L'allusione e la tecnica. Le inquietudini di un critico 8879233467, 9788879233460

Cultore e lettore del cinema sempre innovativo, curioso delle più differenti interpretazioni, attento al valore cultural

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Italian Pages 248 [250] Year 2005

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L'allusione e la tecnica. Le inquietudini di un critico
 8879233467, 9788879233460

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Il cinema e le idee 7

Collana fondata

da

Fernaldo Di Giammatteo

E DIRETTA DA CRISTINA BRAGAGLIA

Fernaldo Di Giammatteo

L'allusione e la tecnica Le inquietudini di un critico

A cura di Luca Pasquale

Di Giammatteo, F. L'allusione e la tecnica. Le inquietudini di un critico. Fiesole (Firenze) : Cadmo, 2006 244 p. ; 19 cm. (Il cinema e le idee ; 7) ISBN 88-7923-346-7 1. Film - Interpretazione. 2. Cinematografo - Saggi 791.43

© 2006, Cadmo srl

Edizioni Cadmo Via Benedetto da Maiano 3 50014 Fiesole FI tei. 055 5018 1 fax 055 5018 201 cadmo@casali ni. i t http://www.cadmo.com

Printed in Italy

Indice

Lettera da Torino...........................................................

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L'audacia di Billy Wilder...............................................

11

M di Friz Lang. Una satira incompresa ........................

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Die Dreigroschenoper. Ritratto del Pabst prenazista...

49

The Big Parade. Ingenuo pacifismo di King Vidor ......

75

The Great Dictator. Satira esemplare del Nazismo......

97

Ingmar Bergman. Un ribelle ai margini dell'Europa.... 137 Hitchcock, la luce dentro il latte................................... 151

L'amore piccolo borghese.............................................. 151 Un uomo, una donna, il successo, i premi.................................. Una storia d’amore con azioni parallele.................................... Il lavoro e i ricordi di Anne e Jean-Louis.................................. Il colore e i piaceri dell’eleganza.................................................. La tecnica come emolliente......................................................... L’uomo è un animale comunicativo...........................................

169 171 174 179 000 189

Zabriskie point............................................................... 197 Cops e businessman, la doppia faccia del mostro....................... Come Antonioni guarda il mostro............................................. Un addio casuale, un uccello morto, la fine del mondo ......... Non chiedere al formalista ragione del suo formalismo...........

206 212 223 232

Nota biografica di Luca Pasquali.................................. 237 Indice dei film................................................................ 245

La pubblicazione dei saggi raccolti nel presente volume (tranne uno pubblicati tutti su «Bianco e nero») è stata possibile grazie alla cortesia e alla gentilezza dell'ing. Gabriele Testi, direttore generale del Centro Sperimentale di Cinematografìa e alla pre­ ziosa mediazione di Franco Mariotti, amico e collaboratore di Fernaldo Di Giammatteo negli anni di lavoro al Centro stesso.

Lettera da Torino

Così nel 1939 Francesco Pasinetti (neipanni del Nostromo) rispon­ deva, sulle pagine di «Cinema», al critico allora sedicenne: Fernaldo Di Giammatteo (Torino) - Riporto le vostre interessanti considerazioni sul “film aviatorio in Italia”: «In mol­ ti paesi si sente la mancanza di una vera e propria cinematografìa aviatoria (s’intende, non parlo degli Stati Uniti) e si è cercato a varie riprese di rimediarvi con delle sporadiche affermazioni, che hanno, è indubitabile, un loro intrinseco valore artistico, ma che rimangono, direi quasi, allo stato di esperimento. E per convali­ dare quanto affermo stralcio dal numero di ottobre di una rivista cinematografica inglese (lo «Screen Pictorial») un trafiletto ripor­ tato in una sua rubrica e che dice testualmente: “Quando avremo un film sull’aviazione inglese? Il volo, io credo, è probabilmente il più trascurato di tutti i soggetti di cui si sono fin qui interessa­ ti i produttori inglesi. I film americani hanno trattato dell’avia­ zione sotto ogni aspetto con piena riuscita”. Queste parole non si potrebbero riferire con ragione anche al cinema italiano? Non ci troviamo forse in una situazione pressoché analoga? Anche da noi, infatti “l’aviazione è il più trascurato dei soggetti cinemato­ grafici” e non lo si ripeterà mai abbastanza. Abbiamo avuto, è vero, una illustre eccezione a questo stato di cose con Luciano Serra, ma consta a voi che questo esempio sia stato seguito? E dire che il campo è vastissimo e le possibilità che offre sono innume­ revoli (questo ce l’ha dimostrato meravigliosamente Luciano Ser­ ra) e, quel che più conta, noi abbiamo un’aviazione che è tra le prime del mondo e che ha in dotazione degli apparecchi inegua­ gliabili. Osservate la colossale reclame che gli Stati Uniti fanno della loro aviazione attraverso il cinematografo; osservate la con­ tinua esaltazione di tutto ciò che è inerente alle loro forze armate e in particolar modo all’aviazione e alla marina. E tanto per por­ 9

tare un esempio l’ultimo film aviatorio americano, Arditi dell'a­ ria^ ridotto all’essenziale, innegabilmente non è altro che una magnificazione delle loro forze aeree e dei loro piloti». Los novios de la muerte sul quale «Cinema» ha pubblicato un articolo dovu­ to al regista stesso del film, Romolo Marcellini,12 è già in pro­ grammazione a Roma e credo che lo vedrete presto anche a Tori­ no, se non l’avete già visto. Mandatemi le altre note promesse. («Capo di Buona Speranza — Il Nostromo», in «Cinema», a. XVII, n. 63, 10 febbraio 1939, p. 99)

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Di Giammatteo si riferisce a Test Pilot (1938) di Victor Fleming. [n.dc.] In «Cinema», a. XVII, n. 60, 25 dicembre 1938, pp. 381-382. 1fidanzati della morte (Los novios de la muerte, 1938) è uno dei primi “film-documenta­ ri” di Romolo Marcellini; prodotto dall’istituto LUCE, è definito nei titoli di testa come il «film dell’Aviazione Legionaria nel cielo della Spagna» e dedica­ to alle azioni di tre squadriglie (Asso di Bastoni, Cucaracha e Gamba di Fer­ ro) nel corso dell’assedio diTeruel. \n.d.c.\

L'audacia di Billy Wilder

Un giudizio complessivo su Billy Wilder è prematuro. Non si può prevedere che cosa egli sarà indotto a fare, quali compro­ messi dovrà accettare, quali adattamenti e compensi escogiterà. Uomo assai abile e scaltro, pieno di risorse inventive, Wilder ha saputo imporsi all’attenzione con mezzi inconsueti. Questa potrebbe essere una formula sotto cui comprendere tutta la sua attività, passata e futura, se immediatamente non ci si accorgesse — appena accennata l’ipotesi — che così argomentando ci si mette già fuori strada. D’accordo, fra i registi americani (tale aggettivo gli spetta di diritto e non sapremmo definirlo in diverso modo anche se domani — previsione non azzardata — lo vedessimo impegnato altrove) egli si distingue nettamente: per certa sua vena ribellistica, certa volontà di conquistarsi una propria auto­ nomia, certo fondo culturale non completamente assimilabile dalla “media” intellettuale di Hollywood. La difficoltà del giudizio complessivo — sorte comune a ogni uomo di cinema, persino quando l’opera sia esaurita fisicamente (un Griffith o un Ejzenstejn per esempio) o quando la primitiva vena sia praticamente inaridita (un Vidor, forse un Pabst) — può provocare distorsioni nei giudizi singoli, e pericolosi fraintendi­ menti.1 Non si sta mai abbastanza attenti alle conseguenze che

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Significativo il tentativo di Di Giammatteo di formulare un “giudizio com­ plessivo” su Wilder, poi — dagli anni ottanta — “condannato al silenzio”, pro­ prio alla fine del 1951, anno di rottura nella carriera del regista, che comin­ cia a incontrare non poche difficoltà di distribuzione {L’asso nella manica rischia di non venir distribuito e arriva nelle sale americane solo nel 1953) e che si appresta a girare un film come Stalag 17 (1953), intriso di una profon­ da poetica antifascista, prima di passare a commedie fintamente buoniste come Sabrina (1954), Quando la moglie è in vacanza {The Seven Year Itch, 1955), A qualcuno piace caldo {Some Like It Hot, 1959) e L’appartamento {The

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possono derivare dalla troppa luce gettata su di un particolare, e dal successivo predominio di tale particolare su tutto il resto, anche su quei nuovi elementi che dovessero emergere. Si finisce per considerare la “novità”, la “cosa nuova” come transitoria, insi­ gnificante: il giudizio è già dato, concluso e codificato. Billy Wil­ der è uno di quelli che potrebbe far più duramente le spese di queste affrettate conclusioni. Alla fine ci si trova in un vicolo cieco. Ecco qui alcuni punti fìssi, già prossimi a trasformarsi in pregiudizi: la solidità e l’effi­ cacia dell’impianto narrativo dei film, la crudeltà come maniera e consuetudine, il cinismo, il sostanziale disprezzo dell’uomo, l’abilissimo conformismo, l’ipocrisia. Anche le qualità positive (oltre a quelle più strettamente formali e tecniche già indicate nella solidità dell’impianto narrativo) potrebbero dar consisten­ za al pregiudizio in formazione: si è già pronti a parlare di “capo­ lavoro” dinanzi alla potenza dell’introspezione psicologica, al (così si dice) coraggio delle sue “indagini”, a quel suo mettere a nudo l’atroce assurdità di certe situazioni umane. Viale del tramonto (Sunset Boulevard) si è trovato al centro di questi contrastanti interessi critici. Ha fatto coagulare le inter­ pretazioni sommarie di cui si è detto, ne sta preparando il pas­ saggio all’immobilità del pregiudizio. Si è convinti che, con que­ sto film, il regista abbia svelato compiutamente se stesso, le virtù per gli uni, gli irreparabili “vizi di origine” per gli altri. Anche Wilder si avvia a essere catalogato nella cosiddetta “storia del cinema”, dove i giudizi si rincorreranno sempre uguali, fabbrica­ ti in precedenza e utilizzabili in tutti i modi. Occorre reagire. Ma, basta questo? Limitarsi alla reazione (giusta e urgente) significhe­ rebbe in fin dei conti appellarsi a un principio generale precosti­ tuito, a un andar contro corrente per il gusto, o anche per la necessità, di andarci. Capovolgere - è la via più facile - giudizi che si ritengono affrettati e pericolosi non è ancora un apporto Apartment, I960). Di Giammatteo “suona quasi profetico” domandandosi «quali compromessi dovrà accettare, quali adattamenti e compensi escogi­ terà» Billy Wilder, [n.d.c.]

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positivo all’opera di comprensione. Per cui, tutto sommato, è meglio accingersi al lavoro muovendo da un’altra parte, pene­ trando nel “mondo” di Wilder per scoprire su quali elementi poggi e in qual maniera si comporti dinanzi all’ambiente, alla cultura in cui vive. Le conclusioni verranno a suo tempo, e se pure qualcosa occorrerà anticipare, non si dimentichi il valore provvisorio e instabile di quanto si verrà dicendo. Se non si adot­ terà (per Wilder come per gli altri) questo metodo, non si verrà mai a capo di nulla. E la “storia del cinema” rimarrà sempre una immobile e inutile cosa, nata dalla stratificazione di giudizi con­ tingenti e di breve respiro, ai quali si è attribuito un’importanza eccessiva. Non per nulla si parla così spesso di “revisioni” per que­ sto e per quello. A torto e a ragione. A ragione perché molto di quel che è stato detto appare oggi chiaramente insostenibile, o goffo; a torto perché in realtà non si tratta di “rivedere”, aggior­ nare o mutare giudizi precedenti, ma si tratta di cominciare una buona volta a “giudicare”, con tutto ciò che il giudizio comporta dinanzi alla responsabilità di raccogliere un materiale sicuro per una autentica “storia del cinema”. Fuori di questa paziente ricerca restano, o la disinvoltura del giudizio formulato prima di aver acquisito una preparazione spe­ cifica, o il resoconto cronisti co, l’utile, ma insufficiente cronisto­ ria. Tanto vale preferire il secondo metodo, quello di cui abbiamo il più recente esempio nella parte aggiunta ( The Film Since Then) al vecchio The Film Till Now di Paul Rotha. A proposito di Wil­ der, Richard Griffith, autore dell’aggiunta, scrive: «A producer­ writer-director team which has caused wide interest is Charles Brackett and Billy Wilder, with Double Indemnity and The Lost Week-End. Wilder, an Austrian who worked first as a writer in Berlin {People on Sunday1) and then as a director in Paris, went to Hollywood in 1933 and collaborated with Charles Brackett on the scripts of Ninotchka and Ball ofFire, among others. His first direction assignments did not cause comment, The Major and* 2

II titolo originale dell’opera, girata nel 1929, era Menshen am Sonntag.

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the Minor (1942) and Five Graves to Cairo (1943), but the next year Double Indemnity showed Wilder as a first-rate craftsman with a fine sense of movie for melodrama. The film was in the same style as the other “psychological” thrillers, The Blue Dahlia and The Spiral Staircase, with tough clipped dialogue by Chand­ ler and fast-moving continuity reminiscent of Rowland Browns Quick Millions in 1931. Indeed, in technique these films redi­ scovered many of the technical virtues that made the early gang­ ster cycle so well remembered. Wilder’s next picture was from Charles Jackson’s notorius The Lost Week-End, in many ways a disappointing adaptation which failed to transmit to the screen the subtleties of the original. Much admired by the aesthetes, it caused a sensation because of its subject of a pernicious alcoholic, but it was no step forward for Brackett and Wilder. The last film of this team, The Emperor Waltz, is a semi-musical in the worst possible, taste, conforming to all the well-worn Hollywood clichés. Wilder’s most promising work to date is certainly the dynamic Double Indemnity».3 Preparare, dunque, un materiale sicuro per una “storia”, non fare storia: né con l’insolenza del giudizio definitivo, quando ciò non è possibile, né con l’elencazione superficiale dei dati e delle fonti. In questo caso, pensiamo ancor più che all’inserimento di Wilder nella “storia del cinema”, al tentativo - sempre più preci­ so, a mano a mano che il materiale viene selezionato - di com­ porre una “storia personale”. Il regista austro-americano la può pretendere a buon diritto, giacché, quali che siano le conclusioni cui domani si arriverà, egli rappresenta fin d’ora qualcosa da ricordare per sé, un “fenomeno” degno di studio. Nell’istituire il rapporto fra lui e l’ambiente, i due elementi appaiono bene indi­ viduabili; e dal rapporto nasce una personalità; l’influsso del­ l’ambiente provoca reazioni che non hanno un carattere standar­

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L’edizione a cui si riferisce Di Giammatteo è del 1949. Oggi si veda R. GRIF­ FITH, The Film Since Then, in P. ROTHA, The Film Till Now, London, Vision Press Limited, 1963, pp. 503-504. \n.d.c.]

dizzato. Resterà da stabilire - ecco il punto primo della ricerca se ci si trova di fronte a reazioni soltanto esterne (appariscenti e, in un certo senso, clamorose) oppure se Wilder reagisce con for­ za e impegno maggiori, se è in grado di lasciare un segno durevo­ le. Anche a noi - come è accaduto a qualche altro - sembrerebbe di poter già risolvere questo problema, e decidere subito in uno dei due sensi. Ma ce ne asteniamo ancora, per i motivi che si son detti. Accettate queste doverose limitazioni, ci si può tuttavia chie­ dere: esiste almeno, considerando le opere “maggiori” di Wilder, una costante rintracciabile con sicurezza sufficiente, un’impron­ ta già grosso modo definibile e che ci chiarisca in linea di massi­ ma il significato di questa personalità? Crediamo di sì. E pensia­ mo che tale impronta la si debba trovare esaminando i risultati cui ha dato origine il contatto tra una formazione culturale euro­ pea (in particolare tedesca e con l’apporto “decisivo” dell’espres­ sionismo) e il “nuovo mondo” della cultura americana (di quella più influenzata dalle preoccupazioni critiche nei confronti di una società e di un costume). Questo contatto distingue Wilder dai registi americani che hanno battuto strade in apparenza affini alla sua, dal documento “realistico” (il ciclo del gangsterismo, per citarne una specie sola e per adottare l’espressione, più su riferita, di Richard Griffith) alla satira più o meno aspra. E lo distingue pure dai registi tedeschi emigrati - da un Lang del miglior perio­ do americano, a esempio — che bene o male si presentavano negli Stati Uniti denunciando una preparazione culturale nata nel medesimo ambiente, sotto l’impulso delle medesime correnti di pensiero. In Wilder si è andata operando a poco a poco - attraverso scosse violente, oggi tutt’altro che placate - una specie di fusione tra i due fattori concomitanti. Il risultato della fusione, ricono­ sciamolo, è incerto, non lo si può isolare con facilità dalla massa di elementi eterogenei che confluiscono. Ma ciò non impedisce che si possa tentare un’interpretazione, secondo una linea abba­ stanza conseguente. I motivi maggiori dell’espressionismo tede17

sco del primo dopoguerra sono connaturati allo spirito del regi­ sta. V’è in lui — e affiora di continuo nei suoi film — la rabbiosa impotenza dell’intellettuale dinanzi a una realtà in cui le forze operanti (dell’individuo, della società, delle ideologie) sono giun­ te al grado estremo di tensione; ed è una tensione volta a distrug­ gere, a disgregare, a sovvertire. Come, e in qual senso? E la domanda che ha paralizzato l’azione dell’espressionismo. Wilder nasce di qui, viene immediatamente dopo che la domanda è sta­

ta posta. La realtà suscitò un senso di orrore, e ciò avvenne quando l’e­ poca Guglielmina, in Germania, si avviava al tramonto, alla cata­ strofe della guerra. I bersagli degli intellettuali più vivi allora (una vita effimera, esaurita tutta nella veemenza esteriore: si tenga pre­ sente questo fatto quando ci si accosta a Wilder) furono l’ipocri­ sia, il filisteismo borghese, la crassa auto soddisfazione di chi pen­ sa di aver raggiunto il meglio di se stesso in un’esperienza rigoro­ samente ordinata al di fuori e piena di soffocati contrasti interni, il predominio delle macchine nell’organizzazione del lavoro, il pauperismo sempre più diffuso e giudicato una conseguenza, appunto, di quella eccessiva meccanizzazione. Tutto ciò, ai primi espressionisti parve mostruoso. E non solo lo accettarono come tale, ma ne esasperarono il tono: lottare contro il filisteismo significava, per essi, avere il coraggio di affondare le mani in quel putridume, di portarlo alla luce senza pietà, di gettarlo in faccia a chi non voleva vedere. Riaffiorò il gusto della necrofilia, non nuovo nella letteratura tedesca, e fu condotto alla massima esal­ tazione; nacquero — indichiamo il prodotto più significativo — le atroci poesie di Gottfried Benn,4 che, con quel loro analizzare la

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L’opera poetica di Benn ( 1886-1956) fu influenzata sia dall’ambiente di seve­ ro protestantesimo da cui proveniva, sia dagli studi in medicina. Dopo Mor­ gue (1912) e Carne (1917), che rifletteva gli orrori della guerra, Benn scrisse opere dedicate al contrasto fra le strutture dell’inconscio e la razionalità. Nonostante l’esaltazione del nazismo delle cui idee totalitarie subiva il fasci­ no, restò inviso al regime per il suo passato espressionista. \n.d.c.\

decomposizione del corpo umano, si trovarono pericolosamente in bilico fra la scienza e la pazzia. Al furore dell’orrido seguì la ribellione contro la società. Era intervenuta la guerra, poi la sconfìtta e il crollo delle vecchie impalcature sociali. L’espressionismo entrò nella fase più attiva, assunse una coloritura umanitaristica, di redenzione dalla schia­ vitù delle convenzioni e dai vincoli della miseria; si lottò per la distruzione di quel putridume che prima era stato soltanto denunciato, si evocò l’immagine di una vita più libera, più sop­ portabile e umana. Dalle scene dei teatri tuonarono Hasenclever, Kornfeld, Toller, Kaiser e molti altri.5 Ora, è importante osserva­ re che Wilder — a Vienna e a Berlino — assistette a questa seconda fase dell’espressionismo, e alla successiva rapidissima dissoluzio­ ne. Ma la sua opera — parecchi anni dopo — avrebbe dimostrato una cosa sintomatica: lo spirito del regista era maggiormente sen­ sibile alla prima fase, quella dell’esplosione delle forze più basse, demolitrici e spietate, dell’intelligenza tedesca. L’orrido e la necrofilia erano destinati a esercitare una influenza assai più profonda che non le fragorose invocazioni per una umanità redenta. Questo anche perché egli fù testimone dell’inutilità real­ mente tragica di quegli sforzi, e vide frantumarsi a una a una le illusioni degli espressionisti. Ciò fù importante per la sua forma­ zione culturale, in due sensi: da una parte egli acquistò la con­ vinzione che quell’agitarsi convulso e disordinato non avrebbe mai potuto avere effetto sul terreno pratico e sarebbe sfociato in opposti estremismi incapaci di risolvere il problema; dall’altra

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Walter Hasenklever (1890-1940) è ricordato per essere l’autore di II figlio (1914), una delle opere più significative del teatro espressionista sul tema del­ la ribellione dei giovani. Paul Kornfeld (1889-1942) fu drammaturgo e romanziere, oltre che teorico del movimento espressionista, prima di morire in un campo di concentramento. Le opere più note di Ernst Toller (18931939) sono Uomo massa (1921), I distruttori di macchine (1922) e Oplà, noi viviamo! (1927). Di Georg Kaiser (1878-1945) vanno almeno citate Dalla mattina a mezzanotte (1916) e Gas (1920), atto d’accusa contro un capitali­ smo che distrugge il mondo. \n.d.c.\

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comprese che quel punto di partenza ideologico aveva conse­ guenze gravissime per qualsiasi “espressione” che tentasse di sol­ levarsi sopra la cronaca o la declamazione esagitata del retore. Fu, per lui, un implicito rinnegare il secondo espressionismo, mentre veniva riconfermato un istintivo attaccamento alla prima fase, che meglio corrispondeva alle sue personali tendenze. Non è tutto. Un altro aspetto dell’espressionismo ci sembra abbia agito su Wilder. Respingendo ogni contatto con quanti condussero l’espressione teatrale (e, insieme, poetica, romanzesca e anche cinematografica: Il gabinetto del dottor Caligari — Das Kabinett des Dr. Caligari) a un balbettio incoerente ed esaspera­ to, egli si avvicinava a coloro che ponevano la più vigile attenzio­ ne ai problemi della struttura drammatica, che tentavano di disciplinare l’empito incontrollato della rivolta in una reale forza rappresentativa, in una “macchina” perfetta e potente. In effetti, costoro non seppero creare lo sperato equilibrio se non in rarissi­ me occasioni e per lo più risolsero le loro opere in un senso tutto esterno: nello sforzo di disciplinare ciò che forse — per sua stessa natura — non si poteva disciplinare, guadagnarono in consistenza strutturale quanto perdettero in sincerità e in vigore. Una accre­ ditata — e, pare a noi, sostanzialmente giusta — interpretazione dell’opera di Georg Kaiser, pone questi, che fu il più noto degli espressionisti teatrali, nella categoria di cui appunto si è detto. E da Kaiser, il futuro regista di Viale del tramonto qualcosa dovette imparare. Non cerchiamo fra i due corrispondenze dirette, né motivi di ispirazione comuni; cerchiamo piuttosto una comune tendenza a costruire robustamente, ad armonizzare gli elementi della composizione senza rinunciare alla violenza drammatica dei fatti, e ciò in contrasto con quegli espressionisti che — contempo­ ranei per Kaiser, quando lavorava per il teatro, e presenti nel ricordo a Wilder, regista cinematografico — di tutto si preoccupa­ vano meno che di dar comprensibilità logica e saldezza alle pro­ prie opere. Dalla letteratura polemica, se non propriamente espressioni­ sta, della Germania pre e postbellica, Wilder trasse spunti fonda­ 20

mentali per la sua preparazione. Dopo gli accenni precedenti, ci restringiamo a uno solo, che ebbe un’eco diretta anche nel cine­ ma e acquistò perciò un significato particolare nei confronti dell’allora esordiente soggettista e sceneggiatore ( Uomini di dome­ nica — Menschen am Sonntag., cui Wilder collaborò, è del 1929). Heinrich Mann scrisse nel 1905, con IIprofessor Unrat (Professor Unrat), un feroce atto di accusa contro la mentalità imperante nel sistema educativo tedesco: era un motivo che ricorreva spes­ so, uno di quelli in cui prendeva forma più drastica la volontà di ribellione e di rinnovamento, sociale e umano, propria di certa cultura germanica nei primi lustri del secolo. Venticinque anni dopo von Sternberg trasferirà questo moti­ vo nel cinema, accentuando e al tempo stesso impreziosendo la ferocia dello scrittore.6 Di mezzo v’erano stati la guerra perduta e un convulso dopoguerra, eppure quel tema era ancora sentito attuale: in più, le tinte si erano ulteriormente incupite, l’atmo­ sfera di instabilità morale risultava più cruda, più beffardo l’at­ teggiamento di condanna verso quel simbolo di tutta una educa­ zione sbagliata. Allo sdegno era subentrato il cinismo, un disprezzo compiaciuto. Intorno v’era un’aria pesante di corruzio­ ne, di disfacimento fìsico (un richiamo al primo espressionismo) che sollecitava la fantasia del regista oltre ogni limite e lo induce­ va a levigare raffinatamente il quadro che componeva. Ci si pote­ va addirittura sovvenire - con un salto pauroso e impensato nel tempo - di certi inverosimili compiacimenti del Seicento baroc­ co, che so, di qualche descrizione atrocemente accarezzata dal Marino nella Strage degli innocenti. Tutto questo, in Wilder, non lo troveremo più, o semmai lo troveremo sotto forme ben altri­ menti sorvegliate. Ma si pensi ad alcune descrizioni d’ambiente in Viale del tramonto, o a qualche “visualizzazione” di stati d’ani­ mo in Giorni perduti (The Lost Week-End), e la coincidenza sal­ terà immediatamente agli occhi. 6

Di Giammatteo si riferisce a L’angelo azzurro (Der blaue Enget), diretto da Josef von Sternberg nel 1930. [n.d.c.]

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Quando si parla di un Wilder sorvegliato, sempre attento a contenere l’espressione entro solidi argini, a evitare gli eccessi o almeno a risolverli nella maggior possibile secchezza di tono, si viene già a contatto con il secondo elemento della sua forma­ zione culturale: l’elemento americano. Dinanzi a una letteratu­ ra; e a un’arte in genere, tanto disadorna e “cronistica” (almeno nel complesso e per tendenza) quanto enfatico era stato l’e­ spressionismo che aveva dominato i suoi anni giovanili, Wilder subisce un graduale processo di “riadattamento” spirituale. For­ se, sono i problemi della forma che più lo interessano non appe­ na prende contatto con l’ambiente americano. Non proprio di forma specifica (quale poteva già essergli offerta da certo cine­ ma di ambizioni sociali o dal filone appena affermatosi del film gangster, intorno al 1934 allorché egli giunse negli Stati Uniti), ma piuttosto di un modo di esprimersi veduto ancora molto genericamente, e colto qua e là nella nuova cerchia culturale. Verrebbe fatto di ricordare, per supposizione, i nomi di un Dreiser, di un Gain o, in misura minore, di un Faulkner. Si operò comunque — e i film che più tardi dirigerà lo conferme­ ranno — un distacco dal nucleo più propriamente lirico dell’e­ spressionismo, da quella violenza verbale con cui si intendeva dar libero corso alla piena indistinta dei sentimenti. Il fallimen­ to dell’espressione teatrale tedesco fu dovuto anche a questa incapacità (o a questo rifiuto pro grammatico) di dare una vera e propria organizzazione strutturale al conflitto drammatico: le parole dei personaggi restavano allo stato di sfogo e di impreca­ zione, non si distendevano in un dialogo realmente efficace sic­ ché l’autore parlava per bocca dei personaggi con un solo tono, sempre uguale e privo di sviluppo. Wilder volse le spalle a que­ sti conati, prese semmai la via di Kaiser, più sicura o che più sicura sembrava. Conservò parecchi degli impulsi espressioni­ stici, ma cercò di adattarli alla nuova situazione (ammaestrato dagli errori di quelli che, in Germania, si erano votati all’insuc­ cesso), li organizzò secondo formule collaudate (non si dimen­ tichino le esigenze pratiche della produzione industriale hol­ 22

lywoodiana, e non era certo un Wilder che si sarebbe potuto sottrarre a esse), in parte li diluì. Quel che era accaduto a Kaiser, il quale aveva portato l’espressionismo - movimento di pochi al successo popolare, accadde a Wilder. Che cosa, propriamente, è rimasto in lui dell’espressionismo? Difficile rispondere con sufficiente precisione. I suoi film mag­ giori (tralasciamo naturalmente le divagazioni, come II valzer dell’imperatore — The Emperor Waltz o Scandalo internazionale — A Foreign Affair) contengono troppe cose, a volte contrastanti fra loro, perché si possa già adesso veder chiaro. Di innegabile v’è che egli ha trasfuso alcune sue fondamentali preoccupazioni “da espressionista” nei temi americani scelti di volta in volta con non poca coerenza. Se si guarda con attenzione, si finisce per scoprire che bene si inquadrano nell’ambito ideologico tipico dell’espressionismo, problemi come quello del sesso e del delit­ to {La fiamma del peccato — Double Indemnity), o quello dell’al­ colismo {Giorniperduti), o, ancora, quello del crollo psichico d’una donna che sopravvive a se stessa e alla sua giovinezza; e di più diremmo che vi si inquadra l’altro, del feroce individualismo dell’uomo pronto a ogni bassezza pur di affermare la propria potenza, di quel tragico superomismo borghese che gli espres­ sionisti condannarono, e al tempo stesso, inconsciamente, subi­ rono {L’asso nella manica — The Big Carnivai).7 L’ultimo caso è veramente indicativo, e riflette meglio degli altri quel curioso contrasto che pare esser proprio, e distintivo, della personalità di Wilder, sempre incerto se condannare con gesto sprezzante o se cedere alla seduzione esercitata da quel cinismo quasi eroicizza­ to cui si informa l’azione dei personaggi. E questo strano duali­ smo, questa indecisione che vorrebbero sembrare un atteggia­ mento di superiorità “al di là del bene e del male”, non li sapre­ mo giustificare altrimenti che istituendo un parallelo con l’inti­ ma contraddizione che già aveva dilaniato l’espressionismo. 7

L’asso nella manica è conosciuto all’estero anche con il titolo Ace in the Hole. [n.I.c.]

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Su alcuni particolari significativi — che potrebbero addirittu­ ra dar luogo a un esame a sé — non insisteremo. Qua e là vi abbia­ mo già accennato, e qui li richiamiamo soltanto per indicare una speciale “persistenza” che è lungi, ancor oggi, dal venir meno. Vogliamo dire, il gusto dell’orrido e del repulsivo, che fa capo al “fenomeno” tipizzato in Gottfried Benn, anche se non direttamente a lui: il pipistrello evocato dal delirio di Don Birman in Giorni perduti, i topi nella piscina vuota e il cadavere dello scim­ panzé in Viale del tramonto, il rettile che striscia sulla volta del cunicolo in cui è imprigionato Leo Minosa, in Lasso nella mani­ ca. Si potrà obiettare che di fronte alla spaventosa necrofilia del Benn, questo è ben poco. Naturalmente, ma l’animo non è dissi­ mile. Che il risultato sia diverso lo comprendiamo pensando non solo alla impossibilità di immaginare sullo schermo, dinanzi ai milioni di spettatori, quelle nefande crudezze, ma anche all’at­ teggiamento di Wilder nei riguardi dell’espressionismo, e in linea generale abbiamo visto qual è. Dopo le osservazioni fatte, sorge un dubbio: se sia, questo di Wilder, l’atteggiamento da assumere dinanzi al “mondo” ameri­ cano, per comprenderlo. L’atteggiamento giusto — intendiamo — utile e capace di dar frutti. Se, cioè, attraverso l’espressionismo si possa giungere a contatto con la vita americana, e interpretar­ la nell’intimo, sì da ricavarne opere di duraturo valore. Ecco un altro problema fondamentale da risolvere per poter decidere del posto che tocca a Wilder nel quadro del cinema statunitense. Intanto, se dovessimo precisare ancora il riferimento alla cultu­ ra americana con cui il regista ha più familiarizzato, metterem­ mo in secondo piano — dopo l’opportuno ma fugace accenno iniziale — i Dreiser, i Cain e i Faulkner. Punteremmo invece su uno scrittore come Scott Fitzgerald, e andremmo a cercare, a esempio, in un romanzo come Tenera è la notte (Tender is the Night) l’ausilio per penetrare un po’ più a fondo nel rapporto fra l’europeo Wilder e quella società di cui sembra essersi fatto giu­ dice. E un fatto che non sarà sfuggito a nessun lettore di Scott Fitzgerald: il progressivo disfacimento intellettuale del medico, 24

protagonista di Tenera, è la notte., adombrava due problemi-car­ dine della moralità americana: la donna e il denaro. Il romanzo vi ruotava intorno senza mai staccarsene e finiva per esemplifi­ care una “sconfìtta” (il medico cede alla donna e alla ricchezza, e annienta con le sue stesse mani la propria personalità) che a un europeo non poteva non apparire giustificata troppo sommaria­ mente. Dinanzi a problemi analoghi s’è trovato Billy Wilder, il quale si è acconciato a risolversi suppergiù secondo il metodo di uno Scott Fitzgerald (è appena necessario notare che il Joe Gillis di Viale del tramonto segue una parabola simile a quella del medico di Tenera è la notte'}. Inoltre, fedele alla sua preparazione espressionistica, li ha esasperati, incrudelendo fin che gli era pos­ sibile sui personaggi, e preoccupandosi solo in via secondaria delle giustificazioni. Wilder mostra di credere all’esistenza di un solo tipo umano, arido, spietato, sconvolto nell’intimo, corroso da un’atavica ten­ denza all’immoralità, negato all’ideale. E, in fondo, la speranza delusa degli espressionisti, con questa differenza: che egli, per così dire, si compiace della delusione e vi si immerge. L’asso nella manica ci svela senza più equivoci ciò che avevamo sempre sospettato: che nel compiacimento v’è anche, oltre la tendenza connaturata, un sottile calcolo. L’effetto che se ne ottenne riscuo­ te successo, in una misura che non si sarebbe potuta immagina­ re; allora lo si insegue a bella posta, e a questo scopo si affilano le armi. L’obiettivo da raggiungere è chiaro davanti agli occhi di Wilder. Chi si salva dalla condanna? Nessuno, se non dei fantasmi, personaggi di poca consistenza umana: la fidanzata di Don Birnam {Giorniperduti}, Betty {Viale del tramonto}, il direttore del giornale di Albuquerque {Lasso nella manica}. Tipi fondamental­ mente “sani”, ma Wilder sembra tenerne poco conto. Si vede bene che non è convinto della loro vitalità: essi sono ancora fuo­ ri dal suo mondo. Se entrano nei film, è più per esigenze di chia­ roscuro (esigenze strutturali, di composizione) che per costituire il polo attivo del dramma. S’è detto: dei fantasmi. E per Wilder 25

sono ancora dei fantasmi l’abnegazione e l’energia vitale (la fidanzata di Don), il limpido entusiasmo dei giovani (Betty), la solida, istintiva e perfino rozza moralità dell’uomo (il direttore del giornale). Fantasmi, o schemi. Resta, dunque, pressoché sola, la condanna. Abbiamo visto di che genere è, quali conseguenze provoca. Wilder sembra chiuso dentro di essa, volontariamente.8 («Bianco e Nero», a. XII, n. 11-12, novembre-dicembre 1951, pp. 8-16)

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Per un ragguaglio più diffuso e particolare su Viale del tramonto si veda «Bian­ co e Nero», a. XII, n. 5, maggio 1951, pp. 73-77. [Si veda anche E Di GlAMMATTEO, Milestones, Torino, UTET, 2002, pp. 172-181. Di Giammatteo inse­ risce Viale del tramonto fra i «trenta film che hanno segnato la storia del cine­ ma». Mentre per II valzer dell’imperatore (1948), qui appena citato, riman­ diamo a «Bianco e Nero», a. XI, n. 2, febbraio 1950, pp. 88-89].

M di Fritz Lang Una satira incompresa

Da trent’anni, M, Il mostro di Dusseldorf (M) passa, nelle storie del cinema, per quello che non eoe solo in parte. Una letteratu­ ra critica, che ha pregio insolito di essere concorde ma che pecca in larga misura di incomprensione, si è stratificata sull’opera di Lang a periodi successivi, alterandone progressivamente l’aspet­ to. Sono i guai che capitano ai film importanti (e anche agli altri, qualche volta). Non c’è da meravigliarsene. In autunno avremo l’occasione di rivedere My presentato da un distributore italiano. Sarà, forse, una sorpresa per tutti, giac­ ché a tutti riuscirà finalmente comprensibile — tradotto — il lin­ guaggio non semplice, e spesso dialettale, di quei celebri perso­ naggi. Ma non sarà soltanto il linguaggio, ovviamente, a provo­ care la sorpresa. Consentiteci di anticipare qui alcuni motivi del­ la nuova interpretazione che, fra qualche mese, sarà indispensa­ bile darne. Su quali punti concorda la letteratura critica — invero non abbondante — che ha preso M a oggetto, dal 1931 a oggi? Pres­ sappoco questi, che troviamo riassunti nella Storia, del cinema (1949) di Georges Sadoul: «Lang avrebbe voluto intitolare il suo film: Gli assassini sono tra noi! Ma si dice che al produttore del 1

La notizia è riferita in modo un po’ diverso dal Kracauer. Nel 1930 i giorna­ li avevano annunciato che Lang si apprestava a girare un film dal titolo prov­ visorio Morder unter uns {L’assassino è fra noi). Piovvero subito molte lettere minatorie. Il direttore dei teatri di posa di Staaken rifiutò al regista il per­ messo di girare in quello stabilimento. Lang non riusciva a spiegarsi la ragio­ ne di tutto questo. La capì soltanto quando, in un accesso d’ira, afferrò per il bavero il direttore di Staaken e si accorse che sul risvolto costui aveva il distin­ tivo del partito nazionalsocialista. I nazisti temevano di essere compromessi dal titolo. E interessante osservare come questo titolo, ancora più generaliz­ zato e preciso — Die Morder sind unter uns {Gli assassini sono fra noi) — sia poi stato impiegato da Wolfgang Staudte, nel secondo dopoguerra, proprio per

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film si presentasse un emissario del partito nazista, il cui Fiihrer poco tempo dopo avrebbe raccolto undici milioni di voti alle ele­ zioni presidenziali. L’emissario gli fece sapere che il film sarebbe stato boicottato se fosse stato presentato con quel titolo, ingiu­ rioso per i tedeschi. Fritz Lang cedette. Il suo film era tuttavia assai lontano dalla politica e presentava l’assassinio come una psi­ cosi, sessuale e individuale. L’opera fu soprattutto notevole per l’arte perfetta con cui il regista accoppiava contrappuntistica­ mente le immagini, il suono e i dettagli simbolici, le grida di una madre smarrita in un magazzino vuoto, la marcia funebre che l’assassino fischiettava e l’emozionante palloncino che simboleg­ giava la bambina morta... Nello sfondo del quadro Lang poneva il tema che dominò tutta la sua opera sonora, quello della colpe­ volezza. Il suo assassino era condannato dalla malavita che diso­ norava, ma quel solitario delinquente braccato, nell’interpreta­ zione avvincente e inquietante di Peter Lorre, appariva più una vittima che un carnefice».* 2 In sostanza, la storia drammatica della colpa di un uomo irre­ sponsabile, raccontata con vigore, con grande abilità tecnica e con qualche riferimento non inutile alla situazione del paese. L’assassi­ no sarebbe al centro di tutto. Del suo ritratto essenzialmente si preoccuperebbe Lang. Su tale interpretazione sembrano d’accordo quasi tutti coloro che hanno esaminato M, sia pure mettendo in rilievo ora questo ora quell’aspetto del film, ora il dramma indivi­ duale dell’assassino, ora il contesto sociale, ora i temi ricorrenti nel­ la filmografìa del regista.3 Vediamo dunque il protagonista.

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condannare il nazismo. Una piccola nemesi della storia. [Cfr. S. KRACAUER, Da Caligari a Hitler — Una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lin­ dau, 2001, p. 281]. G. SADOUL, Storia del cinema, Torino, Einaudi, 1951, p. 319. \n.d.H\ Non è il caso di offrire una documentazione completa. Basteranno, credia­ mo, alcuni saggi di critica, apparsi in tempi differenti. Una delle prime recen­ sioni significative nel senso che a noi interessa, fu quella di René Lalou, pub­ blicata sulle Nouvelles litteraires del 30 aprile 1932 [n. 498] e riferita da Etto­ re M. Margadonna in Cinema, ieri e oggi (1932) [Milano, Domus, p. 158]:

Un colpevole innocente, una vittima di se stesso, questo Becker (Peter Lorre) - stupratore e uccisore di bambine, che «Se M è uno dei più bei film della scuola tedesca, lo deve alla sobrietà delle scene decisive, quelle in cui appare l’uccisore di fanciulli. Lo s’intravede appe­ na nel primo episodio: tuttavia, dall’apparizione di un gruppo di fanciulli fino al momento in cui una palla rotolante sull’erba rappresenterà la morte di una piccola vittima, la sua presenza ci ossessiona. E se la sequenza del proces­ so richiama alla mente i grandi affreschi di Metropolis, io preferisco i momen­ ti in cui il vampiro segue una ragazzina che sta sfuggendogli o quelli in cui ne accompagna un’altra prima che un mendicante lo segni con la lettera accusatrice. [...] Fritz Lang trasforma il realismo in un’arte di evocazione: come una melodia del Peer Gynt annunzia le crisi di follia omicida, pochi dettagli, signi­ ficativi per la loro convergenza, ci impongono la certezza del delitto come una fatalità. Trattato con simile padronanza, il realismo raggiunge una vera forza di suggestione e ci offre quella quintessenza della realtà che Maurice Schwob ammirava nelle opere di Stevenson». Francesco Pasinetti, nella sua Storia del cinema (1939) [Roma, Edizioni Bianco e Nero], fornisce di M un’interpretazione analoga, anche se molto più stringata e semplice. M. Bardèche e R. Brasillach, xs^Histoire du cinéma (abbiamo sott’occhio l’edi­ zione del 1948 [Givors (Rhone), André Martel, p. 325]), insistono sugli stes­ si motivi: «Mè la storia romanzata del vampiro di Diisseldorf, e possiede bra­ ni di ammirevole abilità granghignolesca. Avremo sempre nelle orecchie l’an­ simare del mostro prigioniero in una specie di solaio quando spezza il coltel­ lo nel tentativo di forzare una serratura, o il modo con cui si sente costretto a fischiettare La danse macabre (è il medesimo errore che troviamo in Sadoul — n.d.r.) quando nasce in lui l’impulso di uccidere». Osservazioni che si muo­ vono nello stesso ambito sono quelle di Siegfried Kracauer — Cinema tedesco: dal “Gabinetto del dottor Caligari” a Hitler, [Milano, Mondadori] 1954 — anche se esse vengono inserite in una interpretazione sociologica più vasta. «Il vero centro del film — sostiene K. — è l’assassino stesso. Peter Lorre ne fa l’in­ superabile ritratto di un piccolo-borghese infantile che mangia mele per stra­ da e che nessuno sospetterebbe capace di uccidere una mosca... Nell’esame di questo personaggio — più un prodotto del regresso che un ribelle retrogra­ do — M conferma la morale dell’Angelo azzurro', che il regresso, cioè, porta inevitabilmente con sé terribili esplosioni di sadismo. Entrambi i film nasco­ no dalla situazione psicologica di quegli anni cruciali e anticipano quanto sarebbe accaduto su larga scala se gli uomini non fossero riusciti a liberarsi dagli spettri che li inseguivano». K. non nega l’importanza delle situazioni comiche («Il lato comico della cooperazione tra fuorilegge e legge si manife­ sta in diverse occasioni. I testimoni rifiutano di mettersi d’accordo sui fatti più ovvi e cittadini innocenti si accusano ferocemente fra loro. Sullo sfondo

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ricalca sullo schermo le vicende del cosiddetto “mostro di Dus­ seldorf ” al quale la cronaca nera tedesca di quegli anni fu debidi questi allegri intermezzi, gli episodi dei delitti sembrano ancora più terri­ bili»), ma ne riduce stranamente l’ampiezza e il significato, e, subordinando ogni cosa al “ritratto dell’assassino”, si trova nella impossibilità di compren­

dere il film nel suo complesso. [Si veda anche l’edizione più recente: S. KraCAUER, Da Caligari a Hitler — Una storia psicologica del cinema tedesco, cit., pp. 277-284]. Apprezzamenti ancora più divaganti e marginali sono quelli di Lotte H. Eisner, in L’écran démoniaque (1952) [la prima edizione italiana di Lo schermo demoniaco è di Bianco e Nero — Roma, 1955 —, la seconda degli Editori Riuniti — Roma, 1983], che al film accenna di sfuggita un paio di vol­ te, per sottolineare l’aspetto tecnico-formale. Su questa linea si era già trova­ ta l’analisi di Rudolf Arnheim, di cui possiamo citare uno stralcio significati­ vo {Originalità di un europeo, in «Cinema», n. 28, 15 dicembre 1949 [p. 318]): «Nel primo film sonoro di Fritz Lang, M, è evidente la preoccupazio­ ne di rappresentare in modo più realistico uomini e ambienti. Lo stupratore assassino di Peter Lorre è uno dei personaggi più sconvolgenti e meno teatra­ li che Lang abbia creato. Nella descrizione dell’ambiente della malavita e del­ la polizia egli sintetizzò un aspetto caratteristico di Berlino. [...] InMil sono­ ro è impiegato con grande abilità: si ricordi la canzoncina infantile all’inizio e l’aria di Grieg che l’assassino fischietta e che costituisce il leitmotiv del per­ sonaggio». Sono sempre gli stessi elementi che colpiscono l’attenzione dei cri­ tici, ma non si dà mai il caso che da tali elementi qualcuno prenda lo spunto per condurre l’analisi verso una profondità maggiore. Ci si ferma sempre davanti alla suggestiva facciata del film. Anche R. Jeanne e C. Ford, nel recen­ te volume della loro Histoire encyclopédique du cinéma dedicato al sonoro (1958) [ Tome IV— Le cinémaparlant —1929-1945, Paris, Robert Laffont, p. 146], rifriggono i consueti argomenti: «C’era del giallo, c’era del grand gui­ gnol, c’era del suspense avanti lettera, c’era tutto ciò che si vuole, ma c’era soprattutto del cinema, e c’erano, in questo e in quel punto, trovate degne del grande Lang, che dimostravano come egli avesse assimilato le esigenze e le regole del nuovo mezzo tecnico». L’unico accenno esplicito a una interpreta­ zione più corretta di M l’abbiamo trovato in un articolo di Giulio De Ange­ lis, su «L’eco del cinema» (15 luglio 1953) [a. IV, n. 52, p. 2]. Per quanto non sviluppato sino alle logiche conseguenze, e un poco viziato dal generale giu­ dizio negativo sul film, il discorso di De Angelis coglie bene nel segno quan­ do illustra la comicità di alcune situazioni: «Rivedendo Msi deve concludere che l’impressione dominante è quella di una storia poliziesca in chiave preva­ lentemente satirica [...]. Il tono prevalente del film è improntato a una vena satirica robusta, che trova i suoi migliori effetti nella contrapposizione del­ l’attivo intervento della malavita alle chiacchiere e ai sistemi scientifici della

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trice di pagine clamorose - rivela la sua autentica natura con l’invettiva-confessione che pronuncia dinanzi al “tribunale della malavita”, nell’ultima sequenza del film. L’invettiva è divisa in due parti. Noi la riferiremo integralmente, capovolgendone per chiarezza l’ordine cronologico (ponendo all’inizio la parte detta dopo, la quale del resto è separata dalla prima solo da una battu­ ta sarcastica di Schrànker - Gustav Griìndgens -, il capo dei mal­ viventi e “presidente del tribunale”).* 4 Ecco la prima: «Cammino sempre per le strade e sento sem­ pre uno dietro di me... è la mia ombra, sono io stesso... mi per­ seguita. .. non parla, non fa rumore, ma io lo sento... certe volte è come se io volessi fuggire da me stesso, io mi inseguo, io fuggo da me... ma non posso... non posso liberarmi... devo andare dritto per questa strada... devo correre... correre... per strade che non finiscono mai... io voglio... voglio scappare... e insie­ me a me corrono i fantasmi delle madri e delle bambine, non se ne vanno, sono sempre lì... sempre... sempre... sempre... e solo quando lo faccio, quando... allora non so più nulla. Trovo un

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polizia. [...] In sostanza Lang ci ha dato una specie di suo Dreigroschenoper, davanti al quale e a un certo punto quasi ci dimentichiamo del mostro che ricompare al finale». Sono, come si vede, intuizioni molto felici, che avreb­ bero potuto aprire la strada a un riesame serio, e storicamente fondato, di M. Ma nessuno le ha raccolte. Accurata e utilissima, infine, appare l’analisi che al film hanno dedicato quattro filologi svizzeri (Raymond Borde, Freddy Buache, Francis Courtade e Marcel Tariol), in un quaderno di documenti sul Cinéma réaliste allemand edito a Losanna nel 1959, per cura della Cine­ matheque suisse. Più avanti ne citeremo un passo, che testimonia del note­ vole sforzo compiuto per avvicinarsi al centro del problema. E, in genere, i due capitoletti dedicati ai “temi” e alla “realizzazione” del film sono quanto di più rigoroso sia stato finora detto su M. I brani del dialogo sono ricavati (e tradotti nella loro integrità, senza preoc­ cupazioni di doppiaggio) dal copione tedesco desunto da M e fornito dalla società produttrice, la Nero Film. Forse, qui vai la pena di notare una curio­ sità dei titoli di testa. Non esiste alcuna precisa indicazione tecnica. Dopo la dicitura «Ein Fritz Lang Film der Nero», si legge: «Questo film è frutto della collaborazione di Paul Falkenberg, Thea v. Harbou, Emil Hasler, Adolf Jan­ sen, Fritz Lang, Karl Vash, Karl Vollbrecht, Fritz Arno Wagner».

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manifesto e leggo quel che ho fatto, leggo e rileggo. Questo ho fatto?... Ma io non lo so, non so niente. E adesso chi mi crede? Chi può sapere come io sono dentro... chi può sapere che c’è qualcosa, dentro, che urla e grida... chi può sapere perché lo fac­ cio ... non voglio... devo... non voglio... devo... e poi c’è una voce che urla... non posso più starla a sentire... Aiuto, non ne posso più, non ne posso più, non ne posso più». E il quadro clinico di una perversione sessuale, come lo si potrebbe leggere in un testo di psicopatologia. Tanto lucido che sembra uscito dalla penna di un medico e non dalla bocca di un pazzo. Ma la lucidità ha già avuto una giustificazione, perché pri­ ma della lunga invettiva, Becker si era rivolto ai suoi giudici con una terribile accusa. Infatti, alle risate con cui quel branco di delinquenti aveva accolto la sua implorazione («Ma io non ho colpa»), l’assassino così rispondeva: «Chi sei tu?... ma di che par­ li?... Chi sei, si può sapere?... E chi siete voi? Tutti assassini sie­ te, tutti delinquenti... che credete di saper fare, eh?... pensateci, se ci avete la testa... sfondare casseforti, dar la scalata ai muri, fal­ sificare le carte... bella roba, che potreste anche piantare da un’o­ ra all’altra, se nella zucca vi avessero messo un po’ di cervello o se aveste avuto un lavoro... Ma io... che posso fare di diverso? Io ho questa maledizione dentro di me. Non è vero forse? Il fuoco, la voce, il tormento». Chi ha ragione, allora, in questa disputa? Nessuno, si capisce. L’assassino non ha colpa, ma assassino è. I giudici non possono giudicare se sono essi stessi assassini e criminali. Criminali coscienti di esserlo. Tutti i valori sono capovolti, il dramma - pre­ sentando una situazione così “impossibile” - sconfina nel regno dell’assurdo. Non è più uno specchio della realtà; è una voluta deformazione della realtà. Lo si vedrà anche dopo, nel corso del “processo”. Al “difensore d’ufficio” (il tribunale della malavita adotta lo stesso formalismo procedurale di una qualsiasi corte di giustizia), che esclama di non poter tollerare una condanna a morte ed esige che «quest’uomo» - l’imputato - sia posto sotto la protezione della legge, alcuni gaglioffi con facce da patibolo urla­ 34

no fuori di sé: «Ma questo non è un uomo. È una bestia». E manifestamente le bestie sono loro. Del resto, tutto il processo è la parodia di un vero processo: lo si dice pensando non solo alla situazione generale (un gruppo di criminali riuniti per giudicare un assassino) ma anche ai molti e significativi particolari. Appena si trova di fronte al consesso dei malviventi (tutti ricordano lo “stacco” dal volto angosciato di Becker alla lentissima panoramica che mostra la folla compatta dei più allucinanti ed “espressionistici” avanzi di galera mai apparsi nella storia del cinema), l’assassino grida che essi non hanno alcun diritto di tenerlo prigioniero. Il “presidente”, placa­ to il tumulto scatenatosi in “aula”, precisa: «Hai parlato di dirit­ to? Te lo diamo subito il tuo diritto. La sala è piena di esperti in diritto. Da sei settimane a quindici anni di galera. Loro avranno cura di non farti mancare il tuo diritto. Avrai perfino un difenso­ re». E mentre parla, la macchina scopre, con un effetto d’ilarità assai felice, una bella sfilata di ceffi sinistri. Saranno poi gli stessi ceffi, e altri che il regista coglierà nel mucchio, a seguire con alterne emozioni lo sviluppo del dibatti­ mento. Dall’ira all’indignazione, dalla commozione alla pietà. Basta un nulla per abbindolare il prossimo: questo accade fra il pubblico che frequenta le aule dei tribunali, e accade pure fra il singolare pubblico raccolto nel sotterraneo della distilleria abban­ donata. Il parallelo ironico viene alla luce in modo efficacissimo quando Becker si dichiara innocente (è il primo dei brani che abbiamo citato più su): quei criminali incalliti — uomini e donne, giovani e vecchi — per poco non passano dalla parte sua e scop­ piano in pianto, una donna inghiotte le lacrime, un’altra tor­ menta il fazzoletto. Cosi finisce la giustizia. La parodia sfocia addirittura nel gioco intellettuale. Thea von Harbou, autrice del soggetto, e Fritz Lang non si limitano a “cogliere in fallo” la giustizia vera (quella dei tribunali e della società tedesca weimariana) riducendo in burla il suo falso appa­ rato formale, ma trascinano nel balletto ironico perfino la cultu­ ra “impegnata” che invano aveva lottato per trasformare l’ingiu­ 35

sto ordine delle cose. Le battute dell’atterrito Becker sono ricava­ te di peso dai drammi e dai romanzi della “letteratura della rivol­ ta”. L’attore (in altri punti mirabile nella sobrietà) le pronuncia con un’enfasi così esagitata da far sorgere il sospetto che il regista voglia costruire a poco a poco un parossismo grottesco. Peter Lorre (e qui bisogna ricordare i suoi urli isterici, i suoi gesti, i suoi sussulti) diventa un burattino. Come burattino, evoca immagini che erano il patrimonio verbale di molti drammaturghi per un verso o per l’altro, a torto o a ragione, annessi al movimento espressionista, da Georg Kaiser ad Arnolt Bronnen a Ferdinand Bruckner. «Chi può sapere come io sono dentro... chi può sape­ re che c’è qualcosa, dentro, che urla e grida». Oppure: «Io ho questa maledizione dentro di me. Il fuoco, la voce, il tormento». O ancora: «Non posso liberarmi... devo andare dritto per questa strada... devo correre... per strade che non finiscono mai». Si badi, non alludiamo solo al senso di soffocamento e alla impossi­ bilità di evasione (temi diffusi in tutta la “letteratura della rivol­ ta”), ma anche - anzi, in primo luogo - alla qualità stilistica, al tono, alle parole stesse con cui si esprime la grottesca disperazio­ ne del personaggio. Un gioco dell’intelligenza, forse troppo sotti­ le per essere avvertito a prima vista, ha guidato la mano di Fritz Lang nell’orchestrazione del “processo”. Processo che costituisce l’unica parte di M in cui veramente campeggi quello che viene ritenuto il protagonista, lo psicopati­ co Becker. Ora, quanti insistono sulla interpretazione “dramma­ tica” del film e in esso vedono una variante del tema della colpa, tipico di “tutta l’opera sonora” di Lang, riducono Afai ritratto di un assassino con alcuni “excursus” in campo sociale. E non si avvedono che è esattamente l’opposto. I misfatti di Becker non sono il centro dell’azione: ne sono soltanto la molla, l’accompa­ gnamento. A Lang non interessa lui. Interessa l’ambiente, la società. Non ha occhi che per questo, è il caso di dire, come mostreremo ora, sottolineando alcuni aspetti della storia. La sequenza di apertura, congegnata con una scaltrezza tecni­ ca sconcertante se si pensa che siamo agli inizi del sonoro, impo­ 36

sta unicamente i termini del dramma. Alcuni bimbi giocano in un cortile, cantando in coro una strofetta sull’“uomo nero”. Una madre li redarguisce, non è il momento di parlare di certe cose. Un’altra madre (Ellen Widman) attende che la sua bambina tor­ ni da scuola. Una donna stanca, disfatta. Anche lei appare infa­ stidita di quella filastrocca del malaugurio che cantano in cortile. Suona mezzogiorno. La madre sospira di sollievo. Di colpo. Un manifesto su cui si legge: «10.000 marchi di ricompensa. Chi è l’assassino?». L’ombra di un uomo si proietta sulla scritta. Una voce, flautata e insinuante, dal timbro ambiguo, dice: «Hast du aber einen schónen Ball» («Ma che bella palla hai»). Si passa sull’uomo, grassoccio, col soprabito e il cappello floscio. «Come ti chiami?». La domanda è rivolta a una ragazzina (Inge Landgut). «Elsie Beckmann». Torniamo dalla madre che chiede, per le scale, a due compagne della figlia se Elsie non è venuta con loro. L’uomo e la bambina si avvicinano a un cieco che vende palloncini. L’uomo fischietta una notissima aria del Peer Gynt di Grieg (l’abbiamo già udita sotto i titoli di testa). Compra alla bimba un palloncino a forma di pupazzo. In casa della madre arriva il giornalaio. Anche a lui, la donna domanda se ha visto la figlia. Partito il giornalaio, inizia il celebre brano in cui Lang sintetizza — sovrapponendo evocativamente la parola alle immagini — la morte di Elsie. Sono dieci inquadrature, di cui forniamo l’elenco (le abbiamo sempre viste citare in modo erra­ to: ogni critico se l’è organizzate nella testa a suo piacimento): -1 : la madre esita accanto alla porta, poi si avvia di spalle verso la tromba delle scale; -2: la tromba delle scale vista dalla madre. E deserta. «Elsie», chiama la donna; -3: la madre si volta (l’inqua­ dratura è la stessa della 1), torna in casa, chiude la porta dietro di sé; -4: la pendola suona l’una e un quarto; - 5: la madre va alla finestra, apre e chiama: «Elsie. Elsie»; -6: la tromba delle scale, deserta. Voce della madre: «Elsie»; -7: la soffitta deserta, con alcu­ ni panni stesi ad asciugare. Voce: «Elsie»; -8: l’angolo del tavolo apparecchiato per la piccola. Voce: «Elsie»; -9: un prato. Da un cespuglio esce rotolando, e si ferma, la palla di cui aveva parlato 37

l’uomo. Voce (molto riverberata): «Elsie»; -10: il palloncino che l’uomo aveva comprato alla bimba ondeggia prigioniero di un fascio di fili della luce, contro il cielo. Voce (molto riverberata): «Elsie». Fondu. Abbiamo visto l’assassino per un attimo. Lo rivedremo un’al­ tra volta, in una brevissima inquadratura, mentre scrive ai gior­ nali sul davanzale della finestra, e non lo ritroveremo più che ver­ so la metà del film. Nelle lunghe parti in cui egli è assente si svi­ luppa il tema di Lang: e non si tratta della colpa di un individuo ma del ritratto di una società. Si comincia con la psicosi dell’as­ sassino che si diffonde vertiginosamente in tutta la città (Berlino, più tipica di Dusseldorf per il discorso che Lang vuol fare), in tutti gli ambienti. «Ognuno di noi può essere l’assassino», dico­ no i giornali. E quattro grassi e torpidi borghesi si accapigliano per questo, in una scena di pesante umorismo che si svolge al tavolo di una birreria (il “sacrario” dell’anima sociale tedesca). «Ogni passante che incontri per strada può essere l’assassino», dicono ancora i giornali. Un vecchietto perbene, piccolo e impet­ tito come una statuina di legno, viene fermato da una bimba che gli domanda l’ora. Gliela dice. Poi, anche lui sotto l’influenza della psicosi diffusa, aggiunge: «Adesso, va subito a casa, bambi­ na mia. Dove abiti, bambina?». Questa domanda è sufficiente per provocare l’ira di un forzuto operaio, che fiuta in lui l’assassi­ no (Lang accentua la stupida e volgare brutalità di costui inqua­ drandolo dal basso, facendone un colosso di idiozia). Si scatena una buriana. I passanti saltano addosso al vecchietto. Un poli­ ziotto che subito interviene (e che uno dei presenti ha interpella­ to così: «E brava la polizia. I borsaioli riuscite ad arrestarli. Ma arrestate un po’ l’assassino»), assicura il poveruomo alla giustizia. L’emozione è grandissima. Del caso ora discutono il ministro dell’interno e il capo della polizia. Il ministro (Franz Stein) è un omino magro e puntuto, impeccabile, lucidato a nuovo. Parla in un telefono bianco che ha sul tavolo, con voce aspra, con toni apertamente grotteschi. Anche lui, una marionetta. Il capo della polizia (Ernst Stahl-Machbaur), ben pasciuto e tranquillo, spiega 38

pazientemente al ministro (con la stessa pazienza che si prodiga ai mentecatti) che cosa la polizia sta facendo per catturare il cri­ minale. Cose da pazzi, sta facendo, quasi dovesse combattere una guerra contro un esercito intero di stupratori. Ma l’omino con il telefono bianco si arrabbia e strilla come un uccellacelo: «Ich weiss, dass Ihre Beamten nicht schlafen... aber das Resultar... das Resultati» («Lo so, i suoi non dormono... ma fatti ci voglio­ no... fatti»). Pensa all’opinione pubblica, il ministro, pensa alla poltrona. Ecco due personaggi precisi della società che Lang irri­ de: il politico meschino e altezzoso, il “routinier” tira-a-campare, rassegnato e zelante nello stesso tempo. Due idioti, ognuno a suo modo. Altri due idioti li troviamo in un commissariato di polizia. Depongono su un certo fatto collegato alle indagini, e non rie­ scono a mettersi d’accordo sul colore del berretto di una bambi­ na. Uno dice «verde», l’altro «rosso». Vengono alle mani, infero­ citi l’uno contro l’altro, berciando ritmicamente: «Rot - griin rot - griin - rot - griin». La follia si diffonde, chi si salva più? La polizia ora organizza una retata nei “Verbrecherviertel” nei quar­ tieri della malavita. Un’altra azione di guerra, con centinaia di agenti all’attacco. E qui, i malviventi - non troppo impauriti dal­ lo spiegamento di forza - beffeggiano i poliziotti con uno spirito popolaresco sovente impagabile. Talvolta affiora una certa furbe­ sca intesa fra il commissario Lohmann (Otto Wernicke) - la gen­ te lo accoglie cantando e scandendo in coro il suo nome - e alcu­ ni di quei poco raccomandabili individui. La parte “ufficiale” del tema, l’abbiamo vista. Adesso vediamo - legata strettamente alla prima - la parte, diciamo così, “non ufficiale” che costituirà il perno più resistente su cui Lang farà ruotare il meccanismo del grottesco. In una stanza, quattro indi­ vidui (Paul Kemp, Theo Lingen, Fritz Gnass, Fritz Odemar) attendono qualcuno. Uno di essi guarda dalla finestra e vede i camion della polizia che portano in guardina i fermati. «Ma dove sarà questo Schrànker? L’avranno mica preso?». «Preso lui? risponde un altro - Una volta a Londra svaligiò una banca. Sco39

tland Yard gli tese un agguato. Eccolo lì con le mani in alto, schiacciato contro il muro e i poliziotti che lo circondano. Due secondi dopo c’erano tre morti per terra. Ma lui non era di quel­ li». Perché sono riuniti, stanotte? Perché questa storia delle retate è uno scandalo. «Qui dove sputi, sputi su un poliziotto. Nemme­ no più con le ragazze vai tranquillo. Sono impazzite anche loro. Per la testa non hanno che l’assassino». «Uno non può più eserci­ tare in pace la sua professione. Inciampi sempre in qualche cri­ minale. Non puoi più avere una vita privata. Sapete che vi dico? Ne ho le tasche piene». Questi quattro gentiluomini (i due più divertenti sono imper­ sonati da Paul Kemp e da Theo Lingen) controllano quattro fra le migliori bande della malavita berlinese. Schrànker, che giunge poco dopo, è il capo di tutti. Soprabito di cuoio, cappello duro, bastone, guanti: impeccabile come il ministro. Un perfetto uomo d’affari. Dichiara aperta la seduta e la presiede con il sussiego, l’e­ nergia e l’esattezza con cui un uomo d’affari tedesco può presie­ dere un consiglio di amministrazione. Lang è esplicito in ogni particolare. Le allusioni sono continue, la situazione tocca i toni della più pura fantasia grottesca. Ecco alcuni brani del discorso di Schrànker: «Presumo che lor signori abbiano avuto i pieni poteri e siano in condizione di impartire istruzioni vincolanti alle loro organizzazioni. Bene, non è necessario dilungarci in preamboli. Conosciamo tutti lo scopo della riunione. Un outsider ci sta rovinando gli affari e il credito di cui godiamo... I provvedimenti della polizia, le quoti­ diane e metodiche retate che organizza per acciuffare l’assassino, intralciano la nostra attività in una misura quasi intollerabile... Questo stato di cose deve finire. Dobbiamo tornare alla norma­ lità e all’ordine. Altrimenti siamo, spacciati. Le casse delle nostre associazioni sono vuote da tempo. Se non vogliamo fare man bas­ sa dei contributi per l’assistenza alle mogli dei nostri colleghi che attualmente vivono a spese dello Stato, ebbene io proprio non so dove potremo trovare i soldi che ci occorrono per la preparazio­ 40

ne e l’esecuzione dei nostri piani. Oltre ciò, ne soffre la nostra reputazione. La polizia cerca l’assassino nel nostro entourage... Se uno muore nello svolgimento delle sue funzioni professionali, tutto bene; ma fra colui che la polizia cerca e noi bisogna fare una netta distinzione. Noi esercitiamo il nostro mestiere, perché dob­ biamo campare, ma questa bestia non ha alcun diritto di campa­ re. Deve scomparire, deve essere eliminato, senza pietà, senza misericordia». Che fare per raggi ungere lo scopo? Si apre la discussione. Poco dopo che è stata iniziata, Lang la interrompe e salta a una riunio­ ne analoga fra alti funzionari ed esperti della polizia. Segue per un poco quella, poi torna al “consiglio di guerra” dei cinque mal­ viventi. Continua così, alternando altre dodici volte i capi della polizia e i capi della malavita. Il contrasto (acuito dagli atteggia­ menti e dagli argomenti simili) diventa vieppiù irresistibile, il ridicolo della situazione emerge da ogni battuta. Qui uno sugge­ risce una cosa; là uno propone una via d’uscita. Non servono. Tutti sembrano a corto di idee. Sono otto mesi che va avanti que­ sta penosa faccenda del “Kindermòrder”, non si sa più contro quale muro sbattere la testa. Finalmente, Lohmann ha la trovata: un tizio come l’assassino non può non essere un pazzo. Dunque, avrà forse già avuto rapporti con la giustizia o con le autorità sanitarie. Setacciare prigioni, cliniche, manicomi, archivi di ogni genere, potrebbe essere la strada giusta. Anche Schrànker ha la trovata, dall’altra parte. «Dobbiamo avvolgere la città con una rete di spie. Ogni metro quadrato deve essere posto sotto continuo controllo. Nessun bambino della città dovrà fare un passo senza che noi lo sappiamo». Come? Chi fornisce queste spie? «I mendicanti. L’organizzazione dei mendi­ canti». La caccia comincia. Ogni mendicante riceve l’incarico di controllare una zona. La distribuzione dei compiti sulla base del­ le strade è un modello di esattezza: due impiegati segnano scru­ polosamente le zone e istruiscono gli “agenti”. Lang ricama con perfidia sulla somiglianza che esiste fra queste operazioni e le ana­ loghe della polizia. Anche le autorità avevano diviso Berlino in 41

settori e l’avevano metodicamente battuta, senza risultato. La polizia è pignola e “scientifica”, come deve esserlo una organizza­ zione tedesca, ma è anche priva di agilità e di fantasia. I mendi­ canti riuniti in associazione sono altrettanto pignoli e “scientifi­ ci”; inoltre dispongono di agilità e fantasia. La società funziona alla base. Al vertice si atrofizza. Va aggiunto, però, che Lang evi­ ta di spingere l’ironica accusa fino al sarcasmo. Anche l’idea di Lohman (indagare presso le case di cura e le prigioni) si rivelerà una buona idea: la polizia non sarà umiliata in modo tanto cla­ moroso da dover cedere le armi alla malavita. No, semplicemen­ te arriverà dopo. L’astuzia dei mendicanti e l’abilità di Schrànker saranno più efficaci. Nuli’altro. Per questa mancanza di esagera­ zione, l’ironia riesce più credibile. Già Kracauer ha notato come lo spunto dell’associazione degli straccioni trasformati in informatori sia stato suggerito dalV Opera da tre soldi {Die Dreigroshenoper) P Di fatto, l’opera di Brecht era un episodio recentissimo della vita culturale tedesca, essendo stata rappresentata la prima volta a Berlino il 31 agosto 1928. Diremmo, tuttavia, che l’influenza dell’Opera da tre soldi su M vada oltre lo spunto dei mendicanti. E vero che a costoro manca - nel film di Lang - un capo come Peachum e che nella loro azione non v’è traccia dei motivi satirici sui quali Brecht insi­ steva. Il suggerimento, quindi, ha un valore generico e indiretto. Ma non è meno vero che, se nel film non troviamo il corrispon­ dente di Peachum, troviamo per contro la suddivisione della città in zone da “battere”, come in Brecht. E troviamo pure un analo­ go di Mackie Messer, il bandito temerario e inafferrabile, nella figura di Schrànker. Siamo propensi a ritenere che, per queste ragioni, Y Opera da tre soldi costituisca un precedente tematico abbastanza sicuro di M. Thea von Harbou e Lang hanno spersonalizzato i personaggi dell’opera di Brecht: della loro vita privata e delle loro avventure 5

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Cfr. S. KRACAUER, Da Caligari a Hitler — Una storia psicologica del cinema tedesco, cit., p. 281. [n.dc.]

galanti (fattori essenziali delle figure brechtiane, specialmente di Mackie Messer) non sappiamo nulla. In M sono soltanto mac­ chine dotate di intelligenza, rivolte all’unico fine di far trionfare la causa della “onorata” malavita in cattive acque. Le allusioni paiono meno drastiche e rivoluzionarie (qui non si sostiene che il capo dei furfanti e il capo della polizia siano d’accordo per spar­ tirsi il bottino; non si canzonano i sentimenti che la società bor­ ghese considera “sacri”) e perciò rientrano fra le cose accettabili anche da un pubblico conformista. Opera da tre soldi è stata depurata dei suoi veleni più mici­ diali. E divenuta più sobria, meno romanticamente accesa. Ha conservato solo l’asprezza ironica del confronto fra i due tipi di società organizzata, quella superiore e ufficiale e quella inferiore e clandestina. I personaggi di Lang debbono essere - a differenza di quelli di Brecht - uomini moderni, ri conoscibili in un quadro sociale che, pur essendo deformato, non deve rinunciare al reali­ smo. Ma sono, ciononostante, figli ideologici di quelli brechtia­ ni, soprattutto Schrànker, che corrisponde anche esteriormente (tenuto conto della moda diversa di due secoli diversi) al Mackie Messer dell’ Opera'. «Guanti bianchi e bastone con l’impugnatura d’avorio, e ghette alle scarpe, e scarpe di coppale, e l’aria da domi­ natore». Messasi in moto l’associazione degli straccioni, il dramma assume un andamento più rapido e incalzante. Rivediamo l’as­ sassino uscire di casa, seguiamo un poliziotto che effettua una perquisizione (incontrando una donnetta sorda e scema, la padrona di casa: un altro comico burattino, fra i molti di cui è disseminato, a tutti i livelli sociali, A/), accompagniamo Becker nelle due avventure che gli saranno fatali (l’incontro con la bam­ bina vista riflessa nella vetrina del coltellinaio, la sosta al caffè die­ tro le frasche, i primi sospetti del commissario Lohmann quando il poliziotto che ha perquisito la casa gli parla di Becker, l’allarme dato dal cieco che aveva venduto il palloncino a Elsie e che ora sente fischiettare la stessa aria di Grieg, la scoperta del criminale con uri altra bimba, l’intervento fulmineo della banda, l’accer­ 43

chiamento nell’androne della Cassa di Risparmio, la fuga nell’in­ terno del palazzo mentre escono gli impiegati). Nuovamente vediamo a confronto diretto la polizia e i malvi­ venti. La prima, identificato Becker, lo attende in casa, secondo le regole più ovvie e mediocri della consuetudine. I secondi inve­ ce, pieni di iniziativa, vanno all’attacco. Ricompare Schrànker, sempre impeccabile e imperioso, che rifiuta di affidare la cattura del pazzo alla polizia (ha tutte le ragioni, come si vede) e stabili­ sce che saranno loro a prenderlo, alle 11 di sera. Ha inizio, imme­ diatamente dopo, la sequenza più ricca di humour e di assurdo che il film contenga. In “assetto di guerra”, guidati da Schrànker travestito da poliziotto per poter sorprendere i guardiani della banca, i furfanti penetrano nell’interno. Anzitutto, occorre sape­ re dal custode quanti altri guardiani vi sono nell’edifìcio, e giac­ ché il vecchio non sembra voler parlare, gli si applica - come fa la polizia, per l’ennesima volta parodiata - il “terzo grado”. Quello da uno strillo e la confessione è ottenuta. Gli scassinatori si met­ tono all’opera: chi affronta con il trapano una porta blindata, chi fa un buco nel pavimento per calarsi al piano di sotto. Bisogna scovare l’assassino e agire scientificamente: questa è una dimo­ strazione pratica della scienza dei furfanti moderni. La scoperta di Becker (nascosto nel solaio) avverrà per caso, e la farà il più allocco della banda (Paul Kemp). I malviventi si sca­ tenano alla caccia, finché qualcuno non li avverte che fra cinque minuti la polizia, messa in allarme dal trambusto (non dalla sco­ perta dell’assassino, poiché di ciò non sa nulla), piomberà loro addosso. I nostri eroi vengono travolti dalla frenesia della fuga, sembrano impazziti. Ma il sangue freddo e l’energia del capo li costringono a restare: «Fermi tutti. In cinque minuti abbiamo tempo di aprire altri sei ripostigli». Infatti. E catturano Becker. Poi, fuga, con casse, cassettine, strumenti, tutti i ferri del mestie­ re. E con l’assassino avvolto nel cappotto come un salame. La comicità delle situazioni è accentuata dal fatto che Lang sagace­ mente spezzetta il ritmo inserendovi i movimenti convulsi di Becker che cerca di fuggire (molto si è parlato di questa angoscia 44

del personaggio, del suo terrore che si esprime in gesti inconsulti e che culmina con la lama del coltello rotta nella toppa. Ma l’agi­ tarsi dell’assassino braccato sarebbe soltanto un espediente da film giallo se non fosse contrapposto di continuo alla “colossale” e perfetta operazione della banda). Arriva la polizia e non viene a capo di nulla. Riesce solo ad arrestare uno dei malviventi, che si era calato dal buco al piano di sotto («Mani in alto!», gli gridano, mentre sta risalendo aggrap­ pato alla fùne. «Vorrei sapere come faccio ad alzare le mani se sto appeso alla corda»). Sarà la polizia di un altro commissario e l’a­ stuzia volgare del commissario Lohmann (informato della cosa dal collega) a metterla fortuitamente sulle piste di Becker (Lang non dimentica di sottolineare la rivalità esistente fra i due com­ missari e di accentuare la ripugnante volgarità di Lohmann, inquadrandolo dal basso, seduto alla scrivania). Cosicché l’irru­ zione della forza pubblica, alla fine, nel sotterraneo della distille­ ria dove sta per concludersi tragicamente il “processo”, acquista il sapore di una beffa. «In nome della legge», dice una voce di poli­ ziotto, e noi vediamo una mano salvatrice posarsi sulla spalla di Becker. Ma che significa questa legge che agisce per caso, che non sa farsi rispettare, che si è lasciata portare a spasso dai furfanti? La conclusione di Lang è implicita, ma chiarissima. Crediamo di avere sufficientemente illustrato gli aspetti più notevoli di M. Come si sia potuto vedere nel film il ritratto di un assassino e limitare l’ampiezza del suo tema (ben altrimenti note­ vole) alla storia drammatica della colpa di un uomo irresponsa­ bile, è un fatto che non si comprende. Nella raccolta di docu­ menti sul Cinéma, réaliste allemanda pubblicata dalla cineteca svizzera, si polemizza con simile deformazione: «Il y a dans M un excellent suspense et une étude clinique de comportement (la rou­ te puissance d’un désir élémentaire). Mais ce sont des acpects tout à fait secondaires d’une oeuvre qui est d’abord sociale et anarchisante... M reflète une époque: l’Allemagne prénazie de 1931. Fritz Lang, qui se complut dans l’esthéticisme quand il tournait Die Nibelungen, commence à s’inquiéter de la montée 45

du fascisme. Il s’en inquiète à un double titre: comme Israelite6 et comme homme de gauche. Aussi est-ce la decomposition sociale du regime de Weimar qui est montrée au grand jour: la société bourgeoise, sans idéal; la police dérisoire, formaliste, sans idée créatrice', Fadmirable organisation du gang. À ce degré, tout est virtuellement possible, le meurtre individuel aussi bien que le meurtre collectif (troisième Reich)». Sono osservazioni che corri­ spondono alla realtà del film, anche se suonano lievemente esa­ gerate (attribuire a Lang una esplicita condanna del fascismo che stava per soffocare la repubblica di Weimar significa sovrapporre a Mintenzioni incongrue, esorbitanti dal tema. Non ce n’è nem­ meno bisogno, perché il film è importante anche così come appare). E non basta dire che si tratta di un’opera imperniata sul­ le preoccupazioni sociali e sull’anarchismo. Siamo ancora al disotto della comprensione (oltre tutto, non potremmo esclude­ re che l’accenno all’anarchia sia fuori posto). Se M ha un valore nella storia del cinema, questo valore ripo­ sa quasi esclusivamente nelle sue qualità satiriche. Il film è, prima di ogni altra cosa e meglio di qualsiasi altra cosa, una satira acre, brillante, a volte sottile a volte aggressiva ma sempre spietata, del­ la società tedesca prenazista e dell’“anima tedesca” in generale. Questo doppio aspetto va tenuto presente se si vuole afferrare il significato completo dell’opera. Il riferimento, che più avanti abbiamo fatto, alFO^m da tre soldi di Brecht ci serve ancora. Lo spunto della satira di M nasce indubbiamente di lì, ma le vie che seguono i due autori sono diverse. Politicamente più impegnato, con una visione del mondo più schematica e ferma, Brecht con­ danna in blocco la società borghese, mostrandone il rovescio del­ la medaglia e distruggendone ferocemente tutti gli idoli (l’amo­ re, l’onore, l’amicizia, l’onestà, la giustizia, la rispettabilità, il matrimonio). Lang non pronuncia condanne ma osserva con l’a­ cutezza dell’analista spregiudicato quanto accade intorno a lui. Ciò che vede è ridicolo, assurdo, stravagante. Sono vecchie fìsime 6

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La madre di Lang era ebrea. \n.d.c.\

della rispettabilità e della “efficienza” tedesca di sempre; sono ottusità mentali che si ritrovano in ogni strato della società (Lang tende a generalizzare); sono difetti di una organizzazione ammi­ nistrativa traballante. I personaggi di Brecht risultano più solidi ma anche più astratti, come emblemi delle piaghe di una società. Quelli di Lang sono caratterizzati più minuziosamente, sulla traccia della realtà. Corrono il rischio, in qualche episodio (per esempio, i compari che litigano nella birreria) di essere banali, ma sono qua­ si sempre concreti, frutto di una puntigliosa precisione. Questi tedeschi-burattini che vediamo nel film - a cominciare dall’as­ sassino “innocente” per passare attraverso Schrànker, Lohmann, il ministro dell’interno, il capo della polizia, i quattro capibanda, e finire con alcune figure appena schizzate di malviventi, nella scena del “processo” — sono la deformazione satirica dei principa­ li tipi umani che pullulavano nella Germania 1930. M finisce per essere non il ritratto di un individuo, ma il ritratto collettivo del tedesco del nostro secolo, incollato alle virtù e ai difetti del proprio paese e della società che predilige. Può darsi che Lang vada anche contro la storia, raffigurando il tedesco in tale modo e ignorando i fermenti di insoddisfazione e di cosciente rivolta di cui si erano veduti i segni nel dopoguerra, ma questo non gli impedisce di essere mordace e sferzante come raramente è stato il cinema in Germania, prima del nazismo. Da Brecht, personalità più robusta della sua non ancora eccezionale all’epoca di Mahagonnf e dell’ Opera da tre soldi, ha assimilato il gusto della satira, pur non assimilandone l’impostazione. E un’al­ tra cosa ha assimilato, che in Msi rivela preziosa: la scanzonatu­ ra e i ritmi di balletto, così vivi nell’Opera da tre soldi e così felici, a volte, nel film (ricordiamo le due sequenze migliori in tal sen­ so: l’irruzione della polizia nella bettola del “Verbrecherviertel”

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II titolo completo dell’opera di Brecht è Ascesa e caduta della città di Mahagonny (AufitiegundFallderStadtMahagonny, 1928). \n.d.ci\

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all’inizio, e l’episodio della banda che mette a soqquadro, quasi danzando, la banca). Afe, in definitiva, un girotondo di buratti­ ni mossi da differenti ma sempre meschine passioni, che, defor­ mate, acquistano una loro grandezza. Tutta la forza satirica del film, se forza ha, risiede in questo nucleo, così stranamente incompreso dalle storie del cinema. («Bianco e Nero», a. XXI, n. 3-4, marzo-aprile I960, pp. 107-118)

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Die Dreigroschenoper Ritratto del Pabst prenazista

L’opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper) è, forse, il film più significativo di Georg Wilhelm Pabst. Composto nel pieno della crisi che avrebbe travolto la Germania democratica ha il valore di una accorata profezia.1 Alcuni storici del cinema lo inquadrano in una trilogia “sociale”12 che comprenderebbe - prima - Westfront 1918 e — immediatamente dopo — La tragedia della miniera (Kameradschafty. una condanna della guerra nello stile del pacifi­ smo umanitario e un appello alla solidarietà internazionale del proletariato. Più espliciti nella tematica, questi due film; più sfu­ mato L’opera da tre soldi, una “extravaganza” (così la definì Paul Rotha e, in genere, la critica inglese che usa il termine comune­ mente, in varie accezioni) dalla quale era lecito attendersi un impegno minore e significati più blandi. Dubitiamo, per principio, di questi giudizi troppo fermi. Dubitiamo della esistenza di una trilogia e dubitiamo ancor più della “minimizzazione” che, in tale ambito, ha subito L’opera da tre soldi. Che cosa hanno da spartire fra loro, i tre film, se non una generica presa di posizione contro i mali degli “anni ’20” in Europa (il militarismo rinascente, il capitalismo reazionario e la degenerazione della società borghese) ? Troppo poco per favoleg­ giare di trilogia. E quale organica debolezza avrebbe la “extrava­ ganza” brechtiana per apparire meno approfondita, verso il suo tema, degli altri due film? E sufficiente la veste operettistica per relegare il tentativo satirico a un livello inferiore? Non diremmo che queste domande corrispondano alla realtà. Di più, ci vinco­ lerebbero, se continuassimo a mantenerle vive nella memoria, e 1 2

La “prima” ebbe luogo a Berlino, il 19 novembre 1931. In E. M. MARGADONNA, Cinema, ieri e oggi, Milano, Domus, 1932, si legge: « Westfront pub essere considerato il primo dramma di una trilogia che si con­ clude con Kameradschafì».

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ci vieterebbero la comprensione dell’ Opera da tre soldi. Era dove­ roso accennarle, perché proprio su di esse ha voluto esercitarsi la storiografia, ma è ora altrettanto doveroso metterle da parte per affrontare liberamente il film. Prima di dire, come abbiamo detto in principio, che L’opera da tre soldi è una profezia, avremmo dovuto ricordare che è lo specchio di una crisi generale con varie facce. Cominceremo da quella cinematografìco-industriale, che esplose con l’avvento del sonoro. L’industria americana (in quel momento attivissima per consolidare la propria egemonia) e l’industria europea più evolu­ ta (la tedesca) stavano stringendo rapporti di collaborazione sul­ la base che sembrava economicamente più sicura: la commedia musicale. Gli americani agivano spinti dalla molla espansionisti­ ca; i tedeschi (e, in sottordine, i francesi) tentavano di assicurarsi sbocchi commerciali fuori d’Europa, poiché il crollo del cinema muto aveva minacciato la vita stessa dell’industria. Due tradizio­ ni culturali confluirono nella manovra finanziaria e ne garantiro­ no il successo per un certo periodo di tempo: da una parte la radice teatrale della “musical comedy” americana; dall’altra l’o­ peretta austrotedesca (e, in misura minore, il vaudeville francese). Gli anni intorno al ’30 videro il pullulare di film musicali euro­ pei, più o meno sostenuti dall’apporto del denaro americano; senza infittire l’esemplificazione, basterà che si citino, per il 1930, i tedeschi I tre della stazione di servizio {Die Drei von der Tankstellé) di Thiele, Due cuori a tempo di valzer {Zwei Herzen in 3/4 Taki) di Bolvàry, il francotedesco II piccolo Caffè {Le petit Café) di Berger, il francese Sotto i tetti di Parigi {Sous les toits de Paris) di Clair, e per il 1931 i celebri II congresso si diverte {Der Kongress tanzt) di Charell e II milione {Le Million) di Clair. Era una strada benvista da tutti, perché redditizia senza sforzo, tema­ ticamente priva di impegno, amabilmente scacciapensieri in un’epoca in cui il pubblico era afflitto dalla più grave incertezza economica. Il capitalismo tedesco-franco-americano aveva sco­ perto la gallina con le uova d’oro, nella sua doppia e naturale incarnazione economica (buoni profitti) e ideologica (il “sogno a 52

occhi aperti”). L’opera da tre soldi nacque, come fatto industriale, sotto questi auspici. Fu una produzione congiunta To bis-Warner Bros., realizzata a Berlino in versione tedesca e francese.3 Frutto di crisi industriale, alla stessa stregua delle altre “cineoperette” che uscivano dagli studi tedeschi francesi e hollywoodia­ ni (convertiti al sonoro per necessità di sopravvivenza), il film di Pabst si trovò contemporaneamente al centro di una seconda cri­ si, più profonda e — dal nostro punto di vista — più importante. Fu la crisi tecnico-tematica che scaturiva dal testo di origine, do­ perà rivoluzionaria di Bertolt Brecht. La matassa si presenta intri­ cata, difficile da sdipanare. Brecht aveva illustrato il senso del suo teatro controcorrente in questo modo: «L’opera da tre soldi mette in questione le concezioni borghesi non solo come contenuto, in quanto cioè le rappresenta, ma anche per la maniera nella quale le rappresenta. E una specie di referendum su quello che lo spet­ tatore desidera che il teatro gli mostri della vita. Ma poiché egli vede nello stesso tempo anche alcune cose che non desidera vede­ 3

Abbiamo preso in esame la versione tedesca, interpretata da Rudolf Foster, Carola Neber, Fritz Rasp, Valeska Gert, Lotte Lenja, Vladimir Sokolov, Reinhold Schunzel, Herman Thimig, Paul Kemp (la copia visionata è stata cortesemente fornita dalla Cineteca italiana — Archivio storico del film — di Milano). La versione francese era interpretata da Albert Préjean, Odette Florelle, Gaston Modot, Lucie de Mathat, Margot Lion. Kurt Weill trasferì sul­ lo schermo alcuni dei “songs” più suggestivi della sua partitura teatrale, adat­ tandoli alle nuove lunghezze — in genere più stringate — volute dal regista. In ciò — e nella elaborazione della tessitura musicale che sottolinea i racconti del cantastorie fra un episodio e l’altro — fu coadiuvato da Theo Mackeben, fecondo musicista del cinema tedesco. Il Mackeben — ricordiamo di sfuggita — diresse l’orchestra che accompagnava l’esecuzione teatrale dell’Opera da tre soldi al “Theater am Schiffbauerdamm” di Berlino (regia di Erich Engel, sce­ ne di Caspar Neher). Una curiosità ancora: nel cast tedesco si sarà notato il nome della moglie di Kurt Weill, Lotte Lenja, che nel film interpreta la par­ te di Jenny. La musica del Weill — così universalmente nota — non ha bisogno di commenti particolari. Basterà dire che mantiene intatta la sua forza evoca­ trice anche costretta nei “tempi brevi” e negli adattamenti imposti dal diver­ so ritmo cinematografico. E molto meno “presente”, ma non è per questo meno efficace.

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re — poiché cioè vede i suoi desideri non solo realizzati ma anche criticati (vede se stesso non come soggetto ma come oggetto) — è in grado, in linea di massima, di assegnare al teatro una nuova funzione».4 Formalmente l’Opera da tre soldi brechtiana è una fusione di operetta e di “varietà”; strutturalmente, al di là della forma ester­ na, è un tentativo di scardinare sia l’impianto dell’operetta che quello del teatro di varietà per istituire un dialogo fra l’attore e lo spettatore, e per costringere il pubblico ad affrontare le idee che il testo gli offre invece di subirle nello stato di suggestione “nar­ cotica” proprio del teatro tradizionale, borghese. Non discutia­ mo, per ora, l’efficacia di questo procedimento. Anzitutto, chia­ riamolo. In un altro scritto, a proposito del precedente singspiel Mahagonny (1928), Brecht insiste sulla nuova teorizzazione del teatro: «Qual è l’atteggiamento del pubblico dell’opera, e può esso mutare? Precipitatasi fuori da tranvie e ferrovie sotterranee, avida di trasformarsi in cera fra le mani dei maghi, gente adulta, temprata e resa inesorabile dalla lotta quotidiana per l’esistenza, prende d’assalto i botteghini dei teatri. Nel guardaroba, assieme al cappello, abbandonano il loro contegno abituale, il loro modo di comportarsi nella vita\ e usciti dal guardaroba prendono posto in sala con atteggiamento di regnanti. E il caso di farne loro una colpa? Per trovare ridicolo il loro comportamento sarebbe neces­ sario non preferire l’atteggiamento regale a quello dei commer­ cianti di formaggi. A teatro questa gente prende un atteggiamen4

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B. BRECHT, Osservazioni su “L’opera da tre soldi”, in E. CASTELLANI — R. MAR­ TENS (a cura di), Teatro — Vol. 1, Torino, Einaudi, 1951. Il brano successivo appartiene al Saggio sull’opera (a proposito di Mahagonny) compreso nello stesso volume. I frammenti che più avanti citeremo, dell’Opera da tre soldi, sono tradotti da Emilio Castellani. Una osservazione marginale: se non fosse ormai troppo tardi per opporsi a una vecchia, proporremmo si adottasse, una volta per sempre, la esatta e comprensibile traduzione del titolo, e cioè “L’o­ pera da quattro soldi”, non avendo il “tre soldi” alcun significato in italiano. Ma sarà, com’è naturale, una proposta al vento. Dovremo continuare a tener­ ci l’ermetico L’opera da tre soldi. In francese, com’è noto, testo teatrale e film si intitolano, correttamente per quella lingua, L’opera de cyuat sous.

to che non è degno di loro. È possibile che lo cambino? Non si potrebbe indurli a tirar fuori i loro sigari? Poiché dal punto di vista tecnico il contenuto si è mutato in elemento autonomo ver­ so il quale testo, musica, scenografia prendono posizione, per il fat­ to che rinunciando a fomentare illusioni si è creata la possibilità di discutere, ed essendo lo spettatore messo in grado non già di provare delle emozioni ma di dovere, per così dire, dare il proprio voto, non già di identificarsi ma di prendere posizione verso ciò che gli si mostra, si è dato in tal modo inizio a una trasformazio­ ne che oltrepassa di gran lunga la sfera formale e che incomincia a considerare la funzione vera e propria del teatro, la sua finizio­ ne sociale». Non più il pubblico re onnipossente (e, proprio perché onni­ possente, schiavo) ma il pubblico votante. Non più suggestione drammatica ma, quasi, comizio. Con questo spirito, Brecht adattò la vecchia e ancora popolare (in Inghilterra) Opera del mendicante {The Beggars Opera) di John Gay5 ricavandone uno spettacolo che ottenne successo enorme in Germania (fu il primo vero successo dell’autore). E interessante notare che anche Gay aveva preso, a suo modo, posizione, chiedendo al pubblico lon­ dinese di fare altrettanto. Satira dei costumi contemporanei (la vita cittadina nell’Inghilterra del premier Walpole, durante il ter­ zo decennio del Settecento), L'opera del mendicante si inseriva assai bene nel quadro letterario dell’epoca, dominato dalle figure di Jonathan Swift (nel 1726, due anni prima della rappresenta­ zione dell’opera, erano usciti i Viaggi di Gulliver — Gulliver's Tra­ vels — e lo stesso Gay era amico e collaboratore dell’irlandese) e di Alexander Pope, poeta di aspro umore polemico. Anche Gay, inoltre, mirava, se non a scardinare, almeno a punzecchiare il tea­ tro lirico nelle sue forme imperanti (quelle italiane), e ciò fece non solo capovolgendo la concezione del personaggio operistico - non più eroe bensì straccione; rifiuto della società - ma para­ frasando addirittura, nel litigio fra Polly e Lucy, le due mogli di 5

L’opera di Gay è del 1728. [n.d.c.]

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Macheath, un (allora) notissimo scontro di “prime donne” della lirica d’importazione. Nel prologo dell’Opera del mendicante, l’“attore” sentenzia: «Le Muse, contrariamente alle altre signore, non fanno alcuna distinzione fra i vestiti e mai, nemmeno in par­ te, scambiano la vivacità degli ornamenti con lo spirito, né la modestia del bisogno per insipienza».6 Di rincalzo, il “mendican­ te”: «Ho introdotto le similitudini che sono in tutte le vostre cele­ bri opere: la rondine, la farfalla, l’ape, la nave, il fiore, ecc. Inol­ tre, ho una scena di prigione, che le signore riconosceranno sem­ pre come stupendamente patetica. In quanto alle parti, ho man­ tenuto una tale squisita imparzialità verso le nostre due primedonne che è impossibile che alcuna di loro si offenda. Spero di essere perdonato per non aver reso la mia opera del tutto innatu­ rale». Dal cielo del mito e della storia epica si scende alla prosaica realtà. Si narra di uno strozzino che organizza la mendicità lon­ dinese, di molte sgualdrine, di un temuto criminale e della sua banda, delle prigioni, della forca e di tutto quell’underworld che mai l’opera italiana avrebbe messo in scena. Si parla chiaro, in linguaggio sarcastico: «Quando critichi i tempi sii prudente - i cortigiani si possono offendere; quando nomini vizio e corruzio­ ne - ognuno può gridar: ce l’ha con me». Infatti, nei personaggi sono adombrate figure di primo piano della vita inglese. Brecht non ha avuto un compito difficile: gli è bastato trasferire i perso­ naggi alla fine dell’ottocento, mantenendo quasi tutte le loro avventure e aggiungendovi una più rigida “presa di posizione”, che non colpisce un diffuso costume ma una classe. Inoltre, spez­ zettando l’azione in una serie fittissima di brevi scene, di canzo­ nette, di scherzose allocuzioni al pubblico (il tessuto drammatico viene, per dir così, “rivoltato”, e a ogni istante si distrugge l’illu­

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Questo brano, e gli altri che riferiremo, sono tratti dalla traduzione italiana

di J. Gay, The Beggar’s Opera. L’opera del mendicante, opera-ballata in tre atti e otto quadri, versione integrale e prefazione di Vinicio Marinucci. Torino, Il Dramma-SET, 1943.

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sione scenica: l’attore interpreta il personaggio e nello stesso tem­ po lo spiega), conduce un esame feroce sulla “funzione sociale” del teatro. Cosicché, L'opera da tre soldi è, insieme, una satira del­ la società e un manifesto per il nuovo teatro (quello che sarà poi {'episches Theater — il teatro narrativo - da Brecht attuato nelle opere maggiori: Santa Giovanna dei macelli — Die heiligeJohanna der Schlachthofe, La madre — Die Mutter, Vita di Galilei — Leben des Galilei, L'anima buona di Sezuan — Der gute Mensch von Sezuan). Sarà il teatro che «rinuncia a fomentare illusioni» e «crea la possibilità di discutere».7 Il risultato è confuso e, nella sua confusione, ricco di fascino. Brecht scherza sullo sbalordimento del pubblico, sottoponendo­ lo allo spettacolo di continui fuochi di artifìcio e irridendo senza posa l’armamentario dei “colpi di scena” propri del dramma bor­ ghese. Ciò toglie forza all’impianto generale dell’opera e annulla, anche nello spettatore più disposto a tenere gli occhi aperti sul mondo e a “discutere” di tutto, la capacità di seguire un filo con­ duttore da cui emergano, fusi, i significati della storia. La dupli­ ce “rivoluzione” tentata da Brecht (condanna della società capi­ talistica, ripudio del teatro “gastronomico”) riesce solo in piccola parte. Per quanto lucido nel rifiuto della realtà tedesca borghese, il drammaturgo di Augusta rimane figlio del suo tempo, delle incertezze e del caos politico-morale che lo domina. Finisce, in qualche punto, per esserne schiacciato e, paradossalmente, per offrire armi al nemico - l’industria della cultura “gastronomica” - che combatte. Il pubblico gli decreta un trionfo proprio per questo: è cosi radicale, e in fondo astratta, la “rivoluzione” predi­ cata sulla scena che la si può anche considerare una divertente bizzarria. Prodotto di crisi, nella sua struttura e nei risultati, L'o­

7

Sul significato della “rivoluzione” teatrale di Bertolt Brecht e, in genere, sui motivi ideologici e artistici dell’opera del drammaturgo può essere utilmente consultato il saggio di P. CHIARINI {Bertolt Brecht, Laterza, Bari, 1959), che fornisce, insieme a gran copia di documenti indispensabili, un’analisi rigoro­ sa del problema.

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pera, da tre soldi era l’operetta meno idonea a finire sugli schermi del cinema, industria “gastronomica” per eccellenza. E giunto il turno di Pabst e dei suoi collaboratori. L’opera da tre soldi non poteva essere un film sperimentale perché usciva normalmente dai laboratori dell’industria. Inoltre, facendo parte di un genere governato da precise regole economiche e ideologi­ che, doveva accettare alcuni compromessi tematici che esclude­ vano la possibilità di correre rischi: non v’era nemmeno da pen­ sare alle libertà concesse dal teatro, anche se la rappresentazione aveva dimostrato che la “rivoluzione” era meno pericolosa di quanto si fosse creduto. La “gastronomia” anzitutto. Come aggi­ rarla? Questo fu il problema degli sceneggiatori, Béla Bàlazs, Laszló Vajda (un mestierante esperto ma di vaghissima qualifica­ zione culturale) e il giornalista e romanziere Leo Lania (un russo che aveva lavorato due anni con Piscator e Reinhardt, e che ave­ va condotto sui giornali inchieste di notevole impegno politico). Iniziarono con una semplificazione formale, per ridurre l’opera di Brecht alla struttura di un film accettabile dalla pigrizia del pubblico (una storia il più possibile elementare con uno svolgi­ mento rettilineo, senza deviazioni). La ottennero eliminando la maggior parte delle canzoni e rendendo il “cantare” plausibile per il personaggio, ogni volta che costui ne avesse il destro (il canta­ storie fa il suo mestiere cantando; Polly canta alla festa di nozze perché si esibisce davanti alla banda; i banditi cantano in coro in segno di giubilo, ecc.) con la sola eccezione della Canzone dei cannoni lasciata allo stile operettistico ma inserita nel finale, qua­ si a chiusura. Il precetto di Brecht («L’attore, quando canta, com­ pie uno scambio di funzioni... Non deve soltanto cantare, deve anche mostrare uno che canta») è annullato a vantaggio della cre­ dibilità della storia e dei personaggi. Per la stessa esigenza furono soppressi tutti i punti in cui i personaggi — interrompendo il flui­ re della storia — si rivolgevano direttamente al pubblico. Dopo la semplificazione, le innovazioni, i tagli e le trasposi­ zioni. Di assolutamente nuovo gli sceneggiatori non introdusse­ ro nulla: nulla, cioè, che in germe non fosse già stato predisposto 58

da Brecht. Svilupparono, invece, alcuni spunti contenuti nel testo teatrale: dal racconto di Celia Peachum durante il diverbio con il marito all’inizio (scena prima dell’atto primo) ricavarono la lunga sequenza dell’albergo della Seppia (l’amore di Mackie e di Polly, la domanda di matrimonio, la presentazione della ban­ da, il ballo); dal racconto che Polly fa a Mackie (scena IV: prima del secondo atto), dal litigio fra Peachum e Brown-la-tigre in car­ cere, immediatamente dopo la fuga di Mackie (fine della scena VI: terza del secondo atto) e dal successivo diverbio fra gli stessi Brown e Peachum quando gli straccioni si preparano a scendere in piazza (scena VII: prima dell’atto terzo) estrassero, contami­ nandoli, gli elementi per costruire l’incontro fra i Peachum e Brown nell’uffìcio di quest’ultimo (la denuncia di Mackie, il ricatto della dimostrazione dei mendicanti); da una battuta di Mackie durante il colloquio con Polly nella già citata scena IV, prima del secondo atto («Gli utili netti li manderai d’ora in poi alla banca Jack Poole, a Manchester. In confidenza: è questione di settimane e poi trasferisco tutto nel ramo bancario. E più sicu­ ro e, insieme, più redditizio») tolsero l’idea per imbastire la storia — articolata in molti brani e fondamentale per la struttura del film — dell’attività bancaria di Polly; dai discorsi di Peachum, sparsi qua e là, presero l’avvio per la manifestazione dei mendi­ canti, alla quale aggiunsero l’intervento in extremis dello stesso Peachum, dopo che questi ha saputo della fiorente iniziativa di Polly. Nuovo, ma conseguenza logica della “variante bancaria”, è il finale con l’accordo a tre — Mackie, Peachum e Brown — che segna la nascita di una potente impresa “legale” in cui conflui­ scono le maggiori forze della società, ormai persuase che i miglio­ ri affari si fanno alla luce del sole, entrando apertamente nel gio­ co della organizzazione borghese. Questa, come vedremo, è la chiave di volta del film. Elaborato con una intenzione satirica che in Brecht già esisteva, ma sotto pallide forme, risulta il personag­ gio del curato, nella sequenza del matrimonio. Trascuriamo le innovazioni minori, tranne quella delle impazienze dittatoriali di Brown che, nel suo ufficio, pensa ad alta voce, dinanzi a un busto 59

di Giulio Cesare (sono le pennellate che servono a caratterizzare il tipo in modo autonomo) e quella — felicissima — del personag­ gio della sgualdrina Suky Tawdry, accennato da Jenny quando denuncia Mackie per la seconda volta (scena VII: prima dell’atto terzo) e presentato invece nel film, allorché Mackie sgattaiola in strada dopo essere acrobaticamente fuggito dal lupanare di Turn­ bridge. I tagli essenziali riguardano il personaggio di Lucy (è caduto quindi il contrasto fra la prima e la seconda moglie di Mackie; rimangono le manovre per la fuga di Mackie dal carcere, trasferi­ te però su Jenny) e il doppio arresto di Mackie, che Brecht giudi­ cava così importante per attuare la sua “rivoluzione epica”8 (la 8

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Così spiegava Brecht la ragione del doppio arresto: «Se considerata dall’an­ golo visuale della scuola pseudoclassica tedesca, la prima scena del carcere è un inutile allungamento', secondo noi è invece un esempio di forma epica pri­ mitiva. Essa è un allungamento se, seguendo il concetto drammatico pura­ mente dinamico che assegna la preminenza all’idea, si fa desiderare allo spet­ tatore una meta sempre più precisa (nel nostro caso la morte dell’eroe), si crea per così dire una sempre più forte domanda per l’offerta e, per rendere possi­ bile un’intensa partecipazione sentimentale dello spettatore — i sentimenti si arrischiano solo su un terreno assolutamente sicuro, non ammettono possi­ bili delusioni! — si applica un va sans dire in linea retta. La drammatica epica, d’impostazione materialistica, scarsamente interessata agli investimenti spiri­ tuali dello spettatore, non conosce alcuna meta, ma solamente un fine, e conosce un altro va sans dire, che può correre non soltanto in linea retta, ma anche compiendo delle curve e perfino dei salti. Oggi che l’esistenza umana deve essere concepita come l’insieme di tutti i rapporti sociali, la forma epica è la sola a poter esprimere quei processi che servono all’arte drammatica come sostanza di una comprensiva visione del mondo. Anche l’uomo, e proprio l’uomo carnale, può essere capito soltanto attraverso i processi nei quali si tro­ va e che condizionano la sua esistenza. La nuova forma drammatica deve pro­ porsi come metodo di accogliere entro di sé il saggio. Essa deve poter utilizza­ re ogni nesso in ogni direzione, abbisogna perciò di statica e ha in se stessa una tensione, che governa le sue singole parti e le carica reciprocamente (tale forma è perciò tutto l’opposto di un susseguirsi di scene sul tipo della rivi­ sta)». Va osservato — per l’importanza che ciò può avere nella comprensione del rapporto Brecht-Pabst — che a una teoria drammatica così precisa non corrisponde, nell’ Opera da tre soldi, una realizzazione pratica altrettanto esat-

scena VI - terza dell’atto secondo - scompare quasi compietamente; il terzo atto è pressoché soppresso, a parte alcuni elemen­ ti spostati nelle scene del carcere fra Mackie e Smith: e ciò anche perché gli sceneggiatori rinunciano alla finale schermaglia fra Mackie e gli amici sui quattrini necessari per corrompere la giu­ stizia, e alla liberazione “provvidenziale” grazie all’arrivo del mes­ so reale a cavallo). Le trasposizioni discendono dalle esigenze drammatiche delle nuove scene introdotte e dal significato che acquistano i tagli eseguiti. Per mostrarle con la maggior chiarez­ za possibile occorre sommariamente tracciare lo schema generale della storia. Nel quartiere di Soho, sullo sfondo delle navi ormeggiate ai moli, un cantastorie narra le avventure del capitano Macheath, il temuto bandito Mackie Messer. Costui esce da un postribolo, affettuosamente salutato dalle prostitute e si mischia alla folla. Incontra una ragazza accompagnata dalla madre: sono Polly e Celia Peachum. Le invita all’albergo della Seppia. Qui regna atmosfera di festa, si beve e si balla. Mackie chiede Polly in moglie. La ragazza accetta. Mackie dà ordini ai suoi accoliti, che sono tutti lì dentro: invitare alle nozze Brown il capo della poli­ zia, preparare la cerimonia e curare l’arredamento del “nido degli

ta e perspicua. Il Brecht artista è indietro, all’epoca di Mahagonny e dell’C^ra da tre soldi, rispetto al Brecht teorico. Il teorizzato “procedere a curve e a salti” della drammatica impostazione materialistica non rivela che in misura assai scarsa l’“insieme di tutti i rapporti sociali” nei quali è immerso l’uomo. Si tratta piuttosto di illuminazioni saltuarie, geniali a volte, che accrescono l’asprezza della satira ma che, nello stesso tempo, hanno il carattere dell’insi­ stenza gratuita, monomaniaca. Non sono, in altre parole, necessarie alla “reci­ proca carica delle singole parti”, ma risultano spesso divagazioni forzate. Cosicché lo spezzettamento dell’azione in curve e salti sfocia in un susseguir­ si di scene che ancora risente della struttura della rivista. Una rivista di nuo­ vo e curioso tipo (di qui il successo che le decretò il pubblico), che alla tradi­ zionale ironia o satira di costume sostituisce l’ambizione del saggio politico coerente: ma coerente solo perché si rifa a una rigorosa impostazione mate­ rialistica, e non perché si traduce in una forma drammatica che lo esprima compiutamente.

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sposi”. La banda si scatena: nottetempo mette a soqquadro le case più signorili e i negozi più eleganti di Londra. Nel suo ufficio, il capo della polizia strapazza gli agenti inetti. Giunge il “messo” di Mackie e consegna a Brown la lettera con cui gli si annuncia il matrimonio. In un magazzino seminterrato nei pressi del porto affluiscono i delinquenti con la refurtiva: mobili, stoviglie, cibi. La scena si anima a poco a poco. Alla presenza di un prete tremante, si cele­ brano le nozze, si banchetta e si fa baldoria. Con il frettoloso arri­ vo di Brown (amico di Mackie per la pelle) e con il coro dei ban­ diti davanti al talamo la sequenza si conclude (nell’originale, matrimonio e festa occupano la scena II dell’atto primo). Dopo un preambolo del cantastorie visto in principio, entria­ mo nel negozio di Jonathan Jeremiah Peachum (che Pabst carat­ terizza insistentemente come un ebreo, imponendo all’attore Fritz Rasp il cantilenare dell’yiddish, l’abbigliamento, i gesti e la truccatura con cui in Germania si suole caricaturare lo strozzino israelita). Questi accoglie e istruisce un nuovo mendicante, ne redarguisce alcuni altri e chiede della figlia Polly. Va a cercarla in camera sua, e non la trova. La moglie gli rivela che si è sposata con Mackie Messer (nell’originale, questa scena è all’inizio del­ l’atto primo). Rincasa Polly. Il padre la chiude in camera e la strapazza iste­ ricamente, rimproverandole di aver sposato un criminale. Polly resiste impavida all’esortazione di divorziare. Peachum e la moglie decidono di denunciare Mackie a Brown (nell’originale, è in parte la scena III del primo atto). Peachum e la moglie, nell’ufficio del capo della polizia, ricat­ tano Brown con la minaccia della manifestazione. Brown tergi­ versa. Ritorna il cantastorie ad annunciare guai per Mackie. Questi sta facendo un poco di contabilità, aiutato da un compare che scrive a macchina. Nel magazzino entra Polly per indurre Mackie a fuggire: la polizia lo cerca. Mackie dice addio alla sposa e le affi­ da la direzione dell’impresa. Polly assume subito il comando, con 62

molta energia (la materia di questa sequenza sta nella scena VI prima dell’atto secondo - dell’originale). Nel lupanare le prostitute conducono vita di famiglia. Chiac­ chierano di cose futili e innocenti. In strada, intanto, Mackie leg­ ge a una cantonata il bando che lo riguarda. Nel postribolo la moglie di Peachum convince Jenny ad avvertire la polizia quan­ do arriverà Mackie. E per questo “servizio” la paga. Ecco Mackie. Festa delle sgualdrine che gli si affollano intor­ no. Mackie si fa leggere la mano da Jenny, poi si apparta con lei. La ragazza fa un cenno dalla finestra. Irrompe la polizia con la moglie di Peachum. Mackie fugge sui tetti (è una sintesi della scena V - seconda dell’atto secondo - dell’originale, che termina con l’arresto di Mackie). In strada, Mackie fuggiasco incontra un’altra prostituta (la Suky Tawdry di cui si parla in Brecht). Entra in casa sua. Nel negozio di Peachum piomba la moglie dello strozzino per annunciare che le “ragazze” hanno fatto scappare Mackie. Pea­ chum salta il fosso: sfiderà Brown scatenando i mendicanti. Mackie esce dalla casa di Suky Tawdry. Senza accorgersene, finisce fra le braccia di un funzionario e di un agente, che lo arre­

stano. Rivediamo il cantastorie che si appresta a mostrare di quali diavolerie sia capace una donna. La donna è Polly, presidente di una banca, circondata dai compari del marito, ora impeccabil­ mente vestiti. Impartisce ordini, massime di alta finanza e ramanzine. Nella prigione di Old Bailey, Mackie riposa in cella. Si accor­ da con Smith sulla cifra da versargli per essere liberato dalle cate­ ne. Si odono i tamburi che accompagnano una esecuzione capi­ tale: un attimo di brivido. Smith gli domanda che cosa voglia per cena (sono ripresi alcuni frammenti della scena IX - ultima - del­ l’originale). Peachum ha raccolto nel negozio un esercito di mendicanti. Li arringa spiegando la necessità e la nobiltà dell’impresa. Prov­ vede all’organizzazione. Arriva la moglie di corsa ad annunciare 63

che Mackie e Polly ora possiedono una banca. Peachum subito si affanna per bloccare i mendicanti che già si sono avviati e che inalberano cartelli su cui sta scritto: «Non siate sordi all’appello della miseria», «Date e vi sarà dato», «Vittima dell’arbitrio mili­ tare» (corrisponde all’inizio della scena VII — prima dell’atto ter­ zo — dell’originale). Nella sede della banca Polly muove le sue pedine per liberare Mackie. Ritira 100 mila sterline dalla cassa e le invia a Brown. In prigione Jenny è più lesta di tutti. Corrompe Smith con la promessa di un convegno e libera Mackie. Brown ascolta i rapporti drammatici che giungono al suo uffi­ cio e ordina di agire spietatamente contro i mendicanti. Il messo di Polly gli consegna le 100 mila sterline. Brown telefona al car­ cere e apprende che Mackie è fuggito. Libero, Mackie si ritrova davanti al manifesto che promette una ricca taglia a chi lo catturerà. Incontra uno dei suoi, che lo informa delle 100 mila sterline consegnate a Brown. Mackie lo insulta. Si fa indicare la sede della banca di Polly. Sfila il corteo dell’incoronazione nel centro di Londra. La gente applaude la regina. Da una strada secondaria sbuca la tur­ ba dei mendicanti che sfonda i cordoni della polizia e costringe la carrozza reale a fermarsi. La regina osserva, infuriata, quei volti miserabili e accusatori; poi cede, si copre il volto con il mazzo di fiori che tiene in mano. Scoppia una gazzarra che la polizia (fra cui vediamo Brown-la-tigre, a cavallo, in grande uniforme di parata) non riesce a domare. Nella banca, Polly e Mackie, abbracciati, parlano di amore e di affari. Polly affettuosa dice al marito che d’ora in poi non dovrà più occuparsi di nulla. Affranto, dopo aver lasciato il caval­ lo fuori della porta, Brown varca la soglia della banca. Il corteo dei poveri sfila silenziosamente in una strada deserta. Nella banca compare Brown. Dopo lo scandalo, la sua carrie­ ra di capo della polizia è finita. Restituisce le 100 mila sterline. Mackie lo consola, gli offre whisky, scioglie un inno alla loro indistruttibile amicizia. Insieme cantano la Canzone dei cannoni 64

(nell’originale, questo duetto si trova verso la fine della scena II, atto primo). Giunge Peachum e propone un accordo a tre: il coraggio degli amici e la sua esperienza saranno garanzia di ottimi affari. Soddi­ sfazione generale. I tre intonano l’aria iniziale di Mackie Messer, e tessono l’apologià del denaro, l’unica cosa che conti nella vita: i poveri si arrangino. L’aria è ripresa dalla voce del cantastorie mentre gli straccioni scompaiono dal buio delle strade di Londra. Nel 1728, presentando L’opera dei mendicanti, John Gay si era preoccupato, illuministicamente, di non ignorare la vita e di esse­ re “naturale”. Due secoli dopo, nel 1928, Brecht si preoccupava non solo di essere “naturale” ma anche, marxisticamente, di spie­ gare il fondo e il nesso delle cose. Pabst, manipolando Brecht come abbiamo veduto, di che si preoccupava? Anzitutto, di elu­ dere la “gastronomia” odiata da Brecht, e questo non solo per uno scrupolo di traduttore nei confronti dell’originale ma anche per non rinnegare il proprio passato di critico della società bor­ ghese. Lo fece — l’analisi delle innovazioni, dei tagli e delle tra­ sposizioni lo dimostra — accogliendo della “gastronomia” impo­ sta dall’industria i principi formali (semplicità dell’azione, plau­ sibilità dei personaggi, suggestione emotiva, rifiuto delle divaga­ zioni) e cercando di fare apparire come connaturate a quella for­ ma — ossia inevitabili e dunque accettabili anche dalla ideologia “gastronomica” — alcune osservazioni sulle storture della società e una sconsolata previsione sull’avvenire della Germania. In altre parole, il regista affronta l’impresa disperata (ma, teoricamente, non impossibile) di utilizzare i mezzi offerti dalla ideologia domi­ nante come uno strumento che combatta l’ideologia stessa. L’allegoria e lo spostamento nel tempo (la fine dell’ottocento a Londra), nonché l’atmosfera “favolosa” della storia pur nella pignoleria naturalistica dell’ambientazione, rappresentano un comodo alibi. Ciò che per Brecht era un semplice pretesto, per Pabst diventa un’astuzia. La censura del governo Briining (nella 65

fase più critica della vita tedesca, a un anno dalle elezioni del ’30 che avevano registrato l’affermazione clamorosa del partito nazionalsocialista e il rafforzamento di quello comunista, quan­ do già stava maturando la decisione di Hindenburg di sciogliere il Reichstag e di formare un ministero di destra, extraparlamen­ tare) accettò pacificamente L’opera da tre soldi e concedette il visto per la proiezione, nel novembre del 1931 -9 Non vogliamo attri­ buire un’importanza eccessiva a queste faccende della censura, né intendiamo misurare sul suo metro l’implicita prudenza del regi­ sta; ci limitiamo a segnalare il fatto come “spia” di una certa con­ dizione personale e ideologica. Un’impresa disperata, quella di Pabst, s’è detto. Si trattava di ordire una beffa ai danni della società borghese, bersagliandola sotto il velo dell’allusione e sfug­ gendo allo scontro diretto. Siamo lontani da quell’estremismo di sinistra (o anarchismo o trotzkismo o come si voglia definirlo) che un severo recensore “retrospettivo” dell’C^ra da tre soldi, il Viazzi,10 credette di sco­ prire nelle pieghe del film. Alcune varianti apportate da Pabst all’originale (la fraternizzazione di Mackie e Brown, che accentua la connivenza fra il peggiore bandito di Londra e il capo della polizia; la dimostrazione dei mendicanti, che esprime aperta­ mente la rivolta degli oppressi) farebbero supporre la presenza di una posizione estremistica, destinata poi a sfociare in uno “pseu­ domoralismo” inconcludente e sterile. Queste “accentuazioni” (e molte altre che abbiamo già esaminato: per esempio l’albagia e la viltà di Brown; la caratterizzazione satirica del prete pusillo alle Diverso fu il comportamento dei nazisti giunti al potere. 1110 agosto 1933 — un mese dopo lo scioglimento di tutti i partiti politici — la “Filmpriifstelle” revocava il permesso e metteva al bando L’opera da tre soldi. Nel dopoguerra, le autorità sovietiche di occupazione lasceranno circolare il film nella zona da loro controllata. 10 G. VlAZZI, Die Dreigroschenoper, nella rubrica «Retrospettive», in «Cinema», a. II, 15 aprile 1949 [n. 12, pp. 376-378. Ora in G. VlAZZI, Scritti di cinema — 1940-1958, a cura di C. Bragaglia, Milano, Longanesi, 1979, pp. 280285].

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nozze; la sfrontatezza dei criminali-banchieri; il disperato volta­ faccia di Peachum che, per non perdere la possibilità di un affare in grande, tenta di impedire ai mendicanti la dimostrazione con­ tro il corteo reale; la sconfìtta di Brown che si rifugia nelle brac­ cia del suo antagonista-amico) si spiegano meglio se le si ricon­ duce allo stile narrativo e figurativo in cui Pabst ha trasfuso la sua ideologia. Giacché di una cosa almeno si può essere certi: che il regista ha puntato - attraverso lo sviluppo drammatico, la recita­ zione, gli effetti luministici, la scenografìa che fa strettamente corpo, attimo per attimo, con la storia - su una deformazione grottesca dell’opera brechtiana. Il tono prevalente si avvicina assai più alla caricatura che non all’accusa estremistica. Non è il grez­ zo contenuto delle scene ma lo stile in cui esso si esprime, ciò che svela l’atteggiamento dell’autore. I personaggi. Macheath-Mackie Messer è un bellimbusto vec­ chiotto, impettito come un gallinaccio, con lo sguardo “assassi­ no” e i gesti legnosi: non possiede che in minime dosi la vitalità, la prepotenza e il cinismo dell’originale. E una parodia di bandi­ to, una stilizzazione. Brown-la-tigre non conosce l’aggressività del suo modello teatrale; propende piuttosto per la vanità, l’idio­ zia, il gesto sbruffone che maschera la paura (il “rapporto” ai poli­ ziotti, dopo i furti notturni della banda di Mackie, lo dipinge come un minchione che posa a dominatore). Peachum è addirit­ tura la macchietta dell’ebreo come la poteva concepire (questo sì che può essere un sintomo grave della successiva involuzione di Pabst) un antisemita non tanto per convinzione o astio quanto per conformismo. Polly non è l’aspirante sgualdrina che cede al mito del grande amore (come in Brecht) ma il ritratto ironico della donna emancipata, figlia del progresso. Jenny, smessi i pan­ ni della foia e dell’abiezione, è una donnetta gelosa che sa far i tacere i propri rancori (una caricatura della buona^/Z? dejoie., un personaggio tipico dell’epoca: l’ultima erede - come osserva il Kracauer - delle prostitute tedesche del cinema e del teatro).11Il Il S. KRACAUER, Cinema tedesco, Milano, Mondadori, 1954. Le pagine che il

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Gli ambienti. Rivelano tutti — grazie alla sapienza di uno sce­ nografo di classe come l’Andreiev — una voluta forzatura della realtà. Le case e la piazza dell’inizio, l’albergo della Seppia (con il salone dalle pareti ingenuamente istoriate; le vetrate che separa­ no le stanzette laterali), il magazzino di Mackie (con la lunga sca­ la di legno e le enormi botti), il negozio di Peachum (i manichi­ ni appesi alle pareti, la scrivania ingombra di carte, il sudiciume sparso), il lupanare (è la scena-capolavoro di Andreiev: il cattivo gusto borghese dell’arredamento costituisce lo sfondo ideale per i teneri discorsi delle prostitute che pettegolano — è il giorno del­ l’incoronazione — sulla biancheria intima della regina), la banca e la prigione, nude e imponenti nella loro mancanza di stile archi­ tettonico (sembrano fuori del tempo, a rispecchiare una realtà sognata o temuta, ma poco nota) testimoniano d’una unità di ispirazione che docilmente si accorda con la vena caricaturale di Pabst.12 In questi ambienti agiscono bizzarri personaggi di un mondo scomparso. Tocca allo spettatore situarli nel suo, imma­ ginandoli come una deformazione e una sintesi di numerosi “tipi” che ha ogni giorno a portata di mano. E la connivenza che lega Mackie e Brown? Esisteva già in Bre­ cht, più netta, gettata in faccia al pubblico con asprezza maggio­ re. La dimostrazione dei mendicanti, allora? Brecht non la metKracauer dedica siV Opera da tre soldi sono molto interessanti. Vi si trova, fra l’altro, un parallelo fra la rappresentazione teatrale del 1928 e il film. Per quanto riguarda, specificamente, il problema della “collocazione” del film, Kracauer ignora il motivo della supposta trilogia e considera da tre soldi come un fatto a sé stante. Dove, invece, insiste, è sul confronto fra Westfront 1918 e La tragedia della miniera, espressioni di due diversi tipi di paci­ fismo; e si tratta di acute osservazioni che possono illuminare l’atteggiamen­ to ideologico del regista anche verso l’Opera da tre soldi. La tragedia della miniera, infatti, è una conseguenza non solo di Westfront 1918 ma anche del­ la “extravaganza” brechtiana. 12 Un’analisi eccessivamente encomiastica ma accurata della scenografia e dei valori figurativi dell’ Opera da tre soldi la si può leggere nella recensione che Paul Rotha dedicò al film nel 1931. E compresa nel volume Celluloid: The Film To-Day, London, Longmans, Green and Co., 1933.

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teva in scena ma la descriveva idealmente - quasi che già si svol­ gesse sotto i suoi occhi — con le infuocate minacce di Peachum (scena VII, prima del terzo atto), dinanzi alle quali l’“estremismo” di Pabst diventa giulebbe. E ciò vale sia per quel che il film ha tratto dal testo brechtiano sia per quel che mostra in proprio, come novità. Non si nega la potenza figurativa del corteo del mendicanti, e dell’attimo di muta tensione nel quale culmina il suo scontro con la regina, ma giriamo pur sempre nel cerchio del grottesco. Che Pabst sia andato - qui e anche altrove - sopra le righe, è evidente: trascinato da una concitazione che non era nei suoi scopi, ha rotto in qualche punto l’unità stilistica del film per il gusto del bell’effetto isolato. A lui - rammentiamo - non è mai dispiaciuto sfoggiare la propria bravura. La conferma dell’atteggiamento di cauta ironia adottato dal regista lo troviamo nel rifiuto di trattare i problemi sessuali. E diffìcile piegare il sesso ai modi della deformazione grottesca se non si vogliono commettere errori di gusto, e Pabst non vuole commetterli. Sicché, i personaggi principali (Mackie, Polly e Jenny) risultano amputati della componente sessuale, che in Bre­ cht è fra i cardini maggiori della satira antiborghese. Quando Mackie si rifugia nel lupanare, lo fa per sentirsi al sicuro piutto­ sto che per l’impellente bisogno di sbracarsi fra le donne (com’è in Brecht), e il film non sfiora nemmeno il tema che il testo tea­ trale affronta con un gusto particolare. Pabst non accenna né alla Ballata della schiavitù sessuale («Molti ne han visti finir male diverse teste forti son cadute nel laccio - E quelli che guardava­ no, avevano un bel giurare - quando son morti, chi li ha sotter­ rati? Le puttane - Che lo vogliano o no, sono sempre pronti Questa è la schiavitù sessuale») né alla intenzionalmente laida Ballata del magnaccia (Canta Jenny: «In quel tempo ormai lonta­ no - lui mi fregava anche diverse volte - e se non c’erano soldi, me le dava - Bada, diceva, ti impegno la camiciola! (Certo, ci vuole, ma se ne fa anche senza) - Allora anch’io facevo la vipera, capite — e gli dicevo chi credeva d’essere — e lui allora mi mollava una sberla - da mandarmi magari all’ospedale»). Evitando accu­ 69

ratamente di scendere sul terreno scelto da Brecht, il regista rinuncia a misurarsi con uno dei tabù più importanti della mora­ le borghese. Ed è certo, per lui, una rinuncia non da poco, se si pensa che proprio su questi problemi erano imperniati tre suoi film precedenti {Crisi — Abwege e Lulu — Il vaso di Pandora — Die Buchse der Pandora del ’28, Diario di una donna perduta — Dos Tagebuch einer Verlorenen del ’29). Esperienze di grande impe­ gno, che fecero classificare Pabst fra gli autori più sensibili alle inquietudini sessuali della società contemporanea.13 Fu prudente, Pabst, per non irritare i produttori, o avvertì che il suo interesse per tali problemi stava scemando, tanto da non ritenerli più essenziali come per il passato? Sono esatte entrambe le ipotesi, ma la seconda ha forse maggior peso. Il regista andava progressivamente infiacchendosi: la lotta («Il nostro compito, di noi registi che viviamo in regime capitalistico — aveva detto in una dichiarazione citata dal Viazzi — è quello di combattere il capitalismo dall’interno») lo aveva logorato. La successiva Trage­ dia della miniera fu l’ultimo ritorno di fiamma, estremo guizzo di un uomo che era sul punto di arrendersi all’inevitabile (e questo stesso film, del resto, fu un tipico prodotto della sfiducia). Atlan­ tide {Die Herrin von Atlantis, 1932), Don Chisciotte {Don Quichotte, 1933), DalTalto in basso {Du haut en bas, 1933), Un eroe moderno {A Modem Hero, 1934), Mademoiselle Docteur (1936) appariranno come le conseguenze naturali di quella stanchezza. Sulla linea degli interessi umani del regista, Doperà da tre soldi avrebbe potuto essere l’occasione felice per un incontro fra lo psi­ cologo che aveva sottilmente esaminato le deviazioni della ses­ sualità e il sociologo che cercava di porre a nudo il volto della società borghese. Pabst non volle coglierla. Non ci possono più essere dubbi: abbiamo davanti a noi il riflesso di una crisi profonda. Quantunque non scevra da con­ traddizioni (alludiamo ai “brani sopra le righe” nel corteo dei 13 Per una informazione più esauriente sui tre film, e sulla loro importanza nel­ la carriera di Pabst, rimandiamo ancora al già citato volume di S. Kracauer.

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mendicanti), L'opera da tre soldi rivela con chiarezza sufficiente uno stato d’animo incerto, angosciato, roso dallo scetticismo. Pabst domina la propria materia e la coordina secondo un filo preciso, ma più il film procede e più constatiamo che si tratta di un dominio formale e meccanico. Che la scenografìa si risolva in una esasperazione grottesca del realismo, che la recitazione tenda alla deformazione caricaturale dei caratteri, che gli episodi si suc­ cedano esattamente sul ritmo di un ironico pamphlet contro i mali della borghesia, ognuno lo deve ammettere. Ma, sotto le puntuali esasperazioni la caricatura e l’ironia, non troviamo il “mordente” tematico necessario a giustificarle, a renderle essen­ ziali ed efficaci. La parodia di una società (quella tedesca prenazi­ sta allusivamente trasformata in un’Inghilterra di maniera) si riduce - fra le mani deboli di Pabst - a una elegante pittura dei costumi. A questo punto, non occorre più esemplificare con minuzia. Un cenno ai molti (e anche gustosi) incidenti che accadono nel­ la sequenza all’albergo della Seppia, o alle furie dei Peachum con­ tro la figlia, o alle “irriverenti” insinuazioni delle prostitute sulla regina, o ai terrori del povero Brown-la-tigre, e il quadro si illu­ mina facilmente. Ma più ancora si illumina - e, diremmo in modo definitivo - se riprendiamo l’esame della “novità” fonda­ mentale dell’ Opera da tre soldi cinematografica: la trasformazio­ ne dei delinquenti in banchieri e l’accordo finale tra Mackie, Brown e Peachum. Scaraventare Polly, moglie in angustie, alla presidenza di una banca, farla parlare con la risolutezza di un uomo di affari, darle il piglio di un generale in piazza d’armi, è cosa spassosa. Ma a che mira l’attacco contro la società borghese? Si vuol sostenere che anche i criminali possono fare carriera? Non proprio. Polly agisce così perché è una donna innamorata: prima deve servire il marito, curandone gli affari; poi deve salvarlo. L’i­ ronia diventa un poco fine a se stessa. L’episodio bancario è uno scherzo che non va preso troppo sul serio. Pabst, come lo spetta­ tore, si diverte, non approfondisce. Arriviamo alla fine. Mackie viene in soccorso del derelitto 71

Brown. Lo associa alla sua impresa per essere fedele a un’antica amicizia. Un bel gesto. Poco dopo compare Peachum. E l’astuto che ha capito tutto. Offre i suoi servigi e viene accolto nella società. Saranno tre soci imbattibili, una nuova banda rispettabi­ le e onnipotente. L’accordo è siglato in un’atmosfera di comica congiura, fra lazzi e cantatine, nella grande sala invasa dall’om­ bra, con le figure dei protagonisti più volte inquadrate dal basso. Sono i nuovi padroni del mondo, i furbi che si arrangiano e che finiranno per incutere paura al prossimo. La recitazione tocca i culmini del grottesco, giacché proprio qui deve trionfare, al limi­ te, l’idea parodistica di Pabst. Ri capitoliamo: Mackie rappresenta l’aspetto criminale della malavita, Brown rappresenta (o rappresentava, ma è lo stesso) le forze dell’ordine, Peachum rappresenta l’affarismo e la specula­ zione. I gangsters, lo Stato che soccombe ai tumulti, il mondo degli affari si alleano ignorando gli straccioni i quali, come cieche energie senza guida, si sono buttati allo sbaraglio e sono stati sconfitti (li vediamo allontanarsi a piccoli gruppi, sempre più inghiottiti dal buio). «Quel che conta - ribadisce il cantastorie cui spetta il compito di enunciare la “morale” - è il denaro». La burletta allude a un’analoga alleanza a tre che si stava stipulando in Germania e che avrebbe condotto alla vittoria “legale” del nazismo. Pabst sente la minaccia, la interpreta giustamente (gli speculatori reazionari tentarono con ogni mezzo di impedire che le masse si scatenassero, così come qui fa Peachum, perché sareb­ be stato più comodo e “pulito” avere il popolo tranquillo; fallito il tentativo, lo lasciano al suo destino, accordandosi con chi ave­ va portato alle conseguenze estreme l’iniziativa economica indi­ viduale e con chi deteneva il potere), intuisce la misera fine di una corrotta democrazia. E qui si ferma. La parodia dell’alleanza reazionaria ormai pronta a superare gli ultimi ostacoli che la divi­ dono dal governo acquista il tono di un piacevole gioco. V’è ancora uno scatto di insofferenza (i poveri se ne vanno, abban­ donati a se stessi), ma già l’insofferenza si colora di rinuncia e di malinconia. La vista degli straccioni stringe il cuore, ma se la 72

realtà è questa - l’alleanza trionfante - noi che cosa ci possiamo fare? Noi che cosa ci possiamo fare? Questo è il tema (e lo stile) delV Opera da tre soldi di Pabst. L’ironia nasce dall’amarezza di una profezia sin troppo facile: la stessa amarezza che sfocerà nel dram­ ma (in una sconfìtta non più ironica) del finale pessimistico del­ la Tragedia della miniera. Il regista svolge puntigliosamente il suo discorso, sfrutta ogni suggerimento dei preziosi collaboratori (primi fra tutti lo scenografo Andrej Andreiev e l’operatore Fritz Arno Wagner),14 si sforza di cavare dagli attori le adatte intona­ zioni grottesche (ma senza troppa fortuna, perché sono attori mediocri, dall’inespressivo Rudolf Foster nei panni di Mackie alla scialba Carola Neher - Polly -, al superficiale Fritz Rasp che interpreta Peachum, al monotono Reinhold Schunzel cui è affi­ data la macchietta di Brown-la-tigre), e non sa ottenere altro escluse le poche eccezioni ricordate - che un impeccabile ma geli­ do affresco di costume. Ingannato anche da una falsa valutazione delle proprie doti, Pabst credeva di saper pilotare la storia sui binari di una scanzonata leggerezza, di far lievitare il grottesco in una favoletta spiritosa e mordente (nello stile di Clair, se voglia­ mo). Non c’è riuscito. La greve opacità del suo spirito — semmai idoneo a tradurre in immagini la durezza documentaria della “neue Sachlichkeit” - ha avuto il sopravvento sulle intenzioni. Verranno tempi spietati. Pabst è stanco e deluso. Ha combat­ tuto invano. Ha accettato talvolta il compromesso per poter con­ tinuare la lotta, ma il risultato non cambia. E uno sconfìtto come 14 L’esempio più caratteristico (anche se non il più efficace o il più importante) della sensibilità con cui Pabst utilizza l’apporto della scenografia e della luce, e risolve sul piano strettamente figurativo una ironica “trovata” di racconto, è quello del manichino in vetrina. Nella sequenza iniziale, Polly e la madre osservano un magnifico abito da sposa esposto nella vetrina di un negozio. Il volto del pupazzo ha l’espressione lucida e sofisticata dei manichini moderni. Più tardi, durante la notte dei furti, rivediamo il manichino, nudo (perché l’abito è stato rubato), con la sua faccetta di sempre, che, in tanto squallore, adesso pare smarrita e incredula.

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gli altri. È vero, l’abilità di introdursi nella “riserva di caccia” del­ l’industria, e di adottarne le regole per scardinarla dell’interno, ha affinato la sua sagacia di uomo di cinema. Gli ha messo a dispo­ sizione un ottimo mestiere. Se ne servirà negli anni dell’esilio; se ne servirà quando tornerà in patria allo scoppio della guerra (è il punto più nero della sua vita, e non se n’è mai compresa la vera ragione); se ne servirà quando si riaccosterà, nel dopoguerra, agli ideali democratici e si abbandonerà perfino al misticismo, senza credervi molto (La voce del silenzio, realizzato in Italia nel 1953). Il mestiere è un mezzo che serve ai fini più diversi, per Pabst. L’opera da tre soldi dimostra, tuttavia (e lo dimostra per la pri­ ma volta nella carriera del regista), che il mestiere può anche esse­ re inefficace, quando nasca da una grave stanchezza spirituale, quando - vogliamo usare una parola grossa? - sia figlio del rimor­ so. Pabst si è arreso e vive nell’amarezza. La resa è, per lui, una colpa di cui soffre e soffrirà sempre (tutti i film successivi - anche quelli girati per la Germania nazista in guerra - lo provano). Ne vediamo gli effetti nell’C^nz da tre soldi, allo stato puro. («Bianco e Nero», a. XXI, n. 8-9, agosto-settembre 1960, pp. 96-115)

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The Big Parade Ingenuo pacifismo di King Vidor

King Vidor, texano di ricca famiglia, amava del cinema tutto ciò che colpiva la fantasia. Ragazzino, fece l’operatore di cabina e passò giornate sane ad ammirare le magiche ombre sullo scher­ mo. Appena potè, girò filmetti e attualità nella città natale di Galveston e dintorni. Si divertì, una volta, a fotografare una tem­ pesta sul mare; un’altra a riprendere una sfilata di truppe. Il suo era un interesse artigianale, infantile. Giunto a Hollywood, manifestò la dovuta ammirazione per il “maestro” Griffith. Lo vide lavorare, e pensò di aver capito tutto. In realtà, aveva solo compreso le quisquilie: le cose che lasciava­ no a bocca aperta i registi dell’epoca, trogloditi e ignoranti secon­ do le buone regole di un’industria non ancora smaliziata. Ammirò — e l’ha scritto —1 la sua bravura di montatore, il suo sen­ so del ritmo, il suo gusto del colossale, le sue varie doti di uomo di spettacolo o, come dice lui usando la parola a sproposito, di artista. «I suoi film nascevano dall’opera congiunta di un auten­ tico artista, di un formidabile drammaturgo, di un sensibile musicista». La sostanza dei film di Griffith, il significato dell’ap­ porto che il regista di La nascita di una nazione (The Birth ofa Nation) diede al cinema americano, gli sfuggirono compieta-

mente. Tutto il resto può essere considerato una conseguenza di que­ sta franca incomprensione. La mai confessata ma effettiva ambi­ zione di calcare le orme di Griffith lo pilotò agevolmente nei meandri della tecnica, dell’empirismo, dell’epidermico entusia­ smo creativo. Che cosa vedeva, del mondo, il giovane Vidor emi­

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K. VlDOR, A Tree Is a Tree, New York, Harcourt Brace and Company, 1953. Buona parte delle notizie riguardanti il regista è tratta da questa autobiogra­ fia, che ha il pregio della sincerità e dell’immediatezza.

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grato a Hollywood in compagnia della moglie attrice? Uno spet­ tacolo di uomini indaffarati, alla ricerca del successo. Uno spro­ ne a buttarsi nella lotta. Un grosso pasticcio di forze contrastan­ ti, dominate dal caso; una palestra aperta a chiunque, purché possedesse tenacia e applicazione e sapesse maneggiare i ferri del mestiere. Assomigliava molto a un “pioniere”, questo texano figlio di papà che piantò l’ambiente confortevole della famiglia (la quale voleva farne un ingegnere) e affrontò, con tranquilla improntitudine, l’avventura del cinema. Erano gli anni della grande guerra mondiale e del progressivo passaggio degli Stati Uniti dal “New Freedom” liberal-democratico di Wilson ai governi repubblicani dei “roaring twenties”, al predominio della più caotica iniziativa privata di stampo conser­ vatore che la storia del paese avesse mai conosciuto. Ma neppure di questo, Vidor mostrò di accorgersi. La guerra non lasciò negli americani tracce profonde. Spinse la loro politica verso l’isolazio­ nismo, la loro economia verso un intransigente protezionismo interno e una scatenata espansione su tutti i mercati mondiali. Si poteva anche pensare, da parte degli spiriti semplici, che questa fosse una nuova forma di pionierismo, un risveglio dell’antica coscienza della frontiera. E, di fatto, la borghesia visse i “roaring twenties” in tale spirito attivistico, spregiudicato, di affari a ogni costo. Il texano King Vidor, subito inserito nell’ambiente hol­ lywoodiano che di quello spirito era succube, sfornò ventuno film in sette anni, con una facilità e un eclettismo del tutto natu­ rali. Aveva trovato la sua patria, anche se ancora non aveva trova­ to la gloria. Una dote distingueva il giovane regista: la sicurezza di sé, l’im­ perturbabilità. «Verso il 1924 - scrisse un testimone attendibile, il regista franco-americano Robert Florey -2 Vidor era l’uomo 2

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R. FLOREY, Hollywood d’hier et d’aujourd’hui, Paris, Editions Prisma, 1948, pp. 219-20. [Giornalista francese, Robert Florey (1900-1979) emigrò negli USA nel 1921, lavorando poi sempre a Hollywood, salvo un breve intervallo in Europa all’avvento del sonoro. Fornì le sue prove migliori dirigendo film horror e fantastici tra gli anni ’30 e ’40. Esemplari i suoi reportage per i cine-

più calmo del mondo. Arrivava in teatro, sedeva sulla seggetta pieghevole, studiava la sceneggiatura e non parlava con nessuno. Poi, all’improvviso, ordinava che si provasse una scena. Gli atto­ ri andavano, istintivamente, ai posti loro assegnati. L’operatore indicava i limiti del campo. Vidor continuava a guardare. I musi­ cisti suonavano. Vidor non apriva bocca, ma di colpo, interessa­ to da un gesto, diceva che andava bene e dava l’ordine di girare. Si ricominciava la scena parecchie volte, poi la si fotografava da tutte le possibili angolazioni. Vidor non urlava mai, non perdeva mai la calma. A dire la verità, dava l’impressione di non fare nul­ la, eppure non gli sfùggiva un solo particolare di quel che acca­ deva sotto i suoi occhi». Il ritratto corrisponde al tipo del pro­ dotto che usciva da questo cervello pacato. Una lenta elaborazio­ ne, una cura assidua nell’affrontare e risolvere uno per uno i pro­ blemi della ripresa, una padronanza rigorosa, anche se a prima vista inavvertibile, del mezzo tecnico. Con una simile sicurezza si poteva produrre ogni genere di film. Così avvenne. Ma avvenne anche, proprio intorno al 1924, che il pacifico pioniere senza cultura sentisse il vuoto della mate­ ria finora trattata. Il periodo era intenso e brillante, per il cinema americano. Stroheim girava Femmine folli (Foolish Wives, 1922) e Rapacità (Greed, 1924). Chaplin componeva La donna di Parigi (A Woman ofParis, 1923) e preparava Lafebbre dell’oro (The Gold Rush, 1925). Cruze realizzava Ipionieri (The Covered Wagon, 1923), De Mille 1 dieci comandamenti (The Ten Commandments, 1923), Ford II cavallo d’acciaio (The Iron Horse, 1924), Griffith America (1924). Lui, Vidor, girava “ephemeral films” che «tene­ vano il cartellone una settimana o giù di lì e poi si avviavano a una relativa oscurità o all’oblio totale». Non era piacevole, per uno che aspirava alla gloria. «Se avessi lavorato a qualcosa in cui intravedere la possibilità di una lunga durata in tutto il paese o giornali e i molti volumi — scritti in francese — in cui i ricordi personali si fon­ dono con un’accurata e preziosa documentazione. Dagli anni ’50 si dedicò alla televisione firmando più di 200 episodi di svariate serie].

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nel mondo, avrei messo più impegno, e amore, nella creazione». Questo - unicamente questo - è il germe da cui prenderà vita La grande parata {The Big Parade), il primo film importante della sua carriera, il suo successo più grande. Non cercate motivi ideo­ logici, non cercate l’entusiasmo per un tema, non tentate di sco­ prire l’esistenza di una posizione morale. Non è mai esistito nul­ la di tutto ciò. L’ideologia, il tema e la posizione morale usciran­ no da La grande parata per proprio conto, energie inconscie sca­ tenate da una prosaica volontà di successo, da un bisogno testar­ do insopprimibile di realizzare le proprie elementari ambizioni. Ciò è molto bello. Molto americano “roaring twenties”. La genesi pratica del film, che avrebbe scatenato tante polemiche male apposte, offre altri elementi all’indagine. Vidor manifestò la propria insoddisfazione a Irving Thalberg, il maggior produttore esecutivo della nascente Metro-Goldwyn-Mayer. Fu incoraggia­ to a puntare più in alto, e invitato a dichiarare le sue preferenze. Vidor rispose che tre “subjects” lo interessavano: l’acciaio, il gra­ no, la guerra. Uno valeva l’altro, e non poteva essere che così, nel mare della generica ambizione. D’accordo scartarono i primi due e cominciarono a studiare il terzo. L’idea di Vidor era questa: i giovani americani non sono né eccessivamente patrioti né pacifi­ sti, accettano di fare quel che devono, senza avere la possibilità di dominare gli avvenimenti nei quali sono coinvolti. Per esemplifi­ care tale posizione, Thalberg e Vidor scelsero una storia della grande guerra, affidando allo scrittore ex combattente Laurence Stallings (di cui si stava recitando a Broadway con enorme suc­ cesso un dramma a sfondo bellico, What Price Glory?)0 l’incarico di elaborare un soggetto adatto. Per l’occasione, Vidor volle sfruttare il suo empiristico reali­ smo, e cercò fatti veri e una autentica atmosfera. Questo, tutta-

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Dal dramma, che Stallings aveva scritto in collaborazione con Maxwell Anderson, sarebbe stato ricavato poco dopo un film, con lo stesso titolo. Regia di Raoul Walsh. Interpreti Victor Me Laglen e Edmund Lowe. [Il tito­ lo italiano è Gloria e il film è del 1926].

via, non gli impedì di inorridire dinanzi alla storia che gli aveva presentato Stallings. La trovò tanto cruda da crederla falsa. Non poteva immaginare, lui che la guerra in Europa non l’aveva fatta, una carneficina così spaventosa, una lotta così bestiale nelle trin­ cee durante gli assalti all’arma bianca. La tentazione di respinge­ re i suggerimenti dello scrittore fu forte, ma ancora l’empirismo gli venne in aiuto. Lo indusse a fidarsi. La successiva visione d’un centinaio di rulli girati sui campi di battaglia dai servizi di docu­ mentazione dell’esercito americano gli confermò che quella era la strada giusta. La sceneggiatura fu preparata in un tempo relativamente bre­ ve da Harry Behn e dallo stesso Vidor. Semplice fu anche la scel­ ta degli attori, John Gilbert per la parte di Jim Apperton, Rende Adorée per la figura di Mélisande, la contadina francese, Karl Dane per la parte di Slim e Tom O’Brien per quella di Tom, i due compagni di Jim al fronte. Tutto riusciva facile, fra le mani di un King Vidor che aveva trovato la materia su cui riversare impegno e amore, in previsione del trionfo. Sono note le proporzioni di questo trionfo. Tra i film che incassarono più di tre milioni di dollari, dalle origini ai primi anni del sonoro in America, La grande parata sta al quarto posto, preceduta da II cantante pazzo (The Singing Fool), I quattro cavalieri delTApocalisse (The Four Horsemen of the Apocalypse, un altro film di guerra della medesi­ ma epoca - 1921 - diretto da Rex Ingram, interpretato da Rodolfo Valentino, prodotto dalla stessa Metro), Ben Hur (un film Metro anch’esso).4 Era costato 245 mila dollari. Meno nota è la deformazione pubblicitaria che l’opera subì quando raggiun­ se gli schermi europei e che contribuì non poco a crearle intorno un’atmosfera di diffidenza quasi incredibile. Presentato come «il film che vi farà detestare la guerra», La grande parata uscì il 19 novembre 1925 negli Stati Uniti. Tenne banco per sei mesi al cinema “Grauman’s Egyptian” di Hol­ lywood, e per due anni all’“Astor Theater” di New York. All’este­ 4

Cfr. G. SELDES, Moviesfor the Millions, London, Batsford Ltd., 1937, p. 31 •

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ro, fu lanciato dalla pubblicità Metro come «il più grande film americano dell’anno». Un’attenzione particolare fu riservata all’e­ dizione per la Francia. Si provvide a solleticare dei francesi la cor­ da patriottica, adattando il film in modo che la gloria non appa­ risse soltanto americana. Si ottennero impegnative dichiarazioni da alti ufficiali che avevano partecipato alla guerra. Il generale Gouraud scrisse: «Tengo a dirvi che ho trascorso una bella serata vedendo La grande parata». II maresciallo Joffre fu ancor più esplicito: «Complimenti vivissimi per il bello spettacolo che mi avete permesso di applaudire. La grande parata offre un’idea esat­ tissima della realtà che noi abbiamo vissuto durante la grande guerra».5 Utile grancassa per l’effetto immediato, questa pubblicità restò incollata al film come un marchio infamante. In molti cri­ tici si operò una aberrante trasposizione: non giudicarono La grande parata ma ciò che la pubblicità diceva che fosse. Non fu quella - avvertiamo - la prima volta che la critica cadeva nel tra­ bocchetto, e non sarà l’ultima; ma fu quello, certo, uno degli epi­ sodi più clamorosi di infatuazione. Nel 1929, Paul Rotha scrive­ va, in un capitolo di The Film Till Now dedicato al cinema ame­ ricano: «Film di propaganda, mostrò come l’America avesse vin­ to la guerra. Vero o no che fosse, il fatto non interessa in questa sede. Comunque, se propaganda c’era, non poteva avere alcuna influenza su un inglese appena informato della realtà. Come tut­ ti i film confezionati a Hollywood su temi bellici, La grande para­ ta poco mostrava del reale significato della guerra. [...] Non mi azzarderò a stabilire se il film abbia effettivamente sintetizzato il fenomeno della guerra così come si svolse, o come l’hanno immaginata Hollywood e la Metro-Goldwyn-Mayer. Sarebbe lo stesso se volessimo paragonare il naturalismo di Journeys End o

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Queste notizie sono riferite da Leon Moussinac in Panoramique du cinéma, Paris, Au sans pareil, 1929. Ed è proprio il critico francese uno dei primi che reagisce violentemente contro il “commerce oblige” da cui il film fu soffoca­ to in Europa.

della Questione del sergente Grischa con le numerose novellette che hanno per argomento i coraggiosi ufficiali e i tedeschi fero­ ci».6 Lewis Jacobs non è da meno: «Romantica descrizione della parte avuta dall’America nella guerra mondiale, La grande parata fu in complesso un’opera superficiale, anche se realizzata in modo da far impressione». Più drastici Bardèche e Brasillach: «Vidor ottenne un successo trionfale con La grande parata., un’o­ pera abbastanza insopportabile». Sadoul di rincalzo: «La guerra, che era il soggetto dei Quattro cavalieri dell’Apocalisse, assicurò anche il successo della Grande parata, un film di propaganda che non s’innalzava troppo oltre il livello commerciale, benché il suo autore abbia in seguito dato prova del suo talento». «In questo melodramma a sfondo bellico, in cui i critici parigini deplorano una Francia degna del libretto “AdXArlésienne” — scrive Paolella — la guerra di fango e di trincea era resa non solo patetica ma anche sollazzevole, attraverso le buffonate dei bravi camerati di prima linea. [...] La storia era commovente e melo drammatica, oltre il sopportabile». Direttamente o indirettamente, e lo si avverte benissimo, sono tutti condizionati dalle fanfare che la Metro suonò nel mondo, per portare a casa quattrini comunque fosse. «Propaganda americana», «storia melodrammatica», «una Fran­ cia A^Arlésienne», «un soggetto insopportabilmente falso, volga­ re, artificioso» (la sopportazione entrò in tutti i discorsi; questo è del Moussinac, crociato fra i più combattivi nella “santa” batta­ glia contro La grande parata}', sono giudizi perentori, originati dalla stessa causa. Questo potrebbe anche essere un saggio sulla fragilità psico­ logica della critica cinematografica e sugli effetti che ottiene la pubblicità, o, più in generale, sui rapporti fra critici e industria nell’ambito della storia del cinema. Davvero, il film di Vidor rap­

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Cfr. P. ROTHA, The Film Till Now, London, Vision Press Limited, 1963, pp. 191-192.

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presenta un caso tipico e anche come tale va segnalato. Ma quel­ lo che ormai deve essere affrontato è l’altro problema, ovviamen­ te il maggiore: il significato dell’opera. Introdotto dal preambolo sulla “infatuazione”, acquisterà ora il giusto rilievo. Anzitutto, “propaganda americana”? Certamente. Vidor è partecipe dell’orgoglio nazionale per l’intervento dei “sammies” al fianco degli alleati. Il tono che, molto più tardi, due storici sta­ tunitensi di acuta sensibilità e di orientamento radicale (Allan Nevins e Henry S. Commager) avrebbero adottato in una tratta­ zione divulgativa di non pochi meriti7 è il tono che il regista ave­ va fatto proprio istintivamente, come ogni “buon” americano. Non c’entra Hollywood, non c’entra la Metro-Goldwyn-Mayer. «Il governo degli Stati Uniti - scrivono Nevins e Commager - si accingeva a uno sforzo erculeo. I trasporti per mare avevano la precedenza su ogni altra cosa e grossi convogli carichi di fanti partivano l’uno dopo l’altro dai porti americani. [...] Queste for­ ze giunsero proprio nel momento propizio. Prima a Montdidier e a Cantigny, poi nella foresta di Belleau, esse dimostrarono la loro bravura; e il comando germanico, che non aveva tenuto con­ to delle forze degli Stati Uniti, dovette ammettere a malincuore che “il soldato americano si dimostrava coraggioso, forte e abile”, e che le perdite non lo impressionavano». La grande guerra, dun­ que, fu vinta dagli Stati Uniti. Pacifico. Dobbiamo assumere questo a tema del film? Potremmo farlo, ma non ne ricaveremmo nulla che ci aiuti a intendere La grande parata. Nel 1925, le suscettibilità europee erano fortissime, lo sciovinismo dominava anche le forze di sinistra che avrebbero dovuto esserne immuni (si osservi la curiosa tortuosità concet­ tuale di cui è vittima, per esempio, il Moussinac: «Anche dal punto di vista borghese, questo film è odioso. Si è discusso sol­ 7

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Proponiamo questo esempio, proprio perché si tratta di una storia a caratte­ re divulgativo, che presuppone l’esistenza di tutta una corrente scientifica lar­ gamente diffusa e autorevole. L’opera si intitola: The Pocket History of the United States. Citiamo dall’edizione italiana: Storia degli Stati Uniti, Torino, Einaudi, I960, p. 417.

tanto per stabilire se l’America non si fosse fatta la parte del leo­ ne, attribuendosi il privilegio di aver vinto la guerra. Controver­ sia del più meschino nazionalismo, che non ci interessa affatto. Ma nessuno ha notato la deprimente banalità del film! Dipen­ derà dal fatto che il modo in cui è stato realizzato, dal punto di vista puramente cinematografico, travolge ogni cosa? Ma la potente verità della forma basta a farci dimenticare la falsità deso­ lante della sostanza?»). Gli americani, per conto loro, non erano meno suscettibili e irritati. L’Europa era guardata come una fon­ te di guai e di beghe non sempre comprensibili, di mediocri nazionalismi. Visti con l’occhio del complesso di inferiorità ameri­ cano, il vecchio continente e le sue guerre spaventose apparivano come aberrazioni da curare o, nella peggiore delle ipotesi, da abbandonare al loro destino. Le amministrazioni repubblicane di Harding e di Coolidge {La grande parata fu girato mentre era al potere quest’ultimo e si stava scatenando un’ondata di insoffe­ renza contro gli europei e le loro idee “perniciose”) consideraro­ no l’Europa come un mercato da sfruttare economicamente, sen­ za alcuna contropartita. E non si esclude che questa fosse la manifestazione pratica di un odio teologico di colore puritano verso il “peccato” rappresentato, in vari aspetti, dagli uomini per­ fidi abitanti di là dal mare. Perciò: la guerra fu vinta dagli americani, e basta. Ecco il tema di La grande parata. Ma è il tema apparente, quello che trae in inganno i suscettibili delle opposte sponde. Per Vidor, invece, esso era solo un dato acquisito, uno “sfondo” da non discutere. La sua idea motrice — l’abbiamo visto — era più concreta e sem­ plice: l’uomo americano è un essere amorfo e in buona fede, che accetta la guerra senza volerla e, da serio “specialista” istruito alla scuola del pragmatismo, la fa il meglio possibile una volta che ce l’hanno scaraventato dentro. Jim Apperton rappresenta il proto­ tipo dell’americano wilsoniano che Vidor stima, forse inconscia­ mente contrapponendolo all’americano di dopo, al borghese cinico e gaudente dei “roaring twenties”, all’uomo di affari senza principi e senza nobiltà. 85

È la prima posizione da stabilire. Con ciò non diciamo che La grande parata abbia disturbato la squallida ideologia dominante nel periodo dell’affarismo. E non ce ne stupiremo, giacché la caratteristica fondamentale di quell’epoca, al livello delle classi dirigenti, consisteva nella più aperta indifferenza per le idee che si limitassero a semplici petizioni di principio e non tentassero di scalzare le basi della struttura economica. L’amore di King Vidor per l’americano puro non danneggiava proprio nessuno. Non solo, ma poteva addirittura essere impiegato a vantaggio della società degli affari, poiché la sua intrinseca “nobiltà” era fonte di lauti guadagni: formalizzarsi sulla provenienza dei dollari guada­ gnati sarebbe stato assurdo per businessmen di quella tempra. Allontaniamo, perciò, il sospetto che La grandeparata possa esse­ re sembrata negli Stati Uniti, o sia stata effettivamente, un’opera di opposizione. Al contrario, rientrava assai bene nell’ordine del­ le cose. Tanto bene che la pubblicità fu impostata, a ragion vedu­ ta e con notevole astuzia, sull’ipocrisia, sulla menzogna (far soldi è giusto - proclamava la filosofìa spicciola del borghese america­ no - ed è giusto farli con qualunque mezzo). «Il film che vi farà detestare la guerra», ma poco importava ai califfi della Metro che la guerra fosse detestata o adorata. Se esistevano paesi, come l’I­ talia, in cui la guerra si preferiva non detestarla, bastava annulla­ re questo slogan, e trovarne un altro. Le idee sono facilmente intercambiabili, i quattrini no. Vittima soddisfatta della mistificazione, il regista non si cura­ va d’altro che della efficacia spettacolare della storia. Ma il suo istinto verniciato di democrazia lo portò a osservare, fra le molte cose, anche il mondo dietro le quinte. E vero che Jim, figlio scio­ perato di un rude padre industriale, non vuole partire per la guer­ ra. Se ne infischia, lui, di quel che succede in Europa. Però, l’e­ saltazione bellicista è come una calamita. La madre gli mostra il giornale su cui sta scritto: «E stata dichiarata la guerra. Il presi­ dente Wilson entra in guerra per difendere l’onore, la libertà, la civiltà e la democrazia. 100.000 volontari si sono già presentati nei centri di arruolamento. Che cosa intendi fare tu, uomo gio­ 86

vane e libero?». E lo guarda, sperando che la difesa dell’onore e di tutto il resto sia un buon argomento per indurlo a partire. Ma lui nicchia: «Io ho già abbastanza da lottare con mio padre. Perché dovrei precipitarmi in un posto dove non ho proprio nulla da fare?». Anche la fidanzata nutre gli stessi sentimenti della madre: «Jim, stavolta tutto è in gioco: la patria e la democrazia! E tu sta­ resti bene in uniforme, io ti amerei ancora di più». L’uomo in divisa piace alle donne. A poco a poco, Jim cade nella trappola. Assiste casualmente a una sfilata di volontari e di crocerossine che vanno al fronte, precedute dalla fanfara. Anche lui è travolto dall’entusiasmo generale. Si sorprende a battere ritmicamente il piede sul tempo della banda (Vidor insiste sul particolare del piede, con una tro­ vata visiva eccellente) e, poi, a condividere l’euforia patriottica d’un gruppo di amici che lo vogliono con loro per andare ad arruolarsi. Il gioco è fatto ormai. Ma il regista non rinuncia a un altro, e più preciso, sguardo all’ambiente. In casa, il padre indu­ striale ha ridotto il fenomeno alle sue misure personali di imprenditore. «In fabbrica si lavorerà anche di notte», la guerra è un’ottima speculazione. Davanti al figlio abulico (che John Gilbert disegna con finezza), scatta inviperito: «In un periodo così grave — l’ipocrisia si allea spontaneamente al patriottismo — in casa non c’è posto per i fannulloni. Lavora oppure vattene da casa». Jim se ne va. Parte per il fronte, suscitando entusiasmo e commozione. Quest’inizio non è cosa da trascurare. Breve, incisivo, elo­ quente con un pizzico di retorica e di superficialità (sono i segni caratteristici di King Vidor: accettiamoli per quello che valgono), offre un quadro che diremmo esatto della situazione americana all’epoca dell’intervento di Wilson. Da questo momento in poi, Vidor è tutto dalla parte del giovane americano ignaro, scaraven­ tato in pochi giorni, dopo un addestramento sommario (la sinte­ tica sequenza dell’istruzione - ordine chiuso e marcia - ha una sua efficacia drammatico-ironica), sulla linea del fronte. «Le reclute addestrate rapidamente, si imbarcarono in America, sbar87

carono in Francia e dopo una marcia di sei ore giunsero al villag­ gio di Champillon». Messo davanti alle sue responsabilità senza averle cercate, l’a­ mericano wilsoniano fa il suo dovere. Val la pena di notare che, a parte le poche eccezioni a tutti note (All’Ovest niente di nuovo All Quiet on the Western Front Ai Milestone, per esempio, o Oriz­ zonti di gloria - Paths of Glory di Kubrick), questa è la posizione che il cinema ha regolarmente assunto - e parliamo del cinema serio, non del cinema propagandistico o commerciale - dinanzi alla guerra. Citando il caso recente della Grande guerra di Monicelli (cui troppi hanno attribuito meriti ideologici sproporziona­ ti, ma che indubbiamente costituisce un esempio di alta serietà), evitiamo di proporre lunghe considerazioni - forse, qui fuori luo­ go - e indichiamo subito qual è l’indirizzo cui il cinema “occi­ dentale” resta fedele nel corso degli anni. E una osservazione, cre­ diamo, che serve a illuminare anche l’antico caso di La grande parata. Spostatasi l’azione in Francia, Vidor segue due linee parallele: le azioni belliche che svelano l’orrore e la stupidità della lotta fra uomini che sono nemici soltanto in astratto; l’amore fra Jim e la contadina. Il protagonista vive entrambe le esperienze, domina­ to dalla preoccupazione costante (la preoccupazione è del regista, si capisce) di essere uomo americano nel senso più schietto - più “pionieristico”, dobbiamo ripetere ancora - che si possa immagi­ nare. Con Mélisande è dapprima sfacciato, poi galante, poi romantico, poi appassionato, secondo il gusto “ottocentesco” del buon provinciale americano digiuno di cultura e di storia, nutri­ to di conformismo e di chiassosa spregiudicatezza insieme. Non v’è nulla, nella storia d’amore, che possa paragonarsi all’incontro disperato fra il soldato tedesco e la contadina francese in71//’O^st niente di nuovo\ nulla che commenti la tragedia della guerra come le parole della ragazza abbracciata al nemico amato-odiato. D’accordo, ma non possiamo ignorare la suggestione dell’addio fra Mélisande e Jim, lei che insegue il camion, lui che le getta tut­ to quello che ha sottomano (prova di infantile, furioso affetto): 88

l’orologio, la piastrina, una scarpa. L’insistenza melodrammatica dei gesti va messa al passivo della sensibilità di Vidor, patetica oltre il segno del buon gusto. Questo, però, nulla toglie al signi­ ficato dell’addio, alla brutalità della guerra disumana che tronca il rapporto fra due giovani. Mélisande è la caricatura della conta­ dina francese (la «jeune fìlle franchise - osserva il Moussinac aux appàts prometteurs, aux yeux polissons, aux lèvres fardées, peu farouche, et qui ressemble à une pensionnaire de maison do­ se en vacance, costumée à la fa$on des petites meunières de revue»), ma fornisce a Vidor il materiale necessario - necessario a un regista grossolano e semplificatore come lui - per costruire il climax della separazione, inserito in una sarabanda di soldati che marciano, escono dalle case, si fanno benedire dal prete, salgono su autocarri e carrette, salutano le donne e gli amici, si avviano al fronte, e che contano come elementi di un discorso tutt’altro che fiacco o insincero sulla crudeltà della guerra. Visto in tale prospettiva, il problema di La grande parata si riaccosta ai termini reali in cui lo affrontò King Vidor, e in cui anche il pubblico avrebbe potuto affrontarlo se non fosse stato frastornato prima dalla pubblicità e poi dalle incongrue reazioni della critica. La seconda linea seguita dal regista - le azioni belli­ che - vede Jim e i suoi due compagni (Slim il buffone e Tom il “duro” con scarso cervello) impegnati all’inizio di una avanzata attraverso un bosco e, più tardi, in una scaramuccia contro un mortaio tedesco. La colonna marcia sulla strada. Un aereo tede­ sco scende e mitraglia. E il primo contatto con la guerra e la pau­ ra. I primi morti restano sul terreno. Si prepara l’avanzata nel bosco. Un ufficiale si presenta allo Stato Maggiore, con la spaval­ deria idiota di quelli che si chiamano eroi (e Vidor sotto linea). Dice: «La linea nemica è ottimamente fortificata ma passeremo lo stesso, capitano». Vanno gli uomini, una fila dietro l’altra, inoltrandosi nel bosco. Un cecchino tira al bersaglio, da un albero, e ne ammazza qualcuno. Vidor accompagna il procedere degli uomini con una serie molto bella di carrellate laterali e arretranti, in una atmosfe­ 89

ra di tensione crescente. Una mitragliatrice spara tra le frasche, cadono gli uomini che avanzano. Gli altri non si fermano. L’uffi­ ciale urla e incita i soldati. I tedeschi sono snidati con le bombe a mano. Una cannonata al centro della strada dove sono giunti gli americani, le artiglierie intervengono in massa. Tra il fumo delle esplosioni appaiono alberi stecchiti e contorti, in un paesaggio desolato. I nostri tre sono a terra, inchiodati dal terrore. I tede­ schi lanciano i gas. Riprende l’attacco degli uomini con le maschere sul volto. Jim, Slim e Tom finiscono in una buca. Passa un aereo nemico, non li vede. Restano lì sino a quando non cade la notte. A momenti di intensità emotiva ottenuta con un montaggio incalzante, si sono alternati - in questa sequenza - attimi di pausa e di stanchezza. Vidor non è riuscito a organizzare una progressione drammatica, le smagliature del ritmo traspaiono qua e là, indebolendo la vita­ lità del brano. Eguale andamento ha la sequenza notturna. Un mortaio spara sulle linee americane. Tutto il settore è in allarme. Jim scherza per farsi coraggio, emerge dalla buca e fa marameo ai tedeschi. Un tratto di infantilismo che Vidor propone come tale. Jim stacca un fiorellino dal terreno e lo infila nel pugno chiuso di Slim che dorme. Si insiste sull’ironia. «Pensavo di essere già mor­ to senza funerali», commenta Slim svegliandosi. Un fattore drammatico si insinua nell’azione. Strisciando da una buca all’altra, un portaordini arriva dai nostri: «A chi riuscirà a far tacere quel maledetto mortaio verrà accordato un permesso speciale per andare a casa». Subito, i tre si contendono il privile­ gio. Tracciano con la baionetta un bersaglio sulla parete franosa della buca. «Sarà scelto chi sputerà più vicino». Vince Slim, che in diverse occasioni abbiamo visto compiere prodezze sputando. Si ritorna all’atmosfera di tensione. Slim esce dalla buca, gli altri attendono. L’attesa si prolunga, innervosisce Jim che vorrebbe accorrere per dare man forte all’amico. Ma questi fa da sé, piom­ ba nella trincea tedesca, fa fuori i soldati che maneggiano il mor­ taio, torna. Una mitragliatrice lo individua, lo ferisce mortal­ mente. L’azione incalza. Jim sta per buttarsi fuori della buca, per 90

soccorrere Slim. Lo trattengono, è imminente un attacco genera­ le, occorre aspettare gli ordini. La macchina della guerra non concede agli uomini di essere sentimentali. Ma Jim scatta egual­ mente, raggiunge l’amico, lo trova morto. Il furore vince in lui la paura. Balza in piedi urlando: «Maledetti! L’avete preso!». E si butta all’attacco, seguito da Tom e da tutti gli altri, trascinati dal suo gesto. Muore anche Tom, colpito da una bomba. Jim è ferito a una gamba, mentre intorno prosegue l’avanzata americana. Siamo al punto culminante della sequenza notturna. Vi siamo arrivati, ancora, fra alti e bassi, digressioni inutili e azioni essen­ ziali, alternate con scarso discernimento. I difetti di Vidor sono tutti manifesti, dichiarati senza pudore. La lezione di Griffith è stata imparata a mezzo. La tecnica finisce per valere in se stessa, nella forma astratta (e per questo inefficace) che prende agli occhi dei registi che si affidano all’istinto. Il significato di ciò che Vidor racconta viene sopraffatto dalla foga del raccontare e, così com­ presso e distorto, non solo tende ad annullarsi ma influisce anche negativamente sulla “resa” spettacolare dell’azione. Torniamo in carreggiata, in questo istante preciso. Jim ferito è a terra. Vede sbucare da una trincea un soldato nemico. Punta il fùcile, spara, lo colpisce in pieno. Quello si trascina verso una buca, al riparo. Jim ha la tentazione di finirlo. Non lo fa. Si roto­ la anche lui nella buca. Gli punta la baionetta addosso. Esita nuo­ vamente, sotto lo sguardo implorante del tedesco. Controlla dov’è ferito, capisce che per lui non v’è più nulla da fare. Il tede­ sco gli chiede, a gesti, una sigaretta. Jim gliela dà, poi lo allonta­ na da sé, con un moto di irritazione. Quando si rivolta, dopo aver esaminato la propria ferita alla gamba, vede che il tedesco è morto. Gli prende la sigaretta dalle labbra e continua a fumarla lui. Intanto, l’attacco americano procede su tutto il fronte, con enorme spiegamento di forze. Qui praticamente si esaurisce la seconda linea seguita da Vidor per illustrare la realtà della guerra. L’azione prenderà un’al­ tra strada: Jim sarà ricoverato in una chiesa trasformata in ospe­ dale da campo, ne fuggirà apprendendo da un commilitone che 91

il villaggio di Champillon è stato distrutto, andrà affannosamen­ te e inutilmente a cercare Mélisande, sarà rimpatriato. Ma prima di occuparci degli episodi finali di La grande parata, è necessario osservare ancora qualcosa sulla rappresentazione vidoriana della guerra. Non ci soffermeremo sul valore di precedente e, talvolta, di preciso modello, che molte scene di queste sequenze posseg­ gono: ognuno può facilmente rintracciare — in All’Ovest niente di nuovo soprattutto, ma anche in Westfront 1918 e in La tragedia della miniera (Kameradschaft) di Pabst, nonché in altri film (cele­ bri e meno celebri) ispirati alla prima guerra mondiale, non escluso Orizzonti di gloria — spunti e suggerimenti contenuti nel film di Vidor. Costituire un precedente non è un fatto da poco, ma non va certo preso come garanzia di valore indiscutibile. Né, del resto, vediamo nulla che sia realmente indiscutibile in La grande para­ ta. Vediamo, piuttosto, un sincero atteggiamento di condanna alla guerra. L’ufficiale spaccone, l’avanzata a ogni costo nel bosco, la bravata di Slim, il furore di Jim e la successiva pietà (una pietà non disgiunta dall’indifferenza) per il tedesco moribondo sono i particolari di un quadro che Vidor ha composto senza volgarità, talvolta con passione, sempre con un notevole impegno morale. Non si tratta di autentiche prese di posizione, a meno che si voglia equiparare a esse la ripugnanza istintiva che la guerra eser­ cita sul regista. Si tratta invece di una rivolta disordinata, e non sempre chiara, della sensibilità e della vitalità — tutte americane e tutte “pionieristiche” di Vidor — contro una grossa, ma forse ine­ vitabile, buffonata come la guerra. E le cause di questa guerra? Perché è stata fatta? A chi attri­ buirne la responsabilità? Facile, e ingiusta, obiezione. Dalle sequenze del fronte non emerge nulla che equivalga a un esame delle ragioni. Ma non dimentichiamo che a ciò Vidor aveva già accennato nel preambolo: Wilson che interviene nel conflitto per la difesa di nobili ideali (l’onore, la libertà, la civiltà, la democra­ zia), l’industriale Apperton che approva pensando ai sovrapprofìtti che lo attendono, la moglie che coltiva l’ideale borghese del 92

dovere da compiere per la patria, la fidanzata che adora le unifor­ mi, Jim che si fa trascinare dalle banalità più spudorate (la caden­ za di una sfilata, l’entusiasmo della folla) e dalle pressioni fami­ liari. E chiaro per Vidor, e anche per lo spettatore non prevenu­ to, che sotto le belle parole vi erano precisi interessi, che l’entrata in guerra degli Stati Uniti — per quanto provvidenziale e nobile — era giustificata da ideali assai meno belli, o comunque meno reto­ rici. Accanto a tale constatazione, c’è in Vidor qualcos’altro: il nucleo vero della sua ispirazione. Il regista ripudia la guerra ma non ripudia chi l’ha fatta. Per lui, il giovane americano ligio al dovere merita rispetto. Di più, merita ammirazione. Non lo con­ sidera una vittima (come poi avrebbe considerato i combattenti un Milestone o un Kubrick), bensì un protagonista della storia. Infelice e deluso, se vogliamo aggiungere (come il film suggeri­ sce), ma un protagonista di cui troppo spesso ci si scorda. Nella “visione” della guerra, ritorna sempre la sotterranea polemica di Vidor contro il suo tempo, contro l’ideologia degli affari da cui si vedeva circondato e di cui era egli stesso un esponente. Contrad­ dizione, forse. Ma è la contraddizione vitale di La grande parata., quella che situa ottimamente il film nella sua epoca storica — il 1925, al centro dei “roaring twenties”, prima che la rabbia e la disperazione del popolo americano travolgessero le classi domi­ nanti — e lo rivaluta, entro limiti precisi, nella storia del cinema. Con queste premesse, si potranno spiegare le successive espe­ rienze di La folla (The Crowd, 1928), Alleluia! (Hallelujah!, 1929), Nostro pane quotidiano (Our Daily Bread, 1934), che sono le maggiori di Vidor. Anche le minori o negative — La cittadella (The Citadel, 1938), Il molto onorevole Mr. Pulham (H. M. Pulham, Esq., 1941), Duello al sole (Duel in the Sun, 1946), La fonte meravigliosa (The Fountainhead, 1949), ecc. — hanno in La grande parata la loro logica matrice. Ora, seguiamo il film sino in fondo. «La guerra è finita — recita una didascalia — La famiglia dell’industriale Apperton attendeva il ritorno di Jim». La madre lo attende truccandosi davanti allo specchio. La fidanzata facen­ 93

do l’amore con Harry, il fratello di Jim, e congedandosi da lui per salvare le apparenze e il decoro («Dobbiamo dimenticarci l’uno dell’altra. Jim ha dei diritti più antichi su di me»). Il padre, che non ha la forza di commiserarlo vedendoselo davanti mutilato, gli parla della fidanzata. Continua a non capire nulla del figlio. Lo accompagna a casa. La scena è patetica ma non senza asprez­ za. La madre abbraccia Jim e se lo rivede, attraverso una serie di sovrimpressioni, bambino innocente e felice. La fidanzata si avvi­ cina. Jim la ignora. Anche Harry gli è accanto. Scherza: «Benve­ nuto fratello. E questo l’aspetto di un eroe?». Jim, senza lasciare la madre, risponde: «Non parlare. Questo è l’aspetto di un inva­ lido, se lo vuoi sapere». L’atteggiamento di Vidor è nuovamente preciso, anche se melodrammatico, secondo il suo gusto poco incline alle sottigliezze. Lo strazio si accompagna alla chiarezza: pane al pane, e molte lacrime. Non affermeremmo che questa è l’impronta di uno stile; è sufficiente dire che è tipico di una maniera di esprimersi e di vedere le cose del mondo. Il finale cede apertamente alla commozione tutta “urlata”. Jim, solo con la madre, ricorda la contadina che ha lasciato in terra di Francia. «La dobbiamo trovare Jim. Da sempre avevo desiderato una nuora simile». E lo culla dolcemente, come fosse un bambi­ no. Rivediamo Mélisande al lavoro dei campi, insieme alla madre. La ragazza è triste. Mastica chewing-gum. La gomma è ciò che le ricorda l’americano, e che ricorda allo spettatore una delle scene più graziose della storia d’amore (i due si diedero appuntamento sull’aia, una sera. Lui parlava una lingua a lei sconosciuta e non sapeva come farsi comprendere. Allora le offrì il chewing-gum. La ragazza lo prese, lo inghiottì. Jim insistette divertito, mostrò come si dovesse fare e trasse dalla bocca un lungo filo di gomma. La ragazza rise. Jim sputò il chewing-gum e la baciò. Scena graziosa, abbiamo detto. Dovremmo aggiungere ora che, come sempre, in Vidor, basta un nulla per precipitare nel cattivo gusto. La conclu­ sione della scena — Jim che sputa la gomma — sfiora il ribrezzo. Manca al regista il senso del limite, soprattutto laddove tocca le note sentimentali. Un “pioniere”, anche in questo). 94

La madre guarda pietosa la povera Mélisande. Riprendono ad arare. A un tratto, sulla cresta di un colle compare la minuscola figurina di un uomo che avanza a fatica. E lui, Jim. La ragazza gli corre incontro, impazzita. Jim viene avanti, sorreggendosi peno­ samente al bastone. Ma è felice. Ha ritrovato la vita nel suo sem­ plice amore, con una donna senza problemi e senza doppiezze. L’amore schietto, la natura, abitudini patriarcali. In Vidor, que­ sto è il senso della vita, oltre (e contro) le strutture della società com’è oggi organizzata. Più avanti diventerà la fuga dalla città {Nostropane quotidiano), l’annullarsi delle ambizioni e della sete di denaro nella pace dell’esistenza in campagna. Un antico fondo illuministico emerge, intatto ancora, nella personalità di un regi­ sta che, ignorando l’evoluzione della cultura, rimane legato ai miti dell’America delle origini, dei “padri pellegrini” alla scoper­ ta di un mondo nuovo e migliore, più vicino alla natura e quindi a Dio. Per l’ennesima volta, ritroviamo l’implicita polemica con­ tro gli aspetti più feroci della civiltà degli affari e del denaro. Ma ritroviamo, soprattutto, un piccolo artista con umili ambizioni contadine, uno che si esprime come gli hanno insegnato i padri, senza saper scegliere fra buono e cattivo, senza alcuna critica sto­ rica. L’America, per Vidor, è questa semplicità idilliaca, fuori del tempo. Diamo per scontato, a questo punto, il deteriore patetismo che si trova qua e là nel film. L’abbiamo giudicato ogni volta che Pabbiamo incontrato, cercando di comprenderlo nel quadro di una personalità particolare (e certo non eccezionale) e di una società in un momento di stasi. Al patetismo attribuiremo inol­ tre la causa di numerose pesanti o volgari ironie, di certi scherzi che superano il limite dell’intelligenza per naufragare nell’ovvio (per esempio, la doccia di Slim e di Tom, nudi, alla presenza inavvertita di Mélisande o, prima di ciò, la corvée dei soldati intenti a spalare nell’aia, le lagne di Slim per il lavoro fastidioso, l’intervento burbero e goffo di Tom) e di tutte le ingenuità psi­ cologiche o descrittive disseminate in La grande parata. Anche facendo di tutto questo il debito conto, rimane sempre un fatto 95

all’attivo del film, ed è il suo autentico fondo pacifista. Nel 1925, nel clima dell’America conformistica, abitata da milioni di stupi­ di Babbitts pronti a “bere” le idiozie che gli propinava l’ideologia dominante («A quell’epoca — scrisse Sinclair Lewis, il creatore del personaggio di Babbitt — non sapevo che cosa si potesse opporre alla mentalità diffusa. Sapevo soltanto che vi si sarebbero potuti opporre unicamente degli uomini liberi»), il disarmato e disar­ mante pacifismo del texano King Vidor era cosa da apprezzare. Lo possiamo apprezzare anche oggi, a distanza di decenni ormai, perché usciva dal cuore di un uomo semplice e onesto, che eser­ citava tranquillamente (e, in più punti, con ottimi risultati for­ mali) il proprio mestiere. Ridurre il valore di La grande parata a meno che nulla, come troppi vorrebbero, è non solo inesatto ma stupido. Il cinema ha tratto slancio e vigore da opere come que­ ste, non pietre miliari dell’arte, ma tappe importanti dello svi­ luppo linguistico e ideologico. L’ingenuo pacifismo di King Vidor aprì la strada, in molti sensi, al pacifismo cosciente e duro di Milestone, di Pabst, di Wyler, di Dmytryk, di Zinnemann, di Aldrich, di Anthony Mann, di Kubrick, e di tutti gli altri cui siamo soliti attribuire posizioni di lucida critica storica. Un pacifista patriarcale, che trova rifugio nella natura per timore del mondo, disse la sua parola non trascurabile nel lontano 1925. Ricollocandolo nel suo tempo, lo comprendiamo correttamente, senza stolide condanne e senza inutili esaltazioni. («Bianco e Nero», a. XXI, n. 10-11, ottobre-novembre I960, pp. 82-98)

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The Great Dictator Satira esemplare del Nazismo

Carte in tavola. «Questa è una storia che si svolge negli anni fra due guerre mondiali: un intervallo durante il quale la Follia si sca­ tenò, la Libertà precipitò a capofitto e l’Umanità fu presa un poco a calci». Chaplin dichiara i suoi scopi con la chiarezza e l’ar­ guzia che gli sono proprie. Si parlerà di noi, di voi, il nostro mon­ do di pazzi. Se ne parlerà seriamente e con speranza nel futuro: dopo tutto, questo periodo noi sappiamo che è un intervallo, un interim. Ma se ne parlerà anche con una certa souplesse, se pos­ sibile, visto che l’Umanità (le maiuscole sono di Chaplin) è stata presa un pochetto a calci nel sedere, «was kicked around somewhat». Sono parole messe come prefazione a un film conce­ pito nei primi mesi del 1939 e girato fra il settembre dello stesso anno e il marzo dell’anno successivo, quando già era divampata la guerra in Europa.1 Eppure, per Chaplin, è già storia di ieri. Ce la propone subito come veduta dall’alto di quel “futuro” in cui egli già si trova (la sua speranza nell’avvenire equivale a una cer­ tezza). L’interim è già trascorso, per lui. I verbi della prefazione sono al passato remoto. Immerso nella storia come tutti, Chaplin esordiva con questo gesto di orgoglioso ottimismo. Il nemico, l’uomo al quale si debbono la follia, l’eclissi della libertà, l’umi­ liazione dell’umanità, è già stato sconfìtto. Generalmente, dinanzi a II grande dittatore {The Great Dicta1

T. HUFF, Charlie Chaplin, Milano-Roma, Fratelli Bocca, 1955, p. 329. [In realtà Chaplin dichiarò le sue intenzioni di dirigere II grande dittatore già nel 1938. Le riprese, inoltre, durarono più di un anno, poiché il regista, da per­ fezionista quale era, a film praticamente concluso, decise di ricostruire il set (ormai smontato) del “ghetto” e dirigere ex novo alcune sequenze, di cui non

era pienamente soddisfatto. Cfr. K. BROWNLOW — M. Kloft, The Tramp and the Dictator, extra del DVD del Grande dittatore, distribuito nel 2003 da MK2 Editions per Warner Bros].

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tor) la critica e la storiografìa cinematografiche hanno reagito in due modi fra loro opposti: da una parte si è lodata — con ammi­ razione e slancio più o meno grandi2 — la generosa “protesta” civi­ le di cui il film è frutto, il suo perentorio antifascismo; dall’altra sono state censurate la (più o meno vistosa) debolezza della strut­ tura narrativa, la confusione delle linee di sviluppo della storia, la mediocrità della satira.3 Una parte e l’altra hanno fatto conces­ 2

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Citeremo per tutti il saggista sovietico M. BLEIMAN (da ElSENSTEJN — B LEIMAN — KOZINCEV — JUTKEVIC, La figura e l’arte di Charlie Chaplin, Torino, Einaudi, 1949) [pp. 58-59, 64. Il saggio s’intitola L’immagine delpoveruomo}'. «Il film che Chaplin ha lanciato in questo periodo è saturo di autentico reali­ smo storico e imbevuto di concreto contenuto storico. Il punto di vista del nichilismo storico non ha più diritto di esistere. La storia si è infiltrata così imperiosamente nel destino personale di ogni individuo, e il destino di ogni essere umano è così legato alla guerra, che non è più possibile ostentare disin­ teresse verso i problemi storici, cavarsela dicendo che il processo storico non esiste, e negare l’importanza del processo stesso sforzandosi di dimostrare che la storia è priva di raziocinio e di significato. [...] Poco importa che la lotta si svolga nella forma tradizionale dello spettacolo comico e buffo; poco impor­ ta che Chaplin porti la maschera del disgraziato ridicolo. Quando l’arte è vera, autentica, la sua forma è sempre originale e inimitabile. Sull’arte di Cha­ plin spira il vento maestoso della storia e il grande ideale dell’umanità. Cha­ plin ha il diritto di indicarci un eroe nel suo omino dai pantaloni laceri e troppo ampi, con il suo tubino ammaccato e le scarpe inverosimilmente lar­ ghe. Egli è stato capace di farci assumere verso il suo personaggio un conte­ gno serio, come verso un grande eroe tragico, anche quando lottava per una felicità meschina come la sua. E ora è assurto alla grandezza d’un eroe, d’un paladino degli umiliati e degli offesi...». II più tipico — perché più coerente e sensibile — fra i critici che hanno limita­ to il valore del film, è stato M. CROMO. Nella sua recensione del 1946 (ora in Film visti, Roma, Edizioni Bianco e Nero, 1957 [p. 252]) scriveva: «Qui la satira di un Hitler 1937 s’inizia con una felicità persino profetica, ammirevo­ le di toni e di sviluppi, per culminare nel bellissimo episodio del mappa­ mondo di guttaperca; ma poi, dopo qualche guizzo, devia, si fa evanescente, o trita, per infine cedere il passo a un’invocazione che è soltanto un pistolot­ to enorme, una conclusione che non conclude, e finisce per rivelarsi un ripie­ go. Un satirico, pur tra sarcasmi e ironie, è un po’ un postero, che già sapeva e giudica; ma gli spettatori d’oggi del Dittatore, e gli avvenimenti che dal ’37 in poi si sono susseguiti, sono fin troppo i posteri di questa satira talvolta sin­ golarmente preveggente e acuta, ma più spesso soltanto allusiva o spuntata».

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sioni verso le tesi dell’avversario, ammettendo, gli “antifascisti”, che non tutto era limpido nella ribellione di Chaplin e conce­ dendo, i “detrattori”, che l’idea generale possedeva un sua obiet­ tiva vitalità quantunque sprecata dall’uso troppo diretto che l’au­ tore faceva delle sue frecce polemiche. Sarebbe sciocco dividere il campo, da parte nostra, in critici “progressivi” (i primi, i favore­ voli) e in critici “reazionari” (i secondi), anche attribuendo agli aggettivi un significato ideologico-culturale e non politico. “Pro­ gressivi” e “reazionari” sono equamente mischiati, in questo dibattito. E ciò diciamo per togliere al dibattito stesso una colo­ ritura che giudichiamo pericolosa, giacché potrebbe trascinarci verso l’incomprensione preconcetta di II grande dittatore. Se è vero, per concludere, che i “progressivi” stanno piuttosto fra i pri­ mi che fra i secondi (e viceversa gli altri), non è meno vero che il dibattito ha comunque peccato in eccesso di polemica (in frain­ tendimento dei significati del film) perché si è mancato di acco­ starsi all’opera con la necessaria umiltà.4 Chaplin, s’è detto, mise le carte in tavola prima ancora di cominciare il gioco. E fu, davanti al tempo che si accingeva a rap­ presentare, un vero e proprio postero. Posizione, lo si converrà, singolare, ma che non fù dettata da un calcolo balzano bensì da una precisa esigenza storica. Andrebbe subito fuori strada chi guardasse il Chaplin del Grande dittatore come un artista furente che versa nella propria opera — con l’immediatezza del gesto che segue senza riflessione un moto dell’animo — la dura condanna di

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Una raccolta lacunosa ma abbastanza indicativa delle reazioni della critica internazionale verso II grande dittatore è stata pubblicata da II nuovo spettato­ re cinematografico, Torino, n. 21, aprile 1961. La redazione della rivista com­ menta via via le opinioni registrate e ne traccia un bilancio alla fine. La nota conclusiva, inoltre, contiene l’accenno a un possibile parallelo fra il Chaplin di questo film e il Brecht del “soldato Schwejk”. Ma si tratta di osservazioni sbrigative, imperniate esclusivamente su certe affinità contenutistiche fra le due opere. Altri elementi per una bibliografia sono reperibili in G. VlAZZI, Chaplin e la critica, Bari, Laterza, 1955. Cfr. soprattutto pp. 168 (Bazin), 198 (Chiarini), 226-29 (Lejtes), 356-58 (giudizi vari riassunti).

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un uomo e di un sistema politico. Nella filmografia dell’autore non esiste nulla di meno immediato di questo che sembra un semplice, violento grido di accusa. Dietro la doppia storia di Hynkel e del barbiere ebreo sta un’ottima preparazione storica, sociologica e psicologica, e per provarlo non è necessario ricorre­ re a dati biografici sicuri (di pubblici, del resto, non ne esistono in tal senso) : il film parla da sé, e questa può essere tra l’altro una nuova occasione per mostrare la parzialità — non diciamo la infondatezza totale, beninteso — delle teorie intuizionistiche del­ l’estetica contemporanea. Il nazismo di Adenoid Hynkel e della Tomainia che egli gui­ da ha radici profonde. Chaplin le esamina una per una, con la esattezza e — potremmo dire — il distacco scientifico di uno stori­ co. Anzitutto, le radici affondano nel terreno della prima guerra mondiale, trattata nelle sequenze d’apertura. La Tomainia è ormai sconfìtta, ma combatte ancora, non solo con l’accanimen­ to dei disperati ma anche con la fredda determinazione di chi sia persuaso di essere nel giusto. Schultz, il pilota, deve raggiungere a ogni costo il Quartier Generale per consegnare i piani che assi­ cureranno la vittoria. Gli americani hanno già fatto irruzione da tutte le parti, la grossa Bertha fa cilecca, gli artiglieri si trovano in prima linea e debbono impugnare fucile e bombe a mano per la estrema resistenza, e questo indomabile soldato prussiano è anco­ ra certo della vittoria. Il militarismo tedesco, che sfociò nella pri­ ma guerra mondiale, si travaserà nel nazismo, esasperato e ingi­ gantito dalla “ingiusta” sconfìtta. Ma le radici della ideologia affondano anche nel terreno ferti­ le della psicologia collettiva. Quando Schultz si accorge che l’ae­ reo è privo di carburante e la fine è prossima, dà sfogo alle sue romanticherie, nelle quali ritroviamo tipiche tendenze psicologico-letterarie dell’anima germanica. In chiave ironica, con grande finezza, Chaplin mette in bocca al morituro queste parole: «In che mese siamo? Aprile. Aprile in Tomainia. Hilda sarà in giardi­ no, adesso. Starà coltivando i narcisi. Come le piacciono i narci­ si. Non avrebbe mai il coraggio di reciderli, per paura di fargli 102

male. Recidere un narciso sarebbe come stroncare la vita di un uomo. O dolce, cara Hilda. Un cuore gentile. E le piacciono anche gli animali... e i bambini». Non si potrebbe essere più luci­ di di così nell’individuare le inclinazioni sentimentali di un popolo e nel presentarle fin d’ora come un possibile contrappun­ to alla follia che si scatenerà negli anni successivi. Hilda sarà sem­ pre eguale - lascia intendere Chaplin - sempre gentile dolce e tenera, anche se marcerà inquadrata nei ranghi del partito, come milioni di altre Hilde parimenti innamorate dei narcisi, degli ani­ mali e dei bambini. «Recidere un narciso sarebbe come stroncare la vita di un uomo». Alla luce di quel che accadrà più tardi, nel film, le parole acquisteranno intero il loro significato. Accanto agli aspetti idillici, vengono posti esempi tipici della ferrea organizzazione gerarchica dell’esercito della Tomainia, del­ le sue strutture di casta (Federico II affermava che i soldati dove­ vano temere i propri sottufficiali più ancora del nemico, e qui Chaplin esemplificava acutamente, con l’episodio della grossa Bertha che spara su Parigi e in quello dell’attacco aereo alleato), della disciplina assoluta che regna fra le truppe, pronte a buttarsi compatte allo sbaraglio. Ciò non impedisce che esistano anche i vigliacchi e i furbi, in questo esercito esemplare (quando il bar­ biere ebreo entra nella casa diroccata e trova il mitragliere che spara contro il nemico, si svolge fulminea la seguente scenetta: «Di che divisione sei?», chiede il mitragliere. «21°Artiglieria, signore». «Prendi questa... e tienili lontani... continua a sparare. Io torno subito». Così dicendo il mitragliere se la squaglia e met­ te la pelle in salvo), ma l’autore mira proprio a tale scopo: dimo­ strare come la gerarchia e la disciplina, quando sono eccessive, non possano generare altro che viltà e astuzia, mandando in giro per il mondo individui alienati, crudeli, volgari, preoccupati solo del proprio tornaconto o della propria sopravvivenza. Hitler con­ fessò un giorno a Rauschning:5 «Io do ai miei la più ampia libertà... Fate quello che volete ma non lasciatevi prendere con le 5

H. RAUSCHNING, The Voice ofDestruction, New York, Putnam, 1940.

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mani nel sacco... Forse che abbiamo tirato il carretto fuori dal pantano solo per essere mandati a casa a mani vuote?». Tutto è permesso a chi ha il potere. Come Hynkel l’abbia conquistato, il potere, a Chaplin non interessa. Finita la guerra (il barbiere ebreo, dopo lo schianto del­ l’aereo, emerge penosamente dalla melma in cui è affondato), una serie di dissolvenze incrociate, che hanno per leitmotiv la rotativa di un giornale, mostra parallelamente quel che accade al povero soldato e quel che accade alla Germania. La pace. Titoli di giornale annunciano: «Dempsey batte Willard, Crisi, Tumulti in Tomainia, Il partito di Hynkel conquista il potere». Basta. Un banale “montage” risolve la questione, quindici anni di storia vengono agilmente saltati. Il narratore, che parla fuori campo, tra l’altro dice: «Il dittatore Hynkel governava la nazione con pugno di ferro. Sotto il segno della doppia croce, la libertà fu abolita, la libertà di parola soppressa. Si udiva soltanto la voce di Hynkel». Eccolo, Adenoid Hynkel. Di spalle — ha spallucce rincagnate, pare un aborto — mentre arringa la folla dei figli di Tomainia, degli Schultz e delle Hilde che amano la natura idillica e la ferrea disciplina. Ora è di fronte, il discorso continua. Hynkel parla in maniche di camicia. Ha sul capo il berretto con la doppia croce. I baffetti danno un’espressione sgradevole al volto tutto smorfie. Il dittatore agita le braccia, che ha corte e buffe come quelle di un burattino. Il ritratto di Hitler appare prodigioso, nella sua comi­ co-tragica precisione (sappiamo che Chaplin si è documentato sulle attualità cinematografiche tedesche, studiando a lungo il suo modello). Lo vediamo e lo udiamo. Ai gesti si accompagna la voce. Vomita parole di libertà. Chaplin ha inventato per Hynkel un linguaggio nuovo, tedesco nella pronuncia, incomprensibile nel senso. E l’unico linguaggio possibile per quel dittatore, la sua fotografìa sonora. «Ay the straff miz hilten zect — the wiener schmitzel mit da lager beerden und der sauer craut — ay de fluten facta flatten — and Tomainia uit zien struff und de bleuten zacten flutz, ay — icht zayna struff mit a ach — uch — ich — ach — uch — (qui Hynkel tossisce, sopraffatto dalla sequela di gutturali che ha 104

pronunciato) Baloney! Baloney whatzien schritz mit a - ayden zacta flewn - ain da struff mit zina clutch...». Chaplin ha ridotto l’oratoria di Hitler all’essenziale, svelando l’intima natura di quei discorsi che duravano ore e non dicevano nulla. Avevano l’unico potere di magnetizzare le masse. Parole come suoni elementari, come narcotico. Ora comprendiamo perché Chaplin abbia sorvolato sui modi della conquista del potere. Non v’era bisogno di perdere tempo in lunghe spiegazio­ ni economico-sociologico-politiche. Come Hynkel abbia fatto, su quali forze si sia appoggiato, lo comprendiamo immediata­ mente ascoltandolo. A Chaplin interessa osservare come faccia a conservarlo, il potere conquistato, e in qual modo lo impieghi. Ci troviamo nel cuore della storia, abbiamo evitato le digressioni inutili. I discorsi di Hynkel sono, in un certo senso, più veri di quelli di Hitler, li riassumono integralmente nella logorrea che l’autore ci presenta. Una sintesi formidabile, che non sarebbe sta­ ta possibile per sola virtù di intuizione e senza una approfondita ricerca storiografica. Nel Mein Kampf Hitler teorizzava il signifi­ cato del suo potere e dell’oratoria che lo sosteneva: «Il popolo ha, nella sua grande maggioranza, una natura così femminile che il suo pensiero e il suo modo di agire sono determinati non tanto dalla fredda riflessione quanto dalla sensibilità affettiva».6 Al limite, dunque (e solo il limite è pienamente espressivo) non occorrono nemmeno parole comprensibili per convincerlo. Sono sufficienti suoni che nascano da storpiature di parole comuni come “wiener schnitzel”, “lager bier”, “sauer kraut”, mischiate a pure manifestazioni foniche come “Baloney whatzien schtritz”. Riepiloghiamo. Il ritratto del nazismo, di Hynkel e della Tomainia riposa sulle solide basi dei precedenti storici (il milita­ rismo, la sconfìtta nella prima guerra mondiale, lo spirito revanchista), della psicologia collettiva (il candido amore per la natura accoppiato a una isterica frenesia dell’obbedienza), del quadro clinico di un paranoico. Le tre cause non sono separabili. In altre 6

II Mein Kampfè edito in Italia da La Lucciola (Albairate, 1992). [n.d.c.]

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parole, qui non si insinua, con una sorta di razzismo alla rovescia, che il popolo tedesco fosse — per una qualche sua connaturata e metafisica essenza — il veicolo elettivo del nazismo, non si dà cre­ dito alla equazione (viva purtroppo nel sentimento popolare in Europa): popolo tedesco uguale nazismo. Al contrario, si pongo­ no in rilievo le componenti storiche della involuzione totalitaria della Germania e se ne cerca il motivo concreto. E non si opera nemmeno quell’altra riduzione all’assurdo (particolarmente cara alla Germania del nostro dopoguerra), che consiste nell’addossare tutte le responsabilità a Hitler e al suo partito, un uomo e un gruppo che avrebbero violentato — lui quasi inconsapevole — l’a­ nima di un popolo intero. La via scelta da Chaplin è quella della storia. E non si dimentichi che egli la scelse prima che scoppias­ se la guerra, nel 1939. Per questo, abbiamo detto che Chaplin si comporta come un postero. Ma di ciò non meneremo scalpore, né per ciò alzeremo (come molti hanno fatto) grida di irriflessiva adorazione, quasi che Chaplin fosse stato un profeta. Per due ragioni non lo faremo: perché Chaplin lo comprendiamo meglio considerandolo (come è) uno storico illuminato e non un visio­ nario incredibilmente geniale, e poi perché l’ammirazione per il profeta ci sembra un altro segno pernicioso dell’influenza delle estetiche intuizionistiche esasperate fino al vaniloquio. Fissati i precedenti, l’autore procede all’analisi della storia contemporanea. Il nazismo di Hynkel presenta gli aspetti di una dittatura reazionaria che tende, come fine ultimo, alla guerra e alla conquista del mondo. Le dottrine della conservazione tede­ sca e del prussianesimo ideologico affiorano una per una nei discorsi sconclusionati (sconclusionati perché debbono essere, insieme, sintetici e comici; non perché non abbiano un senso alla base) del dittatore di Tomainia. «Democracy stunk».7 La demo­ 7

Corruzione del tedesco «Demokratie stinkt». E curioso notare come questo lin­ guaggio, che parrebbe di fantasia, possegga una sua scrupolosa esattezza. Il tede­ sco ricorre nei punti salienti, e con alterazioni assai lievi: il necessario appena per dare colore alla satira, non un grado di più. L’aderenza alla realtà dà un valo­ re e una forza particolari alla deformazione critica del linguaggio hitleriano.

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crazia puzza. «Liberty stunk». La libertà puzza. «Free sprechen stunk». La libertà di parola puzza. La ripetizione di “stunk” è non soltanto un effetto oratorio ma anche una dimostrazione di bru­ tale volgarità, un segno di stile. Le tre affermazioni hanno una immediata conseguenza logica. «Tomainia, mit der grotzen army in der welt». La Tomainia ha il più grande esercito del mondo. «Wit zien est der grotzen ahless und dine to sacrifice». Per rima­ nere grandi dobbiamo sacrificarci. «I — ahless — un Ina strutten tighten the belten». Dobbiamo tirare la cinghia. Questo miscu­ glio di tedesco maccheronico («mit der grotzen army in der welt»), di inglese germanizzato («tighten the belten») e di suoni, rutti, gorgoglìi in libertà indica le tappe della progressiva marcia del nazismo verso la reazione, la miseria, la guerra. La voce dello speaker (si suppone che il discorso sia radiodiffuso all’estero) ha via via tradotto le parole di Hynkel. Monito per il mondo. Un intermezzo spassoso, prima di proseguire. Nella corte di Hynkel, ecco Herring (Goering). E la vittima, il giullare, il reggi­ coda idiota del dittatore. Udendo parlare di cinghia, scatta in pie­ di: «Heil Hynkel! Ich von der fersten!» Lui, per primo a stringere la cintura. Hynkel si commuove sino alle lacrime. Esclama: «Ah, Herring — Poopshen Herring — Bismarck Herring...». Il vezzeg­ giativo “poopshen” (alterazione comica del tedesco “Piippchen”, bambolina), la nota culinario-politica di quel Bismarck, l’insi­ stenza sul nome di Herring (che in inglese significa aringa) aggiungono al quadro una divertente nota satirica. L’ingenuo Herring stringe il cinturone della divisa, si lascia cadere sulla sedia, e la fìbbia salta sulla pancia che esplode. Conviene rianda­ re all’affermazione di Hitler citata più su, come al commento meglio appropriato: «Forse che abbiamo tirato il carretto fuori dal pantano solo per essere mandati a casa a mani vuote?». Elettrizzata la folla con l’immagine di una Tomainia potente e invincibile, Hynkel prepara il terreno a una teoria suggestiva che giustifichi i sacrifìci chiesti al popolo. Siamo al razzismo. L’idillio, dapprima, il sogno a occhi aperti della razza ariana. Anche qui la fusione di grottesco e di folle, nelle parole astruse ma ormai com107

prensibilissime del dittatore, ottiene effetti stupefacenti. Dalle ragazze comincia Hynkel, e accompagna il discorso con gesti carezzevoli delle mani: «Ah - und de Aryan - und de Aryan mai­ den - ah - de Aryan maiden - ah the delicatessen mit de shayn».8 Rapidamente passa dal vagheggiamento sensuale delle fanciulle ariane all’accusa feroce contro gli ebrei. Come una mitragliatrice, urla: «Ay the muss, for the kinder katzenjammer - the katzenjammer, mit tha utten, zecta, feeten, fighten, footen, foughten, utten, sect. Ay - soldier for Hynkel! Vezain the Aryan - and now tha Jewdan». Un grugnito, e porta l’attacco sino in fondo. Che significhi per Hynkel il razzismo è già abbastanza evi­ dente. Poco dopo, ce lo dirà in chiare lettere una frase di Garbitsch (Goebbels) rivolta al dittatore, quando passeranno in auto­ mobile tra la folla acclamante: «Bisognava essere più risoluti con­ tro gli ebrei. Dobbiamo eccitare il furore del popolo. Oggi la vio­ lenza contro gli ebrei potrebbe distogliere l’attenzione del pub­ blico dai morsi dello stomaco». Il quadro è completo, tutto il resto non sarà che una conseguenza di tali premesse. Il regime nazista è stato inserito perfettamente nella storia. Esaminando la “Weltanshauung nazionalsocialista”, Lukàcs osservò: «Il risenti­ mento di vaste masse contro lo sfruttamento da parte del capita­ lismo monopolistico viene deviato - con l’aiuto della demagogia sociale del razzismo e del fatto che le masse non proletarie vedo­ no i loro sfruttatori direttamente nel capitale monetario e finan­ ziario - sui binari dell’antisemitismo».9 Trovare Chaplin consen­ ziente con i risultati della storiografìa più impegnata non è più motivo di stupore. L’importanza di II grande dittatore sta non sol­ tanto in questo, ma questo è senza dubbio un elemento fonda­ mentale (un altro è - si capisce - la sagacia espressiva con cui l’au­ tore traduce in azioni drammatiche le idee maturate nello studio; di ciò parleremo più avanti). 8

In tedesco corretto suonerebbe: «Delicatessen mit der Sahne»; leccornie con la panna.

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G. LukAcs, La distruzione della ragione., Torino, Einaudi, 1959, p. 744.

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Le riflessioni fatte da Chaplin sulle origini e il significato del nazismo inducono a risalire all’atteggiamento generale da lui adottato. Che cosa sostituire, insomma, allo sdegno e al furore che ci sono parse spiegazioni troppo semplicistiche per motivare il suo impegno? Il film, veduto ora nelle sue principali compo­ nenti storiografiche, appare come un atto di coraggio e di consa­ pevolezza. Chaplin è stato l’unico artista della sua epoca che ha sentito il bisogno di affrontare i “mostri” a viso aperto e ne ha assunto tutta la responsabilità artistica e ideologica. Sinora, forse, siamo stati eccessivamente attratti dal semplice fatto cinemato­ grafico che II grande dittatore rappresenta (e perciò divisi nella valutazione dei suoi meriti e dei suoi demeriti) per poter osserva­ re il film nell’ambito della storia della cultura. Nessuno ha mai pensato di fare quello che ha fatto Chaplin, e nessuno, anche pensandolo, ha mai spinto l’indagine e il giudizio - fusi nella rap­ presentazione - sino al limite di chiarezza definitiva al quale egli è pervenuto. Si ponga a confronto - per non uscire dal cinema Il grande dittatore con la caricatura di un dittatore tracciata da René Clair in L’ultimo miliardario (Le dernier milliardaire., 1934). Chaplin ha dalla sua l’impegno totale, la lucidità, l’approfondi­ mento, la forza della rivolta politica; a Clair non rimangono che poche, e mal sfruttate, qualità del suo spirito, l’arguzia lieve, l’in­ telligenza sottile, la divagazione pochadistica. La differenza di valore fra le due opere è immensa: le farsesche avventure del dit­ tatore di Casinario, chiuse nel cerchio dell’allegoria, appaiono meschine o addirittura irritanti dinanzi al poderoso ritratto di Hynkel, vero e documentato fino allo scrupolo cronistico. Immensa è anche la differenza di efficacia, giacché Clair, svagan­ do nel limbo di una fantasia piuttosto rinsecchita, non morde alcun problema basilare del nostro tempo, mentre Chaplin, sfi­ dando apertamente un “mostro” collettivo e la ideologia che lo sostiene, penetra nelle pieghe della società e ne porta alla luce il fondo, i pericoli, gli errori. Chaplin rifiuta le allegorie. «Questa è una storia che si svolge negli anni fra due guerre mondiali». I “mostri” sono questi, han­ 109

no un nome e un cognome; e l’insulto definitivo — l’espressione di una condanna che è insieme disprezzo — sta proprio nel fatto che sono nomi storpiati da un gusto sadico-ironico al quale si vorrebbe quasi dare il significato di un contrappeso (una ritor­ sione) al sadismo grottesco dei protagonisti: Adenoid Hynkel in luogo di Adolf Hitler, Herring (aringa) in luogo di Goering, Garbitsch in luogo di Goebbels, Benzino Napaloni in luogo di Beni­ to Mussolini, e così via. Al centro del secolo e alla vigilia della guerra scatenata dai “mostri”, Il grande dittatore acquista auto­ maticamente una importanza che non si dovrebbe esitare a defi­ nire eccezionale. Chaplin aveva dei precedenti in questo senso, e, anche se piccoli, occorre ricordarli. Parte da lontano il suo impe­ gno. Con Chariot soldato (Shoulder Arms), nel 1918, aveva imma­ ginato (nel sogno del suo piccolo soldato in trincea) di catturare il Kaiser per porre fine alla guerra. In quel filmetto c’era solo pacifismo, certo, e neppure l’ombra della maturità raggiunta con Il grande dittatore, ma la prova di una coerenza rintracciata a tan­ ta distanza di anni può avere un suo sapore. Chi è Chaplin che osa sfidare quel “mostro”? Dopo quello storico, accostiamoci al secondo aspetto — psicologico, indivi­ duale — dell’opera. «Ho fatto il film per gli ebrei di tutto il mon­ do». Per i perseguitati. Lui stesso è un perseguitato. Non ha mai rappresentato, con il suo Chariot, altro che questo. Con II gran­ de dittatore si apre, per Chaplin, un periodo di transizione. L’eroe di tutti i film precedenti si trasforma, comincia a cercare altre incarnazioni. Alcuni sostengono che da qui abbia inizio la crisi, che il progressivo abbandono di Chariot nuoccia sempre più gra­ vemente alla ispirazione di Chaplin, per concluderne che solo nei panni di Chariot Chaplin è stato artista o, quanto meno, grande artista. Ponendo al centro di un immaginario trittico II grande Dittatore, vediamo che da una parte, verso il passato, Chariot trovò l’ultima occasione di imporsi in Tempi moderni (Modem Times, 1936) e che dall’altra, verso il futuro, scomparirà total­ mente per entrare nella pelle di un raffinato filibustiere parigino, Monsieur Verdoux (1947) e per non riapparire più (con Luci del­ 110

la ribalta — Limelight e Un re a New York — A King in New York saremo alla ricerca di personaggi sempre nuovi).10 In II grande dittatore, il personaggio di Chariot si sdoppia, una faccia verso il passato (il barbiere ebreo), una faccia verso il futuro (Hynkel). Il Chariot-barbiere è la somma di tutti i perseguitati che Cha­ plin ha interpretato durante la sua carriera. Simbolo, inoltre, di tutti gli ebrei perseguitati nel mondo, ha caratteristiche marcatis­ sime. E pacifico, ingenuo, buono, ossequiente e cerimonioso, timido, lavoratore. Ha, della vittima, tutti i pregi e tutti i difetti. Sembra che Chaplin abbia voluto comporre un’antologia delle qualità dell’ebreo moderno e, insieme, di se stesso. Per stringere tutto in una formula riassuntiva, diremo: le qualità dell’uomo disarmato. Seguiamolo e scopriremo come si difende un uomo disarmato contro le insidie del mondo, contro la vita: sarà di vol­ ta in volta astuto, servizievole, vile, coraggioso, faccendiere, disperato, ironico. Osserviamo la verità psicologica del personag­ gio. Quando Chaplin diceva di voler dedicare il film agli ebrei di tutto il mondo non sapeva forse che si apprestava a offrirgli anche il loro più autentico ritratto. A Schultz che lo fa salire sull’aereo e gli domanda se sappia pilotarlo, il barbiere, che non si è mai avvi­ cinato a quelle macchine infernali, risponde serafico e pieno di buona volontà: «Posso provare». Al soldato delle Storm Troops (traduzione inglese di “Sturm Abteilungen”, le SA) che lo sor­ prende a cancellare dalla vetrina la scritta “ebreo” dà alcune rispo­ ste da cui traspare quanto egli sia ingenuo, involontariamente ironico, illuso. «Che cosa credi di fare?», gli chiede il soldato. «Non lo so proprio». «Bé, allora lasciala stare» (la scritta). «Ma non faccia lo stupido». «Io non sono stupido». «Mi fa piacere». Poco dopo, quando gli si gettano addosso per arrestarlo, esclama: «Avrete notizie dal mio avvocato». Schultz, che egli ritrova dopo tanti anni e che è divenuto un gerarca nazista, gli salva la vita, lo 10 Sul Chaplin “post-Dictator” si vedano di Di Giammatteo: Luci della ribalta, in «Rassegna del film», a. II, n. 11, febbraio 1953, pp. 33-35; Un valzer a bordo, un tango a Waikiki, in «Il Ponte», a. XXIII, n. 2, 28 febbraio 1967, pp. 228-235. \n.dc.\

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guarda a lungo e soprappensiero dice: «Strano... avevo sempre pensato che tu fossi ariano». «Io sono vegetariano», risponde seriamente. Molto più avanti, quando sta per essere acciuffato dai nazisti ed è costretto a rientrare nella camera da letto, nella quale era prima precipitato sfondando il lucernario, si scusa cerimo­ niosamente dinanzi agli sposi: «Mi dispiace - credo proprio che dovrò disturbarvi un’altra volta». Capovolgendo i caratteri del perseguitato, Chaplin costruisce la psicologia del persecutore. Un caso di sdoppiamento come questo rimarrà unico nella storia del cinema. Non cerchiamola altrove la genialità dell’artista. Sta qui, nella “comedy of errors” che Chaplin architetta, con grande felicità interpretativa e sulla scorta di una preparazione storica della quale non rinnega nulla. La coincidenza fra lo sdoppiamento del personaggio e la verità storico-sociale del dittatore Hynkel spiega la vitalità di II grande dittatore. Questo Hinkel - si osservi - è un miserabile vanesio (l’armadio dell’ufficio che sembrerebbe contenere i cassetti di uno schedario non contiene altro che due grandi specchi nei qua­ li il dittatore può rimirarsi) mentre il barbiere è un timido incor­ reggibile. Hynkel è un pavido senza scampo (trema all’annuncio che Napaloni gli vuol parlare per imporgli la sua volontà) mentre il barbiere, pacifico per temperamento, trova la forza di ribellarsi quando la misura è colma. E un idiota che sbaglia ogni mossa che fa, mentre il barbiere gioca d’astuzia se gli è possibile (ingoia le monete che trova nel budino per non essere prescelto come ucci­ sore del tiranno, secondo i piani di Schultz). E un maniaco ses­ suale (abbranca una segretaria e la rovescia sul divano con mosse grottesche di satiro) mentre il barbiere è una anima candida, un “absent-minded” che si impappina puerilmente ogni volta che ha con sé Hannah (citiamo, per tutte, la scena dell’insaponatura del viso). E un folle afflitto da varie psicosi, sulle quali domina una isterica volontà di potenza, mentre il barbiere si comporta sem­ pre come un individuo del tutto normale e tranquillo, nonostan­ te che sia stato ricoverato per molti anni in manicomio. Parla come un invasato, travolto da una logorrea incontenibile, men­ 112

tre il barbiere ha difficoltà a spiccicare parola (tranne che alla fine, ma lì perché le sorti si sono capovolte ed egli deve presen­ tarsi alla folla come Hynkel). Ed è davvero inutile che Chaplin si premunisca, tentando di scherzare sull’argomento (una nota ini­ ziale recita: «Ogni rassomiglianza fra il dittatore Hynkel e il bar­ biere ebreo è una semplice coincidenza»): Hinkel e il barbiere sono i due volti della stessa persona. Non occorre appoggiarsi a una intervista concessa dallo stes­ so Chaplin («Tutti i miei desideri repressi si esaudiscono nello scrivere, dirigere e interpretare un film come questo. Tra il ditta­ tore e me, tra un personaggio tragico e uno comico, non so più distinguere l’uno dall’altro»)11 o scomodare Samuel Goldwyn che espresse un’opinione analoga («Non ho mai conosciuto nes­ suno che amasse il potere e la potenza come Chaplin»)11 12 per comprendere la mirabile analisi della psicologia di Hynkel che l’autore svolge da un capo all’altro del film. Chaplin vede e giu­ dica se stesso guardandosi nello specchio di Hynkel. Se si esamina più da presso questo sdoppiamento, che ha col­ pito l’attenzione di molti critici,13 si possono fare scoperte inte­ 11 Riferito da T. HUFF, op. cit., p. 331. 12 Cit. in P. COTES — T. NlKLAUS, Chariot, Parigi, Nouvelles editions de Paris,

1951, p. 202. 13 In un panorama del cinema americano negli anni 40 {Dieci anni di cinema americano: 1939-1949, in «Bianco e Nero», a. XI, n. 12, dicembre 1950), G. C. CASTELLO scriveva: «The Great Dictator fu il film del congedo di Chaplin da Chariot. Uno Chariot che non sosteneva più, autonomamente, l’intero peso dell’opera, ma si sdoppiava, per stabilire un dialogo e un duello con il proprio altro io, con quella sua proiezione bizzarramente demoniaca, che era Hynkel, il dittatore, trasparente ricalco di Hitler. [...] Chaplin non nascon­ deva il suo proposito di fare del cinema non più soltanto vagamente sociale (però Modem Times aveva già costituito una prima presa di contatto e di posi­ zione), ma politico. Il clown Chariot non era più soltanto un paradigma di valore universale nella sua simbolicità di contorni, ma un piccolo barbiere ebreo, vittima della mostruosa persecuzione razziale e posto dal caso nelle condizioni di lottare col suo tremendo sosia e di riuscire a sostituirlo, per lan­ ciare al mondo un messaggio di pace, che neutralizzasse il messaggio d’odio lanciato dal suo avversario» [p. 42]. In occasione della riedizione italiana del

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ressanti. L’autore, che razionalmente si identifica con il barbiere ebreo, conduce una lotta serrata contro il dittatore, immagine stravolta di se stesso. Un oscuro complesso di colpa affiora nel suo animo, con due aspetti, uno di carattere personale e un altro di carattere generale. Il primo è utile per chiarire la genesi artisti­ ca dei due personaggi; il secondo serve per svelare la ragione profonda dell’impegno ideologico di Chaplin. Ponendo davanti ai suoi occhi, continuamente presente, la figura di Hynkel-Chaplin (incarnazione di tutto ciò che non vuole essere, oppure è), l’autore esorcizza la parte peggiore della sua personalità. La oggettiva ferocemente per riconoscerla e distruggerla: per uscire dall’incubo, per vincere - come si potreb­ be dire con linguaggio cristiano - la tentazione sempre viva in lui. La straordinaria lucidità del ritratto di Hynkel deriva da que­ sta premessa. Ma non si tratta solo di un fatto privato che in quanto tale potrebbe anche esaurirsi in se stesso, senza assumere quel più ampio significato che in II grande dittatore realmente possiede. Lottando contro i “mostri” che si annidano nel suo inconscio, Chaplin combatte contro le tendenze nefaste che alli­ gnano nell’animo di tutti gli uomini. Da ogni uomo e da ogni comunità di uomini è possibile che nasca il “mostro”: basta dare libero sfogo agli istinti perversi, alla brutalità, all’irrazionale. Per­ 1961, Ugo Casiraghi ha scritto su «L’Unità» (Milano, 4 febbraio 1961): «Il grande dittatore ha la struttura più acuta e complessa che un film di Chaplin avesse mai avuto sino allora. E lo provano due fatti, che non danno possibi­ lità di smentita. Il primo fatto è che Chaplin stesso si sdoppia, si può sdop­ piare, in due personaggi: il piccolo perseguitato e il grande perseguitatore, Chariot e il suo opposto, l’uomo e il mostro. Ciò dà una dimensione nuovis­ sima all’intera struttura drammatica, una allucinante forza di verità alla sati­ ra: come se Chaplin sapesse ripiegarsi nel cuore del mondo fino al punto di attingere anche l’estremo male. Il secondo fatto è che proprio questa nuova dimensione offre la più valida garanzia dell’onestà polemica dell’autore, e gli permette, pur creando lontano dall’Europa, pur ricorrendo a tutti i mezzi tra­ dizionali della sua arte, pur non conoscendo ancora gli sviluppi più tragici del­ la demoniaca avventura hitleriana, di penetrare a fondo se non nella genesi, nella realtà e nella fatale dinamica del nazismo».

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mettere che l’inconscio giunga alla superfìcie - favorito da parti­ colari situazioni storiche e sociali - significa scatenare la follia, cadere nella barbarie. Camminiamo sempre sul filo del rasoio. Come difendersi, che cosa contrapporre alla barbarie? Cha­ plin lo dice nella allocuzione finale, quando il bisogno di chia­ rezza (non si può essere vaghi o incompleti in questa materia) lo spinge a parlare in prima persona: «Nel capitolo XVII del Vange­ lo di San Luca è scritto: “Il regno di Dio è nell’uomo”. Non in un solo uomo o in un gruppo di uomini. In tutti gli uomini! In voi. Voi, il popolo, avete il potere — il potere di creare le macchine. Il potere di creare la felicità!». I “mostri” si sono scatenati perché noi abbiamo tradito l’idea del progresso, perseguendo fini che rinnegavano la parte migliore dell’uomo (il “regno di Dio”), con­ sentendo all’irrazionale di emergere e di dominare incontrastato la nostra vita. Il progresso è opera utile e positiva dell’uomo. Non ha in sé nulla di diabolico, anzi è un prodotto delle inclinazioni più alte dell’animo umano. «L’aeroplano e la radio - dice Cha­ plin nel discorso conclusivo - ci hanno fatti sentire più vicini gli uni agli altri. L’autentica natura di queste invenzioni è una prova squillante della bontà dell’uomo, un appello alla fratellanza uni­ versale, all’unione di tutti noi». La diagnosi che Chaplin fa della “decadenza” ha un profondo valore perché discende da premesse psicologiche (i “mostri” sono in lui, sono in tutti noi) e sociologiche (il progresso impiegato per fini inumani) individuate con tanta convinzione. «Nel mon­ do c’è spazio per tutti. La buona terra è ricca, può soddisfare i bisogni di ognuno. Il cammino della vita può essere libero e bel­ lo, ma noi l’abbiamo smarrito. L’avidità ha avvelenato l’animo umano, ha soffocato il mondo nell’odio, ci ha trascinati al passo dell’oca verso la miseria e la strage. Abbiamo ottenuto di muo­ verci sempre più velocemente, e intanto ci siamo chiusi in noi stessi. Le macchine, che danno abbondanza, non ci hanno libe­ rato dal bisogno. La nostra scienza ci ha reso cinici; la nostra intelligenza, prepotenti e spietati. Pensiamo troppo, e troppo poco concediamo al sentimento». L’avidità, dunque, appare 115

come la causa — psicologica e sociale — della decadenza. L’uso per­ verso delle facoltà intellettuali: ha inaridito il cuore, ha sconvol­ to la ragione. L’odio è la nostra condanna. Ma Chaplin non è pessimista, rifiuta di considerare irrimediabile la decadenza. Con un trapasso che è tipico di lui e che esprime — in sintesi brevissi­ ma — tutta la sua filosofìa della vita, esclama: «L’odio è solo di chi non è amato, di chi vive contro natura». L’avere esorcizzato Hynkel, dopo essere vissuto in lui bruciando sino in fondo tutte le scorie dell’irrazionale, a questo ha condotto. Alla scoperta del­ l’amore. Meglio, all’ingenuità e alla purezza originaria dell’amo­ re, quando ancora tutto è possibile, e il cuore può essere genero­ so e la ragione aperta sul mondo, limpida, umana. Siamo tornati al Chaplin di sempre, lo si vede bene. Il Cha­ plin del Monello {The Kid), della Febbre dell’oro {The Gold Rush), del Circo {The Circus), di Luci della città {City Lights). L’atteggia­ mento è quello, romantico e infantile, che svela ancora una volta il fondamentale semplicismo ideologico dell’autore. Ma a questo siamo pervenuti — con lo sdoppiamento barbiere-Hynkel e con la identificazione Chaplin-dittatore — attraverso una serie così folta di “richiami” sociali e psicologici, una consapevolezza storica così acuta delle forze positive e negative presenti nella comunità uma­ na che anche il semplicismo ora si inserisce in una cornice diver­ sa. Succo e conclusione di una analisi così minuta, l’ideologia del Grande dittatore chapliniano acquista il significato di una rivolta sentimentale che coinvolge tutto, di una insofferenza radicale verso quell’intrico disperante di fenomeni che il mondo ci offre, di un appello umanistico ridotto alle sue espressioni più elemen­ tari perché questa è ritenuta l’unica via che, fuori dalle secche del­ la complessità, può condurci in porto. Più forte di ogni consape­ volezza storica, più forte del valore dei risultati che l’analisi socio­ logica e psicologica ha ottenuto, questo appello ha il potere di esaltare Chaplin sino al grido commosso, sino alla retorica. Cha­ plin non nega il mondo (che ha mostrato di conoscere perfetta­ mente). Semmai, ha l’ambizione di trasformarlo. Una forma di orgoglio sconfinato o, anche, di eroismo. 116

Nel Grande dittatore, per la prima volta, non ha alcun ritegno. Non si vergogna di essere quello che è, e di proclamarlo ad alta voce. «L’anima umana ha messo le ali e finalmente comincia a volare. Vola verso l’arcobaleno, verso la luce della speranza, verso l’avvenire, il meraviglioso avvenire che appartiene a te, a me, a tutti noi». Gli angioletti che apparvero nel sogno del Monello assumono una presenza reale, il candido romanticismo infantile di Chaplin si comunica senza intermediari allo spettatore. Il mondo, finora, lo ha sempre smentito, almeno nell’apparenza. Chaplin può anche essere un illuso, e sa di esserlo, come il suo barbiere un po’ matto al quale riesce di sostituirsi - vendetta dei puri di cuore contro i “mostri” - al dittatore Hynkel. Dopo II grande dittatore, gli darà in parte ragione e in parte torto: Hynkel cadrà, sconfìtto dagli uomini che il suo odio contro natura aveva umiliato, ma gli uomini non diverranno buoni come Chaplin sognava. Proprio per questa ragione, il suo appello è così pateti­ co, sincero e consolante. Accadrà la stessa cosa con Calvero, e il suo ingenuo amore per la vita, nonostante tutto. Critici stravaganti hanno spesso cercato di scoprire affinità tra Chaplin e alcuni sommi dell’arte d’ogni paese - Cervantes o Shakespeare o Molière o Dickens - senza rendersi conto della superflua astrattezza di simili operazioni. Ma se anche, per assur­ do, qualcosa del genere potesse essere tentato, si avrebbe il dove­ re - preliminare a ogni altra considerazione - di avvertire la dif­ ferenza di fondo che separa quelli da Chaplin e che rende inac­ cettabile l’accostamento. Chaplin, in implicita e indiretta pole­ mica con quanti gli si vorrebbe rendere affini, ha il dono di sem­ plificare la vita - la visione del mondo e la sua rappresentazione - fino a limiti che ai sommi erano sconosciuti. Come i sommi, e come ogni artista autentico, approfondisce i dati della realtà, ma, contrariamente ai sommi, tende a “superarli” e quasi a negarli per affermare l’esistenza - chimerica o no, non importa - di un mon­ do elementare e semplificato, l’unico mondo che egli ritenga degno dell’uomo. Non è un caso che un artista faccia questo, oggi. In contrasto 117

con le correnti maggiori dell’arte contemporanea, rifiutando le suggestioni che gli giungono da ogni parte, Chaplin non conce­ de nulla alle filosofie della disperazione. Dinanzi a un mondo che ha, obiettivamente, i caratteri della complessità e della confusio­ ne, Chaplin predica la più dimessa “normalità” nei rapporti uma­ ni, si batte per l’afFermazione di principi lineari nella vita privata e in quella pubblica, sviluppa gradualmente una polemica di indubbia coerenza. Vede intorno a sé una civiltà al tramonto, indaga nelle cause della decadenza e ne rimane sgomento. Ma non si lascia irretire nel gioco. Ha energia sufficiente per uscirne e per proseguire, solo, sul cammino della possibile salvezza. Le numerose interpretazioni che si possono dare dell’arte di Chaplin — in genere e nel caso particolare di II grande dittatore — non si elidono a vicenda, anche se creano non poche difficoltà per giungere a una definizione esauriente. Accanto alla interpre­ tazione psicologica (la doppia faccia dell’artista; Chaplin esorciz­ za il male che ha in sé) va posta quella ideologica (umanesimo integrale, semplicistico) e a buon diritto. Utile appare anche, per­ ché illumina altri aspetti dell’arte chapliniana che altrimenti resterebbero in ombra, l’interpretazione più strettamente politi­ ca: la condanna del fascismo considerato una degenerazione del­ la economia liberistica e della “legge della giungla” nei rapporti sociali; la difesa di una democrazia effettiva in cui si armonizzino le varie componenti economiche, ideologiche, politiche al servi­ zio della “felicità dell’uomo” («Voi, il popolo, avete il potere di rendere la vita libera e bella, di trasformare la vita in una meravi­ gliosa avventura. Usiamo dunque questo potere, in nome della democrazia. Uniamoci. Combattiamo per un mondo nuovo, un mondo di onestà che dia agli uomini il lavoro, che dia ai giovani un avvenire e ai vecchi la sicurezza»). Per Chaplin la democrazia è la libertà e il bene; il fascismo il male e la menzogna. Non sono possibili compromessi («Promettendovi queste cose i bruti han­ no conquistato il potere. Ma essi mentivano! Non mantengono la promessa! Non la manterranno mai! I dittatori hanno ottenu­ to la libertà per se stessi ma hanno ridotto il popolo in schia­ 118

vitù»). E di ciò fornisce le prove storiche, con una aderenza alla realtà che raramente è stata ottenuta da un artista contempora­ neo. La tematica di Chaplin racchiude in sé molti elementi, ognuno significativo per la propria parte e interpretabile in diver­ si modi. Non è facile una sintesi, perché allo stesso Chaplin è sempre riuscito diffìcile (o forse, addirittura impossibile) realiz­ zarla nelle opere. La difficoltà della sintesi si riflette nella forma dell’espressio­ ne. La multilateralità della tematica chapliniana richiede come necessaria una analoga multilateralità stilistica. E non sempre, ovviamente, questo è un fatto positivo. Nel caso del Grande dit­ tatore bisogna poi considerare la duplice condizione di crisi in cui il film è stato concepito: un fattore tecnico (questo è il primo par­ lato di Chaplin, fin a quel momento ligio alla tecnica del muto) e un fattore tematico (il personaggio-tipo di Chariot inizia la parabola che lo condurrà alla fine. E la prima volta che si trova a convivere con un altro personaggio di pari importanza; ed è nel­ lo stesso tempo l’ultima volta che occupa la scena). Al fattore tec­ nico non attribuiremmo eccessiva importanza. Convintosi (len­ tamente) della necessità di adottare la nuova tecnica, Chaplin giunge maturo alla sua prima completa esperienza “parlata”. La può affrontare con disinvoltura. Chi pensava di vederlo impac­ ciato dalle nuove “regole del gioco” si accorse immediatamente di essere in errore: il modo con cui qui si padroneggiava il perso­ naggio di Hynkel bastò a fugare ogni dubbio. La trasformazione di Chariot, già preannunciata in Tempi moderni, ha invece un peso maggiore nella crisi di Chaplin. La soluzione “minima” di Tempi moderni (Chariot alla fine canta una filastrocca in una lingua incomprensibile) era un ripiego. «Il contrasto fra Chariot che parla - osservò Béla Balazs -14 e la maschera di Chariot si annulla solo per un momento, sia pure in una forma quanto mai spiritosa. Ma non è questa la vera, defìni14 B. BelAZS, Il film: evoluzione ed essenza di uriarte nuova, Torino, Einaudi, 1952, p. 276.

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tiva soluzione. Sotto quelle parole e quei gesti si avverte che Cha­ plin cerca a poco a poco di liberarsi dalla prigione della sua maschera. Il suo tipo si evolve in un’altra direzione, acquista una maggiore profondità psicologica e, insieme, un significato socia­ le. Lo schema indeclinabile di una maschera non gli sembra più abbastanza espressivo. E la maschera che sigillava le labbra di Chariot doveva cadere». Lo sforzo da compiere era enorme. Si trattava per Chaplin di una vera rivoluzione. Ma Chaplin odia le rivoluzioni, procede con prudenza. Hynkel parla sì, ma si espri­ me con lo stesso linguaggio incomprensibile e caricaturale di Chariot che canta in Tempi moderni. La maschera, per usare l’e­ spressione di Balàzs, non cade del tutto. Al contrario viene sfrut­ tata per introdurre il personaggio nuovo, si trasferisce sul volto dell’antitesi di Chariot. La stilizzazione rimane in sordina, appli­ cata non più a un personaggio della fantasia ma a un uomo reale, riconoscibile con nome e cognome. Qui si rivelano, occorre insi­ stere, l’acutezza e la fertilità del talento chapliniano. Una soluzio­ ne, che valeva come un ripiego in Tempi moderni, fornisce a II grande dittatore lo spunto per definire esattamente il nuovo per­ sonaggio centrale dell’opera di Chaplin. Chi soffre di questa prudente trasformazione (che tuttavia permette all’autore di superare la crisi) è il vecchio Chariot. Il barbiere-Charlot si esprime ancora all’antica maniera stilizzata e ha sovente l’aspetto di un pesce fuor d’acqua. L’ambiente intorno a lui è cambiato, le psicologie degli altri personaggi (soprattutto quella di Hynkel) mostrano che si è proceduto a un lavoro di approfondimento del tutto nuovo. Non sa adattarsi, perde soven­ te il passo rispetto alla storia che il film sviluppa. Chaplin è cosciente di questa debolezza ma non ha modo di rimediarvi. Ricorre al “repertorio” tradizionale di Chariot, ingegnandosi di adattarlo ai compiti diversi che deve svolgere. L’impresa a volte riesce, a volte no. In qualche punto si sente addirittura come sia ingombrante questo omino che pure aveva assicurato la vitalità di tanti film, che aveva resistito sino a quattro anni prima imperter­ rito. 120

Una causa degli squilibri di II grande dittatore è, perciò, rin­ tracciata. Ve ne sono altre. La multilateralità stilistica agisce anche in zone diverse da quelle in cui si muove Chariot. Vari sti­ li - conseguenza della molteplicità dei temi che Chaplin fa coesi­ stere nell’opera — si intersecano nelle sequenze del Grande ditta­ tore., che può essere giudicato con ragione il film meno unitario nella carriera dell’autore. Del resto, Chaplin è sempre stato un artista di accensioni improvvise, di slanci brevi e intensi, di inge­ nuità. Qui lo conferma, svantaggiato anche dagli effetti della cri­ si accennata. A toni patetici si alternano toni tragici, a toni ironi­ ci toni grotteschi, al dramma l’enfasi, alla satira inflessibile il sen­ timentalismo. Non v’è nulla, si badi, di negativo, in nessuno degli elementi elencati. Chaplin ricava vibrazioni di poesia autentica da ognuno di essi, qua e là, quando l’ispirazione lo soc­ corre e la sua sparsa tematica più si avvicina alla sintesi che egli animosamente persegue dall’inizio alla fine. Gli basta, in certi casi, una sola inquadratura, come quella che vede il barbiere (scambiato per Hynkel), Schultz e i gerarchi nazisti salire - con il passo solenne delle grandi occasioni e con la lentezza di condan­ nati a morte - la lunga scalea del podio eretto in una città occu­ pata dell’Osterlich. Sul retro del palco leggiamo, scritta in grandi caratteri romani, una parola che acquista, nell’occasione, il signi­ ficato opposto a quello che esprime: “Liberty”. Chaplin evoca, con una immagine agghiacciante, il clima tragico dell’evento che si compie: l’occupazione di un paese pacifico, la morte della libertà, la trasformazione degli uomini in schiavi. Si pensi, inol­ tre, alla doppia situazione che sottintende: quel gruppetto di uomini che sembrano avviarsi al patibolo vanno a sanzionare (con un gesto plateale e quasi religioso) una efferatezza politica, mentre, fra loro, il barbiere gioca una carta tremenda (se lo sma­ scherano è la morte, ed egli non sa che fare). Immediatamente dopo, Chaplin precipita nel banale, ripe­ tendo i giochetti di Chariot (qui davvero fuori luogo, fastidiosi) con la gag dello scambio delle sedie. A una vibrazione poetica succede una caduta nel mediocre. Ma ancora si risale. Anche 121

adesso, di colpo. Garbitsch si avvicina al microfono e fredda­ mente annuncia al popolo che l’Osterlich è annessa all’impero di Tomainia. «Saranno privati della cittadinanza e perderanno ogni diritto — dice — tutti gli ebrei e gli altri non ariani. Sono uomini inferiori e perciò nemici dello Stato. Tutti i veri ariani hanno il dovere di odiarli e di disprezzarli». Un sussulto del barbiere ebreo sulla sedia, una straziante smorfia sul suo viso: è una pennellata sola, che aggiunge forza al quadro della tragedia più di cento inquadrature e di un intero discorso. Non molto diversa, come intensità tragica, era stata la scena svoltasi nel ghetto durante il “montage” che segue l’invasione dell’Osterlich. Le SA irrompono nel Ghetto per realizzare seduta stante quella che più tardi sarà nota come la “soluzione finale del problema ebraico”. Un giova­ ne esce da una bottega per difendere il padre aggredito. Gli spa­ rano a bruciapelo, lo uccidono. E il ragazzo muore con un’e­ spressione di incredulità e di rabbia impotente sul volto. Un par­ ticolare minimo, rapidissimo, ed è il nocciolo della tragedia. In principio, nella ri evocazione della prima guerra mondiale, Chaplin alterna dramma e farsa in modo quasi sempre felice. Ai carrelli e alle dissolvenze sulle trincee e i reticolati segue il balza­ no episodio della grossa Bertha che spara su Parigi ma colpisce una solitaria baracca in mezzo ai campi. I gesti saltellanti del bar­ biere, la viltà degli ufficiali, l’attacco inutile (Chariot perde l’o­ rientamento nel fumo della battaglia. Chiama il capitano, nessu­ no risponde. Capita inopinatamente fra due soldati americani che avanzano. «Oh, excuse me!», esclama, e si allontana con mol­ ta dignità), l’avventura sull’aeroplano (il sole capovolto, l’orolo­ gio che “cade” verso l’alto, l’acqua che esce dalla borraccia salen­ do), lo schianto, l’annuncio della sconfìtta: il racconto procede svelto e mostra della guerra un volto stralunato, di effetto note­ vole. Come premessa alle successive peripezie del barbiere e all’entrata in scena di Hynkel (di questo abbiamo già discusso trattando dei temi del Grande dittatore), assolve correttamente alla propria funzione. La prima apparizione di Hynkel, sul palco, è giocata sui due 122

piani della satira e della comicità più corriva. Felice e sferzante la prima, debolissima la seconda. Terminato il discorso, il dittatore vien fatto ruzzolare per le scale dallo sbadato Herring, intento a baciare la mano di una signora. Un alterco fra i due conclude il minuscolo incidente. Più avanti, Hynkel prende in braccio un bambino e quello gli fa pipì sulla mano. Espedienti di una comi­ cità assai fiacca. Ma, forse, questa prima sequenza hynkeliana va esaminata soprattutto nel suo aspetto di anticipazione delle vicende successive e di presentazione dei personaggi. In tal senso, qui vediamo delinearsi abbastanza chiaramente - oltre quella di Hynkel, già perspicua e incisa con forza durante il discorso - le personalità dello scafato ciccione volenteroso che è Herring (in ciò diversissimo dal suo modello Goering) e della velenosa anima nera Garbitsch (questi ben più fedele all’originale Goebbels). E nel corso di questa sequenza che Garbitsch insinua nell’animo del dittatore la necessità di essere ancora più crudeli con gli ebrei. Va ricordato infine che nella loro sfilata in automobile lungo il viale gremito di folla, Hynkel e Garbitsch passano dinanzi a due colossali e grottesche statue che vogliono essere il simbolo visivo del regime dominante in Tomainia: la Venere di oggi e il pensa­ tore di domani, entrambi col braccio levato nel saluto nazista. Il primo incontro con gli ebrei del Ghetto non emerge, dal contesto del film, per alcuna notazione efficace. E una sequenza smorta, patetica nel senso più logoro della parola: due vecchi che esprimono le proprie preoccupazioni per il futuro, la presenta­ zione di Hannah - ragazza povera, si guadagna da vivere sfacchi­ nando sulla biancheria del prossimo - accompagnata da una di quelle inconfondibili musichette chapliniane che trasudano lat­ temiele stantio. Ma il dramma è subito fuori della porta. Hannah è aggredita dalle SA, si ribella e svela una insospettata, genuina fierezza. «Perché nessuno si muove? — esclama la ragazza — Vorrei essere un uomo e vi farei vedere io. Quando siete insieme avete coraggio, ma nessuno di voi ha il fegato di presentarsi solo e di fare a pugni. Per questo siete venuti col camion: per scappare se ci fosse qualcuno a corrervi dietro». Lo scatto dipinge bene il 123

carattere di Hannah, che vedremo svilupparsi su questa linea negli episodi successivi, e aggiunge inoltre un nuovo significato al quadro psicologico della dittatura che Chaplin sta tracciando. Gli uomini di Hynkel sono vili e, perciò, prepotenti. Aggredi­ scono se sono in molti, fuggono se sono soli. Il ritratto dello squadrista fascista coglie nel segno. Chaplin toccherà più avanti lo stesso tema, facendo dire alle due SA che sono state malmena­ te e ridicolizzate da Hannah e dal barbiere: «Doveva essere tutta una banda (di sovversivi)». Il ritorno del barbiere a casa introduce il personaggio di Char­ iot nella sua veste tradizionale. E fuggito dal manicomio, dove l’avevano rinchiuso perché in guerra aveva perduto la memoria. Non sa, naturalmente, che Hynkel ha assunto il potere. Dopo le note marginali dei gatti (che escono a frotte dal negozio rimasto chiuso per tanto tempo) delle ragnatele e dell’affaccendarsi pate­ tico dell’immemore barbiere, ecco lo scontro con la SA, la scritta “Jew” sulla vetrina, la lotta a padellate in testa e la danza del pove­ retto (stordito per sbaglio da Hannah) sul bordo del marciapie­ de. Nulla vieta di considerare grazioso l’intermezzo comico­ musicale nello stile del vecchio Chariot, quantunque si possa anche dubitare della sua pertinenza in questa situazione. Chaplin si compiace del pezzo di bravura (ed è bravura autentica), vi insi­ ste a lungo, abilmente. Già qui, tuttavia, constatiamo come sia per lui arduo staccarsi dagli antichi moduli narrativi, dalle diva­ gazioni in tono di vittimismo (Chariot l’eterno sconfitto) e come fatichi ad amalgamare le parti charlottiane con l’impasto assai più ricco della satira contro il nazismo. Riprendiamo contatto con Hynkel, nel suo ufficio. Prima l’abbiamo visto in pubblico, personaggio ufficiale della farsa. Ora lo sorprendiamo in privato, in un vasto salone arredato minuzio­ samente secondo lo stile hitleriano. Il colpo d’occhio è perfetto. Osserviamo in fùnzione la macchina della dittatura. Hynkel deve chiudere una lettera, e subito una guardia è pronta, con la lingua di fuori, a leccarne il margine. Consulta l’orologio, è un uomo pieno di impegni. Infatti corre nella stanza accanto, per posare 124

davanti a due pittori che gli fanno il ritratto. Rientra, segue Her­ ring che gli presenta una sbalorditiva invenzione di carattere bel­ lico: la corazza a prova di proiettile e leggera come seta. Hynkel spara, il misero collaudatore crepa. «E perfetta al cento per cen­ to», gli aveva detto Herring. «Tutt’altro che perfetta», risponde il dittatore. Rientra, suona il pianoforte. Manda a chiamare una segretaria. Squilla una tromba. Arriva la ragazza. Hynkel le salta addosso grugnendo, come un orso. Ricompare Herring con l’an­ nuncio di un’altra invenzione: il cappello-paracadute, piccolo, pratico. Hynkel assiste all’esperimento, il collaudatore si schiac­ cia al suolo (noi sentiamo il tonfo). «Herring, perché mi fai per­ dere tempo?». Rientra, posa un attimo per i pittori, riceve Gar­ bitsch. Lo rampogna. Si spende troppo per i campi di concentra­ mento, mentre occorre impiegare ogni centesimo per fabbricare munizioni. «Abbiamo dovuto fare qualche arresto», si giustifica Garbitsch. «Qualche? Quanti?». «Oh, proprio nulla di astrono­ mico. Cinque o diecimila... ». «Oh». «... al giorno. Qualcuno che non era d’accordo, ecco tutto». «Non era d’accordo su che cosa?». «L’orario di lavoro, la riduzione dei salari... e soprattutto il vitto sintetico, la qualità della segatura che mettiamo nel pane». «Ma che cosa vorranno mai? E segatura fatta col miglior legname delle nostre segherie». Concordano, Hynkel e Garbitsch: cer­ chiamo qualche diversivo. Sterminare gli ebrei? No, meglio: inva­ dere l’Osterlich. Ci vogliono soldi per poterlo fare subito. A chi li chiediamo? Al banchiere ebreo Epstein. Allora, sospendiamo le razzie nel ghetto. La sequenza fila via incalzante, con un ritmo che conserva le migliori qualità del Chaplin comico del muto. Pecca un poco di facilità ma raggiunge l’obiettivo, che è quello di sovrapporre gli uni sugli altri i dati caratteristici della dittatura e di completare il ritratto del dittatore: fatuità, vanità, attivismo a vuoto, disprezzo per gli altri, alterigia, crudeltà, libidine, cinismo. La satira ha progredito di un altro passo. Nel negozio del barbiere nasce l’amore fra Hannah e lo sme­ morato. Lui, suonato, insapona il volto della ragazza. Hannah sogna un futuro migliore. Il barbiere non sa come vincere la timi­ 125

dezza. È una scena consueta per Chaplin, condotta secondo un gusto che non varia mai. I rapporti fra uomo e donna li concepi­ sce in questo modo lieve e delicato, infantile. Il pudore impedi­ sce che l’amore assuma forme diverse da questa, la quale è certo la più asessuata che si possa immaginare. Qui, per di più, non è particolarmente felice nel disegnare il ritratto di due innamorati pudichi, nello stile della moralità vittoriana.15 Hannah in strada incontra le SA che prima l’avevano aggredi­ ta. Stavolta sono gentili. La ragazza alza il capo, gli occhi le sorri­ dono. Guarda l’obiettivo, si rivolge agli spettatori: «E successo qualcosa, lo so. Le SA mi hanno aiutata. Non sarebbe magnifico se la smettessero di odiarci? Se ci lasciassero in pace? Non sareb­ be magnifico se non dovessimo andarcene in un altro paese? Io non voglio andar via. Anche se ci sono difficoltà e persecuzioni, a me piace star qui. Forse, non dovremo andarcene... non sareb­ be magnifico se ci lasciassero vivere ed essere felici?». Questa con15 Questo della sessualità è un aspetto interessante del mondo chapliniano. Pur non trovandosi nella sede appropriata per trattarlo — Il grande dittatore non fa testo a tale proposito — crediamo sia utile rimandare il lettore ad alcune osser­ vazioni contenute in L. De MARCHI, Sesso e civiltà, Bari, Laterza, I960, pp. 249-50. Nel capitolo Urgenza di una riforma sessuale, De Marchi si occupa fuggevolmente di Chaplin: «Quello stesso Chaplin che è sempre così brillan­ te ironizzatore e intrepido aggressore dei convenzionalismi ipocriti dei conformisti nel campo sociale, nel campo amoroso sogna belle famigliole borghesi (si pensi a Luci della citta) e, se riesce ad avvicinare la ragazza amata (che non è mai, neppure per sbaglio, già sposata), non sa far di meglio che rimboccarle le coperte e cantarle le ninne nanne al modo dei gentlemen vitto­ riani, e non osa neppure baciarla sulla bocca (che io sappia non c’è un solo film di Chaplin in cui il suo eroe osi sfiorare le labbra dell’amata). Alla manie­ ra dei più castigati romanzi per signorine, l’amore dei suoi personaggi sa esprimersi solo in occhiate struggenti, in sorrisi estatici, in furtive quanto imbarazzate strette di mano». Sono osservazioni che restano alla superficie del problema e sfiorano appena le caratteristiche della personalità chapliniana (ben altrimenti complessa di quanto De Marchi voglia far credere, ma un simile esame in profondità non rientra negli scopi che l’autore si propone). Tuttavia, vai la pena di registrarle, anche nei confronti del Grande dittatore. offrono, se non altro, lo spunto per una possibile indagine in una zona fino­ ra non esplorata.

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fìdenza in prima persona anticipa il discorso finale del barbiere. Per la prima volta, Chaplin interrompe l’azione per introdurre nel film un commento d’autore. Hynkel nuovamente al lavoro. Segretarie rapidissime steno­ grafano e scrivono a macchina. Una gag comica scatta nella sce­ na della macchina da scrivere: divertente e significativo in rap­ porto alla psicologia del dittatore. Hynkel vuol firmare un docu­ mento, ma non c’è penna che scrive. Si infuria e caccia le segre­ tarie: «Io sono circondato soltanto da inefficienti, stupide, sterili stenografe». Non sfugga l’aggettivo “sterile” usato come un insul­ to: il nazismo è fatto anche di questo. Dopo il rituale intermezzo di Herring che annuncia l’ennesima invenzione (un gas venefico) e viene congedato con una serie di pazienti «Più tardi», entra l’a­ gente segreto B 27 - una donna - per comunicare che gli operai di una fabbrica vogliono scioperare. Fucilate i dirigenti. Già fat­ to. Fucilateli tutti e tremila. Garbitsch, che è presente, devia il discorso. E qui ha inizio la sequenza più allucinante del Grande dittatore. L’anima nera eccita la fantasia di Hynkel, lo descrive come imperatore del mondo, il «dittatore bruno di un mondo tutto biondo, fatto di soli ariani». «È il vostro destino. Stermineremo gli ebrei, elimineremo i bruni... e i nostri sogni diverranno realtà... una pura razza ariana». «Magnifici ariani biondi», vaneg­ gia Hynkel. «Vi ameranno... vi adoreranno... vi venereranno come un Dio». La follia si impadronisce del futuro dittatore del mondo. Si arrampica su una tenda come un gatto. Scende, affer­ ra un grande mappamondo, danza con il globo fra le mani, lo lancia in alto, lo afferra, lo respinge con le mani, con i piedi, si rotola e si sdraia sullo scrittoio, sconvolto dalla libidine del pote­ re. Ma, ahimè, alla fine il globo esplode. Tutto il sogno si sgonfia. Hynkel si abbatte sulla scrivania piagnucolando come un bambi­ no che ha rotto il giocattolo preferito. E il momento più alto del film. Attore e mimo meraviglioso come forse non è stato mai, Chaplin realizza una sintesi di tutti gli elementi satirico-tragici finora sparsamente introdotti, e la esprime con una “carica” di 127

persuasione e di violenza che è nata sotto il segno del capolavoro. Sarebbe sufficiente questa sequenza per testimoniare della profondità ideologica e psicologica alla quale si è ispirato Cha­ plin per condannare il dittatore. Ricadiamo nelle braccia del tran tran charlotti ano con la bar­ ba fatta a tempo di musica (la Danza, ungherese n. 5 di Brahms). Hannah intanto si fa bella per uscire con il barbiere mentre i vec­ chi discutono della situazione. Hynkel riceve la notizia che Epstein ha rifiutato di prestare denaro a un “maniaco medioevale”. Dà in escandescenze, chiama Schultz e gli ordina di attaccare gli ebrei. Schultz esita. Il dittato­ re lo manda in campo di concentramento. Schultz si ribella: «Benissimo, ma ricordate le mie parole. La vostra causa è desti­ nata al fallimento perché vive su una stupida e spietata persecu­ zione di gente innocente. La vostra azione è peggio di un delitto. E una tragica idiozia». La maledizione appare completamente inutile, le parole hanno un suono falso. Hynkel caccia Schultz, tacciandolo di tradimento. Un attimo dopo scoppia in pianto, una delle crisi isteriche cui è solito: «Schultz perché mi ha abban­ donato?». Ha la tendenza a piangere, il “mostro”, il suo cuore è tenero come quello di una fanciulla. Chaplin non risparmia niente a Hynkel, ma non gli attribuisce mai niente che non sia verosimile e che non valga a farlo meglio, nella sua totale abie­ zione. Hannah e il barbiere a spasso per la strada principale del ghet­ to. Innamorati e felici, camminano a testa alta. Una musica gioiosa sottolinea la loro felicità. Da un venditore ambulante acquistano un distintivo del partito, quando aH’improwiso piomba su di loro — diffusa dagli altoparlanti — la voce di Hynkel, minacciosa e rimbombante come una tempesta. Tutti scappano, è cominciata la grande razzia. «Mein freinten, tonighten, nich the Berlin the double crossin but the Judan — the Judan — the Judan — Shtroff mit the strangulation mit the toten zect, the Judan...», urla Hynkel. E per un attimo anche lo vediamo, in primissimo piano, enorme, invasato. Il barbiere scappa, perde il 128

cappello e, ogni volta che sta per raggiungerlo, quello schizza via come se la voce del pazzo lo prendesse a calci. Una squadra di SA irrompe nel ghetto. Il barbiere sfugge fra le gambe di uno di loro, si infila in una cantina. Giunte davanti alla casa dove abita il bar­ biere, le SA esitano ricordando che egli è un protetto di Schultz. Poco dopo si sparge la notizia che Schultz è stato arrestato. Non hanno più dubbi ora, sfondano la porta, mettono a soqquadro la casa, mentre la macchina da presa inquadra due uccellini in gab­ bia. Il barbiere fugge sui tetti e di lassù assiste alla distruzione del suo negozio, dato alle fiamme dai nazisti. Hannah, sempre piena di ottimismo, lo consola: andremo in Osterlich, ci rifaremo una vita. Una dissolvenza: Hitler suona ispirato il pianoforte, a lume di candela. «Guarda quella stella — dice Hannah al barbiere — Non è bella? Vedi... con tutto il suo potere, Hynkel non riuscirà mai a toccarla». I salti di tono, accuratamente preparati da Chaplin, si susse­ guono. Dopo il dramma della razzia, l’episodio della cospirazio­ ne guidata da Schultz e la gag delle monete nascoste nei budini: la satira acquista anche un valore distensivo. Schultz, fuggito dal campo di concentramento, si è rifugiato in cantina. Convoca gli uomini della casa ed espone loro il suo progetto. Sulla sua faccia di bellimbusto, di seduttore da operetta, è calata un’espressione severa. «Siamo qui riuniti per liberare il nostro paese dal tiranno. Per poter attuare il piano, uno di noi deve morire. Nei tempi antichi, la tribù ariana dei longobardi faceva sacrifìci umani al dio Thor. La vittima la sceglievano durante la festa, estraendola a sorte. Stasera, alla nostra festa, uno di voi sarà scelto. Vi sarà ser­ vito un budino. In uno sarà nascosta una moneta. Chi troverà la moneta sacrificherà la sua vita per la liberazione del popolo... ma... raggiungerà la lunga schiera dei nobili martiri della storia e libererà il paese dal tiranno». Schultz si rivela come un miscu­ glio di viltà (spinge gli altri a sacrificarsi; lui vorrebbe — dice — ma non può), di idiozia (il suo è un progetto infantile), di ribellismo infantile (cita le antiche tribù ariane, come un Hynkel qualun­ que), di snobismo. Un cospiratore da operetta, appunto. Chaplin 129

attinge nuovamente alla verità storica: i patrioti tedeschi, se mai ve ne furono, morirono in silenzio, mentre i ribelli giocavano maldestramente all’attentato senza sapere perché lo facevano, senza un’idea morale da difendere, contagiati essi stessi dal nazi­ smo del tiranno che volevano uccidere. Lasciando soli gli ebrei a decidere, Schultz li saluta istintivamente con un “Heil Hynkel”. La satira si arricchisce di un altro aspetto; l’essenza crudele e stu­ pida del nazismo, che infetta anche gli avversari, viene osservata in una prospettiva nuova. Chaplin non lascia in ombra nulla, e procede a rapidi scorci precisi, una mossa dopo l’altra. La gag dei budini fa parte dell’armamentario charlottiano e, succedendo al discorso perfetto di Schultz, raffredda alquanto il tono satirico. E una pausa di stanchezza, che invano Chaplin attore cerca di riscattare con il repertorio inesauribile della sua mimica. Dopo l’inizio pungente e veloce, tutto l’episodio si afflo­ scia. Si annuncia l’arrivo delle SA. La paura si impadronisce degli abitanti della casa, originando una serie di gag (quella del casso­ ne vorrebbe essere il maggiore) che risultano una più fiacca e inconsistente dell’altra. Schultz deve fuggire. Tutta la famiglia lo aiuta a fare le valigie, molte (il cospiratore ha con sé anche le maz­ ze da golf, alle quali tiene più della vita: è il tocco finale del ritrat­ to). Fugge sui tetti, seguito dal barbiere che porta per lui valige, pacchi e cappelliere. La gag della trave - su cui il barbiere a un certo punto si trova in bilico senza poter vedere perché ha la testa coperta da una cappelliera - movimenta assai blandamente la comica ritirata degli “eroi”. Li catturano (qui è la scena della camera da letto cui abbiamo già accennato) e li mandano in cam­ po di concentramento. Intanto Hannah e gli altri ebrei della casa si trasferiscono in Osterlich, poiché la situazione in Tomainia è divenuta insosteni­ bile. Credono di aver raggiunto la salvezza. Sequenza idillica, commentata dal lattemiele musicale che è fra le cose peggiori del sentimentalismo chapliniano. Rivediamo Hynkel, dopo un lungo intervallo. E a banchetto con i suoi collaboratori. Decora Herring appuntandogli una 130

medaglia sul petto ma dura fatica perché quel vasto torace è già tutto coperto di patacche. Si decide l’invasione dell’Osterlich. Una telefonata annuncia che Napaloni, dittatore di Bacteria, ha mobilitato le sue truppe alla frontiera. Hynkel va su tutte le furie, aggredisce Herring colpevole di essere all’oscuro delle manovre del concorrente Napaloni, gli strappa a una a una le medaglie e, infine, le bretelle dei calzoni. Dichiariamo guerra a Napaloni. Garbitsch lo sconsiglia. Squilla il telefono. E Napaloni in perso­ na. Hynkel trema, non vuole parlargli. Incarica Garbitsch di invitarlo in Tomainia. Quello che abbiamo sommariamente nar­ rato è l’episodio meno felice del capitolo Hynkel. La farsa gros­ solana ha quasi sempre la meglio sulla satira. Vengono trasferiti sul dittatore e sulla sua corte alcuni manierismi charlottiani (le medaglie di Herring) che non danno alcun contributo alla defi­ nizione ambientale o psicologica. Tutto il lungo episodio di Napaloni in Tomainia risente della medesima impostazione. Ha un andamento farsesco di lega mediocre. Chaplin arriva alle “torte in faccia” senza alcuna neces­ sità apparente. Per il gusto di strafare, forse, o, meglio, per man­ canza di altre soluzioni comiche. Dal mucchio possiamo estrarre solo alcuni brani di valore più alto: l’arrivo, il treno che non si ferma mai (il tappeto che lo insegue invano); l’incontro nell’uffi­ cio di Hynkel (il dittatore di Tomainia trema più del solito, cerca di darsi un contegno armeggiando con un fiore bianco come una verginella, si lascia sopraffare dalla esuberanza di Napaloni); la sfilata delle truppe e degli aerei (litigano i due sulla nazionalità degli aerei: «sono miei, sono tuoi». Finalmente un aereo precipi­ ta. «Sono tuoi», conclude Napaloni): l’intermezzo del barbiere con le poltrone che salgono sino al soffitto (in sé la scena è incon­ grua, ma Chaplin la risolve con buona arguzia e colleziona altri elementi preziosi per il suo ritratto della dittatura). Il ricevimen­ to e la rissa nella sala del buffet fanno precipitare la storia nello slapstick: alterco feroce, panini con la mostarda, torte in faccia ai giornalisti, strazio di un enorme piatto di spaghetti. Jack Oakie, che presta a Mussolini un fìsico e una grinta credibili eccede nel­ 131

la farsa in modo insopportabile, ma è la situazione che ve lo costringe. Piacevoli sono, per contro, le apparizioni di Madame Napaloni, grassa e maltrattata (la scena del ballo con Hynkel, per quanto solo farsesca, ha un piglio vigoroso).16 L’alterco dei due dittatori “amici” si conclude con l’accordo: Hynkel, consigliato da Garbitsch, accetta di ritirare le truppe dal confine con 1’0sterlich, pur sapendo che non lo farà. E Napaloni, allocco pro­ verbiale, è soddisfatto. Chaplin non ha rivolto a Napaloni attenzione sufficiente. Ha colto di lui l’aspetto esteriore, la sicurezza di sé, la sbruffoneria, l’ingenuità, la prepotenza. Niente altro. Si può supporre che a lui non interessasse tanto il dittatore di Bacteria come personaggio autonomo (e, quindi, come pretesto per una satira del fascismo mussoliniano) quanto le reazioni di Hynkel davanti a lui (paura fisica, impaccio, astuzia). E il ritratto del “nemico naturale”, di se stesso nel proprio risvolto diabolico, che l’autore vuole comple­ tare. Osservato l’episodio sotto questa visuale, tutto coincide abbastanza bene, l’effetto è più volte ottenuto. Il prigioniero 7Ò31 (il barbiere) e il cospiratore Schultz sono fuggiti dal campo di concentramento, mentre la macchina di 16 Nella riedizione italiana del 1961, tutte le scene in cui compare Madame Napaloni sono state eliminate. Per questo è stato necessario operare sei tagli: quattro nella sequenza dell’arrivo (sul treno, nell’interno della stazione e tra la folla che acclama i due dittatori); uno nella sequenza del colloquio fra Hynkel e Napaloni; uno nella sequenza del ricevimento (è stato soppresso tutto il ballo). Di ciò non è stata fornita, né da parte di Chaplin né da parte della società distributrice, alcuna giustificazione. La lunga permanenza del film in censura — prima presso il Ministero dello Spettacolo e poi presso il Ministero dell’interno, che si è riservato l’esame dell’opera in rapporto a pos­ sibili “turbative” dell’ordine pubblico — e alcune voci raccolte negli ambienti responsabili fanno ritenere che si sia voluto in questo modo evitare una rea­ zione dei neofascisti italiani e, soprattutto, un intervento diretto della vedo­ va di Benito Mussolini, unico personaggio vivente fra quelli a cui II grande dittatore allude. Crediamo non sia necessario insistere sulla grave assurdità politica e culturale di questo gesto. E più che evidente per se stessa. [Le scene eliminate sono state reinserite — e nuovamente doppiate — nell’edizione restaurata uscita nel 2002].

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guerra di Hynkel si mette in moto. L’azione volge alla stretta fina­ le. Il barbiere si è camuffato da ufficiale nazista per farla franca. Schultz, naturalmente, indossa la sua bella divisa da operetta. Camminano per strade deserte fra i campi, si dirigono verso 1’0sterlich dove troveranno riparo. Hynkel, intanto, segue il consi­ glio di Garbitsch e, per non dare nell’occhio mentre si prepara l’attacco, va a caccia di anatre su un laghetto. E vestito da tirole­ se, cappelluccio con la piuma, brache corte, giacchetta bordata. Imbraccia il fucile, spara e finisce in acqua. Raggiunge la riva a nuoto e incappa in due guardie che stanno braccando gli evasi. Lo scambiano per il barbiere, lo arrestano. Questa è l’ultima apparizione del “mostro”. Chaplin lo ridicolizza e lo umilia. Hynkel strilla con le guardie secondo il suo stile: «Oi, da flute! Da blitzen! Cheese and crackers! uten da blitzen!». Lo riconosce­ rebbe anche un bambino, da queste parole, ma le guardie no. «Un yodler, eh?». Credono che canti. Lo portano via. Fine inglo­ riosa, meschina. Chaplin non si sofferma molto sulla scena. Basta mostrare Hynkel un attimo, trascinato dalle guardie, maltrattato come un pezzente: l’esorcismo è compiuto, e con l’esorcismo è compiuta la lunga, complessa manovra ideologica che condanna il dittatore. Il barbiere e Schultz giungono alla frontiera, si imbattono nei soldati che si accingono a invadere l’Osterlich. Il barbiere ha una paura folle. «E se corressimo un poco?» «No», risponde secco Schultz. «Solo un pochettino?» «No». I soldati scambiano il bar­ biere per Hynkel venuto a ispezionare le truppe. Lo accompa­ gnano dallo Stato Maggiore. Gli fanno un completo rapporto. Il povero barbiere è soffocato dall’emozione, risponde a monosilla­ bi. Tutto è pronto. Via all’invasione che sfocerà nell’Anschluss. Dopo il “montage” di cui abbiamo parlato più su e l’irruzio­ ne delle SA nella casa di campagna dove si sono rifugiati Hannah e i suoi amici, ha inizio la cerimonia finale. Garbitsch presenta alla folla immensa e adorante (una folla austriaca, si ricordi) il futuro imperatore del mondo, «il nostro capo, il dittatore di Tomainia, il conquistatore dell’Osterlich». Lui, il barbiere ebreo. 133

Si alza, compitissimo come sempre, fa un inchino alla folla, e comincia il celebre discorso: «Mi dispiace, ma io non voglio esse­ re un imperatore. Non sono affari miei. Non voglio governare né conquistare nessuno. Vorrei aiutare tutti, se fosse possibile... ebrei, gentili... neri... bianchi». Non c’è bisogno di indugiare nel commento, dopo quel che è stato detto prima. Che cosa significhi l’appassionata invocazione di Chaplin abbiamo già cercato di spiegare. Quale importanza abbia, per il film e per tutta la evoluzione dell’arte chapliniana, non dobbiamo ripeterlo qui. A chi, piuttosto, sostiene che questi sei minuti finali, in cui Chaplin non fa altro che parlare allo spet­ tatore, rappresentino una frattura nel tessuto del film, possiamo osservare che l’opera intera — così com’è stata congegnata e nono­ stante le numerose “cadute” di gusto e di efficacia espressiva — tende naturalmente a questa conclusione. Di più, che II grande dittatore non sarebbe neppure formalmente concepibile se il bar­ biere — costretto da uno scambio di persona a correre l’avventura mortale (in senso proprio e in senso figurato) di recitare nei pan­ ni di Hynkel davanti alla folla dell’Osterlich — non parlasse a quell’agglomerato informe di gente anonima, ridotta in schiavitù senza aver elevato neppure una protesta, un grido, massa inco­ sciente che costituisce il miglior sostegno per qualsiasi dittatura. Chaplin ha elaborato il film per poter essere in grado alla fine di alzare, lui, un grido sdegnato non solo contro la dittatura ma contro la passività colpevole dei popoli. E le parole che pronun­ cia, la foga, il ritmo, la progressione del discorso sono un esem­ pio stupendo di forza drammatica. «Alza gli occhi, Hannah! Le nubi si diradano, il sole ha vinto le tenebre! Usciamo dal buio, la luce ci accoglie! Stiamo entrando in un mondo nuovo!... Alza gli occhi, Hannah. Guarda verso l’alto!».17 17 II discorso di Chaplin è stato mutilato — nella riedizione italiana del 1961 — della parte centrale. A chi sia dovuta l’iniziativa non è dato sapere. V’è chi sostiene che sia stata la censura; chi invece afferma che sia stato lo stesso Cha­ plin a decidere in tal senso. In ogni modo, ecco il brano soppresso dal film: «La sciagura che ci ha colpiti non è che un rigurgito passeggero dell’avidità

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Hannah, lontana, sente. Accoglie estatica la voce della spe­ ranza, il suo volto campeggia sullo sfondo di un cielo nel quale corrono grandi nuvole bianche. Un vento leggero muove i suoi capelli. Una musica dolce e trionfale insieme commenta la scena, secondo le convenzioni dolciastre che tanto piacciono a Chaplin. Ed è un peccato che, dopo il discorso, si cada nuovamente in questa patetica perorazione, inutile e scialba. Il sogno con gli angioletti del Monello scade al livello di una cartolina illustrata di propaganda antinazista. Il grande dittatore avrebbe meritato una chiusura più concisa e ferma, e non la commozione smancerosa di Hannah, che era stata sin qua un personaggio vivo. Esaminato nei particolari, visto nella sua complessità di ope­ ra elaborata su diversi piani, Il grande dittatore offre all’osservato­ re una serie fìtta di alti e bassi, di debolezze e di poesia. Chaplin spesso sbanda, pencolando negli indugi farseschi o patetici più del necessario, vi si immerge, anzi, anche laddove il racconto esi­ gerebbe l’opposto. Film composito, nato da una maturazione dif­ fìcile, non si saprebbe considerarlo un capolavoro in assoluto. Ma questo ha una importanza relativamente secondaria. Sono molte le opere nella storia dell’arte — anche, e, forse, soprattutto nella

umana... la rabbia degli uomini che temono la strada del progresso. L’odio degli uomini non durerà, i dittatori morranno e il potere, che essi hanno strappato al popolo, ritornerà al popolo. E fino a quando gli uomini saranno mortali, la libertà non morrà... Soldati! Non accettate gli ordini di questi bruti... uomini che vi disprezzano, vi riducono schiavi, fantocci, vi impon­ gono di agire, di pensare e di amare come loro vogliono. Che vi trattano come automi, vi razionano il cibo, vi considerano nient’altro che bestiame e vi usano come carne da cannone. Non consegnatevi, mani e piedi legati, a questi uomini che rinnegano la natura... a questi uomini-macchina che pen­ sano come macchine, che vivono come macchine! Voi non siete bestiame! Siete uomini! Voi avete nel cuore l’amore dell’umanità... Non odiate! L’odio è solo di chi non è amato, di chi vive contro natura! Soldati! Non combatte­ te per la schiavitù! Combattete per la libertà!». Dopo questa invocazione v’è l’accenno al Vangelo di San Luca: il discorso riprende e non sarà più inter­ rotto, sino alla fine. [Il brano soppresso è stato reintegrato, insieme alle sequenze con la moglie di Napaloni, nella riedizione del 2002].

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grande arte - che mostrano difetti e cedimenti analoghi a quelli che abbiamo trovato nel Grande dittatore. Le stanchezze, i mezzi e i mezzucci facili per trarsi d’impaccio nei momenti in cui l’a­ zione ristagna, la confusione a volte e l’attenzione rilassata vanno certo segnati al passivo. Sennonché, nulla ci autorizza a diminui­ re per questo - sino magari ad annullarlo come qualche sconsi­ derato ha fatto - il valore del film. Il riesame che se ne può fare oggi, a distanza notevole nel tempo, conferma che si tratta di un valore capitale nella storia dell’arte cinematografica e della cultu­ ra. E si vorrebbe che i due termini - arte cinematografica e cul­ tura - non andassero disgiunti quando si affrontano opere come questa, che dal loro doppio significato - alto in tutte e due le ver­ sioni - traggono energia e respiro, e certamente la capacità di durare oltre l’occasione pratica dalla quale son nate. Il grande dit­ tatore è del 1940. Non è per benevolenza della sorte, o per la maturità nuova degli spettatori, che lo si comprende meglio oggi di allora. («Bianco e Nero», a. XXII, n. 6, giugno 1961, pp. 1-32)

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Ingmar Bergman Un ribelle ai margini dell'Europa

Bergman o lo si rifiuta o lo si accetta, lo si disprezza o lo si ama: è una scelta ideologica prima che estetica. Giusto e opportuno che sia, dovrebbe accadere sempre così, e sempre di più effettivamen­ te accadrà a mano a mano che ci libereremo dal nostro tenace amore per l’arte. Cerchiamo di spiegare. L’amore per l’arte ha provocato troppi guasti perché si debba nutrirlo all’infinito, sen­ za analisi. La prevenzione estetica — che affligge i marxisti non meno degli idealisti — ha sovente impedito che di un’opera si col­ pissero i significati autentici, che di un autore si intendessero i propositi (e le caratteristiche storico-biografiche). Siamo soliti cavarcela, a questo punto, scaricando la colpa sull’eredità crocia­ na.

Spieghiamo ancora. Liberarci dall’amore per l’arte non vuol dire respingere l’arte come inesistente; equivale piuttosto allo sforzo di collocarla al posto che le compete nell’interno di un’o­ pera, nella vita di un autore. In parole più semplici equivale alla necessità di accostare gli autori senza prosternarsi, magari invo­ lontariamente, dinanzi al mito dell’arte, giacché l’arte non solo non è un buon fattore discriminante (esistono opere non artisti­ che più significative delle opere d’arte), ma è anche, molto spes­ so, un incentivo alla confùsione (nelle opere di valore estetico, l’arte attira su di sé tutta l’attenzione e diventa un alibi con cui si giustifica ogni tipo di errori). Il silenzio (Tystnaderi) di Bergman fa al caso nostro. Dovessi­ mo fermarci all’esame della sua arte, troveremmo facilmente l’ac­ cordo. Tranne rare eccezioni (e neppure totali), lo svedese gode, come artista, di una stima altissima. I suoi film principali (da Sorrisi di una. notte d'estate — Sommarnattens leende al Settimo sigillo — Detsjunde inseglet, dal Posto dellefragole — Smultronstàllet al Volto — Ansiktet, da Come in uno specchio — Sàsom i en spegel a 139

Luci d’inverno — Nattvardgasternd) sono, nell’opinione dei più, altrettante opere d’arte. Anche chi rifiuta Bergman - il suo mon­ do, le sue idee - lo ammette. Perfino coloro che sono incerti sul­ la posizione da prendere concedono che ci si trova di fronte a un grande artista (forse il maggiore del cinema contemporaneo) e che, come tale, egli ha una sorta di diritto divino all’ambiguità, all’errore, alla mistificazione; sicché, pur volendo in cuor loro condannare, non hanno poi il coraggio di farlo, in ossequio a quell’arte che bene o male tutto purifica. Esistono critici marxi­ sti, o razionalisti, che ostentano ammirazione per Bergman solo perché suggestionati dall’artista che è in lui: e per questa sugge­ stione si abbandonano a gravi apprezzamenti sulla testimonianza che il regista offrirebbe della condizione dell’uomo, oggi. Perciò occorre una scelta ideologica? Non si tratta di una esi­ genza da affermare, ma di una realtà esistente. La scelta ideologi­ ca l’abbiamo già fatta, e la facciamo continuamente di volta in volta che i film appaiono. La “debolezza” estetica di alcuni critici di sinistra nei confronti di Bergman non solo è una inconscia sconfessione della ideologia professata ma rivela anche un profondo disagio intellettuale, che dovrebbe indurci a ridiscute­ re certe usurate classificazioni. Di norma, sono le personalità più intensamente reclamizzate dall’industria culturale (o anche solo più amate dalla borghesia che di quell’industria è fautrice e vitti­ ma) a provocare queste discrepanze clamorose: Bergman, Fellini o Resnais, per dire tre nomi. E sono le loro opere di punta (L’an­ no scorso a Marienbad — L’année dernière à Marienbad o 8 e ll2 o Li silenzio) a scoprire nel modo più chiaro le contraddizioni laten­ ti. In quel momento, quando le posizioni si definiscono con esat­ tezza, il discorso sugli autori diviene realmente utile. Si può cominciare proprio dall’arte, che esamineremo come uno dei cardini dell’ideologia bergmaniana. Il preludio del Silen­ zio è una sequenza esemplare. Un treno si ferma, di notte, in una stazione di frontiera. Con una sola inquadratura articolata in una serie di movimenti “a scoprire”, Bergman presenta tre personag­ gi e un ambiente. Lo fa con una penetrazione psicologica e una 140

acutezza descrittiva davvero mirabili: Anna soffoca per il caldo (subito scopriamo in lei una natura esuberante e inquieta), Ester sente freddo, ha un attacco di tosse (è vista dall’alto, riversa sul sedile: un essere indifeso), Johan, il bambino, viene in primo pia­ no con una faccia atona (sarà la vittima innocente di qualcosa che sta per accadere). Sul vetro che da sul corridoio è appiccicato un avviso scritto in una lingua incomprensibile. Johan esce in corri­ doio (si chiude qui la lunga inquadratura iniziale). Due militari si affacciano da uno scompartimento, passa il controllore. Il tre­ no riparte, entriamo in un paese sconosciuto. Sorge un sole enor­ me, bianco, dietro una montagna. Sotto gli occhi di Johan sfila un paesaggio che sembra pietrificato, squallido. Un convoglio carico di carri armati incrocia il treno. Adesso alle spalle di Johan c’è Anna, sua madre. Guardano senza espressione davanti a sé. Stacco. I due nello stesso atteggiamento, alla finestra di un alber­ go: ora guardano la via sottostante, stretta, animata, l’insegna di un bar proprio di fronte, una chiesa di scorcio, due preti, il pas­ saggio di un carro su cui sono ammucchiate masserizie (con que­ sta inquadratura termina il preludio, si apre il racconto). Il ritmo delle immagini è lievemente ossessivo, si appoggia sui primi pia­ ni, acquista efficacia via via che i rumori - quasi tutti smorzati ma nitidissimi - si succedono sovrapponendosi. Gli attori si scambiano parole senza importanza. Si acuisce l’attesa. Poche altre volte Bergman, che pure è uno splendido concertatore di effetti descrittivo-narrativi, ha mostrato tanta forza di espressio­ ne. La complicità dello spettatore è già ottenuta. La preoccupazione estetica vince sulle altre. Quanto, e come, sia caratteristica questa posizione, vedremo più avanti. Accostia­ mola, per ora, al “credo” che l’autore espose all’epoca del Volto (1958), nel pieno della parabola ascendente. Disse: «E un bel comandamento questo che ovviamente mi impedisce di rubare mentire uccidere frodare o rendermi reo di adulterio. Ossia, mi è permesso falsificare qualora sia artisticamente ammissibile. Posso anche mentire qualora la menzogna sia bella... E ammissibile che mi prostituisca per il bene dell’affare, e sarei anche costretto 141

a rubare se non avessi nulla di mio da apportare. Questo è l’ob­ bedire alla propria coscienza artistica in tutti i sensi... Tutti i mezzi sono leciti a chi riesce, ma nessuno a chi fallisce». Qui tro­ viamo teorizzato ciò che le opere traducono nella pratica: l’irre­ sponsabilità dell’artista, l’affermazione romantica dell’artista come superuomo. Domandiamoci adesso: come si concilia il superomismo con la macerazione spirituale che impronta di sé i temi dei film bergmaniani? Si contraddicono, non si contraddi­ cono? Gli uomini che il regista propone a modelli (negativi) sono in vario modo oppressi dalla paura. La loro vita è fallita per troppo egoismo, per incapacità di amare {Il posto delle fragole)', la si può vivere, quando ancora se ne abbia la forza, come un’avventura assurda {Il voltò). Al di là della vita c’è Dio, ma Dio non muove dito contro la ferocia del mondo {Lafontana della vergine— Jungfrukàllan). La scienza non ha alcun potere, inaridisce chi le pre­ sta fede. Il mondo è gonfio di orrore, gli uomini indifferenti l’u­ no all’altro {Come in uno specchiò). Bergman propone una tenue speranza: l’amore come itinerario verso Dio, ma potrà l’amore realizzare il miracolo? La stessa religione si è inaridita, rifugian­ dosi nella meccanica ripetizione delle formule del culto (è un antico motivo kierkegaardiano). L’uomo è stato abbandonato da Dio. Non per questo deve arrendersi. Resta la fede, una fede pura e fine a se stessa, non giustificata da nulla {Luci d’inverno). Ma se neppure questo restasse? Può l’uomo uscire fuori di sé, in un altro modo? Non può. I contatti con l’esterno ingannano. Il paese eso­ tico, la misteriosa città di Timoka sono la trasparente allegoria degli altri. Gli altri vivono per proprio conto, non ti comprendo­ no perché non possono (la lingua sconosciuta del Silenzio) e ti ricacciano — non per malanimo, ma soltanto per incapacità di soccorrerti — nel tuo inferno. Antichi fantasmi, che ieri davano consolazione all’uomo, galleggiano su questo mare vuoto (“Haydek”, ossia “spirito” nella lingua Timoka, sta scritto sul foglietto che Johan ha ricevuto dalla zia e che ora cerca di nascondere alla madre; ma dinanzi al messaggio di un mondo scomparso si può 142

rispondere, al massimo, con l’amarezza di un sogghigno). Il silenzio è, come tutti i film maggiori di Bergman, intessuto di simboli. I simboli, inoltre, annegano quasi sempre nell’ambi­ guità. Personaggi, ambienti, gesti non sono elementi di una sto­ ria ma veicoli di suggestione, segni di un rituale magico. A Timoka si sente la presenza della guerra (presenza effettiva, ricor­ do o attesa, non importa saperlo). Il suono ricorrente delle sire­ ne, il gioco di Johan che simula un attacco aereo, il preannuncio (il bicchiere e la bottiglia dell’acqua tintinnano sul tavolino accanto al letto di Ester) e poi l’apparizione notturna del carro armato (si avvicina sferragliando, si ferma, riparte e scompare dietro l’angolo della via deserta) acquistano il valore di un sogno che ritorna ossessivo. Bergman compone la sequenza con una sensibilità morbosa: questa e le altre, uniformandole tutte al medesimo tono. La sua sapienza figurativa (il taglio delle inqua­ drature quasi sempre all’altezza del volto dei personaggi in qua­ lunque posizione essi si trovino, l’abbondanza dei dettagli di oggetti, la luce ora chiara ora cupa ma sempre netta e crudele), la finezza eccezionale della colonna sonora (rumori soprattutto, ambientati con una “profondità” che pare tangibile; una musica da ballo, un brano di Bach), la morbida precisione del ritmo, la ferma, spietata direzione degli attori (specialmente di Ingrid Thulin e di Gunnel Lindblom, le due sorelle), ogni particolare contribuisce alla creazione di un clima sospeso e allucinante. L’arte di Bergman si esercita nelle due direzioni parallele del­ la simbologia e della magia. Più ancora che in Fellini, questa esal­ tazione raffinata del potere “suggestionante” del linguaggio cine­ matografico incarna il concetto che dell’arte ebbe il romantici­ smo: una attività con profonde radici nella vita (spesso nelle regioni più oscure della vita) che dalla vita si stacca per innalzar­ si a una sfera di pura contemplazione. L’individuo, creatore soli­ tario e geniale dell’arte, trova in essa gioia o tormento; grazie a essa dimentica le miserie del mondo, in una estasi narcisistica che annulla (o attenua) il peso della sua condizione umana. Macerar­ si, per l’artista, significa porsi a un livello super umano, soffrire 143

più che gli altri uomini possano soffrire, e nello stesso tempo godere della propria condizione superiore come di una vetta duramente conquistata. Dire, come molti dicono, che Bergman interpreta la crisi spirituale dell’uomo moderno non ha senso in assoluto, la frase è poco più di una banalità. Ma ha senso se la si intende in questa cornice, rivelazione del compito che l’arte può svolgere per definire la crisi di un certo tipo umano. La macera­ zione spirituale e il superomismo non solo non si contraddicono ma, accoppiati nel duplice trionfo dei simboli e della magia, con­ corrono in singolare armonia a gettare luce su un aspetto dei rap­ porti dell’uomo con la società. Quale società? La società borghese, evidentemente, ma in quale fase del suo sviluppo, in quali condizioni storiche e cultu­ rali? I protagonisti del Silenzio — le due sorelle e il bambino — sono scossi dal trauma della solitudine e subiscono il fascino del­ l’esotico. L’uomo è come ripiegato su se stesso, i sentimenti sono paralizzati, la cultura non offre più benefìci (è strumentalizzata: Ester, l’intellettuale, esercita macchinalmente la sua professione di traduttrice; traduttrice, si osservi, ossia mediatrice di esperien­ ze straniere). Resta il benessere materiale, una condizione acqui­ sita su cui non merita più riflettere. Ma non è sufficiente il benes­ sere per fugare l’angoscia e la paura. Giunti durante una vacanza in un paese sconosciuto, i tre personaggi vivono isolati in un albergo, affascinati dall’isolamento e da strane apparizioni che il muro dell’incomprensibilità linguistica rende inquietanti (un cameriere decrepito, il barista che possiederà Anna, una troupe di sette nani spagnoli, la folla dimessa nelle strade). Come reagiscono? Ester chiudendosi ancor più in se stessa (è gravemente malata, la sua è una reclusione inevitabile); Anna sfo­ gando furiosamente la sua libidine, il suo bisogno di liberazione e di vendetta (contro la sorella) per cercare un contatto purches­ sia; Johan, ragazzino indifeso e precocemente maturo, girovagan­ do nei corridoi deserti, sbeffeggiando la madre e ogni presenza femminile, avvicinandosi spaurito a chiunque lo possa compren­ dere. Dall’esperienza esotica escono tutti e tre sconfìtti. Ester 144

muore (si suppone) nel letto della camera d’albergo, Anna torna nauseata alla sua Svezia, Johan conserva il ricordo di una speran­ za appena intravista e subito perduta (la “complicità” intellettua­ le che lo legava alla zia). La solitudine non è stata rotta. Il fascino dell’esotico stordisce l’uomo che vi si immerge provenendo da una civiltà diversa (il grande albergo “asburgico”, la folla, il disordine, il caldo soffo­ cante di Timoka sono l’opposto della pulizia e del benessere del­ la società in cui i protagonisti vivono), ma non gli comunica nul­ la. Non concede né certezze né speranze. L’antico mito nordico del Sud “rigeneratore” ha fatto fallimento. L’avventura esotica conferma l’uomo nella disperazione e nel disprezzo per tutto ciò che non rientri nel suo ordine (amato e odiato, il sentimento è ambivalente, come sempre in Bergman). Il silenzio è dominato da tre presenze simboliche: l’odio, le inibizioni psichiche, la morte. Quando Anna torna in albergo, dopo aver fatto l’amore con il barista sul pavimento della chiesa, dietro una colonna (notiamo il simbolo fallico in funzione pro­ fanarti ce), Ester la rimprovera. Anna risponde aspra: «Ricordi Lione? Ero andata con Claudio. E anche allora tu mi spiasti. Un’altra volta, comunque, starò attenta a togliermi prima il vesti­ to». Quando Ester sorprende Anna e il barista sul letto, nella sequenza più brutale del film, lo scontro fra le sorelle assume toni parossistici. «Ti dai tante arie - urla Anna - perché sei un’intel­ lettuale. Traduci tanti bei libri, ma non hai imparato nulla. Quando nostro padre morì, tu dicesti che volevi morire. E vivi ancora. Anche tu hai paura». Le inibizioni esplodono a contatto con l’ambiente esotico. Il complesso di Edipo, che tormenta Ester continuamente (ricorda sempre il padre alto e dominatore, lo “contende” alla sorella) è la matrice da cui nasce la spaventosa invettiva dell’intellettuale, durante la crisi di soffocazione. Possiamo riassumerla così, citan­ dola dal testo originale del film: «Tutto dipende dal membro. Lo sperma puzza. Mi confesso in punto di morte. Estrema unzione. Puzzavo di pesce fradicio quando fui ingravidata. Non voglio 145

morire qui. Mamma! Chiamate un dottore. Morire sola...». Le inibizioni sono sfociate nella ossessione sessuale (repressione degli istinti in una società che blocca lo sviluppo della libertà umana pur mostrando di favorirla) e culminano nel gusto della profanazione. Il mitico Sud, regno della natura e della libertà, scatena le forze represse. La morte - il pensiero della morte - si intreccia con l’odio e le inibizioni. Non occorre accennare ai numerosi simboli (i carri armati, i rumori, le fotografìe di guerra, esibite dal vecchio came­ riere, il carro che passa due volte sotto la finestra dell’albergo). Ricordiamo solo la pantomima di Johan. La zia lo commisera perché ha fatto un brutto viaggio, e lo prega di leggere qualcosa. Johan preferisce “fare il teatro” e inventa uno spettacolo di pupazzi immaginari: uno di questi è una donna che si dimena spasmodicamente perché ha paura di morire. Bergman insiste sul tono macabro, manipolandolo, con il senso esatto della progres­ sione ossessiva. Riafferma in ciò, spavaldamente, la sua persona­ lità di artista e traccia un quadro desolato della cultura di cui è figlio. Una cultura che nella fuga da se stessa (e nella constatazio­ ne della catastrofe dell’individuo) trova l’unico motivo per dimo­ strare di essere viva. Solitudine, esotismo, simbologia, estetismo esasperato sono appunto sinonimi di impotenza e di volontà di fuga. Producono ciò che II silenzio esemplifica con chiarezza (tutto in questo film è chiaro, anche l’ambiguità): l’infelicità individuale, la coscienza dell’inutilità della vita umana, l’impossibilità di aprirsi al contat­ to con civiltà diverse (probabilmente considerate inferiori, ma senza confessarlo), il dolore straziante che la menomazione pro­ voca. Vediamo II silenzio insieme ai due film precedenti {Come in uno specchio, Luci d’inverno), seguendo l’indicazione del regista, che li ha concepiti a guisa di trittico. La degradazione dell’uomo è totale. All’incesto nella stiva di un vecchio relitto {Come in uno specchio) fa riscontro l’appiccicosa volgarità di Marta, invano innamorata del pastore che ha perduto la fede {Luci d’inverno)', all’incesto e alle smanie disgustose di una donna si unisce ora {Il 146

silenzio) la violenza della sodomia. I rapporti fra gli uomini (di tutti i rapporti quello sessuale è il più immediato e il più immon­ do) esistono soltanto per avvilire. Privato di ogni cosa (la com­ prensione, l’amore, il sesso, la scienza, Dio), l’uomo conserva la capacità dell’emozione estetica, depurata di ogni fronzolo, ridot­ ta a una immobilità ascetica, alla contemplazione. Si può dire che questa sia l’immagine della crisi spirituale del­ l’uomo contemporaneo? Chi lo dice generalizza e generalizzando accetta inconsapevolmente la visione che del mondo hanno i protagonisti della crisi. Il discorso da fare è un altro, si rivolge alle componenti ideologiche (e, più rigorosamente, economiche, sociali e morali dei film). In apparenza il panorama della società svedese è semplice. Trentadue anni ininterrotti di governo social­ democratico hanno condotto alla imposizione di una fiscalità fortemente progressiva, alla creazione di un efficiente sistema di assicurazioni sociali, al grande sviluppo delle cooperative di pro­ duzione e di consumo, a una difesa sistematica delle strutture capitalistiche dagli interventi nazionalizzatoti. Che cosa nasconde questa semplicità? Bisogna guardarsi, al solito, dallo stabilire rapporti di causa ed effetto fra il panorama economico-sociale e l’impotenza dell’individuo quale risulta dal­ l’opera del nostro autore: la situazione naturalmente è più com­ plessa. Conviene piuttosto proseguire con una serie di domande, che Bergman suggerisce e alle quali né lui né noi siamo in grado di dare risposte esaurienti. La prima è questa: quale tipo di civiltà si può costruire nell’ambito di una società politicamente di for­ mazione democratica ed economicamente semicapitalistica (o semi-socialistica), sulla quale influiscono da un lato la morale del Cristianesimo riformato e dall’altro una cultura di tipo “periferi­ co”, che ha avuto scarsi contatti con le correnti fondamentali del­ la filosofìa, della letteratura e della sociologia moderne? La seconda è questa: quali conseguenze ha provocato, sulla formazione psicologica degli individui, il fatto che la Svezia non sia stata toccata dalle due grandi guerre del nostro secolo? Le oscillazioni del neutralismo svedese, ora verso l’uno ora verso Fai147

tro dei contendenti, sono note. La “presenza” della guerra nel Silenzio potrebbe addirittura assumere il significato di un deside­ rio retrospettivo: la mostruosa “nostalgia” di una lotta non soste­ nuta. La Svezia ha “vissuto” le guerre senza combatterle, perché anche nell’interno della sua società (dei suoi atteggiamenti poli­ tici) si riprodusse la frattura che spezzò le altre società. Per que­ sto, non ha avuto la possibilità di “vincere” contro la parte peg­ giore (o storicamente condannata) di se stessa: l’ha semplicemente dimenticata, sulla scia dell’Europa che invece l’aveva vin­ ta combattendo. Le altre sono domande più specifiche, che discendono dalle due già proposte. Quali contraccolpi ha causato l’instaurazione del socialismo senza dolore, in una economia rimasta nella sostanza capitalistica? Quali influenze ha avuto il rigorismo puri­ tano sull’animo di individui che, acquistando una maggiore libertà (economica e civile), non hanno trovato nella solidarietà sociale un sostitutivo - o una integrazione efficace - della reli­ gione dalla quale si andavano sempre più allontanando? La Sve­ zia si trova in una situazione privilegiata nel quadro della socialdemocrazia internazionale; ha realizzato da più di trent’anni quel compromesso fra capitalismo e socialismo che altre nazioni stan­ no cercando, per soddisfare le esigenze della industrializzazione crescente. Poiché lo scopo è quello di trovare nuovi equilibri nel­ la compagine sociale, senza alterarne la struttura, riesce difficile osservare mutamenti alla superfìcie. Non si danno informazioni macroscopiche ma solo piccoli adattamenti progressivi. Il pas­ saggio del potere da una classe all’altra avviene molto lentamen­ te, se mai in effetti avviene. La tensione, per questo, rimane tut­ ta sotterranea, invisibile. Bergman osserva proprio questa zona profonda della società e della psicologia svedesi. La osserva dal­ l’interno, perché è integrato perfettamente nel sistema. Ne è lui stesso un prodotto: la solitudine e l’esotismo che descrive sono la sua solitudine e il suo esotismo (desiderio di una libertà giudica­ ta impossibile); il suo estetismo e la sua propensione per la sim­ bologia sono l’estetismo e la propensione fantastica (insoddisfa­ 148

zione dei rapporti umani ed egocentrismo) che agiscono in una zona particolare della società borghese. Bergman rappresenta cer­ to la manifestazione più estremistica del malessere diffuso, ma non conterebbe nulla se non esistesse, riconoscibile ai diversi livelli della società, quel malessere. Una ricognizione accurata della storia e della cultura svedesi nell’ultimo trentennio (e delle tradizioni religiose e morali più antiche) consentirebbe di precisare meglio le domande. Lungi dal rivelare una generica (e in quanto tale inesistente) crisi del­ l’uomo contemporaneo, Bergman introduce lo spettatore alla comprensione del disagio di una società bene individuata. La borghesia dei paesi occidentali che si identificano con lui, e ne fanno il testimone di una crisi generale, soffrono della stessa mio­ pia dell’autore. Si trovano, infatti, nella sua stessa condizione: vivono la crisi senza vederne esattamente l’origine e le cause. Come lui reagiscono talvolta con furore; talaltra, a differenza di lui, si abbandonano alla rassegnazione. Bergman ha la forza di ribellarsi, sia pure a vuoto e senza sapere contro chi. Può darsi che il domani sia diverso dall’oggi: che questa forza, sinora cieca e disperata, diventi in qualche modo positiva.1 («Bianco e Nero», a. XXV, n. 4-5, aprile-maggio 1964, pp. 90-96)

1

A proposito di II silenzio di Bergman si veda anche F. Di GIAMMATTEO, Il silenzio degli svedesi, in «Il Ponte», a. XX, n. 5, 1964, pp. 664-668. [n.d.c.]

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Hitchcock, la luce dentro il latte (Il manuale del perfetto regista secondo tecnica e sesso, nella fedele trascrizione di Francois Truffaut)

In fondo, è una storia di reggiseni: Kim Novak, che non lo porta {La donna che visse due volte — Vertigo), Janet Leigh che lo porta a sproposito {Psyco — Psycho). Splendido dialogo Truffaut-Hitchcock: «T. - Non è di tutti i giorni vedere sullo schermo un’attrice americana così carnale. Quando la troviamo per strada, nei pan­ ni di Judy, con i capelli rossi, ha un aspetto molto animalesco, per via del trucco e probabilmente perché sotto il golfino non porta reggiseno... H. - Effettivamente non lo porta, e non perde occa­ sione per vantarsene». Altro splendido dialogo: «T. - Un critico cinematografico, Jean Douchet, ha detto una cosa divertente: nella prima scena di Psyco John Gavin è a torso nudo e Janet Lei­ gh porta il reggiseno. Per questo la scena soddisfa solo metà del pubblico. H. - Vero. Janet Leigh non avrebbe dovuto portare reg­ giseno. Questa scena non mi sembra particolarmente immorale, non mi dà alcuna sensazione particolare (lei sa che io sono come uno scapolo, ossia un astensionista), ma non c’è dubbio che sarebbe più interessante se il seno della ragazza si strofinasse con­ tro il petto dell’uomo». Non è un manuale di erotologia, è un compendio di tecnica cinematografica, una miniera di astuzie da imparare a memoria in tutte le scuole del mondo.1 Ma è come lo fosse. Coerenza di Hitchcock, svelata dal fedelissimo Truffaut. Non averci pensato prima. La scoperta sbalordisce abbastanza, ma convince. La raffinatezza della tecnica è l’analogo di un’ars amandi vissuta con piena dedizione, l’una è figlia dell’altra e vice­ versa. Non è questione di simboli sessuali, sarebbe banale; qui il

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F. TRUFFAUT, Le cinéma selon Hitchcock, Paris, Robert Laffont, 1966. È un fit­ to colloquio in quindici puntate, avvenuto a Hollywood nell’estate del ’66. [In Italia il libro è stato tradotto nel 1977 con il titolo II cinema secondo Hit­ chcock e pubblicato a Parma da Pratiche].

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gioco riesce più sottile, la “rimozione” segue vie complicate che sfociano in una maestria linguistica di autentica classe, un caso unico nella storia del cinema. Il Truffaut così adorante ai piedi dell’idolo ottiene lo scopo di rivelare un processo psicologico e stilistico che vale sì per Hitchcock, ma che serve anche per un discorso più ampio. Hitchcock potrebbe non essere niente, come sostanza intellettuale, e chi lo affermasse non troverebbe avversa­ ri davvero capaci di dargli sulla voce, però fornisce una chiave utile per introdursi nell’officina cinematografica e afferrarne a prima vista tutta la topografia. Sia ringraziato Truffaut. Nessuno ha mai sostenuto con tanta ostinazione l’idea del cinema puro, ma qui non si tratta della “purezza” inseguita da certa avanguardia del primo dopoguerra (“purezza” come gioco fine a se stesso, o come sperimentazione). Cinema puro, per Hit­ chcock, significa utilizzazione integrale delle risorse della tecnica cinematografica (e continua invenzione di risorse sempre nuove: la tecnica in progressivo arricchimento) per ottenere una parteci­ pazione totale dello spettatore allo spettacolo. Psyco sembra al regista l’esempio migliore in questo senso: «Del soggetto poco m’importa, dei personaggi poco m’importa. Ciò che m’importa è che la riunione dei pezzi di pellicola, la fotografìa, la colonna sonora e tutto quanto è pura tecnica potessero far urlare il pub­ blico. E una grande soddisfazione per noi utilizzare l’arte cine­ matografica per creare un’emozione di massa. Non è un messag­ gio che ha intrigato il pubblico, né una grande interpretazione, né un romanzo di vaglia. Ciò che ha colpito il pubblico è stato il film puro». Rivolgendosi a Truffaut, Hitchcock precisa: «Questo film appartiene a noi cineasti, a lei e a me, più di tutti quelli che ho girato. Con nessun altro potrei discutere del film nei termini in cui lo facciamo noi, ora. La gente direbbe che un film così non si dovrebbe fare, che il soggetto è orribile, che i protagonisti sono insignificanti, non sono personaggi. Certo, ma il modo di costrui­ re la storia e di raccontarla ha trascinato il pubblico, facendolo reagire emotivamente». Questo è il punto di partenza: la teorizzazione di un linguag154

gio esclusivamente strumentale, che si esaurisce nell’effetto otte­ nuto. Indirettamente Hitchcock, in un altro luogo del colloquio con Truffaut, giustifica il suo atteggiamento: «Il mio amore per il cinema è per me più importante di qualsiasi morale». Si potreb­ be aggiungere: di qualsiasi estetica, di qualsiasi ideologia, di qua­ lunque cosa (o concetto o teoria) non sia cinema. Cinema in assoluto. Formalismo, ma in un senso particolare. Discutendo dei difetti d’un film del 1942 — Sabotatori {Saboteur) — in cui si stipavano molte idee, ma in disordine e non accuratamente sele­ zionate, spiega: «Una massa d’idee non basta per comporre un film riuscito se le idee non sono presentate con sufficiente cura e con una totale consapevolezza della forma». Forma per Hitch­ cock vuol dire azione in termini visivi. «Le sequenze di un film non devono mai segnare il passo ma sempre procedere, esatta­ mente come un treno avanza, una ruota dopo l’altra, o, più esat­ tamente ancora, come un treno a cremagliera che si arrampica, dente su dente. Non bisognerebbe mai paragonare un film a un dramma teatrale o a un romanzo. Ciò che più gli assomiglia è la novella, la cui regola generale è quella di contenere una sola idea che finisce di esprimersi nel momento in cui l’azione raggiunge il punto culminante... Questa esigenza implica la necessità di un saldo sviluppo dell’intrigo e la creazione di situazioni efficaci che discendono dall’intrigo stesso e che debbono tutte essere presen­ tate, in primo luogo, con abilità visiva». In primo luogo abilità visiva. Ossia, tutto è subordinato all’immagine. Come si risolvano, sotto questo aspetto, i proble­ mi del film sonoro, il regista lo mostra con un esempio. La fine­ stra sul cortile {Rear Window) — il film del ’54, interpretato da James Stewart e Grace Kelly — inizia con la presentazione del luo­ go e del personaggio: un cortile, il volto dell’attore, una gamba ingessata, un apparecchio fotografico rotto, una pila di riviste, sul muro fotografìe di auto da corsa. Questi sono i mezzi che ha il cinema, commenta Hitchcock, per raccontare una storia. La sce­ na diverrebbe banale se qualcuno domandasse a Stewart come s’è rotta la gamba e se lui rispondesse che, mentre stava facendo 155

fotografìe d’una corsa, una ruota si staccò da una macchina e lo colpì. Uno sceneggiatore commette peccato capitale quando, dinanzi a una difficoltà, elude il problema dicendo: «Giustifiche­ remo tutto con una battuta di dialogo». «Il dialogo - conclude il regista - deve essere un rumore fra gli altri, un rumore che esce dalla bocca dei personaggi mentre le loro azioni e i loro sguardi raccontano una storia visiva». Il primato della visività trova una formulazione rigorosa. Su questo principio un secondo s’innesta: il primato della verosimi­ glianza dell’azione, contro ogni verosimiglianza naturale, esterna. E uno dei nodi centrali del metodo cinematografico, secondo Hitchcock. In un film tra i suoi più applauditi - Notorius, ra­ mante perduta {Notorious} del 1946 - si assiste alla scena, in appa­ renza innaturale, di un lungo bacio in un primo piano fra la Bergman e Cary Grant. I due sono abbracciati. Suona il telefono. Senza staccarsi, vanno verso l’apparecchio, lui risponde, a lungo e a tono, e continuano a baciarsi. Si voleva esprimere il desiderio che i due hanno l’uno dell’altra. Occorreva che, per quante cose accadessero ai personaggi, l’atmosfera drammatica non si affievo­ lisse mai. Di qui l’introduzione dei fatti che distraggono e, insie­ me, la forzatura della camminata e della risposta al telefono. Che ciò fosse effettivamente innaturale lo provò la resistenza opposta dai poveri attori, costretti a una specie di acrobazia amorosa, ma che fosse nello stesso tempo naturale e indispensabile (per il significato della scena) lo dimostrò il film in proiezione. L’odio del regista contro i fautori della verosimiglianza è profondo, e motivato. Un film, a meno che non sia un docu­ mentario, nasce dall’immaginazione e non dalla plausibilità. «Chiedere a un uomo che narra storie di tener conto della verosi­ miglianza mi sembra altrettanto ridicolo che chiedere a un pitto­ re figurativo di rappresentare le cose con precisione. Qual è il col­ mo della pittura figurativa? La fotografia a colori, no?... C’è una grande differenza tra il film a soggetto e il documentario. Nel documentario, il regista è Dio, è lui che ha creato il materiale di base. Nel film a soggetto, il dio è il regista, tocca a lui creare la 156

vita. Per fare un film occorre giustapporre masse d’impressioni, masse d’espressioni, masse di punti di vista e, a patto che nulla sia monotono, dovremmo poter disporre d’una libertà totale». Per ottenere il risultato massimo, per far sì che la creazione sia tale da scuotere lo spettatore, il regista ha il dovere di non ritrarsi davan­ ti ad alcuna (vera o supposta) soperchieria, di non lesinare i truc­ chi. Hitchcock, è noto, accetta il dovere e lo compie ogni volta con sfoggio di virtuosismo. In II sospetto (Suspicion), film del ’41 con Cary Grant e Joan Fontaine, aveva bisogno che l’attenzione dello spettatore si concentrasse sul bicchiere di latte (avvelenato?) che il protagonista porta alla moglie. Cary Grant sale lo scalone, reggendo un vassoio con il bicchiere. Il bianco del latte doveva essere estremamente luminoso. Per ottenere l’effetto, Hitchcock mise una luce dentro il bicchiere.2 Virtuoso, non ammette di esserlo. Contraddizione? Prima di rispondere, fissiamo - tirate le somme, linguaggio strumentale, visività, rifiuto della verosimiglianza, creazione assoluta - la sua idea generale del cinema: «Per me, girare un film significa anzi­ tutto raccontare una storia. Questa storia può essere inverosimi­ le ma non deve mai essere banale. E preferibile che sia dramma­ tica e umana. Il dramma è una vita da cui sono stati eliminati i momenti noiosi. Poi entra in gioco la tecnica, e qui io sono nemi­ co del virtuosismo. Bisogna sommare la tecnica all’azione. Non si tratta di piazzare la macchina con un’angolazione che provochi l’entusiasmo dell’operatore. L’unico problema che mi pongo è quello di sapere se piazzando la macchina qua o là darò alla scena il massimo dell’efficacia. La bellezza delle immagini, la bellezza dei movimenti, il ritmo, gli effetti, tutto dev’essere subordinato e sacrificato all’azione». Hitchcock non si contraddice. Conferma quello che di lui sapevamo da sempre, e che abbiamo adesso riap­ preso sistematicamente, con un interesse che va molto oltre il

2

Cfr. E TRUFFAUT, Il cinema secondo Hitchcock, Milano, Net, 2002, p. 118. Tuttavia non sappiamo quanto possa essere attendibile questa “confidenza” di Hitchcock a Truffaut, [n.d.c.]

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caso personale: il suo è un cinema di virtuoso, ma il suo virtuosi­ smo è di tipo indiretto, gabellato per altro, presentato sotto men­ tite spoglie, un virtuosismo in maschera. Sappiamo anche un’al­ tra cosa: che tutto il cinema migliore (o quasi tutto, diciamo per prudenza) è rimasto sino a oggi (sempre per prudenza, e non potendo ipotecare il futuro, diciamo sino a oggi) ciò che è per Hitchcock, un virtuosismo in maschera. Hitchcock lo dice, e lo fa (quali che siano le sue intenzioni) banalmente. Meno banal­ mente (più abilmente, più seriamente, con maggiore contorsio­ ne intellettuale) lo dicono i teorici, i grandi compresi. Meno banalmente lo fanno altri registi, a cominciare dai grandi (usia­ mo questo termine ambiguo per desiderio di semplificazione). Tuttavia, non si sarebbe onesti se non si soggiungesse che la bana­ lità, ovviamente negativa se fatta, riesce utile se impiegata (come la impiega Hitchcock dialogando con Truffaut) per esporre in concreto i termini essenziali del linguaggio cinematografico. Ma, per Hitchcock, che significa questo virtuosismo in maschera? Da che nasce? Riprendiamo il discorso da dove l’ab­ biamo futilmente iniziato. Il regista ha un temperamento para­ dossale, e sempre i paradossi nascondono molle psicologiche segrete. Torniamo all’ars amandi. «Credo che le donne più inte­ ressanti, sessualmente parlando — dice — siano le donne britanni­ che. Credo che le donne inglesi, le svedesi, le tedesche del nord e le scandinave siano più interessanti delle latine, le italiane e le francesi. Il sesso non dev’essere sbandierato... La povera Marilyn Monroe aveva il sesso stampato dappertutto sul volto, come Bri­ gitte Bardot, e ciò non è molto fine». Non sorprenderà scoprire che questo “ritegno” — questo britannico understatement — è motivato, insieme, da ragioni di gusto e da esigenze tecniche. Qui si saldano le due facce di Hitchcock. «Quando affronto sul­ lo schermo i problemi del sesso non dimentico che, anche su questo terreno, è il suspense che detta legge. Se il sesso è troppo chiassoso, non esiste più suspense. Perché scelgo attrici bionde e sofisticate? Noi cerchiamo donne di mondo, autentiche signore, che in camera da letto si trasformeranno in sgualdrine». La natu­ 158

ra profonda di tante mistificazioni hitchcockiane sta in questa minuscola perversione sessuale, lo spiritello del suspense (il vir­ tuosismo camuffato, la strumentalizzazione del linguaggio in vista dell’effetto da ottenere, la curiosità spinta sino al limite del morboso, possibilmente con eleganza e buon gusto anglosassoni ma, se non è possibile, anche con volgarità altrettanto anglosas­ sone) si annida in questo appartato angolo della psiche del regi­ sta. La mistificazione è il bisogno sotterraneo di un voyeur che, forse vergognandosi delle sue passioni ma non essendo abbastan­ za “astensionista” per ricacciarle dentro, sceglie di necessità la via tortuosa per agire ed esprimersi. Hitchcock analizza acutamente le proprie inclinazioni sessua­ li e, nell’analizzarle, le trasferisce sul piano della tecnica espressi­ va. Il passaggio risulta così naturale che è diffìcile obiettargli qualcosa. Ci ha provato Truffaut, osservando che i gusti del regi­ sta non sembrano condivisi dalle masse, le quali alle bionde sofi­ sticate preferiscono le attrici con il sesso stampato in faccia, le Monroe, le Loren, le Bardot. Ma Hitchcock lo mette subito con le spalle al muro: «E possibile, ma lei converrà con me che queste attrici non possono girare altro che brutti film. Perché? Perché con loro non esiste la sorpresa, cioè non si possono fare buone scene, non si può ottenere, con loro, la scoperta del sesso. Prenda l’inizio di Caccia al ladro (To Catch a Thiefl. Fotografo una Gra­ ce Kelly impassibile, fredda. La mostro quasi sempre di profilo, con un’aria classica, molto bella e glaciale. Ma quando gira per i corridoi dell’albergo, e Cary Grant l’accompagna sino alla porta della sua camera, che fa? Gl’incolla subito le labbra sulla bocca, senza preamboli». Una seconda obiezione di Truffaut (può darsi che lei abbia ragione, ma ce l’ha perché è tanto bravo da imporre i suoi gusti al pubblico, e poi potrebbe anche darsi che quest’a­ spetto dei suoi film piaccia soprattutto alle donne) porta in luce, oltre il sesso e la tecnica cinematografica, anche le pratiche ragio­ ni del commercio, e così il cerchio si chiude, in totalmente bri­ tannica compostezza: «In una coppia è la donna che decide la scelta del film da vedere ed è anche lei che stabilisce, dopo, se il 159

film era bello o brutto. Le donne possono sopportare la volgarità sullo schermo a condizione che non siano persone del loro sesso a sbandierarla». Il “ritegno” è anche un sistema per fare buoni affari. Poco servirebbe, adesso, seguire il regista nei meandri dei suoi temi e dei suoi trucchi. Servirebbe, diciamo, agli allievi di una scuola (lo facciano, gli insegnanti li invitino a farlo) ma non in sede di discussione sui princìpi. La costante ironia, il tema del­ l’uomo ingiustamente accusato (che ritorna spesso, e che ha con­ sentito ai critici francesi di imbastire sulla pelle del regista ogni sorta di metafìsicherie), la sottile (ma fondamentale) differenza tra suspense e sorpresa, i mirabolanti movimenti di macchina (qui se ne descrivono parecchi, come quello d’una scena sulle sca­ le, in Psyco, quando Perkins va a prendere la madre impagliata), il rifiuto (saggissimo, e saggiamente spiegato) di ridurre per lo schermo i capolavori della letteratura: questa, si avvertiva, è una miniera, basta scavarci per trovare. Più interessante, sembra com­ pletare il quadro dell’effetto mistificante che Hitchcock imprime al linguaggio cinematografico. Il suo è, come già si è detto, un formalismo di genere speciale, rigorosamente finalizzato alla sug­ gestione da esercitare sul pubblico. Andrebbe ora ricordato che questo formalismo non formalistico (nel senso storico-cinemato­ grafico) sfocia inevitabilmente — tutti i film del regista lo svelano — in un singolare irrealismo a base (anche qui usiamo un bisticcio di parole) strettamente realistica. Si può formulare la seguente regola: più le situazioni di partenza sono irreali (inverosimili, assurde: Hitchcock difende gagliardamente il suo diritto al gra­ tuito), più i particolari delle azioni, la psicologia dei personaggi, i luoghi della vicenda devono essere minuziosamente veri, verifi­ cabili. E, in fondo, la regola della banalità, che il regista tenta poi di riscattare con l’ironia, il sesso, il gioco sapiente. Hitchcock ammonisce sempre che, se il film si svolge in Svizzera, vi dovran­ no comparire in qualche modo le Alpi, i laghi e il cioccolato e che, se il film ha per protagonista un fotografo, occorre utilizzare gli strumenti del mestiere di costui, possibilmente in una scena 160

culminante (come infatti avviene nella Finestra sul cortile, in cui il protagonista immobilizzato sulla sedia a rotelle si difende dal­ l’assassino con il flash). Legata alla stessa preoccupazione del realismo nei particolari è la cura posta da Hitchcock nella fotografìa, soprattutto in quel­ la a colori. Mentre per il bianco e nero occorre superare con la luce l’ostacolo della “natura bidimensionale dell’immagine”, per il colore il problema cambia. La “naturalezza” la si ottiene non facendo sentire le fonti della luce artificiale che serve per illumi­ nare le scene. Normalmente avviene il contrario: «se guardate un personaggio in un corridoio che dovrebbe essere buio, o dietro le quinte di un teatro, avvertite immediatamente la presenza degli archi che lo inondano di luce e vedete sui muri ombre nere come il carbone». Fra i tentativi fatti per rendere la luce naturale, Hit­ chcock indica due film suoi: Nodo alla gola {The Ropé) del ’483 e Il sipario strappato {Torn Curtain) del ’66. Per quest’ultimo ha usato la luce riflessa, dirigendo i proiettori non sui personaggi ma su grandi superfìci bianche e ponendo dinanzi all’obbiettivo vela­ tini di garza grigia (operatore John F. Warren). Ma bisogna pur dire che la preoccupazione, giusta alla radice, conduce a storture null’affatto naturali. Nel Sipario strappato è vero che ci sono poche ombre nette, ma le scene appaiono così luminose, così stranamente chiare (e con luccichii formicolanti sui colori tenui) che proprio non si comprende che cosa giustifichi tanto sfarzo (pensate alla scena in cui Newman uccide faticosamente il poli­ ziotto che lo pedinava). Del resto, non pretendiamo da Hitch­ cock più di quanto la tecnica gli permetta. E possibile coglierlo in fallo molte volte, ed è certo grave per lui essere colto in fallo, lui così pignolescamente realistico nei particolari. Quando la tecni­ ca non c’entra, il fallo è ancora più grave, soprattutto laddove (come nell’uso insistente e fastidioso dei trasparenti) non se ne dà

3

Nodo alla gola è conosciuto in Italia anche con il titolo Cocktailper un cada­ vere. \n.d.c.\

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per inteso. Segno di presunzione: Hitchcock è così sicuro della presa che esercita sullo spettatore da infischiarsi sovente delle sue stesse (ragionevoli) preoccupazioni. Gordon Craig considerava l’attore una supermarionetta, Hit­ chcock lo considera un utensile. E quasi la stessa cosa. I due pun­ ti di vista nascono dalla medesima concezione della regia (crea­ zione integrale e mistificazione). Gli attori non sono esseri uma­ ni, da cui estrarre qualcosa perché qualcosa sono. Sono, dice Hit­ chcock (la frase è celebre), bestiame. Non si capisce come si pos­ sa disprezzare un utensile, ma Hitchcock lo fa per reagire al disprezzo che certi attori ostentano per il cinema (è la vecchia sto­ ria dell’arte culturalmente sottosviluppata, macchina per fare sol­ di e nient’altro), perché per lui il cinema è cosa sacra, come il ses­ so, e allo stesso modo va trattato (con abilità, amore infinito e devozione completa). Se il primo lavoro da compiere è quello di creare l’emozione nello spettatore, e il secondo quello di conser­ varla (di ciò si occupa il regista), l’attore ha il solo dovere di stare docilmente al gioco. «L’attore non deve assolutamente far nulla. Deve avere un atteggiamento calmo e naturale - cosa d’altronde non così facile come sembra — e deve accettare di essere utilizza­ to, e sovranamente integrato nel film, dal regista e dalla macchi­ na da presa. Deve lasciare alla macchina la cura di trovare gli accenti migliori e i migliori punti culminanti». Questo, natural­ mente, non annulla la necessità del divismo, che Hitchcock rispetta con grande compunzione. Il divo è utile, il divo va impiegato affinché il risultato del film sia efficace. «Il pubblico attribuisce minore importanza ai guai e ai problemi di un perso­ naggio interpretato da un attore che non gli sia familiare». Ma il divo, accolto a braccia aperte perché è “familiare” allo spettatore, non può non trasformarsi, davanti alla macchina da presa, in un maneggevole utensile. Tutto concorre all’effetto della mistificazione, il fine ultimo del regista che ama il cinema come si ama una donna. Tutti i mezzi sono leciti se si raggiunge il fine: «il mio amore per il cine­ ma è più importante di qualsiasi morale». Ogni film di Hitch162

cock è l’applicazione pratica di questo principio, ma nessuno è più eloquente di Psyco e nulla è più chiaro del tipo di struttura che lo sorregge. Con ricchezza di particolari, e con piacere evi­ dente, il regista la descrive cosi: «La prima parte della vicenda costituiva ciò che qui a Hollywood chiamano un’“aringa rossa”,4 ossia un meccanismo destinato a sviare l’attenzione per accresce­ re l’effetto del delitto e ottenere che sia per voi una sorpresa tota­ le. Era necessario che l’inizio fosse volutamente un po’ lungo (tutto quanto riguarda il furto del denaro e la fuga di Janet Lei­ gh) per indurre il pubblico a chiedersi con intensità sempre mag­ giore: la ragazza si farà o non si farà acchiappare? Insisto molto sui quarantamila dollari (prima e durante la lavorazione, sino alla fine delle riprese, mi sono ingegnato di aumentare la importanza di questi soldi). Il pubblico cerca sempre di anticipare l’azione, gli piace poter dire: io so che cosa succederà adesso. Perciò, occorre non solo tener conto di questo ma pilotare compietamente i pensieri dello spettatore. Maggiore è il numero dei parti­ colari che forniamo sul viaggio in automobile della ragazza, più l’attenzione sarà assorbita dalla fuga. Per questo diamo tanta importanza al poliziotto in moto, con gli occhiali neri, e alla sostituzione dell’auto. Più avanti, Perkins parla a Janet Leigh del­ la sua vita al motel. Si scambiano le loro impressioni e, ancora, il dialogo gira intorno al problema che arrovella la ragazza. Si sup­ pone che lei abbia deciso di tornare a Phoenix e di restituire il denaro. E probabile che quella parte del pubblico che cerca d’in­ dovinare pensi: ho capito, il giovanotto tenta di farle cambiare idea. Si volta e si rivolta il pubblico, tenendolo il più possibile lontano da quel che sta per succedere». Sta per succedere, infatti, il più imprevisto dei delitti, Janet Leigh ammazzata a coltellate sotto la doccia. «La costruzione del film è interessantissima. E la più appassionante esperienza di gioco che io abbia fatto col pub­

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Nelle edizioni italiane si è preferito non tradurre il termine “red herring”, che letteralmente sarebbe un’“aringa affumicata”, ma che in senso figurato si potrebbe tradurre come “falsa pista” o “traccia falsa”. [n.d.c.}

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blico. Con Psyco dirigevo gli spettatori con la stessa precisione con cui potrei suonare l’organo». E raro trovare un esempio così perfetto di mistificazione, dove con tanta cura e pazienza (e inge­ gno) si metta lo spettatore sulla strada falsa per “catturarlo” dopo, con assoluta sicurezza. Non esiste solo l’“aringa rossa” per “cattu­ rare” il pubblico, di parecchi altri metodi Hitchcock è maestro, ma questo è certo uno dei più illuminanti. Anche perché riuscire a sostenere una storia idiota come quella di Psyco a forza di soli espedienti meccanici (di pura tecnica narrativa e di invenzioni visive) è un’impresa a suo modo memorabile. Truffaut fa un’osservazione pertinente. Dice che Hitchcock subisce l’attrazione del vuoto (la sala è vuota, occorre riempirla; lo schermo è vuoto, bisogna riempirlo). Per questo non parte dal contenuto, ma dal contenente: il film è un recipiente che dev’es­ sere riempito di idee cinematografiche, “caricato d’emozione”, come dice Hitchcock. Ora, partire dal contenente invece che dal contenuto non significa nulla, si può fare l’inverso e ottenere gli stessi risultati che ottiene il regista di Psyco. E importante, però, l’accento posto con tanta energia sul linguaggio in cui il conte­ nuto deve esprimersi, sullo spazio dello schermo che va riempito di idee cinematografiche. L’attrazione del vuoto può assumere una forma morbosa, come in Hitchcock, ma può anche risolver­ si in un atteggiamento del tutto normale, e necessario, verso la tecnica cinematografica. La lezione di Hitchcock vale per chiun­ que. Gli ossessi fanno ridere talvolta, e Hitchcock talvolta fa ride­ re (il tanto elaborato Psyco alla fine era comico); la seconda o la terza volta che li rivedi, annoiano, perché l’ossessione non pos­ siede, fuori della patologia, un durevole interesse umano, e Hit­ chcock rivisto annoia (perfino quello che fu giudicato da tutti un piccolo gioiello di suspense e d’ironia, La congiura degli innocen­ ti — The Trouble with Harry, provoca oggi un tedio immenso). Sennonché, la strumentalizzazione del linguaggio, la predomi­ nanza della visività, il rifiuto della verosimiglianza, la necessità imprescindibile della creazione a ogni livello dell’opera, sulla base del materiale offerto dalla tecnica rimangono tutt’oggi i capisal­ 164

di di una efficiente narrativa cinematografica. Fuori di essi il cinema non esiste. Neppure il cinema di Godard, neppure il cinema-inchiesta. Aggiustamenti particolari di questo complesso linguistico sono intervenuti, perfino qualche rivoluzione è scop­ piata, ma i capisaldi reggono saldamente. Il suono a esempio (parole, musica, rumori, l’ambiente udibile) ha occupato uno spazio maggiore di quel che occupava prima, talvolta sembra pre­ valere suH’immagine, perché più importante (significativo, sug­ gestivo), ma nulla ha ancora distrutto il valore della visività. E solo mutato il rapporto fra i due elementi. E vero che in certi casi si è giunti quasi alla rottura (gli ultimi film di Godard) e, signo­ reggiando la parola (e l’ambiente udibile) come signoreggia, l’im­ magine o si riduce a una pura registrazione delle cose e dei fatti (in Godard appunto) o si impreziosisce sino a trasformare il dramma in contemplazione (è il cammino che sta percorrendo Bergman). Tuttavia, nulla ancora sembra accaduto che capovol­ ga quel rapporto. Si può anche sostenere che, per influenza della televisione, stia nascendo ora un nuovo genere di film sonoro (o, addirittura, che nasca ora — ora soltanto — il film sonoro), ma chi potrebbe dire, allo stato dei fatti, che non si tratta più di cinema? Probabilmente, Hitchcock completa e dissolve la nozione stessa di cinema. La completa, perché quello contenuto nella sua filmografìa è il repertorio più esauriente e organico di “cinematografìcità” che si conosca, ed è un repertorio di materiali autosufficienti, sprovvisti di qualsiasi legame con l’esterno (se volete, il mondo, la vita, gli uomini, la società, ecc.). La dissolve, perché (resala assoluta) tende a fissarla in una forma chiusa, rigida, astratta e perciò obbligata a vivere eternamente di se stessa, ossia a consumarsi senza potersi rinnovare. Tutto ciò che occorre sape­ re del cinema lo si trova in Hitchcock, verrebbe voglia di dire un po’ paradossalmente. L’ammirazione che gli portano i francesi, e l’adorante Truffaut, può essere giustificata, di là dalle infatuazio­ ni metafìsiche. Non per nulla il regista ha costruito con tanta abnegazione e intelligenza un mostruoso corpus di cinema puro, perfetto e inutile. Lo accusano di ripetersi. Certo, e che altro 165

dovrebbe fare uno che, non avendo niente da dire, ha toccato la perfezione? Proprio per questo, è in grado di insegnare. Non impone nulla, oltre la maestria di un artigiano che ha il vantag­ gio di poter essere imitato senza danni. O, per essere più precisi, senza danni se si usa l’accortezza di prenderlo per quello che è, e solo per quello: colui che completa e dissolve, la nozione stessa di cinema. Su Kracauer o sui semiologi di ascendenza barthiana, che teorizzano più o meno le stesse cose sue vanta una sicura superiorità: offre testi, e non schemi, da meditare. Testi di gran­ de chiarezza, asettici, inoffensivi. Noiosi, infine, perché nessun interesse incongruo intervenga a distrarre l’osservatore. Magnifi­ che farfalle appuntate su morbido velluto di colore neutro. («Bianco e Nero», a. XXVIII, n. 1, gennaio 1967, pp. 10-21)

L'amore piccolo borghese (In un film esemplare la sintesi delle convenzioni tecniche e ideologiche del cinema contemporaneo in Occidente)

Un uomo, una donna, il successo, i premi In coda al decennio che ha visto il cinema cambiar pelle, un pic­ colo film senza ambizioni rischia di lasciare il segno nella storia. Un uomo, una donna ( Un homme et une femme, 1966) di Claude Lelouch, giovanotto francese pressoché sconosciuto,1 ex operato­ re, potrebbe anche essere considerato un modello da imitare. Il successo (che è stato così inatteso e tanto fragoroso) provoca rea­ zioni a catena dalle quali nessuno saprebbe proclamarsi, pur volendolo, immune. L’industria, cultura a suo modo, guida la danza, i cineasti seguono. Conoscendo la dialettica di industria ed espressione artistica siamo in grado di prevedere che, anche quando una invenzione autentica (un vero arricchimento cultu­ rale) avrà esautorato questa creazione a livello subalterno, le trac­ ce del suo passaggio rimarranno visibili a lungo. Come spesso accade, l’iniziativa di Lelouch non era program­ mata. E stata una sorpresa giunta in un periodo di stagnazione, con la cultura di élite incapace di far presa sul pubblico e l’indu­ stria disperatamente all’offensiva per sopravvivere. Doveva essere 1

Lelouch era sì sconosciuto al grande pubblico, ma aveva comunque già diret­ to diversi cortometraggi e lungometraggi in patria e all’estero (anche come cinereporter di attualità). Esordisce con II male del secolo (Le mal du siede, 1953): cortometraggio prodotto per il centro studi della televisione francese. Dopo una lunga esperienza di documentarista (lavora anche per l’esercito), nel I960 dirige il primo film di finzione: Ciò che è proprio dell’uomo (Le propre de l’homme, I960), cui fanno seguito L’amore senza ma... (L’amour avec des si..., 1962), La donna è uno spettacolo (La femme spectacle, 1963, inedito), Una ragazza e quattro mitra (Unefille et des fiisils, 1964) e Operazione golden car (Les grands moments, 1965). Tutti passati inosservati, fino al grande suc­ cesso di Un uomo, una donna, che, oltre alla Palma d’oro ex aequo al Festival di Cannes, nel 1967 vince anche l’Oscar per il miglior film straniero. \n.d.cl\

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un filmetto senza conseguenze, è divenuto un’opera-vessillo. Ha ricevuto due premi: la Palma d’oro al festival di Cannes 1966 e il riconoscimento dell’ufficio Cattolico Internazionale (O.C.I.C.). E vero che i premi come valore sostanziale sono acqua fresca, ma nel caso nostro è la coincidenza che conta. La Palma d’oro signi­ fica che, alla fiera più accreditata dell’industria cinematografica (dove gli interessi economici si saldano con il gusto della cultura di massa), Un uomo, una donna è stato ritenuto bene allineato sullo standard del consumo internazionale, e perciò da racco­ mandarsi agli acquirenti. Il primo premio, in un certo senso, è il marchio di garanzia. Anche l’O.C.I.C. fa un’analoga raccoman­ dazione, con uno scopo diverso. Dire quale sia il complesso di comportamenti in cui si riassume la moralità dei cattolici sareb­ be difficile, perché le fluttuazioni del concetto da paese a paese e da gruppo a gruppo sono oggi troppo forti. Che, tuttavia, un organismo internazionale abbia scelto Un uomo, una donna, scor­ gendovi la presenza di particolari “valori umani”, è un fatto da non trascurare. Rappresenta la spia di due tendenze che, unite, prefigurano un orientamento sintomatico: la prima è il rifiuto del “formalismo” sessuofobico (il film contiene una insistita sce­ na d’amore, nella camera dell’albergo dove Anne e Jean-Louis s’incontrano al punto decisivo dell’azione), la seconda è la ridu­ zione al minimo dell’orizzonte morale (i protagonisti sono acco­ munati da una generica “pulizia” sentimentale, più “pulita” lei ancora legata al ricordo del marito morto - un po’ meno lui; si tesse una indiretta apologia della famiglia, di cui entrambi sono privi e alla quale entrambi confusamente aspirano; niente altro). Va pure notato che l’O.C.I.C. prescinde (volontariamente o per incapacità critica non possiamo stabilire) da un giudizio di valo­ re estetico e accetta di riconoscere in un prodotto dell’industria il veicolo più confacente alla diffusione d’una idea della moralità. Un prodotto industriale si trova al centro dell’attenzione, con il doppio crisma del riconoscimento interno ai suoi pregi (l’indu­ stria lo raccomanda perché corrisponde alle esigenze del merca­ to) e dell’avallo morale. Un film che ha grandi possibilità di suc­ 170

cesso acquista una capacità di proselitismo di cui i responsabili d’un autorevole organismo cattolico debbono tener conto. Non solo, ma nel momento in cui lo fanno, sposano quegli stessi motivi per i quali l’industria raccomanda l’opera ai suoi clienti. Ciò, oltre a suggerire qualche considerazione sulla politica dell’O.C.I.C. che qui ovviamente non interessa,2 fa supporre che in Un uomo, una donna esista materia degna di esame. Se la coinci­ denza dei due riconoscimenti non è casuale, il film di Lelouch è qualcosa di più d’un semplice terno al lotto vinto da un uomo fortunato.

Una storia d'amore con azioni parallele Intanto, è un omaggio a Griffith e al principio delle azioni paral­ lele. Una giovane donna, Anne Gauthier, trascorre la domenica (una domenica d’inverno) a Deauville, dove la sua bambina è in collegio. A Deauville, quel giorno, si trova anche Jean-Louis Duroc, a spasso con il proprio figlio, ospite dello stesso collegio. Anne, sul pontile, racconta alla sua Franchise la favola di Cap­ puccetto rosso, passeggia per le strade, a sera la riaccompagna in collegio. Jean-Louis sale in macchina con Antoine, lo fa guidare, 2

Una sola considerazione si può fare, anche in questa sede, per mettere in rilie­ vo la contraddittorietà di quella politica. Al festival di Berlino dello stesso anno, l’O.C./.C.ha premiato il film inglese Georgy, svegliati {Georgy Girl) di Sil­ vio Narizzano, favoletta di ambiente “beat” che finisce sì in gloria ma anche in ipocrisia. A Venezia ha curiosamente abbinato Au hazard, Balthazar di Bresson, film di severa ispirazione cattolica, a La ragazza senza storia (Abschied von Gestern) di A. Kluge, aspro ritratto senza prospettive della gio­ ventù tedesca contemporanea. Infine, il “Gran Premio O.C.I.C.. 1966”, asse­ gnato ad Assisi alla fine di settembre, è andato al film di Bresson. A prima vista, Au hazard, Balthazar e Un uomo, una donna si escludono a vicenda. Per contro il premio a La ragazza senza storia rivela un’apertura ideologica che il riconoscimento a Georgy, svegliati smentisce (è evidente che il film inglese è stato segnalato perché si è preso per buono il matrimonio “riparatore” che conclude la vicenda della ragazza inibita; ci si è fermati, cioè, alla vicenda esterna, al contenuto più palese).

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riprende il volante, va sulla spiaggia, insieme si divertono a gira­ re in tondo sulla sabbia compatta della battigia. Tornano in col­ legio. Il giovane ha appena affidato il figlio alla direttrice quando dal buio emerge la figura di Anne, tornata sui suoi passi perché ha perduto il treno per Parigi. Le offre un passaggio. Le due azioni sono confluite in una sola. La storia procederà così, intervallata da una serie di flashback, sino a oltre la metà del film. Qui, nel momento in cui Jean-Louis entra in casa, dove lo attende a letto la donna che vive con lui, si biforca per la seconda volta. Anne e Jean-Louis sono nuovamente separati. Il primo gruppo di azioni è servito per far incontrare i due giovani, que­ sto, più articolato, servirà per condurre la storia alla crisi. JeanLouis Duroc, di cui già conosciamo le prodezze di corridore automobilista, partecipa al Rally di Montecarlo. Anne continua la sua vita, lavora. A casa segue davanti al televisore le fasi della corsa. All’annuncio della vittoria di Jean-Louis, gli telegrafa a Montecarlo: «Bravo. Ti amo». L’attenzione si sposta su di lui, che si precipita a Parigi, non la trova, riparte per Deauville, ed è come se le due azioni parallele proseguissero quantunque in effetti noi seguiamo soltanto ciò che fa Jean-Louis. La presenza invisibile di Anne consente di sviluppare una doppia vicenda ipotetica. Il regista introduce un monologo di Jean-Louis, che immagina le possibili (varie e contrastanti) circostanze in cui avverrà il loro incontro, e tre intermezzi dialogati con un benzinaio, con la por­ tinaia della casa di Anne e con la direttrice del collegio a Deau­ ville (comici i primi due, sospensivo il terzo). L’abilità consiste nel trasformare la monotonia di quest’azione lineare in un fatto­ re di tensione.3 3

Ecco i tre intermezzi. Si noti - e questo già vale per comprendere la qualità, e il livello, del film — la scioltezza del dialogo imperniato sulla banalità più tri­ ta del linguaggio quotidiano. Le “trovatine” comiche dei primi due, il tono perfettamente anonimo del terzo sono trattati senza sbavature. La verosimi­ glianza — o, meglio, l’apparenza della realtà — è osservata con scrupolo. Primo dialogo: ]ean-Louis-Benzinaio Jean-Louis - Buonasera, scusi se l’ho disturbata...

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Acme e crisi. Anne e Jean-Louis sono insieme. Fanno l’amore. Ma Anne, tormentata dal ricordo del marito, si ritrae. Alla stazio­ ne i due si separano. Lei tornerà a Parigi in treno. Terzo gruppo di azioni parallele. Jean-Louis in macchina, Anne in treno, rievoca­ no la stessa scena divertente e ora, a ripensarla, amara (il pranzo al ristorante dell’albergo). Sono primi piani alternati, Jean-Louis al volante, Anne accanto al finestrino, il viso che si riflette nel vetro. L’azione si concentra su di lui, come nel gruppo precedente, e si snoda rapida sino al terzo incontro. Jean-Louis giunge alla stazio­ ne sotto la neve. Corre alla banchina, è riuscito a precedere il tre­ Benzinaio - Niente... Fa freschetto, eh? Già, non si può dire che ci tratti bene, il tempo... Super o normale? Jean-Louis - Super. Mi faccia il pieno. Benzinaio - Il pieno? Jean-Louis - Sì. Benzinaio - Ah... beh... Il pieno è complicato, non viene... non viene mai una cifra tonda... Allora, coi centesimi, quando la mattina dobbiamo fare i conti, se ci capitano anche i centesimi, per fare le somme è un bel guaio... Jean-Louis - Beh, me ne dia cinquemila franchi. Benzinaio - Grazie, signore, così è meglio. Jean-Louis (notando l’indecisione del benzinaio) - Allora, lo apra. Benzinaio - Sì, ma... la sigaretta... Secondo dialogo: ]ean-Louis-Portinaia Jean-Louis - Scusi tanto, ma non c’è nessuno dalla signora Gauthier. Portinaia (da dietro la porta) - Oh, beh, non mi dice mica quello che fa. Jean-Louis - Polizia! Portinaia (sempre da dietro la porta) - Ah... credo che sia andata a trovare la sua bambina... a Deauville. Jean-Louis - Grazie, signora. Terzo dialogo: ]ean-Louis-Direttrice Direttrice - Eh... Non credevo che fosse lei. L’avevo vista ieri sera in televi­ sione, al Rally di Montecarlo... Bello. Jean-Louis - E lei crede che se vado da quella parte li incontro? Direttrice - Ah sì, certamente... Al di là del pontile grande, capito? Jean-Louis - Al di là... Ah sì, sì, sì... E se... tornassero mentre li sto cercan­ do, li faccia aspettare, per favore. Direttrice - Beh, certo... S’intende. Jean-Louis - Arrivederla, signora. Direttrice - Arrivederla... A più tardi.

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no. Ecco i fari della Micheline. Tra i viaggiatori che scendono, Anne. Jean-Louis la solleva da terra. La macchina da presa gira intorno a loro un paio di volte, il fotogramma si immobilizza e le due figure appaiono ritagliate su un fondo bianco. Le corrispondenze sono puntuali. Tre azioni parallele, all’ini­ zio, a metà, alla fine. Si chiudono, unificandosi, allo stesso modo, per iniziativa dell’uomo: la prima sull’invito a salire in macchina, la seconda su Jean-Louis che raggiunge Anne coi bambini in riva al mare, la terza su Jean-Louis che precede l’arrivo del treno alla stazione. Alla fine di ogni gruppo, un incontro vede i protagoni­ sti in una situazione immobile, ma è poi l’incontro stesso che ria­ pre il meccanismo inserendo un fatto nuovo. Inevitabile in una struttura tripartita di questo genere (che si ripete ogni volta ugua­ le sullo schema separazione-riunione), il lieto fine soddisfa nel modo più semplice le attese dello spettatore. Era implicito già nella prima situazione di distacco (un uomo e una donna che non si conoscono fanno le stesse cose con gli stessi compagni nel­ lo stesso luogo), cosicché ogni incidente che contraddica il corso naturale della storia è scontato in partenza: non muterà nulla, sarà soltanto uno svolazzo, una divagazione piacevole intorno alle simpatiche figure dei protagonisti, interpretati da attori come Anouk Aimée e Jean-Louis Trintignant, ottimamente all’altezza del compito loro.

Il lavoro e i ricordi di Anne e Jean-Louis Lo spirito geometrico di Lelouch si esercita dentro lo schema con un puntiglio quasi ossessivo. Tutti e due i protagonisti escono da un ciclo concluso della propria vita. Sono vedovi, hanno figli del­ la stessa età, Anne una bambina, Jean-Louis un maschio. Vivono del proprio lavoro, che è poco comune: corridore automobilista lui, segretaria di edizione al cinema lei. Hanno perduto i coniugi rispettivi in circostanze drammatiche, per morte violenta. Han­ no gli stessi gusti, sono passabilmente aggiornati sulla cultura delle classi medie, con una sfumatura di noncurante progressi174

smo (Jean-Louis legge «Le Nouvel Observateur», Anne ricorda che nella via dove abita visse per un certo tempo Lenin, camerie­ re in casa di un pittore). In sostanza, ognuno è l’immagine spe­ culare dell’altro. Lelouch è persuaso di aver fatto un film controcorrente. In un periodo in cui il cinema gioca le carte della violenza (spionaggio, avventura, western), del colossale (religione, mito, epopea) e del­ l’erotismo, volta le spalle ai generi di successo, narra una storia d’amore e si concede il lusso di una tranquilla morale comune. Certo, rifiuta le mode più vistose, ma, invece di raggiungere la sponda dell’anticonformismo, si àncora a quella falda di terreno che, essendo sottostante alle mode, racchiude in un fascio omo­ geneo le tendenze più generali della società e della cultura di mas­ sa contemporanee. Che sono tendenze sorte per effetto di una lenta sovrapposizione di gusti personali, rapporti sociali, tradi­ zioni di costume, contrasti economici, posizioni politiche, atteg­ giamenti morali, esigenze di sviluppo industriale, tecniche di comunicazione a vasto raggio. Queste tendenze forniscono di volta in volta la materia alle mode, che di esse si avvalgono in misura quasi sempre parziale, in una o poche direzioni (l’eroti­ smo, la violenza, l’orrore, il fascino del meraviglioso, ecc.). Solo in rari casi emergono per così dire in blocco, nella completezza pienamente evidente dei loro significati. Uno di questi è, appun­ to, Un uomo, una donna, come cercheremo di mostrare. Di struttura rigida, con un gruppo di schematiche analogie al centro, la storia d’amore finirebbe per sciogliersi in un mare di noia se Lelouch non avesse in serbo alcuni espedienti con cui fìn­ gere il movimento che non esiste. I dialoghi di Anne e Jean-Louis sono “visualizzati” da inserti che svolgono ora la funzione di fla­ shback ora quella di spiegazioni didascaliche (di fatti reali o anche inventati). All’inizio lo spettatore non sa se si tratti dell’u­ no o delle altre, se ciò che vede concerna il presente, il passato o l’immaginario. Naturalmente, la voluta ambiguità serve a pro­ trarre il momento della rivelazione, come nella sequenza che ora vedremo. 175

In viaggio per Parigi sulla Mustang di Jean-Louis Duroc. I due si sono appena conosciuti. Jean-Louis - Lei è sposata? Anne - Uh uh... E lei? Jean-Louis - Ah ah... Anne - Non ha l’aspetto di un uomo sposato. Jean-Louis - E qual è l’aspetto di un uomo sposato? Che fa suo marito? Primo inserto. Vediamo quel che fa il marito. In una scena di film western, volteggia a cavallo. Una voce fuori campo ordina: «Spara!». Si torna ai due in macchina. Jean-Louis crede di aver capito che il marito è attore. Anne: «Sì, ma di un tipo speciale... Non è soltanto attore». Secondo inserto. Una serie di drammatiche immagini di auto che si scontrano e s’incendiano. In due in macchina. Jean-Louis: «E uno strano mestiere il cascatore... Dica, come si fa la conoscenza di un cascatore? In fondo a un burrone? Nel Texas? In un aereo in fiamme? Ci sono?». Terzo inserto. In primo piano, il marito di Anne bacia una ragazza. Poi lo si vede trasportare una cassa da morto. Accanto alla macchina da presa, Anne scrive su un blocco. E, appunto, la segretaria di edizione. I due in macchina. Jean-Louis, garbatamente ironico: «E un fotoromanzo, la sua storia... A parte il cascatore, non è molto originale». Anne s’inalbera un poco ed espone la sua filosofìa del­ la vita. Si delinea la chiave del film, il suo tono. Citiamo dal testo: «Non pretendo affatto che sia originale... In fondo, un incontro, un matrimonio, un figlio... sono cose che succedono a molta gente... Chi può essere originale è l’uomo che si ama». Jean Louis: «E suo marito è un uomo originale?». Seria come ci si attende da una donna che sa quello che vuole, Anne risponde: «Per me sì... Ah, è così... appassionato, così esclusivo... così vero. Ah, lui si appassiona per le cose, per la gente, per le idee, per 176

i paesi». Jean-Louis non riesce a smuoverla con la sua ironia. Anne prosegue: «Per esempio, ho vissuto una settimana in Brasi­ le senza mai esserci stata». Quarto inserto. Il più elaborato. Si fa il ritratto di un uomo, si descrive la vita della coppia felice. Sul filo conduttore di una samba cantata da Pierre, il marito, si raggruppano brevi azioni che hanno un doppio carattere spiritoso e patetico, montate con grande scioltezza, a ritmo sincopato. Anne lava i capelli al mari­ to. Li rivediamo su un prato, davanti alla casa di campagna. A cavallo in brughiera, con vari effetti di zoom. Una mandria di vacche nere. In casa, i due in abito da sera. In camera da letto, Pierre suona la chitarra, scrive a macchina. Anne legge, lo guar­ da, aspetta. Pierre ha in mano un lungo sigaro, se lo rigira fra le dita anche quando sale sul letto e l’abbraccia. Finora, per lo spettatore, i quattro inserti sono visualizzazioni di fatti qualunque, senza uno speciale significato. Si ritorna sui due. Arrivati a Parigi, sul portone della casa dove abita Anne, si salutano. Jean-Louis: «Domenica prossima io torno a Deauville. Se vuole approfittare della mia macchina... E poi, sarò lieto di conoscere suo marito». Quinto inserto. La rivelazione. Pierre sta girando una scena di guerra, corre in un bosco mentre da ogni parte esplodono grana­ te. Finita la ripresa, il regista raccomanda maggiore prudenza. Pierre e Anne si scambiano un bacio. Si rigira. Esplosioni, Pierre scompare nel fumo. Si sente un urlo. Anne e il regista accorrono. I due sul portone. Jean-Louis: «Mi deve scusare... Ne parlava con tanto calore che non potevo pensare fosse morto». Battuta così pleonastica che suona perfino ridicola. Ora ci rendiamo con­ to che tutta la costruzione della sequenza - i dialoghi in macchi­ na e i cinque inserti - si regge sui pleonasmi. Lelouch sovrappo­ ne dettagli a dettagli, con una ripetizione a effetto ritardante, e quando tutto è chiaro introduce le parole per spiegare ciò che già sappiamo. Così la sequenza diviene un indovinello. Che fa suo marito? La prima risposta visiva non soddisfa completamente. La curiosità rimane, lo spettatore partecipa al gioco. Che farà mai 177

questo marito? Seconda risposta, svelato il mistero. Com’è possi­ bile conoscere un tipo simile? Terza risposta, esplicativa e pede­ stre, da esercitazione di primo anno d’un corso di regia. Ma anco­ ra attendiamo di sapere perché Anne è andata, sola, a trovare la bambina in collegio. Si può supporre che Pierre sia lontano, all’e­ stero. Lelouch devia nuovamente il discorso, ricamando sulla felicità della coppia, ce la mostra perfetta, dorata, un sogno a occhi aperti. Solo a questo punto, dopo una battuta di JeanLouis («Sarò lieto di conoscere suo marito»), arriva la sorpresa: Pierre è morto. La commozione è al culmine, perché prima s’era visto quanto fossero felici gli sposi. Risolto l’indovinello, il regi­ sta aggiunge altra commozione alla sequenza facendo balbettare a Jean-Louis un’idiozia («Ne parlava con tanto calore che non potevo pensare fosse morto»). Nel regno del convenzionale, dove tutto è inutile ai fini dell’azione (l’azione, infatti, è immobile; se no, sarebbe bastata una battuta, o un inserto breve, per informa­ re della morte di Pierre), l’interesse si concentra sui particolari secondari, presentati come futilità in forma di rebus. Indovinelli e pleonasmi riappaiono quando il discorso cade sul mestiere di Jean-Louis e sulla sorte di sua moglie. Lasciata Anne a casa, Duroc va all’autodromo a provare una macchina. Lo spettatore sa, Anne non ancora. La domenica successiva i due tornano insieme a Deauville. Come sarà introdotto quello che per noi è un pleonasmo? Piove, la radio dà notizia di incidenti stradali. Si capisce che Jean-Louis dica: «Non mi piace sentire queste cose». Anne non può raccogliere l’allusione, anzi com­ menta il modo di guidare del suo compagno. Si potrebbe giun­ gere subito alla rivelazione, già scontata, e perciò di valore nullo per la progressione drammatica. Lelouch la ritarda con una diva­ gazione spiritosa ma superflua anche psicologicamente, perché nulla aggiunge al ritratto dei due: visualizza il racconto che JeanLouis, per rispondere a una domanda di Anne, fa della sua immaginaria attività di “maquereau”. Naturalmente, Anne non crede alla storiella e Jean-Louis “confessa”. Ossia un indovinello “scarico” per un pleonasmo male congegnato. 178

Chiusa la parentesi, riprende il sopravvento la tecnica della sospensione con effetto ritardante. I due arrivano a Deauville, raggiungono i bambini in collegio, vanno con loro al ristorante (lungo dialogo sui pregi e i difetti dei mestieri rispettivi che, pur essendo pleonastico per l’azione, illumina — stavolta sì — le psico­ logie) e poi in barca. Tornati a terra, giocano sulla spiaggia, Fran^oise e Antoine si divertono un mondo. Anne e Jean-Louis ripartono per Parigi. Finalmente solo con Anne, Jean-Louis le prende la mano. La donna si difende, dopo un attimo di perples­ sità: «Non mi ha mai parlato di sua moglie». Scatta il lungo inser­ to della 24 ore di Le Mans. Jean-Louis ha un incidente, lo porta­ no in sala operatoria. Accorre la moglie, crede che le sue condi­ zioni siano disperate, fiigge. Il telecronista, di cui s’è udita la voce per tutta la sequenza, annuncia: «Secondo una notizia non uffi­ ciale, la povera signora Duroc avrebbe messo fine ai suoi giorni, non sappiamo ancora in quale modo». I due si separano. Inizia il secondo gruppo di azioni parallele. Abbiamo superato la metà del film e non è ancora accaduto nul­ la. L’immobilità è stata mascherata da alcuni flashback divaganti.

Il colore e i piaceri dell'eleganza A una struttura fondata sulle analogie e sui pleonasmi corrispon­ de un partito preso figurativo basato sull’alternanza di colore e viraggio. Escludendo la lunga sequenza dei titoli di testa in cui si svolge il primo gruppo di azioni parallele (qui l’intreccio coloreviraggio è complicato dalla presenza delle parole sovraimpresse in bianco, che compaiono a grandi intervalli), si alternano secondo questa successione: 1 - Viraggio blu. Sera. Anne accompagna Franchise in colle­ gio. Jean-Louis, consegnato Antoine, incontra Anne. Partono per Parigi. Inizia il dialogo. 2 - Colore. Inserto della scena western. 3 - Viraggio blu. Continua il dialogo in macchina. 4 - Colore. Scontri di auto. 179

5 - Viraggio blu. Dialogo dei due in macchina. 6 - Colore. Il si gira, con Pierre e Anne. 7 - Viraggio blu. In macchina, Anne parla della vitalità di Pier­

re. 8 - Colore. La vita della coppia felice. 9 - Viraggio blu. I due arrivano a Parigi. Dialogo sul portone. 10 - Colore. La morte di Pierre. 11 - Viraggio blu. I due si lasciano, Jean-Louis risale in mac­ china. 12 - Colore. Continua l’azione di Jean-Louis. All’autodromo. Macchine in prova. Passa una settimana. Jean-Louis telefona ad Anne; il giorno dopo la va a prendere. E domenica. Viaggio sot­ to la pioggia. Anne domanda a ]ean-Louis che mestiere fa. 13 - Viraggio verde. Jean-Louis maquereau ritira il denaro dal­ le sue protette. 14 - Colore. Continua dialogo in macchina. Strada allagata. Incontro con due cacciatori, sommersi dagli schizzi delle ruote della Mustang. «Niente pietà per i cacciatori». Arrivo al collegio. Prendono i figli. 15 - Viraggio verde-giallo. Al ristorante. Dialogo sull’automo­ bilismo e sul cinema. Scherzi dei bambini. Decidono di andare in barca. 16 - Colore. La gita in battello. Ritorno. Sulla spiaggia giochi con i bambini. In macchina, dialogo fuori campo. Una strada, un cantiere, a sera. 17 - Viraggio rosso sbiadito. Un uomo e un cane sulla spiaggia. Anne e Jean-Louis fuori campo parlano di Giacometti («Una vol­ ta ha detto una cosa straordinaria: in un incendio, tra un Rem­ brandt e un gatto, io salverei il gatto»). 18 - Colore. Sera. Strade, canali. I due in macchina, continua il dialogo fuori campo. 19 - Viraggio blu. Continua l’azione. I due sono in viaggio per Parigi. Anne chiede a Jean-Louis della moglie. 20 - Colore. La moglie telefona a Jean-Louis prima della corsa di Le Mans. 180

21 - Viraggio verde-giallo. Partenza della corsa. La moglie davanti al televisore. Incidente. La moglie accorre. Sala operato­ ria. La moglie attende in corridoio. Esce la barella. La moglie par­ la col chirurgo. Fogge. Annuncio dello speaker televisivo. Scene della corsa al tramonto. Si torna in macchina, con Anne e JeanLouis, senza soluzione di continuità. Jean-Louis lascia Anne, va a casa. Dialogo con l’amica a letto. Parlano di Antoine e di una foto pubblicata su Sport-Auto. 22 - Colore. Due inserti. Jean-Louis con due ragazze. 23 - Viraggio verde-giallo. Fingendo di leggere la notizia su Sport-Auto Jean-Louis dice all’amica che ha incontrato una gio­ vane donna, Anne Gauthier. 24 - Viraggio rosso. Una banda che suona. Reims. Partenza del Rally di Montecarlo. Jean-Louis Duroc e Henri Chemin in cor­ sa durante la notte. I fari nel buio. Speaker commenta la corsa. 25 - Colore. Due inserti. Anne va a comprare i giornali, legge del Rally. 26 - Viraggio rosso. La corsa continua. Strade di montagna, neve. 27 - Colore. Cammelli in marcia sulla sabbia di un fìnto deserto. 28 - Viraggio rosso. Altri momenti del Rally. 29 - Colore. Anne sul set fra i cammelli. In autobus verso casa. 30 - Viraggio rosso. Brevi flashes sulla corsa. 31 - Colore. Anne seduta su una panchina. 32 - Viraggio rosso. Corsa. Jean-Louis indica al compagno come prendere le curve. 33 - Colore. Anne passeggia in un parco. Dal parrucchiere, sotto il casco, legge Moteurs. 34 - Viraggio rosso. Montecarlo. Jean-Louis vince il Rally. 35 - Viraggio blu. Anne a casa davanti al televisore. Detta un telegramma: «Bravo. Ti amo». Al Casino di Montecarlo, uno spettacolo di balletti. Jean-Louis, seduto a un tavolo, è raggiunto da un cameriere che gli consegna il telegramma. Si alza, corre in albergo. Strada notturna. Una stazione di servizio, dialogo col benzinaio. In macchina, monologo di Jean-Louis. 181

36 - Colore. Alba. Nei pressi di Parigi, Jean-Louis in macchi­ na si fa la barba. Piove a rovesci. A casa di Anne, dialogo con la portinaia invisibile. In strada ancora, verso Deauville. Incontro con la direttrice del collegio. Via verso il molo e la spiaggia. Incontro con Anne e i figli. Un cane gioca sulla riva. Un uomo lo segue. A lungo, le onde che rotolano sulla sabbia. 37 - Viraggio arancione. Primi piani dei due a letto. Musica, battito di un cuore. Sfocatura sul volto di Anne. 38 - Colore. Anne e Pierre. Si baciano rotolando sulla neve. 39 - Viraggio arancione. Nwà piani dei due che fanno l’amore. Anne resiste: il ricordo del marito è sempre più intenso. 40 - Colore. Vari inserti, alternati alla scena del letto virata. I luoghi in cui Anne ha amato Pierre: accanto al tronco di un albe­ ro, in macchina al tramonto, sulle mura di un castello. 41 - Viraggio arancione. Anne, il volto contratto, si rifiuta a Jean-Louis. «Perché?». «E per mio marito». «Ma è morto...». Anne fa cenno di no col capo. 42 - Viraggio seppia. Sfocati un uomo e un cane vengono avanti, fra pozzanghere (gli stessi del n. 17). 43 - Viraggio verde-giallo. Anne e Jean-Louis si vestono. Scen­ dono nella hall deserta dell’albergo. Escono. Jean-Louis accom­ pagna Anne al treno. «Perché mi hai detto che tuo marito era morto?». «E morto, ma non ancora per me». Parte il treno. Inizia monologo di Jean-Louis, che sale in macchina e corre verso Pari­ gi. Rievocazione della scena al ristorante. Primi piani alternati di lui e di lei. 44 - Viraggio seppia. Sotto la neve arriva alla stazione la mac­ china di Jean-Louis. Sul quai. Vengono avanti i fari dell’automo­ trice. Scende Anne. Abbraccio. Fotogramma fìsso su fondo bian­ co. L’alternanza di colore e viraggio ha due caratteristiche. La prima è che non segue una regola fissa. Sino al n. 12 il metodo usato da Lelouch consiste nel virare l’azione presente e nell’intro durre il colore per gli inserti rievocativi. Con il n. 12 e il n. 13 il procedi­ 182

mento s’inverte: colore per l’azione presente (la sequenza dell’au­ todromo), viraggio per l’inserto. Con il n. 14 il regista introduce un’altra variante, che si sviluppa sino al n. 19: l’azione presente comincia con il colore, prosegue virata senza soluzione di conti­ nuità, riprende con il colore, e così via. Non se ne vede alcuna giustificazione, tranne forse che per il n. 17, breve inserto di tono evocativo-lirico, nel quale la monocromia (con l’appiattimento prospettico dovuto al teleobiettivo e la sfocatura) accresce la sug­ gestione visiva. Al n. 19 si torna al metodo iniziale: azione pre­ sente virata, flashback a colori (n. 20). Ma subito, nello stesso n. 20, il flashback passa dal colore al viraggio (dalla telefonata della moglie di Jean-Louis a Le Mans), riproducendo per analogia, e al rovescio, ciò che accade nell’azione presente dal n. 14 al n. 15. Questi quattro tipi di alternanza si ritrovano in tutto il resto del film, impiegati ora l’uno ora l’altro senza una ragione apparente (a eccezione che per la lunga sequenza finale - nn. 43 e 44 - dove il tono del viraggio è smorto, a suggerire amarezza, in contrasto con la precedente corsa di Jean-Louis verso Deauville, a colori per indicare ansia e gioia). Se non esiste quasi mai una ragione che giustifichi il passaggio dal colore al viraggio, e il loro alternarsi, non c’è nemmeno alcu­ na regola che presieda alla scelta della tinta delle sequenze virate. Al tempo delle approssimative alchimie del cinema muto s’usava il rosso per la passione e il blu per la notte, in omaggio alla tradi­ zione figurativa popolare. Lelouch fa, anche lui, la notte blu, ma non respinge neppure l’anticonvenzione: il rischio una volta lo fa verde-giallo e un’altra rosso, la tenerezza la fa verde-gialla, la pas­ sione arancione. Fa quello che lo spettatore non si attende, ma non per disorientarlo o scuoterlo; semplicemente per stupirlo, “incantarlo”. Non gli dà mai shock violenti, come quelli prodot­ ti dalle tecniche eversive della nouvelle vague, ma stimoli garba­ ti; le tecniche non più eversive ma insinuanti, pacificate nella ele­ ganza della presentazione. La seconda caratteristica di questo alternarsi (“libero ma non troppo”) di colore e viraggio è, appunto, l’eleganza. L’eleganza 183

può essere stravagante ma non è mai in vero conflitto con le nor­ me del comportamento che vigono in una determinata società. Può esasperarne alcuni aspetti, per accrescere l’effetto di sugge­ stione, ma al solo scopo di imporle meglio. Può recuperare forme ritenute superate infondendo in esse un’apparenza di nuova vita (in realtà è la vecchia vita che si prolunga artificiosamente nel tempo, lustra come fosse nuova). Lelouch dipinge la notte di blu, come i rozzi artigiani del muto, ma la inserisce in un contesto dove il pericolo ha il colore verde-giallo e la passione non è rossa ma arancione: il vecchio assunto come tale e posto al fianco del­ la stravaganza, quasi un ammiccamento allo spettatore affinché si renda complice della graziosa (“intelligente”) operazione. In altre parole, accetta, e riverisce, la banalità, ma con indifferenza e mol­ to garbo, sicché la stacca dal suo significato autentico (vecchie norme o pregiudizi mummificati) e la trasforma in una scicche­ ria elegante. Meglio ancora se può disporre di una qualche con­ trapposizione che sembra negarla (altro ammiccamento compli­ ce allo spettatore: né tu né io siamo cosi ingenui da crederci; lo facciamo per divertirci) ma che alla fine la ribadisce. Per esempio, alla ironica osservazione di Jean-Louis, che definisce la storia del marito cascatore un fotoromanzo poco originale, Anne risponde: «Non pretendo affatto che sia originale... In fondo, un incontro, un matrimonio, un figlio... sono cose che succedono a molta gente...». Contrapporre lo scetticismo di Jean-Louis alla pacata convinzione di Anne (la quale è tutt’altro che una donna stupi­ da) equivale a fare la notte blu e, insieme, il pericolo verde-giallo. E un bel gesto elegante. Del resto, le due battute di Jean-Louis e di Anne nella sequen­ za ricordata (Jean-Louis: «A parte il cascatore, la storia non è molto originale». Anne: «Non pretendo affatto che sia originale») contengono una dichiarazione di principi, una poetica, che non potrebbero essere più esplicite. In una storia dove nulla sembra essere originale, e tutto banale, Lelouch infila un cascatore, ossia una stravaganza. La stravaganza dovrebbe riscattare la banalità. In effetti, la camuffa soltanto. Il risultato ha una certa eleganza e un 184

minimo di apparente novità. Ma Lelouch, forse conscio del carattere ambiguo dell’operazione che sta compiendo, rinnega la poetica alla quale si è or ora appellato (per essere abbastanza “sofi­ sticato” da aver diritto alla qualifica di intellettuale ed entrare in un gioco che ha, tra l’altro, buone possibilità di successo in clima di industria della cultura di massa) e sente il bisogno di essere sin­ cero con se stesso. Fa un gesto di orgoglio e di sfida: «Non pre­ tendo affatto che sia originale». Infatti non lo è, nemmeno per la presenza del cascatore (della stravaganza, narrativa, linguistica, ecc.).

La tecnica come emolliente Vediamo due sequenze tipiche. La prima è la rievocazione della vita della coppia felice (n. 8), la seconda è la descrizione dell’atti­ vità dell’autodromo (n. 12), entrambe a colori. Lelouch usa fre­ quentemente un modulo di montaggio che consiste nell’indicare il passaggio del tempo e lo spostamento di spazio collegando spa­ zi e tempi diversi mediante i dettagli. All’autodromo, due mac­ chine corrono affiancate; “stacco” su una delle due; altro “stacco” per scoprire la prima macchina in un altro punto della pista, insieme a un terzo. Durante la sequenza rievocativa, Anne e Pier­ re passeggiano a cavallo nella brughiera; “stacco” sugli zoccoli dei cavalli; totale con Anne e Pierre attorniati da altra gente a cavallo in un altro luogo. Si ottengono così passaggi fluidi. La contrazio­ ne del tempo e dello spazio non provoca fastidio quantunque gli “illogici” accostamenti violino le norme del montaggio tradizio­ nale. E il contrario di quel che accade con Godard l’eversivo. Il regi­ sta di Fino all’ultimo respiro (À bout de soufflé} sotto linea proprio il salto e la “illogicità”, mentre Lelouch si sforza di camuffarli accu­ ratamente pur non rinunciando ai vantaggi ritmici che quel tipo di passaggio consente. Lo stesso si può dire per il vezzo, così tipi­ co della nouvelle vague, di “staccare” sugli stessi personaggi in movimento o sugli stessi oggetti in posizioni diverse. L’intera 185

sequenza della rievocazione della vita di Anne e Pierre è imposta­ ta su questo modulo, ma Lelouch è così “morbido” nell’alternare i piani (totali, piani medi, primi piani, dettagli) che la successione dei fatti riesce non solo facilmente comprensibile ma anche gra­ devole e naturale, come se il montaggio fosse ancora quello cui una lunga consuetudine ha abituato il pubblico. In ciò il regista è favorito dal fatto che trova un terreno già preparato, giacché, tra pubblicità televisiva e cinema (pubblicitario e no), la rottura dei moduli linguistici ha ormai avuto agio di affermarsi su larga scala. Stiamo addirittura marciando verso una sorta di istituzionalizza­ zione delle nuove tecniche. E sono proprio i film come Un uomo, una, donna che la consolidano, perché costituiscono una operazio­ ne di secondo grado, che sfrutta una precedente mediazione e diviene a sua volta strumento di ulteriore mediazione. Nell’impiego delle nuove tecniche Lelouch si distingue per una tendenza personale, che potremmo chiamare il gusto dell’i­ perbole visiva. Nel film abbondano i dettagli (la benzina versata con l’imbuto nel serbatoio d’una macchina all’autodromo, le zampe dei cavalli, i capelli di Pierre avvolti dalla schiuma dello shampoo, la mano di Jean-Louis sullo schienale della sedia di Anne al ristorante, ecc.), le riprese con il teleobiettivo (la barca della gita fotografata in primo piano attraverso i pali del pontile, l’uomo con il cane fra le pozzanghere, l’incontro di Anne e JeanLouis sulla spiaggia, ecc.), gli zoom (il carrello dalla spiaggia alla nave bianca, ad aprire, quando Anne e Jean-Louis giocano con i figli; dal primo piano di Anne e Pierre abbracciati la scoperta del­ le mura del castello), le sfocature, la luce al limite della impres­ sionabilità della pellicola (i fari delle macchine di notte, i tra­ monti, l’alba con la pioggia, ecc.). L’iperbole è un esercizio di bra­ vura destinato a strappare allo spettatore esclamazioni di meravi­ glia (il virtuosismo, sempre efficace, ha un grande potere di distrazione). Il punto di vista o il procedimento tecnico insolito punteggiano, e sostengono, un’azione statica. Non la fanno pro­ cedere, né la sovvertono. Le aggiungono soltanto una patina di eccitante gradevolezza. 186

La natura dei flashback conferma la tendenza. L’espediente rimane nel solco della tradizione, anche quando visualizza l’iro­ nica trovata di Jean-Louis “maquereau”: o fornisce informazioni sulla vita dei protagonisti o rievoca il loro passato. Non tenta mai una proiezione nel futuro o verso l’immaginario. Quando JeanLouis corre a Parigi, per raggiungere Anne che gli ha inviato il telegramma d’amore, il fùturo è soltanto detto dalla voce interna del personaggio. Non discutiamo qui l’opportunità di visualizza­ re ciò che Jean-Louis pensa che accadrà al momento dell’incon­ tro con Anne, ma è sintomatico che Lelouch, così solerte nel frantumare il racconto in ogni occasione, non abbia pensato di tradurre in immagini il monologo del personaggio. Se l’avesse fatto avrebbe sperimentato effettivamente soluzioni narrative rischiose. Non facendolo conferma di volersi avventurare sulla strada del nuovo solo se le innovazioni fanno ormai parte di un codice largamente diffuso. Sul gusto della sperimentazione tecni­ ca, che in lui è forte, finisce sempre per prevalere la prudenza. E paradossalmente, per un curioso contrappasso, più il regista si lascia sedurre dal gusto del nuovo (per lui sinonimo di eccentri­ co) più si conforma al codice dell’ovvio. Quando Anne si abban­ dona passivamente all’amplesso di Jean-Louis udiamo dapprima il battito di un cuore sovrapposto a una musica patetica e poi vediamo Anne abbracciata al marito, in situazioni e luoghi diver­ si. I luoghi e le situazioni del flashback sono singolari e “favolosi” (i due si rotolano nella neve, si baciano sulle mura di un castello, si scambiano tenerezze a bordo di una macchina che va incontro al tramonto) ma il flashback inserito in quel punto, a “spiegare” la resistenza di Anne, è un caso esemplare di banalità. La tecnica nuova scade alla funzione di emolliente. Con la musica giungiamo al vertice del sistema, dove l’episo­ dio individuale di Lelouch assume un significato generale. Oltre la Samba Saravah, che accompagna la rievocazione della vita feli­ ce di Anne con Pierre, Francis Lai ha scritto tre canzoni nel loro genere molto belle, Pierre Barouh (anche interprete del perso­ naggio del marito) le ha versificate e le canta, solo e insieme a 187

Nicole Croisille: quella che dà il titolo al film Un homme et une femme, Plus fort que nous e A lombre de nous. A melodie carezze­ voli, cantate in gola, con voce sospirosa e lunghe pause, corri­ spondono versi dove si parla di “passion et delire” e dove “marécage” rima con “cage”, in un sapiente dosaggio di paccottiglia sentimentale e di luoghi comuni serviti con languida orchestra­ zione di strumenti solisti, un organo elettrico, un pianoforte arpeggiarne in primo piano, un coretto per avvolgere e zucchera­ re voci soliste già dolcissime. Le immagini così manipolate risultano eccentriche e ambi­ gue. L’ambiguità (che nasce dalle iperboli, dalla forzatura elegan­ te degli effetti, dalla apparente libertà dei nessi) è lo strumento impiegato da Lelouch per affascinare lo spettatore indirettamen­ te, e nel profondo, senza che egli ne sia del tutto conscio. Alle immagini si sovrappone la musica. E se le prime possono sem­ brare casuali, la seconda interviene a fissarne la casualità in un ordine preciso. Tra immagini e musica si istituisce una sottile dia­ lettica, che permette di assorbire gli shock del racconto, senza annullarli o negarli, in modo che l’effetto (l’interesse dello spet­ tatore) rimanga, e diventi se possibile più intenso. Lo spettatore è indotto non a sussultare ma a compiacersi, convinto di condi­ videre un’esperienza raffinata, preziosa. La raffinatezza è una componente della cultura di massa, sostituisce quel graduale pro­ cesso di elevazione del gusto che un’educazione democratica comporterebbe: è ciò che piace al “nuovo ricco”, e ne solletica la vanità. In questa zona, e con questo spirito, agisce Lelouch. Lai e Baro uh per la musica, Patrice Pouget e Jean Collo mb per la foto­ grafìa, gli forniscono ciò che gli serve. Il regista utilizza il loro contributo con una prodigiosa esattezza. Nel film c’è un pezzo orchestrale che commenta le corse delle macchine all’autodromo, svolgendo il tema della velocità e del rischio. Drammatico nella orchestrazione e nel ritmo, non solo non rompe l’unità patetico­ melodica dell’intera partitura musicale ma la rafforza perché è anch’esso un tema d’amore. Lelouch lo tiene a lungo per sottoli­ neare lo stato d’animo del protagonista, e alla fine lo impasta con 188

il rombo dei motori: musica e rumori si fondono perfettamente come se fossero fatti della stessa materia sonora. Dire che la musi­ ca, in Un uomo, una donna, ha un effetto emolliente significa ricordare che tutto l’impianto tecnico-stilistico del film lo ha. E stato montato a questo scopo con la collaborazione di alcuni ingegnacci veramente solidali. E solidali con il loro tempo.

L'uomo è un animale comunicativo Trattando della tematica di un’opera letteraria, e illustrando la motivazione compositiva che ne costituisce uno dei cardini, B. Tomasevskij scrisse nel 1965: «Il principio [della motivazione compositiva] consiste nell’economia e nell’utilità dei motivi. I motivi particolari possono caratterizzare o gli oggetti posti nel campo visivo del lettore (gli accessori) o le azioni dei personaggi (gli episodi). Nessun accessorio deve rimanere inutilizzato nella favola. Cechov pensava alla motivazione compositiva quando diceva che, se all’inizio di una novella si afferma che c’è un chio­ do nel muro, alla fine l’eroe dovrà impiccarsi a quel chiodo».4 Un uomo, una donna non contiene alcun chiodo visibile ma un’infi­ nità di chiodi invisibili. Quando Cechov accennava all’esistenza di un chiodo nel muro, era per imbastire una storia che rendesse necessario tornare a quel chiodo. Gli autori di storie cinemato­ grafiche che si dicono ben costruite seguono lo stesso procedi­ mento. Sono conservatori che non vogliono correre rischi: il chiodo indicato in principio servirà da punto di riferimento e i conti alla fine non potranno non tornare. Lelouch, invece, non costruisce. Accumula. E un procedi­ mento più nuovo, meno rigoroso. La storia avanza per successive stratificazioni: due vedovi con figli s’incontrano, si rivedono, si 4

B. Tomasevskij, Thématique, in Théorie de la littérature: textes desformalistes russes, Paris, Editions du Seuil, 1965, p. 282. E noto che i formalisti russi distinguono tra favola (l’insieme dei fatti di cui tratta l’opera, indipendente­ mente dal modo in cui sono disposti nell’opera stessa) e soggetto (il modo in cui i fatti si presentano nell’opera e quindi al lettore).

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separano, si ritrovano, rimanendo fondamentalmente gli stessi. L’opera, in questo caso, si compone di una serie di stati d’animo, per i quali vale pur sempre la regola di Tomasevskij (nessun acces­ sorio deve rimanere inutilizzato nella favola) ma in modo meno meccanico. L’accumulo dei particolari (gli accessori e gli episodi) serve a illustrare la psicologia dei personaggi o, almeno, aspetti del loro comportamento. Godard, che è un “accumulatore” infa­ ticabile, guarda più al comportamento (situazioni, atti, reazioni) che alla psicologia. Lelouch guarda alla psicologia. Accumulando e non “costruendo” (nel senso di non sviluppare una storia) si pone certamente contro la piatta, meccanica manipolazione nar­ rativa dei conservatori. Eppure riesce egualmente, come abbiamo visto, a essere piatto e meccanico. Perché? Si potrebbe rispondere: perché non conosce la libertà spudo­ rata di Godard. Accumula guidato dalla sua sensibilità epidermi­ ca, che gli consente di sintonizzarsi con quella base del gusto medio di cui si parlava all’inizio e nella quale confluiscono le tendenze più ri co noscibili (non diciamo le più vere) di un’epoca. E una sensibilità a sua volta guidata dall’esterno, da forze che non si lasciano dominare dal regista. La sua non-libertà è dimostrata - un esempio per tutti - dal modo in cui usa il flashback per rie­ vocare il passato di Anne e di Jean-Louis: chi è suo marito? Ora glielo dico subito; perché non mi parla di sua moglie? Ecco, mi ascolti, e lo spettatore si fa attento per carpire chissà quali segreti (che in superfìcie sono stravaganti o drammatici - un cascatore, una moglie che si uccide - e nella sostanza volgari, zuccherosi e previsti - un tipo formidabile, da far sognare ragazze romantiche, una povera donna innamorata e disperata). Il suo allineamento perfetto e automatico sulla media è dimostrato, fra l’altro, dal fla­ shback dei baci di Pierre, introdotto a pleonastica (ma “bella” e commovente) spiegazione della ritrosia di Anne a letto con JeanLouis: la donna corruga la fronte, si ode il battito del cuore e musica struggente, si vede Anne abbracciata al grande amore. Ma abbiamo già compreso che presto Anne tornerà nel letto di JeanLouis, con piena soddisfazione di entrambi. Non è accaduto nul­ 190

la, l’incidente è passeggero, scontato. Il film rimane immobile, con la sua struttura geometrica, peggio del peggiore dei film costruiti. Riassumiamo. Le immagini sembrano casuali. Il sentimento, infatti, è (per l’uomo della cultura di massa) sempre casuale, ossia misterioso, e perciò affascinante (il destino può tingere di rosa una vita grigia, offrire improvvisamente un raggio di sole a chiunque; accettiamolo come possibile rivelazione di un paradi­ so in terra, c’è sempre una provvidenza o un santo protettore o la fortuna ad accarezzare il piccolo borghese che sonnecchia al fon­ do dell’individuo consumatore). Di fronte alla casualità della vita sta — lo ricorda la musica — la certezza dell’amore. All’amore è legato il rischio, il fascino della civiltà moderna. Si può rischiare la pelle e provarne un brivido profondo, la vita ha necessità del pericolo per essere vissuta intensamente. Come rassegnarsi a vive­ re senza la certezza dell’amore e senza la possibilità — la speranzatimore — del rischio, dell’avventura? La musica accompagna JeanLouis all’autodromo, poi lascia il posto al rumore lacerante dei motori ma riprende immediatamente dopo, amica e consolatri­ ce. Affiora la bipolarità romantica amore-morte, ma priva di drammaticità e piena invece di dolcezza. L’imperversare dei lenocini sonori e musicali ispirati a questo romanticismo deprezzato (il battito del cuore, la canzone Plusfort que nous\ il rumore delle macchine in corsa che copre tutta la sequenza del Rally anche negli inserti in cui si vede Anne sul set) conferma la saldezza del connubio. Non solo il corridore Jean-Louis fa un mestiere rischioso. Anche Pierre lo faceva. Le donne vanno a letto con i coraggiosi che sfidano la morte, i veri uomini sono loro e non i tapini delusi che trovi ogni giorno per la strada, niente affatto “formidabili” e per nulla adatti alla passione e al delirio. Il tutto esposto con mol­ ta grazia. Lelouch non rifiuta l’ironia, come prescrive il buon gusto. Le punteggiature comiche compensano il luogo comune. Anne chiede a Fran^oise se le è piaciuta la fiaba di Cappuccetto rosso. La bambina risponde tranquilla: «No». Si ride e ci si com­ 191

muove, questi bambini sono così imprevedibili e simpatici. All’ar­ rivo del Rally di Montecarlo, lo speaker della televisione ricorda che i principi di Monaco non possono essere presenti perché sono agli sport invernali (si devono pure sfottere questi potenti in sedi­ cesimo, chi non è avvezzo a ridere alle spalle dei superstiti dell’o­ peretta?). Al ristorante, Antoine si esibisce in uno show da poli­ glotta ordinando la coca-cola in inglese e in spagnolo e facendo in inglese la sua bella dichiarazione a Fran^oise; questi figli fanno proprio tanta tenerezza, tutto un mondo da scoprire, anche se in verità quello sarebbe un figlio da schiaffoni e il padre peggio. L’amore, diceva un film americano, è una cosa meravigliosa.5 L’amore, suggerisce Lelouch, è eternamente uguale a se stesso, ma quando deve rappresentarcelo, dentro la corazza di questa geo­ metria ravvivata da lampi di fìnta spregiudicatezza, lo incarna nella sua versione piccolo borghese, l’amore dell’attesa “sublime”, della rinuncia femminile, dell’audacia maschile. Stizzito per il rifiuto di Anne, Jean-Louis medita: «E incredibile ostacolare la propria felicità». Non si dà pace. Conclude desolato: «Non capi­ sco niente di psicologia femminile». Che è la riaffermazione casuale (radicata, ovvia) dell’idea che la società patriarcale si fa della donna, bislacca, civetta, incomprensibile. Alla battuta il pubblico ride soddisfatto, gli uomini pensando quanto sono effettivamente gonzi a farsi irretire dalla malizia femminile (ma subito reagiscono con qualche forma di difesa, un gesto di rivin­ cita che riconduca la donna alla sua “naturale” sottomissione, e nessuno avverte più la profonda immoralità di questa situazio­ ne), le donne compiacendosi di possedere ancora buoni argo­ menti e armi efficaci per strappare agli uomini il diritto di non farsi schiacciare da una società che obiettivamente è loro ostile. Con ciò il rapporto d’amore può anche essere - in paesi poco conformisti come la Francia o in ambienti spregiudicati - libero e aperto, ma di fatto rimane condizionato da questo pregiudizio, da una remota psichica che ne limita la presunta libertà. 5

Di Giammatteo si riferisce a L’amore è una cosa meravigliosa (Love Ls a ManySplendored Thing, 1955) di Henry King, [n.d.c.]

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Così Un uomo, una donna appaga le esigenze dello spettatore borghese. Tutti possono commuoversi alla storia dei due vedovi bisognosi di affetto e scoprire che la morale è salva (la morale si salva con la reticenza di lei e la sincerità di lui, che ha sì un’a­ mante - un uomo ne ha bene il diritto - ma che in realtà vuole altro, tanto che mette prontamente alla porta la donna “irregola­ re” quando incontra Anne: cancelliamo il peccato anche perché ci sono di mezzo i figli che fanno - ma lo spettatore chiude un occhio, anzi accetta che si sfrutti la situazione - la parte dei ruf­ fiani) . Le difficoltà, semmai, sono psicologiche. Ma anche qui la soluzione è facile. Dopo la giusta resistenza in omaggio alla morale (dovere della donna è la fedeltà, ma a lei non si chiede tanto eroismo o rinuncia quanto una patetica, dolcemente com­ battuta, tergiversazione) si può tornare a vivere senza pentimen­ ti, come sempre. Vincerà l’uomo aggressivo (pacatamente aggres­ sivo, come piace alle lettrici della «presse du coeur»), perché così dev’essere, anche se non conosce la psicologia femminile, e per­ ché offre in tal modo una giustificazione plausibile, un sollievo (un alibi), alla donna che ha ancora scrupoli. Un uomo, una don­ na non è solo un meccanismo cinematografico esemplare, è anche un trattato di morale e di sociologia. Non è certo che Lelouch ne sia cosciente. Forse non lo è, ma la vicenda e la struttura del suo film dimostrano com’egli abbia col­ to nel segno. D’altronde, è bene che non abbia piena coscienza di quanto ha fatto, com’è bene che non ne abbia lo spettatore, di quanto riceve. Il grado di coscienza dev’essere omogeneo dalle due parti dello schermo perché l’opera riesca persuasiva e si stabilisca la comunicazione fra il linguaggio di questa nouvelle vague in sca­ tola e i suoi consumatori. Occorre, appunto, che esista un certo grado d’incoscienza comune affinché i significati arrivino allo spettatore non solo nel loro aspetto esterno e direttamente perce­ pibile (le azioni e i sentimenti vogliono dire certe cose, che deb­ bono essere dette chiaramente) ma anche nelle loro implicazioni profonde (i significati interni, l’ideologia sotterranea). Chi dice che non si comunica? Si comunica benissimo, con 193

una tale precisione ed efficienza di mezzi tecnici che c’è da sba­ lordire per tanta perspicuità. Chi dice che il mondo è assurdo? Può darsi che lo sia per gli intellettuali, non lo è per il piccolo borghese che ha reso comunicabile, e digeribile, l’incomunicabi­ lità. Partiti dalla “eversione” godardiana siamo arrivati sin qua. Ma non per sforzo di comprendere (la chiarezza da raggiungere attraverso una sempre maggiore penetrazione nei meccanismi della realtà), bensì per il più semplice sforzo di stare al mondo, di non soffrire. La vita dell’uomo con se stesso può essere, per Godard, un inferno. Per Lelouch è un accogliente rifugio, con porte e finestre aperte sul mondo. L’amore è il veicolo di ogni for­ ma di comunicazione, e la giustificazione di tutto. Con il che si dimostra come si possa degradare, e smerciare, la verità. Un film come Un uomo, una donna può essere assimilato al “Kitsch”. Vi si ritrovano, di esso, i significati salienti, quelli che Dorfles elenca così: assenza di “distanza” estetica, immanenza del sentimento, falsificazione intenzionale. «Dal che deriva», conclu­ de Dorfles, «la fondamentale “Unwahrhaftigkeit” del “Kitsch”; ossia la sua non autenticità, non veridicità».6 In una cosa sola il film non corrisponde alla definizione: è falso ma non intenzio­ nalmente. Fatto che rappresenta un’aggravante del concetto di “Kitsch”, qualcosa come la sua degenerazione inconscia. Di qui proviene, per conto nostro, la maggiore rappresentatività di Un uomo, una donna. Per il “Kitsch” valga anche un’altra definizione, di U. Eco: «E “Kitsch” ciò che appare consumato; che arriva alle masse o al pubblico medio perché è consumato; e che si consuma (e quindi si depaupera) proprio perché l’uso a cui è stato sottoposto da un gran numero di consumatori ne ha affrettato e approfondito l’u­ sura».7 Ma Un uomo, una donna può essere confrontato meglio a un’altra osservazione di Eco: «Se il termine “Kitsch” ha un senso, non è perché designi un’arte che tende a suscitare effetti, perché 6 7

G. DORFLES, Nuovi riti nuovi miti, Torino, Einaudi, 1965, p. 179. U. Eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1965, p. 102.

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in molti casi l’arte si propone anche questo fine, o se lo propone qualche altra degna attività che non pretende essere arte; non è perché contrassegni un’opera dotata di squilibrio formale, perché in tal caso si avrebbe solo opera brutta; e nemmeno caratterizza l’opera che utilizzi stilemi apparsi in altro contesto, perché que­ sto può verificarsi senza che si cada nel cattivo gusto; ma “Kitsch” è l’opera che, per farsi giustificare la sua funzione di stimolatrice di effetti, si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze, e si vende come arte senza riserve».89. Dove ritroviamo i concetti di banalità (la fun­ zione di stimolatrice di effetti) e di raffinatezza (la presunzione di arte senza riserve) che si possono applicare al film di Lelouch con piena giustizia. Si comprenderà meglio, allora, che il cattivo gusto, cui approda il “Kitsch”, è da intendersi in un senso assai diverso da quello dell’accezione comune: Un uomo, una donna è un’opera di buon gusto ed è proprio questa nozione di buon gusto che fa parte del suo stesso significato; non esisterebbe come opera efficace, e rivelatrice, se non fosse di buon gusto. Nella fenomenologia del “Kitsch” il film di Lelouch dovrebbe avere un posto importante. Perché lo supera e, insieme, lo preci­ sa. Mostra ciò che un’opera può essere, quanta influenza può ave­ re e perché, se realizza una sintesi delle tendenze che illuminano l’aspetto “negativo” (fossilizzato, paralizzante) di una cultura, in un momento in cui la lotta fra negazione e invenzione (progres­ so, sviluppo) sembra molto incerta ed è anche lecito pensare che la negazione finisca per prevalere.9 («Bianco e Nero», a. XXVIII, n. 6, giugno 1967, pp. 1-23)

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Ivi, p. 114. II successivo film di Lelouch — Vivereper vivere ( Vivrepour vivre, 1967) — ripro­ duce uno per uno i punti focali individuati in Un homme et une femme. E solo più stanco, più lungo e sfilacciato: gli stessi ingredienti (serviti anche qui bene dagli attori - Yves Montand, Annie Girardot, Candice Bergen - e dalla musica di Lai) non fanno una torta altrettanto saporita perché l’impasto è meno felice. Ma resta significativo, per Lelouch, l’accanimento con cui ha rifatto se stesso. E prigioniero dentro la sua lucida corazza, perché questa è davvero (oggettiva­ mente, per la forza delle cose e del tempo) una corazza infrangibile.

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Zabriskie Point Una metafora della libertà impossibile

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«Unsere Wunsche und Unternehmungen gehen auggewissen Bediirfhissen unsener Nerven hervor, die mit Worten schwer zu bestimmen gind». T. H.

Mann, Buddenbrooks (VII, 5).

Lukacs, 1956, in Marxismo e politica culturale'. «Oggi nella lette­ ratura e nell’arte, contrariamente a quanto accade in epoche acu­ tamente rivoluzionarie, in cui le differenziazioni sono nette e amici e nemici stanno di fronte in due avversi campi, ci si trova piuttosto dinanzi a transizioni straordinariamente complicate, per cui vi sono poeti che, pur essendo dei formalisti, giungono ai problemi fondamentali della nostra epoca e aspirano nel loro intimo al mantenimento della pace e al progresso, mentre, al contrario, vi sono scrittori realisti la cui inclinazione al naturali­ smo fa sì che non abbiano quelle prospettive». Antonioni sotto­ scriverebbe, lui non marxista, questa dichiarazione del filosofo ungherese. Aggiungerebbe, per orgoglio, che in compagnia di quei formalisti si trova perfettamente a suo agio. Possiamo dargli ragione? Ci interessa poco che certi formalisti vogliano la pace e il pro­ gresso, mentre ci interessa appurare se realmente giungono al cuore dei problemi della nostra epoca. Anzi, per essere più ridut­ tivi e anche più ragionevoli, non si chiede loro una visione orga­ nica dei problemi (se a nessuno è lecito chiederlo, chiederlo ai formalisti sarebbe una sciocchezza) ma soltanto una “inclinazio­ ne” positiva ad afferrarne qualcuno dei fondamentali. Sinora, per Antonioni, esiste un accordo della critica su due punti: sul for­ malismo (variamente definito ma in nessun caso posto in dub­ bio) e sul fatto che uno almeno dei problemi reali della condizio­ ne umana contemporanea (l’incapacità dell’individuo di realizza­ re se stesso dentro le coordinate borghesi della società capitalisti­ ca) il regista abbia saputo tradurlo in sostanza visiva. Meno con­ corde è, invece, la critica sul terzo dei punti che insieme danno il ritratto di Antonioni: la mancanza di un solido retroterra cultu­ rale o, meglio, la relativa “sordità” intellettuale del regista quan­ 199

do deve razionalizzare - a monte della elaborazione cinemato­ grafica della materia - i dati della cultura in cui vive. Zabriskie Point sembra un punto di arrivo, o di crisi definiti­ va. Dopo Blow-up (1966), un film fuori della crisi, si torna alle incertezze dell’Antonioni consueto. Siamo, anzi, al culmine del­ l’incertezza. Ossia, al massimo dell’interesse. Un Antonioni “sere­ no” è il meno antonioniano che si possa immaginare (anche quando esiste). Vero o non vero che Zabriskie Point sia lo spec­ chio di una crisi, è certamente vero che mai come stavolta il regi­ sta ha voluto essere “tranchant”, esplicito, riassuntivo. Per essere lui un formalista, questo è un bel fatto.

Il catalogo delle negazioni, in chiave sociologica Non si può capire il film se non si accetta il discorso tendenzial­ mente sociologico che Antonioni svolge sulle “presenze” umane scoperte in America. Sappiamo che il risultato non è sociologico; sappiamo, però, anche che qualsiasi giudizio sul risultato è privo di peso quando si trascuri il punto di partenza, e le deviazioni che sono intervenute lungo la strada. Il che può anche essere espres­ so in altro modo, con la proposta di un’operazione di verifica da compiere: com’è potuto accadere che, partito dall’intenzione di fare un film sull’America, Antonioni abbia fatto, come sempre, un film sul destino dell’uomo. Di fronte a Mark e Daria stanno personaggi negativi. Tutti, dentro o fuori l’establishment. Una casistica impressionante, vai la pena di sottolinearlo. Indichiamone qualcuno, dentro l’esta­ blishment. Uno minimo, ma tanto significativo che si vorrebbe assumerlo come emblematico, è il portiere della Sunnydunes Development Co., seduto dietro un bancone circolare sotto il quale occhieggiano gli schermi televisivi attraverso cui si control­ la tutto il palazzo. Ha in testa un berretto verde con fregi, è immerso in una luce azzurrina, metallica (così entra il sole, smor­ zato dai grandi cristalli dell’ingresso). Antonioni gli gira intorno con un carrello (che accresce l’effetto di allargamento del pana­ li

vision) e lo fa parlare appena, per ricordare che il regolamento della società impedisce questo e quello («Company rules», detto da lui, sembra una formula magica: la magia del potere) e per rimproverare Daria di non aver pranzato alla “cafeteria”. Al gra­ dino più basso — più stupido — il portiere rappresenta l’infrangibilità dell’ordine costituito, la quale si esprime anche, comple­ tandosi, nell’ossequio adulatorio che costui dimostra verso l’av­ vocato padrone («Working late, tonight»). Più “facili”, ma altrettanto efficaci, i due armaioli ai quali si rivolgono Mark e Bill per ottenere subito, con un trucco, le pistole che useranno durante la manifestazione. Non appena il primo armaiolo si sente dire che le armi servono per difendersi dai negri, dimentica le cautele legali e vende ai due quanto ha di meglio, di più maneggevole ed efficiente («For your purposes, fellas, I wouldn’t recommend anything smaller than a 38»). E un tipo insignificante, di marmorea normalità. Il secondo — quello che spiega come si possono evitare guai dopo aver fatto fuori un negro — appare più caratterizzato, una faccia tonda e dura, rigida e rassicurante come ci si può attendere. Facce simili le incontria­ mo nel bar dove Mark si rifugia per telefonare a Morty e tentar di mettere qualcosa sotto i denti. Il barista, ma più ancora i due clienti (grassi, ammiccanti, sicuri di sé, modello di “brutalità integrata”), arricchiscono il quadro della negatività dentro l’esta­ blishment, nella cerchia degli strati subalterni. Saliamo di tono — uscito dalle azioni introduttive, il racconto ha preso a svilupparsi per lunghe cadenze — con l’episodio del “saloon” di Ballister. “Average American”, il proprietario è un monumento di egoismo e di intolleranza: odia quel James Patter­ son che Daria cerca e che ha raccolto nella zona un gruppo di ragazzi disadattati di Los Angeles («He’s gonna be the death of the town. He’s gonna ruin a piece of american history»), s’infuria sel­ vaggiamente quando gli spaccano il vetro di una finestra («That window cost me thirty bucks»). Ma l’America, per Antonioni, non è soltanto il paese della violenza nevrotica, mascherata di per­ benismo o di patriottismo. E anche il luogo dove si celebrano, 201

dietro la facciata d’un attivismo ossessivo, i malinconici fasti del disfacimento mentale e fìsico (la scena nel “saloon” di Ballister s’impernia sulla presenza d’un vecchio cow boy suonato, immo­ bile davanti al suo bicchiere di birra, e di un petulante omino sdentato che fu campione del mondo dei pesi medi nel 1920). Allo stesso livello degli anziani, sintesi di violenza gratuita e di decadenza, troviamo i ragazzi di Patterson - il benefattore non compare mai, affinché nulla di “positivo” interrompa l’esposizio­ ne della negatività - che circondano Daria. Fra i vari gesti assurdi che compiono, uno più degli altri colpisce, per il potere evocati­ vo che possiede in direzione astratta, ed è quello in cui vediamo intento un bambino che pizzica le corde di un pianoforte sfonda­ to: il suono, che occupa tutto l’inizio del girovagare della ragazza nel deserto di Ballister, ha un significato arcano e sospensivo come sempre hanno, in Zabriskie Point, queste improvvise occhiate “inside America” delle quali il regista palesemente si compiace. Tralasciando per ora di esaminare l’immagine che Antonioni dà dei poliziotti e degli uomini di affari (che costitui­ scono l’asse della sua sociologia americana), ricordiamo, nel qua­ dro della decadenza intesa come torpore mentale e idiozia, i turi­ sti (madre, padre e figlio) che si affacciano sulla Valle della morte, immediatamente dopo la fine della “love scene”; il proprietario dell’aereo rubato da Mark; il radiocronista (solo udito) che riferi­ sce della tragica conclusione dell’avventura all’aeroporto. I turisti arrivano su una stravagante roulotte blu tappezzata di belle ragaz­ ze. Appaiono - loro, la macchina, il motoscafo che sta sopra, il gelato rosa che mangia il ragazzino - eccessivi, tanto estremizzati da provocare un moto di stupore. Lui in bermuda rossi e magliet­ ta bianca, lei in bermuda gialli orrendi chiacchierano fatuamente della possibile costruzione di un drive-in da quelle parti. Riparto­ no dopo essersi sgranchiti le gambe. Il baraccone con decalcoma­ nie e scritte turistiche (“Discover America”) ci passa davanti agli occhi, sfocato, ripreso con il tele, dopo che abbiamo seguito in panoramica Mark e Daria che risalgono il pendio. Lo stridore del sarcasmo nasce non tanto dal luogo in cui i turisti sono collocati 202

quanto dall’insistenza sul ridicolo aspetto di tre soddisfatti beoti che dovrebbero incarnare l’America media. Più secco il ritrattino del proprietario di “Lilly 7”, l’aereo rubato da Mark. Interrogato dall’ufficiale di polizia, il simpatico allocco si comporta secondo coerenza sociologica. Ha la faccia che gli compete, dice le parole che lo caratterizzano come un bel campione minore dell’establishment («It’s a small plane. But they don’t come very cheap. My wife was in love with that thing. I had it painted in her favorite color. Pink»). Per il radiocronista delle KALA News, che scorgiamo un attimo a bordo d’un elicottero, all’aeroporto, basteranno le parole che dice annunciando, con ineffabile tartufismo, l’uccisione di Mark (Daria ode questa voce nella radura fra gli alti cactus, sulla via di Phoenix) : «An apparent hi-jacking attempt has ended with one youth dead. After repea­ ted attempts by the police to block the plane without success, several shots were fired into the cockpit by an unidentified poli­ ce officer, killing the youth immediately». La violenza raccontata come un fatto qualunque, burocraticamente. Le parole corri­ spondono ai fatti ma ne travisano il significato (anche questo fa parte del mestiere). Fuori dell’establishment le cose non appaiono meno negative. Se fra coloro che sono il potere, o stanno dalla parte del potere, regnano brutalità, egoismo, ottusità, dall’altra parte ci sono ribel­ lismo a vuoto, impotenza, nevrosi, evasione camuffata da impe­ gno politico. Qui il discorso deve farsi più complesso. Il meeting degli studenti, con cui Zabriskie Point si apre, rivela le intenzioni dell’autore. La sfiducia nelle capacità di sviluppo della democra­ zia americana acquista il tono di una profonda disperazione. Antonioni vede gli studenti generosi e attivi, ma considera i loro sforzi inutili. Non hanno armi adatte per opporsi al sistema, pro­ fessano idee teoricamente giuste ma praticamente inefficaci. Così, la contestazione non serve che a creare nuove vittime. Negri e bianchi non troveranno mai punti d’incontro reali, il rifiuto dell’ordine non sfocerà mai in un’azione costruttiva. Può darsi che lo sguardo del regista sia perfino ironico. E certo che 203

non nasconde il pessimismo. Questi giovani chiacchierano e non concludono. Mark ascolta irritato il mare di parole e, alla fine, si alza e se ne va perché non vuole «morire di noia». Accusa Morty di essere un velleitario, lui e i suoi colleghi, che minacciano vio­ lenze e intanto la polizia le compie («I’m tired of it, man. It gets nabbing about violence and cops doing it»). Non c’è scampo, in America. La contestazione è sterile, il potere è onnipotente. Antonioni non vede alternative. Se le vede, le rifiuta, con uno scatto di nervi che è anche una convinzione meditata e, insieme, una scelta ideologica. Quantunque sia in un certo senso (ma solo in un certo senso) arbitrario interpretare ideologicamente le opinioni (e le realizzazioni) di un formalista, mai come qui occorre individuare bene le caratteristiche del “retroterra” culturale su cui si pone l’opera di un uomo che, nel fondo, ha altri interessi. L’atteggiamento di desolato pessimismo che il regista ostenta sul futuro della civiltà americana può essere, se si vuole, contestato, opponendogli un’altra posizione ideologi­ ca (non diciamo quella degli apologeti del sistema, ma, per esem­ pio, quella della intellettualità radicale, critica all’interno del sistema, o quella della nuova sinistra e dei gruppi minoritari che sono fuori del sistema). Ma sarebbe una operazione inutile. Meglio cercarne l’origine. Interessante è osservare che l’estre­ mo pessimismo nasce dalla scelta della estrema frontiera della civiltà dei consumi, quella statunitense appunto. Interessante è anche rammentare che su questa linea di progressiva estremizza­ zione il regista ha sempre, e coerentemente, lavorato. La vita dei suoi personaggi - almeno dall’Jx'mztam (1959) in poi - ha avu­ to come sfondo una civiltà industriale in fase di sviluppo disordi­ nato all’interno di strutture capitalistiche via via più robuste. La notte (I960), L’eclisse (1962), Li deserto rosso (1964) potrebbero anche rappresentare, guardati in trasparenza secondo una ango­ lazione sociologica, una parabola italiana sul tema della “affluent society”. Blow-up sposta l’attenzione fuori d’Italia, su un terreno meno familiare all’autore ma con la presenza di un ambiente (la fotografia, pubblicitaria e no, riflesso indiretto dei mass media) 204

che gli è congeniale. Il residuo delle “inadeguatezze” italiane nei confronti del neocapitalismo maturo scompare, il fuoco si fìssa su un personaggio fortunato, un “uomo riuscito”. E l’uomo riuscito è l’uomo più in crisi. Se la tecnica della “sospensione” narrativa, della pausa evocativa (già osservata in Zabriskie Point) aveva dato risultati eccellenti nei film italiani — le cose migliori di un Deser­ to rosso quasi sempre fuori fase erano proprio di quel tipo —, pos­ siamo notare che con Blow-up ottiene effetti di straordinaria esat­ tezza, di grande suggestione. Ma Blow-up era un film su una crisi (crisi acuta perché si rife­ riva a un personaggio sociologicamente non in crisi, che in crisi non aveva ragioni evidenti di trovarsi), non era un film di crisi. Antonioni era riuscito a oggettivare il suo esame, a rimanerne fuori. Aveva raggiunto un suo equilibrio formale, usando una chiave psicologica che gli consentiva di pilotare saldamente la storia (la scoperta del delitto rende palese una insofferenza e una inquietudine che nel fotografo preesistevano allo stato latente: il fatto esterno, a ben vedere, non conta nulla anche se sembra occupare tutta l’azione). Per riassumere, Blow-up inseriva, in un tessuto sociale più “progredito” dei precedenti, una crisi per para­ dosso, cogliendo nel personaggio più integrato (e più lieto di esserlo) il germe della insicurezza più grave. Intorno, il resto del mondo era indifferente o addirittura (i giovani che girano per Londra mascherati) ilare e libero.1 1

Su Blow-up si veda anche F. Di GIAMMATTEO, Un’esplosione a vuoto, quasi una tragedia, in «Il Ponte», a. XXIII, n. 10, 31 ottobre 1967, pp. 1329-1336. A pagina 1333 Di Giammatteo afferma: «Antonioni assume [...] un atteggia­ mento fenomenologico dinanzi alla realtà. Una fenomenologia ricreata con i mezzi di un cinema interiore nell’accezione più pura e spoglia. E una parti­ colare idea di cinema, che si potrebbe anche dire rigorosa o specificatamente cinematografica (cinema al grado più alto e intenso) ma che è, più esatta­ mente, un’idea fra le altre. Muovendo da essa il regista consegue il risultato finora più chiaro che gli sia dato di ottenere. Avventura a oggi [...]». In Milestones (cit., pp. 260-269) il critico colloca il film tra le trenta pietre milia­ ri del cinema, definendolo un antonioniano «apologo sulla inconoscibilità del mondo» (p. 262). \n.dc.}

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Con Zabriskie arriviamo alla punta più avanzata del progresso e troviamo un fosco ritratto della negatività totale, a destra e a sinistra. La crisi non è più paradossale ma logica, non solo inevi­ tabile ma normale. Qua dentro, che cosa sono Mark e Daria? Pri­ ma di rispondere, occorre completare il catalogo della negatività, guardarne il centro.

Cops e businessman, la doppia faccia del mostro Il mostro, si vedrà, non è inteso né in senso morale (il male) né in stretto senso sociologico. Diversa è la dimensione in cui Anto­ nioni lo colloca. Una dimensione fìsica, oggettiva. Il mostro è un robot. Robot sono i poliziotti. I primi che s’incontrano nel film li incrocia Mark uscito dalla riunione degli studenti; è a bordo del suo camioncino rosso, in compagnia di Morty. Vengono avanti due cops in moto, imponenti, “marziani”. Mark li saluta e li sbeffeggia con la mano. Subito dopo, vediamo la faccia “uma­ na” della polizia, al commissariato. Neri d’uniforme, sbrigativi, lievemente seccati del lavoro che compiono ma diligenti come buoni impiegati, i poliziotti stanno schedando i fermati in una manifestazione.2 L’atmosfera della repressione è realisticamente riprodotta: il banco con la griglia, le macchine da scrivere, il monotono rituale dell’interrogatorio, il cancello, i fermati contro il muro, in una luce giallastra. Atti e richieste gratuite, di mero sadismo («Togliti gli occhiali», ingiunto a un professore), il disprezzo per l’individuo (allo stesso universitario che dichiara di 2

La sequenza è stata girata nella stazione di polizia di Santa Monica. Ricorda Antonioni — con gratitudine e stupore (ma l’America è piena di contraddi­ zioni) - che tutti furono premurosi con lui, ufficiali e agenti gli si misero a completa disposizione lasciandolo assistere a tutta la loro attività, liberamen­ te. Ciò contrasta con le accuse rivoltegli, altrove, da uno sceriffo, il quale con­ testò al regista il reato di istigazione degli studenti allo sciopero per poter gira­ re. Quanto allo sciopero, va ricordato che la sequenza ingloba tre manifesta­ zioni diverse, girate come “attualità” in luoghi differenti, e integrate con bre­ vi scene ricostruite (per esempio, il gesto del poliziotto che picchia un dimo­ strante).

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essere «associate professor of History» il tenente risponde: «È troppo lungo, Bill. Scriviamo impiegato»), l’insofferenza per i bisogni altrui (se il professore protesta, gentilmente, perché alcu­ ni hanno necessità di assistenza, il medesimo tenente taglia cor­ to: «Non hai mica detto che sei un medico»): c’è tutto quello che serve per avere un quadro della situazione. La sequenza era cominciata in tono più “antonioniano”. Due volti di donna scarsamente illuminati dalla luce che entra dalla finestra, uno sfondo quasi nero, una panoramica a scoprire l’am­ biente, mentre si ode la voce della radio di servizio («This is Con­ trol One to One L Five One. You are now clear», ecc.). Questo inizio seguiva l’arrivo del camioncino con Mark e Morty all’uni­ versità. E Mark subito lo rivediamo allo sportello della stazione di polizia, dove è venuto a informarsi della sorte dell’amico. Lo cacciano. Il giovane esce, in strada assiste all’arrivo dei pullman carichi di fermati (una ripresa con il tele, che schiaccia oggetti e figure, accrescendo l’impressione di assurdità e di irrealtà), rien­ tra, è trattenuto anche lui con un pretesto arrogante («You thou­ ght, maybe the rules didn’t apply to you, you thought maybe you’re someone special»). Invitato a fornire le proprie generalità, dice Karl Marx. Il tenente, impassibile e cretino, domanda: «Come si scrive?». Mark sillaba perbenino emme, a, erre, ics. Sono tre i toni della sequenza: sospensivo all’inizio, realistico nel­ la parte centrale, ancora sospensivo con la scena dei pullman, sar­ castico in chiusura. Il regista è guidato da idee contrastanti, com­ pone a braccio, sollecitato variamente dalle situazioni che costruisce. Il filtro d’una maschera antigas. Panoramica verso l’alto, sem­ pre rimanendo sul dettaglio strettissimo, zoom indietro fino a scoprire il volto d’un cop. Così compare, per la seconda volta, la polizia. In azione. Siamo all’episodio dello sciopero. Un’inqua­ dratura in tele di brache nere di poliziotti schierati per fronteg­ giare i dimostranti. Attesa, tensione, atmosfera - ancora - un poco irreale. I poliziotti come robot, non uomini. Scoppia il tumulto, il ritmo tuttavia resta disteso: gruppi di studenti che 207

avanzano, feriti, oggetti insanguinati, cariche, senza alcuna con­ citazione nel montaggio (campi lunghi e piani ravvicinati si alter­ nano, accompagnati dai rumori reali dello scontro). Di colpo, i rumori cessano, sostituiti dal ronzio d’un auto della polizia, sulla quale lampeggia la luce rossa. Lo stacco sonoro coincide con un passaggio su colori scuri, sfocati, in tele. L’auto manovra a lungo, seguita in panoramica. Suono, colore, teleobiettivo, lunghezza dell’inquadratura rallentano ancora il ritmo. La repressione della polizia si svolge quasi tranquilla, la calma diviene del tutto irrea­ le, una cosa lontana, sbiadita. Un gruppo di giovani, fra cui Mark, si rifugia nella facoltà delle “liberal arts”. Antonioni impiega ancora il tele per ottenere forme e colori sfocati (ricordiamo che il procedimento l’aveva adottato per la prima volta in II deserto rosso), e sotto linea mag­ giormente la lentezza del ritmo. Microfono in mano, accanto all’auto, il tenente Bell intima ai fuggiaschi di arrendersi per non costringere i suoi uomini a snidarli “con altri mezzi”. I poliziotti prendono posizione, accerchiano il palazzo. Si avvicinano all’in­ gresso, neri con l’elmetto bianco, sul fondo azzurrino dei cristal­ li. I gesti cauti, le mosse dell’agguato, l’accerchiamento sono ele­ menti canonici d’una scena da western, riprodotti in puntuale successione. L’azione è interrotta dalla inquadratura d’una sala dell’edifìcio, vuota, in disordine. Silenzio. Attraverso il varco d’un cristallo spezzato un poliziotto introduce una bomba lacri­ mogena, che rotola lenta, sgrigiolando avvolta da fiammelle rosa, nel vestibolo. Gli “uomini dello sceriffo” stanno per saltare addosso ai banditi, ma qui, a differenza che in un western, la ten­ sione è smorzata, l’agguato è ridotto a un fatto di ordinaria amministrazione. Non è più uno scontro di passioni, è una buro­ cratica operazione che non coinvolge uomini ma pupazzi. La vio­ lenza ha un colore sinistro e un andamento sicuro. A che vale ribellarsi? Infatti, la conclusione della sequenza — quando il ritmo si stringe all’improvviso, secondo lo schema western — è lineare, inevitabile. Un poliziotto ammazza a freddo, così come un cac­ ciatore tira a una lepre, uno dei giovani. Mark sta per estrarre la 208

pistola dallo stivaletto ma non è necessario che spari: un colpo giunto non si sa da dove stende il poliziotto. Tutto è accaduto per caso, senza scopo, meccanicamente. Il ricalco del western, appli­ cato alla tecnica della sospensione e dell’“allontanamento” visivosonoro, ha proprio lo scopo di ribadire l’inevitabilità e la preve­ dibilità dei fatti. Il meccanismo non può che funzionare a quel modo. Nulla riuscirà a spiegare perché. Analoga sarà la sequenza dell’agguato all’aeroporto, al ritorno di Mark con “Lilly 7”. Lo schema western (attesa, lenta appari­ zione delle macchine della polizia che sbucano dietro i capanno­ ni, concitazione improvvisa quando l’aereo è accerchiato, spara­ toria) si riproduce eguale. Antonioni qui insiste su due elementi: i contrasti fra colori cupi o intensi (un muro nero, un bidone giallo, con cui la sequenza si apre, un’auto bianca e nera, ecc.), i primi piani dei poliziotti, ripresi per la maggior parte attraverso il parabrezza delle macchine, che li fa sembrare immagini di acquario (sono facce spente, atone, volgari). In una inquadratura dal basso, con il tele, il regista mostra due cops venire avanti rinfo­ derando le pistole: potrebbe addirittura essere una citazione testuale. Il senso di oppressione comunicato dalla struttura western della sequenza si stempera nella luce grigiastra (il cielo è nuvoloso) che avvolge l’aeroporto; i colori ne risultano come appiattiti, le forme smussate. Un morbido soffocamento delle cose, degli uomini, della vita. La tragedia che si compie non pro­ voca sdegno, perché — anche qui — il fatto appare annegato in una sorta di irrealtà pacificata. Un altro agente, solo con la sua macchina, l’abbiamo veduto nella Valle della morte, occhiali gialli sul naso, la solita faccia dei poliziotti di Zabriskie. Si ferma scorgendo Daria che si aggira — per lui in modo sospetto — tra quelle pietraie. La interpella bru­ scamente, e se ne sta a lungo in silenzio ad ascoltarne la risposta ironica e a osservarla. Il poliziotto che fermava, in circostanze non molto diverse, la ragazza all’inizio dell’hitchcockiano Psyco è — figurativamente e drammaticamente — un parente stretto di que­ sto. Più inquietante con occhiali scuri ma anche più “pretestuoso”, 209

il cop di Hitchcock (serviva solo per sviare l’attenzione dello spet­ tatore); più realisticamente credibile ma anche più necessario al clima generale del film, quello antonioniano. Non sono fortuite queste coincidenze fra Zabriskie e certo cinema western e giallo, perché dimostrano, quanto meno, la natura composita dell’espe­ rienza vissuta dal regista. Esperienza diretta3 e indiretta insieme. Esistenziale e culturale, fatta di “pregiudizi” ideologici e di intui­ zioni immediate. Distinguere fra gli uni e le altre sarebbe possibi­ le, ma condurrebbe fùori strada. Devono rimanere sovrapposte, affinché se ne possa comprendere la natura. I businessmen sono la faccia perbene del mostro. L’avvocato presidente della Sunnydunes Development Co., i suoi collabora­ tori, i colleghi con cui si appresta a concludere l’affare (se mai lo concluderà) applicano la medesima “tattica” dei poliziotti — ogni azione condotta con efficienza tanto calcolata da sembrare natu­ rale, aggressività, ostinazione — ma con uno stile diverso. Vedono gli affari, e null’altro, come i poliziotti vedono i loro avversari “sovversivi”, e null’altro. Predispongono accuratamente le mosse (la pubblicità televisiva per “lanciare” le vacanze nel deserto), pre­ parano il terreno (gli uomini d’affari invitati nella villa di Phoe­ nix, in un ambiente confortevole, per favorire l’accordo), sanno ritirarsi al momento giusto e tornare alla carica in un’occasione 3

L’idea di Zabriskie Point nasce durante un lungo viaggio di Antonioni negli Stati Uniti, compiuto in compagnia della scrittrice inglese Clare Peploe. Si fa una prima stesura del soggetto. Un secondo viaggio Antonioni lo compie insieme a Tonino Guerra, per approfondire i dati raccolti, ma si avvede ben presto che lo sceneggiatore gli è di scarso aiuto, non conoscendo l’inglese. A questo punto interviene il commediografo anarchico Sam Shepard, scrittore — secondo Antonioni — ricco di fantasia ma non “disciplinabile” e perciò ina­ datto a un lavoro di équipe. Il contributo decisivo alla sceneggiatura sarà for­ nito, soprattutto per i dialoghi, da Fred Gardner, uomo politicamente assai più impegnato dei precedenti. [Giare Peploe diventerà collaboratrice (e moglie) di Bernardo Bertolucci e farà il suo esordio come regista nel 1987 con Alta stagione {High Season). Anche Sam Shepard approda alla regia nel 1988 dopo svariate esperienze come attore e una fruttuosa collaborazione con Wim Wenders per Paris, Texas (1984), cui una sua pièce fornisce il soggetto].

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più propizia. È lo stile della classe dirigente. La “normalità” del­ l’uomo americano influente non presenta incrinature. Non lo potrai sorprendere in atteggiamenti scomposti o minacciosi, come quelli dei poliziotti, ma, esattamente come per i poliziotti, la sua normalità impeccabile, frutto di apparente sicurezza, nasconde un fondo opaco, una “malattia” inguaribile. Sono robot anch’essi. Per far toccare, al di là dell’aspetto fìsico e dei gesti per sé già abbastanza espressivi ma non sufficienti, l’oscura radice del male, il regista escogita una variante e l’applica al personaggio dell’av­ vocato. Sarebbe uno come gli altri, e si comporterebbe sino in fondo come le regole del gioco impongono, se non s’incapric­ ciasse di Daria. In superficie niente accade, e se l’affare non si conclude è per ragioni puramente tecniche. Invece, è proprio questa irruzione dell’umanità nella corazza del manager a provo­ care sbandamento. L’avvocato cerca Daria, fa telefonare a casa da Nathalie (questa segretaria inserita a contrasto, così servizievole, con una camicetta arancione così anonima, in una inquadratura che la vede decentrata a destra, con elementi metallici grigioaz­ zurri sulla sinistra), telefona lui a un altro numero e si sente rispondere beffardamente da uno sconosciuto (e il suo prestigio crolla miseramente), tenta di seguire attraverso l’altoparlante la discussione dei suoi collaboratori nella “conference room” ma non ce la fa (la “rassicurante” bandiera americana alle sue spalle, sul tetto dell’edifìcio di fronte, ha certo un valore ironico). Final­ mente Daria si fa viva, da Ballister, tenendolo sulle spine e costringendolo a comportarsi goffamente. Ormai, l’avvocato si trova allo scoperto. E comincia a sbagliare. Con gli altri è come sempre, nessuno si accorge di nulla, ma il pensiero di Daria che gli sfugge ha messo a nudo l’insicurezza del personaggio (che, appunto per questo, è un bel personaggio). Si osservi: se concre­ tamente — nelle azioni che ora compie e nei risultati che non ottiene — si stabilisse un rapporto fra la “distrazione” negli affari e il cruccio per l’indifferenza della ragazza, ci troveremmo di fronte a un caso banale, privo di spessore. Ma il rapporto in effet­ 211

ti non è visibile né dichiarato. Lo si può soltanto supporre. Così, l’opacità che adesso emerge dal fondo dell’uomo e del manager efficiente (del robot) è un fatto ben più importante della conse­ guenza d’un malessere psicologico. L’insicurezza che mette in luce ha origini lontane. Opacità, insicurezza, insensibilità s’intravedono ovunque. Sono motivate in maniera diversa, o non sono motivate per nien­ te. Sono intuibili nei businessmen e nei cops, nei gesti brutali e nel­ le inquietudini sentimentali, nella pazienza di un meschino dove­ re da compiere e nella tenacia posta in un affare da concludere. Sono, tirate le somme, il ritratto di un’America interpretata — è fin troppo evidente — sulla falsariga d’una linea di pensiero socio­ logico che va da Adorno-Horkheimer a Marcuse, e insieme vis­ suta in un traumatico contatto diretto. L’America dei robot.

Come Antonioni guarda il mostro «So anyway ought to be one word. The name of some place or a river. Anyway river». Questa riflessione di Daria — parole in libertà, prive di senso — rivela un’altra impossibilità che sta alla base del film. La ragazza, come Mark, è una esclusa che, non sapendo integrarsi nella società dei mostri, ha scelto la sua libertà. Parla e agisce senza orientamenti che non siano quelli degli umo­ ri passeggeri. Le sue energie non si esprimono nel lavoro (nella sublimazione del lavoro o, in senso marcusiano, della “prestazio­ ne”), perché il lavoro è una forma di illibertà. Si manifestano piuttosto — ancora secondo la concezione marcusiana — nel gio­ co. Daria trasferisce le sue tendenze profonde in una svagata “fol­ lia”, quella che le fa seriamente fantasticare (il gioco, e l’amore, sono le uniche esperienze serie in una vita alienata) di un “fiume in-ogni-modo”, la fa scherzare con la droga e la spinge a cercare avventure insolite nel deserto (rifùgiarsi in un luogo dove sia pos­ sibile meditare, e meditare per lei significa “pensare le cose”). Daria è, accanto alle molte negative che abbiamo visto, una delle due presenze positive di Zabriskie Point (l’altra, natural212

mente, è quella di Mark, ma in misura diversa). Come l’avvoca­ to, interpretato con grande aderenza psicologica e fine intelligen­ za da Rod Taylor, Daria è un personaggio straordinario, ben più di quanto non sia il ragazzo. La perspicacia di Antonioni qui non fallisce: il fìsico (sano, solido, fiorente), il volto levigato e pieno, la voce morbida con inflessioni infantili, i gesti insieme aggrazia­ ti e decisi di Daria Halprin consentono al personaggio una vita intensa. Fra i personaggi femminili del regista, è forse il più lim­ pidamente realizzato. L’infantilismo di certe reazioni, e soprat­ tutto della voce (quell’incantevole «you and me» in risposta a una riflessione di Mark sul modo di unirsi per sconfìggere i cattivi), rende persuasivo il puerile divagare sui problemi della vita («It would be nice if they could plant thoughts in our heads. So nobody would have had bad memories. We could plant, you know, wonderful things you did, like a happy childhood, real groovy parents... only good things»). Prepara in modo adeguato la reazione di Daria davanti alla impossibilità definitiva. Mark è una presenza meno incisiva soprattutto perché meno felice è stata la scelta dell’attore Mark Frechette. Ex studente (fu cacciato dall’università per quelle ch’egli chiama “extracurricular activities”, infrazioni di vario genere alle regole accademiche), operaio per guadagnarsi da vivere indipendente (ha abbandona­ to una ricca famiglia borghese), compagno di contestatori (abita nella stessa camera di Morty, che è uno dei più attivi) e partecipe delle loro azioni ma non della loro ideologia («I couldn’t stand their bullshit talk. It really bored the hell out it»), sempre pronto comunque ad accorrere dove si commetta una ingiustizia e nello stesso tempo estraneo alle tendenze evasive degli hippies (il “trip”, il viaggio, per lui non è quello nello stordimento della droga, ma semmai nella realtà, un “reality trip”), Mark ha su Daria il van­ taggio di essere uno che alla impossibilità non si arrende perché il mostro non solo lo conosce ma lo respinge, lo combatte. Com­ batte isolato e, a differenza di Daria che insegue i suoi pensieri infantili, ragiona su quello che fa. Rifiuta i piani d’azione dei suoi amici. Segue una via che è sì più libera e aperta (a Daria che gli 213

chiede perché abbia rubato l’aereo risponde: «I needed to get off the ground», avevo bisogno di staccarmi da terra) ma che lo induce stranamente a rispettare le arcaiche regole della conviven­ za sociale, per una specie di gusto della strafottenza («You don’t borrow someone’s private plane - dice quando ha deciso di tor­ nare a Los Angeles con “Lilly 7” - take it for a joy ride and never come back to express your thanks») e per essere fedele all’imma­ gine di scavezzacollo che s’è inventata («I wanna take the risks»). Due tipi di libertà si uniscono, quella spensierata di Daria, quella aggressiva di Mark. La caratteristica della ragazza è lo sguar­ do, i punti culminanti dell’azione la trovano intenta a osservare ciò che accade, gaia o incerta o angosciata. Quella del ragazzo è il gesto d’insofferenza, brusco, spesso incontrollato. Fuggito dal luo­ go dov’è avvenuto lo scontro con la polizia, arrivato con un auto­ bus nei sobborghi nord di Los Angeles (la sequenza è tenuta dap­ prima, durante la fuga, sul tele che sfoca in rapida panoramica il verde degli arbusti dietro cui corre Mark, e poi, nell’autobus, su un formidabile dettaglio del volto del ragazzo, verde scuro e lieve­ mente sfumato), s’introduce nell’aeroporto, sale noncurante a bordo d’un piccolo apparecchio da turismo, tiene a bada un mec­ canico gonzo che vorrebbe fermarlo, decolla, si trova in cielo, feli­ ce. La sua è tutta una sfida ai mostri, dalla manifestazione studen­ tesca al furto. L’azione che compie non serve tanto a mettere il personaggio in situazione quanto a far risaltare, per contrasto, il potere (inumano, meccanico) che la società esercita sui propri sudditi. E sempre un discorso sul mostro quello che fa Antonioni. Il cielo, i nastri e i raccordi delle autostrade, Los Angeles immensa, ancora cielo, fra colori lucidi e vivi. La libertà in alcu­ ne immagini, con un attacco musicale sul decollo che conferma la scaltrezza linguistica e il rigore compositivo del regista. La sequenza è una delle più armoniose di Zabriskie. Stacco, la musi­ ca s’interrompe per qualche istante. Da una ripresa aerea molto dall’alto si passa a una ripresa raso terra, veloce, in avanti, sulla sabbia del deserto. La macchina procede verso una vecchia auto­ mobile in marcia. E un’altra musica lenta, di chitarra, si fa udire, 214

pianissimo e poi gradualmente più forte. Un altro stacco. La macchina, sempre sull’aereo, è ora più alta e accompagna l’auto­ mobile nella sua corsa sul nastro grigio della strada che taglia il deserto: Daria è al volante, il braccio appoggiato al finestrino. La musica è fortissima.4 La libertà come distacco dal mondo del potere, e rifugio nella solitudine. L’accostamento fuga di Mark-viaggio di Daria introdu­ ce assai bene il tema, chiudendo praticamente la lunga, mossa introduzione del film (ricordiamo in ordine le sequenze che prece­ dono il decollo di “Lilly 7”: la riunione degli studenti, l’incontro fra Daria e l’avvocato nel vestibolo dell’azienda, il trasferimento di Mark e Morty all’università, i fermati alla stazione di polizia, Mark e Bill dall’armaiolo per acquistare la pistola, la seduta alla Sunnydunes Development Co. per visionare la pubblicità televisiva, l’av­ vocato e i suoi collaboratori traversano la città per recarsi in ufficio, in casa di Morty ci si prepara per la manifestazione, l’arrivo del­ l’avvocato alla sede della società, Daria si è messa in viaggio e a un incrocio consulta la carta topografica, in ufficio l’avvocato cerca Doria, lo scontro all’università e la sparatoria, la fuga di Mark, Mark nel bar dove telefona e poi all’aeroporto). Un intervallo dopo l’introduzione del tema, con la telefonata di Daria all’avvocato e l’episodio di Ballister (i personaggi del “saloon” e la scoperta dei ragazzi disadattati), e si giunge all’in­ contro dei due giovani. Non è casuale la tentazione che si ha di parlare più che dell’incontro di Mark e di Daria dell’incontro di “Lilly 7” con una vecchia Buick. L’immagine, suggerita dal film, evoca la presenza dominante della macchina: anzi, di due macchi­ 4

La musica è composta ed eseguita, tra i tanti, da The Pink Floyd, The Kalei­ doscope, Jerry Garcia e The Grateful Dead. Di Giammatteo non approfon­ disce qui più di tanto — accenna, suggerisce appena — l’importanza della colonna sonora in Zabriskie Point, così come in tutto il cinema di Antonioni: dalle musiche di Giovanni Fusco per i primi lungometraggi (da Cronaca di un amore a L’avventura) ai “silenzi assordanti” di La notte, dagli inquietanti “rumori” di L’eclisse (si pensi al finale) alle composizioni elettroniche di Vit­ torio Gelmetti per LI deserto rosso. \n.d.c.\

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ne che, diversamente da quelle in mano al potere, sono piccole e fragili. Il “gioco” di Mark e Daria nel deserto — lui a volteggiare come un clown, lei a tremare e nascondersi — occupa circa dieci minuti di proiezione, è più lungo perfino dell’altra sequenza cen­ trale di Zabriskie, la scena d’amore, che dura poco più di sette minuti (un’ora e 45 minuti è la durata complessiva del film). In principio, le due macchine si muovono per conto proprio, “Lilly 7” sorvola un treno, l’automobile avanza nel deserto, avvolta per un attimo dal silenzio. Il primo contatto avviene quando Daria si ferma e attinge acqua per il radiatore da un ser­ batoio giallo al ciglio della strada. Ripartita la Buick, comincia la danza dell’aereo sull’automobile in corsa. Cinque passaggi a bas­ sa quota compie Mark. Il secondo, lunghissimo, è visto dall’aereo che vola sul centro della strada, da una parte e dall’altra delle stri­ sce bianche che la dividono.5 Dopo il quarto, Daria scende, si butta a terra, mentre “Lilly 7” ritorna e, dondolando come un uccello che sbatta le ali, le passa sopra a pochi centimetri. La ragazza si rialza, traccia con le mani sulla sabbia solchi che dovrebbero comporre una parola d’insulto, illeggibile.6 Ritorna5

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Fu girando questa inquadratura che accadde un incidente in cui rischiò di perdere la vista un aiuto. Per le riprese dall’alto si era utilizzato l’autentico “Lilly 7”, aereo con il carrello retrattile ma con una cabina di pilotaggio trop­ po alta per poter piazzare la macchina da presa e consentirle di girare verso il basso senza avere in campo il muso dell’apparecchio. Quest’ultima esigenza consigliò ai tecnici di cambiare aereo per le riprese dei sorvoli a bassa quota dell’automobile di Daria. Se ne trovò uno con la cabina adatta, ma che non aveva il carrello retrattile. Furono proprio le ruote del carrello a urtare il tet­ to della Buick durante la lunga discesa sulla strada. L’auto, scoperchiata, uscì di strada: dentro c’erano Daria Halprin e un aiuto alla guida, che fu trovato seriamente ferito agli occhi e al capo. Ma tutto finì bene, in pochi giorni, e la lavorazione potè essere ripresa. Di fatto, Daria scrive: «Fuck off». Antonioni, che aveva ripreso la ragazza mentre cominciava a tracciare i segni sulla sabbia, si riprometteva di girare la scena dall’aereo, come vista da Mark. Ma un curioso contrattempo glielo impedì. Tornati qualche giorno dopo sul set nel deserto, scoprirono che tut­ ta la zona, investita da un nubifragio, si era trasformata in un lago (com’era nella preistoria). Il regista dovette rinunciare, e la scritta nel film è rimasta

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to in quota, Mark lancia dal finestrino una maglietta rossa che ha trovato a bordo. Lo straccetto ondeggia a lungo nell’aria tersa pri­ ma di toccare terra, come un saluto, un messaggio, un singolare legame che s’è stabilito fra i due singolarissimi personaggi. Ripre­ sa con il tele, di spalle, Daria corre a raccogliere la maglietta e la sventola verso l’aereo. Uno stacco, e rivediamo l’automobile in corsa, dall’alto, che procede verso sinistra; intanto si riode, bassa, la musica d’una canzone. Un gruppo d’inquadrature sempre più ravvicinate ci porta quasi addosso alla Buick. A ogni stacco (rea­ listicamente), il volume della musica cresce. Nell’ultima, Daria si volta verso destra e sorride. Il “gioco”, iniziato in modo così stravagante, acquista mag­ giore semplicità. Sfocato e lontano, l’aereo di Mark che ha preso terra, e subito entra in campo, a fuoco (secondo un procedimen­ to di montaggio che, come si è notato, il regista usa sovente dal­ l’epoca del Deserto rosso), l’automobile di Daria. L’incontro si snoda rapidamente su una battuta spiritosa della ragazza, ripreso prima con obiettivi a focale corta e poi, non appena diventa più personale, con il teleobiettivo.* 7 Qui cade la risposta di Mark alla

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incompleta, inquadrata parzialmente e illeggibile. Di contrattempi simili, nel deserto, la troupe ne ebbe molti. La lavorazione fu assai più lunga e compli­ cata del previsto, sicché i costi salirono sproporzionatamente. Possiamo farne cenno, per inciso. Zabriskie Point è costato sei milioni di dollari (circa 4 miliardi di lire). A parte gli imprevisti, Antonioni sostiene che il costo salì alle stelle (sì da compromettere l’esito commerciale del film) per molti motivi concomitanti: le spese generali della Metro, che in quel periodo produceva soltanto Zabriskie, i trasporti organizzati in modo irrazionale, la pesantezza dell’apparato e le consuetudini di eccessiva “larghezza” che presiedono in USA alle riprese di un film (chiesta un giorno una comparsa, il regista se ne vide presentare trenta; fatto ricostruire l’ufficio dell’avvocato in cima all’edi­ ficio della Sunnydunes, scoprì che si erano spesi 100 mila dollari). Antonioni, se interrogato su questo punto, arriva perfino a teorizzare l’uso del teleobiettivo in funzione psicologica. Su Mark e Daria, l’intervento del tele a questo fine avviene anche nel colloquio accanto alle latrine. Ma è evi­ dente che il teleobiettivo svolge una funzione ben più ampia in Zabriskie, e che non esistono le corrispondenze meccaniche che l’autore ha pensato di adottare.

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domanda di Daria sul furto dell’aereo: «I needed to get off the ground». Li vediamo in primi piani stretti. Salgono in macchina, si allontanano mentre l’inquadratura indugia su un totale del deserto punteggiato di alberi contorti. Li ritroveremo a Zabriskie Point, nella Valle della morte. Una schermaglia di macchine è terminata con un incontro di esseri umani. I mostri sono distanti. In una civiltà meccanica, in cui anche gli uomini sono macchine, due giovani hanno supera­ to casualmente (il caso, si sa, ha una parte fondamentale nello sti­ le narrativo di Antonioni) il muro della solitudine dentro la società e, per una stravaganza in cui proprio la macchina è stata la protagonista, hanno stretto un naturale patto (è stato facilissi­ mo intendersi) contro il nemico comune. Un nemico che ha un aspetto concreto per entrambi (il boss che attende Daria a Phoe­ nix, la polizia che dà la caccia a Mark quale presunto uccisore di un agente) ma che è anche la sintesi, il marchio di un sistema sociale. Proprio perché si sono — si sentono — alleati contro di lui, Mark e Daria da questo momento agiranno solo apparentemen­ te liberi. In realtà saranno vincolati — gesto per gesto, parola per parola — dalla presenza del mostro che rifiutano. Tutto ciò che faranno sarà, di quel mostro, l’immagine capovolta.

La libertà nella preistoria come rifiuto (ingenuo) della storia Mark e Daria fanno l’amore in un deserto di borato e di gesso che dieci milioni di anni fa era cosparso di laghi (come informa, a Zabriskie Point, una lapide puntigliosamente letta dalla ragazza), dopo essere stati coinvolti in una serie di giochi che hanno qua e là — per sventura (e difetto) di Antonioni — l’aspetto sgradevole, inaspettato, del “Kitsch”. Esiste oggi una tendenza all’uso smo­ dato del sole controluce nel colore: un backlight così forte e abba­ gliante non soltanto attenuta la terrosità dei colori illuminati frontalmente o lateralmente ma, soprattutto, “fa bello”, brillan­ te, suggestivo. Luogo comune ormai, s’è appiccicato addosso 218

anche a un formalista rigoroso come Antonioni, sicché troviamo Daria più volte - pensierosa, sorridente, allegra - con i lunghi capelli aureolati dalla fascia bianco-oro del sole alle sue spalle, immagine così patinata che l’abitudine nostra di spettatori la fa subito assimilare alle foto dei rotocalchi. In controluce, la ragaz­ za parla - seduta sul bordo della terrazza accanto a Mark - delle magnifiche piante del deserto; in controluce Mark e Daria scen­ dono di corsa da un pendio, sollevando una nuvola di polvere. Sperduti in un mondo vuoto e nuovo, i due scoprono la gioia, e il controluce sarebbe certo un modo di esprimerla visivamente se tale stilema non fosse così logoro e perciò, oltreché esempio di “Kitsch”, praticamente inefficace. Qualcosa si va smagliando nel tessuto del film, non per un cedimento improvviso della fantasia ma per ragioni più profonde, che in parte abbiamo visto e in par­ te, riassumendo e coordinando il già detto, tenteremo di vedere. La scena d’amore, che si svolge in una strettoia della valle, con i colori sottotono dell’ombra, costituisce la proposta dell’unica libertà possibile in una società come l’attuale. All’interno di Zabriskie Point rappresenta il luogo del massimo distacco dal mondo in cui i personaggi vivono: distacco nello spazio (un deserto privo della più piccola presenza della vita, tranne le pian­ te ammirate da Daria, remotissimo da ogni centro abitato), distacco nel tempo, inteso allegoricamente (un salto nella prei­ storia). Quel luogo così inospitale è, proprio per questo, il para­ diso. I gesti, collegati da un montaggio morbidissimo, hanno la dolcezza d’una felicità naturale che pareva fosse perduta per sem­ pre. L’abbraccio con cui l’amore inizia - in primo piano Daria di spalle che copre quasi completamente il volto di Mark - intro­ duce, sul gesto di lei che piega la testa, un commento musicale improvvisato sulla chitarra da Jerry Garcia. Da questo punto sin quasi alla fine, le immagini e la musica (i colori opachi, gli attac­ chi sui movimenti, le angolazioni diverse su campi sempre stret­ ti, le strappate e gli indugi della chitarra) si fondono in compatta unità. Che cosa significhi, alternata all’amore di Mark e Daria, la 219

girandola dei giochi erotici in coppia e in gruppo mimati dagli attori dell’Open Theatre, non è agevole spiegare perché non ha un senso razionale. E come un secondo climax che si aggiunge al pri­ mo, e lo rafforza. Se l’amore di Mark e Daria è la proposta dell’u­ nica libertà possibile oggi, l’amore collettivo allo stato brado (ma raffinatissimo) vale per una proposta ulteriore, più radicale, da considerare doppiamente utopica e, perciò, doppiamente giusta. L’inquadratura finale dell’amore di gruppo (gli attori sparsi sui pendii e nel fondo della valle) richiama alla mente certe illustra­ zioni del Dorè per l’Inferno dantesco: immagini di orrore bene atteggiato messe al servizio di una proposta di felicità infinita­ mente libera. Da notare ancora che alla resa ritmica e figurativa di questi sette minuti di cinema contribuiscono l’inserimento di sce­ ne girate al rallentatore e l’uso degli elementi naturali (la luce, l’ombra, la polvere), l’uno e l’altro accortamente dosati. Si termi­ na, invece, con una nuova caduta nel “Kitsch”: dopo il totale del­ l’amore collettivo, un primo piano di Daria circondata da una leg­ gera nuvola di polvere, un movimento di gru a salire che scopre in campo lungo le sagome piccolissime dei due in controluce e, infi­ ne, il sole che entra “trionfalmente” in macchina, a sinistra dietro uno sperone. La chitarra di Jerry Garcia s’era taciuta sul volto di Daria, l’ultima lunga inquadratura scorre via in silenzio. Film degli opposti estremi, in una situazione sociologica estremizzata (illibertà, assoluta-libertà, assoluta e utopica; massi­ mo progresso tecnologico nell’ambito del neocapitalismo più avanzato), Zabriskie Point mostra, anche attraverso gli episodici cedimenti, quanto sia diffìcile da sostenere, per Antonioni, una condizione di conflitto esasperato, e quali pericoli comporti. Non sarebbe altrimenti comprensibile la scelta di un luogo fuori dello spazio e del tempo per ambientarvi la proposta della libertà, che è senza dubbio una scelta ingenua. E, anche, troppo facile. Far rifugiare i due giovani “esclusi” in un deserto senza vita, che evoca la preistoria (in uno spazio e in un tempo mentalmente inafferrabili), comporta sfiducia, da parte del regista, nel proprio potere di persuasione e un istintivo abbandono alle lusinghe del­ 220

la soluzione più evidente. Tutto deve essere chiaro, nelle premes­ se, negli sviluppi e nelle conclusioni. A confronto dell’Antonio ni insinuante di Blow-up (e anche Avventura, della Notte., delV Eclisse), questo sembra addirittura un altro Antonioni. Uno che ha perduto il dono della pazienza e dell’indagine. Dicendo che Zabriskie Point è un film di crisi, più che su una crisi, s’intendeva anche questo. Solo che all’inizio si collegava l’ultima esperienza alle precedenti, per scoprirvi i segni di una generica e pressoché costante incertezza, e ora bisogna aggiungere che l’incertezza attuale è di segno diverso: non nasce dal tentativo di avviare una ricerca difficile ma dallo sforzo di camuffarsi e di apparire il con­ trario di ciò che si è. Una certezza ostentata programmaticamen­ te per non sentirsi incerti. A un formalista come lui non interessava l’America in quanto tale, ma come teatro d’una storia di sentimenti che coinvolgono il destino dell’uomo. Gli è capitato, invece, per appagare la sua impazienza, di dover interessarsi proprio all’America, penetrare nelle sue strutture sociali e studiarle con un occhio critico speci­ fico. Si è appoggiato alla sociologia marcusiana e ai suggerimenti degli intellettuali americani incontrati durante i viaggi e i sopral­ luoghi, corredandoli con ciò che gli offriva l’osservazione diretta. Ha finito per trovarsi a disposizione un panorama tutto uguale, tetro, senza rilievi. Su questo ha imbastito la sua ricerca formale di sempre, e da questo è stato condizionato. Ecco un’altra ragio­ ne degli scompensi che sono stati sparsamente segnalati. Per chiarire del tutto la situazione, conviene riferirsi ai mecca­ nismi espressivi che il regista impiega. Si vedrà, così facendo, che in Zabriskie Point convivono due Antonioni; meglio, che le due facce di Antonioni (come le due facce del mostro americano che egli analizza), coesistenti da sempre nella sua personalità e nei film realizzati sinora, qui entrano in conflitto clamoroso fra loro. Citia­ mo alcuni esempi. S’è detto del compiacimento per gli sguardi “sospensivi” gettati “inside America”, allo scopo di cogliere, in una atmosfera rarefatta, il segreto d’una certa azione, d’un sentimento che affiora e si coagula in gesti e parole significative (significative 221

non nel senso immediato d’una indagine sociologica, bensì in un senso più traslato, indiretto, evocativo). S’è ricordata la sequenza che vede Daria aggirarsi fra i ragazzi disadattati di Ballister, il suo­ no arcano delle corde di un pianoforte sfondato, i volti inquietan­ ti dei minorati che aggrediscono la ragazza e la costringono a fug­ gire. Ma simili “sospensioni” ricorrono un po’ dappertutto nel film: ne troviamo nella sequenza dello scontro fra polizia e dimo­ stranti, nella sparatoria fuori dell’edifìcio delle “liberal arts”, nel­ l’arrivo dell’avvocato alla sede della società (i corridoi, le sale che attraversa), nella presentazione dell’atmosfera dell’aeroporto (gli aerei ripresi con il tele, il muso e i reattori di quel jet privato che rulla sulla pista, i personaggi che ne scendono), nelle sequenze del volo (l’euforia di Mark sopra Los Angeles; il saluto al treno sbuf­ fante sotto di lui, nel deserto), in un dialogo fra Mark e Daria sdraiati a fianco l’uno dell’altra («Would you like to go with me?», «Where?», «Wherever I’m going», «Are you really asking?», «Is that your real answer?»), nella scena d’amore (che è del resto, qua­ si per intero, una “sospensione”). Più avanti ne troveremo nella sequenza dell’addio (la partenza dell’aereo in mezzo alla polvere del deserto, anch’essa ripresa con il tele; Daria entra in campo e sorride, lieve e già “lontana”, come un fantasma) e in quella della morte di Mark dentro il suo aereo tutto ridipinto, circondato dal­ le macchine della polizia. Si parlava di compiacimento, avendo constatato l’accuratezza con cui il regista orchestra — fotografica­ mente e sonoramente — i suoi momenti evocativi. Ora si capirà meglio il motivo dell’osservazione. Sull’altro versante, il secondo Antonioni. Ciò che è costretto a essere per volontà di chiarezza. L’esempio della “irruzione” dei turisti nella Valle della morte, tra la fine della scena d’amore e l’incontro di Mark e Daria con il poliziotto, è abbastanza pro­ bante. Ma c’è di più, in Zabriskie. A volte sono contrasti, a volte sono accostamenti che costituiscono l’esatto contrario delle “sospensioni”. Nell’introduzione, alla scena nel quartiere popola­ re dove Mark abita (una stradacela fiancheggiata da un pittoresco parcheggio di auto usate) segue un composto campo lungo d’u222

na zona elegante della città (bianco-azzurro è il colore dominan­ te, una lunga e ampia rampa conduce all’edifìcio di vetro e acciaio della Sunnydunes), dove giunge la macchina dalla quale scenderà l’avvocato. Poco più avanti, Mark esce dal bar in cui il proprietario gli ha rifiutato un panino, e davanti a lui affamato campeggia un grande manifesto di pubblicità gastronomica. Ancora. Mark ha paura, cerca di fuggire, ma come? Volge lo sguardo e si trova di fronte un cartellone della United Air Lines che invita a partire per New York (le facce beate d’una famigliola di turisti compaiono dalle finestrelle della raggera che la statua della libertà ha sul capo; una scritta precisa meglio: «Let’s get away from it all»). Tra piccole e grandi, di simili sfacciate aggres­ sioni ce ne sono parecchie. Andiamo al penultimo episodio del film, il ritorno di Mark a Los Angeles. Il proprietario di “Lilly 7” ha appena detto che aveva fatto dipingere l’aereo di rosa, il colo­ re preferito dalla moglie, e vediamo per stacco l’apparecchio in volo, ridipinto e sconciato dai ragazzi. Siamo dinanzi a due opposti moduli narrativi. Mai come ora il contrasto stride, anche se analoghi stilemi comparvero in pas­ sato. Si può dire che Antonioni è sempre stato combattuto fra la sua tendenza più autentica alla evocazione (un arresto nel flusso casuale del racconto, talvolta con toni irreali, o magici, o di pura astrazione) e una debolezza - sentita come necessità - per la dichiarazione perentoria, per l’accoppiamento o la contrapposi­ zione brutale (maldestra quasi sempre) di immagini, situazioni, idee. Zabriskie approfondisce la frattura, la rende un fatto real­ mente drammatico. La debolezza, ieri la si poteva attribuire alla scarsa capacità del regista di organizzare intellettualmente la pro­ pria materia (un difetto culturale, su cui tanto si è discusso). Ma, oggi, a che cosa attribuirla?

Un addio casuale, un uccello morto, la fine del mondo Con l’aiuto del vecchietto che abita una baracca nel deserto, 223

Mark e Daria pitturano “Lilly 7”, trasformandolo in un fantasti­ co uccello. Lo coprono di scritte “irriverenti” e di simboli rivolu­ zionari: Suck Bucks, No words, No war. Così rimesso a nuovo, l’aereo sembra davvero uno «strange prehistoric bird spotted over Mojave desert with its genitals out». Poco prima, accanto alle due latrine rosse nel deserto (due, una per gli uomini, l’altra per le donne), s’erano scambiati parole d’amore in una delle più grazio­ se, compatte sequenze del film. Avevano cominciato discutendo seriamente del pericolo che il ragazzo correva, con quell’accusa di omicidio sulle spalle. Dalla tragedia incombente il dialogo era scivolato verso un tono di svagata frivolezza giovanile. Tre battu­ te in tutto («Se ti tagli i capelli, nessuno ti riconoscerà», «Perché, c’è bisogno che mi tagli i capelli?». Daria gli gira intorno, gli pas­ sa una mano sulla testa, ride: «No, stai benissimo così»), l’uso appropriato del tele sui primi piani, un momento di abbandono che dà un senso alla proposta di libertà contenuta nella prece­ dente scena d’amore. In queste tre battute, nel gesto di Daria, nel sorriso di Mark c’è tutta la libertà. E il presagio della tragedia. Mark ha deciso di partire, di prendere i suoi rischi. L’addio perché di addio si tratta, il ricorso al tele e il “distanziamento” che il regista applica a tutta la sequenza mostrano quanto egli ne sia cosciente - ripropone il tono della “sospensione”, nella migliore vena antonioniana. La spoglia semplicità delle immagini, il bru­ lichio dell’aria fra colori sfumati, il movimento lentissimo in avanti di “Lilly 7” che decolla, il sorriso tranquillo di Daria sulla destra del fotogramma (raramente lo schermo largo nel panavision è stato usato, in questo film, con maggiore sapienza compo­ sitiva) introducono un elemento di attesa che lascia aperta la stra­ da a ogni soluzione, anche alla più negativa. Noi sappiamo che cosa è accaduto finora e conosciamo i pericoli ai quali Mark si esporrà atterrando all’aeroporto di Los Angeles. La breve libertà è già terminata. L’azione successiva si sviluppa su tre linee: l’aeroporto dove la polizia attende (un altro agguato) il ritorno del giovane, l’aereo su cui vola Mark, l’automobile su cui viaggia Daria per recarsi a 224

Phoenix. Le linee s’intersecano a frammenti ora brevi ora lunghi (brevi quelli in cui i fatti sono soltanto “preparatori”, come sul­ l’aereo e in automobile, lunghi quelli dell’aeroporto, dove si tira­ no le fila dell’operazione e si conducono indagini sul furto di “Lilly 7”). Tutto confluisce nella organizzazione dell’agguato (dopo un’inquadratura dell’aereo in volo si stacca sul nero di un muro, dal quale una panoramica — con macchina bassa — porta a un bidone giallo e infine alle gambe di un poliziotto). Dilatata su una serie di inquadrature lunghe (primi piani di poliziotti, torre di controllo in allarme, movimenti di auto che si sparpagliano ai bordi della pista), l’attesa cresce d’intensità. L’aereo di Mark scen­ de. Uno stacco sonoro rompe l’atmosfera tesa, entrano in azione le sirene della polizia. Si alternano riprese da terra e dall’alto: Mark cerca di sfuggire, sbanda sulla pista, le auto si fanno sotto, un cop prende la mira sporgendosi dal finestrino (qui siamo a ter­ ra, con elementi sfocati che entrano ed escono dalle inquadratu­ re). Sparo. Cessa il rumore della sirena. Dall’alto, l’aereo immo­ bile. Nella luce grigia, circondato dalle auto, con le sue scritte e i suoi colori vivaci, come un uccello morto. Un movimento a spi­ rale che progressivamente scende, interrotto a metà e ripreso più dal basso per stringere i tempi (lo stacco non appare molto felice, il “salto” dà fastidio), porta la macchina all’altezza del finestrino di “Lilly 7”. Uno stacco ancora: dentro, Mark con la testa abban­ donata sulla cloche, privo di vita. I poliziotti si avvicinano, cauti, in silenzio. E finita davvero. L’elicottero del radiocronista si abbassa sulla pista. La terza linea dell’azione ritorna solo ora. Piante grasse, alte sul cielo. Si ode la voce del radiocronista che dà l’annuncio della conclusione dell’avventura. Attacca la musica (chitarra dolce, rit­ mata), panoramica lenta fino a scoprire Daria di spalle. Uno stac­ co: Daria, l’auto, i cactus. Un altro stacco, Daria di spalle in pia­ no medio, i capelli lunghissimi mossi dal vento. Come sul ritmo della chitarra, Daria dondola lentamente, per un tempo che sem­ bra interminabile, verde (il vestito) e castano (i capelli) su verde­ giallo (la vegetazione), nello splendore del sole. Un primo piano 225

frontale, Daria ha uno scatto, corre in macchina, mette in moto, fa manovra, si ferma, resta un attimo con gli occhi fìssi. Riparte, sulla stradetta fra i cactus. Un totale sul panorama dei cactus e del cielo chiude la sequenza. Le immagini dell’episodio sono orientate in una sola direzio­ ne, che il regista indica con tenace coerenza. Altrove altalenava fra soluzioni diverse, qui punta dritto su alcuni stilemi (uso del teleobiettivo, schiacciamento delle prospettive, lentezza nei movimenti interni delle inquadrature, colori generalmente smor­ ti tranne che per le scene di Daria — sulla quale “esploderà” il dramma —, dilatazione dei ritmi del montaggio, spersonalizzazio­ ne progressiva dei personaggi, sempre meno individuati come presenze reali e sempre più incasellati in un universo misterioso, pedine di un gioco più ampio della situazione contingente) che già aveva mostrato di prediligere e di saper trattare correttamen­ te. Il fine da raggiungere gli pare, a questo punto, ben più visibi­ le di quanto non fosse prima. La direzione nella quale ora si muo­ ve, lucidissimo, è quella d’una costruzione metaforica che assor­ ba tutti i segni sparsi lungo il corso del film. Cenni che prima risultavano incomprensibili dovrebbero ora acquistare un signifi­ cato preciso; la preoccupazione realistica che molto ha intrigato e imbarazzato Antonioni (troppo spesso fuorviandolo) dovrebbe cadere definitivamente dinanzi a questa “figura” via via più net­ ta. Ci prepariamo ad assistere e infine assistiamo alla morte di un ragazzo americano che non ha saputo (non ha potuto) conqui­ stare la sua libertà, ma questa che vediamo è soltanto la morte della libertà. La doppia sequenza finale completa il processo di metaforizzazione, esasperando (con una invenzione temeraria ma splendi­ da) il tema della sospensione sul quale si regge tutta questa parte di Zabriskie. Daria, inerpicandosi sulle strade dell’Arizona, rag­ giunge la villa del boss. Il paesaggio è verde cupo, non si scorge segno di vita. La villa, sotto il sole a picco, sembra vuota. Di fat­ to, si vedono nel salone l’avvocato e gli uomini di affari che dovrebbero finalmente mettersi d’accordo, ma non li si ode: i 226

vetri li chiudono in una gabbia insonora (l’unico rumore perce­ pibile è il tintinnio leggerissimo di un campanello giapponese). Nella piscina, tre donne con costumi di colori pacchiani (il det­ taglio delle gambe in acqua sembra un reperto anatomico). Daria entra in un anfratto buio, si abbandona sfinita contro una parete di roccia su cui scorre una cascatella, s’inzuppa tutta, scoppia a piangere. Nessun contatto è più possibile fra lei e la vita che le sta intorno, e quella che vede non è più vita. Ora scopriamo (e anche udiamo), dietro un plastico, le teste degli uomini di affari. «Se queste sono le vostre ultime condizioni...», non se ne fa nulla insomma, ma che importanza ha per questo gruppo di larve? Nemmeno vale che l’avvocato si rallegri nel vedere la ragazza che ha atteso così ansiosamente. Conta, invece, che Daria, quando scende al piano inferiore della villa, si trovi circondata da pareti di cristallo, in gabbia anche lei. Una cameriera indiana le viene incontro, sorride (il regista mostra grande sensibilità nell’impie­ go di questi elementi vieppiù “enigmatici”, la costruzione della prima parte della sequenza finale prosegue secondo ritmi impec­ cabili, non dissimili da quelli impressi alla conclusione dell’Eclis­ se}. Daria scatta, si mette a correre. In primissimo piano, seguita da una panoramica e dallo zoom (la nostra attenzione concentra­ ta su di lei sconvolta: non si può fare nulla), va verso l’auto, sale e via. Nell’aria domina la luce gialla del tramonto (attenzione, comunque: il sospetto del “Kitsch” è sempre presente). L’auto di Daria è ai piedi del costone cui è addossata la villa. La luce è ancora calata, il giallo degrada nell’ocra e nel violetto. Comincia la seconda parte del finale. L’“attacco” è come nell’2?clisse\ stanze vuote, una serie di oggetti, una rivista abbandonata su un tavolo con la copertina sollevata dal vento. Daria guarda, seduta in macchina. Nel salone della villa gli uomini di affari par­ lottano seriamente di sciocchezze, le loro immagini ci giungono un poco alterate perché riprese dal basso, attraverso il cristallo su cui posa il plastico. Mentre il parlottìo continua, ecco la visione, “insensata” e brevissima, della villa che salta in aria. Primo piano di Daria che si volta, ha gli occhi sbarrati. Accarezza la maglietta 227

rossa che Mark le aveva gettato dall’aereo. Scende. La villa in totale, scura ormai, un blocco inerte e inutile contro una monta­ gna. Daria guarda. Una esplosione spezza, con fragore assordante, la tensione. La villa salta in aria, si alza nel cielo un fumo nerissimo che prende la forma di un fungo atomico (la luce abbagliante del lampione che chiudeva la sequenza inanimata dell’Eclisse era come una deflagrazione atomica). Altre esplosioni seguono la prima, mol­ te, succedentisi con insistenza rabbiosa. Ma sono sempre la stes­ sa esplosione, riveduta da angoli diversi, con obiettivi di varia lunghezza focale, rallentata e no.8 Il fragore si ripete ogni volta. Una pausa, sul fùmo nero. Dettagli del fuoco che si è sprigiona­ to dallo scoppio, il rosso occupa tutto lo schermo. Una musica elettronica si sovrappone al rumore, mentre s’inizia la sequenza della distruzione — fortemente rallentata — dagli oggetti della vil­ la.9 Tutto vola per l’aria, ma ogni cosa si muove leggermente,

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La sequenza dell’esplosione fu girata con 17 macchine da presa, di vari tipi, piazzate a diverse distanze dalla villa (alcune in casematte) e tutte collegate a una specie di “centrale di tiro”. Montavano obiettivi che andavano dai gran­ dangoli ai tele molto forti, e giravano a varie velocità (quasi tutte, comunque, al rallentatore, anche assai spinto). La villa da distruggere fu costruita — con materiali “veri” — a poca distanza dalla villa abitata, su uno sperone del tutto simile a quello su cui sorge l’altra. Alcune macchine erano telecomandate, altre vennero messe in moto dagli operatori alcuni secondi prima dello scop­ pio per avere essi il tempo di mettersi al riparo nelle trincee. Non si poteva, evidentemente, ripetere l’esplosione. L’effetto del fungo atomico fu ottenuto mischiando benzina all’esplosivo preparato dagli artificieri.

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La sequenza della distruzione degli oggetti fu realizzata con speciali macchi­ ne per riprese scientifiche e militari (“High Speed Cameras”), che consento­ no una velocità di scorrimento di 2500-3000 fotogrammi al secondo. La grossa difficoltà fu quella della illuminazione che, data la velocità di scorri­ mento, doveva essere estremamente intensa, affinché la pellicola a colori s’impressionasse. Un’altra difficoltà fu quella dell’esplosione che, lanciando gli oggetti verso l’alto, li faceva uscire troppo rapidamente dal campo visivo. La prima fu superata piazzando gli oggetti (la libreria, il salotto, il frigorifero, ecc.) nel deserto in pieno sole, sistemando una imponente batteria di proiet­ tori dalla parte opposta del sole (per annullare l’ombra) e posando decine di metri quadrati di carta riflettente tutt’intorno al luogo della ripresa. La secon-

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ondeggiando. Esplode e vola una libreria, salta in aria un televi­ sore e i pezzi galleggiano nello spazio, scoppia un frigorifero e gli alimenti vengono avanti dondolando come meteoriti o astronavi (un pollo, un’aragosta, una bottiglia), compaiono sospesi nell’az­ zurro del cielo libri, giornali, tavoli e sedie da giardino, e ancora libri che si vanno sfogliando (torna alla mente un altro finale di film: il libro bruciato che si ricompone sfogliandosi, grazie alla marcia indietro della pellicola, nel Don Chisciotte di Pabst. Un richiamo figurativo emerso dalla memoria per mostrare - non inutilmente, forse — quale abisso esista fra la concezione della cul­ tura in un mondo che ancora credeva a certi valori e l’opinione che di questi valori ha un regista contemporaneo. Trentasette anni dividono i due film). Dalla prima esplosione sonora all’ulti­ ma inquadratura della sequenza sono trascorsi cinque minuti. Un minuto ancora, e Zabriskie Point è finito. Daria ha sulle lab­ bra un incerto sorriso. Si volta, sale in auto. Ripresa nuovamente con il tele, la vecchia Buick si allontana fra i cactus rossastri in controluce. Una lenta panoramica si ferma sul cerchio bianco del sole che tramonta. Sotto, nella valle, un colore sporco e cupo, molto simile al nero. L’annientamento mentale del mondo - il furore ultimo del­ l’insofferenza e della disperazione - fìssa la metafora nella forma definitiva. L’America siamo, o saremo, noi. Ma Antonioni, con questa metafora della libertà impossibile, s’interessa a noi, a ognuno, assai più che alla società (la quale è, in ogni caso, la nostra di domani). L’impossibilità radicale, contro cui si sono battuti Mark (soccombendo) e Daria (immaginando di ribellar­ si), sfocia in un esito di assoluto pessimismo. Il sole che tramon­ da venne aggirata ponendo alle spalle degli oggetti un tubo che emetteva un fortissimo getto di aria compressa, in direzione della macchina da presa, al momento dell’esplosione. Alcuni oggetti furono ripresi, ma le inquadrature successivamente scartate in sede di montaggio. Così avvenne per un’automo­ bile, oggetto certo indispensabile per il discorso antonioniano. Ma l’automo­ bile si sbriciola troppo rapidamente perché anche una “high speed camera” ne possa registrare l’esplosione.

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ta è l’ultimo sole che si vede sulla terra. Mai, tuttavia, Antonioni aveva concluso un film con un gesto di ribellione, sia pure vana. Gli altri finali erano segni di resa, davanti a una natura indiffe­ rente o ai prodotti (ostili) dell’uomo: un’alba che suggella un fal­ limento nAXAvventura, un parco in cui si perde il dolore di due esseri umani per La notte, gli oggetti dell’Eclisse, una fabbrica in un paesaggio desolato per II deserto rosso, un prato verde in cui scompare addirittura l’uomo, per Blow-up. Con Zabriskie Point Antonioni ha constatato che non esisto­ no forme efficaci di ribellione per sfuggire alla presa della mac­ china sociale e dell’egoismo individuale. Altrove, per quanto scet­ tico, riusciva ancora a intravedere una speranza. Qui non spera più, e tenta persino di spiegarne (fin troppo minuziosamente) la ragione. Eppure — con una invenzione che potrà sembrare assur­ da ma di cui nessuno negherà il valore — si ribella. La ribellione non porta a nulla, finisce con se stessa, e su un vago sorriso di donna, davanti alla consueta natura indifferente. Ma l’eco di quella rabbia rimane, influenzando l’atteggiamento che lo spet­ tatore assume verso il significato finale del film. Si tratta, tutto sommato, di insoddisfazione. Ora che s’è scontrato frontalmen­ te con l’impossibilità di vivere (e ne ha fornito un ritratto solo in apparenza sociologico), il regista rivela le insufficienze della sua ideologia, aperta e anche sottile, ma incompleta e come rattrap­ pita intorno ad alcune convinzioni discutibili. La ribellione mentale, prodotto di un individualismo che pare senza sbocchi, rappresenta per lui il fatto nuovo. Ma la confina pur sempre al di qua d’ogni possibilità di sviluppo della persona­ lità umana. Scoprire il riflesso della fine del mondo nella dispe­ rata conclusione dell’avventura di un uomo e una donna, e gri­ dare il proprio rifiuto dell’annientamento, equivale probabil­ mente a un ricorso alle uniche energie che ancora si ritengano disponibili, quelle irrazionali. Antonioni conferma di essere affa­ scinato dal mistero delle cose (la sua tecnica della sospensione, dell’attesa, del rendere come impalpabili, ingiustificabili, le azio­ ni) e, insieme, rivela che questo mistero comincia a opprimerlo 230

oltre il sopportabile: cerca di penetrare dentro le cose e, alla fine, di scardinarle, prendendo una posizione netta. Dal contrasto fra le sue due facce (mai come ora evidente) nasce questo film di cri­ si. Dovendo rispondere alla domanda posta in principio (se Antonioni possa essere incluso tra quei formalisti che - come dice Lukacs - meglio dei realisti giungono ai problemi fonda­ mentali della nostra epoca), propenderemmo per il sì, con qual­ che esitazione però, dopo Zabriskie Point. Che certi problemi fondamentali li abbia toccati, con i film precedenti e anche con questo, non pare esservi dubbio. Come non v’è dubbio sul fatto che un formalista possa giungere a tan­ to. Tuttavia, occorre non dimenticare i cedimenti cui il formali­ smo antonioniano dà origine, e, soprattutto, le ingenuità che ne derivano. L’insoddisfazione che prende talvolta lo spettatore è motivata non solo dalle “banalità” contenute in alcune sequenze ma anche dal sospetto che un simile formalismo (il quale, a esem­ pio, impiega il sole in controluce per esprimere felicità e il colore nero, qui spesso ricorrente, per sottolineare l’incombere della morte) riposi su più di un equivoco. E allora: le magnifiche “illu­ minazioni” sono sufficienti per dare una base durevole alla ricer­ ca antonioniana in questo periodo di crisi? Quando si vede che uno stesso procedimento tecnico (diciamo: l’uso del teleobietti­ vo) può servire sia a far lievitare un incontro fra i due giovani (la scena accanto alle latrine) o la loro separazione (il decollo dell’ae­ reo) sia per presentare schiacciata, repulsiva, una realtà urbana (come all’inizio, quando Mark e Morty vanno all’università), il dubbio è legittimo. E vero che il ricordo di un particolare anche minuscolo (di ricordi così se ne hanno parecchi, riandando a Zabriskie Point) è capace di annullare d’incanto ogni dubbio, tanto grande sembra la sua forza evocativa: qui ne affiora uno al quale non s’era mai accennato, il dettaglio d’una mano alzata per chiedere la parola, durante il meeting degli studenti, che rappre­ senta come una pausa (il segno d’uno stupore senza motivo) nel­ la disperante confusione del dibattito. Basta anche questo, se si vuole. Perché Antonioni, questo è. 231

Non chiedere al formalista ragione del suo formalismo Abbiamo sempre nelle orecchie la litania dei sociologi. Quando diciamo che l’individualista Antonioni si trova in crisi, e scopria­ mo le contraddizioni fra la natura profonda d’una personalità come la sua e la volontà che alla natura si sovrappone, sappiamo che cosa obiettano i sociologi: il regista, chiuso nella gabbia di ferro d’una concezione limitativa e “interiore”, non ha mezzi per penetrare nel tessuto delle cose, e non riesce ad afferrare i nessi fra il comportamento degli individui e le motivazioni storico-sociali delle loro azioni (così, il suo quadro è per forza di cose incom­ pleto. I pupazzi rimangono pupazzi, senza che ne sappia il per­ ché). L’obiezione è giusta, ma non va rivolta ad Antonioni. Accusa­ re un individualista di essere tale è come accusare un negro di essere negro. Sta accadendo, però, che il regista avverta sempre di più il peso (e l’esattezza astratta) dell’accusa, e ne sia ferito come da una colpa infamante. Reagisce scompostamente (Zabriskie Point è la prova). Cerca a modo suo di adeguarsi alle esigenze altrui, che intuisce giustificate, e di uscire dalla sua pelle. Se Antonioni sta sbagliando (come si può supporre), sbaglia per questo. Se la tecnica della “sospensione” non ha alcun rapporto con la tecnica dell’accostamento e della contrapposizione (che è tecnica razionalizzante, enunciativa come una diretta presa di posizione, mentre l’altra è una tecnica evocativa, indiretta), le due diffìcilmente possono convivere nello stesso autore e dare risultati di pari efficacia. Più probabilmente, nello scontro tende­ ranno ad annullarsi a vicenda, banalizzandosi, e l’autore si sentirà sdoppiato e infelice. Finirà che non saprà, così continuando, dove rifugiarsi. E la situazione dell’Antonioni di oggi. Ma un formalista ha altre risorse, e altre doti da coltivare. I suoi personaggi e i suoi paesaggi esistono in quanto sono ordina­ ti in una struttura linguistica che, nel momento stesso in cui è messa in piedi, acquista un valore preponderante, assoluto. Gli 232

elementi del racconto, immersi nella struttura, ne vengono total­ mente assorbiti (immersione e assorbimento sono concetti che definiscono, tecnicamente, ogni formalismo). Antonioni mostra, tendenzialmente, le cose e gli esseri umani avvolti dall’alone del­ la sfocatura, dell’appiattimento, del rallentamento. Fa loro assu­ mere un aspetto “lontano” e vago. Ciò, tuttavia, non sarebbe ancora nulla (sarebbe soltanto un artificio, o un gioco) se lonta­ nanza e vaghezza non fossero i segni distintivi della struttura nel­ la quale sono inseriti. Giacché solo a questo punto si comprende che il racconto così strutturato non è un racconto (perché, dun­ que, volergli attribuire un significato razionale?) ma una descri­ zione, di tipo particolare. Allora, niente Daria e Mark come ribelli o “esclusi” ma “presenze” o parti di una struttura che li eli­ mina come dati fìsici e li trasforma. In pupazzi? Anche, perché sarebbe assurdo dimenticare il senso razionale dell’operazione (gli uomini, in una società di neocapitalismo, diventano fantocci alienati), ma non solo questo. La forma che Antonioni imprime al film — a tutti i suoi film, anche a Zabriskie Point, che pure è il più incerto — ha la parvenza di un oggetto. Bello, levigato, morbido, eppure cosparso di minutissime crepe, di vuoti. Un oggetto lustro — prodotto raffi­ nato della civiltà da cui nasce — ma anche un oggetto inquietan­ te. L’ambivalenza non va attribuita al contrasto fra le due tecni­ che che coesistono ma alla forma generale che il regista ha dato all’oggetto. Il deserto (il deserto della convivenza ammucchiata nelle città, e il deserto della totale solitudine a Zabriskie Point), i colori di tono basso (i sabbia, i neri sporchi, i bianchi lattiginosi, i rossastri, gli azzurrini, i violetti appannati) qua e là spezzati da irruzioni di tinte vive per far risaltare meglio la tonalità generale, l’appiattimento delle prospettive accoppiato al rallentamento del ritmo, le connessioni fluide tra i singoli segmenti linguistici, la riduzione delle figure umane a elementi della natura, la compres­ sione dei sentimenti (della psicologia) in gesti elementari (che non sono tuttavia semplici come parrebbe ma che testimoniano invece d’una sottilissima pretesa di sublimazione), tutto questo 233

concorre alla costruzione di un oggetto che si presenta unitario — nei casi migliori — all’attenzione dell’osservatore. Si capisce, ora, come il dire che Zabriskie Point costituisce un’altra meditazione sul destino dell’uomo sia in un certo senso un errore. Perché già l’usare un’espressione del genere suona sto­ nato e, riferendola ad Antonioni creatore di oggetti (di forme, di una forma), enfatico, un poco ridicolo. Un oggetto non medita né sul destino dell’uomo né su quello dell’America. E una sem­ plice esistenza, nella quale non ci si può introdurre forzandone la struttura con i ferri della sociologia. Il discorso sociologico (ideo­ logico, razionale) interviene soltanto dopo l’osservazione, che deve rimanere, al primo e unico grado, analitica. Accertato e descritto che sia l’oggetto, si può vedere che cosa significa oggi per noi, tra noi. A un formalista non si deve chiedere la ragione del suo formalismo. Così, all’oggetto prodotto da un formalista sarebbe illecito chiedere di “parlare”, di mettersi in comunicazio­ ne razionale (esprimibile in concetti) con noi. E la sua pura pre­ senza che comunica. Queste riflessioni, ovvie, non avrebbero scopo se non si fosse constatato — un’altra volta — che Antonioni, subendo l’influenza dei suoi critici e della cultura di cui è partecipe (cultura che non sa dominare da formalista), ha ceduto al bisogno (alla volontà, alla velleità) di essere esplicito, ideologicamente preciso. Allo stes­ so modo, non avrebbe avuto senso seguirlo per la strada che ci ha indicato (perciò distinguendo, dentro l’opera, l’esplicito e l’im­ plicito, la “sospensione” e i contrasti, il “Kitsch” subito e il “Kit­ sch” giudicato) se non si fosse saputo che qui bisognava giunge­ re, e che ogni distinzione interna sarebbe stata cancellata per lasciar posto alla distinzione decisiva fra le opere-“prese di posi­ zione” e gli oggetti formali. Con ciò, non abbiamo ovviamente potuto restituire ad Antonioni la sua integrità di formalista, né far sparire i suoi errori (il dramma del regista continua, le sirene della sociologia lo attraggono ancora, le insufficienze culturali rimangono). Zabriskie Point resta quello che è, un oggetto lace­ rato, un oggetto “improprio”. 234

Per assurdo (ma non poi tanto), dovendo dire se questo oggetto abbia un significato per noi, e tornando nuovamente a Lukacs, diremmo senza più esitazioni che significa qualcosa pro­ prio perché si presenta così lacerato. Un oggetto che ci costringe a impegnarci davanti alla sua “improprietà” coincide probabil­ mente con qualche tendenza profonda della nostra vita in società. La metafora della libertà impossibile sarebbe soltanto una enunciazione (gratuita) se non fosse calata in una struttura sconnessa. L’oggetto sconnesso ha un significato. Naturalmente, proprio perché oggetto, forma.10 («Bianco e Nero», XXXI, n. 5-6, maggio-giugno 1970, pp. 28-48)

10 Fernaldo Di Giammatteo si è occupato in numerose occasioni del cinema di Antonioni. Basti qui ricordare il Michelangelo Antonioni scritto in collabora­ zione con G. TlNAZZI, edito dal Centro Universitario Cinematografico di Padova (1961) e il saggio Michelangelo Antonioni, in C. Di CARLO (a cura di), Michelangelo Antonioni, Roma, Edizioni Bianco e Nero, 1964, pp. 275-302, e il volume. Tra le recensioni si veda la tutt’altro che scontata critica a Crona­ ca di un amore, in «Bianco e Nero», a. XII, n. 4, aprile 1951, pp. 73-77. \n.d.c^\

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Nota biografica di Luca Pasquale

Fernaldo Di Giammatteo nasce a Torino il 15 novembre 1922. Dopo il liceo classico, si iscrive alla Facoltà di Lettere, ma è costretto a interrompere gli studi a causa della guerra. Alcuni suoi interventi sono però già apparsi nella rubrica di corrispondenza coi lettori che il “nostromo” Francesco Pasinetti teneva sulla rivi­ sta “di divulgazione cinematografica” «Cinema», fondata nel 1936. Gli esordi non sono privi di difficoltà e incertezze: in alcu­ ne occasioni vengono pubblicati sulla rivista suoi interessanti (soprattutto se si considera la giovane età) interventi (n. 63 del 10 febbraio 1939; n. 65 del 10 marzo 1939; n. 74 del 25 luglio 1939), altre volte sono respinti articoli ritenuti ancora troppo “modesti” (n. 89 del 10 marzo 1940 e n. 99, 10 agosto 1940). La sua collaborazione con «Cinema» si limita comunque alla “vec­ chia serie”, fino cioè all’interruzione del 1943. Prigioniero dei tedeschi, dopo un anno riesce a fuggire e tor­ na avventurosamente a Torino, unendosi al movimento partigia­ no. Dal 1946 inizia a collaborate, come cronista, con il quotidia­ no «La Stampa», diventando giornalista professionista nel novembre del 1947. E sicuramente questo “tirocinio giornalistico” è fondamentale per la formazione professionale e culturale del critico, che apprende un metodo semplice e diretto, privo di fastidiosi autocompiacimenti, arrivando a una sorta di personale - come l’ha definita in una lettera a Claver Salizzato del 15 giu­ gno 1983 - «saggistica “comunicativa”: scientifica e rigorosa d’impianto, leggibile (di lingua comune, non di metalinguaggio) di struttura». «Non sopporto chi non sa scrivere, chi scrive oscu­ ro, chi usa gerghi, chi non si prende la briga di spiegarsi sempli­ cemente, chi non racconta pianamente le storie del film [...]. Amo chi ha l’umiltà di trascrivere in termini accessibili anche i problemi critici più ardui», aveva già affermato in una lettera a Roberto Nepoti del 30 maggio 1977. 239

Nell’immediato dopoguerra abbiamo la prima vera e propria pubblicazione: l’antologia Essenza delfilm, numero d’esordio del­ la collana «Intermezzo», edita nel 1947 dalla torinese II drammaSET. Di Giammatteo, oltre a curare la raccolta, contribuisce con un breve saggio: Ilfilm a colori non è ancora nato. Nel 1948, con l’articolo La censura cinematografica (apparso su «Bianco e Nero» nel giugno 1948), ha inizio la collaborazione (che si protrarrà fino al 1976, anno della “controversia Visconti”) con la rivista nata nel gennaio del 1937 e divenuta subito sede di interessanti contributi teorici e di approfondimento della storia del cinema. Nel 1951 inizia a collaborare con la RAI, ideando e curando cicli di trasmissioni radiofoniche e televisive sul cinema e, nel febbraio del 1952, fonda a Torino, in collaborazione con Gio­ vanni Conso (il futuro ministro della Giustizia) la rivista «Rasse­ gna del film», mensile di cultura cinematografica. Il periodico ha vita breve (l’ultimo numero è dell’ottobre del 1954), ma “lascia il segno” per il singolare gusto sociologico che caratterizza certe scelte e certi approcci alle “questioni cinematografiche”, con attenzione al cinema commerciale, allora bandito dalle riviste specializzate. Nell’articolo Cinquantanni non sono passati (n. 1 del febbraio 1952) il critico attacca il progresso indiscutibile che ha coinvolto il cinema, ma che «ha avuto un ritmo affannoso, caotico: una tappa era appena raggiunta che già la si rimetteva in discussione. Decine di pseudo-estetiche sono state formulate, una più imprecisa e insoddisfacente dell’altra. Non v’è mai stata una duratura coincidenza fra cultura e cinema». Poi, nel 1953, il trasferimento a Roma, dove inizia a collabo­ rate più assiduamente con «Bianco e Nero», al tempo diretta da Luigi Chiarini, e con «Il Ponte», rivista di politica e letteratura fondata e diretta da Piero Calamandrei: più di cinquanta scritti (tra articoli, saggi, recensioni, etc.) sono apparsi sulle pagine di quest’ultima, da Ifestival cinematografici di Cannes e di Venezia (n. 12 del dicembre 1953) alla “politica per i mass media” di II giorno in cui lo spettatore morrà (n. 1 del 31 gennaio 1975), pas­ sando per una serie di “cronache cinematografiche” — A John 240

Huston l’onore delle armi (n. 4 dell’aprile 1957), Eric von Stroheim, moralista incomodo (n. 7 del luglio 1957), Iproblemi di Fellini (n. 3 del marzo 1963), etc. — e di fondamentali “ritratti dal vero”, come Luchino Visconti (n. 8-9 dell’agosto-settembre 1958) e Federico Fellini, il mago (n. 3 del marzo 1960). E sempre negli anni cinquanta, e sempre per le Edizioni di Bianco e Nero, che traduce (e introduce in Italia) tre testi classici di teoria cinematografica: Documentario e realtà di John Grierson (1950), Teoria e tecnica della sceneggiatura di John Howard Lawson ( 1951 ) e IIfilm, evoluzione ed essenza di un’arte nuova di Béla Balàzs (1952): scritti che rimarranno sempre un punto di riferi­ mento e una salda base per la futura attività del critico. Nel 1957 pubblica, presso le Edizioni 5 Lune di Roma e in col­ laborazione con Giambattista Cavallaro, Un leone d’oro — Storia segreta della XVIIMostra d’Arte Cinematografica di Venezia, sorta di resoconto critico, di polemica “cronistoria” della Mostra di quel­ l’anno (gli autori facevano parte della commissione artistica). Per la torinese ERI-RAI redige, sempre nel 1957, Come nasce un film — che studia i vari passaggi che portano alla nascita di un film, approfondendo in particolare il lavoro dello sceneggiatore — e, nel I960, Cinema e costume — interessante parallelismo tra sto­ ria del cinema ed evoluzione della società, con un occhio di riguardo al fenomeno del “divismo”. Progetta per Bianco e Nero il «Filmlexicon degli autori e delle opere», di cui patrocina e coor­ dina i primi sette volumi (dal 1958 al 1967), fino al completa­ mento della sezione degli autori, mentre nel 1963 raccoglie per Marsilio, in Cinema per un anno, le trascrizioni di una serie di (piuttosto polemiche) trasmissioni radiofoniche. Inizia poi una sporadica collaborazione con l’“antica” «Rivista del Cinematografo», in cui si discute, in particolare dal 1966, oltre che di cinema, anche di teatro, televisione e radio. Ricor­ diamo, tra gli altri, l’articolo su Spencer Tracy Una faccia da con­ tadino per un attore collerico (n. 7 del luglio 1967), la relazione svolta durante l’incontro — tenuto a Roma nel gennaio 1968 — sul tema «Cinema e gioventù» Limiti e responsabilità degli autori nel­ 241

la tematica dell’operafilmica (n. 2-3 del febbraio-marzo 1968) e il tenero ricordo dell’amico Rossellini II prestigio eia burocrazia (n. 7-8 del 1977). Nel 1969 Di Giammatteo diventa vicepresidente del Centro Sperimentale di Cinematografìa e conserva tale carica fino al 1975 (presidente è il regista Roberto Rossellini, della cui umanità e impegno il critico torinese porterà sempre un caro ricordo e al quale dedicherà nel 1990 un volume monografico, edito da La Nuova Italia). Nel 1971 si afferma in seno alla rivista «Bianco e Nero» la ten­ denza a dedicare numeri speciali ad autori e argomenti diversi: fascicoli con carattere monografico, coordinati, sempre fino al 1975, da Ammannati, Di Giammatteo e Rossellini. Il critico ha curato personalmente gli an ti conformisti Lo scandalo Pasolini (n. 1-4 del gennaio-aprile 1976) e La controversia Visconti (n. 9-12 del settembre-dicembre 1976), per il quale ha scritto la premessa e la prima parte (Ilprimo Visconti — La storia egli “eroi del male”}. Nel gennaio del 1974, su invito di Sergio Piccioni, direttore della casa editrice La Nuova Italia, Di Giammatteo fonda la col­ lana di monografie su registi «Il Castoro Cinema», di cui rimane direttore fino al 2002. La formula appare innovativa: ogni volu­ me contiene un’intervista (o una raccolta di dichiarazioni), una “bio-monografìa”, filmografia e note bibliografiche. La “rivista”, divenuta in breve uno strumento fondamentale per avvicinarsi a un particolare autore, viene così a colmare un vuoto nell’editoria italiana e una vera e propria schiera di critici (anche giovani e alle prime armi) — da Giorgio Tinazzi (suo è il primo volume, dedi­ cato ad Antonioni) ad Adelio Ferrero, da Enrico Ghezzi ad Aldo Grasso, da Francesco Casetti a Sandro Bernardi, da Alberto Cre­ spi a Stefano Della Casa — si è messa alla prova avventurandosi nei “castori”. E dietro ogni numero s’intravede sempre, forte pre­ senza, l’ombra del critico, attento e severo — come si (auto)defìnirà in una lettera a Enrico Giacovelli dell’8 marzo 1991 — «cire­ neo che cerca di rendere omogeneo il complesso dei castori e di rispettare per quanto possibile la chiarezza e la lingua italiana». 242

L’attività del critico in TV e alla radio continua: nel corso degli anni sessanta e settanta lavora per la Televisione della Sviz­ zera italiana, per la quale realizza molti documentari (tra cui il noto Pier Paolo Pasolini: le confessioni di un poeta) e progetta e rea­ lizza programmi radiofonici per le reti RAI, in particolare per RAI International. Nel libro Televisione, potere, riforma (La Nuo­ va Italia, 1974), Di Giammatteo affronta argomenti come la cen­ sura, il “regime televisivo”, l’informazione distorta, la “dittatura” esercitata dal governo sul maggiore dei mass media. Negli anni ottanta continuano le collaborazioni, da «Cult Movie» — bimestrale di cultura e politica cinematografica pubbli­ cato tra il 1980 e il 1984 — al noto «Segnocinema», avviato nel settembre del 1981 e diretto da Mario Calderale. Nel 1982 fonda la Mediateca Regionale Toscana e ne è diret­ tore fino al 1993, una tappa basilare della sua attività di organiz­ zatore di cultura. Si dedica anche all’insegnamento — attività che non ha mai veramente sentito “sua”: «[...] odio la didattica [...] bisogna imparare e non insegnare [...] non è il mio mestiere [...] mi sembra di andare contro natura [...]», ha affermato in un’in­ tervista nel 2003 —, tenendo corsi di aggiornamento e lezioni in varie città italiane (da Firenze a Napoli, dall’istituto Gramsci di Bologna all’Università di Reggio Emilia). E soprattutto arrivano opere di rilievo, come il primo (nella storia della critica italiana) Dizionario universale del cinema in due volumi (uno per i film, l’altro per la tecnica e gli autori), edito dagli Editori Riuniti nel 1984, poi aggiornato, tra il 1994 e il 1996, in collaborazione con Cristina Bragaglia {Nuovo dizionario universale del cinemd). Cura, per le Edizioni Oberon, il “dizionario di buone maniere e di cat­ tivi pensieri” di Marlene Dietrich II diavolo è donna (1984) e scri­ ve, sempre per gli Editori Riuniti, il breve La terza età del cinema (1985), ricco di intuizioni e ragionamenti sul cinema del passato e quello degli anni ottanta. In occasione del centenario del cine­ ma, Di Giammatteo pubblica, per i Tascabili Economici New­ ton, tre volumetti, vere e proprie “enciclopedie de poche"’. Cento grandifilm, Cento grandi attori e Cento grandi registi. E ancora, e 243

sempre in collaborazione con Bragaglia, il Dizionario del cinema italiano (Editori Riuniti, 1994) e il Dizionario del cinema ameri­ cano (Editori Riuniti, 1996), “riduzioni desunte” e ampliate dal Dizionario universale. A questi contributi, premiati da una grande diffusione pres­ so i lettori, occorre aggiungere opere di rilievo quali Lo sguardo inquieto — Storia del cinema italiano (1940-1990) (La Nuova Ita­ lia, 1994), l’ancora più completo Storia del cinema (Marsilio, 1998), Milestones — I trenta film che hanno segnato la storia del cinema (UTET, 1998), in cui il critico trova un “compromesso con la storia” e sceglie i “suoi trenta capolavori”, e il saggio (pun­ tuale sintesi di storia del cinema) Cinema, società, storia, nell’Enciclopedia italiana — Eredità del Novecento, edita nel 2001 dall’i­ stituto della Enciclopedia Italiana di Giovanni Treccani. Nello stesso anno cura per RAI Educational il programma Filmonamour — Lezioni di cinema (14 puntate imperniate sull’analisi del linguaggio fìlmico, sui problemi tecnici del film, etc.). E infine la collaborazione con Bruno Mondadori, che nel 2002 pubblica Lntroduzione al cinema — Con un dizionario delle tecniche, dei generi e del linguaggio (divenuto l’anno dopo Che cose il cinema), approfondita analisi di quel fenomeno culturale e artistico che è stato (ed è) il cinema, e nel 2005 il Dizionario dei capolavori del cinema — scritto ancora una volta insieme a Cristi­ na Bragaglia -, una scelta dei film più significativi (gli “eventicapolavori”), disposti in ordine cronologico a formare una ideale e quasi implicita storia del cinema. Fernaldo Di Giammatteo muore a Bologna il 30 gennaio 2005, a 82 anni.

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Indice dei film A qualcuno piace caldo {Some Like It Hot, 1959) di Billy Wilder All’Ovest niente di nuovo {All Quiet on the Western Front, 1930) di Lewis Milestone Alleluja! {Hallelujah!, 1929) di King Vidor Alta stagione {High Season, 1987) di Clare Peploe America {id., 1924) di David Wark Griffith L’amore è una cosa meravigliosa {Love Is a Many-Splendored Thing, 1955) di Henry King L’amore senza ma... {Eamour avec des si..., 1962) di Claude Lelouch L’angelo azzurro {Der blaue Engel, 1930) di Josef von Sternberg L’anno scorso a Marienbad {L’année demière à Marienbad, 1961) di Alain Resnais L’appartamento {The Apartment, 1960) di Billy Wilder Arditi dell’aria {TestPilot, 1938) di Victor Fleming L’asso nella manica {The Big Carnival o Ace in the Hole, 1951) di Billy Wilder Atlantide {Die Herrin von Atlantis, 1932) di Georg Wilhelm Pabst Au hasardBalthazar {id, 1966) di Robert Bresson ^avventura (1959) di Michelangelo Antonioni Ben Hur {id, 1925) di Fred Niblo Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni Caccia al ladro {To Catch a Thief, 1955) di Alfred Hitchcock Il cantante pazzo {The Singing Fool, 1928) di Lloyd Bacon Il cavallo d’acciaio {The Iron Horse, 1924) di John Ford Chariot soldato {Shoulder Arms, 1918) di Charlie Chaplin I cinque segreti del deserto {Five Graves to Cairo, 1943) di Billy Wilder Ciò che è proprio dell’uomo {Lepropre de l’homme, 1960) di Claude Lelou­ ch Il circo {The Circus, 1928) di Charlie Chaplin La cittadella {The Citadel, 1938) di King Vidor Colpo difulmine {Ball ofFire, 1942) di Howard Hawks Come in uno specchio {Sdsom i en spegel, 1961) di Ingmar Bergman La congiura degli innocenti {The Trouble with Harry, 1955) di Alfred Hit­ chcock Il congresso si diverte {Der Kongress tanzt, 1931) di Erich Charell Crisi {Abwege, 1928) di Georg Wilhelm Pabst Cronaca di un amore (1950) di Michelangelo Antonioni 245

Dall’alto in basso (Du haut en bas, 1933) di Georg Wilhelm Pabst La dalia azzurra (The Blue Dahlia, 1946) di George Marshall Il deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni Diario di una donna perduta (Dos Tagebuch einer Verlorenen, 1929) di Georg Wilhelm Pabst Idieci comandamenti (The Ten Commandments, 1923) di Cecil Blount DeMille Don Chisciotte (Don Quichotte, 1933) di Georg Wilhelm Pabst La donna che visse due volte (Vertigo, 1958) di Alfred Hitchcock La donna di Parigi (A Woman ofParis, 1923) di Charlie Chaplin La donna è uno spettacolo (La femme spectacle, 1963) di Claude Lelouch Due cuori a tempo di valzer (Zwei Herzen in 3/4 Takt, 1930) di Géza von Bolvary Duello al sole (Duel in the Sun, 1946) di King Vidor L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni Un eroe moderno (A Modem Hero, 1934) di Georg Wilhelm Pabst La febbre dell’oro (The Gold Rush, 1925) di Charlie Chaplin Femmine folli (Foolish Wives, 1922) di Erich von Stroheim La fiamma delpeccato (Double Indemnity, 1944) di Billy Wilder Ifidanzati della morte (Los novios de la muerte, 1938) di Romolo Marcellini La finestra sul cortile (Rear Window, 1954) di Alfred Hitchcock Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960) di Jean-Luc Godard La folla ( The Crowd, 1928) di King Vidor La fontana della vergine (Jungfrukdllan, 1959) di Ingmar Bergman La fonte meravigliosa (The Fountainhead, 1949) di King Vidor Frutto proibito (The Major and the Minor, 1942) di Billy Wilder Il gabinetto del dottor Caligari (Das Kabinett des Dr. Caligari, 1920) di Robert Wiene Georgy svegliati (Georgy Girl, 1966) di Silvio Narizzano Giorni perduti (The Lost Week-end, 1945) di Billy Wilder Gloria (WhatPrice Glory?, 1926) di Raoul Walsh Il grande dittatore (The Great Dictator, 1940) di Charlie Chaplin La grande guerra (1959) di Mario Monicelli La grande parata (The Big Parade, 1925) di King Vidor Journey’s End (id., 1930) di James Whale Luci d’inverno (Nattvardgàstema, 1962) di Ingmar Bergman Luci della città (City Lights, 1931) di Charlie Chaplin Luci della ribalta (Limelight, 1952) di Charlie Chaplin

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Lulu — Il vaso di Pandora {Die Buchse von Pandora, 1928) di Georg Wilhelm Pabst M—Il mostro di Dusseldorf {M, 1931 ) di Fritz Lang Mademoiselle Docteur {id., 1936) di Georg Wilhelm Pabst Il male del secolo {Le mal du siede, 1953) di Claude Lelouch Metropolis {id., 1927) di Fritz Lang Il milione {Le Million, 1931) di René Clair Il molto onorevole Mr. Pulham {H. M. Pulham, Esq., 1941) di King Vidor Il monello {The Kid, 1921) di Charlie Chaplin Monsieur Verdoux {id, 1947) di Charlie Chaplin La nascita di una nazione {The Birth ofa Nation, 1915) di David Wark Griffith I nibelunghi {Die Nibelungen, 1924) di Fritz Lang Ninotchka {id, 1939) di Ernst Lubitsch Nodo alla gola o Cocktailper un cadavere {The Rope, 1958) di Alfred Hit­ chcock Nostro pane quotidiano {Our Daily Bread, 1934) di King Vidor Notorius, Ramante perduta {Notorious, 1946) di Alfred Hitchcock La notte (I960) di Michelangelo Antonioni L’opera da tre soldi {Die Dreigroschenoper, 1931) di Georg Wilhelm Pabst Operazione golden car {Les grands moments, 1965) di Claude Lelouch Orizzonti di gloria {Paths of Glory, 1957) di Stanley Kubrick 8 e 1I2 (1963) di Federico Fellini Paris, Texas {id., 1984) di Wim Wenders Ilpiccolo Caffè {Le petit Café, 1930) di Ludwig Berger Ipionieri {The CoveredWagon, 1923) di James Cruze Ilposto dellefragole {Smultronstdllet, 1957) di Ingmar Bergman Psyco {Psycho, I960) di Alfred Hitchcock Quando la moglie è in vacanza {The Seven Year Itch, 1955) di Billy Wilder / quattro cavalieri dell’Apocalisse {The Four Horsemen of the Apocalypse, 1921) di Rex Ingram Quick Millions {id, 1931) di Rowland Brown Una ragazza e quattro mitra {Unefide et desfusils, 1964) di Claude Lelou­ ch La ragazza senza storia {Abschied von Gestem, 1966) di Alexander Kluge Rapacità {Greed, 1924) di Erich von Stroheim Un rea New York {A King in New York, 1957) di Charlie Chaplin Sabotatori {Saboteur, 1942) di Alfred Hitchcock Sabrina {id., 1954) di Billy Wilder 247

Scala a chiocciola (The Spiral Staircase, 1945) di Robert Siodmak Scandalo intemazionale (A Foreign Affair, 1948) di Billy Wilder Il settimo sigillo (Detsjunde inseglet, 1956) di Ingmar Bergman Il silenzio (Tystnaden, 1963) di Ingmar Bergman Il sipario strappato (Torn Curtain, 1966) di Alfred Hitchcock Sorrisi di una notte d’estate (Sommamattens leende, 1955) di Ingmar Berg­ man Il sospetto (Suspicion, 1941) di Alfred Hitchcock Sotto i tetti di Parigi (Sous les toits de Paris, 1930) di Rene Clair Stalag 17 — L’inferno dei vivi (Stalag 17, 1953) di Billy Wilder Tempi moderni (Modern Times, 1936) di Charlie Chaplin La tragedia della miniera (Kameradshaft, 1931) di Georg Wilhelm Pabst I tre della stazione di servizio (Die Drei von der Tankstelle, 1930) di Wilhelm Thiele L’ultimo miliardario (Le dernier milliardaire, 1934) di Rene Clair Uomini di domenica (Menschen am Sonntag, 1929) di Robert Siodmak Un uomo, una donna (Un homme etunefemme, 1966) di Claude Lelouch Il valzer dell’imperatore (The Emperor Waltz, 1948) di Billy Wilder Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950) di Billy Wilder Vivere per vivere (Vivre pour vivre, 1967) di Claude Lelouch La voce del silenzio (1953) di Georg Wilhelm Pabst Il volto (Ansiktet, 1958) di Ingmar Bergman Westfront 1918 (id, 1930) di Georg Wilhelm Pabst Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni

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Il cinema e le idee Già pubblicati: L’ombra scura della religione di Stefano Socci Sequenze di gola: cinema e cibo di Cristina Bragaglia Il sesso al cinema di Daniela Pecchioni Cinema gay, l’ennesimo genere di Roberto Schinardi Il corpo sconvolto di Ermelinda M. Campani La grazia e le maschere del demonio di Elio Girlanda L’allusione e la tecnica di Fernaldo di Giammatteo

Finito di stampare nel mese di febbraio 2006 da Grafiche Cappelli, Osmannoro, Firenze