche le quali stavano certamente meglio in bocca di una donna che non di un uomo, come quella, per esempio, che andando verso Sud si debba per forza andare in discesa. Virginia Woolf, Orlando
L’ingresso delle donne nelle istituzioni geografiche è segnato da un piccolo mistero. Siamo a Parigi, il 5 gennaio 1822: nella sede della Société d’Encouragement si tiene la quinta seduta della neonata Société de Géographie, prima Società geografica in assoluto, fondata nel luglio del 1821 e costituita dal fior fiore del mondo scientifico francese: lo studioso di lingue orientali Langlès, i politecnici Fourier e Jomard, lo specialista di cartografia dell’Antichità Barbié du Bocage, gli scienziati Cuvier e Laplace, l’egittologo Champollion, il prefetto della Senna Chabrol de Volvic, lo scrittore-viaggiatore Chateaubriand, geografi come Malte-Brun e Alexander von Humboldt… Laplace presiede la seduta, Malte-Brun funge da segretario generale, Humboldt è membro della sezione «corrispondenti». Sono presenti 27 dei 227 iscritti raccolti in pochi mesi. Chi compila il verbale registra sul foglio il susseguirsi dei lavori: discorso del presidente, sottoscrizioni e stato finanziario, calendario delle sedute pubbliche, nomina di una commissione che rediga lo statuto…; fra le altre, una lapidaria annotazione: «Su richiesta del Signor Humboldt si decide che lo statuto non esclude le donne […]»1. Nel giugno dello stesso 1822 esce il primo numero del bollettino ufficiale della Société. Nelle pagine iniziali si riportano, articolo dopo articolo, gli obiettivi che la nuova associazione si propone (incoraggiare viaggi nelle contrade sconosciute; instaurare rapporti con viaggiatori e geografi e con altre istituzioni scientifiche; pubblicare relazioni inedite; dare alle stampe carte…), la struttura organizzativa, le regole di ammissione dei cittadini francesi e degli stranieri. Di seguito si pubblicano i verbali delle sedute fondative, compreso quello del 5 gennaio. Esso corrisponde in tutti i suoi punti al manoscritto; in tutti tranne uno: l’intervento di Humboldt relativo alle donne è scomparso2.
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Parte seconda
Inutilmente si cercherà ragione della frase soppressa nella documentazione manoscritta conservata negli archivi della Società e nei numeri subito successivi del «Bulletin»: una richiesta di spiegazioni da parte di Humboldt, qualche osservazione in merito. Non si trova traccia dell’argomento nei verbali delle sedute fino a quello del 21 febbraio 1823 dove, dopo altri punti, e come se si trattasse di questione mai affrontata prima, si legge: «Il Signor Barbié du Bocage (padre) propone di accettare le donne come membri della Società. Dopo aver ascoltato diversi interventi favorevoli e contrari, la Commissione accoglie la proposta»3. Di fatto, ancora a proposito dell’assemblea generale del 5 dicembre 1828, presieduta da Cuvier, si segnala che la sala «presenta una riunione numerosa resa ancor più brillante per il fatto che ne fanno parte molte donne»4, ma le signore presenti sono ancora semplici gradite ascoltatrici dato che nell’elenco delle nuove ammissioni non compare nessun nome femminile5. Passerà ancora più di un ventennio prima che una donna risulti formalmente iscritta: nel 1852 «Madame Alexandre Kerr è accolta fra i membri della Società su presentazione dei Signori Antoine d’Abbadie et Jomard»6. A quel tempo Humboldt ha ottantatre anni e risiede stabilmente a Berlino. Della Kerr sappiamo dal «Bulletin» soltanto che è vedova e che risiede a Parigi 7. Questi pochi elementi farebbero comunque escludere che quando Humboldt, trent’anni prima, propose la clausola di apertura della Società alle donne, pensasse a lei. Lo storico della Società geografica di Parigi, Alfred Fierro, nella sua dettagliata ricostruzione della nascita della Société accenna solo in nota al curioso episodio della frase soppressa senza fare ipotesi8. Il piccolo enigma, in verità molto interessante dal mio punto di vista, è probabilmente destinato a restare senza soluzione. Si può appena tentare una riflessione circa le ragioni che possono avere spinto Humboldt a fare la sua proposta. Si trattò di una mozione di principio, avanzata dal grande «scienziato, esploratore, liberale e ultimo grande spirito universale»9, o, anche, il padre della geografia umana moderna aveva in mente qualche cultrice della disciplina il cui impegno meritava riconoscimento? La prima ipotesi appare la più fondata. Anzitutto per il silenzio di Humboldt. Se egli avesse pensato a una persona precisa non avrebbe forse consentito che si accantonasse la sua proposta. Inoltre, non risulta che al momento della fondazione della Società esistesse nel panorama culturale europeo una figura femminile capace di distinguersi per interessi e meriti squisitamente geografici: una Ida Pfeiffer ad esempio. Ciononostante Humboldt, che certamente non ignorava come per tutto il Settecento numerose donne si fossero date alla pratica del viaggio e della scrittura di viaggio, deve aver ritenuto giusto il principio dell’accoglimento delle donne nel sodalizio. Di-
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versi anni dopo egli riconoscerà con generosità ed entusiasmo l’attività dell’austriaca Ida Pfeiffer che entrerà in contatto con la Società geografica parigina anche grazie al suo sostegno10. Non si sono invece finora trovate tracce circa una sua conoscenza diretta o indiretta della Kerr. Sulla questione della frase scomparsa e della presenza delle donne nelle Società geografiche è intervenuto più recentemente un altro studioso delle diverse Società francesi, Dominique Lejeune che, ricordando la Kerr e la Pfeiffer come prime aderenti alla Société, commenta: L’estrema scarsità di donne «in geografia» si spiega parzialmente con il fatto che non se ne trovavano allora in Francia fra i funzionari e gli impiegati dell’amministrazione, gruppi particolarmente ben rappresentati fra i geografi: è significativo il fatto che ho potuto ricordare solo un’inglese un’austriaca11.
La figura di Ida Pfeiffer merita l’attenzione che ne fa una delle protagoniste di questo lavoro. Quanto alla «anglaise» Kerr, la sua biografia rimane ad oggi piuttosto misteriosa. Lejeune ci dice che questa «fedele londinese […] nel 1859 entrerà anche nella Società austriaca»12 ma non altro. Il nome con cui viene ricordata – Alexander – è, all’uso inglese, il nome del marito. Scopriamo il suo nome di battesimo e la sua intensa attività di viaggiatrice proprio nella nota biografica dedicata a Ida Pfeiffer contenuta nella Correspondance di Humboldt curata nel 1865 da de la Roquette là dove questi precisa: A torto l’autore della notizia dedicata a Ida Pfeiffer nella Biographie Universelle (Michaud), pretende che ella ebbe l’onore, unica persona del suo sesso, di far parte delle Società Geografiche di Parigi e di Berlino e di altre associazioni scientifiche. Noi conosciamo infatti un’altra donna molto colta, un’inglese, viaggiatrice infaticabile, Louisa Kerr, la quale, senza aver fatto il giro del mondo come la Pfeiffer, ne ha come lei visitato quasi ogni parte, senza tuttavia pubblicare nulla. Crediamo che sia membro delle Società geografiche di Parigi, Vienna, Leipsick, Ginevra, Darmstadt e Francoforte e di più di venti Società archeologiche. Sarebbe certamente appartenuta alla Società londinese se questa avesse ammesso le donne, ma non ne figura alcuna fra i 1750 membri che oggi la compongono13.
In effetti non si è trovato il suo nome nei dizionari biografici né si sono rinvenuti manoscritti nell’archivio della Société o articoli nel «Bulletin». Sole testimonianze concrete dei viaggi in Oriente di Louisa Kerr restano alcuni oggetti. «Senza tracce materiali il viaggio è cancellato. Quasi non esiste» dice Marie-Noëlle Bourguet a proposito del «voyage des objets», le collezioni naturalistiche che specialmente dal Settecento in poi furono un altro modo per descrivere il mondo14. Nel caso della Kerr non si può certo parlare di collezioni, ma la breve lista di oggetti che la riguarda è sufficiente a farci almeno
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Parte seconda
capire che il suo accoglimento nella Società geografica si dovette al fatto che essa fu effettivamente una viaggiatrice. Il 6 agosto del 1858 si era tenuta una delle consuete sedute della Société parigina. Questa volta era presente un altro dei padri della geografia, Elisée Reclus, ammesso dalla seduta precedente. Il verbale edito nel «Bulletin» dedica qualche riga all’oscura “madre”: Infine, il Signor de la Roquette, posa sulla scrivania diversi oggetti portati dalla Signora Kerr dai suoi viaggi e da lei offerti alla Società: «un encrier persan; un presse-papier en chêne d’Abraham; une coupe en bitume de la Mer Morte; un timbre pour servir à marquer les pains à Mai-Saba en Palestine»15.
Un calamaio persiano e un fermacarte di legno, una coppa di bitume del Mar Morto e un timbro da pani palestinese sono le semplici meraviglie che la prima donna accolta in una comunità scientifica geografica offre agli autorevoli colleghi. Di fatto le Società geografiche restano a lungo circoli molto chiusi che escludono deliberatamente, o nei fatti, le donne. La Royal Geographical Society, fondata nel 1830, giunge a dibattere la questione della loro ammissione nel 1893 con il risultato del mantenimento dell’interdizione. In Francia l’ammissione formale non corrisponde a un loro effettivo coinvolgimento. La loro scarsa presenza – come, del resto, quella di giovani e di rappresentanti delle classi popolari, cosa che, come nota Lejeune, fa delle Società geografiche delle associazioni fortemente «incomplete»16 – non è deplorata ed è ritenuta statisticamente normale. Le Società geografiche francesi (arrivano ad essere 32 nel corso dell’Ottocento, diffuse anche nelle piccole città) attingono per la gran parte dei loro iscritti al ceto impiegatizio amministrativo e ministeriale dove appunto le donne sono rare. Nel 1869 su 582 membri la Société parigina contava solo due donne: la Kerr e Dora d’Istria. Dieci anni dopo, su 1833 membri le donne erano 27. Spesso erano mogli di soci e la loro presenza aveva un significato più mondano che culturale, il loro peso scientifico, inconsistente. Solo nella seduta della Société del 4 febbraio 1881 si trova nei verbali la traccia di un intervento femminile: quello della veneta Carla Serena – esule con il marito in Francia e a Londra dopo il crollo della Repubblica Veneziana del 184817 – che compare anche nel «Bulletin» con un brano relativo al suo viaggio in Russia del 187818. In generale Le Società si considerano e si comportano come delle entità collettive asessuate. Inoltre alle esploratrici, poiché qualcuna c’è, si allude come «esploratori», e mai si accenna al loro sesso: l’immagine della donna esploratore è totalmente spersonalizzata19.
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Di fatto, dopo la Kerr, i nomi femminili che si impongono nelle liste degli iscritti o le autrici a cui viene eccezionalmente dedicata qualche riga, o pagina, del «Bulletin» sono, fra il 1821 e il 1926, cioè in oltre cento anni di vita della Société, meno di dieci20. Di queste sono pubblicati scritti, oltre che della Pfeiffer e della Serena, soltanto della francese Adèle Hommaire de Hell21 e della belga – “pupilla” di Reclus – Alexandra David-Neél22. Una viaggiatrice, quest’ultima, che, come vedremo, sarebbe stato proprio impossibile ignorare. Note 1. Bibliothèque Nationale de France (d’ora in poi BN), Cartes et Plans, Archives de la S.G, Colis 26, Notice 3748. 2. «Bulletin de la Société de Géographie», 1ère série, tome I, n. 1, 1822, p. 25. 3. Ibidem, n. 5, 1823, p. 165. 4. Ibidem, tome XI, n. 69, 1829, p. 25. 5. Ibidem, p. 48. 6. «Bulletin de la Société de Géographie», 4ème série, tome III, 1852, p. 302. 7. Nell’elenco degli iscritti del 1852 risulta risiedere al numero 16 di Cité d’Antin. Dal 1853 al 1878 la Kerr risulta regolarmente iscritta e residente a Londra, tranne che nel 1856/57 quando la troviamo domiciliata al 18 di Fauburg ST-Honoré. «Bulletin de la Société de Géographie», anni relativi. 8. Alfred Fierro, La Société de Géographie 1821-1946, Droz, Genève-H. Champion, Paris 1983, p. 124, nota 2. 9. Douglas Botting, Humboldt. Un savant démocrate, Traduit de l’anglais par Martine Dupouey, Préface de Roger Brunet, Belin, Paris 1988, p. 11. 10. Come vedremo, Ida Pfeiffer compare più volte nel «Bulletin» che pubblica brani dei suoi diari di viaggio o dedica loro lunghi commenti. 11. Dominique Lejeune, Les sociétés de géographie en France et l’expansion coloniale au XIX siècle, Albin Michel, Paris 1993, p. 56. 12. Ibidem. 13. Humboldt, Correspondance scientifique et littéraire recueillie, publiée et précédée d’une notice et d’une introduction par M. De La Roquette, Doyen et Président honoraire de la Société de Géographie de Paris, suivie de la biographie des correspondents de Humboldt, Duroc, Paris 1865, pp. 425-427. 14. Marie-Noëlle Bourguet, La Collecte du monde: voyage et histoire naturelle (fin XVIIe siècle – début XIXe siècle), in Claude Blanckaert (a cura di), Le Muséum au premier siècle de son histoire, Muséum national d’histore naturelle, Paris 1997, p. 163. 15. «Bulletin de la Société de Géographie», 4ème série, tome XVI, 1858, p. 122. In realtà un documento manoscritto elenca un maggior numero di oggetti, interessanti come tracce degli itinerari della Kerr: «medaillon en bois petrifié trouvé dans les montagnes d’Hymalaya (Hindostan); autre tamarinds petrifiés trouvé près de Lahore, coquille dentelleé rare […]». BN, Cartes et Plans, Archives de la S.G, Musée de la Société de Géographie, Carton MI-MU, 839, Liste d’objets offerts par Madame Alexandre Kerr, s.d. 16. Dominique Lejeune, op. cit., pp. 181-188. 17. Mirella Scriboni, Il viaggio femminile nell’Ottocento: La principessa di Belgioioso, Amalia Nizzoli e Carla Serena, «Annali d’Italianistica», vol. 14, 1996, p. 313. 18. De Petrovsk à Astrakhan. Devet-Faat, le Volga, les Kalmucks, par M.me Carla Serena, «Bulletin de la Société de Géographie», 6ème série, tome XX, n. 2, 1880, pp. 328-336.
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19. Dominique Lejeune, op. cit., p. 182. 20. Oltre alla Kerr e alla Pfeiffer le prime associate sono state Dora d’Istria e Adèle Hommaire de Hell, ormai note, l’ignota svizzera Madame Duchisna, iscritta con il marito nel 1873 e Jane Dielafoy, anch’essa nota, viaggiatrice in Persia con il marito Marcel negli anni Ottanta dell’Ottocento, il cui nome, insieme a quello del marito, ufficiale archeologo, è legato alla resurrezione di Susa, come ricorda anche Broc. (Cfr. Numa Broc, Dictionnaire illustré des explorateurs et grands voyageurs franVais du XIX siècle, II, Asie, Editions du C.T.H.S., Paris 1992, pp. 145-147). Alexandra David-Néel risulta iscritta con il nome di Alexandra Myrial. 21. De Constantinople à Trieste, par Mme Adèle Hommaire de Hell, «Bulletin de la Société de Géographie», 5ème série, tome IX, n. 2, 1865, pp. 222-237. 22. Alexandra David-Néel, En eclaireur à travers le Tibet, «La Géographie», tome XLV, janvier-juin 1926, pp. 359-373.
II. Diario dai ghiacci. Léonie d’Aunet
[…] ben aveva sentito dire, infatti, come in Moscovia le donne portassero la barba, e gli uomini fossero ricoperti di peli dalla cintola in giù; e come maschi e femmine si ungessero di sego onde proteggersi dal freddo, e dilaniassero la carne con le dita, e vivessero in tuguri in cui un gentiluomo inglese si sarebbe fatto scrupolo di albergare il proprio bestiame. Virginia Woolf, Orlando
Se il Settecento è stato definito il secolo delle donne, il secolo delle viaggiatrici è senza dubbio l’Ottocento. Le specifiche ricerche hanno visto le bibliografie sul viaggio femminile infittirsi e debordare dalle rassegne contenute nei primi lavori sistematici che hanno riguardato essenzialmente le viaggiatrici vittoriane e francofone1. Scandagliando questo particolare bacino del mare della storia delle donne ho “pescato alcune perle”, per usare un metodo di lavoro suggerito da Hannah Arendt che esemplificano bene i modi e i risultati della partecipazione delle donne al viaggio ottocentesco2. Quando si pesca, come è ovvio, non si sa cosa si troverà, e pertanto sono stati una piccola scoperta i pur esili legami fra alcune di queste “perle” e Alexander von Humboldt; contatti che non vanno certamente enfatizzati: le viaggiatrici in questione non furono, e per le ragioni fin da principio dette non avrebbero potuto essere, allieve di Humboldt; è peraltro noto che una delle spiegazioni dell’oblio in cui, fino alla rivalutazione di qualche decennio fa, è lungamente rimasta la figura di Humboldt rispetto alla notorietà di un Ritter o di un Ratzel, sta nel fatto che egli, malgrado l’imponente opera, le molte conferenze, il prestigio e la notorietà di cui godeva al suo tempo, non fu titolare di un insegnamento, non ebbe allievi di alcun genere. È tuttavia documentato che alcune viaggiatrici conoscevano la sua opera o che lo conobbero personalmente oppure ebbero con lui qualche scambio epistolare. I riflessi di questi contatti diretti o indiretti nei loro scritti non sono da prendere in considerazione sul piano strettamente scientifico ma mi paiono interessanti quanto meno dal punto di vista biografico: della biografia di queste donne affascinate dal grande geografo tedesco loro contemporaneo come della sua stessa biografia.
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Parte seconda
Una delle “esploratrici humboldtiane” è Léonie d’Aunet. Nei documenti che la riguardano, Humboldt compare appena, quasi sfiorando i tempi e gli spazi della giovane donna che sarebbe diventata una scrittrice molto nota nella buona società parigina dell’età di Luigi Filippo più per la «scandalosa» relazione con Victor Hugo che per l’importanza dei suoi romanzi3. Riveste invece di notevole interesse nella storia del viaggio il suo resoconto sulla sua volontaria e, questa volta, manifesta partecipazione alla spedizione scientifica nelle isole Spitzbergen (Svalbard) e in Lapponia. Più complessivamente, il diario descrive il lungo viaggio nelle «Couronnes du Nord», come venivano chiamati i paesi scandinavi, e si conclude sulla visita di Berlino. Proprio come era accaduto a Lady Montagu con Genova dopo aver visto Costantinopoli, la città non suscita nella d’Aunet alcuna meraviglia. Pur riconoscendola una bella capitale per i bei viali, le vaste piazze e la popolazione ricca e civile, dopo i grandiosi spettacoli naturali del grande Nord non ne riceve alcuna emozione e, commenta la viaggiatrice, «non ci sarei rimasta due giorni se non vi avessi conosciuto questo spirito profondo e ricco, questa conversazione vivace e inesauribile, questa sapienza infinita, questa perseveranza gloriosa e provata, questo, infine, illustre viaggiatore che risponde al nome di barone di Humboldt. Colui che nel viaggio è il maestro di noi tutti, conclude in proposito, ha avuto la benevolenza di farmi da cicerone nella visita ai musei e palazzi berlinesi». Sempre guidata da Humboldt, Léonie visita le dimore reali di Potsdam che paragona a Versailles4. L’episodio risale alla primavera del 1840. Humboldt viveva allora nel castello di Charlottenhof a Potsdam, presso la corte prussiana. Era ormai rientrato a Berlino dopo i viaggi in varie parti d’Europa, America e Asia e i lunghi soggiorni a Parigi, anche se con la capitale francese continuava a fare la spola (otto volte fra il 1831 e il 1848), ora con incarichi diplomatici5. A quanto risulta da altre testimonianze, la d’Aunet avrebbe appunto conosciuto Humboldt a Parigi nella propria casa di place Vendôme in occasione di una di queste missioni6. In effetti, nel 1838 Humboldt si trova a Parigi fra l’agosto e il dicembre7. Proprio in quell’anno la d’Aunet era andata a vivere con il pittore Biard. La documentazione relativa alla prima parte dell’esistenza di Léonie d’Aunet, nata a Parigi probabilmente nel 1820, è confusa. Anche per quanto riguarda la formazione, Guimbaud parla dell’istituto Fauvel, uno dei più rinomati dell’epoca, Jean Savant semplicemente di convento8. Tutti d’accordo nel dire che quando Léonie, agli inizi del 1838 ne esce, a circa diciotto anni, è colta e bellissima con quei «magnifici cheveux dorés e i colori smaglianti di bionda» che qualche anno dopo incanteranno lo “scrittore nazionale” Hugo. La necessità di una sistemazione deve aver influito non poco nella scelta di vivere con Biard, «sontuosamente alloggiato in place Vendôme»9.
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François-Auguste Biard è un pittore lionese di trentotto anni10. Da giovane si era arruolato nella Marina come ufficiale professore di disegno e con la nave-scuola aveva viaggiato a Malta, nelle isole greche, in Siria, Palestina, Egitto. Si era congedato e aveva continuato a viaggiare e dipingere divenendo «uno degli artisti più nomadi del suo tempo». Tornato a Parigi, si era dedicato completamente alla sua arte eccellendo nelle “marine”, nella pitturacaricaturale, nel ritratto. Divenne infatti ritrattista della famiglia di Luigi Filippo11. Le sue tele sono oggi conservate al Louvre e in numerosi altri musei. Ecco dunque la d’Aunet condividere l’esistenza di questo artista diventato ricco e celebre. Si sposeranno nel luglio del 1840, dopo il viaggio in Lapponia, ma fin da subito Léonie è ufficialmente considerata la moglie di Biard. Per arrivare alla loro casa si entra in place Vendôme, nel palazzo d’angolo al numero 8. Si lascia la vettura nella vasta corte. Si sale una vasta scala, dagli scalini comodi […]. La ringhiera, in ferro battuto, è un capolavoro […]. Da tutti i lati abbondano aria e luce. Infine, si raggiunge il sontuoso e immenso atelier. Léonie ha una cameriera, Mariette, una provenzale sveglia e devota. Ha un cagnolino, la Poune, e una scimmia, Mouniss, che ella veste con eleganza: pantaloni e ghette di velluto, gilé rosso con bottoni d’oro, livrea azzurra ornata di alamari brillanti, cappello che essa solleva per salutare. Questa scimmietta suona diversi strumenti, compresa la chitarra […]. Sia l’appartamento, sia l’atelier contengono tesori e curiosità. Tendaggi di broccato e di damasco fanno a gara con la tappezzeria di cuoio di Fiandre, lumeggiata di «dorature d’oro». Un divano ugualmente è sormontato da un baldacchino regale. Regale è anche il pendolo di Boule. E, a profusione, busti antichi, oggetti rari, «curiosi, inauditi», vasi orientali, gioielli, stemmi, cassapanche, pipe turche, spade di prodi cavalieri… Gli abitués? Gli ospiti di Léonie? In primo luogo, il più assiduo, l’illustre scienziato Humboldt, vecchio e tuttavia sempre giovane, di una sapienza senza pari. Poi ufficiali di marina, compagni d’armi, artisti, scrittori «i suoi compagni di fama e i suoi rivali di talento», medici, attori, scienziati. La conversazione passa […] da un problema di matematica a un’avventura di navigazione12.
La ricostruzione di Jean Savant non rappresenta solo l’ambiente privato venato di orientalismo di un artista famoso e benestante e della giovanissima moglie occupata, secondo la moda, in esotici trastulli, ma anche il clima sociale e culturale borghese, intessuto della passione per il viaggio in cui matura anche per Léonie l’occasione della partenza per il Nord. In verità si tratta della partecipazione privata a un progetto ufficiale ed è la stessa d’Aunet a raccontare nella prima lettera del suo récit come l’idea fosse nata per caso. Dati i precedenti, Biard ha fra i suoi ospiti l’ufficiale della Marina francese Paul Gaimard che, dopo la spedizione effettuata in Islanda e in Groen-
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Parte seconda
landia aveva presentato al ministro della Marina il progetto di completamento di esplorazione scientifica delle regioni boreali. Ad essa la Francia, più attiva nei mari del Sud, aveva scarsamente contribuito dopo la grande spedizione in Lapponia dell’epoca dei Lumi con la quale Maupertuis, l’abbé Outhier e, insieme ad altri voyageurs savants, Celsius, avevano messo in scena uno dei più notevoli episodi di rappresentazione scientifica del mondo per la determinazione de la figure de la Terre 13. Accogliendo il progetto di Gaimard il governo aveva dunque finanziato una costosa esplorazione a grande scala alla quale avevano partecipato i membri della precedente spedizione in Islanda e alcuni scienziati incaricati dai sovrani scandinavi. La corvetta La Recherche era partita da le Havre nel giugno del 1838, aveva raggiunto Hammerfest e le Spitzbergen e dopo importanti osservazioni nella baia di Bell-Sound in mezzo a nebbie e ghiacci, era tornata in Francia lasciando alcuni ricercatori nella stazione scientifica lappone di Bossekop per effettuare osservazioni sulla fisica, l’astronomia, il magnetismo. L’anno successivo, tutti i membri della commissione sarebbero tornati con la stessa nave alle Spitzbergen per completare le ricerche14. Nell’intervallo fra le due spedizioni Gaimard è ospite di Biard. Intrattenendo gli amici «con la sua verve meridionale e pittoresca», come ricorda Léonie, si trova a raccontare le vicende di un’altra impresa scientifica, quella della nave Uranie che nel febbraio del 1820, quasi al termine del viaggio intorno al mondo, aveva fatto naufragio alle isole Malvine. La drammatica vicenda dà modo a Gaimard di sottolineare il coraggioso comportamento della moglie del comandante della nave, la ventenne Rose de Freycinet, che partecipava semiclandestinamente alla spedizione15. La studiosa Mercer spiega che quando Gaimard chiede alla d’Aunet di convincere il marito a entrare come disegnatore a far parte del gruppo della Recherche in partenza per il polo la donna, stimolata dal racconto, accetta di farlo solo a patto della propria stessa partecipazione16. Altre fonti affermano che la partecipazione al viaggio di entrambi è volontaria e a proprie spese17. Il divieto di portare donne sulle navi militari che abbiamo visto abbastanza rigido da costringere Jeanne Baré a un penoso mascheramento ma già piuttosto formale nel caso della Freycinet, non dovette costituire un problema insormontabile al tempo di Léonie. Decisa la partecipazione all’impresa riempie qualche cassa che spedisce a Copenaghen e Stoccolma di «abiti e stracci». Gli abiti maschili fatti cucire per l’occasione non servono a nasconderne l’identità ma «per stare più comoda una volta arrivata in quella regione sperduta». In ogni caso non sarebbe salita a bordo della Recherche subito ma soltanto ad Hammerfest: avrebbe raggiunto il porto più settentrionale d’Europa viaggiando in parte via terra in compagnia del marito. Una soluzione che la lascia soddisfatta poiché le «permetterà di vedere molti paesi»18.
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Il resoconto di Léonie d’Aunet si compone di nove “lettere” indirizzate al fratello Léon de Boynest, a New York, intestazione che troviamo soltanto nella prima lettera come l’indicazione del luogo da cui è scritta (a bordo del battello a vapore con cui i Biard sono partiti); in nessuna è indicata la data. In sostanza resta qui ormai poco della immancabile forma epistolare delle relazioni di viaggio sei-settecentesche e di primo Ottocento dove la lettera era essa stessa una sorta di mascheramento, una strategia con la quale le donne affrontavano argomenti altrimenti considerati inopportuni19. Qui ci troviamo davanti a nove lunghe parti in cui la viaggiatrice suddivide in ampie tappe fittizie il viaggio compiuto: giusto un passo prima dei resoconti ottocenteschi liberamente impostati in capitoli20. Ma quali sono i contenuti e, più complessivamente, il valore del “diario” di Léonie d’Aunet? Paragonata a viaggiatrici che verranno dopo di lei, cronologicamente e anche in questo libro, Ida Pfeiffer e Alexandra David-Néel, la d’Aunet appare figura di minore rilievo. È donna di un solo viaggio e di un solo libro del genere, la sua partecipazione alla spedizione scientifica è casuale là dove la Pfeiffer e la David-Néel fanno del viaggio una sorta di professione oltre che una ragione di vita. Di conseguenza, il contributo delle due viaggiatrici alla conoscenza e rappresentazione del mondo, quantunque scarsamente riconosciuto, è importante e in qualche caso del tutto inedito, anche leggendo le loro esperienze e scoperte in filigrana all’esplorazione maschile. Inoltre, il fatto che Léonie non viaggi “in solitaria” come le colleghe citate, ma inserita in una vera e propria spedizione scientifica, mette il piccolo libro che ne deriva in una posizione del tutto marginale rispetto agli imponenti risultati del lavoro degli autorevoli compagni. Quando, il 17 luglio 1839, i coniugi Biard si imbarcano sulla Recherche che salpa da Hammerfest in direzione delle Spitzbergen, sulla nave si trovano, oltre a Gaimard che sovrintende la commissione e si occupa in particolare della sezione statistica, numerosi scienziati francesi e scandinavi, alcuni dei quali già presenti nella spedizione dell’anno precedente. La presenza fra di loro di Xavier Marmier, letterato e studioso di lingue nordiche nonché bibliotecario del Ministère de l’instruction publique, conferma il carattere olistico delle missioni scientifiche francesi di cui si era avuta grandioso esempio nella spedizione d’Egitto di epoca napoleonica. Anche in questo caso gli ingegneri hanno competenze cartografiche e iconografiche e, data l’importanza della funzione del disegno in un’epoca in cui la fotografia è ai primissimi albori, la commissione è stata fornita di artisti professionisti: Mayer, Bevalet, Lauvergne, Giraud e, appunto, Biard. I risultati delle due spedizioni dirette da Gaimard vengono pubblicati congiuntamente nei Voyages de la Commission Scientifique du Nord: 516 grandi tavole e venti volumi contenenti nove sezioni scientifiche, dall’astronomia
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all’idrografia, dal magnetismo terrestre e geologia alla botanica e zoologia, dalla meteorologia alla statistica; un volume è dedicato alle aurore boreali, un altro alla storia e mitologia della sola Lapponia. A Marmier si devono due volumi sulla storia e sulla letteratura scandinave e non manca neppure la relazione odeporica da lui stesa e pubblicata21. Che cosa, dunque, poteva aggiungere la d’Aunet con il suo récit uscito quindici anni dopo il viaggio? Una prima risposta la dà la viaggiatrice stessa quando afferma: L’interesse del mio lavoro crescerà via via che mi avvicinerò alle latitudini più elevate della nostra vecchia Europa; arrivata lassù avrò, in mancanza d’altro, il merito dell’originalità, essendo l’unica donna ad aver mai intrapreso un simile viaggio22.
Il primato non sembra fino ad ora sconfessato. Un interessante “rapporto dai confini dell’Europa” è stato ad esempio steso prima della d’Aunet dalla ben più nota e studiata Mary Wollstonecraft, ma il suo viaggio si sviluppa nei limiti della Danimarca e della Svezia e Norvegia meridionali, non raggiunge, come Léonie, quei tòpoi geografici che sono il Circolo polare artico e Capo Nord per non parlare delle isole vicine al polo o della Lapponia23. La traversata di quest’ultima, che di italiani aveva impegnato fra i primi «senza badare ai patimenti e pericoli» Francesco Negri nella seconda metà del Seicento24 e Giuseppe Acerbi nel 179925 (per non parlare di Filippo Parlatore che la percorrerà un decennio dopo la d’Aunet tornandone assai mal ridotto26), non era certo cosa da donne. I meriti della nostra viaggiatrice non sono tuttavia da ridurre a un fatto di primato. Implicitamente la d’Aunet pone al lettore la questione della percezione femminile dello spazio e si riconosce nella condizione di poter dare dei luoghi visitati una rappresentazione diversa, anche se la ammette di scarsa importanza. Difficile distinguere quanto l’ammissione sia sincera e quanto strategia narrativa. Se più volte nel diario sottolinea i limiti del proprio racconto («ho attraversato questi posti molto velocemente e sono quindi costretta a trascurare molte cose interessanti delle quali avrei voluto parlarvi. Accontentatevi, questa volta, di un resoconto superficiale»; e poi: «ecco il riassunto rapido di ciò che ho potuto vedere a Cristiania in due giorni; prendetela per quello che è: uno schizzo, niente di più», scrive rivolta al lettore27) la vedremo anche confutare le affermazioni, non certo degli scienziati compagni di viaggio, ma di altri viaggiatori, proprio come aveva fatto Lady Montagu. La decisione di far uscire il récit si tradusse dapprima nella pubblicazione nel 1852 di alcuni estratti per la «Revue de Paris». Due anni dopo venne edita da Hachette la versione integrale. L’opera riscosse un successo immediato ma anche duraturo. Ne uscirono complessivamente ben otto edizioni, l’ultima nel 1885, sei anni dopo la morte dell’autrice28.
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La fortuna editoriale fa riflettere sul ruolo che il libro di viaggio della d’Aunet dovette avere nella divulgazione della conoscenza geografica del mondo scandinavo nella Francia del secondo Ottocento. La sua lettura, ancora oggi stimolante per la forma brillante e spesso ironica, la ricchezza dei contenuti, l’originalità delle osservazioni, giustifica pienamente questa ipotesi. Il Voyage d’une femme au Spitzberg, già segnalato in due precoci rassegne del viaggio femminile, quelle di Richard Cortambert (1866) e di Marie Dronsart (1894), è stato più recentemente riscoperto per caso dalla studiosa inglese Wendy Mercer in occasione delle ricerche su Xavier Marmier. L’interessante introduzione alla pubblicazione del testo che ne è conseguita non si addentra nella sua genesi, non si pone cioè il problema di come esso sia stato costruito nei quindici anni intercorsi fra il viaggio effettivo e la pubblicazione completa del racconto. Dato che Léonie non esplicita nulla in merito, si possono fare alcune supposizioni sulla base dei pochi dati certi e dell’analisi del testo. Esso conserva da una parte l’immediatezza e la vivacità del diario di viaggio ricalcando gli appunti presi dalla giovanissima viaggiatrice sul posto secondo una consuetudine ormai collaudata. D’altro canto appare un testo ben strutturato che la stessa autrice presenta nella lettera-prefazione. Dopo la consueta promessa di fedeltà alla realtà di tutti i viaggiatori («a mio avviso scrivere un viaggio è fare il ritratto dei paesi che si percorrono, e il narratore non ha diritto di renderle irriconoscibili, avverte29») la viaggiatrice esordisce illustrando al lettore l’esperienza che si appresta a descrivere secondo lo schema odologico all’interno del quale si aprono “finestre” di approfondimento. I Biard avevano ben preparato culturalmente il viaggio. Sappiamo che, partendo, avevano in valigia Han d’Islande, proprio di Victor Hugo (ma Léonie non aveva ancora conosciuto lo scrittore30). Lo riferisce il pittore in una lettera scritta il 10 giugno 1839 e pubblicata nel “Musée des Familles” poco dopo il ritorno, nella quale racconta un tratto del viaggio: «Domani vedremo Drontheim e il castello di Munckholm divenuto molto celebre grazie a Han d’Islande di M. Hugo. Abbiamo portato con noi questo libro. Lo leggeremo proprio sui luoghi in cui il poeta ha collocato la scena del suo romanzo»31. A prescindere dalle suggestioni di un Settentrione come costruzione letteraria, accingendosi a parlare della Lapponia Léonie cita le informazioni già fornite da «alcuni viaggiatori, Regnard in testa»32. Infine, riferendo dell’incidente in cui incorrono nel risalire l’impervio tragitto norvegese quando la carrozza, poco adatta a simili strade, si rovescia restando in bilico su un precipizio, «mi ritrovai, scrive, sepolta sotto una valanga di cuscini, di libri, di carte, di bottiglie, di provviste di ogni sorta»33. Mi pare inoltre legittimo pensare che la maggiore età, le informazioni raccolte e le letture fatte anche dopo il ritorno abbiano in quindici anni arric-
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chito di conoscenze meditate ciò che la viaggiatrice aveva visto con i propri occhi. Non è improbabile che abbia, ad esempio, consultato, se non i tomi specialistici della commissione scientifica a cui si era accompagnata, almeno i volumi di Marmier, editi nel 1844. Il diario di Léonie d’Aunet è ricco di informazioni destinate a soddisfare la curiosità dei lettori su realtà geografiche poco conosciute. Alcune notizie rispondono ai moduli descrittivi tipici di tutta la letteratura di viaggio, altre esibiscono interessi più squisitamente femminili. Gli aneddoti di viaggio, le osservazioni personali, le riflessioni di carattere sociale, l’attenzione ai dettagli, lo sguardo speciale rivolto alla componente femminile delle società nordiche, nessuno dei consueti contenuti della letteratura odeporica femminile manca. Più di una volta il racconto itinerario lascia il posto a parti di carattere monografico, come nel caso della Lapponia, per poi tornare alla “geografia vissuta”. L’Olanda: un paesaggio da ventaglio Del primo tratto del viaggio attraverso Olanda e Danimarca del quale descrive, come farà sistematicamente, i tempi e i modi del viaggiare, i porti in cui si sbarca e i villaggi che attraversa, le città visitate, le pagine più originali sono quelle dedicate al paesaggio olandese, sia quello reale, sia quello dei quadri che rendono ricche le collezioni dei musei delle città. Anzi, nella ironica rappresentazione dell’Olanda di Léonie, fra i due paesaggi non c’è differenza. Complessivamente ne esce un’Olanda benestante, talvolta poco animata, più spesso gaia e colorata (a differenza del vicino Belgio che le pare una contraffazione della Francia), ricca di opere d’arte e di giardini, con buone strade e cattive carrozze, ordinata come un dipinto di maniera e pulita a livello maniacale. Parte importante della rappresentazione è occupata dalle donne, rosee e robuste, quelle dell’Aia presentate nell’atto di passeggiare per i viali del grande parco ostentando un abbigliamento più alla moda della moda stessa, quelle di Amsterdam nei loro vivaci costumi tradizionali, quelle di Saardam vestite così riccamente e graziosamente da sembrare donne di mondo che giocano alla contadinella34. Quando la nave entrò nella Mosa, mi sentii meglio e salii sul ponte. Fui molto sorpresa di trovarmi già in una regione così diversa dalla Francia; passammo davanti a una piccola città chiamata, mi pare, Helvoëtsluys, situata in mezzo a un paesaggio fresco, pettinato, grazioso, leggiadro, un vero paesaggio da ventaglio: non gli mancava proprio niente, né le pecore, né la figura slanciata di tre ragazzone in gonna corta che stendevano la biancheria su un prato verde smagliante. Le rive della Mosa sono piatte: il fiume è imbrigliato con piccole dighe basse che, viste da lontano come io le vedevo, sembrano muri fatti da fabbricanti di ceste; l’occhio non scorge che dei rami sottili e dei giunchi (non saprei dire quali) intrecciati ad arte e ci si stupisce di una così grande forza celata in un così elegante lavoro.
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[…] Ho attraversato Rotterdam a piedi e un po’ in fretta per andare a prendere la diligenza per L’Aia; ho comunque avuto il tempo di restare incantata dalla sua pulizia, dai canali limpidi bordati di belle piante, dai graziosi ponti in pietra gettati con leggerezza da una riva all’altra, dalla sua aria calma, ridente, tranquilla e dolce come la felicità. Quasi tutte le case hanno davanti una scalinata in pietra, legno o mattoni; ogni proprietario sistema la propria a suo gusto, cosa che introduce piacevoli capricci nell’architettura complessiva evitando il dominio della fredda simmetria e della regolarità noiosa. A tratti, una porta semichiusa mi lasciava intravedere l’interno di qualche cucina pulita, lavata, ordinata, lucida come se ne vedono, a Parigi, solo al Louvre, nei quadri olandesi35.
Via via che la viaggiatrice si addentra nel paese, l’ammirazione lascia il posto ad osservazioni critiche e poi fortemente ironiche: «In questo paese, dice, in cui si vive tanto bene, si viaggia molto molto male; i mezzi pubblici sono terribili e se le vie non fossero lisce come viali di un giardino, si sarebbe a pezzi in capo a un paio di leghe». La pulizia si rivela presto un’ossessione: A l’Aia ho trovato alloggio vicino a un ampio canale […]. Al mattino un gran fracasso di spazzole e di ramazze che andavano e venivano sulla mia testa mi ha costretta ad alzarmi di buon’ora, malgrado fossi stanca. Il rumore dell’acqua che sentivo sferzare contro i vetri mi fece pensare a una pioggia torrenziale; andai a vedere e mi rassicurai; non era pioggia ma semplicemente le casalinghe del vicinato e le domestiche dell’albergo che, con l’aiuto di pompe portatili, inondavano le facciate degli edifici per pulirle, provocando un diluvio artificiale36.
Descrive L'Aia nell’atmosfera solitaria delle sue vie quasi deserte e nell’unica animazione del canale maggiore al momento del mercato, quando «si vedono arrivare lunghi battelli carichi di frutta, di verdura, di uova, di pollame e di bei pesci brillanti […]», un mercato «pulito, ridente, felice, ben sistemato sul suo gran canale, ombreggiato di begli alberi e bordato di rive spaziose» così diverso dal mercato che si tiene a Parigi «in un luogo circondato da alte case nere […] un luogo rumoroso, sporco, impraticabile, nauseabondo […]»37. Il paragone fra Olanda e Francia si rivela solo in prima battuta a vantaggio della prima. Riflettendo sulla pulizia per cui gli olandesi sono famosi, osserva che «quella gente non ha il gusto della pulizia, ne ha il culto. Le donne sono impegnate senza sosta a lavare, grattare, spazzolare, riordinare, pulire, spazzare o lustrare; non fanno altro». Quanto a quelle che per posizione sociale sono dispensate dall’avere parte attiva nel «bucato generale e perpetuo della loro abitazione, non manifestano grande piacere per le gioie dell’intelletto». Passano la vita a vestirsi, a passeggiare nel parco, oppure a starsene sedute vicino alla finestra con un ricamo in mano, gettando di tanto in tanto un’occhiata a un curioso specchietto, o meglio a uno specchietto curioso detto “spia” attaccato all’esterno della casa, inclinato in modo da riflettere i passanti38.
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Un giorno di visita ai musei dell’Aia è un viaggio nel viaggio «si risparmiano, dice la viaggiatrice, otto mesi di traversata e le tempeste del Capo di Buona Speranza». Il museo orientale le consente di passare «due ore in Cina e un’ora in Giappone». Lo descrive minuziosamente in tutte le collezioni che mostra e che le consentono di affermare: «Potrei dire come si incrociano le strade di Pechino, come sono costruite le case […]; quanti piani hanno le pagode», grazie anche al fatto che le sale ospitano «i plastici di Pechino e di Canton eseguiti a scala abbastanza grande e con fedeltà cinese»39. Di fronte, poi, alla «ricchezza dell’Olanda, i quadri» osserva che «per guardare, per giudicare, per comprendere ci vorrebbe non un giorno, ma un anno». E corre fra le gallerie a cercare la Lezione di anatomia di Rembrandt, che la emoziona40. Lungo il tragitto dall’Aia ad Amsterdam, una sorta di «passeggiata in un giardino inglese», in un paesaggio disseminato di case di campagna «leggiadre, graziose, fiorite e ben miniate» la colpisce una «quantità di collinette che appaiono in ogni recinto. Su questo tappeto da biliardo che forma le Province Unite […], su questa tipica terra di praterie, non esiste la minima ondulazione del terreno se non la si crea; da ciò l’ambizione di ogni proprietario di dotare il suo giardino di una collina, di un’ondulazione, di un rigonfio di terreno qualunque. Questa rarità la si ottiene a forza di denaro»41. La pratica olandese di creazione di un paesaggio artificiale non piace alla viaggiatrice: «Mi piace poco questa cura eccessiva dei fiori […], preferisco un fiore di campo a un fiore di serra, e un giardino trascurato a uno curato». E nella descrizione del villaggio di Brouk, che va a visitare perché le è stato raccomandato come «la meraviglia dell’Olanda» ma nel quale trova piuttosto la sintesi del carattere degli olandesi, Léonie intuisce come l’alienazione dell’uomo nei confronti del proprio territorio possa manifestarsi anche nelle forme di quella che a prima vista può apparire giusta cura di esso. Brouk non è né una città né un borgo, ancor meno un villaggio; è un agglomerato di case da vacanza costruite da proprietari abbastanza ricchi per soddisfare tutti i loro gusti; seguendo la loro inclinazione essi sono arrivati a delle aberrazioni di pulizia inimmaginabili: è proprio vero che l’abuso è da temere anche nelle cose migliori! Per prima cosa le strade – ma non so se si possano chiamare strade dato che le vetture non ci passano, non posso nemmeno definirle viali poiché il fondo è fatto di mattoni artisticamente disposti – le strade, dunque, sono spazzate come le nostre camere da letto; perché nessun incidente possa attentare a questa rigorosa pulizia, gli animali non superano i confini della città. Quanto alle case, immaginatevi proprio i giocattoli di Norimberga che ci regalavano a Capodanno in grandi scatole: case precise, pulitine, dipinte di colori brillanti, verde chiaro, lilla, azzurro cielo, decorate di righe contrastanti nella parte bassa […]. Non ho potuto vedere l’interno di una casa perché mi è stato proposto, seriamente, di togliermi le scarpe per entrare.
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In questo paese di fantasia, si assiste a un curioso rovesciamento dell’ordine naturale; vi si vede l’uomo sottomesso alle cose, l’essere intelligente e animato schiavo della materia inerte; vi sono persone che si costringono, si immobilizzano, per non camminare sulle loro pietre, non calpestare la loro erba, non affaticare le loro porte. A forza di ricercatezze, di minuzie e di arte malintesa sono giunti a fare dei loro giardini, colmi di fiori rari, dei luoghi spiacevoli e noiosi. Intorno a prati in cui nessun filo d’erba ha la lunghezza che sorpassa il suo vicino, serpeggiano viali cosparsi di sabbia setacciata; su questa sabbia, una mano sapiente ha tracciato arabeschi e, siccome i passi distruggerebbero inevitabilmente questi fragili disegni, i pochi abitanti che vivono ancora abbastanza per passeggiare, fanno posare sui loro viali delle assi montate su sostegni. Nei boschetti, il tronco degli alberi è dipinto di bianco o di grigio e i rami sono tagliati così regolarmente che ogni albero ha l’aria di un mazzetto artificiale con i gambi fasciati di carta bianca. Perché nulla manchi all’insieme, personaggi di legno, vestiti con abiti veri, sostituiscono chi passeggia con meno danno per il giardino e nelle vasche nuotano cigni perfettamente imitati. Insomma […], io non conosco niente di più freddo, di più triste, di più meschino di quest’angolo di mondo in cui l’uomo sembra di essersi prefisso di impoverire, sfigurare, mutilare la natura con la scusa di abbellirla. In capo a due ore provai un violento bisogno di lasciare quel paese di maniaci; avevo fretta di ritrovare un po’ di vita, di movimento, di disordine, posso dirlo? perfino di polvere; tutto mi sembrava preferibile a ciò che avevo davanti agli occhi. Gli abitanti di Brouk non hanno il gusto o l’amore per la pulizia: ne sono fanatici, feticisti […]. Ho lasciato molto volentieri questo assurdo e colossale giocattolo […]42.
Lasciata l’Olanda Léonie passa velocemente da Amburgo («so che esiste una vecchia Amburgo con edifici del dodicesimo secolo […] ma io, questa vecchia Amburgo, non l’ho vista: ero alloggiata nel quartiere moderno, su una graziosa passeggiata»). Ad Altona, già danese, solo una bandiera segna il confine. «Questa bandiera ha una missione geografica, niente di più, osserva, essa non impedisce una relazione stretta fra le due città». Prima di superare questo confine fa una escursione a Kiel che trova «brutta, lastricata malamente, popolata male»: perfino le donne portano dei cappellacci vecchi che le fanno sembrare spaventapasseri. Copenaghen le appare semideserta, con edifici freddi e regolari, la piazza reale più che una piazza una pianura, le donne graziose ma troppo «francesi». Ma la Danimarca le dà modo di introdursi, e introdurre i caratteri originali del paesaggio, della società e della cultura nordica nella quale riconosce il peso del mito43. Traversato lo stretto, la Svezia le sollecita il desiderio di andarsene subito. Le condizioni di viaggio sono assai difficili, dato che non esistono né alberghi né il servizio di posta. La viaggiatrice fornisce al lettore precise istruzioni per muoversi in questo paese: avere la propria vettura, procurarsi un interprete nel caso non si conosca lo svedese, mandare avanti un corriere ad annunciare l’arrivo al «buon contadino» dal quale dipendono il ricambio de-
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gli animali, l’alloggio, il nutrimento. Peraltro il cibo è pessimo. I centri meritano appena il nome di città, l’urbanistica è elementare e monotona: «figuratevi, scrive, tre o quattro strade lunghe e regolari che si tagliano ad angolo retto bordate di case dipinte di rosso o di grigio, in mezzo una piazza con la chiesa, di legno e di architettura primitiva e avrete l’idea di una di questa città, anzi di tre». Il paesaggio migliora un poco quando si incontra qualche prato. Alla fienagione lavorano ragazzi e ragazze. Qui le donne le appaiono alte, bionde, il viso rovinato da brutti denti, il corpo imbruttito da piedoni, il costume grossolano44. In questo quadro, si salva per alcuni aspetti Göteborg, la cui ricchezza è annunciata dalle abitazioni di campagna gaie e fiorite, tenute bene come cottages inglesi. La descrizione di Göteborg anticipa una visione della città come stratificazione storica e palinsesto. Gothembourg, distrutta e bruciata dai Danesi nel 1611, risorse dalle sue rovine su ordine di Gustavo Adolfo e fu interamente ricostruita. Questo modo di rinascere dalle loro ceneri non è favorevole per la città, non ne fa delle fenici, al contrario. Una città è un agglomerato di opere e di ricordi che ha essenzialmente bisogno della collaborazione del tempo; i suoi edifici devono essere la testimonianza e il prodotto di una sorta di alluvione di secoli; si ama cercare negli edifici le tracce di epoche anteriori e, per il pensatore attento, la storia si legge meglio agli angoli degli incroci di una vecchia città, nelle sue piazze, sotto le cupole dei suoi templi, all’ombra dei suoi palazzi, che nei libri.
Poi, data la descrizione della Göteborg moderna e delle sue funzioni portuali, conclude: «A parte la sua insignificanza archeologica, è una bella città vasta, ariosa, ben costruita e convenientemente compassata» […]45. A parte gli aspetti positivi di Göteborg, l’osservazione che i furti sono rarissimi e che anche le case contadine, dove il viaggiatore viene ben accolto, sono estremamente pulite (la pulizia è vista, in questo caso, come il vero lusso del paese), la viaggiatrice ha della Svezia meridionale la percezione di un paese povero e triste. La Norvegia: luoghi pittoreschi, luoghi selvaggi Sulle categorie di pittoresco e di selvaggio si declina la visione del paesaggio norvegese. Passando dalla Svezia alla Norvegia a ogni istante, il punto di vista cambia; le colline diventano montagne, ruscelli tranquilli si trasformano in torrenti furiosi, e la strada si getta in mezzo alle scarpate più incredibili. In Norvegia si ignora l’arte di girare intorno alla montagna; la via sale da un lato e scende dall’altro, cosa tanto semplice quanto pericolosa46.
Così, per una via spaventosa e ripida come una scala si arriva a Cristiania, moderna, animata, le banchine piene di una quantità enorme di tronchi ar-
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rivati per fluitazione e pronti per essere imbarcati. Arrivando, la città appare dall’alto della costa nel fondo di una grande conca: Vista a volo d’uccello, essa presenta dalla parte del mare un’ampia insenatura nella quale si accalca una gran quantità di imbarcazioni di ogni grandezza. Dalla parte interna si appoggia e si scagliona su elevate colline coperte d’estate di una vegetazione scura e vivida. La sua posizione ricorda un po’ Marsiglia, con più verde e meno sole47.
Lasciata l’atmosfera comunque temperata di Oslo «per addentrarsi nel Nord, si attraversa una delle più belle regioni del mondo». Un percorso movimentato, montagne alte, boschi, laghi disseminati di isolotti: «Un quadro di una serenità indescrivibile, una Svizzera più verde, una Scozia più grandiosa». La bellezza dei paesaggi è molto più dovuta alla natura che all’opera dell’uomo. In Svezia ci sono poche città, in Norvegia non ce ne sono affatto; fra Cristiania e Drontheim se ne trova una sola: Lille-Hammer; per di più di costruzione così recente che la maggior parte delle carte non la indicano. Del resto si tratta di un’orribile cittadina, regolare, disegnata con la squadra, fredda e noiosa, senza più verde e ancora senza edifici; è semplicemente un parallelogrammo di qualche centinaio di metri, riempito strettamente di quei tristi alveoli quadrati come scatole nei quali si rinchiude una moltitudine di persone che non sono più contadini e non sono ancora cittadini; fase in cui gli abitanti hanno i difetti di entrambe le condizioni: la rozzezza della campagna e la presunzione della città48.
In questo distretto montuoso dalla viabilità accidentata che la viaggiatrice percorre in carrozza ma scendendone per fare a piedi i tratti più impervi, sotto una sottile pioggia gelida, scampando al grave incidente di vettura, la presenza umana si manifesta nelle sole fattorie isolate. Il gaard norvegese si compone di un vasta abitazione circondata da piccoli edifici che fungono da granaio, stalla eccetera. La casa, fatta di tronchi appena squadrati, i cui interstizi sono tappati col muschio, serve da abitazione al proprietario e alla famiglia; i domestici e il bestiame alloggiano in piccole costruzioni di servizio. Questi gaards formano altrettante piccole colonie isolate che bastano a se stesse. Le grandi distanze e i rigori dell’inverno obbligano queste famiglie di contadini a prevedere tutti i bisogni della vita; per questo essi sono molto industriosi. Le donne filano il lino e la canapa, tessono la tela e fabbricano una specie di stoffa rustica e resistente, chiamata wadmel, di cui sono vestiti gli uomini. Gli uomini sono volta a volta contadini, fabbri, muratori, carpentieri e all’occorrenza calzolai e sarti49.
Ancora una volta la sua attenzione si rivolge alle donne. Sono alte ed hanno bei colori che le fanno sembrare belle anche quando non lo sono. Hanno
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molti bambini e, malgrado le abitudini calme, invecchiano anzitempo. Le ragazze possiedono qualche bel vestito, qualche pizzo e qualche gioiello, scialletti di seta che il padre ha portato loro dalla città. I bambini hanno dei capelli di «seta quasi bianca» che li fa sembrare quei piccoli Gesù di cera che si tengono sotto vetro nelle camere d’albergo in Francia. In ogni casa non manca il grosso volume, biblioteca del povero, della Bibbia. «Ecco il quadro, dice Léonie, delle persone incontrate; quanto allo schizzo del paesaggio, sarebbe molto difficile farlo, se non con una matita»50. Malgrado ritenga le parole insufficienti a descrivere un ambiente tanto speciale («Soltanto un album riuscirebbe a raccontare bene questa pittoresca e agreste Norvegia», insiste), dopo aver dedicato un dettagliato resoconto all’incidente di carrozza, Léonie descrive il viaggio fino a Trondheim miscelando informazioni topografiche e itinerarie (impraticabilità delle strade, ponti nascosti nella neve, radi punti di ristoro nelle gaard sempre più disperse i cui nomi, che riferisce, sono ignorati anche dalle carte geografiche, villaggi di sette-otto case con la chiesa di legno in mezzo al cimiterino, ragazzini pallidi dall’aria selvatica e sofferente che si occupano di cambiare i cavalli) e impressioni paesistiche di squisito carattere romantico. Ne esce un paesaggio di luci incerte per i lunghi e pallidi crepuscoli, di cascate fragorose e crepacci profondissimi, di gole lugubri e torrenti sinuosi e violenti, di montagne enormi come giganti di granito: da un certo punto in poi non un fiore, un filo d’erba, un uccello; solo il lichene capace di erodere lentamente il granito. Da questo paesaggio superbo e cupo Léonie è attratta e spaventata, è presa dalla febbre ma non si ferma: l’appuntamento con la Recherche non può essere mancato51. Recuperata la costa i Biard raggiungono Trondheim, una città tutta di legno che ogni dieci anni brucia. Tuttavia è una città ricca per l’importanza dei commerci. L’antica cattedrale, prima dedicata al culto cattolico, poi protestante, dà modo alla viaggiatrice di affermare che «ogni convinzione merita rispetto e ogni religione ha diritto di esistere». La stessa sensibilità dimostra in occasione della visita alle vicine cascate di Leerfoss «un fiume intero che cade in un solo nastro di più di ottanta piedi di altezza andandosi a frantumare in mezzo a rocce di basalto nero», un’opera grandiosa della natura rovinata dalle effimere creazioni umane. In questo caso si tratta dell’annessa grande fonderia di rame. Non sono solo gli immensi macchinari e lo spaventoso fracasso della fabbrica che deturpano un ambiente così speciale a contrariarla. La colpisce ancora di più la moltitudine di operai neri di fumo e mezzi nudi che si agitano davanti alle fornaci incandescenti. Un vero «inferno umano»52. Il viaggio per Hammerfest, racconta Léonie, durava fino a pochi anni prima un mese ed era disastroso perché fatto con le piccole imbarcazioni da pesca a continuo rischio di sbattere contro l’infinità di isole e scogli situati da-
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vanti a questo tratto di costa. Grazie al nuovo battello a vapore era diventato più sicuro e breve: otto giorni di navigazione. In questa regione dominata da mare e montagna, disseminata di piccoli insediamenti costieri uniformi, poveri, isolati, la nave rappresenta il legame con il mondo e il suo arrivo è atteso ogni volta con festa. Il 19 giugno i viaggiatori passano il Circolo polare artico quindi sostano alle Lofoten «un ammasso di rocce […] nel cui insieme non si troverebbe abbastanza terra per far germogliare una pianticella d’orzo» ma ricche di ogni specie di pesci, soprattutto merluzzi. Pescatori provenienti da Oslo e da Bergen abitano nella stagione della pesca in miserevoli capanne nutrendosi in modo malsano tanto da essere spesso affetti da scorbuto53. A Trömso sosta un giorno. Antico centro ormai poco degno di essere definito città («Tromsoe è un porto circondato di capannoni di legno, e una strada, una strada soltanto […] che da una parte dà sul mare e dall’altro capo è chiusa da un ghiacciaio»), esso è stato soppiantato da Hammerfest nelle sue funzioni di nodo di scambi fra le merci provenienti dal mare e quelle dell’interno54. Ecco finalmente Hammerfest, «la città più settentrionale che esista […], l’ultimo gruppo di case d’Europa», si esalta, dedicandole una lunga descrizione. Ne riferisce la posizione «fra il 70° il 71° di latitudine Nord» e il numero degli abitanti «circa cinquecento», la forma semicircolare, il sito «in un’isoletta chiamata Hwaloe (Isola della Balena)». Descrive le abitazioni, i materiali di cui sono fatte, le capanne dai tetti coperti di «erbetta che forma le uniche zolle verdi del paesaggio». Poi osserva: «È molto singolare vedere ogni mattina le donne far salire le loro capre sul tetto con l’aiuto di una scala perché le povere bestie possano brucare un po’ di nutrimento fresco»55. Léonie ha ancora il tempo, e l’energia, di effettuare l’escursione presso quel tòpos geografico che è Capo Nord56: Dall’alto degli scogli di Havesund, si scorge a poca distanza, sulla punta dell’isola di Mageroe, un’enorme massa rocciosa che ricorda in qualche modo una torre quadrata, colossale, semidistrutta: è Capo Nord […]. Avrei tanto desiderato scalarla […], calpestare per la prima volta con piede femminile la piattaforma con cui termina […]. Ma ci eravamo già fermati troppo a lungo […]57.
Le Spitzbergen, confini del mondo Il viaggio alle isole più settentrionali d’Europa ha tempi serrati: il 17 luglio la Recherche salpa da Hammerfest; il 21 avvista l’isola degli Orsi58 davanti alla quale il capitano ormeggia; due scialuppe portano a terra gli esploratori ma non la nostra viaggiatrice. Dopo qualche ora la navigazione riprende con un tempo divenuto costantemente cattivo. Il 28 luglio la corvetta arriva alle Spitzbergen e ne risale la costa occidentale passando da-
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vanti alla baia chiamata Bellsund «che le precedenti spedizioni non erano riuscite a oltrepassare». Il 30 costeggia l’isola Principe Carlo. Il 31 entra in una baia profonda, disegnata nelle carte inglesi con il nome di Magdalena Bay, dove rimane fino al 14 agosto quando riprende il mare per rientrare ad Hammerfest, dopo una navigazione resa avventurosa da una tempesta, la mattina del 26 agosto59. Le osservazioni di carattere geografico e naturalistico, la descrizione delle condizioni ambientali, le notizie di carattere storico, il racconto della vita quotidiana, le informazioni sulle ricerche che vengono effettuate dagli illustri compagni fanno del capitolo sulle Spitzbergen un vero e proprio réportage. I paesaggi delle isole sono rappresentati nella loro bellezza minerale ma anche come teatro di vicende storiche e di tragedie umane. Léonie dà conto delle precedenti missioni scientifiche e delle attività, invece, tradizionalmente effettuate in quei luoghi; due modalità della presenza umana di cui descrive i segni. Da ogni parte il suolo era ricoperto di ossa di foca e di trichechi lasciate dai pescatori norvegesi o russi che venivano una volta a fare l’olio di pesce fino a queste latitudini elevate; da diversi anni vi hanno rinunciato perché i profitti non valgono i rischi di una tale spedizione60.
Racconta poi di essersi trovata, procedendo a piedi un po’ all’interno, «in mezzo a una specie di cimitero; questa volta a giacere sulla neve, erano resti umani» malamente sepolti in tombe primitive fatte di ghiaccio e di pietre: ne conta cinquantadue. Due date (1783 e 1697) e qualche nome malamente incisi le fanno capire trattarsi dei resti di pescatori norvegesi, russi, olandesi, sorpresi dall’arrivo inatteso del freddo. Relatrice di volta in volta ironica e distaccata, in questa occasione la viaggiatrice si lascia catturare da un moto di sconforto61. Ma è uno sconforto momentaneo, dovuto alla pietà piuttosto che alla paura. Ed infatti eccola subito a commentare con la consueta ironia la sua esclusione dalle missioni a terra: Era il 7 agosto; diverse persone della spedizione, vedendo il tempo sereno e la neve spazzata da un buon vento da Est, vollero andare in scialuppa fino alla punta di Hakluyt, l’ultimo Capo a nord della costa dello Spitzberg. L’escursione doveva durare una giornata; non avevano voluto ammettermi; restai sola a bordo con il capitano che, lo sapete, non lascia mai la sua nave. La prima parte della giornata passò bene e invidiai la sorte di quelli che si stavano avvicinando al Polo di qualche lega in più, forse si sarebbero avvicinati alla grande banchisa di ghiaccio, meta di tutte le nostre ambizioni. Mi feci dei ragionamenti adatti a calmare il mio dispiacere e finii per trovare la mia situazione già abbastanza elevata in latitudine e
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mi dissi che non dovevo invidiare troppo quei poveri uomini il cui orgoglio non aveva preteso che dodici o quindici leghe di vantaggio su di me62.
Infine, ecco il quadro che dà dell’isola: Lo Spitzberg è un’isola più a Nord del paese dei Samoiedi, della Siberia e della Nuova Zemlia. È un’isola posta davvero ai confini del mondo […] situata fra il 77° e l’81° grado di latitudine Nord. Ha sessanta leghe di lunghezza su circa trentacinque di larghezza […]. La costa che abbiamo seguito, quella dove si trova la baia della Maddalena, è la costa ovest; si trova di fronte alle terre ancora inesplorate della Groenlandia settentrionale. La baia della Maddalena è l’ultimo ancoraggio possibile per una grossa nave; la sua latitudine è di 80° Nord, cioè una distanza di 50 leghe dal Polo, un po’ più che da Parigi a Marsiglia. L’ultimo scoglio dello Spitzberg, quello che fronteggia direttamente il Polo, si chiama punta di Hakluyt; esso è separato dalla baia della Maddalena da una quindicina di leghe. La baia della Maddalena […] è circondata da tutti i lati da montagne di granito alte dai quindici ai diciotto piedi; fra ognuno di questi rilievi si sono formati immensi ghiacciai la cui altezza aumenta ogni anno […]. Essi sono tutti di forma convessa, contrariamente a quelli delle Alpi che sono concavi. Il giorno del nostro arrivo pioveva talmente che non potei lasciare la nave; ma l’indomani, di primo mattino, mi affrettai a scendere a terra. Dico «a terra» per abitudine letteraria; dovrei dire a neve, perché da nessuna parte ho visto il minimo pezzetto di terra. Durante la notte (di nuovo una parola che non dovrei usare dato che di notte non ne esisteva), mentre dormivo era cominciato il disgelo e l’aspetto della baia era cambiato come per miracolo. All’immobile solitudine del giorno prima era seguito lo spettacolo più agitato. Una flottiglia di isole galleggianti, erose continuamente dal mare, cambiavano forma a ogni istante […]. Ci si rappresenta questo luogo dove tutto è freddo e inerte, avvolto da un silenzio profondo e lugubre? Ebbene, ci si deve immaginare tutto il contrario: niente può rendere il formidabile fracasso di un giorno di disgelo allo Spitzberg63.
La traversata della Lapponia Dopo soli tre giorni dal ritorno dalle Spitzbergen, il 28 agosto, la viaggiatrice riparte da Hammerfest in battello, raggiunge Kaafiord dove sosta altri quattro giorni per preparare il nuovo viaggio. Dal suo racconto appare, questa, la parte più impegnativa dell’intera esperienza: il viaggio si svolge a cavallo, in compagnia del marito, di un servitore francese e di una guida lappone, ma esso è reso assai difficoltoso dall’impaludamento che nella stagione estiva rende scarsamente praticabili tutte le pianure, dalla pioggia continua, dalla necessità di guadare fiumi o discenderli con le tipiche imbarcazioni il cui fondo piatto non elimina del tutto i pericoli provocati dalla teoria di cascate che li caratterizzano. E poi ci sono le difficoltà di procurarsi cibo fresco, di alloggiare in modo più comodo rispetto al dormire sotto la tenda
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militare quando non direttamente in terra e all’aperto. D’altra parte l’esperienza è resa esaltante dalla magia delle aurore boreali che in quella stagione cominciano a manifestarsi, e dalla soddisfazione di conoscere una realtà geografica estrema di cui ha molto sentito parlare e letto, una realtà al suo tempo circondata di mito e di esotismo non meno dei luoghi dell’Oriente. Ancor più delle isole vere, la Lapponia, regione geografica definita e isola culturale, si presta al passaggio dalla descrizione odeporica alla monografia, dallo sguardo del viaggiatore allo sguardo cartografico “a volo d’uccello”. Geograficamente parlando si definisce Lapponia tutta la regione compresa tra il fondo del Golfo di Botnia e Capo Nord; alcuni viaggiatori, Regnard per primo, la fanno cominciare a Lulea, sulla costa Ovest del Golfo. Tutta questa parte è, se posso esprimermi così, Lapponia di nome e non di fatto perché i Lapponi non la abitano. Dalla parte del Mar Baltico si trovano i Finlandesi. Dal lato del Mare del Nord si trovano gli abitanti del Finmark in mezzo ai quali vi ho condotto […]. La Lapponia propriamente detta è un immenso deserto paludoso dalle rare oasi asciutte nelle quali la vegetazione è quasi nulla; vista a volo d’uccello essa deve sembrare una pianura profondamente lavorata di cui ogni solco costituisce un’area irrigua; le colline si presentano in piccole e basse catene, sempre separate fra di loro da un lago, un fiume, una palude. È proprio questa ricchezza d’acqua che rende la traversata della regione così difficile d’estate; giunto l’inverno, i fiumi gelano, le paludi si solidificano e la Lapponia è allora una piana di neve sulla quale corrono le slitte tirate dalle renne con una velocità infinitamente superiore a quella dei nostri cavalli di posta64.
Dalla descrizione dell’ambiente naturale passa alla descrizione della tenda lappone: Le tende lapponi sono costruite tutte nello stesso modo […]; sono piccole e possono alloggiare al massimo sei-otto persone; hanno forma circolare; la loro intelaiatura è fatta di pali di legno di betulla, legati insieme in alto, sui quali è steso un telo di lana grossolana, nera o bruna; il telo finisce prima di arrivare alla sommità dei pali per lasciar uscire il fumo […]. All’interno della tenda, tutto intorno, sono sistemate le pelli di renna che servono da letto […]65.
Ogni brano riporta alla renna: sulla renna il lappone ha costruito la sua civiltà: La renna è la Provvidenza del Lappone. È insieme la sua mucca, la sua pecora, il suo cavallo; essa lo nutre, lo veste, lo trasporta; gli procura il latte, il burro, il formaggio, una carne grassa e gustosa. Il Lappone prende la pelle della renna e si costruisce un costume resistente e caldo, riveste la propria slitta, fa il suo materasso e la sua coperta; con i tendini dell’animale cuce; con le corna fabbrica manici di
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coltello e diversi piccoli utensili. Quando cambia sede, quando lascia la costa per il bosco, la pianura per la montagna, la renna è sempre con lui, servitore fedele e robusto […]66.
Descrive Kautokeino, la “città” lappone: Kautokeino non è né una città, né un borgo e neanche un villaggio: è il solo agglomerato di abitazioni che si trova nel Nord della Lapponia; si compone di dieci-dodici case di legno circondate da una ventina di piccoli fienili chiusi. Queste piccole rimesse, posate su delle pietre come certe vecchie cassapanche, sono altrettanti magazzini dove i Lapponi ripongono il fieno, le provviste e i vestiti; la maggior parte appartiene a Lapponi nomadi e sono depositi in cui vengono a cercare il necessario via via che ne hanno bisogno […]. Vedevo prima in cima a una collina la chiesa […], a mezza costa le case, sparse, acconciate con il loro cappuccio di stoppia verde, erette su dei sostegni di tronco d’albero […]; più in basso, lunghe pertiche piantate in terra sostenevano dei graticci dove seccava il fieno tagliato67.
La relazione di Léonie d’Aunet si è rivelata un bel modello di diario di viaggio. Assolutamente priva di qualsiasi pedantismo essa non manca, come ho detto in principio, di nessuno dei dati che a un pubblico non specialistico, ma comunque colto, di quell’epoca potevano interessare. Una completezza che tiene conto dell’inscindibile legame fra geografia e mito. Léonie d’Aunet lo individua come la chiave di lettura per comprendere i popoli nordici, come tutti i popoli68: Verso la metà del dodicesimo secolo vediamo i Finlandesi fare la loro comparsa nella storia; il re di Svezia, Erik il Santo, li conquista e, con il pretesto di portare loro il cristianesimo, aiutato da Enrico il Santo (l’inglese) si impadronisce del loro paese non lasciando loro altra alternativa che il battesimo o la morte. Naturalmente i Finlandesi vinti si convertirono in massa, ma conservarono molto a lungo nei loro cuori l’amore per gli antichi dei. Abiurando il paganesimo, non lo dimenticarono affatto; nel momento in cui scrivo, esso è vivo nella loro memoria; si è solo trasformato: da religione è diventato poesia; non si può dire che sia decaduto. I dogmi sacri sono diventati leggende popolari; li cantano durante le lunghe notti invernali quando il focolare della fattoria riunisce l’intera famiglia. Queste poesie si chiamano rune. […] Ovunque si trova mescolata al racconto la lotta eterna dei due principi, il bene e il male, che si contendono il dominio del mondo. Così, a Nord come a Mezzogiorno, in Finlandia come in Persia, lo spirito dell’uomo mette sempre di fronte bene e male, cielo e terra, luce e tenebre; in Finlandia si chiamano Wanaimoinen et Hiisi, in India, Oromaze et Ahriman; i nomi sono diversi, il pensiero è lo stesso69.
184 Note 1. Doroty Middleton, Victorian Lady Travellers, Routlege & Kegan Paul, London 1965; Bénédicte Monicat, Itinéraires de l’écriture au féminin. Voyageuses du 19e siècle, Editions Rodopi B.V., Amsterdam-Atalanta 1996. Una recente e ampia rassegna di viaggiatrici classificate per aree visitate sta in Barbara Hodgson, Les Aventurières XVIIe-XIXe siècle, Seuil, Paris 2002. Sulle poco studiate viaggiatrici italiane è stata avviata una ricerca da parte del gruppo di lavoro facente capo al Dipartimento di Scienze della Formazione e del Territorio dell’Università di Parma e a chi scrive. 2. Hannah Arendt, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, Mondadori, Milano 1993. 3. Ebbero una certa fama i romanzi Un mariage en province (1857) e Une vengeance (1858). Scrisse anche pièces teatrali e novelle: Jane Osborn (1855); Etienette; Silvère; Le Secret (1859); Une place à la cour (1861); L’héritage du marquis d’Elvigny (1863). 4. Léonie d’Aunet, Voyage d’une femme au Spitzberg, Présentation de Wendy S. Mercer, Editions du Félin, Paris 1992, pp. 238-240. 5. Douglas Botting, Humboldt. Un savant démocrate, Belin, Paris 1988, p. 249 e Jean-Paul Duviols et Charles Minguet, Humboldt savant-citoyen du monde, Gallimard, Paris 1994, p. 97. 6. Jean Savant, La vie sentimentale de Victor Hugo, chez l’Auteur, Paris 1982, livret n. 2, p. 18. 7. Douglas Botting, op. cit., p. 286. 8. La ricostruzione del 1927, di Guimbaud, ne dà luogo e data di nascita certi (rue de Chaillot, 1820) come la paternità. Il padre Claude-François Thévenot d’Aunet, di piccola nobiltà, sarebbe stato militare prima nell’esercito napoleonico, poi con i Borboni, infine insignito della Legione d’Onore. Anche la madre, Joséphine d’Orémieulx, apparteneva alla piccola nobiltà (cfr. Louis Guimbaud, Victor Hugo et Madame Biard d’après des documents inédits, Blaizot, Paris 1927, pp. 10-12). Secondo il più recente lavoro di Savant la paternità sarebbe incerta date le testimonianze contradditorie della madre. Questa aveva sposato due uomini morti uno dietro l’altro: avrebbe avuto Léonie dal primo (un certo Michel-AugusteFrançois Thévenot d’Aunet, per il quale la moglie avrebbe inventato una biografia di nobile e di militare) e un bambino, anche lui chiamato Léon, dal secondo. Nel 1833 aveva sposato un terzo uomo e messo la figlia a studiare in convento. Cfr. Jean Savant, op. cit., pp. 6-14. È lo stesso Savant a riferire che Léonie d’Aunet morì dopo una lunga malattia a Parigi il 21 marzo 1879, assistita dal figlio Georges. 9. Ibidem, p. 14. 10. Di lui qualche biografo scrive «très laid» (brutto da far paura). Cfr. Paul Souchon, La plus aimante, ou Victor Hugo entre Juliette et Mme Biard, avec des lettres inédites, Albin Michel, Paris 1941, pp. 22-23. Fra il 1858 e il 1859 Biard farà anche un viaggio in Brasile. Cfr. M. Biard, Voyage au Brésil, «Le Tour du Monde», Hachette, Paris 1861, deuxième semestre, pp. 1-48 e 369-400). 11. Jean Savant, op. cit., pp. 15-18 e Louis Boivin, Notice sur M. Biard, ses aventures, son voyage en Laponie avec Madame Biard. Examen critique de ses tableaux, Breteau et Pichery, Paris 1842, pp. 3-18. 12. Jean Savant, op. cit., pp. 16-18. La casa di Biard è descritta anche da S. Henry Berthout, Le singe de Biard, «Musée des Familles», sixième volume, année 1838-1839, pp. 275-276. 13. Si trattava di misurare l’arco del meridiano terrestre per provare le tesi di Newton. Sulla spedizione e sui risultati si hanno le opere di Perre-Louis Moreau de Maupertuis, le relazioni di Jean-François Regnard (Voyage effectué en Laponie en 1681, Librairie des Bibliophiles, Paris 1875. Prima edizione: 1731), dell’abbé Réginald Outhier (Journal d’un voyage au Nord en 1736 et 1737, Löhner, Amsterdam 1746) eccetera. La vicenda è ricostruita da Jean-Pierre Martin, La figure de la Terre, récit de l’expédition française en Laponie suédoise (1736-1737), Isoiète, Cherbourg 1987.
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14. Il resoconto dell’esplorazione sta in Voyages de la commission scientifique du Nord en Scandinavie, en Laponie, au Spitzberg et aux FerÖe, pendant les années 1838, 1839 et 1840 sur la corvette “La Recherche”, Bertrand, Paris 1843-1855, volume introduttivo, pp. 13-16. 15. Il capitano di vascello Louis-Charles de Freycinet (1779-1842) fu fra i fondatori della Société de Géographie. D’accordo con lui e con la compiacenza di un alto ufficiale, la Freycinet si fa passare per marinaio al momento dell’imbarco mentre durante l’intero viaggio mantiene la propria identità e il proprio ruolo di moglie del comandante. I risultati ufficiali della spedizione furono pubblicati nel 1822 ma anche Rose Freycinet (a cui si deve il toponimo di un’isoletta scoperta nel corso del viaggio e battezzata dal marito Ile Rose) scrisse un interessante diario di viaggio rimasto inedito fino al 1927 e ripubblicato recentemente. Cfr. Rose de Freycinet, Journal du voyage autour du monde à bord de l’Uranie 1817-1820, Editions du Gerfaut, Paris 2003. La storia di Rose è raccontata anche nella Promenade autour du monde de 1817 à 1820 del disegnatore della spedizione, Jacques Arago (1790-1855), fratello dell’Arago astronomo. Cfr. Jacques Arago, Rose de Freycinet autour du Monde, in L’exotisme au féminin, «Les Cahiers de l’esotisme», Editions Kailash, Paris 2000, pp. 39-49. 16. Léonie d’Aunet, Voyage…, cit., pp. 21-22. 17. Nota al Voyage au Brésil di Biard, cit., p. 48. 18. Ibidem, p. 23. 19. Ancora il lavoro della Freycinet era composto di lettere redatte quotidianamente e rivolte alla cugina a cui le consegna personalmente al ritorno. Cfr. Rose de Freycinet, op. cit., p. 9. 20. Senza, anche in questo caso, pretendere di dare ai risultati della mia ricerca un valore assoluto, l’abbandono della forma epistolare e la ripartizione in capitoli è riscontrabile in tutti i resoconti ottocenteschi delle viaggiatrici europee successive alla d’Aunet finora trovate. Cfr. la bibliografia di questo volume. 21. Voyages de la commission scientifique…, cit. La sola relazione di viaggio sta in Xavier Marmier, Voyages de la commission scientifique du Nord en Scandinavie, en Laponie, au Spitzberg. Relation du voyage, Bertrand, Paris 1844-1847, 2 voll. Di Saverio Marmier uscì in Italia una Storia della letteratura in Danimarca e in Svezia (Firenze 1841). 22. Léonie d’Aunet, op. cit., p. 23. 23. Lia Guerra, Scandinavia 1795. Rapporto dai confini dell’Europa, «Studi Settecenteschi», 15, 1995, pp. 281-330. 24. Viaggio settentrionale di Francesco Negri, a cura di Enrico Falqui, Edizioni “Alpes”, Milano 1929. 25. Giuseppe Acerbi, Viaggio in Lapponia 1799, Pubblicazioni di lingua e cultura italiana Università di Turku, n. 6, 1996. 26. Filippo Parlatore racconta nel proprio diario che, dopo la traversata della Lapponia, fu colpito da una paralisi causata dai grandi strapazzi. Cfr. P. Baldissone, Il viaggio in Lapponia di Filippo Parlatore, «Miscellanea di Storia delle Esplorazioni», XI, Bozzi, Genova 1986, pp. 138-139. 27. Léonie d’Aunet, op. cit., pp. 39 e 60. 28. Tutte le edizioni sono conservate nella Bibliothèque Nationale de France, a Parigi. 29. Léonie d’Aunet, op. cit., p. 23. 30. La loro conoscenza avviene nell’aprile del 1843, in occasione di una festa campestre. Hugo ha quarantuno anni e Madame Biard ventitrè. Oltre ad essere bella è molto mondana e molto colta. Le scriverà molte lettere e le dedicherà numerosi versi, raccolti nelle Contemplations (1856). Cfr. il catalogo della Bibliothèque de l’Institut de France, Précieux autographes et dessins de Victor Hugo. 28 lettres à Madame Biard, Paris 1957. Scoperta nel 1845 da Biard che li aveva colti in flagrante adulterio, la storia fra la d’Aunet e Hugo aveva comportato per la donna un paio di mesi di prigione, qualche tempo in convento (mentre Hugo, immune perché pari di Francia, per sedare lo scandalo, se ne era andato per due anni in Spagna) e la se-
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parazione da Biard. Ma la difficile relazione con Hugo era finita nel 1851. Cfr. Paul Souchon, op. cit., p. 23 e ss. 31. Louis Boivin, op. cit., p. 27. 32. Léonie d’Aunet, op. cit., pp. 156-157. 33. Ibidem, p. 65. Il corsivo è mio. 34. Ibidem, pp. 24, 30, 33-34. 35. Ibidem, pp. 24-25. 36. Ibidem, p. 26. 37. Ibidem, p. 27. 38. Ibidem, pp. 26-27. 39. Ibidem, pp. 27-28. 40. Ibidem, p. 29. 41. Ibidem, pp. 30-31. 42. Ibidem, pp. 35-37. 43. Ibidem, pp. 39-51. 44. La descrizione della Svezia meridionale occupa le pp. 52-53. 45. Ibidem, p. 54. 46. Ibidem, pp. 55-56. 47. Ibidem, p. 56. 48. Ibidem, p. 62. 49. Ibidem, pp. 63-64. 50. Ibidem, p. 64. 51. Ibidem, pp. 64-73. 52. Ibidem, pp. 74-82. 53. Ibidem, pp. 86-92. 54. Ibidem, pp. 96-98. 55. Ibidem, pp. 99-105. 56. Racconta un episodio relativo a un giorno dell’estate 1795 quando Havoysund fu raggiunta dal giovane Luigi Filippo d’Orléans in incognito. Ibidem, p. 118. 57. Ibidem, pp. 120-121. 58. La d’Aunet riferisce della sua scoperta avvenuta il 9 giugno 1596 da parte di Barentz e del comandante Heemskerke che la denominarono appunto «Beeren-Eiland», e del successivo viaggio dell’inglese Bennet che, a bordo della nave The Grace, la raggiunse il 17 agosto 1603 e la chiamò isola Cherry, dal nome del proprietario della Grace. Ibidem, p. 124. 59. Ibidem, pp. 127 e 145-147. 60. Ibidem, p. 130. 61. Ibidem, pp. 130-131. 62. Ibidem, p. 141. 63. Ibidem, pp. 127-130. 64. Léonie d’Aunet, op. cit., pp. 156-157. 65. Ibidem, p. 167. 66. Ibidem, p. 169. 67. Ibidem, p. 176. Mantegazza, nel suo diario steso un quarantennio dopo quello della d’Aunet, e che è interessante confrontare ad esso, di Kautokeino scrive: «Una ventina di case tutte di legno, 200 abitanti circa in 40 famiglie, e nell’inverno un 600 lapponi nomadi, accampati intorno alla loro metropoli in un raggio di più che 100 chilometri». Cfr. Paolo Mantegazza, Un viaggio in Lapponia con l’amico Stephen Sommier, Brigola, Milano 1881, p. 86. 68. Alla tradizione runica dedica diverse pagine quasi alla fine del suo diario di viaggio, ma già prima, in occasione delle sue riflessioni su Copenaghen e Oslo, aveva mostrato attenzione alle leggende di quei popoli. Cfr. Léonie d’Aunet, op. cit., pp. 43 e 57-59. 69. Ibidem, pp. 202-203.
III. «El mundo es poco». Ida Pfeiffer
I padri di Orlando avevano cavalcato per campi di asfodeli, e per campi sassosi, e per campi bagnati da acque straniere, e da più d’un busto avevano spiccato più d’una testa di vario colore, e le avevano portate seco onde appenderle alle travi dei loro soffitti. Virginia Woolf, Orlando
La fotografia, datata 1856, rappresenta una donna anziana; l’abbigliamento scuro con qualche marezzatura di seta e biancore di pizzo è elegante e severo; il capo è coperto, il portamento eretto. Lo sguardo va oltre la fissità dello scatto, lontano. Alla sua destra, su un ripiano, un foglio, un libro, un globo. Completano la scena tappezzerie d’Oriente1. È il ritratto di Ida Laura Reyer Pfeiffer, nata a Vienna nel 17972 e morta nella stessa città nel 1858. Se non fossero traditi da quel segno – il globo – fotografia e dati anagrafici rifletterebbero l’immagine di una signora della buona borghesia Biedermeier arrivata alle soglie della vecchiaia più o meno senza muoversi dalla propria città: alle sue spalle una vita di famiglia e di fede. In effetti, questa è stata a lungo la vita di Ida Pfeiffer finché nel 1842, all’età di quarantasette anni, intraprende il primo viaggio. Di certo per interesse (ogni parte del mondo, come vedremo, la attrae, inoltre Ida è molto religiosa), probabilmente perché il pellegrinaggio è per una donna il viaggio possibile, la prima meta è la Terrasanta, peraltro da lei ampiamente superata. Ma fra quel 1842, anno della partenza per Gerusalemme, e l’anno della morte, Ida Pfeiffer riesce a percorrere, con tutti i mezzi allora a disposizione, compreso un largo impiego delle proprie gambe, e con le risorse di una saggia economia, «più di 140.000 miglia marine e circa 20.000 miglia inglesi per via di terra»3. Ida Pfeiffer è la più grande viaggiatrice del pieno Ottocento. Non a caso il suo nome ricorre più di ogni altro nome femminile nella documentazione ufficiale della geografia ottocentesca, ad esempio negli elenchi e nelle riviste della Società geografica di Parigi che per prima ha consentito l’accesso alle donne. Ma anche la Società londinese, più a lungo misogina, non ne ignorò del tutto i meriti. Alla sua morte le furono dedicati necrologi e articoli. In particolare, lo scritto di Lavollée pubblicato nel 1859 sulla «Revue des Deux Mondes» ne
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ricordava i due viaggi intorno al mondo e l’esplorazione della Malaysia, impresa subito riconosciuta come il miglior contributo della Pfeiffer alle conoscenze geografiche. Nell’articolo, prima di analizzare i risultati del viaggio della Pfeiffer, l’autore dedicò una lunga – e lungimirante – riflessione all’importanza della biografia nello studio delle relazioni di viaggio. La razza dei viaggiatori presenta varietà infinite […]. La malattia o la salute, la vaga curiosità o la passione ardente per la scienza, l’ozio o la sincera attrazione per le cose sconosciute, tutte le molle, buone o cattive, tendono a un dato momento a spingere lontano questi nomadi che la fata dei viaggi ha toccato con la sua ala […]. Cento viaggiatori visitano gli stessi luoghi ma non li vedono allo stesso modo; sono testimoni dei medesimi fatti e li racconteranno diversamente: le loro sensazioni concrete, le loro impressioni variano e si contraddicono. Dove è la verità? A chi credere? Deprecabile incertezza che aleggia sempre sui racconti dei turisti. Eppure, niente è più naturale di questa contraddizione. Mentre l’uno, secondo le inclinazioni del suo spirito e delle sue abitudini, affronta tutto con l’entusiasmo dell’immaginazione e in qualche modo crea ciò che crede di vedere, l’altro si controlla meglio, sa mantenersi freddo e impassibile. L’uno e l’altro possono essere sinceri, stabilendo il proprio punto di vista al di là o al di qua del giusto e del vero. Per questa ragione, quando prendiamo un libro di viaggio, dobbiamo, prima di lasciarci trascinare dalla corrente del racconto, risalire alla fonte e ricercare l’origine, lo stato civile, l’impronta morale del compagno di strada di cui stiamo per seguire le peregrinazioni. Questo studio preliminare è necessario, e spesso il viaggiatore non sarà meno interessante del viaggio. È il caso di Ida Pfeiffer4.
Il discorso pone la questione della soggettività delle rappresentazioni geografiche in un’epoca in cui le scienze, geografia compresa, si andavano ancorando alle posizioni del positivismo. Tanto più interessante è il fatto che l’argomentazione sia tutta finalizzata alla presentazione dell’opera odeporica di una donna. Da questo punto di vista la Pfeiffer deve aver impressionato non solo i comuni lettori – che furono moltissimi se dopo il primo viaggio si procurò almeno in parte le risorse per finanziare i successivi con la vendita dei propri libri – ma anche il mondo della cultura ben oltre i riconoscimenti che, a seconda delle diverse realtà nazionali, la geografia ufficiale fu “costretta” ad attribuirle. Ida Pfeiffer dovette rappresentare, nella cultura geografica del tempo, un piccolo terremoto per essere riuscita ad offrire risultati che non potevano essere minimizzati e classificati alla stregua del consueto viaggio pellegrinale o Grand Tour europeo in cui si erano cimentate la maggior parte delle viaggiatrici. Casalinga, fornita dell’istruzione modesta delle donne, anche benestanti, del suo secolo, generalmente ancor meno benevolo, in fatto di istruzione femminile, del secolo dei Lumi, Ida Pfeiffer non aveva una solida preparazione scientifica e non conosceva il latino. Abbiamo visto come nel Settecento le donne abbiano avuto una discreta visibilità, sebbene un’i-
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struzione elevata sia stata riservata a pochissime anche fra quelle di classe sociale alta: ed infatti nel 1777 il Parini, impressionato da Maria Pellegrina Amoretti che aveva conseguito a Pavia il titolo dottorale in legge, si premurò di celebrarla con l’ode La laurea. L’Ottocento non registra, da questo punto di vista, proporzionati progressi. La nuova società borghese, che necessita di una famiglia dai ruoli ben definiti, assegna alle donne una vita da consumarsi dentro le mura domestiche con l’anima e il cervello affidati alle cure del confessore. E quando, da metà secolo in poi, si comincia ad avere un certo numero di laureate, si tratta soprattutto di donne medico e di insegnanti, due proiezioni del ruolo materno5. Si capisce dunque bene la ragione per cui, quando nelle biografie di Ida adolescente si legge del suo interesse per le scienze naturali, esso sia stato subito liquidato come inadatto. Tuttavia, alcune nozioni in campo naturalistico doveva essersele in qualche modo procurate: era in grado di raccogliere reperti naturalistici come ci dicono i documenti e una famosa immagine che la raffigura con il retino da farfalle in mano. Accolte nei musei e, in parte, vendute, le collezioni costituirono un’altra fonte di finanziamento dei viaggi, dunque dovevano avere una certa consistenza quantitativa e qualitativa. In campo più strettamente geografico, nelle sue relazioni la vediamo usare con disinvoltura un linguaggio appropriato e discettare con cognizione di causa di latitudini e longitudini, sestanti e alisei. Sappiamo che, adolescente, il suo giovane precettore l’aveva avviata allo studio della geografia, e che la lettura dei maggiori geografi e viaggiatori del tempo aveva preceduto la partenza. Nei suoi libri Ida nomina spesso «qualche viaggiatore» e di sicuro aveva letto Humboldt. «Il Signor Humboldt ha notato questo stesso colore scuro nei fiumi americani e aggiunge che essi non sono abitati né da coccodrilli né da pesci», cita mentre descrive le acque dei fiumi del Borneo6. A Tahiti, dove trova un nativo novantenne che conservava diretta memoria «del secondo sbarco di Cook», visita la Punta di Venere, «una piccola lingua di terra dove Cook osservò il passaggio di Venere nel sole»7. Nel complesso, Ida Pfeiffer deve aver “stuzzicato” i cultori di questioni geografiche del suo tempo ad interrogarsi sull’intrusione femminile nella geografia e, più in generale, sul se e che cosa le donne stavano portando nella disciplina. Dice ancora Lavollée, nella «Revue des Deux Mondes»: Ciò che ella [Pfeiffer] ha soprattutto descritto, se non profondamente studiato, è il mobile panorama rappresentato dai popoli: sono gli usi e costumi, e anche i costumi come abbigliamento, particolari che le donne sanno meglio cogliere a colpo d’occhio e dipingere con esattezza; è il tono e il colore della composizione di cui la sua curiosità avida voleva senza sosta elargirci il quadro. Possedeva questa prontezza di osservazione a un tale grado che il primo viaggio è completo e pre-
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ciso quanto il secondo. Pare che non abbia bisogno di acquistare esperienza: era nata con il senso del viaggio8.
Altrove si parla, sempre a proposito di Ida, di «arte del viaggiare» molto prima che uno studioso a noi contemporaneo attribuisse tale qualità ai classici “granturisti”9: «Per quanto grande fosse in lei il piacere del viaggio si può dire che ella possedesse ancora di più l’arte del viaggio» si dice nello “schizzo” biografico comparso su «Le Tour du Monde» illustrando la dignità con cui, in ogni parte del mondo, la Pfeiffer sapeva abilmente approfittare dell’aiuto di tutti senza importunare, la naturalezza con cui accettava assistenza da sconosciuti, l’interesse che suscitava intorno a sé e alla propria impresa10. In una sede ancora più ufficiale, il «Bulletin de la Société» parigina, Albert Montémont, senza davvero peccare in generosità di giudizio nei confronti delle relazioni della viaggiatrice, non può fare a meno di segnalarne i meriti che individua «nei soli due fatti nuovi che esse possono offrire da un punto di vista geografico o da quello delle abitudini e dei costumi» e precisamente «alcuni interessanti particolari sugli indigeni di Tahiti e isole vicine» (primo giro del mondo), e le informazioni «sui Daiachi o selvaggi indigeni del Borneo e sui Battak o cannibali di Sumatra» (secondo giro)11. Una conferma indiretta del carattere socio-antropologico dello sguardo femminile. La biografia di Ida Pfeiffer, specialmente di Ida bambina e adolescente, spiega abbastanza bene la sua passione per il viaggio, anche se la maggior parte della sua esistenza è contrassegnata da esperienze tutt’altro che eccentriche. Anzi, è proprio il contrasto fra la lunga normalità della casalinga e l’intensa e spericolata attività di viaggiatrice degli anni maturi a fare di lei un personaggio sorprendente. I profili stesi in occasione della pubblicazione dei suoi libri e poco dopo la morte rendono di lei un ritratto concorde, confermato da quelli scritti in occasione delle recenti riedizioni delle sue opere in Germania e Francia. Tutti ricalcano le notizie contenute nel Biographische Skizze posto ad introduzione del diario del viaggio in Madagascar12. Anche se non si tratta di una vera e propria autobiografia, lo «schizzo» attinge ad alcuni appunti della viaggiatrice. È dunque lei stessa a tracciare le linee principali per interpretare la sua esistenza e il senso che il viaggio vi ha impresso. Nata in una buona famiglia borghese di commercianti che avevano rapporti con l’America e l’Oriente, unica femmina con cinque fratelli maschi, la caratteristica di Ida che i biografi mettono soprattutto in rilievo è l’educazione spartana impartitale da un padre di grande spessore morale e severo. Cresciuta senza differenze rispetto ai fratelli («Non ero timida, ma vivace come un maschio, anche più vivace e intrepida dei miei fratelli maggiori», scriverà13) e perfino vestita come loro, fa fatica, divenuta adolescente, ad amare
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gonne e merletti, a suonare il piano invece che il violino, insomma, ad accettare la propria femminilità. La aiuta, in questo, il giovane precettore Joseph Franz Emil Trimmel che nel 1810 le viene assegnato dalla famiglia. Viaggiatore e, pare, autore egli stesso di relazioni di viaggio, Trimmel, del quale Ida non esplicita completamente il cognome, comunica alla ragazza la propria passione che ha tanta più presa per l’affettività che nasce fra di loro. Poiché avevo imparato molto più a temere i miei genitori che ad amarli, ed egli era, per così dire, il primo essere umano che si mostrava buono e gentile con me, mi attaccai a lui con una specie di passione. Cercavo di prevenire ogni suo desiderio, e mi sentivo felice solo quando egli si mostrava soddisfatto dei miei sforzi […]. Imparai anche tutti i lavori femminili, a cucire, a fare la maglia, cucinare eccetera. Devo a lui se nel giro di tre, quattro anni giunsi perfettamente a conoscenza dei doveri del mio sesso e, da ragazzo scalmanato, mi trasformai in una fanciulla semplice14.
Di fronte ai primi pretendenti «mi divenne chiaro, confesserà Ida, che non avrei potuto amare nessun altro se non T…, la guida della mia giovinezza»15. Ma la loro unione è contrastata dalla famiglia che desidera per la figlia un partito migliore. Nel 1820, a ventidue anni, Ida sposa «per dovere morale» l’avvocato Pfeiffer, un onesto professionista più vecchio di lei di ventiquattro anni dal quale ha due figli. Quando il fallimento economico del marito fa precipitare la famiglia nella miseria, Ida, abituata alla dura scuola del padre, sa affrontare quella condizione con coraggio e dignità. Dio solo sa quello che ho dovuto sopportare per diciotto anni di matrimonio, non certo per maltrattamenti da parte di mio marito, ma per le difficoltà di una situazione assai penosa, per il bisogno e l’indigenza! Provenivo da una famiglia benestante, fin dalla giovinezza ero abituata all’agio e alla comodità, e adesso spesso sapevo appena dove appoggiare la testa e dove trovare quel poco di denaro per comprare solo lo stretto necessario. Dovevo occuparmi di ogni cura della casa, soffrivo il freddo e la fame, lavoravo di nascosto per guadagnare qualcosa, davo lezioni di disegno e di musica, e tuttavia, nonostante i miei sforzi, c’erano spesso giorni in cui non avevo altra cosa che pane secco per la cena dei miei poveri bambini16.
Nel 1836 va a Trieste con il secondogenito Oscar e, per la prima volta, vede il mare. Pare che sia questo il momento in cui mette a fuoco il bisogno di realizzarsi attraverso i viaggi che comunque rinvia a quando avrà portato a termine i doveri di madre. Nel 1842, cresciuti i figli e di fatto separata dal marito («allorché la mia situazione fu sistemata in modo da consentirmi di stare lontana almeno per un anno» spiega quasi giustificando la propria decisione17), parte da sola per la Palestina. Da allora la biografia di Ida Pfeiffer coincide con la sua straordinaria attività di viaggiatrice.
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Il viaggio nel Vicino Oriente, della durata di nove mesi, ha inizio il 22 marzo 1842. La Pfeiffer discende in battello a vapore il Danubio, senza guida attraversa Turchia e Libano e raggiunge la Palestina. Prosegue poi per l’Egitto attraverso l’istmo di Suez, sosta a Malta, risale l’Italia e ritorna in patria passando da Trieste. Il diario di questo itinerario viene pubblicato in due volumi a Vienna nel 184418. Subito si prepara per un viaggio nel Nord acquisendo elementi di lingua inglese e danese e imparando la tecnica del dagherrotipo. Per un periodo di sei mesi, dall’aprile all’ottobre 1845, percorre Islanda e Scandinavia. La pubblicazione dei due volumi del racconto di questa esperienza avviene l’anno subito successivo19. Il terzo viaggio (maggio 1846 - novembre 1848) ha una durata di due anni e sette mesi seguendo un percorso che «busca» il Levante dirigendosi a Ponente. Partita da Amburgo Ida Pfeiffer raggiunge Rio de Janeiro, doppia Capo Horn, giunge a Valparaiso, poi attraversa il Pacifico arrivando a Tahiti, quindi a Macao, Hong-Kong, Canton, Singapore, Ceylon. Visita l’India fino a Benares per poi dirigersi verso le città imperiali della Persia; attraversa la Mesopotamia e l’Asia Minore, fa il giro delle coste russe del Mar Nero, torna ad Costantinopoli e di qui, passando per la Grecia e bordeggiando la costa ionica, sbarca a Trieste e rientra a Vienna. Eine Frauenfahrt um die Welt, diario di questo primo giro del mondo, esce a Vienna in tre volumi nel 185020. Una seconda volta Ida “gira il mondo” nel senso opposto per ben quattro anni e due mesi consecutivi, fra il marzo 1851 e il maggio 1855. Si tratta di un lungo periplo da Londra a Città del Capo fino all’arcipelago della Sonda e al Borneo dove si addentra nei territori dei tagliatori di teste dayak. Raggiunge quindi Giava e Celebes per poi attraversare di nuovo il Pacifico fino alla California che le apre un ripetuto percorrere diverse regioni meridionali e settentrionali del continente americano. Ne conseguiranno i quattro volumi del Meine zweite Weltreise, pubblicati a Vienna nel 185621. La relazione di questo viaggio è riconosciuta come il più interessante dei suoi lavori. L’anno dopo sarà pubblicata anche in Francia da Hachette che nel 1858 fa uscire anche il resoconto sul primo giro del mondo. Ma nessuno dei due scritti era ancora edito in questo paese quando la Pfeiffer riceve dai geografi parigini riconoscimenti ufficiali importanti. Nel luglio del 1856, anno in cui è scattata la fotografia che la ritrae con il globo, Ida Pfeiffer era andata a Parigi per preparare un viaggio in Madagascar. Dati gli interessi della Francia nell’isola, sa di poter trovare notizie precise su «questo paese abbastanza sconosciuto»22. Proprio lei, che «aveva tanto corso il mondo», confessa di non aver mai visto prima la capitale francese e le dedica una visita di una decina di giorni e poi una lunga descrizione. Malgrado sia sconsigliata dal partire dai membri della Società geografica per i
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venti di guerra che soffiano sull’isola, non recede dal suo progetto e il 31 agosto si imbarca a Rotterdam. Visita Bourbon (Réunion), Mauritius (la cosiddetta Île de France) e giunge in Madagascar alla fine di aprile del 1857. Vi resterà lungamente finché, coinvolta in un complotto contro la regina malgascia, viene espulsa. Ritorna per qualche tempo a Maurizio prima di rientrare, ammalata, a tappe lente, attraverso Londra e Amburgo, nell’agosto 1858, a Vienna dove muore nella notte fra il 27 e il 28 ottobre. Il diario del viaggio in Madagascar esce nel 1861 a cura del figlio Oscar e viene subito (1862) tradotto anche in Francia con la premessa dello “schizzo” biografico. In una recentissima edizione del diario malgascio si ricorda come la relazione della Pfeiffer sul Madagascar fosse caduta opportuna per la Francia, allora contrastata dall’Inghilterra nelle sue mire coloniali sull’isola. La relazione della Pfeiffer rappresentava per i francesi un utile strumento di propaganda: oltre a fornire molte informazioni su un territorio fino ad allora poco noto, la viaggiatrice non vi nascondeva posizioni filo-francesi di contro a un certo sentimento anti-inglese. La Pfeiffer non nutriva molta simpatia nei confronti dell’eccessivo puritanesimo britannico, che giudicava piuttosto falso, ed era rimasta contrariata da questioni come la discriminazione delle donne negli ambienti scientifici e la poca generosità dei comandanti delle navi britanniche, mai disposti ad accordarle passaggi gratuiti23. Humboldt, Ritter, le Società geografiche L’esposizione, molto sommaria, rende l’idea della portata dei viaggi della Pfeiffer che, come ho accennato, suscitarono un certo interesse anche nel mondo generalmente scettico (nei confronti delle donne) delle istituzioni geografiche. Alcune lettere, le note biografiche e le notizie autobiografiche contenute nei diari di viaggio definiscono meglio questo aspetto. L’anno del suo riconoscimento ufficiale è il 1856, quando esce il libro del secondo viaggio intorno al mondo. In quel periodo Ida riceve da Humboldt tre lettere. Lo scienziato le scrive la prima volta da Berlino il 22 febbraio dopo che la Pfeiffer, durante un soggiorno nella città, gli ha fatto avere il volume. Come posso esprimervi, onorevolissima signora, la mia profonda riconoscenza, anzi la mia ammirazione? Sì, io ammiro la vostra perseveranza, il vostro coraggio, la ricchezza delle vostre collezioni che riuniscono oggetti del mondo intero appartenenti a un’epoca definita della vita del globo. Ammiro soprattutto in voi la nobile semplicità del racconto, la libertà e la profonda umanità del sentire e la nobile bellezza del merito non ostentato. Siete stata sulle maestose altitudini di Quito, avete goduto dell’eccezionale spettacolo dell’eruzione del Cotopaxi! Questa recente eruzione mi offrirà l’occasione di arricchire il mio quarto volume del Cosmos con il nome di Ida Pfeiffer […]24.
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La lettera elogia senza esagerazioni le qualità della viaggiatrice: la determinazione, il coraggio, la modestia. Quanto ai meriti, Humboldt sembra dare una certa importanza alle collezioni di Ida (accolte, del resto, dal Zentralarchiv Naturhistorisches Museum di Vienna25), trova le sue relazioni «ammirevoli soprattutto per la semplicità del racconto» riconoscendo alla viaggiatrice un ruolo di divulgazione del sapere geografico, cosa che, come è noto, egli riteneva importante. Ma il grande geografo la ritiene anche degna di essere nominata nel Cosmos, unanimemente considerato la sua summa scientifica. Di tutte le imprese della viaggiatrice, ricorda la fortunata escursione andina nel corso della quale la Pfeiffer aveva potuto assistere all’eruzione vulcanica, mentre non aveva avuto la stessa fortuna al tempo del proprio viaggio americano26. Nella seconda breve lettera scritta alla viaggiatrice pochi giorni dopo (26 febbraio), Humboldt si fa portavoce dell’ammirazione e della stima che i sovrani hanno manifestato per il suo coraggio e per «l’esatta fedeltà» delle sue relazioni. Essi desiderano conoscerla personalmente e la attendono al castello due giorni dopo. Il geografo conclude suggerendole di portare alla regina una copia del Viaggio intorno al mondo27. L’8 giugno 1856, prima che la Pfeiffer parta per il Madagascar, Humboldt, definendosi il «viaggiatore più carico d’anni», le invia dal castello di Postdam una terza lettera, questa volta scritta in francese, come credenziale. «Prego ardentemente tutti coloro che in varie regioni della Terra hanno conservato il ricordo del mio nome e qualche benevolenza per la mia opera, di accogliere con vivo interesse e di aiutare con i loro consigli il portatore di queste righe, Madame Ida Pfeiffer […]» esordisce, e continua attestando, come sempre, la sua stima per la viaggiatrice e ricordandone i noti meriti, in particolare «l’insuperabile passione per l’esplorazione della natura e per gli usi delle varie popolazioni»28. Esattamente un anno dopo, il 26 giugno 1858, le scriverà una quarta lettera. Humboldt risiede ormai stabilmente a Postdam. Ida, di ritorno dallo sfortunato viaggio malgascio, si trova ad Amburgo, ammalata. Il geografo le invia, anche da parte dei sovrani, gli auguri per la sua guarigione. Il tono è affettuoso e malinconico: Possano dopo tanti nobili sacrifici utili alla conoscenza dei paesi lontani, le cure e la tranquillità di spirito ristabilire la vostra salute che mi è così cara! Possiate ritrovare subito le forze necessarie, non per esporvi a nuovi pericoli, ma per aggiungere al vostro bel Viaggio al Borneo il vostro ultimo diario, certamente anch’esso molto istruttivo […]. Dopo la vostra partenza, le mie forze sono molto diminuite. Il nostro comune amico, Carl Ritter, che vi è tanto fedelmente legato, è a Toeplitz e gioisce con tutto il vigore del suo spirito. Di Amburgo conservo ricordi felici e riconoscenti […]29.
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Meno di un anno dopo, il 6 maggio del 1859, il grande geografo muore. Ida Pfeiffer lo aveva preceduto di sei mesi. Nell’estate del 1856, per preparare il viaggio in Madagascar, dopo una visita a Londra la Pfeiffer si era recata, come si è detto, a Parigi. Vi era giunta il primo agosto avendo la fortuna di trovare, il giorno dopo, l’ultima seduta estiva della Società. Prima di partire, aveva avuto a Berlino anche contatti con Ritter che, a sua volta, le aveva dato una lettera di presentazione per il presidente di turno della Società geografica, Jomard. Nella lettera Ritter ricorda il «raro entusiasmo per la conoscenza del nostro pianeta» di Ida Pfeiffer che si sta apprestando «a un quarto grande viaggio per finire, alla sua età avanzata, la carriera di viaggiatrice visitando alcuni paesi che ancora non aveva visto». «L’apparente paradosso, continua Ritter, delle sue imprese ha tuttavia uno spessore molto serio: […] un interesse scientifico per la conoscenza della storia degli uomini e dei popoli che non sarà senza frutti per l’etnografia, perché si tratta dello sguardo lucido e penetrante di donna nella vita dei popoli selvaggi che ella sembra per certi aspetti preferire agli uomini civilizzati». Sostiene inoltre la sollecitazione ad accogliere, nel «santuario» della Société, la Pfeiffer, ricordandone la «dedizione alla ricerca», la benevolenza dimostratale da Humboldt e la collaudata appartenenza alle Società di storia naturale e di geografia di Berlino30. È così che Jomard e Malte-Brun invitano a presenziare all’assemblea la viaggiatrice, che racconta: Mi assegnarono un posto un po’ lontano dal tavolo della presidenza. All’inizio della seduta, il presidente pronunciò un discorso con il quale mi presentò alla Società, ricordò brevemente i miei viaggi e concluse con la proposta di accogliermi fra i membri onorari. Tutti i membri presenti alzarono le mani e la mozione fu votata all’unanimità. Si può immaginare la mia sorpresa e la mia gioia per questo riconoscimento al quale non ero affatto preparata; la mia gioia fu tanto più grande nel vedere che anche il mio vecchio professore di storia e geografia, Emil31, era, dal 1829, membro corrispondente. Il presidente si alzò e venne a prendermi per accompagnarmi alla presidenza, dove presi posto in mezzo all’acclamazione generale32.
Inutilmente sconsigliata a partire, la Pfeiffer ritorna a Londra per cercare una possibilità di imbarco non dispendiosa. Anche qui si reca dal segretario della Society, Shaw, che dai giornali aveva già avuto notizia dei riconoscimenti parigini. Il geografo inglese si rammarica di non poter fare altrettanto a causa dello statuto che vieta l’ammissione delle donne. Che cosa direbbero – commenterà Ida – di una simile legge le emancipate Americane degli Stati Uniti? Trovo normale non essere stata accolta io, che non pos-
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so pretendere di aver fatto scoperte in un qualsiasi campo della scienza; ma nessuno negherà che ci sono oggi donne perfettamente istruite: volerle escludere per la sola ragione che sono donne è cosa che si potrebbe tutt’al più capire in Oriente, dove il nostro sesso è ancora poco considerato, di certo non in Inghilterra, in un paese, cioè, così fiero della sua civiltà e dei suoi Lumi33.
Quando, nel 1857, Alfred Maury, segretario generale del consiglio direttivo della Società geografica parigina, espone all’assemblea degli iscritti il rapporto annuale «sui progressi delle scienze geografiche nel 1857», dedica alla Pfeiffer una lunga citazione: Non posso pronunciare la parola circumnavigazione senza parlarvi dei viaggi della donna straordinaria che avete avuto l’onore di iscrivere fra i vostri membri, Madame Ida Pfeiffer […], partita per una nuova esplorazione. Sappiamo che ha lasciato recentemente il Madagascar. Nonostante le condizioni in cui questa donna strabiliante viaggia – sarei tentato di dire, passeggia – non le permettano di offrire alla scienza tutti i servizi di cui sarebbe capace, le dobbiamo comunque vera riconoscenza e viva ammirazione per il suo coraggio. La relazione di quelle che potremmo definire le sue memorie ha per lo meno il merito di rendere popolare il piacere per il viaggio e per la geografia, e di far nascere in qualcuno l’idea di esplorare contrade sconosciute34.
Il «Bulletin» parigino dedicherà ai libri della Pfeiffer altri articoli nel 1858; negli “Atti” della seduta del 5 novembre di quello stesso anno si registra «che la Société ha appreso con vivo dispiacere della sua morte» e, nel Rapporto sui progressi delle scienze geografiche letto all’assemblea del 3 dicembre, quando «passa ai viaggiatori», l’anonimo relatore comincia con l’annunciare la morte sul suolo americano di «colui i cui titoli sono di più vecchia data e più straordinari, Aimé Bonbland, questo compagno dell’illustre patriarca della geografia». A questa commemorazione segue quella dell’ «eroina dei “turisti”», la «donna che ha stupito l’Europa per la sua decisione e che ha conteso ai più intrepidi viaggiatori la gloria di affrontare pericoli e privazioni di ogni sorta, Madame Ida Pfeiffer», morta in patria dopo aver contratto una malattia nell’ultimo viaggio35. Viaggio e percezione di sé Alcune lettere della Pfeiffer rivelano come la viaggiatrice avverta a un certo punto anche il peso del continuo viaggiare. «Vorrei che la mia passione diminuisse, poiché il tempo inesorabile mi ruba un anno di vita dopo l’altro e presto un viaggio avrà una fine tragica» scrive quasi presaga di quanto sarebbe accaduto. Oppure: «Non rimango tranquilla in un luogo, sono in perpetuo movimento come l’ebreo errante». E ancora: «I miei viaggi si avvicinano alla loro conclusione, adesso; quando tornerò a casa, avrò veramente viaggiato
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abbastanza. Ho tanto, di nuovo, da raccontare. Mi gira la testa quando penso a tutto quello che ho visto, vissuto e appreso»36. Le lettere da cui sono tratte queste considerazioni sono datate dal 1852 al 1853, Ida è nel pieno del secondo giro del mondo ed è senza dubbio stanca. Sta di fatto che, rientrata in patria, organizzerà il viaggio in Madagascar. D’altra parte, dalle relazioni di viaggio, dalle brevi premesse di suo pugno che le introducono, da alcune lettere e dal Biographische Skizze, esce l’immagine di una Ida Pfeiffer lucidamente cosciente di andare realizzando qualcosa di speciale. «Raramente giunge in questi luoghi un’europea», scrive, tanto per cominciare, nel diario del primo viaggio, quando racconta l’arrivo in Libano37. I luoghi raggiunti e le situazioni pericolose in cui viene frequentemente a trovarsi sono tali da creare non pochi problemi anche a un uomo e Ida lo fa notare più volte ai suoi lettori pur senza scadere nell’autocelebrazione e senza esagerare le difficoltà – non ne aveva davvero bisogno – che ogni volta affronta coraggiosamente per necessità e talvolta con sfida, quasi a volersi misurare con l’altro sesso38. La sua scommessa non è solo “a valle”, con il lettore, per invitarlo a riconoscerle, come donna, imprese inaudite. La sua sfida è anche “a monte”, all’interno del viaggio nel corso del quale si presenta a tutti coloro che incontra – per quanto riguarda gli occidentali, come è ovvio, soprattutto uomini – per quello che è: una donna, anzi, una donna piuttosto anziana. Si spiega così il suo rifiuto del travestimento (solo una volta, in Cina, in occasione di un’uscita pericolosa, accetta mascherarsi da uomo39) di più: il rovesciamento della consueta logica del travestimento. Ida non solo ci tiene a farsi riconoscere donna ma cerca, quando può, di trarre vantaggio dall’essere donna, trovando nel proprio sesso e nella propria storia personale motivi di protezione. «Per prima cosa ero donna e dovevo viaggiare sola, mi affidavo alla mia età (avevo quarantacinque anni), al mio coraggio e alla grande indipendenza che avevo acquisito alla dura scuola della vita», scrive40. Tuttavia, nel corso dei viaggi, Ida sperimenta la scarsa praticità del consueto abbigliamento femminile, lunghe gonne che la impacciano nel cavalcare e che assorbono l’acqua quando guada torrenti e attraversa paludi: sta esplorando il Borneo quando descrive la “divisa” che si è inventata, non per celare la propria identità, ma per comodità: Mi ero fatta cucire un completo semplice e adatto al viaggio. Portavo pantaloni corti che mi arrivavano alle ginocchia, una gonna e una casacca. La gonna arrivava alla caviglia ma durante la marcia la rimboccavo e la riabbassavo alla fine della giornata. Sulla testa avevo un magnifico cappello di bambù di Bali, impermeabile, che mi riparava dalla pioggia e dal sole. Per ripararmi ancora meglio dai colpi di sole tenevo sulla testa, sotto il cappello, un pezzo di foglia di banano. Quanto alle calzature, fu necessario che rinunciassi alle calze e in parte anche alle scarpe perché si dovevano attraversare diverse paludi41.
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Nella breve premessa, datata Vienna 16 marzo 1856, che precede la pubblicazione del diario del primo viaggio intorno al mondo, spiega quali sono le coordinate del suo viaggio e quale la pratica conoscitiva a cui si ispira: È del tutto a torto che in molti giornali e pubblicazioni mi è stato attribuito il nome di turista; perché, se si prende questo nome nel suo significato corrente, io sono ben lontana dal meritarlo. Da una parte mi mancano lo spirito e il talento necessari per scrivere in maniera piacevole e dall’altra le mie conoscenze non sono così estese da consentirmi di esprimere le mie opinioni in modo competente su tutte le regioni che ho visitato. So solamente raccontare senza arte e senza abbellimenti ciò che mi è accaduto, ciò che ho visto; e quando voglio dare un giudizio non posso farlo che dal semplice punto di vista dei miei personali apprezzamenti. C’è chi probabilmente crede che soltanto la vanità mi abbia spinto a intraprendere un così lungo viaggio. Io non posso loro replicare niente. Li inviterei soltanto a fare ciò che io ho fatto. Si convinceranno allora che, per esporsi a cuor leggero a tali privazioni e a così grandi pericoli, è necessario essere animati da una vera passione per i viaggi ed avere un insopprimibile desiderio di istruirsi e di esplorare paesi finora poco conosciuti. Come il pittore mira a riprodurre un’immagine e il poeta a rendere i suoi pensieri, allo stesso modo io miro a vedere il mondo. Se i viaggi sono stati il sogno della mia giovinezza, il ricordo di ciò che ho visto costituirà il fascino della mia vecchiaia […]. Sarò felice se il racconto delle mie avventure potrà determinare nei miei onorevoli lettori soltanto una piccola parte dell’infinito piacere che esse mi hanno fatto provare42.
Prendere le distanze dal modello del turista – un termine che allora era da poco penetrato nelle lingue europee dalla cultura inglese e che non aveva il senso di oggi – significa per la Pfeiffer marcare la propria differenza dai viaggi di scrittori come Chateaubriand e Lamartine, ai quali accenna non senza ironia soprattutto a riguardo degli aspetti pratici del viaggio: Sofferenze e privazioni non potevano essere in nessun posto più grandi che in Siria e Islanda. E neppure le spese mi preoccupavano, perché sapevo per esperienza di quanto poco si ha bisogno quando ci si sa limitare allo stretto necessario, e quando si è disposti a rinunciare a tutte le comodità e a ogni cosa superflua. Grazie alle mie economie mi trovavo a possedere una cifra che per un viaggiatore come il principe Pukler-Muskau, o come Chateaubriand e Lamartine, sarebbe appena bastata per un viaggio di quindici giorni alle terme, ma che a una modesta viaggiatrice come me sembrava dover bastare a viaggi di due o tre anni, e che, ne ho avuto la prova in seguito, era realmente sufficiente43.
E tuttavia qualcosa della pratica e del modello del turista ottocentesco rimane, nel momento in cui la viaggiatrice stessa circoscrive i limiti di quella «amabile semplicità e modestia» sottolineata anche da Humboldt, e che la Pfeiffer oppone al tipo di viaggio alla Chateaubriand. «Io so solo raccontare senza arte e senza abbellimenti ciò che mi è accaduto, ciò che ho visto; e
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quando voglio dare un giudizio non posso farlo che dal semplice punto di vista dei miei personali apprezzamenti», afferma, e in questo giudizio c’è tutto il senso dei limiti di un approccio che, nella consapevolezza di non avere le competenze necessarie per una valutazione scientifica, oscilla fra il racconto personale di viaggio, e quindi soggettivo, e l’intuizione, avvalorata dal giudizio ammirato di Humboldt, di poter essere, e forse di essere, qualcosa di più di “un semplice punto di vista” individuale. Il viaggio della Pfeiffer appartiene in effetti a un genere intermedio fra la pratica “turistica” del viaggio romantico e il viaggio scientifico secondo i modelli allora più collaudati. Del genere intermedio ha tutti i pregi e i tutti i difetti, ma anche la flessibilità che lo rende più vicino a noi e alle ragioni del viaggio moderno. Entro questa oscillazione si colloca una sorta di vocazione al viaggio che la stessa viaggiatrice paragona a quella dell’artista: «Come il pittore mira a riprodurre un’immagine e il poeta a rendere i suoi pensieri – scrive Ida – allo stesso modo io miro a vedere il mondo»44. Quella che la Pfeiffer riproduce a vantaggio dei suoi lettori non è né un’immagine estetizzante, frutto di una visione letteraria e mitizzata dell’esotico, né una rappresentazione del mondo formalizzata secondo i canoni della scienza; essa esprime, insieme alla lucidità di un’osservazione che se non ha una solida preparazione scientifica a cui riferirsi è tuttavia molto attenta e rigorosa, il piacere del vedere un mondo così vario nei paesaggi e nei costumi dei popoli, il piacere inaspettato che nasce dal senso dell’avventura naturalmente connesso a un viaggio non rigidamente pianificato e tanto meno promosso da uno stato o da un’istituzione. È proprio per questo senso, che i diari di viaggio della Pfeiffer superano l’orizzonte limitato del turista e della pratica conoscitiva del viaggio turistico, e ottengono un certo riconoscimento dalle massime istanze della scienza geografica del tempo. Se questo è il ruolo della Pfeiffer nella storia della scienza geografica, va anche detto che la sua esperienza è così ricca da travalicare i limiti della storia disciplinare e deve essere interpretata nei suoi significati più ampi, socio-culturali. Ida Pfeiffer va considerata una viaggiatrice straordinaria per aver organizzato in prima persona, economicamente e materialmente, i propri viaggi, per averli realizzati sostanzialmente da sola, per la scarsa accessibilità dei territori in cui è penetrata, in qualche caso inesplorati in assoluto, per la povertà dei mezzi economici impiegati, per i trasporti usati, le lunghissime marce a piedi, i ricoveri di fortuna, il bagaglio ridotto a meno del necessario: un bagaglio leggero contenente essenzialmente lettere di raccomandazione, matite, quaderni, retino da farfalle, poca biancheria e, unico lusso, un cuscinetto per le notti all’aperto. Siamo molto lontani dal modello della maggior parte delle benestanti viaggiatrici del suo tempo. Se tutto questo le ha valso gli apprez-
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zamenti dei lettori e degli studiosi di cui si è detto, sono anche comprensibili, inquadrati nella mentalità dell’epoca, i commenti non del tutto benevoli suscitati dalle sue scelte di vita, soprattutto a riguardo della sua femminilità la cui normalità, invece, la Pfeiffer teneva esplicitamente a rivendicare: Sorrido pensando a tutti coloro che, conoscendomi solo per i miei viaggi, si immaginano che io debba assomigliare più a un uomo che a una donna. Come mi giudicano male! Chi mi conosce sa bene che quelli che si aspettano di vedermi alta sei piedi, ardita nelle maniere e con la pistola alla cintura, troveranno invece in me una donna calma e riservata come la maggior parte delle donne che non hanno mai messo piede fuori del proprio villaggio!45
Paesi, paesaggi e percezione del mondo Dal punto di vista formale le relazioni della Pfeiffer sono divise in capitoli e seguono uno schema diaristico-itinerario. Nell’impostazione lineare data alle relazioni non è difficile trovare, afferma Anna Guarducci, un’eco del Viaggio alle regioni equinoziali di Humboldt del quale la viaggiatrice, al di là del diverso livello scientifico, ricalca le modalità esplorative, il metodo sperimentale che la porta «allo sforzo apprezzabile di mostrarsi testimone fedele di ciò che ha visto o che ha sentito (il più possibile con la verifica diretta sul terreno) a far uso frequente del meccanismo della comparazione». La Pfeiffer non cede nulla, né alle lunghe digressioni storiche, né al linguaggio enfatico e ricercato tipico della letteratura periegetica dell’età romantica46. In effetti, la sua scrittura è leggera, il periodare rapido, lo stile privo di erudizione e, spesso, ironico, le descrizioni “oggettive” e, di fronte alle non poche situazioni drammatiche di cui si trova spettatrice, di una crudezza senza compiacimento. Il fortunato combinarsi di diversi fattori – una buona preparazione se pur da autodidatta, passione, determinazione, intraprendenza e coraggio nell’effettuare l’esperienza del viaggiare, un intuito da esploratore tutto personale, la specificità di uno sguardo femminile capace di andare oltre quello maschile – ha consentito a Ida Pfeiffer di comporre un quadro della geografia regionale del secolo XIX (e delle modalità necessarie ad esplorarla) non secondo a quello di molti viaggiatori. All’inizio del primo giro intorno al mondo, il 17 settembre 1846, dopo circa due mesi e mezzo di traversata, Ida arriva in Brasile. Alla visita di Rio de Janeiro e dintorni dedica due mesi. L’impatto con la città deve essere stato tremendo se la prima immagine che ne costruisce è di una negatività senza appello. La colpiscono la modestia architettonica che non risparmia i palazzi più importanti, il disordine urbanistico, l’assoluta mancanza di fognature, la sporcizia, la povertà ovunque evidente, la bruttezza dei negri, i corpi degli ammalati esposti allo sguardo dei passanti, la gente che dorme nella piazza
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centrale con tutto quello che ne consegue, i cadaveri degli animali lasciati a putrefarsi per le strade. In questo squallore, la commuovono per la loro bellezza i fiori artificiali visti in un negozio, fatti di «piume d’uccello, squame di pesce e ali di insetto»… Poi, anticipando le obiezioni di un eventuale lettore incredulo di tanta bruttezza, ricorda il viaggio compiuto a suo tempo a Costantinopoli. Anche la città orientale presenta molti aspetti negativi – sporcizia, strade strette e tortuose, abitazioni misere – ma essa propone allo sguardo del viaggiatore non pochi elementi di vera magnificenza. A dimostrazione della propria obiettività la viaggiatrice li elenca: dimore maestose, cimiteri fitti di cipressi «che fanno sognare», personaggi autorevoli che passano per strada montando «magnifici destrieri», «arabi dalla nobile fisionomia», turchi «drappeggiati nei loro bei costumi», donne «i cui occhi di fuoco brillano attraverso il velo». La visione è in parte trasfigurata dal ricordo e, in parte, dal contrasto con la brutta città appena rappresentata, ma sembra utile a riconciliare la viaggiatrice con la realtà brasiliana. La descrizione di Rio prosegue più benevola: «[…] dopo qualche settimana, dice, ho potuto abituarmi ai negri e ai mulatti e ho perfino trovato fra le negre qualche bel volto, e fra le brasiliane e le portoghesi dei colori ambrati e dei visi molto espressivi: il dono della bellezza sembra più raro negli uomini». Osserva che i lavori più sporchi e faticosi li fanno proprio i negri che tuttavia sanno anche essere ottimi sarti, bravi tappezzieri, orafi raffinati quanto gli europei. Abituata a pensarli «liberi e selvaggi nelle loro foreste», la viaggiatrice si meraviglia di come si siano adattati, e con allegria, a tutti i mestieri. Conclude l’argomento affermando che la loro ignoranza è un fatto squisitamente sociale, dovuta alla mancanza di quell’istruzione che deliberatamente non viene loro offerta47. La viaggiatrice effettua quattro escursioni nei dintorni di Rio: verso Boa Vista, sul Corcovado, al castello imperiale di Christovao e presso una colonia di tedeschi nella regione di Porto d’Estrella, nella foresta. Per conoscere meglio questo ambiente, fra il 2 e il 18 ottobre effettua un vero e proprio viaggio che la porta da Porto Sampajo fino a Novo Friburgo (Morroqueimado) e oltre, fino all’ultima “base” bianca e al primo insediamento indio. Il racconto di questi percorsi è minuzioso e vi si trovano informazioni dettagliate sulle condizioni materiali del viaggiare: situazione metereologica, mezzi di trasporto eventualmente impiegati, tempi di percorrenza, guide utilizzate, stato delle strade, attraversamento dei fiumi con ponti o a guado, luoghi di sosta e accoglienza ricevuta, alimentazione. Ida è poi molto attenta a rappresentare lo spazio geografico che attraversa, sia da un punto di vista percettivo, come paesaggio che si trasforma con l’andare, sia analitico. Descrive le campagne, le caratteristiche della vegetazione spontanea, le coltivazioni rapportate con il clima della regione, gli insediamenti che si distri-
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buiscono lungo il cammino dando rigorosamente conto dei toponimi, della loro grandezza e forma, dei servizi che offrono e della popolazione che ospitano e delle sue condizioni di lavoro e di vita. Seguiamo Ida nel primo tratto di questo viaggio: 2 ottobre. Il mattino lasciammo Rio de Janeiro per andare in vapore a Porto Sampajo, lontano circa 24 miglia marine. Questo porto, situato all’imboccatura del fiume Maccacou, ha un solo palazzo e due o tre case. Affittammo qui i muli per andare alla città di Morroqueimado, distante 20 leghe […]. Arrivati alle due a Porto Sampajo, decidemmo di spingerci 4 leghe più lontano e arrivare fino a Ponte de Pinheiro. Per quasi tutta la distanza, la via passava attraverso vallate coperte di alberelli o cespugli e circondate da montagne basse. Insomma, tutta la zona aveva un aspetto molto selvaggio, e qua e là si vedevano alcuni magri pascoli e qualche miserevole capanna. La piccola città di Ponte de Cairas, dove passammo, comprende solo qualche negozio, alcune casette, una piccola chiesa e una farmacia. La piazza principale aveva l’aria di un pascolo […]. 3 ottobre. Non si poté partire prima delle sette del mattino. Qui, come in tutto questo paese, si fa fatica a mettersi in viaggio di buon’ora […]. Dopo aver impiegato circa tre ore per fare due leghe arrivammo alla grande fazenda (piantagione) di zucchero di Collegio, che assomiglia perfettamente a una tenuta padronale. Allo spazioso edificio dell’abitazione è affiancata una cappella; intorno ci sono i rustici e tutta la proprietà è cinta da un alto muro. In Brasile, la ricchezza di un possidente è valutata in base al numero degli schiavi. In questa piantagione c’erano ottocento schiavi: una fortuna considerevole […]48.
Descrivendo le coltivazioni locali, la Pfeiffer ritiene utile spiegare con precisione ai suoi lettori le caratteristiche delle piante ancora poco note in Europa: La manioca è un arbusto a stelo storto, alto 2 o 3 metri, nodoso, tenero, fragile, con le foglie palmate, i fiori rossastri che sbocciano in mazzetti in luglio e agosto; il frutto è una capsula a tre gusci, i semi sono lucenti, di un grigio biancastro. La parte più importante di questo arbusto è il tubero […]: raccolto e lavato, è grattugiato con l’aiuto di una macina irta di asperità e fatta girare dai negri finché la radice non viene completamente ridotta in polvere49.
Del caffè, oltre a descrivere le caratteristiche dell’arbusto, la colpiscono le piantagioni che, «disposte in file su colline poco elevate» hanno spezzato l’uniformità di una regione tradizionalmente coperta interamente di boschi, e rimodellato il paesaggio agrario. Ida vede bene la differenza fra i campi destinati a colture locali, non belli ai suoi occhi perché maltenuti e soffocati dalle erbacce, e gli spazi delle produzioni coloniali: «Solo le piantagioni di zucchero e di caffè sono tenute con molta cura», dice, richiamando alla nostra mente le osservazioni dello stesso tenore fatte un secolo e mezzo prima da Sibylla Merian a proposito delle piantagioni di canna del Suriname.
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Delle pratiche rurali la colpisce lo spettacolo dell’incendio della foresta, effettuato per dissodare nuove terre. L’otto di ottobre, quando il termometro registra «39 gradi al sole» la viaggiatrice attraversa «la più bella foresta vergine mai vista»: ne descrive il risplendente rigoglio di palme, alberi, orchidee che appese sui rami formano muri profumati e fioriti e conclude: Ero piena di felicità e ampiamente ricompensata delle fatiche sostenute. Un solo pensiero sopraggiunse gettando un’ombra su questo quadro pieno di vita e di luce: il debole mortale osa entrare in competizione con questa natura gigantesca per ridurla alla propria volontà. Presto, forse, questa quiete profonda e sacra sarà turbata dall’ascia rimbombante degli arditi e avidi coloni che impegneranno tutta la loro industriosità per soddisfare i crescenti bisogni della vita50.
Per dare maggior oggettività al suo resoconto (e, forse, l’opportunità di una sua consultazione spedita al lettore frettoloso), la viaggiatrice conclude, come fa sempre quando lascia un paese, la sua rappresentazione con un prospetto statistico di varie “voci”: La superficie del Brasile è di 130.000 miglia quadrate. La popolazione è di 6 milioni di abitanti di cui circa 900.000 bianchi e il resto una mescolanza di neri, mulatti, meticci e nativi o Indiani. Si contano circa 3 milioni di schiavi neri e 500.000 Indiani, fra i quali figurano i selvaggi più barbari, come i Botocudi. La città principale è Rio de Janeiro che ha 215.000 abitanti, 50 chiese e cappelle, 5 conventi, un’università, un porto eccellente e un grandissimo mercato. Il Brasile è un impero costituzionale con due camere, il senato e la camera dei rappresentanti […]. La religione dominante è la cattolica; la lingua più diffusa il portoghese […]. L’unità monetaria è il reis […]. La distanza da Amburgo a Rio de Janeiro può essere valutata circa 8-9 mila miglia marine51.
Le pagine del diario dedicate all’ex colonia portoghese sono esemplari della mappa mentale che guida la rappresentazione di tutte le regioni visitate e dello sguardo eminentemente geografico e sociale di Ida Pfeiffer. Nell’insieme i suoi resoconti sono riconosciuti come i più geografici della letteratura odeporica femminile ottocentesca. «Sarebbe più facile indicare le regioni in cui non ha messo piede che elencare quelle che ha visitato. Le relazioni di viaggio sono da sole un corso quasi completo di geografia», afferma Lavollée che, introducendo per i lettori della «Revue des Deux Mondes» le pagine in cui la Pfeiffer ha mostrato più che mai il suo «genio di viaggiatrice», cioè quelle consacrate alle isole della Sonda e all’arcipelago della Malaysia, avverte: «Non è mia intenzione seguirla passo passo nelle sue continue peregrinazioni […], conviene fermarsi con lei nelle regioni in cui essa ha potuto raccogliere, grazie a un soggiorno più prolungato, impressioni più certe e più profonde»52.
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Non si può fare, anche qui, diversamente: la produzione odeporica di Ida Pfeiffer è tale da non poter essere condensata in un capitolo di un libro; essa merita la pubblicazione anche in Italia e uno studio critico più completo di quello che può essere qui sviluppato. Il suo desiderio di appropriarsi conoscitivamente del mondo intero rende il suo viaggiare ancora “orizzontale” rispetto all’approccio di una David-Néel che vedremo, non molti anni dopo, dedicare quasi l’intera vita alla conoscenza geografica e culturale di una sola parte dello spazio asiatico: il Tibet. Tuttavia, anche alla Pfeiffer non sfugge l’importanza dell’approfondimento. Paragonati a quelli di alcuni viaggiatori anche abbastanza apprezzati, i suoi “giri del mondo” risultano spesso, in termini di tempo dedicato all’esplorazione e in termini di informazioni prodotte, superiori, specialmente nel caso di luoghi che sa essere meno conosciuti53. Al mondo indonesiano appartengono, come si è visto, le pagine più apprezzate dai suoi contemporanei. Per queste la ricorda perfino Salgari ne I naufragatori dell’Oregon. I protagonisti del romanzo salgariano sono ospiti di una tribù di dayak nel Borneo e si vedono offrire, su una stuoia, «le cartilagini degli orecchi, le palme delle mani e il fegato di due [uomini] decapitati». «Anche al Signor Van-der-Busch, che nel 1878 visitò i Dayachi presso i confini della colonia olandese di Pontianak, venne fatta una simile offerta da parte di un capo. Già Leyden, Tromp, il Dottor Reidel, residente olandese di Holontalo, Temmingh e la Pfeiffer, avevano assistito più volte a simili scene di cannibalismo fra i Dayachi del centro», aggiunge in nota Salgari, mettendo in fila una serie di nomi di esploratori e amministratori coloniali e, unica donna, la nostra turista 54. Nel luglio del 1852 Ida Pfeiffer si dedica all’esplorazione di Sumatra. Siamo, questa volta, al secondo anno del secondo giro del mondo, durato complessivamente quattro anni. Come sempre, il resoconto della perlustrazione effettuata di villaggio in villaggio è molto dettagliato. Lo schema descrittivo portante (informazioni su clima e morfologia, distanze e altitudini, consistenza demografica e attività degli abitanti eccetera) si arricchisce di particolari. Così Ida Pfeiffer ci ha lasciato la descrizione, per esempio, delle singole abitazioni di Sumatra, costruite in legno vivacemente dipinto, appoggiate su palafitte, divise in una grande stanza e in alcune più piccole all’interno delle quali, dal momento che ne indica l’uso, vediamo muoversi i componenti della famiglia. La viaggiatrice li conta, poi conta i villaggi incontrati e il numero di case (e quindi di famiglie) della zona, arrivando così a compilare i suoi personali censimenti. Come molte altre viaggiatrici, getta uno sguardo speciale, ma non acritico, sulla condizione delle donne: Le donne lavorano molto più degli uomini. Nei lavori di manutenzione delle strade ho contato generalmente tre donne contro un uomo; nelle piantagioni di caffè
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sono loro a svolgere la maggior parte del lavoro; esse, inoltre, tagliano il riso nei campi poi lo battono facendolo uscire dalle spighe. Sono ancora loro a portare ogni tipo di fardello a casa. Ne ho viste spesso camminare con difficoltà con un carico sulla testa, un secondo sulle braccia, e un bimbo appeso alle spalle, mentre il marito se ne andava a mani vuote. Con questo, non voglio dire che gli uomini non facciano assolutamente nulla, ma essi non lavorano certamente neppure la metà delle donne. Lavorano i campi con i bufali e seminano il riso, compito certamente faticoso dal momento che è necessario, per farlo, stare a lungo immersi nell’acqua fino alle cosce55.
Prima di Sumatra, la Pfeiffer si era dedicata al Borneo. Il famoso incontro con i dayak era avvenuto nel gennaio del 1852, proprio all’inizio del suo secondo giro del mondo quando, proveniente da Città del Capo, era sbarcata a Sarawak (oggi Kuching), sulla costa nord-occidentale dell’isola. Come avremo modo di osservare per la donna di scienza Mary Somerville, vediamo Ida Pfeiffer, figura di donna molto religiosa, convinta liberale, appassionata antischiavista, esprimere nei confronti delle molteplici alterità incontrate giudizi contradditori che spesso scivolano nell’eurocentrismo e talvolta in osservazioni di stampo razzistico. Non si può del resto pretendere che essa sia del tutto esente dalla mentalità moralistica e dai pregiudizi tipici della sua epoca. L’esperienza del Borneo si rivela invece, sul piano della simpatia per quel popolo, sorprendente, tanto da aver indotto Ritter a pensare di lei che «sembra per certi aspetti preferire agli uomini civilizzati i popoli selvaggi»56. L’osservazione di Ritter è calata in una cultura ottocentesca del viaggio raramente attenta all’umanità altra: non accade tanto facilmente di trovare, nelle relazioni stese dai molti esploratori e viaggiatori che nel corso dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento hanno percorso ogni regione del pianeta, il senso della relatività culturale e della reciprocità della curiosità che la viaggiatrice viennese ha saputo esprimere. Dapprima navigando lungo la costa, poi risalendo il corso dei fiumi in un itinerario che le ricorda le descrizioni humboldtiane dell’America57, Ida Pfeiffer raggiunge il cuore della regione abitata dai cacciatori di teste. Ecco come racconta il suo incontro con le tribù dei dayak: Il Signor Lee era stato informato del mio arrivo e aveva comunicato la notizia agli indigeni che affluirono da ogni parte per vedermi, perché nessuna donna bianca era mai penetrata in quelle regioni. Fu necessario prestarmi alla loro curiosità e lasciarmi contemplare dal mattino alla sera. Ma i visitatori, sia malesi che daiachi, si mostrarono molto riservati: invece che importunarmi con delle domande, si limitarono a porgermi la mano, e a sedersi intorno a me guardandomi in silenzio, con un sorriso a bocca aperta […]. Il giorno dopo restituii qualche visita. Trovai presso i Malesi tutto organizzato come a Sarawak, così non restai a lungo con loro. Preferii visitare una tribù di Dayachi indipendenti […].
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Lo stesso giorno, andai a fare visita a una tribù insediata sul fiume più a monte. Vi trovai le stesse cose della prima, ad eccezione di due teste umane tagliate di fresco. L’altra tribù non era certo priva di simili trofei, ma erano già vecchi e diventati vere teste di morto, mentre queste, tagliate pochi giorni prima, avevano un’aria spaventosa. Il fumo li aveva anneriti come carbone, la carne era mezza rinsecchita, la pelle intatta, le labbra e le orecchie incartapecorite; la bocca spalancata lasciava orrendamente vedere le mascelle. Le teste erano ancora coperte da una folta capigliatura; una di esse aveva gli occhi aperti che si intravedevano mezzi rinsecchiti, rientrati nelle orbite. I Dayachi le tolsero dalla rete nella quale le avevano appese per mostrarmele; fu uno spettacolo orribile che non si cancellerà mai dalla mia memoria. Tuttavia essi tagliano le teste così vicino al tronco che non ci si può impedire di riconoscere loro una estrema abilità. Tolgono poi il cervello dall’occipite […]. Io rabbrividii, ma non potei fare a meno di riconoscere che noi Europei, lungi dall’essere superiori a questi selvaggi tanto disprezzati, valiamo ancora meno di loro. Non è forse ogni pagina della nostra storia piena di misfatti, morti, tradimenti di ogni genere? Che cosa esiste di paragonabile alle guerre di religione in Germania e Francia, alla conquista dell’America, al diritto del più forte e all’Inquisizione? E anche in quest’epoca in cui siamo, forse, in apparenza, più educati e civili, siamo per questo meno crudeli? Con le teste sacrificate all’ambizione e alla sete di potere da moltissimi e famosi Europei potrebbero essere ornati, non poche e miserevoli capanne come quelle dei Dayachi ignoranti e barbari, ma i saloni di palazzi immensi. Quante migliaia di vite umane sono state immolate per soddisfare il desiderio di conquista dei grandi governanti! Non è forse la maggior parte delle guerre iniziata per appagare la cupidigia e l’ambizione di un solo uomo? Io sono veramente stupita di vedere come noi Europei osiamo lanciare anatemi contro i poveri selvaggi che uccidono i loro nemici come noi uccidiamo i nostri, ma che possono almeno essere giustificati dal fatto di non avere né una cultura né una religione che insegni loro la bontà, il perdono e l’orrore del sangue […]. In seguito mi addentrai nella foresta per mettermi in cerca di insetti. Ero seguita da una torma di indigeni, soprattutto da orde di ragazzini. Volevano vedere dove andavo e a che cosa servisse il mio retino da farfalle e la scatola che portavo sempre con me per riporre gli insetti. Erano altrettanto curiosi di osservare i miei gesti e i miei movimenti quanto io di osservare i loro. Cominciarono a burlarsi di me vedendo con quale cura e passione rincorrevo la più piccola farfalla o il minimo moscerino; ma appena feci loro capire che mi servivano per preparare dei medicinali, smisero di ridere e quasi tutti mi aiutarono nella mia caccia. Era necessario parlare in questi termini per essere alla portata del loro spirito58.
In una nota, ironicamente, precisa: Io trovavo del tutto naturale vedere che questi selvaggi mi deridevano; la stessa cosa mi è accaduta tempo dopo nelle colonie europee e perfino negli Stati Uniti d’America, da gente che passa per civilizzata. Talvolta costoro spingevano il sarcasmo a tal punto che finii per chiedere loro se non avevano mai visto un museo e, nel caso, se pensavano che gli animali esposti vi fossero arrivati da soli59.
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Note 1. Bildarchiv ÖNB, NB 504.188, Wien. Fotografia di Franz Hanfstaengl, 1856. 2. Erroneamente in qualche nota biografica è invece indicata la data del 1795 che, derivata dal Vapereau (Dictionnaire Universel des Contemporains, Hachette, Paris 1857), è stata ripetuta nelle introduzioni alle prime edizioni francesi dei due viaggi intorno al mondo. L’errore è a sua volta ripreso dal «Bulletin de la Société de Géographie», 4ème série, XV, 1858 (1), p.399. Gli stessi documenti ripetono un’altra inesattezza affermando che la Pfeiffer inizia a viaggiare dopo la morte del marito invece che, come in effetti fu, dopo la separazione. 3. Voyages d’Ida Pfeiffer. Relations Posthumes: 1842-1859. Texte inédit. La vie d’Ida Pfeiffer, traduzione di M.W. de Suckau, «Le Tour du Monde», Hachette, Paris 1861, deuxième semestre, p. 303. 4. C. Lavollée, Voyageurs modernes. Mme Ida Pfeiffer en Malaisie, «Revue des Deux Mondes», tome XIX, Paris 1859, pp. 906-907. 5. Marino Raicich, Liceo, università, professioni: un percorso difficile, in Simonetta Soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Franco Angeli, Milano 1989, p. 147 e ss. 6. Ida Pfeiffer, Mon second voyage autour du Monde, Hachette, Paris 1857, p. 70. 7. Ida Pfeiffer, Voyage d'une femme autour du Monde, Hachette, Paris 1858, p. 148. 8. C. Lavollée, op. cit., p. 909. 9. Voyages d’Ida Pfeffer, cit., p. 303. Attilio Brilli, Quando viaggiare era un’arte, il Mulino, Bologna 1995. 10. Voyages d’Ida Pfeiffer…, cit., p. 303. 11. Albert Montémont, Voyage d’une femme autour du Monde, «Bulletin de la Société de Géographie», quatrième série, tome XV, 1858 (1), p. 401. 12. Ida Pfeiffer, Reise nach Madagaskar, Jonas Verlag, Marburg 1980, pp. 9-37. (Edizione originale, Carl Gerold’s Sohn, Wien 1861). Dal punto di vista della ricostruzione biografica l’edizione del viaggio in Madagascar è preziosa perché contiene, oltre alla Biographische Skizze, anche una premessa scritta da Rio de Janeiro l’8 luglio 1860 con cui il figlio secondogenito Oscar ricorda la madre, una conclusione dello stesso Oscar e un’appendice con le lettere di Humboldt. Nella versione francese del 1862, tradotta da M.W. de Suckau, lo “schizzo” appare come Notice biographique d’après ses propres notes alle pp. 1-29. Cfr. Ida Pfeiffer, Voyage à Madagascar, Hachette, Paris 1862. Lo stesso testo sta in Voyages d’Ida Pfeiffer…, cit., pp. 289-303. 13. Voyages d’Ida Pfeiffer…, cit., p. 289. 14. Ibidem, p. 290. 15. Ibidem, p. 291. 16. Ibidem, p. 293. 17. Ida Pfeiffer, Reise in das Heilige Land, Kostantinopel, Palästina, Ägypten im Jahre 1842, Promedia, Wien 1995, p. 15. 18. Ida Pfeiffer, Reise einer Wienerin in das heilige Land, nämlich: von Wien nach Kostantinopel, Dirnböck, Wien 1844. 19. Ida Pfeiffer, Reise nach dem skandinavischen Norden und der Insel Island im Jahre 1845, Gustav Heckenast, Pesth 1846. 20. Ida Pfeiffer, Eine Frauenfahrt um die Welt, Carl Gerold, Wien 1850. 21. Ida Pfeiffer, Meine zweite Weltreise, Carl Gerold’s Sohn, Wien 1856. 22. Un’accurata conoscenza geografica del Madagascar si ha soltanto nella seconda metà dell’Ottocento grazie al francese Alfred Grandidier (1836-1921) che si dedica all’esplorazione e descrizione dell’isola dopo il 1863. Prima di lui, e quindi prima della Pfeiffer, l’isola era stata esplorata nella seconda metà del Settecento da Nicolas Mayeur (1747-1813) ancora oggi poco studiato.
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23. Ida Pfeiffer, Voyage à Madagascar (avril-septembre 1857), Introduction de Faranirina Esoavelomandroso, Editions Karthala, Paris 1981, pp. XIII-XIV. 24. Alexander von Humbodt, Correspondance scientifique et littéraire recueillie, publiée et précédée d’une notice et d’une introduction par M. De La Roquette, Doyen et Président honoraire de la Société de Géographie de Paris, suivie de la biographie des correspondents de Humboldt, Duroc, Paris 1865, p. 256. 25. Un documento del 14 dicembre 1852 conservato nell’archivio del Museo conferma il valore degli «invii di centinaia di specie, tra le quali se ne trovano molte ancora completamente sconosciute, che perciò non sono un guadagno solo per questo ente, ma anche una conquista per la scienza». Citato da Chiara Lombardi, La percezione del mondo nei diari della viaggiatrice austriaca Ida Pfeiffer, Tesi di laurea, Università di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 2001-2002, p. 149. 26. Ida Pfeiffer, Mon second…, cit., p. 466. 27. Alexander von Humboldt, Correspondance…, cit., p. 290. 28. Ibidem. 29. Ibidem. 30. La lettera di Ritter è pubblicata in «Bulletin de la Société de Géographie», 4ème série, XII, 1856, p. 73. 31. Si tratta dell’antico precettore Emil Trimmel. 32. Ida Pfeiffer, Voyage à Madagascar (avril-septembre 1857), cit., p. 2. L’episodio è registrato dal «Bulletin». Cfr. Albert Montémont, op. cit., pp. 400-401. 33. Ida Pfeiffer, Voyage à Madagascar, cit., p. 18. 34. «Bulletin de la Société de Géographie», 4ème série, XIV, 1857, p. 511. 35. «Bulletin de la Société de Géographie», 4ème série, XV, 1858, p. 399 e ss; «Bulletin de la Société de Géographie», 4ème série, XVI, 1858, p. 368; «Bulletin de la Société de Géographie», 4ème série, XVII, 1859, pp. 108-110. 36. Le lettere, rispettivamente del 18 dicembre 1852, 14 e 30 maggio 1853, indirizzate ai parenti, sono manoscritte e conservate nella Wiener Stadt-Und Landesbibliothek. Citate da Chiara Lombardi, op. cit., pp. 140-141. 37. Ida Pfeiffer, Reise in das Heilige…, cit., p. 187. 38. Un esempio: per non essere da meno degli uomini durante il viaggio in Terrasanta si lancia a cavallo senza mai averlo fatto prima. Sul tema della “sfida” cfr. Rita Calabrese, Agli occhi di una figlia d’Occidente. I viaggi in Oriente di Ida Pfeiffer e di Ida Hahn-Hahn, in Sconfinare. Percorsi femminili nella letteratura tedesca, Luciana Tufani Editrice, Ferrara 2003, p. 143. 39. Ida Pfeiffer, Voyage d’une femme…, cit., p. 189. 40. Voyages d’Ida Pfeiffer…, cit., p. 294. 41. Ida Pfeiffer, Mon second voyage…, cit., pp. 76-77. 42. Ida Pfeiffer, Voyage d’une femme…, cit., pp. XI-XII. 43. Voyages d’Ida Pfeiffer…, cit., p. 295. 44. Ida Pfeiffer, Voyage d’une femme…, cit., p. XII. 45. Ibidem, pp. V-VI. 46. Anna Guarducci, Una geografa viaggiatrice dell’Ottocento: Ida Pfeiffer sulle orme di Humboldt, in AA.VV. Rappresentazione e pratiche dello spazio in una prospettiva storico-geografica, a cura di Graziella Galliano, Centro Italiano per gli Studi Storico-Geografici, Brigati, Genova 1997, pp. 439-450. 47. Ida Pfeiffer, Voyage d’une femme…, cit.: cap. II interamente dedicato a Rio. 48. Ibidem, pp. 64-66. 49. Ibidem, p. 66. 50. Ibidem, p. 75. 51. Ibidem, pp. 48-49.
«El mundo es poco». Ida Pfeiffer
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52. C. Lavollée, op. cit., pp. 909-910. 53.Si è preso a questo proposito come esempio l’esperienza maschile abbastanza attinente a quella della Pfeiffer per l’epoca, di poco successiva, in cui è stata effettuata e per essere stata costituita da un duplice giro del mondo, del viaggiatore milanese Enrico Besana. Si può osservare come egli compia il suo primo giro del mondo (partendo non solo ma con un amico di famiglia nell’aprile del 1868 alla volta del Sud-Est asiatico, Saigon, Pechino, quindi visitando per breve tempo Tokyo, per attraversare infine il Pacifico e visitare California, Montagne Rocciose, la regione dei Laghi Salati, il Canada meridionale e la costa orientale degli States da dove rientra in Europa) in sei mesi – mentre Ida impiega due anni – e il suo secondo viaggio (nel 1872 Besana da Parigi raggiunge l’America settentrionale, quindi le Hawai, la Nuova Zelanda, l’Australia, per rientrare in patria attraverso Ceylon e Bombay) compiuto in dieci mesi, di fronte al periodo di oltre quattro anni del secondo giro del mondo della Pfeiffer. Ma oltre a un raffronto più puntuale dei tempi e degli spazi percorsi, sarebbe interessante confrontare lo spirito, i modi e i mezzi del viaggiare. Per i viaggi del Besana cfr. Francesco Surdich, Attorno al mondo con Enrico Besana (1857-1876), in Flavio Lucchesi, L’esperienza del viaggiare. Geografi e viaggiatori del XIX e XX secolo, Giappichelli, Torino 1995, pp. 93-115. 54. Emilio Salgari, I naufragatori dell’Oregon, Speirani, Torino 1901, p. 224. In un altro romanzo Salgari ricorderà un’altra viaggiatrice, Alexandrine Tinne, raccontandone la sfortunata vicenda. Cfr. Emilio Salgari, I predoni del Sahara, Donath, Genova 1903, pp. 167-170. 55. Ida Pfeiffer, Mon second voyage…, cit., p. 172. 56. Lettera di Ritter, citata. 57. Ida Pfeiffer, Mon second voyage…, cit., pp. 69-70. 58 . Ibidem, pp. 59-63 e 65. 59. Ibidem, p. 65, nota.
IV. Meccanica “Rosa”. Mary Somerville
La Natura era bella o crudele? cominciò a riflettere; quindi si domandò in che cosa consistesse questa bellezza; se esistesse nelle cose in sé, o soltanto nell’animo umano; e così avanti, fino alla natura della realtà, la quale la condusse verso la Verità. Virginia Woolf, Orlando
Se l’astronomo inglese John Herschel (1792-1871) non avesse distolto Mary Somerville dall’idea di dare alle fiamme il manoscritto di Physical Geography, incoraggiandola invece a portarlo a termine, quello che risulta essere il primo vero e proprio trattato geografico scritto da una donna sarebbe andato perduto. Per fortuna non è andata così, ma si può ben capire come la pur affermata e quasi settantenne signora scozzese – matematica, astronoma, naturalista e geografa – fosse preoccupata dal trovarsi a competere con Alexander von Humboldt, che in quegli stessi anni stava scrivendo il Cosmos1. Physical Geography esce a Londra nel 18482, pertanto, mentre lavora a quest’opera, la Somerville ha potuto certamennte vedere almeno il primo dei cinque volumi che, da parte sua, il «patriarca della geografia fisica», «il nobile esempio [dei] viaggiatori moderni più illustri»3, va componendo4. Imprevedibilmente, gli esili percorsi della geografia femminile del secolo XIX incrociano un’altra volta quello robusto del geografo tedesco che la nostra studiosa ha avuto modo di incontrare a Parigi nel 1817. Humboldt ha quarantotto anni e si trova ancora, dopo la caduta di Napoleone, nella capitale francese impegnato nelle conferenze all’Institut de France e al Muséum d’Histoire Naturelle e nel lungo lavoro di edizione dei risultati del grande viaggio americano5; la scienziata scozzese ne ha trentasette, è al suo primo viaggio fuori dall’Inghilterra e, oltre a scoprire Louvre, Notre Dame e Tuilieries, fa il suo ingresso in una delle comunità scientifiche europee di miglior tradizione per conoscerne spazi e uomini: l’Institut, il Muséum, il Jardin des Plantes, l’Istituto di mineralogia, l’Osservatorio astronomico, Humboldt, Laplace, Gay-Lussac, Arago…6. La biografia di Mary Somerville, nome sempre presente nei dizionari scientifici, e con grande spazio se si tratta di opere dedicate alle scienziate donne7, è stata ricostruita con ricchezza di particolari8. A un’ampia documentazione che è il risultato di una lunga esistenza ricca di relazioni personali
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e professionali, si aggiunge l’autobiografia che la studiosa ha voluto lasciare. Aveva presto cominciato a raccogliere le proprie carte, compresi gli appunti di viaggio, e nel 1867 si era dedicata a questa scrittura. Subito dopo la sua morte, la figlia Martha si era occupata, nei modi che più avanti vedremo, della pubblicazione del manoscritto9. Dall’esame di questi materiali saltano all’occhio due fatti interessanti per questa nostra storia della geografia femminile: l’attribuzione, da parte della Somerville, di un ruolo fondamentale all’Italia, come spazio geografico e come ambiente scientifico; per contro, la dimenticanza, da parte della geografia italiana novecentesca, di questa figura, ancora di più di quanto è avvenuto nel caso di Ellen Semple. L’Italia, fin da principio meta privilegiata dei viaggi di Mary Somerville, ne divenne di fatto, come è accaduto per più d’una delle viaggiatrici, la residenza definitiva. Nel suo caso fu anche il luogo in cui scrisse le ultime opere importanti fra cui proprio la Geografia Fisica, uscita per la prima volta a Londra ma tradotta ed edita più volte anche da noi. La studiosa era molto conosciuta nell’ambiente scientifico, anche geografico. All’adunanza generale della Società Geografica Italiana del 2 febbraio 1873 il vice-presidente geografo e senatore del Regno Francesco Miniscalchi Erizzo le dedicò, in occasione della morte, un lunghissimo discorso commemorativo che non era semplicemente celebrativo ma entrava nel merito della sua opera dando conto dei contenuti10. Ma come era avvenuto che la conservatrice e molto maschile Reale Società Geografica Italiana, ritenesse uno dei suoi «più belli e illustri ornamenti» questa signora «di taglia mezzana, gracile e delicata di corpo ma sana e capace di sopportare grandi fatiche di corpo e di mente», cui la natura aveva dato «non men belle le forme che acuto l’ingegno»? Questa donna singolare – continuava il relatore – che aveva passate le prime ore del giorno meditando i misteri e le leggi della natura, che si era affaticata la mente ne’ calcoli più astrusi e sublimi, che si riposava leggendo Sofocle ed Erodoto, Virgilio ed Orazio nel testo originale, coltivava il pennello con particolare maestria […], prendeva interesse alla politica ed assisa nelle ore vespertine e della sera fra le sue figlie spesso con un lavoro in mano […], favellando delle cose più comuni, perfino di mode, prendendo parte ai piaceri della vita ne’ conviti e nelle veglie, senza lasciar traspirar mai che sotto quei modi facili e cortesi vi fosse qualcosa di superiore ad una donna della più scelta società11.
Mary Fairfax era nata il 26 dicembre 1780 a Jedburgh, un piccolo centro della Scozia, in una famiglia di tradizioni illustri, ma di non grandi ricchezze. Il padre, William George Fairfax (1739-1813), è ammiraglio e, date le lunghe assenze in mare, è la madre, Margherita Charters, ad occuparsi dell’educazione dei tre figli maschi e della bambina. Le biografe sottolineano il fatto che
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fino ad otto anni essa era stata istruita solo «nel compitare la Bibbia e recitare il Catechismo»12; è, di fatto, analfabeta. Iscritta dal padre prima a una scuola molto costrittiva (di cui Mary racconterà tutta la sgradevolezza) poi a un’altra, com’era consuetudine per le donne le vengono forniti strumenti culturali limitati: acquisisce nozioni elementari di aritmetica, lettura e scrittura ed è avviata alle solite competenze femminili della pittura, cucito e cucina. Più tardi, per proprio conto, apprenderà il greco e il latino. Cominciando con l’assistere, «mentre sembrava tutta intesa a femminili lavori», alle lezioni di geometria impartite al fratello, affronterà da autodidatta anche lo studio delle discipline scientifiche, per le quali rivela una «singolare inclinazione»13. La figura di Mary Somerville è emblematica di una capacità tipica delle donne di realizzare la propria emancipazione intellettuale e personale senza venir meno, o rinunciare, ad aspirazioni e doveri più tradizionali. Nel 1804 contrae un primo matrimonio con un cugino, il capitano Samuel Greig. L’unione non risulta felice: Greig la porta a Londra dove Mary si sente sola e meno indipendente14. Più tardi, nell’autobiografia, avrebbe scritto: Ero sola tutto il giorno, quindi continuavo a coltivare i miei interessi tra i quali la matematica, ma con grande sforzo; anche se mio marito non mi impediva di studiare, non potevo contare sul suo aiuto, a causa della scarsa opinione che egli nutriva nei confronti delle capacità del mio sesso e del suo assoluto disinteresse verso le scienze di qualsiasi tipo. Presi lezioni di francese ed imparai a parlarlo abbastanza da essere capita15.
Nel 1805 ha un primo figlio e nel 1807 il secondo rimanendo subito dopo vedova. Torna in Scozia e con l’indipendenza acquisita grazie allo stato vedovile e alla discreta eredità lasciatale dal marito, può finalmente dedicarsi agli ambiti studi pur non smettendo di occuparsi dei bambini. Affronta l’Astronomia di Ferguson, i Principia Mathematica di Newton, la Meccanica Celeste di Laplace. Se molti la considerarono un’eccentrica, riscuote invece l’attenzione e il sostegno dei maggiori scienziati. In questo periodo il suo mentore più importante è il matematico William Wallace (1768-1843): con lui Mary inizia un lungo rapporto anche epistolare tutto basato su argomenti scientifici con lo scambio di problemi e soluzioni16. Nel 1812 Mary si sposa una seconda volta con un altro cugino, William Somerville, tornato dal Canada dove era stato diversi anni per lavoro. Aveva una formazione scientifica (completata con una laurea in medicina) ed era come lei vedovo con due figli. Le affinità non finivano qui: i loro punti di vista sulla politica, sulla religione, sulle riforme sociali coincidevano. Quando si sposano, egli ha quarant’anni e ha viaggiato molto; Mary è poco più che trentenne e, a parte i tre anni trascorsi infelicemente a Londra, non ha mai
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messo piede fuori dalla Scozia. Dal matrimonio nascono nel 1813 Margaret (che morirà giovane), nel 1815 Martha e nel 1817 Mary Charlotte. Nonostante le alterne difficoltà economiche l’unione risulterà un lungo sodalizio affettivo e scientifico che durerà fino alla morte di lui avvenuta nel 1860. Somerville è molto più interessato alle scienze che alla propria attività in campo sanitario, esercitata per vivere, ma a differenza della moglie coltiva gli studi senza dare loro una veste ufficiale. Incoraggiata, questa volta, da un marito vicino ai suoi interessi, nonostante le maternità Mary si dedica invece allo studio ben intenzionata a farsi valere. Insieme, i due coniugi seguono corsi di mineralogia e frequentano ambienti e uomini di scienza. Il dottor Somerville andava fiero delle conoscenze e delle capacità della moglie e la aiuta anche a formare una propria biblioteca specializzata17. Molti anni dopo Mary avrebbe ricordato: Avevo trentatré anni quando comprai questa eccellente piccola biblioteca. Facevo fatica a rendermi conto di possedere un simile tesoro ricordando il giorno in cui vidi il misterioso termine “algebra” per la prima volta ed il lungo arco di anni in cui avevo perseverato, quasi sfiduciata; mi insegnò a non disperare18.
Una bas-bleu con i numeri Nel “fare geografia” da parte delle donne la dimensione odeporica ha generalmente travalicato, o surrogato, quella scientifica (almeno fino ad Ellen Semple che appare, da questo punto di vista, un interessante esempio di equilibrio). Nel caso di Mary Somerville è accaduto il contrario. I viaggi hanno rappresentato senz’altro esperienze importanti culturalmente e per le preziose relazioni intrecciate con la società scientifica europea del suo tempo, mentre non ebbero riflessi diretti sulla geografia della Somerville che è essenzialmente il risultato di un lavoro en chambre. La Geografia Fisica, scritta negli anni del soggiorno italiano, è un trattato di carattere generale che la studiosa costruì su varie fonti e sulla base delle conoscenze astronomiche, geologiche e naturalistiche acquisite a tavolino. In questo senso, nella storia della geografia femminile (ma non a caso essa era matematica e astronoma prima che geografa), la Somerville rappresenta un’anomalia. Le sue esperienze di viaggio sono del resto limitate a Francia, Svizzera, Germania e Italia. Anche il fatto che di queste esperienze non abbia steso, e poi pubblicato, un organico e completo resoconto destinato di sicuro, data la sua notorietà, al successo, fa riflettere. Sarei tentata di dire che Mary Somerville, nello sforzo di essere e farsi valere donna di scienza, non si è dedicata a un genere letterario che per la sua incerta fama poteva in qualche modo sminuire i meriti acquisiti in un campo assai duro per il suo sesso. E che, date le maternità e l’attaccamento alla famiglia, fu per lei più “semplice” fare la geografa in biblioteca e laboratorio che la viaggiatrice alla Pfeiffer. Interpreta-
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zioni a parte, la sua passione e competenza scientifiche sono fuori di discussione. Ma il personaggio Somerville, nella sua “eccentricità”, rispetto alle grandi viaggiatrici, conferma, rovesciandola, la “regola”, che ci riporta al Piccolo principe dell’introduzione, per cui le donne non riuscirono a essere pienamente le due cose: viaggiatrici importanti e donne di scienza in campo geografico. Vedremo, con Francesca Goldoni, in che misura la Semple ci riuscì. I viaggi di Mary Somerville appartengono a due periodi: gli anni 181718 e quelli che vanno dal 1838 in poi. Nel 1817 si imbarca a Dover per Calais assieme al marito, al cognato, alla figlia di quattro anni e alla balia. Per Mary si tratta del primo viaggio all’estero. Il gruppo giunge a Parigi il 21 luglio e alloggia in un albergo di Rue de la Paix. William Somerville, che era già stato a Parigi nel 1815 e aveva vissuto diversi anni in Quebec, parla bene il francese ed è un’ottima guida per la moglie. A quanto riferisce la Patterson, che ne ha analizzato gli appunti di viaggio, Mary trasferisce nello scritto in modo vivace e spontaneo la meraviglia provata di fronte a una realtà per lei del tutto nuova, racconta l’organizzazione delle giornate, manifesta uno spiccato interesse per l’arte e per l’architettura, riferisce le sue impressioni sulla società parigina ancora segnata dalla sconfitta napoleonica. Nel diario sono ben delineate anche le sue «passioni» scientifiche: i numeri, la natura, la tecnologia19. L’accoglienza dei Somerville da parte del mondo scientifico francese è l’aspetto più rilevante del loro soggiorno. Furono ricevuti e trattati da studiosi di alto livello, furono accompagnati a visitare l’Institut, l’Accademia delle Scienze, il Museo di Storia Naturale, l’orto botanico, l’osservatorio. Furono introdotti nei circoli culturali più importanti e poterono conoscere, come si è detto, Laplace, Arago, Gay-Lussac, Humboldt e diversi altri personaggi di spicco. Dopo il soggiorno a Parigi, i Somerville si recano a Ginevra e Berna. Oltre a dedicarsi ad osservazioni geologiche, mineralogiche e meteorologiche, anche in Svizzera hanno modo di incontrare intellettuali e naturalisti che sappiamo essere fra i maggiori dell’epoca: de Candolle, Pictet, Sismondi20. Nel settembre del 1817, dopo due mesi di lontananza da casa, Mary e la figlia si ammalano. Ritornano tutti a Londra dove restano alcuni mesi. In linea con la tendenza ormai collaudata del turismo sanitario, i Somerville decidono di passare l’inverno in Italia. Con loro partono le sorelle Barclay che si erano prese cura di Mary. Il gruppetto attraversa le Alpi al Sempione e fa sosta a Bassano, Venezia, Padova, Bologna e Firenze21. Tra i molti personaggi che i Somerville incontrano in questo viaggio, quelli appartenenti al mondo scientifico con cui allacciano più stretti rapporti sono il modenese Giovanni Battista Amici (1786-1863) e il naturalista e botanico bassanese Alberto Parolini (1788-1867), conosciuto a Parigi dove egli aveva insistito perché gli facessero visita in Italia. A Bassano, Parolini cura-
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va un bel giardino botanico e fu un ospite molto premuroso durante i tre giorni che i Somerville trascorsero in sua compagnia. L’incontro con Amici avvenne sulla via del ritorno, nel giugno 1818, quando la coppia si fermò per qualche giorno a Modena e lo scienziato mostrò loro alcuni strumenti «eccellenti» incluso il suo speciale microscopio. Amici, che si era laureato come ingegnere e architetto a Bologna, insegnava a Modena mentre portava avanti il suo interesse principale: la costruzione e il miglioramento degli strumenti ottici. Il suo nuovo microscopio, superiore a tutti quelli disponibili all’epoca in Gran Bretagna, lo aveva giusto reso famoso come ottico e come botanico. Nelle lettere di questo periodo Mary non nomina Domenico Morichini (1773-1836) le cui ricerche sulla forza magnetica dei raggi ultravioletti del sole erano state riportate nello Scots Magazine nell’agosto del 1817. Solo alcuni anni più tardi Mary avrebbe avviato una feconda corrispondenza con Morichini e intrapreso lei stessa esperimenti sul magnetismo. Le lettere contengono osservazioni di carattere naturalistico su eruzioni vulcaniche, fenomeni meteorologici, nuovi animali e piante, ma per la maggior parte registrano le informazioni e le impressioni che infittiscono di norma i diari “granturistici”: antichità, dipinti, sculture, concerti, architetture, panorami emozionanti, popoli e costumi. I Sommerville venivano ben accolti ovunque si recassero: a Venezia, al ricevimento in casa della contessa Albrizzi, incontrano Lord Byron, a Bologna si intrattengono con il poliglotta Mezzofanti, a Firenze conoscono la contessa d’Albany. A Roma, dove giungono prima di Natale, Mary è ricevuta da Pio VII. Fa numerose conoscenze che sarebbero durate a lungo negli anni, visita gallerie d’arte, prende appunti dalla guida che avevano ingaggiato. Dopo Roma, si trasferiscono a Napoli, dove trascorrono gli ultimi due mesi della loro permanenza in Italia. Visitano Pompei e, con la piccola Margaret, Mary si arrampica sul Vesuvio che attraeva scienziati e viaggiatori per la continua attività. Alla metà di aprile del 1818, dopo dieci mesi di lontananza, i Somerville riprendono la via del ritorno arrivando in Inghilterra nell’autunno. Gli anni successivi al viaggio sono, per Mary Somerville, anni intensi di studio, ricerca, scrittura, rapporti con la comunità scientifica inglese che ruotava intorno alla Royal Society. Nel suo lavoro, è sostenuta e assistita da William Hyde Wollaston (1773-1829), fra i più stimati nell’Inghilterra degli anni Venti dell’Ottocento. Intrattiene scambi epistolari con gli scienziati conosciuti in Francia e Italia, in particolare con Amici che la fornisce del suo prezioso microscopio. Si dedica allo studio sperimentale del magnetismo per dimostrare che la luce solare è sorgente di potenza magnetica. I risultati ottenuti costringono gli scienziati a discutere le sue scoperte e Morichini stes-
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so, alle cui ricerche si collegava l’esperimento fatto, le scrive per congratularsi del superamento dei risultati da lui ottenuti in quel campo22. Anche Humboldt accennerà nel Cosmos agli «ingegnosi esperimenti di Mary Somerville» nel campo del magnetismo23, tema a cui resterà sempre interessata come, del resto, alla ricerca di laboratorio sui microrganismi, tanto che nel suo trattato di geografia fisica farà l’elogio del microscopio e della curiosità scientifica per «i complicati laberinti del magnetismo e dell’elettricità» alla quale attribuisce anche l’invenzione della fotografia che, dice, «fece fare alla Natura il ritratto di sé medesima»24. Dopo Wollaston, John Herschel costituì un fondamentale punto di riferimento per Mary. Si erano conosciuti nel 1816 e l’astronomo la sostenne per tutto il resto della vita. Leggeva e revisionava i suoi scritti, le forniva consigli preziosi e utili critiche, sempre incoraggiandola25. In Francia, Laplace definisce la Somerville come uno dei suoi seguaci più brillanti. E difatti nel 1831 – Laplace era morto da tre anni – Mary Somerville pubblica The Mechanism of the Heavens. Non si tratta di una semplice traduzione della Mécanique Céleste, ma di un rifacimento più breve con aggiunte di dimostrazioni, comparazioni con le teorie di Newton eccetera. Herschel definisce il lavoro «un libro per i posteri»26. Lo studio dell’opera di Laplace avrebbe avuto un ruolo determinante nel dare fondamento alla Geografia fisica che la Somerville avrebbe poi scritto; del resto, anche Humboldt, nelle Considerazioni sui differenti gradi di diletto che offrono l’aspetto della natura e lo studio delle sue leggi che introducono il Cosmos, cita come uno dei suoi modelli «l’esposizione del sistema del mondo» dello scienziato francese27. Proprio in quanto rielaborazione in inglese del più brillante trattato scientifico dopo quello di Newton, il volume della Somerville ottenne in Gran Bretagna un notevole successo e non furono pochi a stupirsi che un lavoro simile fosse stato svolto da una donna28. L’attenzione che il pubblico rivolse a Mary dopo l’uscita di questo lavoro portò diverse donne a richiedere agli ambienti scientifici maggior apertura. Ad esempio, avendo Charles Lyell, professore di geologia al King’s College, pubblicato nello stesso 1831 Principles of Geology, diverse donne chiesero e ottennero di poter partecipare alle sue lezioni; Mary e le sue due figlie erano tra di loro. Nel 1832 i tradizionalisti riuscirono a imporsi perché il permesso venisse revocato, ma l’episodio avrebbe costituito un precedente nel percorso verso l’ammissione delle donne nelle università. Con le parole e con i fatti la Somerville fu una convinta sostenitrice dell’ampliamento delle opportunità per le donne29. Vedremo più avanti quali furono le sue posizioni in proposito. Soltanto tre anni dopo l’uscita di The Mechanism, Mary Somerville pubblica il lavoro considerato più importante, On the Connexion of the Physical
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Sciences (1834), anch’esso edito più volte e tradotto in Francia e in Italia. Colleziona diversi riconoscimenti e l’inclusione da parte del governo nella Civil List che le vale una pensione30. Il 19 settembre 1838 i Sommerville partono di nuovo per la Penisola. William si era ammalato ed era lui, questa volta, ad avere bisogno di un clima migliore. L’intenzione era di fare ritorno alla fine della primavera dell’anno successivo, cosa che non sarebbe avvenuta. Dall’Italia Mary Somerville mantiene una fitta corrispondenza con vari colleghi, fra cui Michael Faraday e, in primo luogo, con Herschel31. A Firenze li accoglie Amici che nel 1831 era stato chiamato da Leopoldo II come direttore dell’Osservatorio astronomico “La Specola”. La Firenze lorenese era, come è noto, uno dei centri italiani più progrediti in campo civile, scientifico, culturale32. La presenza di Mary Somerville nell’Italia in transizione verso l’Unità meriterebbe di essere studiata a parte, con una più precisa mappatura degli spostamenti da una città all’altra e dei motivi che li provocavano, e con una più specifica ricostruzione delle relazioni con gli ambienti culturali del tempo. Fino ad ora essa è stata presa in considerazione soltanto in un libro del 1953 sugli Anglo-Fiorentini di cento anni fa. Giuliana Artom Treves vi ricompone il quadro degli intellettuali inglesi a Firenze e dà a Mary Somerville un bello spazio nella sua galleria di illustri bas-bleus in cui sfilano i ritratti di Anna Murphy Jameson, Robinia Young, Frances Power Cobbe, Margherita Albana Mignaty, tutte più o meno collegate con Elizabeth Barrett Browning e la prestigiosa comunità anglofona fiorentina che ruotava intorno alla villa di Bellosguardo: […] la timida Mrs. Somerville partecipava tanto ai più brillanti ricevimenti che alle più austere riunioni delle accademie scientifiche. Quando nel 1838 i Somerville vennero a Firenze per la salute del marito, il Granduca subito offrì alla Signora di usufruire dei libri della sua biblioteca di Palazzo Pitti, privilegio allora rarissimo. Inoltre essa accudiva alla famiglia, amava dedicarsi alla pittura, suonava il pianoforte e con tutto ciò manteneva inalterata la sua squisita semplicità […]. [I Somerville] furono tenuti lontani dall’Italia nel 1848 dai rumori di guerra, ma il 1849 lo passarono a Torino in una casa di proprietà dei Cavour coi quali erano in cordiale relazione e di cui dividevano le opinioni liberali, e nel 1851 si stabilirono a Firenze in una casa di via del Mandorlo con un giardinetto fiorito di rose ch’era l’orgoglio di Mrs. Somerville, e si legarono di sincera amicizia con le famiglie liberali della nobiltà fiorentina, i Ricasoli, i Menabrea, i Peruzzi, i Minghetti, i Corsini di Lajatico. Erano informati da questi sugli sviluppi della causa italiana, nel 1859 Mrs. Somerville ne scriveva zelantemente al figlio lontano, e pare di vederla «china su una carta aperta sul tavolo, a segnarvi con spilli a capocchia multicolore la posizione degli eserciti nell’Italia settentrionale»33.
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Nel 1839 i Somerville trascorrono il giugno e il luglio sul Lago di Como e in agosto a Baden dove l’umidità del clima fa peggiorare le condizioni di salute di Somerville, cosicché i coniugi decidono di fare ritorno in Italia. Pensano dapprima di passare l’inverno a Genova, che raggiungono in novembre, poi preferiscono, di nuovo, Firenze. Da qui, il giorno del suo cinquantanovesimo compleanno, Mary scrive al figlio: […] ora sono al mio sessantesimo anno di vita!!! […] ho la gotta in entrambe le mani, le articolazioni delle mie dita sono gonfie […] e spesso ho difficoltà a tenere la penna, inoltre sono diventata terribilmente sorda, quindi mi sono messa il cuore in pace e lascio che gli estranei mi reputino un’idiota […]. È troppo brutto ritrovarsi improvvisamente ciechi, sordi, zoppi. Guarda che inutile vecchia strega è diventata la tua mamma34.
Invece, la sua mente era lucida e continuava a lavorare avvalendosi della biblioteca granducale, come testimonia una lettera all’amico Leonard Horner: […] sono stata molto indaffarata approfittando del permesso del Granduca di portare a casa i libri della sua biblioteca, cosa concessa, direttori a parte, a qualcuno prima di me una sola altra volta. È una biblioteca eccellente e contiene tutte le pubblicazioni moderne, nonché gli articoli; si sono persino offerti di procurarmi qualsiasi altro testo che già non possiedano35.
Alla ricerca, pare, di temperature estive più miti, la famiglia lascia Firenze per Siena dove la studiosa riceve da Amici il materiale necessario per continuare gli studi. Con l’arrivo dell’inverno, Somervile comincia a soffrire molto il freddo e assieme alla moglie si trasferisce di nuovo a Roma36. Sono questi italiani gli anni in cui la Somerville lavora al suo terzo libro, quello che qui più ci interessa, Physical Geography, che viene edito dal solito Murray nel 1848, anno della parentesi in patria. Il libro, ritenuto per molti versi un lavoro pionieristico, ebbe un successo straordinario, tanto in Inghilterra che fuori. Ne comparvero infatti cinque edizioni inglesi durante la vita dell’autrice, e una sesta dopo la morte37. Esso fu tradotto e pubblicato in Francia e in Italia: nel nostro paese per ben quattro volte (la prima nel 1856) dall’editore Barbera che, avendo conosciuto bene la «modesta e gentile signora già attempata […] dottissima in scienze fisiche, molto religiosa ma tollerante e caritatevole» nelle sue Memorie ne ricorda così la figura: Quello che mi sorprese in una donna che fin da giovane aveva mostrato attitudine alle scienze esatte, fu di sentire che essa era stata appassionata per il ballo. Le sue due figlie erano educate ed istruite nelle scienze più difficili e anche nelle arti […] e specialmente nella pittura, carissima a lei perché sentiva che le faceva gustare meglio le meravigliose bellezze dell’universo38.
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Della terza edizione italiana della Geografia Fisica Mary firma la prefazione dalla Spezia in data 30 maggio 1862. La Artom Treves, rifacendosi a quanto lasciato scritto da autori contemporanei della viaggiatrice, scrive che «su Mrs. Somerville, che dimorava alla Spezia nell’appartamento del console, salvo un sospiro sull’incessante suonar di pianoforte delle figlie di lei, non abbiamo commenti di Lever»39. Ma l’immagine di Mary e delle due figlie in vacanza nel Golfo spezzino, ancora intatto nelle sue acque balneabili, nelle bellezze pittoriche e nelle particolarità geologiche, ci è restituita dallo scienziato naturalista spezzino Giovanni Capellini, quando ricorda la città in estate frequentata da scelta colonia di bagnanti […]; opportuna circostanza per conoscere persone colte e stringere nuove amicizie. Nei primi giorni di agosto [1862] furono in Spezia Tullio Dandolo con la famiglia […]; Maria Somerville con le due figlie vi soggiornavano e così pure, per la estate, la famiglia Doria40.
Nell’autobiografia Capellini cita più volte Maria Somerville con la quale aveva probabilmente intrecciato conversazioni sui comuni interessi scientifici traendone utili contatti. Raccontando della propria nomina a professore di geologia a Bologna e dell'allora lunghissimo viaggio dalla Spezia al capoluogo emiliano, Capellini scrive: «Da Maria Somerville avevo avuto lettere di presentazione per la contessa Maria Teresa Gozzadini e per la contessa Augusta Malvezzi». Ricordando poi il viaggio nell’America del Nord, raggiunta passando per Parigi e Londra, non dimentica, di nuovo, la Somerville: «In Spezia [...] mi aveva dato una lettera per il celebre astronomo John Hershel»41. A Firenze la nostra studiosa riceve nel 1858 la visita dell’astronoma americana Maria Mitchell (1818-1889), che nel proprio diario racconta l’incontro: Arrivata in Via del Mandorlo e consegnato il biglietto di presentazione, entrai nel grande salotto fiorentino. Nel caminetto ardeva un bel fuoco di legna, ricordandomi il comfort americano, ché scarso è il comfort nelle case italiane. Dopo una certa attesa intesi dei passi strascicati e comparve un signore altissimo e vecchissimo con il capo stranamente avvolto in un fazzoletto rosso, e si presentò: dottor Somerville. Straordinariamente fiero di sua moglie, egli non chiedeva di meglio, come me del resto, che parlare ininterrottamente di lei, quando, con la vivacità di una giovinetta e dimostrando vent’anni meno dei suoi 77, fece la sua entrata Mrs. Somerville42.
Dopo la morte del marito, avvenuta appunto a Firenze nel giugno del 1860, Mary reagisce alla perdita cominciando il suo quarto lavoro importante. Impiega circa dieci anni per completare On the Molecular and Microscopic Science, uno studio sulle molecole e sui microrganismi, che esce nel 1869, quando ha già ottantanove anni. Il fatto che la Somerville, in quanto geografa, sia rimasta fedele alla ricerca di laboratorio su fenomeni che oggi
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non sono più considerati alla scala dell’analisi geografica non ci deve stupire: anche per Humboldt il campo della Descrizione fisica del mondo comprendeva tanto le lontananze dell’universo stellare quanto la visione ravvicinata e al microscopio dei microrganismi e delle molecole. Come era stato per Maria Sibylla Merian, gli studi scientifici non contraddicono, anzi, confermano la religiosità della Somerville: […] quanto più si approfondisce la ricerca, tanto più evidente appare l’indicibile perfezione dell’opera di Dio, sia che si tratti della maestosità dei cieli, sia degli esseri infinitesimali della terra43.
La sua concezione del mondo si fa esplicita nell’ultimo capitolo della Geografia fisica dove sembra oscillare fra un determinismo storico di origine romantica – per cui tutte le scoperte e le innovazioni che hanno segnato il progresso dell’umanità sono il frutto, più che di individui, di un’epoca storica – e un ingenuo provvidenzialismo per il quale in definitiva l’umanità e gli individui finiscono per seguire il disegno generale della Provvidenza. Per fare un esempio, la maggiore mobilità e circolazione degli europei, dovuta alla rivoluzione dei trasporti, sarebbe stata innescata per diffondere sul pianeta il cristianesimo: La scoperta della navigazione a vapore fu concessa al mondo cristiano espressamente per spargere il Vangelo e lo incivilimento negli estremi confini della terra. Devesi massimo onore ai Missionari che ad onta di ogni difficoltà e pericolo si affaticarono per la buona causa: le sementi da loro sparse avranno un frutto che, sebben dopo lungo tempo, pur sarà raccolto44.
Ad eccezione di un viaggio in Inghilterra nel 1844 e di quello del ’48, dal 1838 in poi la Somerville ha vissuto in Italia conducendo una vita nomade, di volta in volta risiedendo per settimane, mesi o anni a Roma, Firenze, Siena, Venezia, Torino, Spezia, Napoli e altri luoghi. E a Napoli muore nel sonno all’età di novantadue anni, il 29 novembre 1872. Viene sepolta nel cimitero americano della città. La Patterson racconta che fino il giorno prima di morire aveva lavorato a un saggio sui numeri quaternari45. L’Italia non aveva lesinato alla Somerville riconoscimenti: oltre al successo editoriale delle sue maggiori opere, fra il 1840 ed il 1870 ben undici Società scientifiche italiane, fra le quali diverse fiorentine e l’Accademia di Scienze, Letteratura ed Arti di Arezzo, l’avevano accolta come membro onorario46. Lo stesso riconoscimento le viene attribuito dalla Società Geografica Italiana, mentre il governo la insignisce di una medaglia47. All’età di ottantanove Mary Somerville aveva scritto la propria biografia con l’intenzione che venisse pubblicata. Ne aveva fatta anche una seconda stesura revisionandola allo scopo di lasciare al pubblico un buon ricordo di
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sé. Della pubblicazione si occupa, subito dopo la morte, la figlia Martha con l’aiuto di Frances Power Cobbe (che a Firenze era stata molto amica della scienziata) e dell’editore John Murray, intervenendo nel testo allo scopo di adattarlo al gusto del pubblico. Si tratta pertanto di una revisione importante, effettuata selezionando le informazioni più interessanti e aggiungendo numerose lettere scambiate tra la Somerville e gli amici scienziati. Il risultato, Personal Recollections, è un libro di gusto marcatamente vittoriano che per le omissioni e le aggiunte apportate dai curatori offre in più punti un’immagine della studiosa diversa rispetto al manoscritto originale. Nel testo finale, ad esempio, sono state omesse numerose considerazioni presenti nell’originale circa l’emancipazione femminile, mentre sono stati posti in evidenza alcuni particolari – la capacità della scienziata di educare i figli secondo le convenzioni vittoriane, l’impegno profuso soltanto per amore della scienza e mai per denaro eccetera – non sempre rispondenti al vero ma utili a dare di lei una rappresentazione edificante48. Il confronto fra i due testi dà trasparenza a certi aspetti nascosti della sua personalità: il senso di inadeguatezza di madre e di studiosa che la fa dubitare delle proprie capacità e che si nasconde dietro l’immagine di persona affermata a proprio agio negli ambienti culturali e mondani49. Emerge, ad esempio, lo struggimento per la morte della figlia Margaret di cui la Sommerville si sente responsabile pensando di aver troppo affaticato con gli studi la sua giovane mente. «L’unico motivo per cui accenno a questa cosa è quello di mettere in guardia le madri rispetto l’errore fatale che ho compiuto io», afferma nella stesura primitiva dell’autobiografia. L’acceso dibattito allora in atto sugli effetti deleteri della matematica e di altre attività intellettuali sulla salute e in particolare sulla fecondità della donna sortiva i suoi effetti. Anche questo brano, che contrastava con l’immagine perfetta che si voleva dare della Somerville, fu omesso nell’autobiografia pubblicata50. Il sentimento di inadeguatezza di fronte ai grandi scienziati del suo tempo porta la nostra studiosa a mettere in discussione non solo le proprie capacità ma quelle di tutto il suo sesso: All’apice del mio successo, l’approvazione di alcuni degli scienziati più riconosciuti dell’epoca e del pubblico in generale mi gratificò molto, ma in ogni caso mi lusingò meno di quanto ci si possa immaginare, poiché nonostante fossi riuscita nell’intento di chiarire alcuni dei più delicati e complicati procedimenti analitici e scoperte astronomiche, ero consapevole del fatto che non avevo compiuto alcuna scoperta in prima persona, che non avevo originalità. Io possiedo perseveranza e intelligenza, ma non ho genio, quella scintilla divina non è dono per il sesso femminile, noi siamo della terra, terrestri, malgrado poteri più elevati possano esserci stati conferiti in un altro stadio di esistenza che solo Dio può sapere, almeno per quanto riguarda l’originalità del genio scientifico non c’è alcuna speranza51.
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Nell’ultimo capitolo della Geografia Fisica Mary Somerville aveva affrontato il tema del genio dal punto di vista delle belle arti e senza introdurre alcuna connotazione di genere, aveva affermato che «quegli alti sentimenti, che costituiscono il genio, sono doni rari; ma qualche cosa di simile, quantunque nel grado inferiore, esiste nel maggior numero degli uomini». Aveva anche riconosciuto che questo tipo di genio più popolare «affina e migliora la mente nazionale e forma un contrappeso a quello spirito utilitario e commerciale che tutto assorbe». A questo concetto doveva riferisi quando, nello stesso lavoro, scriveva che «tra gli oggetti che tendono al miglioramento della nostra razza, sono fra i primi il giardino che ha il sorriso de’ fiori ed il parco ch’è ornato di alberi indigeni e forestieri» e che «queste cose sono i maggiori ornamenti delle Isole Britanniche»52. Ma non sempre «le belle arti camminano di pari passo con la scienza» e dunque, nella visione della Somerville, esiste una diversa concezione del genio scientifico. Su questo piano, al di là dell’opinione, certamente discutibile, di ritenere che alla donna sia vietata l’originalità scientifica dello scopritore, a quanto pare per mancanza di slancio speculativo, mi pare interessante dal nostro punto di vista sottolineare l’attribuzione alla donna di una superiore terrestrità («noi siamo della terra, terrestri») che noi oggi possiamo intendere come sinonimo di geograficità 53. In ogni caso lo scoraggiamento dimostrato nei confronti di se stessa e delle donne in generale non significa che la Somerville non abbia lavorato per l’affermazione dei loro diritti, indirettamente, con l’esempio dato, ma anche direttamente. Senza avere in prima persona una storia di militanza femminista, senza possedere una visione politica dell’emancipazione femminile, la Sommerville, che fu anche sostenitrice della campagna contro la vivisezione, appoggiò in varie occasioni le cause femministe e sociali: il diritto all’istruzione, l’apertura delle lauree alle donne, il suffragio femminile54. L’età [avanzata] non ha debellato il mio impegno per l’emancipazione del mio sesso dall’assurdo pregiudizio troppo diffuso in Gran Bretagna contro l’istruzione umanistica e scientifica delle donne. I francesi sono assai più civili a questo proposito, poiché hanno impugnato le redini fornendo, nei tempi moderni, il primo esempio d’incoraggiamento degli studi superiori per il nostro sesso55.
Valutazione sulla sua opera scientifica a parte – che non è di mia competenza se non relativamente alla sola Geografia Fisica – Mary Somerville ebbe il grande merito di dare una spallata alla vecchia e stereotipata identificazione della scienza con il genere maschile. Rappresentò l’esempio vivente che le donne potevano porsi di fronte alle scienze e alla storia in modo attivo e portare il diverso punto di vista femminile in un mondo scientifico ottocentesco tutto di uomini56.
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Un viaggio nella geografia fisica Physical Geography non è esattamente ciò che oggi intendiamo con questa espressione. È qualcosa di più ampio, come dimostra anche il Cosmos di Humboldt, che ne costituisce in qualche modo il modello. Giustamente Susan Cannon l’ha definita «una scienza humboldtiana che includeva anche l’astronomia, la fisica terrestre, la biologia; il tutto in una prospettiva geografica, con l’obiettivo di scoprire connessioni e relazioni matematiche quantitative»57. La Somerville è ben cosciente dei compiti nuovi che si pongono alla geografia e nella parte conclusiva del suo trattato scrive: «La geografia ha preso un carattere nuovo, a motivo di quella ricerca instancabile di cognizioni accurate e di verità, ch’è propria dell’età presente; e la geografia fisica della terra e dell’oceano è una scienza affatto nuova»58. Quando parla di «scienza affatto nuova» la Somerville guarda soprattutto a Humboldt, al «nobile esempio del barone Alessandro di Humboldt, il patriarca della geografia fisica» che vede seguito da scienziati e viaggiatori del suo tempo: questi «considerano le cose sotto un aspetto più ampio di quello che offra la terra, e i suoi abitatori animali e vegetabili; onde le loro ricerche comprendono la passata e la presente condizione dell’uomo, la nascita, i costumi ed i linguaggi delle nazioni esistenti ed i monumenti di quelle già estinte»59. Nel modello humboldtiano, infatti, i confini fra geografia fisica e geografia umana non sono rigidi e forte è il senso del ruolo dell’uomo nei confronti della natura al cui riconoscimento anche la fede religiosa, assente nel grande scienziato tedesco, doveva predisporre la Somerville. Un ruolo che, come in Humboldt, si realizza innanzitutto nella conoscenza del pianeta, nella «ardente bramosia delle scoperte nautiche e geografiche». L’ardente bramosia delle scoperte nautiche e geografiche, mossa nel secolo decimoquinto da quegli illustri navigatori che avevano un nuovo mondo a scoprire, è anche oggidì operosa quanto mai, sebbene con risultati meno splendidi. Né la mesta e lunga notte del verno polare, né il pericolo dei ghiacci e delle procelle, arrestano i prodi marinai inglesi dal tentar di conoscere questa palla che è la terra, anche sotto l’aspetto suo più severo, e ciò per la gloria, e per un motivo anche più nobile, il ricupero dei perduti compagni. I Francesi, i Russi, e specialmente gli Americani hanno pienamente partecipato in quelle audaci e generose avventure. Il sole sferzante e le paludi pestifere dei tropici hanno parimenti ben poco impedito al viaggiatore di raccogliere animali e vegetabili della creazione presente, ed al geologo d’investigar quelli delle età di gran lunga trascorse. L’uomo quotidianamente fa palesi i suoi diritti nativi come signore della creazione, e costringe ogni terra, ogni mare ad accrescergli le cognizioni60.
Nell’economia della Geografia Fisica la preoccupazione principale rimane comunque quella di individuare le relazioni tra gli esseri viventi e il loro habitat, includendovi anche gli esseri umani, con quali modalità ora vedremo.
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Lo schema che viene seguito nel trattato è il seguente. Dopo aver descritto la posizione della Terra nel sistema solare, l’autrice passa a descrivere la forma del pianeta e con rapidi cenni geologici le forze che hanno forgiato i continenti e il loro aspetto generale. Qui si nota l’influenza di Ritter relativamente al rapporto fra terra e acqua, estensione dei litorali e della terraferma. Scelto a questo punto un approccio regionale per grandi insiemi – Gran Continente o Eurasia, Africa, America, Isole del Pacifico e Indiano e infine Terre artiche e antartiche – l’analisi si concentra piuttosto sulle caratteristiche geomorfologiche di ciascuno: montagne, vulcani, altipiani, pianure, fiumi, deserti, terremoti eccetera. In coerenza con il modello humboldtiano la descrizione gelogico-morfologica e climatica si alterna alla considerazione delle risorse del suolo, delle migrazioni della circolazione delle merci arrivando a interessanti digressioni storico-etnografiche. La Somerville parla di famose città abbandonate come Cusco, di progetti di nuove ferrovie e di canali navigabili e via discorrendo. A questa parte più si addice la definizione che dell’opera dà la stessa autrice quando descrive il suo lavoro come «un sunto di cognizioni fisiche o naturali» tratte spesso da esploratori e viaggiatori-scienziati, a cui non manca di tributare i dovuti riconoscimenti, come nel caso delle scoperte del dottor Livingstone e delle ricerche dei capitani Burton e Speke in Africa, delle esplorazioni del capitano Palliser nell’America settentrionale e infine di quelle australiane di Dougall Stuart e Gregory61. A questo punto, esaurita la parte più descrittiva con un ultimo capitolo sulle miniere, Mary Somerville passa all’analisi dei fenomeni naturali più dinamici: gli oceani, le correnti e maree, i fiumi, i laghi, i climi e i fenomeni atmosferici (compresi la luce, l’elettricità, le aurore boreali, il magnetismo e le forze che li determinano). Con il magnetismo, uno dei suoi interessi prioritari, che come abbiamo già visto le valse anche una citazione nel Cosmos di Humboldt, la Somerville chiude il primo volume. Da questo punto di vista va segnalata anche una seconda citazione, sempre nel volume IV del Cosmos, in cui Humboldt rimanda il lettore alla «breve ma brillante esposizione del magnetismo terrestre» inserita nella Geografia Fisica della Somerville62. Che Humboldt abbia molto apprezzato Physical Geography è anche dimostrato da una lettera del 12 luglio 1849 in cui lo scienziato berlinese si complimenta con l’autrice usando le parole più lusinghiere: Soltanto voi siete in grado di arricchire la vostra produzione con un’opera cosmologica originale: un’opera scritta con la lucidità e il gusto che contraddistinguono ogni cosa che proviene dalla vostra penna […]. Non sono a conoscenza di alcuno studio di geografia fisica, anche in altra lingua, che sia paragonabile al vostro63.
Il secondo volume inizia con la vegetazione studiata tanto in generale che per grandi regioni botaniche, quindi passa in rassegna gli insetti, i pesci, i ret-
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tili, gli uccelli e i mammiferi sempre in relazione alla loro distribuzione geografica. Conclude il trattato un ampio capitolo sulla «Distribuzione, condizione, ed avvenire della razza umana». Si sbaglierebbe a considerare, anche sulle tracce dell’autrice stessa, l’intero trattato un “sunto” o una sintesi fredda e noiosa delle cognizioni fisiche e naturali del nostro pianeta. Come avviene anche in Humboldt, tutta la trattazione risulta vivificata da un pathos romantico che fa della natura il rifugio ideale per l’uomo contemporaneo. Il filo conduttore di Physical Geography è la visione unitaria del mondo non dal punto di vista delle «divisioni arbitrarie» apportate dall’uomo, bensì come opera prima del Creatore. La Geografia Fisica – scrive la Somerville – è la descrizione della terra, del mare e dell’aria coi suoi abitanti animali e vegetabili, della distribuzione di questi esseri organizzati, e delle cagioni di tale distribuzione. Le divisioni politiche ed arbitrarie non vengono da essa curate; il mare e la terra sono considerati riguardo a quei grandi lineameenti che loro sono stati impressi dalla mano dell’Onnipossente, e l’uomo stesso è contemplato soltanto come cooabitante del globo colle altre cose create, ma nondimeno pe’ i suoi atti influente sino a un certo segno su di esse, e di rimando da queste influenzato64.
Physical Geography è permeato del sentimento del sublime. Mary descrive minuziosamente i colori degli oceani a seconda delle zone, i colori delle foreste americane, le aurore, come se avesse visto di persona ogni fenomeno e ogni elemento. Grazie alla sua capacità di scrivere, il lettore è trasportato in luoghi che non ha mai visitato, unitamente alla sensazione di vicinanza alla natura e a Dio. Un esempio interessante dello spirito che caratterizza tutto il testo è la descrizione della Groenlandia: Groenlandia […] il regno delle nevi perenni […] sembra costituire un contrappeso alla preponderanza di terre brulle dell’emisfero settentrionale. C’è qualcosa di sublime nella contemplazione di queste regioni altere e inaccessibili – il tremendo regno dei ghiacci perenni e del fuoco perpetuo, per i quali un anno è equivalente ad un giorno e una notte. La strana e terribile simmetria della natura delle regioni polari, il mistero dei loro confini, la massima intensità con cui i principi antagonisti del freddo e del caldo si scontrano in quelle terre, pervadono la mente umana di timore verso l’ignoto e l’indefinito65.
Non a caso in questo passo, come in altri, compare il tema della contemplazione della natura e del paesaggio che è fra i tratti più originali della geografia di Humboldt. Sappiamo infatti che il grande scienziato tedesco dedica un intero libro del Cosmos alla storia della contemplazione fisica del mondo, che per molti aspetti costituisce la sua eredità più straordinaria alla geografia successiva: un’eredità che solo i geografi contemporanei, dopo la lun-
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ga parentesi positivista, saranno in grado di accogliere con piena consapevolezza. Mediante questo lungo e originale excursus nella storia del pensiero geografico (in senso lato) Humboldt passa «dalla cerchia degli oggetti alla cerchia dei sentimenti» dell’uomo, superando la dicotomia fra soggetto e oggetto che l’epistemologia positivista avrebbe approfondito. Come scrive anche il traduttore italiano del Cosmos, Vincenzo Lazari, quasi riecheggiando le parole appena citate della Somerville: Il sentimento della natura varia a seconda delle schiatte e de’ tempi; ma eziandio allora che la nuda povertà del suolo e il debole sviluppo della civiltà parrebbero soffocarlo, sgorga non pertanto dal cuore commosso e così avviva le creazioni della mente di chi contempla il beato cielo dei tropici, come di chi vive fra i ghiacci e le brume delle inclementi terre settentrionali66.
È grazie a questo rapporto non ancora offuscato dal positivismo fra uomo e natura, fra soggetto e oggetto, che anche la Somerville può ritenere gli esseri umani come un oggetto fondamentale della geografia fisica e non solo perché non potevano non essere influenzati dall’ambiente in cui vivevano ma anche perché a loro volta esercitavano una forte influenza su di esso. È così che la Somerville evidenzia, per esempio, la fragilità della crosta terrestre e, insieme, la potenza dell’attività vulcanica e i rischi della prossimità dell’uomo a oceani di lava. La sensazione romantica del sublime scaturiva, in questo caso, proprio dalla consapevolezza umana di vivere in un costante stato di pericolo67. Come è evidente, la Somerville non si limita alla trattazione freddamente scientifica, bensì, sulle tracce del Cosmos e del concetto humboldtiano di contemplazione della natura, cerca di ottenere una maggiore completezza esaminando la natura attraverso le sensazioni che essa suscita nel cuore dell’essere umano. La sua opera, come abbiamo visto, manifesta il rifiuto dell’opinione convenzionale secondo la quale un’analisi scientifica dettagliata deve eludere qualsiasi osservazione di carattere estetico68. Nell’ultimo capitolo, intitolato The Distribution, Condition, and Future Prospects of the Human Race, Mary Somerville parla delle varie razze umane, delle loro caratteristiche e della loro distribuzione, dei fattori ambientali che influenzano l’uomo e il progresso. Secondo la studiosa Kathryn Neeley, nel libro della Somerville la tendenza al determinismo scientifico della sua epoca è molto sfumata. Ad esempio, Mary sostiene che non singoli fattori, bensì la molteplicità e la combinazione degli stessi provoca gli eventi. Inoltre attribuisce notevoli qualità ad ogni razza umana e, anche se indica gli europei come i più progrediti, giunge ad affermare che nonostante le diverse caratteristiche razziali, gli uomini appartengono ad un’unica specie69.
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La Somerville, per la quale «l’uomo stesso non è altro che un coabitante della Terra assieme ad altre creature»70, riconosce l’idea di interdipendenza delle diverse componenti del globo, introducendo il concetto di sistema ambientale che sarà di lì a poco il tema dominante in Man and Nature di Marsh71. Per Mary, l’azione delle circostanze esterne sull’uomo non è maggiore di quella che egli ha sul mondo materiale. Vero è che egli non può creare energia, ma si avvale con destrezza delle forze naturali per controllare la natura stessa. L’aria, il fuoco, l’acqua, il vapore, la gravità, la sua forza muscolare e quella degli animali resi obbedienti alla sua volontà, sono gli strumenti attraverso i quali è stato in grado di trasformare il deserto in un giardino, di drenare le paludi, scavare canali, costruire strade, deviare i corsi d’acqua, deforestare aree e rimboschirne altre72.
Convinta sostenitrice del progresso tecnologico e scientifico, Mary Somerville si rende anche conto del potere distruttivo delle azioni umane sulla natura ed esprime l’urgenza di un approccio più equilibrato: I bisogni ed i piaceri dell’uomo furono cagione di molti cambiamenti nella creazione animale, e più ancora lo fu la sua tendenza distruggitrice. Gli animali sono destinati al nostro uso, ed i divertimenti della caccia sono proficui con favorire gli ardimentosi e pronti spiriti dei giovani; ma la totale distruzione di alcune razze, intesa a proteggere quelle destinate al diletto dell’uomo, è opera troppo egoistica; e la crudeltà è imperdonabile, ma sovente gli ignoranti sono crudeli73.
Prevede l’estinzione di animali come il leone, la tigre e l’elefante e di numerose specie di uccelli con la conseguenza che l’essere umano non riuscirà a controllare la natura nel lungo termine; in particolare, gli insetti avranno il sopravvento74. Infine, l’influenza maggiore l’uomo non la esercita sul mondo animale e vegetale, bensì su se stesso, attraverso le dinamiche sociali e politico-economiche: «L’influenza dell’uomo sull’uomo, scrive, è una azione d’un ordine il più elevato e che di gran lunga soverchia quella ch’egli possiede sulla natura animata o inanimata»75. I fattori antropici più potenti sono costituiti, oltre che dal progresso scientifico e tecnico, dalle emigrazioni, dalle colonie e dal commercio. È il grande tema della circolazione che la Somerville mette in primo piano adottando una chiave innanzitutto storica, utile a mostrare la tendenza alla mondializzazione o globalizzazione già allora pienamente in atto: La storia dei secoli scorsi nulla offre da comparare alla operosità della mente nel presente secolo. Il vapore, che abbrevia tempo e spazio, fornisce all’uomo vari modi di avvantaggiarsi o di difendersi; e per quanto interessate siano le mire di nuove intraprese, esse servono a ravvicinare insieme le nazioni. L’agevolezza delle co-
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municazioni ben presto rende simili il carattere delle differenti nazioni. Nel maggior numero delle città capitali, la società si modella sopra uno stesso stampo76.
Questo processo di modernizzazione non è andato esente da veri e propri crimini compiuti anche dalle nazioni più civili. Fra gli esempi possibili la Somerville segnala soprattutto quello che riguarda le isole caraibiche: Niuna parte del mondo fu mai campo d’iniquità maggiori di quelle commesse nelle Isole delle Indie Occidentali, e queste iniquità le commisero le nazioni le più illuminate d’Europa77.
La Somerville non condanna sempre il colonialismo, ritenendo che esso possa diventare strumento di progresso civile soprattutto quando è accompagnato dall’opera dei missionari, ma allo stesso tempo critica aspramente la cacciata degli indiani americani dalle proprie terre. È, come Humboldt, una convinta oppositrice dello schiavismo e delle menzogne utilizzate dagli europei per sfruttare i popoli africani in nome del cristianesimo, ma prevede ottimisticamente che, anche grazie alla diffusione del modello proposto da Livingstone, tale ingiustizia sarà un giorno abolita. Le sue più grandi speranze per il progresso dell’umanità risiedono nello sviluppo della scienza, nella diffusione della religione cristiana e del libero commercio. Identifica la scienza come fattore di interesse internazionale, e di conseguenza come collante per i popoli. Afferma, infine, che il miglioramento di ogni razza o schiatta umana sarà la conseguenza sia dello spirito di emancipazione di cui le popolazioni italiane nel riunirsi in un unico regno hanno dato una prova mirabile78, sia del crescente rafforzamento della consapevolezza che si esprime nell’opinione pubblica e nel rispetto di «quella varietà ch’è legge universale della natura». Un rispetto che Mary Somerville vorrebbe vedere esteso anche alla storia umana e alle società sempre più ispirate ai principi cristiani di moralità e giustizia che accresceranno nell’animo umano la mutua tolleranza, la carità e l’amore. Con queste tre parole indubbiamente inconsuete nel linguaggio geografico, Mary Somerville conclude il suo trattato sulla Geografia Fisica, prima pietra di una scienza differente della Terra.
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Note 1. Kathryn A. Neeley, Mary Somerville. Science, Illumination and the Female Mind, Cambridge University Press, Cambridge 2001, p. 72. 2. Mary Somerville, Physical Geography, John Murray, London 1848. 3. Mary Somerville, Geografia fisica, vol. II, Firenze, Barbera 1868 (terza ed. italiana), p. 248. Questa edizione riveduta e corretta dall’editore è arricchita anche di una Appendice sulla geologia dell’Italia dovuta a Celestino Bianchi. 4. I cinque volumi del Cosmos sono pubblicati fra il 1845 e il 1862. Delle numerose edizioni inglesi del primo volume, con un numero eccezionale di esemplari venduti, parla Humboldt stesso in una lettera a Gay-Lussac (cfr. Fabienne O. Vallino, Prefazione a Alexander von Humboldt, Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente, Palombi, Roma 1986, p. LXXXIV). 5. Jean-Paul Duviols et Charles Minguet, Humboldt savant-citoyen du monde, Gallimard, Paris 1994, p. 77. 6. Elizabeth Chambers Patterson, Mary Somerville and the cultivation of science (18151840), Martinus Nijhoff Publishers, The Hague 1983, pp. 20 e ss. 7. Marilyn Ogilvie and Joy Harvey (editors), Biographical Dictionary of Women in Science, Routledge, New York and London 2000, voce «Somerville, Mary (Fairfax) Greig», pp. 1213-1215. 8. Kathryn A. Neeley, op. cit.; Elizabeth Chambers Patterson, op. cit. 9. Martha Somerville, Personal Recollections from Early Life to Old Age, of Mary Somerville, with Selections from her Correspondence, John Murray, London 1873. 10. Francesco Miniscalchi Erizzo, Discorso commemorativo della Signora Maria Somerville, «Bollettino della Società Geografica Italiana», serie I, vol. 9, maggio 1873, pp. 13-25. 11. Ibidem, pp. 13, 23-24. 12. Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., pp. 2-3. Giuliana Artom Treves, Le Bas-Bleus, in Id. Anglo-Fiorentini di cento anni fa, Sansoni, Firenze 1982, p. 162. 13. Francesco Miniscalchi Erizzo, op. cit., p. 13. 14. Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., pp. 3-4. 15. Ibidem, p. 4. 16. Ibidem, pp. 4-5. 17. Ibidem, pp. 6-8. 18. Ibidem, p. 9. 19. Per la presenza in Francia e Svizzera cfr. Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., pp. 1927. Gli appunti del diario manoscritto tenuto da Mary Somerville soltanto nelle prime settimane del primo viaggio nel continente (1817-1818), sono conservati nell’archivio della Bodleian Library di Oxford. Ivi, pp. 19 e 201 nota. 20. Ibidem, p. 26. 21. I movimenti e gli incontri di questo primo viaggio in Italia sono sintetizzati in Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., pp. 27-33. 22. Ibidem, pp. 46-47. 23. Alessandro di Humboldt, Cosmos. Saggio di una descrizione fisica del mondo, Grimaldo, Venezia, seconda ed., vol. IV, versione di Vincenzo Lazari, 1864, p. 49. A proposito degli esperimenti di Morichini e della Somerville, Humboldt, appoggiandosi al trattato sul magnetismo di Sir David Brewster, riconosce tuttavia che essi, pur producendo una «prolissa discussione», non portarono a grandi risultati. 24. Mary Somerville, Geografia fisica, cit., vol. II, p. 247. 25. Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 70 e ss. 26. Kathryn A. Neeley, op. cit., pp. 93-96; Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., pp. 72-73. 27. Alessandro di Humboldt, Cosmos, cit., vol. I, versione di Giulio Vallini, 1860, pp. 40-41. 28. Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., pp. 83 e 87.
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29. Ibidem, pp. 93-94. 30. Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 125. 31. Ibidem, p. 81. 32. Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., p. 190. 33. Giuliana Artom Treves, op. cit., pp. 163-164. 34. Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., p. 191. 35. Ibidem, p. 192. 36. Ibidem, p. 193 37. Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 157 e Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., p. 194. Secondo queste autrici, l’opera anticipa l’approccio regionale in geografia. Nel 1849, 1851, 1858, 1862, 1870 e 1877. Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., p. 194. 38. Gasparo Barbera, Memorie di un editore, Barbera, Firenze 1883, pp. 181, 338, 390, citato da Giuliana Artom Treves, op. cit., p. 164. 39. Giuliana Artom Treves, op. cit., p. 161. Sia il poeta Walter Savage Landor (Letters private and public, ed. by Stephen Wheeler, Duckworth, London 1899) sia lo scrittore irlandese Charles James Lever (1806-1872), ricordano nei loro scritti gli incontri con la Somerville. 40. Giovanni Capellini, Ricordi, vol. II, 1860-1888, Zanichelli, Bologna 1914, pp. 54-55. 41. Ibidem, pp. 2 e 85. 42. Maria Mitchell, Life, Letters and Journals, ed. by Phebe Mitchell Kendall, Lee and Shepard, Boston 1896, p. 160, citato da Giuliana Artom Treves, op. cit., pp. 166-167. 43. On Molecular and Microscopic Science, vol. 2, p. 178, citato in Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 161. 44. Mary Somerville, Geografia fisica, cit., vol. II, pp. 237-238. 45. Elizabeth Chambers Patterson, op. cit., p. 195. 46. Ibidem, p. 194; Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 81. 47. Francesco Miniscalchi Erizzo, op. cit., p. 25. La Treves dice che fu la Società ad attribuirle la medaglia d’oro, ma, se ho ben guardato, nel «Bollettino» la notizia non risulta. Giuliana Artom Treves, op. cit., p. 161. 48. Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 185. 49. Ibidem, p. 197. 50. Ibidem, p. 189. 51. Ibidem, p. 188. 52. Mary Somerville, Geografia Fisica, cit., vol. II, pp. 228-229 e 251. 53. È noto che a parlare di geograficità come forma di coscienza che conferisce a ogni individuo una parte della sua identità è stato per primo Eric Dardel: «una relazione concreta si stringe tra l’uomo e la Terra, una geograficità dell’uomo come modalità della sua esistenza e del suo destino». Cfr. Eric Dardel, L’homme et la Terre, CTHS, Paris 1990 (prima edizione 1952). 54. Giuliana Artom Treves, op. cit., p. 165. 55. Dalla seconda stesura manoscritta di Mary Somerville, cit. in Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 185. 56. Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 12. Per quanto riguarda il suo contributo alle scoperte scientifiche, la Neeley, ad esempio, è d’accordo con la maggior parte dei critici della Somerville circa il fatto che fosse una scienziata più per le sue vaste conoscenze che per le sue effettive scoperte, ma sottolinea che le innovazioni apportate da Mary acquisterebbero valore se si confrontassero con il loro contesto ottocentesco, piuttosto che con quello attuale. Ibidem, pp. 32-34. 57. Ibidem, p. 133; Susan Cannon, Science in Culture. The Early Victorian Period, Science History, Kent 1978, p. 77. Anche se va detto che nella scienza humboldtiana è assente il mito positivistico della legge scientifica e del primato quantitativo. 58. Mary Somerville, Geografia Fisica, cit., vol. II, p. 248.
Meccanica “Rosa”. Mary Somerville
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59. Ibidem. 60. Ibidem, p. 248. 61. La definizione del suo lavoro viene data alla p. 244 del vol. II in apertura di una lunga nota sul ruolo del governo inglese nella promozione di spedizioni e ricerche scientifiche. 62. Alessandro di Humboldt, Cosmos, cit., vol. IV, p. 146. 63. Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 230. 64. Mary Somerville, Geografia fisica, cit., vol. I, p. 1. 65. Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 145. 66. Alessandro di Humboldt, Cosmos, cit., vol. II, versione di Vincenzo Lazari, 1864, p. VI. 67. Su questo cfr. anche Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 135. 68. Su questo punto cfr. ibidem, p. 143. 69. Ibidem, p. 150. 70. Kathryn A. Neeley, op. cit., p. 137. 71. Quanto a Man and Nature di Marsh (edito a New York nel 1864 e anche in Italia nel 1870 e nel 1872 per i tipi di Barbera) e alle caratteristiche della sua concezione si veda l’ampia introduzione alla ristampa dell’edizione italiana: George Perkins Marsh, L’uomo e la natura ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo, a cura di Fabienne O. Vallino, Franco Angeli, Milano 1993 (prima ed. 1988). 72. Mary Somerville, Geografia Fisica, cit., p. 227 e ss. 73. Ibidem, p. 230. 74. Ibidem, p. 231. 75. Ibidem, p. 232. 76. Ibidem, p. 243. 77. Ibidem, p. 237. 78. La Somerville sottolinea «la dignità e moderazione con cui è stata condotta in Italia la recente rivoluzione» (Ibidem, p. 259).
V. Una sola Europa. Dora d’Istria
C’erano, in quel paesaggio, delle montagne, delle valli, dei corsi d’acqua. Saliva in cima alle montagne; errava per le valli; saliva sulle sponde dei ruscelli […]; e quando dal culmine più alto il suo occhio vagava lontano, oltre il Mar di Marmara, oltre le pianure della Grecia, e i suoi occhi (li aveva acutissimi), scoprivano l’Acropoli con uno o due screziature di bianco che, per certo, dovevano essere il Partenone, allora l’anima sua si dilatava come pupilla, ed ella implorava fondersi con la maestà delle colline, di conoscere la serenità delle piane […]. Virginia Woolf, Orlando
Nell’enigmatico quadro di Gustave Courbet intitolato L’atelier (1855), si vede il pittore che rappresenta se stesso mentre dipinge un paesaggio fluviale. Alle sue spalle, quasi a specchiarsi nel paesaggio, posa, in piena luce, una modella. Perché la modella seminuda se poi il pittore non la rappresenta nel quadro? si sono chiesti i critici. In realtà, se si pensa alla passione di Courbet per il paesaggio antropomorfo, si comprende che nella composizione pittorica la “donna” è presente. Essa è il fiume che sgorga dalla grotta e scorre verso l’artista: lo rivela la posizione del drappo che scivola lungo il corpo della modella, «quasi una cascata di tessuto che precipita nella pozza formata dall’abito sul pavimento dello studio»1. Questa immagine e la metafora fluviale, declinazione di un più ampio mito dell’acqua (nella tradizione trasmessa da Esiodo Europa è il nome di una sorgente e di una divinità acquatica attratta dal mare) mi sono parse quasi “necessarie” a introdurre la figura della scrittrice e viaggiatrice Dora d’Istria, nome letterario della rumena Elena Ghika, nata a Bucarest il 22 gennaio del 1828. Non esiste alcun motivo per pensare a un collegamento effettivo fra la modella-fiume di Courbet e la nostra viaggiatrice solo per caso contemporanea del pittore (quando egli dipingeva il quadro Dora aveva venticinque anni e la sappiamo fra Svizzera e Belgio e, forse, Francia) e, a quanto raccontano i biografi, bella abbastanza da aver ispirato ritratti ad alcuni (meno importanti) artisti. Il nome scelto per firmare i propri lavori in un’epoca che rinnova il fascino degli antichi miti fluviali accedendo, a differenza della cultura rinascimentale e barocca, ad una personificazione femminile, piuttosto che maschile, del fiu-
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me2 non appare, invece, casuale. Dora deriva da una base preindoeuropea diffusa nell’idronimia dell’Europa (in Italia settentrionale Dora è il corso d’acqua). Quanto al d’Istria, l’identificazione appare ancora più significativa se si pensa che l’Istro è il Danubio, fiume europeo e rumeno, il più appropriato simbolo geografico di quell’unità regionale fra Est ed Ovest che ai tempi nostri si va realizzando, ma che la viaggiatrice, come vedremo, auspicava. A rischio di una riflessione anacronistica, non si può fare a meno di pensare che Dora d’Istria sarebbe molto amareggiata potendo constatare che dal processo di unificazione la Romania e l’Albania, le terre dei suoi avi, sono ancora escluse, penalizzate, come altri stati balcanici, dalle vicende del secolo e mezzo che separa la sua esistenza dalla nostra. A suggerire questa considerazione è la sua foltissima bibliografia, nella quale i saggi contro la guerra (e sulla posizione delle donne nei confronti della guerra) sono numerosi quanto quelli dedicati alla storia della regione balcanica3. Se dalla documentazione analizzata emerge una personalità di molte luci e qualche ombra come, ad esempio, una buona dose di vanità, Dora d’Istria non sembra invece mai contraddirsi sul piano delle idee. In particolare tutta la sua riflessione ruota intorno all’idea di un’Europa repubblicana, federale, liberista e laica nella quale i confini siano i punti di contatto di identità culturali differenti e non il segno sulle carte della effettiva divisione dei popoli. […] i veri amici della libertà e dell’umanità – scriverà – credono che l’Europa, stanca delle lotte senza quartiere utili solo al dispotimo, finirà per diventare una grande famiglia il cui fine glorioso sarà quello di chiamare il resto del mondo al banchetto fraterno della civiltà4.
La biografia di Dora d’Istria va letta con la mappa d’Europa alla mano. Il casato a cui appartiene, Ghika, di origine albanese, governa la Valacchia nel periodo in cui questa regione si trova al centro della contesa fra gli imperi russo e ottomano. Fra il 1841 e il 1848 Elena Ghika vive con la famiglia in esilio fra Dresda, Vienna, Berlino e Venezia. Rientrata in patria conosce il principe («brillante e un po’ folle», come lo definirà l’orientalista fiorentino Angelo De Gubernatis, amico e biografo della viaggiatrice5) Alessandro Koltzoff-Massalsky che si trova in Romania con la legazione militare russa. L’anno dopo, contro il volere dei parenti, lo sposa e si trasferisce con lui a Pietroburgo. Nonostante il bel mondo frequentato, i bagni di mare a Odessa, i viaggi e gli studi, il matrimonio è un disastro: nascono due bambini che muoiono piccolissimi; il principe, dedito al bere e al gioco, dissipa il proprio patrimonio e lo stesso inizia a fare con quello della moglie. Dora non riesce ad adattarsi né al clima metereologico troppo rigido né al clima politico illiberale della Russia zarista. «Non sono mai passata per un’entusiasta del sistema aristrocratico che mi pare abbia fatto il suo tempo», scriverà6. Dopo
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circa sei anni lascia la Russia e il marito con il cui nome continuerà comunque a presentarsi, cosa che darà modo all’ironica George Sand di dire: «Mme Dora d’Istria, principessa Koltzoffckassalsk… ouff, scusate! Tre quarti d’ora di nomi […]»7. Fin da giovanissima, data l’appartenenza a una classe sociale molto elevata, aveva ricevuto un’ottima istruzione affidata dalla famiglia a un giovane istitutore greco, Gregorio Giorgio Papadopulos di Tessalonica (1818-1873), che sarebbe divenuto un intellettuale di primo piano nel proprio paese e poi perfino ministro dell’educazione. Nella formazione di Dora aveva avuto molta importanza la conoscenza delle lingue. Per fortuna – scrive di sé – la conoscenza delle lingue non mi mancava. In famiglia usavamo solo il francese. Papadopulos mi ha insegnato presto il greco che ha in Oriente la stessa importanza del francese in Occidente. Le lingue germaniche mi incuriosirono in seguito, benché i popoli di origine pelasgica non abbiano alcuna versatilità per tali idiomi8.
Nel 1855 si stabilisce in Svizzera che, per la miscela di culture e idiomi che riunisce pacificamente sotto istituzioni repubblicane, rappresenta il suo modello politico. La ricerca e la scrittura diventano l’occupazione dominante. Pubblica subito un lavoro sulla vita monastica nella chiesa ortodossa assumendo lo pseudonimo con il quale diventa rapidamente famosa9. L’anno dopo, un po’ sul solco della de Staël de L’Allemagne, dà alle stampe La Suisse Allemande et l’ascension du Moench, metà libro di viaggio e metà saggio storico-politico10. Vera poligrafa, Dora d’Istria metterà insieme una produzione di libri e articoli enorme, estesa a una grande varietà di campi: prima di tutto la storia e, con essa, la riflessione politica. Molti lavori riguardano la condizione femminile11. Altrettanti le lingue, le letterature, le tradizioni popolari. Gli interessi geografici si esprimono negli scritti di viaggio e nella riflessione sulle questioni ambientali che sfocia perfino in un saggio dedicato al problema del rimboschimento con gli eucalipti12. Questa mole di materiali, di cui non è stata stesa una completa rassegna, non mi risulta sia stata analizzata da studiosi occidentali nel corso del Novecento. A parte l’attento studio di carattere bio-bibliografico dedicatole negli anni Cinquanta in una rivista rumena edita a Parigi da Petre Ciureanu, la scrittrice è entrata, dopo la morte, nell’oblio proprio nei contesti culturali in cui si era affermata la sua personalità: l’Italia e la Francia. Se nei paesi delle sue origini, la Romania e l’Albania, il nome di Dora d’Istria è rimasto nella memoria collettiva tanto da essere attribuito ad alcune scuole e strade, in Europa occidentale esso non si è imposto neppure all’attenzione di studiose attente come le autrici dell’ampia storia delle donne curata da Georges Duby
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e Michelle Perrot nella quale per più di una ragione Dora d’Istria avrebbe meritato un posto. Solo recentemente ho avuto modo di riscoprire casualmente questa figura e di pubblicarne le relazioni di viaggio sulla Liguria13. Il secondo Ottocento è, invece, cosparso delle sue opere, in primo luogo dei libri, tradotti in diversi paesi occidentali. I suoi articoli si trovano in una gran quantità di periodici culturali e politici: francesi, svizzeri, tedeschi, greci, italiani e di diversi altri paesi, continente americano compreso14. Di un epistolario che doveva essere piuttosto corposo ho trovato le lettere dirette a studiosi del suo tempo, stranieri e italiani: fra questi ultimi Nicolò Tommaseo, il patriota filoromeno Tullo Massarani, De Gubernatis15. Cesare Correnti la chiama a scrivere sul periodico liberale «Il Diritto». Sono numerosi i documenti che testimoniano il suo legame con gli intellettuali arberesch, cioè gli albanesi dell’Italia meridionale. La sua figura riscuote l’ammirazione di diversi autori che scrivono su di lei biografie fin troppo celebrative16: il geografo francese Richard Cortambert, Paolo Mantegazza17, l’archivista veneziano Bartolomeo Cecchetti18. Il giurista liberale Francesco Cesare Gabba, a quanto pare l’amico più intimo, le dedica un lavoro che è un riconoscimento alla scrittrice “femminista”19. De Gubernatis, che per tutto il periodo fiorentino ha con lei rapporti di collaborazione e amicizia, prima di conoscerla personalmente le dedica, sulla scia degli altri, un profilo eccessivamente positivo che avrebbe poi corretto con il più critico lungo necrologio20. Un’ampia “voce” con il suo nome compare sul noto Dictionnaire des contemporains del Vapereau. Non si contano, infine, le Accademie e Società scientifiche che accolgono fra i membri Dora d’Istria, compresa la Société de Géographie parigina dai cui registri risulta ammessa dal 186621. Negli archivi della Société, sono conservate anche due fotografie di Dora d’Istria giovane e anziana uscite dallo studio Alinari di Firenze22. Il legame con l’Italia, nato al tempo delle giovanili presenze a Venezia, quando la principessa ventenne già plaudiva ai moti antiaustriaci («Avevo assistito alla rinascita, purtroppo passeggera, della libertà italiana […]. Mi sembra di avere ancora davanti agli occhi Daniele Manin […]23), si rinsalda dopo il 1861, anno dell’Unità. Dora d’Istria risiede dapprima a Livorno, ospite dell’amica Enrichetta Rodocanachi, poi a Venezia, in una casa sul Canal Grande, e a Torino, in piazza dello Statuto. Prende contatti con Garibaldi ed ha anche con lui fra il 1861 e il 1866 uno scambio di lettere. Lo scopo è di coinvolgere nella causa rumena e delle altre nazioni oppresse il simbolo vivente della sua stessa fede nella libertà dei popoli24. Mi è stato possible, anche grazie a diverse lettere autografe inedite, ricostruire abbastanza precisamente gli anni fiorentini: gli studi, le relazioni culturali, i viaggi, le villeggiature in Liguria, gli spazi in cui ha vissuto. A Firenze, prende dimora a partire dal 1870 in un villino che acquista da De Gubernatis,
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in via Leonardo da Vinci: vi abiterà, viaggi a parte, per diciotto anni. Al proprio servizio ha una cameriera, una cuoca svizzera, un giardiniere e sua moglie25. Riveste le pareti di ogni stanza di libri26. Ingrandisce il giardino organizzandolo, su disegno di un architetto parigino, in tre spazi: un orto, un boschetto di eucaliptus, il giardino vero e proprio. È, questo, un vero orto botanico, ricco di specie esotiche, con due palme fatte venire dalla Liguria e dalla Grecia, il piccolo stagno con due cigni, lo chalet, la serra, le voliere. Dallo scultore genovese Tassara fa costruire una statua per il proprio cane27. Molti aspetti della sua personalità dovevano apparire bizzarri o anche sconvenienti; lo stesso De Gubernatis che, insieme alla moglie Sofia, risulta esserle l’amico più vicino degli ultimi anni, nel necrologio scrive: «Ella non vedeva niente al di là della vita; ella non comprendeva alcun sentimento religioso; ella prendeva brutalmente in giro tutto ciò che è sacro; così ha osato dare all’amato cane il nome di Brahama, la divinità più spirituale dell’India»28. In quell’ambiente molto particolare Dora aveva continuato a lavorare intensamente per tutti gli anni Settanta ma anche oltre: l’ultimo articolo, la ricostruzione di un malinconico pellegrinaggio sul lago di Bienne, luogo dell’esilio di Rousseau, sarà pubblicato nel 188829, lo stesso anno della morte verso la quale si avvia in solitudine: «Passo la vita molto ritirata, esco poco, i miei amici non esigono da me cerimonie […]»30. Il 1879, anno successivo alla pubblicazione di una relazione su Rapallo, era stato l’ultimo della sua presenza nell’ormai familiare cittadina. Nel luglio del 1881 troviamo Dora a Vichy31, probabilmente per bagni ormai più adatti alla sua condizione. Continua a scrivere a De Gubernatis, ma le lettere inviate dopo il 1885 – l’ultima è del 20 agosto 1888 – sono in realtà una serie di brevi biglietti di saluto, scritti con grafia stanca, talvolta privi di data, introdotti da un malinconico samedi soir… Il 17 novembre del 1888 muore per un’ernia grave trascurata dopo la scomparsa del medico di fiducia. Attorno a lei accorsero gli amici; non i fratelli con i quali, del resto, aveva interrotto i rapporti e che risultarono diseredati. Il testamento fece molto parlare. Scandalizzò enormemente, perfino l’igienista Mantegazza32, la volontà di essere cremata che fu eseguita nel cimitero di Trespiano. Quanto ai beni, lasciò le proprietà terriere rumene alla città di Bucarest e la villa di Firenze all’Istituto per sordomuti che sorgeva davanti alla sua abitazione. L’Istituto, in cattive condizioni finanziarie, grazie al lascito poté continuare la sua attività. Dal Comune di Firenze non le fu reso per questa generosità alcun onore33. Subito dopo la morte le meraviglie del suo giardino furono vendute all’asta come, più tardi, giardino e villa. Questa sarà demolita negli anni Sessanta del Novecento per far posto a un condominio. Dei bei ritratti e sculture che le
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erano stati dedicati, dei libri che dovevano essere moltissimi e tutte le altre cose passate in eredità all’Istituto per sordomuti non sono riuscita finora a trovare traccia. A Firenze nessuno studioso si è occupato di lei salvo l’autrice di una recente tesi di laurea34. E pensare che sia Mantegazza un anno prima della morte, sia De Gubernatis nel suo pur critico necrologio hanno lasciato chiara testimonianza del messaggio contenuto nella sua opera: […] spinta dai viaggi, dagli studi, dal suo pensiero attraverso tutti i paesi e tutte le letterature, la nobile amica appena deceduta possedeva a un grado superiore lo spirito internazionale. È soprattutto a questo titolo che il suo nome resterà nella storia letteraria del nostro tempo; è a questo titolo, anche, che ella merita una pagina di riconoscimenti nella rivista che ella stessa ha visto nascere e che spesso si è avvalsa dei suoi scritti eruditi35. Dora d’Istria non indossò mai alcuna uniforme di nazionalità e non portò altro abito che quello di cittadina del mondo civile, senza però mai rinunziare alla patria, né alla culla […]. La direste cittadina di una repubblica che ha di là a venire o che almeno invochiamo e speriamo pei nostri nipoti e pronipoti lontani, quando il nascere francese o rumeno, inglese o tedesco sarà un lineamento biografico, non già la consegna di un odio comandato o l’obbligo di una data uniforme36.
Un mondo di donne La biografia e la bibliografia qui succintamente ricordate evidenziano la coincidenza, in Dora d’Istria, fra vita, scrittura, viaggio. Sul ruolo della donna nel viaggio come pratica conoscitiva ha le idee piuttosto chiare: Mi è sempre parso che le donne potevano, viaggiando, completare il compito del più sapiente dei viaggiatori. In effetti la donna porta nella letteratura attitudini speciali. Ella conosce meglio degli uomini tutto ciò che riguarda i costumi e la vita intima delle nazioni. Un vasto campo di indagine, troppo trascurato, resta aperto alle sue osservazioni37.
Nella relazione del viaggio in Grecia ricorda e apprezza alcune viaggiatrici: Cristina di Belgioioso, di cui aveva letto la relazione del viaggio in Turchia e Siria intitolata La vie intime et la vie nomade en Orient 38; la contessa di Gasparin, in Grecia una decina d’anni prima di lei e autrice di un Voyage dans le Levant 39; Fredrika Bremer, viaggiatrice finlandese che conosce personalmente ad Atene40. Qualche anno dopo, in Des femmes par une femme, darà alle viaggiatrici-scrittrici ancora più spazio riconoscendone già allora il ruolo culturale che solo studi molto recenti stanno mettendo in evidenza. La pratica del viaggio, gli scritti che ne ha derivato e la sua appartenenza alla Società geografica parigina fanno di Dora d’Istria una delle protagoniste della nostra geografia femminile di età humboldtiana. Un riferimento a Humboldt lo abbiamo trovato anche nel suo caso. Secondo un aneddoto tra-
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mandato da una biografia all’altra, all’epoca dell’esilio Elena Ghika ventenne avrebbe conosciuto il geografo a Berlino. Incontratala un giorno a una festa presso la corte di Federico Guglielmo, egli l’avrebbe esposta all’ammirazione di tutti chiedendole di decifrare l’iscrizione greca di alcune sculture antiche appena ricevute dal re41. Di sicuro la principessa divenuta davvero una studiosa legge l’opera del geogafo come dimostra la citazione del Kosmos che troviamo ad esempio in Excursions en Roumélie et en Morée dove dimostra di aver letto anche Ritter42. È questa, relativa a un ben individuato viaggio in Grecia, senz’altro l’opera più squisitamente odeporica anche se, come si è detto, l’esperienza personale del viaggiare rientra in diversi lavori, in particolare quelli riguardanti la Svizzera e la Liguria. Troviamo la rappresentazione del paesaggio svizzero, oltre che in diversi articoli, nella Suisse Allemande. L’autrice vi racconta l’ascensione compiuta nel giugno del 1855 in compagnia di guide e portatori sul Moench, la vetta più elevata dell’Oberland bernese. L’impresa ricorda la più famosa e difficile ascensione di Henriette d’Angeville che nel 1838 era riuscita a raggiungere, accompagnata dalle guide, la vetta del Bianco43. Anche Dora racconta l’emozione dell’attesa, i preparativi, la foggia del proprio costume (da uomo), il percorso, i grandiosi paesaggi fino alla cima dove si trova davanti «l’immagine dell’infinito […] in tutta la sua formidabile grandezza»44. Nell’introduzione Dora d’Istria aveva informato il lettore sul suo modo di intendere la scrittura di viaggio, un modo che vedremo applicato anche nella relazione sulla Grecia. Ho steso il mio diario sui luoghi, non ho cambiato cioè niente di quello appuntato in mezzo a un lago o in cima a una montagna. Ho più di una volta mescolato alle mie riflessioni sulla contrada visitata l’espressione dei miei personali sentimenti. Benché io non mi sia solo preoccupata del mondo esterno questo libro è un vero diario di viaggio che contiene le tracce degli studi dell’autore ma anche delle sue meditazioni45.
Con la Svizzera e la Grecia, è la Liguria la regione privilegiata della sua “geografia”. Lunghe villeggiature nella costa ligure le ispirano le relazioni sulla Spezia, su Pegli e su Rapallo. Descrive la Spezia ancora sospesa fra il destino turistico assegnatole da Byron e dagli altri poeti romantici, e il destino militare che proprio allora si andava concretizzando nella costruzione dell’Arsenale. Anche Pegli e Rapallo sono colte nella magnificenza di un paesaggio non ancora compromesso, rispettivamente, dall’espansione industriale e dal turismo di massa; qui natura e cultura si fondono nei borghi rustici, nelle ville, nei giardini, nei primi lussuosi alberghi46.
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Come Maria Somerville Dora d’Istria non fu una femminista sul campo. Il suo costante impegno sulla questione femminile si esplica sul piano letterario e, oltre agli articoli di carattere teorico lo ritroviamo in quelli più geografici. Gli scritti di viaggio le consentono di “territorializzare” le problematiche femminili, di individuare la posizione e le caratteristiche della componente femminile nelle varie società: la qualità dei loro diritti nelle diverse legislazioni (per le vicende personali che spiegano il particolare interesse per le norme riguardanti il diritto familiare e patrimoniale ci ricorda Lady Montagu), l’istruzione, le condizioni materiali di vita e di lavoro, le tradizioni, l’abbigliamento. Questi stessi temi, sempre affrontati in prospettiva storica, costituiscono lo specifico argomento dei quattro volumi di Les femmes en Orient e Des femmes par une femme. Dedicato all’ex maestro e amico Papadopulos, Les femmes en Orient tratta delle donne dell’Europa orientale comprese le turche, le lapponi e le donne delle regioni asiatiche dell’Impero russo: siberiane, armene, curde, kazake, kirghise eccetera. Il tema principale, la condizione delle donne nelle varie realtà geografiche, con speciale simpatia per le donne della classe contadina («Per conoscere bene una nazione, pensava, bisogna esaminare senza aristocratici pregiudizi tutte le classi che la compongono»47), si sviluppa nel quadro di una profusione di notizie riguardanti ambiente naturale, agricoltura, tradizioni popolari, storia delle regioni considerate. Les femmes en Orient può ancora essere letto come una sorta di testo odeporico (anche dal punto di vista formale l’autrice usa l’artificio delle lettere scritte all’amico), una specie di viaggio tematico, un viaggio nei viaggi, compendio e assemblaggio degli spostamenti effettivamente compiuti nel corso del tempo e, per le zone non visitate, risultato delle sue immense letture o di sue esperienze indirette. Alla fine del libro Dora d’Istria scrive: Alla vigilia di lasciare la Russia, mio illustre amico, ho avuto sotto gli occhi come in un quadro meraviglioso le donne di cui vi ho parlato: greche, armene, russe, tartare, ebree eccetera. Odessa è, in effetti, una città unica dove tutte le razze orientali hanno i loro rappresentanti. Dopo aver osservato con il più vivo interesse questo curioso spettacolo, sogno di riguadagnare la Francia, divenuta per me una seconda patria. Prima di allontanarmi dalle regioni orientali, avrei voluto parlarvi anche delle donne dell’Oriente asiatico, ma le lunghe escursioni mi fanno sentire ora il bisogno di riposo e la necessità di aggiornare una parte dei miei progetti48.
Dopo cinque anni esce Des femmes par une femme. Pur costituendo una sorta di continuazione del precedente e in parte costruito sulla conoscenza diretta delle regioni europee, nei due volumi, dedicati alle donne «latine» e
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«germaniche», il senso del viaggio reale si perde sostituito dal tono e dall’impianto del trattato; l’autrice interviene comunque qua e là con osservazioni derivate dalla propria esperienza. Anche qui, sulla base di una formidabile mole di letture, Dora d’Istria ricostruisce la storia delle donne dell’Europa occidentale moderna, intesa sia come storia della componente femminile della società, sia come storia di personalità illustri. Dora mette in risalto il contributo dato dalle donne alla letteratura, alla scienza, alla politica eccetera e intanto coglie le occasioni che ciascuna di loro offre per affrontare i temi a lei cari: il diritto di famiglia, le condizioni dell’esistenza con particolare attenzione alle donne contadine, l’istruzione, le responsabilità storiche della Chiesa cattolica nell’ostacolarne la conquista dei diritti per non dire delle persecuzioni dell’Inquisizione. Il ragiomento più ampio è dedicato al caso francese (a proposito del quale l’autrice allarga la sua acuta indagine alle posizioni che i pensatori, dall’illuminismo a Fourier, Proudhon eccetera, hanno assunto nei confronti della questione femminile) ma nessuna delle realtà geografiche occidentali è trascurata. Così la d’Istria arriva a comprendere nella sua rassegna anche le «angloamericane». Destreggiandosi con grande disinvoltura fra dati statistici e Tocqueville, disegna di loro un profilo di donne più emancipate e meglio inserite nel mondo scientifico delle europee. Chiudono il lavoro due imprevedibili e interessanti capitoli sulle donne dei popoli senza patria: ebrei e nomadi. Se, a proposito di questi ultimi, di cui individua provenienza, presenze (circa ottocentomila al suo tempo) e distribuzione in Europa («La maggior parte erra in Linguadoca, Provenza e Vosgi»), auspica l’integrazione con qualche dubbio sul suo successo («Può darsi che ci saranno ancora degli zingari nel XX secolo»), le osservazioni sulle zingare non sono prive di una certa simpatia. Queste «barbare dalle tinte nere con gli orecchi ornati di cerchi d’argento, queste donne dai visi scuri e dagli occhi scintillanti i cui capelli erano paragonati alle code dei cavalli, questi bimbi nudi, queste bande erranti» che hanno storicamente turbato l’immaginario europeo, «mendicano, esercitano una medicina più o meno pericolosa per la loro ingenua clientela, si incaricano volentieri di messaggi amorosi e sopradutto predicono il futuro» perché «si sono presto accorte dei vantaggi che potevano trarre dall’ignoranza e credulità delle classi inferiori di alcuni paesi». Esse, continua Dora amano appassionatamente tutto ciò che brilla […], si coprono di pizzi, anche neri e strappati, di gioelli d’oro di Bologna e di perle false […]. Se gli ornamenti creati dall’industria vengono loro a mancare, mescolano ai loro capelli neri margherite e altri fiori di campo. Ma la vita di una zingara non è unicamente consacrata alla civetteria. Ella ha la sua morale e prende molto sul serio il suo ruolo di sposa e di madre. Le idee che ci si fa spesso del comunismo e della promiscuità che regnerebbero fra queste popolazioni erranti sono del tutto infondate. Ogni fa-
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miglia ha, come quegli Sciti di cui parla Orazio, la propria casa nel suo carretto […]. Nel 1768 uscì un decreto [da parte di Maria Teresa] che ordinava loro di rinunciare alla vita nomade, di vestire i bambini che vanno nudi fino a dieci anni, di mandarli a scuola […]. «Noi Romany abbiamo bisogno di libertà e d’aria pura. Oggi siamo nella pianura, domani sulle montagne»
conclude la scrittrice riportando la frase di una regina degli zingari cui fu domandato come avesse fatto ad arrivare a novant’anni conducendo una vita tanto disagiata49. Nel vasto affresco sulle donne europee che meriterebbe l’attenzione delle studiose di questo specifico tema, alcune pagine di Des femmes rappresentano una fonte preziosa, nei contenuti e nel significato, per la storia del viaggio femminile. Partecipe e testimone di quella “rivoluzione geografica”, culturale e di costume che è il viaggio femminile ottocentesco Dora d’Istria la rappresenta affiancando i nomi delle viaggiatrici a quelli delle protagoniste più prestigiose della cultura letteraria, artistica e scientifica del tempo. Della Belgioioso, già ricordata al tempo del viaggio in Grecia, Dora d’Istria sottolinea qui l’impegno rivoluzionario, gli scritti storico-politici e, di nuovo, quelli del viaggio in Turchia. «Le Scene di vita turca […], provano che la principessa ha studiato con molta cura i signori delle belle regioni che attendono solo un governo intelligente per acquisire una posizione fra i paesi più fortunati d’Europa», scrive, come sempre caustica contro il governo ottomano50. Una critica tutta rivolta ai sovrani e che esclude i popoli come risulta dalle pagine nelle quali riassume i meriti di un’altra viaggiatrice ormai a noi nota: Ida Pfeiffer. Della viaggiatrice viennese, della quale dice che «contribuì più di ogni altro viaggiatore dei nostri tempi al progresso delle scienze geografiche e dello studio delle diverse razze che coprono il nostro globo» ricorda succintamente dati biografici, viaggi, scritti. Del primo viaggio intorno al mondo scrive fra l’altro: Arrivata in Brasile, invece di limitarsi, come si fa generalmente, a visitare le città della costa, s’infilò nelle foreste vergini dell’America meridionale senza paura del carattere capriccioso dei selvaggi che le abitano. Una lotta sanguinosa che in un posto sostenne con un negro in fuga dà l’idea dei pericoli corsi. In Oceania fece a piedi il giro di Tahiti. Sfortunatamente, il capo del Celeste Impero si mostrò con lei meno gentile degli indigeni brasiliani e i mandarini non le consentirono di andare oltre Canton […]. Il suo sesso, la mancanza di un gran nome e di ricchezze, tutto sembrava rendere impossibile la realizzazione dei suoi giganteschi progetti. Quasi sempre, i viaggiatori che si avventurano in regioni infinitamente più sicure del Borneo o del Madagascar, ottengono dai governi un solido aiuto, risorse e raccomandazioni di ogni tipo. Non è proprio stato il caso di Ida Pfeiffer […]. Così ci vuole una buona dose di intelligenza e di coraggio per un membro di que-
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sto sesso che tanti votano all’ignoranza e la cui “debolezza” è tanto spesso presa in giro per realizzare una cosa che ha fatto dire a Alexandre von Humboldt […],
e riporta a merito di Ida gli elogi che conosciamo a lei rivolti dal geografo51. Poi, ne sottolinea la visione politica cui altri biografi hanno dato scarso rilievo: Questa viaggiatrice aveva troppa energia per non appartenere alle idee costituzionali. Così non ha voluto lasciare ignorare ai suoi lettori la gioia che le causò la rivoluzione di Vienna. «È da non credere!, esclamava ad Atene nel suo diario, che risveglio dopo un così lungo letargo!». Gli avvenimenti del marzo l’avevano incantata «al punto che era fiera di essere Austriaca». Questo spirito, liberale per istinto, si meravigliava spesso, al ritorno nel mondo civilizzato, di trovarlo talvolta più arretrato della stessa società asiatica. Al ritorno dal primo viaggio intorno al mondo, arrivata alla frontiera russa, le vessazioni che dovette subire a causa del passaporto le ispirarono queste curiose riflessioni: «O miei buoni Arabi, miei Turchi, Persiani, Indù, ho attraversato tranquillamente le vostre regioni! Chi avrebbe detto che avrei incontrato tanti ostacoli su questa terra cristiana?»52
Se in Ida Pfeiffer la d’Istria trova elementi di identificazione, il riconoscimento del ruolo delle viaggiatrici ottocentesche nella cultura occidentale continua in una trattazione che intreccia fra di loro, e talvolta con il proprio, i percorsi esistenziali e geografici. Ci parla della contessa tedesca Ida HahnHahn che va a trovare in Svezia la finlandese Fredrika Bremer, autrice di Vita nel Nuovo Mondo, che la stessa Dora, come si è detto, aveva conosciuto ad Atene nel 1860 e con la quale teneva una corrispondenza53. Ricorda le inglesi della «piccola colonia» presenti, come lei, a Firenze: oltre alla Somerville, di cui riferisce meriti ed opere, Frances Milton Trollope (le cui opere, dedicate a due argomenti, la letteratura e il viaggio, «sistemate nella biblioteca del suo villino formavano una vera collezione») ed Elizabeth Barrett Browning, autrice di un «notevole quadro pubblicato nel 1851 sullo stato politico della penisola»54. La rassegna della generazione delle vittoriane continua con le irlandesi Lady Morgan (1783-1859) il cui Italy del 1821 fu «considerato da lord Byron come un quadro molto esatto della Penisola a quest’epoca» ed Anna Jameson (1797-1860), scrittrice, pittrice, «accusata di idee socialiste», autrice di «Schizzi e racconti di viaggio che contengono il suo eccellente Diary of Ennuyee, sua prima opera, sul viaggio in Italia. Le Scene di vita tedesca e gli Studi e passeggiate in Canada, continua Dora, ce la mostrano nelle colte città occidentali e fra i Pellerossa americani». Poi illustra la figura della gallese Henriette Martineau, autrice di L’Oriente di allora e di oggi (1848), che aveva ceduto, «all’attrazione che porta gli scrittori del vecchio mondo a studiare negli Stati Uniti i costumi di una grande società repubblicana»: nel 1838 aveva
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pubblicato Society in America e nel 1839 Retrospect of Western Travels. Rifiutata, per essere totalmente libera di esprimere le proprie idee, una pensione che il governo inglese le aveva proposto, e tutta dedita alla scrittura, «Miss Martineau cammina per giorni interi e anche per settimane in mezzo alle montagne con uno zaino sulle spalle e nel suo giardino maneggia la zappa con una abilità rara nelle persone che si servono della penna bene come lei»55. Passaggio in Grecia L’opera in cui è Dora d’Istria a scrivere un vero e proprio diario di viaggio è l’Excursions en Roumélie et en Morée. Si tratta del viaggio compiuto fra il luglio e l’agosto del 1860 in Grecia in compagnia di Papadopulos56. La dedica a «Gregorio III Ghika, principe di Moldavia che preferì sacrificare il trono e la vita piuttosto che consegnare la Bukovina all’assolutismo austriaco» anticipa il taglio storico-politico che anima anche questa relazione. È evidente che le contrade attraversate si prestano molto alla rievocazione delle vicende e dei miti della classicità, ma la storia che permea tutto il racconto è soprattutto quella dell’indipendenza raggiunta dal popolo greco solo un trentennio prima del passaggio della viaggiatrice. Alle continue digressioni erudite, alle riflessioni di carattere politico (non prive di interesse ma neppure di pesantezza) e alle continue citazioni si deve la lunghezza spropositata del testo: circa seicento pagine per ciascuno dei due volumi che lo compongono. Eccessi a parte, la viaggiatrice ha ragione quando rivendica l’importanza della conoscenza della storia di un territorio per riuscire davvero a capirne la geografia: I viaggiatori occidentali che non conoscono la maggior parte della storia delle regioni che percorrono, con tutti i pregiudizi che l’osservatore più impaziale deriva immancabilmennte dalla razza a cui appartiene e dall’educazione ricevuta, sono molto soggetti a lasciarsi ingannare dalle apparenze57.
In effetti, le pagine del diario più squisitamente odeporiche, attraversate con maggior leggerezza dalla storia e dal mito che impregnano ogni regione ellenica, possiedono il fascino della geografia poetica di un Reclus. Sfrondate delle parti grevi, le Excursions sono una rappresentazione affascinante e fedele della Grecia ottocentesca. Dora dichiara di essere abituata a viaggiare alla maniera di Arthur Young, autore delle «molte interessanti descrizioni della vecchia Francia provinciale», giacché non ci si può fare un’idea del Valais dopo aver visto solo Berna, aggiunge, proponendosi di visitare ogni campagna e ogni villaggio prima di farsi di una regione un’idea definitiva58. Munita di questo spirito, Dora d’Istria inizia il suo viaggio a cavallo (attaccati alla sella «tappeti, sacchi e cuscini»59) attraverso la Grecia partendo il
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6 luglio del 1860 da Atene dove per due settimane è stata ospite della famiglia di Papadopulos. Lo studioso guida la «carovana» formata, oltre a loro, da una una scorta di tre guardie in divisa che saranno più utili a rendere qualche servizio che a proteggere i viaggiatori durante un percorso disagevole. «In tutto l’Oriente, spiega Dora intendendo, come sempre, la penisola balcanica, le vie di comunicazione sono molto imperfette e il turista che non si rassegna alla fatica può star certo che non acquisirà mai informazioni precise su queste magnifiche contrade»60. Il viaggio si svolge a tappe accelerate: quasi ogni giorno la relazione registra uno spostamento e un diverso luogo di sosta. Per il cibo e il sonno i viaggiatori, muniti come d’uso di lettere di presentazione, sono via via ospitati nelle case di autorità locali, di famiglie influenti e nei conventi. In mancanza di meglio il problema del pasto viene risolto “al sacco” con il conforto del buon Bordeaux caricato ad Atene. Ovunque, anche nei territori più interni e isolati, i viaggiatori possono fare affidamento su una rete di modesti ma immancabili ricoveri-posta denominati khani, talvolta «più comodi per i cavalli che per i turisti». Il khani più che un albergo è un ricovero, non essendo in Grecia i viaggiatori né molto numerosi né tanto disposti a fermarsi perché si pensi di creare degli alberghi in posti che non siano i maggiori centri urbani. Una casa di un solo piano, di pietra o di terra, fornita di una camera, qualche volta di due, se si possono chiamare camere delle stanze prive di letti e, di solito, di mobili: questo è un khami. Non vi si vedono mai cameriere dato che sono gli uomini ad occuparsi dell’intero servizio. Di viveri vi si trovano solo pane, vino, caffè ed olive. Quando si viaggia d’estate, soprattutto se si è nati nell’Europa orientale, non si dà troppa importanza a questa assenza di comodità. Le notti sono talmente splendide, l’atmosfera così calma, la brezza tanto profumata che si riposa volentieri all’aperto dove non si devono temere gli inconvenienti di una guerra contro gli esseri microscopici che potrebbero esercitare la sapienza di un entomologo e mettere alla prova il senso di carità di un Buddista […]. Quando mi fermai nel khani di Casa, i fuochi accesi sulla montagna facevano un effetto meraviglioso. Il tempo era così bello che decisi su due piedi di prendere la via di Tebe e di risalire il monte al quale la drammatica leggenda dello sfortunato re di Tebe ha dato una fama sinistra. Le catene delle montagne hanno perduto col tempo il loro nome che è stato sostituito da nomi attribuiti a ciacuna delle loro parti […]61.
L’itinerario di Dora d’Istria e del maestro, seguito, oltre che nel racconto della viaggiatrice, sulla carta, conferma il suo non temere fatica e l’intenzione di un’esplorazione non superficiale. Del Peloponneso Dora affronta le vallate più interne nelle quali può trovare lo spirito originario del mondo mediterraneo in cui affondano le sue radici albanesi. La relazione del viaggio è scritta a posteriori (Dora la firma da Siena nel 1861) evidentemente sulla base di accurati appunti: quasi ad ogni tappa la
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viaggiatrice informa il lettore sul giorno e l’ora di partenza e di arrivo. Della Grecia continentale i viaggiatori percorrono il tratto fra Atene, Tebe e Delfi. Da qui arrivano al porto di Itea dove si imbarcano su un battello a vapore per il Peloponneso che «un istmo di sessanta chilometri di lunghezza e otto di largheza unisce alla Grecia continentale» (sarà tagliato vent’anni dopo). Da Patrasso un’escursione di nuovo in battello li riporta sulla costa continentale a Missolungi, magica per la sua laguna e la memoria di Byron alla quale, nota la viaggiatrice, non è stato dedicato alcun segno tangibile. Tornati a Patrasso raggiungono Egion e, nell’interno, i monasteri dei Taxiarchi, di Megaspileon e di Agia Laura. Dora descrive accuratamente le occupazioni dei monaci, le antiche architetture dei conventi, le biblioteche ricche di volumi e manoscritti che essi contengono. Il gruppetto continua il viaggio verso Sud attraversando vallate ritagliate fra storiche catene e superando, talvolta a guado, corsi d’acqua mitici fino a Tripoli e Megalopoli. Raggiunge l’epica piana di Sparta, poi Lerna ed Argo da dove i viaggiatori effettuano escursioni a Micene, Tirinto e Nauplio. Un ulteriore giro in battello consente a Dora di scendere nell’isola di Spetze e di vedere dal mare Idra, Poros e poi Egina e Salamina. Il viaggio effettivo si conclude con il ritorno nella capitale e la descrizione di Atene antica «mai eguagliata da nessuna città», di Atene moderna e dei dintorni. Il 15 agosto 1860 Dora d’Istria si imbarca al Pireo per l’Italia. Dalla lettura risulta chiaramente che il testo delle Excursions è costruito a posteriori sulla base delle cose viste personalmente e delle informazioni comunque raccolte durante il viaggio integrate con vaste letture e notizie derivate da fonti descrittive e statistiche che la viaggiatrice si premura sufficientemente di citare. Forse insoddisfatta per non poter dar conto direttamente di un percorso più ampio, di sicuro in grado di farlo attraverso la documentazione indiretta e i propri studi, Dora inserisce nella relazione la descrizione di territori non visitati senza spacciarli per tali: Olimpia, il Mani (descritto sulla base del racconto di un viaggiatore incontrato), Epidauro, le isole Ioniche, l’Eubea, vista soltanto dalla costa dell’Attica, e le Cicladi, verso il mare in cui sorgono aveva potuto appena «gettare un’occhiata». Limitandoci qui all’analisi del percorso reale, le notizie che se ne traggono, confrontate con altri testi (e, grazie alla dettagliata toponomastica registrata dalla viaggiatrice, con la realtà geografica attuale) risultano di estrema precisione. Dora d’Istria descrive i paesaggi attraversati, le caratteristiche della vegetazione spontanea e dell’agricoltura, i villaggi e le città toccate, le case e le attività rurali, gli usi alimentari, i luoghi di sosta, gli incontri, le feste, le donne, l’accoglienza sempre cortese degli ospiti, usualmente accompagnata dal dono di «mazzetti di basilico» e di «confettura di rose».
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Le informazioni sul numero degli abitanti, sulle produzioni artigianali e industriali, su quelle agricole e del bosco, sui commerci, si intrecciano alle rappresentazioni paesistiche che Dora percepisce e riflette con occhio insieme geografico e pittorico. I villaggi greci non sono, come in altri posti, un ammasso di casupole di terra. Sono fatti di solide case in pietra, coperte con le tegole, usanza che rende gli incendi molto più rari. Ma dato che non sempre sono intonacate, esse non hanno quella bell’aria ridente delle case di campagna. In molti villaggi dell’Attica la mancanza di alberi mette un senso di sgradevolezza nel viaggiatore […]. Del resto, l’estate non è la stagione più favorevole per visitare la Grecia e farsene un’idea giusta. Le graminacee, che spuntano con tanta foga in primavera, seccano a fine maggio. Già a giugno si miete il grano. Solo il tabacco e il mais, irrigati artificialmente, conservano qualche riga di verde in mezzo ai campi divorati dal bruciante sole d’Oriente. Invece, all’inizio dell’anno, il sole esercita solo un’azione benefica. All’inizio di gennaio, egli fa aprire i fiori d’alabastro dei mandorli. Gli succedono altri alberi deliziosi. Una nuvola rosa sembra galleggiare sulla scorza scura dell’albero di Giuda […]. Prima di sparire davanti all’estate, la primavera fa sbocciare gli oleandri e i petali argentei dei mirti di cui i popoli ellenici avevano fatto il simbolo dell’amore felice e con i quali incoronavano le immagini degli avi. Quanto alla vegetazione dei campi, non è qualche pianticella isolata ad attirare l’attenzione, ma veri e propri banchi di giacinti, violette e narcisi che riempiono l’aria di profumo […]. La via carrozzabile, seguendo l’ondulazione del terreno, sale, attraverso boschetti verde chiaro disseminati di olivi, da Mandra a Vilari, villaggio moderno, e da Vilari a Palaeo-Koundoura che si lascia a sinistra, in una vallata; poi, seguendo un tracciato un po’ tortuoso, la strada arriva al sito di Eleuthera le cui rovine portano oggi il nome di Ghypto-Castron […]. Ho anche incontrato, oltre ai contadini e alle contadine a cavallo degli asini, dei pastori che scendevano a piedi la montagna portando sulle spalle un vaso di legno pieno di resina. Il loro mantello bianco contrastava con il tono scuro della vegetazione […]62.
Da questa descrizione di sapore letterario la viaggiatrice passa di netto a contenuti, e toni, più concreti: Essendo la natura della zona […] molto favorevole ai pini, i dintorni sono suddivisi in piccole proprietà per lo più appartenenti ai contadini. La regione produce più di 200.000 oque (misura equivalente a 1250 grammi) di resina, del catrame e della pece. Il catrame si ottiene tagliando il legno del pino, già quasi privo di resina, in pezzi da 80-90 centimetri. Si accatastano i pezzi in un forno grossolano al di sotto del quale si trovano un focolare e un condotto che sbocca in una fossa che funziona da recipiente. Dopo aver accumulato la legna in un monticello alto più di due metri e averla ricoperta, lasciando un foro nel mezzo, si accende il fuoco nella parte superiore della legnaia. Bruciando lentamente il pino lascia stillare, attraverso il fumo, la sostanza nera, spessa e collosa di cui si fa un grandissimo consumo nella marina per spalmare i cordami e la carena dei vascelli […]63.
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E Dora continua sottolineando quale preziosa risorsa siano il pino marittimo e altre essenze locali di cui riferisce il nome scientifico, elenca il trend dei dati, riferiti al 1854 e al 1858, dei prodotti per l’industria tintoria e con esattezza statistica le regioni esportatrici. Aggiunge poi un’osservazione nel più puro spirito “ecologico”: L’uomo può esercitare il suo dominio sul globo solo per mezzo di intermediari. L’uccello che lo libera dagli insetti dannosi o dagli immondi rettili, l’albero che purifica l’aria assorbendo deleteri miasmi o che prepara il suolo all’agricoltura, gli sono utili quanto il veloce cavallo e il docile bue64.
In effetti, le considerazioni di carattere ambientalista (in senso moderno), ricorrono qui, come in altre opere, frequentemente, ad esempio per segnalare la necessità, dopo l’indipendenza, di effettuare rimboschimenti non pensando solo a costruire case65. La viaggiatrice è altrettanto interessata al patrimonio artistico minore. Fermatasi a dormire nel monastero di Hosios-Lukas, nelle montagne in cui si congiungono Parnaso e Niceone, «i bei giorni dell’arte bizantina, scrive, nel Monte Atos sono disgraziatamente finiti. I laboratori della Caria sono in piena decadenza. Si può anche dire che i monaci non sono più in grado di apprezzare i capolavori che hanno ancora sotto gli occhi. Il vandalismo restauratore fa loro commettere, come al clero occidentale, azioni inaudite»66. Invece, non sa sottrarsi a qualche (rara) considerazione in linea con il determinismo ambientale della cultura geografica dell’epoca. Arrivata in Beozia resta colpita dall’atmosfera pesante così diversa dall’aria «elastica e sottile» che avvolge l’Attica e si richiama allora agli antichi, Ippocrate in testa, che distinguevano il genio vivo degli attici dallo spirito pesante dei beoti: Questa osservazione indicava presso gli antichi una vera intelligenza delle condizioni fisiche che influiscono con grande potenza sul carattere e sull’immaginazione dei popoli, condizioni che i moderni chiamano influenza dell’ambiente. Per poco che l’uomo possa sottrarsene bisognerebbe considerarlo come puro spirito, estraneo alle leggi generali del mondo. Se così fosse, gli Ottentotti e gli Eskimesi avrebbero qualche possibilità di produrre un giorno un Socrate o un Sofocle. Ora, quale idealista abbastanza deciso può nutrire una simile speranza? Nel corso del mio viaggio ho avuto mille occasioni per constatare l’esattezza e la profondità delle osservazioni che si trovano negli scrittori antichi sulle popolazioni della Grecia67.
Tuttavia, dopo aver fatto la rassegna delle varie popolazioni elleniche e l’elogio della diversità dei popoli, modifica subito le proprie convinzioni. «Non è necessario fare un lungo soggiorno in Beozia per vedere che la regione ha conservato i tratti essenziali che troviamo descritti dagli antichi», premette, e descrive questi tratti: la Beozia è una conca formata da rudi montagne su cui
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crescono il lentisco, il pino, il leccio e l’olivo selvatico. La conca è profonda e paludosa e l’aria spessa e stagnante. La terra, trascinata via dai pendii dalle alluvioni, forma un suolo fertile che nutre una gran quantità di erbe e fa vivere una miriade di insetti. Malgrado questo, e nonostante le rocce occupino i quattro quinti del territorio, la Beozia può essere considerata come una delle prefetture più progredite della Grecia dal punto di vista agricolo, racconta la viaggiatrice che, alla fine, arriva a concludere: È vero che le acque prive di facile scorrimento si sollevano in forma di vapore nell’atmosfera. I popoli che vivono in simili condizioni fisiche sono pesanti, flemmatici e poco inclini a capire l’ideale. Ma essi possiedono abbastanza perseveranza e fermezza di carattere da ottenere grandi vantaggi sulle nazionalità che sembrano meglio dotate. I Beoti troveranno nella storia dei loro antenati molti fatti che proveranno che il loro clima non è un ostacolo assoluto allo sviluppo dela loro intelligenza e della loro energia. La pesantezza del beota è diventata proverbiale; ma questo popolo pesante […] ha prodotto un poeta come Pindaro e un eroe come Epaminonda […]68.
La visita ai tre conventi che si trovavano a sud di Egion dà modo alla viaggiatrice di entrare nel cuore del paesaggio sacro del Peloponneso moderno. La descrizione di Agia Laura, di Megaspileon e quella del monastero e convento dei Taxiarchi, qui di seguito riportata, restituiscono le forme e il clima di un ambiente cancellato nel 1943 dalla guerra. Dopo aver passato a guado un fiume rapido ed essermi inerpicata su per un sentiero scavato nella roccia si scorge a una curva il monastero dei Taxiarchi […]. Il convento è costruito sopra un burrone profondo in cui scorre il fiume, e appoggiato ai fianchi della montagna. Enormi cipressi che innalzano verso il cielo la loro cupa piramide, precedono un vasto quadrilatero circondato di mura. Il lato sinistro di questa cinta, che è il più alto, è forato esternamente da due file di finestre. Costruito da quattro secoli e mezzo il monastero ha l’aspetto di una cittadella […]. Alla mia sinistra scorgevo l’antico convento bizantino del nono secolo situato in posizione molto più elevata. Attraversati i giardini, dove ho raccolto dei rami di alloro profumato con cui ho ornato il mio cappello, ho raggiunto la porta del monastero dove mi aspettavano dodici monaci vestiti a festa. Mi accompagnarono in chiesa, poi in una stanza dove mi fu offerto del buon caffè e eccellenti marmellate di rose, venute dal Monte Atos. I religiosi vennero a sedersi accanto a me sul divano per dirmi quanto erano contenti di ricevere una signora russa nella loro casa […]. La mia camera era una sala quadrata, molto ampia e rischiarata da cinque finestre strette, sotto le quali regnava un lungo divano. Il soffitto era di legno intagliato. Il muro aveva un rivestimento di legno interrotto da armadi e cassetti. Di fronte al divano, due bauli stavano appoggiati alla parete. Sporgendomi da una finestra vedevo, alla mia destra, l’antico monastero addossato ai fianchi aridi della montagna. I resti delle mura erano coperti di rampicanti. Sotto di me, negli orti a terrazze coltivati dai monaci, sorgenti d’acqua corrente irrigavano melograni e aranci.
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Non riuscivo a vedere la chiesa a cupola bassa, posta in mezzo alla corte. Subito a fianco si trova il campanile, quadrato, e un po’ più alto della chiesa. A Santa Maria del Fiore, a Firenze, il campanile è similmente separato dal duomo. I quattro lati del muro di cinta sono occupati da due file di celle le cui porte si aprono su una galleria di legno. Ma poiché questa galleria vede solo l’interno della corte, i monaci vanno a fare il kef (far-niente orientale) su una terrazza ombreggiata dalle viti e da due platani che si trova a lato del portone del convento. Di là la vista è meravigliosa […]69.
Più di ogni altra viaggiatrice finora studiata Dora d’Istria riassume in sé sguardo statistico e sguardo poetico. Lo si vede bene anche nella relazione sul Golfo della Spezia in cui essa ritrova paesaggi ellenici, memorie byroniane, luogi di antichi miti. Anche qui le molte immagini poetiche che la natura le ispira si alternano alle più concrete informazioni sulle condizioni dell’economia e alle descrizioni dei costumi e del carattere delle donne. I fiori piacciono ad esse [contadine liguri] come alle Rumene, e come la «flora dei campi» di cui parlano i canti rumeni, esse li mettono con garbo nei capelli […]. Un giorno vidi nel boschetto due vecchie rugose che, come me, vi passeggiavano. A un tratto una di loro, dopo aver guardato a destra e a sinistra per controllare che non ci fosse uno di quei poliziotti la cui divisa semi-sacerdotale e il cui bastone, imponente come quello dei papas ortodossi per il pesante pomo sormontato dalle insegne della città, tengono a bada i più turbolenti (in un Stato da poco unitario le municipalità tendono a dare un carattere individuale all’uniforme dei loro agenti), scivolò rapida come una freccia attraverso un’apertura che altri avevano praticato allo stesso scopo in una siepe di bosso spessa e alta che bordava il viale principale, per impadronirsi di due tagete intraviste in un’aiuola. Afferrati questi fiori dall’odore tanto sgradevole, se ne infilò uno nei capelli e diede l’altro alla sua compagna, poi continuarono la passeggiata soddisfatte come se avessero spogliato un arancio profumato. La soddisfazione del resto era doppia: fare una cosa vietata – azione particolarmente piacevole per i Latini – e adornarsi di un fiore la cui corolla giallo oro risaltava felicemente, quando erano giovani, sull’ebano delle loro chiome70.
Nelle relazioni di viaggio della positivista Dora d’Istria non meno che in quelle delle viaggiatrici “romantiche” (per non parlare delle naturaliste che ne hanno fatto una “professione”), l’interesse per l’elemento flora è centrale. A questo proposito vale la pena di ricordare il viaggio in Persia compiuto nel 1905 da Marthe Bibesco, altra viaggiatrice e principessa rumena residente a Parigi, e dal giornalista Claude Anet, entrambi autori di un proprio resoconto sulla Persia. [Marthe Bibesco] ha lasciato a me il compito di rappresentare le nostre fatiche; lei si è curata soltanto di cogliere i fiori lungo la strada. Penso che nessuno possa sfuggire al fascino che si sprigiona da questo libro ove l’anima persiana […] com-
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pare a ogni pagina e si vedono anche tante scene minuziosamente dipinte, accurate, lussuose e delicate come quelle prodotte di miniaturisti persiani. Si ha la sensazione che durante questo viaggio la principessa Bibesco abbia ritrovato una patria perduta in antico, tanto è riuscita a cogliere in profondità le armonie della terra persiana71.
Flora a parte, questa lettura del viaggio femminile moderno come metaforica ricerca (o ritrovamento) di una patria originaria può essere estesa a numerose viaggiatrici. Penso, per non restare che ad alcuni esempi della mia ricerca, alla identificazione della Montagu con la Turchia da cui non vorrebbe ripartire e, poi, al Veneto da cui si distacca un anno prima di morire, convinta e smaniosa di tornarvi; alla Pfeiffer che, anziana e stanca, non rinuncia ad affrontare il viaggio in Madagascar; alla Somerville che rimane fino alla fine sulle falde del Vesuvio; alla David-Néel che fra poco incontreremo nel piccolo monastero tibetano ricreato sulle Alpi Marittime quando il Tibet vero non poteva raggiungerlo più. Per l’“orientale” Dora d’Istria il viaggio in Grecia è indubbiamente il ritrovamento di una delle tante patrie a cui ha esplicitamente dichiarato di appartenere: Non c’è un’etnia in questa penisola alla quale io non sia unita da qualche legame. La mia famiglia è originaria dell’Albania; ha contratto con i Greci numerose alleanze; i miei avi hanno in diversi periodi governato le province rumene; per matrimonio appartengo alla società slava. Per questo la maggior parte dei miei scritti sono stati dettati dal desiderio di far conoscere meglio agli Occidentali le diverse nazioni che rappresentano in Oriente la civiltà cristiana72. Note 1. Devo questa interpretazione e alcune delle considerazioni che seguono a Simon Schama, Paesaggio e memoria, Mondadori, Milano 1998, pp. 379-381. 2. Perfino nell’avventurosa storia ottocentesca dell’esplorazione delle sorgenti del Nilo ritroviamo il mito di Iside. Interessanti le ricostruzioni dello stesso Simon Schama. Ibidem, p. 382 e ss. 3. Alcuni titoli: La guerra; La religion et la guerre; La politique des hommes et la politique des femmes; La guerre et les femmes, Les Apologistes et les Adversaires de la guerre. Cfr. Petre Ciureanu, Dora d’Istria, «Revue des études roumaines», II, Paris 1954, e III-IV, Paris 1957 (II, p. 91). 4. Dora d’Istria, Des femmes par une femme, Lacroix, Paris-Bruxelles 1865, vol. I, pp. 326327. 5. Angelo De Gubernatis, Dora d’Istria, «Revue Internationale», XXI, Rome 1889, p. 63. 6. Dora d’Istria, Excursions en Roumélie et en Morée, Meyer et Zeller, Zurich-Cherbuliez, Paris 1863, vol. I, p. 258. 7. Cfr George Sand, Correspondance, Textes réunis, classée et annotés par Georges Lubin, tome XIV, juillet 1856 - juin 1858, Garnier Frères, Paris 1979, p. 306, lettera n. 7477, dell’aprile 1857.
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8. Richard Cortambert, Les illustres voyageuses, Mallet, Paris 1866, p. 275. 9. Dora d’Istria, La vie monastique dans l’Eglise orientale, Cherbuliez, Bruxelles 1855. L’autrice riprenderà l’argomento in occasione della visita ai monasteri della Grecia. 10. Dora d’Istria, La Suisse Allemande et l’ascension du Moench, Cherbuliez, Paris-Genève 1856. 11. Ecco alcuni titoli: Les femmes fortes (1871), Lettre à la Présidente de l’Association des dames grecques pour l’instruction des femmes (1872), The woman question in Austria e The woman question in Germany (entrambi del 1873) e prima di tutto le più ampie opere Les femmes en Orient, Meyer et Zeller, Zurich 1860 e Des femmes par une femme, Lacroix, ParisBruxelles 1865. 12. Dora d’Istria, Le reboisement et l’Eucalyptus, «Indépendence Hellénique», Atene 16 settembre 1870. 13. Dora d’Istria, I bagni di mare. Una principessa europea alla scoperta della Riviera, a cura di Luisa Rossi, Sagep, Genova 1998; Dora d’Istria, Autunno a Rapallo, a cura di Luisa Rossi, Sagep, Genova 2000. 14. Fra i periodici italiani troviamo suoi articoli in «Cordelia», «Revue Internationale», «Rivista Contemporanea», «Rivista Europea», «Rivista Orientale» (tutte fondate o dirette da De Gubernatis), nella «Nuova Antologia», nel «Giro del Mondo», nei torinesi «Il Mondo Illustrato» e «Il Diritto», nelle riviste livornesi «Il Romito» e «Viola del pensiero», nella «Rivista Sicula». 15. MS conservati presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (d’ora in avanti BNF), fondo Carteggi. 16. La rassegna dei numerosi biografi è riportata da Petre Ciureanu, op. cit., II, pp. 169170. 17. Paolo Mantegazza, Dora d’Istria. Prefazione, in Dora d’Istria, Gli eroi della Rumenia, Barbera, Firenze 1887. Mantegazza la ricorda una seconda volta senza rivelarne il nome facendo della sua una storia fra altre storie di donne: cfr. Paolo Mantegazza, Le donne del mio tempo, Ed. Voghera, Roma 1905. 18. Il lavoro di Cecchetti contiene anche la rassegna delle opere scritte da Dora d’Istria fra il 1855 e il 1873. Cfr. Bartolomeo Cecchetti, Dora d’Istria, «La Rivista Europea», settembre 1873, pp. 59-71. Cecchetti ebbe un ruolo importante nell’aiutare la scrittrice nelle ricerche d’archivio. 19. Francesco Cesare Gabba, La questione femminile e la principessa Dora d’Istria, Le Monnier, Firenze 1865. Gabba è autore dell’opera Della condizione giuridica delle donne, UTET, Torino 1880. De Gubernatis afferma che il giurista fu il solo amico a cui Dora aveva aperto il suo cuore e che egli era certamente degno di questa confidenza. Cfr. Angelo De Gubernatis, Dora d’Istria, cit., p. 69. 20. Angelo De Gubernatis, Illustri stranieri in Italia. Dora d’Istria, «Rivista Contemporanea Nazionale Italiana», LVII, aprile 1869, pp. 107-115 e Id., Dora d’Istria, cit. Sul piano biografico, nel necrologio De Gubernatis ridimensiona la figura della scrittrice, fino ad allora mitizzata, e ne fa una persona con le normali contraddizioni di ciascun essere umano. Sul piano della produzione letteraria, l’accusa di eccessivo sfoggio di erudizione è condivisibile ma questo, se effettivamente appesantisce la lettura degli scritti della d’Istria, non sminuisce, a mio parere, il loro valore, anche attuale. Almeno per quanto riguarda le opere da me analizzate (i maggiori testi sulle donne e di viaggio) ho trovato rigore scientifico nella ricerca e una capacità di analisi che fa di esse una fonte preziosa per la conoscenza della realtà sociale, politica, culturale e geografica dell’Europa ottocentesca. 21. «Bulletin de la Société de Géographie», 5ème série, tome XIV, 1867, p. 8. 22. Bibliothèque Nationale de France, Cartes et Plans, Portraits, FE 95/16 n. 378 e FE 95/16, n. 237.
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23. S.K.G., Dora d’Istria, Sauerlander Libraire-Editeur, Aaru 1860, p. 25. 24. Cfr. Petre Ciureanu, II, cit., p. 178 e Giacomo Emilio Curatulo, La Principessa Elena Ghika (Dora d'Istria), in Garibaldi e le donne, Imprimerie polyglotte, Roma 1913, pp. 191-198. 25. BNF, Carteggi, De Gub., cit., lettera del 6 ottobre 1870. 26. Ibidem, lettera del 17 ottobre 1870. 27. Sul periodo fiorentino di Dora d’Istria e il suo isolamento rispetto ai salotti letterari della città Luisa Rossi ha effettuato una specifica ricerca incentrata appunto sul meraviglioso giardino creato dalla scrittrice. 28. Angelo De Gubernatis, Dora d’Istria, cit., p. 108. 29. Dora d’Istria, Rousseau sul lago di Bienne, «Rivista Contemporanea», vol. I, 1888, pp. 11-32. 30. Bibliothèque Nationale de France, Carteggi, De Gub., cit. La lettera è datata «29 maggio sera». 31. Ibidem, lettera del 9 luglio 1881. 32. Fr. Raffaello Barbiera, Diademi, Donne e Madonne dell’800, Treves, Milano 1927, p. 142. 33. De Gubernatis riferisce dell’intenzione dell’istituto beneficiario di raccogliere le sue carte, ritratti, ricordi, in una fondazione che non fu realizzata. Cfr. Angelo De Gubernatis, Dora d’Istria, cit., p. 74. Si è invece trovata tutta la documentazione per cui doveva esserle dedicata una piazza di Firenze mentre si finì col porre nel villino una targa , ancora esistente ma spostata quando la casa fu demolita. Cfr. BNF, Carteggi, Tordi, 546, 86, s.d. e Luisa Rossi, L’arboreto…, cit. 34. Oltre alle mie pubblicazioni, il primo e solo lavoro in ambito italiano è la bella tesi di laurea di Elettra Gullé, Dora d’Istria. Un’intellettuale eclettica dall’Europa alla Firenze postunitaria, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Storia, anno accademico 2000-2001. 35. Angelo De Gubernatis, Dora d’Istria, cit., p. 58. 36. Paolo Mantegazza, Dora d’Istria. Prefazione, cit., p. 8. 37. Richard Cortambert, op. cit., p. 275. 38. Dora d’Istria, Excursions…, cit., vol. I, p. 239. 39. Ibidem, vol. I, p. 72 e vol. II, p. 308. 40. Ibidem, vol. II, p. 460. Cita anche Polytimi Kouskouris, direttrice della scuola comunale di Atene e autrice di un testo di geografia storico-antiquaria (Geografia della Grecia antica con note e rinvii alla fonti, Atene 1854). Cfr. vol. I, p. 320. 41. La versioni di Cortambert e di De Gubernatis differiscono in alcuni particolari. Inoltre, secondo Cortambert, l’episodio è raccontato dalla «penna elegante» dello scrittore e storico Charles Yriarte, autore di diari di viaggio in Italia e nel mondo balcanico, mentre per De Gubernatis la fonte dell’aneddoto è l’articolo di Shmidt-Weissenfels nel «Gartenlaube» (n. 15, 1864). Cfr. Richard Cortambert, op. cit., pp. 273-275 e Angelo De Gubernatis, Illustri stranieri…, cit., pp. 112-113. 42. Dora d’Istria, Excursions…, cit., vol. II, p. 308 e vol. I, p. 366. 43. Victor Augerd, Le Carnet Vert de M.lle d’Angeville, «Revue Alpine», a. 6e, n. 3, 1 marzo 1900, pp. 65-120. Luisa Rossi, La scoperta femminile della montagna, in AA.VV., La montagna come esplorazione permanente. Gli aspetti storici e naturalistici dell’esplorazione delle Alpi, Regione Toscana, Firenze 2004, pp. 57-60. 44. Il testo dell’ascensione sta anche in Richard Cortambert, op. cit., pp. 278-299. 45. Dora d’Istria, La Suisse Allemande…, cit., p. XIX. La descrizione dell’ascensione occupa le pp. 125-157. 46. Dora d’Istria, Le Golphe de la Spezia, «Le Tour du Monde», Hachette Paris 1869, Ier sem., pp. 81-96. (Il Golfo della Spezia, «Il Giro del Mondo», Treves, Milano 1869, pp. 395410); Id., I bagni di mare della Liguria. Pegli, Strenna della «Rivista Europea», Tipografia edi-
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trice dell’Associazione, Firenze 1872; Id., Il Golfo di Rapallo, «L’Adolescenza», Strenna Milanese 1873; Id., Souvenirs du Golfe de Rapallo (1870-1878), «Revue Géographique Internationale», n. 38, 31 dicembre 1878, pp. 335-361. 47. Richard Cortambert, op. cit., p. 276. 48. Dora d’Istria, Les femmes en Orient, cit., p. 527. 49. Dora d’Istria, Des femmes…, cit., vol. II, pp. 339-353. 50. Ibidem, vol. I, pp. 269-270. 51. Ibidem, vol. II, pp. 175-178. 52. Ibidem, pp. 178-179. 53. Ibidem, p. 186. 54. Ibidem, pp. 212-215. 55. Ibidem, pp. 215-224. 56. Dora d’Istria, Excursions…, cit., 2 voll. Il primo volume contiene un bel ritratto dell’autrice «disegnato a Venezia da Felice Schiavoni». 57. Ibidem, p. 556. 58. Ibidem, vol. I, p. 3. 59. Ibidem, p. 103. 60. Ibidem, pp. 4-5. 61. Ibidem, pp. 14-16. 62. Ibidem, pp. 5-10. 63. Ibidem, pp. 11-12. 64. Ibidem, p. 12. 65. Ibidem, p. 51. 66. Ibidem, p. 115. 67. Ibidem, p. 20. 68. Ibidem, pp. 22-24. 69. Ibidem, p. 384 e ss. Corsivi e italiano sono nel testo. 70. Dora d’Istria, I bagni di mare…, cit., pp. 49-50. 71. Claude Anet, Les Huits Paradis, «Gil Blas», 15 marzo 1908, citato in Riccarda Marinelli e Rosetta Signorini, Introduzione a Principessa Bibesco, Gli otto paradisi, Sellerio, Palermo 1993, p. 20. Cfr. anche Claude Anet, Les roses d’Ispahan: la Perse en automobile, Juven, Paris 1907. 72. BNF, Carteggi, De Gub., 62, 63, lettera a De Gubernatis del 20 aprile 1867. Ricordo che per «Oriente» la scrittrice intende quasi sempre l’Europa orientale e per «Penisola orientale» la penisola balcanica.
VI. Lhasa in Provenza. Alexandra David-Néel
«Scriverò quello che mi farà piacere di scrivere» aveva detto; e così aveva scribacchiato ventisei volumi. Pure, per quanto avesse molto viaggiato, e corso avventure senza numero, e avesse profondamente meditato, volgendosi ora a un ordine di idee, ora all’altro, ella si trovava ancora in via di elaborazione […]. Virginia Woolf, Orlando
Tre ore di treno ad alta velocità da Parigi a Aix-en-Provence […]. Imbocchiamo la A51 per un centinaio di chilometri in mezzo alle Alpi Provenzali fino a Châteaux-Arnoux; qui ci si immette sulla 96. Una trentina di chilometri in salita e siamo a Digne, 608 metri sul livello del mare, cittadina termale […]. Non è difficile trovare Samten Dzong. È proprio all’inizio del paese, a destra, sulla strada di Nizza. Entriamo attraverso il cancello spalancato. Il giardino è quasi un bosco: tanti di questi alberi, castagni, albicocchi, peri, peschi, ciliegi, sono stati piantati dalla stessa Alexandra e dal figlio adottivo, il Lama Yongden […]. Siamo accolte da uno sventolio di bandiere multicolori, i colori del Tibet: giallo, blu, bianco, rosso, verde, arancio, lunghe e strette, montate su pertiche di bambù alte almeno quattro metri, una selva di queste bandiere, lungo il sentiero leggermente in salita e davanti all’entrata. Bandiere che evocano le strade e i templi himalayani, con le immancabili bandierine votive attorcigliate a bastoni infiniti o appese come festoni su fili a raggiera. Bertrand Flonoy, un giorno che fu presentato alla radio come «il più grande esploratore del Novecento», corresse l’interlocutore dicendo: «Il più grande esploratore del nostro secolo è una donna: Alexandra David-Néel»1.
Al di là dei primati, è vero che Alexandra David-Néel ha diritto di essere considerata fra i grandi viaggiatori orientalisti del Novecento. Il brano sopra riportato è di una nostra scrittrice-viaggiatrice d’oggi, Sandra Petrignani, che ne racconta la biografia a partire dalla casa di Digne-les-Bains. La stessa casa in cui è cominciato, quasi un decennio fa, il mio “viaggio nel viaggio” geografico femminile che con questa figura si conclude. Samten Dzong («Fortezza della meditazione») è, dopo la morte di Alexandra David-Néel, avvenuta l’8 settembre 1969, una casa-museo, lo specchio degli anni della vecchiaia. Tutte le cose sono al loro posto: lo zaino, la macchina fotografica e il passaporto, la carta del Tibet consumata, la penna sulla scriva-
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nia, simboli del viaggio e della scrittura di cui è stata piena la sua vita lunga centouno anni. Lo studio, la camera da letto, stanze sospese nel tempo se il tempo non agisse comunque sulla materialità di quegli arredi e suppellettili, di quegli oggetti pur usati solo dallo sguardo dei visitatori. Ma anche casa-fondazione, molto vitale, questa, per l’impegno con cui Marie-Madeleine Peyronnet, collaboratrice e amica della viaggiatrice negli ultimi anni di vita, sua erede morale, conservatrice dell’archivio, autrice di una sua biografia, curatrice delle opere postume, ha saputo farne un centro culturale intorno al quale ruotano, oltre a un turismo colto che è quasi pellegrinaggio, iniziative, ricerche, pubblicazioni. Casa-tempio, infine, anche fuori di metafora. L’apertura di una porta basta ad annullare migliaia di chilometri e a spalancare davanti agli occhi un mondo imprevisto che avvolge tutti i sensi con l’intensità dei colori e degli incensi, il cosmo racchiuso nel cerchio dei mandala, i tappeti e i cuscini che coprono interamente il pavimento, i tanka2 stesi sulle pareti, le coppe d’argento sull’altare, i grandi Budda di legno dorato e d’avorio sorretti da sgabelli. In una sala dell’abitazione, Alexandra David-Néel aveva infatti allestito, insieme al figlio adottivo, il Lama Yongden, un piccolo tempio buddista. Alexandra David-Néel, a quanto mi risulta, vanta un altro primato: è la viaggiatrice più seriamente studiata in campo geografico. Numa Broc le dedica una “voce” sufficientemente significativa in un dizionario dei viaggiatori3, ma il merito va soprattutto a un’altra donna, Joëlle Désiré-Marchand, geografa dell’Università di Amiens. La Marchand ha cominciato con l’arrivare a Digne nel 1987 per scrivere un articolo su Lo spazio geografico di una ricerca interiore. Ha finito col pubblicare nel 1996 per Arthaud un lungo saggio di quattrocento pagine corredato della rassegna completa dei libri della viaggiatrice (ventisette usciti fra il 1898 e il 1969 e altri otto pubblicati postumi), dei titoli di trenta articoli (soltanto quelli consultati), e di trenta carte costruite personalmente con l’indicazione degli itinerari dei viaggi effettuati da Alexandra fra il 1911 e il 19464. Anche in Italia la viaggiatrice gode di una certa notorietà fra gli studiosi, soprattutto orientalisti e di storia delle religioni, e in qualche misura anche storici del viaggio e geografi: se ne è recentemente occupata Graziella Galliano5. Da parte mia, non ho pensato certo di affrontare qui in modo esaustivo un’opera tanto vasta e complessa. Ho ritenuto invece necessaria una rilettura delle relazioni di viaggio, di alcuni articoli e delle lettere, non tanto per presentare la figura in sé, che comunque merita di essere conosciuta da un più ampio numero di ricercatori e lettori, quanto per mettere in risalto il suo ruolo nel contesto del viaggio femminile e, in particolare, i suoi rapporti con la geografia scientifica del tempo. Anche per quanto riguarda il lungo percorso esistenziale, mi limiterò soprattutto all’esposizione dei dati biografici più significativi e degli elementi più interessanti in una prospettiva geografica.
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Parte seconda
Nata a Saint-Mandé (Parigi), il 24 ottobre del 1868, Eugénie Alexandrine David era figlia Alexandrine Borghmans, una commerciante di tessuti belga, cattolica, severa, delusa di aver partorito una femmina, e di Louis David, insegnante, poi giornalista, protestante, socialista, massone, repubblicano impegnato contro il regime di Luigi Napoleone. Dei genitori, male assortiti, Alexandra avrà modo di dire: «due statue rimaste più di cinquant’anni l’una di fronte all’altra estranee come il primo giorno, reciprocamente chiuse, senza legame di cuore e di spirito»6. Fra le due personalità, la ragazzina mutua piuttosto da quella paterna: essa si mostra presto fortemente libertaria, anticonformista, amante dei libri. «Nella casa di famiglia, bimbetta di sei anni, sprofondavo ore e ore nella lettura dei diari di viaggio di Jules Verne», avrebbe scritto, da anziana, di sé7. Di un altro ricordo infantile, ancora più antico, avrebbe parlato in una lettera da Benares al marito: «Ieri, scrivendo una data, mi sono improvvisamente ricordata che era il 18 marzo, anniversario della Comune […]. Non ti ho mai detto di quando andai al muro dei Federati subito dopo le fucilazioni […]. Ne ho un vago ricordo. Avevo appena due anni!»8. Dato l’impegno politico di David, la famiglia aveva dovuto trasferirsi in Belgio, a Ixelles, dove risiedevano altri esuli, fra cui Elisée Reclus. Al geografo anarchico, divenuto amico del padre, Alexandra resta legata di amicizia fino al 1905, anno della morte di Reclus. Tutti i biografi danno rilievo alle fughe di Alexandra. Verso quindici anni scappa di casa, percorre a piedi la costa belga e olandese e si imbarca per l’Inghilterra; una seconda fuga, a diciassette anni, la porta in Svizzera e in Italia, sul lago Maggiore, dove, rimasta senza risorse, la madre deve andare a riprenderla. Compie dapprima studi da infermiera, poi, al Conservatorio di Bruxelles, da cantante lirica. Per imparare l’inglese, torna a Londra dove conosce le filosofie orientali e aderisce alla Società teosofica. Rientrata a Parigi, segue corsi di orientalismo alla Sorbona, al Collège de France, all’Ecole des Hautes Etudes, senza sostenere esami. Da intellettuale anarchica, pensa che la cultura è un’acquisizione personale che non ha bisogno di diplomi. Così facendo commette, secondo la Marchand, un errore «strategico»: l’ambiente universitario non riconoscerà mai i suoi lavori9. Invece, la interessa moltissimo il museo Guimet, centro di studi orientalisti appena inaugurato (1889). Lo ricorderà a proposito della «nascita di una vocazione»: A quel tempo, il museo Guimet era un tempio. Nella mia memoria, adesso, lo vedo ergersi così. Vedo salire fra i muri coperti di affreschi un largo scalone di pietra […]. A destra, una sala di lettura dove gli appassionati di orientalismo sprofondano in laboriose ricerche, dimentichi dei rumori della città che urtano invano contro i muri del museo-tempio, senza riuscire a turbare l’atmosfera di
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quiete e di sogno che le pareti racchiudono. In questa saletta, muti richiami escono dalle pagine sfogliate. L’India, la Cina, il Giappone, tutti i luoghi di quel mondo che comincia oltre Suez sollecitano i lettori… nascono le vocazioni… la mia è nata proprio lì10.
Verso il 1891, ricevuta una piccola eredità, intraprende il primo “pellegrinaggio mistico” in Oriente: Ceylon, Madras, Bombay, Benares, Darjeerling, Calcutta sono le principali tappe. Visita templi, frequenta bramini ed asceti; dopo circa diciotto mesi torna in Europa. Quando, molti anni dopo (1951), pubblicherà L’Inde où j’ai vécu, raccoglierà, mettendole a confronto, le notizie derivate da questo e dai successivi passaggi in India costruendo un’opera ancora oggi interessantissima per conoscere i caratteri culturali, sociali e politici del subcontinente nella fase di transizione postcoloniale. Negli ultimi anni del secolo, la famiglia David, senza finire in miseria, subisce un tracollo finanziario. Con il nome di Alexandra Myrial la nostra viaggiatrice si dedica alla professione di cantante d’opera che le permette di mantenersi viaggiando: nel 1895 un contratto la porta in Indocina. Libero pensiero, socialismo, femminismo, massoneria sono le «alleanze democratiche» che caratterizzano l’avanguardia della società francese della Terza Repubblica»11. La giovane David vi si riconosce pienamente, scrive saggi politici e femministi, fra cui il suo primo libro Pour la vie, con la prefazione di Reclus12, aderisce alla loggia massonica scozzese che ammetteva le donne, convive per un certo periodo con il giovane musicista anarchico amico di Reclus, Jean Haustont. Nel 1896 risultano insieme in India ma, nonostante le molte affinità, il rapporto non durerà a lungo: la viaggiatrice non sembra per alcuni aspetti interessata agli uomini. In una lettera inviata a quello che, comunque, sposerà, Letizia Comba ha rilevato come essa inserisse, nella passione, un ordine gerarchico fra intelletto e corpo: «[…] tu non hai mai saputo cos’è la sessualità… quella grande… quella di chi è tutto cervello…»13. Nel 1899 Alexandra David effettua una tournée in Grecia; di un successivo viaggio in Spagna, non si conoscono le ragioni. Nel 1900 parte, da sola, per Tunisi dove le è stato offerto un contratto di cantante; nel 1902, assume l’incarico di direttrice artistica del teatro. A Tunisi conosce, e, nel 1904, sposa, l’ingegnere delle ferrovie Philippe Néel. A parte brevi parentesi, il loro sarà un matrimonio senza convivenza, un lungo e affettuoso rapporto a distanza, connotato dalla grande generosità dell’ingegnere che si assume il compito di sostenere economicamente la moglie continuamente in viaggio. Le centinaia di lettere scritte da Alexandra fino alla morte di Néel (1941) scandiscono questa unione: pubblicate postume a cura di Madame Peyronnet come Journal de voyage, esse costituiscono, oltre che una fonte ricchissima per lo studio della personalità complessiva dell’autrice, il filo di Arianna per seguirne
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i labirintici spostamenti. Dell’importanza di questo epistolario Alexandra era ben consapevole. Il 23 gennaio del 1920 aveva scritto: Conserva le lettere nelle quali ti offro i particolari sulle regioni che ho attraversato e i popoli che ho incontrato. Ne devi avere un pacco enorme, ingombrante e inutile. Conserva solo quelle che mi potrebbero servire da promemoria per comporre un libro di viaggio; le altre, dove ti racconto che soffro di una crisi di enterocolite o che sono senza un soldo, hanno un interesse unicamente contingente: bruciale. Ma quelle che contengono anche solo dettagli minimi sui vari paesi e i loro abitanti, o le avventure personali che mi sono capitate, ti prego, conservale, qualunque sia il loro ingombro14.
Invece, Néel le aveva conservate tutte. Quando, a sua volta, si era sentita alla fine della vita, Alexandra le aveva affidate a Madame Peyronnet; nel concederle il permesso di pubblicarle si era raccomandata di lasciar da parte i «passaggi intimi»15. L’epistolario inizia appunto una settimana dopo il matrimonio, quando Alexandra si allontana da Tunisi per un viaggio nelle Alpi francesi; nel 1905 partecipa al Congresso del Libero Pensiero a Parigi e, l’anno seguente, al Congresso delle donne italiane. L’articolo che ne deriva, pubblicato in “La Dépêche tunisienne” del 31 maggio 1906, è l’ironico resoconto di un convegno quasi tutto «duchesse, marchese, viscontesse e baronesse», affollato di punti all’ordine del giorno fra i quali sono totalmente assenti i problemi sociali, ma che lascia l’invitata ottimista in quanto le pare costituisca «una tappa interessante dell’evoluzione femminista in alcuni ambienti sociali, rimasti fino al momento molto indietro»16. Lo stesso anno, tornata a Tunisi, visita il Nordafrica e il Sahara algerino e nel 1909 il Sud della Tunisia. Intanto studia, pubblica, tiene conferenze, interviene ai congressi. Nel 1910 ha al suo attivo tre libri e oltre quindici articoli: senza abbandonare i temi femministi e storico-politici, approfondisce la ricerca orientalista in campo filosofico e religioso con studi sulla Cina, il Giappone, la Corea, l’India, il Tibet. In particolare, si concentra su quest’ultimo e sul buddismo. Partecipa nel 1910 al Congresso del Libero Pensiero di Bruxelles in rappresentanza di un maestro buddista cingalese. Diventa così la figura di riferimento dei buddisti modernisti. Sul buddismo tiene varie conferenze: a Londra, a Edimburgo, a Parigi, all’Université Nouvelle di Bruxelles dove Reclus aveva insegnato geografia comparata17. Nell’estate del 1911 lascia un’altra volta Tunisi per raggiungere Marsiglia e imbarcarsi per Colombo. Il viaggio copre spazi immensi e dura quattordici anni meno tre mesi. L’elenco delle “tappe”, intese come paesi attraversati e, si può ben dire, abitati, dalla David, è perfino tedioso da leggersi se non lo si colloca sulla carta, almeno mentale. Si tratta di (in successione spazio-temporale) Ceylon, Sikkim, India, Nepal, di nuovo India e Sikkim, Tibet e ancora Sikkim e India, poi
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Birmania, Malaysia, Singapore, Indocina, scalo in Cina, Giappone, Corea, Manciuria, Cina, Tibet con arrivo a Lhasa, ritorno attraverso Sikkim, India e infine Ceylon dove Alexandra, di nuovo a Colombo, si imbarca per il rientro. Come si vede, il Sikkim compare più volte: la viaggiatrice vi risiede a lungo vivendo, dall’ottobre del 1914 al settembre del 1916, in una caverna da anacoreta situata sulle montagne al confine con India e Cina. È, pure, in Sikkim che assume come guida il quattordicenne Lama Yongden, che subito accoglie come figlio e che adotterà anche legalmente, ottenuto il permesso dal marito, nel 1929. L’episodio culminante di questo immenso viaggio è l’arrivo a Lhasa dopo quattro tentativi falliti, travestita da pellegrino, nel febbraio del 1924. Giuseppe Tucci avrebbe iniziato la sua esplorazione del Tibet circa quattro anni dopo, con ben altri supporti economici e materiali. Il 10 maggio del 1925 Alexandra David-Néel sbarca a Le Havre preceduta da una comprensibile fama. Dopo un decennio di conferenze, successi, libri (il più noto, Voyage d’une parisienne à Lhassa, è del 1927), acquistata la proprietà di Digne (1928), Alexandra e il figlio adottivo ripartono per l’Asia. È il 5 gennaio 1937, la viaggiatrice ha sessantanove anni e, nonostante la stagione invernale, ha programmato il viaggio via terra per ferrovia: da Parigi Alexandra e Yongden, dopo aver sostato a Bruxelles, Berlino e Varsavia, raggiungono Mosca. Proseguendo con la Transiberiana passano per la Manciuria, entrano in Cina e arrivano il 26 gennaio a Pechino. Vi restano cinque mesi per poi spostarsi nei pressi di Taiyuan (monastero di Pusating, nella montagna sacra di Wutai Shan). I bombardamenti giapponesi li costringono alla fuga. I due viaggiatori trascorrono il periodo della seconda guerra mondiale restando in Cina, alle porte dell’amato Tibet. Qui Alexandra apprende la notizia della morte del marito. Nel gennaio del 1946 raggiunge in volo Calcutta, poi Parigi dove arriva il 30 giugno del 194618. Dedicati gli ultimi e ancora numerosi anni alla fondazione, agli studi, alle pubblicazioni, sopravissuta anche al figlio, morto nel 1955, la viaggiatrice conclude a Digne il suo «luminoso destino»19. Da quest’angolo di Provenza in cui aveva ricreato un suo piccolo Tibet, Alexandra David-Néel, testimone di un secolo di vicende europee e mondiali a partire dalla sanguinosa repressione della Comune di Parigi del maggio 1871, fa in tempo ad assistere alla rivolta del maggio 1968. Il senso del viaggio «[…] l’uomo illuminato va paragonato al viaggiatore che sa chiaramente dove vuole andare ed è bene informato sulla situazione geografica del posto che ha scelto come meta e delle strade che portano ad esso», afferma Alexandra David-Néel in uno dei primi libri, dedicato non al Tibet geografico ma al Tibet mistico20.
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Parte seconda
La metafora del viaggiatore illuminato che ha ben chiara la meta e si è ben preparato sul tragitto da percorrere corrisponde solo a metà all’approccio al viaggio di Alexandra David-Néel. Corrisponde, cioè, alla sostanza del suo viaggio esistenziale, che fu ricerca di luce, di verità. Non corrisponde altrettanto fedelmente, invece, alle condizioni materiali con cui la parigina “allieva” di Reclus affrontò lo spazio geografico tibetano. Gli itinerari da percorrere non le furono sempre chiari, né poterono essere ben preparati. Per raggiungere le mete ambite si avventurò per strade difficili e incerte. Viaggiò fornita di voluminosi bagagli e attrezzata di guide e portatori, come conveniva, e conviene, a chi si inerpica nei paraggi del tetto del mondo. Poi, quando queste stesse attrezzature misero a repentaglio la realizzazione del progetto, rischiò il viaggio senza supporti di uomini e cose e con la sola compagnia di quel giovane Lama: strana coppia di donna e ragazzo che il travestimento da cenciosi pellegrini rendeva plausibile. Quasi tutte le viaggiatrici incontrate nel corso della mia ricerca – quelle che vi hanno trovato ampio, ma sempre insufficiente, posto, quelle solo accennate, quelle senz’altro motivo che per questioni di spazio scartate – hanno affrontato con coraggio condizioni di vita inaudite; indipendentemente dalle mete che si sono date, per moltissime la molla che le ha spinte a tali imprese, il fine primo del viaggiare è stato il viaggiare stesso. Soprattutto in questo la David si differenzia: lo spazio geografico verso cui rivolge i propri passi e lo spirito che li guida sono già abbastanza precisamente individuati fin da giovane, quando i contatti londinesi e poi le sale del Musée Guimet e lo studio del sanscrito, aprono la sua mente all’Oriente filosofico e mistico. Non sono andata in India da turista: per tutto il tempo dei lunghissimi anni che vi ho trascorso, mi sono dedicata a un’unica ricerca: lo studio degli aspetti profondi della mentalità religiosa degli indiani. Ciò mi ha portato a muovermi quasi esclusivamente in mezzo a questo mondo di mistici e pseudo-mistici che va dai dottissimi pandit, interpreti dei Veda, a dei sannyâsins agnostici ai sadhous estatici21.
La combinazione, in Alexandra David-Néel, di due universi ideali e intellettuali almeno apparentemente inconciliabili – gli ideali anarchici e l’impegno femminista da una parte e, dall’altra, la ricerca spirituale, l’approfondimento religioso, l’adesione al buddismo – si pone, sul piano dell’interpretazione della sua personalità, come questione complessa che, nonostante gli studi effettuati in Francia, resta tema da approfondire. Ciò che emerge, anche attraverso il semplice esame dei titoli dei numerosi libri e articoli scorsi in ordine cronologico, ma, ovviamente, soprattutto dall’analisi dei contenuti di quelli letti, è che, con il tempo, i temi religiosi si intensificarono senza tuttavia sostituirsi ai temi storico-sociali. Sulla questione si è espressa Madame Peyronnet, secondo la quale l’evoluzione di Alexandra verso lo spirituali-
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smo non implicò l’abbandono delle idee giovanili: «Essa era insieme spiritualista e razionalista, appassionata dallo spirito e dai suoi “al di là” come dalle possibilità della scienza […]. Di più, tutte le idee anarchiche della giovinezza […] le idee del suo trattato anarchico Pour la vie, le ha sostenute fino alla fine»22. Non saprei dire se questa doppia appartenenza, impossibile da immaginare, per esempio, in Elisée Reclus, e difficile da comprendere specialmente se la pensiamo situata, com’era, nell’epoca delle ideologie ben distinte, abbia trovato composizione nella mente della studiosa, o se vi si sia mantenuta come contraddizione. Mi interessa, invece, prenderla in considerazione per interpretare l’esperienza del suo viaggio che è, esso stesso, viaggio geografico e viaggio iniziatico. Ciascuno dei due ha i suoi simboli e “strumenti”, che sono, rispettivamente, la carta e il mandala23. La cartografazione del territorio tibetano è fatto piuttosto recente essendo iniziata solo a cavallo fra XIX e XX secolo con l’attività esplorativa di Sven Hedin, le ingerenze inglesi culminate nella guerra anglo-tibetana del 1904 che comportò, per la prima volta, l’apertura della via carovaniera di Lhasa e, dopo il 1911, anno del crollo del Celeste Impero, la produzione cartografica della Cina comunista che aveva rivendicato il Tibet a sé. La Marchand sostiene che, pur possedendo fra i lama di alto rango uomini di scienza, il Tibet mancasse di una tradizione cartografica scientifica perché, chiuso agli stranieri e mantenuta la propria civiltà originale, «non sentiva il bisogno di carte» e gli studiosi, dediti a campi come la medicina, l’astrologia, la letteratura e la teologia, «erano poco o nulla interessati ad altri settori»24. Il discorso andrebbe approfondito, ma al di là delle effettive ragioni della mancanza di carte geografiche nel Tibet tradizionale, si capisce bene come una cultura tanto capillarmente informata dalla religiosità buddista abbia prodotto, più che rappresentazioni grafiche di un territorio verticale battuto passo passo per secoli, un corpus di “mappe” utili a guidare la gente nel viaggio iniziatico previsto dal lamaismo. In effetti, il mandala «è un cosmogramma (nel senso che riproduce l’universo sia nel suo schema spaziale, organizzato intorno all’asse del mondo che sostiene il cielo e la terra e dotato di precisi confini, sia nel movimento di rivoluzione temporale che svolge intorno a quest’asse)» o meglio, uno «psico-cosmogramma» dal momento che vi si offre anche la rappresentazione simbolica, compresente e analogica con quella dell’universo, del corpo umano. Descrivendo diversi tipi di iniziazione, la David spiega che il maestro può impiegare diversi giorni nella costruzione del mandala che l’allievo utilizzerà per raggiungere un nuovo traguardo interiore. Nello spazio altamente ritualizzato preparato dal maestro, l’allievo, decifrato il significato della rappresentazione, può fare il percorso e raggiungere il centro, che è la luce, il centro del mondo e del sé, dove si veri-
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fica la possibilità di relazionare il sé con il cosmo. Quello che Alexandra vuole restituirci, è il segreto del corpo presente, della conoscenza intima, inverificabile nella scienza occidentale25. Il mandala e la mappa, della quale Alexandra, tibetana solo d’adozione, ha, invece, bisogno, sono i simboli evidenti della doppia esperienza che a me pare trovi la sua composizione proprio sul piano geografico. Gli scritti della viaggiatrice offrono moltissimi spunti per questa interpretazione. Lo scopo dei suoi viaggi, aveva detto, era lo studio degli aspetti profondi della mentalità religiosa: gli spazi da indagare erano i templi, i monasteri, gli ashram26; i luoghi in cui stare erano le città sante, le grotte degli anacoreti ma anche le missioni; le persone da conoscere erano gli asceti, i guru, il Dalai Lama e tutti i lama possibili. Alexandra David Néel ricalca le trame territoriali della spiritualità orientale e le rappresenta, senza tuttavia mai abdicare allo sguardo sociale sul mondo che le viene dalla formazione laica, politicizzata, femminista: Sono venuta a cercare l’India delle serene meditazioni – scrive – l’India dei saggi anacoreti che vivono nell’ombra fresca e profumata delle foreste, e ho incontrato l’India dissecata, bruciante, tragica della carestia. Per giorni e giorni i treni che ho preso hanno girato su pianure la cui terra calcinata non mostrava, fin dove lo sguardo poteva arrivare, segno di vegetazione […]. Ad ogni fermata del convoglio, attraverso la polvere sollevata da un vento simile all’aria di una fornace, intravedevo gruppi più o meno numerosi spingersi contro le sbarre, questuando un po’ di cibo, tutti con lo stesso gesto primitivo: toccandosi il ventre, portando la mano alla bocca. E che gruppi!… Scheletri vestiti di una pelle bruna divenuta troppo larga e cascante di pieghe sul ventre, alle ginocchia, sul petto: borse flaccide, rugose, sballottanti che erano state seni. Alcuni bambini, le cui ossa parevano sul punto di bucare la carne, erano tutti addome. Il loro piccolo corpo rachitico pareva fatto solo di questo ventre prominente che dava loro l’aspetto caricaturale di gnomi. Qualcuno che sapeva, mi disse: «Mangiano terra»27.
«Non mi propongo di redigere un diario di viaggio nel quale i miei movimenti attraverso l’India e i diversi episodi che li hanno accompagnati si succederanno in ordine cronologico. Ciò che desidero offrire qui, è piuttosto una serie di quadri che presentino la vita mentale, ancor più che la vita materiale dell’India», aveva scritto Alexandra all’inizio de L’Inde où j’ai vécu28. In effetti il libro è in gran parte dedicato alla dimensione culturale-religiosa del subcontinente ma, di fronte a quella «terra mangiata» – estremo modo della Terra di nutrire i suoi figli – l’allieva di Reclus vuole che si sappia, e dedica tutto il capitolo a una “geografia della fame” e “del sottosviluppo” che i geografi veri avrebbero alcuni decenni dopo scoperto. Sulle carestie e le epidemie sfodera date e cifre, racconta l’esodo di masse umane dalle campagne, lo sradicamento, l’impossibilità delle città già troppo cresciute, di as-
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sorbirle, la scarsità e l’inutilità degli aiuti offerti in riso a gente che non ha né un posto né una pentola per cuocerlo, l’ostinazione stupida di amministratori tradizionalisti a non incoraggiare un nuovo regime alimentare, a non combattere la superstizione, a non promuovere l’autoregolamentazione demografica. Profila il problema, che sappiamo ancora attualissimo, della corruzione di personaggi «che si sono arricchiti con le carestie in Asia». La David si chiede se la questione sia ignota all’Occidente29. Ripresi gli argomenti religiosi, l’autrice ritorna sugli enormi problemi dell’«India Nuova» di Gandhi e di Nehru nell’ultima parte del libro30. Su tale doppio registro, che affianca l’indagine del mondo spirituale a quella storico-sociale, si sviluppa la rappresentazione dell’Oriente, e in special modo del Tibet, della viaggiatrice. Sono una viaggiatrice, non una geografa Il 18 luglio 1906 Alexandra David-Néeel aveva scritto dalla villa di La Gallette (Tunisia), una lettera al presidente della Società geografica parigina, alla quale si era iscritta come Alexandra Myrial, per chiedere di essere inserita negli elenchi con il vero nome. Sollecitava poi una raccomandazione presso le istituzioni inglesi che si occupavano di cinese e di sanscrito. Infine, concludeva: Sono confusa, Signore, di non essere di alcun interesse per i membri della Società, un peso morto che approfitta della loro scienza e della loro impegno senza dare nulla in cambio. Sono una viaggiatrice, non una geografa. Mi occupo di filosofie e di religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, argomenti che non hanno un posto nelle vostre sedute. Sono stata in India, in Estremo Oriente, in Egitto, ritorno in questi ultimi giorni da Figuig e, se le cose lo permetteranno, l’anno prossimo andrò al Baikal, ma che cosa di nuovo potrei dire io, a questo proposito, di fronte alle relazioni scientifiche che siete soliti ricevere? Non è questo il mio campo, è meglio che io mantenga il silenzio e perseveri nel mio forzato egoismo31.
Il viaggio a Lhasa darà alla David il modo di “contraccambiare” la Società geografica parigina. Il 3 dicembre, pochi mesi dopo il ritorno dalla lunga esperienza in Tibet, Alexandra tiene una conferenza per i membri della Società e il testo, En éclaireur à travers le Tibet, viene immediatamente pubblicato su «La Géographie», nome assunto dalla nuova veste dell’ottocentesco «Bulletin»: Volutamente – inizia – ho scelto per questa conferenza il titolo, forse un po’ strano, di «en éclaireur32». Non ho la pretesa di aver fatto opera di geografa; sono soltanto un’umile orientalista e le mie peregrinazioni in Asia per quattordici anni consecutivi hanno avuto come unico scopo ricerche sulle filosofie e le religioni orientali. Mi scuso dunque di non portare alla Società di Geografia altro che un
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semplice racconto di viaggio, il cui unico interesse consiste che esso riguarda regioni pochissimo conosciute del globo, ed anche a una parte di regione del tutto inesplorata in cui nessun altro viaggiatore occidentale era passato prima di me33.
L’approfondimento dei rapporti fra la David e la Società Geografica di Parigi consentirebbe di capire meglio il passo citato che, come è evidente, fa ripensare alla lettera di tanti anni prima. Si tratta di una forma garbata per iniziare la conferenza nel «santuario», come lo aveva chiamato Ritter, dei geografi? Questo sottolineare il non aver fatto opera di geografa, ma solo lavoro di éclaireur, di avanscoperta, e di presentare un «semplice resoconto di viaggio» al consesso di un’istituzione che sui resoconti di viaggio si era fondata, è espressione di garbata modestia? Oppure, dato che in quel momento, qualcosa di serio da mettere sul piatto Alexandra lo possiede – un territorio percorso, come occidentale, per prima – è un modo discreto per dare visibilità ai propri temi di ricerca ed affermare un punto di vista dell’esplorazione del mondo diverso da quello strettamente geografico? Sta di fatto alla Société la David espone una lunga relazione in cui l’esperienza di viaggio compiuta in Tibet (i cinque differenti percorsi sperimentati per raggiungere Lhasa) è quanto più possibile oggettivata: la regione di cui parla è inquadrata nelle coordinate geografiche, gli spostamenti descritti sono ben collocati nel territorio, le informazioni fornite sono sintetiche ma precise, non si lascia prendere la mano dal racconto episodico: insomma una relazione “da geografa”. Carta alla mano, o “alla mente”, la viaggiatrice illustra alla platea i confini, anzi, la barriera «fittizia» entro la quale la Cina ha rinchiuso la provincia ribelle, indica il tracciato delle diverse «peregrinazioni» compiute nell’area, chiama in causa i viaggiatori che hanno esplorato il Tibet prima di lei mettendo a confronto i relativi percorsi e scoperte34. L’esplorazione del Tibet, che ha il raggiungimento di Lhasa come obiettivo realizzato, costituisce lo sforzo maggiore e il risultato più importante dell’intera esperienza della viaggiatrice parigina. L’eccezionalità dell’impresa è stata tale da aver sollevato un dibattito sulla sua veridicità. Fatto interessante, le contestazioni non sono emerse all’epoca del viaggio o poco dopo, ma negli anni successivi e provengono da parte inglese e, in Francia, da parte di Jeanne Denys (ex collaboratrice-bibliotecaria della viaggiatrice) nel pamphlet Alexandra David-Néel au Tibet. Une superchérie devoilée (1972). Il dibattito, in cui è intervenuta in difesa della David anche Sara Mills che conosciamo come attenta studiosa, è riportato da Graziella Galliano35. L’inconsistenza delle argomentazioni prodotte non tanto dalla Denys, che non è una ricercatrice e che con il suo libro voleva forse procurarsi una certa notorietà, ma da parte inglese, rende il dibattito interessante non per i suoi deboli contenuti (molte affermazioni risultano immediatamente inconsi-
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stenti a chi abbia studiato più viaggiatrici) ma perché esso è la prova di come, ancora oggi, le più ardite conquiste femminili suscitino scetticismo. Sul piano dei contenuti, la Marchand ha messo, a mio avviso, fine a queste contestazioni ricostruendo quasi giorno per giorno, sulla base di un’ampia documentazione diretta e indiretta, gli spostamenti della viaggiatrice in Tibet, itinerario per Lhasa compreso36. Nel patrimonio di ricerche e di scritti di carattere odeporico, religioso, storico, politico e sociale sul Tibet lasciati dalla David, dei quali non posso qui dare conto, ho creduto interessante prendere in considerazione, insieme al resoconto esposto dalla viaggiatrice alla Società geografica, il Voyage d’une Parisenne à Lhassa e un articolo sulle donne tibetane: tre lavori che si possono configurare come, rispettivamente, una comunicazione scientifica, un diario di viaggio e un saggio. Rispetto alla relazione pubblicata dalla Società geografica, di cui ho parlato, il Voyage d’une Parisenne à Lhassa, uscito l’anno successivo, è un testo di taglio più “soggettivo” e di stile decisamente narrativo. Esso è focalizzato sulla vicenda personale dell’esperienza di viaggio piuttosto che sulla descrizione del territorio attraversato, anche se annotazioni di questo tipo non mancano. La David mette in scena la marcia di avvicinamento alla città proibita, racconta un’epopea: non a caso il Voyage riguarda esclusivamente l’ultima, la quinta, delle «peregrinazioni» tibetane, quella in cui, uno degli ultimi giorni del febbraio 1924, dopo quattro mesi di cammino a piedi, Alexandra e Yongden raggiungono Lhasa. Vi si trovano rievocati gli stratagemmi per liberarsi delle guide, la rinuncia a parte del bagaglio, il ritrovamento del berretto “magico”, i sotterfugi per non essere scoperti, il travestimento, l’arma e il denaro celati sotto gli stracci, i nascondigli, le difficoltà di procurarsi il cibo e ripararsi dal freddo, gli incontri pericolosi. Nessun episodio ha contenuto veramente irreale: abbiamo trovato simili vicende nei diari di numerose viaggiatrici. Il tono, invece, è volutamente enfatico. E difatti il libro si conclude con due esclamativi, entrambi resi anche in tibetano: quello di Yongden («Siamo a Lhasa!»), e quello di Alexandra («Gli dei hanno trionfato!»)37. Anche il titolo, evidentemente scelto per attirare la curiosità dei lettori («parigina a Lhasa»), dimostra come la studiosa orientalista si sia presa la libertà di un lavoro che, senza inventare meriti, divulgasse in modo attraente l’esperienza vissuta. La viaggiatrice riprende toni più consueti negli articoli dedicati alle donne tibetane la cui condizione scopre essere molto diversa da quella delle vicine cinesi e indiane38. Dopo essere vissuta lungamente in Tibet, Alexandra David-Néel ha ancora più elementi di quanti ne abbia avuti Lady Montagu per specchiarsi nella donna “altra”. Siamo, come è evidente, di fronte a due viaggiatrici molto
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diverse e in due contesti geografici, sociali, religiosi, imparagonabili. Ma alcune osservazioni delle due viaggiatrici sono simili: «Nelle classi agiate della popolazione [le donne] possiedono personalmente dei beni che amministrano personalmente». «Il costume che, a dispetto del codice, regola il regime finanziario del matrimonio, stabilisce la divisione dei beni, con il risultato che la donna non ha da temere che la sua condizione teorica di inferiorità influisca sfavorevolmente sulla sua condizione sociale»39. L’empatia, il rispecchiamento si verificano, nel caso della David, e se ne capiscono le ragioni, sul piano della forza fisica: […] la costituzione estremamente robusta delle donne tibetane, la loro forza, una resistenza che eguaglia quella degli uomini, costituiscono per le donne senza fortuna un elemento di reale indipendenza e le esentano in larga misura dalla subalternità agli uomini. Va aggiunto che le famiglie sono generalmente poco numerose in Tibet. Molte coppie hanno solo due o tre bambini. Cinque figli è già un caso raro40.
Abbiamo visto come gli anni passati in Asia Centrale nel corso del primo lunghissimo viaggio non siano stati sufficienti alla David per ritenersi giunta a una sufficiente conoscenza di quelle culture. L’archivio della Società geografica conserva la documentazione (ottobre 1928 – gennaio 1929) relativa al progetto da lei presentato al Ministero degli Affari Esteri francese per il finanziamento di un nuovo viaggio finalizzato a «completare le ricerche effettuate con successo negli anni precedenti». La richiesta è corredata di una relazione nella quale la viaggiatrice precisa i propri campi di ricerca e i risultati fino ad allora raggiunti: «l’etnografia» (dati su popolazioni sconosciute); «l’orientalismo» (raccolta di numerosi testi sulla medicina, sulla filosofia, sulla magia); «la psicologia» eccetera. Queste ricerche, effettuate a suo tempo a proprie spese, cosa che afferma non essere in grado di ripetere, necessitano di essere approfondite ed estese. L’itinerario che la viaggiatrice presenta comprende «alcune parti dell’Indocina e dello Yunnan, le regioni che si estendono fra il Szechuan e i grandi deserti d’erbe del Tibet settentrionale dove vivono tribù di pastori e, se le circostanze lo permetteranno, alcune parti della Mongolia e le regioni siberiane abitate da popoli lamaisti». Nella richiesta Alexandra sottolinea la propria conoscenza della lingua tibetana e la collaborazione del figlio adottivo, un «lama letterato», condizioni eccezionalmente favorevoli per penetrare in zone chiuse agli stranieri e raccogliere documenti e collezioni41. La risposta alla richiesta la si intuisce da una lettera inviata dal capo di gabinetto del presidente della Repubblica al segretario generale della Société per analizzare insieme i mezzi più adatti ad assecondare le iniziative della viaggiatrice42.
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In effetti essa ottenne il finanziamento, ma, a causa delle limitazioni poste alla circolazione dal governo sovietico, la partenza per il secondo grande viaggio asiatico avrebbe avuto luogo, come si sa, solo nel 193743. «Umile viaggiatrice», Alexandra David-Néel è entrata nella storia delle esplorazioni e della geografia seguendo, come aveva fatto in Tibet sul terreno, tracciati del tutto estranei a quelli ufficiali, assecondando i propri interessi e le proprie passioni, infischiandosene, come oggi si è capito che è bene, dei confini disciplinari e perfino di quelli ideologici. «Noi siamo abituati a portare la maschera così bene, aveva scritto Elisée Reclus nella prefazione a Pour la vie, che ci sembra strano mostrare la nostra vera faccia, proclamare con voce franca e personale quella che sappiamo essere la verità […]. Ci sembra più “distinto” essere banali, neutri, mediocri, adeguarci alle ricette della virtù domestica e del bon ton, come invita a fare la scritta della cupola dell’Institut […]. Ma verranno i tempi in cui il canto di trionfo della nostra amica sarà ascoltato […]»44. Pour la vie è una raccolta di scritti della David di carattere libertario e femminista, e quando Reclus auspica, nella prefazione, il «canto trionfante» di Alexandra, è a una vittoria delle idee di giustizia sociale e di eguaglianza dei sessi che pensa. Almeno per questo secondo aspetto l’ottimismo del geografo anarchico non sarebbe stato del tutto immotivato, anche se neppure una donna libera e una studiosa instancabile come la sua pupilla sarebbe riuscita a farsi valere come un uomo. Abbiamo visto Alexandra David-Néel ottenere qualche riconoscimento dalla Società geografica parigina e perfino alcuni finanziamenti per un secondo grande viaggio asiatico. Ben poco, se confrontato ai mezzi di cui fu dotato Giuseppe Tucci per le sue esplorazioni tibetane, ai riconoscimenti che gli furono attribuiti dal mondo accademico e dalle Società scientifiche, compresa quella geografica del nostro paese. Dalla lettura dei rispettivi diari (un’altra pista di ricerca da approfondire) risultano piuttosto imparagonabili anche i modi del viaggiare. Sono significativi, a questo proposito, i brani sotto riportati, tratti dal racconto dei rispettivi percorsi per Lhasa: proveniente dall’India quello dell’orientalista italiano e dalla Cina quello di Alexandra. Sono partito con venti cavalli: diciassette per il bagaglio e il materiale e tre rispettivamente per me, il capo carovaniere ed il cuoco. Le risorse agricole del Tibet sono così scarse che è consigliabile portare tutto con sé, purché non si voglia vivere alla maniera tibetana, cioè di zampà, farina d’orzo mescolata con acqua di tè tibetano, e di carne di montone o di yak. Le condizioni del mio stomaco non mi permettono di gustare la cucina tibetana e perciò ho l’abitudine di portare con me le provviste dall’Italia: carne in scatola, verdura, pasta e conserve di frutta […]. A Ralung siamo risaliti a circa 4500 metri. Potrei passare la notte nella casa del notabile del paese messa cortesemente a disposizione dei viaggiatori, ma preferi-
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sco la tenda. La casa è talmente piena di bambini, di cani e di polli che neppure chi avesse il sonno meno leggero del mio potrebbe sperare di chiudere occhio; e nel cortile buoi, cavalli, e muli con quei terribili campanacci che sempre mi perseguitano. È la casa del più ricco del paese45. Costituire il nostro equipaggiamento era stata cosa laboriosa e abbastanza angosciante. In considerazione delle condizioni del tutto particolari nelle quali il mio viaggio nel Tibet doveva compiersi, avevo portato con me, per il lungo tragitto dal Gobi allo Yunnan, solo le cose delle quali era impossibile fare a meno. Tuttavia, al momento di partire a piedi, senza mezzi di trasporto, dovetti eliminare ancora da quei bagagli già ridotti alcuni oggetti di prima necessità. Mettendoci in cammino in ottobre, avremmo avuto bisogno di una tenda confortevole, di coperte calde, in mancanza di letti da campo, di uno spesso tappeto steso su una tela impermeabile, di abiti e stivali di ricambio. Ma più di tutte queste cose così utili era indispensabile una gran quantità di viveri. Ero decisa a viaggiare di notte e a rimanere nascosta durante il giorno […]. L’esecuzione di questo piano esigeva che ci potessimo nutrire per due o tre settimane senza aver bisogno di acquistare niente dagli indigeni. Così, per portare via più provviste, avevamo abbandonato coperte e vestiti di ricambio. Una minuscola tenda di cotone leggero, i suoi picchetti in ferro, corde, un bel pezzo di cuoio non conciato per risuolare gli stivali, un quadrato di grossa tela che doveva attenuare un pochino l’umidità o il freddo del suolo nudo sul quale ci saremmo stesi per dormire, infine la sciabola corta per più usi, parte essenziale dell’equipaggiamento di ogni viaggiatore tibetano (per noi, soprattutto scure per tagliare legna), erano i soli oggetti che avevo conservato. Ma il burro, la tsampa, il tè, un po’ di carne secca, raggiungevano assieme al resto un rispettabile numero di chili e i miei dubbi crescevano sulla possibilità di trasportare il nostro carico a passi accelerati lungo le ripide pendici della nostra ascensione notturna […]. Il numero degli utensili da cucina era stato ridotto nelle stesse proporzioni del guardaroba. L’elenco risulterà quindi breve. Possedevamo una pentola, due ciotole, una di legno e l’altra in alluminio (che, all’occorrenza, poteva essere posata sul fuoco e servire da casseruola), due cucchiai e uno di quegli astucci cinesi che contengono un lungo coltello e due bacchette. Era tutto […]. Quella fu la prima volta che alloggiai presso la gente del luogo […]. Stavo per sperimentare da sola una quantità di cose che fino ad allora avevo osservato solo a distanza. Avrei dovuto mangiare alla maniera dei poveri diavoli, immergendo le mie dita non lavate nella minestra e nel tè per mescolarvi la stampa, e piegarmi a una quantità di cose il cui solo pensiero mi rivoltava lo stomaco. Ma questa dura penitenza avrebbe avuto una ricompensa. Il mio povero vestito da pellegrina mendicante mi avrebbe permesso di osservare una quantità di dettagli inaccessibili ai viaggiatori occidentali e persino ai Tibetani delle classi più elevate. Alle conoscenze già acquisite tra i letterati del Tibet, avrei potuto aggiungerne altre, non meno interessanti, raccolte a caso in mezzo alla gente del popolo. Questa prospettiva valeva sicuramente il sacrificio del mio disgusto46.
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Note 1. Sandra Petrignani, La scrittrice abita qui, Neri Pozza, Vicenza 2002, pp. 119-120. 2. Pannelli srotolabili di lino, cotone e, più raramente, seta, anticamente di forma quadrata e oggi rettangolari, dipinti o ricamati, sono realizzati sotto il controllo di un maestro con una simbologia rigorosamente codificata, finalizzata all’evocazione dell’essenza del Budda durante la meditazione. 3. Numa Broc, Dictionnaire illustré des explorateurs et voyageurs français du XIX siècle, vol. II, Asie, Editions du C.T.H.S., Paris 1992, pp. 124-127. 4. L’opera contiene anche una bibliografia di circa trecento opere di consultazione, sette pagine di bibliografia cartografica e due appendici: il calendario quotidiano degli spostamenti viaggio per viaggio e la traslitterazione in tibetano dei toponimi citati dalla viaggiatrice Quest’ultimo lavoro (pp. 430-435) è stato fatto da specialisti del CNRS, il Centro Nazionale delle Ricerche francese. Cfr. Joëlle Désiré-Marchand, Les itinéraires d’Alexandra David-Néel. L’espace géographique d’une recherche intérieure, Arthaud, Paris 1996. Prima degli studi della geografa, sulla viaggiatrice erano uciti i lavori di carattere biografico di Marie-Madeleine Peyronnet, Dix ans avec Alexandra David-Néel, Plon, Paris 1973; Jacques Brosse, Alexandra David-Néel. L’aventure et la spiritualité, Retz, Paris 1978; Jean Chalon, Le lumineux destin d’Alexandra David-Néeel, Perrin, Paris 1985. 5. Graziella Galliano, Il viaggio di una parigina a Lhasa di Alexandra David-Néel, in Alla fine del viaggio…, a cura di Luisa Rossi e Davide Papotti, Diabasis, Reggio Emilia 2005. 6. Alexandra David-Néel, Journal de voyage, 1, 11 août 1904 – 26 décémbre 1917, Plon, Paris 1975, p. 28. Lettera da Parigi dell’11 novembre 1904. 7. Alexandra David-Néel, L’Inde où j’ai vécu, Plon, Paris 1995, p. 7 (prima edizione: 1951). 8. Alexandra David-Néel, Journal…, 1, cit., p. 248. 9. Joëlle Désiré-Marchand, Les itinéraires…, cit., p. 33. 10. Alexandra David-Néel, L’Inde…, cit., pp. 9-10. 11. Joëlle Désiré-Marchand, Les itinéraires…, cit., p. 48. 12. Alexandra David-Néel, Pour la vie et autres textes libertaires inédits, Les nuits Rouges, 1998 (prima edizione: Bibliothèque des Temps Nouveaux, Bruxelles 1898). 13. Letizia Comba, Ciò che non è verificabile, in AA.VV., Diotima. Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale, La Tartaruga edizioni, Milano 1990, p. 165. Fra i pochi autori che toccano il tema della sessualità a proposito della David si è trovato un accenno, brevissimo ma interessante perché attiene al discorso sul viaggio, in una rivista di psicanalisi: «Quando l’elemento omosessuale sembra dominante (Liautey, Lawrence d’Arabia, David-Néel), il viaggio appare come un rovesciamento della problematica dell’altro e del sé: l’altro, ingannevole, è il compatriota e il sé, seducente, è lo straniero»: Cfr. Odon Vallet, Naturalizer, «Topique. Revue freudienne», n. 54, 1994, p. 310. 14. Alexandra David-Néel, Journal… vol. I, cit., p. 9. 15. Ibidem, p. 12. 16. Alexandra David-Néel, Pour la vie…, cit. , pp. 135-138. 17. Joëlle Désiré-Marchand, Les itinéraires…, cit., pp. 87-88. 18. Per la tavola cronologica dei due grandi viaggi (1911-1925 e 1937-1946) cfr. Ibidem, pp. 418-429. 19. Jean Chalon, Le lumineux destin…; cit. 20. Alexandra David-Néel, Mystiques et magiciens du Tibet, Plon, Paris 1929, p. 114. 21. Alexandra David-Néel, L’Inde…, cit., p. 274. 22. Marie-Madaleine Peyronnet, intervista introduttiva in Alexandra David-Néel, Voyages et aventures de l’esprit, Albin Michel, Paris 1994, p. 19. Brosse, riferendo dei viaggi effettuati dalla David a Roma nel 1930-31 per tenere delle conferenze, aveva toccato questo argomento: ricordando l’invito ufficiale che la viaggiatrice ricevette, ed accettò, da Mussolini (co-
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nosciuto quando era egli era giornalista socialista) aveva osservato che senza dubbio Alexandra non ripudiò le idee di fervente anarchica della giovinezza «ma era ormai convinta che la soluzione dei problemi umani non passasse per la politica, qualsiasi essa fosse». Cfr. Jacques Brosse, op. cit., p. 223. 23. La Comba ne riporta la definizione data da Giuseppe Tucci (di «complessa rappresentazione simbolica della disintegrazione e reintegrazione». Cfr. Letizia Comba, op. cit., p. 163. 24. Joëlle Désiré-Marchand, Les itinéraires…, cit., pp. 90-91. 25. Cfr. Letizia Comba, op. cit., pp. 163-164. La Comba fa riferimento a Initiation Lamaïque, della David-Néel (Edizioni Adyar, 1987). 26. In origine «eremo», poi ha assunto il significato di luogo, anche nella città e indipendentemente dalla sua ampiezza, in cui ci si dedica alla preghiera. 27. Alexandra David-Néel, L’Inde…, cit., p. 130. 28. Ibidem, p. 31. 29. Ibidem, pp. 131-139. 30. Ibidem, pp. 325-408. 31. Bibliothèque Nationale de France (d’ora in avanti BN), Cartes et Plans, Archives de la S.G, Colis 14. 32. Il termine, mutuato dal linguaggio militare, indica l’esploratore che precede l’esercito in avanscoperta. 33. Alexandra David-Néel, En éclaireur à travers le Tibet, «La Géographie», tome XLV, janvier-juin 1926, p. 359. 34. Ibidem, pp. 359-373. 35. Graziella Galliano, op. cit. Alla «malafede» della Denys faceva già riferimento Jacques Brosse, op. cit., p. 11, nota. 36. Il percorso per Lhasa è dettagliatamente descritto in Joëlle Désiré-Marchand, Les itinéraires…, cit., pp. 426-427. 37. Alexandra David-Néel, Viaggio di una parigina a Lhasa, Biblioteca del Vascello, Roma 1992, pp. 244 e 246. 38. Alexandra David-Néel, Une Occidentale face aux femmes tibétaines, in Id., Voyages et aventures de l’esprit, Albin Michel, Paris 1994, pp. 83-89. La David aveva affrontato lo stesso tema negli articoli Femmes du Thibet (1933) e Femmes tibétaines (1954). 39. Alexandra David-Néel, Une Occidentale…, cit. pp. 84 e 87. 40. Ibidem, p. 87. 41. BN, Cartes et Plans, Archives de la S.G, Colis 59, notice 4177. 42. Ibidem. 43. Joëlle Désiré-Marchand, Les itinéraires…, cit., p. 328. 44. Elisée Reclus, Préface de la première édition, in Alexandra David-Néel, Pour la vie…, cit., p. 10. 45. Giuseppe Tucci, A Lhasa e oltre, Newton Compton editori, Roma 1996, pp. 41 e 64. 46. Alexandra David-Néel, Viaggio di una parigina…, cit., pp. 39-40, 45, 101.
Epilogo
Dalla strada alla cattedra. Ellen Semple e la nascita della geografia scientifica femminile*
[…] la Natura, dunque, si è compiaciuta di imbrogliare ancora la matassa, fomentando la nostra confusione, quasi non bastasse l’aver fatto di noi dei fantocci tra i più bizzarri e disperatamente costruiti, e ha congegnato il tutto in modo che l’intero assortimento fosse riunito in un’unica leggera cucitura. La cucitrice è la Memoria, ed è una cucitrice capricciosa la sua parte. La Memoria fa correr l’ago su e giù, a dritta e a manca, di qua e di là. Non sappiamo mai quel che viene, né quel che segue poi. Virginia Woolf, Orlando
Premessa Università di Lipsia, anno 1891. In un’aula di soli studenti maschi il professor Ratzel tiene il corso di geografia. Una giovane donna lo segue da uno studiolo attiguo, oltre la porta lasciata di proposito aperta. L’istituzione vieta ancora alle donne di assistere alle lezioni e di conseguire la laurea in questa disciplina. Con questo episodio, tramandato da un autore all’altro, la storia della geografia registra l’entrata di Ellen Churchill Semple nelle discipline geografiche1. L’inserimento di Ellen Semple in questa nostra altra mappa ha più di una ragion d’essere. Il carattere clandestino delle lezioni di Lipsia (ancora una volta una sorta di occultamento del corpo e della mente femminili) che, ancora a fine Ottocento, ci restituisce il clima restrittivo della cultura geografica europea nei confronti delle donne, non impedirà alla Semple di affermarsi come figura di rilievo nella storia della giovane geografia americana e, in quanto prima donna docente di questa disciplina in senso assoluto, della geografia occidentale. Vale ora la pena di rimarcare questa presenza, passata inosservata nelle storie delle donne2, e di sottolineare il fatto che, malgrado i successi inseguiti dalla Sample negli Stati Uniti, dopo l’attenzione riservatale da Roberto Almagià3, la geografia italiana si è occupata assai poco di lei. Nessuno dei suoi maggiori libri, né Influences of Geographic Environment (1911), né Geography of the Mediterranean Region (1931) che poteva ancor meglio suscitare l’interesse degli studiosi italiani, è mai stato tradotto nel nostro paese. I pochi lavori (libri o articoli) di storia della disciplina che non la ignorano, riportano di solito il suo nome per dire sommariamente che la riflessione del-
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Epilogo
la Semple non fu originale essendo ricalcata sul pensiero di Ratzel e che, quando se ne discostò, lo fece accentuando il carattere di necessità che il maestro tedesco attribuiva alle relazioni fra l’uomo e l’ambiente. Anche Aldo Pecora, che le ha dedicato in anni più recenti una certa attenzione e la traduzione di qualche pagina di Influences, non si discosta dal coro delle consuete critiche4. Le dimostra sull’analisi di questo solo lavoro – indubbiamente importante, ma l’opera della geografa fra libri, articoli, comunicazioni, appunti e lettere è molto vasta – e su una scelta di brani dai quali non traspaiono i dubbi che Francesca Goldoni, con un’indagine più complessiva e approfondita, in questo capitolo sintetizzata, ha rilevato. Per Numa Broc, «l’idea parziale e un po’ caricaturale» che si è fatto della Semple «il lettore francese» (e, aggiungerei, italiano), è stata influenzata dalla critica «impietosa di Lucien Febvre in La Terre et l’évolution humaine (1922)»5. Vedremo più avanti i termini dell’approccio di Febvre alla Semple e le osservazioni di Broc in merito. Ma radicale o più articolata che sia la critica rivolta da Febvre alle posizioni della geografa americana, meno monolitiche di quanto sia stato detto, alcuni fatti sono incontestabili: la Semple è l’unica donna ad essere entrata con forza nella “geografia classica”, tanto da “costringere” un monumento come Lucien Febvre a dedicarle lunghe pagine in La Terre et l’évolution humaine. Non vedo solo aspetti negativi nel fatto che Febvre abbia ampiamente utilizzato la Semple, oltre che Ratzel, per “smontare” il determinismo. L’accurata lettura che Febvre fa di Influences è, di per se stessa, un riconoscimento della geografa. È un peccato che la stessa considerazione non trovi posto nella Premessa all’edizione italiana di La Terre, un’introduzione illuminante per comprendere la critica dei geografi possibilisti al determinismo ambientale. La Semple non vi è nominata neppure una volta, dimenticata dietro quella porta dello studiolo di Lipsia6. Se ne occupa, invece, Broc nelle «Annales de Géographie» con un saggio scritto in occasione dei settant’anni dalla prima edizione di Influences e incentrato sull’analisi delle fonti utilizzate dall’autrice in questo lavoro. L’articolo di Broc rende giustizia a Ellen Semple: senza attribuirle meriti che non ebbe, contestualizza il suo pensiero e le riconosce il posto che merita nella geografia di primo Novecento, «una scienza giovane in attesa del suo “discorso sul metodo”», che «lascia ancora un’impressione di enciclopedismo, di eterogeneità, di touche-à-tout, di cui le bibliografie di Miss Semple sono il preciso riflesso»7. È, poi, incontestabile l’importanza di Ellen “maestra” per l’influenza da lei esercitata attraverso i libri e gli studenti, sulla geografia anglofona. A questo proposito, ci soccorre un’indagine condotta da John K. Wright che disegna mezzo secolo di carriera di Influeces. Nel 1961 (si trattava, allora, del cinquantenario dall’uscita del libro), Wright inviò un questionario a una ses-
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santina di geografi, di cui quarantaquattro americani, tredici inglesi e un francese, di età compresa fra i 25 e gli 85 anni. Le risposte rivelarono che soltanto tre non avevano letto l’opera, che più della metà riteneva che la sua importanza per lo sviluppo della geografia in Nordamerica era stata capitale e che il libro era ancora utilizzato in alcune università all’indomani della seconda guerra mondiale8. Di fronte ai dati di Wright viene da interrogarsi se e in che misura i libri della Semple abbiano contribuito al radicamento nella cultura nordamericana di quell’idea di America (leggi States) portatrice di “valori” geopolitici con la quale l’Europa (e non solo) si trova ancora oggi a confrontarsi. Tornando al più diretto ruolo di docente di geografia umana per alcune generazioni di studenti, risulta che diversi di loro sono diventati geografi di rilievo e, anche quando hanno maturato un’appartenenza teorica diversa da quella della maestra, sono stati influenzati non poco dalla sua passione per la disciplina. C’è ancora una ragione per dare uno spazio speciale a Ellen Semple in questo libro: anch’essa fu una grande viaggiatrice. Come e con quali risultati, lo vedremo. Di certo assai diversi da quelli delle viaggiatrici più o meno coeve. La più vicina, fra quelle qui studiate, è Alexandra David-Néel. Nate una nel 1863 (la Semple) e l’altra cinque anni dopo, le due donne non sono separate solo fisicamente dall’Oceano. Diverse per contesto culturale e famiglia (di là la linearità della buona borghesia colta e patriottica del paese nuovo, di qua la complessità di un intreccio parentale fatto di austerità cattolica e idealismo utopistico), agli antipodi per visione del mondo e per formazione geografica – ispirata la prima dal padre della geopolitica, e pupilla del geografo anarchico per eccellenza la seconda –, tutta concretezza Ellen e tutta spiritualità Alexandra, le loro esistenze non potevano che svolgersi in modi enormemente differenti. Ma si devono sottolineare anche alcune affinità: l’essere, in quanto intellettuali della transizione fra XIX e XX secolo, ciascuna a proprio modo sostenitrici dei diritti delle donne, epigone di una libertà che poteva implicare, a differenza delle “colleghe” di soli cinquant’anni prima, la rinuncia, o il rifiuto, della famiglia e dei figli. L’altro elemento comune, totalizzante, delle loro vite, “la scrittura della Terra”, è marcato dal differente senso del loro viaggio: compiuto con altre donne, finalizzato alla ricerca scientifica e ai (meritati) riconoscimenti istituzionali e accademici, quello della Semple; itinerario di una lunga ricerca interiore, solitario o quasi, quello della David, che regge fino a Novecento molto inoltrato il testimone dell’idea più femminile della mobilità come viaggio senza precise finalità. Entrambe vissute in un contesto storico-culturale in cui anche il viaggio geografico femminile si trova finalmente al bivio di due possibilità, la prima sceglie la cattedra, la seconda la strada.
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Una storia per la geografia Se dopo aver lungamente, ma ancora non abbastanza, studiato la figura di Ellen Semple, dovessi rinchiudere in una definizione la sua geografia, direi che ci troviamo di fronte a una geografia storica su basi odeporiche con forte valenza didattica. La stessa biografia della Semple si sviluppa come una (quasi) costante lezione di geografia: all’inizio i protagonisti della lezione sono la giovane americana più o meno apertamente in ascolto del grande maestro, poi la scena cambia, i ruoli uomo/donna si rovesciano e, per la prima volta nella storia della geografia universitaria, il quadro rappresenta la maestra attorniata e apprezzata da uno stuolo di allievi. Lo dimostrano le centinaia di lettere inviate nel tempo alla Semple dagli studenti e conservate nelle biblioteche di alcune università americane: Chicago, Kentucky, Yale. Il fatto che la prima comunità scientifica geografica del mondo occidentale ad aver accolto una donna “in cattedra” sia quella americana, e non quella europea, non suscita sorpresa. Né la biografia di Ellen Semple tradisce le aspettative di un percorso interessante ma lineare che nulla ha a che fare con le complesse vicende vissute dalla maggior parte delle viaggiatrici europee fin qui studiate. Ellen Semple nasce a Louisville, nel Kentucky, l’8 gennaio 1863, da Emerine Price, di famiglia socialmente in vista, e da Alexander Bonner Semple che, emigrato negli Stati Uniti dalla Scozia, si era dedicato a Louisville al commercio. I biografi scrivono di un’infanzia serena e agiata e di una madre che le comunica il piacere della lettura, soprattutto di libri di storia e racconti di viaggio9. Alla madre Ellen Semple avrebbe dedicato, nel 1903, il suo primo libro: American History and Its Geographic Conditions 10. Una delle sorelle descrive Ellen come una fanciulla tranquilla e sportiva: eccelleva nel tennis e, come voleva la tradizione del Kentucky, era un’esperta cavallerizza. Nel 1878 entra al Vassar College di Poughkeepsie, a New York, dove studia letteratura, storia, economia, lingue classiche e moderne. Avrebbe più tardi parlato dell’ottima preparazione ricevuta anche nel latino. Nel 1882, a soli 19 anni, si laurea in lettere. Viene scelta per pronunciare il discorso alla cerimonia di conferimento delle lauree, per il quale sceglie come argomento La Coscienza della Scienza 11. Al Vassar, Ellen trova diverse compagne. Le trentadue donne che si laureano insieme a lei sono per la maggior parte di origini anglo-scozzesi; qualcuna proviene da paesi lontani, ad esempio, il Giappone: contatti proficui per una giovane mai andata oltre gli orizzonti degli spazi familiari. Dopo la laurea, Ellen torna a Louisville, e nel 1883 viene assunta come docente nella scuola della sorella. I ruoli che la consuetudine riservava alle donne del suo ceto non la attirano, e anche il tipo di insegnamento svolto non è sufficiente a soddisfare una mente attiva e curiosa come la sua. Continua gli studi al Vassar College e nel 1891 ottiene il Master of Arts. La interessano soprattutto la storia, la letteratura e i temi sociali12.
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Intanto, nel 1887, aveva effettuato un viaggio a Londra con la madre. Durante il soggiorno aveva conosciuto un giovane americano, Duren J. H. Ward, che aveva appena completato il corso di laurea all’Università di Lipsia e le aveva raccontato con entusiasmo di un professore di “antropogeografia” le cui lezioni facevano «rivivere la storia». Le aveva anche prestato un libro: era una copia dell’Anthropogeographie di Friedrich Ratzel13. Nel 1891, appena conclusi gli studi al Vassar, Ellen Semple decide di partire per Lipsia. Vi resta per un anno seguendo, insieme a corsi di economia e di statistica, le lezioni di geografia di Ratzel. Nel 1895 vi torna nuovamente. Questa volta, non deve partecipare ai corsi in modo semiclandestino, anzi: il geografo tedesco la accoglie volentieri e, per un anno, Ellen collabora con lui come assistente14. Rientrata negli Stati Uniti, Ellen Semple decide di dedicarsi allo studio della geografia umana seguendo il solco tracciato dal maestro. Il secolo XIX sta chiudendosi quando organizza il suo primo viaggio di esplorazione che ha come meta il Kentucky orientale. Oltre a lei, la piccola carovana è composta da due amiche di Louisville che la accompagnano. Le tre donne viaggiano a cavallo. Le segue il carro carico di materiale da campeggio e di provviste. L’escursione, non priva di rischi, rappresenta, dopo i soggiorni di studio in Germania, il primo vero e proprio viaggio scientifico della giovane geografa che non aveva scelto a caso per le sue ricerche le valli del Kentucky. Tra il XVII e il XVIII secolo, durante l’occupazione britannica, piccoli gruppi di pionieri si erano stanziati nelle strette vallate dell’altopiano del Cumberland, fondando villaggi tra montagne impervie e fiumi non navigabili. Questi insediamenti erano rimasti nel tempo pressoché privi di contatti con l’esterno, e la studiosa desiderava analizzare gli effetti dell’isolamento in cui le imponenti barriere naturali avevano tenuto le comunità locali15. Visitando quei luoghi, Ellen Semple scopre che i discendenti dei primi pionieri hanno conservato immutati per oltre un secolo gli stessi generi di vita e la stessa cultura, tanto da parlare ancora, come ha modo di osservare, un inglese elisabettiano molto simile a quello di Shakespeare16. Dall’esperienza deriva il primo lavoro, The Anglo-Saxons of the Kentucky Mountains, apparso in Gran Bretagna nel 1901 e ripubblicato negli Stati Uniti nel 1910, lo stesso anno in cui usciva in Francia la Géographie humaine di Jean Brunhes, anch’esso incentrato sul tema dell’isolamento17. Colby, un allievo della Semple divenuto a sua volta un geografo di rilievo, definisce il libro della studiosa «rivoluzionario» perché, prendendo le distanze dagli approcci della geografia americana allora in voga, pone al centro degli studi l’uomo invece del territorio, e utilizza come metodologie di ricerca il viaggio e l’osservazione diretta, anziché lo studio a tavolino18.
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In questo, la Semple trova in Ratzel il modello che le viaggiatrici della generazione precedente avevano trovato in Humboldt. Quanto l’opera di Humboldt le fosse nota non è dato di saperlo: stando a Influences, non molto, anche se non lo ignorava. Ellen Semple cita il geografo berlinese due sole volte, ma non a proposito del Voyage, né del Kosmos, bensì per Ansichten der Natur, che era stato tradotto in inglese nel 1849 con il titolo di Aspects of Nature: un collegamento che varrebbe forse la pena di approfondire19. Il viaggio come metodologia di ricerca lega più che mai la Semple allo schema teorico ratzeliano. Ratzel «aveva sempre amato viaggiare, e le peregrinazioni lo avevano messo in contatto con le società primitive […]. Le società primitive lo interessavano in modo particolare; era infatti convinto che lo studio dei primitivi avrebbe offerto un’ottima possibilità di mettere in evidenza gli adattamenti dell’uomo all’ambiente, verificando così i postulati della sua teoria» che lo portarono a formulare il concetto di “genere di vita”20. In queste considerazioni di Claval c’è molto anche della Semple che, viaggiando, conferma le sue convinzioni sul peso dei fattori geografici nella geografia umana. Per confortare le sue ipotesi, nel corso delle ricerche tende a raccogliere gli esempi più utili a confermarle, atteggiamento per cui sarà criticata, come ricorda anche Broc21. Almagià, al contrario, aveva osservato: […] ciò che principalmente contraddistingue l’opera della Semple si è la determinata esclusione di definizioni nude e di formole teoriche, e, per contro, l’abbondanza degli esempi, delle prove storiche, dei dati di fatto, in generale assai bene scelti e accuratamente raccolti ad illustrazione e documentazione continua delle idee e dei principi esposti22.
La storia è geografia in movimento Nel 1903 Ellen Semple dà alle stampe American History and its Geographic Conditions, dove analizza l’influenza che le coste, le isole, i fiumi, le montagne, la vegetazione e il suolo avevano esercitato sulle esplorazioni, sugli insediamenti coloniali, sul primo sviluppo degli Stati Uniti e sulla formidabile espansione che aveva trasformato la piccola nazione sorta nella costa orientale in una grande potenza continentale e poi mondiale23. Con questa monografia, che negli Stati Uniti suscita un intenso dibattito sulle relazioni tra la storia e la geografia, la Semple si conquista nella disciplina un posto di primo piano. Il lavoro, revisionato in seguito dalla stessa autrice con l’aiuto di Clarence F. Jones – un giovane geografo-economico che la Semple chiamerà alla Clark University 24 – e poi da questi ripubblicato nel 1933, è considerato un testo fondamentale nella storia della geografia americana25. Grazie alla fama acquisita con American History, Ellen Semple viene sempre più spesso invitata a tenere conferenze e a partecipare attivamente a iniziative in campo geografico. Nel 1904 la troviamo tra i quarantotto membri fondato-
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ri della Association of American Geographers, presieduta da William Morris Davis. Nel 1906 è chiamata, prima docente donna, a insegnare geografia umana nell’Università di Chicago, incarico conservato fino al 1924. Nel 1921 era stata eletta presidente dell’Association of American Geographers, unica donna a ricoprire tale carica nei primi ottant’anni di storia dell’associazione. A partire dal 1921 era stata anche chiamata a insegnare alla Clark University di Worcester (Massachusetts), dove era stato inaugurato un nuovissimo dipartimento di studi geografici: la Graduate School of Geography 26. Mantiene l’incarico fino alla crisi cardiaca che, nel 1929, la obbliga a ritirarsi. Come essa stessa racconta, per i corsi svolti sia a Chicago, sia alla Clark, era pagata molto meno dei colleghi uomini27. Una discriminazione compensata dalla grande ammirazione degli studenti, testimoniata da una vasta documentazione. Molti esponenti di rilievo della geografia americana ricordano le lezioni della Semple come una pietra miliare nella loro formazione; tra di loro compaiono i nomi di Carl Sauer, Richard Hartshorne, C. Langdon White e altri28. Un’ex studentessa dell’Università di Chicago, Phillis Taylor Christie, che frequentò le sue lezioni nel 1920, ricorda in un’intervista del 1977 l’attenzione che l’insegnante era solita riservare agli allievi: Quando mi iscrissi al corso di geografia umana di Miss Semple, non sapevo cosa aspettarmi. Al primo incontro ci annunciò che il nostro argomento principale sarebbe stata la regione mediterranea. Ad una delle prime lezioni, mentre prendevamo posto, trovammo sui braccioli dei bigliettini di Miss Semple. Si trattava di inviti ad una colazione la domenica mattina al vecchio Hotel del Prado, dove lei alloggiava. Era deliziosa mentre ci raccontava la sua vita a Giava, ma quando insistemmo perché continuasse, volle che fossimo noi a parlarle dei nostri interessi, dei nostri progetti futuri. Ci interruppe solo in tempo per andare in chiesa. Nel corso del quadrimestre tutti i componenti della classe ricevettero simili inviti. Penso che per tutti sia stata l’unica esperienza di questo tipo durante gli anni del college 29.
Un’altra allieva, laureatasi a Chicago nel 1921, ha raccontato la passione con cui Ellen Semple svolgeva le sue lezioni: Il suo corso sulla geografia del Mediterraneo è stato un’avventura, un’ispirazione, un ricordo indelebile. I suoi quesiti sugli approfondimenti rifiutavano la mera ripetizione dei contenuti, le risposte dovevano essere critiche e pertinenti. Collegavamo antichi miti e leggende con la presenza di santuari costruiti in epoche successive. Passavamo dai miti alle cappelle votive fino ai moderni fari situati sui promontori; da ogni punto di vista e tutto in funzione della rilevanza storica30.
Il mondo mediterraneo, meta di numerosi viaggi, meglio di altri ha fornito ad Ellen Semple l’opportunità di collegare geografia, storia e mito. Sono significativi, da questo punto di vista, i contenuti di una conferenza tenuta nel
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1926 all’Association of American Geographers. Con carte e fotografie la geografa illustra i templi e i boschetti posti sulla sommità di numerosi promontori. Spiega che «i promontori dei templi», non solo rivelavano le rotte più battute seguite nell’antichità dalle navi, ma corrispondevano a zone esposte a improvvisi cambiamenti della direzione dei venti e delle correnti marine. I marinai sopravvissuti a naufragi ringraziavano gli dei costruendo templi, o impiantando boschetti dove la gente poteva raccogliersi in preghiera31. La Semple avrebbe precisato questo tema nel libro sul Mediterraneo dimostrando, ancora con una carta32, la continuità fra siti sacri antichi e moderni e il collegamento fra funzione religiosa e funzione nautica. Porto Venere in Italia rappresenta solo uno dei molteplici casi in cui veniva attribuito a un porto il nome di una divinità, per ottenerne la protezione33. Robert Buzzard era stato studente della Semple sia a Chicago sia, più tardi, alla Clark University. A distanza di molti anni egli ne ricorda lo zelo e l’ottimismo: Entrava in classe appena squillava la campana, spesso o per la maggior parte delle volte indossando un cappello. Le sue gonne erano lunghe e struscianti. Era “l’eleganza” in persona per noi studenti del Midwest. La sua padronanza della lingua inglese era straordinaria, sia per la scelta dei vocaboli che per il rigore del discorso. Era sua abitudine invitare uno studente a cena con lei. Tale invito era molto ambito e ancora ricordo quando fu il mio turno di questa esperienza. Era solita chiederti di parlare di te, della tua famiglia, delle tue ambizioni. Non la dimenticherò mai […]. Mi aiutò per la tesi. Se una parte di quel lavoro era fatta bene, si trattava sicuramente di quella storica […]. Alla Clark iniziò il suo seminario aprendo e facendo passare una scatola di cioccolatini. «Voglio prontezza di riflessi da voi», fu la sua spiegazione34.
Fermamente convinta che un bravo studioso dovesse essere anche un buon insegnante, Ellen Semple considerava il rapporto tra docente e discente uno scambio utile alla crescita di entrambi35. Influenze Dopo American History, la produzione scientifica della geografa entra in una fase nuova. A parte i periodi in cui insegnava a Chicago, Ellen Semple continuava a vivere a Louisville. Ogni estate trascorreva le vacanze in tenda in una località vicina, a Catskills, dove poteva studiare e scrivere senza interruzioni36. Nell’arco di otto anni, dà alle stampe undici saggi, due dei quali riguardano le ricerche compiute nell’area a sud del fiume San Lorenzo ed altri tre, di carattere più teorico, la relazione tra storia e geografia37. Questa fase della carriera della studiosa raggiunge il culmine nel 1911, con la pubblicazione della sua seconda monografia, Influences of Geographic Environment 38.
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Nel discorso pronunciato da Ellen Semple in occasione della morte di Ratzel, avvenuta nel 1904, la geografa aveva affermato che «il suo nome sarebbe sempre rimasto legato alla geografia come quello di Adam Smith all’economia politica»39. Almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, il merito di questa fama va tutto ad Ellen Semple e al suo Influences, un libro scritto, per così dire, “a quattro mani” con Ratzel. Poco prima di morire, Ratzel aveva chiesto all’allieva di tradurre in inglese l’Anthropogeographie. L’impresa non appariva facilmente realizzabile: il libro era difficilmente traducibile in questa lingua ed andava adattato allo spirito anglosassone. Inoltre, come spiega Numa Broc, l’opera del geografo tedesco non brilla per la sua architettura: alcuni aspetti sono ben sviluppati, altri insufficienti, altri ancora appena accennati. Per lo più il maestro di Lipsia procede per affermazioni brillanti, per generalizzazioni successive; vede le cose troppo dall’alto e non si cura affatto di sostenere i suoi ragionamenti su un numero sufficiente di fatti. Infine, in certe sue concezioni l’opera è invecchiata e, per esempio, la teoria organicista delle società umane, generalmente accettata nel 1880 sotto l’influenza di Spencer, non era più ammessa nel 1910. Per tutte queste ragioni l’Anthropogeographie doveva essere interamente ripensata, rifusa […]40.
Convinta infine di realizzare il progetto, «Miss Semple intraprende il lavoro in totale accordo con Ratzel», continua Broc. La morte del geografo deve averle poi lasciato maggior libertà rispetto al modello. Nell’introduzione la Semple spiega le ragioni delle radicali modifiche operate rispetto al lavoro del geografo41. La comparazione fra i due testi fatta a grandi linee da Almagià basta a farsi un’idea dell’autonomia dell’autrice rispetto al maestro. La Semple ripropone i concetti e i temi fondamentali della monografia di Ratzel in modo personale. Gli interventi riguardano aspetti formali e sostanziali. Ellen organizza l’opera in modo diverso, elimina alcune parti e ne riassume altre, inserisce commenti per sostenere e chiarire i contenuti, aggiunge capitoli nuovi basati sulle proprie riflessioni e ricerche, correda il lavoro di un’ampia documentazione che nell’originale «era stata talora notata come difetto»42. La Semple illustra la molteplicità dei fattori geografici nella lunga prospettiva della loro evoluzione e, muovendo da tale complessità, classifica tanto gli effetti fisici ed economico-sociali dell’ambiente quanto quelli psichici, linguistici e religiosi. Nel quarto e quinto capitolo del libro («i meno originali», dice Almagià), sviluppa le note teorie ratzeliane di «situazione» (Lage) e di «spazio» (Raum), sottolineando l’importanza delle dimensioni di un territorio e della sua posizione sulla superficie terrestre. Analizza poi il ruolo svolto dai confini naturali, come le catene montuose e le coste, infine di-
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mostra le diverse influenze determinate nell’evoluzione delle varie civiltà dalla presenza dall’assenza di corsi d’acqua43. Le posizioni contradditorie, in alcuni casi marcatamente deterministe, altre volte quasi possibiliste, di cui parlerò più avanti, non sminuiscono la suggestione di tanti passi in cui la Semple “personifica” gli elementi naturali. Dal punto di vista antropogeografico l’acqua della superficie terrestre è una, anche se appare sotto forma di vapore atmosferico, di sorgente, di fiume, di laguna salmastra, bacino marittimo chiuso od oceano aperto […]. Perciò, ovunque l’uomo è entrato in contatto con essa, lo ha plasmato in modo uniforme, ha dato la stessa direzione alle sue attività, ha dettato l’uso dei medesimi utensili e metodi di navigazione […]. L’eterno stato di veglia delle acque in movimento ha bussato alla porta dell’inerzia umana per destare il dormiente al suo interno […]. I fiumi, con la sola forza di gravità, lo hanno condotto alle sponde dell’oceano comune, e lo hanno posato su questa arteria del mondo44.
Il giro del mondo Immediatamente dopo la pubblicazione di Influences, nel giugno 1911, Ellen sospende l’attività accademica per intraprendere, in compagnia di Charlotte Smith e Francis Little, due amiche di Louisville, un viaggio intorno al mondo che sarebbe durato diciotto mesi. La prima meta è il Giappone, dove le viaggiatrici soggiornano per tre mesi potendo contare sul prezioso appoggio di una ex compagna di college di Ellen, sposata e rimasta poi vedova del principe Iwao Oyama. Grazie alla principessa Oyama, la geografa trova nel paese una disponibilità propizia alle sue ricerche. Protette dalle guardie del corpo procurate dall’ospite che le aveva anche fornite dei permessi necessari, le tre donne esplorano l’isola di Honshu valicando montagne, nutrendosi del cibo locale e dormendo nelle locande. Lasciato il Giappone, attraversano la Corea e la Manciuria, raggiungono e visitano Pechino e Shanghai, poi le Filippine, Giava, Ceylon e l’India45. Ma la meta che più attraeva Ellen Semple era la regione mediterranea. L’interesse per il mondo greco e romano antico risaliva agli studi classici degli anni giovanili. Secondo Ellen, il Mediterraneo rappresentava l’esempio più evidente dell’influenza dell’ambiente geografico sulla cultura, sull’economia, sulla politica dei popoli che vi si erano insediati sviluppandovi grandi civiltà. La nostra geografa-viaggiatrice giunge nel 1912 e trova piena rispondenza alle proprie aspettative scientifiche. I luoghi le si offrono con una straordinaria ricchezza di emergenze storiche e archeologiche nelle quali trova la conferma delle proprie ipotesi di ricerca46. Rivivendo, attraverso il suo viaggio, la storia, Ellen percorre in Grecia itinerari persiani, in Italia, romani, visita la penisola balcanica, passa le Alpi. Dal punto di vista teorico da cui partiva, è evidente che la barriera che separava il mon-
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do mediterraneo dal resto d’Europa e i valichi che consentivano di superarla la interessavano in particolar modo. Sul tema delle barriere naturali scrive un saggio che sarebbe anche diventato un capitolo del libro su questa regione47. Ellen attraversa la Svizzera, la Francia, la Germania, i Paesi Bassi, raggiunge la Svezia e la Norvegia. In Inghilterra, ultima tappa, è invitata a presentare i risultati delle proprie ricerche in una serie di conferenze. Nell’agosto del 1912 è a Oxford, poi in Scozia per alcune riunioni della Geographical Society, e in diverse altre città. Rientrata a Londra, espone una relazione sull’agricoltura giapponese alla Royal Geographical Society 48. L’intervento viene commentato dal Daily Express del 5 novembre in un articolo dal titolo molto eloquente: Donna geografa, autore di un nuovo campo di ricerca. L’articolo raccontava che la Semple aveva incantato un pubblico di studiosi importanti, la definiva «fondatrice di una nuova scienza chiamata antropogeografia», e la descriveva anche nell’aspetto fisico: […] Miss Semple, che è una donna alta e dall’aspetto distinto, con un leggero accento americano, indossava un abito da sera azzurro e un filo di perle […]49.
L’intervento della Semple a Londra ha una conseguenza importante nella storia della geografia femminile. Finalmente, quasi un secolo dopo la decisione della Société parigina, la Royal Geographical Society indice un referendum sugli articoli del regolamento che impediscono di associare le donne. La maggioranza dei membri si esprime in favore del cambiamento del regolamento permettendone, dall’inizio del 1913, l’ingresso50. Alla fine del 1912, Ellen Semple ritorna a Louisville, riprende l’insegnamento e inizia il lavoro di elaborazione delle informazioni raccolte durante il lungo viaggio. Alcune lettere manoscritte, scambiate con un editore nel corso del 1913, conservate nella Yale University Library, testimoniano l’intensa attività di quegli anni: conferenze all’Association of American Geographers, proposte di redazione di una geografia per bambini, ricerche in corso e metodo di lavoro, qualche piccola nota biografica e, soprattutto, la rievocazione del viaggio: Sono stata via da Louisville per due anni e mezzo; durante la maggior parte di questo tempo, ho fatto un viaggio di ricerca intorno al mondo, mentre ho trascorso gli ultimi mesi a New York o su queste montagne. I miei collegamenti con l’ufficio postale di Louisville si sono in qualche modo interrotti, nonostante abbiano l’indirizzo del mio domicilio. Sono molto impegnata con un libro che sto scrivendo sul bacino del Mediterraneo, e non posso interrompere questo lavoro con qualcosa di estraneo, ma se lei desidera che scriva quei brevi articoli su Corfù, Creta e l’Eubea, posso farlo. Circa un anno fa, ho trascorso una settimana a Corfù e ho percorso la costa greca fino all’Eubea. Riguardo a Creta, ho letto tutto ciò che è stato scritto su quest’isola negli ultimi dieci anni. A mio parere, in quei bre-
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vi articoli si dovrebbe miscelare la storia con la geografia più o meno in ogni frase. Se fosse utilizzato tale metodo di stesura, mi concedereste di superare il numero di 300 parole per Corfù e per l’Eubea, e di 600 parole per Creta? Mi sono molto rallegrata nell’apprendere da lei il luogo proposto per l’incontro della Association of American Geographers, per cui potrei raggiungerla a Princeton. Sarò a New York fra tre giorni, e vi resterò un mese. Malgrado avessi programmato di tornare a Louisville per Natale, avrei la possibilità di partecipare all’incontro di Princeton. Pensa che ci potrebbe essere un interesse da parte dei geografi ad ascoltare un mio intervento con illustrazioni sul Giappone? È la stessa che ho presentato alla Royal Geographical Society. Ho percorso 200 miglia all’interno del Giappone, studiando l’agricoltura come risultato delle condizioni ambientali e scattando fotografie. Sarei veramente lieta di incontrarla a Princeton […]51.
Il 24 marzo 1914, in omaggio all’importante ruolo che stava ricoprendo nella geografia statunitense, Ellen Semple riceve dall’American Geographical Society la Cullum Gold Medal, il riconoscimento più ambito dai geografi americani52. Intanto continua gli studi sul Mediterraneo e nel 1915 torna in Europa per raccogliere materiale nelle biblioteche di Roma, Parigi e Londra53. Sempre a questo scopo, tornerà in Europa quasi ogni anno per vent’anni54. Fra geopolitica e geostoria Quando, il 6 aprile 1917, gli Stati Uniti entrano in guerra, le competenze della Semple sul Mediterraneo vengono utilizzate sul piano militare e geopolitico. In autunno svolge un corso sulla geografia del fronte italiano per gli ufficiali del Campo Zachary Taylor, a Louisville. Nel dicembre successivo, in previsione della fine delle ostilità, il presidente Wilson istituisce una commissione di studiosi (Bureau of Inquiry for the Peace Terms Commission) allo scopo di preparare i delegati americani al congresso di Versailles del gennaio 1919. Per gli aspetti geografici, furono scelti come consulenti Isaiah Bowman, allora presidente dell’American Geographical Society, ed Ellen Semple. I due geografi lavorarono per The Inquiry tra il dicembre 1917 e il dicembre dell’anno successivo55. Chiusa la parentesi geopolitica e militare, Ellen torna a insegnare e riprende gli studi. Nel 1919 pubblica altri saggi sul Mediterraneo antico nei quali ricostruisce carte storiche: sui tragitti carovanieri dalla Mesopotamia all’Egitto56, sulla distribuzione delle foreste e il commercio di legname57, sul commercio del grano58. L’enorme documentazione raccolta sul bacino del Mediterraneo sfocia, nel 1931, poco prima della morte, nella pubblicazione di Geography of the Mediterranean Region: Its Relation to Ancient History. Quando, nel 1929, la Semple si ammala, il lavoro da fare era ancora molto. Dopo essere uscita nel 1930 dall’ospedale, Ellen si rimette all’opera nella stanza di un convitto adiacente alla Clark e, su suggerimento del direttore della Graduate, Wallace Atwood,
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ricorre all’aiuto dell’ex allieva Ruth Baugh. La Baugh era molto ferrata sul tema: appena incaricata di un seminario alla Clark, a sua volta aveva scelto il Mediterraneo come argomento dei corsi59. Anche Clarence Jones collaborò all’impresa, incaricandosi di controllare le carte da inserire nel testo60. Geography of the Mediterranean Region uscì una prima volta nella primavera del 1931 e una seconda l’anno dopo. Anche in questo libro, la nascita, lo sviluppo e la storia delle civiltà della regione sono dati come il risultato di particolari fattori ambientali. Fenomeni come la pirateria sono, per Ellen, il «prodotto naturale» della morfologia territoriale: Le condizioni geografiche resero il bacino Mediterraneo un buon territorio di caccia per i pirati. Ma non determinarono soltanto questo. Esse condannarono certe zone della costa a diventare luoghi di formazione naturale di corsari e a inviare i loro abitanti sul mare, a guadagnarsi da vivere in modo duro […]. La terra offre solo scarse risorse alimentari, che quindi devono essere supplite con incursioni nei territori vicini. Come un naturale prodotto della terra, i pirati erano un fenomeno costante o ricorrente nell’intera costa dell’Asia Minore, in molte isole dell’Egeo e in particolare a Creta, nell’inaccessibile costa del Caucaso, sulla costa dell’Illiria o della Dalmazia nell’Adriatico, sul fronte africano blindato dall’Atlante, nell’arcipelago delle Baleari e in Corsica61.
Anche le carte servono a illustrare il ruolo dell’ambiente nell’evoluzione storica. Un caso curioso è rappresentato dalla carta degli Stati Uniti che Miss Semple sovrappone a quella del bacino del Mediterraneo. Gli spazi, dal punto di vista della superficie, si eguagliano, ma uno è essenzialmente continentale mentre nell’altro le terre si sviluppano intorno a un vasto mare che penetra profondamente dentro le coste. Per la Semple è questa distesa d’acqua, racchiusa da un territorio dalla morfologia molto articolata, il fattore principale del rapido progresso delle civiltà mediterranee62: Tutto il mondo è erede del Mediterraneo. Tutto il mondo è suo debitore. Molto di quanto c’è di più bello nella civiltà moderna riconduce ai semi della cultura maturati nell’ambito delle terre mediterranee e trasmessi poi ad altri Paesi, dai quali sono stati diffusi in tutto il mondo. Attraverso questa diffusione essi hanno sviluppato nuove varietà locali, che comunque rivelano la loro somiglianza con le specie mediterranee originarie63.
Il libro è costruito su una gran quantità di fonti bibliografiche ma anche sull’esperienza del viaggio. Nel ringraziare, all’inizio, le persone che hanno contribuito a questa opera, la Semple nomina l’amico Dik Mack di San Francisco, che l’ha accompagnata in lunghi viaggi in automobile attraverso la Grecia, Corfù, la Dalmazia, la Bosnia, l’Erzegovina. Egli, racconta Ellen, «ha programmato altruisticamente i tragitti tenendo conto più dei miei proposi-
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ti che delle proprie preferenze». Successivamente, ringrazia cognato e nipoti affermando: «mi hanno consentito di esplorare con l’automobile parti poco note dell’Italia, contribuendo così a farmi acquisire quella conoscenza profonda del Paese che non ha prezzo per un geografo»64. Il lavoro, tuttavia, ha solo eccezionalmente l’andamento del racconto personale. Solo la terra della poesia e del mito, la Grecia, riesce a “strappare” alla geografa una pagina in cui il paesaggio è descritto con il tono del diario: Mezzogiorno all’inizio di maggio sull’istmo di Corinto. Al di sotto di una lastra di pietra calcarea, una striscia d’ombra color malva si allunga attraverso la stretta spiaggia fino ad un mare di zaffiro. Una brezza insistente che soffia giù dall’Ellesponto adorna le onde dell’Egeo di creste ricciolute, assorbe l’umidità dall’aria tersa, e trasporta la polvere della pietra calcarea facendola girare vorticosamente sulla strada bianca nel bagliore del mezzogiorno. Il sole brucia il viso e le mani come se i suoi raggi giungessero attraverso una lente, mentre la polvere alcalina rende lucidi gli occhi e la pelle. Cercando un rifugio dalla calura e dal bagliore, arranco verso l’ombra violacea al di sotto della stretta sporgenza, benedicendo questo “riparo di una grande roccia in una terra assetata”, per consumare il mio pasto omerico di pane e vino, formaggio di capra e fichi65.
L’ultimo viaggio di Ellen non si dirige verso il Mediterraneo d’Europa ma, come vuole la tradizione americana, verso quel “mediterraneo locale” che è la Florida degli anziani. Ellen Semple muore l’8 maggio del 1932, a Palm Beach. A causa della malattia cardiaca che l’aveva colpita, conseguenza o metafora di una vita vissuta “da uomo”, nel novembre del 1929 si era ritirata dalla Clark University. Nella bacheca della facoltà era indicata «temporaneamente assente» e il suo nome continuò ad apparire sulla lista dei docenti fino al giorno della sua scomparsa66. In una lettera del 25 marzo al preside della Kentucky University, aveva scritto: La medaglia d’oro «Helen Culver», conferitami dalla Geographical Society di Chicago, oggi va a Voi, a giacere insieme alla medaglia «Cullum», nella biblioteca del Kentucky University, tra la mia gente. Troverà qui allegato l’atto con cui autorizzo la donazione. Mi sto avvicinando al Grande Spartiacque, in cui l’ultimo viaggio sarà breve e rapido. Ma sono stata in grado di stare al gioco fino alla fine – persino dopo che lo spettro della Morte mi aveva dato il suo ultimo avviso – e di completare il mio grande libro sul Mediterraneo67.
Una geografia contraddittoria Abbiamo visto che i libri della Semple furono ampiamente utilizzati fino alla seconda guerra mondiale e, in misura minore, anche nel decennio successivo, nonostante le critiche a cui erano stati sottoposti da parte della scuola geografica francese.
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Il determinismo della geografa si sposava bene con l’orizzonte politico di una nazione intenzionata a edificare la propria supremazia planetaria. La politica estera americana della «Dottrina Monroe», del Manifest Destiny e, poco più tardi, dell’Open Door, conseguirono un fondamento intellettuale con le formulazioni di Frederick Jackson Turner, Brooks Adams, e l’ammiraglio Mahan, nonché una realizzazione pratica con le politiche di Theodore Roosevelt e di Woodrow Wilson. Secondo Turner, l’unicità dell’America era il prodotto della sua frontiera in espansione: L’esistenza di un’area di terre libere, il suo continuo recedere e l’avanzamento degli insediamenti americani ad Ovest spiegano lo sviluppo dell’America […]. L’universale predisposizione degli americani – un popolo in espansione – è quella dell’allargamento del proprio dominio e l’ampliamento geopolitico in atto è il risultato attuale di una potenza espansiva che è insita in essi […]. La frontiera è la linea di più rapida ed efficace modernizzazione americana [...], il movimento è il suo elemento dominante e […] l’energia americana esigerà continuamente un campo di applicazione sempre più vasto68.
Da parte sua, la Semple era convinta che gli Stati Uniti, colonizzati da una civiltà progredita come quella inglese – la cui superiorità derivava a sua volta dalla particolare morfologia e dal clima pungente e, perciò, stimolante dell’isola britannica – fossero stati destinati dalla loro condizione geografica a diventare una potenza mondiale69. L’evoluzione ha bisogno di spazio, ma trova la superficie terrestre limitata. Ovunque, vecchie e nuove forme di vita coesistono fianco a fianco in spietata concorrenza; ma la nuova variante progredita si moltiplica e si espande a spese delle specie meno favorite. La lotta per l’esistenza significa lotta per lo spazio. Ciò è vero per l’uomo e per gli animali inferiori. Un popolo superiore, che invade il territorio del vicino più debole e meno sviluppato, lo spoglia della sua terra, lo costringe in spazi troppo angusti per la sua sopravvivenza, e continua a invadere anche questi spazi già insufficienti fino a quando il più debole perde alfine l’ultimo residuo del suo dominio e viene letteralmente estromesso dalla Terra, estinguendosi: così accadde ai tasmaniani e a numerose tribù indiane. La superiorità dei popoli in espansione consiste essenzialmente nella loro maggiore abilità a conquistare, a sfruttare completamente e a popolare un territorio. Questa è anche la stessa facoltà con cui essi accelerano l’estinzione dei più deboli; e poiché tale superiorità è peculiare ai più alti stadi della civilizzazione, i più alti stadi inevitabilmente soppiantano i più bassi70.
Il brano rappresenta la rielaborazione effettuata dalla Semple del concetto di «spazio vitale» di Ratzel, per cui il meccanismo naturale della «legge del più forte» formulato da Darwin, spinge gli stati più progrediti ad allargare il proprio territorio a spese degli stati più deboli. Secondo i due studiosi, l’e-
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spansionismo territoriale di un popolo a scapito di un altro trova nella geografia non solo una spiegazione, ma nella sua necessità e inevitabilità trova soprattutto una giustificazione. Tuttavia, più di un elemento consente di affermare che, anche a questo proposito, nella Semple si colgono feconde contraddizioni. Fannie G. Mitchnick, iscritta nel 1908 al corso sui principi di antropogeografia all’Università di Chicago, circa settant’anni dopo ricordava ancora la grande apertura mentale della sua insegnante: Mi ricordo eccome la professoressa Semple… Fu la prima ad aprirmi gli occhi sul ruolo svolto dalla geografia negli eventi storici. Lei insisteva sui limiti dell’isolamento in un’epoca in cui alcuni ancora lo ritenevano un valido atteggiamento. Pensava che la comprensione dei principi geografici fosse essenziale per salvaguardare la pace e la sopravvivenza nel mondo71.
Che la lettura delle opere della Semple non dia risultati unidirezionali lo dimostra il dibattito, seppure non ampio, che si è sollevato in Italia e Francia intorno ad esse. Rispetto agli altri libri, Influences è quello che illustra in modo più diretto ed esplicito le teorie della geografa, attraverso la revisione di quelle del suo maestro. A proposito del concetto di spazio Almagià afferma: […] per quest’ultimo argomento, le parti migliori delle idee ratzeliane, come si sa, assai combattute, vengono presentate [dalla Semple] in luce più favorevole, sempre con l’aiuto di esempi suggestivi72.
Quasi settant’anni dopo, Aldo Pecora si sarebbe ricordato di Influences più lungamente e in toni assai più critici, pur conservando nei suoi riguardi l’aggettivo «suggestiva»: L’opera della Semple offre un’idea chiara e insieme suggestiva delle posizioni deterministiche: in effetti la Semple esalta in modo quasi paradossale la dipendenza dell’uomo dalla natura, nelle sue manifestazioni sia fisiche sia psicologiche e culturali. Questa allieva americana di Ratzel considera l’uomo come un «prodotto della Terra», in tutto dominato dalla «forza stabile» della natura, che è «un dato immutabile», «l’elemento permanente» nella storia umana; e nelle condizioni morfologiche e climatiche delle diverse regioni della terra vede le cause delle differenze di temperamento, di cultura, di capacità d’azione dell’uomo, e nella posizione geografica delle contrade un valore assoluto che condiziona la vita dei popoli, predeterminandone i destini, e quindi le possibilità di sviluppo o di degenerazione. Come se la storia del mondo non insegnasse la precarietà e il continuo mutamento delle funzioni politiche dei vari spazi terrestri, sottolineando in tal modo la loro relatività di valore nel corso del tempo, e come se un popolo fosse necessariamente costretto, per svilupparsi, a sottomettere e a reprimere i popoli vicini. La certezza adamantina dei deterministi viene talora meno; ma anche quando il dubbio incalza e tormenta, la soluzione viene sempre ricercata in qualche fattore ambientale73.
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Vero è che nelle opere di Ellen Semple si trovano innumerevoli frasi fatte, conclusioni assolute e teorizzazioni aprioristiche, ma ad una lettura più attenta ci si accorge anche che i suoi libri contengono contraddizioni più consistenti di quelle adombrate da Pecora. Anche il linguaggio di cui la Semple fa uso ha avuto un peso nel far apparire il suo determinismo più rigido di quanto sia stato. A proposito dello stile della Semple, Wright conia un termine adeguato per definire una sorta di artificio retorico che abbonda nel testo: la «categorilla», ossia una breve, categorica asserzione non verificata o non verificabile, espressa in termini altisonanti ed assoluti. Ad esempio: «I veri popoli nomadi non mostrano alcuna alterazione di modi, costumi, o generi di vita da un millennio all’altro»74. Sono assai numerosi avverbi come: «inevitabilmente, sempre, ovunque»; mentre sono rari i «forse, probabilmente, d’altra parte, sembrerebbe»75. In realtà, da un’attenta analisi dei vari testi, emerge talvolta una Semple propensa a considerare la possibilità dell’uomo di scegliere e di autodeterminarsi indipendentemente dalle condizioni geografiche. Gli esempi sono numerosi e significativi. In American History, la geografa dà della frontiera una definizione interessante nella quale si avverte il peso della cultura e della storia: Una frontiera non è mai una linea, ma sempre una zona di reciproca assimilazione, dove ha luogo l’amalgama di razze, mentalità, istituzioni e morali più o meno progredite. I pionieri inglesi mantennero nelle distese desolate la tendenza all’occupazione sedentaria del territorio, al contrario delle abitudini nomadi dei commercianti francesi […]76.
A proposito del mondo mediterraneo, a lato di osservazioni come quella sulle cause fisiche della pirateria, troviamo spiegazioni tutte umane della decadenza dell’Impero Romano, le ragioni del cui declino, secondo la Semple, non vanno ricercate in un cambiamento climatico, ma nel denudamento del suolo collinare, nella deforestazione che ha impoverito le sorgenti, nella distruzione di opere idrauliche avvenuta nel corso delle incursioni barbariche e nomadi, nel collasso dell’ordine causato dalle ripetute invasioni, e probabilmente nell’esaurimento dei suoli provocato dal declino dell’agricoltura77.
Nel capitolo in cui tratta dell’ambiente montuoso, la Semple descrive le varie attività che vi si praticano. A proposito dei terrazzamenti, fa gli esempi dell’isola di Tenerife, dell’antico Impero Inca e, in particolare, della Riviera ligure dove per secoli l’uomo ha attivamente modificato la sfavorevole morfologia del territorio riconoscendone la vocazione per la coltivazione dell’olivo e della vite. Così facendo smentisce le generalizzazioni fatte poche pagine prima, dove sosteneva che le pendici scoscese hanno impedito agli uomini lo stanziamento sulle montagne78.
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In un passo illuminante di Influences la geografa coglie la prospettiva dell’omologazione degli spazi terrestri, come conseguenza del peso delle attività umane. L’uomo civilizzato, diffondendosi ovunque e plasmando tutte le parti della superficie terrestre per i propri usi, è riuscito in vari modi a ridurre le differenze morfologiche. La Terra trasformata dall’azione umana è un fatto molto importante dello sviluppo storico. L’irrigazione, il drenaggio, la fertilizzazione dei terreni, l’agricoltura a terrazzamenti, la denudazione delle foreste e la forestazione delle praterie, complessivamente hanno contribuito a diminuire il contrasto tra diversi ambienti fisici, mentre l’acclimatazione di piante, animali e uomini contribuisce in modo ancora più evidente a conseguire tale uniformità. L’unità della specie umana, che varia solo per certe caratteristiche superficiali, riflette l’unità della terra sferica, le cui varietà geografiche non si allontanano mai dalla media eccetto che per il clima. La differenziazione dovuta alla geografia, quindi, raggiunse presto i suoi limiti. Per l’assimilazione non è prevedibile alcun limite79.
Influences di Ellen Semple «è un’opera totalmente nuova, meglio costruita, meglio documentata e di maggior valore pedagogico» rispetto all’Anthropogeographie di Ratzel, afferma Broc. «Essa non ha voluto scrivere un’opera di geografia moderna ma […] un’introduzione geografica alla storia e da questo punto di vista l’opera è riuscita» continua, per poi concludere: «mi pare che le concezioni, la cultura, gli orizzonti intellettuali di Miss Semple e dei suoi colleghi europei [del 1910] siano molto simili […]»80. Non è compito di questo capitolo entrare nel merito delle due maggiori tendenze della geografia otto-novecentesca, il determinismo e il possibilismo, analizzati da illustri studiosi81; basti qui dire con Farinelli che «“determinismo” e “possibilismo” non sono mai esistiti allo stato puro»82. Anche nel caso della Semple non vanno fatte facili semplificazioni. Abbiamo una Semple un po’ possibilista, ma inconsapevole di esserlo. Del resto, va sottolineato il fatto che la studiosa non si concentra sulle trasformazioni territoriali effettuate dall’uomo («lascia da parte, dice Almagià, le tracce topografiche dell’umanità sulla terra»83), bensì sceglie di parlarci delle influenze esercitate dall’ambiente sull’essere umano e, per l’esattezza, delle influenze esercitate dall’ambiente a certi stadi delle civiltà. Lo studio delle fonti di Influences ha permesso a Broc di rendersi conto che Miss Semple rappresenta una tendenza essenzialmente etnografica della geografia. Essa ha tratto principale ispirazione dagli etnografi sia «da gabinetto» sia «da terreno». Ciò spiega la tendenza a prediligere i piccoli gruppi umani isolati che, maggiormente sottoposti alla pressione dell’ambiente, hanno conservato generi di vita tradizionali. Al contrario, il lettore cerca invano nel libro informazioni sul mondo industriale, sui trasporti moderni e
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sulle metropoli. Quella della Semple è una sorta di geografia retrospettiva, o di geografia storica84. «L’importanza dell’elemento tempo, dice da parte sua Almagià, nei fatti e fenomeni geografici è ben tenuta presente dall’A., che più volte insiste sulla necessità di studiare anche i problemi antropogeografici attuali alla luce del passato»85. Illustrando il criterio fondamentale che ispira l’intera trattazione di Influences (consistente nel comparare «popoli di differenti gruppi etnici ma di ambiente geografico simile» e nel concludere che se essi «manifestano uno sviluppo sociale e storico simile o analogo, sarà ragionevole indurre che tali analogie siano dovute all’ambiente, non alla razza»), lo stesso autore finisce per affermare che «in fondo, si tratta di un’estensione del principio fondamentale del Ritter che mirava a mettere in luce le influenze permanenti esercitate dalle condizioni geografiche di un determinato paese (o ambiente) mediante l’indagine storica comparativa dei vari popoli che successivamente in esso abitarono»86. Le conclusioni che si traggono dallo studio dell’opera della Semple, da una parte confermano la validità delle critiche che le sono state avanzate, dall’altra costringono ad ammorbidire giudizi troppo negativi nei suoi confronti. Deve essersene convinto anche Febvre che nel corso della sua analisi esprime valutazioni contrastanti, calibrate sulle contraddizioni della nostra autrice. «È in maniera molto semplicistica che i geografi della scuola di Ratzel continuano a considerare i rapporti fra l’uomo e l’ambiente», scrive in La Terre. Per diverse pagine Febvre sviluppa le proprie critiche a Miss Semple, «di cui, dice, volentieri citiamo il libro interessante e studiato, perché nessun altro esprime con tanta buona fede, candida ed entusiasta, le idee che per parte nostra vogliamo rigettare»87. Per Febvre, la Semple sbaglia quando afferma che «le isole, i deserti e le steppe producono analogie economiche, etniche e storiche», quando spiega gli spostamenti dei popoli come cosacchi ed unni, con «la natura dell’aria, secca e stimolante», quando propone «tutta l’evoluzione della storia spagnola in funzione dell’ambiente»88. E così di seguito. Ma, dice Broc, chi ha letto, come Febvre, con attenzione le opere della geografa, deve ammettere che essa non ha commesso solo inesattezze: Dopo il 1911, gli oppositori del determinismo si sono dati da fare a tutto spiano per rilevare le generalizzazioni azzardate: con una gran quantità di esempi, Miss Semple eleva a principi assoluti alcuni legami frequenti, ma scarta i casi che potrebbero contraddire questa ipotesi. Sono state sottolineate alcune affermazioni perentorie («l’uomo è il prodotto della superficie terrestre») e si è dimostrato che il suo ambientalismo raggiungeva l’assurdo sul terreno della geografia psicologica e religiosa (tutti i montanari sono ladri, il monoteismo è il frutto «della sabbia del deserto e dell’erba della steppa», il buddismo è nato «nel caldo-umido del pedemonte himalaiano»). Con lo stesso spirito Miss Semple crea delle entità (“il montanaro”, “l’isolano”, “l’uomo dei fiumi”), che non reggono all’analisi.
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Indubbiamente è facile isolare delle formule a casaccio per fare la caricatura del pensiero di Miss Semple. In realtà, le sue analisi sono meno sommarie e, accanto all’ambiente fisico, essa mette sempre anche fattori etnici, sociali, culturali e soprattutto storici perché, non dimentichiamolo, la sua è una formazione di storica. Lucien Febvre non si sbaglia quando, accanto a giudizi severi, cita a più riprese Miss Semple per prendere in prestito fatti utili a sostenere le proprie considerazioni […]89.
«Ecco che cosa ci conferma che Miss Semple è più vicina a un certo “probabilismo” che al determinismo sommario che di solito si associa al suo nome», continua Broc rimandandoci ai passi in cui Febvre riconosce la validità di molte affermazioni della nostra autrice: Per esempio Miss Semple ci dice spontaneamente e con molta ragione che è bene diffidare da generalizzazioni abusive. Essa constata che non tutte le influenze agiscono nello stesso senso, intendendo con questo che i fattori della geografia umana agiscono con un’intensità variabile a seconda delle epoche, e analizza questa varietà piuttosto argutamente […]. Innanzi tutto, ci fa osservare, le società umane si liberano sempre più dalla tirannide originale dei quadri naturali. I progressi della civiltà materiale e della medicina permettono – mediante modifiche e perfezionamenti degli abiti, del regime di vita e dell’igiene – sia all’umanità presa nel suo complesso, sia all’una o all’altra sua frazione particolare, di uscire facilmente dallo stadio primitivo in cui si sarebbe forse tentati di collocarla […]. In secondo luogo, osserva sempre Miss Semple, in una regione determinata, le condizioni possono cambiar d’importanza e di valore. Così nei primordi una civiltà può trarre grandi vantaggi da un habitat isolato, angusto e protetto, ma lo stesso habitat – proprio per i suoi vantaggi primitivi che con lo sviluppo si mutano in svantaggi – potrà costituire a uno stadio più avanzato dello sviluppo un reale impaccio per i suoi abitanti90.
La nostra pioniera Per apprezzare il valore del lavoro di Ellen Semple esso va collocato, come fa notare lo stesso Broc, nel contesto della scienza geografica del suo tempo; sarebbe un errore grossolano giudicare le sue opere dal punto di vista attuale. I meriti di Ellen Semple spaziano dal contributo scientifico che ha offerto direttamente alla geografia in qualità di ricercatrice, all’esempio che ha fornito alla società come donna impegnata nella scienza. Per secoli si è dato per scontato che le scienze fossero “cose da uomini”. Negli ambienti geografici come le università, le associazioni e le riviste specializzate, le donne quasi non esistevano fino alla metà del Novecento: le uniche presenti ai congressi erano le mogli o le segretarie dei partecipanti uomini. Nel 1821, Humboldt aveva proposto alla Societé de Géographie parigina l’apertura alle donne, ma il suo intervento in un primo momento fu cancellato dai verbali. Fino al 1981 in America esse non potevano accedere al New York Explorers Club e continuavano a trovarsi presso la Society of Women
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Geographers, fondata a Washington nel 1925. I congressi dell’International Geographical Union prevedevano, fino al secolo scorso, un apposito Ladies’ Program, mentre mancava la definizione corrispettiva di Gentlemen’s Program. Le sezioni femminili rappresentavano una sorta di servizio aggiuntivo che aumentava il prestigio delle rispettive associazioni, ma per le associazioni stesse conservavano il ruolo di una piacevole cornice dalla quale non ci si aspettava alcun contributo scientifico. Nei convegni, mentre i geografi maschi tenevano le conferenze, gli organizzatori affidavano alle donne iscritte il compito di intrattenere le delegazioni straniere e simili incombenze91. Sono trascorsi settant’anni dalla morte di Ellen Semple, ma negli Stati Uniti, che pure, proprio per il suo caso, hanno costituito la comunità scientifica più aperta alle donne geografe, la discriminazione sussiste. Ancora oggi, i dipartimenti americani di geografia, le associazioni dei geografi e le pagine delle riviste geografiche rimangono dominate dagli uomini. Malgrado non esistano più regole discriminatorie, la minore presenza femminile negli ambienti geografici e, più in generale, l’interessamento meno diffuso tra le donne alle discipline scientifiche sono una conseguenza della loro lunga esclusione. Nel 1971-1972, le donne costituivano solo il 3,1% dei docenti nei 114 maggiori dipartimenti di geografia del paese. Nel 1977, la presenza femminile ha raggiunto il 4,4%: 63 su 1439 docenti. Nel 1983, di tutti i dottorati istituiti nei quindici principali dipartimenti di geografia americani, solo tre sono stati effettuati da donne. Tuttora, la maggior parte dei programmi post-laurea sono svolti da uomini92. La minore presenza femminile nei vari rami delle facoltà di geografia è accompagnata da disparità di stipendi in base al sesso del docente93, un problema che persiste e a suo tempo segnalato dalla Semple come significativo di una discriminazione: Gli amministratori della Clark University fissarono il mio stipendio sulla base di 500 dollari annui in meno rispetto a quello che prendevano i professori a tempo pieno, nonostante io avessi un orario più gravoso e una produzione scientifica più nutrita dei professori uomini del mio dipartimento, mentre la mia fama sia nazionale che internazionale era pari se non superiore alla loro. Il motivo di ciò consisteva nel fatto che io ero una donna e senza persone a carico; una giustificazione di stampo vittoriano da parte di un gruppo di moderni capitalisti94.
Da questa situazione si può ben intendere come Ellen Semple sia un caso unico nella storia della geografia. È ancora oggi considerata, negli Stati Uniti, una figura rivoluzionaria della geografia americana: Ellen non solo introdusse l’approccio antropocentrico, ma elevò la geografia umana al rango di disciplina accademica. Fu la prima donna assunta come docente di geografia nelle più importanti università degli Stati Uniti, fu nominata consulente del governo americano negli anni della prima guerra mondiale, scrisse arti-
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coli per riviste ed enciclopedie geografiche; le furono conferite la laurea in geografia honoris causa dall’Università del Kentucky, la Cullum Geographical Medal e la Helen Culver Gold Medal. Fu la prima donna a diventare presidente dell’Association of American Geographers. Dalle numerose lettere e testimonianze che ho avuto modo di analizzare non risultano relazioni sentimentali della Semple95. Pare che la studiosa non facesse trapelare nulla della propria vita privata, e si potrebbe supporre che, attraverso un atteggiamento tanto riservato, Ellen cercasse di proporsi negli ambienti scientifici come geografa e non come donna, per evitare il più possibile lo scetticismo dei colleghi maschi. Ellen non si batté per l’emancipazione femminile, ma, con la propria stessa affermazione, fece molto per il pieno riconoscimento della donna nelle università americane, favorendo l’iscrizione delle ragazze nelle università di Chicago e di Clark. Fu soprattutto grazie all’incoraggiamento della Semple, se Millicent Todd Bingham entrò nel campo della geografia e divenne la prima donna a ottenere la laurea al Dipartimento di Geologia di Harvard nel 1923. Come la Bingham, anche Sonia Baber, Mabel Stark, Betsie Ashton, Helen Strong e Mabel Crompton furono incentivate dalla Semple a intraprendere la loro carriera nella geografia96. Oltre a offrire il proprio sostegno in modo attivo, la Semple costituiva un modello da imitare: rappresentava la possibilità, agli occhi delle giovani interessate alla geografia, di intraprendere il suo stesso percorso. A riprova dell’importante influenza che Ellen esercitò negli ambienti culturali che la ospitarono, è emblematico il fatto che, dopo il suo intervento del 4 novembre 1912, la Royal Geographical Society di Londra abbia ammesso le donne. Altrettanto degna di nota fu l’iniziativa della Clark University che, dopo la sua morte, mise a disposizione delle ragazze che desideravano immatricolarsi, le borse di studio dedicate al suo nome, le Ellen Churchill Semple Honors Scholarships97. Note * La premessa è di Luisa Rossi, il resto del capitolo di Francesca Goldoni, come le traduzioni. 1. Paul Claval, L’evoluzione storica della geografia umana, Franco Angeli, Milano 1971, pp. 58, 59. Claval riprende l’episodio da Harriet Wanklyn, Friedrich Ratzel. A biographical Memoir and Bibliography, Cambridge University Press, Cambridge 1961, p. 31. 2. Il nome non compare, per esempio, nei volumi a cura di Georges Duby e Michelle Perrot, Storia delle donne in Occidente, Laterza, Roma-Bari L’Ottocento, 1995, Il Novecento, 1996. 3. Roberto Almagià, Recensione di Influences of geographic environment, «Bollettino della Società Geografica Italiana», anno XLVI, vol. XLIX, serie V, vol. I, n. 5, maggio 1912, pp. 550-554. Anche Elio Migliorini scrivendone, in occasione della morte, il necrologio, esprime un giudizio positivo sulla sua opera. Cfr. «Bollettino della Reale Società Geografica», anno LXVI, vol. LXIX, serie V, vol. IX, nn. 9-10, settembre-ottobre 1932, pp. 677-679. Migliorini ricorda anche il libro sul Mediterraneo della Semple nella Bibliografia geografica della regione
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italiana, pubblicata nel «Bollettino della Società Geografica Italiana» (vol. VI, n. 12, dicembre 1929, p. 869 e vol. X, n. 12, dicembre 1933, p. 912). 4. Aldo Pecora, Ambiente geografico e società umane, Loescher, Torino 1979, pp. 38-57. Lo studio qui proposto deriva dal corposo lavoro di tesi di laurea in cui Goldoni analizza in modo brillante l’insieme dell’opera di Ellen Semple: oltre a Influences, su cui si sono soffermati i maggiori autori che hanno preso in considerazione la geografa americana (Lucien Febvre nel 1922, John K. Wright nel 1962, Numa Broc nel 1981 e, appunto, Aldo Pecora nel 1979), American History, Geography of the Mediterranean Region e altri lavori. Recentemente si è occupato della Semple Giuliano Bellezza in un saggio abbastanza in linea con l’analisi di Francesca Goldoni. Cfr. Giuliano Bellezza, Cosa pensare di Ellen Churchill Semple un secolo dopo «American History and its Geographic Conditions», in Cristina Giorcelli (a cura di), Donne d’America, ila palma, Palermo-São Paulo 2003, pp. 33-48. 5. Numa Broc, Les classiques de Miss Semple: Essai sur les sources des «Influences of Geographic Environment», 1911, «Annales de Géographie», vol. 90, gennaio-febbraio 1981, p. 89. Più «impietosa» di quella di Febvre mi sembra la rappresentazione che ne ha dato Claval: «[…] tutti gli avversari dell’ambientalismo hanno benedetto la Semple per essere riuscita a trovare un certo numero di espressioni raccogliticce e concise che, nel loro ottuso schematismo, costituiscono altrettante obiezioni al buon senso più elementare e alle stesse tesi ambientaliste». Cfr. Paul Claval, L’evoluzione…, cit., p. 59. 6. Franco Farinelli, Prefazione, in Lucien Febvre, La Terra e l’evoluzione umana. Introduzione geografica alla storia, Einaudi, Torino 1980, pp. XI-XXXVII. 7. Numa Broc, op. cit., p. 102. 8. John K. Wright, Miss Semple’s “Influences of Geographic Environment”: Notes Toward a Bibliobiography, «The Geographical Review», luglio 1962, vol. 52, pp. 347-361. 9. Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, Ellen Churchill Semple and the Development of a Research Paradigm, in AA.VV., The Evolution of Geographic Thought in America, Kendhall-Hunt Publishing Co., Dubuque (IA) 1983, p. 29. 10. Ellen C. Semple, American History and its Geographic Conditions, Houghton Mifflin & Company, Boston and New York 1903. 11. Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 29. 12. Charles C. Colby, Memoir of Ellen Churchill Semple, «Annals of the Association of American Geographers», XXIII, n. 4, 1933, pp. 229-240, p. 231. 13. Friedrich Ratzel, Anthropogeographie, J. Engelhorn, Stuttgart 1882; traduzione italiana: Friedrich Ratzel, Geografia dell’uomo (Antropogeografia). Principi d’applicazione della scienza geografica alla storia, Bocca, Milano Torino Roma 1914. 14. Charles C. Colby, op. cit., p. 232. 15. Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 31. 16. Ellen C. Semple, The Anglo-Saxons of the Kentucky Mountains, a Study in Anthropogeography, «Geographical Journal», n. 17, 1901, pp. 588-623. 17. Jean Brunhes, La géographie humaine, Alcan, Paris 1910. 18. Charles C. Colby, op. cit., p. 232. 19. Il geografo più citato è, ovviamente, Ratzel (83 volte) e, dopo di lui, Joseph Partsch, successore di Ratzel a Leipzig (1905). Cfr. Numa Broc, op. cit., pp. 92 e 95. 20. Paul Claval, L’evoluzione…, cit., p. 57. Fin dall’inizio della sua carriera di geografo, Ratzel sostiene i suoi studi con alcuni viaggi. Alcune escursioni nell’area mediterranea che sfociano negli articoli scritti per il «Kölnishe Zeitung» gli forniscono i mezzi economici per altri viaggi. Le spedizioni più lunghe e importanti lo portano nel 1874-75 in Messico e in Nordamerica dove studia l’influenza esercitata dagli immigrati di origine tedesca. 21. Numa Broc, op. cit., p. 101. 22. Roberto Almagià, op. cit., p. 551.
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23. Ellen C. Semple, American History…, cit., passim. 24. Mildred Berman, The Geographical Influences of Ellen Semple at Clark University, 1992, pp. 1-12 (p. 6). Dattiloscritto dell’archivio personale di Janie Leech. 25. Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 32. 26. Mildred Berman, The Geographical…, cit., pp. 3-4. 27. Mildred Berman, Sex Discrimination and Geography: The Case of Ellen Churchill Semple, «Professional Geographer», vol. 26, 1974, pp. 8-11, cit. da Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 53. 28. Fra gli altri, sono citati Vernor Finch, John B. Appleton, Stanley D. Dodge, Edwin J. Darman, Robert B. Hall, Clarence F. Jones, Harold Kemp, Henry Leppard, Lois Olson, Robert S. Platt, Helen Strong. Cfr. Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 42. 29. Intervista del 22 settembre 1977 di Pradyumna Karan a Christie Taylor, riportata in ibidem, p. 49. 30. Intervista del 31 agosto 1977 di Pradyumna Karan a Irma Costello, riportata in ibidem, p. 49. 31. Ibidem, p. 44. 32. Carta dal titolo Mediterranean Region Templed Promontories, «The Geographical Review», luglio 1927, in Ellen Semple, Geography of the Mediterranean Region: its Relation to Ancient History, Constable & Co. Ldt, London 1932, p. 615 (seconda edizione: la prima, presso Henry Holt & Co, New York, è del 1931). 33. Ibidem, pp. 625-629. A questo proposito nel «Bollettino» si trova scritto: «E. C. Semple, l’autrice di un noto volume sui rapporti tra uomo e ambiente, ha desunto dalle fonti la localizzazione di 175 località mediterranee che ospitavano dei templi e mostra come anche questo sia in un certo senso un elemento del paesaggio mediterraneo». Cfr. Elio Migliorini, Giovanni Negri, Riccardo Riccardi, Bibliografia geografica della regione italiana, «Bollettino della Società Geografica», vol. VI, n. 12, dicembre 1929, p. 869. 34. Intervista del 30 agosto 1977 di Pradyumna Karan a Robert Buzzard riportata in Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 42, p. 50. 35. Ibidem, p. 52. 36. Ibidem, p. 33. 37. Charles C. Colby, op. cit., p. 233. 38. Ellen C. Semple, Influences of Geographic Environment on the Basis of Ratzel’s System of Anthropogeography, Henry Holt & Co., New York 1911. 39. Charles C. Colby, op. cit., p. 232. 40. Numa Broc, op. cit., p. 89. Cfr. anche Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 33. 41. Ellen C. Semple, Influences…, cit., pp. V-VIII. 42. Charles C. Colby, op. cit., p. 234 e Roberto Almagià, op. cit., p. 551. 43. Ellen C. Semple, Influences…, cit., passim. 44. Ibidem, pp. 292-293. Poco dopo però avrebbe parlato del controllo delle acque e delle imponenti trasformazioni territoriali di cui è capace l’uomo con l’esecuzione di dighe, l’escavazione di canali, la bonifica di paludi, la rettificazione dei corsi tortuosi dei fiumi eccetera (pp. 323-324). 45. Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 40. 46. Ibidem, p. 42. 47. The Barrier Boundary of the Mediterranean Basin and its Northern Breaches as Factors in History, citato in ibidem, p. 43. 48. Ibidem, pp. 40-41. Anche i temi giapponesi sarebbero confluiti in diversi scritti sugli aspetti fisici, sull’agricoltura, sulle ideologie dell’impero.
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49. Chicago University Library, Woman Geographer, «Daily Express», London, 5 novembre 1912. 50. Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 41. 51. Yale University Library, Ellsworth Huntington Deposit, Lettera manoscritta di Ellen C. Semple a Ellsworth Huntington del 16 ottobre 1913. 52. Charles C. Colby, op. cit., p. 237. 53. Ibidem, p. 235. 54. Numa Broc, op. cit., p. 88. Resta da fare la ricerca sulla sua presenza in Italia ed eventuali contatti con i geografi del tempo. 55. Geoffrey J. Martin, Preston E. James, All Possible Worlds, John Wiley & Sons, New York, 1981, pp. 345-346 e Geoffrey J. Martin, Mark Jefferson: Geographer, Eastern Michigan University Press, Ypsilanti, 1968, p. 172. Cfr. anche Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 44. I biografi non precisano quale sia stato il contributo specifico della Semple nella commissione. 56. Ellen C. Semple, Ancient Piedmont Routes of Northern Mesopotamia, «The Geographical Review», vol. VIII, 1919, pp. 153-179. 57. Ellen C. Semple, Climatic and Geographic Influences on Ancient Mediterranean Forests and Lumber Trade, «Annals of the Association of American Geographers», vol. IX, 1919, pp. 13-37. 58. Ellen C. Semple, Geographic Factors in Ancient Mediterranean Grain Trade, «Annals of the Association of American Geographers», vol. XI, 1921, pp. 47-74. 59. Mildred Berman, The Geographical…, cit., p. 9. 60. Ellen C. Semple, Geography of the Mediterranean…, cit., Preface. 61. Ibidem, p. 642. 62. Carta dal titolo The Mediterranean Region superimposed on the United States, in ibidem, p. 84. 63. Ibidem, p. 3. 64. Ibidem, Preface. 65. Ibidem, p. 474. 66. Mildred Berman, The Geographical…, cit., p. 10. 67. Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., pp. 47-48. 68. Frederick J. Turner, The Significance of the Frontier in American History, Henry Holt & Co., New York 1995, pp. 1, 33, 59. 69. Ellen C. Semple, American History…, cit., p. 226. 70. Ellen C. Semple, Influences…, cit., p. 170. 71. Fannie G. Mitchnick a Pradyumna P. Karan, intervista del 24 ottobre 1977, riportata da Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 49. 72. Roberto Almagià, op. cit., p. 552. 73. Aldo Pecora, op. cit., pp. 38-39. 74. Ellen C. Semple, Influences…, cit., p. 509. 75. John K. Wright, op. cit., pp. 348-349. 76. Ellen C. Semple, American History…, cit., p. 81. 77. Ellen C. Semple, Geography of the Mediterranean…, cit., p. 100. 78. Ellen C. Semple, Influences…, cit., pp. 565-568. 79. Ibidem, pp. 120-121. 80. Numa Broc, op. cit., pp. 89 e 102. 81. In primo luogo dallo stesso Lucien Febvre, op. cit. Recentemente anche da Claval a proposito di Vidal de La Blache. Cfr. Paul Claval, Histoire de la Géographie française de 1870 à nos jours, Nathan, Paris 1998, p. 87 e ss. 82. Franco Farinelli, op. cit., p. XX.
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83. Roberto Almagià, op. cit., p. 550. 84. Numa Broc, op. cit., p. 101. 85. Roberto Almagià, op. cit., p. 551. 86. Ibidem. 87. Lucien Febvre, op. cit., pp. 204-205. Prima lo aveva definito «grosso e interessante manuale di geografia umana» (p. 113). 88. Ibidem, pp. 114-116. 89. Numa Broc, op. cit., p. 91. 90. Lucien Febvre, op. cit., pp. 206-207. 91. Marie-Claire Robic et Anne-Marie Briend, Mechtild Rössler (dir.), Géographes face au monde. L’Union Géographique Internationale et les Congrès Internationaux de Géographie, Présentation de Philippe Pinchemel, L’Harmattan, Paris 1996, pp. 259-267. 92. Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., pp. 52-53. 93. Ibidem, p. 53. 94. Ellen C. Semple, Will Book 46, Jefferson County Court House Louisville, Kentucky, 25 maggio 1932, p. 45. 95. Mildred Berman, The Geographical…, cit., p. 3. 96. Preston E. James, Wilford A. Bladen, Pradyumna P. Karan, op. cit., p. 52. 97. Mildred Berman, The Geographical…, cit., p. 11.
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Referenze iconografiche Ove non indicato diversamente le immagini provengono dall’archivio Diabasis. L’editore è a disposizione degli eventuali aventi diritto nell’ambito delle leggi internazionali sul copyright.
Indice dei nomi
Abbadie, Antoine (d’), 160 Acerbi, Giuseppe, 170, 185 Agnesi, Maria Gaetana, 54 Albanese, Camillo, 56 Algarotti, Francesco, 131-133, 153 Alliata, Vittoria, 148, 150, 151, 156 Almagià, Roberto, 276, 279, 286, 288, 289, 292-296 Alpers, Svetlana, 54 Amat di Sanfilippo, Pietro, 40 Amici Giovanni Battista, 214, 215, 217, 218 Amoretti, Maria Pellegrina, 54, 189 Anet, Claude, 249, 253 Angelis, Vanna (de), 155 Angeville, Henriette (d’), 22, 23, 55, 252 Anvar-Chenderoff, Leili, 149, 150, 152, 155, 156 Arago, François, 210, 214 Arago, Jacques, 185 Archetti Maestri, Massimo, 60 Arena, Gabriella, 37-39, 59 Arendt, Hannah, 165, 184 Artom Treves, Giuliana, 217, 219, 229, 230 Arviset, Marie Louise, 56 Astell, Mary, 130, 152 Augerd, Victor, 252 Aunet, Léonie (d’), 23, 43, 155, 165-186 Autourou (Boutavery), 116, 120, 125 Bacler d’Albe, Louis Albert, 19 Bailly, Antoine, 20, 49, 54, 57, 61 Baldissone, Patrizia, 185 Barbera, Gasparo, 218, 230 Barbié du Bocage, 159, 160 Barbiera, Raffaello, 252 Baré (Baret), Jeanne, 83, 115-127 Baretti, Giuseppe, 17, 54
Barrera, Giulia, 61 Barreto, Isabel, 82, 83, 87 Barrett Browning, Elizabeth, 217, 242 Bassi, Laura Caterina, 54 Bauzá, Felipe, 85 Beaujeu-Garnier, Jacqueline, 26, 27 Beauvoir, Simone (de), 56 Belgioioso, Cristina (di), 23, 40, 44, 55, 147, 163, 237, 241 Bell, Gertrude, 40 Bellezza, Giuliano, 293 Belzoni, Sarah, 147 Benzoni, Gerolamo, 79, 86, 96, 105 Berger, E. (von), 71 Berman, Mildred, 294-296 Berthout, Henry, 184 Besana, Enrico, 209 Bettacci, Marcantonio, 114 Biard, François-Auguste, 166-169, 171, 178, 184-186 Bibesco, Marthe, 249, 250, 253 Bideaux, Michel, 125-127 Birkett, Dea, 60 Bishop Bird, Isabella, 40 Bladen, Wilford A., 293-296 Blaeu, Joan, 54, 70 Blanchard, Raoul, 27 Blanckaert, Claude, 106, 163 Blond, Georges, 54 Blunt, Anna, 40 Bocage, Madame du (Anne-Marie Le Page du Boccage), 55, 132, 153 Boiteau d’Ambly, Paul, 152 Boivin, Louis, 184, 186 Bondi, Liz, 27, 28, 30, 31, 57 Bonne, Rigobert, 12 Bonora, Paola, 37, 38
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Indice dei nomi
Bonpland, Aimé, 12, 49, 53 Borges, Jorge Luis, 84 Borgioli, Claudia, 55 Borghi, Liana, 61 Borghi, Rachele, 39, 41, 57-60 Borri, Claudia, 60 Borro (Borri, Borrius), Girolamo, 65-72 Bosch Barret, M., 87 Bossuet, Jacques-Bénigne, 18 Botting, Douglas, 163, 184 Bougainville, Louis Antoine (de), 83, 115118, 121-126 Bourdieu, Pierre, 45, 61 Bourguet, Marie-Noëlle, 100, 106, 161, 163 Bouvier, Nicolas, 94, 104 Bouyer, Marc, 103 Boyd, Louise, 40 Boyd-Bowman, Peter, 84 Braidotti, Rosi, 28, 29, 57 Branca, Gaetano, 40 Bremer, Fredrika, 237, 242 Briend, Anne-Marie, 56, 296 Brilli, Attilio, 207 Broc, Numa, 26, 27, 56, 60, 71, 74, 85, 86, 90, 103, 164, 255, 269, 272, 276, 279, 288290, 293-296 Brocardo, Pellegrino, 69, 71 Brosse, Jacques, 269, 270 Brosses, Charles (de), 115 Brunhes, Jean, 275, 293 Bry, Johann Ismaël (de), 103 Bry, Johann Theodor (de), 89, 90, 103 Bry, Maria Magdalena (de), 103 Bry, Théodore (de), 12, 86, 89, 90 Buffon, Georges-Louis Leclerc (de), 124, 127 Bute, Lady, 153 Butler, Judith, 33, 57, Buzzard, Robert, 278, 294 Byron, Lord, 215, 238, 245 Calabrese, Rita, 156, 208 Calvo, Angela, 59 Candolle, Augustin (de), 214 Cannon, Susan, 223, 230 Capellini, Giovanni, 219, 230 Cappello, Bianca, 68 Caraci Luzzana, Ilaria, 9, 10, 52, 86, 103, 105 Carletti, Francesco, 77, 86
Caro, Jean-Louis, 117 Carrara, Francesco Novello, 104 Cassini, Gian Domenico, 19 Cavour, Camillo, 217 Cecchetti, Bartolomeo, 235, 251 Cecilia di Svezia, 54 Chabrol de Volvic, Gilbert, 159 Chambers Patterson, Elizabeth, 229-230 Chateaubriand, 17, 159, 198 Chaucer, Geoffrey, 107, 295 Chaunu, Pierre, 116 Chivallon, Christine, 56 Chuvin, Pierre, 133, 153, 154, 156 Cibo della Rovere, Isabetta, 69 Cipriani, Franca, 59 Ciuffoletti, Zeffiro, 71 Ciureanu, Petre, 234, 251, 252 Claval, Paul, 276, 292, 293, 295 Cobbe Power, Frances, 217, 221 Codazzi, Angela, 35, 36 Colby, Charles C., 275, 293-295 Collini, Silvia, 61 Colombo, Cristoforo, 75, 79, 80, 84 Comba, Letizia, 257, 269, 270 Commelin, Caspar, 104 Commerson, Philbert, 117-123, 125-127 Conti, Antonio, 130 Cook, James, 116, 189 Corna Pellegrini, Giacomo, 58, 59 Correnti, Cesare, 235 Corsi, Dinora, 86, 107, 114, 152 Cortambert, Richard, 84, 171, 235, 251-253 Cortés, Hernán, 74 Cortesi, Gisella, 38, 39, 56, 58, 59 Courbet, Gustave, 232 Crescenzi, Francesco, 85 Crescenzi Giovan Battista, 86 Crispino, Anna Maria, 57 Cristaldi, Flavia, 59 Cristoforo (Mangravio di Baden), 55 Curatulo, Giacomo Emilio, 252 Cuvier, Georges, 159, 160 D’Alembert (Le Rond), Jean-Baptiste, 102 D’Amico, Rita, 58, 59 D’Ancona, Alessandro, 153 D'Alessandri, Antonio, 55 D’Eaubonne, Françoise, 53, 57
Indice dei nomi Dainville, François (de), 18, 19, 54 Dalloway, James, 146 Dardel, Eric, 230 Darwin, Charles, 25, 285 Davey, Mary, 41, 60 David-Néel, Alexandra (o Alexandra Myrial), 43, 50, 60, 163, 164, 169, 204, 250, 254-270, 273 Davis, Angela, 57 De Gubernatis, Angelo, 233, 235-237, 250, 251-253 De Koster, Pietro, 85 De Magistris, Luigi Filippo (Macchi, Ernestina), 10, 35 De Michele, Francesco (Barone di Villaurea), 56 Deffand, Madame du, 124 Delisle, Joseph-Nicolas, 12 Della Valle, Pietro, 75, 76, 82, 85, 86 Demangeon, Albert, 26 Dematteis, Giuseppe, 54 Denys, Jeanne, 264, 270 Derrida, Jacques, 31 Desai, Anita, 152, 153 Désiré-Marchand, Jöelle, 255, 256, 261, 265, 269, 270 Diderot, Denis, 88, 102, 117, 121, 125, 126 Dieulafoy, Jane, 24, 44, 60 Dieulafoy, Marcel, 24, 64 Domosh, Mona, 27, 28, 30, 31, 56, 57 Donini, Elisabetta, 59 Dronsart, Marie, 84 Droogleever Fortuijn, Jos, 59 Duby, Georges, 53, 234, 292 Duchet, Michelle, 103 Duchisna, Madame, 164 Duclos-Guyot, Pierre, 117, 123, 127 Dulong, Claude, 15, 53 Dumont, Jean, 139, 154 Dürer, Albrecht, 93, 104 Duviols, Jean-Paul, 103, 184, 229 Eberhardt, Isabelle, 44, 60, 154 Egeria, 108, 109, 112-114 Elena di Savoia, 40 Eugenio di Savoia, 135, 154 Elisabetta I Tudor, 19 Erauso, Antonio (de), 87
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Erauso, Catalina (de), 42, 73-87 Erodoto, 60, 137, 138, 154, 211 Esiodo, 232 Esoavelomandroso, Faranirina, 208 Esteban, Ángel, 84-87 Estrada, Maria (de), 74 Faessel, Sonia, 124-127 Fairfax, William George, 211 Fajardo, Simón, 85 Fanshawe, Ann, 55 Faraday, Michael, 217 Farge, Arlette, 12, 53, 54 Farinelli, Franco, 34, 58, 288, 293, 295 Febvre, Lucien, 272, 289, 290, 293, 295, 296 Feche, Charles-Pierre Felix, 117, 125 Ferrer, Joaquín María, 85, 87 Ferro, Gaetano, 35, 36, 58 Fierro, Alfred, 160, 163 Flaubert, Gustave, 147, 148 Flegel, George, 103 Foncin, Myriem, 27 Forbes, Rosita, 40 Foucault, Michel, 31, 33, 57 Fourier, Charles, 159, 240 Fragnito, Gigliola, 71 Francesco I de’ Medici, 66, 68 Franchetti Pardo, Vittorio, 114 Frediani, Federica, 55, 56 Frémont, Armand, 153 Freycinet Rose (de), 168, 185 Freycinet, Louis-Charles (de), 185 Gabba, Francesco Cesare, 235 Gaimard, Paul, 167-169 Galland, Antoine, 155 Galliano, Graziella, 60, 61, 84, 208, 264, 269, 270 Gambi, Lucio, 9-12, 35, 52 García Ramón, María Dolors, 27, 38, 56 Garibaldi, Giuseppe, 252 Garms-Cornides, Elisabeth, 21, 55 Gasparin, contessa di (Valérie Boissier), 147 Gauguin, Paul, 117, 125 Gay-Lussac, Joseph-Louis, 210, 214, 229 Gelli, Bianca, 58, 59 Gemelli Careri, Giovanni Francesco, 154 Genlis, Madame de, 55
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Indice dei nomi
Gentileschi, Maria Luisa, 37- 39, 56, 58, 59 Geoffrin, Madame de, 16 Ghisleri, Arcangelo, 10 Giannarelli, Elena, 109, 114 Gil, Juan, 83, 85, 87 Giovanna, granduchessa, 66 Goethe, Johann Wolfgang, 48, 55, 88, 102 Goldoni, Francesca, 47, 214, 272, 292, 293 Gonzague, Madame de (Rangoni, Elisabetta), 55 Gozzadini, Maria Teresa, 219 Gould, Peter, 54, 57 Graff, Dorothea Maria, 89 Graff, Johann Andreas, 12, 90, 103, 104 Graff, Johanna Helena, 103 Grandidier, Alfred, 207 Gregorio, Maria, 53, 102 Gregory, Derek, 31, 57 Grendi, Edoardo, 156 Greppi, Claudio, 60, 61, 71, 85, 103 Grundy, Isobel, 155 Guadalupi, Gianni, 105 Guarducci, Anna, 60, 200, 208 Guerra, Lia, 154, 185 Guevara, Isabel (de), 74 Guiducci, Armanda, 53, 156 Guimbaud, Louis, 166, 184 Gullé, Elettra, 252 Guys, Pierre-Augustin, 145, 146, 155 Guzmán, Bernardino (de), 84, 85 Haggett, Peter, 27 Hahn-Hahn, Ida, 147, 208, 242 Halsband, Robert, 132, 152, 153, 155 Hancock, Claire, 11, 27, 51, 52, 56, 61 Hanfstaengl, Franz, 207 Hanson, Susan, 27, 28, 38, 59 Haraway, Donna J., 29, 30, 34, 40, 57 Harley, Brian, 19, 54 Harvey, David, 11, 27, 29, 33, 40, 57 Harvey, Joy, 155, 229 Harvey, William, 72 Hauston, Jean, 257 Heim, Johanna Sibylla, 103 Heim, Wilhelm Christoph, 103 Hérédia, José Maria, 84, 85 Herschel, John, 210, 216, 217 Hervel, Joseph, 117, 125
Hettner, Alfred, 26 Hill, Aaron, 139, 155 Hodgson, Barbara, 184 Hommaire de Hell, Adèle, 24, 44, 163 Hugo, Victor, 23, 166, 171, 184, 185, 186 Humboldt, Alexander (von), 12, 13, 20, 45, 48, 49, 53, 58, 61, 75, 79, 86, 100, 159161, 163, 165-167, 184, 189, 193-195, 198-200, 205, 207, 208, 210, 214, 216, 220, 223-226, 228, 229, 231, 237, 242, 276, 290 Imhoff, Clara Regine, 106 Ingres, Jean-Auguste-Dominique, 141, 148 Invrea, Ferdinanda, 152 Irigaray, Luce, 32, 56 Istria, Dora (d’) (Elena Ghika), 23, 46, 55, 162, 164, 232-253 James, Preston E., 293-296 Jameson Murphy, Anna, 217 Johnson, Douglas W., 26 Johnston, Ron J., 57 Jomard, Edme-François, 159, 160, 195 Julien, Charles-André, 86 Jussieu, Antoine (de), 127 Kaplan, Caren, 29, 57 Karan, Pradyumna P., 293-296 Kerr, Louisa, 160-164 Kingsley, Mary, 50 Kircher, Athanasius, 18 Konetzke, Richard, 84, 86, 87 Kouskouris, Polytimi, 52 Krug-Genthe, Martha, 25 La Fayette, Madame de, 16 La Pérouse, 116 La Roche, Sophie (von), 55 Lacépède, Etienne (de), 127 Lacoste, Yves, 19, 20, 54 Lafiteau, Joseph-François, 13, 53 Lalande, Joseph-Jérôme (de), 123 Lamarck, Jean Baptiste, 127 Lamartine, Alphonse (de), 198 Landor, Savage Walter, 230 Langlès, Louis-Mathieu, 159 Laplace, Pierre-Simon (de), 159, 210, 212,
Indice dei nomi 214, 216 Latour, Bruno, 57 Lauretis, Teresa (de), 57 Lavollée, C., 187, 189, 203, 207, 209 Lazari, Vincenzo, 226, 229, 231 Le Moyne, Pierre, 17 Le Page du Boccage (Bocage), Anne-Marie, 55, 153 Leed, Eric J., 140, 153, 154 Lefèvre, Marguerite, 26 Lehms, Christian, 14 Lejeune, Dominique, 161-164 Leopoldo II di Toscana, 217 Lepaute Etable de la Brière, Nicole-Reine, 12, 53 Lescure, Jean, 104 Lespinasse, Julie (de), 124, 125 Lever, Charles James, 219 Levier, Daniel, 152 Lewes, Darby, 72 Linch Piozzi, Ester, 55 Linneo, 13, 88, 126 Little, Francis, 280 Livi Bacci, Nicoletta, 61 Livingstone, David, 224, 228 Lombardi Chiara, 208 Longhi, Pietro, 19 Lorraine, Nicolas (de), 70 Lucchesi, Flavio, 60, 209 Lyell, Charles, 216 Maczak, Antoni, 21, 54, 55 Madrazo, Pedro (de), 85 Maillart, Ella, 44 Maintenon, Madame de, 18 Malte-Brun, 159, 195 Malvezzi, Augusta, 219 Mandeville, John, 42, 74, 154 Manin, Daniele, 235 Mantegazza, Paolo, 186, 235-237, 251, 252 Mantini, Silvia, 152, 153 Mar, Lady, 134 Marell (Marrel), Jacob, 90, 91, 103 Marengo, Marina, 38 Maria Antonietta, 55 Marinelli, Giovanni, 10 Marinelli, Olinto, 52 Marmier, Xavier, 169, 170-172, 185
321
Marsh, George P., 20, 227, 231 Martin, Emily, 29 Martin, Geoffrey J., 295 Martin, Jean-Pierre, 184 Martin-Allanic, Jean-Etienne, 124-126 Martineau, Henriette, 242, 243 Martonne, Emmanuel (de), 26, 56 Massarani, Tullo, 235 Maury, Alfred, 196 Mayeur, Nicolas, 207 Mazzi, Maria Serena, 76, 77, 86 Mazzucchi, Diletta, 58 Medici (Granduchesse), 69 Melli, Umberto, 84 Menabrea, Carlotta, 35 Menabrea (famiglia), 217 Menchu, Rigoberta, 20 Mendana, Alvaro (de), 82, 83 Mendoza, Pedro (de), 74 Mercatore, Gerardo, 70 Mercer, Wendy S., 168, 171, 184 Merian Gräffinn, Maria Sibylla, 12-14, 42, 43, 53, 88-106, 202, 220 Merian, Caspar, 12 Merian, Matthäus il Giovane, 12 Merian, Matthäus il Vecchio, 12 Merleau-Ponty, Maurice, 30, 57 Mernissi, Fatema (Fatima), 151, 156 Michaud, 126, 127, 153, 155, 156 Michelet, Jules, 88, 89, 102 Michotte, Paul, 26 Middleton, Doroty, 60, 184 Mies, Maria, 30, 57 Migliorini, Elio, 292, 294 Mignaty, Margherita Albana, 217 Milanesi, Marica, 54, 153 Mills, Sara, 50, 61, 264 Minca, Claudio, 34, 57, 58 Minguet, Charles, 184, 229 Miniscalchi Erizzo, Francesco, 211, 229, 230 Mitchell Kendall, Phebe, 230 Mitchell, Maria, 219, 230 Moguel Sánchez Antonio, 85 Molière, 16 Momsen, Janet, 27 Mondada, Lorenza, 48-51, 61 Monicat, Bénédicte, 23, 24, 50, 51, 55, 61, 184
322
Indice dei nomi
Monk, Janice, 27, 38, 58, 59 Montagu Wortley Pierrepont, Lady Mary, 13, 14, 16, 42, 43, 46, 55, 128-156, 166, 170, 239, 250, 265 Montagu Wortley, Edward (padre), 129, 130, 153 Montagu Wortley, Edward (figlio), 131, 133 Montaigne, Michel (de), 65, 66, 71, 111, 114, 138, 154 Montalván, Juan Pérez (de), 85 Montémont, Albert, 190, 207, 208 Montesquieu, 13, 17, 53 Moreau de Maupertuis, Pierre-Louis, 184 Morgan, Lady, 242 Morichini, Domenico, 215, 216, 229 Moulin, Anne Marie, 133, 153, 154, 156 Moussa, Sarga, 155, 156 Munárriz, Jesús, 84, 87 Muñoz y Ferrandiz, Juan Bautista, 85 Müntzer, Sebastian, 70 Nangeroni, Giuseppe, 36 Napoleone I, 19 Nassau-Siegen d’Orange, Charles, 117, 119, 121, 122, 125, 126 Necker, Suzanne, 16 Néel, Philippe, 257 Neeley, Kathryn A., 226, 229-231 Negri, Francesco, 170, 185 Negri, Giovanni, 294 Newton, Isaac, 184, 212, 216, 270 Nizzoli, Amalia, 24, 40, 44, 55, 56, 163 Noble, David F., 14, 53, 105 Nochlin, Linda, 103 Ogilvie, Marilyn, 155, 229 Omero, 129 Opicinus de Canistris, 70 Ortelio, Abramo, 70 Outhier, Réginald, 168, 184 Oyama (principi giapponesi), 280 Pacheco, Francisco, 86 Panunzio Cipriani, Lucrezia, 84 Papadopulos, Gregorio Giorgio, 234, 239, 243, 244 Parlatore, Filippo, 170, 185 Parolini, Alberto, 214
Passerini, Luisa, 71 Pastoureau, Mireille, 16, 54 Pecora, Aldo, 272, 286, 287, 293, 295 Pernigotti, Sergio, 56 Perrot, Michelle, 53, 235 Perugini, Carla, 87 Petiver, James, 101, 106 Petrignani, Sandra, 269 Peyronnet, Marie-Madeleine, 255, 257, 258, 260, 269 Pfeiffer Oscar, 191, 193, 207 Pfeiffer Reyer, Ida Laura, 40, 43, 160, 161, 163, 164, 169, 187-209, 213, 241, 242, 250. Piero della Francesca, 109 Pinchemel, Philippe, 56, 296 Pinto, Olga, 40 Pitte, Jean Robert, 20 Pitti, Andrea, 68, 71 Pizzano, Cristiana (da), 15, 53 Pizzano, Tommaso (da), 53 Pizzigalli, Daniela, 55 Plaisant, Michèle, 131, 152 Plumier, Charles, 104 Poirier, Jean-Pierre, 54, 126, 127 Polo, Marco, 74, 140 Pope, Alexander, 130, 131 Porena, Filippo, 10 Potocka, Anna, 41, 60 Pracchi, Roberto, 36 Pratt, Geraldine, 57 Prevost, M., 155 Puigaudeau, Odette (du), 44 Quaini, Massimo, 9, 34, 52, 54, 58, 60, 104, 153, 154 Quincey, Thomas (de), 84 Raicich, Marino, 207 Rambouillet, Madame de, 16 Rattner Gelbart, Nina, 53 Ratzel, Friedrich, 11, 47, 165, 271, 272, 275, 276, 279, 285, 286, 288, 289, 292-294 Recke, Elisa (von der), 55 Reclus, Elisée, 20, 162, 163, 243, 256-258, 260, 261, 267, 270 Redi, Cecilia, 107-114 Redi, Francesco, 114
Indice dei nomi Regnard, Jean-François, 171, 182, 184 Reina, Luisa, 56 Rémond, Nicolas-François, 152 Rentería, Nicomedes (de), 87 Revelli, Paolo, 36 Riccardi, Riccardo, 294 Ricchieri, Giuseppe, 35 Ricorda, Ricciarda, 56 Rinuccini Corsini, Eleonora, 35 Ripa, Cesare, 70, 72 Ritter, Carl, 165, 193-195, 205, 208, 209, 224, 264, 289 Rizzetto, R., 40, 60 Rizzi Zannoni, Giovanni Antonio, 12 Robic, Marie-Claire, 26, 56, 296 Rodocanacchi, Enrichetta, 235 Rollin, Charles, 17-19, 54 Roman d’Amat, Jean-Charles, 155 Romano, Giovanni, 104 Roncière, Charles (de la), 125 Rondinone, Antonella, 37, 39, 57-59 Roquette (Desoz de la), Jean-B.-Marie-A., 161-163, 208 Rossi, Luisa, 53, 56, 58, 60, 71, 153, 154, 251, 252, 269, 292 Rossi Pisa, Paola, 59 Rössler, Mechtild, 25, 26, 56, 296 Rousseau, Jean-Jacques, 117, 236, 252 Royer, Clémence Augustine, 25 Rücker, Elisabeth, 102, 105, 106 Rycaut, Paul, 139, 148 Saibene, Cesare, 36 Said, Edward W., 147, 148, 156 Saint-Exupéry, Antoine (de), 55 Sainz De Robles, F.C., 87 Salgari, Emilio, 204, 209 Salvadori, Roberto G., 114 San Paolo, 15 Sand, George, 234, 250 Sanson d’Abbeville, Nicolas, 16, 54 Savant, Jean, 166, 167, 184 Scaraffia, Lucetta, 61 Scaramellini, Guglielmo, 41, 60, 153 Scardini, Carla, 60, 84, 86 Scariati, Renato, 61 Scarin, Emilio, 36, 58 Schama, Simon, 22, 55, 104, 250
323
Schiavoni, Felice, 253 Sclafert Thérèse, 27 Scriboni, Mirella, 55, 56, 163 Scudéry, Madame de, 16 Sechi Nuvole, Marina, 41, 60 Segre, Anna, 39, 59 Semple, Ellen, 11, 12, 25, 27, 47, 211, 213, 214, 271-296 Serena, Carla (Hartog Morgensthein, Caroline), 23, 25, 40, 44, 55, 56, 162, 163 Sestini, Aldo, 35, 58 Sévigné, Madame de, 16, 146 Shiva, Vandana, 20, 30, 57 Silvani, Giovanna, 153 Silvestre, Maria Luisa, 53, 61 Simmel, Georg, 14, 15, 53, 151, 156 Smith, Adam, 279 Smith Charlotte, 280 Smollett, Tobia, 153 Soja, Edward W., 29, 57 Soldani, Simonetta, 53 Somerville Greig Fairfax, Mary (Maria), 12, 44, 47, 53, 205, 210-231, 239, 250 Somerville, Margaret, 213, 221 Somerville, Martha, 211, 213 Somerville, Mary Charlotte, 213 Somerville, William, 212-214, 217 Sommelsdijk (famiglia), 98, 99 Sonnet, Martine, 53 Souchon, Paul, 184, 186 Staël, Germaine (de), 16, 234 Stark, Freya, 43, 44, 60 Starobinski, Jean, 53 Starot de Saint-Germain, Louis-Antoine, 117 Staszak, Jean François, 56, 57 Stearn, William T., 102 Stedman, John Gabriel, 105 Steinberg, Sylvie, 85, 87, 123, 124, 126, 127 Storchi, Alfredina, 53 Suárez, Inés, 74 Suckau, M.W. (de), 207 Surdich, Francesco, 41, 209 Sutherland Harris, Ann, 103 Swift, Jonathan, 131 Taillemite, Etienne, 116, 124-127 Tilbury, Gervasio (di), 11 Tinacci, Maria, 47
324
Indice dei nomi
Tinné (Tinne), Alexandrine, 40, 44, 60, 209 Todd Bingham, Millicent, 26, 292 Todorov, Tzvetan, 53, 71, 86, 87, 156 Tolomeo, 138 Tolomeo Lago, 67 Tommaseo, Nicolò, 235 Tott, François (de), 146, 155 Treder, Uta, 61 Tribout de Morembert, H., 155 Trigueros, Cándido Maria, 85 Trimmel, Franz Emil, 191, 208 Tristan, Flora, 44 Trollope Milton, Frances, 242 Tucci, Giuseppe, 259, 267, 270
Véron, Pierre-Antoine, 124 Vespucci, Amerigo, 71 Vidal de La Blache, Paul, 10, 295 Vigée-Lebrun, Elisabeth, 55 Villaurea, baronessa di (Angelina Fatta), 24, 56 Vincent, Levin, 94 Vivez (Vivès), François, 117, 119-121, 125, 126 Voilquin, Suzanne, 44, 147, 156 Volckamer, Johann Georg, 100-102, 105, 106 Volney, Constantin François (de), 46, 49, 61, 146 Voltaire, 17
Ullmann, Ernst, 102 Ullmann, Helga, 102
Wallace, William, 212 Waquet, Françoise, 53 Watts, Michael, 57 Witsen, Nicolas, 94, 104 Wollstonecraft, Mary, 170 Wright, John K., 272, 273, 287, 293, 295
Valcanover, Anna Francesca, 153 Valerio, Adriana, 53 Vallbona, Rima (de), 85 Valle, Gio Batta, 19 Vallet, Odon, 269 Vallini, Giulio, 229 Vallino O., Fabienne, 61, 86, 229, 231 Vannoni, Antonella, 61 Vapereau, 207, 235 Vaumorière (Ortigue), Pierre (de), 54 Vega, Lope (de), 85 Vergez-Tricom, Geneviève, 56 Verne, Jules, 256
Yongden (Lama), 254, 255, 259, 265 Young, Arthur, 243 Young, Robinia, 217 Yriarte, Charles, 252 Zavatti, Silvio, 40, 60, 71 Zeiller, Martin, 90, 103 Zemon Davis, Natalie, 36, 45, 53, 54, 58, 61, 87, 93, 102-105
Questa edizione aggiornata svelando con attento scandaglio un’altra mappa del mondo e l’irriducibilità delle donne ai più escludenti steccati vede la stampa nel carattere Simoncini Garamond dalla tipografia Nero Colore di Correggio per conto di Diabasis nel maggio dell’anno duemila undici