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Italian Pages 268 Year 2001
La sinistra alla Costituente Per una storia del dibattito istituzionale
Chiara Giorgi edi
Carocci
- sa costmuente i
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STUDI STORICI CAROCCI / 7
A Emanuelita, mia madre
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Chiara Giorgi
La sinistra alla Costituente Per una storia del dibattito istituzionale
@ Carocci editore
L’immagine in copertina è tratta dall’archivio storico della Fondazione Basso, Fondo Basso
Questo volume è stato pubblicato con il contributo dell’Università di Bologna
1? edizione, febbraio 2001
© copyright 2001 by Carocci editore S.p.A., Roma
Finito di stampare nel febbraio 2001 dalle Arti Grafiche Editoriali srl, Urbino ISBN 88-430-1770-5
Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.
Indice
Prefazione
Tavola delle abbreviazioni
I.
Come nasce l'Assemblea costituente
DI 2. Va: 1.4. IS:
Il crollo del fascismo: continuità e rottura La questione costituente nella storia d’Italia
IC6% LT. 1.8.
ro. IO. Lar,
2.
ZI 2.2.
I5
Il decreto luogotenenziale n. 151 Il PCI e l’obiettivo della Costituente
Un importante contributo alla redazione della Carta costituzionale: la Commissione Forti A sinistra una nuova idea delle istituzioni Il carattere della nuova Costituzione e la discussione sui diritti politici Le relazioni “Organi e funzioni governative e amministrative” e “Organi e funzioni legislative” L'Assemblea costituente I luoghi di elaborazione Il Comitato di redazione
Biografie. La formazione politica e intellettuale di Terracini, Basso, Laconi e Crisafulli, protagonisti alla Costituente
63
Introduzione Umberto Terracini
63 65
LA SINISTRA
Didi
255:
ALLA
COSTITUENTE
Lelio Basso Renzo Laconi
103
Vezio Crisafulli
IIO
Il contributo di Lelio Basso ai lavori della 1 Sottocommissione dell’ Assemblea costituente
I4I
L’ordinamento giuridico-istituzionale nella elaborazione di Basso I presupposti teorici dell’articolo 3 L'articolo 49 Le altre proposte di Basso nel dibattito alla
83
I4I 145 158
I Sottocommissione: le libertà civili, il diritto 3.5.
di sciopero, l’utilità sociale del diritto di proprietà Conclusioni
166 172
Il contributo di Umberto Terracini e Renzo Laconi alla II Sottocommissione
183
Il Partito comunista di fronte al nuovo ordinamento istituzionale
183
I presupposti ideologici dell'impegno costituzionale di Terracini
192
Terracini al dibattito costituzionale in adunanza plenaria Il dibattito nella I1 Sottocommissione: potere legislativo e referendum La discussione sul potere esecutivo nella prima sezione della I1 Sottocommissione
199 203 218
Laconi nel dibattito sull’organizzazione del potere giudiziario La questione della Corte costituzionale Conclusioni
227
233 238
Bibliografia
251
Indice dei nomi
257
Prefazione
Un autorevole studioso delle istituzioni e della cultura politica francese ha osservato che fare «la storia intellettuale del politico» non equivale a respingere «l'approccio della storia sociale» o a preferire al «popolo silenzioso e sofferente» lo studio «dei grandi autori o degli oratori parlamentari». Significa piuttosto collocare «i dati della storia sociale» in una «storia più concettuale». Rivendicando la globalità della «storia intellettuale del politico» egli ha sottolineato il tentativo di «cogliere il punto di intersezione tra la lotta degli uomini e le loro concezioni del mondo». Sulla scorta di queste premesse, la storia del dibattito costituzionale sembra fornire materia particolarmente rilevante nell’ambito di una ricerca storica incentrata su una ricognizione di tipo politico e intellettuale capace di individuare nel contesto culturale la ricostruzione del conflitto sociale. Il presente lavoro si muove all’interno di questo orizzonte, proponendosi sia di ricostruire la vicenda intellettuale e politica di alcuni protagonisti del dibattito costituzionale repubblicano; sia di tratteggiare il ruolo da loro svolto all’interno dei luoghi deputati alla scrittura della Legge fondamentale. L'analisi delle varie sedi in cui di fatto si svolsero i lavori costituzionali (in modo pertinente definite le «piccole officine»? della Costituzione italiana) permette di osservare direttamente l'orientamento seguito dai costituenti presi in considerazione, in tutte le sue articolazioni e mutamenti, in relazione tanto agli altri protagonisti presenti in Assemblea, quanto alla loro specifica cultura di riferimento. La ricostruzione delle biografie culturali e politiche di Basso, Terracini, Laconi e Crisafulli, serve allora in tale contesto ad illuminare l’attività da essi
svolta nelle Sottocommissioni costituzionali e a comprendere più analiticamente il percorso attraverso il quale figure storiche così diverse e apparentemente lontane da tematiche di natura istituzionale (con l’e-
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
sclusione di Crisafulli che, sebbene non partecipe in prima linea ai lavori di redazione della Carta costituzionale, fu presente nell’importante Commissione Forti del 1945 e indirettamente influente per tutto il
periodo costituente proprio grazie alla sua competenza di giurista) siano giunte ad avere una parte rilevante nella composizione del testo fondativo del nuovo Stato all'indomani della caduta del fascismo. A sua volta l’individuazione di questi percorsi intellettuali e politici costituisce un elemento essenziale per l’analisi della Costituzione italiana, come notò uno degli storici più sensibili alla contestualizzazione sociale del periodo in cui la Legge fondamentale nacque, rifacendosi ad un classico studio sulle vicende politiche inglesi nel Settecento. «Certo, occorrerebbe — e questa è una indicazione di ricerca — studiare realmente, di nuovo col metodo di Namier, la composizione della Costituente: provenienza sociale, formazione cul-
turale, rapporti di rappresentanza reale di interessi e di posizioni “culturali”, cognizioni tecniche, riferimenti politici e giuridici specifici ecc.»4. Proprio a partire da questa indicazione, il quadro entro il quale sarà tematizzata l’attività di preparazione della Costituzione si allargherà al di là del contesto storico-sociale, per comprendere sia i luoghi istituzionali in cui si articolò la Costituente per i lavori ufficiali, sia i soggetti politici e le radici culturali che sottesero e orientarono l’attività dei costituenti. Di conseguenza ci si sforzerà anche di individuare le li-
nee di fondo della vicenda di una generazione, segnata da esperienze molteplici e tuttavia pet molti aspetti riconducibile a motivi comuni al di là dell’appartenenza ad un partito o ad un movimento politico. La ricerca si svilupperà in parte sulla scia tracciata da un prece-
dente studio, oramai classico nel settore, mossosi sulla base della premessa secondo cui andava superata la diffidenza nei confronti dei «temi istituzionali» da parte di quella «letteratura marxista» che aveva considerato la questione del rapporto marxismo e Stato, o in una luce eminentemente politico-ideologica (legata alla cosiddetta «malattia riformista»), o in tono minore rispetto alla prevalenza del
terreno economico (inteso come — secondo anche una male intesa lettura del nesso struttura-sovrastruttura — l’elemento fondamentale dei processi storici se non addirittura l’unica realtà decisiva). Da un lato sul piano metodologico l’attenzione alla sfera politicoistituzionale appare indispensabile ad un adeguato svolgimento della ricerca storico-sociale nella sua complessità: in questo senso è stato giustamente osservato come il «rinviare alla natura delle articolazioni sociali e alla loro storia come fattori determinanti nell’analisi delle istituzioni» non debba comunque «far sottovalutare le capacità che le
IO
PREFAZIONE
istituzioni hanno di plasmare a loro volta i comportamenti e le mentalità, e quindi le necessità di conoscerle nei loro profili formali»‘. Dall'altro lato la consapevolezza di tale effettualità delle istituzioni appare operante sul terreno stesso della vicenda qui ricostruita, nel senso che guida i costituenti presi in esame ad una considerazione del terreno statale più attenta rispetto alla vulgata marxista. Come
si vedrà, una valutazione estremamente
accurata dell’ambito
giuridico, della sfera per dir così sovrastrutturale, riconducibile ad una nozione dialettica della realtà storica nei suoi processi e prodotti concreti, costituisce un tratto comune all’attività dei quattro costituenti.
L'analisi dell'esperienza di Basso, Terracini, Laconi e Crisafulli pone in primo luogo problemi di tipo squisitamente teorico, attinenti alla questione dell’interazione fra la cultura marxista e l'elemento statuale (questioni sulle quali hanno fornito contributi significativi dibattiti come quello apertosi sulle tesi di Norberto Bobbio a metà degli anni Settanta, e una serie di studi tra i quali si ricordano qui quelli di Umberto Cerroni e Danilo Zolo7). Accanto a tali problematiche, si rivela indispensabile affrontare questioni di ordine storico-fattuale, concernenti la ricostruzione “sul campo” della assidua partecipazione di appartenenti alla cultura di sinistra al dibattito costituzionale. In particolare Basso e Terracini hanno dato voce ad una lettura non univoca del terreno della norma, del diritto e dello Stato bor-
ghesi, in grado di tenere insieme all’elemento negativo tradizionale, che identificava la dimensione della statualità direttamente con lo strumento repressivo della classe dominante, una considerazione più favorevole. Un simile giudizio, articolato e non riduttivo, derivante da una analisi capace di valutare il contesto esistente nelle sue proprie contraddizioni, ha portato per un verso ad una valorizzazione degli elementi ritenuti oggettivamente progressivi, in particolare a fronte dell’esperienza fascista, del diritto formale borghese. Di qui una particolare attenzione al Titolo sui rapporti civili della Carta costituzionale, alla natura
sovraordinata
delle norme
della Costituzione,
al
carattere relativamente rigido di quest’ultima, alla chiara fissazione di tutta una serie di garanzie giuridiche, aventi validità universale ‘e dimensione di assoluta certezza, tale da assicurare il superamento di ogni possibile arbitrio e incursione autoritaria. D'altra parte da questa medesima considerazione dialettica della realtà storica è derivata una approfondita riflessione sui presupposti della
cittadinanza,
arricchita
di una
II
connotazione
sociale
nuova
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
rispetto all’elaborazione del periodo liberale precedente — connessa ad una valutazione positiva, promozionale ed educativa del diritto, ora considerato nel suo legame con la società civile — e tale da porre un forte accento sull’inserimento dei nuovi diritti sociali all’interno della Legge fondamentale. Da qui ad esempio l'impegno di questi costituenti per affermare il valore normativo delle nuove disposizioni programmatiche. Sembra poi importante sottolineare che, in relazione alle singole materie e ai capitoli dell'ordinamento costituzionale su cui si incentrò l’attenzione di Basso, Terracini, Laconi e Crisafulli (da quelli concer-
nenti le libertà civili e politiche, a quelli relativi all’articolazione dei tre poteri fondamentali nei loro specifici organi ed istituti tecnici), l’analisi andrà condotta in riferimento non soltanto al lascito della cultura socialista e del movimento operaio, bensì anche alle particolari sensibilità, legate a personali percorsi di vita e di studio, nonché al comune retroterra da cui diversi membri della Costituente trassero spunto. Per fare solo qualche esempio, se la centralità dell’elemento partito nel suo «nuovo compito di pedagogia della società» *era un dato derivante dalla cultura operaia marxista, essa era altrettanto legata alla intensa attività di partito vissuta dai costituenti esaminati, riconducibile anche ad una comune elaborazione critica nei confronti del sistema liberale nazionale di inizio secolo. Generalmente poi tale rilevanza rispondeva agli sviluppi conosciuti dalla dottrina giuridicopolitica tra le due guerre, in connessione — come si avrà modo di argomentare — con i mutamenti prodottisi sul terreno materiale e in ambito istituzionale in specie durante gli anni Trenta. Lo stesso si può dire della incidenza dei diritti sociali. Se la joro accentuazione rispondeva alla critica marxiana nei confronti delle costruzioni giuridiche individualistiche ed astratte (al noto tema della distinzione tra bourgeois e citoyen), essa traeva altresì spunto dai progressi raggiunti nella elaborazione dei nuovi modelli di assetto ed integrazione statuali, di nuovo e attivo intervento pubblico nella vita collettiva nazionale. Alla luce di quest’ultima osservazione varrà la pena, nel caso di Basso, di analizzare eventuali connessioni tra la sua ricerca e altre linee di pensiero attente ai problemi della configurazione di un moderno Parteienstaat e alla concettualizzazione della libertà, non più in una chiave eminentemente negativa, tipica di un modello istituzionale liberale, bensì in rapporto ad una organizzazione democratica dello Stato. SI tratterà in questo senso di rintracciare elementi di vicinanza e di di-
segnare linee di confronto tra il costituente socialista e autori, da lui stesso espressamente citati, quali Franz Neumann e Hans Kelsen.
T2,
PREFAZIONE
Lo stesso si può dire per gli interventi di Terracini e Laconi nella IT Sottocommissione della Costituente. Nella discussione sul corpora-
tivismo (in relazione all’organizzazione della seconda Camera) o nel dibattito sul ruolo del primo ministro e del capo dello Stato, per un verso è possibile rintracciare caratteristiche riferibili alla cultura politica dei comunisti, quali ad esempio la tradizionale sensibilità del marxismo nei confronti di degenerazioni bonapartistiche o la considerazione del terreno politico-partitico come luogo di superamento della particolarità; per l’altro verso sono riconoscibili elementi propri della discussione generale sul rafforzamento dello Stato di diritto e sull’organizzazione dei poteri, peraltro ancora «ferma — come è stato osservato — nelle sabbie mobili del dibattito degli anni Trenta fra fautori del dirigismo governativo e difensori delle libertà delle assemblee rappresentative»?.
E allora alla luce di tali considerazioni che ci si sforzerà di documentare la complessità dell’intreccio tra la cultura dei costituenti presi in esame e il confronto politico-giuridico dipanatosi in Italia e in Europa all'indomani della Seconda guerra mondiale, prendendo in esame il dibattito costituzionale nelle sue sedi principali, dalla Commissione Forti, al Comitato di redazione o dei “Diciotto”, alla Commissione dei Settantacinque nelle sue prime due Sottocommissioni.
Al termine di questo lavoro desidero ringraziare quanti mi sono stati vicini nel tempo della sua elaborazione. In modo particolare Mariuccia Salvati, relatrice della tesi di laurea dalla quale questa ricerca ha
avuto avvio. Il suo incoraggiamento ha permesso l’ulteriore lavoro di indagine e sistematizzazione: senza i suoi insegnamenti e senza il suo
costante sostegno questo libro non avrebbe potuto prender forma. Gustavo Gozzi ha nutrito generosa fiducia in questo studio fin dai suoi primi passi: gli sono profondamente grata per la determinazione con la quale ha voluto che il lavoro giungesse a compimento. Guido Melis mi ha fornito indicazioni rivelatesi molto preziose nel corso della ricerca e insegnamenti che vanno ben al di là del suo specifico ambito. Sono riconoscente a Maurizio Degl’Innocenti, sotto la cui guida svolgo la mia attività di dottorato, per il paziente sostegno fornitomi anche in questo lavoro. Ringrazio Sandro Mezzadra e Pier Paolo Poggio per la competente lettura di queste pagine e i puntuali suggerimenti che l'hanno accompagnata. Lucia Zannino, Maurizio Locusta e tutto il personale della Fondazione Basso hanno agevolato sempre la mia ricerca, offrendomi il loro affettuoso aiuto. I consigli degli amici e “colleghi” Luca Baldissara,
Sandro
Bellassai, Giovanna
13
Cordibella,
Giancarlo
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
Monina, sono stati assai utili nella stesura finale del testo, e a tutti
loro va la mia profonda riconoscenza. Ciò che Alberto, Paolo e Patrizia hanno infine significato per il mio lavoro, e non solo per esso, va ben oltre i risultati consegnati a queste pagine.
Grata sono anche alle mie più care amiche per il loro sensibile ascolto e deciso supporto. Note 1. Così P. Rosanvallon, La rivoluzione dell'uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Anabasi, Milano 1994, p. 20. 2. E. Cheli, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, Il Mulino, Bologna 1978, p. 38.
3. A questo proposito è stato ricordato (in Costituzione e Stato pluriclasse. Intervista a M. S. Giannini, a cura di D. Corradini, in “Prassi e teoria”, n. 6, 1980, p. 279) come «quasi tutti i giuspubblicisti che non erano nell’ Assemblea costituente» furono comunque mobilitati «come consiglieri o di uffici studi dei partiti, o di singoli, o di gruppi di membri dell'Assemblea costituente». Inoltre vale anche per Crisafulli quanto osservato da U. De Siervo (Introduzione, in Id. [a cura di], Scelte della Costituente e cultura giuridica. Costituzione italiana e modelli stranieri, vol. 1, Il Mulino, Bologna 1980, p. 17), secondo il quale in generale nei lavori costituzionali, «il ruolo
dei giuristi non potrà che essere visto nella loro posizione rispetto ai rispettivi partiti». Tuttavia, sempre
secondo la testimonianza
di M. S. Giannini
(Costituzione e
Stato pluriclasse, cit., p. 278), ciò che mancò fu un lavoro di ordinamento delle «proposte da fare nell’ambito dell'Assemblea costituente» da parte di gruppi di «giuristi e politici responsabili», che avrebbero dovuto «creare, nel seno dei partiti, dei gruppi di studio composti di membri» di quest’ultima, al fine di avere un reale «collegamento con l’esterno», al momento del dibattito costituzionale. Va poi ricordato che qui si allude alla Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, istituita nel 1945 sulla scia di quella nata nel 1944, sempre presieduta da Forti, e relativa alla Riforma dell’amministrazione (sulla quale cfr. da ultimo G. Focardi, La “Commissione per la riforma dell’Amministrazione” 1944/47: stato delle fonti, in “Le Carte e la Storia”, a. II, n. 2, 1997). 4. G. Quazza, Resistenza e storia d'Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Feltrinelli, Milano 1976, p. 442; lo studio di Namier in questione è il volume The Structure of Politics at the Accession of George III, London 1937. s. Cfr. l'ampia ricostruzione storica e concettuale di P_ Petta, Ideologie costituzionali della sinistra italiana (1892-1974), Savelli, Roma 1975, in particolare pp. 9 ss. 6. Così R. Romanelli, Introduzione, in Id. (a cura di), Storia dello Stato italiano dall'Unità a oggi, Donzelli, Roma 1995, p. XIV. 7. Cfr. AA.VV., Il marxismo e lo Stato. Il dibattito aperto nella sinistra italiana sulle tesi di Norberto Bobbio, in nuova serie dei Quaderni di “MondOperaio”, 1976; di U. Cerroni, ad esempio Marx e :! diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972; di D. Zolo, I marxisti e lo Stato, Il Saggiatore, Milano 1977. 8. Così M. Salvati, I/ partito nell’elaborazione dei socialisti, in C. Franceschini, S. Guerrieri, G. Monina (a cura di), Le idee costituzionali della Resistenza, Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 1997, p. 264. 9. P. Pombeni, La Costituente. Un problema storico-politico, Il Mulino, Bologna
1995, p. 137.
14
Tavola delle abbreviazioni
AC
Assemblea costituente
AC A
Atti dell'Assemblea costituente. Discussioni in aula
ACE
Atti dell'Assemblea costituente. Commissione per la Costituzione. Adunanze plenarie
ACS
Archivio centrale dello Stato
ARG
Archivio del Partito comunista italiano, Fondazione Istituto Gramsci
ASCD
Archivio storico della Camera dei deputati
CRE
Casellario politico centrale
INSG
Commissione per la Costituzione. Prima Sottocommissione
I SC
Commissione per la Costituzione. Seconda Sottocommissione
TSDS
Tribunale speciale per la difesa dello Stato
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I
Come nasce l’Assemblea costituente
Per meglio cogliere il ruolo che alcuni esponenti della sinistra ebbero nella redazione del testo costituzionale può essere utile prendere le mosse dai luoghi storico-istituzionali in cui di fatto nacque la Costituzione italiana: in particolare dalle varie commissioni di cui si dotò l'Assemblea costituente (dalla Commissione dei Settantacinque al Comitato dei “Diciotto”, o di redazione, incaricati di preparare il testo costituzionale, al dibattito che si svolse in aula nel marzo del 1947 al momento della presentazione in assemblea del progetto generale di Costituzione). Importanti, al fine di individuare le linee di fondo del contributo dato da talune personalità della sinistra di formazione marzista alla strutturazione del nuovo assetto democratico, sono anche le sedi preparatorie della Assemblea costi-
tuente. In modo particolare si terrà conto della Commissione Forti, isti-
tuita allo scopo di predisporre studi specifici attinenti alla riorganizzazione dello Stato, della quale merita interesse la 1 Sottocommissione, relativa alla materia costituzionale. È in questi ambiti che occorre indagare per trovare riscontro dell’ampio dibattito che si svolse a proposito della forma e della sostanza da dare al nuovo Stato, a partire dal suo ordinamento giuridico, e per dar conto di quelle che furono le concezioni fondamentali dell'assetto costituzionale nascente, espresse da alcuni protagonisti del processo di fondazione della Repubblica italiana. Prima di addentrarsi nella descrizione e nell’analisi dei luoghi specifici politico-istituzionali, è tuttavia necessario inquadrare brevemente la situazione italiana negli anni del crollo del fascismo e della fine del secondo conflitto mondiale, individuando in questo modo le circostanze e gli orientamenti che condizioneranno la fase successiva, quella cioè della redazione del testo costituzionale.
17
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
LI Il crollo del fascismo: continuità e rottura
Il periodo immediatamente successivo al crollo del regime fascista' si prospetta come un momento contrassegnato da due spinte contrapposte. I giorni trascorsi tra la fine del governo Mussolini e l’armistizio dell’8 settembre furono infatti caratterizzati sia dalla attività dei neonati comitati unitari antifascisti sia dalla politica restaurativa del governo Badoglio (e del re medesimo, intento a «ritardare la formazione del governo voluto dal comitato» e a «mantenere nell’ambito statutario,
la soluzione
relativa
alla riforma
della costituzione» ?),
assertore di una linea di “continuità” rispetto al sistema precedente e a quanto di esso sopravviveva presso l'apparato burocratico-ammi-
nistrativo, e deciso oppositore della legittimità delle iniziative dei partiti3. Proprio questi ultimi, interpretando le trasformazioni maturate all’interno della nuova società di massa e dando risposta alle esigenze sia di una più larga e nuova rappresentanza politica e istituzionale, sia di una reale partecipazione e tutela sociale, si accingevano a rappresentare il fondamento del nuovo assetto democratico, «lo strumento necessario per incamminare una società civile ed economica a divenire anche società politica»; il «perno — stesso — delle costituzioni democratiche» 4. In questo contesto (nel quale sempre più forte e intessuta di spinte eterogenee era la pressione dal basso, ed ineludibile una politica capace di misurarsi con una dimensione “allargata” del potere politico-giuridico), si comprende come il tentativo da parte della «vecchia generazione» antifascista di restaurare l’assetto istituzionale prefascista incontrasse numerose difficoltà °. Due dei momenti fondamentali che mettono in luce la volontà
del governo regio di sanzionare la continuità di un assetto monarchico e conservatore, attorno al quale per altro sopravvivevano «parte dei ceti dirigenti finallora pienamente integrati nel regime fascista»7, furono il 2 agosto e l’8 settembre 1943. Il 2 agosto è la data di emanazione del R.D.L. n. 705, con il quale si scioglieva la Camera dei fasci e delle corporazioni, e si rinviavano le elezioni per la nuova Camera a quattro mesi dalla fine della guerra. Il decreto rappresentava la volontà di attuare in Italia un «programma restauratore massimo», mantenendo lo Statuto albertino e negando ogni possibilità di fondazione e legittimazione popolare di un nuovo
assetto istituzionale. L'8 settembre, con la firma dell’armisti-
zio e il passaggio dalla parte degli angloamericani, Vittorio Emanuele I e Badoglio garantivano l’immutabilità delle istituzioni,
18
I. COME
NASCE
L'ASSEMBLEA
COSTITUENTE
degli apparati burocratici ed amministrativi e della struttura sociale italiana. Con la fuga da Roma il capo del governo e il re portavano in salvo «i simboli della legittimità e della continuità dello Stato italiano nella sua tradizionale forma di potere»?, noncuranti delle richieste che provenivano dai partiti antifascisti riuniti nel CLN, relative alla formazione di un nuovo governo di unità nazionale ove le nuove strutture partitiche fossero riconosciute come i veicoli di una ricomposizione dell’assetto nazionale, nella sua stessa struttura identitaria e di una rinascita democratica dello Stato italiano. Richieste queste che esprimevano altresì la volontà di autolegittimazione — nel tessuto della società civile e soprattutto nel nuovo contesto politico-istituzionale — propria dei partiti, quali strumenti fondamentali attraverso cui di fatto veniva ad organizzarsi la sovranità popolare, tanto nella sua eterogenea e contraddittoria articolazione, quanto nella sua ridefinizione unitaria attorno a determinate scelte di indirizzo politico. Nel contesto della riorganizzazione politica antifascista e dell'immediato secondo dopoguerra, le strutture partitiche — come le lucide elaborazioni di alcuni giuristi rilevano già agli albori del periodo costituzionale e poi in sede di Costituente — apparivano «il tramite» più adatto «per giungere a portare negli organi di deliberazione politica la volontà del popolo». L'idoneità a tale compito era data dal loro presentarsi come i «portatori di determinati concetti politici generali, attorno ai quali venivano raggruppandosi i cittadini, sottratti «all’atomismo individualistico» e così resi «capaci di
intendere
gli interessi collettivi, di formare
e di esprimere
una
volontà unitaria ed infine di far valere questa volontà [...] per la determinazione degli indirizzi politici da porre a contenuto dell’azione statale» 9.
1.2 La questione costituente nella storia d’Italia Da tali eventi si comprende allora il timore che nelle classi dirigenti italiane tradizionali suscitava la questione connessa all’esercizio di un potere costituente da parte del popolo sovrano; ossia la possibilità di fondare l’assetto giuridico-istituzionale su determinate scelte di indirizzo politico compiute in seno alla società. Lo stesso Statuto albertino era nato come una carta concessa (octroyée) dal sovrano,
il quale aveva agito, senza alcuna ratifica popolare, in modo da disinnescare ogni potenzialità rivoluzionaria somigliante al modello giacobino del 1793".
19
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
Lo Statuto del 1848 si ispirava infatti ad un modello giuridico di stabile equilibrio tra l’istanza monarchica e quella parlamentare; un modello di assoluta fissità che connotava l’organizzazione stessa dei poteri, secondo un ordine naturale e prestabilito dal quale era esclusa la possibile scelta consapevole a fondamento dell’assetto statuale. Un modello quest’ultimo — quello dello Stato-persona liberale — teso a negare l’idea di una Costituzione «come frutto consapevole di scelte politiche di carattere costituente», le quali nel loro portato conflittuale avrebbero senz'altro minato la stabilità dell'ordinamento istituzionale, negando il carattere certo del diritto. E però soprattutto negli anni successivi al primo conflitto mondiale che il nodo della questione costituente si pone in tutta la sua centralità, per effetto
delle pressioni sempre più forti provenienti dall’interno della società di massa, volte alla riorganizzazione di un sistema politico nel quale ai nuovi soggetti emergenti fosse possibile esercitare la propria volontà sovrana, e operare scelte di indirizzo basilari nella determinazione del sistema giuridico-istituzionale 8. Nella risposta fascista appare d’altra parte possibile leggere un
riflesso della inadeguatezza delle classi dirigenti liberali rispetto ai problemi politici e sociali posti nel nuovo contesto nazionale. Appare cioè possibile riconoscere il segno della incapacità di queste ultime di promuovere linee di azione tese ad una redistribuzione del potere istituzionale tra tali nuove forze sociali e politiche. Non è un caso allora che proprio questo periodo crei le premesse agli eventi politico-legislativi relativi alla fase di transizione successiva al 1943. In particolare sul piano storico in questo frangente — che è poi quello degli anni della crisi dello Stato liberale e del «tentativo di passaggio ad uno Stato democratico» — si delineano i contorni del conflitto tra l’assetto liberale, nelle sue forme di legittimazione del potere politico, e le diverse soggettività sociali sempre più strette attorno alle nuove organizzazioni partitiche, nonché poste dinnanzi alla mancanza
di «una
strategia di riforme che trasformasse»
tali
organizzazioni «in “istituzioni di fatto”, in grado di trasferire allo Stato l’obbligazione politica» di cui erano divenute le «naturali recettrici» !°. Per ciò che attiene poi alla specifica vicenda del dibattito giuspubblicistico, proprio questo periodo vede emergere una nuova con-
cezione del diritto pubblico, fondata sull’esercizio del potere costituente e perciò stesso sulla centralità del partito politico. E infatti i partiti assumono un ruolo fondamentale proprio nel contesto della maturazione di una dottrina capace di rapportarsi alle modificazioni politiche ed istituzionali in corso, e di superare quella diffidenza,
20
I. COME
NASCE
L'ASSEMBLEA
COSTITUENTE
tipica del sistema liberale, nei confronti di un modello costituzionale fondato su specifiche scelte di indirizzo compiute dalle forze politiche presenti. Essi si presentano come lo strumento principale attraverso cui di fatto si esprime il soggetto del potere costituente (soggetto non più individuato pertanto nel blocco monolitico del “popolo” o della “nazione” indistinti dell’epoca della Rivoluzione francese, bensì in quel «complesso di forze organizzate che riescono a definire un indirizzo fondamentale che sta poi alla base della stessa costituzione come norma giuridica»).
Nella dottrina della Costituzione che va delineandosi negli anni a cavallo tra le due guerre, incentrata appunto sulla nuova «concezione istituzionale del partito politico»'*, e in questa misura sia premessa delle elaborazioni emerse nella fase costituzionale repubblicana, sia espressione della transizione «più ampia dallo Stato liberale di diritto allo Stato di diritto democratico e sociale», i partiti svolgono un duplice ruolo. Oltre a dare espressione e rappresentare interessi sociali diversi e conflittuali, diventano lo strumento della edificazione
del nuovo regime politico, in quanto atti ad essere «veri e propri fattori di disciplinamento e di integrazione», in un «necessario lavoro di aggregazione degli interessi, altrimenti privi di prospettive ampie e di lungo periodo» ?°. La forma-partito che va allora delineandosi, nella sua «funzione unificante e mediatrice, quindi “costituzionale”», rappresenta una novità fondamentale, che affonda le proprie radici nel contesto della «rivoluzione costituzionale operata dal fascismo» nel corso degli anni Trenta e che, pur tenendo conto del rilevante salto compiuto da un sistema fondato sulla «unicità del partito» ad uno incentrato sulla «pluralità dei partiti», mantiene «intatta la forza esplicativa dello schema» teorico su cui originariamente si fonda (relativo appunto al ruolo di mediazione tra società e Stato che il partito assume; di «“grande pedagogo” degli italiani» quale diviene il PNF negli anni del regime) nel medesimo contesto politico democratico, In tale misura allora questa concettualizzazione del partito politico, tramite il quale il popolo sovrano determina l’indirizzo politico fondamentale che tradotto sul terreno giuridico costituisce la base
unitaria del nuovo assetto politico-istituzionale, si connette strettamente alla altrettanto nuova dottrina del costituzionalismo democratico del secondo dopoguerra. E questa una dottrina — come si avrà modo di vedere più concretamente nell’analisi dedicata alla formazione intellettuale di Crisafulli — capace di teorizzare il potere costituente, mettendone insieme sia l'aspetto politico presente nella determinazione degli indirizzi e dei principi basilari di una comunità
ZI
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
nazionale; sia quello giuridico presente nella teorizzazione di un necessario disciplinamento formale, di tipo costituzionale, di tale volontà politica. La questione del potere costituente, degli strumenti in grado di dargli espressione (in questo contesto i partiti politici i quali peraltro si trovano anche a svolgere nei confronti di esso una funzione delimitativa ben precisa), e dei soggetti titolari di esso — allontanata il più possibile sul piano dell’elaborazione teorica e su quello storicomateriale nel periodo liberale — si poneva in tutta la sua centralità nel nuovo contesto resistenziale, agli albori del “periodo costituzionale provvisorio”. Ammetterne d’altra parte la rilevanza sul terreno della concettualizzazione giuridico-costituzionale e permettere concretamente l’esercizio di tale potere significava sia accogliere la possibilità di una fondazione contrattualistica del sistema politico-istituzionale (secondo però i termini di un «nuovo contrattualismo», quale quello
emergente dalle riflessioni di Mortati ?*), sia riconoscere la centralità della «intenzionale volontà umana» nel suo «potere di determinare il corso della storia costituzionale» mediante le scelte da essa compiute . Significava dunque riconoscere a tale potere la capacità di «creare quella nuova sintesi politica che non fosse semplicemente un discorso sull’organizzazione di poteri», bensì «sull’indirizzo politico [...] che doveva coordinarli verso un fine» ?4. Significava altresì — nel quadro di una storia politica che «unica fra quelle dei grandi Stati del continente europeo» non aveva conosciuto che «solo, per così dire conati di costituenti»? — gettare le premesse per una soluzione progressiva della questione democratica postasi all'indomani del Primo conflitto mondiale, nonché dare finalmente spazio alle nuove soggettività affermatesi già nella prima parte del xx secolo. Parimenti la definizione di una norma giuridica fondamentale sovraordinata rispetto alla legislazione ordinaria (come sarà la Costituzione italiana), sorta dall’esercizio dello stesso potere costituente,
nasceva dall’esigenza di tenere fermi i dati della stabilità, della coesione, dei tempi lunghi e della fissazione certa di garanzie e regole di tipo giuridico vincolanti l’intera comunità politica e l’esercizio dei poteri costituiti. In generale furono gli eventi politici e sociali succedutisi a partire dal periodo giolittiano e susseguitisi a ritmi sempre più rapidi nel corso degli anni Trenta ad innescare ampi processi di trasformazione, riverberatisi nello stesso ambito del diritto, nei muta-
menti che qui sottolineato e luce, dinnanzi sociali assunte
non a caso si verificheranno. Come è stato da più parti come anche acuti osservatori del periodo misero in a tali cambiamenti (si pensi solo alle nuove funzioni dallo Stato e al conseguente prodursi di fenomeni
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quali quelli dell’«amministrazione legislatrice», delle pianificazioni di settore,
della «“contrattualizzazione”
dei contenuti
della legge»?5),
l’idea medesima del diritto, nonché l’organizzazione concreta dell’ordinamento giuridico non potevano restare le stesse dello Stato-persona ottocentesco. L'antica e certa sovranità della legge in quanto tale, garante «assoluta e ultima di stabilità» ?7, nella quale si riduceva ogni altro elemento del diritto, lascia spazio nel nuovo contesto socio-politico alla predisposizione «di un diritto più alto, dotato di valore cogente anche per l’attività del legislatore», e capace di «condizionare e quindi contenere, orientandoli, gli sviluppi contraddittori della produzione del diritto, generati dall’eterogeneità e dalla occasionalità delle pressioni sociali che su di esso si scaricano» ?8. Di qui la transizione allo Stato democratico costituzionale; di qui la determinazione di principi costituzionali sovraordinati per mezzo dei quali si esprimono tanto comuni intenti di convivenza politica, elementi di condivisione unitaria di un determinato assetto politico; quanto istanze di tipo garantista tese a costruire spazi di preservazione di
determinati principi e regole così «consacrati in un testo non disponibile da parte degli occasionali signori della legge e delle fonti concorrenti con la legge» ?9.
1.3 Il decreto luogotenenziale n. 151 La prima risposta data dalle ricostruite forze democratiche alla volontà restauratrice manifestatasi con il citato decreto n. 705 del 2 agosto non poteva che legarsi all'esigenza di dar vita ad un nuovo governo ed assetto statale fondati sulla decisione popolare. Così nell'ordine del giorno del CLN centrale del 16 ottobre 1943 si affermava
la presenza dei partiti antifascisti, divenuta oramai fondamentale per la nascita di uno Stato democratico e si rivendicava la necessità di un governo straordinario dotato di tutti i poteri costituzionali, il quale, una volta condotta a termine la lotta di liberazione dal nazifascismo,
consultasse
il popolo intorno alla forma istituzionale da dare al
nuovo Stato 5°. È soprattutto il decreto legge luogotenenziale n. 1s1 del 25 giugno 1944 ad essere considerato da più parti un elemento di rottura
rispetto al vecchio ordine legale e a sancire, secondo quanto scritto da Calamandrei, «l’atto di nascita del nuovo ordinamento democra-
tico italiano» ovvero «il primo atto di quella ricostruzione costituzionale dalla quale doveva nascere la Repubblica italiana». Questo
decreto pertanto costituiva il fondamento di una costituzione provvi-
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soria «che doveva reggere e resse l’Italia fino alla convocazione dell’Assemblea costituente», della quale costituì il retroterra legale. Nato dal nuovo governo Bonomi, il discusso decreto n. 1s1 san-
civa la tregua istituzionale decisa con “la svolta di Salerno” ed affermava l'impegno del governo a «non compiere, fino alla convocazione dell'Assemblea costituente, atti che comunque pregiudichino la soluzione della questione istituzionale». In tal senso esso, riconosciuto come «un'ulteriore tappa nell’erosione della vecchia legalità costituzionale», affermava la grande novità di un’elezione universale dell'Assemblea ove il popolo, esercitando il proprio potere costituente, sceglieva per la prima volta in maniera autonoma la forma istituzio-
nale da dare all'Italia e la natura della norma fondamentale che avrebbe regolato il futuro assetto del paese. Gli eventi successivi al 25 giugno 1944 dimostreranno per certi versi la novità rappresentata dalla sostanza del decreto legge n. 151, dal momento che determineranno un ridimensionamento del potere costituente qui contenuto (in particolare ciò avverrà con il decreto legge n. 98 del 16 marzo 1946). Altro elemento importante che veniva affermato nel decreto n. 1s1 era l'attribuzione del potere legislativo al Consiglio dei ministri (articolo 4) fino all’entrata in vigore del nuovo Parlamento.
Entrambe le di-
sposizioni del decreto legge appena evocate dimostrano l’intreccio di elementi di rottura e di continuità rispetto al precedente ordinamento statuale da cui fu caratterizzato il “periodo costituzionale provvisorio”, destinato a consentire il passaggio in forma di continuità legale al momento costituente e al nuovo assetto istituzionale. Se infatti la convocazione di una Costituente, come si è detto, era
una novità, la funzione legislativa del governo, non a caso riaffermata ancor più a chiare lettere dalla politica involutiva successiva, divenne un’arma sempre più potente per restringere sul piano formale i poteri dell'Assemblea sovrana34. Proprio in questo senso tale decreto segna non di meno uno dei momenti decisivi di quella continuità di tipo arche istituzionale rispetto all'Italia liberale e fascista più volte richiamata nel panorama storiografico contemporaneo. Successivamente infatti alla Costituente verranno assegnati il potere legislativo in materia costituzionale, elettorale, e di approvazione dei trattati internazionali, mentre la funzione legislativa ordinaria resterà nelle mani del governo (articolo 3 del decreto n. 98). Il fatto che non si tratti di un periodo storico-politico suscettibile di un’univoca interpretazione ma caratterizzato da una costante interazione tra dinami-
che progressive ed istanze conservatrici, è dimostrato da altri importanti fattori di carattere politico-istituzionale, che vanno giudicati non esteriormente,
secondo
«astratti modelli», ma
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nel contesto
di una
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«evoluzione complessiva» (legata dunque al più generale contesto socioeconomico) del processo di reale democratizzazione 39. Da un lato infatti con il decreto n. 1s1 si affermava l'emanazione del governo dai partiti antifascisti del CLN, riconoscendo ufficialmente a questi ultimi un ruolo preminente e un rilievo costituzionle nuovo rispetto alla storia passata. Novità questa che a detta di molti avrebbe potuto giovare enormemente alla iniziale fase di ricostruzione democratica italiana se gli interessi delle forze più moderate del CLN non avessero operato per rendere poco incisivo lo stumento riformatore del CLN, avvalendosi principalmente del principio dell’unanimità in esso vigente. Dall'altro lato proprio la riduzione dei poteri di legislazione ordinaria operata sull’Assemblea costituente (con la conseguente attribuzione di questi al governo) in un periodo in cui cominciavano le grandi riforme economiche per la rinascita del paese, risultò ancor più grave proprio a fronte della componente conservatrice esistente nella compagine governativa e dinnanzi ai centri tradizionali di potere protesi alla difesa dello status quo sociale ed economico?.
D'altra parte il rilievo positivo assunto dal sistema dei partiti e il conseguente desiderio di dar vita ad un assetto politico altamente rappresentativo, insieme anche all’«esigenza di istituti idonei a mettere il governo in più diretto contatto con le aspirazioni popolari ed a cooperare con esso nelle gravi decisioni affidategli»?, trovarono spazio nella creazione della Consulta nazionale, nata nell’aprile 1945. La Consulta venne concepita come «tipica creazione di periodi transitori post-bellici, diretta ad ovviare alla carenza degli organi parlamentari» 3° in quanto essa doveva esprimere «pareri sui problemi generali e sui provvedimenti legislativi che le vengono sottoposti dal governo». Essa rappresenta parimenti un altro di quei “casi” su cui
occorre esercitare una analisi di tipo dialettico, tenendo conto che fu sia un istituto rappresentativo-parlamentare nuovo, sia l’espressione
di una soluzione più moderata rispetto ad altre e più radicali riforme istituzionali proposte in quegli anni4°. Per ciò che attiene all’aspetto innovativo della creazione della Consulta è bene dire che essa si fece oggettivamente promotrice di dibattiti rivelatisi poi influenti nei momenti successivi del processo costituente (ad esempio le discussioni sulla legge elettorale per l'Assemblea costituente o sulle modalità di nomina della commissione per la Costituzione e di quella per i trattati internazionali), rappresentando anche uno dei primi banchi di prova su cui alcuni protagonisti della storia repubblicana (ad esempio Terracini) esercitarono la propria determinazione nel costruire un assetto istituzionale di tipo democratico. E tuttavia il prevalere di una interpretazione riduttiva dei poteri della Consulta
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(solo consultivi anziché vincolanti ed incisivi sull’azione di governo come voleva lo schieramento delle sinistre) sottolinea la natura pro-
blematica — e ambigua — di questo organo. Occorre infatti tener presente che i mesi del passaggio dal primo al secondo governo Bonomi, e del successivo governo Parri, furono contrassegnati da una forte involuzione del sistema politico-sociale complessivo. Il modo stesso con cui Bonomi diede le sue dimissioni alla fine del novembre 1944 (nelle mani del luogotenente anziché, come era stato sancito precedentemente, del CLN) attesta la divergenza di interpretazioni esistente in seno alle coalizioni partitiche intorno al ruolo e al potere del CLN. L'importanza di questa struttura per la ricostruzione democratica e popolare degli apparati statali ed amministrativi si era andata sempre più manifestando negli anni della Resistenza. Se Curiel scriveva della necessità di trasformare questi comitati da semplici coalizioni di partiti politici ad organi «democratici rappresentativi»#, esprimendo in questa istanza un sentimento
comune alle forze della sinistra, lo stesso Togliatti, che pur aveva sempre dato primaria importanza all’alleanza tra i grandi partiti di massa e su questa scia considerato il CLN io strumento della politica unitaria partitica, non mancava
di compiere una parziale autocritica
relativa all’esautoramento dei comitati durante il proprio intervento al Comitato centrale del 18 settembre 1946 #. Proprio il fallimento di una serie di misure progressive dimostra che le antiche forze conservatrici non avevano cessato di condizionare la scena politica italiana, ritessendo «la trama della “rivoluzione passiva”, che sempre aveva visto sovrapporsi all’iniziativa delle masse la coltre dell’egemonia moderata» 4. La storiografia ha messo in luce come di fatto sotto il secondo governo Bonomi e nel seguente governo Parri i CLN vengano
esautorati4, non riuscendo a rappresentare un’alternativa reale al sistema prefettizio tradizionale e in generale a sostituirsi alle preesistenti strutture statuali periferiche e centrali. In questi anni fallisce l’epurazione dell’apparato statale burocratico-amininistrativo (il terreno sul quale «“la continuità dello Stato” celebrò uno dei suoi maggiori successi» #) affidata ad una magistratura ampiamente rimasta fascista; si riesce, soprattutto nel successivo governo De Gasperi, a
far sì che il personale politico proveniente dalle formazioni partitiche democratiche fosse allontanato dalla pubblica amministrazione, della quale veniva così impedito un reale rinnovamento; si rafforza il controllo sociopolitico delle potenze alleate in un quadro complessivo ove vengono vanificate molte spinte progressive prodottesi in seno alla Resistenza. Gli stessi tentativi portati avanti dalle forze conservatrici di anteporre le elezioni amministrative a quelle politiche,
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decisive per l'elezione della Costituente e per i lavori di scrittura della Carta costituzionale, si inseriscono in una logica che tende ad allontanare dal momento della insurrezione popolare postbellica ogni atto garante di una futura vita democratica. Si comprende allora l’urgenza delle forze della sinistra di arrivare ai lavori costituzionali e di terminarli velocemente, prima che si esaurissero quelle spinte innovative della Resistenza che invece influiranno positivamente sugli accordi progressivi raggiunti in seno alla Commissione costituzionale dei Settantacinque. i Tuttavia — come è stato sottolineato più di recente — resta come
dato di fondo che «proprio tramite il sistema ciellenistico fu possibile [...] prefigurare un nuovo sistema politico che rispecchiasse in sé, dandogli espressione e unità effettiva, una ricostruita compagine nazionale». Di qui l’importanza dell’esperienza dei Comitati di liberazione nazionale nella loro «ricchezza di funzioni» e «valenza ricostruttiva» più generale #7. D'altronde il rilievo particolare assunto dal CLN venne riconosciuto già in quello stesso periodo nell’ambito di un’analisi innovativa capace di concepire la sfera dell'ordinamento costituzionale non in termini puramente formalistici, e di assumerla invece come comprensiva anche di elementi “pregiuridici” ad essa costitutivi. Al CLN veniva allora riconosciuta «la veste di organo dello Stato in via di fatto, in virtù di un’investitura proveniente dall’impersonare esso le correnti democratiche antifasciste, le quali» si presentavano sia come le più adatte «ad assumere il potere», sia come le «uniche organizzate a tale scopo». In particolare si affermava che «la principale funzione del comitato quale organo statale», consisteva nel «provocare la decisione costituente», determinando «la formazione del governo provvisorio destinato a realizzarla» e permettendo la permanenza di un «complesso di forze sociali organizzate» fungenti da «garanzia dell’attuazione» di tale decisione medesima. 1.4 Il PCI e l’obiettivo della Costituente
La questione delle modalità di elezione della Costituente e dei suoi relativi poteri fu uno dei grandi nodi che De Gasperi si trovò ad affrontare una volta insediatosi alla guida del governo. In particolare anche il Partito comunista aveva puntato sulla rapida convocazione
dell’Assemblea costituente49, considerata come uno degli obiettivi primari già dagli anni Trenta. A questo proposito è bene ricordare che l’idea della nascita di una “Costituente” quale quella prospettata da Gramsci alla fine del
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Trenta nel carcere di Turi, sorgeva dalla necessità di organizzare, in un determinato momento storico-politico, una coalizione ampia (comprensiva anche di contadini e piccolo-borghesi) attorno alla classe operaia, la quale essendo stata privata dalla reazione fascista dei mezzi principali per la propria lotta, necessitava di un programma per la conquista di alleati e per il raggiungimento della propria egemonia di classe. La “Costituente” rappresentava «la forma di organizzazione nel seno della quale» — scrive Athos Lisa nella sua testimonianza sull’incontro con Gramsci nel carcere — potevano «essere poste le rivendicazioni più sentite della classe lavoratrice» 9; essa era la forma di organizzazione specifica di un periodo di transizione, il quale non eludeva comunque la prospettiva rivoluzionaria. Agli inizi degli anni Quaranta, la proposta della formazione di una Costituente divenne una vera e propria parola d’ordine all’interno del gruppo dirigente comunista italiano”, in continuità con la poli-
tica italiana del fronte unico antifascista (già delineatasi nella seconda metà degli anni Trenta), tesa ad una battaglia per il recupero delle libertà democratiche fondamentali, della quale la classe operaia sarebbe stata la guida. L'importanza attribuita a questo nuovo istituto, «cui spetterà di gettare le fondamenta incrollabili di un’Italia rinnovata, libera da ogni residuo fascista, democratica e progressiva» faceva tutt'uno con la teorizzazione di un programma di «democrazia progressiva» (ispirato dalla necessità di creare una democrazia socialmente molto avanzata, quale premessa della transizione al socialismo), nell’ambito di una consapevolezza collettiva del fatto che si era ancora nella fase della gramsciana “guerra di posizione” 54 e per di più nel contesto delle conseguenze derivanti dal regime fascista, profondamente radicatosi nelle strutture della società italiana. In generale l’idea che i comunisti matureranno di un sistema statale democratico, se trova le sue prime radici storiche nella politica dei Fronti popolari, assumerà una forma più articolata e solida in seno a tutto il gruppo comunista dirigente nel corso degli anni successivi”. I lavori di redazione della Carta costituzionale costituiranno allora per il PCI e per alcuni suoi dirigenti la prima grande occasione per esprimere le convinzioni fino allora maturate e al tempo stesso saranno un episodio ulteriore di arricchimento sul terreno dei rapporti giuridico-istituzionali. Dunque se le sinistre operarono per sostenere il carattere innovativo dell'Assemblea, anche attraverso il coinvolgimento di ampie masse popolari, le coalizioni più conservatrici tentarono di procedere sulla via dell’esautoramento dei poteri della Costituente. Un’espressione di tale esautoramento è stata più volte colta ad esempio nello stesso decreto luogotenenziale
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n. 98 del 16 marzo 1946. In questo decreto, definito «seconda costituzione provvisoria», si stabiliva, modificando in parte il decreto precedente n. 151/1944, che la scelta della forma istituzionale del futuro
Stato sarebbe avvenuta tramite un referendum (da tenersi parallelamente alle elezioni dell'Assemblea), anziché ad opera della Costituente. I motivi che spinsero lo schieramento comunista ad accettare tale modifica (perseguita dalla Democrazia cristiana) attengono sia alla convinzione che attraverso l’istituto del referendum il popolo avrebbe potuto esercitare la propria volontà sovrana, decidendo direttamente senza delega alcuna, sia alla volontà di non compromettere la politica unitaria uscita dalla “svolta di Salerno”, sia anche alla necessità di evitare i rischi relativi ad un possibile svolgimento dei lavori costituzionali in un ordinamento ancora rappresentato dal governo di derivazione regia e dalla Corona. L'altro elemento importante stabilito dal decreto concerne la diminuzione, in parte riconfermata a partire dal decreto n. 1s1, dei poteri dell'Assemblea costituente. Anche questa restrizione, che comunque non toccava la materia costituzionale, venne accolta da tutti i partiti e in particolare dal PCI, che portò a spiegazione la priorità dei lavori per la Costituzione (i quali avrebbero ritardato troppo se sulla Costituente avesse pesato oltre alla ratifica dei trattati internazionali e alla materia elettorale anche l’attività relativa alla legislazione ordinaria), oltre alla considerazione più generale secondo cui in quel momento storico la maggioranza dell’Assemblea coincideva sostanzialmente con quella di governo. Secondo una parte della storiografia ciò che comunque ebbe un rilievo fondamentale nell’accettazione di elementi non propriamente progressivi fu la reale situazione storico-sociale in cui si trovavano le masse popolari, il contesto difficile in cui si collocavano le spinte innovative della Resistenza, il
quale sembra aver condizionato in maniera determinante l’intera politica comunista sul versante delle scelte istituzionali, compresa quella specifica relativa all’articolo 3 del decreto n. 9877. A questo proposito va ricordato tuttavia che a seguito delle criti-
che che investirono l’articolo 354 venne approvato su iniziale proposta di Terracini’? un articolo aggiuntivo nel Regolamento della Camera in base al quale il governo stabiliva l’istituzione di quattro «Commissioni permanenti per l’esame dei disegni di legge». Queste commissioni avevano il compito di esaminare gli schemi dei disegni di legge del Consiglio dei ministri, per decidere quali di questi ‘dovessero essere presentati in Assemblea costituente per una sua deliberazione. Attraverso questo nuovo regolamento si stabiliva una forma di controllo (seppur limitata dal fatto che il parere delle com-
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missioni non era vincolante per il governo) sulla attività legislativa del governo, che di fatto si trovava ad essere più vincolato di prima, come dimostra la frequenza dei casi in cui per eludere la sorveglianza delle commissioni e quindi dell'Assemblea esso ricorse, abusandone,
alla dichiarazione di “massima urgenza” per alcuni disegni di legge (unici casi questi in cui il governo era esonerato dal presentare i pro-
pri schemi alle commissioni). Il fatto poi che, nonostante avessero il compito solo di esaminare per poi subito rinviare all'Assemblea il materiale che giungeva loro, le commissioni riempirono quest’ultimo di commenti e raccomandazioni‘, superando le strette competenze ad esse attribuite, dimostra la non irrilevanza della loro attività, la quale è tanto più evidente nei casi in cui esse fecero riferimento ai principi costituzionali già approvati o in discussione. Il volto legislativo-parlamentare assunto dall'Assemblea costituente tramite le commissioni rappresenta
comunque
un elemento
di novità: ciò, nono-
stante il fatto che tale sviluppo si collocasse all’interno di una rigida ripartizione delle competenze legislative tra Costituente e governo, il quale, peraltro, era difficilmente destituibile dall’ Assemblea, benché
vincolato dal voto di fiducia di quest'ultima ®. Sulla scia di questi eventi legislativi, intreccio di elementi innovativi ma anche di numerosi fattori di continuità rispetto al precedente assetto di tipo autoritario, si giunge alle elezioni del è giugno 1946 e di lì a poco al periodo costituzionale vero e proprio. 1.5
Un importante contributo alla redazione della Carta costituzionale: la Commissione Forti
Sotto il governo Parri si diede vita ad una delle iniziative più importanti per il futuro assetto costituzionale. Nacque infatti un ministero per la Costituente (decreto luogotenenziale n. 435 del 31 luglio 1945) che ebbe il «compito di preparare la convocazione dell'Assemblea costituente» ed in particolare di «predisporre gli elementi per lo studio della nuova costituzione che dovrà determinare l’assetto politico dello Stato e le linee direttive della sua azione economica e sociale». Il ministero per la Costituente si attivò, per opera di giuristi quali M. S. Giannini, sia per la raccolta di materiali di tipo comparatistico riguardanti l'ordinamento costituzionale italiano passato e quello di altri paesi, sia per la formazione di commissioni di esperti per lo studio delle questioni più importanti legate alla struttura del nuovo Stato. In particolare la commissione relativa alla materia istituzionale °° fu presieduta da Ugo Forti e denominata “Commissione per
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gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato”. Tale Commissione venne poi suddivisa in ulteriori Sottocommissioni, di cui la Prima, relativa ai “problemi costituzionali”, merita una particolare attenzione, tanto perché comprensiva di alcuni dei protagonisti (provenienti dal mondo giuridico e politico) più incisivi nel confronto costituzionale successivo in Assemblea costituente (si pensi a Terracini e Mortati), quanto perché espressione di un intenso dibattito intorno a quelli che vengono considerati i nodi dell’ordinamento costituzionale democratico. La I Sottocommissione della Commissione Forti appare tanto più un interessante oggetto di studio della cultura giuridico-costituzionale, se la si considera come uno dei primi luoghi di confronto tra culture politico-istituzionali diverse, appena uscite da anni di repressione ideologica e di conformismo culturale. Essa costituisce anche uno dei primi momenti in cui la sinistra (e non solo) avverte la necessità di riflettere in maniera organica su problematiche in parte nuove, imposte da una determinata fase dello sviluppo storico e del conflitto politico-sociale. 1.6
A sinistra una nuova idea delle istituzioni
Il lavoro della Commissione Forti e più in generale quello della redazione del testo costituzionale, congiunto all’esperienza di vent'anni di regime fascista, porteranno — come si avrà modo di argomentare nel corso dell’intera trattazione — alcuni dei maggiori protagonisti della sinistra di formazione marxista ad una valutazione in parte nuova, rispetto a quella del periodo antecedente, intorno al ruolo specifico dello Stato di diritto borghese (senza che ciò significasse una rinuncia ai principi classisti della analisi); ad una specifica considerazione, altrettanto caratterizzata da nuovi tratti, sul valore della norma, di cui in particolare si rivaluteranno il suo essere un portato della modernità, la sua validità universale, ed il suo versante promozionale.
Queste esperienze condurranno
altresì ad una ricca riflessione sui
principi della cittadinanza, di cui si accentuerà un’interpretazione non soltanto formalistica ma di carattere sostanziale, alla quale seguirà l'impegno delle sinistre a favore sia di una democrazia dai contenuti sociali, suscettibile di ulteriori e progressivi sviluppi, sia dell’inserimento all’interno della Carta fondamentale di diritti nuovi (quelli sociali appunto) rispetto al tradizionale contesto dello Stato liberale ottocentesco. D'altra parte occorre precisare che anche la tradizione di pensiero marxista non era stata univocamente sorda o
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contraria alla dimensione della statualità, proprio perché diritto, norma e Stato non potevano essere pensati unilateralmente come strumenti di dominio borghese, bensì, come gli stessi Marx ed Engels rilevarono 6, meritavano un’analisi di tipo dialettico. Analisi che prendesse in considerazione oltre alla stumentalità di classe della legge, anche il suo riferimento universalistico e le sue implicite potenzialità progressive, sovente eluse dalla stessa classe dominante, la quale proprio attraverso una declinazione particolaristica dei diritti, confermava di fatto il carattere intrinsecamente progressivo di questi. Lo stesso Gramsci aveva elaborato nei Quaderni del carcere una idea nuova del diritto. Quest'ultimo veniva pensato in termini positivi soprattutto dal momento che per Gramsci la necessità di una concezione «essenzialmente rinnovatrice» del diritto si poneva in rapporto alla trasformazione dello Stato moderno. Il diritto in uno Stato concepito come «educatore», che cioè «tende a creare e man‘tenere un certo tipo di civiltà e di cittadino (e quindi di convivenza e di rapporti individuali)», diviene lo strumento fondamentale, di natura — si potrebbe dire — promozionale per la creazione di un «nuovo tipo o livello di civiltà». «Accanto alla scuola ed altre istitu-
zioni» 5 esso allarga la propria influenza sul terreno etico, dell’«educazione delle masse» ‘9, e in questo senso impone una propria nuova concettualizzazione. Infatti per il dirigente comunista il concetto di diritto comprendeva tanto la norma giuridica intesa in senso stretto all’interno dell’attività «statale e governativa», quanto «l’attività direttiva della società civile», riguardante la «moralità» e il «costume in genere» ‘7. In uno Stato che si deve far carico della presenza delle masse nella sfera politica e dunque della promozione di una loro educazione culturale e morale, il diritto oltrepassa i limiti della coazione legale per approdare al terreno dei «costumi», dei «modi di pensare e di operare», della «moralità» . Al pari del diritto lo Stato moderno per Gramsci costituisce non soltanto lo strumento del dominio di una classe sull’altra. Esso, in virtù di un necessario processo di trasformazione storica, è anche il luogo ove le masse crescono, ove si verifica un livellamento generale della società, una crescita culturale, civile e morale. Nello Stato «integrale» di Gramsci la classe dominante non esercita solo dominio puro ma anche egemonia, «direzione intellettuale e morale». E proprio in forza della
complessità di questo Stato integrale si apre una dinamica conflittuale (nell’ambito dello stesso tipo di contraddizione in cui viene a trovarsi il gruppo sociale dominante) che schiude la possibilità di un superamento della divisione tra «governati e governanti, dirigenti e diretti» 7°. L'intervento educativo dello Stato, la sua funzione di poli-
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ticizzazione delle masse, sebbene dettati dalle esigenze egemoniche (e dunque di subordinazione delle classi subalterne) della classe dominante, hanno comunque un versante oggettivamente progressivo, promozionale, in quanto possono essere premessa di integrazione dei ceti subalterni nella compagine governativa e direttiva e di inclusione di ampie parti della popolazione nel governo della società. In questo senso sarà interessante osservare come questa concezione gramsciana del diritto e dello Stato penetrino nella cultura di alcuni costituenti marxisti, condizionino le loro riflessioni sui rapporti giuridico-istituzionali e più in generale sul nesso interattivo tra struttura e sovrastruttura,
non
più inteso in termini eminentemente
deterministici.
1.7 Il carattere della nuova Costituzione
e la discussione sui diritti politici Tra i dibattiti più significativi che si svolsero all’interno della Sottocommissione sui «problemi costituzionali» sono da sottolineare quelli relativi al carattere da attribuire alla nuova Costituzione (rigido o flessibile); i conseguenti sulle garanzie costituzionali; quelli sui diritti politici di cittadinanza; nonché il confronto sugli organi e sulle funzioni governative e legislative del nuovo Stato 7. Dall’analisi dei verbali emerge che tra i protagonisti del dibattito accesosi all’interno della Commissione Forti sugli istituti fondamentali del futuro assetto statale e costituzionale vi furono sia Terracini che Crisafulli, entrambi rappresentanti di un determinato orientamento ideologico e politico in seno allo schieramento delle sinistre. Terracini in particolare intervenne a proposito del contenuto della relazione tenuta da M. S. Giannini sul tema “Rigidità o flessibilità della Costituzione”, mostrandosi maggiormente propenso ad una Costituzione di tipo flessibile, pur riconoscendo la necessità di avere un sistema costituzionale garante dell’irreversibilità delle conquiste democratiche e della sconfitta definitiva del fascismo. In questo senso egli esprimerà sia le proprie considerazioni autonome ed individuali, frutto della sua esperienza personale (di comunista colpito duramente dalla feroce legislazione fascista del 1926 e di intellettuale particolarmente sensibile alle istanze del diritto); sia al tempo stesso gli orientamenti maturati in seno al gruppo dirigente del PCI. La domanda da cui occorre partire per comprendere le problematiche che ruotano attorno alla scelta del carattere della nuova Costituzione, è quella formulata dallo stesso Terracini nella seduta del 5 dicembre 1945. Allorché Terracini si chiede se sia possibile «fis-
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sare in una Costituzione flessibile i diritti dei cittadini e le relative garanzie con altrettanta precisazione e concretezza»? di come lo si
fa in una Costituzione rigida, in quanto se la nuova Legge fondamentale deve assicurare il rispetto di tutti i diritti dei cittadini, essa deve anche sapersi adeguare continuamente alla situazione sociale in evoluzione, alle trasformazioni numerose che si verificheranno in Ita-
lia nell’avvenire. La preoccupazione è nei confronti di un modello costituzionale che, pur godendo di dispositivi tali da impedire possibili colpi di mano autoritari (a differenza dello Statuto albertino), possa ostacolare il progressivo sviluppo della nazione italiana. Da queste prese di posizione del dirigente comunista emergono una serie di considerazioni. Innanzitutto Terracini si mostra estremamente attento alla dimensione garantista del nuovo
Stato, che egli intende
far divenire un «bastione della legalità»73 e un potente strumento di difesa contro involuzioni di natura autoritaria. Emerge poi che in Terracini c'è già la consapevolezza che la nuova fase storica apertasi alla fine del Secondo conflitto mondiale sia un periodo ove i rapporti di forza esistenti impongono continui compromessi, destinando al futuro l’attuazione di parte di quei principi e di quelle istanze che sono l’espressione diretta delle rivendicazioni sociali più radicali. Infine è Terracini stesso a dichiarare che la sua posizione è organica al concetto di “democrazia progressiva” propugnato dal partito politico di cui egli fa parte, ovvero ad una nozione dell’ordinamento istituzionale per la quale «la struttura giuridica deve adeguarsi continuamente alla struttura sociale, la quale deve essere sottoposta necessariamente ad un processo saggio e metodico di modificazioni successive». I processi di trasformazione progressiva avvengono dunque nell’ambito dei rapporti sociali, ove si radica l’azione politica del “partito nuovo” e da cui si producono le trasformazioni fondamentali che orientano anche il terreno dei rapporti giuridico-istituzionali. Rapporti che a loro volta esercitano un’influenza sulle modificazioni della struttura sociale in una interazione dialettica imprescindibile. Afferma infatti Terracini che sarà la Costituzione medesima ad attuare «una riforma agraria e una riforma industriale, quest’ultima magari limitata soltanto ai gruppi monopolistici e ai grandi #rusts». Proprio tali trasformazioni promosse in sede giuridica «creeranno a loro volta, rapidamente, delle nuove esigenze di trasformazione» 74 sul terreno delle dinamiche sociali. Successivamente nel corso del dibattito si arriverà ad una soluzione appoggiata dalla maggioranza della
Commissione:
una
Costituzione
rigida,
alla quale Terracini
stesso sin dall'inizio non era stato comunque contrario, dotata però di istituti speciali idonei a consentirne la modificazione in modo
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«semplice e di facile applicazione». Soluzione questa prospettata da M. S. Giannini per il quale infatti la Costituzione doveva essere «rigida, sì, ma in modo relativo», senza cioè perdere «il carattere della elasticità, o flessibilità sostanziale», che l’avrebbe portata ad
avere «un effetto ostativo, o quanto meno ritardatore di tutte quelle istanze progressiste che urgeranno nel prossimo futuro» 7.
E di nuovo Terracini a impegnarsi perché nel seno della Commissione Forti passi l’idea della possibilità che la modificazione avvenga dal basso, per iniziativa popolare, la quale non deve mai cessare di sostenere ed orientare l’operato istituzionale. In questo senso si comprende anche la polemica di Terracini contro la legittimazione di una iniziativa di modifica della Costituzione promossa dalla Camera alta, la quale non è «costituita sulla base di un appello diretto delle masse»7° e non è in grado di rispecchiare le esigenze popolari. L'affermazione del principio di sovranità popolare, quale fonte del potere statale, si spinge sino alla proposta dell’iniziativa popolare diretta per le modifiche costituzionali. In questo senso, come è stato detto, appare «evidente che la posizione sostenuta da Terracini va ricondotta per un verso al favore per l'iniziativa popolare [...] che non può essere esclusa nei processi di revisione della Costituzione, e per l’altro verso come segno della preoccupazione per l’instaurarsi di congegni complessi per la revisione della Costituzione, e della necessità di superarli con l’iniziativa popolare»77. Il fatto poi che Crisafulli nella seduta del 18 dicembre 1945 si mostri concorde con questa impostazione della questione costituzionale, sottolineando la necessità di accogliere la proposta di Terracini soprattutto in relazione ad una «possibile inerzia del corpo legislativo di fronte ad un vasto movimento di opinione pubblica»75, evidenzia nuovamente come per entrambi sia centrale la questione della legittimazione popolare degli organi istituzionali, della fondazione del paese legale su quello reale. Della discussione successiva relativa alla questione del controllo di costituzionalità delle leggi è necessario sottolineare il breve intervento di Crisafulli (seduta n. 5 dell’8 gennaio 1946) al fine di inquadrare la posizione dei comunisti riguardo agli istituti predisposti dalla futura Costituzione in tema di giudizio di costituzionalità della legislazione ordinaria e di garanzia della superiorità della legge costituzionale. Le parole di Crisafulli, secondo le quali «la natura del controllo sulla costituzionalità delle leggi non è caratterizzata dalla sua funzione
ritardatrice
e conservatrice,
ma
solo da una
funzione
di
garanzia sull’operato del Parlamento»7?, permettono di non schiacciare l'elaborazione comunista intorno alle garanzie costituzionali
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sulle sole considerazioni negative che Togliatti fece a proposito della Corte costituzionale l’ir marzo 1947 nel suo discorso alla Costituente 8°. L'idea di Crisafulli — portato di una elaborazione sulle tematiche giuridiche e costituzionali molto più ampia che affonda le sue radici negli anni Trenta e che poi verrà ripresa ed elaborata negli anni successivi -- parte dall’assunto di base secondo cui, essendo la Costituzione italiana una «Legge delle leggi» di tipo rigido, i principi costituzionali hanno una validità superiore rispetto alla legislazione ordinaria, ed essendo tali principi veicolo di istanze progressive ed innovative, essi vanno preservati da eventuali tentativi di neutralizzarne la portata trasformativa ad opera di maggioranze parlamentari conservatrici. È d’altra parte esemplificativa della argutezza di una tale posizione la vicenda successiva legata alla norma di attivazione della Corte costituzionale, la cui mancata applicazione, in un periodo connotato dal congelamento dell'intero ordinamento costituzionale, favorirà ulteriormente il mantenimento della legislazione fascista *! un ritardo legislativo nell’attuazione concreta di una serie di riforme positive previste programmaticamente dalla Carta fondamentale e nella predisposizione degli organi promotori dello sviluppo sociale. Anche Terracini nella seduta del 18 gennaio 1946 intervenne a proposito del controllo di costituzionalità delle leggi. Contrariamente a quanto detto da Mortati, che in quella sede contestò «la necessità logica che una Costituzione rigida richieda la esistenza di un super organo di controllo», Terracini rilevava che un incidente sollevato sulla questione di incostituzionalità della legge doveva essere risolto non da un tribunale ordinario, bensì dal «giudizio dello speciale e supremo organo cui esso va riservato», ovvero dalla decisione di una Suprema Corte che doveva «considerarsi come valida erga omnes» 8 e della quale si richiedeva comunque l'esame della composizione interna (ove per Crisafulli e Terracini era necessario un criterio di composizione democratica e rappresentativa). E tuttavia Terracini, che comunque si mostrava favorevole alla predisposizione di un organo apposito, ad hoc, per l’esercizio di tale controllo, esprimeva anche, in tema di iniziativa di quest’ultimo, parere favorevole al ricorso diretto alla Corte sia da parte di organi ed enti, sia soprattutto da parte di individui o gruppi di cittadini (iniziativa popolare), contrapponendosi con quest’istanza agli altri giuristi contrari ad una azione collettiva diretta, ritenuta perturbatrice. È sempre in questo dibattito che le parole di Terracini mostrano una forte attenzione nei confronti di un modello di democrazia non soltanto rappresentativoparlamentare (la quale sarà sostenuta poi soprattutto in sede di Assemblea costituente dinnanzi alle proposte più inclini al rafforza-
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mento dell’esecutivo), ma anche diretta. Si avrà occasione di tornare
su tale caratteristica dell'impegno costituzionale di Terracini, in patticolare in riferimento al dibattito svoltosi alla Costituente relativo all’istituto del referendum. Il dibattito che si svolse nella 1 Sottocommissione Forti “sui diritti subiettivi politici”, in base alla relazione Mortati, fu anch'esso uno dei più interessanti 8. Qui Crisafulli concordò con Mortati sulla necessità dell’affermazione del suffragio universale all’interno della Costituzione italiana futura, la quale si sarebbe distinta da quella ottocentesca liberale proprio nell’affermazione forte di una declinazione universalistica della cittadinanza politica. La garanzia all’universalismo dei diritti politici era infatti costituita dal riferimento alle condizioni sociali, che venivano riconosciute ufficialmente (tanto da
Mortati quanto da Crisafulli) come i presupposti reali di una democrazia egualitaria. Una democrazia non più soltanto di tipo formale ma sostanziale nella affermazione della centralità dei diritti sociali 8. In questa prospettiva la nuova Costituzione avrebbe seguito l’orientamento della «carta di Weimar», la quale — “facendo epoca” — aveva segnato «il passaggio dalle costituzioni di tipo ottocentesco [...] rivolte quasi in via esclusiva a garantire la sfera di autonomia del singolo, a quelle del Novecento, caratterizzate dall’interventismo statale al fine di attuare ideali di solidarietà e di giustizia sociale». È non a caso in questo dibattito che l’attenzione si concentra anche sul problema del riconoscimento del lavoro quale fondamento della nuova cittadinanza politico-sociale e della dignità dell’individuo moderno. Va poi ricordato che la polemica sull’obbligatorietà del voto politico che contrapporrà le sinistre alle altre forze politiche proprio in questi anni si fece sentire anche in seno alla Commissione Forti, ove la maggioranza dei presenti si espresse in maniera contraria alla proposta di Mortati secondo il quale solo una simile imposizione avrebbe favorito l'estirpazione dello spirito di anarchia presente nel popolo italiano. Sempre in relazione alle proposte di Mortati si determinò un’ulteriore discussione, a proposito delle modalità concernenti l'esercizio del diritto di associazione, tra quest’ultimo e Crisafulli, entrambi comunque d’accordo sulla necessità di affermare nel nuovo assetto statuale la centralità del partito politico, oltre a quella dei diritti sociali, sulla scia di una nuova e pet molti aspetti comune elaborazione del sistema giuridico-costituzionale (sulla quale si avrà più avanti occasione di tornare). Se per il giurista democristiano si imponeva l’obbligo di registrazione per tutte le associazioni che volevano
svolgere una
attività, per Crisafulli la nuova
libertà positiva,
contrariamente a quanto era stato predisposto fino a quel momento
D”
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in virtù del diritto negativo liberale, consisteva proprio nel non stabilire dei limiti alle manifestazioni dei cittadini, tali da legittimare poi atti perquisitori a carico di associazioni non registrate (quelle segrete per esempio, la cui soppressione era stata compiuta come primo atto
proprio dal fascismo). Inoltre con una osservazione acuta Crisafulli mostrava di comprendere che non era un elemento puramente formale come quello della registrazione ad evitare associazioni dai fini antidemocratici ed illeciti e che dunque il controllo e le garanzie da parte dello Stato ad un determinato assetto pubblico erano sia in positivo che in negativo (nei termini, si potrebbe dire, di un controllo che foucaultianamente pervade ogni canale della società al di là delle singole disposizioni formali) elementi che andavano pensati in maniera più sostanziale e profonda. 1.8
Le relazioni “Organi e funzioni governative e amministrative” e “Organi e funzioni legislative”
Gli ultimi due momenti da prendere in considerazione al fine di comprendere l’influenza che la Commissione Forti ebbe nella successiva azione di alcuni esponenti appartenenti allo schieramento della sinistra di formazione marxista nell’ambito dei lavori costituzionali riguardano le relazioni di Terracini e di Crisafulli intorno alle funzioni governative e legislative del nuovo ordinamento costituzionale. La relazione “Organi e funzioni governative e amministrative” fu presentata da Terracini insieme con Vitta e Giannini nella seduta del 2 aprile 1946. Probabilmente Terracini contribuì alla stesura della prima parte relativa agli organi governativi ove diede il proprio contributo alla statuizione di un assetto governativo lontano dalla forma presidenziale. L'affermazione di un sistema di governo parlamentare allontanava i rischi connessi alle forme di bonapartismo insite nell’elezione presidenziale dei ministri e permetteva un costante controllo del Parlamento, in particolare della Camera bassa, l’organo che in una democrazia di tipo parlamentare esprime la massima rappresentanza popolare, sull'operato del governo. Ma è soprattutto nell’affermazione di un sistema ove viene assicurata una più diretta ingerenza del Parlamento, al quale viene deferita la designazione dei ministri, e
nella attribuzione a tutti i ministri di «eguali poteri ed eguale responsabilità» per la determinazione dell'indirizzo politico (secondo un modello di tipo collegiale), che sembra potersi rilevare l'influenza di Terracini. Questa ipotesi appare corroborata — oltre che dai successivi interventi di Terracini in Assemblea costituente — anche dall’in-
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tervista rilasciata nel 19789, dove egli affermava che l'impegno dei comunisti alla Costituente si era svolto nel senso di promuovere una
responsabilità collettiva e collegiale degli atti di governo al fine di evitare l’inserimento nella Costituzione di formulazioni come quella di “primo ministro” che potevano rendere «ancora possibile l’insi-
nuarsi» di quel fantasma che era stato il capo del governo dai poteri «molto ampi» dell’epoca fascista. Infine nella parte della relazione Terracini-Vitta-Giannini sul tema delle funzioni governative venivano stabilite tutte le competenze specifiche dell’attività del governo, del quale era affermata la relativa autonomia al fine di garantirne una certa stabilità (sulle cui modalità peraltro si dibatterà molto in sede costituente da parte delle varie forze politiche).
Nella seduta del 26 aprile 1946, fu la volta della presentazione della relazione di Crisafulli, Piccardi, Rizzo, Stolfi e Zanobini sul tema “Organi e funzioni legislative”. L'elemento problematico del-
l'oggetto di questa relazione fu costituito dalla composizione, dalla funzione e dal modo di elezione della Camera alta, posto che tutti si mostrarono concordi sul principio del suffragio universale, senza distinzione di sesso, con voto diretto eguale per l’elezione della Camera dei deputati. Dato che non è possibile stabilire con sicurezza la paternità delle singole proposte all’interno di uno studio composto da più voci, tuttavia si è cercato di stabilire quali furono gli orientamenti di Crisafulli sulla base della sue precedenti riflessioni, delle sue successive elaborazioni intorno all’ordinamento costituzionale, e dei
suoi orientamenti politici ed ideologici che ebbero comunque un peso sul dibattito svoltosi in seno alla Commissione Forti9°. Il dibattito intorno alla seconda Camera vedeva da un lato quelli che ne affermavano la ineludibile necessità con l’intento di frenare gli even-
tuali eccessi della prima Camera, e dall’altro quelli (quasi sicuramente Crisafulli stesso) che subordinavano l’istituzione del sistema bicamerale tanto alle priorità democratiche del nuovo assetto costituzionale, quanto all'esigenza di non fare della Camera alta un dop-
pione della bassa. Si ‘dice infatti che «qualora queste condizioni non potessero, per l’una o l’altra ragione essere soddisfatte, i Commissari che hanno espresso questa opinione non vedrebbero altra soluzione fuori della rinunzia alla istituzione di una seconda Camera, nonostante i vantaggi che essi non esitano a riconoscere in essa». In
realtà dietro queste differenti istanze si nascondeva una idea di democrazia molto diversa, della quale i vari protagonisti della Commissione Forti (e in seguito del dibattito svoltosi alla Costituente tra il 1946 e il 1947) si facevano portatori. Se infatti per molti giuristi e
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uomini politici presenti nella Commissione Forti la vera democrazia era quella che si costituiva in un sistema montesquieuianamente bilanciato da pesi e contrappesi, i quali avevano proprio la funzione di prevenirne le degenerazioni giacobine ed assembleari, per altri, 17 primis Crisafulli, si trattava di far trionfare un tipo di democrazia che fosse la più possibile diretta espressione popolare, e in cui dunque nessun organo incorresse nei rischi di uno svuotamento di quello ritenuto fondamentale e appunto di diretta emanazione popolare: la Camera bassa. E tuttavia l’importanza che Crisafulli attribuì al principio democratico-popolare della Costituzione in questa ed altre sedi non deve far dimenticare l’altrettanto evidente rilievo con cui egli parlò del principio garantista, che nel nuovo ordinamento costituzionale andava affermato e sul quale per altro si soffermò a lungo nei suoi successivi scritti per sottolinearne l'importante mantenimento al fine stesso di difendere una Costituzione progressiva e democratica”. D'altronde — come si vedrà nella ricostruzione di alcuni aspetti della cultura giuridica di Crisafulli — si trattava più complessivamente di affermare una idea di Costituzione nella quale l'elemento del diritto e quello della politica potessero combinarsi; nella quale la Legge fondamentale fosse espressione sia di un determinato indirizzo politico derivante dall’esercizio della sovranità popolare, e riflesso pertanto delle scelte operate da quelle forze politico-sociali affermatesi nel corso della vicenda resistenziale; sia garanzia certa e duratura delle regole basilari vincolanti e disciplinanti sul lungo periodo gli stessi poteri costituiti.
Per ciò che riguarda la composizione della Camera alta vennero avanzate numerose proposte tra cui quelle maggiormente sostenute attenevano al sistema di rappresentanza regionale temperato e a quello corporativo (fondato sugli interessi economico-professionali e culturali-morali); mentre furono scartati quello vitalizio, quello regionale tout court e quello in base alle elezioni di secondo grado. I commissari poi decisero a maggioranza che le due Camere dovessero avere eguali poteri e una diversa durata. A proposito poi dell’intervento del capo dello Stato nella funzione legislativa si manifestarono
due diverse e discordi opinioni. Per alcuni (la maggioranza) il capo dello Stato doveva essere chiamato a partecipare alla formazione delle leggi attraverso la sanzione; per altri doveva essergli riconosciuta soltanto una facoltà di veto nei confronti delle leggi deliberate dalle Camere legislative. Se la prima soluzione era più incline a riconoscere una posizione di prestigio al capo dello Stato, la seconda (quasi sicuramente appoggiata da Crisafulli) limitava tale intervento all’opposizione che questo poteva sollevare in casi eccezionali contro
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la legislazione della Camera. Tutti comunque concordavano nel riconoscere alcune prerogative al capo dello Stato tese a garantire il regolare svolgimento della procedura legislativa. Attraverso un allegato alla relazione in questione, nel quale è raccolta la sintesi degli interventi delle sedute del 27 dicembre e del 2 gennaio a cui partecipò Crisafulli (insieme con Stolfi e Piccardi) è possibile individuare, con qualche margine di incertezza, le sue posizioni specifiche sugli organi legislativi. Fu proprio Crisafulli ad affermare, esprimendo la propria già accennata opposizione a quanti volevano fare della Camera alta un elemento di freno agli eccessi e agli sbandamenti della bassa, che già erano stati predispoti due elementi ai quali spettava di adempiere una funzione di equilibrio e di garanzia costituzionale: i poteri attribuiti al capo dello Stato e la rigidità della Costituzione. Ove la paternità crisafulliana di questa posizione sembra essere confermata dagli scritti successivi di Crisafulli sulla Costituzione. In questi saggi egli intese più volte ribadire la propria posizione articolata intorno ai poteri del capo dello Stato, al quale spettava di esercitare una funzione di «limite e di garanzia costituzionale», senza però che vi fosse lo spazio per un esercizio personale del suo potere? (sistema presidenziale o sistema fondato sul «bicefalismo» dell’esecutivo), la limitazione delle cui prerogative l’autore in questione si preoccupava di sottolineare. Allo stesso modo Crisafulli intese evidenziare il carattere ambivalente di una Costituzione di tipo rigido, la quale se racchiusa in formule molto ristrette poteva rappresentare un limite «quanto meno di ordine negativo» al potere legislativo, un elemento di freno alle trasformazioni future. E tuttavia egli rilevava anche che, in un ordine costituzionale come quello italiano informato «a valori democratici» e aperto «agli sviluppi richiesti dalle istanze di rinnovamento che si manifestano nella collettività», un carattere di rigidità finiva per svolgere un «ruolo anch’esso democratico, stabilizzando e ponendo al riparo da capricciosi mutamenti quei valori che ne stanno a fondamento». In tale posizione trovava dunque riscontro il giudizio espresso da Crisafulli nel 1946 sulla rivista di partito, giudizio orientato a favore di una Costituzione rigida (perché più limitativa nei confronti di un possibile «regime di violenza»), la quale però predisponesse degli «accorgimenti tecnici» tali da conciliarla con le trasformazioni democratiche della vita nazionale 9. Attraverso questo allegato è anche possibile verificare la posizione di Crisafulli in riferimento, una volta accettato il bicamerali-
smo, ai principi base di formazione della seconda Camera. Una netta opposizione a forme troppo vicine allo Stato federale e a sistemi lon-
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tani da una libera consultazione popolare e vicini al corporativismo, come quello presente nella proposta di una seconda Camera costituita sulla base di una rappresentanza di interessi economico-profes-
sionali (soluzione quest’ultima a cui fu incline Mortati). Un probabile apprezzamento per la soluzione che prevedeva il principio della «rappresentanza regionale temperata», il quale poteva garantire un funzionamento democratico della vita politica del paese. Gli stessi Terracini e Scoccimarro al Comitato centrale del PCI del 18 settembre 1946, pur nell'intento di limitare i poteri di un istituto legislativo che non avrebbe avuto origine dal suffragio universale, mostrarono di apprezzare la soluzione di una seconda Camera composta sulla base del principio regionale 98. Infine anche la proposta di una eguaglianza dei poteri fra le due Camere circoscritta solo a determinate materie è probabilmente da attribuirsi allo stesso Crisafulli, in linea con le proprie preoccupazioni sul possibile carattere conservatore della Camera alta e con le considerazioni espresse dal suo partito di appartenenza. Va detto da ultimo che la relazione su “Organi e funzioni legislative” ebbe modo di studiare e in seguito di presentare proposte intorno alla determinazione dei soggetti e degli istituti detentori dell’iniziativa delle leggi, concentrandosi in questo modo su quell’insieme di problematiche costituite dai rapporti tra Camere e governo nell’ambito della funzione legislativa. Anche queste tematiche costituirono l'oggetto di un confronto, nonché la premessa dell’arricchimento delle diverse culture giuridico-costituzionali incontratesi nei lavori di preparazione del testo costituzionale. 1.9 L'Assemblea costituente
L'Assemblea costituente eletta il 2 giugno 1946, iniziò i propri lavori il 25 giugno e li terminò, dopo aver prolungato la propria attività per ben due volte rispetto all’iniziale programma, il 31 dicembre del 1947. Il testo definitivo della nuova Costituzione entrò in vigore il 1° gennaio 1948, sebbene il funzionamento reale della Assemblea cessò solo
il 31 gennaio 1948, con non poche implicazioni riguardanti la proroga (avvenuta tramite la xVIl norma transitoria) di un’Assemblea dai poteri limitati, ma anche relative al mantenimento di un forte potere nelle mani di un governo non più unitario. Lo stesso Terracini, in un
articolo per “Vie nuove” 99 del 1948, metteva sotto accusa la maggioranza di governo che aveva operato in modo tale da agire per alcuni mesi fuori dal controllo parlamentare. Terracini in questa sede rilevava che essendo le leggi rimaste una creazione esclusiva dei ministri,
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questi erano tanto più interessati a procedere senza la sorveglianza delle Camere in un momento fondamentale per l'applicazione concreta di una serie di istituti progressivi previsti dalla Costituzione. Con queste parole egli sembrava prevedere il destino della Costituzione italiana nel decennio successivo, quello cioè dominato, secondo
considerazioni espresse da più parti, dal “congelamento costituzionale”, ovvero dalla mancata assunzione del «contenuto programmatico della Costituzione»'°° voluto dagli orientamenti politici più avanzati (ivi comprese le componenti più innovative della Democrazia cristiana, rappresentate nel modo più limpido dall’impegno costituente di Dossetti). D'altra parte la mancata attuazione delle disposizioni più avanzate della Costituzione non faceva che riconfermare la divergenza degli interessi materiali delle forze politiche e sociali coinvolte nella formazione della nuova struttura statale del dopoguerra. Come è stato osservato, i risultati del 2 giugno sancirono «la fine di un certo sistema di potere, quello della “esarchia”, intorno a cui, nel corso della fase transitoria, si era incentrato tutto il funziona-
mento della vita politica italiana»'!”. Gli anni seguenti furono dominati dal cosiddetto “tripartitistmo” (che durò sino al maggio 1947), declinatosi a livello costituzionale in un lavoro di collaborazione tra forze politiche molto diverse, il quale — secondo un giudizio largamente condiviso nella storiografia — diede vita tanto ad un compromesso giuridico e politico dai contenuti in parte innovativi, quanto accentuò la divergenza dei programmi delle forze politiche protagoniste della ricostruzione repubblicana (premessa questa degli avvenimenti del maggio 1947 e del successivo «congelamento costituzionale»). È significativo che i lavori costituzionali siano stati prorogati oltre la rottura della collaborazione governativa e che i contatti e gli accordi tra i partiti di massa abbiano continuato ad esserci in sede di Costituente, nonostante il peso della situazione politica scaturita più generalmente nel governo e nel paese dall’intenso livello del conflitto sociale!°2. D'altra parte tale contesto problematico gravò comunque notevolmente (basti pensare a molti articoli della seconda parte della Carta costituzionale relativi all’organizzazione statale) su molte scelte finali dell'Assemblea relative alle disposizioni costituzionali '9. AI fine di comprendere meglio le ragioni di questa prolungata collaborazione è necessario anche ricordare che di fatto alcuni protagonisti dell’Assemblea erano quegli stessi politici i quali, pur nel contesto di rilevanti differenze e di specifici retroterra culturali, avevano avuto un ruolo decisivo nella fase della Resistenza!° e durante il periodo immediatamente successivo di riorganizzazione della vita politica nazionale. Quest'ultimo elemento suggerisce anche che ai
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lavori di redazione del testo costituzionale parteciparono in prevalenza leader politici, alcuni dei quali particolarmente attenti alla sfera del diritto; mentre altre importanti figure della cultura giuridica del tempo non presero parte direttamente alla preparazione della Carta in Assemblea. Si pensi in questo senso a Crisafulli, che tuttavia riuscì a svolgere un’opera di sensibilizzazione alle questioni costituzionali
all’interno
del Partito
comunista,
arricchendone
in
parte il bagaglio giuridico-istituzionale e favorendone un orientamento intorno al modello costituzionale specifico da affermare in sede di Costituente. : Nel marzo del 1947, all'indomani della discussione in Assemblea costituente sul primo progetto della Carta costituzionale, nella prima pagina di “Vie nuove”, Terracini scriveva: «non si può certamente affermare che il progetto di Costituzione [...] sia frutto di improvvisazione. Esso è nato infatti da una laboriosa gestazione svoltasi nel corso di 342 riunoni, variamente congegnate, della Commissione dei Settantacinque: riunioni di Sottocommissioni, di comitati di redazione, di commissioni
di studio, di comitati di relatori, di comitati
per materie speciali e infine della stessa commissione dei Settantacinque in seduta plenaria»'!. Proprio a partire da queste considerazioni, sembra opportuno soffermarsi rapidamente sui luoghi più importanti sopra citati da Terracini, in cui, come egli rileva, nacque la Costituzione italiana.
I.IO I luoghi di elaborazione L'Assemblea costituente, dopo aver disposto per l’elezione del proprio presidente (Saragat prima, Terracini poi dal febbraio 1947), decise di affidare ad una Commissione composta da settantacinque membri (i quali, designati in base ad un criterio di proporzionalità tra i diversi gruppi parlamentari, furono di fatto «i facitori della Costituzione» !°°) il lavoro per l'elaborazione di un progetto costituzionale, da presentarsi finalmente alla Assemblea per ulteriori integrazioni, modifiche e discussioni. La nuova Commissione si diede Ruini come presidente e cominciò la propria attività il 20 luglio del 1946, giorno in cui venne decisa, sulla scia di quanto era avvenuto in Francia,
l'istituzione
di tre Sottocommissioni,
le quali avrebbero
dovuto occuparsi di tre diversi ordini di tematiche: la 1 Sottocommissione di una dichiarazione dei diritti, secondo il modello francese,
e dei doveri secondo gli esempi di Weimar e della Costituzione russa'°7; la seconda si sarebbe occupata dell’«area più estesa» e degli
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«argomenti più numerosi e più importanti» e cioè delle funzioni e degli organi dello Stato; e la IM Sottocommissione si sarebbe concentrata sui lineamenti economico-sociali. In tal senso la nuova Costituzione avrebbe superato i limiti delle costituzioni ottocentesche, e avrebbe coperto l’intero nucleo degli aspetti legati alla vita di una collettività nazionale, comprendendo dunque al suo interno caratteri stiche tipiche di una nozione sociale di cittadinanza, sul modello di quella di Weimar ove la questione dell’inserimento dei diritti sociali già era stata affrontata!. Una delle novità dell’assetto costituzionale postresistenziale consisterà infatti proprio nella affermazione di uno Stato di tipo “sociale” — quale peraltro si era venuto configurando come dato di “costituzione materiale” già negli anni centrali del Novecento
— accanto
alla riaffermazione
di uno
Stato di diritto,
anch'esso peraltro costituito da nuove caratteristiche rispetto a quelle della tradizione liberale. Inoltre in questa stessa sede Ruini indicava una serie di tematiche centrali per gli studi delle Sottocommissioni (e su cui si era soffermata anche precedentemente la Commissione Forti) e prospettava l’istituzione di un Comitato di coordinamento, che sarebbe nato di lì a poco, trasformandosi poi in un vero e proprio Comitato di redazione del testo costituzionale. Volendo riassumere quali furono i luoghi storico-istituzionali in cui occorre indagare per ricostruire il ruolo che alcuni costituenti appartenenti ad una cultura di ispirazione marxista ebbero nelle sedi dell'Assemblea deputate agli studi di carattere giuridico e costituzionale, se ne possono rintracciare quattro. Le sedute specifiche delle Sottocommissioni della Commissione dei Settantacinque, con l’analisi relativa ai dibattiti qui sviluppatisi e alle relazioni presentate da alcuni costituenti sui temi in questione (le quali costituiscono un’importante base di studio delle singole culture politico-costituzionali); le sedute delle adunanze plenarie di questa Commissione; il Comitato di redazione ed il più noto dibattito che si svolse a partire dal marzo 1947 nell’aula della Assemblea. Il giudizio, divenuto oramai opinione comune nella storiografia corrente,
è che la Costituzione
italiana
consti
di due parti, una
prima progressiva, uscita dal compromesso alto che si ebbe all’interno della 1 Sottocommissione tra cattolici progressisti (Dossetti) ed esponenti della sinistra marxista (Basso, Togliatti); e una seconda parte ove «lo sforzo dei costituenti non fu all'altezza delle premesse da cui partivano» e dalla quale pertanto derivò il «disegno di un impianto organizzativo-istituzionale» incapace di «supportare la prospettiva che essi proponevano». Secondo alcuni protagonisti dell’epoca tale seconda parte si caratterizzava per una sua natura emi-
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nentemente conservatrice, affermata dalle forze più moderate proprio dinnanzi al pericolo della concreta realizzazione di quell’assetto sociopolitico innovativo, che era stato prospettato nei primi articoli. Era stato lo stesso Togliatti ad esempio a sottolineare durante il suo intervento alla Costituente questa importante differenza esistente tra
le due parti della Costituzione e lo stesso giudizio venne da questi espresso nella propria relazione al VI congresso del PCI nel 19489. Anche Terracini nell’intervento al Comitato centrale del 18 settembre del 1946" si espresse intorno alla diversità della I Sottocommissione (dove non vi erano divergenze tra le forze politiche e ove si erano anche verificate alcune «profferte che superano le nostre») rispetto ad una seconda ove si manifestavano molte resistenze da parte delle coalizioni più conservatrici, le quali — a suo giudizio — qui intendevano esautorare la sovranità popolare che viceversa aveva
affermato la propria forza nei principi dichiarati dalla 1 Sottocommissione.
Proprio partendo da questo giudizio consolidato si può ricostruire il contributo offerto dalla sinistra sia nella 1 Sottocommissione (tramite la presenza di Basso) per l’affermazione di diritti e libertà fondamentali sanciti dalla prima parte del testo costituzionale; sia nella I Sottocommissione (per voce di Terracini e Laconi) in relazione all’organizzazione degli istituti fondativi della nuova Repubblica teoricamente «garanti»? delle libertà conquistate dalle masse popolari. Così facendo si potrà ripercorrere il filo dell’elaborazione teorica compiuta da alcuni esponenti della sinistra in entrambe le Sottocommissioni al momento della fondazione del nuovo Stato repubblicano. Si analizzerà anche il materiale relativo alle due sezioni create in seno alla I1 Sottocommissione (di cui la prima, presieduta da Terracini, ebbe il compito di occuparsi delle istituzioni governative; la seconda, ove fu assiduo l’impegno di Laconi, di preparare il progetto relativo al potere giudiziario). Sembra anche opportuno non tralasciare il materiale delle discussioni
svoltesi nelle sedute plenarie della Commissione dei Settantacinque, nelle quali si svilupparono altri dibattiti importanti per la redazione del progetto iniziale del testo costituzionale, che però non cambierà molto nella sua sostanza dopo la disamina avvenuta all'Assemblea tra il marzo e l’aprile del 1947. Quest'ultimo luogo storico-istituzio-
nale (ultimo in senso cronologico) articolò il proprio lavoro, secondo la proposta di Terracini!3, in due modi: una prima parte della attività si concentrò su una discussione «generale-preliminare» del progetto costituzionale, nel corso della quale intervennero numerosi rappresentanti degli schieramenti politici presenti; una
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seconda parte successiva si occupò di esaminare «titolo per titolo» le norme costituzionali, procedendo «ad una discussione patticolare» che abbracciasse «tutta la loro specifica materia» con l’esame dei relativi articoli ed emendamenti. La discussione generale verté sui temi basilari del progetto di Costituzione (rigidità-flessibilità, norme giuridiche-norme programmatiche; presidenzialismo-parlamentarismo),
e offrì l'occasione,
co-
me aveva sperato lo stesso Terracini parlando a favore di un testo costituzionale che non fosse solo un documento di «pura perizia giuridica» ma altresì un «atto di vita del nostro popolo»"4, per esprimere considerazioni non soltanto di ordine tecnico, ma anche di tipo storico-sociale. Tra i membri più autorevoli della sinistra di formazione marxista si espressero Basso, Laconi e Togliatti", i quali — discostandosi dai molteplici giudizi negativi espressi dai rappresentanti delle forze politiche più avverse all’assetto costituzionale prospettato e anticipando in tal modo quella che sarebbe stata, negli anni di poi, una delle loro battaglie principali — assunsero posizioni sostanzialmente favorevoli al testo. Per tutti e tre i costituenti, il cui giudizio non a caso rifletteva un elaborazione teorica fortemente imbevuta di storicismo, la forza del testo costituzionale
nasceva proprio dal suo essere tanto il portato delle lotte politiche e sociali di ampie masse della collettività nazionale, il punto massimo di sviluppo a cui era giunta la determinazione della sovranità popolare, quanto l’anticipazione di ulteriori conquiste democratiche da realizzarsi in un futuro non lontano. Laddove la garanzia di un avanzamento progressivo era proprio nell'incontro imprescindibile tra l’azione delle masse popolati e i “congegni” più avanzati della Costituzione. La difficoltà maggiore nella ricostruzione del dibattito costituzionale alla Costituente deriva dal fatto che molto del lavoro di predisposizione del testo costituzionale definitivo venne svolto all’interno di comitati, sezioni e riunioni non ufficiali e non pubblicizzati in misuta adeguata a promuovere una maggiore sensibilizzazione dell’opinione pubblica nazionale, a scapito, come si è detto per il caso delle adunanze plenarie della Commissione dei Settantacinque, di una discussione generale e pubblica. A questo proposito Terracini si era espresso il 23 luglio del 1946 in relazione ad un necessario «contemperamento» dei lavori delle Sottocommissioni, e di quelli della Commissione plenaria !°.
E d’altra parte poi dall’esigenza di coordinare le parti del progetto approvate dalle singole Sottocommissioni nacque il Comitato di
redazione.
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I.II Il Comitato di redazione Il Comitato di redazione, detto anche dei “Diciotto”, costituitosi nel-
l'ottobre del 1946 con una specifica funzione di coordinamento tra i lavori della I e IM Sottocommissione,
divenne
nel novembre
dello
stesso anno, allo scopo di accelerare i tempi dell’attività costituente, l’organo centrale per la sistemazione dell'intero lavoro costituzionale. Il 29 novembre si decise infatti di costituire un nuovo comitato incaricato di «procedere alla redazione del testo della Costituzione a mano a mano che le Sottocommissioni completino il lavoro, salvo ratifica della Commissione plenaria del progetto finale destinato alla discussione dell'Assemblea». Sempre nello stesso giorno si deliberò secondo quanto era stato proposto da Togliatti”, che con Terracini
si era mostrato timoroso nei riguardi dell’affidamento ad un Comitato così ristretto di un lavoro tanto cospicuo, di rimettere all’operato della Commissione plenaria le questioni di maggiore rilievo sorte in seno ad esso. Al Comitato di redazione vennero assegnati vari compiti: esso fu incaricato prima di stilare il progetto iniziale da discutere con la Commissione plenaria dei Settantacinque, poi di presentare questo testo iniziale all'Assemblea, ove avrebbe rappresentato la Commissione costituzionale nel corso del dibattito, infine di redi-
gere la Carta costituzionale definitiva, dopo le votazioni finali della Costituente. In relazione al suo lavoro di coordinamento finale del testo esso si trovò poi ad assumere le seguenti funzioni: ricomporre alcuni articoli approvati sommariamente dall’ Assemblea; rispettare le raccomandazioni ad esso pervenute; ed infine coordinare l’intero testo costituzionale, «venuto fuori, in notevole parte, da una pioggia di emendamenti votati a distanza di mesi» "8. Il Comitato venne com-
posto da diciotto membri i quali, scelti sulla base della proporzione dei gruppi esistente nella Commissione dei Settantacinque, si incaricarono dunque di raccogliere gli emendamenti presentati da tutti i commissari.
Ricostruire l’attività del Comitato e dei suoi componenti non è cosa semplice, in quanto di esso mancano i verbali ufficiali e la stessa documentazione esistente e depositata presso l'Archivio storico della Camera dei deputati si presenta spesso lacunosa e disomogenea. Tuttavia grazie alle ricostruzioni esistenti, tramite gli studi preziosi e specifici fin qui condotti", ed infine attraverso una consultazione diretta è possibile darne sufficientemente conto. Ciò che purtroppo non si riesce a ricostruire è lo specifico apporto che i singoli costituenti diedero al lavoro interno del Comitato,
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alla sua attività di
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mediazione, che evidentemente non ebbe un carattere solo tecnico
ed estemporaneo. Si conoscono le presenze più o meno assidue nel Comitato, ma non è dato determinare l’attribuzione precisa dei suoi interventi di coordinamento o modifica ad un costituente anziché ad un altro, trattandosi di un lavoro collettivo di cui mancano le verba-
lizzazioni. In modo estremamente induttivo si può ricavare il peso prevalente che una cultura politico-istituzionale ebbe sull’altra qui presente in relazione ad una determinata modifica o osservazione o semplice spostamento dei commi di un articolo, confermando in questo modo quelle dinamiche di conflittualità ed anche di mediazione presenti nel seno dell’intero svolgimento dell’attività costituzionale dell'Assemblea costituente. E dunque si può giungere alla conclusione di carattere metodologico secondo la quale ogni ricostruzione dell’attività del Comitato che volesse cogliere la specificità dei contributi dei singoli orientamenti deve partire dai risultati già conseguiti nella ricerca relativa al lavoro svolto dalle altre istanze costituenti (le Sottocommissioni,
le adunanze
plenarie, il dibattito in Assemblea),
documentato invece da resoconti puntuali. Va comunque detto che l'osservazione dell’attività del Comitato sembra essere in generale importante proprio in relazione alla funzione non trascurabile che esso svolse per l’attuale testo costituzionale. Nelle buste dell’Archivio storico relative all'Assemblea costituente esiste una parte connessa ai lavori del Comitato dei “Diciot-
to”, dalla quale si evince il concreto svolgimento dell’operato di quest’ultimo. Esso si incaricò di analizzare tutte le proposte che in forma di articoli provenivano dalle Sottocommissioni, non solo per coordinarle e sistematizzarle (in particolare questo era necessario per alcuni emendamenti per i quali le stesse Sottocommissioni non avevano predisposto alcuna soluzione), ma anche per apportarvi delle modifiche o delle osservazioni, la cui analisi si rivela comunque ricca di acquisizioni importanti !?°. Basti qui qualche esempio rapido volto a dar prova sia in generale della importanza del Comitato; sia della sua funzione di sede di discussione politica fra gli esponenti dei vari schieramenti qui presenti!” In tema di libertà civili interessante è l’attività del Comitato per l’articolo 25 (relativo alla materia penale), nella quale si potrebbe rintracciare anche la spinta di alcuni costituenti appartenenti alle formazioni della sinistra affinché il Comitato nel suo coordinamento assumesse la proposta uscente dalla I Sottocommissione e scartasse quella della II Sottocommissione meno avanzata. In particolare il Comitato assunse la formulazione seguente: «la responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole, fino alla condanna definitiva. Le pene devono tendere alla
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rieducazione del condannato e non possono ricorrere a trattamenti crudeli e disumani. Non è ammessa la pena di morte. Possono fare eccezione soltanto i Codici militari di guerra». In relazione alla prima frase, il Comitato anticipò una espressione posta in seconda posizione dalla 1 Sottocommissione (e assente nella proposta della Seconda) probabilmente per «collocare la persona umana avanti ad ogni interesse del legislatore» !??, e per sottolineare in prima istanza la negazione della possibilità storica del ripetersi di un uso sconsiderato delle sanzioni collettive quale era avvenuto sotto il fascismo. Ma ancor più significativo appare il fatto che il Comitato assunse sia l’indicazione — del tutto assente nella formulazione della 1 Sottocommissione — sulla funzione rieducativa della pena, nel senso preciso datole da Basso nella sua relazione («Le sanzioni detentive devono tendere alla rieducazione del colpevole» 3), sia la limitazione della pena di morte ai soli casi di guerra (secondo il parere di Togliatti !?4), e non anche a quelli in cui fosse dichiarato il pericolo pubblico. L’orientamento del Comitato di redazione sulla concezione specifica del diritto sembra qui abbracciare quella che le sinistre espressero alla Costituente (propria pure dell’ala più avanzata della Democrazia cri-
stiana). Il carattere promozionale del diritto si imponeva su quello frenante, repressivo o puramente protettivo e diveniva uno strumento
di crescita collettiva, di valorizzazione degli elementi democratici e
partecipativi del nesso costitutivo esistente tra ordinamento giuridico e sfera sociale'. Importante sembra essere poi l'osservazione fatta dai “Diciotto” in relazione all’articolo 3, a proposito del quale si decideva lo spostamento dell’ordine delle frasi del primo comma, ponendo in prima posizione l’espressione «tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge» rispetto a quella di una loro «pari dignità sociale». Spostamento questo che — legato sia alla soppressione, nel
progetto approvato dalla Commissione per la Costituzione, dell’intero concetto della «pari dignità sociale»; sia alla successiva soppressione della singola determinazione «sociale» data inizialmente dalla 1 Sottocommissione ad una nozione di dignità altrimenti astratta (in particolare fu Basso a portare un contributo decisivo ad una determinazione innovativa dell’articolo 3!) — sembra evidenziare una preferenza del Comitato per un concetto più formale di eguaglianza. Non va dimenticato infatti che la nozione di parità nei nuovi termini di tipo materiale fu la premessa del riconoscimento effettivo dei presupposti sostanziali della cittadinanza dei quali la sinistra si fece portatrice in tutto il corso del dibattito costituzionale (non è un caso che ad esempio numerose furono le critiche di costituenti come Laconi che in seduta di Costituente rilevava la convenienza a non perdere
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«nella formulazione ultima di questo articolo quel concetto che era stato introdotto dalla 1 Sottocommissione», e cioè quello per il quale si doveva «a tutti i cittadini uguale trattamento sociale», non ritenendo che il «principio di pura e semplice eguaglianza di fronte alla legge valga anche ad eliminare tutte le differenze di trattamento che corrispondono alla condizione del cittadino e al posto che egli occupa nella scala sociale» 7). Altrettanto importanti furono le osservazioni del Comitato sulle proposte uscenti dalla 1 Sottocommissione, come ad esempio quelle relative alla diversa durata delle due Camere, a proposito della quale si osservava la pertinenza della proposta successiva relativa ad una parità della loro durata (cinque anni per entrambe, anziché sei per il solo Senato), più consona da un punto di vista logico e giuridico alla deliberata eguaglianza dei loro poteri. Su questa risoluzione in primo luogo assunta per ragioni di ordine logico e formale, appare non di meno plausibile rintracciare un’eco delle posizioni della sinistra che non essendosi riuscita ad imporre sulla questione della limitazione delle funzioni del Senato rispetto a quelle della Camera dei deputati, propose tramite Laconi almeno una «eguaglianza della durata dei due corpi legislativi» !?8. E altrettanto significativi furono i rilievi sull’articolo 137, in riferimento al quale il Comitato prendeva in considerazione nelle sue osservazioni la proposta di un controllo sulla costituzionalità delle leggi in via principale, elaborata dalla I Sottocommissione e accoglieva tale possibilità, pur proponendone una modifica. Nel secondo comma dell’articolo 128 del progetto si prevedeva infatti l’esercizio dell’impugnazione in via principale per il governo, cinquanta deputati, un Consiglio regionale da non meno di diecimila elettori o per un altro ente ed organo a ciò autorizzato dalla legge sulla Corte costituzionale, anziché — come la 1 Sottocommissione aveva proposto inizialmente — per «chiunque, entro il termine di un anno», direttamente
dinnanzi alla Corte medesima. Posto che la questione centrale intorno alla Corte costituzionale fu quella della sua composizione, il Comitato accettò la soluzione proveniente dalla seconda sezione della II Sottocommissione di una attribuzione del controllo di costituzio-
nalità delle leggi ad un nuovo organo speciale, 44 hoc (la Corte costituzionale appunto). In tal senso la distanza era da coloro che pretendevano di attribuire il delicatissimo sindacato alla competenza del magistrato ordinario! e che in generale si esprimevano a favore di un sistema di controllo “diffuso”, riconoscendo questa funzione di garanzia ad organi preesistenti!°. Inoltre, per ciò che attiene alla suaccennata questione dell’impugnazione in via principale sembra interessante riportare che il Comitato avrebbe poi ripreso durante il
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coordinamento finale, senza esiti positivi, la questione, prevedendo anche la possibilità di un ricorso diretto del cittadino alla Corte,
secondo quanto proposto dalla II Sottocommissione". Del restante svolgimento dell’attività del Comitato si apprendono notizie dalle sedute dell'Assemblea costituente, da cui si rileva che esso continuò il suo compito di coordinamento del testo costituzio-
nale in un crescendo di lavori ai quali parteciparono molti dei costituenti (non compresi tra i “Diciotto” iniziali) che avevano presentato rilevanti emendamenti. Questi ultimi venivano infatti qui discussi e respinti o accettati, e quindi ripresentati in aula a seconda delle soluzioni di compromesso accordate. Il Comitato arrivò al coordinamento
definitivo in fretta e furia,
con un ultimo accordo tra le proprie proposte e quelle dei rappresentanti dei gruppi presenti in aula per la redazione finale del testo. Tra le iniziative conclusive più importanti a cui il Comitato diede vita c'è da sottolineare quella relativa alla architettura della Costituzione. Esso deliberò infatti all'unanimità che il testo costituzionale non avesse un preambolo ove inserire disposizioni «generalissime» seppur altrettanto valide giuridicamente, ma accordò che tali norme, affinché non perdessero della loro efficacia, venissero inserite fra le «Disposizioni generali», che «appartengono al testo costituzionale ma precedono le sue due “Parti”». Si deliberò che in questo gruppo iniziale di articoli sarebbero state comprese, secondo la volontà espressa dalle forze più democratiche presenti nell’Assemblea, altre disposizioni fondamentali caratterizzanti il «“volto” della Repubblica», le quali avrebbero — in quanto dotate anche esse di valore precettivo — giustificato denunce di incostituzionalità dinnanzi alla Corte costituzionale nel caso di una loro violazione. Note 1. Si è molto discusso a proposito della natura del crollo del fascismo. In particolare la questione ruota attorno a due diverse interpretazioni del 25 luglio 1943. A tale proposito cfr. ad esempio E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in AA.VV., Storia d'Italia, vol. Iv, m, Dall’Unità a oggi, Einaudi, Torino 1976, pp. 2332 ss.; C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848/1948, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 381 e S. Merlini, I{ governo costituzionale, in Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano, cit., pp. 48-9.
2. Così C. Mortati, La Costituente. La teoria. La storia. Il problema italiano, Darsena, Roma 1945, p. 141.
3. Analogamente cfr. D. Novacco, L'officina della Costituzione italiana 1943-1948, Feltrinelli, Milano 2000, p. 15.
4. M. Fioravanti, Giuristi e dottrine del partito politico: gli anni Trenta e Quaranta, in Franceschi, Guerrieri, Monina (a cura di), Le idee costituzionali della Resistenza, cit., p. 198; P. Pombeni, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea, Il
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Mulino, Bologna 1985, p. 207. Sempre in relazione al ruolo dei partiti politici e al loro «contributo fondamentale alla democratizzazione nazionale», si veda M. Salvati, Cit
tadini e governanti. La leadership nella storia dell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 122. s. A questo proposito cfr. le considerazioni di V. Foa in Lavori in corso 19431946, Einaudi, Torino 1999, pp. 121 ss.
6. Durante il periodo del regime fascista l'impianto fondamentale del sistema liberale non venne modificato; mantenendo una certa ambivalenza il fascismo da un
lato non abrogò formalmente ed esplicitamente lo Statuto albertino, dall’altro esso attuò un mutamento costituzionale la cui incisività fu tale da far ritenere assai difficile «un puro e semplice ritorno alla legislazione anteriore» al 1922, come se il regime instaurato a partire da quel periodo «non avesse importato nessun mutamento sostanziale nel funzionamento
della costituzione albertina». Così Mortati, La Costituente,
cit., pp. 136-7. In generale su questa tematica implicante il nodo dei rapporti tra la Carta albertina e i mutamenti compiuti ad opera del regime, in specie al momento del suo insediamento, cfr. P. Pombeni, Derzagogia e tirannide. Uno studio sulla forma partito del fascismo, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 473 ss.; N. Tranfaglia, Dallo Stato liberale al regime fascista. Problemi e ricerche, Feltrinelli, Milano 1973; L. Paladin, Fascismo: diritto costituzionale, in Enciclopedia del diritto, vol. xvI, Giuffrè, Milano 1967; A. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario (1965), Einaudi, Torino 1995. 7. S. Neri Serneri, Classe, partito, nazione. Alle origini della democrazia italiana 1919-1948, Lacaita, Manduria 1995, p. 45. 8. M. Flores, Governo e potere nel periodo transitorio, in AA.VV., Gli anni della Costituente. Strategie dei governi e delle classi sociali, Feltrinelli, Milano 1983, p. 4; C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. no. 9. F Barbagallo, La formazione dell’Italia democratica, in AA.Vv., Storia dell’Italia repubblicana, vol. 1, Einaudi, Torino 1994, p. 10. 1o.
Mortati, La Costituente, cit., p. 55.
n. Cfr. a questo riguardo, tra gli altri, G. Zagrebelsky, Storia e costituzione, in G. Zagrebelsky, P. P. Portinaro, J. Luther (a cura di), Il futuro della Costituzione, Einaudi, Torino 1996; L. Jaume, I/ potere costituente in Francia dal 1789 a De Gaulle, in P. Pombeni (a cura di), Potere costituente e riforme costituzionali, Il Mulino, Bolo-
gna 1992. 12. M. Fioravanti, Stato e costituzione. Materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Giappichelli, Torino 1998, p. 226. 13. Era stato lo stesso Gramsci a dire che le elezioni del 1919 «ebbero per il popolo un carattere di Costituente». (A. Gramsci Quaderni del carcere, edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 2004-6).
Sul significato di questa affermazione si veda in particolare L. Paggi, Antonio Gramsci e il moderno principe, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 281 ss. 14. Aspetti specifici delle espressioni politiche di questo problema della crisi dello Stato liberale sono ampiamente trattati nel volume a cura di F. Grassi Orsini, G. Quagliariello, I/ partito politico dalla grande guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell'età dei sistemi politici di massa (1918-1925), Il Mulino, Bologna 1996, di cui cfr. in particolare G. Quagliariello, Masse, organizza zione, manipolazione. Partiti e sistemi politici dopo il trauma della Grande Guerra; M. Fioravanti, La crisi del regime liberale (1918-1925) nel giudizio della giuspubblicistica italiana; G. Sabbatucci, La crisi del sistema politico liberale; S. Neri Serneri, Partiti, Par-
lamento e Governo: dal liberalismo al fascismo. 1s. Grassi Orsini, Quagliariello, Prezzessa, in Idd. (a cura di), I/ partito politico, CITA pPSaI:
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16. Quagliariello, Masse, organizzazione, manipolazione, cit., p. 70. 17. Fioravanti, Stato e costituzione, cit., p. 232.
18. Fioravanti, Giuristi e dottrine del partito politico, cit., p. 197. 19. Ibid. 20. Ivi, p. 198. 21. P. Pombeni, I/ partito fascista, in A. Del Boca, M. Legnani, M. G. Rossi (a cura di), I/ regime fascista, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 207; P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffrè, Milano 1986, p. 356; E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, NIS, Roma 1995, p. 118. E tuttavia nonostante il permanere di tale modello, non vanno omesse le resistenze dei costituenti, in sede di elaborazione del testo costituzionale repubblicano, al riconoscimento costituzionale dei partiti, cfr. cap. IM del presente volume. 22. Pombeni, La Costituente, cit., p. 66. 23. Zagrebelsky, Storia e costituzione, cit., p. 52. A questo proposito cfr. anche L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell'Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999, pp.
49 SS. 24. P. Pombeni, Potere costituente e riforme costituzionali. Note storiche sul caso italiano 1848-1948, in Id. (a cura di), Potere costituente, cit., p. 103. 25. Mortati, La Costituente, cit., p. 131. 26. Si allude qui ad esempio alle intuizioni di giuristi come V. Crisafulli, M. S. Giannini, C. Mortati, sulle quali si tornerà più specificamente nel secondo capitolo. Sulle trasformazioni qui evocate cfr. in particolare G. Melis, I{ diritto amministrativo tra le due guerre, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, xX, 1990; Id., Lo Stato e le istituzioni, in C. Pavone (a cura di), ‘900. I tempi della storia, Donzelli, Roma 1997; Id., La storia del diritto amministrativo, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, t. 1, Giuffrè, Milano 2000, in particolare pp. 123 ss.; S. Cassese, La formzazione dello Stato amministrativo, Giuffrè, Milano 1974; G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Einaudi, Torino 1992. 27. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., p. 45. 28. Ivi, p. 48. 29. Ibid. Di questo stesso testo cfr. anche pp. 147 ss., ove si analizza la distinzione tra «norme-regole» e «norme-principio». Inoltre su analoghe tematiche, connesse alla definizione di un modello di democrazia costituzionale con particolare riferimento al caso tedesco, cfr. G. Gozzi, Democrazia e diritti. Germania: dallo Stato di diritto alla democrazia costituzionale, Laterza, Roma-Bari 1999, in specie la Parte seconda. 30. Il problema legato all’interpretazione dell’ordine del giorno del 16 ottobre è stato studiato a fondo. Su questo punto si veda in particolare Pavone, Alle origini della Repubblica, cit., p. mu. 31. P. Calamandrei, Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, vol. m, Morano, Napoli 1968, pp. 300 ss. 32. Ibid. 33. Pavone, Alle origini della Repubblica, cit., p. 112; Flores, Gli anni della Costituente, cit., p. 5.
34. Su questo tema si vedano ad esempio le analisi di E. Cheli, I/ problema storico della Costituente, in S. J. Woolf (a cura di), Italia 1943-1950.
La ricostruzione,
Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 199-201; Pavone, Alle origini della Repubblica, cit. pp. 112-6; Flores, Gl anni della Costituente, cit., pp. 3-20; C. Fiumanò, R. Romboli, L’As-
semblea costituente e l’attività di legislazione ordinaria, in E. Cheli (a cura di), La fondazione della Repubblica italiana, Il Mulino, Bologna 1980, pp. 390-407; P. Uaretti, Forme di governo e diritti di libertà nel periodo costituzionale provvisorio, in Cheli (a
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cura di), La fondazione della Repubblica, cit., pp. 68-77. In particolare gli ultimi due saggi arrivano a conclusioni diverse, valorizzando in termini maggiormente positivi il periodo costituzionale provvisorio. 35. Cfr. quanto scrive Quazza (Resistenza e storia d’Italia, cit., pp. 206-7) a proposito del decreto n. Ist. 36. M. Legnani, Restaurazione padronale e lotta politica in Italia 1945-1948: ipotesi di lavoro e dibattito storiografico, in “Rivista di Storia contemporanea”, a. mM, fasc. 1,
1974, p. 6. 37. A questo proposito si veda G. E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna 1995, p. 154. 38. Mortati, La Costituente, cit., p. 156. 39. ASCD, Archivio della Consulta nazionale, relazione della Giunta permanente per il regolamento, 22 novembre 1945, busta 1, fasc. 2. 40. C. Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in E. Piscitelli (a cu-
ra di), Italia 1945-48. Le origini della Repubblica, Giappichelli, Torino 1974, pp. 174 ss. 41. E. Curiel, Scritti 1935-45, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 105. 42. APC, Verbali del Comitato centrale, 18 settembre 1946. 43. Ragionieri, La storia politica e sociale, cit., p. 2389. 44. In relazione agli effetti che la firma dei noti Protocolli di Roma (dicembre 1944) ebbe sul futuro dei CLN, cfr. i diversi giudizi di Quazza (Resistenza e storia d'Italia, cit., pp. 294 ss., 339 ss.) e Rusconi (Resistenza e postfascismo, cit., pp. 83 ss.). 45. Pavone, Alle origini della Repubblica, cit., p. 140. 46. In questo modo scrive Melis (L'arzzzizistrazione, in Romanelli [a cura dij, Storia dello Stato italiano, cit., pp. 224-5), «il dualismo tra i poteri derivanti dalla Resistenza e i poteri derivanti dalla continuità dello Stato si sarebbe» risolto «a vantaggio dei secondi». 47. Neri Serneri, Classe, partito, nazione, cit., p. 271. 48. Mortati, La Costituente, cit., p. 155. 49. Cfr. ad esempio V. Crisafulli, Dallo Statuto albertino alla Costituente, in “Rinascita”, n. 3, marzo 1946. so. Il rapporto di Athos Lisa si trova in “Rinascita”, n. 49, 12 dicembre 1964, con il titolo Discussione politica con Gramsci in carcere. Su questa questione si veda anche P. Spriano, Storia del partito comunista italiano, vol. I, Gli anni della clandestinità, Einaudi, Torino 1969, pp. 262-86. si. Intorno al tema di una possibile continuità tra la politica gramsciana presente nella discussione sulla costituente e la successiva linea togliattiana dei Fronti popolari e della futura “democrazia progressiva”, ove era centrale il richiamo alla convocazione di una Assemblea costituente, sono state fatte numerose letture spesso contrastanti. In particolare cfr. le diverse considerazioni di F. Sbarberi (in Id., I comunisti italiani e lo Stato 1929-1956, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 65-76) e di C. Buci-Glucksmann nel suo Grarzsci e lo Stato, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 281-8.
52. È stato tante volte sottolineato dalla storiografia che si è occupata del periodo resistenziale come il PCI sacrificò nelle trattative con gli altri partiti del CLN a questo obiettivo altre importanti istanze di rinnovamento sociale, economico e amministrativo, perché spesso incapace di cogliere l’importanza delle riforme necessarie in quel difficile periodo di ricostruzione. Sulla forte attenzione dedicata dal PCI alla Costituente si vedano, oltre alla relazione di Togliatti al v congresso del Partito comunista (ora in P. Togliatti Opere complete, vol. v (1944-1955), Editori Riuniti, Roma 1984), le testimonianze di vari dirigenti comunisti riportate da R. Martinelli, nel 1 ‘ capitolo della Storia del Partito comunista italiano. Il partito nuovo dalla Liberazione al 18 aprile, Einaudi, Torino 1995, pp. 23-7. 53. E. Curiel, Verso la Costituente, in “Rinascita”, nn. 5-6, maggio-giugno 1945.
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s4. Terracini stesso nell’Intervista sul comunismo difficile (a cura di A. Gismondi, Laterza, Roma-Bari 1978), sostiene la posizione secondo cui gli anni del postfascismo costituiscono una fase intermedia tra «la dittatura fascista e un regime che riceva la sua impronta principale dalle masse lavoratrici» (p. 91). In questo periodo intermedio «Noi ritenevamo — scrive ancora Terracini — che bisognava intanto porsi l’obiettivo, non facile e non immediato, della riconquista di una vera democrazia, di condizioni
di libertà nelle quali lavorare per rafforzare le posizioni dei lavoratori in vista di future battaglie» (p. 103). A questo proposito cfr. le considerazioni di P. Di Loreto, Togliatti e la doppiezza. Il PCI tra democrazia e insurrezione 1944-49, Il Mulino, Bologna 1991, in particolare pp. 35 ss. 55. Cfr. a questo riguardo A. Agosti, «Partito nuovo» e «democrazia progressiva» nell’elaborazione dei comunisti, in Franceschini, Guerrieri, Monina (a cura di), Le idee costituzionali, cit., D. Sassoon, Togliatti e la via italiana al socialismo. Il Pci dal 1944
al 1964, 56. vista di 57.
Einaudi, Torino 1980. Con queste spiegazioni cfr. U. Terracini, Come nacque la Costituzione, interP. Balsamo, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 25, 61-2.
Analoghe considerazioni sono svolte da A. Sgarabelli, La stampa comunista:
tra svolta democratica
e modello liberista, in R. Ruffilli (a cura di), Costituente e lotta
politica. La stampa e le scelte costituzionali, Vallecchi, Firenze 1978. 58. A tale riguardo cfr. in particolare G. U. Rescigno, La discussione nella Assemblea costituente del 1946 intorno ai suoi poteri, ovvero del potere costituente, delle assemblee costituenti, dei processi costituenti, in “Diritto pubblico”, gennaio-aprile 1996, anno II, N. I, pp. I-4I.
59. Terracini nella seduta del 15 luglio del 1946 dichiarava che nel decreto n. 98 mancava l’indicazione concreta del modo con cui il governo era responsabile del suo operato dinanzi all’Assemblea. AI riguardo egli propose la costituzione di una commissione («degli affari politici»), alla quale «il governo dovrebbe passare, per conoscenza tutte le misure e tutti gli atti che da lui promanassero». Tale commissione era per Terracini «un organo collegiale, rappresentativo di tutta l’Assemblea, il quale segue metodicamente l’attività del governo» (cfr. U. Terracini, Discorsi parlamentari, vol. 1, Senato della Repubblica, Roma 1995, pp. 64-6). 60. La ricchezza dell’attività svolta dalle commissioni è stata studiata in particolare da S. Bova (Introduzione, in Id. [a cura di], Le commissioni della Costituente per
l'esame dei disegni di legge. vol. 1, ASCD, Segreteria generale della Camera dei deputati, Roma
1985) e da Fiumanò,
Romboli
(in L'Assemblea
costituente e l’attività di
legislazione ordinaria, cit.), i quali trattando il reale funzionamento delle commissioni legislative hanno rilevato che l’attività svolta da queste in senso progressivo tramite il superamento concreto dei limiti formali ad esse imposti le rese «“i tentacoli” di un’Assemblea sovrana» (ivi, p. 410).
A questo proposito si vedano le osservazioni di Cheli, I/ problema storico della Costituente, cit., p. 200.
62. Sul lavoro e sull’organizzazione relativi alla Commissione Forti, cfr. G. Rizzo, I lavori preparatori della Costituente, in AA.vV., Studi per il Ventesimo anniversario del-
l'Assemblea Costituente, Vallecchi, Firenze 1969; M. S. Giannini, Il Ministero per la
Costituente e gli studi preparatori della Costituzione, in AA.VV., I precedenti storici della Costituzione, vol. IV, Studi e lavori preparatori, Giuffrè, Milano 1958; G. Zagrebelsky, La Commissione Forti e i suoi giuristi, in AA.vv., Il Parlamento italiano. Storia parla-
mentare e politica dell’Italia 1861-1988, vol. xM (1943-1945). Dalla Resistenza alla democrazia, Nuova CEI, Milano 1989. 63. INagiostante sia stato dichiarato da parte di alcuni costituenti (tra cui 74 primis Ruini) che in realtà i lavori preparatori dell'Assemblea costituente, in cui era compresa
l’attività della Commissione
Forti, non
56
vennero
presi in stretta
e diretta
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NASCE
L'ASSEMBLEA
COSTITUENTE
considerazione durante il proprio operato costituzionale, è anche vero che se ne può affermare un reale contributo non soltanto in quanto alcuni protagonisti di questa fase di preparazione vennero poi eletti deputati alla Assemblea, ma anche in quanto i temi analizzati dalle commissioni nate presso il ministero furono poi i medesimi trattati in sede di Assemblea costituente. Infine il contributo dei lavori preparatori lo si può anche valutare dall'influenza più ampia che questi ultimi ebbero sulla formazione culturale e in specie sulla competenza costituzionalistica di quanti sarebbero poi stati impegnati nella redazione del testo costituzionale. In relazione al rapporto Commissione Forti-Assemblea costituente, cfr. da ultimo, U. Allegretti, Interlocutori dell'Assemblea costituente, in S. Rodotà (a cura di), Alle origini della Costituzione, Ricerca della Fondazione
Lelio e Lisli Basso-Issoco, Il Mulino, Bologna 1998. 64. Marx non scrisse nulla di sistematico intorno al problema del diritto e dello Stato; tuttavia si può ricavare anche fuori dal contesto testuale stretto — come U. Cerroni ha evidenziato in I/ pensiero giuridico sovietico (Editori Riuniti, Roma 1969) — la natura dialettica del giudizio marxiano sul terreno dei rapporti giuridici. Se infatti nell’elaborazione marxiana per un verso il diritto è l'elemento che proprio in virtù del suo formalismo consente una legittimazione della diseguaglianza sociale, resta pur vero che esso costituisce anche una contraddizione, tanto per il vincolo di generalità ed oggettività che ad esso pertiene quanto per il suo essere una limitazione certa dell’arbitrio, nell’ambito di un contesto sociale ed economico sostanzialmente diseguale. Analogamente per ciò che attiene all’elemento statuale, vale un giudizio di tipo dialettico. È Engels che ad esempio in La situazione della classe operaia in Inghilterra (Edizioni Rinascita, Roma 1955; in particolare cfr. p. 292), parla dell’ambivalenza dello Stato. Esso costituisce a suo parere sia uno strumento necessario alla borghesia per «tenere a freno il proletariato», sia anche un ostacolo (in quanto luogo del controllo e della regolamentazione generale) alla libertà di movimento e di sfruttamento della stessa classe dominante, la quale ne neutralizza gli oggettivi aspetti positivi utilizzandolo come arma per l’asservimento della classe operaia o cercando di tenerlo il più possibile «lontano da sé». 65. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1570 66. Ivi, p. 757.
67. Ibid. 68. 69. 70. 71.
Ivi, p. 1566. Ivi, p. zoro. Ivi, p. 1752. In relazione al dibattito sull’ordinamento elettorale svoltosi all’interno della
Commissione Forti cfr. in particolare E. Bettinelli, All'origine della democrazia dei partiti. La formazione del nuovo ordinamento elettorale nel periodo costituente (19441948), Comunità, Milano 1982, pp. 231 ss. 72. G. D'Alessio (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana. I lavori preparatori della «Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato» (19451946), Il Mulino, Bologna 1980, p. 92. 73. Questa espressione in realtà venne usata da U. Terracini successivamente nel suo discorso di insediamento alla presidenza dell'Assemblea costituente l°8 febbraio 1947 (cfr. Terracini, Discorsi parlamentari, cit., p. 69). 74. D'Alessio (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana, cit., p. 93. 75. Allegato n. 1: Relazione preliminare sul tema «Rigidità o flessibilità della Costituzione» (Massimo Severo Giannini), ivi, p. 123. 76. Ivi, p. 119.
77. U. Spagnoli, Partecipazione popolare e società civile nel pensiero e nell'opera di Umberto
Terracini costituente e nel dibattito odierno, in A. Agosti (a cura di), La
DT
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
coerenza della ragione. Per una biografia politica di Umberto Terracini, Carocci, Roma 1998, p. 148.
78. D'Alessio (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana, cit., p. 133. 79. Ivi, p. 144.
8o. In questo discorso Togliatti aveva infatti espresso un giudizio negativo intorno alla Corte costituzionale definita una «bizzarria» (P. Togliatti, Discorsi alla Costituente, a cura di S. D’Albergo, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 15). A questo proposito cfr. anche il capitolo 4 del presente volume. 81. Crisafulli infatti spiegò che in una Costituzione di tipo rigido, dotata di norme che predispongono l’istituzione di validi organi di controllo costituzionale, le norme precedenti, «incompatibili con le successive costituzionali “programmatiche”, sono da queste tacitamente abrogate, allo stesso modo in cui certamente sono abrogate le norme anteriori incompatibili con le successive non programmatiche» (V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano 1952, p. 22). 82. D'Alessio (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana, cit., p. 180.
83. Ivi, p. 181. 84. Sedute del 20 e del 28 marzo 1946, ivi, pp. 311-60. 85. Sulle novità rappresentate dal riconoscimento nella nuova Costituzione dei diritti sociali, si veda Rodotà, Le libertà e i diritti, in Romanelli (a cura di), Storza dello Stato italiano, cit., pp. 301-63. 86. Mortati, La Costituzione di Weimar, ora in Rodotà (a cura di), Alle origini della Costituzione, cit., p. 374.
87. A questo proposito si vedano anche le pagine che Mortati dedica a tale tematica contenute in Id., La Costituente, cit., pp. 182 ss. 88. D'Alessio (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana, cit., p. 384. 89. Terracini, Come nacque la Costituzione, cit., pp. 70-2.
go. A proposito dell’influenza che le singole ideologie ebbero nella Commissione, lo stesso Terracini aveva inizialmente affermato che «i membri della Commissione che sono stati designati dai vari partiti, pur sedendo nella Commissione
stessa soltanto
come studiosi, in realtà non potranno mai prescindere interamente dalle ideologie dei propri partiti [...]}»; D'Alessio (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana, cit.,
p. 49. Ed anche D'Alessio nella sua Introduzione (ivi, pp. 15-30), parla dell’influenza che le posizioni ideologiche e politiche dei membri della Commissione hanno esercitato all’interno dei singoli dibattiti. gI. Ivi, p. 460.
92. Su questo punto si vedano gli scritti successivi e specifici di Crisafulli, rilevanti in questo contesto pur alla luce dell’ulteriore percorso politico del giurista, quali La Costituzione e le sue disposizioni di principio, cit., e Stato Popolo Governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Giuffrè, Milano 1985. 93. V. Crisafulli, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, ivi, pp. 199 ss. Questo saggio del dicembre 1957 appartiene al periodo in cui Crisafulli era appena uscito dal PCI. 94. Analoghe considerazioni sui limiti del potere del capo dello Stato e sull’esercizio non personale di questa funzione istituzionale si trovano nelle osservazioni fatte successivamente da Terracini e da Basso nelle tavole rotonde organizzate il 23 febbraio 1964 e il 26 gennaio 1970 dal “Movimento Gaetano Salvemini”; cfr. AA.vv., I poteri del presidente della Repubblica. Da Segni a Saragat, “Movimento Gaetano Salvemini”, Roma (1964). 95. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, cit., p. 230. 96. V. Crisafulli, Per una Costituzione democratica, in “Rinascita”, n. 7, luglio 1946.
97. Ibid.
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I. COME
NASCE
L'ASSEMBLEA
COSTITUENTE
98. APC, Verbali del Comitato centrale, 18 settembre 1946. 99. U. Terracini, Controllo parlamentare e controllo popolare, in “Vie nuove”, n. 6, 8 febbraio 1948. 100. Pombeni, La Costituente, un problema storico-politico, cit., pp. 146 ss. Confronta anche per analoghe valutazioni sulla inattuazione della Costituzione, Pavone, Alle origini della Repubblica, cit., pp. 119-20; C. Pinzani, L'Italia repubblicana, in AA.VV., Storia d’Italia, vol. Iv, t. In, Dall’Unità a oggi, Einaudi, Torino 1976, pp. 24945; L. Basso, Stato e cittadino, in AA.VV., Italia 1945/1975, cit., pp. 409-21; U. Tertacini, Prolusione, in La Costituzione italiana. Verifica di un trentennio, a cura dell’ANPPIA,
La Pietra, Milano 1978, pp. 65-7; G. Ambrosini, Costituzione società, in AA.VV., Storia d'Italia, vol. Vv, t. I, I documenti, Einaudi, Torino 1973, pp. 2014-41; Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., in particolare il cap. x. ro1. Cheli, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, cit., p. 26. 102. A questo proposito significativo è ad esempio che presidente dell’ Assemblea costituente rimase fino alla fine proprio un comunista (Terracini) nel contesto di una tradizione parlamentare che prevedeva l’attribuzione della presidenza a uomini provenienti dalla maggioranza di governo. In generale l'affidamento della presidenza dell'Assemblea a Terracini fu per il PCI «un fatto di grande importanza» ed «un potere effettivo che non va sottovalutato» (R. Martinelli, M. L. Righi [a cura di], La politica del Partito comunista italiano nel periodo costituente. I verbali della direzione tra il v e il VI Congresso 1946-1948, Fondazione Istituto Gramsci — Annali 1990, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 335-6). 103. A tale proposito in riferimento ai lavori costituzionali è stato criticamente osservato (P. Pombeni, I/ gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), in R. Ruffilli, Cultura politica e partiti nell'età della Costituente, Il Mulino, Bologna 1979, vol. I, p. 426) come «l’immagine [...] di un lavoro svolto quasi in un salotto da un gruppo di uomini staccati dal paese non trova conferma nell’analisi delle fonti». 104. Sull’influenza che la Resistenza esercitò sui lavori preparatoti della Costituzione si è a lungo discusso da parte della storiografia anche con giudizi molto discordi (ad esempio G. Quazza e U. Rescigno nel sottolineare gli aspetti meno innovativi e meno progressivi del testo costituzionale, hanno evidenziato una distanza dell’intera attività di redazione della Legge fondamentale dal processo resistenziale). Per una esaustiva panoramica dei diversi orientamenti assunti dalla storiografia su questo nodo e su altri riguardanti in generale l'Assemblea costituente si veda G. Melis, Gl studi recenti sull’Assemblea costituente. Rassegna storiografica, in “Quaderni fiorentini”, n. 10, 1981, pp. 449-510. Sul rapporto tra Resistenza e Costituzione cfr. da ultimo S. Rodotà, Introduzione, in Franceschini, Guerrieri, Monina (a cura di), Le idee costituzionali, cit., pp. 5-11. 105. U. Terracini, Comunisti e Costituzione, in “Vie nuove”, n. 9, 2 marzo 1947. 106. L'espressione è di A. Amorth, in G. Rossini (a cura di), Da/ 25 luglio alla Repubblica. 1943-1946, ERI, Roma 1966, p. 430. 107. In relazione all'influenza delle altre esperienze straniere sul modello costituzionale italiano, della quale si mostrò attenta studiosa la Commissione dei Settanta-
cinque come ben dimostra la raccolta dei materiali sulle Carte costituzionali degli altri paesi qui fatta all’inizio dei lavori (Ac, Atti della Commissione per la Costituzione, Studi di legislazione costituzionale comparata, a cura del Segretariato generale della Camera dei deputati, Roma 1946) si veda in particolare De Siervo (a cura di), Scelte della Costituente, vol. I, cit.; oltre agli stessi riferimenti espliciti alle altre esperienze
europee ed extraeuropee fatti durante i lavori dai vari costituenti. 108. AC, CC, adunanza plenaria, 20 luglio 1946, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell'Assemblea Costituente, a cura del Segretariato generale della
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ALLA
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Camera dei deputati, Roma 1970, pp. 2-3. A proposito del riconoscimento di una nuova forma di cittadinanza nei sistemi costituzionali novecenteschi a partire da Weimar, cfr. E. Belvisi, Cittadinanza, e G. Bongiovanni, G. Gozzi, Democrazia, entrambi in A. Barbera (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, Roma-Bari 1998. Su questo cfr. anche G. Gozzi, Democrazia e diritti a Weimar, in Id., Derocra-
zia e dinitti, cit., pp. 77 Ss. 109. P. Pombeni, Idee per una costituente, in “Democrazia e diritto”, 4-94/1-95, Costituenti, p. 124. rro. P. Togliatti, Rapporto e conclusioni al vi Congresso del Partito comunista italiano (ora in Togliatti, Opere complete, vol. v, cit., pp. 376-7). ui.
APC, Verbali del Comitato centrale, 18 settembre 1946.
uz. Ibid. 113. U. Terracini, AC, A, 4 marzo 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 136-7.
114. Ivi, p. 136. 115. L. Basso, AC, A, 6 marzo 1947, ivi, pp. 203-9; R. Laconi, AC, A, 5 marzo 1947, ivi, pp. 190-200; P. Togliatti, AC, A, 11 marzo 1947, ivi, pp. 324-37.
116. U. Terracini, AC, Cc, adunanza plenaria, 23 luglio 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 9. 117. P. Togliatti, AC, CC, adunanza plenaria, 29 novembre, ivi, p. 79. 118. Così M. Ruini, AC, A, 22 dicembre 1947, ivi, pp. 4580 ss. 119. S. Bova, L'elaborazione della Carta costituzionale nel «Comitato di redazione», in Cheli (a cura di), La fondazione della Repubblica, cit., pp. 305-45; V. Atripaldi (a cura di), Il catalogo delle libertà civili nel dibattito in Assemblea costituente, Liguori, Napoli 1979. Qui l’autore si è occupato in particolare dell’attività del comitato riguardante le libertà civili; C. Carissimi, Ideologie penali e tecnicismo giuridico nel dibattito alla Costituente, in U. De Siervo (a cura di), Scelte della Costitàente e cultura giuridica. Protagonisti e momenti del dibattito costituzionale, vol. n, Il Mulino, Bologna
1980, pp. 441-504. Qui l’autrice si è soffermata specificamente sulla parte del lavoro del Comitato attinente alla materia penale; M. Luciani, I/ testo della Costituzione, in
Rodotà (a cura di), Alle origini della Costituzione, cit., pp. 99-127, ove ci si è soffermati in particolare sull’attività di coordinamento svolta dal Comitato in relazione agli articoli discussi e approvati dall'Assemblea prima del voto finale. Ulteriori notizie si trovano anche in G. Busia, I/ percorso di elaborazione del testo costituzionale, ivi, pp. 129-164 e nei vari commentari alla Costituzione, tra cui cfr. ad esempio V. Falzone, F Palermo, F. Cosentino, La Costituzione della Repubblica italiana, Mondadori, Milano 1976.
120.
Il Comitato
lavorò con
un metodo
particolare, cioè attraverso
l’intervento
diretto sugli stampati dei testi delle Sottocommissioni, dai quali i singoli articoli e proposte venivano ritagliati e poi montati su un supporto di cartoncino, che veniva inviato alla tipografia la quale ne stampava un ritretto numero di copie poi prese in esame dal Comitato in modo da avere delle bozze sulle quali era consentita una agevole sinossi delle elaborazioni delle Sottocommissioni. In relazione alle ulteriori fasi di passaggio, in particolare dal testo iniziale licenziato dall'Assemblea a quello uscente dall’ultimo lavoro di coordinamento svolto dal Comitato, sono stati rilevati
importanti mutamenti. Mutamenti che «per singole previsioni costituzionali», pur non cambiando il «senso della Costituzione», vi «sono e sono importanti». Su questi cambiamenti e più in generale sull’istituto del coordinamento del diritto parlamentare cfr. Luciani, I/ testo della Costituzione, cit.
121. A tale proposito cfr. Il Comitato di redazione, in AA.vv., I precedenti storici della Costituzione,
cit., p. 136 e da G. Armani, La Costituzione italiana, Garzanti,
Milano 1988, p. 59.
60
I. COME
NASCE
L'ASSEMBLEA
COSTITUENTE
122. Carissimi, Ideologie penali e tecnicismo giuridico, cit., p. 464. 123. Relazione del deputato Basso Lelio sulle libertà civili, in AC, 1 SC, Atti della Commissione per la Costituzione, Relazioni e proposte, a cura del Segretariato generale della Camera dei deputati, Roma 1946, pp. 7-10. 124. AC, I SC, 19 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 378. 125. Tuttavia non va dimenticato che in sede di Comitato dei “Diciotto”, in un contesto che può essere letto all’interno di una politica di mediazione, venne tolta la proposta innovativa presentata dalla Il Sottocommissione relativa alla gratuità della giustizia «per i cittadini indigenti, nei limiti e con le modalità stabilite dalla legge» (ASCD, catena 27/2, Rapporti civili). 126. L. Basso, I/ principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana, Feltrinelli, Milano 1958, pp. 191-2. O anche per analoghe considerazioni sull’importanza dell’articolo 3, cfr. Basso, Stato e cittadino, cit., pp. 419-20. 127. AC, A, 24 marzo 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 598. A questo proposito appare significativo che Ruini successivamente in fase di coordinamento finale dichiari alla Assemblea (AC, A, 22 dicembre 1947, ivi, p. 4582) che se il Comitato aveva ritenuto opportuno «mettere soltanto “pari dignità”», ciò era «perché sembrava che “dignità” senz’altro avesse maggiore ampiezza e solennità». 128. AC, Il SC, 22 ottobre 1946, ivi, p. 1226. A tale proposito sembra interessante riportare che fu il Comitato di redazione ad adottare provvisoriamente la dizione “Camera dei senatori”, sostituendola a quella di “Senato”, seconda una proposta di modifica avanzata da Terracini (AC, Il SC, 19 dicembre 1946, ivi, p. 1597). 129. Si veda per questo l’intervento di L. Einaudi in AC, CC, adunanza plenaria, 1° febbraio 1947, ivi, p. 289. 130. Su questo argomento cfr. G. D’Orazio, La genesi della Corte costituzionale, Comunità, Milano 1981, pp. 102 ss.; F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, NIS,
Roma 1996, pp. 13 ss. In generale sull’insieme delle questioni relative alla giustizia costituzionale cfr. G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna 1988. 131. Per tale disposizione elaborata dal Comitato cfr. M. Ruini, AC, A, 22 dicem-
bre 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 4586. Significativa poi parrebbe la tavola di raffronto dell’articolato costituzionale sulle proposte relative alle attribuzioni dei membri del governo, da cui emerge che se in base ad una prima proprosta in discussione, sarebbe dovuto essere il primo ministro l’unico responsabile della politica generale del governo; in base ad una seconda, responsabili dell’indirizzo governativo sarebbero dovuti essere il primo ministro e gli altri ministri collegialmente. Qui pesò evidentemente l’istanza critica delle sinistre, da sempre contrarie alle proposte di accentramento dei poteri nelle mani del primo ministro (come si evince anche dai numerosi interventi di La Rocca intorno all’articolo 95, nei quali egli intese affermare il concetto secondo cui il governo era un organo unitario e collegiale) le quali tuttavia non riuscirono ad imporre una mediazione all’interno del Comitato, che infatti optò a favore della prima formulazione. 132. Intorno all'ultima fase dell’attività del Comitato si veda Bova, L'elaborazione della Carta costituzionale nel «Comitato di redazione», cit., pp. 342-5.
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Biografie. La formazione politica e intellettuale di Terracini, Basso, Laconi
e Crisafulli, protagonisti alla Costituente
2.I Introduzione
Negli ultimi anni l’interesse della storiografia si è venuto concentrando sul contributo fornito da alcune voci dello schieramento delle sinistre presenti nei lavori di preparazione del testo costituzionale repubblicano!. Sulla scia anche di ricerche precedenti, consegnate in saggi monografici, l’attenzione si è rivolta soprattutto allo studio delle singole personalità presenti in sede di Costituente, e di conseguenza all’indagine sugli apporti di tipo giuridico e politico da esse forniti. Se in questa ottica, come si è detto inizialmente, lo studio dell’operato di alcuni costituenti provenienti dalle file della sinistra nella redazione della Carta costituzionale, sembra porre le premesse per una riconsiderazione analitica della vexata quaestio attinente al rapporto che la sinistra intrattenne con le tematiche di carattere giuridico-istituzionale, in generale nel corso della determinazione di nuovi modelli statuali otto e novecenteschi (tema questo che richiama i termini del classico dibattito su marxismo e Stato); questo studio parrebbe altresì aprire ulteriori spazi di approfondimento. Nello specifico per un verso esso conduce alla problematizzazione del tradizionale giudizio secondo cui la sinistra stessa non avrebbe fornito elementi innovativi al dibattito costituzionale repubblicano e alla statuizione di un nuovo assetto istituzionale democratico; mentre per un altro esso sembra consentire una rinnovata analisi dei caratteri stessi della Legge fondamentale, lasciando intravedere la possibilità di acquisire nuove conoscenze in ordine a «ulteriori aspetti e momenti
della formazione della nostra Carta costituzionale». Proprio a tale fine, sulla scorta dei suggerimenti di quanti invitano a prendere in considerazione i vari percorsi politici e culturali
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
dei protagonisti del dibattito costituzionale — quali fattori decisivi nella «strategia ricostruttiva delle matrici ideologiche e culturali della Costituzione italiana del ’48» — è sembrato proficuo provare ad approfondire l'indagine sulle «biografie» e le «matrici culturali dei singoli costituenti» 4. Questa analisi ha in effetti permesso di tenere in stretta considerazione non soltanto gli orientamenti che ispirarono i partiti di massa nei lavori costituzionali, per voce dei loro esponenti (il cui «contributo personale» si inserisce quindi «nel più generale comportamento dei rispettivi partiti» 5); ma put gli specifici apporti forniti da quei «protagonisti in carne e ossa» che operarono in Assemblea costituente, e negli altri luoghi ove di fatto venne prendendo forma il nuovo testo. In tal modo, come è stato sottolineato,
sembra emergere un quadro più complesso da cui si evince che «i singoli schieramenti, visti da vicino, non si presentavano monolitici,
ma permeati al loro interno, da posizioni diverse, corrispondenti spesso, a vicende personali talmente variegate da fornire occasioni a numerosi contrasti» all’interno delle stesse compagini partitiche”.
Emerge allora che il contesto materiale dell’attività di preparazione della Costituzione si allarga oltre il quadro storico-sociale complessivo, così come oltre quello giuridico, per comprendere il terreno delle singole vicende biografiche, dei singoli percorsi politici e intellettuali. Attraverso una loro ricostruzione e sulla scorta di una riconsiderazione complessiva dell'apporto fornito dai partiti comunista e socialista all’elaborazione della Legge fondamentale, sembra infatti possibile seguire il percorso compiuto da figure storiche considerate distanti da questioni di natura giuridico-statuale (come sembrano nella vulgata gli appartenenti allo schieramento delle sinistre, in specie a quella comunista) nella loro attività di elaborazione costituzionale. E comunque, accanto alla valorizzazione di queste specifiche identità culturali e politiche poste in luce proprio dall’indagine sulle
esperienze biografiche dei costituenti, uno studio incentrato sul«apporto dato — da questi ultimi — come singoli» ai lavori costituzionali*, consente di tenere fermo come sfondo unitario delle diverse
vicende prese in considerazione il comune riferimento ad una determinata tradizione ideologica e intellettuale. Si tratta della valutazione data da alcune voci della sinistra (in questo caso Terracini, Basso,
Laconi e Crisafulli) alle problematiche istituzionali, in rapporto — oltre che ovviamente ad una situazione contingente ben precisa — tanto alla dottrina marxista classica, quanto anche a quella democratica arricchitasi di nuove contaminazioni nel corso degli anni centrali del Novecento. Ecco allora che se da un lato il riferimento ad un
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2. BIOGRAFIE
determinato orizzonte concettuale consente di definire la cornice teorica unitaria dei singoli percorsi formativi (il richiamo ai testi classici della tradizione socialista accomuna le varie riflessioni delle personalità qui prese in esame); dall’altro lato questo stesso sistema di pensiero sembra arricchirsi di nuove determinazioni e suggestioni provenienti dai contributi dei costituenti esaminati, e dal tratto originale
che essi vi seppero imprimere alla luce delle concrete situazioni vissute. Laddove particolarmente significativa sembra essere la loro collocazione all’interno di una tradizione del socialismo e poi anche del comunismo, di tipo «particolare», capace cioè di farsi carico della cosiddetta questione nazionale, nelle problematiche che essa porta con sé (in specie quelle inerenti al rapporto Nord/Sud; o a quello tra masse contadine e proletariato urbano), e nella adesione alle istanze di modernizzazione che queste componenti della sinistra lungi dal contrastare sterilmente, contribuirono a promuovere.
Va detto poi che la necessità di carpire da una tradizione consolidata elementi utili e funzionali alla concreta attività svolta nelle sedi costituzionali in relazione alle tematiche qui affrontate (da quelle inerenti alle libertà civili e politiche a quelle connesse ai meccanismi di ingegneria istituzionale), si accompagna ad un altrettanto necessario ripensamento di alcuni postulati di questo mondo ideologico. Alla luce di quanto detto emerge allora sia una dimensione più ampia del contesto materiale in cui venne redatto il testo costituzionale, sia un arco temporale maggiormente esteso rispetto a quello in cui si situano i lavori dell'Assemblea costituente. Entrambe queste caratteristiche della prospettiva storica qui assunta conducono a loro volta a inserire la vicenda costituzionale repubblicana nel più vasto scenario italiano novecentesco (comprendente la fase storica del fascismo) e in un quadro culturale più complesso, capace di tematizzare gli orizzonti e le tradizioni intellettuali sullo sfondo dei quali si dipanarono confronti e discussioni nell’attività di redazione della Carta costituzionale. 2.2 Umberto Terracini
«Il movimento comunista torinese negli anni 1918-20 si presenta con un’organicità di pensiero e una serietà di intenzioni che suscitano meraviglia e interesse anche in un avversario»'°.
Così scrive Piero
Gobetti il 2 aprile del 1922, descrivendo l’ambiente politico-culturale in cui nasce il Partito comunista d’Italia e soprattutto nel quale si formano le personalità principali del suo gruppo dirigente torinese.
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
La biografia politico-intellettuale di Umberto Terracini si colloca proprio all’interno della storia della nascita del nuovo partito operaio, nel contesto storico dell’ascesa industriale della Torino di inizio secolo e nell’ambito del rinnovamento culturale che prende forma nei primi anni del Novecento in concomitanza con il declino dell’egemonia positivistica. La vicenda biografica di Terracini appare strettamente connessa con quella degli altri fondatori del PCD'I (Gramsci,
Tasca e Togliatti), dei quali dunque si deve tener debitamente conto nel corso dell’intera ricostruzione. È nella «città per eccellenza dell'industria», che si forma intellettualmente Terracini, nato a Genova
il 7 luglio 1895 da Jair e Adele Segre, famiglia borghese ebraica! Egli compie infatti a Torino nel liceo Gioberti i suoi primi studi classici, nel corso dei quali ha modo di conoscere due importanti figure, dall’incontro con le quali sarà indotto ad aderire alla politica del Partito socialista. I nomi di Umberto Cosmo e Angelo Tasca compaiono nella maggior parte delle note autobiografiche di Terracini che ne parla come di due promotori di un interesse politico e culturale di vasto respiro. Professore di Terracini negli anni del liceo, Cosmo, non per caso presente nella biografia di Gramsci che lo ebbe tra i propri insegnanti
universitari,
seppe
evidentemente
comunicare
ai
propri allievi la sua passione operaista e filosocialista, nonché un rigore filologico e una profonda dedizione ai testi, di cui sapeva soprattutto inquadrare il contesto storico-materiale («dava luce — scrive Terracini più tardi ricordandolo — alle pagine di autore sulle quali ci soffermava presentandole nella vita reale che le avevano storicamente dettate» !4). Tasca rappresentò probabilmente per Terracini una specie di modello di identificazione alternativo rispetto a quello per dir così consono all'ambiente borghese in cui egli cresceva. Proveniente infatti da una famiglia operaia e socialista disagiata, aveva aderito fin dagli anni della scuola alla causa socialista, divenendo uno dei più conosciuti organizzatori della sezione giovanile del Psi. Egli fu anche il tramite dei primi incontri tra Terracini, Gramsci e Togliatti, offrendo la sua casa di via S. Francesco da Paola per quelle iniziali riunioni che daranno vita all’“Ordine Nuovo”. L'adesione di Terracini al Partito socialista sembra avere caratteristiche diverse rispetto a quella di un Gramsci e di un Togliatti, le quali traggono origine in primo luogo dalla sua diversa collocazione sociale '!6. Probabilmente fu proprio il vivere a stretto contatto con un ambiente familiare chiuso in se stesso ed ostile a qualsiasi suggestione esterna in cui si potessero trovare i segni del fermento sociale presente nella vita cittadina, a spingere Terracini ad uno scandaglio di quel mondo proibito, fonte al tempo stesso di curiosità ed interesse. L’insoddi-
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2. BIOGRAFIE
sfazione talvolta anche più istintiva nei confronti di un ambiente intellettuale e sociale da lui descritto come falso, la collocazione nel contesto di una società in cambiamento negli anni caldi della guerra
libica e dei fervori tanto nazionalistici quanto antimilitaristi che essa suscitò e dei primi conflitti operai, portarono il futuro dirigente comunista ben oltre la mera adesione ad un socialismo di tipo deamicisiano,
moralisticamente
inteso, inducendolo
alla ricerca di un
fondamento scientifico alle ragioni della propria adesione alle rivendicazioni degli oppressi e ad un impegno politico più organico. Non è un caso che Terracini nelle sue sparse memorie autobiografiche consideri l’approdo alla sede della sezione e del circolo giovanile socialista in via Siccardi, ove per altro risiedevano le organizzazioni principali della classe operaia torinese, il momento decisivo e fondamentale per la sua formazione politico-culturale. Il periodo in cui Terracini giunge al socialismo (191) è solo l’inizio di una stagione conflittuale che vedrà protagonista una generazione caratterizzata non soltanto dal netto distacco nei confronti del passato, ma anche da differenziazioni e da contrasti accentuati dallo scoppio della Grande guerra e dalla vicenda rivoluzionaria dell’Ottobre. È lo stesso Terracini ad evidenziare la conflittualità esistente tra i giovani di quegli anni, tra coloro i quali si proclamavano antimilitaristi e accaniti oppositori sia nei confronti della dichiarazione di guerra dell’Italia alla Turchia, sia del possibile conflitto bellico europeo e quanti invece alimentavano le file del nuovo nazionalismo e dell’interventismo italiano. Questi sono dunque anche gli anni in cui Terracini si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino e consolida la propria militanza socialista all’interno dell’organizzazione piemontese giovanile, divenendone uno dei più attivi protagonisti (più tardi Terracini diventerà anche segretario della sezione socialista torinese, dirigendo a Torino il settimanale “Falce e Martello”). Gli studi universitari di Terracini meritano particolare attenzione in quanto permettono di inquadrare la sua storia personale e la sua formazione intellettuale in uno scenario più ampio, che è quello dell’ambiente universitario torinese di inizio secolo, in particolare all’interno delle facoltà di Lettere e di Giurisprudenza, caratterizzate dalla presenza di rilevanti figure (si pensi a Einaudi, Solari, Ruffini, Farinelli, Cosmo, Pastore, Loria, Jannaccone e molti altri) e di importanti
insegnamenti, che contribuiranno a rinnovare il patrimonio culturale italiano contemporaneo e a dare un tratto originale alla generazione qui formatasi negli anni precedenti e successivi al Primo conflitto mondiale.
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
L'alto livello di rigore e di scientificità ai quali il gruppo dell’“Ordine Nuovo” arriverà, la solida impostazione metodologica e la continua ricerca dell’approfondimento con i quali Gramsci, Tasca, Terracini e Togliatti affronteranno gli studi universitari e in generale con i quali si rapporteranno al mondo intellettuale costituiscono senza dubbio alcuni tra gli elementi specifici del gruppo principale del futuro PCD'I, il quale fonda su questi tratti una comune base di elaborazione. La fase di rinnovamento della cultura italiana si apre proprio durante gli anni della permanenza dei futuri comunisti all’università, e si giova in parte del contributo che questi daranno non soltanto sul versante politico ma anche su quello teorico più ampio. Partendo dalla valorizzazione di alcuni tra i nuovi protagonisti del mondo filosofico e letterario (si pensi soltanto a Croce, che il giovane Gramsci definisce promotore italiano del «movimento di riforma intellettuale e morale»,
o a Romain Rolland, fortemente influente
sulle letture di Togliatti e dello stesso Terracini), essi arriveranno ad una autonoma concezione del mondo, alla fondazione di un patrimonio culturale organico che costituirà la base della nuova cultura rivoluzionaria novecentesca. Gli autori che si devono tener presenti nella ricostruzione del percorso intellettuale degli ordinovisti torinesi, dai quali questi appresero cognizioni nuove e metodo di lavoro solido furono tanto pensatori considerati classici nella tradizione marxista quali Hegel (in particolare lo Hegel dei Lineamzenti della filosofia del diritto e quello della Fenomenologia dello spirito), Antonio Labriola, e Marx stesso (il Marx del Capitale e quello delle opere storiche, in particolare del 18 Brurzaio e delle Lotte di classe in Francia), quanto autori nuovi come Sorel o Rolland, quanto ancora rap-
presentanti della cultura nazionale italiana (come De Sanctis?°). Il contributo che i futuri dirigenti comunisti seppero dare alla cultura italiana, sulla scia di un rinnovamento che permeava la riflessione teorica di inizio Novecento a livello europeo (sono gli anni in cui nascono le prime avanguardie artistico-letterarie; in cui si registra un declino della tradizione positivistica; in cui la cultura tedesca dà alla luce pensatori come Benjamin e Brecht), riguardò quel nuovo modo di pensare il rapporto tra teoria e prassi, tra idealismo filosofico e realismo storico-politico, che sarebbe stato poi alla base delle loro successive valutazioni teoriche e azioni pratiche. Fu proprio questa
nuova concezione della filosofia, valutata in rapporto al risultato che essa riusciva a conseguire sul piano della pratica politica, a spingere Gramsci a distaccarsi dal pensiero crociano giudicato metafisico e a motivare il rifiuto della nuova generazione degli ordinovisti nei confronti della tradizione riformistica tipica delle elaborazioni della
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2. BIOGRAFIE
Seconda Internazionale, del patrimonio dottrinario del PSI turatiano e trevesiano, fermo ancora, a loro giudizio, ad una idea meccanicistica
della storia. Il motivo che più spesso ricorre nelle riflessioni gramsciane, negli articoli giornalistici di Togliatti, nelle memorie di Terracini, è il nuovo nesso tra la volontà soggettiva umana — la cui nuova concezione deve molto alla analisi di Bergson — e la realtà storica dei processi materiali. La repulsione nei confronti di quelle che Terracini chiama, secondo il lessico critico hegeliano, le «anime belle», inca-
paci di dare concretezza e operatività al pensiero umano, di renderlo «azione efficiente», e di metterlo in grado di trasformare attivamente il mondo e non soltanto — secondo il ben noto insegnamento dell’xI tesi su Feuerbach — di interpretarlo, fa tutt'uno tanto con la decisione di dar vita ad una forza politica organizzata diversa da quella già esistente, quanto con la determinazione a non essere «pensatori solitari» ??. Questa nuova generazione di filosofi rivoluzionari riesce a fare del marxismo il pensiero di riferimento della classe operaia, la sua autonoma ideologia, in modo più complesso, fuori dagli schemi economicistici di Loria, ed in un orizzonte culturale legato al retroterra della storia nazionale e al tempo stesso sprovincializzato degli elementi più localistici e talvolta reazionari. Soltanto comprendendo quanto sia profonda la rottura generazionale di pensatori e militanti come Gramsci o Terracini sul terreno non soltanto politico ma soprattutto su quello teorico, si riesce ad inserire la stessa storia
della fondazione del Partito comunista in un orizzonte culturale più vasto. È Terracini stesso che fa discendere la nascita del gruppo dell’“Ordine Nuovo”? dalla volontà di supportare la lotta politica dei vari organismi operai torinesi con una nuova iniziativa culturale, la quale avrebbe avuto il suo strumento principale in una rivista, sede questa tanto di una discussione teorica quanto strumento di una
azione pratica. Questa iniziativa traeva vita dalla necessità di superare la superficialità e la chiusura mentale sempre più presenti nell’università dopo gli anni della guerra, e di concretizzare quel sapere accumulato negli anni precedenti prodotto di «studi severi e liberi» 24. Si doveva allora formare, secondo la ricostruzione autobiografica di Terracini, un gruppo studentesco di giovani rivoluzionari non ignari delle «discipline umanistiche e scientifiche» e al tempo
stesso masse. sociali masse, quello
sensibili ai primi fermenti di rinnovamento presenti tra le Al fondo di questo interesse nei confronti dei movimenti esistenti vi è il consolidarsi di un nuovo rapporto con le basato non più su un atteggiamento di tipo fideistico (quale che - a giudizio della nuova generazione — sembrava vigere
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
nel PSI turatiano), bensì su un rapporto maggiormente organico, di interazione ed insegnamento reciproci, di osservazione diretta dell’intellettuale che aderisce alla vita e all’azione della classe operaia, e che dialetticamente imposta un nuovo contatto con la classe sociale al cui percorso di emancipazione egli intende contribuire. Si comprende dunque anche la polemica successiva nei confronti di Bordiga e del suo modo — percepito come settario e gerarchico — di intendere le problematiche inerenti al piano dell’organizzazione all’interno del nuovo Partito comunista, così come anche si comprendono i contri-
buti che gli ordinovisti apportarono alla concettualizzazione del nesso spontaneità-organizzazione, il quale sembra poi ricalcare e tradurre in termini concreti la relazione dialettica di libertà e necessità storica. La problematica del rapporto dirigenti-diretti, avanguardie intellettuali-masse popolari si inseriva all’interno di una cornice più ampia, nella quale il fulcro era costituito dalla crescente difficoltà da parte dell’intellighenzia dell’epoca di percepirsi al di sopra delle parti, di rimanere neutrale rispetto agli avvenimenti in corso (dalla guerra alla esperienza russa), di astenersi da un impegno fattivo e concreto. Le nuove forme di responsabilità che gli intellettuali assumeranno nei confronti del potere politico allora, se da un lato alimenteranno le campagne nazionaliste ed imperialiste, stringendo in modo più forte il legame costitutivo tra cultura e politica, dall’altro sveglieranno in molti giovani studiosi l’attenzione e l'interesse attivo nei confronti della vita politica e sociale (come ben attesta la crescente simpatia mostrata dai giornalisti dell’“Ordine Nuovo” nei confronti di R. Rolland, del quale venivano apprezzati l’indissolubilità tra pensiero ed azione e la concezione missionaria dell’intellettuale),
conducendo poi ad una maggiore problematizzazione del legame esistente tra produzione intellettuale ed uso politico delle idee. Tuttavia è bene sottolineare che i termini in cui veniva postulato da parte della nuova generazione torinese tale impegno politico a sostegno della causa proletaria si distinguevano nettamente rispetto a quelli con i quali questo stesso impegno era vissuto dalla generazione
di poco più anziana, che distanziatasi dal riformismo socialista, si raccoglieva attorno alla frazione dei cosiddetti massimalisti-intransigenti. A questi ultimi infatti pareva mancare proprio quella impostazione rigorosa, quella forrza mentis scientifica e filologica che i giovani torinesi avevano tratto e maturato negli anni dei «duri e liberi studi» universitari, la quale permetteva da una parte di dare un fondamento scientifico ad un’azione e ad una volontà altrimenti esposte a un rischio di astrattezza, dall’altra costituiva la base della nuova autonomia
culturale della classe operaia e dell’approdo alla sistematizzazione del-
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2. BIOGRAFIE
la cosiddetta filosofia della praxis. In questo senso la rottura generazionale del futuro gruppo dirigente del PCD'I avvenne nei confronti della tradizione riformista e di quella massimalista-rivoluzionaria. E bene comunque, una volta che si è accennato al quadro gene-
rale della cultura del tempo, delineare quali sono gli elementi specifici del percorso universitario di Terracini, anche per cercare di rintracciare quelle caratteristiche che lo contraddistinguono dagli altri ordinovisti. E noto che egli si laureò alla facoltà di Giurisprudenza (in particolare appare interessante sottolineare che l’instradamento agli studi giurisprudenziali rifletteva «l’aspirazione di antica data della borghesia piemontese a prepararsi ad alimentare i quadri politici ed amministrativi dello Stato» ?, oltre ad offrire «la possibilità di un lavoro qualificato e relativamente ben remunerato» ?) dopo la guerra nel giugno del 1919, avendo dovuto interrompere gli studi, prima perché arrestato (nell'autunno del 1916) a causa della sua intensa mobilitazione a favore della parola di pace concordata a Zimmerwald e Kienthal dai bolscevichi, poi perché arruolato al fronte come soldato semplice. Meno noto è che egli si laureò in Scienza delle finanze sotto la direzione di Jannaccone (a differenza di Togliatti che discusse la sua tesi su I/ regizze doganale delle colonie con Einaudi), e ancora meno noto è il suo argomento di laurea relativo alla prostituzione. Il ritrovamento della tesi di laurea di Terracini sarebbe molto importante ai fini di una approfondita indagine sui tratti della sua formazione intellettuale; tuttavia non disponendone ancora ci si accontenterà di fare delle parziali considerazioni, prendendo per valida l’unica notizia che si ha intorno al tema della tesi terraciniana. È Lina Merlin che nelle proprie memorie autobiografi-
che ?8 accenna rapidamente alla tesi di laurea di Terracini, motivando l’attenzione da quest’ultimo mostrata durante la battaglia per la abolizione delle case di tolleranza nel contesto della nuova democrazia repubblicana, con l’interesse specifico del dirigente comunista nei confronti di una questione trattata nel corso dei suoi studi. Di questa vicenda universitaria appaiono interessanti due elementi. La direzione di Jannaccone, e soprattutto la scelta o l’assegnazione di un argomento che si inserisce nella scia di altri temi simili, cari alla tradizione di studi liberale. A proposito del primo aspetto c’è da sottolineare che Jannaccone,
così come
Einaudi, si era formato in un
ambiente scientifico (quello del “Laboratorio di economia politica” di Cognetti de Martiis) ove forte era stata la disciplina allo studio rigoroso dei fatti empirici economici, nonché la passione filologica e
la propensione alla ricerca. Sono proprio questi tratti a caratterizzare la generazione universitaria della quale fece parte Terracini, che dun-
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
que presumibilmente trasse queste specifiche caratteristiche anche dal noto economista. AI pari della tesi di Togliatti il cui argomento verteva su un problema (quello del regime doganale delle colonie italiane) che fu oggetto di una intensa battaglia condotta dai liberisti contro il sistema doganale?9, la tesi terraciniana trattava un argomento attinente alla questione di un più o meno legittimo forte intervento pubblico questa volta in una materia scottante come la prostituzione. Anche in questo caso non va infatti dimenticato che proprio in quegli anni si stava tentando di rinnovare in senso liberale il regime di controllo e di regolamentazione prostituzionale, e che proprio nel 1919 fu enunciato un verdetto da parte della Commissione per lo studio dei provvedimenti per il dopoguerra che sottraeva alla P.S. la vigilanza sul meretricio 3°. Questo specifico oggetto di tesi sottolineava inoltre il forte interesse di Terracini nei confronti di una tematica sociale nella quale protagoniste erano quelle che all’epoca venivano chiamate le «salariate dell’amore»*, ossia, in quella concezione,
le componenti femminili del mondo degli sfruttati. Ora l’interesse del reperimento di questa tesi appare tanto più evidente se si considera che se da un lato una ipotetica opposizione all’intervento pubblico
significava lottare contro la regolamentazione autoritaria della prostituzione e il rigido disciplinamento del corpo femminile (basti solo pensare al termine di «lombrosismo di Stato» coniato non molto tempo prima); dall’altro poteva esserci per Terracini il problema dell'inadeguatezza di una soluzione che lasciava le prostitute alla mercé di uno sfruttamento violento e incontrollato. Una conferma a questa
ipotesi sembra provenire dalle riflessioni di Gramsci che nei Quaderni formula un giudizio ambivalente circa la ipotesi di legalizzazione della prostituzione ?. Al fine di comprendere la vicenda biografica di Terracini nella
sua completezza sembra opportuno inquadrare ulteriormente gli eventi storici principali che scossero l’Italia in quegli anni. Come si è gia accennato la guerra mondiale e la rivoluzione d’Ottobre ebbero una importanza fondamentale: la reazione infatti che questi episodi suscitarono nei giovani socialisti torinesi segna sicuramente una tappa
decisiva nella ricostruzione in corso. L'atteggiamento assunto dal Partito socialista nei riguardi del primo grande conflitto bellico accelerò il distanziamento di Terracini dalla dirigenza riformista del partito, senza tuttavia condurlo sino all’identificarsi con l’ala dei massimalisti intransigenti, della quale Terracini non condivideva l’astrattezza e dalla quale lo teneva distante la mancanza di quella «preparazione dottrinaria» e «serietà teorica e operativa» che invece avrebbero
va
2. BIOGRAFIE
caratterizzato il gruppo dell’“Ordine Nuovo” #. D'altra parte i segni di una differenza presente tra gli intransigenti (i cosiddetti “rigidi”) più anziani e i giovani socialisti34 che in quegli anni si avvicinavano al partito, si erano già manifestati nel 1916 al congresso giovanile piemontese nel corso del quale era stato proprio Terracini a presentare un ordine del giorno che si distanziava dalla politica rivoluzionaria dei più anziani per il suo rigore, la sua predilezione per la questione educativa, la ricerca di un programma politico meno immediato, ed infine l’attenzione alla questione nazionale, non considerata in modo eminentemente negativo. Tuttavia ciò che più spingerà Terracini e gli altri futuri ordinovisti alla elaborazione di un programma politico autonomo sono gli effetti strutturali prodotti dalla grande guerra e l'esempio degli accadimenti sovietici. È infatti alla fine del conflitto mondiale che sembra aprirsi per l’Italia, secondo il loro giudizio, una situazione
rivoluzionaria,
determinata
dalle trasformazioni
che la
guerra ha generato in primzis tra le masse popolari sempre più presenti nella scena pubblica. Proprio nel 1919 si colloca la fondazione del gruppo dell’“Ordine Nuovo”, nato, come si è avuto già modo di dire, dalla preparazione culturale di un gruppo di giovani studenti universitari, sempre più decisi a dar vita ad una azione politica incentrata sulla combattività della classe operaia torinese. Non a caso la rivista dedicò grande attenzione allo sviluppo del movimento dei Consigli di fabbrica durante il biennio del 1919-20. Nell’intenzione degli ordinovisti i Consigli rappresentavano la prima forma di soviet, di Stato operaio; la prima cellula di quel potere proletario che sulla scia dell’Ottobre innescava il processo rivoluzionario all’interno della situazione specifica italiana. Secondo le loro dichiarazioni la trasformazione del paese doveva avvenire a partire dalle strutture interne
del processo produttivo; così come il piano rivoluzionario doveva essere impostato in termini costruttivi (a differenza di come accadeva - a loro parere — nella politica massimalista ed intransigente). Scorrendo i pochi articoli che Terracini compone per l'“Ordine Nuovo” tra il 1919 e il 1920 (Terracini infatti avrà una funzione che si esplicherà «piuttosto a fianco della rivista che nella sua elaborazione redazionale»5, avrà cioè un ruolo più di attivista ed agitatore politico che di elaboratore teorico) si ritrovano due temi costanti della sua biografia politica. Tanto la dura polemica nei confronti delle inadeguatezze del PSI, mostratosi incapace di «comprensione storica»; quanto il rilievo forte dato alle Commissioni e ai Consigli di fabbrica, considerati come «l’evento rivoluzionario» italiano, unico in grado di tradurre in pratica la linea di Lenin:°. Il tono con cui Terracini interviene è quello solito, che lo contraddistinguerà nel corso della sua
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LA SINISTRA
ALLA COSTITUENTE
intera esistenza, di un polemista sottile, di un oratore? pungente ed ‘ironico, che sa fare del linguaggio una delle sue armi più efficaci e che dunque sa essere un profondo conoscitore dei segreti della retorica.
Mentre si intensifica all’interno del PSI la polemica tra i torinesi ordinovisti e la direzione socialista (in particolare l'opposizione tra le due linee strategiche si manifesta a Milano nell’aprile del 1920 per bocca dello stesso Terracini che preme per creare nelle altre realtà italiane una situazione insurrezionale simile a quella esistente a Torino), Gramsci si prepara a redigere un programma di distinzione
dal PSI, ipotizzando anche la creazione di un nuovo partito. E proprio questa impostazione ad essere accolta favorevolmente da Lenin al i congresso dell’Internazionale comunista, durante il quale vedranno la luce i noti “Ventun punti” e soprattutto matureranno le condizioni per una scissione dal PSI dei riformisti e di Serrati, concepita sulla base dell'analisi leninista secondo cui nel contesto italiano avrebbe potuto trionfare o la rivoluzione proletaria o la peggiore reazione antirivoluzionaria. La scissione di Livorno e la nascita del PCD'I segnano una ulteriore tappa nella comprensione della vicenda di Terracini. L'incontro con Bordiga, avvenuto in seguito all’unificazione tra le due frazioni comuniste torinese e napoletana, ha una notevole importanza non solo nella storia del gruppo dirigente comunista ma anche nella personalità di Terracini, della quale vengono illuminate e accentuate alcune specifiche caratteristiche proprio a seguito di questo rapporto politico e personale. Terracini infatti viene descritto da Gobetti come un giovane dal temperamento di «politico più che di teorico», al quale non «interessa l’elaborazione della teoria, se non
come interessa a Lenin (strumento di azione)». Un rivoluzionario «fatto per la polemica e per l’azione perché, trovando il mito nella realtà, non si preoccupa tanto di chiarirlo quanto di adeguarlo alle sue intenzioni. Certo — aggiunge quasi preoccupato
Gobetti — non
vorremmo che ci si nascondessero i pericoli di questo machiavellismo» 8°. In effetti a conferma di questo giudizio e però anche in aderenza con quanto sopra scritto a proposito delle caratteristiche della generazione a cui appartenne Terracini, si può dire che la posizione di quest’ultimo rappresenta una mediazione tra una impostazione ed una personalità simili a quella di un Gramsci, da sempre dedito alla riflessione ed alla ricerca di una alta elaborazione teorica (è significativo notare che lo stesso Gramsci attribuì la caratteristica di “ponte” a Terracini nella lettera del 12 gennaio 19249) e quella di un Bordiga, dal quale insieme a importanti suggestioni ideologiche, Terracini deriva in particolare una spiccata vocazione all’intervento poli-
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2. BIOGRAFIE
tico pratico e immediato, oltre che un particolare interesse per l’impegno di tipo organizzativo. Questa oscillazione spiegherebbe anche un più deciso accostamento iniziale di Terracini (rispetto a quello degli altri ordinovisti) al dirigente napoletano, una primaria titubanza dinnanzi alla successiva elaborazione gramsciana contraria sempre più alla linea bordighista e approdata poi alle tesi di Lione; ed un prolungato dissenso, proprio in questi termini accesi e protratti nel
tempo anche di Bordiga, nei confronti della successiva linea dell’Internazionale (motivo quest’ultimo di uno specifico rimprovero di Lenin all’intransigentismo di Terracini durante i lavori del in congresso dell’Internazionale, nei quali veniva proposta la costituzione di un fronte unico tra comunisti e socialisti). Tuttavia sarà lo stesso Terracini a rivendicare molto tempo dopo una preminente vicinanza al pensiero di Gramsci, una propria elaborazione avvenuta sotto «l’e-
gida gramsciana»4°, a formulare una critica al settarismo e al dogmatismo di Bordiga#, e al tempo stesso a richiamare la necessità di una seria analisi e preparazione teorica in linea con la sua stessa formazione universitaria.
L'idea secondo la quale la funzione di un intellettuale rivoluzionario doveva essere quella di colui il quale riesce ad anticipare i fatti e inserirsi nel loro svolgimento per valorizzarne la potenzialità progressiva, la concezione soggettivistica e antideterminista della realtà, si esprimono nella loro interezza nella relazione terraciniana # al congresso costitutivo del Partito comunista nel gennaio del 1921. Mentre nel paese va profilandosi l’inizio di una reazione controrivoluzionaria, mentre la crisi dello Stato liberale si accentua svelandone l’incapacità di governare le grandi trasformazioni avvenute nei primi anni del Novecento, il gruppo dirigente del PCD'I sembra ancora non comprendere in pieno la natura del fascismo, le prospettive attraverso le quali si sarebbe risolta la crisi in corso. La lettura infatti che gli ordinovisti diedero nel tempo della dittatura fascista subisce molti cambiamenti, continui ripensamenti ed oscillazioni, al punto da essere considerata uno dei nodi più problematici della storia del Partito comunista italiano.
In particolare le considerazioni di Terracini risentiranno di que: sto ritardo nella valutazione del significato della nascente reazione fascista, scontando anche tutto quell’entusiasmo rivoluzionario che aveva contribuito al distacco dal PSI e che era nato nel contesto di un
preciso momento storico. L'idea che per lungo tempo prevarrà nelle considerazioni terraciniane è quella di una «impossibilità del fascismo di consolidare le sue posizioni», e «la convinzione che il vecchio gruppo dirigente liberale avrebbe in breve tempo ripreso il soprav-
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
vento» 4. Queste parole corrispondevano alla convinzione che nel paese si sarebbe aperta una fase socialdemocratica (Bordiga arrivava persino ad ironizzare sul pericolo di un colpo di Stato di destra, percepito come il solito spauracchio dei socialisti 4). E ancor più riflettevano quella «considerazione ancora accentuatamente dualistica del fascismo e dei gruppi dirigenti liberali» la quale confinava «il concetto di unificazione» delle forze borghesi dirigenti «nei limiti di una manovra» compiutasi ai vertici dello Stato. Dominante era proprio la difficoltà di formulare una analisi che tenesse insieme tanto la comprensione dei caratteri nuovi dell’organizzazione fascista e della ristrutturazione in atto (e che dunque si distanziasse dalla nota equiparazione bordighiana tra fascismo e socialdemocrazia), quanto l’individuazione degli elementi che rispecchiavano la volontà delle classi dirigenti tradizionali di mantenere intatto il proprio prestigio. Soltanto infatti dopo le leggi fasciste contro le associazioni segrete, l’istituzione del Tribunale speciale, il patto di palazzo Vidoni - seppur ancora molto lentamente — diverrà più chiaro per il gruppo dirigente comunista il significato del regime fascista. Il fascismo apparirà allora come una forma particolare e nuova del tradizionale dominio capitalista, della sua stabilizzazione, un “regime reazionario
di massa”. È il congresso di Roma del 1922 (il n del PCD'1) con le tesi redatte da Bordiga e fortemente sostenute da Terracini — nelle quali prevalente era l’attacco alla socialdemocrazia e alla riunificazione tra i due partiti di sinistra italiani — ad evidenziare i ritardi dell’analisi comunista intorno ad una situazione politica in cambiamento. Non a caso la marcia su Roma e la successiva battuta anticomunista dei primi mesi del 1923 — nel corso della quale vennero catturati tutti i
dirigenti del PCD'I, eccezion fatta per Terracini il quale infatti si ritrovò da solo a reggere la direzione politica del partito e a riorganizzarne l’attività clandestina in varie città italiane — colsero impreparata la giovane organizzazione rivoluzionaria.
In occasione della redazione delle tesi di Roma le qualità di acuto polemista intransigente che caratterizzarono sempre Terracini si manifestarono appieno, in particolare nelle sue prese di posizione contro la linea dell’Internazionale (sempre più convinta della necessaria unità di socialisti e comunisti nella lotta al fascismo) e a favore invece della autonomia del PCD'I dal Psi. Tuttavia la conferma della tenace volontà costruttiva di Terracini, della sua dedizione alla causa
della classe operaia, e al tempo stesso i segni di un primo distacco dalla sempre più isolata politica di Bordiga si mostrarono in modo particolare nel corso di quel periodo allusivamente definito la «fase di interregno tra la direzione di Bordiga e quella di Gramsci»,
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Nonostante infatti il provvedimento d’autorità dell’Internazionale, col
quale questa imponeva un nuovo comitato esecutivo al PCD'I e offriva a Terracini e Bordiga di entrare nel Presidium dell’Internazionale (probabilmente proprio per recuperare i più dissidenti attraverso il lavoro internazionale); nonostante il rifiuto opposto dallo stesso Bordiga, Terracini insieme con Gramsci non respinse le direttive del massimo organo comunista, evitando così di far cadere il giovane partito nelle mani della destra di Tasca e allo stesso tempo conservando tanto un sostegno dell’iIC quanto una propria attiva presenza nel partito. Il periodo in cui Terracini soggiorna a Mosca tra l’agosto del 1923 la fine del 1924, è quello — peraltro ben documentato da Togliatti nella sua raccolta del carteggio intercorso tra Gramsci e gli altri ordinovisti originari — del ripensamento della azione politica necessaria nella realtà italiana dominata dall’ascesa del fascismo. La formazione di un nuovo gruppo dirigente di centro (rispetto alla sinistra di Bordiga e la destra di Tasca) fu un processo lungo e spesso faticoso, nel corso del quale vennero alla luce le diverse caratteristi che delle personalità appartenenti al vecchio nucleo torinese. Sicuramente dalla lettura del carteggio esistente emerge che Terracini, «un altro dei maggiori interlocutori della discussione sulla formazione del nuovo gruppo dirigente», sembra essere quello più lento nella maturazione di un distacco dalla linea che fino a quel momento aveva connotato il PCD'14. La sua stessa autocritica nei confronti di quella che viene ritenuta la politica settaria connotante la fase immediatamente precedente tardò ad arrivare. L’asse portante della svolta che maturò all’interno del PCD' verteva intorno alla riflessione gramsciana sulla necessità di conquistare le masse operaie e contadine, di elaborare una strategia che fosse volta alla costruzione di un partito di massa, il quale appunto non era più «concepibile al di fuori» di queste «ma solo come una parte di esse» 49. Proprio in questa impostazione della questione tornava a
farsi sentire quel problema del rapporto tra élte intellettuale e masse popolari, tra dirigenti e diretti che aveva caratterizzato il gruppo dell’“Ordine Nuovo” fin dal suo esordio. A questo proposito va detto che Terracini si avvicina al nuovo gruppo del cosiddetto centro sulla base della convinzione di una continuità della vicenda ordinovista, continuità che invece Gramsci non richiama. Questa convinzione potrebbe essere la prova della importanza sostanziale che quella esperienza assunse agli occhi del primo al di sopra di ogni altro percorso politico e teorico. Nella nuova realtà storica italiana si imponevano sia l'urgenza della organizzazione delle classi lavoratrici sia quella della trasforma-
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zione «molecolare» della situazione politica e sociale all’interno di un contesto che non prevedeva più l’imminenza della conquista del potere bensì una «fase preparatoria, di transizione» 5° (fatta di quella serie di “tappe intermedie” 5 che Terracini più volte avrebbe richiamato negli anni successivi), la quale si sarebbe giovata delle stesse contraddizioni vissute dalla borghesia negli anni del regime fascista. Il primo che si fece carico di questa necessità storica fu Gramsci, che su questa via cominciò un lento lavoro di formazione del progettato “centro”. Ora, ciò che di più interessante sembra emergere da questa fase di ricomposizione è la differenza di Terracini da Gramsci, il quale — in un giudizio che naturalmente trova un contesto determinante nelle contrapposizioni esistenti in seno all’allora gruppo dirigente comunista — ebbe più volte modo di rimproverargli nelle sue lettere quell’estremismo di tipo bordighista che tanto lo aveva influenzato nel corso degli ultimi anni della sua vicenda politica. Terracini viene ammonito da Gramsci per quel suo tipico carattere polemico e poco diplomatico nei confronti della politica dell’IC 5; definito criticamente un “ponte” tra Bordiga e lui stesso perché incapace di prendere una posizione chiara su una questione (quella della nuova riorganizzazione del partito) oramai centrale e lacerante 3; giudicato ancor più estremista di Bordiga 4. Tali rilievi mettono in luce (seppur connotandoli in chiave unilateralmente negativa) non soltanto alcuni tratti della personalità terraciniana (il Terracini «ragionatore dialettico, sottile, implacabile, fatto per la polemica e per l’azione» di Gobetti), ma anche il punto di massimo dissidio esistente,
in quella specifica fase storica, tra i due dirigenti, connesso proprio all'aspetto che avrebbe più volte contraddistinto Terracini nella storia del Partito comunista italiano, ossia una sua maggiore criticità nei
confronti della politica dell’Internazionale e di quella sovietica. In particolare Terracini rifiutava la linea assunta dalla Internazionale nel suo II congresso (la quale dettava la parola d’ordine del fronte unico, del blocco unitario tra PSI e PCD'I) e spingeva per una riorganizzazione dei gruppi di sinistra presenti nei vari partiti comunisti all’interno dell’ic. Il rifiuto nei confronti dell’egemonia del partito russo nella organizzazione rivoluzionaria mondiale è forte e spinge Terracini
a formulare
molte
riserve
sulla necessità,
sostenuta
da
Gramsci in quel particolare momento storico, di mantenere un forte raccordo e una decisa conformità rispetto alla politica del Comintern. E d’altra parte la questione dell’equilibrio tra autonomia politica nazionale e applicazione dell'indirizzo dato dal massimo organo sovietico resterà al centro di tutta la biografia politica di Terracini, in particolare accentuando la sua problematicità nel corso degli anni
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Trenta. Tuttavia a differenza di Bordiga egli non giunse mai a fare di questo suo rapporto maggiormente problematico nei riguardi dell’ic un motivo di fuoriuscita dal partito, di isolamento. Il che conferma quella sua ferma convinzione, quasi un principio di vita, secondo cui il singolo, «per alto che sia il suo ingegno e per quanto grande sia la capacità di agire» non riesce ad «incidere sulla realtà se non si unisce agli affini, ai simili, agli uguali» 59. Tanto meno Terracini si ostinò, pur continuando a difendere la politica precedente del Partito comunista, a rifiutare la necessità di una nuova linea politica 7, incentrata
sulla conquista della maggioranza delle masse proletarie e contadine (linea che sarà poi varata programmaticamente nel congresso di Lione del 1926). Poco dopo il suo rientro in Italia da Mosca, Terracini venne arrestato (agosto 1925). Rimase in carcere sino agli inizi del 1926 quando, liberato grazie a una sentenza del tribunale di Milano del 1° febbraio, si dedicò totalmente alla direzione dell’“Unità” e alla attività sindacale e di riorganizzazione del partito, secondo le linee della nuova politica comunista. Di questo breve periodo (nel settembre del 1926 infatti egli fu di nuovo incarcerato ') è interessante inquadrare l’attività giornalistica di Terracini, nella quale si possono rintracciare gli
elementi tipici della sua formazione, in particolare in ordine all’attenzione rivolta all’azione che si andava sviluppando all’interno dello specifico contesto produttivo operaio. L'idea gramsciana dell’organiz-
zazione di un movimento di fabbrica sul genere di quello ordinovista dei consigli e delle commissioni interne (il quale avrebbe dovuto diventare «il controaltare della CGDL, a situazione generale mutata» 99,
passando tatticamente per un rientro dei comunisti nei sindacati confederali entro cui sviluppare questo nuovo processo di aggregazione rivoluzionaria), si trova accolta e recepita in pieno in ogni scritto
giornalistico di Terracini. Dagli articoli di Terracini sull’“Unità” del 1926 (non tutti firmati) emerge la critica comunista al sistema sindacale fascista, alle linee di fondo della politica corporativa, della quale viene messa in rilievo la natura demagogica, incentrata sulla salvaguardia dei soli interessi del capitale °. La tradizionale polemica nei confronti dei massimalisti e dei riformisti in ordine alla loro incapacità di difendere il movimento operaio e i sindacati di classe si accompagna, a differenza del pas-
sato, al rilancio di una azione comune (di un «fronte unico del proletariato») in grado di svolgere il nuovo compito di reclutamento, difesa sindacale e creazione sul posto di lavoro di un organismo ampio, rappresentante le classi lavoratrici *. La nuova politica di riorganizzazione della classe operaia, sotto quello che va sempre più con-
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figurandosi per i dirigenti comunisti come un “regime reazionario di massa”, sposta i propri confini e si spinge alla proposta di una collaborazione con i lavoratori «bianchi» considerati altrettanto vittime del fascismo, del capitalismo e degli agrari. Dal periodo carcerario di Terracini emergono alcuni dati di particolare interesse, strettamente connessi gli uni agli altri. Si tratta di un ritardo analitico, relativo alla natura
stessa del regime fascista,
caratterizzante Terracini e altri dirigenti comunisti. In particolare risultano dalle prese di posizione di questo periodo una non piena comprensione dell’essenza autoritaria del regime (per lungo tempo rimarrà in piedi l’analisi incentrata sull’identificazione tra regime fascista e regime democratico-borghese) e della sua capacità di sfruttare i mezzi legali e illegali di repressione; una sottovalutazione del programma fascista volto alla negazione sostanziale del moderno Stato di diritto e alla soppressione delle garanzie fornite da quest’ultimo; una difficoltà a rappportarsi a una classe dirigente sempre meno capace di governare attraverso un sistema statale di tipo espansivo, fondato sulla mediazione politica e giuridica. A prova di questo ritardo di analisi sono gran parte delle osservazioni che Terracini fa nelle sue lettere dal carcere indirizzate alla moglie, la lettone Alma Lex, agli avvocati e a Mussolini stesso. È proprio nel suo carteggio che si può trovare una continua preoccu-
pazione, ed anche un certo stupore, tanto nei riguardi delle incongruenze esistenti in seno alla nuova legislazione del regime del 1926, quanto nei confronti delle violazioni giuridico-legali compiute dal governo fascista nel corso del periodo della detenzione carceraria di molti antifascisti. Il costante richiamo ad una applicazione corretta della norma, ad un rispetto sostanziale dei codici legali caratterizza fortemente il carteggio terraciniano. Tale elemento permette di mettere in luce, oltre al noto ritardo analitico tipico di tutto il PCD'I,
anche, in positivo, la preparazione giuridica di Terracini, la sua attenzione nei confronti della sfera del diritto e della legge (ancora ovviamente strumentale alla propria scarcerazione), attenzione che peraltro crescerà nei primi anni della stagione repubblicana, caratterizzando ulteriormente la sua personalità. Anzi è forse proprio questa esperienza di crescente delegittimazione e di sostanziale svuotamento del sistema delle garanzie giuridiche a spingere Terracini ad
una più attenta valutazione di quest’ultimo, valutandone tutto il potenziale progressivo. Appare interessante notare che Terracini venne arrestato definitavamente (settembre del 1926) quando incominciava a venir meno
quella relativa autonomia che la magistratura ordinaria aveva conser-
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2. BIOGRAFIE
vato rispetto al potere esecutivo, evidente soprattutto nelle soluzioni
dei processi anticomunisti precedenti, nei quali essa aveva assolto gli imputati per insufficienza di prove. Ma la condanna definitiva si avvalse proprio della promulgazione delle leggi eccezionali e in particolare della istituzione del Tribunale speciale e del confino politico. Ciò che travagliò Terracini fu l'abbandono, da parte del governo di Mussolini al fine di “incastrare” più oppositori possibili, di ogni rispetto delle norme giuridiche; nonché le procedure illegali con le
quali vennero condannati i massimi dirigenti comunisti sulla base della legge per la difesa dello Stato approvata dopo tre mesi dagli arresti (dato questo che spiega la prolungata ed immotivata detenzione di Terracini e degli altri del PCD'I sino al completo funzionamento del Tsps) e dopo che la magistratura ordinaria si era rifiutata di applicare il codice penale nei confronti degli atti politici compiuti dai comunisti. Nel contesto della lunga esperienza legata al processo più importante che venne fatto contro tutta la Centrale comunista, il cosiddetto “processone”, fu Terracini stesso che non soltanto si occupò della difesa finale del gruppo comunista davanti al tribunale ®, ma che anche mosse le più serie obiezioni ed i più scrupolosi ricorsi contro la legittimità dei capi d’accusa presentati. In partico-
lare è nel suo Merzoriale a Mussolini che vengono portate alla luce le violazioni giuridiche operate dal tribunale militare in relazione all’applicazione retroattiva ed estensiva della legge del novembre del 1926 (con la quale si creava appunto il TSDS), e venne ribadita la illegittima competenza del Tribunale speciale ad occuparsi di certi procedimenti giudiziari, già esaminati e giudicati secondo le disposizioni del Codice Zanardelli. Soltanto dopo molti mesi di attesa, scanditi
dalle numerose richieste di chiarimento in relazione al punto in cui si trovava il procedimento giudiziario, si arrivò nel maggio del 1928 al dibattimento definitivo in cui vennero emesse le condanne contro i comunisti arrestati due anni prima e sotto una legislazione precedente. A Terracini, riconosciuto quale massimo organizzatore del partito e definito «uno dei capi più autorevoli e più sentiti del partito comunista» che viene «immediatamente dopo» Gramsci, spettò la pena più dura, di ventidue anni, nove mesi e cinque giorni di reclusione per cospirazione contro i poteri dello Stato, secondo la sentenza del Tribunale speciale emessa il 4 giugno 19284. I fatti successivi confermeranno la preminenza del potere esecutivo nelle funzioni giudiziarie, l'eliminazione di ogni garanzia giuridica e la impossibilità di fare appello alle istanze legali per riottenere la libertà 5. Nonostante infatti (tramite l’amnistia del 1937) giungesse per alcuni antifascisti il termine del tempo di reclusione, molti di essi vennero rele-
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gati nelle isole di confino di polizia. Dei confinati fece parte anche Terracini che soggiornò prima a Ponza e poi allo scoppio della Seconda guerra mondiale, a Ventotene ove rimase fino all’agosto del
1943, quando espulso con Camilla Ravera dal partito ad opera del ristretto direttivo di Ventotene, riparò in Svizzera da cui poi prese i suoi primi contatti con la Resistenza, partecipando alla organizza-
zione partigiana della Val d’Ossola a partire dal 1944. Del periodo carcerario di Terracini (che si svolse in vari penitenziari, e principalmente a Santo Stefano e Civitavecchia) si hanno notizie tramite le lettere spedite alla moglie. Se ne desume che la vita trascorse in quegli anni molto lentamente, tra ore di lettura e studio e mansioni di pulizia; tra momenti di vita comunitaria condotta all’interno dei collettivi politici organizzati in carcere dai comunisti e una intensa attività di informazione segreta del PCD'I intorno agli arresti compiuti dalla polizia fascista. Quest'ultima attività politicoorganizzativa poté esser compiuta grazie al mantenimento di un minimo di comunicazione tra detenuti comunisti e centro estero del partito, che si giovò dell’invenzione dell’inchiostro simpatico con il quale Terracini e ad altri poterono scrivere anche lettere di carattere politico di vasto respiro. Proprio queste lettere costituiscono una importante documentazione per poter ricostruire i motivi del dissenso maturato da Terracini in carcere negli anni della “svolta”e poi nel corso dei vari cambiamenti subentrati nella politica comunista in particolare durante gli anni del Secondo conflitto mondiale. Queste lettere poi sono particolarmente importanti ai fini dell’individuazione della cultura politica di Terracini in sede costituzionale, in quanto permettono di approfondire alcune sue riflessioni intorno al concetto di democrazia e in relazione alle problematiche concernenti il successivo assetto politico nazionale postfascista. Interessante è osservare poi che le letture di Terracini in carcere riflettono l’ambiente culturale in cui si era formato il gruppo ordinovista, e al tempo stesso evidenziano la comune sensibilità intellettuale di Gramsci, Terracini e di Togliatti nei confronti di certi temi ed autori letterari e filosofici che sostanziarono, nonostante tutte le
differenze esistenti tra i tre dirigenti comunisti, la loro comune preparazione teorico-politica. Bastino gli esempi delle letture terraciniane di R. Rolland, considerato dall’“Ordine Nuovo” l’esempio di un giusto modo di legare pensiero ed azione; e di molti tra i grandi romanzi russi (in particolare Tolstoj), fin dagli anni del “Grido del
popolo” oggetto di forte attenzione da parte di Gramsci proprio per l'immagine feconda che da essi scaturiva riguardo al rapporto intellettuali e masse popolari. Così come anche significativi appaio-
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no gli studi terraciniani su Marx (richiese in particolare lo Herr Vogt), Labriola (il quale aveva rappresentato soprattutto negli anni della formazione del nuovo gruppo dirigente il divulgatore del pensiero marxista in Italia, il filosofo i cui testi venivano nel periodo univeritario sempre «letti, riletti, studiati e appuntati» 9), sugli scritti economici di Mortara, sulla Comune parigina, e in particolare negli anni Trenta, sulla vicenda della Russia staliniana (richiese infatti, tra gli altri libri, Bo/scevismo e capitalismo di Stalin, nonché altri testi quali Diritto ed esecuzione penale nell'Unione sovietica, La politica criminale sovietica, La mia vita di Trockij, La politica salariale dei sindacati sovietici 9). Terracini riapproderà — non senza difficoltà — al Partito comunista ufficialmente agli inizi del 1945, quando tornerà anche definitivamente in Italia. Qui egli assumerà fin da subito cariche politiche e
pubbliche di rilievo: oltre ad essere nominato nella direzione del partito, sarà designato componente della Consulta nazionale, diverrà membro dell'Alta Corte di giustizia, parteciperà attivamente all’attività della Commissione Forti e a quella relativa alla preparazione della legge elettorale per l'Assemblea costituente, di cui sarà uno dei protagonisti più attivi nel corso dei lavori di redazione del testo costituzionale (sarà infatti sia presidente della n Sottocommissione dell’ Assemblea costituente sia presidente di quest’ultima a partire dal febbraio 1947). In questo senso la sua vicenda biografica anche negli anni successivi alla approvazione della Costituzione rispecchierà l’at-
tività di quello che è stato definito un «rivoluzionario professionale» ed un «uomo di governo» instancabile 9. 2.3 Lelio Basso
AI pari della vicenda biografica di Umberto Terracini, anche quella di Lelio Basso sembra essere caratterizzata dallo stretto nesso tra impegno teorico e traduzione politica dell’ambiziosa ricerca intellettuale intrapresa. Il filo che lega le tappe della biografia bassiana è proprio quello dell’intreccio tra «“battaglia socialista” (come egli aveva definito la propria militanza di partito)» e «battaglie teoriche» 7°, ove l'esigenza di rendere imprescindibile il legame tra i due aspetti? deriva da un modo in parte nuovo e originale di ripensare il marxismo (sentito non a caso soprattutto come la “filosofia della
prassi”) nel corso degli anni centrali del Novecento, alla luce di eventi storici che rendono ancor più necessaria tale interazione. In
verità la problematicità del nesso teoria-prassi risulta essere molto
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forte tanto nella riflessione di Basso, che infatti vi dedicherà attenzione costante nei suoi scritti giovanili e in quelli successivi, quanto
nella sua stessa biografia7. La riscontrata e documentata difficoltà di far procedere parallele nella vita di Basso le due dimensioni (è stato infatti osservato come sia la dimensione teorica a prevalere nella vicenda politica bassiana??), legittima ulteriormente la tematizzazione della centralità di questo nesso, nella sfera esistenziale oltre che concettuale di Basso. Lelio Basso, nato a Varazze il 25 dicembre 1903, si formò in un ambiente familiare e sociale particolarmente stimolante, tale da farlo avvicinare alla politica attivamente in giovanissima età. L'educazione di un padre particolarmente attento alle vicende politiche (benché avverso al socialismo); un contesto nazionale connotato dal rapido susseguirsi di eventi eccezionali, quali la vicenda libica e la grande guerra con tutte le loro conseguenze sociali, vennero riconosciute da lui stesso componenti fondamentali per l’incubazione della propria passione politica. È dallo scenario di Milano (ove la famiglia si trasferì nel 1916) che Basso assiste alle conseguenze degli episodi centrali del primo Novecento ed in particolare qui si scontra con quello che sembra esserne l’aspetto costitutivo: l’ingresso delle masse sulla scena pubblica della storia. La constatazione dell’ingiustizia, morale oltre che sociale, nascosta dietro «la vernice liberale» della società
italiana di inizio secolo, la percezione di una crisi generale aperta dalla guerra nei confronti delle certezze del passato, si legano nella mente del giovane Basso all'adesione istintiva alla rivoluzione sovietica, della quale viene colto il potenziale di rinnovamento, di radicale rottura verso i valori tradizionali e gli schemi gerarchici su cui si fondano la società borghese e le sue distinzioni classiste. Questi sono anche gli anni in cui Basso sembra essere attraversato da «un grande travaglio spirituale», connesso ai primi dubbi relativi alla propria fede religiosa, sentita «soprattutto come un’acuta tensione morale», che Basso riuscirà nell’arco della sua esistenza a preservare come caratteristico modo di essere e di affrontare le vicende politiche più importanti, traducendola in una «sete di verità e giustizia» più complessiva 74. Lentamente avviatosi sulla strada della problematizzazione dei fondamenti della propria educazione liberale, egli viene ulteriormente spinto verso nuovi approdi culturali dall'incontro con il suo professore di storia Ugo Guido Mondolfo, conosciuto al liceo Berchet nel 1918 e dalle sollevazioni popolari seguite alla guerra a pattire dal 1919.
La possibilità della nascita di un nuovo mondo, ove protagoniste attive fossero le masse coscienti del proprio ruolo storico, la consta-
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2. BIOGRAFIE
tazione di un cambiamento rivoluzionario nella realtà dell’epoca, del quale Basso sembra cogliere retrospettivamente soprattutto la dimensione culturale, spingono ad una definitiva scelta a favore del socialismo (in particolare la concretizzazione di tale scelta avvenne nel dicembre del 1921, anno in cui egli si iscrisse al gruppo studenti socialisti, acquisendo la sua prima tessera politica). La iniziale e però determinante formazione marxista di Basso è costruita sulla base dei testi storici di Marx” (quelli «sulle lotte di classe in Francia e in Germania»7$), i quali assieme alle lezioni storiche di Mondolfo, capace di «concretezza marxista nella narrazione degli eventi» 77 e sensibile ad un modo nuovo di ricostruire la storia più simile a quello delle “Annales” di Bloch e Febvre che ai metodi storiografici della influente tradizione positivistica italiana, determineranno in Basso una costante propensione allo studio delle dinamiche storiche ed in particolare alla comprensione dialettica di queste. Su tale attitudine ebbe dunque un peso incisivo la lettura che Basso fece di Marx, conservando costante attenzione alla fonte hegeliana, di cui egli valorizzò più volte alcuni aspetti (in particolare la lettura dialettica del processo storico e della realtà) e a cui attinse nel corso dei suoi studi. Altrettanto significativo è l'approccio umanistico al marxismo e al socialismo del quale Basso recepisce soprattutto la carica emancipativa, valorizzandone la natura di strumento teorico e pratico della nuova coscienza operaia e più in generale di fondamento del percorso di liberazione intrapreso dall’umanità. Basso scriverà infatti che il socialismo gli si «presentò soprattutto sotto specie di un grande moto di redenzione umana», come possibilità di «liberazione dell’uomo da ogni servitù economica, sociale, politica 0 ideo-
logica, partecipazione di tutti alla responsabilità collettiva, conquista di una uguale dignità morale, fine di ogni alienazione» 7*. E proprio questa formazione intellettuale di Basso, tanto incentrata sul «senso dialettico della storia», sul problema dei processi educativi delle masse sfruttate e in generale sul tema lukAcsiano del perseguimento di una adeguata coscienza di classe, quanto costantemente attenta
allo sviluppo parallelo dei due termini del processo rivoluzionario, elemento soggettivo e dato oggettivo (l’intervento attivo e cosciente
della classe antagonista sulla base delle possibilità concrete esistenti nel contesto materiale), a distanziarlo notevolmente
dalla tradizione
riformista del psi. Non è infatti un caso che in tutti gli scritti giovanili bassiani sia dato riscontrare una riproposizione continua di queste tematiche congiunte allo sforzo polemico di rinnovare il bagaglio teorico-politico del Partito socialista. Un Partito socialista, a suo giudizio, tanto imbevuto di determinismo positivista al punto da essere
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prima negli anni caldi del dopoguerra incapace di interpretare le istanze di profondo rinnovamento provenienti dal basso e poi rassegnato dinnanzi alla vittoria fascista. Atteggiamento quest’ultimo dovuto proprio alla «fiducia nell’evoluzione pacifica»7? del sociali smo e della democrazia. Tutta la vita di Basso sarà segnata dal tentativo di contrapporsi a questa visione fatalistica della realtà storica, a cui egli opporrà quella medesima idea dialettica dei processi storici e dei loro risultati specifici (a questo proposito si vedrà più avanti come
Basso dedichi una attenzione particolare al terreno istituzio-
nale, frutto proprio di tale analisi dialettica dello Stato), la quale aveva profondamente caratterizzato la propria formazione intellettuale. In questo senso la distanza di Basso dalla linea gradualistica della Seconda Internazionale è grande, nonostante la sua formazione culturale resti legata a questa tradizione, seppur in maniera originale e aperta, come dimostra il perdurante interesse nei confronti di Karl
Liebknecht e ancor più di Rosa Luxemburg. In verità alcuni tratti della riflessione bassiana, in particolare il nesso teoria-prassi e l’attenzione alla reciproca interazione tra volontà soggettiva e contesto
materiale, sembrano avvicinare Basso ad alcuni esponenti di quella nuova generazione che aveva dato vita al Partito comunista (ad esempio a Gramsci), che egli guardò sempre con interesse pur mantenendosene distante. Del PcI egli rifiutò la subordinazione ai ventuno punti dell’Internazionale, richiamandosi in ciò alla centralità del problema delle «vie nazionali», da cui il PCI sembrava allontanarsi nella
«dogmatica adesione alle tesi di Mosca, uniformi pur nella difformità della reale situazione dei vari paesi», e pertanto poco aderenti allo specifico contesto italiano *°. Più in generale «ideologicamente la sua concezione del partito e la sua visione del socialismo tendevano a ricondurlo a modelli diversi da quelli del partito bolscevico, tanto più se, al di là del discutibile modello leniniano, ci si riferiva specificatamente al modello esplicitamente rifiutato della scolastica marxista-leninista di origine staliniana»*". Gli anni in cui Basso frequenta la facoltà di Legge ‘all’Università di Pavia sono caratterizzati da una particolare intensità dovuta alla propria scelta di indipendenza economica (a fronte di un rapporto sempre più difficile con la famiglia, in specie con il padre), e alla tenace volontà di arricchire il proprio «bagaglio di idee e esperienze socialiste», senza rinunciare alla prosecuzione degli studi universitari. In questo periodo Basso comincia la sua intensa collaborazione con alcune note riviste dell’epoca, da “Critica sociale” a “Rivoluzione liberale”, dall’“Avanti!” a “il Caffè”. I temi principali di questi interventi riguardano sia la critica al fascismo, nemico principale della
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«libertà di pensiero nella sua più vasta accezione» e oppositore feroce della ascesa intellettuale della classe operaia 84; sia la polemica nei confronti di un certo modo di intendere il socialismo, a cui Basso contrappone una propria originale interpretazione dei testi marxiani
e della tradizione politico-culturale del movimento operaio. Ciò che accomuna gli interventi giovanili di Basso è proprio l’attenzione costante al tema della formazione della coscienza di classe del movimento operaio, al modo in cui si compiono l’organizzazione autonoma della classe operaia e la costruzione della sua autonomia intellettuale, di fronte al «processo storico di rivoluzione sociale» che era già sotto gli occhi del Marx di Herr Vogt (più volte citato da Basso nei suoi scritti, sebbene opera di Marx poco frequentata), e che continua ad essere sotto quelli di Basso e della sua generazione. In questo senso il marxismo «filosofia dell’azione umana che mira a superare le barriere artificiali da lei stessa create» rappresenta lo strumento più adatto per il costituirsi di questa nuova consapevolezza storica del proletariato, al quale spetta il superamento del vecchio sistema («il proletariato produce la nuova società se plasma la nuova coscienza» 87), e l'edificazione di una nuova realtà più evoluta e capace di soddisfare i bisogni nuovi ed universali. D'altra parte la
specifica sensibilità di Basso nei confronti di questo aspetto della lotta di classe (il processo formativo della coscienza insieme ad una visione della «rivoluzione marxistica» come anche percorso di «rigenerazione spirituale» 88) lo porta ad interessarsi alla tematica neo-protestante dibattuta nella rivista “Conscientia” di G. Gangale, e ad apprezzare di questo orientamento religioso «l’intransigenza eroica, aspra, attiva, intesa come educazione di coscienze, creazione di una
più alta realtà»59. Parimenti l'esigenza di una salda educazione culturale, morale oltre che politica, l’idea secondo cui «per temprare il carattere all’intransigenza» sia necessario «lottare continuamente
contro l’avversa-
rio» 9° (necessità che Basso rammentava polemicamente a Gangale e ai neo-protestanti insieme al rigetto nei confronti di una visione della rivoluzione umana — la protestante — che concepisce gli uomini come
«strumenti di una volontà che ci trascende») spingono Basso ad impegnarsi sempre in adeguate forme di organizzazione politica (nel 1924 all'indomani del delitto Matteotti egli assume infatti la presidenza del “Gruppo goliardico per la libertà” e poco dopo entra nel comitato direttivo del gruppo milanese di “Rivoluzione liberale”, sentendo di entrare a far parte di un gruppo di giovani studiosi pronti
a lottare contro il fascismo). Non è un caso che il tema della riorganizzazione partitica sia una costante nella riflessione bassiana e si
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riproponga in fasi diverse della sua biografia politica come a voler tutte le volte ribadire l’indissolubilità di quel nesso costitutivo della tradizione marxista. Già nel 1924 infatti, in un intervento su “il Caffè”, Basso indica nei grandi partiti moderni «la via maestra» per nuove forme di vita politica e civile e per la determinazione di una «catarsi rivoluzionaria» in cui il proletariato non sarà «immiserito ed assolutamente impreparato ai suoi compiti grandiosi»; e nel 1925, scagliandosi contro il totalitarismo fascista, rivendica la legittimità e l’importanza della libera organizzazione delle autonome «energie rivoluzionarie» 9. Nel 1925 Basso si laurea in filosofia del diritto con una tesi dal
titolo La concezione della libertà in Marx sotto la direzione di Angelo Groppali. Nonostante non si disponga del testo di questa tesi, appare possibile formulare alcune ipotesi sulle sue linee di fondo, utilizzando a tal fine alcuni degli interventi bassiani di questo periodo nei quali ricorre il tema della libertà in riferimento al marxismo. In particolare l'articolo più significativo sembra essere Le fonti della libertà, apparso su “Rivoluzione liberale” nel maggio del 1925. In questo testo, più volte citato come emblema della sua iniziale adesione al neo-protestantesimo, Basso scagliandosi contro i socialisti unitari positivisti delinea la propria idea di libertà. La rivalutazione della fonte hegeliana, la polemica nei confronti di una lettura «positivista e ottantanovista» attribuita
a Marx, lo conducono ad una con-
cezione della libertà «interiore all'uomo», prodotto della «coscienza umana», e non dunque «esterna all'uomo». La rivendicazione di una libertà intesa come «esigenza spirituale» significa per Basso non tanto richiedere forme particolari di libertà bensì affermare una propensione alla libertà intrinseca all’essenza umana. Come si è già detto alcuni tratti della nuova interpretazione di Marx elaborata da Basso derivano dalla componente neo-protestante della sua formazione e dei suoi interessi culturali degli anni giovanili, dal «significato etico e liberatore» con cui egli intese il socialismo e in generale da «certe forme di intransigenza morale» tipiche della sua personalità e del suo modo di concepire la lotta di classe??. Questi medesimi aspetti lo porteranno anche più tardi (negli anni Trenta) ad interessarsi più attivamente alla «dimensione religiosa dell’uomo», a collaborare attivamente sia con “Conscientia” (già dal maggio 1925) sia con la rivista “Gioventù cristiana” (tra il 1934 e il 1935), voce di alcune com-
ponenti confessionali del protestantesimo italiano e a laurearsi una seconda volta con una tesi su un teologo protestante tedesco. Tuttavia va anche detto che nel citato intervento di Basso sulla libertà e nei suoi scritti che più paiono intimistici e venati di una forte dimen-
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2. BIOGRAFIE
sione religioso-spirituale, si scorge chiaramente un riferimento conti-
nuo alla realtà della lotta di classe, alla necessità di una azione politica capace di trasformare la società odierna? facendo leva sul punto culminante della contraddizione marxiana tra forze produttive (rappresentate dalla nuova consapevolezza e dai nuovi bisogni della classe operaia intesa come soggetto universale) e rapporti di produzione esistenti. In Le fonti della libertà, è il proletariato educato dalla «più intransigente lotta di classe» ad essere indicato da Basso — sulla scorta della critica di Marx al citoyen, il «vuoto fantasma» della società borghese «separato» dall’uomo reale — come il portatore della nuova libertà non più astratta e compartimentata, bensì «generale» e comprensiva di tutti gli aspetti della vita concreta degli uomini. Anche precedentemente Basso si era preoccupato di chiarire la concezione della libertà esistente nel marxismo («la dottrina del movimento socialista»), e aveva rivendicato, polemizzando nei confronti del «vecchio dissidio fra socialismo e liberalismo» proposto da Riccardo Bauer, la funzione liberale spettante alle classi oppresse, «le sole che possano rivendicare le negate libertà ed acquistare una coscienza sempre più universale ed eticamente superiore». In questo articolo Basso respingeva la concezione di libertà tipica dei teorici del liberalismo e si richiamava ad un contenuto concreto di questa, legata cioè a determinate condizioni storico-sociali%. Il 1925 è anche l’anno del suo ultimo intervento su “Rivoluzione liberale” nel quale
egli critica, riprendendo il classico tema marxiano del dissidio tra bourgeois e citoyen, proprio la visione astratta dell’individuo tipica della costruzione giuridica individualistica della società borghese e del suo formale egalitarismo (all’interno del quale vengono ignorate, secondo Basso, tutte le differenze sociali che lacerano il moderno cit-
tadino-elettore). Partendo
da questa dura polemica nei confronti
della mentalità democratica borghese, incentrata sulla concordia, sul
compromesso e sulla astratta collaborazione sociale, Basso giunge ad una conclusione volta al rilancio della lotta di classe e alla rivendicazione di una azione politica organizzata, nel corso della quale «l’operaio acquista coscienza di sé», della «propria dignità umana» e della «propria libertà». Mentre gli spazi legali concessi alle attività antifasciste si restringono, Basso comincia a collaborare intensamente a “Il Quarto Stato” e continua a scrivere su “Conscientia” (fino alla fine del 1926). Lo scontro con la dura realtà creatasi sotto il fascismo porta Basso a radicalizzare la polemica nei confronti della dirigenza
trevesiana, da lui ritenuta corresponsabile dell’avvento del regime, e allo stesso tempo ad accentuare il proprio intransigentismo di stampo protestante. In questa direzione è infatti da leggersi l’intervento pub-
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blicato su “Il Quarto Stato” nel giugno del 192697. Qui egli si scaglia contro Treves (che aveva criticato «le nuove leve del partito civettanti col protestantesimo» 98) e rivendica, come già aveva fatto precedentemente e nuovamente farà in uno dei suoi ultimi scritti su “Conscientia” 99, il nesso tra marxismo e Riforma protestante. L'elemento comune al protestantesimo e al marxismo è, agli occhi di Basso, la «volontà di creare e di credere, che si traduce in una lotta irreduttibile contro tutto ciò che si oppone a questa creazione e a questa cre-
denza», l’«autocoscienza del processo dialettico dello spirito umano», il quale hegelianamente'°° (ma anche secondo il dettame protestante) compie il proprio percorso di coscienza e di liberazione, caratterizzato dal travaglio continuo dato dalla consapevolezza dei propri limiti e anche però dal superamento dialettico (non privo di laceranti conflitti) di tali inadeguatezze. A quelli che vengono vissuti come i limiti del socialismo trevesiano, Basso oppone la necessità di dare agli italiani «un’anima religiosa», ovvero una «esasperata volontà di lotta e di redenzione, cioè prassi rivoluzionaria intransigente» !. Con questo stesso spirito Basso commenta nello stesso anno la morte di Gobetti, di cui egli aveva sempre apprezzato l’«irreduttibile intransigenza politica» e a cui lo aveva avvicinato il tentativo gobettiano di fare di “Rivoluzione liberale” «il punto di incontro di uomini di tutti i partiti che consideravano l’opposizione al regime con quella serietà, dirittura, intransigenza che — aggiunge Basso — furono in lui così spiccate» !°. L'elemento comune ai due militanti antifascisti, in verità rivendicato da Basso come caratteristico di una intera generazione di
giovani cresciuti negli anni tormentati del primo dopoguerra, era costituito dalla consapevolezza della forza del fascismo («il prodotto storico di una crisi secolare che aveva le sue basi saldissime in tutta
la vita del nostro popolo») e dal rifiuto nei confronti di soluzioni di compromesso
appartenenti al passato !9.
La polemica nei confronti del passato, al quale appartiene un pensiero nutrito di «democraticismo accomodante», di «universalismo amorfo», di «riformismo compromissionistico» e di «positivismo evoluzionista», rappresenta per Basso la spinta più forte per la rielaborazione del pensiero marxista, la cui nuova presenza costituisce agli occhi del giovane militante socialista un supporto fondamentale
per la resistenza in corso'!%. In Socialismo e idealismo (scritto in due puntate per “Il Quarto Stato” '5) si ritrovano proprio gli assi princi-
pali su cui poggia la riflessione bassiana in relazione al socialismo marxista. Questo intervento (non a caso considerato una «sorta di
summa» della «riflessione teorica di Basso degli anni Venti»!9) ripropone la centralità della «conquista dell’autocoscienza» da parte
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2. BIOGRAFIE
del proletariato, della sua consapevolezza «di classe in lotta con un’altra classe». Agisce qui la elaborazione di Marx, che argomenta
la necessità di operare contro la realtà presente (percepita come decadente e incapace di seguire lo sviluppo storico delle forze produttive); e agisce però anche, alle sue spalle, secondo il migliore lascito di Hegel («Marx — scrive Basso — accetta il metodo hegeliano, cioè nega l’esistenza di un ideale fuori della realtà»), l’idea che sia necessario, nel conflitto contro la realtà, operare «dentro di essa»,
cogliendovi dialetticamente le contraddizioni su cui procedere non fatalisticamente. Se dunque in tale articolo i bersagli polemici sembrano essere tanto le forme utopistiche di socialismo lontane dal terreno della storia in cui si compie, secondo Basso, il processo di libe-
razione, quanto le concezioni demo-socialiste ispirate all’evoluzionismo e prive di quel «senso del contrasto» caratterizzante «la concezione realisticamente rivoluzionaria» di Marx, anche Hegel viene superato in relazione a quelli che si considerano gli aspetti più mistici del suo pensiero, in parte ossequioso nei confronti della realtà esistente. La perseveranza con cui Basso e altri antifascisti militanti portano avanti la propria battaglia politica in anni progressivamente bui e difficili nel tentativo di «infondere una volontà d’azione e uno spirito di lotta» alle masse lavoratrici'97, si manifesta nuovamente nella
seconda metà degli anni Venti, con la fondazione della rivista “Pietre”. Essa nasce a Genova nel 1926, ad opera di un gruppo di giovani antifascisti, e tra la fine del 1927 e durante tutto il 1928, essendo «una delle ultime voci libere della cultura italiana sotto il fascismo»!°, vede una intensa partecipazione di Basso, che ne diviene anche direttore. In seguito alle leggi eccezionali e allo scioglimento del Partito socialista, quando cioè «i capi del movimento operaio erano arrestati o in esilio e i pochi superstiti, strettamente sorvegliati,
erano costretti a interrompere ogni attività politica»!°, l'impegno politico di Basso si intensifica nel tentativo (che si concretizzerà con l’adesione alla associazione antifascista e repubblicana di tipo cospirativo “Giovane Italia”) di raccogliere le fila di un ampio movimento
di opposizione al regime in seno al quale costruire un gruppo animatore più ristretto specificamente socialista". E Basso stesso a rac-
contare che “Pietre”! sotto copertura di rivista di tipo letterario e filosofico, rappresentò proprio questo intento politico, riuscendo a promuovere una azione di propaganda che, seppur maggiormente vicina a intellettuali e studenti, tuttavia fu attiva e partecipata". A riprova di ciò scattava l’arresto di Basso e di tutta la redazione della rivista avvenuto tra il 12 e il 13 aprile del 1928. Gli articoli di Basso
pubblicati su “Pietre” tra la fine del 1926 e gli inizi del 1928 scontano
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tutta la difficoltà di un periodo in cui scrivere di politica apertamente
diventava
sempre
più pericoloso!
e in cui era necessario
camuffarsi (sotto le vesti letterarie) per poter esprimere liberamente le proprie opinioni. Infatti, fatta eccezione per il primo intervento bassiano comparso sul numero 7 di “Pietre” nell’ottobre 1926 relativo alla democrazia borghese negatrice di ogni trasformazione sociale, e
che è in realtà la ripubblicazione non completa del già nominato La crisi della democrazia (apparso su “Rivoluzione liberale” nel 1925), gli
altri scritti concernono almeno apparentemente argomenti di tipo cultural-letterario e si presentano con un linguaggio al tempo stesso criptico e allusivo. Ad esempio in La morte del novecento (gennaio 1928) Basso, facendo un bilancio critico delle vita spirituale (e a ben guardare politica) italiana del primo Novecento, sembra invitare — con un lessico crittografico che va forse decifrato con attenzione — all’opposizione nei confronti del disfacimento in atto sotto il fascismo e all’azione cosciente e libera per l’edificazione di un nuovo «domani». L'appello ad una azione trasformatrice della realtà esistente e ad un lavoro concreto da parte di «colui che non fabbrica
più sogni eterei né castelli di fata, ma il suo ideale pianta ben saldo nella realtà» sembra rinnovarsi in Oltre il romanticismo pubblicato nel febbraio del 1928. Ancor più esplicito sembra essere l’articolo Punti fermi (marzo 1928), ove Basso ribadisce la propria distanza da Croce, del quale apprezza, al pari di Gramsci, l’opera di rinnova-
mento culturale compiuta, e da cui si distanzia per l'abbandono crociano del terreno della storia reale e dunque del conflitto, della «bat-
taglia quotidiana» a cui Basso invita invece a partecipare. Più chiaro è poi l'articolo Saggi su Pisacane apparso su “Pietre” nel marzo 1928, nel quale Basso, mosso sempre dalla ricerca di «una via italiana al socialismo» che egli sente come il massimo segno di distinzione dalla politica comunista, sembra ritrovare attraverso la figura di Pisacane «una tradizione socialista italiana». E in effetti il Pisacane della lettura bassiana sembra incarnare il modello di rivoluzionario che Basso ha più volte tratteggiato nei suoi scritti giovanili, di colui cioè che contro un atteggiamanto passivo dei più, contro una cieca fiducia nel progresso fatale e meccanico, riesce a seguire il corso della storia e, aderendo pienamente alla concretezza della realtà e ai sempre nuovi bisogni che essa determina, a pensare il socialismo nei termini di una conquista autonoma di libertà da parte del proleta-
riato. A differenza di coloro i quali impongono dall’alto il modello di liberazione per le masse lavoratrici, il Pisacane di Basso afferma che la libertà e la coscienza della propria dignità si conseguono autonomamente da parte del soggetto antagonista. Questa stessa lettura di
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2. BIOGRAFIE
Pisacane verrà poi riconfermata nella recensione bassiana all’opera di Nello Rosselli pubblicata in “Movimento letterario” nel 193215, nella quale Basso, citando le polemiche di Pisacane stesso nei confronti sia dei riformatori che degli utopisti, aveva modo di ribadire l’originalità di questa figura storica assurta ad emblema del vero rivoluzionario marxista. Ciò che infatti caratterizzava l’opera pisacaniana dei Saggi erano le due esigenze di concretezza ed unità (le stesse che a ben guardare erano più volte comparse negli scritti di Basso, compresi quelli più intimistici e criptici dell’ultimo periodo"). Concretezza intesa come aderenza al processo storico reale, ovvero critica alle letture utopistiche della realtà; unità concepita come legame interattivo tra intervento cosciente degli uomini e dinamiche sociali del contesto oggettivo, ovvero opposizione al volontarismo e al determinismo. Arrestato a Milano il 13 aprile 1928, Basso — che pur riuscì ad evitare il deferimento al Tribunale speciale — fu comunque confinato a Ponza per tre anni, dove ebbe modo di coltivare intensamente i propri interessi di studioso e di preparare la propria tesi di laurea in filosofia. Rientrato a Milano nell’aprile del 1931, egli consegue la laurea in filosofia, e riprende ad esercitare l’attività di avvocato. Gli anni Trenta segnano un altro importante capitolo nella vicenda biografica di Basso, soprattutto sul piano politico, perché, come è stato notato, si verifica una «accentuazione in senso marxista» del suo antifascismo alla quale «contribuiscono gli studi fatti al confino e successivamente la stessa attività lavorativa condotta dentro una società resa opaca e passiva da anni di ideologia fascista». In tale contesto infatti Basso «matura la convinzione che una vera rifondazione della società italiana non possa che essere il frutto di una lenta costruzione della coscienza collettiva per la cui crescita è necessario I/ partito, ma in Italia», secondo il titolo dato all'importante intervento pubblicato sui “Quaderni di GL” nel 1933. Proprio durante questi anni maturano
il dissenso e poi l’allontanamento di Basso dalle posizioni di “Giustizia e Libertà” alla quale aveva aderito (come in generale avevano fatto altri socialisti milanesi in mancanza di organizzazioni autonome del Psi in Italia) per prenderne le distanze alla fine del 1931 in conseguenza dell’accentuazione classista del proprio antifascismo e di una insoddisfazione nei confronti del programma adottato da GL in quel periodo. In questo intervento Basso, in polemica con la politica del gruppo dirigente socialista operante a Parigi, proponeva un’opera di diffusione e penetrazione delle idee socialiste, da compiersi a partire dal contesto italiano, attraverso un lavoro pratico tra i giovanissimi, in particolare tra quelli cresciuti sotto il fascismo, ancora privi di una coscienza critica e pervasi dalla demagogia fascista. Tale opera, la
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quale non avrebbe potuto non «avere il suo centro che in Italia», avrebbe dovuto prendere le mosse dall’adesione ai problemi reali e concreti dei più giovani per giungere ad una rieducazione alla libertà, e si sarebbe dovuta distinguere dal tipo di azioni fino ad allora intraprese da GL e in generale da una forma di antifascismo tutta sbilanciata sul terreno morale dell’opposizione al regime, come era stata quella praticata, a suo parere, in Italia dall’Aventino in poi. La consapevolezza del forte radicamento sociale del fascismo spingeva ulteriormente Basso a prospettare un lavoro lento e lungo, il quale si configurava come l’esatto contrario dell'impresa clamorosa ed improvvisa. In questo stesso articolo egli sviluppava i primi cenni di una propria analisi del fascismo "5, la quale gli consentiva anche di disegnare soluzioni originali della crisi in corso e di ripensare in modo nuovo la democrazia. Infatti l’individuazione del fascismo come una «fase dell’evoluzione capitalistica», anziché come «semplice fatto di degenerazione morale» o peggio di «semplice incidente», parentesi nella storia democratica italiana, era tutt'uno con la critica alla democrazia borghese, generica e quindi particolaristica, tipica di un concetto di individuo settecentesco, astratto e lontano dalla concretezza e dalla complessità rivendicate da Marx. In questo senso il programma (sostenuto anche in seguito da Basso) di una nuova democrazia, adeguata ai bisogni delle giovani generazioni, in grado di assicurare alle masse un partecipazione reale", e non più rivolta al modello passato di società, ovvero ad «una restaurazione del passato prefascista», si fondava su un progetto di superamento non soltanto del fascismo ma anche di «quelle che erano state le sue
premesse, cioè la società capitalistica italiana»'°. Sulla base di questo intervento (culminato nell’appello a «trasformare GL in un Ps rinnovato ed unificato»), egli si dedica da un lato alla ricostruzione intensa delle file socialiste, dando vita ad una organizzazione «composta molto più da operai che da intellettuali» (forse a ribadire la scelta classista di Basso e la convinzione secundo cui la nuova funzione di guida del paese spettava alla classe operaia, intesa come soggetto universale, capace di interpretare le nuove esigenze e di non frenare lo sviluppo dei processi storici in atto volti a garantire la progressiva partecipazione politica e sociale delle masse!). Dall'altro
lato egli si concentra sulla ricostituzione del Centro socialista interno, avvenuta nel 1934 a Milano. All’interno di questa organizzazione Basso (una delle giovani leve intellettuali insieme a Morandi e Luzzatto della iniziativa) esercita una voce critica proprio in relazione al concetto di democrazia e alle soluzioni prospettate per la nuova società postfascista. È su due articoli scritti per “Politica socialista”
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2. BIOGRAFIE
(la rivista nata nel 1933 con l’intenzione di essere l'organo di collegamento tra i fuoriusciti e i socialisti rimasti in Italia) tra il 1934 e il 1935
che egli chiarisce le proprie posizione polemiche ed autonome. Nuovamente riemerge l’attenzione nei confronti di una lotta politica il più possibile aderente alla realtà e adeguata a rispondere ai problemi politici e sociali nei termini in cui essi si pongono nel contesto fascista esistente, come unica garanzia per un rapporto attivo tra la gio-
ventù cresciuta sotto il regime e il nuovo Partito socialista!. Ma è soprattutto Chiarzzzenti (dall'Italia) che dà la possibilità a Basso di muovere una critica originale nei confronti delle soluzioni di compromesso prospettate dalle stesse forze antagoniste, riaffermando la necessità di un’azione incentrata sulla preparazione di una coscienza socialista (tema questo persistente nella biografia politico-intellettuale di Basso), e ponendo le basi di una riformulazione del concetto di democrazia nei suoi concreti contenuti sociali (come verrà fatto lucidamente più tardi negli anni Quaranta). Nella
nuova
realtà
fascista,
mata
dalle
contraddizioni
della
società italiana, è necessario operare concretamente e nel seno di queste ultime, secondo un tipo di analisi dialettica che non permette voli pindarici, slanci utopistici e che rifiuta risposte tradizionali di tipo puramente democratico-parlamentare
giungere
ad una
identificazione
tra fascismo
(senza per questo
e democrazia
tout
court, ma traendo spunto per un ripensamento profondo dei «concetti di democrazia e socialismo» 4). La ricerca di una nuova via da parte di Basso (e anche degli altri appartenenti al Centro interno), distante dalle direttive del gruppo socialista emigrato, legata a nuove elaborazioni teoriche e forte di un contatto stretto con alcune componenti del proletariato italiano, caratterizzerà anche il capitolo successivo della biografia bassiana relativo alla Resistenza e segnerà il punto di maggiore distacco di Basso (e del Centro interno), che pur persegue una politica unitaria di classe, dalla linea del Fronte popolare italiano e dalla politica di unità d’azione, ritenute ferme al solo obiettivo dell’abbattimento fascista, ad una impostazione formale dell’azione unitaria e prive, a suo giudizio, di soluzioni di rottura con il passato”. Nella esigua produzione pubblicistica bassiana degli anni Trenta sono presenti oltre ai commentati interventi anche altri scritti caratterizzati da una impostazione assai diversa e non a caso destinati ad una rivista di altro genere come “Gioventù cristiana”. Si tratta di articoli che fanno parte della serie più intimistica e spiritualistica di Basso e che riflettono, analogamente a quanto si è avuto modo di commentare a proposito degli scritti precedenti pubblicati su “Pie-
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tre”, tanto, sul piano soggettivo, i suoi vivi interessi per la «dimensione religiosa dell’uomo», quanto anche la oggettiva difficoltà di scrivere di politica apertamente. In particolare merita interesse specifico l’articolo scritto nel 1935 su Rudolf Otto (testo di una conferenza tenuta a Milano nell’aprile del 1935), il teologo protestante tedesco di cui Basso si occupò nella sua seconda tesi di laurea. In esso possono essere individuati due nuclei tematici, l’uno connesso al concetto di sacro presente in Otto e l’altro, meno schiacciato su una dimensione teologica, relativo al tempo presente e alla crisi in corso. L'esposizione della concezione divina di Otto diviene dunque per Basso una ennesima occasione per tracciare le linee del disfacimento della società borghese, delle sue «nozioni facili e piane», e del suo «spirito definito e concluso». Una società ed uno spirito borghese che sembrerebbero incapaci di trovare al proprio interno ragioni sufficienti per continuare a sopravvivere, e però allo stesso tempo non ancora giunti alla propria negazione e al proprio supe-
ramento, perché imbrigliate in forme di ribellione ancora addomesticate, non mature, interne a questo stesso proprio spirito e perciò
incapaci di trascendere i propri limiti per trarre alimento da nuovi valori. Anche la clausola finale sembra ribadire la necessità di una negazione dello stato presente e pertanto di un avanzamento dinnanzi ad una umanità da tempo sorda, avviluppata «nei suoi poveri schemi intellettuali, chiusa fra le muraglie della sua finità soddisfatta, spiegata al giogo servile del piatto spirito borghese». Analoghi concetti erano stati espressi da Basso nel suo articolo del 1934, anch’esso tratto dal testo di una conferenza milanese, relativo a Dostoevskij e alla sua religiosità’. Dostoevskij, al pari di Rudolf Otto, pare dunque a Basso comprendere questa profonda necessità di cambiamento, rifiutando forme di salvezza illusorie ed apparenti, compromesse con la società in declino e riscoprendo l’uno una propria libertà in «un mondo diverso dal nostro», distante cioè da quel coniesto apparentemente conciliato e risolto della realtà odierna che nasconde in verità schiavitù e «mortificazione dello spirito», l’altro un tipo di religione «numinosa»,
cioè lontana
da ogni costruzione
razionale
e etica,
umana e dogmatica e piuttosto vicina ad una dimensione folgorante ed intuitiva dell’accadimento religioso, ove Dio è descritto come
qualcosa di assolutamente diverso dall'uomo. Tutti temi questi che si comprendono sia alla luce del contesto storico in cui si trova ad operare e vivere Basso nell'Italia tra le due guerre, sia anche sulla scorta del suo interesse religioso (per una religione — come Basso aveva già avuto modo di precisare — non intesa «nell’accezione
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2. BIOGRAFIE
comune della parola», bensì filosoficamente, come «slancio di fede», «volontà di trascendere se stessi», «sforzo di crearsi un ideale più alto», come «dramma perenne dell’uomo che vuole uscire dalla pro-
pria contraddizione»), sia infine nell’ambito di quella forte vena intransigente caratteristica della sua personalità, tutta volta ad una azione politica di trasformazione dello status quo e di rigenerazione complessiva. Sfuggito all’arresto nel 1937, quando vennero invece catturati Morandi e Luzzatto, Basso proseguì il lavoro lento e difficile dell’attività politica antifascista clandestina, convinto «che la caduta del fascismo avrebbe coinciso con un'occasione storica di cui le forze socialiste avrebbero potuto profittare solo se non si fossero lasciate cogliere impreparate»!9. Tale lavoro condotto in collaborazione con Curiel poté continuare solo fino al giugno 1939, quando Basso venne arrestato dall’OvRA e mandato prima nel campo di concentramento
di Colfiorito e successivamente
a Piombicco,
come
attivo
oppositore del regime e militante del Centro interno socialista. Liberato dal confino nell’ottobre 1940, egli si dedicò poi alla ricostituzione delle file socialiste, riprendendo le linee principali della sua precedente azione e riflessione politica. L'esperienza che darà vita nel gennaio del 1943 al MUP parte dall’esigenza bassiana di creare un movimento politico nuovo composto da militanti socialisti (ma anche da comunisti e senza partito) disposti a superare le passate divisioni
del movimento operaio e soprattutto a lottare non soltanto per abbattere il fascismo, ma per creare le fondamenta di una società socialista, sulla base di una analisi che ritiene particolarmente favorevole all’azione rivoluzionaria il contesto storico contingente. Questo nuovo movimento assume una posizione critica rispetto al “vecchio” Psi del quale rifiuta sia le antiche divisioni, sia una impostazione
della battaglia socialista in quelli che vengono ritenuti i termini limitati di un antifascismo generico, lontano dalla specifica realtà italiana. L'obiettivo principale del muP è quello di promuovere la partecipazione diretta e l’autogoverno dei cittadini-lavoratori, e di lavorare al tempo stesso per la soluzione socialista della crisi bellica, unica soluzione questa ritenuta in grado di scongiurare un nuovo pericolo fascista, sulla scorta di un’analisi del fascismo come di un fenomeno
essenzialmente connesso alla vicenda della moderna borghesia capitalistica, incapace oramai di assecondare con politiche progressive i processi di allargamento della sfera politico-sociale acceleratisi durante la prima metà del Novecento. Le critiche che Basso aveva mosso
durante la sua produzione
giovanile allo Stato liberal-borghese fondavano in positivo il progetto
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LA SINISTRA
ALLA COSTITUENTE
socialista bassiano volto alla instaurazione di un nuovo ordine non soltanto economico, ma anche politico e morale. L’originalità e la specificità della elaborazione di Basso si manifestava nel modo preciso in cui veniva delineata la funzione del MUP: quest’ultimo infatti avrebbe dovuto operare una trasformazione rivoluzionaria della situazione presente nel contesto italiano, tramite non
tanto un modello bolscevico di presa diretta del potere, bensì attraverso un intervento attivo e cosciente all’interno delle contraddizioni presenti nella realtà nazionale (accentuatesi ancor più nel corso del periodo bellico) secondo i termini di una analisi dialettica della storia tipici della formazione bassiana. In questo senso il compito del movimento di unità proletaria era «di promuovere la futura costituzione» di un partito nuovo ed unico del proletariato italiano, libero dal «peso e dalle costrizioni» delle tradizioni socialiste e comuniste, ed «espressione della nuova coscienza proletaria, agile, spregiudicata, aderente alle concrete mutevoli realtà». Un progetto questo, come è evidente dalle parole del programma del MUP apparso sul primo numero del riedito “Avanti!” nell’agosto del 1943, che riproponeva anche l'attualità di un impegno volto a suscitare e a radicare la «coscienza di classe» del soggetto operaio, orientandone «le scelte future» e temprandone «la volontà» !°. L'attività del MUP si dispiegò, al fine di rafforzare la propria organizzazione e di ampliare la propria propaganda, sia tra gli operai del Nord (in particolare milanesi e bresciani, nel periodo della forte conflittualità del marzo 1943), sia tra alcune cerchie di giovani intellettuali antifascisti presenti in varie grandi città italiane (a Roma ad esempio il MUP entra in contatto con il gruppo di “Unità proletaria” ove sono presenti giovani intellettuali come Vezio Crisafulli e Giuliano Vassalli). I segni principali del rinnovamento che Basso intendeva dare alla struttura interna del nuovo partito facevano tutt'uno con il tipo di organizzazione socialista e democratica da lui immaginata nella realtà postfascista. Il nuovo partito doveva in sostanza «essere costruito democraticamente dal basso verso l’alto, vero partito delle masse, e al tempo stesso scuola di autonomia, di autogoverno, di autodisciplina per i lavoratori». Questi ultimi, come classe dirigente del futuro, dovevano così creare nuove forme di gestione collettiva della vita politica del paese e del suo apparato economico, non più secondo un modello burocratico ed autoritario, ma attraverso un controllo diretto ed autonomo
dei
mezzi di produzione (non più fondato cioè sullo sfruttamento altrui e sulla eterodirezione). Secondo le analisi di Basso, in questo molto vicine a quelle di Rosa Luxemburg, solo questa sarebbe stata la garanzia di un nuovo ordine sociale realmente democratico, e di una
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liberazione complessiva intesa non nei termini di un formale ricambio di potere, bensì come un reale superamento dell’apparato statale borghese e dei suoi caratteristici rapporti di produzione. Alla luce di queste posizioni si comprende allora il rifiuto bassiano nei confronti della politica antifascista dei CLN quale veniva configurandosi nel periodo resistenziale, ritenuta limitata e generica, perché incapace di porre le premesse sostanziali per una ricostruzione socialista e democratica dell’Italia e di battersi contro la continuità giuridico-politica tra lo Stato fascista e quello nuovo. Motivi questi che lo spinsero in un secondo momento all’uscita temporanea dal Partito socialista da poco ricostituitosi. Basso aveva infatti contribuito nell’agosto del 1943 a riorganizzare
il PSI, che rinasceva con il nuovo nome di PSIUP', spinto sia dalle circostanze difficili in cui si era trovato a lavorare il MUP nel periodo badogliano, sia dall’esigenza di coinvolgere il più possibile le masse, «superando — anche — i preesistenti limiti regionali» 8*; tuttavia quello che egli percepiva come un atteggiamento di persistente riformismo all’interno del Partito socialista lo condusse prima ad una dura polemica nei confronti della politica compromissotia di quest'ultimo (condotta dalle colonne della nuova rivista “Bandiera rossa”) e poi a un suo allontanamento dal partito stesso. A una sinistra ufficiale che a suo giudizio continuava a rincorrere il «compromesso di vertice come sola soluzione politica ai problemi del momento» !3, Basso opponeva sia un progetto di trasformazione da
attuarsi all’interno del terreno politico-istituzionale, sia una politica di rinnovamento del processo produttivo, nucleo fondativo del dominio di classe capitalistico ove occorreva operare per una globale trasformazione sociale attraverso l’azione autonoma e cosciente delle masse lavoratrici 34. Nel maggio del 1944, Basso decide, per effetto delle pressioni di Pertini, di rientrare nel PSIUP, senza però esimersi dall’esprimere le proprie critiche al partito (concernenti la “passiva” partecipazione di quest’ultimo al CLN secondo una linea soltanto antifascista, e l’accettazione “acritica” del patto d’unità di azione con il Partito comunista). Eletto nell’esecutivo del PSIUP per l'Alta Italia, diede inizio al
nuovo impegno di riorganizzazione del partito in Lombardia, a cui si aggiunsero quello di segretario provinciale di Milano e a fine 1944 l’incarico organizzativo per tutto il partito in Alta Italia, al quale egli si dedicò intensamente fino ad avvenuta liberazione. L'azione che Basso svolse in questo periodo si può comprendere proprio alla luce delle sue critiche nei confronti del Partito socialista nonché di quello comunista, dalle quali egli evidentemente partì per impostare in
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positivo la propria azione di rinnovamento all’interno del PstuP lombardo. Basso intese innanzitutto dare una organizzazione non verticistica e burocratica al partito, considerando fondamentale un tipo di struttura democratica, aperta il più possibile alle spinte provenienti
dalla base e in grado di preparare pazientemente le coscienze degli iscritti, con una adeguata opera di «educazione lenta e metodica». La costante attenzione al piano formativo delle coscienze e la insoddisfazione (sia sul piano ideologico che su quello tattico) nei confronti dei quadri di partito già esistenti lo portano a dedicarsi con particolare attenzione al problema della formazione dei quadri, e della organizzazione delle scuole di partito al quale egli dedicò un impegno tanto teorico quanto pratico. Al fondo di ciò vi era per Basso la necessità di disancorare il partito da quelle «idee e metodi» rimasti coerenti con una impostazione socialdemocratica della lotta politica e pertanto inadeguati «alle situazioni concrete del momento» e ai problemi nuovi posti dalle leve delle giovani generazioni di militanti, nella situazione politica estremamente difficile in cui si trovava l’Italia, «paese vinto, occupato e umiliato». Il modello di «preparazione dei quadri» disegnato da Basso riguardava allora sia il lavoro più propriamente teorico (ispirato ai testi classici della tradizione marxista), sia quello concernente l’esperienza pratico-politica, secondo una impostazione che cercava di coniugare autonomia e crescita intellettuale, «lavoro collegiale» e responsabilizzazione del singolo 7. In questo versante per dir così soggettivo della organizzazione della lotta di classe, Basso riproponeva inoltre la necessità di aggregare al partito nuove e giovani forze, tenendo anche conto di altre componenti della società oltre a quelle operaie (i contadini ad esempio o i ceti medi particolarmente esposti nel corso del Novecento alla propaganda più demagogica e reazionaria!). Tuttavia, partendo dalla constatazione della debolezza del PSI
sul piano del radicamento tra le masse operaie, Basso rilanciava l’azione socialista anche sul luogo specifico del conflitto operaio, «là dove la lotta di classe ha le sue scaturigini e il suo svolgimento». La fabbrica è dunque ritenuta una sede rivoluzionaria, nella misura in cui essa favorisce l'educazione del proletariato, spezza dall'interno
«l’oppressione della classe dirigente» 4° e nutre la stessa azione rivoluzionaria del nuovo partito (il quale doveva saper conciliare quindi anche in questo caso, come sembra emergere dalle parole bassiane in singolare sintonia con la riflessione di Gramsci, la propria azione di direzione ed educazione consapevole con il rispetto dell’iniziativa autonoma proveniente dal basso, scaturente cioè dalle istanze dirette della classe oppressa).
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2. BIOGRAFIE
Mentre il PsiuP dell'Alta Italia — come sembra emergere dalle carte dell’archivio Basso! — va sempre più rafforzandosi nel periodo immediatamente precedente la caduta del fascismo, cercando di potenziare al massimo, secondo gli intenti di Basso, il proprio sforzo organizzativo nelle varie località dell’Italia settentrionale, tanto nei luoghi di lavoro che nelle diverse organizzazioni di massa, l’opposizione di Basso nei confronti della ipotesi di una partecipazione socialista al secondo governo Bonomi, e in generale ad una politica di coalizione antifascista sempre più «al servizio della monarchia» '#, si accresce. In essa Basso scorge il pericolo di uno svuotamento delle istanze rivoluzionarie della classe operaia e dei partiti di sinistra (del PCI in particolare, nel quale egli scorge una «rigida posizione di estremo collaborazionismo» con le forze più moderate del governo), accentuando le proprie critiche ad una politica ritenuta di compromesso istituzionale. Da un lato infatti, pur mostrando un atteggiamento fin da subito polemico nei confronti dell’entrata del Partito socialista nel CLN, Basso aveva accettato la necessità di una politica socialista di adesione al CLN in funzione di una lotta antinazista e antifascista di carattere eminentemente tecnico-militare. Dall’altro lato la successiva constatazione della mancanza di una «piena libertà di decisione, di agitazione, e di lotta di fronte al problema della suc-
cessione al fascismo» all’interno di «una coalizione di governo di cui fan parte ex ministri di Mussolini ed uomini e partiti compromessi col fascismo» '!#, legittimati sempre più a costituire il futuro governo politico dell’Italia libera, spingono Basso in negativo a rifiutare forme di collaborazione governativa ibride, in positivo a lavorare autonomamente per valorizzare le iniziative rivoluzionarie, provenienti dal basso, tese alla preparazione di una soluzione socialista. AI governo
Bonomi
Basso ne contrappone
uno che sia «inter-
prete della voce della classe lavoratrice», ovvero una «autentica democrazia del lavoro», capace di lottare contro il fascismo e le sue fondamenta, di avviare «un serio programma di riforme di struttura»!4, di operare una trasformazione che Basso — concependo la formazione economico-sociale nei termini della «totalità»!# — ritiene non possa non coinvolgere il terreno «oltre che dei rapporti economici e sociali, anche del costume e della moralità»'4. Convinto da
sempre che la nascita di una società socialista in Italia non fosse qualcosa di immediato e che, secondo una concezione della rivoluzione intesa come processo dinamico di rovesciamento dialettico '#7,
occorresse operare pazientemente all’interno della società borghese per sfruttarne le contraddizioni oggettive al fine di creare le premesse concrete del capovolgimento dei rapporti sociali capitalistici, Basso si
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dedica a fare del partito la forza realmente capace di «plasmare» la nuova classe dirigente ‘4. In questa direzione egli orientò le sue energie anche durante il periodo di costituzione del nuovo Stato repubblicano a liberazione avvenuta (dopo essersi impegnato in prima persona ad organizzare l’insurrezione milanese del 25 aprile). Il successivo impegno nell'Assemblea costituente (in cui venne eletto deputato nel giugno 1946 e in cui lavorò per la redazione del testo costituzionale all’interno della 1 Sottocommissione) divenne un'occasione ulteriore di richiamare l’attenzione su quei temi ritenuti centrali per il rinnovamento della società italiana e delle sue strutture fondative, a fronte di una idea della trasformazione concepita come lungo processo di maturazione dei conflitti socioeconomici e di sviluppo della coscienza di classe. In sede costituzionale Basso si mosse allora su due specifici fronti. Il primo è quello inerente ad una determinazione sociale del nuovo concetto di democrazia, consegnato poi al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione italiana (ove è peraltro agevole riconoscere — come si è avuto modo già di sottolineare ripercorrendo l’intero percorso intellettuale di Basso — il riflesso della propensione ad una lettura dialettica del processo storico e dei suoi risultati concreti‘). L'altro versante su cui Basso si attivò durante i lavori di redazione della Legge fondamentale chiama in causa il ruolo dei partiti politici, per il cui riconoscimento costituzionale egli si spese con particolare acribia (sulla base di una valorizzazione costante del rapporto tra democrazia reale, ovvero parte-
cipazione concreta delle masse alla gestione della cosa pubblica e formazione di una loro coscienza critica collettiva, possibile proprio tramite il veicolo del partito).
All’esperienza di diseducazione democratica che l’Italia aveva vissuto negli anni del fascismo, ad un spirito di compromesso e accomodamento prevalente nel paese come specifica caratteristica eticoculturale, propizio a politiche inclini soprattutto all’azione di vertice anziché ad un coinvolgimento attivo delle masse quale si era verificato nella Resistenza, Basso contrappone un nuovo modello partecipativo di vita politica, del quale i partiti sono premessa e garanzia costante. Un partito che secondo l’idea bassiana costituisce, in quanto sia elemento di rappresentanza delle aspirazioni materiali dei cittadini-lavoratori, loro «autentica espressione» !°, sia strumento per
la crescita consapevole di questi ultimi, il collegamento organico tra
le molteplici istanze della base sociale (lo «Stato-comunità», per riprendere l’espressione di Basso) e l’elemento istituzionale (lo «Statogoverno») '". In questo senso l'impegno bassiano sul terreno specifico degli istituti giuridici, sul quale si tornerà più a fondo nel terzo capi-
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tolo, si accompagna a quello politico, dal momento che il diritto diviene per Basso «un elemento di azione concreta per il movimento operaio e democratico» ?. Al fondo vi è l’idea secondo cui l’ordinamento
giuridico-statuale
è terreno
fertile
del conflitto
di classe,
«momento contraddittorio, di antagonismi e di lotte» (e non inerte strumento «del dominio borghese», volto «esclusivamente alla tutela dell’ordine sociale» esistente), passibile pertanto di un «uso rivoluzionario» da parte della classe lavoratrice’, 2.4 Renzo Laconi
L'intento di ricostruire i percorsi intellettuali e formativi di alcuni esponenti della sinistra particolarmente coinvolti nel dibattito costituzionale e nel processo di redazione della Costituzione repubblicana trova qualche difficoltà in più nel caso di Laconi. Il materiale disponibile (meno abbondante di quello utilizzato ad esempio per la ricostruzione della vicenda biografica di Basso), permette di rintracciare alcuni caratteri di fondo della sua biografia intellettuale e politica, principalmente tramite fonti posteriori alla sua formazione culturale giovanile collocantesi nella metà degli anni Trenta. Nel complesso comunque sembra opportuno inquadrare il capitolo della vicenda biografica di Laconi relativo al suo approdo al Partito comunista, nel processo generale della maturazione di numerosi altri percorsi critici attraverso i quali a partire dalla seconda metà degli anni Trenta molti giovani intellettuali si incamminarono sulla strada dell’antifascismo. Nello specifico infatti dopo l'impresa di Etiopia, e in corrispondenza anche della guerra di Spagna"4, dell’alleanza con la Germania e della radicalizzazione della politica razzista, si assiste in Italia al formarsi dell'importante «fenomeno dell’antifascismo giovanile». Esso, peraltro, come è stato detto, «non si manifestò solo tra i comunisti, ma ebbe rilevanza generale». Proprio «dopo il 1936 furono principalmente i cambiamenti nella condizione di spirito di alcuni settori della gioventù intellettuale a procurare all’attività dell’antifascismo un radicamento nei processi sociali» 5. E se il fascismo tentò di rilanciare la propria presa sulle giovani generazioni — la futura classe dirigente fascista — il Partito comunista si impegnò dal canto suo progressivamente in una politica «di corrosione dall’interno del sistema» '°. L'intento era quello di partecipare alle varie manifestazioni fasciste (a cominciare dai Littoriali della cultura e dell’arte) e di entrare a far parte delle numerose organizzazioni di massa del regime (il sindacato ad esempio) allo scopo di conqui-
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stare quanti cominciavano a dare segni di insoddisfazione verso la dittatura. Si trattava insomma di «legarsi ai fermenti sociali e intellettuali che, in assenza
di pluralismo, si manifestavano
all’interno
stesso della cornice organizzativa del fascismo, per giungere a una “saldatura” tra opposizione antifascista di più antica data e “nuova opposizione” interna al regiime» 7. A tale proposito è stato più volte ricordato dalla storiografia — in base anche alle varie testimonianze autobiografiche esistenti - come il sistema comunista esercitò su molti giovani un intenso fascino in quanto «unica forza capace di ergersi contro il fascismo», oltre che sistema di idee e valori in grado di “sfidare” quello precedente costituito dalla cultura liberale !. Va detto poi che se comunque all'indomani della decisione dell’Italia di entrare in guerra, il dato di fondo era l’impreparazione politico-organizzativa dell’antifascismo (comunista e non), tuttavia resta ferma l’e-
sistenza nel paese di quegli «uomini e gruppi di antifascisti, di diverse classi e ceti sociali e di vario orientamento politico», che più tardi confluirono nella Resistenza. Dunque «nel 1941-43 la sinistra non ebbe alcuna possibilità di incidere concretamente sulla situazione dell’Italia in guerra» 99; e tuttavia rimane accertata la presenza «di una rete antifascista sempre più fitta», nelle varie città e regioni italiane, dove appunto «il rapporto tra vecchio antifascismo e nuova opposizione» — sia dei giovani divenuti antifascisti fin da subito sia di quelli provenienti dalle file del regime — favorisce «la maturazione di nuove esperienze» (spesso in seno alle stesse organizzazioni del
fascismo e nell’ambito delle sue iniziative culturali e politiche!®). In particolare, e in questo la vicenda di Laconi sembra esemplare, l’esperienza cospirativa di molti giovani “autodidatti” dell’antifascismo! sarà poi decisiva per la loro stessa vita politica nell’Italia repubblicana. In questo contesto «la scuola della lotta antifascista» avrebbe infatti contribuito ad avviare i processi di democratizzazione del paese, lasciando un ricco patrimonio di esperienze e valori!8. D'altra parte è anche importante sottolineare che la partecipazione di Laconi al dibattito costituzionale in giovane età (egli ha appena trent'anni quando viene eletto deputato all'Assemblea costituente per il collegio di Cagliari), ha costituito un momento fondamentale per la sua formazione politico-culturale. A differenza di Terracini, Basso e Crisafulli, Laconi non compie
studi giurisprudenziali, e dunque appare plausibile affermare che la sua sensibilità nei confronti delle tematiche istituzionali e costituzionali maturi tutta nei primi anni della storia repubblicana, in seno ai vari luoghi in cui si prepara la Legge fondamentale. Anche in queste sedi costituzionali allora si devono ricercare i tratti del suo percorso
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formativo, parte cioè dei fondamenti della sua medesima maturazione culturale. Renzo Laconi nasce il 13 gennaio del 1916 a Sant'Antioco (Cagliari), «da una famiglia di piccolissima borghesia di provincia» e di orientamento socialista; frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia (ottenendo subito dopo l’abilitazione all’insegnamento della storia e della filosofia), e comincia la propria attività politica nei primi anni Quaranta,
nel
movimento
giovanile
clandestino
antifascista
di
Firenze, città nella quale si era trasferito poco dopo la laurea conseguita con una tesi di estetica dal titolo I/ y20ndo dell’arte e il mondo dell'esperienza. In questo periodo egli definisce la propria passione politica orientandola in senso comunista (nel 1942 si iscrive al PCI, al quale viene avvicinato da Giuseppe D’Alema, uno dei militanti più giovani tra quelli che svolgono una attività di agitazione all’interno delle stesse organizzazioni del regime per accelerarne il processo di disgregazione), sulla scia di un sentimento che già aveva mostrato la propria estraneità nei confronti del fascismo, delle sue iniziative culturali e politiche, nell’ambito dell'ambiente di Cagliari. A_ questo proposito si testimonia infatti che negli anni della sua formazione universitaria Laconi aveva fatto parte di «un gruppo di giovani intellettuali» capaci di unire «all’idealismo di origine crociana e antifascista», una forte «passione, di matrice “sardista”, per le memorie sto-
riche isolane» e che la stessa «scoperta del materialismo positivistico attraverso le opere di Buchner, Moleschott e Feuerbach gli aveva aperto nuovi orizzonti intellettuali», spingendolo ad un vivo interesse «verso i problemi sociali, economici e politici» !%5. Proprio da ciò si desume che Laconi fece parte di quella generazione '9° che maturò la propria opposizione al regime fin dagli anni universitari; durante il periodo in cui — come si è detto — i disagi creati dalla guerra acceleravano processi di maturazione critica nei confronti del fascismo e facilitavano un distacco sempre maggiore. Una generazione che iniziò lentamente a distanziarsi dal regime, dal suo conformismo culturale e dalla sua politica aggressiva e che giunse ad un rifiuto radicale
durante il periodo bellico, quando la tensione nei confronti di un rinnovamento generale cominciò a circolare!” e a trovare il proprio ancoraggio nella riorganizzazione delle attività dei partiti, oltre che nella lettura di testi “proibiti” della tradizione marxista e democratica tanto più circolanti quanto più venivano ampliandosi i contatti di tipo sia intellettuale che politico. Per molti di questi giovani, alcuni dei quali provenienti dai GUF'!*, il Partito comunista rappresentava in quel momento la forza con maggiore capacità di attrazione anche perché esso aveva continuato la propria attività clandestina
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antifascista dopo il 1926, ed era riuscito a mantenere un minimo contatto con le masse lavoratrici, presentandosi come l’alternativa reale al fascismo, capace di interpretare una nuova volontà di «impegno politico attivo»'9, antitetica rispetto all’attendismo manifestatosi presso altri orientamenti politico-intellettuali. Dopo aver compiuto la propria militanza politica di opposizione al regime tra i reparti militari della Sardegna (presso i quali va svolgendosi parte della propaganda antifascista portata avanti dalle nuove generazioni), dove viene richiamato in qualità di soldato semplice, non avendo voluto ricoprire la carica di ufficiale, Laconi si dedica ad un impegno politico nel territorio sardo, collaborando alla ricostruzione
del locale Partito
comunista
(a cui, secondo
varie testimo-
nianze, egli riuscì a dare una grande spinta innovativa in direzione dell’antibordighismo, nell’ambito di un ampio lavoro di coinvolgimento delle masse, debitore soprattutto delle condizioni particolari in cui era maturata la sua militanza politica nel periodo bellico, tra i gruppi antifascisti fiorentini, nonché di una consapevolezza critica nei confronti dei nuovi CLN dimostratisi, a suo parere, incapaci di penetrare all’interno del tessuto sociale popolare della Sardegna e di divenire «organi nuovi e diretti della nuova democrazia»). Nel 1944, dopo essere stato eletto segretario della Camera del lavoro di Oristano, diviene segretario della Federazione del PCI di Sassari e membro del Comitato di liberazione nazionale, dove svolge un lavoro di collegamento tra l’attività di questo organo resistenziale e quella del Partito comunista da una parte e i problemi e i bisogni delle masse popolari sarde dall’altra, con una marcata attenzione nei confronti della composizione sociale dell’isola. Attenzione questa che lo porterà poi a ribadire più volte — a partire dal n Consiglio nazionale del pci del 1945 — la necessità del coinvolgimento dei contadini nel nuovo blocco storico-sociale nazionale, secondo linee di azione politica talvolta divergenti da quelle nazionali dettate da Togliatti”. Sempre in relazione all'interesse per la questione sarda, Laconi fece parte della Consulta regionale dell’isola e fu eletto segretario Regionale del Partito comunista, presentandosi in questa rapida ascesa
politica come uno di quei giovani intellettuali che, avendo esordito nel periodo dell’attività clandestina, si dedicheranno sempre più intensamente all’organizzazione del «partito nuovo», nazionale e di massa quale va configurandosi negli anni repubblicani. In relazione poi ai tratti originali della vicenda intellettuale di Laconi, è noto che egli concentrò i propri studi intorno alle caratteristiche storiche e strutturali concernenti la specifica fisionomia
assunta dalla Sardegna nel contesto unitario italiano. In questa dire-
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2. BIOGRAFIE
zione elaborò anche il progetto di un libro, sulla storia della storiografia sarda, di cui analizzò tendenze e linee principali, mettendo in comunicazione vari settori disciplinari (storiografia sociale, storiogra-
fia economica ecc.) affinché emergesse un quadro completo della storia dell’isola e delle sue voci interpretative. Relativamente a questo ambito degli studi e della formazione di Laconi c’è da sottolineare che diversi furono i suoi interventi in merito alle questioni di fondo della cultura sardista'”?. Attraverso infatti una panoramica esaustiva degli storici dell’isola più noti, egli tenta di dar vita ad una «battaglia culturale»'73, basata su un rinnovato sardismo critico in grado di portare alla luce l’elaborazione autonoma di un patrimonio intellettuale e di una tradizione giuridico-civile. L'intento storico-ricostruttivo di Laconi è quello di inquadrare la vicenda dell’isola nel contesto unitario della storia italiana, cercando di individuare i nessi tra la
formazione della moderna società borghese e il particolare sviluppo della storia sarda, tra la storia della borghesia italiana ottocentesca e quella della borghesia isolana. Attraverso la ripresa del paradigma gramsciano (che Laconi cita in più occasioni e che dunque ha bene in mente), egli giunge all’individuazione della cause fondamentali dell’arretratezza della Sardegna, rintracciate nella forte debolezza della borghesia qui dominante durante il Risorgimento, nella sua incapacità di gestire apertamente e secondo modalità partecipative i cambiamenti in corso, e nella sua conseguente alleanza con la borghesia della penisola in nome dell’assoggettamento delle masse popolari. Proprio da questa analisi storica Laconi desume i motivi che portarono al silenzio di quella specifica cultura ed invita a indagare la storia delle classi popolari e della borghesia sarde, per poter così individuare il «nucleo originario, sociale della “questione sarda”» e soprattutto per recuperare, si potrebbe dire benjaminianamente, la memoria e il patrimonio ideologico delle classi subalterne ignorati dalle principali ricostruzioni storiografiche esistenti. Anche nella successiva recensione che Laconi fa degli scritti di Calamandrei sulla Sardegna'74, egli torna ad esprimere le linee di fondo della propria battaglia cultural-politica relativa alla “questione sarda”. In questo articolo polemico Laconi rimprovera a Calamandrei la mancanza di attenzione nei confronti di alcuni capitoli della storia isolana, e in particolare di quelli inerenti ai processi di cambiamento portati avanti dalle rivoluzioni contadine nate per l'abolizione del feudalesimo. In questo senso, secondo il giudizio di Laconi, la storia del conflitto sociale dell’isola va letta in connessione con quella dell’unificazione nazionale, della quale essa è parte integrante. Il legame tra vicenda dello Stato nazionale, questione meridionale e specifica pro-
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blematica sarda (la quale merita comunque una indagine autonoma) è costantemente ribadita negli interventi di Laconi, che in questo segue la prospettiva analitica e storica delineata da Gramsci nei Quaderni. È alla luce di questa attenzione e di questi studi originali che si comprende il suo impegno politico (svolto anche in sede costituzionale), diretto ad un progetto di integrazione della lotta per l’emancipazione delle classi subalterne con quella per l'affermazione di un sistema di autonomie, il quale non spezzi la struttura nazionale ed unitaria del partito della classe operaia '7. Tale impegno mira altresì alla rivendicazione di una autonomia d’azione e di decisione da parte delle masse popolari sarde e meridionali, quale presupposto decisivo per la gestione democratica della vita politica del nuovo Stato, e per la realizzazione concreta di un piano di riforme strutturali, tanto rispondenti alla situazione specifica dell’isola quanto inserite nel contesto della legislazione nazionale dello Stato italiano. Accanto a questo aspetto vi è l’altra dimensione, di tipo giuridico-istituzionale a caratterizzare la cultura politica di Laconi. Dalla analisi dei vari interventi che egli fece in sede di dibattito costituzionale, dalla lettura di altri scritti di tipo commemorativo, si desume che Laconi ebbe una particolare sensibilità e conoscenza delle questioni concernenti la riorganizzazione dell’assetto statuale repubblicano, al punto da essere considerato uno dei maggiori esperti all’interno del Partito comunista delle regole «della vita parlamentare» 7°. Gli assi dell'impegno costituzionale di Laconi ruotano attorno alle questioni attinenti sia al funzionamento e alla natura dei poteri e delle sfere che articolano il sistema statale, all’intetno del quale egli, come si avrà modo di illustrare analiticamente più avanti, riconosce
forte centralità al Parlamento,
sia anche
attinenti all’indivi-
duazione dei compiti specifici spettanti ai nuovi organi costituzionali (in particolare egli ebbe una parte importante nella discussione sull’organizzazione della giustizia costituzionale 77). Specificamente le carte reperite presso Maria Laconi! permettono di rintracciare qualche elemento della formazione di Laconi nell’ambito della dot-
trina marxista e in particolare in relazione alle problematiche concernenti il ruolo della dimensione istituzionale. Ad essere ripreso è lo scritto più noto della tradizione del marxismo novecentesco riguardante lo Stato: ossia Stato e Rivoluzione di Lenin, composto dal dirigente russo soprattutto per fini di contingente battaglia politica. E però significativo che Laconi annoti i passaggi del noto testo leniniano concernenti non tanto la prospettiva finale della estinzione dello Stato, quanto quelli riguardanti sia la critica del parlamentari-
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smo ed in particolare le obiezioni che Lenin muove, sulla scorta degli scritti marxiani sulla Comune, al carattere formale ed astratto delle istituzioni rappresentative e dei loro meccanismi elettivi nel sistema istituzionale borghese dell’età liberale, sia la conseguente trasformazione di tali istituzioni in organismi concretamente operanti e realmente volti al coinvolgimento sociale. Da ciò si può dedurre che la ripresa di Lenin e dello stesso Marx in relazione alle tematiche statali in realtà avvenga a partire da una idea diversa, più dinamica e problematica rispetto a quella dominante nella vulgata e nel saggio stesso di Lenin, dei problemi istituzionali, ove l’accentuazione di determinati aspetti della questione così come di alcuni passi dei testi marxisti è posta in stretto rapporto alla determinata realtà storico-istituzionale in cui si trova a operare Laconi (che dunque cerca di trovare fondamenti analitici al proprio impegno costituzionale anche nella tradizione marxista). Allo stesso modo, in con-
nessione con il proprio impegno sul versante dell’autonomismo regionale, Laconi riprende Lenin e indirettamente Marx, dai quali desume,
valorizzandone
autonomamente
determinati
aspetti analitici,
tanto la contrapposizione del «centralismo proletario cosciente, democratico al centralismo borghese, militare, burocratico»; quanto la legittimità di una «larga autonomia amministrativa locale»!7? capace di opporsi alle imposizioni autoritarie di un potere gestito poco democraticamente. Altrettanto significativo sembra essere poi al fine di individuare l'impronta giuridica del suo anomalo percorso formativo, il reperimento tra le Carte Laconi di uno studio apposito (sui «problemi inerenti alla indipendenza del potere giudiziario») che pare abbia costituito una delle fonti della comprensione delle tematiche riguardanti il diritto costituzionale affrontate da Laconi nei suoi interventi 8°. Da esso egli sembra aver tratto elementi necessari per la maturazione
della sua specifica sensibilità nei confronti sia della legittimazione popolare degli organi dello Stato democratico repubblicano, sia della preminenza del potere legislativo, sia della validità di un organo, la Corte appunto, atto al sindacato costituzionale delle leggi. Per concludere non va dimenticato che Laconi trasse dall’esperienza della Resistenza l’idea secondo cui il nuovo sistema politicoistituzionale dell’Italia postfascista doveva fondarsi su un’ampia e concreta partecipazione proveniente dal basso, attuabile per mezzo dei grandi partiti di massa, capaci di essere espressione dei bisogni popolari; garanzia di una radicale rottura nei confronti del passato; strumenti,
infine, per il perseguimento
democrazia 8,
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di un nuovo
modello
di
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2.5 Vezio Crisafulli
La trattazione della vicenda biografica di Crisafulli si presenta forse come la più difficile in quanto è quella che implica il possesso di più ampie competenze disciplinari, connesse al suo particolare percorso intellettuale. A differenza delle altre figure fin qui considerate, Crisafulli non partecipa alla Assemblea costituente in prima linea, tuttavia la qualità del suo impegno nella Commissione Forti e della sua produzione giuspubblicistica in materia costituzionale, nonché la stessa attività di divulgazione dei temi istituzionali all’interno del Partito comunista, sono tali da giustificare altrettanta attenzione analitica e lo sforzo di ricostruire, nella misura del possibile, la sua formazione
giuridica e culturale. Dunque tale biografia riveste un particolare interesse, considerate le rilevanti conoscenze che derivano dal suo studio. Ciò concerne in primo luogo la storia del pensiero giuridico, allo scopo di cogliere quell’insieme di novità che traspaiono dalla produzione giuridica di Crisafulli a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, e che permettono di inquadrarne la figura tanto nel contesto dell’Italia fascista quanto in quello democratico repubblicano !*. Un altro motivo di importanza dell’esperienza di Crisafulli, in una prospettiva storica più generale, chiama in causa il complesso itinerario dell’intellettuale, impegnato sul piano politico nelle file della sinistra (nel 1943, come si avrà modo di illustrare in seguito, Crisafulli è infatti membro della Direzione del PSIUP, e già nel 1944 scrive sulle colonne di “Rinascita”,
partecipando alla Commissione di studi di preparazione della Costituzione al fianco di Terracini). A ciò si aggiunga che l’indagine sulla vicenda intellettuale e politica di Crisafulli sembra essere ulteriormente significativa dal momento che consente di valorizzare, come cornice storico-concettuale di riferimento, due approcci storiografici rivelatisi negli ultimi anni strettamente connessi e di grande rilievo. Si tratta su un primo versante dello studio della cultura e della dottrina giuspubblicistica e costituzionalistica italiana fra le due guerre, in specie dell'analisi di quegli elementi mostratisi particolarmente innovativi all'altezza degli anni Trenta nelle elaborazioni di autori (come appunto Crisafulli e Mortati) che non a caso «svolgeranno un ruolo di primo piano nella interpretazione della norma costituzionale e nella ricostruzione del diritto pubblico dopo l’entrata in vigore della Costituzione italiana» ‘83. E infatti, restando a questa prima prospettiva, ciò che di più interessante sembra emergere dall’analisi della formazione giovanile di Crisafulli è che le sue riflessioni si collocano
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al di fuori sia della tradizione giuspubblicistica del periodo liberale, sia di quella dichiaratamente fascista, per porre le premesse dell’elaborazione successiva riguardante i principi costituzionali del nuovo Stato italiano nonché i fondamenti del dibattito sulla natura programmatica della Costituzione italiana quale si ritroverà nel corso di tutto il periodo successivo alla redazione della Carta costituzionale. Dall’altro lato il secondo approccio storiografico che tale prospettiva consente di mettere a frutto si concentra sul terreno materiale dei mutamenti giuridico-istituzionali posti «in atto con le varie leggi fasciste», a cominciare dall’innovazione rappresentata dallo stesso Partito nazionale fascista. D'altra parte proprio tale «rivoluzione costituzionale operata dal fascismo» costituisce la fonte di ispirazione primaria di quei dati di novità, in particolare quelli concernenti l'elaborazione della nuova forma-partito e di una teoria giuridica dell’indirizzo politico, registrati negli interventi della giuspubblicistica menzionata "84. A ciò si aggiunga che ulteriori novità individuate da altre voci storiografiche in alcune posizioni del dibattito giuridico degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta traggono altrettanto alimento da quei processi — sempre attinenti a dati di costituzione “materiale” — di trasformazione economico-sociale, oltre che istituzionale, verificatasi in Europa e oltre Atlantico tra le due guerre e relativi, per fare solo qualche esempio, all’«estensione dell’area dell’attività amministrativa», alla «proliferazione delle amministrazioni parallele» e all’«emergere di nuovi soggetti istituzionali dotati di poteri normativi autonomi nell’ambito delle pianificazioni di settore»!5. Riepilogando dunque per ciò che attiene al versante legato alla storia del pensiero giuridico, studiare la biografia intellettuale di Crisafulli permette di approfondire ulteriormente a livello generale il confronto tra i giuristi appartenenti alla tradizione giuspubblicistica liberale (in particolare, pur nelle loro rilevanti diversità !89, V. E. Orlando e Santi Romano), quelli più vicini al regime fascista (Panunzio, Costamagna), e soprattutto la nuova leva di «“giovani” giuspubblicisti romani (Mortati, Origone, Lavagna, Crisafulli, Biscaretti di Ruffia, Massimo S. Giannini)»!87 particolarmente sensibili ai cambiamenti in atto nel periodo tra le due guerre. Proprio su tali trasformazioni storiche poi questa ricostruzione consente di far luce, dal momento che a quegli «elementi di novità effettiva che — già — la società primonovecentesca veniva manifestando ed esprimendo [..] non poté non corrispondere un tentativo almeno, e forse più di un tentativo, di costruzione di una cultura nuova». Ciò appare tanto più significativo alla luce dei mutamenti che vengono a pro-
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LA SINISTRA
ALLA COSTITUENTE
dursi nel periodo fascista in ordine in primo luogo ad un nuovo rapporto tra economia e diritto, ossia ad un nuovo modello interventista di Stato, legato a livello generale alle «risposte efficaci e comunque complesse in termini di modernizzazione del paese» che il fascismo seppe dare dinnanzi a eventi di grande portata come la crisi del Ventinove, e nello specifico al «bisogno di governare, di dirigere l'economia» (tramite ad esempio lo strumento «degli enti
pubblici dell'economia»). La capacità che alcuni giuristi mostreranno di individuare i cambiamenti in corso, dai quali trarranno, come si è accennato, materia
per le proprie claborazioni, conduce di pari passo ad un distacco dai modelli giuridici della tradizione liberale rivelatisi incapaci di misurarsi con tali trasformazioni. Di qui ad esempio gli spunti delle analisi crisafulliane sulla necessità di un ampliamento del novero delle fonti del diritto, connessa all’insorgere delle nuove funzioni dello Stato novecentesco. Di qui il prodursi, come si vedrà, di un vivace dibattito sul nesso diritto e politica per iniziativa dello stesso Crisafulli. Di qui l’importante «svolta» attuatasi proprio negli anni Trenta «ad opera princi-
palmente di Costantino Mortati e Vezio Crisafulli» '99, nel campo della scienza del diritto costituzionale, la quale appunto, per voce di questi ultimi, individuerà «un nodo che non era stato risolto dal costituzionalismo liberale»'. Di qui anche, su un piano propriamente sto-
riografico, la necessità di indagare all’interno del «periodo autoritario» !9°, nel corso del quale presero corpo elaborazioni destinate a rivelarsi centrali nel dibattito costituzionale repubblicano. D'altra parte l’indagine nell’ambito della cultura giuridica del periodo fascista chiama in causa il confronto tra le elaborazioni di Crisafulli e quelle di altri giuristi pienamente organici al regime, coinvolti dalle problematiche della determinazione di un nuovo modello costituzionale, in grado di fare i conti con i mutamenti in corso a livello più generale nelle neonate società di massa, dinnanzi a eventi che impongono un diverso ruolo dello Stato, un ampliamento delle sue competenze e una riproblematizzazione del rapporto tra individuo e istituzioni, volta a superare la crisi del:sistema istituzionale liberale. Laddove se per l’uno e gli altri si trattava di rapportarsi alle «riforme incrementali» del regime'9, alle modifiche di tipo politico e istituzionale in atto (si pensi ad esempio alla legge di costituzionalizzazione del Gran Consiglio e in generale al ruolo assunto dal partito politico), per Crisafulli la costruzione di un moderno ordinamento costituzionale dello Stato non coinciderà con l'esigenza di legittimare lo Stato autoritario fascista né tantomeno
partirà da essa.
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2. BIOGRAFIE
Qui tuttavia risiede un altro elemento controverso della vicenda
biografica di Crisafulli, che chiama in causa ulteriori nodi storiografici. Si tratta del rapporto che questi intrattenne con la dottrina giuridica legata al regime e più in generale con il fascismo, considerato come particolare risposta alla crisi del sistema giuridico liberale. I temi problematici qui coinvolti sono infatti quelli attinenti alla relazione tra fascismo e cultura (non solo peraltro giuridica), sulla scia delle acquisizioni più critiche della storiografia sensibile alla questione delle diverse forme assunte dal consenso nei confronti del fascismo e tesa a demistificare una presunta separatezza tra regime e
intellettualità'!94, a ridiscutere il paradigma crociano della parentesi, nonché quello di una sottocultura sostanziale del fascismo9. Crisafulli, nato a Genova il 9 settembre 1910 e trasferitosi a Roma fin da subito per compiere i propri studi da avvocato, ebbe l’occasione di entrare in giovane età in stretto contatto con il grande giurista Santi Romano del quale diventò uno degli allievi più stimati (per l’esattezza egli ne divenne un assistente volontario, insieme a Paolo Biscaretti di Ruffia) e dal quale trasse tanto un sentimento di insoddisfazione nei confronti della giuspubblicistica facente riferimento a Vittorio Emanuele Orlando, di cui Crisafulli aveva seguito i corsi universitari, quanto poco più tardi elementi sufficienti ad un proprio distacco dalle ancora insoddisfacenti teorizzazioni (anche esse collocabili nella tradizione liberale) di Santi Romano. L'attenzione e il rigore scientifico di Crisafulli si concentrano negli anni della sua formazione giovanile sul problema della natura e dei limiti della «norma giuridica», tema sul quale egli si sofferma fin dalla tesi di laurea (conseguita nel 1932 con Giorgio del Vecchio in filosofia del diritto) e sul quale lavora nel corso di tutti gli anni Trenta mostrando una passione per lo studio e un livello di approfondimento che lo accompagneranno nel corso di tutta la sua ampia produzione. Nonostante infatti egli vinca il concorso per uditore di tribunale subito dopo la laurea e si impieghi nell’ordine giudiziario per sei anni (dal 1933 al 1939) ripercorrendo la strada paterna dell'ingresso nella magistratura, tuttavia resta predominante l'impegno analitico e la vocazione alla elaborazione culturale e giuridica, che consentiranno a Crisafulli, oltre che di restare all’interno dell’università '9, soprattutto di accumulare un vasto bagaglio di conoscenze teoriche e tecniche tali da farlo divenire uno dei massimi interpreti del rinnovamento costituzionale in atto negli anni di crisi dei modelli istituzionali liberali. AI fine di comprendere le linee di fondo degli interventi giovanili (cioè quelli prodotti negli anni Trenta) di Crisafulli in campo giuridico (unico genere questo del quale si è a conoscenza), e dunque di
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analizzare i tratti della sua formazione teorica, è opportuno inquadrare la sua riflessione nel contesto più complessivo della storia della giuspubblicistica italiana a cavallo tra Stato liberale e Stato fascista. Uno dei punti di massima rottura della produzione di Crisafulli sembra essere infatti rappresentato dall’elaborazione di Orlando, il quale - conformemente ai dettami della prevalente cultura giuspositivistica - aveva costruito un modello statuale statico e neutrale, il più lon-
tano possibile da un impianto istituzionale volontario e contrattualistico, fondato su una qualche forma di legittimazione dal basso, sulla possibilità di una scelta costituente. Lo Stato della dottrina di Orlando si concepiva come assoluto, privo di elementi suscettibili di interpretazioni destabilizzanti, al riparo dalle componenti pericolose della società e del vivere associato, e contrario a forme di sovranità popolare e di condivisione collettiva del potere e dei suoi fondamenti. In questo senso tale dottrina giuspubblicistica si presentava come quella dello Stato-persona e implicava un tipo di società semplice ed omogenea, priva di gruppi sociali conflittuali e fondata su «una rappresentanza politica che non riceveva alcun potere, né alcun concreto indirizzo, dal corpo elettorale», del quale era piuttosto la «naturale classe politica dirigente». Questo tipo di teoria, se da un lato è parsa prefigurare il carattere assolutista dello Stato fascista '98, dall’altra mostrerà tutta la debolezza e «incapacità di adattarsi alle trasformazioni oggettive della società del Novecento» '9? che imponevano, in seguito ad un necessario allargamento della base sociale delle istituzioni, il problema dei partiti e in generale dei moderni assetti costituzionali. Non meno legati alla tradizione dello Stato assoluto di tipo tradizionale si mostreranno i giuristi vicini alla teorie dello Stato amministrativo, come Romano (o Ranelletti), che benché maggiormente consapevoli delle difficoltà derivanti dal governo di ampie masse di popolazione attiva, e quindi più coscienti della problematicità del rapporto Stato-società °°°, tuttavia diedero vita ad una dottrina dove restava intatta l’integrità dello Stato (identificato con l’amministrazione di stampo autoritario) «di fronte alle pressioni provenienti dalla sfera organizzata della politica» ?, e dunque poco propensa ad accogliere nuove forme di organizzazione della vita istituzionale collettiva di tipo costituzionale e partitico. La produzione di Crisafulli si inserisce sulla scia di questi insegnamenti, dai quali però si distanzia per indagare — come si avrà modo di vedere — sul terreno dei principi generali di un sistema statale, su quello della esistenza di una “costituzione materiale” (ambito concettuale dei principi nei quali si riassume l’indirizzo politico fon-
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2. BIOGRAFIE
damentale di un organismo storico-statuale), e per approdare ad una
storicizzazione delle forme di organizzazione statale e alla individuazione di modelli avanzati di Stato costituzionale. La riformulazione dei termini con i quali fino a quel momento era stata pensata la norma giuridica nella giuspubblicistica liberale conduce Crisafulli ad un distacco dai limiti posti dai moduli giuridici del passato, «sulla scia dell’azione suggestiva e di rottura» ?° compiuta da autori come Costamagna e Panunzio (l’altro giurista che Crisafulli seguì nei corsi universitari romani presso la facoltà di Scienze politiche, dove Panunzio ricopriva la cattedra di Dottrina dello Stato, tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta). Questi ultimi infatti si impegnarono
in quegli anni nella costruzione di modelli giuridici capaci di sancire «la rottura perpetratasi rispetto all'ordinamento passato» ?9, tentando così nella loro opera di «trasformazione dello Stato» (secondo quanto recitava il titolo del volume più noto di Rocco?) di legittimare un assetto istituzionale di tipo autoritario, il quale però a differenza del passato non veniva legittimato tramite il paradigma dello Stato amministrativo, bensì attraverso i nuovi principi costituzionali. Si trattava infatti di giungere alla definizione «dei principi generali del diritto fascista, che avrebbero dovuto coronare l’opera codifica-
trice del regime e consacrarne il carattere prettamente fascista» ?%, vincolando nella loro natura sovraordinata l’intero sistema normativo ordinario. In tale contesto l’attenzione più complessiva di alcune voci della giuspubblicistica era volta quindi al problema dell’individuazione di un nuovo modello costituzionale, rispondente a quelle modifiche strutturali dei sistemi politici (le quali per altro «trascendevano le contingenze storiche del regime medesimo» °°), e capace di superare il paradigma tradizionale dello Stato liberale. In particolare si trattava, alla luce delle nuove acquisizioni, di superare l'opposizione, fatta propria dalla cultura giuridica liberale, tra diritto e politica e di giungere così prima a comprendere il nesso forte esistente tra questi
due aspetti e poi ad elaborare una dottrina nella quale trovasse spazio la ridefinizione di tale legame. Proprio su queste ricerche convergeva la produzione sia di giuristi non assimilabili al regime come Crisafulli e Mortati sia di alcuni dichiaratamente fascisti come appunto Costamagna e Panunzio.
Non è sempre cosa semplice individuare il punto di rottura tra la produzione finalizzata alla legittimazione dello Stato autoritario fascista, la quale quindi giungeva poi alla piena identificazione tra dettati costituzionali e direttive del Gran Consiglio (l’«organo privato di partito» assunto «nell’empireo degli organi costituzionali dello Sta-
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LA SINISTRA
ALLA
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to» °°), tra diritto e politica, e quella che invece si poneva il problema della costruzione di un moderno ordinamento costituzionale dello Stato, prescindendo dalle concrete forme storiche che quest’ultimo assumeva. Spesso non è facile nemmeno comprendere, alla luce dei testi di Crisafulli, se vi sia, a un certo punto del suo percorso intellettuale e politico, un suo modo alternativo, rispetto a quello prospettato da Gentile, di pensare il rapporto Stato-società e, più concretamente, tra la libera espressione degli interessi individuali dei cittadini e l'esigenza di riferirne la manifestazione ad un quadro organico e unitario. Il problema insomma del nesso libertà-necessità, individuo-Stato, più volte analizzato da Gramsci e suscettibile di soluzioni diverse. Una prima modalità di concettualizzare tale problematica è quella che infatti tende a far prevalere una «politica totalitaria» 298, di assimilazione
forzata e coercitiva
della società all’in-
terno di uno Stato configurato di fatto come l’espressione degli interessi privati e particolari. A tale prospettiva se ne affianca una seconda di tipo dialettico che — pur restando all’interno di un riferimento forte alla realtà statale, quale sfondo principale della collettività dei cittadini (come «criterio ordinatore della ricca realtà dei gruppi» ?°9) — fa valere, in luogo della immediata identificazione tra individuo e Stato, l'esigenza del necessario raccordo tra espressione dei propri interessi individuali ed esigenze della collettività, tra proprie libertà e necessità oggettive di un sistema integrato.
Tuttavia dalla produzione giuridica di Crisafulli — maturata, giova ribadirlo, tutta attorno al problema della trasformazioni oggettive delle funzioni statali nel corso degli anni centrali del Novecento dinnanzi ad un complicarsi e arricchirsi della realtà sociale nelle sue nuove forme organizzative — emergono le linee di un percorso che si distacca non soltanto dalla tradizione liberale ma soprattutto da quella fascista. Qui si colloca il difficile equilibrio della produzione di Crisafulli nel trattare di norme-base dell'ordinamento statale, su-
premazia dei principi costituzionali sovraordinati e attività dell’indirizzo politico che li informa, senza da un lato ricadere nell’ambito
della dottrina tradizionale dei grandi maestri (Orlando e Romano) e dall’altro (versante ancor più problematico) appiattirsi sulle posizioni dei giuristi dediti alla costruzione di un modello di stabilizzazione, legalmente fondato, del regime fascista (in particolare espresse da Costamagna, da tempo impegnato in un’opera di “fascistizzazione del diritto”). Proprio al fine di comprendere il percorso formativo di Crisafulli sembra opportuno procedere a una rapida disamina di alcuni suoi interventi.
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Una delle prime riflessioni di Crisafulli è diretta proprio al problema dello Stato nel nuovo ordinamento giudiziario di Rocco e nei suoi nuovi codici penale e di procedura penale portati alla sistemazione finale nel 1931, con l’intento di dar concretezza sul piano giuridico-istituzionale alla “rivoluzione fascista” in atto. In questo testo
del 1935?!° Crisafulli spiegava lungamente quale fosse il concetto storico di Stato che sottendeva la codificazione fascista, uno Stato che
compariva come il principale «soggetto passivo» dei reati compresi nei codici Rocco, e che si configurava come «unità economica e produttiva concreta», come persona giuridica «massiccia e complessa»,
come «supremo organismo etico-sociale», unico soggetto dei delitti presi in considerazione. L'idea secondo cui la tutela della legge pe-
nale si rivolgeva allo Stato anziché agli individui e ai loro diritti di cittadini singoli, se da una parte era uno degli strumenti giuridici più potenti attraverso cui venivano negate da parte del regime le libertà ai cittadini e giustificate le misure di inasprimento delle pene e di repressione indiscriminata, dall’altra — sul piano analitico — era anche visto come l’espressione di un superamento da parte della codificazione fascista della «tradizionale» figura «puramente giuridica» dello Stato liberale. Crisafulli, che pur mostrava di comprendere nel suo articolo il significato di una codificazione volta alla affermazione massima della personalità giuridica dello Stato, ove ad esempio la tutela penale dell’interesse «del singolo cittadino al libero esercizio dei propri diritti politici» era solo indiretta, cioè «per riflesso della tutela accordata all'interesse statuale», sembrava essere parimenti attento al rinnovamento storico ed oggettivo in atto, riguardante l’ampliamento dei confini della attività statale, nonché la predisposizione alla base di quest’ultima di determinati principi, derivanti da un preciso programma politico. La forte e prevalente capacità di storicizzare gli assetti specifici e
le forme particolari in cui si concretizzava un modello istituzionale lo conducevano ad una attenzione tutta rivolta a cogliere il dato oggettivo che emergeva dalle trasformazioni novecentesche (con il quale anche il fascismo fu costretto a fare i conti, nella misura in cui tentò di dare una risposta propria alla crisi dell'ordinamento liberale), quello cioè della nuova funzione — «più vasta e complessa» — dello Stato nel superamento di una sempre più impossibile dicotomia tra esso e la società che ne era alla base. Ma soprattutto ciò che già da qui comincia ad evidenziarsi (e lo sarà nitidamente nei testi successivi ?") è la comprensione «delle con-
dizioni pregiuridiche» che fondano l’attività dello Stato ??. Emerge allora, cercando di arrivare ad un quadro sintetico delle complesse ri-
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ALLA
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flessioni di Crisafulli, la messa in luce di uno Stato quale «soggetto non altrimenti comprensibile se non come finalizzato a realizzare ura politica determinata». Uno Stato che dà espressione, attraverso l’attività di governo, all’indirizzo che determinate forze politiche e sociali hanno scelto; laddove ne discende quindi il netto rifiuto di Crisafulli (come anche di Mortati) a «intendere l’attività di governo come diretta “solo a mettere in moto il congegno delle istituzioni costituzionali”», a «mettere in moto un meccanismo di armonizzazione forma-
le tra i poteri», anziché a «imprimere» alla attività di questi «un particolare orientamento politico» ?5. Centraleè il riconoscimento, quale presupposto medesimo della «coordinazione degli organi e delle funzioni», di «un determinato indirizzo politico, ad ottenere in definitiva la realizzazione del quale essa è, per l'appunto, rivolta» ?4. Di qui si basa il nuovo rapporto tra diritto e politica a cui approdano le «dottrine della Costituzione» di Crisafulli e Mortati, le quali appunto riconoscono alla politica la capacità di «fondare unità istituzionale attraverso scelte di indirizzo», e giungono così al superamento dell’«opposizione liberale tra “diritto” e “politica”», facendo dipendere «lo Stato medesimo con il suo diritto [...] da quelle scelte d’indirizzo che nella cultura liberale erano tradizionalmente intese come scelte di natura “politica”» e in quanto tali causa di disgregazione ?. Da quanto si è sinora detto appare dunque evidente che il riconoscimento della politica quale attività in grado di coordinare gli organi costituzionali attorno alle scelte di un suo indirizzo sostanziale porta ad ammettere
«che la politica non è il “prodotto”, la conse-
guenza dell’attività degli organi costituzionali», bensì il loro «presupposto», dal momento che essa ne guida «ex ante l’attività, determinando i fini cui essa deve orientarsi» ?!°
Tuttavia a questo punto sembra opportuno precisare ulteriormente lo sviluppo del pensiero di Crisafulli al fine di comprenderne le necessarie implicazioni. Occorre infatti aggiungere che la sua concezione è ben attenta a distinguere metodologicamente l’attività giu-
ridica, producente diritto da quella politica, espressa nell’indirizzo politico. Si tratta infatti di mettere in rilievo una loro differenza qualitativa, tale che l’attività di determinazione dei fini politici di uno Stato nel contenuto delle sue leggi costituzionali, non conduce al dissolvimento del «diritto costituzionale nei contenuti politici delle singole costituzioni e dei singoli atti, solo perché, e nella misura in cui,
si limita ad affermare in astratto il ruolo necessario della attività che pone tali determinazioni, e quindi a ricostruirlo formalmente» ?7. D'altra parte Crisafulli negherà all’attività di indirizzo politico il carattere di funzione giuridica, di quarta e autonoma funzione dello
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2. BIOGRAFIE
Stato, avendo
tale attività una
natura
«essenzialmente,
intrinseca-
mente politica» e quindi essendo essa di tipo qualitativamente diverso. «L'indirizzo politico — scriverà infatti Crisafulli — non è posizione di norme giuridiche. Proprio della norma giuridica è [...] che la violazione di essa costituisce un illecito giuridico mentre», continuava, «la violazione di un determinato indirizzo politico, lungi dal costituire un illecito, è preveduta come possibile ed anzi, entro certi limiti, voluta dall'ordinamento giuridico, potendo dar luogo, in ultima analisi, ad un mutamento d’indirizzo» 8. Egli delineerà allora «una situazione nella quale le funzioni — stricto sensu — dello Stato continuano ad essere soltanto quelle relative alla produzione ed alla applicazione del diritto». Di qui, attraverso vari passaggi si configura una teoria che tiene ferma «l’irriducibilità del diritto all’insieme delle decisioni sui contenuti del diritto» ??9; l'autonomia di questo rispetto all’attività dell'indirizzo politico; la impossibilità di un dissolvimento del diritto nella decisione politica. Si tratta infatti di una concezione che contemplando una separazione strutturale tra queste due sfere, prevede per il diritto uno spazio specifico e autonomo, nonché una collocazione superiore. E infatti, concludendo il percorso nel fitto reticolo seguito dalle argomentazioni di Crisafulli, se l’attività politica ha il fine di dettare allo Stato determinati orientamenti politici, essa è comunque sottoposta alle norme del sistema giuridico — è cioè «giuridicamente regolata»? — il quale ne disciplina i comportamenti medesimi, in un’opera di legittimazione e limitazione al tempo stesso. Si comprende allora, come è stato ampiamente argomentato, «lo sbocco normativistico» della elaborazione di Crisafulli
la quale — riconoscendo allo Stato la funzione di «produrre il diritto», muovendosi in questo su un «piano qualitativamente diverso da quello della individuazione» dei suoi fini — ribadisce il ruolo di disciplinamento che, attraverso il diritto, lo Stato (tramite vincoli e
garanzie di tipo giuridico) viene ad esercitare sulla medesima «attività politica che lo sottende e lo guida» ?°2. Ad illuminare quanto si è finora riportato sembra essere utile dar conto del dibattito che si svilupperà sulle pagine di “Stato e diritto” nel 1940, tra Crisafulli e Maranini relativamente al rapporto esistente tra diritto e politica, tra «valore storico» delle istituzioni costituzionali (situate su uno sfondo politico determinato) e necessaria autonomia
dell’aspetto giuridico. Crisafulli infatti prende spunto da un articolo di Maranini ove egli riscontra polemicamente l'assenza del termine «scienza» giuridica per sottolineare l’importanza del metodo dogmatico nel suo fondamentale apporto conoscitivo, nella sua opera di «generalizzazione e astrazione» che «sola può dar vita a concetti che sia-
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no veramente tali» 23. Da un lato dunque la posizione di Crisafulli compiva un salto in avanti rispetto alle elaborazioni tipiche della tradizione liberale nel riconoscere — forte della capacità di portare alla luce quelle «nuove problematiche rispondenti ai mutamenti strutturali dello Stato» 224 — «lo sfondo politico di ogni dogmatica», «l’ideologia politica che sta alla base del sistema del diritto positivo al quale quella dogmatica si riferisce» ?*. Dall’altro lato però nell’ambito di una generale riflessione sensibile ai «pericoli» derivanti da una indagine «ai confini tra politica e diritto», Crisafulli affermava a chiare lettere che la dogmatica non era «vincolata da un rigoroso conformismo alle particolari concezioni politiche, le quali presiedettero bensì alla formazione di certi settori e istituti dell’ordinamento stesso, ma rimanen-
done, per così dire, al di fuori», sicché la dogmatica della quale si trattava poteva «discostarsene, talora anche profondamente» e fungere da premessa di rinnovamento del sistema giuridico senza «che esso venga apparentemente mutato nelle sue disposizioni» ?”7.
In tale ambito analitico e come emerge anche da un articolo scritto da Crisafulli alla fine degli anni Trenta in onore di Santi Romano, sembra evidente che nell’ambito della nuova giuspubblicistica rappresentata dal giovane giurista «le interferenze tra diritto e politica» (pur esistenti dal momento che i principi costituzionali rappresentano la «realizzazione giuridica positiva di determinate direttive e
tendenze politiche», ovvero la traduzione in termini di diritto positivo di quella «determinata formula politica che sta alla base dell’ordinamento stesso» ??8), appaiono senza dubbio meno vincolanti rispetto a quelle esistenti nella tradizione dei giuristi del regime. Infatti, come pare ancora emergere da tale intervento, l'individuazione alla base di ciascun assetto istituzionale di un fondamentale indirizzo politico («inteso come complesso di norme direttive rivolte dal titolare della
suprema potestas a tutti i poteri pubblici» ?*9) teso a conferire unità ad ogni sistema, si accompagna al riconoscimento dei limiti (particolarmente vincolanti per i momenti di interpretazione e di applicazione del diritto) fissati dalla legge costituzionale, ovvero da una norma giuridica «obbligatoria e coattiva» in cui lo stesso «valore politico è superato e trasceso» e in nome della cui oggettività e certezza viene dichiarata la preminenza della legge scritta contro una arbitraria, personale e variabile «coscienza giuridica» di colui che di volta in volta
interpreta ed applica le leggi ordinarie 3°. E soprattutto in occasione della riforma del codice civile e del dibattito ad essa preparatorio che Crisafulli ha modo di chiarire i propri assunti e di sistematizzare le proprie riflessioni in merito alla determinazione del nuovo modello costituzionale.
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2. BIOGRAFIE
La riforma dei codici (civile, di commercio e di procedura civile) era una esigenza da lungo tempo maturata non soltanto presso gli uomini del duce, decisi alla completa fascistizzazione delle istituzioni e sollecitati dalla realizzata opera di smantellamento degli ultimi pilastri dello Stato liberale, ma anche in altri settori dell’opinione pubblica. Proprio nel corso dei lavori compiuti per la riforma di tali codici nacque un vivace dibattito tra quanti da un lato avrebbero voluto la completa fascistizzazione dei codici e quanti, dall’altro, interpretavano la riforma nell’ottica di una necessaria trasformazione rispondente ai nuovi assetti dello Stato moderno ?#. In questo senso si comprendono tanto le numerose polemiche di giuristi come Costamagna, che lamentavano la presenza di uno spirito afascista nella mentalità di parte della giuspubblicistica di quegli anni, quanto il tentativo diretto dal guardasigilli Grandi di dar vita ad una redazione dei principi generali dell'ordinamento fascista (volti ad informare di sé tutti gli apparati giuridico-istituzionali) dal quale appunto nacque un acceso dibattito in sede giuridica e al quale seguì una ampia serie di studi, culminati in un convegno a carattere universitario svoltosi a Pisa alla metà del maggio 1940. Crisafulli ebbe la possibilità di intervenire durante questo dibattito e di apportarvi il proprio contributo. Lo scritto relativo alla proposta Grandi venne pubblicato l’anno successivo, negli atti del convegno pisano ?*. Dall’analisi di questo intervento emerge che la riflessione di Crisafulli si incentra soprattutto sulla dimostrazione della necessità di superare una concezione restrittiva della norma quale veniva
intesa dai giuristi della tradizione liberale, tramite una idea più ampia del diritto comprendente il nuovo concetto dei principi generali concepiti come altrettante vere e proprie norme giuridiche. Sembra importante rilevare che la critica portata avanti da Crisafulli in questo scritto nei confronti delle teorie che riconoscono validità normativa soltanto a norme racchiuse in articoli precisi e finalizzate alla regolazione di una determinata materia (negando in questo modo validità giuridica ai principi generali), parrebbe richiamare il dibattito svoltosi in sede di Assemblea costituente pochi anni dopo a proposito del carattere e dell’efficacia prescrittiva dei principi programmatici della Costituzione repubblicana racchiusi nei primi articoli del testo
(in particolare nell’articolo
3), contro
i quali non
a
caso tuoneranno gli appartenenti alla vecchia scuola dello Stato liberale. Anche in questo senso è allora possibile leggere l'intervento di Crisafulli come il portato di una riflessione più complessiva sulla
natura delle norme giuridiche non immediatamente nell’alveo delle direttive politiche fasciste ?9.
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riconducibile
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
Crisafulli riusciva così a riprendere parte delle intuizioni di Romano relative al potere costituente, base del moderno ordinamento giuridico 34, e però anche ad andare oltre i limiti fissati dalla giuspubblicistica liberale a cui quest’ultimo apparteneva (la quale per altro non gli permetteva di sviscerare a fondo il concetto di costituzione) per giungere alla sistematizzazione del nuovo modello statale ove i principi generali costituzionali assumevano una definizione certa e stabile, all’interno di una elaborazione scientifica non «legata strumentalmente» (tanto ora quanto precedentemente, al momento della legittimazione di una “costituzionalizzazione” del Gran Consi-
glio) «al problema della sorda lotta in corso all’interno del fascismo fra logica del potere tradizionale e logica dei poteri nuovi» ?#. Il diritto non è dunque solo la norma tradizionalmente e limitatamente
intesa, e i principi non
sono quelli ai quali si perviene
«per mezzo del tradizionale procedimento astrattivo», secondo il rilievo «sostanzialmente esatto e fecondo» di Romano (il quale dunque sembra aver già intuito tale complessità e completezza del diritto, facendosi portatore di una «nozione dei principi generali più ricca ed estesa», dal momento che non esclude «che vi possano essere principi generali espressi» ?39) bensì — come
Crisafulli scrisse
nell'articolo in onore di Romano e in quello composto per la rivista “Jus” 237 — anche i grandi principi fondanti l'ordinamento istituzionale. Principi generali che vanno dichiarati esplicitamente, in quanto espressione della statuizione volontaria di un determinato assetto costituzionale, e che quindi non possono essere concepiti co-
me semplici norme implicite, «latenti, che è compito dell’interprete scoprire e formulare applicandole al caso concreto», o che corrispondono, al pari della consuetudine, a «norme poste non volontariamente» (elemento questo sostanziale per la maturazione del distacco di Crisafulli dal naturalismo e dalla staticità del modello giuridico dello Stato liberale di diritto ?38), ma che vanno anzi conside-
rati nel loro dover essere, come disposizioni programmatiche valide per tutto l'ordinamento. Principi generali che «potrebbero — scrive
esplicitamente Crisafulli — definirsi come
norme-base,
dalle quali
dipende il modo di essere e la configurazione di settori più o meno ampi dell'ordinamento, perché contengono già in sé, potenzialmen-
te, le norme particolari che concretamente costituiscono quei settori dell’ordinamento» ?9. Concetti questi che Crisafulli riprenderà successivamente nel nuovo assetto postfascista, a conferma di un impegno volto costantemente al progresso della scienza giuridica e del suo adeguamento alle trasformazioni oggettive della società contemporanea.
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Proprio da queste riflessioni poi sembrano emergere i due aspetti di fondo in cui si combina la nuova dottrina della Costituzione democratica quale emergerà di lì a poco e alla cui elaborazione contribuiranno le riflessioni di giuristi come Crisafulli e Mortati. Le tematiche della statuizione volontaria di un assetto costituzionale e della certezza giuridica delle leggi costituzionali portano infatti alla definizione dei caratteri fondamentali delle «costituzioni democratiche dell’ultimo dopoguerra» le quali «dovevano soddisfare» sia il bisogno «della scelta, netta e vigorosa, per un nuovo sistema di principi e di valori, per un indirizzo fondamentale, che le istituzioni politiche» avrebbero rappresentato e portato ad attuazione; sia quello della «fissazione di una serie di regole fondamentali, stabilmente indisponibili da parte di tutte le soggettività agenti, ed in primo luogo da parte degli stessi poteri costituiti rappresentanti il popolo sovrano». La natura del nuovo Stato costituzionale risiedeva tanto nel suo essere l’espressione consapevole della volontà del soggetto costituente (in questo caso il popolo sovrano, dotato del nuovo strumento del partito politico) capace di imprimervi le proprie finalità politiche; quanto nel suo comprendere una istanza massimamente garantista, tale per cui essa sarebbe stata «una costituzione opponibile ai rappresentanti del popolo sovrano, e non solo una costituzione voluta dal popolo sovrano» ?4. Secondo questo nuovo paradigma teorico, giungente a quella combinazione tra diritto e politica a cui si è più volte fatto riferimento, lo Stato come unità politica era l’espressione delle scelte d’indirizzo compiute da determinati attori sociali e politici, in grado di far prevalere in una specifica fase storica — attraverso un percorso conflittuale — opzioni di fondo «da tradurre sul piano normativo costituzionale», capace di regolarle formalmente attraverso modalità giuridiche certe e stabili?#. A questo punto parrebbe più agevole spiegare parte del medesimo percorso politico compiuto da Crisafulli negli anni della sua maturazione intellettuale, percorso che lo porta a differenziarsi dall’ambiente giuridico del regime, al quale egli non era mai stato d’altra parte organico, sino all’approdo comunista, passando per l’esperienza socialista. Non disponendo di materiale adatto a ricostruire nei minimi dettagli queste fasi della vicenda biografica di Crisafulli, si possono tuttavia avanzare delle ipotesi per ciò che attiene alle motivazioni della sua adesione alla formazione clandestina dell’uPI, al MUP (con il quale lUPI si unì) e nell’agosto del 1943 al PSIUP (impegnandosi in particolare nella realizzazione dell’“Avanti!”, accanto a Colorni e Coro-
na?4), fino alla sua entrata nelle file del PCI nel 1944. A questo scopo
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sembra illuminante — a seguito della ricostruzione fin qui compiuta, che ha permesso di cogliere le direttive di una riflessione scientifica sviluppatasi lungo una strada «meno legata al contingente» e tesa ad «indagare sui più vari e più nuovi profili della normazione e degli assetti normativi» italiani? — un suo scritto di carattere più propriamente politico pubblicato nel 1935 ?#. Nella cornice più generale ove si colloca l’esperienza di numerosi giovani passati tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta nelle file dell’antifascismo, questo testo sembrerebbe mettere in evidenza alcune delle ragioni che portarono Crisafulli a far parte della vicenda di quanti si distanziarono progressivamente dal regime. Ragioni queste che dunque si situano — come è stato detto — nel «clima sottilmente ambiguo di quegli ultimi anni del regime, quando tante crisi personali venivano insieme a maturazione
e una genera-
zione che nel fascismo aveva generosamente creduto si trovava improvvisamente al bivio tra la fedeltà disincantata a un passato del quale pure si avvertivano lucidamente i limiti e la ricerca di nuove certezze per il proprio futuro» ?#. Nel testo di Crisafulli, nel quale egli recensiva alcune pubblicazioni francesi relative al problema della democrazia e della libertà, possono rintracciarsi, già all’altezza della metà degli anni Trenta, elementi potenzialmente critici che paiono dar conto del suo successivo percorso ideologico e politico. Partendo da una polemica — più volte poi ripresa sulle colonne di “Rinascita” nel nuovo contesto repubblicano — nei confronti dei «teorici della democrazia liberale», i quali hanno un concetto di libertà «meramente negativo ed empirico», inadeguato alle trasformazioni in atto nella società, egli
giungeva a costruire il proprio modello di libertà, definito in base al rapporto fondamentale tra libertà e legge dello Stato. La «libertà — scriveva — consiste nella cosciente e spontanea accettazione della legge, non più appresa nella sua eventuale eteronomia, né come forza necessitante malgrado o contro la volontà del soggetto, ma ricreata ed attuata come la stessa legge propria del soggetto medesimo». In questo senso, «il problema della libertà politica si riduce
fondamentalmente ad un problema di educazione: bisogna che i sudditi osservino la legge dello Stato come la propria legge»? Se da un lato questo tipo di riflessione — nella quale peraltro era presente uno dei grandi temi classici del pensiero politico moderno — vincolava la libertà del cittadino alla legge e al suo erogatore ufficiale, lo Stato; dall’altro poneva anche dei limiti oggettivi alla funzione normativa dello Stato, obbligato a concepire leggi nelle quali «il suddito» potesse riconoscere il frutto della propria «libera spon-
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tanea attività ricreatrice» e «normatrice». Il «soggetto» sarebbe dovuto arrivare a riconoscersi nella norma giuridica positiva, cessando di viverla come un «esterno e coattivo limite alla libertà», attraverso
un processo di educazione «cosciente e spontanea» e non già in forza di un intervento coercitivo immediato da parte dell’autorità politica. Allo stesso modo se in questo scritto Crisafulli esprimeva una sua preferenza nei confronti di forme di democrazia antitetiche a quelle «di tipo individualistico», comprese quelle «collettive o corporative», è vero anche che egli non mancava di affermare che «una qualsiasi forma di Stato veramente democratico non può prescindere dal principio dell'autonomia» individuale, «inteso quale aspetto politico della libertà» ?47. Proprio questo secondo aspetto della sua elaborazione politico-filosofica si scontrò con la sempre più evidente involuzione della vicenda politica italiana sotto il fascismo. In esso trasparivano chiaramente delle aspettative nei confronti di una evoluzione progressiva dello Stato contemporaneo, la pretesa che in esso si aprisse uno spazio per una reale dialettica tra lo Stato stesso e la società intesa come luogo di autonomia e come terreno fondativo del terreno istituzionale. Non è infatti un caso che dinnanzi ad un processo di privatizzazione dello Stato, di fronte all’evidente incapacità da parte del sistema fascista di far prevalere l’interesse generale sugli interessi particolari, gli elementi di dubbio andarono aumentando e i percorsi di allontanamento si accelerarono. Attraverso questo problematico percorso Crisafulli giunse ad una opposizione politica radicale nei confronti del regime, e al tempo stesso continuò la propria attività sul versante della scienza giuridica, intesa nel modo dinamico che gli permise di essere uno dei protagonisti del dibattito costituzionale repubblicano. In fondo la medesima scelta politica di Crisafulli illumina ulteriormente (e serve in questo anche da spunto per una sintesi del suo percorso intellettuale) i fondamenti della sua elaborazione maturata tra fascismo e Repubblica. Il riconoscimento di una necessaria presenza di dinamiche materiali alla base di ogni assetto istituzionale storicamente determinato, si accompagnava al rifiuto di un modello di Stato neutrale e apolitico, il quale poi finiva, attraverso una negazione della dimensione della politica e del conflitto, per legittimare un determinato status quo e il permanere di una situazione concreta intessuta di particolarismi e fondata sulla impossibilità di allargare le ristrette basi del potere politico, di superare il dualismo esistente tra «governanti e governati» ?48. Qui anche, in quella che sembra configurarsi come una relazione sempre più stretta tra l'acquisizione cri-
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tica sul versante giuspubblicistico e il maturare di specifiche opzioni politiche, sembra di poter intravedere le premesse concettuali delle scelte di Crisafulli. Si tratta cioè della sua adesione a formazioni politiche (il PSIUP prima e il PCI poi) e ad un orizzonte intellettuale (quello del marxismo) che ai suoi occhi riflettevano l'impegno, sul piano politico, in direzione di un superamento della dicotomia tra Stato e società, istanze particolari e interesse generale tanto tipica dell'ordinamento liberale, quanto risolta in termini regressivi dal fascismo; su quello ideologico al disvelamento della trama reale soggiacente alla struttura istituzionale, ossia dell’«effettivo sistema dei rapporti di classe e quindi delle forze politiche del paese» ?#. La prima stagione repubblicana della riflessione di Crisafulli è caratterizzata da un impegno teorico volto all'elaborazione di tipo giuridico-costituzionale (nel 1952 uscirà la raccolta dei suoi saggi attinenti al tema della fondazione di un nuovo
Stato costituzionale ?5°),
nonché conseguentemente ad una ampia riflessione attorno a quel nodo centrale verso il quale Crisafulli aveva già mostrato una forte sensibilità, connesso al rapporto tra società di massa e organizzazione dello Stato moderno, tra libertà e democrazia, tra governo della maggioranza e diritti dei singoli. È in particolare su “Rinascita” che Crisafulli tra il 1944 e il 1946 affronta tali problematiche, mostrando di
conoscere bene, oltre che tutte le questioni attinenti all’organizzazione di un moderno assetto istituzionale, anche alcuni testi classici
della tradizione del pensiero marxista. Dalla lettura di questi interventi sulla nota rivista del Partito comunista emerge che per Crisafulli l'approdo al «socialismo marxistico» era sentito soprattutto come la necessaria adesione ad una ideologia capace di sviluppare sino alle ultime conseguenze i principi della democrazia, di superare dialetticamente i limiti e «le più gravi contraddizioni interne della democrazia liberale d’anteguerra», di fondare un sistema politico-istituzionale concretamente volto sia al soddisfacimento dei bisogni generali, sia al coinvolgimento dei cittadini nel «governo dello Stato». Un sistema questo di «democrazia vitale» capace anche, a differenza di quello «democratico-liberale», di dare validità effettiva all’esercizio delle libertà proclamate, consentano con quella specifica sensibilità mostrata da Crisafulli nei confronti delle istanze garantiste. Sensibilità che lo conduceva ad esempio ad affermare altrove che «i lavoratori, con le loro organizzazioni politiche e sindacali, sono oggi nel pieno della legalità tanto da un punto di vista formale quanto da un punto di vista di sostanza. Sono nel pieno della legalità quando difendono i loro diritti politici democratici contro l’arbitrio e il tentativo di sopraffazione, poiché in tal modo essi difendono la Costitu-
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zione che quei diritti sancisce e garantisce a tutti indistintamente i cittadini» 25, Nel nuovo contesto repubblicano diventava fondamentale agli occhi di Crisafulli — nell’ambito più generale di una lettura del marxismo armonica rispetto ai principi democratici, la quale d’altra parte accomunerà molti esponenti della cultura marxista del dopoguerra — la fondazione prima e la difesa poi di una nuova e «moderna costituzione democratica»>?, che «non poteva limitarsi a sancire i soli diritti di libertà individuali, astrattamente e formalisticamente consi-
derati sul piano giuridico secondo il modello ottocentesco» (peraltro non rinnegato, bensì — sulla scia di uno storicismo comune ad alcuni esponenti dello schieramento delle sinistre — valorizzato negli elementi ritenuti oggettivamente progressivi). Essa infatti «doveva — anche — creare le condizioni per un effettivo esercizio concreto di tali diritti da parte di tutti i cittadini». E in questo nuovo capitolo della storia della Repubblica che l’impegno scientifico e giuridico di Crisafulli si coniuga con quello più direttamente politico, volto a fare della Costituzione italiana uno dei modelli di governo più progressivi, al passo con altre esperienze costituzionali avanzate (da quella russa a quella spagnola del 1931 a quella «in parte» di Weimar), ove la decisa affermazione del valore normativo delle disposizioni programmatiche contenute nel nuovo testo faceva tutt'uno con la volontà di perseguire «l’attuazione concreta» dei nuovi «diritti sociali» ?53. Sempre a questo proposito scriveva Crisafulli che la nuova Costituzione repubblicana — nata «dall’esperienza della dittatura fascista» e da quella «della lotta di liberazione» — giungeva a consacrare «solennemente [...] il titolo delle classi lavoratrici ad una partecipazione effettiva alla direzione politica del paese» e «senza essere una Costituzione socialista, essa non ha nemmeno nel suo spirito informatore la concezione della borghesia». Aggiungeva poi che il nuovo testo, il cui «contenuto sociale» si ispirava ad un indirizzo generale «di tipo positivo», sanciva costituzionalmente «le conquiste delle classi lavoratrici», conquiste che le classi dominanti erano «obbligate
ad accettare» perché connotate da un preciso «valore costituzionale» e dunque in grado di porsi «come altrettante guarentigie stabili — anche formalmente costituzionali, quindi limitanti e vincolanti la stessa funzione legislativa — delle classi lavoratrici» medesime ?54. Proprio qui tornavano ad evidenziarsi i caratteri di fondo del nuovo modello di ordinamento costituzionale prospettato dalla giuspubblicistica innovativa degli anni Trenta, connessi al suo essere tanto l’espressione delle scelte consapevoli compiute da determinate
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forze politiche e sociali (in tal caso quelle delle forze popolari affermatesi nel corso della Resistenza e riassumibili nell’aspirazione ad una democrazia di tipo sociale, «effettiva» ?5); quanto al suo essere la consacrazione di norme fondamentali, certe e stabili, capaci di offrire garanzie in quanto vincolanti i medesimi poteri costituiti. Note 1. Si vedano ad esempio M. De Nicolò, Lo Stato nuovo. Fausto Gullo, il PCI e l'Assemblea costituente, Pellegrini, Cosenza 1996; C. Amirante, V. Atripaldi (a cura di), Fausto Gullo fra Costituente e Governo, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1997; F. Barbagallo, Terracini comunista antistalinista, alla Costituente e al Senato in Agosti (a cura di), La coerenza della ragione, cit., M. Dogliani La concezione della Costituzione in Togliatti, in Franceschini, Guerrieri, Monina (a cura di), Le idee costituzio-
nali, cit.; Spagnoli, Partecipazione popolare e società civile, cit.; ed infine i saggi contenuti in G. Monina (a cura di), La via alla politica. Lelio Basso, Ugo La Malfa, Meuccio Ruini protagonisti della Costituente, Franco Angeli, Milano 1999. 2. Cfr. in particolare V. Atripaldi, L'organizzazione costituzionale dello Stato nel dibattito alla Costituente: il contributo di Renzo Laconi, in Studi in onore di Antonio Guarino, Jovene, Napoli 1982; N. Bobbio, Togliatti e la Costituzione, in A. Agosti (a cura di), Togliatti e la fondazione dello Stato democratico, Franco Angeli, Milano 1986; S. Merlini, Umberto Terracini, in “Quaderni costituzionali”, a. VII, n. 3, dicembre 1987; G. Pasquino, Lelio Basso, ivi; S. Rodotà, Lelio Basso: la vocazione costituente, in Annali 1989, vol. x, Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Il Mulino, Bologna 1989. 3. G. A. Romeo, La stagione costituente in Italia (1943-47). Rassegna della storio-
grafia, Franco Angeli, Milano 1992, p. 20. 4. Atripaldi, Fausto Gullo alla Costituente, in Amirante, Atripaldi (a cura di), Fausto Gullo fra Costituente e Governo, cit., p. 4. s. De Nicolò, Lo Stato nuovo, cit., p. n. In quest'ottica è stato sottolineato (M. G. Rossi, G. Santomassimo, Introduzione, in Ruffilli (a cura di), Cultura politica e partiti, cit., vol. Il, p. 205) come una ricerca sulla cultura politica del Pci alla Costituente
debba comunque tenere in considerazione che il Partito comunista «si presenta soprattutto come uno strumento collettivo di elaborazione e di intervento», tale da imporre a «chi ne ricostruisce la storia la ricerca di una risultante unitaria». 6. Dogliani, La concezione, cit., p. 382. Qui si sottolinea l’importanza di un «filone di storia costituzionale», che non sia solamente «storia delle istituzioni», o «storia della dottrina»; bensì soprattutto una «storia della concezione della costituzione attraverso le affermazioni dei protagonisti della vita politica». 7. E Cordova, Introduzione, in De Nicolò, Lo Stato nuovo, cit., p. 9.
8. Ivi, p. 1. 9. Salvati, Cittadini e governanti, cit., pp. 44 ss.
ro. P. Gobetti, Coscienza liberale e classe operaia, Einaudi, Torino 1951, p. 213. IIRRIVISPIIZIA: 12. A questo proposito cfr. S. Coletta, La formazione di Terracini: la famiglia, i primi anni di lotte, “L'Ordine Nuovo”, in Agosti (a cura di), La coerenza della ragione, cit., pp. 17 ss.
13. Si veda anche la testimonianza di U. Terracini, pubblicata in M. Paulesu Quercioli (a cura di), Gramsci vivo, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 107-13. 14. U. Terracini, Uscii da scuola e andai a corso Siccardi, in “VUnità”, 22 gennaio 1967.
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Is. Cfr. A. Agosti, Togliatti, UTET, Torino 1996, p. 11.
16. È lo stesso Terracini a dichiarare che questa sua provenienza sociale gli creò inizialmente qualche problema di accettazione nell'ambiente socialista torinese (cfr. M. Pendinelli [a cura di], Conversazione con Umberto Terracini tra cronaca e storia.
Quando diventammo comunisti, Rizzoli, Milano 1981, p. 27). 17. Cfr. Terracini, Intervista sul comunismo difficile, cit., p. 5. 18. P. Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Einaudi, Torino 1972, p. 238. 19. A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1965, p. 466. 20. Su questo tema si veda anche E. Garin, Gramsci nella cultura italiana, in AA.V., Studi gramsciani, Atti del convegno dell’11-1} gennaio 1958, Editori Riuniti, Roma 1958. 21. Terracini, Intervista sul comunismo difficile, cit., p. 139. 22. Ibid. 23. U. Terracini, Con Gramsci e Togliatti all'Ordine Nuovo, in “l’Unità”, 22 agosto 1965.
24. Ibid. 25. Ibid. 26. E. Ragionieri, Palmiro Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 10. 27. Agosti, Togliatti, cit., p. 7. 28. L. Merlin, La w2i4 vita, a cura di E. Marinucci, Giunti, Firenze 1989, p. 95. 29. Gli stessi ordinovisti parteciparono tra il 1916-17 alla polemica antiprotezionistica, seppur motivandola con finalità diverse da quelle addotte dalla borghesia liberale. Su questo si veda Paggi, Antonio Gramsci e il moderno principe, cit., pp. s1 ss. 30. Per un’analisi dettagliata della vicenda legata alla regolamentazione della pro-
stituzione cfr. G. Gattei, La sifilide: medici e poliziotti intorno alla «Venere politica», in AA.vv., Storia d’Italia, Annali, 7, Einaudi, Torino 1984, pp. 740-98. 31. L'espressione viene riferita da Gramsci (Lo Stato italiano, ora in Id., L'Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana, A. A. Santucci, Einaudi, Torino 1987, pp. 403 ss.); cfr. dello stesso Gramsci, Lo strumento di lavoro, ivi, p. 414. 32. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 2150. 33. Pendinelli (a cura di), Conversazione con Umberto Terracini, cit., p. 24. 34. A questo proposito appare interessante che Gramsci nel luglio del 1916 scriva un articolo polemico (A. Gramsci, Vecchiezze, 13 luglio 1916, ora in Id., Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1980, pp. 432-3) verso i “rigidi”, nel quale egli richiama le accuse da questi ultimi mosse nei confronti dei giovani, significativamente accusati, proprio per la loro serietà di fondo, di essere «vecchi». A ciò farà infatti seguito un indiretto scontro tra la direttrice del “Grido del Popolo”, Maria Giudice, arroccata su una posizione «anticulturista» e la nuova generazione gramsciana la quale avrà modo di distinguersi tramite gli articoli comparsi sul nuovo foglio, rivolto ai giovani, dal titolo “La città futura”. Proprio qui si ritrovano le stesse intenzioni proclamate poco prima al congresso giovanile da Terracini a proposito della necessità di dar vita ad una rinnovata «azione educativa» (cfr. A. Gramsci, I/ movimento giovanile socialista, in Id., La città futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1982, p. 33) che sappia formare i giovani in modo solido e completo. 35. Spriano, Storia del partito comunista, cit., vol. 1, Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967, p. 48. 36. U. Terracini, Perché è sorto il Partito comunista, in “L'Ordine Nuovo”, 21 febbraio 1921. 37. Anche J. M. Cammett (in Antonio Gramsci e le origini del comunismo italiano, Mursia, Milano 1974, p. 211), riporta che fu per lungo tempo Terracini, in qualità di «brillante oratore», ad esprimere in pubblico le idee di Gramsci nel periodo della nascita del PCD'I.
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38. Gobetti, Coscienza liberale e classe operata, cit., p. 219.
39. P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Pci, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 158. | 40. Pendinelli (a cura di), Conversazione con Umberto Terracini, cit., p. 100. AL vi tp37,
42. XVII Congresso nazionale del psi, in Spriano, Storia del partito comunista, vol. 1, Cit;, p; 114:
43. Pendinelli (a cura di), Conversazione con Umberto Terracini, cit., p. 68. 44. A. Bordiga, Antica fissazione, in “Il Comunista”, a. Il, n. 25, 1° maggio 1921. 45. Ragionieri, Palmiro Togliatti, cit., p. 121. 46. Spriano, Storia del partito comunista, vol. 1, cit., p. 273. 47. Ragionieri, Palmiro Togliatti, cit., p. 140. 48. Su questa vicenda cfr. C. Natoli, Umberto Terracini nella Direzione del PCd'I da Livorno a Lione (in Agosti [a cura di], La coerenza della ragione, cit., pp. 76 ss.). In generale si rinvia a questo studio — fondato su una ricca ricognizione d’archivio — per la ricostruzione del capitolo più complessivo della biografia di Terracini nel periodo compreso tra il 1921 e il 1925. 49. P. Togliatti, Discorsi alla Conferenza nazionale di Como, in Id., Opere complete, vol. 1 (1917-1926), Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 7278. so. Gramsci, La crisi italiana (in “L'Ordine Nuovo”, 1° settembre 1924), ora in Id., La costruzione del Partito comunista (1923-1926), Einaudi, Torino 1974. si. Gramsci parla in verità di «fasi supplettive», in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente, cit., p. 200. 5201vistpi0135: 53. Ivi, p. 158. s4. Ivi, p. 183.
55. Gobetti, Coscienza liberale e classe operata, cit., p. 218. 56. Terracini, Intervista sul comunismo difficile, cit., p. 139. 57. Significativo appare in questo contesto il suo duro commento (cfr. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente, cit., p. 250) nei confronti di Bordiga, il quale aveva rifiutato di candidarsi nel Parlamento, collaborando e supportando attivamente l’azione del PCD'I. L'atteggiamenio di Bordiga viene definito da Terracini come quello di chi si sta abbandonando «alla voluttà dei gesti esteriori» e vede «sotto forma di estetismo o di morale ciò che invece deve essere visto come fatto e posizione politica». 58. ACS, CPC, b. 5071, fasc. «Terracini Umberto». 59. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente, cit., p. 244. 60. Si vedano ad esempio gli articoli del 19 maggio o anche del 1° luglio del 1926, ove viene anche presentata la reale sostanza del nuovo regolamento sindacale fascista. 61. Articoli del 20 maggio, 20 luglio, 21 luglio e del 23 settembre 1926. 62. Articolo del 30 giugno del 1926. 63. È noto che Terracini svolse tale compito in maniera particolarmente brillante, con «stringente logica giuridica», con «passione politica» e con «una sottile vena sarcastica». F. Barbagallo, Introduzione, in Terracini, Discorsi parlamentari, cit., vol. I, p. LVII.
64. ACS, CPC, b. 5071, fasc. «Terracini Umberto»; ACS, TSDS, bb. 95-6-7 e 131-2-3. Inoltre appare significativo che nel suo Merzorzale egli giungeva ad ipotizzare, vista la severità della pena a lui inflitta (superiore addirittura a quella prevista dalla legge eccezionale n. 2008 del 25 novembre del 1926), una individualizzazione di questa operata nei suoi confronti. 65. Lo stesso Terracini presentò successivamente un nuovo ricorso nel inarzo del
1931, rigettato senza alcun motivo da parte del procuratore del tsps. Anche in que-
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st'ultimo scritto Terracini si richiamava ai principi e alle garanzie offerte da un moderno Stato di diritto (cfr. D. Zucaro [a cura di], Il Processone, Editori Riuniti, Roma 1961, p. 267). 66. Marcella Ferrara, Maurizio Ferrara (a cura di), Conversando con Togliatti. Note biografiche, Editori Riuniti, Roma 1953, p. 29. 67. ACS, CPC, b. 5071, fasc. «Terracini Umberto». 68. Sulle modalità di questa reintegrazione cfr. M. Giovana, Umberto Terracini e il dissenso con il partito, in Agosti (a cura di), La coerenza della ragione, cit., pp. 97 ss. 69. G. Quazza, Omaggio a Umberto Terracini, in “Italia contemporanea”, lugliosettembre 1976, p. 113. 70. M. Salvati, Socialismo e partito socialista: spunti per una riflessione storica sull’azione politica di Lelio Basso (1944-1948), in AA.vv., Lelio Basso nel socialismo italiano, Quaderni di “Problemi del socialismo”, Franco Angeli, Milano 1981, p. 59. 71. Non è un caso che Basso farà della constatata incapacità di Mondolfo di tradurre la riflessione teorica marxista in militanza politica, il punto di distanza massima tra sé e il suo primo maestro (L. Basso, Sulle orme di Marx, in “Critica sociale”, n. 8, 1924). 72. L. Basso, I r5ei libri, in AA.VV., Ripensare il socialismo: la ricerca di Lelio Basso, Mazzotta, Milano 1988, p. 89. 73. A riguardo si veda Salvati, Socialismo e partito socialista, cit., p. 60; ed anche G. Quazza, Prefazione, in AA.VV., Lelio Basso nella storia del socialismo, Istituto per la storia della resistenza in provincia di Alessandria, Quaderno n. 4, a. II, 1979. 74. L. Basso, Frammenti della vita di un militante. La prima tessera socialista, in AA.VV., Ripensare il socialismo, cit., p. 45. 75. Basso scopre infatti Marx non attraverso gli scritti filosofici o I/ capitale, che pur lesse durante la preparazione della tesi, bensì tramite «gli scritti storici, capolavoro di concretezza in cui l’analisi storica della società contemporanea, i rapporti reali delle classi che stanno dietro le parole altisonanti dei partiti, fanno tutt'uno con la concezione generale del materialismo storico» (Basso, I wziei libri, cit., p. 92). 76. Basso, Frammenti della vita di un militante, cit., p. s1. 77. Ivi, p. so. 78. Ivi, p. 51; ed anche Id., Vent'anni perduti?, in AA.VV., Ripensare il socialismo, CIMDANOS: 79. Ivi, p. 66. 80. L. Basso, Dalla rivista “Pietre” al gruppo “Bandiera Rossa”, in AA.vv., Ripensare il socialismo, cit., p. 56. Sulla vicenda legata al luogo specifico di queste affermazioni di Basso sul PCI, si veda lo studio di F. Contorbia, Lelio Basso da “Critica Sociale” a “Pietre” (1923-1928), in AA.Vv., Lelio Basso nella storia del socialismo, cit., pp. 54-6. 81. E. Collotti, Lelio Basso: la tensione ideale, l'elaborazione teorica, l'impegno politico, in “Problemi del socialismo”, n. 12, ottobre-dicembre 1978, p. 16. 82. Il lavoro più completo su questa fase della biografia di Basso e in specie sulla produzione editoriale bassiana negli anni che vanno dal 1923 al 1928 è stato fatto da Contorbia, Lelio Basso da “Critica sociale”, cit., pp. 53-87. 83. L. Basso, La religione dello Stato, in “Critica sociale”, n. 16, 1923. 84. L. Basso, L'educazione della classe lavoratrice, in “Critica sociale”, n. 19, 1923. 85. Basso cita molte volte e in vari contesti questa espressione contenuta in Herr Vogt di Marx, cfr. ad esempio L. Basso, La natura dialettica dello Stato secondo Marx, in G. Carandini (a cura di), Stato e teorie marxiste, Mazzotta, Milano 1977, p. 28. 86.
Basso, Un anno di critica marxista, cit.
87. L. Basso, Sulle orme di Marx, in “Critica sociale”, n. 8, 1924. 88. L. Basso, La Rivoluzione protestante, in “Critica sociale”, n. 12, 1925.
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LA SINISTRA
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COSTITUENTE
89. Ibid. go. Ibid. oi. L. Basso, L’antistato, in “Rivoluzione liberale”, n. 1, 2 gennaio 1925. 92. Basso, Vent'anni perduti?, cit., p. 65; Basso, Frammenti della vita di un militante, cit., p. SI.
93. P. G. Zunino, La questione cattolica nella sinistra italiana (1919-1939), Il Mulino, Bologna 1975, p. 70. 94. In relazione alla presenza di entrambi gli aspetti nella vicenda giovanile bassiana (quello più legato ad una dimensione spirituale e quello più attento alle esigenze del conflitto di classe) si veda la sua stessa memoria autobiografica in Basso, Vent'anni perduti?, cit. Indicativa è anche la testimonianza riportata in C. Pogliano, Piero Gobetti e l'ideologia dell'assenza, De Donato, Bari 1976, p. 101. 95. L. Basso, Problema ai liberali, in “Rivoluzione liberale”, n. 34, 9 settembre 1924. Di questo stesso ariicolo sembra opportuno sottolineare la forte visione dialettica del processo storico qui espressa da Basso, oltre che un’idea originale del marxismo e della libera e «spontanea» lotta rivoluzionaria, contrapposta ad una mecca-
nicistica e dogmatica. 96. L. Basso, La crisi della democrazia, in “Rivoluzione liberale”, n. 33, 20 settembre 1925. 97. L. Basso, Difesa del protestantesimo, in “Il Quarto Stato”, n. 13, 19 giugno 1926.
98. Pogliano, Piero Gobetti e l'ideologia dell'assenza, cit., p. 101. 99. Sulla discendenza di Marx dalla Riforma protestante si veda l’intervento di Basso comparso il 25 luglio 1925 su “Conscientia”, dal titolo La Riforma e il pensiero europeo: Marx. Si veda anche I/ paterno Blanc, pubblicato il 17 ottobre 1925 sempre su “Conscientia”. roo. In particolare sebbene Basso sembra avere in mente il generale schema della
dialettica hegeliana (ereditato dallo stesso Marx), tuttavia in questo intervento pare ripercorrere in particolare le tappe della Coscienza infelice della Ferozzerologia dello Spirito di Hegel. ro. È interessante osservare che il medesimo slancio lo si ritrova in un articolo scritto per il numero 3 di “Critica sociale” nello stesso 1926, dal titolo Studi religiosi. 102. L. Basso, Piero Gobetti, in “Avanti!”, 19 febbraio 1926. 103. In questi stessi termini Basso si espresse molto più tardi in Gobetti aveva capito, in “Avanti!”, 5 maggio 1951. 104.
Basso, Un anno di critica marxista, cit. Basso si era espresso nei medesimi ter-
mini in un altro articolo del 1924 dal titolo Socialiszzo e filosofia (in “Avanti!”, 2 marzo). 105. L. Basso, Socialismo e idealismo, in “Il Quarto Stato”, nn. 2-3, 3-10 aprile 1926.
106.
Contorbia, Lelio Basso da “Critica Sociale”, cit., p. 80.
107. L. Basso, La polemica sull’idealismo. Primo bilancio, in “Il Quarto Stato”, n. 18, 24 luglio 1926. 108. A. Agosti, Basso Lelio, in E.Andreucci. T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, 1853-1943, vol. 1, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 197. 109. Basso, Vent'anni perduti?, cit., p. 66. ro. Per la ricostruzione di questo specifico capitolo cfr. L. Basso, Un arresto nel 728, in “Il Contemporaneo”, IM, 26 maggio 1956. i. Come è stato osservato (S. Merli, Fronte antifascista e politica unitaria di classe nel dibattito e nel lavoro del Centro socialista interno, in Id., Fronte antifascista e politica di classe, De Donato, Bari 1975, p. 11), è infatti attorno a riviste come “Pie”»”
tre”, “Rivoluzione liberale” e “Il Quarto Stato” che ha luogo «il dischiudersi di un
132
2. BIOGRAFIE
nuovo indirizzo socialista» del quale Basso sarà nel corso di tutti gli anni Trenta con Morandi uno dei principali animatori. 112. Basso, Dalla rivista “Pietre” al gruppo “Bandiera Rossa”, cit., p. 57. 113. Basso scrive ciò in una lettera inviata a Pier Giorgio Zunino il 14 novembre
1974 (in Zunino, La questione cattolica, cit., p. 70). 14. In termini simili Basso si era espresso nella recensione ad un libro di Croce (L. Basso, Beredetto Croce, in “Il Quarto Stato”, n. 12, 12 giugno 1926), e lo stesso
giudizio emergerà successivamente in un articolo dedicato a Tilgher (L. Basso, Addio a Tilgher, in “L'Appello”, novembre-dicembre 1941). rs. L. Basso, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, in “Il Movimento letterario”, nn. 10-12, 1932. G. Quazza ha poi evidenziato come questa stessa lettura di Pisa-
cane venga ribadita da Basso successivamente, nel 1957 nel discorso su Pisacane e la rivoluzione sociale italiana, divenendo anche un richiamo fondamentale per l’attualità di quegli anni. Si veda G. Quazza, Lelio Basso, storico del socialismo e del fascismo in Italia, in AA.VV., Lelio Basso nel socialismo italiano, cit., pp. 211-5. 116. A tal proposito bastino gli esempi della rivendicazione bassiana di unità, contro il «frammentarismo» e la «disorganicità» del tempo presente in La morte del novecento (“Pietre”, n. 1, gennaio 1928); o l’appello alla realtà contenuto in Oltre #/ romanticismo (“Pietre”, n. 3, 25 febbraio 1928). 117. Salvati, Socialismo e partito socialista, cit., p. 63. 118. Un'analisi compiuta del fascismo da parte di Basso la si può trovare in una sua lezione del 1961 (L. Basso, Le origini del fascismo, in AA.VV., Fascismo e antifascismo (1918-1936). Lezioni e testimonianze, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 9-43). 119. Basso, Dalla rivista “Pietre” al gruppo “Bandiera Rossa”, cit., p. 56. 120.
Basso, Vent'anni perduti?, cit., pp. 66-7.
121. Di converso Basso (in Le origini del fascismo, cit., p. 18) esprimeva un giudizio radicalmente critico nei confronti della classe dirigente borghese italiana. 122. L. Basso, Aldilà del caso Caldara (dall’Italia), in “Politica socialista”, n. 2, 1° dicembre 1934. 123. L. Basso, Chiarimenti (dall’Italia), in “Politica socialista”, n. 3, 1° marzo 1935. 124. Citazione riportata da Basso di una lettera di De Rosa a Volterra, in Basso, Dalla rivista “Pietre” al gruppo “Bandiera Rossa”, cit., p. 59. 125. A questo proposito cfr. Basso, Vent'anni perduti?, cit., p. 67 e Id., Otto Bauer, in “Il Quarto Stato”, 15 febbraio 1949. 126.
Zunino, La questione cattolica, cit., p. 70.
127.
L. Basso, La cristianità di Dostojewski, in “Gioventù cristiana”, n. 4, luglio-
agosto 1934. 128. Basso, Rivoluzione protestante, cit. 129.
Basso, Vent'anni perduti?, cit., p. 67. 130. Ivi, p. 68. 131. Su questa riorganizzazione cfr. specificamente S. Neri Serneri, Resistenza e democrazia dei partiti. I socialisti nell'Italia del 1943-1945, Lacaita, Manduria 1995; E. Di Nolfo, G. Muzzi, La ricostituzione del Psi. Resistenza, Repubblica, Costituente
(1943-1948), in Storia del socialismo italiano, diretta da G. Sabbatucci, vol. v, Il Poligono, Roma 1981; F. Taddei, I/ socialismo italiano del dopoguerra: correnti ideologiche e scelte politiche, 1943-1947, Franco Angeli, Milano 1984. 132. M. Degl’Innocenti, Storia del Psi, Ill, Dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 7. A questo proposito si veda quanto scrive L. Basso, in Rifare il partito (in L'archivio Basso e l'organizzazione del partito (1943-1945), Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, vol. VII, 1985-86, Franco Angeli, Milano 1988, p. 791). Di avviso diverso sembra essere F. Livorsi in Antifasciszzo, Resistenza e Costituzione nell'esperienza
politica di Lelio Basso (in AA.vv., Lelio Basso nella storia del socialismo, cit., p. 96).
133
LA SINISTRA
ALLA COSTITUENTE
133. Ivi, p. 70. 3401: ii Interviste: Comitati di agitazione e comitati di liberazione di fabbrica, in “Politica di classe”, n. 1, 1944. 135. In particolare è stata M. Salvati (Id., I Psiup Alta Italia nelle carte dell’archivio Basso (1943-45), in “Il Movimento di liberazione in Italia”, ottobre-dicembre 1972,
pp. 61-88) a ricostruire questo capitolo specifico della biografia politica di Basso, relativo alla sua attività politica nel PSIUP tra il 1944 e il 1945. 136. Si veda ad esempio la lettera di Basso del 9 novembre 1943 (Basso a Veratti, in L'archivio Basso, cit., pp. 29-32). Analoghe critiche al PCI si trovano anche in Basso al segretario del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria dell’Italia centro-setten-
trionale, ivi, pp. 40-57. 137. Basso, Formare dei quadri, in L'archivio Basso, cit., pp. 768-74. 138. Per un’analisi puntuale di Basso sui ceti medi si veda Id. La politica dei ceti medi, Libreria ed. “Avanti!”, s.d. (opuscolo clandestino), 1944-45. 139. Basso, Formazione dei quadri, cit., pp. 780-3. Altrettanto significativo sembra essere l'articolo di Basso scritto per l’“Avanti!” nel dicembre 1945 (Esazze di coscienza, ora in L'archivio Basso, cit., pp. 883-6). 14o. Basso al segretario del Partito Socialista Italiano, cit., in particolare pp. 56-7.
r4i. Cfr. Salvati, Il Psiup Alta Italia, cit., pp. 70-82. 142. L. Basso, Intransigenza socialista, in “Avanti!”, 10 febbraio 1945. Altrettanto criticamente nei confronti del secondo governo Bonomi, Basso si esprime in Unità Proletaria (in “Unità proletaria”, n. 1, 15 aprile 1945). 143. Basso al segretario del Partito Socialista Italiano, cit., pp. 41-2. 144. Basso, Vent'anni perduti?, cit., p. 72. 145. Cfr. Basso, Socialismo e rivoluzione, cit.; in particolare il capitolo terzo, dove Basso ritorna analiticamente su questo problema marxiano della totalità. 146. I nuovi compiti del partito, in L'archivio Basso, cit., pp. 775-7. 147. Idea questa che egli desume da alcuni testi marxiani, in particolare Herr Vogt e i Grundrisse, da Basso sempre privilegiati in quanto espressione di un concetto originale e maturo di rivoluzione. Specificatamente infatti Basso si rifaceva ad una concezione della prassi rivoluzionaria capace di tenere insieme tanto l’analisi oggettiva dei processi storici nelle loro interne contraddizioni, quanto il piano dell’intervento soggettivo, cosciente della classe antagonista. Cfr. ad esempio Basso, La natura dialettica dello Stato secondo Marx, cit., pp. 28 ss.; ed anche Id., Socialismo e rivoluzione, cit., pp. 113 ss. 148. Basso, Rifare il partito, cit., p. 792. 149. In questo senso cfr. G. Ferrara, Transizione e processo rivoluzionario in Lelio Basso, in AA.Vv., Lelio Basso nel socialismo italiano, cit., p. 148. 150. L. Basso, Partito e classe, in “Il Quarto Stato”, 31 agosto 1946. is. L. Basso, I/ partito nell'ordinamento democratico moderno, in Istituto per la documentazione e gli studi legislativi (ISLE), Indagine sul partito politico. La regolazione legislativa, t. 1, Giuffrè, Milano 1966, p. 90. Per una medesima analisi del partito politico nella nuova democrazia si veda anche Id., I/ principe senza scettro, cit. 152. A. Barberi, Stato e diritto: note per una biografia politica, in Annali 1989, vol. x, Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Roma-Il Mulino, Bologna 1989, p. 53. 153. Cfr. Basso, La natura dialettica dello Stato secondo Marx, cit., pp. 23 ss. 154. È interessante osservare come questo episodio ebbe per molti giovani una grande importanza nel loro percorso critico nei confronti del fascismo, cfr. ad esempio la testimonianza di Alicata, coetaneo di Laconi, in E. A. Albertoni, E. Antonini, R. Palmieri (a cura di), La generazione degli anni difficili, Laterza, Bari 1962, pp. 6o-1. 155. L. Rapone, L'Italia antifascista, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. 4. Guerre e fascismo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 522:
134
2. BIOGRAFIE
156. S. Colarizi (a cura di), L'Italia antifascista dal 1922 al 1940. La lotta dei protagonisti, Laterza, Roma-Bari 1976, p. 315. Della stessa autrice a questo proposito cfîr. anche L'opinione degli italiani sotto il regime, 1929-1943, Laterza, Roma-Bari 1991, in particolare pp. 287 ss. 157. Rapone, L'Italia antifascista, cit., p. 521. Analogamente cfr. G. Amendola, Storia del Partito comunista italiano 1921-1943, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 268 ss. e N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XXI, UTET, Torino 1995, pp. 621 ss. 158. S. Bertelli, I! gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI 1936-1948, Rizzoli, Milano 1980, p. 15. 159. Amendola, Storia, cit., p. 428. 160. M. L. Salvadori, La sinistra nella storia italiana, Laterza, Roma-Bari 1999,
p.9I. 161. Amendola, Storza, cit., pp. 435-6. 162. R. Zangrandi, I/ lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Garzanti, Milano 1971, p. 240. 163. Rapone, L'Italia antifascista, cit., p. 552. 164. Cfr. P. Spriano, Storia del partito comunista italiano, vol. IV, La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino 1973, p. 84.
165. Quasi tutte le notizie relative alla vicenda biografica di Laconi provengono dalle pubblicazioni de La Navicella (I deputati e senatori del primo Parlamento repubblicano, Roma-Milano-Catania 1949); dal testo che raccoglie gli scritti di Laconi in relazione a tematiche di natura istituzionale (R. Laconi, Parlamzento e Costituzione, a cura di E. Berlinguer, G. Chiaromonte, Editori Riuniti, Roma 1969); e ora soprattutto dagli interventi contenuti in P. Scano, G. Podda (a cura di), Rerzo Laconi, un’idea di Sardegna, Aipsa, Cagliari 1999 (in particolare pp. 44 ss.; 115 ss.; 237 ss.). 166. Si tratta, secondo la ricostruzione di F. Caputo, G. Caputo (La speranza ardente, s.e., Roma 1998, pp. 98 ss.), di quella nuova generazione di studenti ed intellettuali antifascisti, in particolare orientatisi verso il Partito comunista, formatasi tra il 1940 e il 1942.
167. In questa direzione sembra interessante rimandare alla confessione di Bottai del 1942 (in P. Spriano, Storia del partito comunista, vol. v, La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino 1975, p. 78). 168. Per un’analisi relativa al maturarsi di una cultura antifascista presso alcuni giovani intellettuali divenuti comunisti a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta nell’ambiente romano, si veda ad esempio A. Vittoria, Intellettuali e politica. Antonio Amendola e la formazione del gruppo comunista romano, Franco Angeli, Milano 1985. 169. Antonini, La generazione degli anni difficili, cit., p. 12. 170. A questo proposito cfr. in particolare E. Berlinguer, Renzo Laconi un comunista, in “Unità”, n luglio 1967 e P. Giganti, La strategia meridionalista, in Scano, Podda (a cura di), Renzo Laconi, cit., pp. 239 ss. Cfr. poi direttamente R. Laconi, La democrazia diffusa, ora ivi, p. 327. 171. Su questo cfr. l'intervento di Laconi dal titolo Contadini e autonomia, ora contenuto in Scano, Podda (a cura di), Renzo Laconi, cit., pp. 329. Inoltre in questa stessa sede (ivi, pp. 345 ss.) si documenta anche delle difficoltà vissute da Laconi all’interno del PCI soprattutto nella prima stagione repubblicana. 172. In merito alla sensibilità specifica che alcuni appartenenti del PCI ebbero sulla questione sarda si veda U. Cardia (a cura di), Gramsci e la svolta degli anni trenta, Edes, Cagliari 1976, in particolare pp. 123-34, 141-6. Per la pubblicazione di parte degli interventi e studi di Laconi, i quali avrebbero dovuto dar vita ad una ampia opera sulla storiografia sarda cfr. ora, U. Cardia (a cura di), Renzo Laconi. La Sardegna di ‘ jeri e di oggi. Scritti e discorsi sulla Sardegna (1945-1967), Edes, Cagliari 1988.
135
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
173. APC, Fondo Laconi, cartella 80 (intervento pubblicato su “Il Ponte” del settembre-ottobre 1951 con il titolo L'autonorzia regionale, strumento di rinascita). 174. R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi, in “Rinascita sarda”, 15 gennaio 1952. 175. Laconi aveva espresso nel corso di un intervento alla riunione del Consiglio regionale sardo nel luglio 1946, questa duplice necessità di una politica comunista unitaria e autonomistica (APC, Fondo Laconi, cartella 80). 176. N. Jotti, Dieci anni fa moriva il compagno Renzo Laconi, in “l'Unità”, 29 giu-
gno 1977.
177. Lo stesso Terracini (in Come nacque la Costituzione, cit., pp. 35, 11) afferma che Laconi fu uno dei comunisti più competenti tra quelli che parteciparono alla Costituente, uno di quelli più ascoltati nel partito «soprattutto per le questioni giuridiche». 178. È stato V. Atripaldi a rendere note queste carte di Laconi nell’ambito di un dettagliato studio su Laconi alla Costituente (cfr. Atripaldi, L'organizzazione costitu-
zionale, cit.). 179. Ivi, pp. 42 ss.
180. Ivi, pp. 16 ss. Il titolo specifico dello studio è Relazione introduttiva per lo studio dei problemi inerenti alla indipendenza del potere giudiziario. 181. In questo senso parla G. Amendola in La demzocrazia nuova di Renzo Laconi, in “l'Unità”, 28 giugno 1969.
182. Per le notizie biografiche qui riportate cfr. il breve profilo biografico tracciato negli Scritti su La giustizia costituzionale, in onore di Vezio Crisafulli, vol. 1, CEDAM,
Padova 1985, pp. IX-XIX. 183. Cfr. in tal senso i contributi di M. Fioravanti, e in particolare Costituzione e popolo sovrano. La Costituzione italiana nella storia del costituzionalismo moderno, Il Mulino, Bologna 1998, p. 69; Id., Costituzione, amministrazione e trasformazione dello Stato, in A. Schiavone (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia. dall’Unità alla Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1990; Id., Le dottrine dello Stato e della Costituzione, in Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano, cit.; Id., Stato e costituzione, cit.
184. Su questo versante storiografico si vedano gli apporti di Pombeni, I/ partito fascista, cit., p. 207; e più analiticamente Id., Derzagogia e tirannide, cit.; ed anche dello stesso autore, Partiti e sistemzi politici, cit., in particolare pp. 202-10. A questo
proposito cfr. pure Gentile, La via italiana al totalitarismo, cit. Sulla teoria giuridica dell'indirizzo politico, cfr. M. Dogliani, Indirizzo politico. Riflessioni su regole e regolarità nel diritto costituzionale, Jovene, Napoli 1985. 185. Cfr. G. Melis, Fascismo (ordinamento costituzionale), in Digesto, vol. VI, UTET, Torino 1991, p. 28; Id., Il diritto amministrativo tra le due guerre, cit.; cfr. pure relativamente a tale contributo storiografico gli scritti di S. Cassese, tra cui ad esempio, La formazione dello Stato amministrativo, cit.; Fortuna e decadenza della nozione di Stato, in AA.VV., Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, vol. 1, Giuffrè, Milano 1988, e Lo «Stato pluriclasse» in Massimo Severo Giannini, in S. Cassese, G. Carcaterra, M.
D’Alberti, A. Bixio (a cura di), L'unità del diritto. Massimo Severo Giannini e la teoria giuridica, Il Mulino, Bologna 1994.
186. In merito a ciò cfr. L. Mangoni, Giuristi e politica. Il diritto come supplenza, in Schiavone (a cura di), Stato e cultura giuridica, cit.; e S. Cassese, Ipotesi sulla formazione de «l'ordinamento giuridico» di Santi Romano, in Id., La formazione dello Stato amministrativo, cit.
187. F Lanchester, Mozzenti e figure nel diritto costituzionale in Italia e in Germania, Giuffrè, Milano 1994, p. 63. 188.
A. Mazzacane, Intervento, in Seminario permanente di cultura giuridica svol-
tosi presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso, Cultura giuridica e ideologia fascista (è esistito un fascismo giuridico?), di prossima pubblicazione, p. 3
136
2. BIOGRAFIE
189. Ivi, p. 4 190. S. Cassese, L’opera di Massimo Severo Giannini negli anni Trenta, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, xx, 1990, p. 419. 191. S. Rodotà, Intervento, in Cultura giuridica, cit., p. 9.
192. F Lanchester, I giuspubblicisti tra storia e politica. Personaggi e problemi nel diritto pubblico del xx secolo, Giappichelli, Torino 1998, p. 65. I93AMIVIS IP 871° 194. Cfr. ad esempio P. Costa, La giuspubblicistica dell’Italia unita: il paradigma
disciplinare, in Schiavone (a cura di), Stato e cultura giuridica, cit., in particolare pp. 125 ss.; M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino 1979, in particolare p. 154; e G. Turi, Fascismo e cultura ieri e oggi, in Del Boca, Legnani, Rossi (a cura di), Il regime fascista, cit., pp. 529-50; N. Bobbio, La cultura e il fascismo, in G. Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana, Einaudi, Torino 1973. 195. Lanchester, I giuspubblicisti tra storia e politica, cit., pp. 65 ss. A questo proposito cfr. la critica che Rodotà (Intervento, in Cultura giuridica, cit., p. 8) muove a quanto scritto da L. Ferrajoli in Id., La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 39. 196. Nel 1938 infatti Crisafulli consegue la libera docenza in diritto costituzionale e ottiene anche l’incarico di insegnamento di questa materia nella facoltà giuridica di
Urbino. Poi insegnerà a Trieste, Padova ed infine a Roma. 197.
Fioravanti,
Costituzione,
amministrazione
e trasformazione
dello Stato,
cit.,
p.z1. 198. Cfr. Salvati, Cittadini e governanti, cit., p. 52. 199.
Fioravanti, Costituzione, amministrazione e trasformazione dello Stato, cit., p. 43.
200. Cfr. Mangoni, Giuristi e politica, cit., pp. 324-5. Come osserva Mangoni il solo confronto dei titoli delle prolusioni di V. Emanuele Orlando e di Santi Romano, (Lo Stato e la realtà per l’intervento del primo e Lo Stato moderno e la sua crisi per quello di Santi Romano), mette in rilievo il loro differente punto di vista in merito al tema trattato del rapporto Stato-società. 201.
p. 44. 202. 203.
Fioravanti,
Costituzione,
amministrazione,
e trasformazione dello Stato, cit.,
Lanchester, I giuspubblicisti tra storia e politica, cit., p. 66. Pombeni, La Costituente, cit., p. 61.
204. A. Rocco, La trasformazione dello Stato. Dallo Stato liberale allo Stato fascista, “la Voce”, Anonima Editrice, Roma 1927. 205. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, cit., p. 284. 206.
207.
Fioravanti, Stato e costituzione, cit., p. 231. Pombeni, La rappresentanza politica, cit., p. 110.
208. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., pp. 800 ss. 209. Cfr. le riflessioni in proposito di A. Cariola, I/ legame degli interessi di ricerca del «giovane» Crisafulli con il pensiero giuridico italiano del primo Novecento, in AA.VV., Il contributo di Vezio Crisafulli alla scienza del diritto costituzionale, Atti delle giornate di studio di Trieste 1-2 ottobre 1993, CEDAM, Padova 1994, p. 206. 210.
V. Crisafulli, Il concetto di Stato nel codice penale, in “Rivista penale”, 1935.
211. Cfr. a tale proposito in particolare V. Crisafulli, Per una teoria giuridica dell'indirizzo politico, in “Studi urbinati”, nn. 1-4, 1939. 212. Lanchester, I giuspubblicisti tra storia e politica, cit., p. 66. 213. Dogliani, Indirizzo politico, cit., pp. 186-7. Le citazioni che l’autore utilizza
per spiegare tale posizione sono tratte da Mortati, ripreso per tali riflessioni non a caso da Crisafulli medesimo in Per una teoria giuridica, cit., pp. 77 SS.; 97 SS. 214. Ibid.
137
LA SINISTRA
215.
ALLA
COSTITUENTE
Fioravanti, Stato e costituzione, cit., p. 23.
216. Dogliani, Indirizzo politico, cit., p. 188. 217. Ivi, p. 190. 218. Crisafulli, Per una teoria giuridica, cit., p. 168.
219. Dogliani, Indirizzo politico, cit., p. 213. 220.
Ivi, p. 229.
221. Crisafulli, Per una teoria giuridica, cit., p. 170. 222. Dogliani, Indirizzo politico, cit., pp. 221-2. Rilevanti sono in tale quadro teorico le parole di commento (Crisafulli, Per una teoria politica, cit., p. 130, nota 11) alle
innovative elaborazioni di Mortati. Proprio poi all’interno di tale cornice teorica e in riferimento al contesto dell’ordinamento fascista (ivi, pp. 148 ss.), significativo sembra essere il riconoscimento di una distinzione tra «l’organo competente a dare l’indirizzo politico» (il capo del governo) e l'organo supremo (la Corona) al quale spetta il compito di «interpretare in ultima istanza e con incondizionata libertà di apprezzamento» la «volontà» e l’«interesse nazionale» a cui tale indirizzo politico in atto deve essere conforme. Tale distinzione costituisce infatti il fondamento di «una delle più importanti ed efficaci guarentigie costituzionali della costante conformità dell’indirizzo politico al vero interesse nazionale ed alle aspirazioni e alla volontà del popolo». In questo senso se la Corona è «limitata dai postulati del programma del Partito», volto a informare di sé l'indirizzo politico del governo, ad essa comunque — secondo Crisafulli — pertiene «di valutare se tale programma sia ancora e sempre rispondente ai reali interessi dello Stato», ai sentimenti popolari e alle aspirazioni nazionali. 223. V. Crisafulli, Ancora a proposito del metodo negli studi di diritto costituzionale, in “Stato e diritto”, a. I, fasc. II, 1940, pp. 124 ss. Per lo scritto di G. Maranini, cfr. Id., Qualche osservazione di metodo sugli studi di diritto costituzionale, ivi, fasc. 1,
1940, pp. 47 SS.
224. G. Cianferotti, Il pensiero di V. E. Orlando e la giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffrè, Milano 1980, p. 279. 225. Crisafulli, Ancora 4 proposito, cit., p. 127. 226. Crisafulli, Avvertenza, inId., Per una teoria dell'indirizzo politico, cit., p. Il. 227. Crisafulli, Ancora 4 proposito, cit., p. 127. 228. V. Crisafulli, I principi coefitionali dell’interpretazione ed applicazione delle leggi, in AA.VV., Scritti giuridici in onore di Santi Romano, vol. i, CEDAM, Padova 1940, p. 689.
229.
Fioravanti,
Costituzione,
amministrazione
e trasformazione
dello Stato, cit.,
p. 57.
230. Crisafulli, I principi costituzionali, cit., pp. 689 ss. 231. È Aquarone (L'organizzazione dello Stato totalitario, cit., pp. 285 ss.) a riportare che i nuovi codici civile e di procedura civile del 1942 age se presentavano caratteri di tipo autoritario, erano comunque il risultato, più che dell'incidenza della ideologia fascista, «di una lunga e approfondita maturazione dottrinale che poco aveva a che fare con determinati indirizzi politici». Per una riproblematizzazione di tali giudizi cfr. da ultimo gli interventi in Cultura giuridica, cit. 232. V. Crisafulli, Per la determinazione del concetto dei principi generali del diritto, in AA.vv., Studi sui principi generali dell'ordinamento giuridico fascista, a cura della facoltà di Giurisprudenza e della Scuola di perfezionamento nelle discipline corporative della R. Università di Pisa, Arti grafiche Pacini Mariotti, Pisa 1943. Questo stesso intervento di Crisafulli si trova pubblicato anche su “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, serie Il, a. XXI, 1941. 233. È stato
lo stesso
Fioravanti
(Costituzione,
amministrazione
e trasformazione
dello Stato, cit., p. 64) ad evidenziare che dalla lettura degli atti del convegno pisano emergono tre diversi modelli di tipo giuridico.
138
2. BIOGRAFIE
234. A proposito della presa in considerazione della questione del potere costituente da parte di Santi Romano, Pombeni (La Costituente, cit., pp. 58 ss.), contrariamente a quanti negano questa attenzione, ha dimostrato che in Romano essa fu ben presente, sebbene poi non sviluppata. 235. Ivi, p. 63. 236. Cfr. Crisafulli, Per la determinazione del concetto dei principi generali del diritto, cit., pp. so ss. (in particolare le note 15 e 16 di p. 54). 237. V. Crisafulli, A proposito dei principi generali del diritto e di una loro enunciazione legislativa, in “Jus”, Rivista di scienze giuridiche, 1940. 238. Scrive infatti Crisafulli, riferendosi criticamente a Romano, che «il concepire l’esistenza di un diritto non volontariamente posto dà luogo a gravi dubbi», cfr. Crisafulli, A proposito dei principi generali del diritto, cit., p. 207. 239. Ivi, p. 208. 240. ZAINO
Fioravanti, Stato e costituzione, cit., p. 230. IVI pa 233:
242. Cfr. a questo proposito, Neri Serneri, Resistenza e democrazia dei partiti, cit., pp. 123 ss. 243. Paladin, Gl anni della formazione, in AA.VV., Il contributo, cit., p. 30. 244. V. Crisafulli, Nuove pubblicazioni francesi sulla crisi della democrazia e il valore della libertà, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, a. Xv, novem-
bre-dicembre 1935. 245. G. Melis, Il primo convegno dei gruppi scientifici dell'Istituto nazionale di cultura fascista su “Il Piano Economico” (novembre 1942). La relazione di Paolo Fortunati e l'intervento di Ugo Spirito, in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, v, 1993, Roma
1994, p. 172.
246. Crisafulli, Nuove pubblicazioni, cit., p. 669. 247. Ivi, p. 672. 248. V. Crisafulli, Considerazioni sulla Costituzione sovietica, in “Società”, n. 5,
1946.
249. V. Crisafulli, Oltre la Costituzione, in “Rinascita”, n. 1, gennaio 250. Cfr. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, 2s1. Cfr. V. Crisafulli, Liberalismo e democrazia, in “Rinascita”, n. tembre 1944 e Id., I/ governo democratico cristiano contro la Costituzione in “Rinascita”, n. 3, marzo 1950. 252. Relativamente alle caratteristiche specifiche del nascente Stato
1948. cit. 1, agosto-setrepubblicana,
democratico disegnato dalla nuova carta costituzionale cfr. Crisafulli, Per una Costituzione demo-
cratica, cit.
253. V. Crisafulli, I diritti dell’uomo e del cittadino, in “Rinascita”, n. 8, agosto 1946.
254. Crisafulli, Il governo democratico cristiano contro la Costituzione repubblicana, cit.
255. Crisafulli, Oltre la Costituzione, cit.
139
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3 Il contributo di Lelio Basso ai lavori della 1 Sottocommissione dell'Assemblea costituente
chi L'ordinamento giuridico-istituzionale nella elaborazione di Basso AI fine di comprendere il ruolo che Lelio Basso svolse alla Assemblea costituente nei lavori di preparazione del testo costituzionale, è bene fissare le linee di fondo della sua specifica concezione politicogiuridica’, la quale costituisce la premessa teorica di tutta la sua attività di costituente. In particolare il ruolo potenzialmente progressivo (seppur, come si avrà modo di mostrare, sempre all’interno di una analisi di tipo dialettico dei processi storici e dei loro risultati concreti) che Basso attribuì alla sfera dell’ordinamento giuridico-istituzionale, si trova riflesso concretamente all’interno delle singole disposizioni costituzionali di prevalente paternità bassiana. Basso intese dimostrare nel corso della propria produzione politico-intellettuale la conformità del pensiero di Marx ad un tipo di lettura dialettica dello Stato e dei suoi apparati, opponendosi in questo modo a quanti viceversa avevano fatto una analisi unilateralmente negativa di quest’ultimo, fondata prevalentemente su determinati passi degli scritti marxiani e sulla vulgata più nota e diffusa dell’elaborazione leninista (della quale per altro Basso in più occasioni ebbe modo di sottolineare il carattere storico, di polemica politica immediata all’interno di un contesto particolare come quello della Russia di inizio secolo ?). In tal senso Basso mise in luce sia l'enfasi sulla natura oppressiva
dello Stato presente nell’elaborazione marxiana, sia l'emergere — scavando più a fondo negli scritti di Marx e attenendosi, più che a specifiche affermazioni, soprattutto alla ratto complessiva del discorso di quest’ultimo — di una concezione dello Stato maggiormente articolata, foriera anche di sviluppi positivi.
I4I
LA SINISTRA
In opere come
ALLA COSTITUENTE
I/ 18 Brumaio
o La guerra civile in Francia, lo
Stato viene descritto come «la forza pubblica organizzata per l’asservimento
sociale», «uno
strumento
di oppressione e non
semplice-
mente di repressione, oppressione che si basa in primo luogo sulla perpetuazione di diseguaglianze sociali, economiche e culturali, nonché sull'impiego di una serie di meccanismi anche ideologici, particolarmente sviluppati nello Stato capitalistico moderno, con lo scopo di riprodurre i rapporti sociali capitalistici»3. Lo Stato, il diritto, la legislazione sono allora il riflesso della volontà della classe dominante, strumenti indispensabili al fine di mantenere il predominio economico di quest’ultima, e di rafforzarne a proprio vantaggio i rapporti di forza esistenti. Le forme giuridiche corrispondono al modo di produzione capitalistico, alla logica privatistica del profitto, nella misura in cui «il diritto, non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società» 4. Su questo versante Marx ed Engels intendevano dimostrare il radicamento del diritto borghese nella sfera della produzione, e più in generale il sorgere delle dinamiche e degli organismi sovrastrutturali sulla base dei rapporti materiali, nell'intento anche di «neutralizzare gli effetti di concezioni giuridiche borghesi, che andavano acquistando influenza sulla classe operaia». Importante era per il pensiero storico-politico marxiano dimostrare la funzione ideologica del diritto, demistificando le realtà di diseguaglianza e di sfruttamento presenti nel tessuto sociale, sotto l'apparenza di una legge uguale per tutti, di un ordinamento istituzionale volto al benessere collettivo, e di una giustizia conforme ad una società di cittadini liberi ed eguali. Commentando un passo del Capitale, scrive in proposito Basso che il capitalismo, al fine di assicurarsi una quota di consenso anche tra le classi subalterne, in un processo complessivo che egli definisce di integrazione, «non può rinunciare da un lato alla funzione normativa per mantenere intatti i rapporti di sfruttamento, ma non può neppure rinunciare alla funzione ideologica del diritto, cioè a velare la realtà dei rapporti sotto una serie di affermazioni di libertà e di eguaglianza» °. La natura particolaristica della gestione dei rapporti e dei poteri
giuridico-istituzionali viene più volte sottolineata dall’analisi marxiana, la quale, sulla scia della riflessione compiuta da Feuerbach in merito alla religione, svela il processo «di divisione del lavoro, di estraniazione e di oppressione di classe»? sotteso alla organizzazione della sfera statale e normativa. Nella fattispecie i titolari delle funzioni istituzionali e civili (ma anche religiose e militari) si costitui-
142
3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
scono in corpi separati, autonomi rispetto alla società civile di cui sono teoricamente espressione diretta e tanto piegano ai loro interessi particolari e castali le attività in linea di diritto pubbliche, aventi un carattere universale, rappresentanti gli interessi di tutta la collettività, quanto fanno passare per collettive istanze private.
Anche in questo caso, come accade agli occhi di Feuerbach per l’esperienza religiosa, l’intera comunità finisce per essere vittima di un meccanismo di alienazione nel quale non è più in grado di riconoscere l'ordinamento giuridico come sua propria emanazione, ma al contrario lo percepisce come qualcosa di esterno e superiore, altro da sé, e pertanto non suscettibile di modifiche, di interventi volti alla riappropriazione di istituti nati sulla base di presupposti tutt'altro che indipendenti dalla volontà di essa stessa8. Proprio in questo contesto analitico torna a farsi sentire uno dei temi centrali della biografia intellettuale di Basso: quello relativo al tema marxiano della scissione tra cittadino e uomo, citoyen e bourgeois. La denuncia che Basso compie, sulla scorta della lettura dei testi di Marx (in particolare dello scritto La questione ebraica) della contraddizione vissuta dall'uomo in queste due diverse vite — la vita, come Marx le definisce, celeste e quella ter-
rena, quella della formale ed astratta uguaglianza politica e quella della sostanziale diseguaglianza sociale vissuta dall'uomo privato collocato concretamente nella trama privata della sfera sociale — costituisce d’altronde la premessa allo specifico impegno bassiano in merito all’aricolo 3 della Costituzione italiana. Impegno questo che permette anche di comprendere la valutazione positiva che Basso fa dello Stato e dell’organizzazione giuridica, considerati entrambi utilizzabili ai fini di una trasformazione della società esistente. Se infatti «è la società che regge lo Stato e non viceversa; se il potere politico — e quello giuridico-statale — è una creazione della classe dominante che necessariamente riflette i rapporti di forza», tuttavia ciò va, secondo Basso, cor-
rettamente inteso alla luce di una analisi di tipo dialettico, la quale non considera mai né la realtà in termini univoci, né lo Stato come un bloc-
co monolitico, e come tale indipendente dai rapporti di forza sociali e dalle loro costanti modificazioni. Viceversa è proprio lo sviluppo di questi rapporti di forza ad aprire nuove possibilità alle classi subalterne, anche sul terreno giuridico-costituzionale, alla luce di una elaborazione che, sulla scia del
pensiero luxemburghiano, individua nella realtà capitalistica «due logiche contraddittorie». In una società che Basso definisce appunto contraddittoria «coesistono la logica del sistema (la logica dei rapporti di produzione e del profitto privato) e la logica socializzatrice delle forze produttive» le quali «appunto si sviluppano in modo sem-
143
LA SINISTRA
ALLA COSTITUENTE
pre più sociale e mettono in moto processi oggettivi che tendono a socializzare anche i rapporti di produzione». È soprattutto in un testo come Giustizia e potere. La lunga via al socialismo, che Basso si dilunga a spiegare la dinamica delle due logiche contraddittorie, la quale permette d’altra parte di fare del diritto «un elemento di azione concreta per il movimento operaio e democratico»!°. La parte più originale della riflessione marxiana, capace di fornire alla classe subalterna il maggior numero di strumenti per la propria azione rivoluzionaria è, secondo il pensiero di Basso, quella che individua il conflitto presente oggettivazzente nella società tra queste due opposte tendenze. L’una tesa a mettere in moto spinte sempre più progressive, «sociali, collettive, socialiste, comuniste», le quali si
muovono proprio sulla «logica socializzante dello sviluppo delle forze produttive»; l’altra, rispondente alla logica del profitto, intenta a resistere, a bloccare in senso conservatore lo sviluppo delle spinte socializzanti. Il compito del movimento operaio è allora di prendere coscienza di questa «tensione dialettica» oggettiva, per potersi inserire consapevolmente — secondo i termini dell’analisi bassiana volta a sottolineare sempre l’importanza dell’interazione fra componenti oggettive e soggettive nei processi di trasformazione" — all’interno di questa logica antagonistica, «utilizzando questa spinta obiettiva per realizzare di volta in volta delle conquiste che si agganciano» ad essa. Qui si comprende il ruolo che il diritto ha nella lettura compiuta da Basso di Marx. Esso infatti per un verso sembra essere strettamente connesso agli interessi della classe dominante; per l’altro è anche, secondo una concezione meno volgare che tenderebbe a concepirlo come strumento inerte e passivo della borghesia !, espressione della società nel suo insieme, «con le sue lotte, con le sue divisioni, con la presenza in essa
della classe operaia», con i suoi antagonismi”. Dal momento che dunque il diritto costituzionale al pari della legislazione risultano essere «la consacrazione dei rapporti di forza politici tra gruppi, ceti, classi e partiti contrastanti» 4, ciò significa anche che essi sono la risultante di uno scontro continuo tra le opposte forze sociali e politiche, nel quale non è solo la classe dominante a trovare spazio. Sullo sfondo di queste considerazioni, se per Marx diveniva importante ai fini dell’emancipazione della classe operaia, impegnarsi principalmente a favore di due conquiste legali (l’universalità del diritto di voto e la legislazione sulle fabbriche, riconosciuti come elementi basilari «del processo di socializzazione delle forze produttive che limita l’arbitrio del padrone capitalista»), per Basso diviene altrettanto significativo il proprio lavoro all’interno della Costituente. Si tratta infatti di «introdurre nell'ordinamento giuri-
144
3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
dico, attraverso nuove leggi, degli elementi che si rifanno» alla tendenza socializzatrice, «elementi antagonistici», volti a creare conflitto all’interno della «vecchia società» e a creare i presupposti concreti di un nuovo ordine sociale, realmente democratico ed egualitario9. A questo punto divengono chiare le parole di Basso, nelle quali egli dichiara che «noi non possiamo intendere il diritto come espressione statica, chiusa, di rapporti fissi e immutabili, perché la lotta di classe è lotta politica e modifica ogni giorno questi rapporti e quindi incide sull’ordinamento giuridico». La capacità del pensiero marziano consiste nel saper cogliere la portata obiettivamente rivoluzionaria di quei principi di eguaglianza e libertà proclamati dalla classe borghese nel momento della sua lotta contro l’arbitrio particolaristico dei ceti aristocratici; nel saper vedere la forza che essi hanno, una volta resi effettivi, contro la stessa classe dominante tesa a depotenziare gli effetti più destabilizzanti derivanti dall’applicazione reale ed universale dei principi racchiusi nelle singole disposizioni. Principi che risultano essere incompatibili rispetto
alla natura classista dell'ordine borghese e sui quali dunque — generando essi stessi contraddizioni — occorre far leva per creare i pre-
supposti di una nuova società. Allo stesso modo la capacità di riflettere le contraddizioni della struttura sociale «nella dimensione istituzionale, senza per ciò cristallizzare i rapporti esistenti e introducendo, invece, uno strumento che obbliga [...] le istituzioni a far propria la logica del cambiamento» 8 fa di Basso uno degli autori più importanti dell’indirizzo democratico della Costituzione
italiana. Dove
è interessante
notare
il carattere
altrettanto contraddittorio di quest’ultima, nata — secondo il giudizio di Basso medesimo — dallo scontro tra le posizioni democratiche di quanti intendevano fare del testo costituzionale la leva di una trasformazione radicale della società e quelle più conservatrici di quanti invece intendevano restaurare uno Stato liberale già superato dalle trasformazioni in atto nella società novecentesca, inserendo dispositivi istituzionali volti a neutralizzare (o a rendere ineffettuale) la carica innovativa dei principi progressivi della Legge fondamentale. 3.2 I presupposti teorici dell’articolo 3 Attraverso gli articoli 3 e 49 (sui quali si avrà modo di tornare nel corso della trattazione) Basso intese introdurre nella Costituzione elementi che non soltanto affermavano formalmente la centralità della
concreta eguaglianza fra i cittadini, ma che anche portavano «la
145
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
norma giuridica a contatto con la realtà effettiva»!9, evidenziando la contraddittorietà presente all’interno dello stesso sistema costituzionale. E questo non solo rispetto alle norme della seconda parte del testo costituzionale (quella indicata da Basso come la parte meno avanzata) ma pure rispetto all'articolo 1, destinato a restare falso fin quando non fossero stati eliminati - come predispone il secondo comma dell’articolo 3 — gli ostacoli di carattere economico-sociale che impedivano il formarsi di una reale democrazia. Da un lato dunque si trattava di fare in modo che la Costituzione, e l'ordinamento giuridico riflettessero la dinamica conflittuale presente nella società, sul piano dei rapporti di forza materiali, al fine di inserire nella sovrastruttura i cambiamenti verificatisi nella struttura. Dall'altro lato non essendo la Costituzione e gli istituti statali «un mero strumento di registrazione di realtà formatesi al di fuori di essa», si trattava di non disperdere la potenzialità innovatrice della norma, capace di imprimere una «spinta a mutamenti anche
nella società» ?°, nella misura in cui induceva ad adeguare la costituzione materiale a quella formale, a trasformare l'ordine sociale per adattarlo a quello giuridico-costituzionale. La concezione bassiana del rapporto tra struttura e sovrastruttura mostra in questo senso tutta la sua ricchezza, non prestandosi a interpretazioni riduttive, schematiche e positivistiche del nesso marxiano. Al pari di altri pensatori marxisti, Basso reagisce alle letture volgari date al marxismo alla fine dell’Ottocento, e chiarisce costantemente la natura interat-
tiva del legame tra realtà materiale ed elementi sovrastrutturali (siano essi la cultura o le istituzioni), altrettanto capaci di reagire e modificare la prima in un «processo continuo di reciproche influenze» ”. In un altro scritto relativo all’organizzazione dell’ordinamento costituzionale, Basso torna a ribadire questa sua visione non statica
del diritto, della norma e dello Stato. Anche qui egli ribadisce che l'ordinamento giuridico di uno Stato borghese può essere utilizzato alternativamente per «contribuire a trasformare la società» e dunque anche per combattere questo Stato borghese, di cui esso è ir parte espressione e con cui esso è in parte «omogeneo». Ir parte però alla
luce del fatto che ogni elemento sovrastrutturale riflette la natura dialettica e contraddittoria della struttura, del «processo sociale, sto-
rico, globale». Scrive in proposito Basso che se si riesce «a fare un uso alternativo delle norme borghesi», ciò avviene perché lo sviluppo delle forze produttive segue una direzione oggettivamente sempre più sociale, sotto una spinta socializzatrice che la classe antagonista deve saper sfruttare coscientemente per realizzare le proprie conquiste. Le contraddizioni che Basso individua nella struttura e nella
146
3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
sovrastruttura, «precisamente nelle norme giuridiche», consentono di «adattare ogni volta la norma giuridica a quelle che sono le esigenze collettive che lo stesso capitalismo» propone. In questo tuente, deciso sero in questa In particolare
contesto teorico si comprende l’azione di Basso costiad «inserire nella Costituzione alcuni articoli che fosdirezione»: il 3 (in specie il secondo comma) e il 49??. il 3, definito il «capolavoro istituzionale» bassiano?,
afferma che non si realizzerà l’uguaglianza proclamata nel primo comma (secondo cui «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali») se lo Stato non si farà carico di rimuovere gli ostacoli che nella realtà impediscono questa sostanziale uguaglianza, «il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». Il secondo comma di questa disposizione costituzionale dichiara allora che «l’ordine giuridico è in contrasto con l’ordine sociale perché l’ordine giuridico (art. 3) vuole l'uguaglianza ma riconosce che l’uguaglianza non c'è. Quindi — continua Basso — riconosce che in Italia c'è un ordine
sociale di fatto che è in contrasto con l’ordine giuridico» ?4, il quale svolge a sua volta un ruolo decisivo nella spinta al cambiamento della realtà sociale esistente. Il lavoro di Basso alla Costituente si configura nei termini in cui egli descrisse al termine di questo suo scritto il tipo di attività dell’uomo di diritto. A suo parere infatti «il giurista deve cessare di essere un tecnico che interpreta in un modo o in un altro la norma giuridica presa in se stessa, ma deve immergersi completamente nella prassi sociale, dalla quale è influenzato ma che egli influenza nel suo sviluppo grazie ai valori alternativi che riesce ad esprimere. In questo senso il giurista cessa finalmente di essere un conservatore guardiano dell’ordine esistente, per diventare un creatore di storia, un artefice del futuro» ”. Il luogo privilegiato da cui è possibile analizzare a fondo l’attività costituente di Basso è la 1 Sottocommissione, sede quest’ultima della elaborazione di ciò che la giuspubblicistica moderna aveva definito «come “la costituzione materiale” (cioè il nucleo di “indirizzo” dell’attività costituzionale)» ?° e luogo in cui, non per caso, si concentrò la presenza dei maggiori leader politici. E qui infatti che Basso presentò le sue proposte più importanti e le sue due relazioni relative alle libertà civili ed ai principi dei rapporti politici. All’interno di questi lavori è possibile rintracciare gli elementi costitutivi della specifica cultura giuridica bassiana e del suo modo di intendere l’interazione
147
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
tra sfera individuale e sfera pubblico-statale, sullo sfondo di una lettura dialettica del processo storico e dei suoi risultati concreti (le istituzioni, il diritto) tipica dell’intero percorso intellettuale di Basso. Certamente l’attuale articolo 3 rappresenta — come si è detto — il contributo maggiore che egli diede alla realtà costituzionale dell’Italia repubblicana e muove da quella che fu la sua più sentita esigenza, ovvero la determinazione sociale e sostanziale del nuovo concetto di democrazia, realizzabile tramite l’affermazione dei nuovi diritti sociali
ed economici. Il rifiuto tanto di una «funzione ideologica del diritto» mistificatrice della «realtà dei rapporti sociali» ?7, quanto di una concezione soltanto formale dell’uguaglianza (alla quale non per caso Basso opponeva il concetto di “pari dignità sociale” spettante ai cittadini); così come una visione dinamica del diritto e delle istituzioni conducono Basso ad individuare nella partecipazione effettiva ed universale il tema rilevante del proprio impegno alla Costituente. Attraverso l'articolo 3 (ed anche, come si avrà modo di vedere, attraverso il 49) Basso intendeva inserire nel moderno ordinamento giuridico italiano un elemento di superamento rispetto alla realtà statale liberale ottocentesca, oramai inadeguata di fronte alle esigenze della società contemporanea, in particolare quella della «partecipazione effettiva alla cosa pubblica» delle classi lavoratrici. Il fatto che il secondo comma di questa disposizione affermasse che era «compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che [...] impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», significava già di per sé sancire una realtà non immobile, come era quella presupposta dall'ordinamento giuridico liberale, volto alla conservazione dello status quo e al contrario predisporre gli strumenti pubblici utili al mutamento 8. Il principio sotteso all’articolo 3 prevedeva «uno Stato che facesse largo posto alle masse», e che quindi non fosse assente né tanto meno presente solo al fine di garantire, secondo l’espressione di Lassalle, l'ordine pubblico esistente ?9, rafforzando gli interessi delle classi possidenti. Secondo Basso «uno Stato veramente democratico avrebbe dovuto invece contribuire positivamente, con la sua opera e con i suoi interventi nella vita pubblica e nell'economia, a migliorare la condizione delle masse, limitando, se del caso, l’influenza dei potenti» 3°. Dal momento che lo Stato contemporaneo riconosce come suo
referente principale l’uomo reale (nelle sue differenze soprattutto sociali) anziché il cittadino astratto e dal momento che ha l’obiettivo
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3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
di realizzare una democrazia, nel suo stesso significato letterale, allora occorre che esso si faccia carico positivamente, con un intervento attivo, di ciò che impedirebbe materialmente tale realizzazione (ovvero delle condizioni di illibertà e diseguaglianza sostanziale). In questo senso nella Costituzione italiana veniva riconosciuto spazio al nuovo “Stato di benessere”, al Welfare State, così come era stato in
altri contesti costituzionali occidentali e veniva capovolta la logica dell’«automatismo liberale», nella misura in cui i diritti sociali (il cui riconoscimento era inerente all’affermazione del nuovo concetto di uguaglianza effettiva) erano concepiti «come veri e propri diritti di credito verso la collettività e correlativamente come l’obbligo della collettività di fare alcunché per assicurare il soddisfacimento di quel determinato diritto». La nuova concezione dello Stato («che non solo ha il diritto ma ha il dovere di intervenire nell'economia per creare e mantenere le condizioni
della massima
occupazione,
del massimo
reddito, della
migliore distribuzione, del permanente equilibrio») di cui Basso si fece portatore rispecchiava la tendenza oggettiva dello «sviluppo generale» seguito dal mondo occidentale ?. Essa poi faceva tutt'uno con la specifica interpretazione bassiana del rapporto esistente nella società contemporanea tra i cittadini e lo Stato, del nesso individuo ovvero persona e contesto sociale collettivo, e di quello libertà e potere. Per ciò che attiene al primo aspetto sembra infatti interessante osservare che questa tendenza riguardante il «principio della direzione pubblica dell'economia», derivava dal necessario impiego che lo stesso Stato capitalistico doveva fare dei «mezzi collettivi», dinnanzi alla «dimensione sociale» assunta dall’evoluzione delle forze produttive. Dimensione che se spingeva le forze capitalistiche a subordinare le nuove misure adottate alla tutela dei propri interessi particolari e a quella della permanenza del “vecchio” modo di produzione, tuttavia introduceva anche nell’ordinamento giuridico e sociale elementi progressivi, forieri di sviluppi democratici, «indirizzi di politica economica che un regime socialista potrà sviluppare più coerentemente, e che in questo senso possono considerarsi degli avamposti della società di domani» 4. Relativamente al nodo Stato ed individuo, «governanti e governati», «libertà e autorità», Basso si fece uno dei più tenaci sostenitori in sede di I Sottocommissione di una nuova impostazione di questo rapporto, da sempre problematico nella costruzione di nuove
configurazioni politico-istituzionali. Nelle sedute del 30 luglio e del ro settembre egli, criticando il concetto astratto di individuo caro
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
ad esponenti di altre forze politiche (a La Pira ad esempio, con il quale pur giunse ad importanti accordi in merito alla prima parte
del testo costituzionale concernente i rapporti civili), aveva modo di mostrare la propria formazione storicistica e di opporsi a quella che
lui riteneva una impostazione naturalistica e pertanto inadeguata dei diritti individuali nel loro legame con le organizzazioni istituzionali. AI fondo di questa sua decisa opposizione tesa in positivo a disegnare, come
si è detto, un nuovo
tipo di modello statale vi era la
consapevolezza “storica” che se inizialmente le teorie del diritto naturale avevano offerto una importante arma ideologica «contro le
esorbitanze del potere» politico, contro l’arbitrio e gli abusi signorili, e «come manifestazione di un diritto all’autogoverno», legittimantesi proprio grazie alla “naturalità” e anteriorità dei diritti della persona rispetto «ad ogni potere statale organizzato»; tuttavia esse
erano proprie di una società in cui restava in piedi il «dualismo governanti-governati», incompatibile con la piena realizzazione di un assetto democratico 3°. Questo tipo di società presupponeva infatti una contrapposizione ed una alterità tra Stato e cittadini, che in fondo era la stessa di
quella presente all’interno di una concezione assolutista dell’ordinamento statale: tanto nelle teorie giusnaturaliste che in quelle assolutiste veniva a mancare un rapporto di «coessenzialità» tra le «sfere autonome di attività individuale» e la «sfera di attività pubblica» 37. Sottolineava infatti Basso di non essere «d’accordo sul concetto, illustrato dall'onorevole La Pira e ribadito dall'onorevole Dossetti, della
priorità della persona umana sulla società organizzata in Stato. Pur non avendo la minima intenzione di svalutare la persona umana in confronto allo Stato, rileva che le ideologie affiorate nel corso della discussione di ieri riflettono, nonostante un tentativo di superamento, quelle di un’epoca individualista, ormai passata». A La Pira che aveva inteso affermare l’esistenza dei «diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino»? contro la teoria dei diritti riflessi
utilizzata dallo Stato fascista, Basso rispondeva che «tutta la storia dei rapporti umani è una storia della dialettica dei rapporti tra la persona e la collettività», ove «lo Stato non è venuto prima della persona, ma nemmeno la persona prima dello Stato, in quanto la persona non può esistere come tale, senza la società nella quale vive». Dinnanzi alle dichiarazioni di La Pira secondo cui era «importante consacrare,
nella dichiarazione
iniziale della Costituzione, la
natura spirituale della persona umana, nella quale si legittimano i suoi diritti naturali, imprescrittibili» ovvero «quelli indicati nella dichiarazione del 1789, di tipo cosiddetto individualistico», Basso
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3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO BASSO ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
osservava che nella formulazione degli articoli da loro fatta4° era «sottintesa una diversa premessa ideologica, anche se talune — aggiungeva Basso — delle conclusioni concrete cui entrambi sono pervenuti sono sostanzialmente concordanti». In quest’ultimo senso Basso, accogliendo l’istanza fatta propria
da Togliatti di evitare l'inserimento nel testo costituzionale di una particolare ideologia (il quale avrebbe soltanto portato a profonde spaccature #'), spingeva perché si facesse ricorso «a quel patrimonio culturale comune, dal quale ciascuno ha tratto le fonti della propria convinzione» 4; un patrimonio di valori e principi condivisi rappresentato anche dai «comuni risultati a cui è giunto il pensiero politico (giuridico, economico, ecc.) attraverso le ultime grandi crisi» #. Strettamente legata a questa concezione dialettica del rapporto Stato-persona e al rifiuto pertanto di una impostazione unilaterale (che fosse sbilanciata sull’astratta e assoluta identità tra i due poli o sulla loro netta opposizione), vi era la formulazione in termini nuovi, più adeguati alla realtà della società contemporanea e in una forte sintonia con altre importanti elaborazioni politico-giuridiche, del concetto di libertà. L'idea infatti di una organizzazione democratica e partecipativa del nuovo Stato e delle sue strutture fondative portava Basso a problematizzare la tradizionale concezione della libertà intesa come autonomia dal potere statale. Alla «libertà-autonomia» Basso contrapponeva la «libertà-partecipazione»; alla libertà intesa come semplice assenza di divieti affiancava, affermandone l’importanza irrinunciabile, le libertà come coinvolgimento attivo nell’autogoverno della comunità. Sulla scia di quello che era stato fin dai tempi dei primi scritti degli anni Venti uno dei suoi obiettivi polemici più importanti, Basso ridiscuteva la nozione di libertà cara al pensiero liberale #4, la quale era strettamente connessa (a suo parere) ad una idea specifica dell’individuo, come di un essere separato dal contesto storico-politico in cui viveva. È interessante notare come questa sua critica alle costruzioni giuridiche individualistiche, al loro formale ed esteriore concetto di
eguaglianza e libertà risultasse in Basso sia dalla sua formazione marxista, sia anche dalla sua attenzione nei confronti delle tematiche reli-
giose dei neoprotestanti. Dalla prima egli derivava tutte le questioni attinenti al tema marxiano della distinzione tra bourgeois e citoyen, alla concezione — fondativa del materialismo storico — dell'uomo immerso nel sostrato materiale (lo zoor politikon) della vita sociale; dalla seconda una concezione della libertà «interiore all'uomo», sua profonda «esigenza spirituale», immanente all'essenza umana ed alla sua coscienza uni-
ISI
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
versale#. Dove in entrambe le culture filosofiche vi era un riferimento forte e concreto alle condizioni (tanto sociali quanto spirituali) dell'umanità,
ai suoi reali processi di emancipazione
e liberazione,
tanto materiali quanto etici, ovvero di riappropriazione della propria piena dignità, in tutti gli aspetti concreti dell’esistenza (economici e morali) 45. Appare a questo punto sempre più evidente come la critica dell’accezione conferita dal pensiero liberale al concetto di libertà sia legata alla nuova nozione che Basso ha dell’individuo. In sede di 1 Sottocommissione egli affermava infatti che «tutta la filosofia moderna ha superato nel concetto di personalità il concetto della individualità» in quanto «la persona umana considerata soggetto di diritto non può essere concepita che in funzione di una società più o meno organizzata». Ed ancora «la persona non può essere giuridicamente considerata se non in funzione delle molteplici relazioni, non soltanto materiali, ma anche spirituali [...] che essa ha con il mondo in cui vive, sia in riferimento al presente, che all’avvenire ed anche al passato» #7. Riprendendo le proprie letture marxiane Basso portava avanti in questa sede giuridica così come in altre sedi di tipo diverso, una critica nei confronti «dell’uomo naturale, dell’uomo isolato, dell’uomo pretesamente libero perché non vincolato ad una vita sociale» #8. L'idea di persona, contrariamente alla concezione individualistica dell’uomo, era nella cultura bassiana quella di un uomo non isolato ma anzi realizzantesi solo nel contesto sociale, tramite le relazioni intrattenute con altri, in una rete di interscambi continui. In questo senso
la società non era un limite alla libertà umana, ma anzi il luogo della sua realizzazione, ed anche la garante centrale di questo percorso di dispiegamento delle personalità individuali, dal momento che essa aveva il dovere di porre tutti nella stessa condizione di partenza per il perseguimento della propria libertà complessiva. Se dunque l’organizzazione della nuova società andava fatta sulla base di questa esigenza eguagliatrice e partecipativa, da ciò discendeva sia una integrazione del concetto di libertà «in quanto la libertà-autonomia tende» ad integrarsi «con la libertà-partecipazione», sia una dilatazione di questo sino alla sua identificazione «con la nozione di solidarietà ed eguaglianza» 49. Anche in relazione a questa nuova nozione dell’uomo, saranno fondamentali per Basso il riferimento alla propria formazione legata al materialismo storico, nonché la specifica attenzione che egli aveva avuto nei confronti delle tematiche neoprotestanti, dalla quale era peraltro emerso «un terreno di incontro con alcune correnti del pensiero religioso» con cui egli condivise appunto
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3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO
ALLA I SOTTOCOMMISSIONE
«una idea molto complessa dell’individuo protagonista della rivoluzione marxiana» 9,
Non è un caso infatti che tanto La Pira quanto Dossetti, che pur dissentivano da Basso in merito al loro riconoscimento della assoluta anteriorità della persona umana «alla organizzazione della società», e a quello della naturalità dei diritti individuali (i quali così concepiti rischiavano per Basso di disperdere la loro dimensione storica e socialmente determinata, così come di intaccare la dialetticità del rapporto tra la persona e la società «organizzata in Stato») si riconoscevano tuttavia d’accordo con quest’ultimo su tre elementi fondamentali. Sulla importanza delle relazioni sociali per il dispiegamento delle potenzialità della persona; sul fondamento della comunità quale sede dell’integrazione ed “espansione” umana; sulla garanzia concreta
della realizzazione
dei diritti fondamentali,
assicurata
proprio dalla struttura sociale e dall’intervento attivo del «potere pubblico». Per tutti loro il termine “persona” comportava il riferimento, nella nuova realtà giuridico-costituzionale, ad un «soggetto
che doveva essere considerato nella sua possibilità di fruire delle ricchezze messe a disposizione dal pluralismo sociale» 54, così come il superamento dei modelli politici precedenti di natura particolaristica tanto nella concezione astratta dell’individuo isolato, quanto in quella della subordinazione di questo e dei suoi diritti alle azioni dello Stato assoluto. È infatti significativo che Dossetti, il giorno successivo a quello dell’acceso dibattito svoltosi in 1 Sottocommissione in relazione a questo tema, riconobbe «il parallelismo, ai fini della Costituzione, tra il fine di garantire l'autonomia e la dignità della persona umana e quello di promuovere la necessaria solidarietà sociale». Così come significativo è che La Pira e Basso giunsero ad un accordo” nella presentazione del primo articolo rigurdanate i principi dei rapporti civili (pressapoco l’attuale articolo 2 della Costituzione) nel quale vennero riconosciuti i diritti inalienabili dell’uomo, «come singolo e come appartenente alle forme sociali, nelle quali esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona», nonché l’obbligo della solidarietà sociale, che Basso sottolineava essere uno degli elementi più innovativi del nuovo testo, necessario all’equlibrio tra «l’esercizio degli antichi diritti della persona e l’esercizio» di quei diritti che derivano «dal principio della eguaglianza e della solidarietà sociale». Allo stesso modo Basso e La Pira giungevano d’accordo alla formulazione del secondo articolo sui principi dei rapporti civili, il quale in specie nel suo secondo comma comprendeva «la sola parte che è stata presa» dalla relazione di Basso.
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
Nella Relazione sulle Libertà civili Basso infatti aveva proposto un articolo (il 14) nel quale si diceva che «spetta alla collettività eliminare quegli ostacoli di ordine sociale ed economico che, limitando la libertà e l'uguaglianza di fatto 8 degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana, e il pieno sviluppo fisico e intellettuale, morale e materiale di essa». Il carattere innovativo di questa norma era evidenziato dal relatore stesso che la definiva una norma
«nuova,
non esistente in alcuna costituzione»,
«norma-principio, che viene a costituire poi la chiave di tutte quelle altre norme, che la Costituzione conterrà, attinenti al lavoro, all’im-
presa, alla proprietà, ai servizi pubblici» 9. Norma che venne a caratterizzare poi parte del secondo capoverso del noto articolo 3 (il quale fu completato successivamente da un’altra proposta di Basso presentata in sede di Assemblea plenaria nel marzo del 1947) e che rappresenta una delle più importanti novità dell’ordinamento giuridicocostituzionale italiano. La novità consisteva dunque nel fatto che la garanzia dell’eguaglianza giuridica non era solo una affermazione di principio destinata a restare scritta sulla carta del testo costituzionale,
bensì, per la prima volta — sottolineando l’importanza delle condizioni di fatto — si procedeva sulla via del riconoscimento del diritto
all’eguaglianza sociale ed economica
e pertanto di un necessario
intervento pubblico volto a conformare la realtà alle disposizioni progressive sancite dalla Legge fondainentale. Proprio grazie al comune
riconoscimento
dei principi contenuti
negli articoli 2 e 3, la Costituzione italiana assunse «due facce: rivolta luna [...] a consacrare solennemente le libertà democratiche tradizionali, recuperate dal popolo italiano dopo la tragica parentesi fascista, e quella parte delle nuove libertà democratiche che le forze più avanzate dello schieramento politico sono riuscite a tradurre in una precisa ed attuale regolamentazione del diritto positivo; rivolta, l’altra, a determinare le premesse per uno sviluppo avvenire, ponendo certe direttive programmatiche all’azione dei futuri organi costituiti nel campo dei rapporti sociali» 9. Generale, come si avrà modo di illustrare più avanti in merito alla trattazione del contenuto dell’intera Relazione di Basso, era l’esigenza di garantire costituzionalmente i diritti della persona, soprattutto a fronte dell'esperienza fascista, attraverso l’affermazione della loro inviolabilità; attraverso un ampliamento delle garanzie contro l’arbitrio del potere esecutivo, ed attraverso infine un’allargamento di
questi stessi diritti di libertà del cittadino. Non di meno avvertita era la volontà di affermare nel testo costituzionale la centralità e l’obbligatorietà dei nuovi diritti sociali.
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3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
Il tema dell’eguaglianza sociale si connette con quello della libertà, in un legame da sempre ritenuto problematico nella storia del pensiero moderno e contemporaneo. In questa misura pare opportuno ritornare sulla trattazione di questo tema soprattutto nei suoi aspetti politici, i quali d’altra parte rinviano al nesso esistente tra l’organizzazione dello Stato e il ruolo dei cittadini al suo interno, tra il potere politico e la libertà individuale. Sembra molto importante poter affermare che Basso nella trattazione di questo tema (in sede di Costituente o negli scritti più legati alle tematiche politico-costituzionali) si avvicinò molto alle elaborazioni di altri pensatori della tradizione giuridica e politica novecentesca, da lui stesso più volte citati espressamente. Per Basso prioritario era impegnarsi per costruire un modello statale diverso rispetto a quello della «cosiddetta democrazia liberale che caratterizzò fino alla Prima guerra mondiale il regime dominante nell'Europa occidentale», in quanto questo in realtà non era «che il tentativo di sussumere le esigenze democratiche negli schemi elaborati dal liberalismo» ©. In particolare si trattava di reimpostare un nuovo legame tra lo Stato e i cittadini, dal momento che sfera pertinente alla libera azione degli individui era stata considerata dal pensiero liberale quella privata, altra rispetto al campo di intervento e di competenza dello Stato. Quest'ultimo doveva quindi «assicurare soltanto il rispetto della libertà degli individui», senza interferire più dello stretto necessario (quello cioè indispensabile al fine di garantire l’ordine pubblico e la salvaguardia della libertà economica stessa) nella vita collettiva, la quale pretendendosi regolata dal libero gioco delle forze sociali, giaceva in un rapporto di sola subordinazione rispetto agli interessi della classe dominante. In questo contesto secondo Basso veniva ad instaurarsi un «carattere sussidiario di mezzo a fine della libertà-partecipazione rispetto alla libertà-autonomia», ove «la prima, cioè il diritto di partecipazione alla cosa pubblica, non deve essere esteso al di là di quanto potrebbe riuscire pregiudizievole a quello che è il vero valore essenziale, la libertà-autonomia, il rispetto cioè della sfera
autonoma dell’iniziativa e della attività individuale» ®. Le trasformazioni verificatesi durante l’Ottocento in seguito alle pressioni delle masse lavoratrici, e le conseguenti battaglie volte a mettere in crisi questo modello politico-sociale, portano secondo l’analisi storicistica bassiana ad una nuova idea dell’uomo, della libertà
nei suoi rapporti con la collettività, e contemporaneamente ad una critica nei confronti di quelle concezioni secondo cui la vera libertà consisteva nella autonomia dell’individuo rispetto alla comunità poli-
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LA SINISTRA
ALLA COSTITUENTE
tica considerata viceversa come il luogo dell’autorità. Secondo Basso si trattava invece di concepire la libertà come un equilibrio fra il momento dell’individualità e quello della socialità, tra quello privato e quello pubblico. In questo senso era in gioco non più soltanto la tutela delle libertà tradizionali (quelle «di fare qualche cosa», attinenti la «sfera di manifestazione autonoma della persona che lo Stato deve soltanto rispettare») ma anche l’affermazione di nuove libertà, richiedenti un attivo intervento dello Stato e configurantisi come liberazione (le libertà 44/ bisogno e dalla paura, nel senso dato ad esse da Roosevelt 5), in virtù della quale tutti avrebbero
avuto garantite le basi materiali, la possibilità di esplicare le proprie potenzialità. Su un analogo piano, esprimendo le stesse opzioni di fondo di Basso, si muove
l’analisi di un autore
come
Franz
Neumann
(da
Basso esplicitamente citato nelle proprie riflessioni), il quale partendo dalla critica alla libertà liberale «negativa o “giuridica”», da lui intesa nel senso hegeliano dell’unilateralità e dell’inadeguatezza in quanto consistente nella semplice mancanza di costrizioni ed interferenze e dunque nella espressione delle proprie istanze individuali a fronte dell’invadenza dello Stato, giungeva a considerare insufficiente un concetto di libertà intesa come la sola «difesa dei diritti contro il potere». Per Neumann, così come per Basso, la libertà negativa non poteva essere tralasciata (e l’impegno di Basso alla determinazione costituzionale di principi massimamente garantisti lo certifica), tuttavia essa andava integrata con un concetto di libertà «implicante la possibilità di sviluppare a pieno le potenzialità dell’uomo» 66, laddove questo portava anche al superamento dei presupposti dell’individualismo filosofico, ostinatamente fermo alla contrapposizione tra l’uomo e il potere politico, e pertanto «all’accettazione, in qualche misura, della sua (dell’uomo) alienazione politica» 97. La contrapposizione tra cittadino-Stato, sottesa all’idea negativa di libertà, risultava essere anche agli occhi di Neumann «inadeguata», al pari della concezione che tendeva ad oppore la libertà allo Stato, la quale non teneva peraltro conto del fatto che «il potere sociale può essere ancora più pericoloso per la libertà di quanto non sia il potere pubblico», e che dunque «l’intervento dello Stato nei confronti di posizioni private di potere può essere essenziale per assicurare la libertà» medesima. In questo senso i diritti civili, indispensabili per «preservare la libertà», non «esauriscono tutta la libertà, essendo semplicemente uno dei suoi elementi» 99. Neumann sembra allora essere vicino alla prospettiva giuridicocostituzionale di Basso, in quanto «non respinge le vecchie libertà
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3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
liberali e garantiste, le libertà dallo o meglio contro lo Stato, ma ritiene che, impostando così il problema» — nel modo cioè in cui l’avevano concepito le teorie liberali — «si finisca inevitabilmente per vedere nello Stato e nel potere qualcosa di necessariamente estraneo ed alieno». In questa prospettiva «la vera libertà [...] sta nell’uso razionale del potere e nella partecipazione delle masse alla sua gestione», ovvero essa si esprime «anche attraverso il governo», attraverso l’attività politica collettiva. L'obiettivo comune è dunque «la realizzazione di trasformazioni sociali che massimizzino le libertà dell’uomo», che caratterizzino i presupposti concreti della piena realizzazione umana e che «ristabiliscano l’uomo intero contro l’uomo diviso e mutilato» 7°. Nella stessa direzione si muoveva Basso nel momento in cui, indi-
viduando il tema della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica (anello di congiunzione questo tra l'articolo 3 nel suo secondo comma e l'articolo 49), rielaborava i termini del rapporto «governanti e governati», «libertà e potere». In modo molto esplicito in una nota de I/ principe senza scettro, egli dichiarava infatti che nell’ambito di una organizzazione democratica dello Stato, in cui si tende ad una crescente «socializzazione del potere» (ovvero alla diffusione di questo all’intera base sociale), e alla realizzazione della sovranità popolare, viene superata l’antitesi tra il potere statale e la libertà dei cittadini, in quanto il potere politico e la funzione sovrana spettano ai cittadini stessi, i quali sono anche i massimi depositari dei diritti individuali e delle istanze di libertà. In questo modo «libertà e potere non si limitano a vicenda, ma al contrario si integrano: senza libertà il popolo-sovrano non può esercitare il suo potere, il potere a sua volta sorregge e garantisce la libertà»7, che è dunque uno dei «momenti essenziali dell’esercizio del
potere», ad esso «coessenziale» 72. Altrettanto interessante sembra essere il confronto tra questa nuova nozione di libertà introdotta autorevolmente da Basso nel dibattito costituzionale e quanto scriveva in proposito Kelsen (altro autore che Basso ha ben presente7). Kelsen infatti argomentando della storica trasformazione dell’idea di libertà, riconosceva nel passaggio da una nozione di libertà come liberazione (indipendenza) da/ dominio dello Stato ad un concetto di libertà come «partecipazione dell’individuo al potere dello Stato», il punto di massima «separazione della democrazia dal liberalismo» 74.
Il processo che Kelsen descrive è quello che caratterizza il cambiamento della stessa coscienza umana, la quale vive a suo parere un percorso di «denaturazione» del proprio istinto originario di libertà, recuperando la propria dimensione sociale, la propria collocazione
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
all’interno di una collettività e pertanto una nozione di libertà che esprime «una determinata posizione dell’individuo nella società», alla cui strutturazione egli partecipa in prima persona. In questo senso «dalla libertà dell’anarchia, si forma la libertà della democrazia», ove
viene meno «l’insolubile conflitto che oppone l’idea della libertà individuale a quella di un ordine sociale». L'epoca delle costruzioni politico-giuridiche di tipo individualistico, descritte dallo stesso Basso in termini di inadeguatezza storica, lascia a questo punto lo spazio ad una realtà caratterizzata da un cittadino sovrano (e non più da un suddito, ovvero «l'individuo isolato») e dall’«identità di governanti e di governati, di soggetto e di oggetto del potere»7, ovvero dalla «piena identificazione del popolo con il potere sovrano» 7°. Nel caso di Basso — giova ribadirlo — questa propensione nei confronti della «libertà positiva», ritenuta il fondamento di un governo di tipo democratico, riflette una formazione culturale fondata sulla lezione marxiana, evidente nell’idea stessa che libertà significhi conoscenza e dominio razionale della realtà e quindi, a maggior ragione, delle leggi che regolano la vita (politica); autodirezione consapevole; volontà di essere interamente padroni della propria esistenza ovvero delle forme di governo praticabili, nonché determinazione ad essere soggetti del «potere sovrano», massimi partecipanti alla res publica, «all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»77. Parimenti tale medesima propensione riflette una sensibilità etica connotata da suggestioni neoprotestanti, laddove per Basso il riferimento al protestantesimo sembra rinviare sia ad una istanza di riappropriazione della propria coscienza, sia ad un rifiuto della condizione eteronoma di soggetti impossibilitati ad essere gli autori coscienti delle proprie scelte razionali e dei propri percorsi di liberazione ?*. 3.3
L'articolo 49
Proprio il tema della autodirezione, della sovranità popolare e della
partecipazione concreta dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, affrontato nel secondo comma
dell’articolo 3, conduce Basso
ad impegnarsi in sede di I Sottocommissione per l’afferinazione di una repubblica democratica di partiti. Se il richiamo allo strumento
partito era stato uno dei tratti caratteristici della vicenda intellettuale di Basso negli anni del fascismo, e poi nei primi tempi della ricostruzione italiana, si trattava ora di fare in modo che il partito avesse un riconoscimento costituzionale all’interno della nuova Legge fondamentale.
3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
I partiti costituivano infatti per Basso (che in questo si richiamava allo stesso Kelsen) gli elementi principali per rendere effettiva la sovranità popolare affermata nel primo articolo della Costituzione, e per costruire concretamente «un regime democratico moderno, un
regime che fosse autentica espressione» della volontà popolare e che «poggiasse sul consenso e sulla partecipazione delle larghe masse di cittadini, precisamente quelle masse che il vecchio Stato liberale prima, e poi lo Stato fascista, avevano tenuto di fatto ai margini, o addirittura fuori della vita politica e in gran parte della vita sociale»7?. In questa direzione si muove oltre all’articolo 3, l'articolo 49, a cui Basso diede in sede di Costituente il proprio decisivo contributo. Nella seduta del 19 novembre 1946 Basso, insoddisfatto delle proposte di Mancini e Merlin riguardo al tema delle libertà politiche 8° e pertanto fattosi autore di una ulteriore relazione su questo argomento, presentò due importanti proposte di articoli tratte dalla propria esposizione, attinenti all’organizzazione di un moderno Partesenstaat. Gli articoli 3 e 4 della Relazione di Basso su I principi dei rapporti politici recitavano infatti «tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente e democraticamente in partito politico, allo scopo di concorrere alla determinazione della politica del Paese», e ancora «ai partiti politici che nelle votazioni pubbliche abbiano raccolto non meno di cinquecentomila voti, sono riconosciuti, fino a nuove votazioni, attribuzioni di carattere costituzionale a norma
di
questa Costituzione, delle leggi elettorali e sulla stampa, e di altre leggi» 8 Per Basso «il principio del riconoscimento ai partiti di attribuzioni di carattere costituzionale» rappresentava «una specie di avviamento a superare tutte le forze di tipo puramente individualistico, antiquato con una nuova concezione di democrazia di partiti» * nella quale il cittadino partecipa «veramente», permanentemente «all’esercizio della sovranità popolare», alla «vita dello Stato» e non più soltanto nel momento delle elezioni rimettendosi «a quello che farannoi suoi mandatari». È proprio «attraverso la vita dei partiti» che il cittadino fa esercizio «quotidiano di sovranità popolare», divenendo «ogni A partecipe della gestione politica della vita del Paese» In questo senso Basso, esprimendo con la sua briima proposta un concetto eminentemente moderno di organizzazione democratica del
nuovo Stato, capace di superare anche le forme di democrazia parlamentare di inizio secolo in tutte le loro inadeguatezze e storture strutturali, si faceva il portatore di una istanza di trasformazione oggettiva generale, non per caso accolta anche da esponenti di altre
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
forze politiche presenti nella 1 Sottocommissione. Esponenti che invece non accolsero con lo stesso favore l’altra proposta di Basso relativa alla determinazione di specifiche condizioni e modalità con le quali si procedeva concretamente all’attribuzione di funzioni costituzionali ai partiti 4. In questo senso, come ebbe a dire lo stesso Basso più tardi, l’articolo 49 rimase sostanzialmente incompiuto, nonostante tutti si fossero mostrati d’accordo sul principio della attribuzione ai partiti di compiti costituzionali. Le ragioni che spinsero Basso a proporre l'inserimento dell'articolo 49 nella Carta costituzionale — ragioni che ben sottolineano l’importanza di tale articolo — appaiono altresì connesse all’attenzione giovanile bassiana nei confronti del partito, ritenuto lo strumento indispensabile per la formazione di una coscienza critica e partecipativa dei cittadini dinnanzi alla diseducazione democratica vissuta dall'Italia fascista e a fronte di un antico spirito di compromesso presente nella realtà nazionale già negli anni dello Stato liberale di inizio secolo. Proprio tali motivazioni poi permettono di comprendere ulteriormente la concezione di Basso relativa alla strutturazione di un moderno ordinamento giuridicocostituzionale, capace di essere all'altezza delle trasformazioni maturate in seno alla società nel corso delle vicende novecentesche. Per capire a fondo queste ragioni sembra opportuno anche in questo caso prendere in considerazione
quanto Basso scrisse in proposito
successivamente. In questo modo è possibile illuminare maggiormente la vicenda costituente e le culture giuridico-politiche qui presenti, tanto attraverso riferimenti ad antecedenti intellettuali e politici quanto tramite successive elaborazioni. Attraverso una concreta analisi storico-politica, la quale peraltro costituiva per Basso un elemento fondamentale per la formazione e l’attività specifica di un costituente o di un giurista, a fronte di un suo rifiuto nei confronti del «giuridicismo tout court» 85, ovvero
di
«un astratto formalismo giuridico» 8, egli tracciava il percorso concreto che aveva portato alla “necessità” di configurare uno Stato democratico fondato sul sistema dei partiti. Se le pressioni esercitate dalle masse al fine di allargare e trasformare le basi dello Stato liberale erano state determinanti perché lo Stato si liberasse «dalle
angustie liberali» e arricchisse «il suo contenuto democratico sul piano sociale», divenendo uno dei luoghi centrali per la realizzazione delle conquiste progressive delle classi lavoratrici subalterne e pertanto per il conseguimento di una loro rilevante influenza politico-sociale #, decisivo per la formazione di un moderno Partesenstaat era il nuovo concetto che andava assumendo il termine popolo.
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3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
Sulla scorta dell’analisi di Kelsen, Basso rilevava essere caratteri-
stica della nuova “era” — connotata dalla nozione di libertà come partecipazione e pertanto dai presupposti fondativi di una democrazia moderna — una idea non più astratta di popolo. Al mito del popolo unito e coeso, alla finzione della volontà unitaria della nazione, espressione in verità di un ‘contesto ancora dominato dall’esclusione delle masse dalla scena politica, viene sostituendosi la realtà di un popolo concreto, composta, secondo le parole di Kelsen, da «una molteplicità di gruppi distinti», e non già da «una massa coerente» ed indistinta, priva di interessi e volontà diverse e contrastanti 89, Questa nuova concezione della sovranità popolare, la quale faceva nel caso di Basso pendant con il riferimento alla critica marxiana del citoyen, portava quest’ultimo a distanziarsi dalla tradizionale forma parlamentare di governo, nella quale di fatto vi era spazio solo per un popolo indifferenziato, i cui rappresentanti pretendevano di essere i depositari «di un inesistente interesse generale», volto il più delle volte a celare la peculiarità dell'unico interesse realmente rappresentato (quello della classe dominante) e preso a pretesto per eludere i doveri della rappresentanza degli eletti verso gli elettori, in nome proprio di un superiore ed unitario interesse della nazione. Ad esso Basso opponeva «un parlamento che fosse la sede dell’incontro e dello scontro permanente dei partiti che riflettono le differenze effettive del popolo reale»9° e che permettono di «spostare il centro di gravità del potere dall’alto verso il basso», ovvero dal «parlamento al paese». I partiti infatti consentivano di superare la vecchia logica del sistema parlamentare di stampo liberale, quella della irresponsabilità politica dei parlamentari rispetto alla propria base politica e della indipendenza dinnanzi agli elettori, imponendo un modello secondo il quale «sono gli stessi elettori, che militano in quel partito o che per esso simpatizzano, che tracciano al deputato la linea a cui deve ispirarsi» e in cui la sovranità non spetta al Parlamento genericamente inteso, bensì ai cittadini reali che anche attraverso
il Parlamento
esercitano la loro sovranità, inverando
in
questo modo l’articolo 1 della Costituzione ??. Per Basso dunque lo Stato dei partiti metteva in crisi il modello tradizionale di Stato parlamentare liberale, ove erano legittimati a governare soltanto gli esponenti della classe dominante, “natural mente” selezionati e privi di controlli esterni (a questo proposito basti pensare alla teoria di Vittorio Emanuele Orlando), parimenti per altri costituenti presenti nella 1 Sottocommissione (Togliatti ad esempio) questa realtà nella quale «i membri del Parlamento erano
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LA SINISTRA ALLA
COSTITUENTE
dei notabili tra i quali prevaleva colui il quale aveva doti politiche superiori», veniva oggettivamente superata da un modello di Stato parlamentare fondato sui partiti, anziché su «eminenti personalità». Proprio i partiti politici infatti — «raggruppando gli uomini di una stessa opinione, per garantir loro un effettivo influsso sulla gestione degli affari pubblici», sull’indirizzo dello Stato — erano «gli elementi più importanti della democrazia reale», e costituivano la più evidente «manifestazione di quel processo opportunamente chiamato — da un autore più volte citato dallo stesso Basso — “razionalizzazione del potere” che va di pari passo con la democratizzazione dello Stato moderno» 94. In particolare i partiti politici (la cui importante funzione, generalmente riconosciuta, trovava riscontro anche nell’op-
zione da parte di tutte le forze politiche più importanti a favore del sistema elettorale proporzionale 9) permettevano di far fronte a due esigenze ritenute fondamentali nel nuovo Stato, ove «l’individuo isolato non ha, politicamente, alcuna esistenza reale, non potendo eser-
citare un reale influsso sulla formazione della volontà» statale e ove allo stesso tempo governano le istanze dei cittadini stessi, nella loro pluralità, articolazione e differenze profonde. Da un lato i partiti consentendo agli individui di raggrupparsi unitariamente sulla base di analoghi interessi di gruppo, ceto, classe, e «riassumendo le uguali volontà dei singoli»? cittadini, davano a questi una volontà unitaria,
quale «dev'essere la volontà del sovrano»? Essi infatti estraevano dal sovrano collettivo, il popolo, «che ha dentro di sé delle posizioni contraddittorie, e pertanto una volontà non ancora espressa in modo unitario», che è composto «da una massa di persone che non sono d’accordo tra di loro», proprio questa «volontà unitaria», nella difficile operazione che Basso definisce di «reductio ad unum». Dall’altro lato, i partiti erano anche i massimi garanti del fatto che questa unitaria volontà corrispondesse il più possibile agli effettivi interessi popolari, dal momento che nella loro estrema ambiguità ed «elasticità» essi poggiavano le loro radici «nel momento pregiuridico, nel popolo sociologicamente considerato», nella concretezza fatta
prevalentemente dei contrasti e delle lacerazioni della società civile. Scriveva Basso in proposito che con l’articolo 49 si intendeva indi-
care «questo processo democratico che dalla diversità, dalla eterogeneità, dal contrasto, dalle differenze che sono all’interno del sovrano,
all’interno del popolo, si doveva arrivare poi alla formazione di una volontà unitaria». E aggiungeva poi «l’abbiamo detto con la parola “concorrere” che esprime il momento della pluralità, del contrasto, del dissenso, e con le parole “alla formazione di una politica nazionale”, che sottolinea il momento unitario, cioè il momento in cui la
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3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
volontà eterogenea del popolo diventa la volontà unitaria del sovrano». Questa loro natura ambivalente di elementi per dir così “privati” e al tempo stesso «di organi di governo»'°, li rendeva capaci di essere i veicoli reali della sovranità popolare, non più astrattamente intesa. In questo senso i partiti rappresentavano
per Basso l’ulteriore
elemento di rafforzamento del nesso individuo-collettività, privato e pubblico, governati e governanti, dal momento che essi costituivano, nella duplice veste sia di elementi di rappresentanza degli interessi materiali dei cittadini-lavoratori, sia di strumenti per la loro crescita cosciente, il collegamento organico tra le istanze provenienti dalla base sociale e gli apparati giuridico-istituzionali. Riprendendo le elaborazioni più avanzate a cui era giunta la giuspubblicistica giuridico-costituzionale nel corso — come si è già avuto occasione di dire — degli anni tra le due guerre e al tempo stesso sulla scia della propria concreta attività volta a dare alle masse lavoratrici degli strumenti di adeguata organizzazione politica e intellettuale, Basso faceva dell’articolo 49 il risultato del suo stesso duplice impegno, tanto nelle sedi istituzionali! quanto nei luoghi
concreti della società civile. In relazione al primo aspetto sembra importante sottolineare che egli (al pari di quanti in sede di Costituente, a proposito della nuova funzione da attribuire ai partiti, avevano «in mente non solo il tradizionale ruolo di rappresentanza politica, ma anche un nuovo compito di pedagogia della società» '!°) assumeva le conclusioni a cui era giunto lo stesso Costantino Mortati, nella misura in cui per entrambi «la sovranità nazionale appare così non già una unità data, precostituita, indivisibile, bensì una unità in via di formazione attraverso un procedimento dialettico di contrasto fra parti contrapposte, legalizzato nel “metodo democratico» 199,
I partiti erano insomma i tramiti necessari per l’unità dialettica (considerata l'elemento centrale del superamento del modello istituzionale liberale) tra «Stato-apparato» e «Stato-comunità», ove l’istanza sovrana spettava allo «Stato-comunità» (ovvero alla colletti vità), che attraverso il partito la trasfondeva nell’apparato statale, in maniera costante e continuativa, non «soltanto attraverso il mec-
canismo elettorale». A fronte del tradizionale problema di scollamento verificatosi nel corso della storia istituzionale tra «costituzione materiale» e «costituzione formale», tra paese reale e paese legale, tra comportamenti degli apparati istituzionali e istanze provenienti dal corpo
sociale, Basso
poneva
l’accento
sulla garanzia che i partiti
davano all'adeguamento della materia costituzionale, concepita come
163
LA SINISTRA
«permanentemente
ALLA COSTITUENTE
i fieri» non racchiudibile in «formule defini-
tive», rispetto «ai mutamenti che si manifestano nella società». Dalla sostanza dell’articolo 49 è dunque possibile comprendere la volontà di Basso di tenere insieme unità e generalità da una parte, e differenziazione e articolazione dall’altra, alla luce di una analisi capace di guardare all’interno della società, in tutte le sue particolarità, contrasti e conflitti. È altresì possibile capire la predisposizione bassiana a farsi carico in modo concreto di un governo popolare e democratico, nel quale il riconoscimento del diritto della maggioranza del popolo a dettare le linee politiche non si riduceva alla semplice affermazione dei diritti delle maggioranze. Agli occhi di Basso un concetto concreto di sovranità popolare conduceva oltre che al necessario riconoscimento costituzionale dei partiti politici, anche a quello della centralità della funzione dell'opposizione, alla costituzionalizzazione di quest’ultima, altrettanto «legittima portatrice di interessi e di istanze popolari», ovvero di «espressioni parziali di sovranità», che la rendono «parte della complessa funzione sovrana».
Secondo il parere di Basso infatti l'opposizione svolgeva compiti costituzionali determinanti, in quanto garantiva il diritto della minoranza di divenire maggioranza e dunque «governo del paese» in un domani, evitando in questo modo cristallizzazioni di potere e tendenze autoritarie da parte del contingente governo della maggioranza; in quanto permetteva di dar voce, al pari della stessa maggioranza, a una decisiva, anche se minore, parte della volontà popolare sovrana; ed infine in quanto fungeva da elemento di «stimolo o di freno», «di critica e controllo» nei confronti della stessa maggioranza. Il rapporto
maggioranza-opposizione
diviene
allora
nella mo-
derna ingegneria istituzionale quello decisivo per lo svolgimento di una vita concretamente
democratica, laddove entrambe
sono
desti-
nate «ad assolvere funzioni di spettanza della sovranità popolare, e cioè funzioni di decisione la maggioranza e di controllo la minoranza, quando non addirittura anch’essa di necessaria partecipazione alle decisioni più importanti» !9°. L'opposizione in quanto espressione della minoranza acquistava il suo carattere decisivo sullo sfondo di un concetto avanzato di democrazia, per il quale governo democratico significava «compromesso fra maggioranza
e minoranza»,
inteso non
come
«un
incontro
a
metà», bensì come una ideale e dialettica «media ponderata delle diverse opinioni», secondo anche il senso dell’articolo 49, per il quale concorrendo «tutti i cittadini e tutti i partiti» alla «determinazione della politica nazionale», «le scelte del governo in materia di politica
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3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO
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generale devono tener conto della politica nazionale così determinata»'°7. In questo senso anche l’idea moderna del governo della maggioranza non faceva capo ad un principio di maggioranza numerica, secondo il quale esiste «un dominio assoluto della maggioranza sulla minoranza», e il dominio della volontà generale non è che un «diktat imposto dalla maggioranza alla minoranza» (come era stato d’altra parte precedentemente). Viceversa la volontà generale — secondo il parere dello stesso Kelsen — è il «risultato dell’influsso che i due gruppi (maggioranza e minoranza) esercitano uno sull’altro», ovvero «la risultante del cozzo
degli orientamenti politici delle loro volontà», la sintesi «della tesi e dell’antitesi degli interessi politici», la quale già di per sé come sintesi, e non come «verità superiore assoluta»! prestabilita aprioristicamente
e univocamente,
contiene la mediazione
dialettica dei due
momenti precedenti. «Una sintesi — riprendeva Basso — fra le molteplici opinioni che sl esprimono attraverso 1 partiti, interpreti tutti, sia pure in misura
diversa, della complessa ed eterogenea volontà popolare.» La moderna concezione dell’ordinamento costituzionale, e la con-
statazione della crisi del tradizionale Stato parlamentare, portava Basso a problematizzare il rapporto tra affermazioni di principio e applicazioni concrete, laddove anche l’accento posto sulla funzione dell'opposizione (ed in seguito sulla mancata disciplina della sua natura e funzione) rientrava nel generale impegno bassiano orientato a risolvere in termini positivi questo nesso. Se dunque andava con-
cretizzato fino in fondo quanto scritto nell’articolo 1, se quella di popolo sovrano non era più una nozione astratta, se «la volontà della
maggioranza cessava di confondersi con la volontà generale», ciò comportava che «anche la minoranza o le minoranze, che anche l’opposizione, proprio in quanto tale, esercitasse potere sovrano».
In
particolare essa avrebbe permesso di conseguire tanto l’obiettivo garantista, quanto quello connesso alla realizzazione «del contenuto sociale dello Stato democratico», nella misura in cui si faceva portatrice ora «delle legittime rivendicazioni delle classi più deboli, in
favore dell’attuazione della Costituzione», ora delle aspirazioni proprie dei ceti più alti al rispetto — nell’ambito di un programma governativo orientato alla trasformazione sociale e alla redistribuzione complessiva — «dei diritti costituzionalmente garantiti» "'°. Accanto alle altre proposte avanzate per istituire un moderno sistema di «pesi e contrappesi», checks and balances, generalmente ritenuto necessario nel moderno Stato di diritto italiano in particolare «dopo la devastazione più che ventennale» di un regime conce-
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
pitosi come assoluto !, Basso si faceva forte sostenitore della ineludibilità di tale per anche e decisiva
un sistema di controllo, considerato da lui stesso fondamenun corretto equilibrio democratico, di cui protagonista era, soprattutto, l'opposizione. Quest'ultima era ritenuta infatti la garante della limitazione del potere della maggioranza",
dopo l’esautoramento dell’organo legislativo tradizionalmente deputato ad una funzione di critica e limite, ma da tempo impossibilitato alla luce della crisi della classica divisione dei poteri. L'opposizione dunque, a differenza di altri istituti proposti, svolgeva una funzione di equilibrio e controllo non suscettibile di interpretazioni restrittive a danno della sovranità popolare (come poteva esser giudicata da Basso la seconda Camera)?” ed era al tempo stesso la massima garante di una reale espressione della sovranità popolare.
3.4
Le altre proposte di Basso nel dibattito alla 1 Sottocommissione: le libertà civili, il diritto di sciopero, l’utilità sociale del diritto di proprietà Proprio in relazione all’istanza garantista espressa da Basso nei lavori di preparazione del testo costituzionale, è bene prendere in analisi la Relazione da lui esposta in sede di I Sottocommissione, nonché l’ampio dibattito che ne derivò, relativo alla definizione degli articoli riguardanti le libertà e i diritti civili. Il 12 settembre 1946 veniva presentato l’articolo 3, concernente la garanzia della libertà personale (tratto in parte dall’articolo 1 della Relazione di Basso), nel quale veniva stabilito un ampliamento delle garanzie individuali teso a tutelare la libertà del cittadino contro l’arbitrio della pubblica sicurezza (attuale articolo 13). Specificatamente secondo Basso l’elemento nuovo e garante era costituito dall’obbligo di denuncia dell’autorità di pubblica sicurezza all’autorità giudiziaria di «tutti i casi in cui essa ha proceduto a questo determinato fermo o arresto», affinché l'autorità giudiziaria «si pronunzi, in ogni caso,
sulla legalità del provvedimento»"4. Nel momento in cui infatti veniva garantita la denuncia da parte della pubblica sicurezza all’autorità giudiziaria del fermo o dell’arresto con una limitazione ben precisa (stabilita costituzionalmente) delle ore di trattenuta, e nella misura in cui si evitavano formule troppo particolaristiche e specificative, suscettibili di interpretazioni arbitrarie e limitative, venivano di fatto prese concretamente «tutte le precauzioni», Altrettanto nuova era la concezione di fondo che emergeva dall'articolo 2 della Relazione, nel quale accanto
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all'istanza garantista,
3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
manifestata in termini analoghi anche da La Pira («l'imputato è presunto innocente fino a che un atto dell'autorità giudiziaria non lo abbia dichiarato colpevole», «la norma penale non può essere retroattiva»: principio questo estremamente importante dinnanzi ai numerosi casi in cui il regime fascista aveva potuto emettere sentenze
negative avvalendosi della retroattività delle leggi penali), Basso, al pari di come farà Terracini in sede di adunanza plenaria", esprimeva anche una idea promozionale del diritto. Idea particolarmente evidente nella formulazione secondo cui «le sanzioni detentive devono tendere alla rieducazione del colpevole», ed in quella per la quale «non possono istituirsi pene crudeli» "7. Dinnanzi al carattere frenante, repressivo o puramente protettivo assunto precedentemente e poi anche in sede di dibattito plenario dal diritto (e dalle istituzioni in generale), l'impegno di Basso era volto a fare di quest’ultimo uno strumento di crescita collettiva, di valorizzazione degli elementi democratici e partecipativi del nesso costitutivo esistente tra ordinamento giuridico e sfera sociale, anche in questo caso ritenuti da Basso terreni inscindibili, e reciprocamente capaci di “contaminazioni” progressive "!8, Parimenti la volontà di potenziare le garanzie dei cittadini si evidenziava anche nelle proposte concernenti l’inviolabilità del domicilio, la libertà della corrispondenza, la libera circolazione e residenza di ogni cittadino, la libera espressione delle proprie convinzioni personali e della propria fede religiosa, nonché nell’ampliamento dei diritti di libertà (di associazione, riunione e di stampa [articoli 17, 18 e 21], di cui Basso sottolineava le importanti novità nella seduta del
ro aprile 1947). Proprio negli articoli volti a tutelare le libertà civili contro gli arbitri delle stesse autorità pubbliche, egli cercava di mantenere una linea d’azione per così dire “media”, né troppo generica ed astratta; né troppo
tesa a specificazioni,
come
invece
sembra
essere spesso quella di Togliatti. Questi infatti sembra essere meno fiducioso nei confronti dell’efficacia delle disposizioni giuridiche e in
tale misura più incline ad una richiesta di formulazioni dettagliate e specifiche, «più concrete», la quale parrebbe quasi tradire l’ansia derivante dalla storica insoddisfazione che parte del movimento operaio ebbe nei confronti del terreno giuridico-istituzionale. Per Basso - che in generale rivela in più occasioni la propria fiducia nei confronti delle potenzialità del diritto, della capacità di quest'ultimo di garantire concretamente determinati principi di civiltà, conformando e vincolando strettamente a sé la realtà — si tratta di seguire una via di mezzo, tra l’indicazione dei limiti entro cui il legislatore si poteva muovere (ovvero «i fondamenti delle garanzie che devono essere date
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
al cittadino»), e l’esigenza di evitare l’inserimento nella Costituzione di elementi di «eccessiva particolarità», cioè di principi «che avrebbero inutilmente appesantito il testo della Costituzione» !°°, oltre che creato il pericolo di specificazioni e limitazioni arbitrarie. Se dunque questi principi (in particolare quelli sanciti dagli articoli 13-22) facevano parte dei «diritti tradizionali del cittadino di fronte allo Stato»!, articoli come il 28 («i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondole leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti») si integravano fra questi principi tradizionali, dandone comunque un significato in parte nuovo, nella misura in cui non assicuravano soltanto le libertà del cittadino rispetto alle autoritarie incursioni del potere pubblico, bensì affermavano anche per la prima volta che in un ordinamento democratico non vi era più una contrapposizione tra «esercizio di libertà e potere sovrano, fra cittadini e Stato». In questo senso il compito dei funzionari dell’autorità pubblica non era quello «di difendere il sovrano contro un pericoloso estendersi della sfera di libertà» di soggetti subordinati ed altri dal sovrano stesso, bensì quello «di garantire la piena esplicazione della libertà proprio in quanto esercizio in atto del potere sovrano», spettante ora al popolo intero. La novità consisteva quindi nel fatto che veniva giuridicamente riconosciuta l’idea secondo cui i dipendenti statali, in specie quelli appartenenti alla sfera giudiziaria, erano «i servitori del popolo a cui dovevano ubbidire e di cui dovevano assicurare il libero godimento dei diritti» !??. Secondo Basso si trattava con l’articolo 28 di affermare «anche la responsabilità dello Stato» ", secondo una azione giuridica orientata verso il riconoscimento costituzionale di un nuovo rapporto tra cit-
tadini e Stato, confermato d’altra parte dalla natura di altri importanti disposizioni. Accanto ai diritti tradizionali, vi erano infatti sia i diritti definiti da Basso «democratici», ovvero «i diritti — ai quali lo stesso Basso aveva dedicato un impegno specifico attraverso la sua Relazione su I Principi dei rapporti politici**4 — di partecipazione del cittadino alla formazione della volontà collettiva»; sia i diritti sociali, obbliganti positivamente lo Stato ad una azione volta alla liberazione dei cittadini «dal bisogno, dall’ignoranza ecc.»!*. In questa direzione procedevano tanto articoli come il 3 o il 4, quanto anche altre proposte di Basso volte a completare articoli come il 41 o il 42. All’interno di una Costituzione non socialista si trattava di proseguire sulla scia di una logica volta all’inserimento nell'ordinamento costituzionale di elementi risultanti spesso contrad-
dittori, capaci di innescare dinamiche conflittuali nella società stessa.
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3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
Elementi che in sostanza si rifacevano alla tendenza socializzatrice dello sviluppo delle forze produttive, e che dunque contenevano una logica opposta rispetto a quella del capitalismo e dell’accumulazione privata. Elementi che riuscivano progressivamente a spostare il confine tra pubblico e privato, imponendo la preminenza del primo sul secondo. In questo senso va inquadrata l’azione di Basso in relazione a due sue proposte sui rapporti socioeconomici presentate in I Sot-
tocommissione nella seduta Qui Basso dichiarava maniera esplicita e precisa proprietà non può essere sociale», sia un’altra che —
del 16 ottobre 1946. di voler affermare nel nuovo
testo
in
sia una disposizione «per stabilire che la esercitata
in senso
contrario
all’utilità
riprendendo quanto espresso dall’articolo 1 della Relazione di Togliatti — riconosceva il diritto allo Stato di «determinare i piani di produzione e di investimento». Negli articoli aggiuntivi presentati da Basso si diceva infatti che «il diritto di proprietà non può essere esercitato in senso contrario all’utilità sociale o in modo da arrecare pregiudizio alla libertà e ai diritti altrui» e che «spetta ai pubblici poteri stabilire piani economici nazionali e locali per regolare e coordinare le attività attinenti agli investimenti, alla produzione, allo scambio ed alla distribuzione dei beni e dei servia 128:
Proposte queste indirizzate ad orientare l’intervento pubblico verso il benessere collettivo, verso una azione concreta (quale poteva essere quella svolta da una pianificazione economica) tesa ad «armonizzare» le esigenze, le libertà, i diritti, le sicurezze individuali con
quelle dell’intera collettività”, a creare — all’interno di un contesto teorico che fa sempre riferimento ad una istanza di liberazione non più del singolo individuo, ma dell’«insieme sociale»! — pari condizioni materiali di partenza a tutti gli appartenenti ad una medesima comunità politica. Sempre all’interno del capitolo sui rapporti economici e in relazione alla specifica attenzione bassiana nei confronti della necessità di contemperare nel nuovo testo costituzionale i principi di libertà con quelli di giustizia sociale ritenuti «momenti inscindibili della stessa aspirazione umana» !9, sembra opportuno ricordare le occasioni in cui Basso intervenne in I Sottocommissione sul diritto di sciopero (articolo 40), considerato uno dei diritti sociali fondamentali delle classi lavoratrici "5°. Il 14 gennaio ad esempio, pronunciando un significativo seppur breve intervento contro la proposta della 1 Sottocommissione di vin-
colare le modalità dell’esercizio di tale diritto all’osservanza di specifici limiti, i quali ne avrebbero impedito la piena e libera attuazione,
169
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
Basso affermava il principio dell’autodeterminazione dei lavoratori, e al medesimo tempo si pronunciava a favore dell’intervento della Costituzione nella regolazione dei rapporti sociali. Il diritto di sciopero, legato all’aspirazione di una concreta partecipazione della classe lavoratrice alla gestione della res publica e al già previsto diritto di organizzazione sindacale del quale esso era «lo strumento necessario» 8", al pari di altri diritti socioeconomici,
doveva essere
allora garantito dalla legge e non essere abbandonato al casuale esito dei rapporti tra le forze sociali contrapposte. In questo senso l’impegno di Basso era volto ad inserire il diritto di sciopero all’interno del testo costituzionale, opponendosi sia a quanti (Lucifero ad esempio) proponevano di rimandarlo alla legislazione ordinaria, sia a quanti desideravano porre dei ristretti e ben precisi limiti, aprioristicamente stabiliti, a tale diritto, in nome magari del principio della finalizzazione dei diritti al bene comune. A parere di Basso — il quale con l'affermazione secondo cui «non sono gli articoli di una Costituzione che possono imporre una disciplina» si faceva uno dei massimi sostenitori del riconoscimento illimitato del diritto di sciopero — gli unici limiti non suscettibili di interpretazioni restrittive a danno della classe operaia erano quelli posti dalla stessa coscienza civile dei lavoratori, sempre più consapevoli della loro attiva presenza nella «costruzione dello Stato democratico» !8. Se dunque l’articolo 40 rappresentava già agli occhi di Basso, una realtà di fatto, il risultato di un periodo di lotte («si tratta dell’unico diritto concreto che i lavoratori già hanno») 84, proposte come quelle concernenti l’utilità sociale della proprietà privata o la programmazione di un intervento pubblico volto al benessere economico generale, e soprattutto articoli come il 3 e il 4 («ponendo certe direttive
programmatiche all’azione dei futuri organi costituiti sul campo dei rapporti sociali» e affermando i diritti in essi sanciti come «un programma da svolgere [...] attraverso quegli interventi statali, i cui lineamenti essenziali sono parzialmente prestabiliti» nella Costituzione5) sostituivano ad una «democrazia puramente formale una democrazia sostanziale» e riflettevano lo spirito di una Costituzione «aperta verso tutte le trasformazioni democratiche future» 5%. Il riconoscimento di un carattere programmatico del testo costituzionale, implicito nella affermazione secondo la quale la Costituzione conteneva disposizioni concretamente volte ad una progressiva trasformazione degli assetti esistenti, permette di collocare l'impegno di Basso all’interno di quella complessiva elaborazione giuridico-politica volta a dare, sulla scia delle acquisizioni più progressive della dottrina costituzionale, valore normativo a queste disposizioni pro-
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3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO BASSO
ALLA
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grammatiche del testo fondamentale. Non è un caso che infatti Basso riconobbe esplicitamente questo valore progressivo e dirarzico della Costituzione, affermando che «la nostra è quindi una Costituzione dinamica, una Costituzione cioè che, come dice Crisafulli, contiene
in sé “la prospettiva e il senso di un movimento dello sviluppo della società statale in certe direzioni schematicamente previste dalla Costituzione” e “pertanto, complessivamente
considerata, ci dà non sol-
tanto la figura essenziale di un modo di essere attuale (previsto e disciplinato come attuale) dell'ordinamento considerato, ma anche ed insieme la figura essenziale di un modo di essere futuro dell’ordinamento medesimo (previsto, cioè, e disciplinato come possibile ed anzi come necessario ossia come giuridicamente doveroso)”» 37.
Nello stesso discorso pronunciato in sede di discussione generale alla Costituente, Basso esprimeva un parere positivo nei confronti di una Costituzione che si presentava sia come il frutto di precedenti trasformazioni sociali, e dunque adeguata ai processi storici in atto e allo «sviluppo generale» delle contemporanee democrazie occidentali, sia soprattutto come la premessa di ulteriori sviluppi futuri ?. Proprio il carattere programmatico della Costituzione permetteva infatti di porre i presupposti materiali di un ulteriore progresso nel campo dei rapporti sociali e dunque di dar vita ad un assetto democratico capace di soddisfare i nuovi bisogni sociali delle masse popolari e lavoratrici e di incrementare il protagonismo della sovranità popolare. Già precedentemente in sede di adunanza plenaria Basso si era mostrato d’accordo con Togliatti circa l’importanza e la concretezza di alcune norme fondamentali del testo (ad esempio quella sul diritto al lavoro), le quali essendo subordinate «a talune profonde trasformazioni», erano rivolte a un futuro di progresso sociale, al «legislatore futuro», e pertanto dotate, come
«norme
concrete»,
di
efficacia giuridica al pari di altre norme più specifiche e di immediato riferimento '4°. In questo senso Basso polemizzava con quanti tentavano di inserire nel testo norme che si presentavano come formulazioni ideologiche (soprattutto di tipo religioso), le quali andando «al di là della giuridicità della norma», rischiavano di neutralizzare il valore concreto e normativo di tutte quelle disposizioni con prevalente «contenuto sociale», redatte in modo da essere «veramente articoli di legge», con un determinato «contenuto di diritto», attuabili nel futuro.
Se Togliatti infatti non aveva mancato di osservare che la Costituzione italiana doveva avere necessariamente un carattere programmatico; Basso sulla scia della propria concezione dialettica e dina-
mica dell’ordinamento giuridico-costituzionale, e più in generale dei
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
processi storici, non soltanto mostrava di essere della stessa opinione ma pure orientava tutta la propria azione in questa direzione (basti pensare ad esempio al suo impegno nella formulazione dell’articolo 3). Direzione questa riconosciuta generalmente come quella maggior-
mente foriera di sviluppi progressivi in particolare per quelle componenti della società (le masse lavoratrici) che per la prima volta a pieno titolo venivano riconosciute sovrane indiscutibili, reali soggetti di diritto, sia nella tutela dei loro interessi collettivi, sia in quella delle loro libertà individuali, all’interno di un equilibrio tra queste due istanze, ritenuto da Basso consustanziale alla modernità stessa '!*. In Italia infatti a differenza che in Unione Sovietica, dove la
Costituzione codificava «una situazione creata attraverso un’attività rivoluzionaria
durata venti anni», non si erano
ancora verificate le
trasformazioni necessarie per l'immediata attuazione delle disposizioni, profondamente agognate dalla «maggioranza del popolo», aventi il nuovo contenuto sociale da dare «ai diritti dei cittadini». Il testo italiano dunque doveva non solo affermare questi nuovi diritti sociali, ma anche «sancire determinate norme le quali, applicate, serviranno a garantirli» nel futuro, orientando la stessa azione del legislatore presente alla creazione di quelle «condizioni di fatto», che sono premessa della realizzazione di un determinato diritto e dunque del contenuto medesimo della Legge fondamentale'#. Tanto per Togliatti che per Basso, in questo senso polemici con quanti (ad esempio Calamandrei) non ritenevano opportuno far entrare nel nuovo testo norme non immediatamente “azionabili”, la natura programmatica della Costituzione permetteva a questa di essere caratterizzata dal «principio della irreversibilità del processo democratico», il quale impegnava sia le istituzioni che il popolo in un unico progetto collettivo di natura ampiamente democratica '43, 3.5
Conclusioni
L'impegno di Lelio Basso alla Costituente fu dunque rilevante: esso va inquadrato nell’ambito di un più generale percorso intellettuale e politico volto alla trasformazione dell'ordine esistente secondo i termini di una analisi dialettica della realtà e del processo rivoluzionario nella quale per giungere al capovolgimento dei rapporti sociali capitalistici e alla conseguente instaurazione del nuovo governo democratico delle classi lavoratrici, era necessario operare pazientemente all’interno della stessa società borghese, sfruttandone tutte le contraddizioni oggettive e strutturali.
7a,
3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
Se resta vero che le sinistre, PSIUP!44 e PCI (come si avrà modo di
dire più avanti), non elaborarono un vero e proprio programma adeguato al loro stesso impegno assunto nel nuovo contesto costituzionale; se resta vero che esse non approfondirono in maniera adeguata «gli studi sul futuro ordinamento costituzionale», mostrandosi alcune volte incerte e sprovvedute rispetto «alle correnti della cultura giuridica internazionale» proprio negli anni fondamentali che precedettero e in un certo senso prepararono il dibattito costituzionale '#, tuttavia rimane altrettanto indiscutibile che esse riuscirono comunque ad influire concretamente sul nuovo assetto giuridico-costituzionale tramite figure di spicco come Basso (o Terracini). In particolare Basso da un lato si mostrò sempre attento alle moderne elaborazioni giuridico-istituzionali, le quali evidentemente ebbero modo di influire più o meno indirettamente sulla sua azione, sia che fossero state assimilate tramite studi ed elaborazioni teoriche e metodiche (come poteva essere nel caso del suo riferimento ad autori come Kelsen), sia in modo più empirico (come per il riferimento alla realtà istituzionale americana di Roosevelt). Dall'altro lato egli giunse a fornire elementi utili per la composizione della prima parte del testo costituzionale (quella che peraltro richiedeva una preparazione meno “tecnica”) anche grazie ad una elaborazione più complessiva tesa fin dagli anni delle prime riflessioni giovanili, tramite percorsi di lettura “eterodossi” (quelli marxiani o luxemburghiani, ma anche quelli attinenti alla materia religioso-spirituale) a superare
il modello
politico,
istituzionale,
e filosofico
liberale,
a
fronte di eventi storici — vissuti da Basso in prima persona — che lo rendevano sempre più palesemente inadeguato. In questo senso lo stesso retroterra più immediato delle sue proposte costituzionali (ad esempio dell’articolo 3), indicato in una relazione presentata a un Comitato centrale del PSIUP antecedente i lavori dell'Assemblea costituente, faceva riferimento principalmente ad un disegno generale (non specificamente di natura giuridica) di inserimento della classe lavoratrice nel moderno Stato repubblicano, il quale dunque segnava una netta rottura nei confronti degli assetti istituzionali precedenti. Secondo Basso prioritariamente andava garantita la centralità del cittadino-lavoratore in tutte le sue esigenze fondamentali, assieme al riconoscimento dell’importanza della «funzione di una nuova democrazia estesa a tutti i campi della vita sociale», «vissuta ogni giorno, sul luogo stesso del lavoro e della produzione», come «strumento
politico della classe lavoratrice» medesima. Attraverso un completo piano di riforme da Basso appena accennato (sul campo assistenziale, in quello sindacale ed anche aziendale), veniva programmaticamente
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
prospettato il nuovo modello di vita democratica, avente le proprie radici nella «prassi democratica quotidiana e quindi nella coscienza attiva del mondo del lavoro e non soltanto in alcuni articoli di legge o in alcuni istituti staccati dalla vita concreta delle masse» #7. Anche nell’ambito delle strutture partitiche e dei luoghi della produzione, cioè degli snodi cruciali dell’organizzazione di base del conflitto, capaci di porre le basi materiali di una trasformazione rivoluzionaria del paese, l’intera azione di Basso si dispiega all’interno di quest’orizzonte, motivato da un lato dallo sforzo di saldare il cambiamento
giuridico-istituzionale con il rinnovamento dei processi produttivi; coerente dall’altro lato con l'opposizione di Basso nei confronti della politica del CLN (sempre più incapace ai suoi occhi — come si è avuto modo di osservare — di porre le premesse di una rottura con l’ordinamento passato). In questo senso si può dire che Basso contribuì soprattutto nello specifico dibattito costituzionale a porre con «forte tensione etica e intelligente fantasia giuridica»! le più solide basi delle «trasformazioni democratiche future» previste dalla Costituzione italiana. Note 1. Secondo Predieri, Basso faceva parte di quei costituenti che non erano propriamente «tecnici del diritto», ma politici con una preparazione comunque tecnica. Cfr. A. Predieri, La dinamica delle istituzioni, in “Politica del diritto”, 1971, p. 237. 2. A tale proposito cfr. le medesime considerazioni bassiane in L. Basso, Marx: smo e democrazia, in “Problemi del socialismo”, n. 9, gennaio-marzo 1978, p. 10 e Id., Società e Stato nella dottrina di Marx (in E. Collotti, O. Negt e F Zannino, Lelio Basso. Teorico marxista e militante politico, Franco Angeli, Milano 1979, p. 104). 3. Basso, Società e Stato nella dottrina di Marx, cit., pp. 107, 112.
4. Per questa citazione che Basso riporta dalla Critica del programma di Gotha di Marx, cfr. L. Basso, Giustizia e potere. La lunga via al socialismo, in “QUALE giustizia”, n. 1-12, settembre-dicembre 1971, p. 649. s. Cfr. Negt, La teoria marxista del diritto, in Carandini (a cura di), Stato e teorie marxiste, cit., p. 119.
6. Basso, Giustizia e potere. La lunga via al socialismo, cit., p. 651. 7. Basso, Stato e società nella dottrina di Marx, cit., p. 1.
8. E in particolare nell’Ideologia tedesca che Marx, come riporta Basso, spiega questo processo di alienazione, strettamente connesso all’uso particolaristico degli interessi generali e collettivi. Scrive infatti Basso che è in questo senso «che Marx parla dell’“interesse ‘generale’ illusorio sotto forma di Stato» (1b:d.). 9. Ivi, p. 128.
ro. Barberi, Stato e diritto, cit., p. 53. ti. Come si è avuto modo di argomentare resta centrale nell’elaborazione di Basso il riferimento alle affermazioni marxiane contenute nello Herr Vogt, sull’«intervento cosciente» della classe antagonista per forzare le contraddizioni oggettive esistenti in seno alla società capitalistica. Cfr. Basso, La natura dialettica dello Stato secondo Marx, cit., p. 28.
174
3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
12. Cfr. L. Basso, Introduzione, in AA.vv., Stato e crisi delle istituzioni, Mazzotta, Milano 1978. 13. Cfr. Basso, Giustizia e potere, cit., pp. 648-9. 14. L. Basso, Sulla funzione costituzionale dei partiti politici, in “Problemi del socialismo”, n. 5, maggio 1963, p. s41. 15. Basso, Stato e società nella dottrina di Marx, cit., p. 133. 16. Basso, Giustizia e potere, cit., p. 650. 17. Ibid. Analogamente Basso scrive in L. Basso, L’utilizzazione della legalità nella fase di transizione al socialismo, in “Problemi del socialismo”, n. 5-6, settembredicembre 1971. 18. Rodotà, Lelio Basso: la vocazione costituente, cit., p. 20. 19. Basso, Giustizia e potere, cit., p. 654. 20. L. Basso, in I limiti dell'ingegneria costituzionale, Tavola rotonda con G. Galli, L. Basso, N. Bobbio, N. Matteucci, in “Biblioteca della libertà”, n. 43, marzoaprile 1975, p. 89. In questi stessi termini Basso scrive sull’“Avanti!” del 3 giugno 1950 (Forze sociali e forme costituzionali). 21. Basso, in I liziti dell'ingegneria costituzionale, cit., p. 88. 22. Cfr. L. Basso, Intervento, in F. Livorsi (a cura di), Stato e costituzione, Atti del convegno organizzato dalla Fondazione Basso-Issoco e dal Comune di Alessandria, Marsilio, Venezia 1977, pp. 125 ss. 23. Cfr. Rodotà, Lelio Basso: la vocazione costituente, cit., p. 19. Qui Rodotà specifica che Basso fu «assistito dalla fiduciosa sapienza giuridica di Massimo Severo Giannini» nella configurazione dell’art. 3. A questo proposito cfr. la testimonianza di Giannini, in Id., Costituzione e Stato pluriclasse, cit., pp. 280 ss. 24.
Basso, Stato e costituzione, cit., p. 130.
2AMIVIpiAI33: 26. Pombeni, La Costituente, cit., pp. 106-7. 27.
Basso, Giustizia e potere, cit., p. 61.
28. Basso, I/ principe senza scettro, cit., pp. 31-2. 29. È interessante osservare come l’espressione di Lassalle «Stato guardiano notturno» venga ripresa da Franz Neumann (Lo stato democratico e lo stato autoritario, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 245, 298) per demistificare la pretesa dell’ideologia libe-
rale e liberista secondo cui l’intervento dello Stato sarebbe inesistente e per dimostrare invece l’importanza dell’intervento pubblico nella regolazione di queste presunte spontanee forze sociali a tutela dell'ordine costituito. Lo stesso Basso (Il principe senza scettro, cit., p. 49) dichiarava: «è evidente che lo stato liberale modello non è mai esistito. Tuttavia aveva retto per molti decenni la finzione liberale che aveva permesso alla classe dominante di opporsi con successo ad ogni tendenza sociale, ad ogni richiesta di intervento statale nella disciplina dei rapporti di lavoro e in genere ovunque un intervento statale fosse giudicato pregiudizievole ai suoi interessi». 30. Ivi, p. 31. Ivi, p. 32. Ivi, p. 33. Ivi, p. 34. Basso,
36. 48. 49.
188. Giustizia e potere, cit., p. 652.
35. Basso, I/ principe senza scettro, cit., p. 183. 36. Ivi, p. 24. 37. Ivi, p. 185. 38. G. La Pira, AC, I SC, 9 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., 39. L. Basso, AC, I SC, 10 settembre 1946, ivi, p. 326.
175
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
40. È noto infatti che il compito di redigere le relazioni sull’organizzazione costituzionale dei diritti civili venne data a La Pira e a Basso, autori di due diverse proposte generali. Cfr. G. La Pira, Relazione del deputato La Pira Giorgio sulle libertà civili, in AC, 1 SC, Atti della Commissione per la Costituzione, Relazioni e proposte, cit.; L. Basso, Relazione del deputato Basso Lelio sulle libertà civili, ivi.
41. Cfr. P. Togliatti, AC, 1 SC, 9 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 319-20. 42. Basso, AC, I SC, 10 settembre 1946, ivi, p. 326.
43. Così Pombeni (I/ gruppo dossettiano e la fondazione, cit., p. 234), a proposito della attività del gruppo dossettiano. 44. Come si è gia avuto modo di illustrare nel secondo capitolo, Basso era stato autore di alcuni articoli relativi a questa problematica della libertà, nonché questo era stato l’argomento della sua prima tesi in filosofia del diritto ed anche in un certo senso della sua seconda tesi in filosofia. Ad esempio in Problema ai liberali, cit., egli si era espresso a favore di un contenuto concreto di libertà, contro quello astratto e
compartimentato dell’elaborazione liberale. Analogamente Basso fece in La crisi della democrazia, cit. 45. Cfr. L. Basso, Le fonti della libertà, in “Rivoluzione liberale”, n. 20, 17 maggio 1925.
46. A questo proposito cfr. anche La Riforma protestante e il pensiero europeo, cit. 47. Basso, AC, I SC, 10 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 326-7.
48. Basso, I/ principe senza scettro, cit., p. 39. 49. Ivi, p. 40. so. Salvati, Il partito nell’elaborazione dei socialisti, cit., p. 264.
st. Si vedano ad esempio l’intervento di La Pira nella seduta del 9 settembre 1946 e quello di Dossetti nella seduta del 10 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 316-7, 328. 52. Basso, AC, I SC, 10 settembre 1946, ivi, p. 326.
53. Lo stesso Basso continuò a manifestare il proprio dissenso nei confronti di questa naturalità e anteriorità dei diritti individuali (ivi, pp. 329 ss.). 54. P. Pombeni, Individuo/persona nella Costituzione italiana, in “Parole chiave”, n. IO-II, 1996, pp. 198, 217.
55. In relazione al noto tema del compromesso raggiunto in 1 Sottocommissione tra le culture più influenti presenti (la cattolica, la marxista e la liberale), è Basso stesso ad affermare che questa espressione, solitamente spregiativa, sta ad indicare non una «giustapposizione di principi inconciliabili, ma rappresentò una sintesi non infelice, sostanzialmente vitale» sui principi generali «di una concezione democratica e moderna della società». Basso, I/ principe senza scettro, cit., p. 125. In questi termini cfr. anche L. Basso, Problemi costituzionali, in “Avanti!”, 7 agosto 1946. 56. L. Basso, AC, I SC, 11 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit.,
p. 336. 57. Ibid. Nel corso di questa seduta anche Togliatti interveniva per affermare l’importanza di questo articolo. In relazione all'attenzione di Togliatti nei confronti dei diritti sociali si veda in particolare S. D’Albergo, La cultura giuridica e Togliatti, in Agosti (a cura di), Togliatti e la fondazione dello Stato democratico, cit. 58. Cfr. Basso, Relazione, cit. p. 9. E noto che Basso attribuì molta importanza
all'espressione «di fatto», la quale stava a sottolineare la centralità di un contenuto concreto dell’eguaglianza e della libertà. 59. Ivi, p. 10.
60. Si veda in relazione all’integrazione dell’art. 3, la seduta del 22 marzo 1947 (La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 584-5).
176
3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
61. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, cit., p. 32. 62.
Basso, Il principe senza scettro, cit., p. 23. 63. Ivi, p. 26. 64. Che ivi, pp. 46-7. Sembra molto importante sottolineare che il riferimento che Basso fa in questo caso ai due concetti di libertà (libertà di e libertà da), in
realtà non si richiama affatto al significato dato tradizionalmente dal pensiero giuridico-filosofico a queste due diverse nozioni. Normalmente infatti si intende la libertà da come la libertà «negativa», tipica del pensiero liberale, ovvero come assenza di interferenze, coercizione ed impedimenti, rispondente alla domanda «fino a che punto può il governo interferire nella mia vita?». Mentre per libertà di si intende la libertà «positiva», derivante dalla volontà di «essere padroni della propria vita», di autogovernarsi, di essere soggetti anziché oggetti delle proprie forme di governo, che in questo senso diviene autogoverno, autodirezione, autonomia. Essa dunque risponde alla domanda «chi mi governa?» ed è connessa con la democrazia. In questo senso è interessante notare che Basso usa il concetto di «libertà-autonomia» (che egli contrappone alla positiva libertà-partecipazione) non nel senso tradizionale, secondo il quale la libertà non liberale consiste proprio nell’autonomia, nell’autodirezione, nell’essere i soggetti consapevoli, coscienti e decidenti delle proprie leggi, e forme di controllo. Nel modo classico di questa distinzione si usa pertanto libertà-autonomia nel senso in cui Basso usa il concetto di libertà-partecipazione, in quanto viene preso letteralmente il termine auto-nomia. Cfr. I. Berlin, Due concetti di libertà, in A. Passerin d’Entrèves
(a cura di), La libertà politica, Comu-
nità, Milano 1974, pp. 103-61. 65. Basso cita in occasioni diverse Neumann, con riferimento però ad un testo diverso rispetto a quello qui preso in considerazione (cfr. ad esempio Basso, I/ partito nell'ordinamento democratico moderno, cit., pp. 14, 18). Tuttavia l’analogia tra le riflessioni politico-filosofiche dei due autori, rafforzata dalla conoscenza che Basso mostra del pensatore tedesco, legittimano un accostamento ed una comparazione. 66.
Neumann,
67
IVIRp 37:
Lo stato democratico
e lo stato autoritario,
cit., Paszi
68. Ivi, p. 58. 69. Ivi, p. 52. 70. N. Matteucci, La realistica utopia democratica di Franz Neumann, ivi, pp. XIVXV.
71. Basso, I/ principe senza scettro, cit., p. 73, nota 48. 72. Ivi, p. 185.
73. Basso cita in più casi Kelsen, in particolare per ciò che attiene alla nuova configurazione di uno Stato democratico dei partiti (Partesenstaat), il quale costituisce la forma moderna di un ordinamento democratico, opposto ad un modello di Stato tradizionale oligarchico. Cfr. L. Basso, I partiti e il Parlamento, in “I problemi di Ulisse”, fasc. LVII-LIX, dicembre 1966.
74. H. Kelsen, I fondamenti della democrazia, Il Mulino, Bologna 1966, p. 14 75. Ivi, p. 19. 76. Basso, I/ principe senza scettro, cit., p. 84. 77. Cfr. Berlin, Due concetti di libertà, cit., in particolare pp. 125-30. 78. In proposito sembra essere illuminante l’articolo giovanile di Basso dal titolo La Riforma protestante e il pensiero europeo, cit., o anche Il paterno Blanc, cit. 79. L. Basso, Considerazioni sull’art. 49 della Costituzione, in ISLE (Istituto per la documentazione e gli studi legisativi), Indagine sul partito politico. La regolazione legislativa, t. 1, Giuffrè, Milano 1966, p. 135. go. Cfr. la Relazione dei deputati Merlin Umberto e Mancini Pietro sulle libertà politiche, in AC, I SC, Atti della Commissione per la Costituzione, cit.
177
LA SINISTRA
81. L. Basso, AC, 1 SC, 19 novembre
ALLA
COSTITUENTE
1946, La Costituzione della Repubblica, cit.,
p. 702. 82.
L. Basso, AC, I SC, 20 novembre
1946, ivi, p. 709. È interessente sottolineare
come per Basso il diritto di organizzarsi democraticamente in partiti era altra cosa rispetto ad una formula nella quale si riconosceva «il diritto di organizzarsi in partiti che accettino il metodo democratico». Quest'ultima poteva essere pretesto di atti legislativi arbitrari e limitativi. Mentre con la prima formulazione si intendeva dare concretezza al principio della moderna sovranità popolare e accentuare la funzione costituzionale dei partiti. Cfr. Basso, AC, 1 SC, 19 novembre 1946, ivi, pp. 705-6.
83. Basso, AC, A, 6 marzo 1947, ivi, pp. 206, 208. 84. È noto infatti che la seconda proposta di Basso venne rinviata ad un esame comune con la 1 Sottocommissione, e poi però mai presa in seria considerazione, alla lu-
ce anche di una serie di perplessità manifestatesi già in 1 Sottocommissione da parte delle forze comuniste e democristiane, pur favorevoli al riconoscimento costituzionale dei partiti e delle loro funzioni. Sia Togliatti che Moro che Dossetti esplicitarono infatti nella seduta del 20 novembre i propri dubbi circa i criteri e le condizioni propo» ste da Basso, accontentandosi di un rinvio di tutta la questione, rinvio che lo stesso
Basso accettò, a patto però che si procedesse ad un «riconoscimento di funzioni costituzionali ai partiti politici», e non ad un «riconoscimento giuridico dei partiti poli. tici», ritenuto da lui stesso troppo ampio: «quando si attribuiscono ai partiti funzioni costituzionali, è implicito il riconoscimento giuridico per quel tanto che è necessario all'esercizio di dette funzioni». Cfr. la seduta del 20 novembre (ivi, pp. 710-4). Basso poi istituì una differenza tra la costituzionalizzazione dei partiti politici e la loro rego» lamentazione legislativa, mostrandosi particolarmente contrario alla seconda ipotesi, che avrebbe portato all'instaurazione di un forte e pericoloso controllo da parte dell’autorità pubblica. Cfr. Basso, I/ partito nell'ordinamento democratico moderno, cit., pp. 100 ss.; ed anche Id., Dibattiti, in ISLE, Indagine sul gr politico, cit., t. Ill, p. 930. 85. Cfr. ad esempio L. Basso, A/ di là del fascismo, in “il Caffè”, n, 7, 1° ottobre 1924. O ancor più si veda il noto 1/ Partito mea in Sa in “Quaderni di GL”, n. 7, giugno 1933, ove Basso invocava con forza la costruzione di un moderno partito socialista italiano. 86. Barberi, Stato e diritto, cit., p. 73. 87. Basso, Dibattiti, cit., pp. 919-20. 88. Cfr. I/ principe senza scettro, cit., pp. s1 ss. 89. Kelsen, I fondamenti della democrazia, cit., p. 19. 90. Basso, Sulla funzione costituzionale det partiti politici, cit., p. 543. 91. Basso, Dibattiti, cit., p. 754. 92. Cfr. Basso, Il principe senza scettro, cit., p. 67.
93. P. Togliatti, AC, 1 SC, 20 novembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 713. Secondo Fioravanti (Costituzione e popolo sovrano, cit., p. 95) proprio da questo dibattito si evince criticamente che la cultura dei costituenti non ammetteva il passaggio «dalla sovranità dello Stato, e dei suoi organi, tra cui anche il parlamento,
alla sovranità del popolo». 94. Kelsen, I fondamenti della democrazia, cit., p. 24. L'autore che Kelsen qui cita e di cui Basso mostra di essere un analitico conoscitore, in riferimento ai processi costituzionali,
è B. Mirkine-Guetzévich.
95. Sulla scelta del sistema elettorale proporzionale come opzione comune dei costituenti a partire già dal periodo precedente i lavori della Assemblea, si veda Bettinelli, All'origine della deTIRA dei partiti, cit., e anche C. Lavagna, I/ cen elettorale nella Costituzione italiana, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, a, 11, fasc. Nn. 4, 1952, pp. 849 ss. Qui l’autore (efpetbe:a come la scelta del gta ei fuiimposta, sebbene non esplicitamente, nella carta costituzionale,
178
3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
96. Kelsen, I fondamenti della democrazia, cit., p. 24. 97. Basso, Dibattiti, cit., p. 922. 98. Ivi, p. 751. 99. Ivi, pp. 751-2. 100. Ivi, pp. 922-3. roi. Sembra importante ricordare che Basso si impegnò successivamente dinnanzi a molte Corti giudiziarie per difendere, al pari di Terracini, i diritti sanciti nel testo costituzionale. Cfr. L. Basso, La democrazia dinnanzi ai giudici, s.e., Roma 1953. 102. Salvati, I/ partito nell’elaborazione dei socialisti, cit., p. 264. 103. C. Mortati, Note introduttive ad uno studio sui partiti politici nell'ordinamento italiano, in AA.VV., Studi in memoria di V. E. Orlando, CEDAM, Padova 1957, vol. 11, pp. 138-9. Al pari di Mortati Basso affermava (Basso, Dibattiti, cit., p. 751) che grazie all'art. 49 «si riconosce ai cittadini il diritto di militare in partiti, e ai partiti il diritto e dovere di partecipare alla formazione della volontà nazionale», attraverso un processo con il quale «si permette ad un sovrano collettivo come il popolo, ad una collettività di milioni di persone, di arrivare attraverso il concorso di volontà contrastanti, alla espressione in ultima analisi di una volontà unitaria». A proposito del ruolo dei partiti come «parte totale» si veda Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano, cit., pp. 95 Ss.
104. Cfr. Basso, Il partito politico nell'ordinamento democratico moderno, cit., pp. 20 ss.; Id., I/ principe senza scettro, cit., p. 73. In questo senso i partiti politici venivano ad assumere un ruolo ed una natura molto diversi rispetto a quelli avuti in età liberale. Su questo periodo e sulle trasformazioni successive del partito politico, cfr. in particolare P. Pombeni, Introduzione alla storia dei partiti politici, Il Mulino, Bologna 1985; Grassi Orsini, Quagliariello (a cura di), I{ partito politico dalla grande guerra al fascismo, cit.; G. Quagliariello (a cura di), Il partito politico nella Belle Époque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia tra ’800 e ‘900, Franco Angeli, Milano 1990. 10s. Basso, I/ partito politico nell'ordinamento democratico moderno, cit., pp. 88-9. 106.
Basso, I/ principe senza scettro, cit., pp. 69-71.
107. Basso, Dibattiti, cit., p. 927. 108. Kelsen, I fondamenti della democrazia, cit., p. 65. In un altro passo (ivi, p. 66), ripreso e citato da Basso stesso (cfr. I/ partito nell'ordinamento democratico, cit., p. 23), Kelsen affermava che «l’intera procedura parlamentare [...] con la sua tecnica dialettico-contraddittoria, basata su discorsi e repliche, su argomenti e controargomenti, tende a venire ad un compromesso. Questo è il vero significato del principio di maggioranza nella democrazia reale. Tale principio sarebbe comunque meglio chiamarlo principio maggioritario-minoritario in quanto esso organizza l'insieme degli individui in [...] maggioranza e minoranza, offrendo la possibilità di un compromesso nella formazione della volontà generale». Compromesso che, secondo Basso, «è da ricercarsi non più attraverso la discussione parlamentare ma in una discussione fra partiti». 109. L. Basso, Natura e funzione dell'opposizione nell'ordinamento costituzionale italiano, in Comitato per la celebrazione del primo decennale della promulgazione della Costituzione, Raccolta di scritti sulla Costituzione, vol. Il, Studi sulla Costituzione, Giuffrè, Milano 1958, p. 378. Cfr. anche Basso, Stato e cittadino, cit., pp. 415-6. ro. Basso, Natura e funzione dell'opposizione, cit., p. 380. ui. Così M. Ruini, Cozze si è formata la Costituzione, Giuffrè, Milano 1961, p. 44. 112. Cfr. Basso, Natura e funzione dell'opposizione, cit., p. 379. 113. Cfr. ad esempio L. Basso, I socialisti e la nuova Costituzione, in “l'Unità”, 24 novembre 1946, ove Basso esprimeva la propria opzione unicameralista. Ed anche, sul suo monocameralismo, cfr. l’intervento alla tavola rotonda con Barile, Bozzi, Mortati sul tema Occorrono nuovi congegni rappresentativi, in “Il cammino”, n. 1, gennaio-
marzo 1972, p. 32.
179
LA SINISTRA ALLA
COSTITUENTE
114. L. Basso, AC, A, 10 aprile 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., pp.
754 SS.
rs. L. Basso, AC, I SC, 12 settembre 1946, ivi, p. 347. 116. Cfr. U. Terracini, AC, CC, adunanza plenaria, 25 gennaio 1947, ivi, pp. 181 ss. 117. A proposito di questa espressione, si apriva un dibattito il 19 settembre 1946 in 1 Sottocommissione (ivi, pp. 376 ss.) tra quanti, come Basso ritenevano necessario il mantenimento di questa formulazione, volta ad orientare l’azione del legislatore, e quanti come Togliatti ritenevano questa espressione inutile. A tal proposito cfr. Carissimi, Ideologie penali e tecnicismo giuridico, cit., p. 462. 118. Cfr. le sedute del 17 e 18 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit.,
PP. 357 ss.
119. Cfr. ad esempio gli interventi di Togliatti nella seduta del 20 settembre 1946, (ivi, pp. 386 ss.), in relazione all’art. 16; ed anche quelli della seduta del 19 settembre 1946 (ivi, pp. 380 ss.), a proposito dell’art. 14. 120.
Basso, AC, A, 10 aprile 1947, ivi, P. 757.
121.
L. Basso, Interventi,
in U. Terracini, E. Perna,
L. Barca, U. Spagnoli,
P.
Ingrao, La Riforma dello Stato, Atti del convegno promosso dall'Istituto Gramsci, 1618 gennaio 1968, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 474. 122. Basso, I/ principe senza scettro, cit., p. 186. 123. L. Basso, AC, 1 SC, 1° ottobre 1946, La Costituzione
della Repubblica,
cit.,
p. 463.
124. Di questa Relazione sembra importante mettere in rilevo, oltre al già discusso art. 3 concernente il diritto di tutti ad organizzarsi liberamente e democraticamente in partito politico, l’articolo 1, nel quale Basso in riferimento al diritto universale di voto affermava che «tutti i cittadini concorrono all’esercizio di questo diritto, tranne
coloro che ne sono legalmente privati o che volontariamente non esercitino un’attività produttiva». Secondo lui si trattava con questa affermazione di dare concretezza alla idea sottesa a tutto l'ordinamento costituzionale della centralità del lavoro, quale fondamento della nuova democrazia italiana. Cfr. ad esempio L. Basso, AC, 1 SC, 15 novembre 1946, ivi, p. 688. 125. Basso, Interventi, cit., p. 475. 126. L. Basso, AC, I SC, 16 ottobre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., p.
61. Sul significato di queste proposte si veda ad esempio Rodotà, Lelio Basso: la vocazione costituente, Cit., pp. 24-5. 127. Cfr. Basso, AC, I SC, 1° ottobre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 469.
128. Berlin, Due concetti di libertà, cit., p. 146. 129. Basso, AC, A, 6 marzo 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 204. 130. In generale l’orientamento uscente in relazione all’ari. 40 dalla 1 Sottocommissione fu più avanzato rispetto a quello prevalso nella M, e ciò anche grazie alla
presenza di Basso. Cfr. su tutto il dibattito P. Ciarlo, Lo sciopero tra fatto e diritto nella fase costituente: Italia e Francia, in De Siervo (a cura di), Scelte della Costituente,
vol. II, cit., pp. 341 ss. 131. L. Basso, AC, I SC, 15 ottobre 1946, La Costituzione della Repubblica,
cit.,
p. 542. 132. 133. 134. 135. 136. 137.
L. Basso, AC, CC, adunanza plenaria, 14 gennaio 1947, ivi, p. 94. Basso, AC, I SC, 15 ottobre 1946, ivi, p. 542. Ibid. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, cit., pp. 32, 154. Basso, AC, A, 6 marzo 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 204. Cfr. Basso, I/ principe senza scettro, cit., p. 194. In questa stessa pagina Cè, a
conferma del fatto che Basso si muove sulla scia delle eleborazioni più alte raggiunte
180
3. IL CONTRIBUTO
DI LELIO
BASSO
ALLA
I SOTTOCOMMISSIONE
dalla giuspubblicistica costituzionalista, un richiamo esplicito anche a Mortati, al quale Basso si rifece spesso soprattutto per la materia attinente alla funzione dei partiti. 138. Ivi, p. 188. 139. Basso, AC, A, 6 marzo 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 205. 140. Cfr. L. Basso, AC, CC, adunanza plenaria, 25 ottobre 1946, ivi, p. 51.
I4i. A questo proposito
sembra
importante rimandare
al giudizio che Basso
espresse in sede di I Sottocommissione su questo delicato tema. Cfr. Basso, AC, I SC,
I° ottobre 1946, ivi, p. 469. 142. P. Togliatti, Ac, Cc, adunanza plenaria, 25 ottobre 1946, ivi, p. 48. 143. Cfr. Basso, I/ principe senza scettro, cit., p. 195 e analogamente p. 18. In questo senso anche Id., La Costituzione è nata dalla Resistenza, in “Avanti!”, 25 aprile
1954. Su questo si veda anche C. Lavagna, Costituzione e socialismo, Il Mulino, Bologna 1977, in particolare p. so. 144. Sulla politica generale del Partito socialista in rapporto alla costruzione del nuovo Stato cfr. in particolare F. Taddei, La Costituente nella politica del psi, in Ruffilli (a cura di), Cultura politica e partiti, vol. Il, cit. 145. Cfr. Basso, Stato e Costituzione, cit., pp. 65 ss. Qui Basso muovendo da un paragone tra il caso francese e quello italiano, rilevava che in Italia il rapporto tra le elaborazioni uscenti dalla Resistenza e quelle affermate nel testo costituzionale era stato meno forte, a fronte soprattutto di vent'anni di fascismo, che avevano allontanato gli italiani più consapevoli dalle correnti giuridiche internazionali più note. Tuttavia secondo Basso era restata della Resistenza «una profonda volontà democratica». Cfr. Basso, La Costituzione è nata dalla Resistenza, cit. Sulla scarsezza di riferimenti
puntuali da parte delle sinistre (PSIUP e PCI) nei confronti di quei temi specifici di carattere eminentemente giuridico-costituzionale nel periodo precostituente, cfr. in particolare Atripaldi, Introduzione, in Id., Il catalogo delle libertà civili, cit.; Taddei, La Costituente nella politica del PSI, cit.; Bettinelli, All'origine della democrazia dei partiti, cit., sulla scia degli studi di Pavone
(in particolare C. Pavone, Sulla continuità dello Stato in Italia 1943-45, in “Rivista di Storia contemporanea”, n. 2, 1974). 146. A tal proposito è stato osservato che Basso parlando, in sede di Assemblea generale il 6 marzo 1947, «di partiti, non fece il nome di Kelsen, ma probabilmente lo sottintendeva», come dimostrano alcuni suoi scritti successivi. Cfr. S. Basile, La cultura politico-istituzionale e le esperienze «tedesche», in De Siervo (a cura di), Scelte della Costituente, vol. I, cit., p. 106. 147. L. Basso, La classe lavoratrice nello Stato repubblicano, in “Socialismo”, n. 7, dicembre 1945-gennaio 1946, pp. 2-6. In questi stessi termini Basso tornerà ad esprimersi in Derzocrazia e legalitarismo (in “Avanti!”, 23 febbraio 1947). 148. G. Pasquino, Lelio Basso, in “Quaderni costituzionali”, a. VII, n. 3, dicembre 1987, p. SI4.
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4 Il contributo di Umberto Terracini e Renzo Laconi alla II Sottocommissione
41 Il Partito comunista di fronte al nuovo ordinamento istituzionale
L'analisi del contributo che Terracini e Laconi diedero ai lavori di redazione del testo costituzionale, in particolare nel seno della I1 Sottocommissione dei Settantacinque relativa all’organizzazione istituzionale del nuovo assetto repubblicano, va introdotta da una premessa di carattere più generale, circa il rapporto esistente tra il Partito comunista e la strutturazione di quello che si accingeva ad essere il nuovo Stato democratico. A lungo la storiografia si è criticamente soffermata sulla insufficiente attenzione del PCI nei confronti dei temi giuridico-istituzionali, la quale avrebbe anche causato una subordinazione della forza politica in teoria maggiormente interessata al rinnovamento complessivo
nei confronti delle elaborazioni di altre forze politiche più moderate, spesso inclini alla restaurazione dell’antico status quo anche sul ter-
reno dei rapporti statali. In questo
senso
costituiscono
oramai
patrimonio
acquisito le
dimostrazioni relative alla scarsezza di teorie di tipo costituzionale nei documenti ufficiali del PcI all’altezza del periodo resistenziale e agli albori della Repubblica italiana. Basti ad esempio analizzare in relazione al dibattito delle cinque lettere il testo redatto dai comunisti per notare immediatamente l’assenza di concrete proposte concernenti una riorganizzazione democratica del nuovo Stato attorno al cardine dei CLN, e piuttosto una maggiore attenzione nei confronti della trasformazione dei CLN ih organismi capaci di esprimere l'«iniziativa e l’attività democratica delle masse»!, di coinvolgere il più ampio numero di soggetti politico-sociali nella nuova vita pubblica post-bellica. In questo documento, così come in altri, centrale sem-
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
bra essere — più che la configurazione precisa da un punto di vista giuridico del nuovo Stato e della sua nuova Legge fondamentale e più che l’attenzione nei confronti di istituti (quali appunto i CLN) atti a costruire una concreta alternativa di «autogoverno democratico» allo «stato “centralizzato e autoritario”»? — la questione della partecipazione di massa alla gestione del paese, la nuova entrata delle masse operaie nella realtà politica nazionale, la loro nuova funzione di classe dirigente, con la conseguente necessità di legittimazione che il PCI aveva, quale strumento di espressione di questi interessi, nel nuovo assetto repubblicano. Anche alla luce di questa prioritaria esigenza di legittimazione di un soggetto costitutivamente caratterizzato da una dimensione anti-
stituzionale — legittimazione legata per altro alla necessità di “operare” all’interno di un contesto nient’affatto socialista, bensì ancora “borghese”, ove tentare comunque un’azione di rinnovamento gene-
rale — è stato spiegato il privilegiamento da parte del PcI del rapporto e dell'unità tra i tre partiti di massa rispetto alle problematiche di natura giuridica?. In questo senso i rimproveri maggiori sono stati
mossi alla mancanza di «un’adeguata indicazione degli istituti che avrebbero dovuto caratterizzare il presumibilmente lungo periodo di transizione» * dell’età postfascista, al non privilegiamento dei CLN quali organi di democrazia diretta (i quali non per caso finiscono per perdere progressivamente le potenzialità di strutture politiche alternative rispetto all’«ordine burocratico dello Stato prefascista»5) e perciò alla incapacità del PCI di farsi promotore di un reale cambiamento dello Stato dal basso. La democrazia di tipo nuovo di Togliatti dunque sarebbe «di “nuovo tipo” [...] non per caratteristiche istituzionali nuove e per i contenuti programmatici che storicamente assume», essa anzi muove-
rebbe dalla sostanziale accettazione «dei capisaldi della democrazia borghese», compresa quella delle strutture statuali, considerate un terreno neutrale, mutante di segno solazzente in relazione ai soggetti sociali legittimati ad occuparle e a dirigerle. A questo proposito la critica si è mossa contro quella che è stata
considerata una delle debolezze in prizzis teoriche e poi anche politiche più lampanti del PCI (e del PSI), ovvero quella attinente al perseguimento di una linea «chiamata di “occupazione delle istituzioni” o di “lunga marcia attraverso le istituzioni”», la quale avrebbe portato le forze di sinistra tanto a valutare in termini di pura tecnicità e quindi di «indipendenza» e «neutralità»? gli apparati istituzionali ed amministrativi, quanto conseguentemente a non porsi il problema di un loro rinnovamento, considerato del tutto subordinato rispetto alla
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
Il SOTTOCOMMISSIONE
scelta degli uomini giusti e rispetto alla determinazione di una loro specifica funzionalità sociale. Se dunque appare chiaro il riconoscimento generale del «privilegiamento — da parte del PCI — del rapporto tra i partiti rispetto al problema delle trasformazioni istituzionali»$,le motivazioni di questo deficit sono state ascritte a numerose e spesso anche diverse cause,
non ultima quella relativa alla mancanza di una adeguata «attrezzatura del PCI ad affrontare organicamente, in tutte le sue articolazioni il rapporto tra Stato e società civile e ad utilizzare appieno il potenziale delle istituzioni dello Stato moderno per la trasformazione delle strutture sociali e lo sviluppo della democrazia»?. Mancanza questa ultima riconducibile anche a livello complessivo, secondo alcune voci della storiografia, al «vuoto teorico» di una concezione dello Stato inadeguata, qual era quella appartenente alla «intera tradizione di pensiero marxista e internazionalista», soprattutto nella sua derivazione leninista!°. Da un lato la debolezza del Partito comunista riscontrabile in più sedi ufficiali (oltre che nella lettera già menzionata, nelle risoluzioni al v congresso, o negli interventi ai Comitati centrali del 1946) derivava principalmente dalla convinzione che lo strumento più adatto alla trasformazione globale (anche statale) fosse il partito, unico mezzo capace di operare per l’inserimento delle masse all’in-
terno del quadro istituzionale post-liberale, obiettivo quest’ultimo ritenuto quello principale nel processo di democratizzazione del nuovo Stato. Dall’altro lato quella che è stata valutata come la mancanza di una specifica attenzione all’elaborazione giuridico-istituzionale conduceva il PCI a non mettere in discussione le istituzioni tipicamente borghesi, prima fra tutte quelle parlamentari-rappresentative, e dunque a non prefigurare concretamente organismi di democrazia diretta alternativi e nuovi, tali da rompere la “continuità dello Stato attraverso il fascismo” più volte rimarcata come questione centrale della storia italiana. L'obiettivo della Repubblica parlamentare, propagandato dal PCI, rispondeva ad «una formulazione tutto sommato tradizionale, di stampo quasi ottocentesco, in cui il popolo è “depositario” di una sovranità che è destinata a divenire concreta solo attraverso l'istituzione parlamentare». Sulla scia di questa impostazione si comprende allora come il partito politico fosse (e non soltanto per i comunisti) lo strumento necessario per inserire il po-
polo sovrano «nella tradizione della sovranità dello Stato», ritenuto ancora il soggetto sovrano fondamentale a scapito del popolo stesso. In conclusione «il popolo non era per sua natura sovrano, come nella tradizione giacobina, ma diveniva tale grazie all'opera dei par-
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
titi politici, che differenziavano e scomponevano in parti distinte il popolo, per poi ricomporre la sua identità in Parlamento»". Dunque, secondo le varie voci della storiografia, il PCI anche in sede di
Costituente restava legato ai modelli costituzionali ottocenteschi, privilegiando la «certezza della legge»', degli organi legislativi, «della volontà generale che si esprime in Parlamento» a qualsiasi altro tipo di istituto più diretto (quale ad esempio il referendum), mostrandosi così del tutto acquiescente rispetto al pensiero giuridico borghese liberale ‘4. È impossibile negare che molte di queste critiche poggino su solide basi fattuali e documentali. Se si analizzano direttamente le fonti principali del PCI nel periodo precedente le elezioni per l'Assemblea costituente si può tanto riscontrare la mancanza di una formulazione puntuale sui nodi giuridico-costituzionali, quanto individuare un determinato asse portante attorno a cui ruota l'elaborazione della sinistra comunista relativamente al problema dello Stato nelle sue strutture fondamentali e nei suoi rapporti con la società. Togliatti stesso nella relazione al v congresso alla fine del 1945 da un lato chiama in causa la necessità di costruire forti istituti di garanzia per evitare nuovi tentativi di «rinascita della delinquenza e del terrorismo fascista», nell’«obbiettivo prioritario» di dar vita ad un «regime che escluda ogni possibilità di ritorno del fascismo». Dall'altro lato egli mostra anche di concepire la risoluzione di questa problematica non in termini di «questioni astratte di diritto», di «formule costituzionali che si contrappongono ad altre formule costituzionali di cui il popolo capisce poco o non capisce nulla». Alla luce di queste considerazioni (che pur ammettono in modo lapidario che «esistono problemi di diritto costituzionale da affrontare e da risolvere» e su cui uomini preparati «nelle file del nostro partito», «saranno capaci di dire la loro autorevole parola») si comprende agilmente come centrale per il PCI sia una trasformazione dello Stato in senso democratico, tutta incentrata non tanto sull’ado-
zione di nuovi strumenti istituzionali, quanto sulla partecipazione delle masse popolari alla direzione del governo tecnico e reale del paese7.
Partecipazione che, secondo i dettami della stessa cultura comunista e anche a dire il vero secondo le acquisizioni più moderne fatte dalla scienza giuridico-politica in connessione allo sviluppo delle avanzate società di massa novecentesche, si ritiene vada “costruita”
attraverso il partito, il quale in questi anni si prepara a divenire l’«elemento soggettivo più fortemente legato con l’esperienza e con la pratica di direzione di masse popolari». L'idea è dunque che il rin-
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
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Il SOTTOCOMMISSIONE
novamento dello Stato italiano possa avvenire grazie principalmente all’«alleanza tra i tre grandi partiti»! di massa e questo «non solo come recupero della politica del fronte unico», avviatasi a metà degli anni Trenta, bensì anche «come allargamento dell’area di influenza della classe operaia e come tentativo di individuare strumenti operativi per la conquista e la gestione del potere nell’ambito delle strutture costituzionali della democrazia rappresentativa», nel periodo di transizione al socialismo. La trasformazione della società e ‘delle sue istituzioni passa dunque soprattutto per la creazione di una «nuova e più larga base sociale della democrazia, capace di realizzare l’alleanza di tutte le forze democratiche contro ogni ritorno reazionario e fascista». In questo senso va letta l’affermazione compiuta al v congresso da Scoccimarro, secondo cui «la nuova Costituzione più che ricercare nuove formule giuridiche, deve adeguare la organizzazione dello Stato ai rapporti attuali delle diverse classi sociali ed assicurare a ciascuna di esse la possibilità di esplicare nella vita dello Stato una azione ed una influenza corrispondente alla funzione che esercita nella società». Solo in questo modo, continuava Scoccimarro si poteva «assicurare
alle classi lavoratrici la effettiva partecipazione alla direzione politica dello Stato» ?°. Partecipazione garantita ancora, secondo quanto dettava la risoluzione del v congresso, dagli istituti del «regime parlamentare rappresentativo» della nuova «Repubblica democratica» dei «lavoratori del braccio e della mente». In questo senso la centralità
della partecipazione delle masse popolari al governo della cosa pubblica faceva tutt'uno con la valorizzazione degli istituti rappresentativi tradizionali, ritenuti ancora il mezzo più moderno «per dare con-
cretezza giuridica al principio democratico», il quale — nell’elaborazione di colui che doveva essere considerato il costituzionalista ufficiale del partito — si traduceva nella «identificazione tra i governanti e i governati, tra lo Stato come comunità e lo Stato come governo». Secondo Crisafulli l'istituto della rappresentanza politica era in grado di «tradurre giuridicamente in atto [...] quella postulata identitàlimite di governanti e governati che rappresenta il motivo centrale della democrazia politica». Questo istituto «quanto più esteso ed efficiente è, nei singoli ordinamenti», «tanto maggiore è l’approssimazione che ne risulta al punto limite dell'identità governanti-governati»?! I motivi di questa predilezione nei confronti degli organi parlamentari rappresentativi vanno ricercati oltre che nella già menzionata mancanza di un modello alternativo istituzionale, anche nella cultura politica da essi ereditata, nonché nelle ragioni storico-politiche più immediate.
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LA SINISTRA
ALLA COSTITUENTE
Da un punto di vista strategico infatti, il Parlamento, come sede e «momento rappresentativo centrale», era il luogo della «forte concentrazione di volontà e di iniziativa politica», «unico centro di impulso», da cui far partire proposte ed azioni di importanza decisiva, a fronte di una situazione di mutevole configurazione dei rapporti di forza, e in cui quindi gli istituti di distribuzione del potere (quali Regioni o Corte costituzionale) non avrebbero giovato a questo processo di «grande concentrazione di forze per un compito di portata nazionale» ??. Sul versante più spiccatamente culturale poi agiva la convinzione della necessità storica (e dunque non assoluta nel tempo) di una mediazione politica, possibilmente il più vicina alla propria fonte, capace di esprimere in forma unitaria e coerente i bisogni delle masse popolari, di coordinarle ed organizzarle a livello più complessivo, di mettere insieme il principio della particolarità con quello della generalità; quello della coesa sovranità popolare con quello della specifica espressione di ogni sua componente. Un riferimento teorico influente era a questo proposito indubbiamente la centralità del soggetto-partito 3, che trovava una marcata predominanza teorico-pratica in autori come Lenin o Gramsci ed anche nelle successive elaborazioni maturate in seno al Partito comunista negli anni della clandestinità, quando cioè era all’ordine del giorno la disgregazione delle basi di massa del regime e la legittimazione del PCI quale «solo partito antifascista» ?4. Tutto questo anche in connessione con le condizioni oggettive in cui si presentava il contesto nazionale italiano, appena uscito da anni di diseducazione fascista e comunque ancora non avviatosi sulla strada dei moderni processi di democratizzazione di massa (da cui poi discenderanno le specifiche caratteristiche del «partito nuovo» del periodo costituente”). Se dunque centrale era la convinzione secondo cui nel contesto nazionale e internazionale quale quello dei primi anni Quaranta fosse “necessaria” storicamente una azione di rinnovamento da attuarsi tramite una politica di alleanze ove alla lunga far prevalere l’egemonia delle classi lavoratrici; questo portava anche al sostanziale accoglimento degli istituti parlamentari tradizionali. In questo contesto l'accettazione e la partecipazione all’«anima storica delle Repubbliche borghesi moderne», con il conseguente intento di trasformare queste ultime nel senso di una loro espansione ed “allargamento” a tutte le componenti della società, erano nell’ottica di alcuni comunisti il modo di costruire la premessa ad una transizione ulteriore, in cui vi fosse la compiuta realizzazione dell’«anima roussoviana, rivoluzionaria, populista-plebea» della democrazia stessa ?5.
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
L'idea centrale allora, come
E LACONI
ALLA
Il SOTTOCOMMISSIONE
si avrà modo
di vedere concreta-
mente parlando di Terracini e Laconi, era quella di una considerazione dialettica delle istituzioni dello Stato di transizione, la quale se spingeva la sinistra comunista presente nella sede costituzionale a criticare gli istituti giuridico-statali borghesi più suscettibili di quelle che venivano ritenute politiche restrittive e antidemocratiche; tutta-
via cercava di «sfruttare al massimo i margini della democrazia botghese restaurata» ?7, per creare dei contropoteri di gestione democratica del paese. Su questa direzione si procedeva ad una critica serrata nei confronti di quelle che si ritenevano le procedure e gli organi più pericolosi per l’evoluzione progressiva del sistema istituzionale originariamente borghese, e si operava all'interno di quest'ultimo, dei suoi stessi organi per esasperarne le contraddizioni immanenti in direzione della maggiore realizzazione del principio della sovranità popolare e democratica e nella prospettiva finale di una transizione al socialismo. In quest'ottica il riferimento culturale era a quei testi del lascito marxista in cui la critica alle istituzioni borghesi non conduceva ad un loro rifiuto immediato, bensì ad una loro trasformazione dall’interno, e all’individuazione degli elementi progressivi qui presenti. Così si spiega come uno dei riferimenti più immediati fosse, all’interno della elaborazione leniniana, la critica — ripresa da Marx stesso — del parlamentarismo borghese, di cui
veniva in primis rifiutata la separazione sia tra assemblea elettiva e popolo, sua fonte costitutiva, sia tra potere legislativo e potere esecutivo. La polemica principale era nei confronti della tendenza della borghesia dominante a rendere le istituzioni rappresentative dei «mulini di parole», separate dal popolo, fuori del suo controllo e della sua volontà, luoghi privilegiati dell’esercizio di un potere particolare ed arbitrario. Sulla base di queste premesse la critica comunista del parlamentarismo borghese induceva ad una partecipazione paziente e a un lavoro lento nelle istanze rappresentative, per tentare di trasformarle in «assemblee
che “lavorino”
realmente»,
ove
realizzare quell’unità del legislativo e dell’esecutivo, considerata importante garanzia rispetto alla formazione di corpi privilegiati e poteri separati ed astratti, non più controllabili da parte della società civile. Le parole che non a caso un costituente come Laconi avrà modo di riprendere in più occasioni, riferendole al Parlamento stesso 8, sono quelle della opposta valorizzazione degli istituti rappresentativi resi organismi, secondo l’espressione usata da Marx in riferimento
alla Comune,
«di lavoro,
stesso tempo» ??,
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esecutivo
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allo
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ALLA
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Anche alla luce di queste considerazioni si comprende come il PCI rimanga fermo durante il dibattito costituzionale alla difesa degli istituti rappresentativi parlamentari classici, ambivalentemente giudicati, spendendosi, anziché per l’istituzione di organi di altro tipo, per il mutamento
progressivo di questi verso un principio di mas-
sima rappresentatività. Si persegue infatti la realizzazione di un «costante contatto tra eletti ed elettori», accanto al superamento della distinzione, insita nello Stato borghese, fra il cittadino e il lavoratore, secondo una analisi generale tesa a ricondurre le dinamiche inerenti alla sfera del diritto e delle istituzioni a quelle di natura materiale connesse a determinati assetti storico-sociali. E Crisafulli stesso in uno degli articoli più esaustivi sui temi costituzionali scritto per “Rinascita” nel 1946 ad affermare chiaramente di essere, assieme a tutto il partito, a favore di una «Repubblica parlamentare, conformemente del resto a quella che è la tradizione degli Stati democratici europei» ove «l’equilibrio dei poteri costituzionali si accentri intorno al Parlamento, rappresentante della volontà popolare e responsabile del suo operato di fronte al corpo elettorale». Proprio a tal fine egli propone di disciplinare nella nuova Costituzione «larghe forme di controllo popolare, in modo da rafforzare il rapporto di rappresentanza politica» tra cittadini elettori e deputati scelti. La via è quella dell’introduzione di importanti correttivi nell'ordinamento statale prefascista tradizionale, quali «l'istituto della revoca del mandato da parte degli elettori», istituto contemplato da Marx stesso ai tempi della Comune, e della creazione di nuove forme di decentramento burocratico e istituzionale 3° (sulle quali per altro il PCI procedette molto lentamente, attraverso un percorso non sempre lineare3!).
Va considerato infine un ultimo aspetto in qualche modo esemplare, connesso alla questione della mancanza di proposte significa-
tive da parte comunista di nuovi modelli di democrazia diretta e di nuovi istituti di autogoverno locale: quello specifico concernente il referendum. Se infatti il PCI non formulò nel periodo resistenziale proposte concrete di questo tipo, tranne qualche veloce e generico accenno, mantenendo nei confronti di questo istituto un atteggiamento oscillatorio e tendenzialmente diffidente, ciò si comprende oltre che alla luce di ragioni storiche e politiche, anche in connessione a determinati modelli di riferimento culturale. C'è infatti sia l'eco del monito marxiano riguardo al pericolo di forme di mobilitazione di tipo bonapartista®, sia in generale la lunga tradizione critica nei confronti del referendum, tradizione che anno-
vera lo stesso Gramsci, sensibile al rischio di derive plebiscitarie di
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
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II SOTTOCOMMISSIONE
segno reazionario 34. L'uso del referendum appare ai costituenti stessi un modo spesso pericoloso per «sconfessare l'operato del Parlamento», per paralizzare la stessa «vita delle Camere», per emarginare «i partiti e i sindacati»*, per esautorare il primato della legge, rite-
nuta comunque l’elemento più certo ed universale all’interno di un ordinamento borghese di transizione, suscettibile di applicazioni pro-
gressive e sviluppi, pericolosi per lo stesso sistema di governo borghese. Tenendo conto di questa serie di limiti connessi alla mancanza di una cultura specifica e definita della sinistra comunista di tipo giuri-
dico-istituzionale, sembra interessante analizzare quale fu il contributo di alcuni protagonisti appartenenti al Partito comunista in sede di dibattito costituzionale. Un tale tipo di ricerca direttamente condotta sul terreno specifico dei lavori di redazione della Costituzione, in particolare nelle sue disposizioni concernenti la strutturazione istituzionale, permette di articolare maggiormente il giudizio intorno al rapporto esistente tra alcuni esponenti del PCI e l'ordinamento giuridico-costituzionale, e di seguire analiticamente il maturare all’interno delle stesse commissioni dell'Assemblea costituente, di una elabora-
zione di tipo istituzionale, della quale comunque non va dimenticata la determinata finalità contingente, ossia l’arresto di quelle che vennero ritenute manovre di tipo conservatore e moderato‘. Così procedendo si riesce parimenti ad illuminare e ricostruire quale fu lo specifico percorso (che comunque non va disgiunto dalla «unitaria e complessiva» elaborazione dell'intero Partito comunista ?7) di alcuni importanti protagonisti alla Costituente appartenenti allo schieramento comunista. Dalla stessa analisi dei Comitati centrali del Pci all’indomani delle elezioni per la Costituente emerge che Terracini e Laconi (nonché Gullo) risultano essere i comunisti più preparati ed attenti al dibattito costituzionale, che non sottovalutano ma sul quale esprimono un giudizio sostanzialmente positivo. La Costituzione stessa appare loro un importante terreno suscettibile di sviluppi progressivi, all’interno del quale operare al fine di introdurre, secondo una analisi dialettica del periodo storico in cui nasce il nuovo assetto repubblicano, elementi ampiamente democratici e avanzati rispetto alle stesse istanze
della classe borghese dominante. In particolare nel corso della presente trattazione si terrà conto dei contributi che Terracini e Laconi diedero all’interno della Commissione dei Settantacinque, in quanto sede questa ove le istanze di tipo prevalentemente politico e tattico sembrano avere meno rilievo, rispetto al contesto del dibattito generale svoltosi in Assemblea a partire dal marzo 1947.
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
42 I presupposti ideologici dell’impegno costituzionale di Terracini AI fine di comprendere il contributo di Terracini ai lavori della Il Sottocommissione
politico dibattito Nel intorno svolta, e
sembra opportuno
analizzare con quale percorso
ed intellettuale egli sia giunto a partecipare attivamente al costituzionale. dettaglio sembra utile partire dalle sue considerazioni alla democrazia borghese risalenti agli anni successivi alla in particolare giunte a maturazione alla fine degli anni Tren-
ta. Dal carteggio clandestino di Terracini del periodo 1938-45, si evince il maturare di un suo percorso critico a partire dalla risoluzioni del vi congresso, in particolare nei riguardi dell’analisi portata avanti dall’Internazionale sul Ventinove come crisi finale del capitalismo, sulla assimilazione della socialdemocrazia al fascismo, e in generale nei confronti delle risoluzioni della linea politica della “svolta” 38. L'idea alquanto eterodossa di Terracini era che invece la grande crisi della fine degli anni Venti non si potesse identificare «colla crisi generale di decadenza del capitalismo», ma con una crisi «ciclica nel corso della crisi generale», superabile attraverso «l’azione statale di intervento», la quale costituiva «una ripresa produttiva che, per i suoi caratteri speciali, si differenzia dalle riprese conseguenti alle crisi cicliche normali, ma che non cessa perciò di essere una ripresa». Sul piano politico le conseguenze che Terracini traeva erano ancor più originali: non si trattava di prospettare una strategia di scontro “classe contro classe”, dittatura borghese contro dittatura proletaria, bensì di costruire una alleanza con la socialdemocrazia stessa e con le forze borghesi non omogenee tout court al fascismo, al fine di abbattere quest'ultimo e dar vita ad un periodo democratico intermedio nel quale rafforzare l'egemonia operaia e comunista. Secondo Terracini era opportuno abbandonare quelle che lui considerava formule di «bordighismo spurio», e piuttosto recuperare alcune intuizioni realistiche di Gramsci del periodo di Lione. Centrale restava il riferimento ad una linea politica capace di disegnare la possibilità di una «tappa intermedia democratica tra la dittatura fascista e la dittatura del proletariato», necessaria storica-
mente per rafforzare le alleanze e l’influenza del proletariato su «forze non proletarie» non necessariamente «per il loro carattere di classe, destinate ad allearsi col fascismo». In questo senso se Terracini faceva in parte propria la formula dimitroviana del fascismo come «dittatura dei gruppi più reazionari della borghesia capitali-
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
Il SOTTOCOMMISSIONE
stica», egli riconosceva allora che nient’affatto valida doveva ritenersi l’identificazione tra fascismo e capitalismo e di conseguenza
dedurre come compito primario quello di una ampia lotta di liberazione popolare antifascista, per l’instaurazione di una democrazia «democrazia di tipo nuovo, ma pur sempre democrazia di tipo borghese», come unico obiettivo possibile realisticamente in una fase in cui «l'aspirazione delle larghe masse» non «è il socialismo, ma la pace, il pane e la libertà». A questo punto, individuato l'orizzonte strategico in cui l’azione del PCI avrebbe potuto e dovuto dispiegarsi, in linea questa volta con «la nuova politica del Partito» dei Fronti popolari, Terracini riteneva prioritaria la determinazione di una seria soluzione istituzionale, dal momento che «una questione così importante come quella della forma del potere statale non può essere posta surrettiziamente», ma «affrontata in pieno, risolutamente, senza equivoci».
A parere di Terracini si trattava di redigere «un programma per
il Fronte Popolare italiano», che non fosse «un “cahier de doléances”», ma la base di una azione unitaria, capace di affrontare tutti quei problemi politici tornati ad essere attuali con la dittatura fasci-
sta, tra cui il problema stesso della riorganizzazione di un sistema giuridico e statale di tipo democratico e garantista 39. La stessa guerra allontanava soluzioni immediate di tipo socialista e accentuava la necessità della «creazione di un governo che per intanto riassicurasse le libertà elementari». E se dunque fondamentale ed urgente era per Terracini l’obiettivo democratico, tuttavia sullo sfondo restava la prospettiva di una transizione non lontana dal socialismo, data proprio dal futuro determinarsi di una «situazione rivoluzionaria», di una «polarizzazione verso posizioni inconciliabili — le une sempre più rivoluzionarie e le altre sempre più apertamente reazionarie — di quelle stesse forze inizialmente riunite su di una primordiale piattaforma democratica borghese». Nuovamente tornava il tema, affrontato dallo stesso Gramsci nei Quaderni del carcere, dell’incapacità della borghesia di rispettare, al fine di conservarsi, i principi delle sue stesse leggi, in particolare nei loro sviluppi emancipativi. La constatazione secondo cui lo Stato democratico parlamentare “è costretto” a violare «le leggi scritte che furono necessarie al suo progressivo consolidarsi» 4°, al fine di non danneggiare «la sua conservazione» medesima, non porta più a considerare «puro utopismo» quello di chi ritiene di poter «organizzare un’azione parlamentare che si opponga ai principi stessi del parlamentarismo» #, di poter difendere un governo democratico o social-
democratico colpito da una politica reazionaria.
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
Ora si tratta di sfruttare «al massimo i margini della democrazia borghese reinstaurata», per foggiare «le armi» che servono a superarla, per organizzare «l’inquadramento di classe» delle masse stesse, nella prospettiva di una situazione sempre più avanzata. Ora si tratta di ribadire «l’antitesi democrazia-fascismo», di lottare uniti per avere tanto un nuovo governo che «riassicuri alle vaste masse le libertà democratiche elementari», quanto un sistema di «garanzie statutarie» anche all’interno di una democrazia «senz’aggettivi, e cioè borghese», capace di porsi come unica e reale alternativa storica al fascismo. A differenza di coloro i quali intendevano la linea della politica del Fronte unico come sola attività di propaganda, Terracini condizionava la possibilità di una azione avanzata da parte delle forze operaie alla riconquista delle libertà costituzionali fondamentali. Questo genere di risposta aiuta in fondo anche a comprendere le ragioni del tanto impegno terraciniano nell’ambito dello Stato democratico borghese repubblicano. Nel contesto di una situazione ritenuta l’unica realisticamente possibile, lo sforzo sarà tutto teso ad inserire elementi massimamente democratici, a sfuttare quelli già presenti per trarne il massimo vantaggio in termini di avanzamento democratico e di eguagliamento sociale generalizzato. All’interno
della «fase democratica intermedia», Terracini collocava la propria azione politica e istituzionale, il proprio percorso di progressiva maturazione di una cultura di tipo giuridico-costitùzionale. Percorso teso a valorizzare il versante oggettivamente progressivo delle acquisizioni derivanti dalle rivoluzioni borghesi, quali quelle della eguale
ed unitaria rappresentatività delle Assemblee nazionali, della codificazione delle legislazioni, della indipendenza della magistratura, della certezza dei diritti fondamentali nella loro universalità (i prizzis di quello di suffragio), della esistenza di una legge certa capace di limitare almeno sulla carta degenerazioni arbitrarie. Percorso teso ad
inserire nel sistema borghese dato alcuni elementi nuovi (quale poteva essere ad esempio la collegialità del governo) ritenuti capaci di accentuare il carattere democratico dello Stato borghese e di inserirvi all’occasione elementi di contraddizione tali da prefigurare un sistema
rinnovato.
Sotteso a questo tipo di azione era, come si è già detto, una pro-
pensione all’analisi dialettica, che consentiva a costituenti come Terracini di tenere insieme alla prospettiva del socialismo quella più immediata di costruzione e difesa degli istituti più garantisti delle libertà del tradizionale Stato di diritto e delle nuove che andavano definendosi; nonché più suscettibili di una legittimazione popolare. Quella stessa capacità dialettica di ragionamento che aveva permesso
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
II SOTTOCOMMISSIONE
a Terracini di non ignorare le diversità esistenti «nel mondo dei grandi Stati imperialistici», tra i due campi fondamentali, quello dei forti e quello «dei deboli (dal punto di vista economico, ben inteso)». I forti corrispondevano agli Stati più ricchi, ai quali era riuscito di dar vita alle «basi della propria efficienza» attraverso «un corso secolare», che aveva permesso loro di costruire e mantenere in vita forme tipiche «del governo di classe della borghesia» quale «la democrazia parlamentare». Tali Stati quindi erano da preferire rispetto a quelli deboli nei quali invece una forte debolezza economica, «spurie rivoluzioni borghesi, fatte dall’alto», «basi sparagne di accumulazione precapitalistica» rendevano più difficile la difesa dell’azione delle larghe masse popolari, e pertanto acceleravano i processi di smantellamento delle
«libertà democratiche borghesi», in grado di favorire «l’organizzazione della resistenza» di queste masse. In questo senso agli occhi critici di Terracini le vittorie dei due fronti non si equivalevano, in quanto la vittoria degli Stati forti con il conseguente crollo del fascismo avrebbe permesso la rinascita delle libertà elementari, il riaprirsi per le masse popolari di «tutte le possibilità di movimento», dunque anche di reali prospettive di mutamento dei rapporti di forza esistenti da lungo tempo #. Terracini cominciò a svolgere la propria attività di tipo istituzionale all’interno della Consulta nazionale e all’interno della Commissione speciale per l’esame della legge elettorale politica a partire dal settembre del 1945. Proprio all’interno della Consulta egli ebbe modo di esprimere la propria idea di democrazia (organicamente legata al concetto di democrazia progressiva togliattiano) e di chiarire anche in questo modo la direzione del proprio impegno in una delle prime sedi istituzionali del nuovo contesto nazionale postfascista. Il concetto di democrazia che Terracini si trova a difendere è di tipo dinamico e storicistico, sostanziato di volta in volta «degli elementi storicamente dati dalla situazione», un concetto dunque che, nell’ambito di una idea progressiva dello sviluppo storico dell'umanità, si avvale di continui sviluppi alla luce soprattutto di un mutato
contesto
sociale, ove ineludibile sembra
essere
divenuta la
partecipazione delle «larghe masse lavoratrici» alla vita politica. In questo senso afferma Terracini che proprio questa «democrazia delle larghe masse lavoratrici» obbliga «ad aggiungere ai vecchi concetti delle libertà politiche, che sino a poco tempo fa erano le sole a sostanziare la democrazia, le nuove formulazioni dei diritti e delle libertà»
di tipo sociale, ove
innanzi
a tutto
c’è, «fondamento
tutte le altre libertà», la nuova «libertà dal bisogno».
195
di
Se da un
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
lato quindi forte è il riconoscimento — sulla scia delle nuove e dirompenti necessità esistenti nel fondo della società — della centralità del contenuto sociale della libertà; dall’altro lato altrettanto forte è la necessità da parte del Partito comunista di legittimarsi, mostrandosi il difensore principale della democrazia nazionale durante il periodo fascista. Nel primo discorso di Terracini nell’ambito del nuovo contesto legale l'accento cade anche sul problema delle istituzioni e della loro riorganizzazione al cui proposito egli accenna, seppur in modo molto generico, la primaria necessità di dar vita ad organismi centrali e locali che abbiano «rapporti sempre più larghi con le masse popolari», che da esse siano controllati. In tale direzione Terracini dirigerà il proprio lavoro di costituente, di «uomo di governo» #: nel cercare, a partire dalla stessa Commissione Forti, di stabilire «rapporti e collaborazione» diretti tra le masse e i nuovi organi statali, quale unica strada per introdurre nel sistema democratico borghese elementi avanzati, contraddittori rispetto alle finalità stesse del sistema esistente 49. Altri ambiti nei quali Terracini intervenne prima di essere eletto alla Costituente furono le Commissioni, ministeriale prima e speciale poi, per la legge elettorale nelle quali egli affrontò uno dei temi più importanti del dibattito costituzionale. Centrale fu qui la difesa del sistema proporzionale, considerato il più congruo rispetto alla centralità di una organizzazione partitica della vita politica nazionale. Esso infatti garantiva spazio alle minoranze, ritenute altrettanto decisive nella determinazione delle scelte politiche nazionali e non soltanto, come era per lo stesso Basso e più a monte per Kelsen, al momento
dell’«atto elettorale», ma «anche, e specialmente, nell’atti-
vità dei corpi rappresentativi creati dalle elezioni». La minoranza aveva, secondo Terracini, «una funzione permanente da assolvere» e
dunque richiedeva un sistema elettorale che la rendesse «stabilmente parte attiva dei lavori dell'Assemblea eletta»4, un sistema capace dunque di riconoscere la funzione altrettanto costitutiva dell'opposizione. Nel contesto italiano, ove le classi dirigenti avevano «dimostrato permanentemente una sordità inguaribile. di fronte alle esigenze poste di volta in volta dalle opposizioni» ‘9, il collegio uninominale non poteva essere accettato, alla luce anche di un misconoscimento che questo avrebbe prodotto dell'importanza dei partiti, ove in questo nesso sembrava risuonare indirettamente l’elaborazione kelseniana a proposito del legame storico esistente tra il sistema della proporzionale e l’organizzazione dei cittadini in partiti politici, ovvero l’essenza stessa del moderno Stato dei partiti9.
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
Il SOTTOCOMMISSIONE
Come è stato osservato lo scontro tra proporzionalisti ed uninominalisti al quale Terracini partecipa in prima linea era «una vera e propria contrapposizione generazionale», tra coloro i quali riconoscevano
un decisivo peso e ruolo dei partiti (dei «mezzi necessari
per l’organizzazione della pubblica opinione e l’esplicazione da essa di una volontà politica», ovvero mezzi capaci di superare le «istituzioni rappresentative quali erano state intese dalla concezione liberale» e di condurle «ad una loro trasformazione che le avvicina nella sostanza agli ordinamenti della democrazia diretta» 5), e coloro i quali invece, come esponenti del vecchio mondo liberale, erano piuttosto inclini a combattere il predominio delle nuove strutture della democrazia di massa. In questo senso secondo Terracini i partiti erano «la garanzia di ogni sistema democratico conseguente»; il «modo con cui si organizza» una società nazionale «che finalmente si eleva e si matura» e nella quale la possibilità per «tutte le correnti politiche del Paese» di essere rappresentate costituisce uno dei presupposti principali alla conduzione di una vita democratica fatta del «reciproco controllo» fra tutte le varie forze politiche parimenti legittimate a governare. Sempre in relazione alla materia elettorale, Terracini intervenne a proposito della questione del voto obbligatorio e dell’utilizzazione dei resti. Relativamente alla prima questione Terracini si mostrava fermamente contrario a questa proposta, ritenendo che il rimedio migliore per combattere il tradizionale astensionismo fosse l’educazione delle coscienze politiche delle masse popolari (altro argomento questo strettamente connesso con i temi classici del marxismo, e della tradizione politica borghese), piuttosto che «un cataplasma esterno», incapace di «sanare una infermità di carattere spirituale, una infermità della coscienza». Dunque se era necessario permettere a tutti di votare, ove la stessa applicazione universalistica
del diritto di voto — il «cuore della democrazia» 5 — costituiva di per sé un elemento molto avanzato capace di innescare dinamiche contraddittorie nel seno della società capitalistica; inadeguato e pericoloso era il sistema di chi proponeva «dei criteri meccanici» per l'assolvimento dei «grandi compiti della formazione politica di un
popolo». Per Terracini si trattava di porre la questione dell'educazione al suffragio, ovvero alla partecipazione alla vita politica, in termini positivi e promozionali, evitando di utilizzare il diritto in funzione eminentemente negativa e repressiva, con il ricorso a delle sanzioni peculiari contro gli inadempienti, derivabili dall’istituzione di un obbligo su tale questione.
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
Infine in relazione al problema del recupero dei resti, Terracini si espresse sulla scia del parere di quanti erano fautori di «una rappresentanza proporzionale integrale» 5°, la quale prevedeva un recupero massimo dei voti residui, e la conseguente opposizione al sistema d’Hondt (che non comportava invece l'utilizzazione dei resti, e che non a caso era appoggiato dai partiti d'opinione). L'idea era di favorire la massima rappresentatività di tutte le correnti politiche e in questa misura di ogni voto dei cittadini all’interno dell’Assemblea sovrana — considerata proprio per questo il luogo della massima espressione della volontà popolare — a cui, secondo Terracini, gli altri poteri ed organi dovevano sottostare, sulla scia di una elaborazione
che tendeva a valorizzare le assemblee parlamentari (pur riconosciute «istituti tradizionali della democrazia rappresentativa» 7) e a renderle assisi ad ampio livello partecipativo. Anche in ambito di Il Sottocommissione Terracini intervenne a proposito della questione elettorale per ribadire il proprio assenso al sistema proporzionale, che, secondo la sua opinione, costituiva una
delle conquiste più importanti di tipo democratico nel particolare contesto storico italiano. In questo senso il sistema proporzionale era
una delle acquisizioni principali raggiunte dalle masse «attraverso molti anni di travaglio politico», e come tale andava affermato nella Costituzione al fine di impedire futuri annullamenti e di sancire nel
testo fondamentale una delle premesse più importanti per lo sviluppo ulteriore della democrazia di massa. Dall’insistenza di Terracini su questo nodo del riconoscimento costituzionale della proporzionale si desume tanto il suo bisogno di fare del nuovo testo la roccaforte più sicura dei nuovi diritti, la garanzia concreta delle conquiste democratiche, a fronte di una esperienza di vita che forse lo rese tra i costituenti di sinistra più attenti al piano delle garanzie formali e giuridiche; quanto anche, come si è già detto, il suo essere tra i costituenti maggiormente sensibili al nesso storico-logico esistente tra la democrazia partitica di massa e il sistema proporzionale; se ne trae altresì la fiducia, derivante dalla sua
cultura storicistica, nei confronti dello sviluppo progressivo e democratico della società. Con altrettanta insistenza egli si spese qui sia per l’allargamento massimo del suffragio a tutti i cittadini, compresi i militari («ove si risollevasse oggi la questione potrebbero sorgere motivi di timore non solo tra i militari, ma anche presso coloro che più si preoccupano della salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini» 59), sia per la determinazione all’interno della Carta costituzionale del limite di età, ritenuto «elemento integrante, che definisce il soggetto del diritto» ‘9.
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
Il SOTTOCOMMISSIONE
Terracini al dibattito costituzionale
in adunanza plenaria
Altro ambito in cui Terracini si impegnò fu il dibattito costituzionale svoltosi in adunanza plenaria a partire dall'inverno del 1947, a proposito dei vari capitoli già affrontati dalle singole Sottocommissioni ora giunte ad un confronto finale prima dell’esame generale in aula. E in questa sede che il costituente comunista ha modo di intervenire su questioni attinenti non soltanto alla seconda parte del testo costituzionale, bensì anche concernenti la determinazione degli altri diritti fondamentali. Occorre precisare inoltre che qui Terracini ebbe modo di intervenire direttamente, esprimendo la propria opinione in modo libero, in quanto non ancora eletto presidente della Costituente. Proprio sotto questa veste egli cercerà invece di mantenere un atteggiamento
imparziale, non entrando nel merito delle questioni dibattute. Al pari di Basso, Terracini intervenne in questa sede sul diritto di sciopero per difendere la proposta di Di Vittorio, secondo la quale questo diritto andava affermato nella Costituzione «puramente e semplicemente»,
senza altre condizioni particolari, quali quelle di chi
nella 1 Sottocommissione aveva proposto un rinvio alla legge ordinaria per la sua regolazione, con una formula che prevedeva nella prima parte l’assicurazione a tutti i lavoratori del diritto di sciopero, e nella seconda parte una legge «sui rapporti di lavoro» tesa a regolarne l’esercizio. Anche per Terracini si trattava di evitare pericolosi rimandi alle «leggi generali sui rapporti di lavoro», le quali preoccupavano gli stessi Di Vittorio e Basso per le pericolose implicazioni restrittive che esse avrebbero comportato. Sulla base di queste premesse Terracini aveva svolto un intervento di natura sostanzialmente politica, benché condotto su un registro tecnico, e ciò nella convinzione che i due ambiti (tecnico e politico) fossero inscindibili e che anzi quello tecnico il più delle volte risultasse subordinato alle istanze politiche. Altrettanto importanti sembrano essere gli interventi di Terracini sul problema dei rapporti civili, ed in particolare sull’articolo 27, di cui lo stesso Basso si era occupato nella propria relazione alla 1 Sot-
tocommissione. Su questo l’esperienza personale di Terracini appare ancor più determinate che in altri casi, spingendo il costituente comunista ad una proposta che conteneva elementi avanzati di stampo illuministico intorno alla funzione delle pene, e più in generale sulla natura del diritto stesso. Nella seduta del 25 gennaio Ter-
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
racini (con Nobile) presentava una proposta nella quale gli ultimi due commi dell’articolo 27 (allora 20) venivano in parte mutati ed in parte integrati, con una accentuazione del loro carattere garantista. Si proponeva infatti che «le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana. Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società». E poi che «le pene restrittive della libertà personale non potranno superare la durata di quindici anni». Ed infine che «la pena di morte potrà essere ammessa solo nei Codici militari, limitatamente al periodo di guerra; ed eccezionalmente anche per reati comuni, nel caso di omicidi efferati che sollevino la pubblica indignazione». Anche in questo caso Terracini si impegnava affinché questioni particolarmente importanti trovassero la loro trattazione nella Costituzione e non fossero riservate alla legge ordinaria o in questo caso al solo Codice penale. Egli riconosceva di importanza primaria il capoverso sul limite massimo
delle pene restrittive, in quanto a suo parere esso riguar-
dava un principio in parte nuovo «già affrontato da altri Paesi e verso la cui soluzione crede che si orienterà il progresso sociale nel mondo». Questa disposizione era strettamente collegata all’intento di fare della detenzione un momento educativo, anziché, come Terracini sosteneva essere avvenuto sino ad allora in Italia, la fonte di
un «processo di abbrutimento progressivo» che giunge sino «alla soppressione e all’uccisione dell’individuo». Non dovendo essere il fine della pena di tipo vendicativo ed afflittivo era necessario allora stabilire costituzionalmente «un limite commisurato alla durata della vita umana e allo scopo per cui» le pene venivano inflitte. In generale sotteso a tali proposte vi era una concezione promozionale
del diritto e delle sue finalità, che se da un lato si accompagnava ad una idea progressiva di quelli che dovevano essere gli scopi delle istituzioni e degli ordinamenti giuridici (laddove in questa considerazione l'elemento attinente all'educazione delle coscienze non veniva mai meno); dall’altro lato si legava ad una interpretazione più ampia dei diritti rispetto a quella di semplice difesa negativa degli individui contro le violazioni della legge, quale aveva avuto corso nel periodo liberale. Si trattava dunque di mettere insieme l’elemento della garanzia, soprattutto a fronte dell’esperienza fascista, con quello nuovo del coinvolgimento sociale, avente finalità più strettamente politiche concernenti l'interazione dinamica (volta al rinnovamento di entrambe le sedi) tra la sfera giuridica e la sfera sociale collettiva, a fronte di quanti invece, intendendo
dare una
impostazione puramente tecnica al sistema normativo, fornivano ele-
200
4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
II SOTTOCOMMISSIONE
menti alla continuità ovvero alla conservazione dello spirito dell’antico sistema giuridico-penale 83. Sempre in relazione a questo delicato tema del rapporto tra diritto e politica, tra istanze giuridiche e istanze sociopolitiche, Terracini prese posizione a proposito del Titolo concernente la magistratura, ed in particolare in relazione alla proposta fatta dalla seconda sezione della 1 Sottocommissione di istituire una giuria popolare nei processi di Corte d’Assise, per permettere ai cittadini di partecipare direttamente all’amministrazione della giustizia. Contro Leone e Bozzi sfavorevoli a che venisse inserito nella Costituzione un articolo riguardante la Corte d’Assise, organo ordinario di cui avrebbe dovuto occuparsi la legislazione sull'ordinamento giudiziario, Terracini ribatteva che non si trattava di «un semplice problema di amministrazione della giustizia», bensì di «introdurre maggiormente l'elemento popolare nel quadro dell’organizzazione del potere giudiziario in Italia». Ancora una volta si trattava a suo parere di individuare il nodo politico della questione per cercare di risolvere in termini altrettanto politici il problema del rapporto tra ordinamento giudiziario e sfera sociale: ove l’individuazione della centralità dell’elemento politico significava per Terracini fare ricorso all'unico elemento
capace
di attuare
un
rinnovamento
progressivo,
contraria-
mente a quanti invocavano l'indipendenza dalla politica come garanzia principale per il mantenimento di un determinato status quo. Andava infatti tutelata l’assoluta autonomia del potere giudiziario, ma allo stesso tempo si trattava a suo parere di istituire un mag-
gior legame tra le componenti della società civile e l’organizzazione della giustizia, al fine di creare anche in questo caso degli spazi di maggiore coinvolgimento sociale e al tempo stesso di inserire all’interno della sfera giudiziaria componenti di rinnovamento democratico. Un problema quest’ultimo che per lunghi anni avrebbe travagliato gli schieramenti più progressisti, nella ricerca di soluzioni che
favorissero un ricambio all’interno dei fondamentali istituti giuridici, i quali quindi si sarebbero giovati di un più stretto contatto con le componenti dinamiche della società, innescando a loro volta processi di trasformazione democratica ‘4. A tal fine l’intervento di Terracini non si limitava solamente a difendere la proposta della partecipazione popolare ai giudizi di competenza della Corte d’Assise, ma riprendeva anche quella della elettività dei giudici. Egli quindi «sarebbe stato lieto se avesse potuto ottenere che almeno per i primi gradi della Magistratura si fosse introdotto il principio elettivo», alla luce della considerazione secondo cui non erano necessari requisiti di una cultura tecnica,
20I
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
bensì quelli di una cultura generale. Si trattava nuovamente per Terracini di comprendere le ragioni politiche di una chiusura all’istituto della giuria e in generale alla penetrazione «nel corpo dei magistrati giudicanti» dell’«elemento popolare», e di ricondurle ad una volontà antidemocratica, per la quale proritaria era l’esigenza di preservare un certo tipo di cultura tecnica dal contatto con le «masse popolari». Il principio garantista dell’indipendenza e della autonomia della magistratura, avrebbe trovato anzi una sua maggiore tutela rifiutando la logica della separatezza della magistratura dalla vita delle masse popolari, dalla realtà del contesto nazionale. Una simile separatezza anzi, secondo
il parere di Terracini
(e anche
di Laconi),
avrebbe
favorito il perpetuarsi di una prassi istituzionale tesa a favorire una connessione organica tra il potere giudiziario e quello esecutivo, tramite la formazione di corpi separati, burocratici e gerarchici consoni con le stesse leve governative. Nella stessa seduta del 31 gennaio del 1947 Terracini criticava la proposta di quanti ritenevano che «i magistrati non possono essere iscritti a partiti politici», in quanto a suo parere tale divieto, in una società in cui la partecipazione alla vita pubblica avveniva per mezzo dell’organizzazione partitica, avrebbe comportato la conseguenza di «privare i magistrati del diritto elettorale passivo» configurando una grave forma di esclusione. Questo tipo di proposte, che poi coincidevano con le richieste di una apoliticità assoluta del magistrato, finivano infatti per assumere un carattere astratto, quando non ipocrita (secondo i termini in cui si era espresso
Laconi
in questa stessa
seduta ‘9) mostrando tanto l’incapacità di rapportarsi con una dimensione più articolata della società e delle sue strutture, quanto talvolta una natura conservatrice, attenta cioè alle ragioni di altri interessi politici 97. In generale da quanto esposto sin ora si deduce che uno degli assi centrali (forse quello principale) su cui Terracini fece ruotare tutta la propria azione all’interno del dibattito costituzionale fu il principio della costituzionalizzazione delle materie più importanti della nuova organizzazione giuridico-istituzionale. Si trattava cioè di inserire nel luogo “sicuro” del nuovo testo tutti quei temi della vita nazionale sui quali un determinato andamento dei rapporti di forza all’interno della Costituente ne favoriva una formulazione nuova e progressiva, secondo quello che poi fu lo spirito di coloro che si spesero per l’inserimento nel testo costituzionale delle cosiddette norme programmatiche, capaci di promuovere, specie in campo sociale come disposizioni di tipo costituzionale sovraordinate alla legislazione ordinaria, sviluppi ulteriori 98,
202
4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA II SOTTOCOMMISSIONE
44 Il dibattito nella 1 Sottocommissione:
potere legislativo e referendum
AI fine di illuminare l’attività svolta da Terracini in sede di I Sottocommissione (profusa in una ingente massa di interventi tanto più numerosi in quanto corrispondenti alla duplice funzione da lui svolta nell’ambito della Commissione dei Settantacinque, di esponente del PCI e di presidente della I1 Sottocommissione) compresa quella compiuta nella 1 sezione di quest’ultima, sembra opportuno analizzare quegli interventi da lui svolti sempre in ambito di adunanza plenaria, concernenti le stesse materie dell’organizzazione istituzionale dibattute in II Sottocommissione, e in particolare l’elezione del presidente della Repubblica e quella delle due Camere. Nella seduta del 21 gennaio 1947 Terracini intervenne per difendere la proposta di una elezione del presidente da parte dell’Assemblea nazionale, senza la partecipazione delle Assemblee regionali e delle Deputazioni, la quale avrebbe finito per duplicare la rappresentanza delle Regioni (di cui la seconda Camera era, nel progetto del Comitato, già in parte espressione), a scapito della prima Camera, espressione unica del suffragio universale. In questo intervento Terracini ribadiva la centralità delle Assemblee legislative e criticava di contro tanto un conferimento diretto dei poteri al capo dello Stato, storicamente risoltosi in una «contrapposizione» di questo con il Parlamento, quanto le proposte di coloro che intendevano farne un elemento «staccato dal sistema generale degli altri poteri», in nome della funzione di moderazione da questi esercitata. La critica era rivolta a ben guardare al giudizio negativo che molti avevano in più occasioni espresso riguardo al carattere politico della Assemblea legislativa, ritenuto lesivo della necessaria neutralità dei compiti del presidente e della stessa volontà popolare. Volontà che secondo Terracini (ampiamente sostenuto da La Rocca sulla scia della comune valorizzazione dell'elemento parlamentare) trovava la massima garanzia della propria espressione nel contatto più stretto tra il capo dello Stato e i due rami del Parlamento, deputati alla sua nomina e dunque al controllo permanente del suo potere, impossibilitato in questa misura a sentirsi «un potere a sé», indipendente «espressione della volontà nazionale». Emerge nuovamente che nella scelta della forma parlamentare della Repubblica forte era il timore ispirato dallo spettro fascista, o comunque da qualsiasi altro sistema ove «si affidi
a un uomo»
lo Stato, anziché
alla certezza
«delle istituzioni». In questa misura il presidente della Repubblica
203
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
era «una istituzione fra le altre istituzioni sulle quali non prevale»; da non porsi «mai al di sopra degli altri organi costituzionali dello Stato», bensì tale da restare «condizione o complemento necessario dell’esercizio della funzione di altri organi costituzionali». Soltanto in questo modo la sua funzione non assumeva connotati di tipo autoritario, evitando prassi di stampo cesarisitico, facenti perno su forme di mobilitazione diretta delle masse, ove prevalente sarebbe stato l’elemento soggettivo e personalistico7°. A questo pericolo Terracini opponeva la connotazione oggettiva delle istituzioni e delle loro leggi (meno suscettibili di usi arbitrari), nonché una distribuzione artico-
lata delle funzioni autoritative. In relazione alla composizione delle due Camere, egli intervenne più volte in adunanza plenaria al fine di difendere l’elemento della massima rappresentatività popolare dell’ Assemblea nazionale. Deciso fu il suo intervento a favore della modifica proposta da Fuschini tendente all'ampliamento del numero dei deputati in base a cui era stata stabilita l’elezione a suffragio diretto ed universale. Dal momento che la diminuzione del numero dei membri della antica Camera bassa avrebbe portato anche ad una riduzione della sua autorità, per Terracini si trattava di opporsi — mediante una argomentazione attenta
alle esperienze storiche del passato, «quando lo scopo fondamentale delle forze antiprogressive era l’esautorazione degli organi rappresentativi» — alle argomentazioni contrarie a tale proposta tendente a dare maggiore rilievo alla Camera dei deputati, espressiva della diretta ed universale volontà popolare. Parimenti in relazione all’elezione della Camera dei senatori, Terracini, parlando a proposito della
specifica questione delle nomine a vita dei senatori, ribadiva il dato della massima rappresentatività delle Camere, nella loro capacità di riflettere la «fisionomia politica generale del Paese» nella sua dinamicità intrinseca, la quale era poi quella data dal conflitto politico tramite la funzione direttiva dei partiti. In questo senso egli si esprimeva negativamente su ciò che riteneva «elementi preordinati», di
per sé pericolosamente «sufficienti a modificare e sconvolgere» questa fisionomia politica?'. Sempre in relazione alla composizione della seconda Camera, Terracini intervenne il 29 gennaio per esprimere la propria preferenza nei confronti della proposta Nobile secondo cui «l’elezione dei membri della seconda Camera ha luogo a suffragio universale, diretto e segreto da parte di tutti i cittadini aventi diritto al voto che abbiano superato l'ennesimo (n = un numero intero compreso fra 22 e 26 anni) anno di età». Essa infatti si presentava ai suoi occhi come la proposta più lineare, capace di porre il problema della elezione e poi della distinzione fra le due Camere (esigenza questa
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
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ALLA
Il SOTTOCOMMISSIONE
manifestatasi da parte di tutti gli schieramenti, sebbene con finalità diverse) «nella maniera più aperta», senza «far scorgere equivoci», quali quello di un inadeguato suffragio proporzionale, nel caso di un suffragio indiretto fondato sulle Regioni e sui Comuni, o quello di una funzione limitatrice della seconda Camera rispetto ai poteri della prima («non crede pertanto che si debba accettare il criterio di una seconda Camera che rappresenti un freno o una remora. La seconda Camera deve essere una integratrice ed una collaboratrice nella attività legislativa»). Se la proposta di Nobile avrebbe eliminato la possibilità — prevista in quella di Laconi per il quale «la seconda Camera è eletta da collegi regionali a suffragio universale indiretto, secondo le modalità stabilite dalla legge. (Formula francese)»7 — di una seconda Camera a base regionale conseguente ad una rinnovata organizzazione amministrativa dello Stato facente capo al nuovo istituto della Regione, al quale Terracini si era mostrato favorevole più volte; essa tuttavia, a fronte delle preoccupazioni che scuotevano i comunisti su un indebolimento della Camera dei deputati, rappresentava una maggiore garanzia della centralità del suffragio universale e diretto73. Una garanzia quindi della diretta espressione della volontà popolare tramite l’organo più rappresentativo della nuova Repubblica. A tale proposito sembra opportuno prendere in esame il contenuto dell'emendamento Terracini, presentato in adunanza plenaria da Laconi e attinente ai conflitti fra le due Camere. In questa proposta (che si configurava come sostitutiva a quella finale deliberata nella Il Sottocommissione) Terracini stabiliva la prevalenza della Camera dei deputati, alla luce del fatto che essa era,
nell’idea generale di dare origine diversa ai due organi parlamentari, l’«unico organo legislativo che avesse un pieno e completo mandato politico» e che quindi come tale in grado di rappresentare «anche gli enti locali e gli interessi di vaste popolazioni». Veniva qui ripresa l’idea, ampiamente sostenuta in I1 Sottocommissione dallo schieramento comunista, di una diversità nei poteri delle due Camere, la quale avrebbe anche evitato che si aprisse «nel corpo della democrazia italiana una specie di stato di conflitto permanente tra due organi che hanno i medesimi poteri e fra i quali è indispensabile che altri organi facciano da arbitri» (ove il riferimento era alla proposta di un
intervento da parte del presidente della Repubblica in caso di dissenso fra le Camere su un determinato progetto di legge). Il rifiuto di tale parità era tanto più netto dinnanzi al progetto che prevedeva una seconda Camera «eletta su una base inferiore rispetto alla prima» (secondo la formulazione di una rappresentanza regionale di
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
tipo indiretto). Se dunque in tale emendamento
c’era, secondo gli
intenti di Terracini, la garanzia della massima sovranità popolare, in esso c'era anche quella di una stabilità del Paese, assicurata non «da
arbitri esterni», bensì dalla unicità degli organi del potere legislativo (la prima Camera) o da altre soluzioni — quali erano quelle prospettate dall'’emendamento Terracini74 — tali da impedire «la possibilità di una situazione di conflitti permanenti». Conflitti che andavano bloccati secondo il parere di Laconi «all’interno di uno stesso potere», e non per questo però, riprendendo e capovolgendo le accuse di Einaudi, evitati «tra forze politiche diverse all’interno di organi in cui tutte le correnti siano egualmente rappresentate», e nel
modo in cui il verificarsi di essi esprimeva la dinamicità e la vitalità della stessa «essenza di un regime parlamentare» democratico. Ai fini di una migliore comprensione dell’attività svolta da Terracini all’interno della Il Sottocommissione, in particolare in ordine al potere esecutivo e legislativo e alla loro organizzazione, giova prendere avvio dalla relazione sul potere esecutivo composta da La Rocca, relazione che nell’ambito di questa Sottocommissione chiarisce a livello generale quale fu la linea portata avanti dai deputati comunisti. Essa sembra altresì illuminare l’azione costituzionale di Terracini, la quale pur mantenendo elementi di autonomia e originalità — particolarmente evidenti nella integrazione dell’istanza democratica e garantista con quella classista — va comunque analizzata alla luce di una elaborazione più complessiva del gruppo parlamentare comunista. La priorità emergente dalla relazione di La Rocca e poi dagli interventi del medesimo Terracini era relativa alla salvaguardia del potere parlamentare, e al tempo stesso alla difesa da qualsiasi tipo di organizzazione istituzionale che evocasse pericoli di tipo autoritario (ove gli esempi negativi erano la Francia napoleonica e la Germania di Weimar). Forte era il rifiuto nei confronti del principio della separazione dei poteri, il quale se in passato era stato la migliore garanzia alla preservazione della libertà dell’individuo contro l’arbitrio dell’«esecutivo monarchico»; poi nelle società contemporanee esso era anche
stato lo strumento
dei sistemi liberticidi, facilitando la
supremazia dell'esecutivo (che poi aveva finito per «imbavagliare il legislativo»). Tale separazione inoltre secondo La Rocca veicolava concetti anteriori all'essenza stessa della democrazia moderna, nella
misura in cui concepiva l’individuo e lo Stato, in particolare il potere esecutivo, come due entità separate e contrapposte, anziché suggerirne marxianamente l'organico nesso e perciò stesso aprire la strada ad una ampia partecipazione popolare agli organi istituzionali sovrani. À questa concezione, comunemente attribuita a Montesquieu,
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
II SOTTOCOMMISSIONE
il deputato comunista opponeva quella di una distinzione dei due poteri fondamentali nel segno della loro più stretta collaborazione. Collaborazione che più volte Terracini richiamerà come elemento determinante di un sistema democratico, sulla scia delle stesse teo-
rizzazioni provenienti da alcune correnti della tradizione marxista. La radice della sovranità risiedeva esclusivamente nel popolo e da questo emanava; pertanto il suo esercizio coinvolgeva i tre poteri,
«i quali, provenendo dalla stessa unica fonte», non potevano essere divisi, «né separati, né opposti, ma ripartiti in modo razionale fra organi chiamati ad attuare la medesima volontà» direttamente espressa nell’ Assemblea nazionale. A quest’ultima soltanto infatti, a differenza dell’organizzazione presidenziale, spettava il potere legislativo, e «tutto il controllo politico» delle altre attività specifiche, compresi i poteri fondamentali attinenti alle «questioni di guerra e. di pace»; alla approvazione dei «trattati con gli altri Stati»; alla nomina e alla revoca del «Comando supremo delle forze armate»; alla «mobilitazione totale o parziale»; alla concessione dell’amnistia. In questo contesto il riferimento era sia al modello storico francese ove, a dif-
ferenza di quello inglese, era prevalsa «la forma del governo di Assemblea, di un governo cioè, che non si sovrappone alla Camera, ma è un esecutivo alle dipendenze del legislativo, con tutte le debolezze, le crisi, le paralisi che ne sono derivate»; sia (benché l’autore di riferimento venga qui letto in una prospettiva non rigorosa sul
piano filologico 7°) al modello teorico rousseauiano, nell’idea dell’«istituzione di un’Assemblea rappresentativa popolare che nello stesso tempo sia legislativa ed esecutiva, elabori la legge e ne controlli l'esecuzione,
esamini,
critichi e decida, sorvegli l’osservanza
delle sue decisioni», nella piena indipendenza della magistratura7. Sembra a questo punto evidente che le finalità principali dei deputati comunisti non consistevano nella strutturazione di un sistema giuridico-costituzionale nel quale prioritariamente fosse assi-
curata la stabilità 78. Quest'ultima si presentava invece come esigenza primaria agli occhi di altri costituenti, Mortati per esempio, per i quali la preferibile scelta della forma parlamentare andava comunque subordinata tanto alla possibilità eccezionale conferita al presidente della Repubblica di sciogliere le Camere in caso di loro prolungati dissidi, quanto ad una misura tipica del regime presidenziale, ovvero
quella della «fissità di durata del governo» per un certo periodo. La diversità dei nuclei ispiratori delle proposte di La Rocca e di Mortati sull’organizzazione dei due poteri centrali, portò inevitabilmente
«i comunisti,
a scontri, anche aspri, soprattutto
con i costi-
tuenti democristiani quando, nel seguito della discussione si trattò di
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LA SINISTRA
ALLA COSTITUENTE
precisare la struttura del Parlamento, quella del governo, i poteri del capo dello Stato» 8°. La discussione forse più appassionante si ebbe proprio in relazione alla composizione della seconda Camera, posto che, nonostante
l'iniziale opzione unicameralista del gruppo comunista, questi si vide “costretto” in ragione delle argomentazioni garantiste ed efficientiste portate avanti dagli altri schieramenti ad accettare l’inevitabilità del bicameralismo 8! In particolare fu Crisafulli ad argomentare tanto le ragioni del rifiuto della seconda Camera, quanto poi quelle della sua assunzione. Da un lato infatti erano ragioni storiche a motivare la diffidenza dei rappresentanti comunisti nei confronti della seconda Camera, tradizionalmente impiegata — ai loro occhi — come freno agli eccessi della prima (storicamente fondata su una rappresentanza più popolare e meno di privilegio). Dall'altro lato furono poi le pressioni della «maggioranza della Costituente» a spingere il PCI in una direzione meno intransingente, con la riserva tuttavia che tale ramo del Parlamento fosse fondato su un principio altrettanto democratico e non avesse gli stessi larghi poteri della prima Camera ®. Alla luce di queste considerazioni veniva anche contemplata, da Terracini in particolare (ma anche da Laconi), l'ipotesi di una seconda Camera a rappresentanza regionale, la quale — come egli ebbe modo di argomentare ad esempio nella seduta: del 31 luglio 1946 — avrebbe favorito a suo parere sia un potenziamento democratico del nuovo ordinamento regionale, sia al tempo stesso preservato l’unità nazionale, tramite un controllo e una rappresentanza centrali. Tuttavia, nonostante tale opzione avesse un seguito non trascurabile tra lo stesso schieramento delle sinistre, forte restava sia l’opposizione comunista alla rappresentanza di tipo professionale sia in generale l'esigenza primaria di «garanzie democratiche che dovranno essere poste alla base di tutte le istituzioni del nuovo Stato» 83. Dopo aver stabilito il principio del suffragio universale e diretto per la elezione della Camera dei deputati, sul quale Terracini ebbe un importante rilievo, e prima che la discussione si accendesse sul problema della seconda Camera, il dibattito della 1 Sottocommissione proseguì su alcune questioni inerenti all’organizzazione costituzionale generale del nuovo Stato. In particolare importanti sembrano essere gli interventi di Terracini su alcune problematiche in relazione alle quali egli espresse una istanza garantista e al tempo stesso marcatamente democratica (nella misura in cui democrazia significava per lui massima partecipazione popolare alla cosa pubblica), la quale
permette di accentuare l’originalità del deputato comunista e la sua specifica attività in ambito costituzionale.
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
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Il 18 settembre nella discussione sul numero dei componenti della prima Camera egli ribadiva la difesa di un principio a lui molto caro: quello di un sufficiente numero dei componenti la prima Camera, nonché quello di un loro adeguamento all’eventuale aumento della popolazione, la quale avrebbe in questo modo ottenuto la più ampia rappresentanza parlamentare e la più certa garanzia dell’assolvimento da parte dei deputati del mandato ricevuto. Secondo Terracini infatti una qualsiasi diminuzione del numero dei deputati della prima Camera «sarebbe stato interpretato come un atteggiamento antidemocratico, visto che, in effetti quando si vuole diminuire l’impor-
tanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni». Il giorno seguente Terracini si pronunciò in relazione al tema della verifica dei poteri e sulla proposta di Mortati favorevole alla creazione, presso la Camera dei deputati, di «un tribunale di verifica delle elezioni» variamente composto, presieduto dal presidente della Corte di Cassazione, secondo il modello anglosassone. A parere di Terracini l’istituzione di questo organo esterno all’Assemblea legislativa significava sminuire l’autorità di quest’ultima, subordinarla «all’iniziativa di organi che sono meno direttamente collegati alla volontà popolare», e intaccare tutto il prestigio della Camera, cioè «della volontà degli elettori». Proprio sulla scia di queste considerazioni egli giudicava pericoloso creare questo istituto extraparlamentare sia per le stesse minoranze, sia per la intera massa degli elettori sovrani 86. Inoltre in ossequio al principio marxiano della revoca del mandato da parte
degli elettori, Terracini insisteva in questa stessa sede affinché vi fosse nella Costituzione congiuntamente al riconoscimento del principio di indennità ai deputati, anche un richiamo «al senso di responsabilità dei deputati». Un ulteriore intervento che va considerato al fine di comprendere in quali termini si ponesse per Terracini il problematico rapporto esistente tra l'affermazione di elementi di garanzia per le minoranze e il rispetto della volontà della maggioranza in ordine alla questione stessa della stabilità, è quello relativo alla possibilità di altre convocazioni della Camera oltre le automatiche e in particolare dell’autoconvocazione della Assemblea. Se infatti per Terracini (così come per Mortati e Conti) il diritto di autoconvocazione costituiva «una garanzia alle minoranze», tuttavia queste «debbono essere considerate in rapporto alla loro efficienza e al loro reale valore politico», nella misura in cui «nel quadro di una società nazionale che va sempre più organizzandosi sulla base dei partiti, bisogna tener conto del fatto che non sarà una persona e neanche piccoli gruppi di pres-
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
sione che potranno avere un peso decisivo». Si trattava insomma di mettere insieme le due istanze fondamentali per un funzionamento democratico ed efficiente del nuovo Stato, ove pur ammettendo Terracini di non essere tra «coloro che richiedono in maniera assoluta garanzie di stabilità al governo tali da impedire che le giuste esigenze delle minoranze siano fatte valere», egli aggiungeva però che in ordine all'esigenza generale della stabilità governativa a cui egli non si mostrava sordo doveva «trattarsi di minoranze che rappresentino qualche cosa di concreto». A tal fine proponeva una cifra intermedia (tra la troppa bassa di Mortati e la troppo alta di Conti), «tale da soddisfare la necessità di una tutela alle minoranze efficienti e, nello
stesso tempo, di una convocazione che si faccia quando la situazione politica realmente la richieda», e per opera soltanto dei membri della Assemblea 87. Il 24 settembre ebbe inizio la discussione sulla composizione della seconda Camera, a seguito delle proposte di Mortati da tempo impegnato nella ricerca di nuove tecniche elettorali e più in generale nella definizione di un nuovo sistema di democrazia organica. Secondo i suoi intenti la nuova Camera doveva godere della piena parità di funzioni rispetto alla prima; doveva essere eletta in base ad un principio diverso da quello rappresentativo politico indifferenziato sorto dalla Rivoluzione francese e stabilito per la Camera dei deputati. A questo fine egli proponeva la rappresentanza
organica,
affinché tramite questo nuovo principio (in base al quale gli elettori intervenivano nella veste di rappresentanti di interessi) anche altri gruppi sociali facessero «sentire il loro peso» e assumessero «precise responsabilità politiche». In particolare gli interessati dovevano essere i rappresentanti delle nuove organizzazioni nate nel corso dello sviluppo storico-sociale, i quali avrebbero così integrato «lo schieramento dei partiti» (che a suo giudizio «non rappresentava tutta la realtà sociale») e, chiamati a far parte del Senato, avrebbero finito «con l’avere una visione più ampia dei loro interessi particolari (ora inquadrati negli interessi generali dello Stato), acquisendo anche «una loro efficienza politica predeterminata». Posto che all’obiezione
di quanti ritenevano che «la predeterminazione del peso da attribuire alle varie categorie professionali da rappresentare nella seconda Camera introdurrebbe un elemento di arbitrio», Mortati rispondeva che una forma di arbitrarietà era riscontrabile in tutte le riforme relative ai sistemi di rappresentanza; e posto che questo nuovo principio
della rappresentanza per interessi di categoria era anche utile a raggiungere l’«auspicata pacificazione sociale», esso andava secondo il noto costituzionalista necessariamente adottato 88,
ZIO
4. IL CONTRIBUTO
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Immediata fu la risposta negativa a questa proposta, già avanzata in sede di Commissione Forti, da parte della sinistra comunista. Nel contesto di una lunga serie di transazioni tra le due parti maggiormente in disaccordo (PCI e DC), ebbe luogo la netta critica di Terracini e degli altri deputati comunisti (in particolare di La Rocca e Laconi) al principio della rappresentanza organica. Critica che accanto alla «accettazione condizionata del bicameralismo» 8° e ad una non pregiudiziale opposizione al principio della rappresentanza regionale (alla quale anzi Laconi e Terracini — come si è già accennato — si erano mostrati favorevoli, abbracciando per una parte del dibattito il progetto di una seconda Camera eletta a suffragio universale indiretto secondo il sistema delle autonomie?°) rimase uno degli elementi centrali nell’operato di questi costituenti relativamente a tale capitolo dell’ordinamento costituzionale. Il primo ad intervenire per valutare negativamente il progetto mortatiano fu Laconi nella stessa seduta del 24 settembre. Dopo aver dichiarato la propria contrarietà nei confronti di una possibile parifi-
cazione dei poteri delle due Camere, egli affermava da un lato di essere favorevole alla «costituzione di una Camera su base regionale», la quale sarebbe stata garanzia della fondamentale «unità dello Stato italiano» e al tempo stesso — sulla base della propria esperienza nella Consulta regionale sarda e della propria specifica sensibilità su questa materia — di un inquadramento più ampio e generale delle
questioni particolari regionali. Dall’altro lato, a fronte anche della difficoltà di determinare «una rappresentanza proporzionale degli interessi» delle varie categorie, Laconi respingeva il principio della rappresentanza organica degli interessi economici e morali, i quali a
suo parere dovevano
essere presi in considerazione
solo «da un
punto di vista squisitamente politico» e non nel loro «stato bruto e
iniziale» 9. Il giorno successivo fu la volta di Terracini che parlò lungamente al fine di affermare la propria contrarietà «alla parità di funzioni della seconda Camera rispetto alla prima» («espressione genuina della sovranità popolare» ?) e soprattutto allo scopo di argomentare in maniera articolata i motivi della propria opposizione al sistema professionale. Pur essendo a suo parere esatta l'opinione di quanti vedevano nel moltiplicarsi di organismi di rappresentanza collettiva la possibilità di una maggiore espressione della volontà popolare, nonché quella di una maggiore diffusione democratica del potere; tuttavia errata e pericolosa era sia l’idea (espressa da Conti?) che questa volontà trovasse «maggiore espressione in organi periferici, limitati e parziali, anziché nell'Assemblea Nazionale», sia quella (e-
ZII
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
spressa da Mortati) della rappresentanza di interessi. Quest'ultima,
oltre a determinare l’esclusione dell’elemento femminile «non partecipe in modo diretto al processo produttivo e pertanto non includibile nei particolari collegi elettorali», avrebbe favorito secondo il giudizio di Terracini, su questo intriso di una viva memoria storica, la
«collusione oscura» di determinati e distinti gruppi di interessi, a danno stesso della collettività (e a tale proposito l'esempio citato era quello del protezionismo doganale, «terreno sul quale nazionalismo e fascismo eressero la loro disastrosa dittatura»). Viceversa egli opponeva al criterio per dir così “tecnico” della rappresentanza professionale, prevista accanto a quella regionale anche da altri costituenti, un criterio «che, anziché
individuare
ed isolare gli interessi, li fonda
smorzandone le manifestazioni più caratteristiche», ovvero quello più propriamente politico dell’organizzazione dei partiti. Proprio questi ultimi erano da lui ritenuti gli unici soggetti capaci di rappresentare le classi ed i loro interessi generali, e dunque di giocare quel ruolo anfibio di elementi di mediazione tra le istanze provenienti dal basso — dall’interno degli stessi raggruppamenti sociali in tutta la loro peculiarità — e l’esigenza di organizzare e dare una espressione più generale ed universale a tali interessi di classe, veicolandone politicamente le aspirazioni fondamentali. Relativamente poi alle proposte legate alla rappresentanza regionale, Terracini, opponendosi ad ogni «designazione dall’alto» non proveniente «dai cittadini», specificava che prioritario era per lui il principio dell’elettività come «base esclusiva» della formazione della seconda Camera e accoglieva con favore l'ipotesi del suffragio di secondo grado (respingendo quello di primo grado con collegio uninominale e maggioritario, solo apparentemente più democratico).
Per comprendere meglio l’essenza dell’intervento di Terracini e di quanti con lui si pronunciarono contro il modello della rappresentanza organica, sembra opportuno prendere rapidamente in esame qualche altro rilievo critico mosso da altri esponenti del PCI. Secondo La Rocca il progetto di Mortati mostrava tutta la sua pericolosità dal momento che esso portava ad una svalutazione della prima Camera, ritenuta così implicitamente meno capace di «garantire un maggior contatto tra gli orientamenti generali e gli interessi concreti»; conduceva alla prevalenza degli interessi economici rispetto a quelli espressi dalla volontà popolare, tutelati normalmente all’interno della prima Camera; e infine esso presupponeva una arbitraria e problematica superiorità rappresentativa di alcune categorie su altre. In questo senso tale tipo di rappresentanza avrebbe finito con il «gabellare per interessi generali, interessi del iutto particolari»
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DI TERRACINI
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e con il riservare «una posizione di privilegio a determinate categorie» 4, a determinate “forze vive” della nazione. Ancor più esplicite furono poi le parole di Grieco. Rifiutando il riduttivismo di quanti avevano ritenuto scontata l’adesione dei comunisti e delle sinistre in generale alla tesi della rappresentanza organica in seguito della loro formazione politico-culturale primariamente attenta al terreno dei fatti economico-materiali, egli metteva in luce, secondo un’analisi segnata da suggestioni di matrice storicistica, come assolutamente
progressivo fosse il processo che aveva portato la classe operaia dalle prime organizzazioni di categoria, dal «sindacalismo strettamente corporativo» alla acquisizione dello strumento partito, capace di essere «l’espressione superiore della coscienza politica delle masse lavoratrici». In questo senso «pensare ad una assemblea legislativa nella quale i rappresentanti siano espressione di categoria» sarebbe stato a suo parere «un grande salto indietro» da un punto di vista politico. In questo acceso dibattito che impegnò la II Sottocommissione per una larga parte dei suoi lavori, costante fu da parte comunista il riconoscimento del principio della rappresentanza politica del secondo ramo del Parlamento, “obbligato” a rispecchiare «in sé il rapporto delle forze politiche esistenti nel corpo» degli elettori”.
Proprio nella risposta che Mortati diede a Terracini è possibile rintracciare quale era il punto specifico di più forte distacco tra le due culture politiche che si fronteggiarono su questo capitolo della seconda Camera. A giudizio di Mortati infatti inadeguata perché puramente «casuale», secondo quanto detto anche da Einaudi, era la rappresentanza degli interessi «realizzata già dai partiti nelle elezioni politiche» menzionata e contrapposta da Terracini. La convinzione derivava dal fatto che, essendosi formati accanto ai partiti «potenti organismi» esercitanti «una notevole pressione politica per tutelare gli interessi delle classi sociali che rappresentano», proprio queste organizzazioni dovevano comporre la seconda Camera. A fondamento di tale visione, e di quella secondo cui solo una rappresentanza organica — capace di rispecchiare «fedelmente la realtà sociale» 96 — avrebbe potuto garantire la partecipazione di tutti (cittadini e categorie) alla cosa pubblica, era la specifica concezione che Mortati aveva del rapporto esistente tra gli interessi generali e quelli particolari. Sulla scia infatti di una più lontana tradizione filosofico-politica, quest’ultimo concepiva l’interesse generale come la sommatoria, «la risultante dell’accordo fra» i diversi interessi particolari, «frazionari», in sé presi e considerati, reputando viceversa non corretta l’idea espressa da Terracini di una «sublimazione degli interessi delle varie classi» attraverso i partiti e le ideologie. Sebbene Mortati dicesse di
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
essere consapevole del fatto che questi interessi particolari dovevano essere organizzati per non restare sempre tali (ma «in modo che riescano a superarsi»), tuttavia la via che egli giungeva a prospettare per questo scopo era quella di un loro intervento in una istanza politica più generale, ove essi potessero agire «con piena coscienza di sé» e «trovare essi stessi la confluenza del particolare che rappresentano nell’interesse generale». Come egli stesso mostrava di aver compreso, la differenza di questa sua posizione da quella di Terracini stava nel fatto che per quest’ultimo, sulla scorta del più generale riferimento alla propria cultura marxista, non si trattava di intendere la politica come soltanto la pura espressione degli interessi particolari esistenti, nella loro organizzazione corporativa , bensì di intendere la politica come il luogo della trasformazione, dell’innalzamento delle medesime istanze date, e quindi del superamento dello status quo. Per Terracini insomma era necessario non solo dare spazio politico a queste istanze
particolari, bensì soprattutto favorirne l’autocritica allo scopo di tendere alla loro generalizzazione, e al superamento della situazione politica data, rafforzando così la costruzione di un nuovo ordine della società. Ciò che infine sembrava caratterizzare la posizione di Terracini era, proprio nel riferimento polemico fatto da Mortati stesso al tema dell’ideologia, l’accentuazione del problema della formazione e dell’educazione della coscienza, ovvero il versante soggettivo dell’organizzazione politica, l'elemento sul quale l'antico gruppo dell’“Ordine Nuovo” aveva mostrato tutta la propria sensibilità, criticando profondamente la tradizione economicistica del marxismo di fine Ottocento. La difficoltà di arrivare ad una concreta e funzionale definizione del principio organico di rappresentanza (oltre a quella di conciliare le divergenze esistenti) portò ad un abbandono di tale progetto da parte delle stesse forze democristiane e a una lunga serie di accordi ‘ in Il Sottocommissione, in adunanza plenaria e poi in Assemblea, principalmente tra PCI e DC, in ordine alla determinazione finale del modo di composizione della seconda Camera. Prima di procedere all’analisi del contributo di Terracini all’interno della prima sezione della 1 Sottocommissione, e in particolare sull’organizzazione dei poteri dell'esecutivo, sembra opportuno prendere rapidamente in considerazione tanto gli interventi di Terracini su una delle questioni più delicate relative alla funzionalità del Parlamento, ovvero quella dei decreti-legge, quanto quelli sul problema del referendum. Il 12 novembre la Il Sottocommissione affrontò il tema della delega legislativa e del decreto-legge (articoli 76-77), alla luce di un
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netto contrasto tra quanti (La Rocca) erano assolutamente contrari a qualsiasi «forma di delega del potere legislativo al governo», in «conformità al principio ormai sancito in tutte le Costituzioni», quanti della stessa sinistra mostravano di avere posizioni intermedie (Laconi
e Terracini medesimo) e quanti infine erano più apertamente favorevoli alla concessione di tale possibilità al Parlamento (Mortati). In questa seduta Terracini presentò una proposta, tendente a trovare una soluzione di mediazione tra ragioni di efficienza del funzionamento della macchina legislativa e ragioni di garanzia del prestigio del Parlamento, soluzione che comunque limitasse massimamente tale potere di delega al governo, vincolandolo a un «tempo limitato» e a «oggetti determinati», non connessi «all'esercizio delle libertà personali e politiche, alle leggi complementari della Costituzione ed all’approvazione dei bilanci», laddove l’obiettivo principale di Terracini era evitare il ricorso a tale istituto in materia di libertà fondamentali dei cittadini. In questo senso egli disse infatti che «la fondamentale libertà dei cittadini può essere repressa anche con misure che non appaiono immediatamente lesive dei principi costituzionali; e si tratta appunto di evitare la possibilità che la repressione delle fondamentali libertà dei cittadini possa avvenire per delega». In relazione alla materia del referendum sembra opportuno analizzare quale fu l’atteggiamento di Terracini in Il Sottocommissione ove venne presentato il progetto completo di sua istituzione da parte di Mortati. È nella seduta del 17 gennaio che quest’ultimo presenta le proprie proposte, prevedendo due ipotesi: «su iniziativa del governo e su iniziativa del popolo». In relazione alla prima inziativa (articolo 1) egli prospettava due casi, ovvero per «sospendere una legge approvata dalle Camere, e viceversa per dare corso ad un disegno di legge respinto dal Parlamento». In questi casi il responso popolare veniva invocato a fronte di un dissidio tra Parlamento e governo «relativo a singole misure legislative», ossia per «dare al governo la possibilità di opporsi a leggi che il Parlamento abbia approvato» o per «introdurre leggi che abbiano incontrato resistenza nel Parlamento». Anche i casi contemplati per il referendum di iniziativa popolare (articolo 2) erano due: «da una parte iniziativa popolare che tende ad arrestare un procedimento legislativo già esaurito o ad abrogare una legge già entrata in vigore» (referendum «preventivo»); «dall'altra, iniziativa che tende ad introdurre nell’apparato legislativo modificazioni che non siano state promosse dal Parlamento» (referendum «arbitrale»). Nell'articolo 3 si prevedeva «l’ipotesi di rigetto dell’iniziativa popolare — referendum abrogativo — prescrivendo che debba avere ugualmente corso se ad essa si aggiunga
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una nuova inziativa con un numero maggiore di aderenti» (rispetto ai centomila elettori inizialmente previsti). Seguivano poi altri articoli di regolazione del referendum rigorosamente legislativo. Terracini intervenne nell’ambito della stessa seduta da un lato per dichiarare il suo assenso nei confronti dell’istituto del referendum valutato come «una forma del controllo popolare» da inserire nella Costituzione accanto alle elezioni, proprio al fine di rafforzare il controllo dei cittadini sulla «attività svolta dai rappresentanti — di questi ultimi — che hanno ricevuto il mandato». Dall'altro lato egli — sulla scia di quella che era sempre stata la sua maggiore preoccupazione nei confronti dell’attribuzione di poteri forti e suscettibili di involuzioni arbitrarie a singoli organi individuali — respinse con forza l’articolo 1 del progetto mortatiano, volto a conferire la facoltà di indire il referendum al capo dello Stato (al quale, secondo il progetto di Mortati, spettava il potere formale di indire il referendum, dal momento che «tutti gli atti del capo dello Stato devono essere controfirmati dal capo del governo»). Terracini, che già peraltro si era espresso con posizioni
critiche precedentemente su tale attribuzione!” e che contemporaneamente dirigeva la sua azione in seconda sezione per evitare il con-
ferimento al capo dello Stato di poteri svincolati dal Parlamento, si opponeva a tale proposta, dichiarando di non comprendere «perché, avendo negato questo diritto quando si trattava delle funzioni del capo dello Stato, si debba concederlo ora a proposito di una questione non legata in modo specifico alle funzioni» di quest’ultimo. Alla base di questo suo circoscritto rifiuto — sottoscritto anche da Laconi nel medesimo giorno — era la volontà di evitare che «una persona sola» potesse «avere un potere preponderante» nella vita dello Stato !°2: preoccupazione storicamente memore dell’esperienza fascista; oggettivamente in linea anche con analoghe considerazioni critiche di Gramsci in tema di manipolabilità delle masse; e riecheggiante infine i moniti marxiani relativi al bonapartismo. Gli elementi emergenti dalla reazione di Terracini alla proposta articolata di referendum sembrano essere pertanto essenzialmente due. Una ferma opposizione nei confronti del referendum governativo e un sostanziale assenso al referendum «limitato al caso dell’iniziativa popolare», il quale viene comunque giudicato principalmente come un elemento di controllo del popolo sull’attività parlamentare dei suoi rappresentanti. In questo senso se resta centrale una idea del referendum compatibile e inseribile all’interno del sistema parlamentare-rappresentativo (in ombra resta quella del referendum nel quale il popolo è il primo legislatore, ovvero la forma arbitrale di questo, destinata a cadere già nella 1 Sottocommissione), presente è anche
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l’idea del referendum come strumento funzionale alla elaborazione di una democrazia diretta, alla quale Terracini si mostra in più occasioni particolarmente attento. È infatti lui stesso a dichiarare che «le democrazie indirette dovrebbero tendere verso una trasformazione in democrazie dirette» e che pertanto sarebbe auspicabile «accogliere nella Costituzione il maggior numero possibile di elementi di democrazia diretta». In generale si può dire in ambito di ricostruzione storica che è presente una generica disponibilità del costituente comunista al nuovo istituto (di cui pur si prevedono modificazioni), e che all’altezza della 1 Sottocommissione non si registrano ulteriori prese di posizione contro una sua legittimazione costituzionale che sia anche non soltanto limitata alle forme referendarie di tipo abrogativo, ma che preveda altresì la funzione preventiva. Tale funzione decadde invece in sede di adunanza plenaria in seguito alle esplicite proteste di numerosi costituenti, tra cui lo stesso Togliatti consenziente solamente alla versione più riduttiva del referendum (quella abrogativa), e nettamente contrario alle altre forme referendarie ritenute pericolose per «la stabilità, la continuità e la possibilità stessa legislativa dello Stato repubblicano» !9. A questo punto per quanto concerne le posizioni assunte da Terracini in materia referendaria in sede di II Sottocommissione, anche
alla luce degli sviluppi ulteriori della discussione su questa materia, si possono formulare in sede storica le seguenti ipotesi. Una prima ipotesi, che ha forse rispetto alla seconda il vantaggio di non evocare dissidi interni alla dirigenza comunista, tende a ricondurre le diverse posizioni assunte dai vari costituenti comunisti (e in particolare da Terracini e Togliatti) a una divisione del lavoro nelle varie istanze costituenti, per dir così ad un “gioco di squadra” nel quale al presidente della I1 Sottocommissione incombeva l’onere di sgombrare il campo dal rischio di legittimazioni di forme referendarie di iniziativa governativa (unanimemente considerate dai costituenti comunisti fon-
te di gravi rischi per la nascente democrazia); mentre al segretario
del partito spettava il compito di intervenire — una volta che la discussione si fosse concentrata esclusivamente sul referendum popolare, e ciò proprio grazie ad una generica disponibilità inizialmente mostrata nei suoi riguardi dalla 1 Sottocommissione — allo scopo di ridurre ulteriormente il novero delle forme ammesse e in definitiva di limitare la legittimazione costituzionale al solo referendum abrogativo.
Una seconda ipotesi tende a porre l'accento sulla differente valutazione di Togliatti, come è noto indisponibile ad altre ipotesi che
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non fossero quella del referendum abrogativo !94. Sulla base di questa premessa due sono le ulteriori possibilità interpretative: per un verso appare possibile ritenere Terracini insufficientemente consapevole della complessità della materia (e per conseguenza poco avvertito dei rischi inerenti alle versioni più impegnative del referendum popolare); per l’altro — e assumendo un giudizio di valore rovesciato — sembra invece plausibile considerare il presidente della Il Sottocom-
missione più aperto nei confronti di strumenti funzionali all’esercizio della democrazia diretta. In base a tale ipotesi (più verosimile), pur mantenendo fermo il principio della centralità del governo parlamentare, Terracini non nutriva, all'altezza della 1 Sottocommissione,
ragioni di radicale opposizione nei confronti del referendum popolare, che egli tendeva a considerare, per il momento, nel suo complesso, senza distinguerne le diverse forme, in sede di Assemblea costituente destinate ad essere oggetto, da parte del gruppo comunista, di una ferma opposizione informata dalla preoccupazione di salvaguardare la centralità dell’«operato del Parlamento» '. Questa ipotesi appare avvalorata dalla particolare disponibilità di principio di Terracini nei confronti della democrazia diretta e popolare, traducibile per lui in un rapporto più stretto, di sorveglianza critica continua del popolo sovrano sull’attività di coloro che lo rappresentano e che quest’ultimo ha scelto !9°. 4-5
La discussione sul potere esecutivo nella prima sezione della I Sottocommissione Parallela alla discussione sul referendum è quella sul potere esecutivo all’interno della prima sezione della Il Sottocommissione di cui pure Terracini è presidente. La discussione iniziale si incentra sulle modalità di elezione del capo dello Stato, a proposito delle quali Terracini si scontra in particolare con la posizione di Mortati, tendente a prospettare la elezione del presidente da parte di un collegio speciale,
«in cui non intervenisse l Assemblea nazionale nel suo complesso», e altresì composto da quelle diverse forze sociali, che erano state escluse precedentemente nella determinazione delle modalità di elezione della seconda Camera. Per Mortati si trattava di spoliticizzare la figura del capo dello Stato, ove per spoliticizzazione egli intendeva un distacco dalle forze politiche e partitiche presenti in Parlamento; per Terracini viceversa — che in questo modo mostrava di sostenere la proposta di La Rocca! — l’obiettivo prioritario era l'istituzione di un raccordo
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DI TERRACINI
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molto stretto tra il presidente e l'Assemblea nazionale. In questo modo veniva mostrato nuovamente come le pretese di rimuovere l’e-
lemento della politica in realtà erano del tutto astratte (quando non nascondevano implicite istanze politiche), soprattutto in una realtà nazionale dove l’elemento dei partiti ha «realizzato una posizione così decisiva per la vita collettiva». A Tosato che si mostrava preoccupato del fatto che il presidente divenisse prigionero delle due Camere, Terracini rispondeva che quest’ultimo ne era «tanto prigioniero quanto lo è un deputato nei confronti dei suoi elettori», nella misura in cui centrale doveva essere in entrambe le situazioni il controllo degli elettori, e la corrispondenza tra la volontà di questi ultimi e l’attività dei loro rappresentanti'!®8. Senza dubbio la possibilità dell'esercizio di un controllo “dal basso” costituisce per Terracini, più che per altri costituenti comunisti, un elemento fondamentale a fronte della sua costante attenzione nei confronti della creazione di organi istituzionali non suscettibili di derive autoritarie e personalistiche. In questo senso va letto il suo giudizio positivo nei confronti della costituzione di un Consiglio supremo della Repubblica, composto, secondo la proposta di Conti, dai presidenti delle due Camere, dal presidente della Corte costituzionale ed altri membri elettivi e predisposto ad una funzione consultiva permanente nei confronti degli atti del capo dello Stato, al fine di negare ogni tendenza che porterebbe ad un «sistema autoritario» e «direttoriale». Inoltre tale proposta tendeva secondo Terracini a valorizzare i punti di contatto tra il presidente e la rappresentanza partitica dell'Assemblea nazionale, motivo questo del contrasto con le posizioni dello schieramento democristiano '99. L'idea della non separatezza del capo dello Stato dalla fonte popolare primaria (pur attraverso la mediazione del sistema parlamentare dei partiti) trova ulteriore spazio nel successivo intervento di Terracini, volto a non lasciare lacune costituzionali sulle
responsabilità del presidente della Repubblica in merito ad eventuali reati comuni.
Quest'ultimo infatti, «cittadino fra i cittadini», deve
«come ogni altro cittadino» essere «sottoposto, sebbene con certe cautele, alla legge», evitando parimenti di non rispondere per sette anni «alla giustizia del suo paese». Pertanto a questo proposito e in opposizione alla decisione del Comitato (il quale, incaricato di preparare un progetto su questa materia del potere esecutivo, aveva «omesso intenzionalmente ogni regolamentazione della responsabilità ordinaria del presidente»), Terracini proponeva una disposizione nella quale si diceva che «le norme previste nei confronti dei membri delle Assemblee legislative [...] sono applicabili al presidente
della Repubblica, sostituendo l'Assemblea Nazionale — alla quale
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spettava l'autorizzazione per il procedimento penale nei confronti del cittadino ricoprente «il più alto ufficio politico» — alle singole Assemblee» N°, Nell’ambito della stessa seduta si dava inizio ad un’altra discussione, tra le più accese, relative alla composizione del governo, all’in-
terno della quale gli interventi di Terracini mostreranno il medesimo impegno volto alla determinazione di un potere esecutivo massima-
mente immune da elementi da lui considerati pericolosi per eventuali derive autoritarie. Anche su questa materia dunque — inseribile nella parte generale attinente all’organizzazione dei poteri, ancora tuttavia
«ferma nelle sabbie mobili del dibattito degli anni Trenta fra fautori del dirigismo governativo e difensori delle libertà delle assemblee rappresentative»" — lo scontro era inevitabile tra quanti, anche fra gli eredi della cultura liberale classica legati al pensiero giuridico di V. E. Orlando, erano più inclini a creare una figura direttiva nel governo e quanti viceversa propendevano, sulla scia dei timori derivanti dalla esperienza storica passata e della propria cultura assembleare, per una forma di governo collegiale. La reazione di Terracini alla presentazione degli articoli 19 e 20 fu immediata. Egli intervenne subito per chiarire la sua contrarietà nei confronti della «determinazione di una responsabilità esclusiva del primo ministro per la politica generale del governo», responsabi-
lità che avrebbe portato questo, in particolare «nel campo della politica internazionale», a fare una politica di tipo personale, «ossia a fare la politica di un partito della coalizione, anziché quella della coalizione nel suo complesso». Entrando in contrasto tanto con i costituenti favorevoli a questa formulazione dell'articolo 20 per ragioni di stabilità (Mortati), quanto con quelli altrettanto inclini a questa medesima funzione direttiva del capo del governo per motivi di unità ed efficienza del governo medesimo (Tosato), egli affermava di disapprovare «qualsiasi sistema che renda il primo ministro non solo il responsabile, ma addirittura l'ideatore della politica del governo ed i ministri suoi collaboratori unicamente nella realizzazione e non anche nella direzione della stessa». In questo contesto i modelli a cui si richiamavano esplicitamente le due diverse elaborazioni costituzionali erano quello francese per i costituenti di sinistra, e l'inglese per lo schieramento democristiano. Se per Mortati infatti la natura preminente del capo del governo era quella più rispondente all'evoluzione raggiunta dal sistema giuridico costituzionale europeo ispirantesi al modello del diritto inglese (per il quale «il primo ministro è il capo del partito che ha ottenuto la maggioranza nelle elezioni, e questa qualità gli conferisce un prestigio particolare» e al
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quale, come egli rilevava, si era ispirata la stessa legislazione fascista sul capo del governo); per il gruppo comunista la pratica inglese non era da universalizzare, in quanto legata ad una esperienza storica specifica di un contesto altrettanto particolare. Ora, da un lato è vero che a questa altezza del dibattito costituzionale le posizioni dei comunisti non registravano ancora quelle accentuate preoccupazioni di natura politica che poi li spingeranno a formulare un emendamento decisamente contrario alla distinzione tra primo ministro e altri ministri, come quello presentato, a fronte di una mutata situazione politico-governativa generale, in sede di Assemblea generale alla fine dell’ottobre del 1947"4. Dall’altro lato però resta che agisce alla base di tutte le loro prese di posizione un modello di riferimento politico-culturale di fondo nettamente contrario a qualunque forma di attribuzione di poteri forti alle figure istituzionali, siano queste il capo dello Stato o il capo del governo. Sembra
a questo punto
interessante
mettere
in evidenza
tutta
l'articolazione delle due posizioni fondamentali, nei loro modelli di riferimento, confrontatesi nella prima sezione sulla materia governativa. Articolazione che comunque non modifica le diverse opzioni di fondo di Mortati e di Terracini. Benché infatti Mortati si mostrasse attento a quello che era uno degli assi principali su cui si muoveva la critica comunista, dal momento che proponeva, al fine di garantire «un’armonia e un’unità di indirizzo politico», una maggiore responsabilizzazione degli altri ministri, i quali andavano resi altrettanto responsabili non solo degli atti dei loro ministeri, secondo quanto recitava l’ultimo comma dell’articolo 20, ma anche della politica generale", egli tuttavia restava all’interno di una elaborazione tesa a riconoscere la preminenza della figura del primo ministro, «l’organo propulsivo e direttivo», dotato «dei poteri speciali che gli altri ministri non hanno e che non possono esercitare» !. Altrettanto e però in senso contrario si può dire per Terracini (e per La Rocca, il quale si esprimerà in questi stessi termini nella riunione del Comitato centrale del febbraio 19487) che, sebbene non si mostrasse sordo alla
necessità di avere un primo ministro in funzione coordinatrice, aderendo «alla vecchia formula [...] di un presidente del Consiglio dei ministri prim24s inter pares», tuttavia rimaneva fermo nell’idea di rafforzare il concetto della «responsabilità collegiale» "8. Proprio per questo egli trovava le formule proposte da Tosato e Mortati lontane dalla sua specifica elaborazione, dal momento che in queste «la responsabilità dei singoli ministri viene diminuita e si riduce all’ambito del loro Ministero, rendendo pressoché inutile il Consiglio dei ministri», che Terracini concepiva invece «come un organo di colla-
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borazione», come «un tutto organico» ed unitario, nel quale «tutti i ministri danno il loro contributo a determinati lati e aspetti della politica generale del governo» 9. In particolare uno dei punti su cui era maggiore il dissenso e proprio per questo più illuminanti riguarda la nomina del presidente del Consiglio e degli altri ministri. Gli emendamenti proposti da Mortati su questo tema prevedevano una netta differenziazione tra i due momenti della nomina, riconoscendo una priorità e una distintività della concessione della fiducia al capo del governo”, al quale veniva altresì riconosciuto il potere costituzionale «di indicare l’indirizzo politico di governo anche rispetto all’attività dei ministri»! Su questo la posizione di Terracini era altrettanto chiara: la distinzione e la successione prevista per i due momenti della nomina (prima prefigurata per il primo ministro e poi, su proposta di questo, per gli altri ministri) corrispondevano ad una prassi tipica della «vita costituzionale italiana»; e tuttavia costituzionalizzarla significava, ai suoi
occhi, «voler sottolineare la preminenza del primo ministro». Significava cioè investire la persona di quest’ultimo di una «autorità alla quale egli er4 contrario», e contro la quale proponeva il principio della collegiale direzione della politica governativa, nella sua altrettanto collegiale responsabilità (che quindi si distingueva per sua natura dalla «caratteristica propria del cancellierato», ove «il capo del governo risponde personalmente al capo dello Stato, mentre i ministri rispondono a lui» "?). Sulla scia di queste premesse si comprende come per Terracini fosse altrettanto essenziale limitare ad un solo dicastero la facoltà del primo ministro di assumere dei ministeri e in generale evitare l’«assommarsi nelle mani di una sola persona di numerosi dicasteri», situazione questa che doveva essere scongiurata
soprattutto in Italia ove di fatto storicamente si era già verificato che un solo individuo possedesse «numerose branche dell’amministrazione dello Stato» !?3. Altro motivo di ampio dibattito fu quello relativo all’organo predisposto alla fiducia del governo, oltre allo stesso carattere di questa fiducia. Da una parte lo schieramento della sinistra comunista rappresentato da La Rocca proponeva che la fiducia dovesse essere data dalle due Camere distintamente, al fine nuovamente di valorizzare la
Camera più rappresentativa.
In questo contesto
Terracini arrivava
anche ad ipotizzare una soluzione più drastica secondo cui «della fiducia e della sfiducia al governo fosse investita soltanto la prima Camera», a fronte della diversità esistente tra i due rami del Parla-
mento, uno elettivo diretto e l’altro di secondo grado. Dall’altra parte lo schieramento democristiano proponeva invece che la fiducia fosse
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chiesta congiuntamente all'Assemblea nazionale secondo due diverse
formulazioni: in base alla proposta di Tosato «il governo, costituito a norma del comma precedente, deve presentarsi entro 8 giorni all’Assemblea nazionale, per ottenerne la fiducia»; secondo quella più articolata di Mortati (la quale mirava peraltro nelle sue intenzioni ad accentuare «il senso di responsabilità dell'Assemblea», e perciò stesso a scongiurare il pericolo di crisi continue) «la pronuncia dell’ Assemblea sul programma governativo deve avvenire su una mozione motivata, con voto nominativo della maggioranza assoluta dei suoi componenti». Altrettanto accesa fu la discussione intorno al voto di sfiducia dato al governo da parte dell'Assemblea nazionale. Anche in questo caso l’azione di Terracini fu volta ad accentuare un legame stretto tra il governo e le Camere, ed in particolare la prima Camera elettiva, talora opponendosi a tutte le proposte che a suo parere non prevedevano una caduta del governo quand’anche «una sola delle Camere» avesse negato la fiducia a questo 4; talora muovendosi sulla base di una politica di mediazione tra le ragioni della stabilità governativa e quelle per lui prioritarie della garanzia delle «funzioni di sindacato politico delle Camere». Un'ulteriore conferma delle diverse culture politiche che orientarono i costituenti nella redazione del capitolo sulla composizione del governo si ebbe nelle sedute del 13 gennaio 1947. In questa sede finale infatti Terracini ribadiva con chiarezza l’asse di tutta la sua azione costituzionale dedicata a questa materia, riaffermando la propria posizione anche sul problema più discusso delle garanzie di stabilità governativa. E chiaro che anche in questo caso i suoi modelli di riferimento generali e la sua esperienza storica gli imponevano di non fare del motivo della stabilità «la nota dominante nella discussione», ed anzi di affermare il carattere spesso pretestuoso degli appelli alla necessità di salvaguardarla, tesi a suo giudizio a «frapporre ostacoli artificiali allo sviluppo politico del paese». A suo parere e nello specifico infatti tale esigenza era «soddisfatta dalle norme in esame», ovvero dalla proposta Nobile-Terracini presentata precedentemente, la quale pur richiedendo «una mozione motivata che raccogliesse l'adesione di un certo numero di deputati» e concedendo «al governo anche la possibilità di appellarsi», tuttavia salvaguardava in modo chiaro «l’autorità e il prestigio delle Camere», sovrane !°5. Questa medesima sovranità e centralità dei due rami del Parlamento era anche l'oggetto del dibattito relativo allo scioglimento anticipato delle Camere. Anche in questo caso a fronteggiarsi erano due proposte di segno molto diverso: quella del Comitato secondo
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cui «il presidente della Repubblica può convocare le Camere e, sentito il parere dei loro presidenti, può scioglierle» e quella di Nobile, appoggiata da Terracini, secondo la quale «se nel corso di un medesimo periodo di dieci mesi abbiano avuto luogo due crisi ministeriali in seguto a voto di sfiducia dell'Assemblea nazionale o di una delle due Camere, queste potranno essere sciolte con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio dei ministri». Dunque
«in nessun
altro caso le Camere
potranno
venire sciolte
prima del termine normale della legislatura». Tale secondo sistema aveva sia l’obiettivo di evitare «atti arbitrari da parte del potere esecutivo nell’esercizio del diritto di sciogliere il Parlamento», sia quello di «porre una remora alle crisi ministeriali». In questo senso da parte comunista il terreno al quale veniva affidata la stabilità era quello parlamentare, anziché governativo, laddove le proposte di questo schieramento erano volte a creare le premesse della durata delle due Camere per l’intero arco della legislatura, limitando l’ipotesi di legittimo scioglimento di queste a due crisi ministeriali ravvicinate nel tempo e in questa misura vincolando al massimo tale scioglimento anticipato e lo stesso «potere rilasciato al presidente della Repubblica»7. Se dinnanzi a questo tipo di prospettiva, ripresa dalla Costituzione
francese,
Tosato
protestava
riconoscendo
una
zione di assoluta dipendenza verso le Camere» del governo; rispondeva, altrettanto conformemente alla propria azione più generale, che era «proprio questo genere di governo che perché se un governo deve godere la fiducia del Parlamento
«situa-
Terracini giuridica si vuole, e cadere
per la sua sfiducia è evidente che deve essere subordinato al Parlamento stesso». Allo stesso tempo questi interveniva per opporsi all’ipotesi di una consultazione popolare tramite referendum nel caso di crisi e scioglimento anticipato delle Camere, ipotesi che a suo parere
in alcuni casi poteva divenire «un modo di stancare il popolo», un modo utilizzato dagli «antidemocratici» al fine di delegittimare «gli istituti democratici» rappresentativi, e di esercitare una ideologica e populista pressione sulle masse popolari, in luogo di una azione tesa alla partecipazione attiva e cosciente di queste ultime "8. E in particolare nel Comitato centrale del settembre 1946 che Terracini ha modo di tematizzare l'argomento costituzionale e di presentare per punti sommari il resoconto della propria attività nella Costituente. Analizzando brevemente tale documento del Comitato centrale, si avrà modo di constatare che da esso emergeranno le linee principali dei suoi interventi nel dibattito costituzionale. Secondo Terracini — che a questo proposito riprendeva le sue precedenti analisi del periodo carcerario e al tempo stesso confer-
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mava la natura dialettica della propria analisi storico-politica — la democrazia “di tipo nuovo” conteneva l’affermazione non soltanto dei classici diritti politici e civili dell'individuo; bensì anche di contenuti nuovi per il contesto giuridico italiano. In particolare il dato di novità si legava sia allo schiudersi di maggiori possibilità di partecipazione delle masse popolari alla vita politica nazionale, sia in generale agli sviluppi positivi delle contraddizioni della società capitalistica borghese !?9. Essendo la Costituzione italiana — sul modello di altre democrazie contemporanee — una “supernorma” di tipo rigido (dotata comunque di larghi margini di flessibilità), con norme aventi efficacia superiore rispetto alla legislazione ordinaria, essa poneva prioritariamente il problema di uno specifico sistema di giustizia costituzionale, che non a caso il costituente comunista introduceva tra le prime questioni. L'istituzione della «Corte delle garanzie costituzionali», connessa al carattere rigido della Costituzione, poneva alcuni problemi derivanti dal carattere spesso conservatore degli organi giudiziari (come la vicenda americana 5°, presa ad esempio per numerose questioni, aveva ben evidenziato). Pertanto la soluzione prospettata consisteva nell’istituire un forte legame del nuovo istituto con la prima Camera. In generale sul tema del potere giudiziario egli mostrava profonda consapevolezza della problematicità di questo versante dell’organizzazione istituzionale, propendendo per una politica di massimo controllo sull’organo giudiziario, all’interno del quale, secondo Terracini, il concetto dell’indipendenza era stato spesso utilizzato al fine di mantenere un assetto interno di natura conservatrice. In questo senso occoreva «che la volontà popolare avesse la maniera di affermarsi anche nel campo della giustizia», affinché la magistratura non si estraniasse «completamente dalla vita collettiva della nostra Nazione». Questo obiettivo era allora raggiungibile attraverso una precisa escogitazione di «sistemi — :r primis quello della elettività «dalla base» per i bassi gradi dell’apparato giudiziario! — che permettessero alla volontà popolare di farsi valere, nel momento in cui era necessario, anche nel campo dell’amministrazione della giustizia». Alla trattazione dell’organizzazione dei tre poteri fondamentali Terracini faceva una premessa di tipo storico-teorico più complessiva.
Esprimendo una elaborazione comune ad altri costituenti appartenenti allo schieramento delle sinistre, egli criticava, perché «di carat-
tere antiprogressivo», la classica suddivisione dei poteri, ritenuta oramai inadeguata dinnanzi al processo di allargamento della sfera di gestione della res publica, dinnanzi al rafforzarsi della «volontà delle larghe masse lavoratrici», volontà tradizionalmente tenuta a freno
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proprio attraverso la conservazione delle leve esecutive e giudiziarie nelle mani della ristretta classe dominante. Alla luce di queste considerazioni il costituente comunista affermava il carattere unificante della sovranità popolare sui tre poteri, destinati a suo parere a diventare «tre funzioni», dirette da un unico potere: quello popolare appunto. Passando poi a delineare gli elementi portanti dell’organizzazione costituzionale degli altri poteri, Terracini confermava la sostanza degli interventi da lui fatti nei lavori di redazione del testo fondamentale. Sostanzialmente una preminenza della prima Camera? ad elezione universale, diretta ed eguale, composta di un numero più che adeguato di membri, conforme alle necessità delineatesi nel «corso di circa un secolo di vita parlamentare» e sufficiente per garantire l’assolvimento del mandato ricevuto; una seconda Camera a base regionale (comunque dotata di poteri limitati rispetto all’altra, in particolare per ciò che riguarda le decisioni sul bilancio e il potere di provocare le crisi di governo), ove quindi la Regione potesse trovare «una propria rappresentanza centrale». Sempre in tema di ordinamento della Repubblica, Terracini rifiutava l'elezione diretta del capo dello Stato («perché ciò lo porrebbe immediatamente in concorrenza con l'Assemblea legislativa» e perché «l’esperienza del passato ci insegna che dove i capi dello Stato hanno ricevuto il loro potere dalle mani del popolo è stato sempre quello l’inizio di un sistema dittatoriale») ed accoglieva quella «attraverso le Camere». Camere altrettanto presenti nella determinazione dei compiti del capo dello Stato, che seppur dotato di una certa «efficienza di potere» (nella scelta del capo del governo, nel potere di grazia, nella sanzione delle leggi votate dalla Assemblea legislativa, e nella facoltà di scioglimento anticipato delle Camere) doveva essere comunque affiancato per molti dei suoi compiti da un Consiglio supremo della Repubblica, costituito da membri elettivi e garante del costante rispetto della sovranità dell'Assemblea legislativa. Infine l’ultima questione trattata in relazione alla nuova configurazione istituzionale riguardava l’unità nazionale. A questo proposito egli, partendo da un tema caro alla critica comunista (a Gramsci ad esempio) ossia quello della debolezza storica della rivoluzione democratica borghese nel perseguimento della «coesione interna delle varie classi e dei vari territori» dello Stato nazionale, sviluppava da un lato una ampia difesa dell’unità di quest'ultimo dall’altro lato spiegava le ragioni della propria adesione alla creazione del nuovo ente regionale. Il decentramento si poneva infatti come una reale necessità storica a fronte della devastante esperienza di accentramento
autoritario fascista; la difesa dell’unità era
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motivata dalla necessità di trovare soluzioni comuni ed omogenee a livello nazionale dei problemi socioeconomici preminenti, dinnanzi ai quali il perseguimento di singole politiche regionali su certe materie di rilievo (la riforma agraria ad esempio) avrebbe portato ad un forte dislivello a vantaggio dei gruppi sociali meno democratici. Particolarmente originale era poi nell’elaborazione di Terracini la trattazione della configurazione degli organi collegiali di governo degli enti locali, pensati sempre secondo il «principio dell’autorità popolare» !8. Nel discorso conclusivo all’Assemblea costituente'84 Terracini ribadiva i due elementi centrali presenti nel nuovo testo; elementi sui quali egli stesso aveva concentrato la propria attività giuridico-istituzionale. Si trattava del rafforzamento degli istituti del moderno Stato di diritto', compresa la creazione di «altri organi, ignoti al passato sistema» e «suggeriti a noi dall'esperienza dolorosa»; e dell’affermazione di principi nuovi, suscettibili di sviluppi ulteriori, laddove memoria storica e impegno per la realizzazione delle nuove «attese» trovavano nel costituente comunista la loro piena sintesi. 4-6
Laconi nel dibattito sull’organizzazione del potere giudiziario In relazione al ruolo che Laconi ebbe all’interno del dibattito costituzionale nella determinazione degli organi fondamentali dello Stato repubblicano, sembra importante analizzare principalmente la sua attività all’interno della seconda sezione della I Sottocommissione. Tale specifica scelta si giustifica alla luce di due motivazioni essenziali. Innanzitutto perché trattando di Terracini già si è avuto modo di mettere in evidenza i momenti in cui anche Laconi partecipa attivamente alla discussione costituzionale a fianco del presidente della II Sottocommissione; secondariamente perché su Laconi esiste già un esaustivo studio che tematizza gli assi portanti del contributo del costituente sardo nella redazione della Legge fondamentale. Tale studio si preoccupa di mettere in evidenza soprattutto l’attività di Laconi in relazione alla composizione della seconda Camera, e conseguentemente l’aspetto più rilevante del suo impegno giuridico-costituzionale, quello attinente all’organizzazione delle autonomie regio-
nali nel nuovo ordinamento statale, cercando di indagare a fondo sulle matrici culturali oltre che storico-politiche delle scelte che orientarono Laconi su questo problematico capitolo dell’ordinamento istituzionale. Interessante ad esempio sembra essere proprio l’individuazione del retroterra teorico che agì sulla impostazione di una
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determinata linea d’azione riguardante l’istituzione dell’ente Regione. Sembra infatti agire la lezione leninista e in primzis gramsciana relative al nesso dialettico tra l’istanza unitaria — particolarmente sentita da Laconi, a fronte dei pericoli federalistici (oltre che corporativistici) avvertiti nelle opzioni di molti costituenti e alla luce delle risoluzioni assunte dal v congresso del PCI — e quella autonomistica, cioè dell’autogoverno locale, rafforzatasi (come è oramai noto) al termine dei lavori costituzionali, quando cioè secondo il giudizio di Laconi stesso la situazione politica andò peggiorando in senso conservatore: B7;
Sulla scia di tale premessa l’attenzione si rivolgerà al contributo di Laconi in merito all’organizzazione del potere giudiziario, così come esso venne trattato nel dibattito costituzionale all’interno della seconda sezione. Nel corso dell’intera discussione Laconi incentrò i propri interventi su due elementi soltanto apparentemente contrastanti: ovvero da un lato tese a ribadire il principio dell'autonomia del potere giudiziario, come elemento centrale nella tradizione dello Stato di diritto; dall’altro lato il suo contributo fu volto ad introdurre all’in-
terno della magistratura elementi che impedissero a questa di divenire «un corpo a sé, un ordine a sé, autogovernantesi in forma asso-
luta», del tutto staccato da quelli che Laconi stesso giudicava come gli organi più legati all'istanza popolare, più rappresentativi di essa. In questo senso egli affermava esplicitamente nel suo lungo intervento finale in Assemblea costituente che il corpo dei giudici non poteva «immettersi nel corpo della democrazia italiana, inserirsi come organo giudicante tra il legislativo e l’esecutivo, controllare la legittimità di determinati atti di governo o la costituzionalità di determinate leggi», senza avere alla sua base «una volontà popolare, che suffraghi la sua interpretazione», senza avere «una qualsiasi investitura che /o ponga in condizione di poter interpretare la volontà del legislatore, di poter interpretare la volontà del costituente». E continuava dicendo: «per queste ragioni, noi siamo stati sostenitori del principio che la Magistratura deve essere governata e controllata da
organi in seno ai quali i diversi poteri, e particolarmente il potere legislativo e le rappresentanze popolari, abbiano una loro specifica rappresentanza» 18. Se dunque il Parlamento rappresentava l’istanza massimamente espressiva della volontà delle masse popolari (ovvero l’«istanza democratica più alta del paese») e se era necessario, secondo l’intera linea di azione portata avanti dal Partito comunista nelle varie sedi costituzionali, affermarne la centralità in ogni potere istituzionale (come
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era stato per l'elezione del capo dello Stato, e per «il fatto che il governo debba riscuotere la fiducia espressa del Parlamento»), allora altrettanto fondamentale era introdurre nel nuovo testo «il principio che al governo della magistratura partecipi una rappresentanza del Parlamento» 59, Tale istanza,
che Laconi
cercherà
di tradurre
in realtà nella
seconda sezione, si comprende maggiormente analizzando una relazione ritrovata tra le Carte Laconi e in parte pubblicata nel saggio monografico suddetto, sullo «studio dei problemi inerenti alla indipendenza del potere giudiziario». In questa relazione, ove sono state individuate «rilevanti tracce di alcune riflessioni apparse negli interventi di Laconi in Assemblea costituente», l’asse del discorso ruota
attorno alla sovranità popolare, individuata come la sola fonte di tutta la strutturazione dei poteri dell’ordinamento giuridico-costituzionale repubblicano, l’unica fonte che permette di ricondurre ad unità la altrettanto necessaria distinzione dei poteri statuali, impedendo che il loro «frazionamento da strumentale divenga sostanziale», evitando «cioè che i vari organi dello Stato agiscano come se fossero investiti di un potere autonomo e non dalla sovranità popolare», la quale è viceversa «il principio unificatore» di base 4°. Sulla base di queste premesse si comprende allora come anche per Laconi la centralità del potere legislativo, che è «in costante rapporto con la volontà popolare»'!#, permetta, senza intaccare il principio dell'autonomia del potere giudiziario, di esercitare un controllo dal basso sugli istituti giuridici portanti, di introdurre in essi elementi provenienti dall’esterno, dalla società civile, capaci di innescare dinamiche di conflittualità e al tempo stesso di rinnovamento. Al pari di quanto si è già detto per Terracini, anche per Laconi il riconoscimento della consustanzialità del terreno della politica rispetto alla organizzazione tecnica dei poteri costituisce uno dei motivi centrali del suo impegno costituzionale, nella misura in cui l'inserimento del controllo e della partecipazione popolare a fondamento degli organi giudiziari, avrebbe portato tanto ad una rottura rispetto al «principio organizzativo interno della funzione» giurisdizionale «di tipo gerarchico e autoritario» ‘4; quanto ad una maggiore garanzia del fatto che la giustizia sarebbe stata amministrata “in nome del popolo”; quanto infine a quello che è stato definito l’obbiettivo «del progressivo avvicinamento del giudice alla base sociale» '#. In questo senso erano caratteristici degli interventi di Laconi la critica del presunto carattere astratto e meramente tecnico dell'elemento giurisdizionale e viceversa l’assunzione delle istanze politiche e sociali alla base di quest’ultimo. Indipendenza della magi-
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stratura e sua sensibilità alle dinamiche sociali (così come esigenze tecniche e domande politiche) avrebbero trovato un necessario contemperamento nel nuovo testo costituzionale, anche alla luce dell’affermazione di una centralità della sovranità popolare, «principio unificatore» appunto. Il primo rilevante intervento di Laconi in sede di seconda sezione fu volto non a caso ad affrontare queste due questioni fondamentali, ovvero quella più scontata — perché univocamente richiamata dalle tre relazioni (di Calamandrei, Leone e Patricolo) sul tema dell’organizzazione del potere giudiziario, e generalmente affermata nel dibattito dai vari schieramenti politici — dell’indipendenza della magistratura, e quella del radicamento del giudice all’interno della società, nelle sue diverse espressioni. Questa seconda istanza, maggiormente avvertita dalle sinistre presenti nella seconda sezione, non avrebbe secondo Laconi minato il principio dell'autonomia dal potere esecutivo, tanto più caro dopo l’esperienza fascista, ma anzi lo avrebbe rafforzato, garantendo anche «l'indipendenza all’interno» del corpo giudiziario. Il dato di partenza dell'intervento di Laconi era la convinzione che se si fosse lasciata tutta la regolamentazione della vita interna di questo potere «ai giudici stessi», concepiti come casta chiusa e sepa-
rata, ciò avrebbe potuto fare «ancora sorgere una questione di indipendenza», nella misura in cui si sarebbe accentuato il cristallizzarsi del potere giudiziario, nei suoi meccanismi di gerarchizzazione e burocratizzazione interna, a scapito di un contatto con l’esterno. Se
del tutto scontato era per Laconi il riconoscimento del legame degli organi della giustizia con l'elemento sociale - non essendo il giudice una «astrazione», bensì il «figlio di una determinata classe e rappresentante di un determinato orientamento» — proprio per questo allora andava valorizzato il rapporto del singolo giudice con «altri uomini», i quali «per la loro competenza tecnica possono apportare
un sussidio alla interpretazione retta della legge e ispirare» al giudice stesso «una comprensione maggiore dello spirito della legge». L'indipendenza della magistratura «all’interno» andava tutelata, quando non ricostruita, non già dotando il sistema giudiziario di elementi di pura separatezza, di isolamento dal contesto più complessivo, il che sarebbe poi equivalso a mantenere una struttura rigida e sempre uguale a se stessa, e sempre innegabilmente legata ai medesimi valori, assetti sociopolitici, orientamenti culturali; bensì proteggendo tale sistema attraverso un rapporto di scambio interattivo con le componenti vive della società, con gli «elementi che provengono dalla vita libera del Paese e che riflettono i sentimenti e-le aspirazioni
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Il SOTTOCOMMISSIONE
del popolo». Solo questo intervento esterno avrebbe prodotto innovazioni in un corpo «che risente dell’eredità culturale del passato» e che dunque difficilmente avrebbe potuto essere pervaso dalle nuove tendenze giuridico-politiche, dai nuovi slanci di giustizia e dalla nuova supremazia dell’elemento popolare. In questo medesimo intervento Laconi si faceva anche portatore di un’altra istanza, sempre inserita all’interno di una azione volta a tenere insieme l'elemento politico con quello tecnico, quello cioè della non «assoluta unificazione della giurisdizione», per motivi di tipo pratico e contingente. L'idea delle forze di sinistra infatti era quella di mantenere, seppur minimamente, le giurisdizioni speciali per determinate e concrete esigenze, pur restando nell’ambito dell’ideale dell’unicità della magistratura, e nel contesto di una decisa revisione del sistema delle giurisdizioni speciali, suscettibili di involuzioni antidemocratiche'#. Infine in questa stessa seduta, Laconi dichiarava di essere contrario alla proposta (avanzata da Leone) di mantenere la Corte dei conti e il Consiglio di Stato come organi giurisdizionali, dotati di un peso decisivo, improprio per «organi che rappresentano soltanto delle competenze tecniche», e che pertanto erano privi della «investitura di una elezione popolare», necessaria — secondo Laconi — per quegli istituti deputati a governare e controllare «tutta la vita del Paese» !4. In conformità a tale intervento preliminare Laconi si oppose successivamente all’articolo 24 del progetto di Calamandrei, secondo il quale «i Magistrati non possono essere iscritti ad alcun partito politico», ritenendolo un principio astratto, «formale», privo di «contenuto pratico», incoerente dunque con il realistico riconoscimento della socialità della vita e della funzione dei giudici ‘4°, Il fulcro degli interventi di Laconi fu quindi la presa d’atto della non separatezza dei funzionari della giustizia dal contesto sociale generale, e in questa misura le sue proposte, di politico più che di tecnico #7, furono complessivamente volte ad affermare che nell’obiettivo di garantire una indipendenza anche «all’interno del corpo giudiziario» era necessario non accentuare «la completa autonomia» del giudice, la quale avrebbe portato alla formazione di «un ordine avulso dalla vita del Paese», del tutto lontano da eventuali spinte progressive. A quanti si proclamavano difensori «dell’assoluta autonomia della Magistratura», Laconi obiettava che questo era «un con-
cetto astratto, in quanto non si può affermare, dal punto di vista politico, che i giudici anche se indipendenti dalle influenze di altri poteri, siano effettivamente indipendenti nel senso astratto ed assoluto». «Essi — continuava = sono degli uomini come tutti gli altri, che vivono e provengono da una particolare classe sociale, con un cospi-
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
cuo patrimonio culturale, e legati da mille vincoli alla società: sono quindi uomini che hanno una posizione conservatrice, che potrebbe tradursi in una attitudine politica, quando fosse loro concessa un’assoluta autonomia nell’applicazione della legge». Proprio alla luce di queste osservazioni, che Calamandrei avrebbe ammirato per «la precisione
e l’acutezza»'49,
il costituente
comunista
proponeva
di
lasciare ai poteri esecutivo e legislativo «la possibilità, attraverso determinate cautele e garanzie, di controllare e dirigere, in senso generale, la vita dell’ordine giudiziario», nonché di comporre «pariteticamente di membri eletti dalle due Camere» e «di magistrati scelti dai diversi gradi» il Consiglio superiore della magistratura, il quale così composto
avrebbe
assicurato maggiormente
il principio
dell’indipendenza all’interno degli stessi poteri giudiziari°, e non però — per stare alle parole di un altro costituente comunista accostato a Laconi per le sue prese di posizione sull’ordine giudiziario — «di estraneità completa dal resto dello Stato»! Parimenti in relazione al problema delle altre istituzioni con funzioni giurisdizionali, quale ad esempio il Consiglio di Stato (rispetto a cui Laconi si vedeva costretto, in conformità con il compromesso raggiunto in seconda sezione, ad accettare una funzione giurisdizionale, anziché solo consultiva), egli proponeva una altrettanto decisiva presenza degli organi più vicini alla volontà popolare per la sua composizione interna. Posto che infatti il raggio di azione del «nuovo Stato democratico» si sarebbe ampliato, aumentandone l’intervento nel campo dei rapporti privati e determinando così l’estensione della discrezionalità della pubblica amministrazione, Laconi non era «d’avviso» che il sindacato sull’operato amministrativo dovesse essere affidato alla magistratura ordinaria, l’ordine meno vicino alla «volontà popolare». Viceversa egli avrebbe optato per una soluzione che addirittura affidasse tale controllo sull’amministrazione al Parlamento, ma in mancanza di essa accettava di aderire alla proposta di una nomina parlamentare (cioè da parte del potere legislativo) dei componenti del Consiglio di Stato, «naturalmente con le opportune cautele, in modo che la scelta sia fatta entro determinate categorie», al fine di tutelare le due proritarie esigenze di competenza e democraticità, secondo la tradizionale preoccupazione di contemperare conoscenza specialistica e partecipazione di ciascun cittadino alla vita delle istituzioni5. Più volte Laconi intervenne su questa materia, ribadendo l’importanza della nomina da parte delle Camere dei magistrati del Consiglio di Stato, nomina che avrebbe permesso una maggiore aderenza della composizione di questo organo alla volontà del paese, e più complessivamente una (seppure indiretta) partecipazione popo-
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
II SOTTOCOMMISSIONE
lare al «controllo sul settore attribuito alla sfera di discrezionalità del governo». Tale controllo infatti per la sua importanza, legata alla rete di rapporti esistenti tra Parlamento e governo e al necessario sindacato del primo sul secondo (secondo quella che era stata l’impostazione seguita dallo schieramento comunista nel dibattito costituzionale), non poteva essere affidato ad un organo soltanto tecnico, «sottratto alla designazione popolare»'3. Un organo che inoltre — come parimenti chiarirà Gullo — avrebbe potuto ampliare le proprie facoltà, arrogandosi «l'iniziativa legislativa, attraverso la presentazione di progetti all’assemblea, in nome del governo» 4. 47
La questione della Corte costituzionale A partire dalla metà di gennaio il dibattito si concentrò sul capitolo ritenuto, a ragione, più appassionante nell’organizzazione costituzio-
nale della giustizia: quello sulla Suprema Corte costituzionale. In un sistema giuridico in cui peraltro una ampia parte delle norme avevano un carattere di tipo programmatico, ovvero «di orientamento per il futuro legislatore»'5, l’istituzione dell'organo predisposto al controllo giudiziario sulla costituzionalità delle leggi assumeva grande importanza. Se il «“giudice delle leggi” serve a togliere efficacia agli atti del potere legislativo che si pongono in contrasto con la costituzione, cioè a rendere compiutamente obbligatoria ed operante la stessa costituzione»; allora — per il costituente comunista — tale nuovo organo doveva avere nella sua suprema funzione di «garanzia» una qualche «investitura popolare», un qualche legame con l'elemento più rappresentativo della volontà popolare: il Parlamento 7. Già nei primi interventi di Laconi relativi a questa materia si individuano gli elementi portanti delle sue successive prese di posizione in relazione alla Corte costituzionale. Il riconoscimento della centralità di questo nuovo istituto — tanto nuovo nella tradizione occidentale, quanto di lunga tradizione negli Stati Uniti — muoveva dalla individuazione della sua funzione di «garanzia» dei valori e dei principi fondamentali inscritti nel nuovo testo (in questo distaccandosi dal modello kelseniano), in specie di quelli che, legati ai capitoli attinenti alla trasformazione del terreno socioeconomico, costituivano la premessa di sviluppi futuri!. In questo senso si può ben dire che lo schieramento comunista, benché di fondo e inizialmente orientato su «un atteggiamento di diffidenza»9, venne tuttavia articolando maggiormente all’interno del dibattito costituzionale le proprie posizioni sul nuovo organo e in
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
relazione alla «stessa scelta, che non avvenne
senza indecisioni, di
dotare la democrazia di una Costituzione rigida» ‘°°. Vanno segnalate allora a questo riguardo tra gli altri proprio le prese di posizione di singoli costituenti come Terracini o Laconi durante il lungo
percorso di elaborazione giuridica del nuovo assetto istituzionale, a partire dalla Commissione
Forti (ove Terracini, acquisì progressiva-
mente consapevolezza in ordine all'importanza del nuovo istituto di garanzia), fino al dibattito generale in aula'". Qui — come è stato riconosciuto — «i comunisti fentarono di coniugare giustizia costitu-
zionale e sovranità popolare»! e «una volta prevalsa la tesi dell’istituzione del controllo di costituzionalità affidato ad un apposito organo, finirono per agevolare e per contribuire a comporre, per così dire, l'autentica ragion d’essere della Corte», ossia quella legata in particolare al carattere programmatico di molte delle disposizioni costituzionali aventi un contenuto innovativo !8.
Altrettanto rilevante fu nelle successive considerazioni di Laconi il tentativo di inserire elementi di tipo politico, come poteva essere quello del controllo e dell’«investitura popolare» della Corte, in un organo che a suo parere, per l’importanza rivestita, non poteva essere
esclusivamente tecnico. A questo proposito egli affermerà successivamente durante la discussione in Assemblea costituente, che l’intendi-
mento
generalmente condiviso dalla I1 Sottocommissione
quello di dare alla Corte una
configurazione
era stato
tecnica e politica
insieme, ovvero «una fonte politica [...] genuinamente democratica» ed una «composizione tecnica»! D'altra parte il duplice aspetto della Corte, nell'avere poteri equivalenti nel loro peso a quelli degli organi del legislativo e però nel non essere un istituto rappresentativo, era uno dei dati più problematici per i costituenti impegnati in questo capitolo, e in specie per Laconi (come anche per Gullo'5) particolarmente attento a che l’elemento tecnico non sovrastasse
quello politico, e a che le ragioni dell’efficienza, della competenza e dell’indipendenza, non scavalcassero quelle della legittimazione democratica, contravvenendo anche alla centralità della sovranità parlamentare. L'esigenza di tutelare quest’ultimo elemento — esigenza che era stata d’altra parte alla base di ogni valutazione tendenzialmente diffidente nei confronti della Corte — era tale da spingere Laconi, al pari di come era accaduto nella Commissione Forti per Terracini e Crisafulli, a condizionare prioritariamente qualsiasi decisione relativa al controllo della costituzionalità delle leggi alla scelta dell’oigano adatto a tale funzione, ovvero alla scelta di un organo «democraticamente investito di tale controllo», avente la stessa «origine e
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
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Il SOTTOCOMMISSIONE
dignità» della Assemblea costituente'$6. A questo punto si trattava di individuare il modello di giustizia costituzionale adatto alla realtà italiana, comprese tutte le questioni specifiche ad esso legate (il tipo di controllo costituzionale, gli effetti delle sentenze della Corte, le
modalità di accesso ad essa e soprattutto la composizione interna dell’organo). Da una parte per le sinistre prioritaria fu l’opposizione al modello di giustizia costituzionale americano di tipo prevalentemente giurisdizionale, secondo cui il sindacato di legittimità spettava ai giudici ordinari. Tale sistema limitava «l'efficacia delle pronuncie di costituzionalità ai singoli casi sottoposti all'esame dei diversi giudici, con un accesso che passava attraverso i normali canali della giustizia, rappresentando la Corte suprema l'elemento di saldatura
dell’intero sistema giudiziario». Questo rifiuto poggiava sul timore che così si sarebbe in realtà finito per «dare troppo spazio al potere giudiziario» 97, ai cosiddetti corpi tecnici, dotati di un potere forte,
preminente sugli organi politici, sul potere del legislatore, sulla sua tradizionale «sovranità» ‘98. Paura questa tanto più accentuata a fronte della mancanza di una elezione dal basso dei giudici, se non anche rafforzata dalla «impressione penosa lasciata, dopo la Liberazione, da una parte della Magistratura ordinaria, che era apparsa ancora spiritualmente inserita nel vecchio sistema di valori, se non addirittura, più o meno larvatamente fascista»'99. Alla luce di tali timori l’azione di Laconi (al pari di quella di Terracini) era orientata ad accettare il principio dell’attribuzione del sindacato di legittimità costituzionale ad un organo specializzato (la Corte costituzionale appunto) — secondo il modello austriaco dal carattere «unitario ed accentrato dell’organo di giustizia costituzionale» '7° — anziché alla magistratura ordinaria, secondo quanto aveva proposto Einaudi. L'impegno di Laconi era altresì volto a fare in modo che tale organo ricevesse «un’investitura altrettanto degna di quella che ha l'Assemblea costituente nei confronti della sovranità popolare», ossia
una elezione da parte del Parlamento.
In questo senso in adu-
nanza plenaria egli esprimeva il proprio assenso nei confronti delle conclusioni raggiunte in 1 Sottocommissione, relative alla scelta del modello politico di giustizia costituzionale, nel quale restavano comunque contemperate le esigenze politiche e tecniche. Il nuovo organo infatti sarebbe stato composto da magistrati «circondati da particolari cautele» e «scelti entro certe determinate categorie» e allo stesso tempo anche investito di quella legittimazione democra-
tica (appunto tramite l’elezione parlamentare 7?) la quale avrebbe in parte allontanato i rischi connessi ad un «governo dei giudici», derivante dalla scelta del modello politico 7.
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COSTITUENTE
Dall’altra parte anche la questione relativa al modo di accesso a questa specifica forma di giustizia, e ai soggetti legittimati a proporre l’impugnazione, riguardò l’attività costituzionale di Laconi nella seconda sezione. Se il 15 gennaio il costituente comunista interveniva per dichiarare la propria contrarietà alla «lunga elencazione dei possibili promotori del procedimento» prevista da Leone e affermare invece il suo assenso «a riservare ogni iniziativa a ciascuna delle due Camere»; il 22 gennaio egli dichiarava tutta la propria avversione al sistema di impugnazione in via principale. Tale rifiuto derivava principalmente dalla sua preoccupazione di salvaguardare gli «organi legislativi» 74, in particolare quello eletto dal popolo, a fronte della proposta di Calamandrei di legittimare la sola minoranza del Parlamento a promuovere la richiesta di incostituzionalità. Secondo Laconi non era «ammissibile frazionare un organo» come quello rappresenativo per eccellenza e «ammettere che una minoranza di esso non meglio qualificata potesse adire la Magistratura». Altrettanto inammissibile sembrava a Laconi, come anche in questo caso a Gullo!”, «l’azione popolare, la quale porterebbe ad un enorme
carico di lavoro, senza avere in effetti sostanza alcuna» °.
Appare interessante rilevare a tal proposito che in queste specifiche prese di posizione di Laconi si facevano sentire tutti i timori più tipici dello schieramento comunista, legati al «possibile conflitto di una istituzione con funzioni così delicate — la Corte — con l’organo legittimato dal suffragio popolare»! (il Parlamento); timori questi motivati dalle ragioni che più tardi Terracini avrebbe esplicitato chiaramente nella nota intervista sulla nascita della Costituzione.
Qui il senatore comunista — parlando del caso particolare del referendum — mise l’accento sulla negatività di una procedura atta a «sconfessare — ripetutamente — l’operato del Parlamento», della maggioranza del paese qui rappresentata, con una azione che si configurava di prevaricazione «delle minoranze sulla maggioranza», azione questa, a suo parere, ben diversa rispetto alla salvaguardia del principio democratico del «rispetto delle minoranze» 78. A questo proposito
si deve comunque
ricordare
(come è stato fatto 79)
che la contrarietà di Laconi all’impugnazione in via principale e soprattutto secondo una azione di tipo popolare e diretta lo distingueva da Terracini, che se da un lato — precedentemente durante i lavori della Commissione Forti — aveva affermato al pari del costituente sardo l’opportunità di riservare il giudizio di incostituzionalità ad un organo speciale, composto secondo un principio di massima rappresentatività; dall’altro aveva pure invocato la possibilità di una azione popolare diretta dei cittadini per la questione dell’im-
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
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II SOTTOCOMMISSIONE
pugnativa davanti alla suprema Corte'8°. Differenza questa tra i due costituenti spiegabile forse sia attraverso quanto si è già detto in materia di referendum, ovvero alla luce della spiccata propensione di Terracini nei confronti degli istituti di democrazia diretta, sia alla
luce della più stretta vicinanza di Laconi a Togliatti con il quale Laconi condivideva la prioritaria cautela nei confronti delle fonti ritenute maggiormente minacciose per le prerogative dell’«istituto
parlamentare» !8., Infine in relazione alla problematica dell’accesso al giudizio costituzionale, Laconi, pur accogliendo la «possibilità del controllo in via incidentale» (forma questa tipica del modello americano"), prospettava che il giudice qualora avesse respinto «l'eccezione proposta» avrebbe dovuto applicare la legge; altrimenti nel caso l’avesse ritenuto fondata, avrebbe dovuto limitarsi — in quanto non gli era riconosciuta la facoltà di decidere della incostituzionalità della legge — a rimandare la questione alla Corte costituzionale, alla quale spettava comunque il parere supremo, avente efficacia erga omnes (conformemente al modello accentrato austriaco). Circa poi l’altro fattore degli effetti da attribuire alle pronunce della Corte costituzionale, propendendo perché tali «pronunciati» avessero solo un valore indicativo, «con la possibilità, quindi, del rinvio della legge agli organi legislativi per un riesame», Laconi prestava anche in questo caso particolare attenzione a che il nuovo istituto di controllo non si sostituisse «agli organi legislativi, che — a suo parere —
dovevano rimanere i soli competenti»!83, Successivamente in Assemblea costituente Laconi avrebbe ribadito la centralità di una Corte costituzionale «investita della sua autorità dal Parlamento», il quale solo poteva «eleggere, sia pure entro determinate categorie, i giudici che dovranno interpretare la volontà nostra e comparare le norme legislative emanate dal legislatore ordinario alle norme emanate da noi, potere costituente», evitando in questo modo di fare di essa «un organo avulso dalla vita della nazione e dalla volontà del popolo» '84. A differenza di quanti si opponevano ad una Corte avente natura di organo politico, di “super-parlamento”, Laconi ne respingeva il carattere «prevalentemente od esclusivamente tecnico», che a suo parere non avrebbe dato «alcun affidamento alle forze democratiche di interpretare quell’indirizzo progressivo che noi abbiamo voluto imprimere al nuovo Stato repubblicano». Se dunque forte era il riconoscimento del carattere politico del nuovo organo, tale riconoscimento si lega a due aspetti la cui interazione, nella riflessione di Laconi, appare problematica. Si tratta
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LA SINISTRA
ALLA COSTITUENTE
su un primo versante della decisa esigenza da parte del costituente sardo di garantire la legalità costituzionale, ed in particolare i principi democratici e progressivi presenti nella Costituzione (di tipo programmatico), secondo quella che era stata la stessa linea di azione perseguita da altri esponenti del PCI nelle precedenti sedi del dibattito costituzionale (in particolare da Terracini e Crisafulli, in sede di Commissione Forti'!86). Parimenti il discorso riguarda la ancor più sentita necessità di tutelare gli istituti massimamente rappresentativi della sovranità popolare!87, nella convinzione che proprio nel popolo risiedesse la garanzia maggiore dell’inveramento dei «principi che noi immettiamo nella Costituzione»: «la sovranità è nel popolo, non è nel Parlamento e noi qui contiamo unicamente per quel che rappresentiamo» (di qui l’esigenza di difendere in primis i partiti quali fondamentali strumenti attraverso i quali la sovranità popolare veniva progressivamente organizzandosi e rafforzandosi). Problematicità nella quale del resto si riflettevano i caratteri del tempo, la loro oggettiva configurazione, dove era una necessità reale — tanto più a partire dal mutamento degli equilibri politici presenti nel paese — sia salvaguardare la piena capacità normativa e la funzionalità effettuale delle istituzioni di garanzia alle quali la Carta costituzionale avrebbe fornito un fondamento giuridico stabile; sia, sul piano più schiettamente politico, dare concreta realtà a quel principio di sovranità popolare che aveva costituito nel corso di tutta la lotta antifascista l'essenziale rifermento ideale. 4.8
Conclusioni
A questo punto sembra opportuno tentare di tracciare un bilancio complessivo, seppur rapido, della ricostruzione sin qui compiuta. Bilancio teso a mettere in stretto rapporto le vicende dei costituenti
qui presi in esame, ponendo in risalto taluni elementi di affinità, senza che ciò mai induca a disperdere il dato della specificità dei singoli contributi apportati da Terracini, Basso, Laconi e Crisafulli al dibattito costituzionale e parimenti alla statuizione del nuovo assetto istituzionale repubblicano. A fare da sfondo concettuale comune alle riflessioni e indi all’azione svolta dalle quattro personalità è la natura dialettica dell’analisi dei processi storici e — come si è detto altre volte = dei loro risultati concreti: primo fra tutti lo Stato nelle sue strutture principali, ossia l'ordinamento giuridico. A questo proposito sembra es-
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
Il SOTTOCOMMISSIONE
sere indicativo il comune ricondurre tale tipo di analisi all’accumulazione teorica stratificatasi a partire dalla critica marxiana, ai cui principi ispiratori essi si richiamano costantemente.
Ora, è probabilmente vero che «in questi ultimi cent’anni i problemi dello Stato, soprattutto il problema del rapporto fra organizzazione dello Stato e democrazia, sono diventati sempre più complessi», e tali da non poter essere spiegati e risolti all’interno delle indicazioni che Marx fornì in relazione all’esperienza della Comune francese e che Lenin riprese nel contesto particolare della esperienza dell’Ottobre. La complessità di questa problematica è sembrata tale anche da far sì che essa non possa essere affrontata adeguatamente, sulla base di una sorta di «abuso del principio di autorità» della dottrina marxista!89, all’interno dell’orizzonte teorico di
un sistema di pensiero che a taluno è parso assai poco interessato ad approfondire i nodi dell’organizzazione istituzionale, quando non
del tutto connotato da una «riluttanza» o «incapacità di riconoscere il significato specifico di una norma o di un ordinamento normativo» 19°,
Tuttavia altrettanto indiscutibile resta la presenza, nelle elaborazioni dei costituenti qui presi in esame, di un tentativo (consegnato
spesso a discorsi pronunciati all’impronta in Assemblea costituente, o condotti innanzi ad altre sedi e luoghi istituzionali e politici) di concettualizzare
le dinamiche
inerenti all’assetto statuale, di com-
prendere sul piano generale portata, collocazione e funzioni loro proprie e nello specifico eventuali sviluppi di carattere progressivo.
Di questo insieme di riflessioni si è cercato allora di cogliere il significato fondamentale, rintracciato nella dimensione, come si diceva, dialettica alla luce della quale vengono lette le problematiche attinenti allo Stato. Ad essa proprio si legano i due aspetti di fondo che paiono costitutire la cornice comune dei percorsi intellettuali, politici, e costituzionali presi in esame. Si tratta su un primo versante del riconoscimento di un fondamento sociale e politico del sistema giuridico, il quale specificamente conduce, in ambiti diversi ma secondo una medesima ratio, i quattro costituenti a specifiche prese di posizione. Nel caso di Basso ad esempio continua è la ripresa nei suoi scritti di tipo filosofico, così come in quelli politici e in quelli aventi un profilo di tipo costituzionale, della critica marxiana alla scissione tra bourgeois e citoyen, e conseguentemente dell’opera di demistificazione compiuta da Marx nei confronti delle dinamiche materiali (concernenti la realtà dei rapporti sociali esistenti) sottese all'ambito del diritto e dell'ordinamento istituzionale.
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LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
Crisafulli si muove sul terreno innovativo della giuspubblicistica tesa a riproblematizzare il nodo diritto e politica, “scoprendo” — nell'ambito di una ricerca volta ad indagare i riflessi che le trasformazioni in corso tra le due guerre hanno nel campo della norma, e più in generale della scienza del diritto costituzionale — la centralità che le scelte storiche operate da determinate forze sociali e politiche hanno nella determinazione dell’attività di uno Stato. Si tratta anche nel suo caso dell’elaborazione di una dottrina tesa al disvelamento della trama degli interessi e dei conflitti soggiacenti al sistema istituzionale. Terracini e Laconi poi ribadiscono continuamente durante i lavori costituzionali l’importanza dell’intreccio costitutivo tra l’elemento tecnico dell’organizzazione dei poteri e il dato di ordine politico, impegnandosi ad esempio nella dimostrazione di uno stretto nesso tra sfera sociale e ordinamento giudiziario, in virtù del quale le richieste di una apoliticità della magistratura finivano per assumere un carattere astratto quando non connotato da valenze di segno conservatore. Per tutti forte è l’esigenza del superamento del modello politico liberale, del suo modo di intendere gli stessi concetti di democrazia e sistema delle libertà fondamentali (giudicati astratti, formali, e per-
tanto limitati a componenti ristrette e privilegiate della società). In tutti altrettanto sentita è l'esigenza di evitare esperienze traumatiche da loro vissute intensamente e in prima persona, come
quella rap-
presentata dal regime fascista, dalle cui conseguenze drammatiche anche prende forma il bisogno di preservare il terreno autonomo della sfera giuridica. Su questo secondo versante si colloca dunque il dato del rilievo da essi riconosciuto all'ambito del diritto, ritenuto
capace nella sua relativa autonomia e nella sua portata universale e generalizzante — sullo sfondo dell’analisi dialettica a cui si è fatto riferimento — di innescare dinamiche progressive, concreti processi di trasformazione sociale. Ecco dunque che nel contesto determinato degli esordi democra-
tici italiani il nuovo testo costituzionale si presenta come la sede più adatta ove inscrivere il portato concreto di tali convinzioni, laddove l’affermazione dei diritti sociali non impedisce di riconoscere l’importanza della collocazione giuridica di tali diritti, della loro preservazione certa nell’ambito delle disposizioni costituzionali programmatiche, accanto alla tutela di quei diritti e di quelle libertà sanciti dal sistema precedente, ma non per questo meno meritevoli di una loro definizione costituzionale certa e duratura.
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4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E EACONI
ALLA
II SOTTOCOMMISSIONE
Note 1. Lettera aperta del Partito comunista italiano ai partiti e alle organizzazioni di massa aderenti al Clnai, in “Critica marxista”, marzo-aprile 1965, p. 60. 2. Cfr. Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 300. 3. Cfr. ad esempio E. Ragionieri, I comunisti nella Resistenza, in L. Valiani, G.
Bianchi, E. Ragionieri, Azionisti cattolici e comunisti nella Resistenza, Franco Angeli, Milano 1971, pp. 428 ss. 4. Pavone, Alle origini della Repubblica, cit., p. 86. s. G. Grassi, M. Legnani, I/ governo dei CLN, in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, Il Mulino, Bologna 1975, p. 84. 6. Sbarberi, I comunisti italiani e lo Stato, cit., pp. 186-7 ed anche p. 253. A questo proposito anche E. Rotelli (Costituzione e amministrazione dell’Italia unita, Il
Mulino, Bologna 1981, p. 127) ha notato che la formula di «democrazia progressiva» del partito nuovo presenta «contorni istituzionali piuttosto evanescenti». 7. Pavone, Alle origini della Repubblica, cit., p. 88. Per analoghe osservazioni cfr. Flores, Governo e potere nel periodo transitorio, cit. 8. E. Ragionieri, I/ partito comunista italiano e l'avvento della regione in Italia, in Regioni e Stato, cit., p. 279. 9. Rossi, Santomassimo, Introduzione, cit., p. 223. ro. Ivi, pp. 224-5. In relazione a questo rapporto tra il pensiero marxista e una
elaborazione organica dello Stato, cfr. il dibattito pubblicato sui quaderni di “MondOperaio” nel 1976, Il marxismo e lo Stato, cit. n. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano, cit., pp. 95-6. 12. Petta, Ideologie costituzionali della sinistra italiana (1892-1974), cit., p. 108. 13. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano, cit., p. 103. Analogo giudizio esprime S. Merlini (Autorità e democrazia nello sviluppo della forma di governo italiana, vol. 1, Giappichelli, Torino 1997, p. 101). Per la riconsiderazione di tali posizioni cfr. anche De Nicolò, Lo Stato nuovo, cit., pp. 119 ss.; Id., Comunisti, socialisti, azionisti, in M. De Nicolò (a cuta di), Costituente, Costituzione, riforme costituzionali, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 171 ss.; Romeo, La stagione costituente in Italia, cit., pp. 159
ss.; L. Baldissara, I/ PCI tra culture di governo e culture di opposizione. Concezioni istituzionali e pratiche del conflitto nella costruzione e nel consolidamento della democrazia in Italia, intervento pronunciato al convegno sul tema I/ PCI nell'Italia repubblicana. Contributi per una storia nazionale e internazionale, promosso dalla Fondazione “Istituto Gramsci”, Roma, 25-26 maggio 2000 (dattiloscritto). 14. Cfr. P. Aimo, Bicameralismo e regioni. La camera delle autonomie: nascita e tramonto di una idea. La genesi del Senato alla Costituente, Edizioni Comunità, Milano 1977, p. 103. 15. Agosti, «Partito nuovo», in Franceschini, Guerrieri, Monina
(a cura di), Le
idee costituzionali, cit., p. 237. 16. P. Togliatti, Rinnovare l’Italia, intervento al v congresso, in S. Bertolissi, L.
Sestan (a cura di), Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del partito comunista italiano, vol. 11, 1944-1955, Ed. del Calendario, Venezia
1985, P. 95.
17. In questo senso si veda quanto scritto da Rossi, Santomassimo, Introduzione,
cit., p. 209.
f
18. Ragionieri, I/ partito comunista italiano e l'avvento della regione in Italia, cit., pp. 279, 281.
19. Cfr. Rossi, Santomassimo, Introduzione, cit., p. 206. A questo proposito cfr. anche Di Loreto, Togliatti e la «doppiezza», cit., pp. 23 ss.
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LA SINISTRA
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COSTITUENTE
20. M. Scoccimarro, La Costituente e il rinnovamento nazionale, intervento al Vv congresso, in Bertolissi, Sestan (a cura di), Da Grarzsci a Berlinguer, vol. II, cit., p. 154. 21. Crisafulli, Considerazioni sulla Costituzione sovietica, cit. 22. S. Rodotà, La cultura istituzionale del Pci, intervista a cura di A. Cantaro, in “Problemi del socialismo”, n. 6, 1985, p. 67.
23. Sulla natura innovativa del partito — nella determinata «forma di organizzazione comunista, nel “partito di tipo nuovo” leninista» — quale «formidabile innovazione dell'ingegneria sociale del xx secolo», eredità più duratura della stessa Rivoluzione d'Ottobre, cfr. quanto Milano 1995, pp. 96 ss.
scritto da E. J. Hobsbawm,
I/ secolo breve, Rizzoli,
24. In questi termini si esprime Grieco nel suo intervento di chiusura al congresso di Colonia. Cfr. Spriano, Storia del partito comunista, vol. II cit., p. 321. 25. Per l’individuazione di tali caratteristiche cfr. in particolare Agosti, «Partito nuovo», cit., pp. 239 SS.
26. Cfr. per tale distinzione tra le due anime della democrazia, l’una legata agli assetti tradizionali borghesi, l’altra alle esperienze di trasformazione radicale, U. Cerroni,
Introduzione, in V. Lenin, Stato e rivoluzione, Newton Compton, Roma 1975, p. 32. 27. U. Terracini, Ricorso Terracini, in Id., A! bando dal partito. Carteggio clandestino dall'isola e dall'esilio, 1938-45, a cura di A. Coletti, La Pietra, Milano 1976, p. 126. 28. R. Laconi, Le Carzere ammalate, in “Rinascita”, 2 luglio 1966. 29. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 80. 30. Crisafulli, Per una Costituzione democratica, cit.
31. L'analisi della problematica relativa alla tardiva valorizzazione degli enti regionali da parte comunista è stata oggetto di numerosi studi. In particolare a questo riguardo cfr. ad esempio E. Rotelli, L'avvento della regione in Italia: dalla caduta del regime fascista alla Costituzione repubblicana (1943-1947), Giuffrè} Milano 1967; Ragionieri, Il Partito comunista italiano e l'avvento della Regione in Italia, cit.; F Catalano,
Il dibattito politico sulle autonomie dalla Resistenza alla Costituente, in Legnani (a cura di), Regioni e Stato, cit.; Petta, Ideologie costituzionali della sinistra (1892-1974), cit.; A. Mattone, I partiti di massa e le autonorzie locali, in “Democrazia e diritto”, XVI (1976); E. Santarelli, Dosszer sulle regioni, De Donato, Bari 1970; M. Luciani, Le prospettive del federalismo, Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Roma 1995; P. Alessandria, S. Gambino, Autonomie locali, regione e questione meridionale: il contributo di Fausto Gullo al dibattito politico ed a quello costituente, in Amirante, Atripaldi (a cura di), Fausto Gullo fra Costituente e Governo, cit., pp. 89 ss.; V. Atripaldi, Stato e pluralismo istituzionale nel patto costituzionale: il contributo della sinistra, in Franceschini, Guerrieri, Monina (a cura di), Le idee costituzionali, cit., pp. 112 ss.; De Nicolò, Lo Stato nuovo, cit., pp. 61 ss. 32. A questo proposito si veda il rapido accenno di Scoccimarro al v congresso (La Costituente e il rinnovamento nazionale, cit., p. 154). 33. A questo riguardo cfr. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano, cit., p. 94. 34. Cfr. Gramsci, Capacità politica (ora in Id., L'Ordine Nuovo 1919-1920, cit., in particolare pp. 686 ss.); e Id., Quaderni del carcere, cit., pp. 771-2, 1623-5, 1940. 35. Terracini, Comze nacque la Costituzione, cit., p. 69. A tale proposito osservava infatti Terracini che fondamentale era l’assicurazione che l'istituto del referendum
non divenisse «oggetto di speculazioni politiche da parte di minoranze irresponsabili». In questo senso necessario era «tutelare il diritto al referendum attraverso qualche correttivo che ne valorizzi, anzi l’istituto e lo renda accessibile a strati di opinione meno ristretti che sappiano usarlo solo in casi davvero eccezionali». 36. A tale proposito cfr. Atripaldi, Stato e pluralismo istituzionale, cit., p. 104. 37. Rossi, Santomassimo, Introduzione, cit., p. 205.
38. Su ciò cfr. Giovana, Umberto Terracini e il dissenso con il partito, cit., pp. 91 ss.
242
4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
39. Terracini, Lettera di Umberto
E LACONI
ALLA
II SOTTOCOMMISSIONE
Terracini a Ruggiero Grieco (1938), in Id., A/
bando dal partito, cit., pp. 17 ss. 40. A. Bordiga, U. Terracini, La tattica del partito comunista. Risoluzione proposta dal cc al Il Congresso del PCI, in “Rassegna comunista”, 1922. 4i. A. Bordiga, Sulla questione del parlamentarismo (Discorso pronunciato dal compagno B. al Il Congresso dell'IC), ivi, 1921. 42.
Terracini, Ricorso Terracini, cit., pp. 114 ss. 43. U. Terracini, «Piattaforma» Terracini, in Id., Al bando dal partito, cit., pp. 37 ss.
44. Già si è avuto modo di parlare, a proposito di Basso, del modo in cui molti costituenti della sinistra impostino la questione della libertà, utilizzando la classica dizione di libertà da in termini di libertà positiva secondo l’uso medesimo che ne fece Roosevelt. 45. Quazza, Omaggio a Umberto Terracini, cit., p. 113. Da più voci è stato sottolineata la peculiare capacità di Terracini di «cogliere la sostanza dei problemi giuridici», ovvero la sua particolare «qualità di giurista»; così come ne è stata messa in luce una sua specifica «linea garantista» (Spagnoli, Partecipazione popolare e società civile, cit., p. 146; e Barbagallo, Terracini, comunista, cit., pp. 137-8). 46. Cfr. per i riferimenti di questo primo discorso di Terracini nell’ambito della Consulta nazionale, U. Terracini, Sulle comunicazioni di Governo, 2 ottobre 1945, in Id., Discorsi parlamentari, cit., vol. I, pp. 31 ss.
47. In questi stessi termini si era espresso V. Crisafulli, in una intervista alla radio (cfr. Id., La rappresentanza proporzionale, in “Bollettino di informazione e documentazione del ministero per la Costituente”, Roma 30 novembre 1945, a. I, n. 2, pp. 5-6) affermando che «la rappresentanza proporzionale si inserisce pertanto nel più largo quadro dei sistemi di rappresentanza delle minoranze, configurandosi come ulteriore perfezionamento di questi, in quanto non si limita a far posto nell’assemblea rappresentativa a7che alla minoranza (ossia in pratica solo al partito di minoranza più forte), ma vuole che #u?# i partiti siano rappresentati in ragione delle loro forze, del loro peso effettivo nella vita politica del Paese». 48. U. Terracini, Sulla legge elettorale politica per l'Assemblea costituente, in Id., Discorsi parlamentari, cit., vol. I, p. 44. 49. Ivi, p. 45. so. Cfr. a questo proposito Kelsen, I fondamenti della democrazia, cit., pp. 71 ss. si. Bettinelli, All'origine della democrazia dei partiti, cit., p. 70. sz. Mortati, La Costituente, cit., p. 55.
53. Terracini, Sulla legge elettorale politica, cit., pp. 42 ss. s4. U. Terracini, Un vero suffragio universale fondamento di democrazia. L'offensiva del governo contro il diritto di voto, discorso al Senato della Repubblica, 25 ottobre 1955. 55. Terracini, Sulla legge elettorale politica, cit., p. 48. 56. Bettinelli, All'origine della democrazia dei partiti, cit., p. 88. Per la ricostruzione precisa di tutta l’attività e le deliberazioni della Commissione speciale per l’elaborazione della legge elettorale politica, cfr. ivi, pp. 151-84; Parimenti per la ricostruzione del dibattito svoltosi nella Commissione ministeriale istituita precedentemente e di cui pure Terracini fece parte e nella quale già si erano mostrate le posizioni poi riemerse nella Commissione speciale della Consulta, cfr. ivi, pp. 79-103. Su questo tema cfr. pure M. S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1996, in particolare cap. XI. 57. U. Terracini, Introduzione, in Terracini, Perna, Barca, Spagnoli, Ingrao, La Riforma dello Stato, cit., p. 15. 58. U. Terracini, AC, Il SC, 13 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 999 SS.
243
LA SINISTRA
s9. 60. 61. 62.
U. Terracini, AC, U. Terracini, AC, Cfr. U. Terracini, Cfr. U. Terracini,
ALLA
COSTITUENTE
Il SC, 18 settembre, 1946, ivi, p. 1027. II SC, 10 settembre 1946, ivi, pp. 977 ss. AC, Il SC, 14 gennaio 1947, ivi, pp. 98-9. AC, I SC, 25 gennaio 1947, ivi, p. 183.
63. Cfr. in questo senso Carissimi, Ideologie penali e tecnicismo giuridico, cit. 64. Cfr. ad esempio Basso, I/ principe senza scettro, cit., pp. 225 ss.; ed anche N. Bobbio, Quale giustizia o quale politica?, in “Il Ponte”, 31 icimiise 1971; ed anche A. Battaglia, Giustizia e politica, in AA.VV., Dieci anni dopo 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari 1955. Anche in sede di Assemblea costituente il PCI si mostrò favorevole sia alla giuria popolare, insieme con socialisti, repubblicani ed azionisti, sia anche alla elettività del giudice, insieme con qualche voce isolata come quella del demolaburista Persico. In particolare «in sede di discussione generale, le tesi favorevoli alla elettività del giudice mostrarono la loro diversa matrice ideologica: rigorosamente democratica quella del comunista Gullo, più vicina alle tradizioni liberali dei paesi di lingua inglese quella del demolaburista Persico». Così V. Denti, I/ potere giudiziario, in AA.VV., Attualità e attuazione della Costituzione, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 198. 66. R. Laconi, AC, CC, 31 gennaio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 258.
67. In questo senso cfr. in particolare Bobbio, Quale giustizia o quale politica?, cit., p. 1439. A questo proposito si vedano anche le considerazioni di Cheli, in Costi tuzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, cit., pp. 143 ss. 68. A questo proposito cfr. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, cit., in particolare il primo capitolo. 69. Cfr. in questo senso gli interventi di U. Terracini, V. La Rocca, AC, CC, 21 gen-
naio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 131 ss. 70. Cfr. Terracini, Intervento, in AA.VV., I poteri del presidente della Repubblica, cit.
71. Cfr. U. Terracini, AC, CC, 27 gennaio 1947, La Costituzione della Repubblica,
it., pp. 193 SS. 72. R. Laconi, AC, Il SC, 23 gennaio 1947, ivi, pp. 1693-4. 73. Cfr. U. Terracini, AC, CC, 29 gennaio 1947, ivi, pp. 225-6.
74. Per tale emendamento ctr. la seduta del 28 gennaio 1947, ivi, pp. 206-7. 75. Cfr. R. Laconi, AC, CC, 28 gennaio 1947, ivi, pp. 207 ss. 76. In relazione al modello di riferimento rousseauiano sembra interessante evidenziare come in realtà se sia esatto il richiamo a Rousseau per ciò che riguarda la sovranità di un unica Assemblea; tuttavia del tutto infondata è l'attribuzione a Rousseau stesso di una determinazione rappresentativa della Assemblea sovrana. L'affermazione della esclusiva legittimità della democrazia diretta attraversa come è noto l’intero sviluppo del Contrat social, fondando una intransigente polemica contro la rappresentanza intesa come sinonimo di schiavitù. In questo senso si può affermare
a livello più generale che i riferimenti fatti in Assemblea costituente a determinate fonti teoriche sono spesso generici e rispondono più alla vulgata che non ad una conoscenza di prima mano e a rinvii specifici ai testi. 77. Ctr. V. La Rocca, AC, Il SC, 5 settembre, ivi, p. 928. 78. A proposito di questa diversità di obiettivi e di modelli politico-istituzionali di riferimento verificatasi in particolare tra la sinistra comunista e le forze democristiane si veda Merlini, I/ governo costituzionale, cit., pp. 54 ss.; ed anche Id., Autorità
e democrazia nello sviluppo della forma di Governo italiana, cit. 79. Cfr. C. Mortati, Relazione del deputato Mortati Costantino sul potere legislativo, in AC, Il SC, Atti della Commissione per la Costituzione, Relazioni e proposte, cit.; ed anche Id., AC, Il SC, 5 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., pp.
244
4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
II SOTTOCOMMISSIONE
941 ss. Così facendo secondo Mortati si assicurava una maggiore stabilità di quella «che non si avrebbe (in analoga situazione politica), con l’instaurazione di un regime presidenziale». 8o.
Merlini, Umberto Terracini, cit., p. 591.
81. A proposito dell'opzione unicameralista del PCI e poi della sua successiva accettazione del bicameralismo, si veda l’intervento di La Rocca, nella seduta del 6
settembre 1946 (La Costituzione della Repubblica, cit., p. 949) e gli stessi articoli apparsi sulla stampa del partito relativamente a questo argomento. In particolare V. Crisafulli, Una o due Camere, in “Vie nuove”, n. 1, 22 settembre 1946; Id., Le due Camere, ivi, n. 3, 6 ottobre 1946; V. La Rocca, Perché le due Camere?, ivi, n. 10, 24
novembre 1946. 82. Cfr. Crisafulli, Una o due Camere, cit. 83. Aimo, Bicameralismo e regioni, cit., p. 106.
84. Terracini, AC, Il SC, 18 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit.,
pp. 1023-4. 85. APC, Verbali del Comitato centrale, 18 settembre 1946. 86. cit., pp. 87. 88. 89.
Cfr. U. Terracini, AC, Il SC, 19 settembre, La Costituzione della Repubblica, 1037-8. Cfr. U. Terracini, AC, Il SC, 20 settembre 1946, ivi, pp. 1051 ss. Cfr. C. Mortati, AC, Il SC, 24 settembre 1946, ivi, pp. 1082 ss. Aimo, Bicameralismo e regioni, cit., p. 155.
go. Cfr. a questo proposito Atripaldi, L'organizzazione costituzionale dello Stato nel dibattito alla costituente, cit.; Id., Stato e pluralismo istituzionale, cit., pp. 109 ss. gr. Cfr. R. Laconi, AC, Il SC, 24 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 1088-9. 92. Cfr. U. Terracini, AC, II SC, 25 settembre 1946, ivi, pp. 1104-7. 93. Cfr. le sedute del 24 e 25 settembre 1946, ivi, pp. 1090-1, 1102. 94.
95. 96. (a cura 97.
Cfr. V. La Rocca, AC, Il SC, 27 settembre 1946, ivi, p. 1123.
Cfr. R. Grieco, AC, Il SC, 3 ottobre 1946, ivi, pp. 1155-6. E Bruno, I giuristi alla Costituente: l’opera di Costantino Mortati, in De Siervo di), Scelte della Costituente, cit., p. 107. Terracini, AC, II SC, 25 settembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit.,
p. 1106.
98. In relazione all’istanza corporativa e al suo peso sull’organizzazione giuridicoistituzionale si veda ad esempio il progetto delineato nella Relazione di La Pira Giorgio, cit., pp. 14 SS. 99. Se infatti escono vincenti le sinistre dalla Il Sottocommissione con la approvazione della proposta di Laconi sul suffragio regionale indiretto alla francese, poi in adunanza plenaria seguirono nuovi cambiamenti e transazioni, sino a giungere, come ha osservato Aimo (Bicamzeralismo e regioni, cit., p. 145), ad una «soluzione “mista”, per molti aspetti ambigua, che scontenterà tutti quando il dibattito si riaprirà, in seno alla Assemblea costituente». 1oo.
Cfr. U. Terracini, AC, Il SC, 12 novembre 1946, La Costituzione della Repubblica;
cit., pp. 1296 ss. Anche nella prima formula proposta da Terracini nella stessa seduta, il riferimento principale era alla limitazione della delega in tutti quei casi che «attengano all’esercizio della libertà e dei diritti sanciti dalla Costituzione». Per le formule proposte da Mortati, Bozzi, e Tosato, si veda la seduta del 9 novembre 1946, ivi, pp. 1289-90. Sulla proposta Terracini tornò il 20 dicembre per affermare che l’uso della sua forma negativa atteneva alla necessità di stabilire per prima cosa i casi in cui la delega non era ammessa, quale espressione questa di una istanza maggiormente garantista. Cfr. su questo, A. Quasi, Bicameralismo e attività legislativa del Parlamento dagli studi preparatori al testo costituzionale, in Cheli (a cura di), La fondazione della Repubblica, cit.
245
LA SINISTRA
ror.
ALLA
COSTITUENTE
Cfr. U. Terracini, AC, Il SC, 21 dicembre 1946, La Costituzione della Repub-
blica, cit., p. 1630. 102. Cfr. U. Terracini, AC, Il SC, 17 gennaio 1947, ivi, pp. 1648-9. 103. P. Togliatti, AC, CC, 29 gennaio 1947, ivi, p. 232. Su questo, cfr. Fioravanti,
Costituzione e popolo sovrano, cit., pp. 98-9; S. P. Panunzio, Esperienze e prospettive del referendum abrogativo, in AA.VV., Attualità e attuazione della Costituzione, cit., pp. 66-71; T. E. Frosini, Sovranità popolare e democrazia diretta alla Costituente, in “Democrazia e diritto”, 4-94/1-95, Costituenti. 104. A questo proposito sono infatti note le parole di Togliatti in sede di Assemblea generale con le quali egli si espresse criticamente sul referendum. Cfr. Togliatti, AC, A, 11 marzo 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 330.
105. È il medesimo Terracini ad esprimersi in questi termini successivamente nell'intervista
a Balsamo (Terracini, Come nacque la Costituzione, cit., p. 69), dando un
giudizio molto più critico del referendum, teso a valutare tutta la ambivalenza di questo istituto, e perciò stesso anche la pericolosità destabilizzante per l’attività legislativa ordinaria. 106. Appare interessante notare come anche Basso concepisse il referendum negli stessi termini, ovvero
come
una forma di democrazia
diretta, che ha lo scopo
di
«verificare se la maggioranza parlamentare ha interpretato esattamente la volontà popolare». Cfr. Basso, I/ principe senza scettro, cit., p. 172. 107. Per le quattro proposte di elezione del presidente della Repubblica cfr. la seduta del 19 dicembre 1946, La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 1740 ss. 108. Sul rapporto tra Egidio Tosato e gli esponenti del PCI in sede di Costituente cfr. in particolare Lanchester, Momenti e figure, cit., pp. 132 ss. 109. Cfr. Terracini, AC, Il SC, 18 sezione, 20 dicembre 1946, La Costituzione della
Repubblica, cit., pp. 1755-6. no.
Cfr. U. Terracini, AC, II SC, 12 sezione, 4 gennaio 1947, ivi, p. 1770. Secondo
Crisafulli (V. Crisafulli, La Corte costituzionale tra magistratura e parlamento, in “Il Ponte”, gennaio 1957, p. 896) proprio questa «sottoposizione alla legge di tutti i governanti», compreso il capo dello Stato avrebbe portato ad «uno sviluppo rafforzato della figura dello Stato di diritto». mi.
Pombeni, La Costituente, cit., p. 137.
112.
Come è stato ricordato infatti (cfr. G. Amato, F. Bruno, La forza di governo
italiana. Dalle idee dei partiti all'Assemblea costituente, in “Quaderni costituzionali”, a. I, n. 1, aprile 1981, p. 68) le discussioni sul capo del governo si svolsero nel periodo in cui si stavano facendo i preparativi del viaggio di De Gasperi a Washington e perciò stesso era accesa la polemica sulle scelte dell’ultimo governo dei CLN nel campo della politica estera. 113. Terracini, AC, Il SC, 18 sezione, 4 gennaio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 1775. 114. Cfr. l'emendamento presentato da La Rocca, Grieco, Spano, in AC, A, 23 ottobre 1947, ivi, pp. 3502 ss. rrs. In questo senso cfr. C. Mortati, AC, Il SC, 18 sezione, 4 gennaio e 7 gennaio 1947, IVI, pp. 1776, 1780. 116. C. Mortati, AC, Il SC, 18 sezione, 10 gennaio 1947, ivi, p. 1825.
117. APC, Verbali del Comitato centrale, 27-28 febbraio 1947. 118. U. Terracini, AC, Il SC, 12 sezione, 9 gennaio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit, pp. 1806-7. 119.
U. Terracini, AC, Il SC, 18 sezione, 10 gennaio 1947, ivi, p. 1823.
120. La formulazione dell’articolo 19 proposta da Mortati (cfr. AC, Il SC, 12 sezione, 9 gennaio 1947, ivi, p. 1808) diceva nel suo primo comma: «Il capo dello Stato, effet-
246
4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
II SOTTOCOMMISSIONE
tuate le necessarie consultazioni, nomina il primo ministro. Su proposta di questo, procede alla nomina dei ministri». 121. Merlini, Umberto Terracini, cit., p. 596. 122.
Terracini, AC, Il SC, 12 sezione, 9 gennaio 1947, La Costituzione della Repub-
blica, cit., pp. 1806-7. 123. Cfr. Terracini, AC, Il SC, 18 sezione, 10 gennaio 1947, ivi, pp. 18313. 124.
Cfr. Terracini, AC, Il SC, 12 sezione, 9 gennaio 1947, ivi, pp. 1810 ss. Non a caso
in questa seduta egli scelse di appoggiare la proposta di Nobile, ove si diceva che «la mozione di fiducia dovrà essere approvata dalla maggioranza assoluta di ciascuna Camera. Nel caso che ciò non avvenga, il governo è obbligato a dimettersi». 125. Cfr. Terracini, AC, Il SC, 1 sezione, ro gennaio 1947, ivi, pp. 1820-1. Anche in questo caso egli sceglieva di votare ed anzi di sottoscrivere la formula di Nobile la quale pur venendo incontro all’esigenza di una stabilità del governo, espressa da Tosato, allo stesso tempo ribadiva con forza la centralità del parere di ciascuna Camera, salvaguardandone l’autorità. 126. 1846.
127.
Cfr. U. Terracini, V. La Rocca, AC, Il SC, 12 sezione, 13 gennaio 1947, ivi, p.
Così Terracini, AC, II SC, 12 sezione, 13 gennaio 1947, ivi, p. 1855.
128. In questo contesto specifico Terracini tendeva — rispetto ai due aspetti del referendum, ovvero quello di istituto destinato «a consentire l’esercizio immediato della sovranità popolare» e l’altro di istituto tendente «anche a sviluppare un’azione frenante sulla volontà parlamentare» — a mettere l’accento soprattutto sul secondo aspetto. In relazione ai due aspetti degli «istituti di democrazia diretta», quali il referendum, cfr. Cheli, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, cit., p. 50. 129. APC, Verbali del Comitato centrale, 18 settembre 1946. 130. Il riferimento era alla lotta politica che Roosevelt aveva dovuto sostenere contro la Corte suprema degli Stati Uniti, vicenda questa che il costituente comunista aveva evidentemente ben presente. 131. A questo proposito cfr. APC, Verbali del Comitato centrale, 18 settembre 1946. 132. Cfr. U. Terracini, Relazione al Comitato centrale, ivi.
133. Su questa specifica materia delle autonomie locali parimenti affrontata da Terracini all’interno del dibattito costituzionale della medesima Il Sottocommissione,
cfr. Merlini, Umberto Terracini, cit., pp. 588-90. 134. Cfr. Terracini, Discorsi parlamentari, cit. pp. 118 ss. 135. A proposito della specifica attenzione da Terracini annessa alla fissazione giuridica dei principi e dei vincoli del nuovo assetto repubblicano, cfr. Terracini, Prolusione, cit.
136. Cfr. Atripaldi, L'organizzazione costituzionale, cit.
137. Su questo cfr. ivi, pp. 50-2. 138. Laconi, AC, A, 5 marzo 139. Ivi, p. 195.
1947, La Costituzione della Repubblica,
cit., p. 198.
140. Cfr. Atripaldi, L'organizzazione costituzionale, cit., pp. 16-7. rs. Ibid. 142. Così Cheli, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, cit., p. 128. 143. 144.
Ivi, p. 141. Cfr. R. Laconi, AC, Il SC, 2 sezione, 18 dicembre 1946, La Costituzione della
Repubblica, cit., p. 1938. 145. R. Laconi, AC, II SC, 22 sezione, 19 dicembre 1946, ivi, pp. 1942-3. 146. R. Laconi, AC, Il SC, 22 sezione, 10 dicembre 1946, ivi, pp. 1962-3. 147. Laconi stesso aveva dichiarato di «non essere un tecnico e di avere quindi una sensibilità politica» sui problemi inerenti all’ordinamento giudiziario. Cfr. Laconi, AC, II SC, 22 sezione, 19 dicembre 1946, ivi, p. 1942.
247
LA SINISTRA
ALLA COSTITUENTE
148. R. Laconi, AC, II SC, 2? sezione, 8 gennaio 1947, ivi, p. 1972. 149. P. Calamandrei, AC, Il SC, 22 sezione, 9 gennaio 1947, ivi, p. 1989. iso. Laconi, AC, II SC, 22 sezione, 8 gennaio 1947, ivi, p. 1973.
rs. FE Gullo, AC, A, 2 novembre 1947, ivi, p. 3828. Sull’accostamento tra Gullo e Laconi, in particolare in riferimento al capitolo dell’organizzazione del potere giudiziario, cfr. Atripaldi, Fausto Gullo alla Costituente, in Amirante, Atripaldi (a cura di), Fausto Gullo, cit., pp. 16 ss. 152. Cfr. in particolare la seduta pomeridiana del 9 gennaio 1947, e gli interventi di Calamandrei e Bozzi. A questo proposito cfr. poi in particolare Allegretti, Interlocutori dell'Assemblea costituente, cit., pp. 174 ss. In relazione all'istanza di compenetrazione a cui si fa riferimento cfr. ad esempio quanto rievocato da M. Adler, La concezione dello Stato nel marxismo. Confronto con le posizioni di Hans Kelsen, De Donato, Bari 1979, in particolare cap. XI. 153. R. Laconi, AC, Il SC, 2? sezione, 1o gennaio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 2008. 154. De Nicolò, Lo Stato nuovo, cit., p. 58. Analogamente cfr. Allegretti, Interlocutori dell'Assemblea costituente, cit., p. 175. 155. R. Laconi, AC, Il SC, 22 sezione, 13 gennaio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 2021. 156. Così E. Cheli, I/ giudice delle leggi. La Corte costituzionale nella dinamica dei poteri, Il Mulino, Bologna 1996, p. 9. 157. Laconi, AC, Il SC, 22 sezione, 13 gennaio 1947, La Costituzione della Repubblica, CILSEPA2.021 158. A questo proposito cfr. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, cit.; ed anche quanto dice Cheli (Id., I/ giudice delle leggi, cit., pp. 13-4) sulla funzione che tale sistema di giustizia costituzionale ha nell’essere un «fattore di accelerazione nello sviluppo dei principi costituzionali posti a fondamento» della nuova forma storica dello Stato sociale. Su questo è esemplificativo l'intervento di Laconi del 29 novembre 1947 in Assemblea costituente (La Costituzione della Repubblica, cit.,
p. 4254). 159. A. Saccomanno, I/ dibattito sulla Corte costituzionale e il contributo di Fausto Gullo, in Amirante, Atripaldi (a cura di), Fausto Gullo, cit., p. 114. 160. De Nicolò, Lo Stato nuovo, cit., p. 127.
161. In questo senso se è vero che — secondo quanto riporta ampia parte della storiografia (cfr. ad esempio per questo capitolo specifico, Bonini, Storia della Corte costituzionale, cit., pp. 27 ss.) — i partiti di sinistra furono i più perplessi dinnanzi a tali «istituzioni “super-parlamentari”» quali la Corte costituzionale perché più sensibili al cercare garanzie nel terreno sociale ed economico (ove il riferimento critico è ad esempio alle parole di Togliatti pronunciate al v congresso); è pur vero che si deve tener conto delle elaborazioni maturate da parte dei singoli costituenti della sinistra nelle sedi specifiche del dibattito costituzionale, al momento della concreta attività istituzionale. 162. Saccomanno, I/ dibattito sulla Corte costituzionale, cit., p. 11s. 163. E Modugno, Corte costituzionale e potere legislativo, in P. Barile, E. Cheli, S. Grassi (a cura di), Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, Il Mulino, Bologna 1982, p. 25. A tale proposito cfr. anche quanto osservato da De Nicolò, in Lo Stato nuovo, cit., p. 129.
164. R. Laconi, AC, A, 29 novembre 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 4254 SS. 165. De Nicolò, Lo Stato nuovo, cit., pp. 33 ss. 166. R. Laconi, AC, Il SC, 22 sezione, 14 gennaio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 2026.
248
4. IL CONTRIBUTO
DI TERRACINI
E LACONI
ALLA
II SOTTOCOMMISSIONE
167. Cfr. Cheli, Il giudice delle leggi, cit., p. 30. A questo proposito l’autore ha scritto che il modello americano suscitava particolari timori fra le forze di sinistra, «si temeva cioè che un sistema di giustizia costituzionale potesse paralizzare le riforme che si attendevano dal potere legislativo». 168. Secondo Fioravanti (Id., Costituzione e popolo sovrano, cit., pp. 106-8) in generale «la prima preoccupazione dei costituenti rimane sempre la medesima: mantenere la sovranità al legislatore». 169. Petta, Ideologie costituzionali della sinistra italiana (1892-1974), cit., p. 1. 170. Cheli, I/ giudice delle leggi, cit., p. 30. 171. Cfr. R. Laconi, AC, CC, 1° febbraio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit.,
172. Cfr. su questo D’Orazio, La genesi della Corte costituzionale, cit., pp. 126-9. 173. Laconi, AC, CC, 1° febbraio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 292. 174.
R. Laconi, AC, Il SC, 22 sezione, 15 gennaio 1947, ivi, p. 2034.
175. Cfr. Saccomanno, I/ dibattito sulla Corte costituzionale, cit., pp. 145 ss. e Atripaldi, Fausto Gullo alla Costituente, cit., p. 21. 176. R. Laconi, AC, Il SC, 22 sezione, 22 gennaio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 2048. Cfr. questa stessa seduta (ivi, p. 2045) per ciò che attiene alla proposta di Calamandrei. 177. Bonini, Storia della Corte costituzionale, cit., p. 39. 178. Terracini, Come nacque la Costituzione, cit., p. 69. In particolare Terracini (ed
anche Crisafulli) riconobbe, soprattutto nel periodo storico-politico successivo ai lavori costituzionali, l’importanza della Corte, quale importante organo di garanzia. Cfr. ad esempio Terracini, Sul disegno di legge: Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale, in Id., Discorsi parlamentari, vol. 1, cit., pp. 330 ss. 179. Cfr. G. Conti, M. Pieretti, G. Perra, I «partito nuovo» e la Costituente, in
Ruffilli (a cura di), Cultura politica e partiti, vol. II, cit., p. 414. Comunque secondo Spagnoli (Partecipazione popolare e società civile, cit., p. 150) l’«atteggiamento costruttivo» di Laconi in Il Sottocommissione nei confronti dell’istituzione del nuovo organo potrebbe essere stato «concordato o suggerito da Terracini, che già aveva affrontato il tema nella Commissione Forti», mostrandosi di un avviso alquanto diverso da quello di Togliatti. 180. Terracini, intervento alla Commissione Forti, in verbale n. 4, seduta del 18 gennaio 1946, in D'Alessio (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana, cit. pp. 179 SS. 181. Togliatti, AC, A, 11 marzo 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 330. A questo proposito si fa presente che anche Gullo si mostrò piuttosto diffidente nei confronti dell’istituto del referendum, con motivazioni varie, quali quella della priorità della «certezza del diritto». Cfr. a tale proposito De Nicolò, Lo Stato nuovo, cit., piaz. 182. Secondo il modello americano di giustizia costituzionale l’accesso al giudizio costituzionale non era diretto ma incidentale, «in quanto necessariamente mediato da un giudice, che veniva legittimato a sollevare la questione di costituzionalità soltanto nell’ambito di una controversia concreta pendente dinnanzi allo stessa». Cfr. per l’analisi dei due modelli base (americano e austriaco), Cheli, Il giudice delle leggi, cit., p. 47; e Bonini, Storia della Corte costituzionale, cit., p. 67. In generale comunque sull’insieme delle tematiche inerenti alla giustizia costituzionale si rinvia sempre all’opera di Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, cit. 183. Laconi, AC, Il SC, 2? sezione, 15 gennaio 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 2034-5. 184. Laconi, AC, A, 5 marzo 1947, ivi, p. 198.
185. Laconi, AC, A, 29 novembre 1947, ivi, p. 4254.
249
LA SINISTRA ALLA
COSTITUENTE
186. Secondo il parere espresso da Crisafulli all’interno della Commissione Forti, (cfr. la seduta dell’8 gennaio 1946, verbale n. 5, in D'Alessio (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana, cit., p. 144) «la natura del controllo sulla costituzionalità delle leggi non è caratterizzata dalla sua funzione ritardatrice e conservatrice, ma solo da una funzione di garanzia sull’operato del Parlamento». Crisafulli avrebbe poi — articolando e sviluppando la sua elaborazione in materia — ripreso queste parole specificando quale era la funzione conservatrice della Corte, ovvero di cosa essa era garante. Egli scriveva «conservatrice si dica pure la funzione della Corte; ma conservatrice, bisogna aggiungere, della Costituzione: di una Costituzione sicuramente informata ai più larghi principi democratici, saldamente poggiata sul rispetto della personalità umana; in talune sue parti, rivolta all’avvenire, a determinare le linee direttive di una serie di riforme di struttura atte a dare più robuste fondamenta alla democrazia politica». Cfr. Crisafulli, La Corte costituzionale tra magistratura e parlamento,
cit., p. 888.
187. Anche più tardi Laconi avrebbe affermato la centralità del Parlamento, criticando la tendenza della Corte sempre più incline ad appropriarsi delle «funzioni legislative». Cfr. Laconi, La sostanza politica e costituzionale delle crisi del Parlamento,
in Id., Parlamento e Costituzione, cit., p. 126. Sui rapporti «agrodolci» tra i comunisti e la Corte si veda ad esempio Petta, Ideologie costituzionali della sinistra italiana (1892-1974), cit., p. 194. Così come sulla maggiore attenzione da parte comunista nei confronti dell'importante ruolo di garanzia svolto dalla Corte in particolare a partire dalla prima legislatura, si veda D’Orazio, La genesi della Corte costituzionale, cit., pp. 92 SS., 130 SS. 188. Laconi, AC, A, 5 marzo 1947, La Costituzione della Repubblica, cit., p. 199. 189. N. Bobbio, Esiste una dottrina marxista dello Stato?, in AA.VV., Il marxismo e lo Stato, cit., p. 17. 190. H. Kelsen, La teoria comunista del diritto, SugarCo edizioni, Milano 1981, p. VII.
250
Bibliografia
Le seguenti indicazioni concernono
i soli scritti presi in esame
dei costi-
tuenti oggetto del presente studio. Non vengono indicati gli interventi compresi nei volumi dei lavori preparatori dell’ Assemblea costituente (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, Camera dei deputati - Segretariato generale, Roma 1970-71, 8 voll.). Per la letteratura secondaria e ogni altro riferimento bibliografico si rinvia all’apparato di note.
I Scritti e interventi di Lelio Basso La religione dello Stato, in “Critica sociale”, n. 16, 1923.
L'educazione della classe lavoratrice, in “Critica sociale”, n. 19, 1923. Un anno di critica marxista, in “Critica sociale”, n. 4, 1924.
Sulle orme di Marx, in “Critica sociale”, n. 8, 1924. Problema ai liberali, in “Rivoluzione liberale”, n. 34, 1924. Socialismo e filosofia, in “Avanti!”, 2 marzo 1924. Al di là del fascismo, in “il Caffè”, n. 7, 1° ottobre 1924. L'antistato, in “Rivoluzione liberale”, n. 1, 2 gennaio 1925. Le fonti della libertà, in “Rivoluzione liberale”, n. 20, 17 maggio 1925. La Riforma e il pensiero europeo: Marx, in “Conscientia”, 25 luglio 1925. La crisi della democrazia, in “Rivoluzione liberale”, n. 33, 20 settembre 1925. II paterno Blanc, in “Conscientia”, 17 ottobre 1925. La Rivoluzione protestante, in “Critica sociale”, n. 12, 1925. Piero Gobetti, in “Avanti!”, 19 febbraio 1926. Socialismo e idealismo, in “Il Quarto Stato”, nn. 2-3, 3-10 aprile 1926. Benedetto Croce, in “Il Quarto Stato”, n. 12, 12 giugno 1926.
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luglio 1926. Studi religiosi, in “Critica sociale”, n. 3, 1926. La morte del novecento, in “Pietre”, n. 1, gennaio 1928.
25I
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
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Intransigenza socialista, in “Avanti!”, 10 febbraio 1945. Unità Proletaria, in “Unità proletaria”, n. 1, 15 aprile 1945. La classe lavoratrice nello Stato Repubblicano, in “Socialismo”, n. 7, a. 1, dicembre 1945-gennaio 1946. Partito e classe, in “Il Quarto Stato”, nn. 14-15, 31 agosto 1946. Relazione del deputato Basso Lelio sulle libertà civili, in AC, 1 SC, Atti della Commissione per la Costituzione (Relazioni e proposte), a cura del Segretariato generale della Camera dei deputati, Roma 1946, vol. Il. Relazione del deputato Basso Lelio su I principi dei rapporti politici, in AC, 1 sc, Atti della Commissione per la Costituzione (Relazioni e proposte), a cura del Segretariato generale della Camera dei deputati, Roma 1946, vol. Il. Problemi costituzionali, in “Avanti!”, 7 agosto 1946. I socialisti e la nuova Costituzione, in “V’Unità”, 24 novembre 1946.
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Socialismo e Rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980. Scritti sul cristianesimo, a cura di G. Alberigo, Marietti, Alessandria 1983.
253
LA SINISTRA ALLA
COSTITUENTE
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Dalla rivista “Pietre” al gruppo “Bandiera Rossa”, ivi. L'archivio Basso e l’organizzazione del partito (1943-45), Note e cura di M. Bigaran, Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, 1985-86, Franco Angeli, Milano 1988, vol. VII. 2 Scritti e interventi di Vezio Crisafulli Il concetto di Stato nel codice penale, in “Rivista penale”, Roma 1935.
Nuove pubblicazioni francesi sulla crisi della democrazia
e il valore della
libertà, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, a. xv, novembredicembre 1935. Per una teoria giuridica dell'indirizzo politico, in “Studi urbinati”, nn. 1-4, 1939.
Ancora a proposito del metodo negli studi di diritto costituzionale, in “Stato e diritto”, a. I, fasc. II, 1940.
I principi costituzionali dell’interpretazione ed applicazione delle leggi, in Scritti in onore di Santi Romano, CEDAM, Padova 1940, vol. I.
A proposito dei principi generali del diritto e di una loro enunciazione legislativa, in “Jus”, Rivista di scienze giuridiche, Milano 1940.
Per la determinazione del concetto dei principi generali del diritto, in AA.VV. Studi sui principi generali dell'ordinamento giuridico fascista, a cura della facoltà di Giurisprudenza e della Scuola di perfezionamento nelle discipline corporative della R. Università di Pisa, Arti grafiche Pacini Mariotti, Pisa 1943. Un problema di diritto costituzionale, in “Rinascita”, n. 2, luglio 1944.
Liberalismo e democrazia, in “Rinascita”, n. 3, agosto-settembre 1944. La rappresentanza proporzionale, in “Bollettino di informazione e documentazione del ministero per la Costituente”, Roma 30 novembre 1945, a. I, n. 2. Profili costituzionali della crisi italiana, in “Società”, nn. 1-2, 1945. Dallo Statuto albertino alla Costituente, in “Rinascita”, n. 3, marzo 1946. Per una Costituzione democratica, in “Rinascita”, n. 7, luglio 1946.
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La Costituzione non ostacolo ma guida per le conquiste democratiche, in “Vie nuove”, n. 8, ro novembre 1946. Considerazioni sulla Costituzione sovietica, in “Società”, n. 5, 1946. Oltre la Costituzione, in “Rinascita”, n. 1, gennaio 1948. Il governo democratico cristiano contro la Costituzione repubblicana, in “Rinascita”, n. 3, marzo 1950.
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Stato Popolo Governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Giuffrè, Milano 1985.
3
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255
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
Repubblica e Costituzione, in E. Santarelli (a cura di), Dalla monarchia alla
repubblica. 1943-1946, Editori Riuniti, Roma 1974. Sulla svolta. Carteggio clandestino dal carcere 1930-31-32, a cura di A. Coletti, La Pietra, Milano 1975. Al bando dal partito. Carteggio clandestino dall'isola e dall'esilio 1938-45, a cura di A. Coletti, La Pietra, Milano 1976. Intervista sul comunismo difficile, a cura di A. Gismondi, Laterza, Roma-Bari 1978.
Come nacque la Costituzione, intervista di P. Balsamo, Editori Riuniti, Roma 1978.
Prolusione, in La Costituzione italiana. Verifica di un trentennio, a cura del-
l’ANPPIA, La Pietra, Milano 1978. Conversazione con Umberto Terracini tra cronaca
e storia. Quando diven-
tammo comunisti, a cura di M. Pendinelli, Rizzoli, Milano 1981. Discorsi parlamentari, Senato della Repubblica, Roma 1995, 3 voll.
256
Indice dei nomi
Adler M., 248 Agosti A., 56-7, 128-32, 176, 241-2 Aimo P., 241, 245 Albertoni E. A., 134 Alessandria P., 242 Alicata M., 134 Allegretti U., 57, 248
Berlin I., 177, 180 Berlinguer E., 135 Bertelli S., 135 Bertolissi S., 241 Bettinelli E., 57, 178, 181, 243 Bianchi G., 241 Biscaretti di Ruffia P., 1, 113 Bixio A., 136 Bloch M., 85 Bobbio N., 1, 128, 137, 175, 244, 250
Amato G., 246
Ambrosini G., 59 Amendola G., 135-6 Amirante C., 128, 248
Bongiovanni G., 60 Bonini F, 61, 248-9 Bonomi I., 26
Amorth A., 59 Andreucci F, 132 Antonini E., 134-5 Aquarone A., 53, 137-8 Armani G., 60 Atripaldi V., 60, 128, 136, 181, 242,
Bordiga A., 70, 74-9, 130, 243 Bottai G., 135 Bova S., 56, 60-1 Bozzi T., 179, 201, 245, 248
245, 247-9
Brecht B., 68 Bruno F, 245-6 Buci-Glucksmann C., 55
Badoglio P., 18 Baldissara L., 241 Balsamo P., 56, 246 Barbagallo F.,, 53, 128, 130, 243 Barbera A., 60 Barberi A., 134, 174, 178
Busia G., 60
Calamandrei
P., 23,
230-2, 236, 248-9
Cammett J. M., 129 Cantaro A., 242 Cappelletti M., 54 Caprioglio S., 129 Caputo E, 135
Barca L., 180, 243
Barile P., 179, 248 Basile S., 181 Battaglia A., 244
Caputo G., 135
Bauer R., 89 Belvisi F,, 60
Carandini G., 131, 174 Carcaterra G., 136 Cardia U., 135
Benjamin W., 68 Bergson H., 69
257
54,
107,
172,
LA SINISTRA
ALLA
COSTITUENTE
Caretti P., 54
Dogliani M., 128, 136-8
Cariola A., 137
D’Orazio G., 61, 249-50 Dossetti G., 43, 45, 150, 153, 176, 178
Carissimi C., 60-1, 180, 244 Cassese S., 54, 136-7
Catalano F,, 242 Cerroni U., 11, 14, 57, 242 Cheli E., 14, 54, 56, 59, 60, 244-5,
247-9 Chiaromonte G., 135 Cianferotti G., 138 Ciarlo P., 180 Cognetti De Martiis S., 71
Colarizi S., 135 Coletta S., 128 Coletti A., 242
Collotti E., 131, 174 Colorni E., 123 Conti Gianni, 249 Conti Giovanni, 209-11, 219 Contorbia F.,, 131-2 Cordova EF, 128 Corona A., 123 Corradini D., 14
Dostoevskij F., 96 Einaudi L., 61, 67, 71, 206, 213, 235 Engels F,, 32, 57, 142 Falzone V., 60 Farinelli A., 67 Febvre L., 85
Ferrajoli L., 54, 137 Ferrara G., 134 Ferrara Marcella, 131 Ferrara Maurizio, 131
Feuerbach L. A., 69, 142-3 Fioravanti M., 52-4, 241-2, 246, 249
178-9,
Fiumanò C., 54, 56 Flores M., 53-4, 241 Foa V., 53 Focardi G., 14
Cosentino F, 60 Cosmo U., 66-7 Costa P., 54, 137 Costamagna C., 111, 115-6, 121 Croce B., 68, 92, 133
Forti U., 14, 30
Curiel E., 26, 55, 97
Galasso G., 135 Galli G., 175 Gambino S., 242
D’Albergo S., 58, 176 D’Alberti M., 136
136-9,
Franceschini C., 14, 52, 56, 59, 128, 241-2 Frosini T. E., 246
Gangale G., 87
D'Alema G., 105 D'Alessio G., 57-8, 249-50
Garin E., 129 Gattei G., 129
De Gasperi A., 27, 246 Degl’'Innocenti M., 133 Del Boca A., 54, 137 Del Vecchio G., 113 De Nicolò M., 128, 241-2, 248-9 Denti V., 244
Gentile E., 54, 136 Gentile G., 116 Gerratana V., 53, 129 Ghisalberti C., 52 Giannini M. S., 14, 30, 33, 35, 38-9,
54, 56-7, III, 175 Giganti P., 135
De Sanctis F, 68
De Siervo U., 14, 59, 60, 180-1, 245 Detti T., 132 Di Loreto P., 56, 241 Di Nolfo E., 133 Di Vittorio G., 199
Giovana M., 131, 242
Gismondi A., 56
Giudice M., 129 Gobetti P., 65, 74, 78, 90, 128, 130 Gozzi G., 54, 60
258
INDICE
DEI NOMI
Gramsci A., 27-8, 32, 53, 57, 66-9, 72,
Mancini P., 159 Mangoni L., 136-7 Maranini G., 119, 138 Marinucci E., 129
74-8, 81-2, 86, 92, 100, 108, 116, 129-
30, 137, 188, 190, 192-3, 216, 226, 242
Grandi Grassi Grassi Grassi Grieco
D., 121 G., 241 S., 248
Martinelli R., 55, 59 Marx K., 32, 57, 68, 83, 85, 87-9, 9I,
94, 109, 131-2, 14I-4, 174, 189-90, 239
Orsini F, 53, 179 R., 213, 242, 245-6
Matteucci N., 175, 177 Mattone A., 242 Mazzacane A., 136 Melis G., 54-5, 59, 136, 139 Merli S., 132 Merlin L., 71, 129 Merlin U., 159 Merlini S., 52, 128, 241, 244-5, 247 Mirkine-Guetzévich B., 178
Groppali A., 88 Guerrieri S., 14, 52, 56, 59, 128, 241-2
Gullo F.,, 191, 233-4, 236, 244, 248-9 Hegel G. W. E, 68, 91, 132
Hobsbawm E. J., 242 Ingrao P., 180, 243
Modugno E, 248
Iotti N., 136 Isnenghi M., 137
Mondolfo U. G., 84-5, 131 Monina G., 14, 52, 56, 59, 128, 241-2 Montesquieu C. L. de Secondat de,
Jannaccone P., 67, 71 Jaume L., 53
206
Morandi R., 94, 97, 133 Moro A., 178 Mortara G., 83 Mortati C., 22, 31, 36-7, 42, 52-5, 58,
Kelsen H., 12, 157, 159, 161, 165, 173, 177-9;
181, 196,
243,
250
Labriola A., 68, 83
IIO-2, IIS, 118, 123, 137-8, 163, 179, 181, 207, 209-10, 212-6, 218, 220-3,
Laconi M., 108
Lanchester F.,, 136-7, 246
243-6
La Pira G., 150, 153, 167, 175-6 La Rocca V., 61, 203, 206-7,
Mussolini B., 80-1, 101 Muzzi G., 133
211-2,
215, 218, 221-2, 244-7
Lassalle F., 148, 175
Natoli C., 130 Negt O., 174 Neri Serneri S., 53, 55, 133, 139
Lavagna C., 111, 178, 181 Legnani M., 54-5, 137, 241-2
Lenin
(V. I. Ul’janov),
73-5, 108-9,
Neumann
188, 239, 242
F, 12, 156, 175, 177
Nobile U., 200, 204-5, 223-4, 247
Leone G., 201, 230-1, 236 Lex A., 80
Novacco D., 52
Liebknecht K., 86 Lisa A., 28, 55 Livorsi F, 133, 175
Origone A., m Orlando V. E., 111, 113-4, 116, 137, 161, 220
Loria A., 67, 69 Luciani M., 60, 242
Otto R., 96
Luther J., 53 Luxemburg R., 86, 98
Paggi L., 53, 129
Luzzatto G., 94, 97
Paladin L., 53, 139
259
LA SINISTRA
Palermo Palmieri Panunzio Panunzio
ALLA
COSTITUENTE
Romanelli R., 14, 52, 55, 58, 136
F, 60 R., 134 S., nm, 115 S. P., 246
Romano
S., x,
113-4, 116, 120, 122,
137, 139
Romboli R., 54, 56
Pasquino G., 128, 181
Romeo G. A., 128, 241
Passerin d’Entrèves A., 177
Roosevelt F. D., 156, 173, 243, 247 Rosanvallon P., 14 Rosselli N., 93
Pastore O., 67
Patricolo G., 230 Paulesu Quercioli M., 128
Rossi M. G., 54, 128, 137, 241-2 Rossini G., 59 Rotelli E., 241-2 Rousseau J.-J., 244 Ruffilli R., 56, 59, 128, 181, 249 Ruffini R., 67 Ruini M., 44-5, 56, 60-1, 179 Rusconi G. E., 55
Pavone C., 53-5, 59, 181, 24I Pendinelli M., 129-30 Perna E., 180, 243 Perra G., 249 Persico G., 244 Pertini S., 99 Petta P., 14, 241-2, 249-50 Piccardi L., 39, 41 Pieretti M., 249 Pinzani C., 59 Piretti M. S., 243 Pisacane C., 92-3
Sabbatucci G., 53, 133-4 Saccomanno A., 248-9
Salvadori M. L., 135 Salvati M., 14, 53, 128, 131, 133-4, 137, 176, 179 Santarelli E., 242
Piscitelli E., 55 Podda G., 135 Pogliano C., 132 Pombeni P., 14, 52-4, 59, 60, 136-7,
Santomassimo G., 128, 241-2
Santucci A. A., 129 Saragat G., 44 Sassoon D., 56 Sbarberi F,, 55, 241 Scano P., 135 Schiavone A., 136-7 Scoccimarro M., 42, 187, 242 Segre A., 66 Segre ]., 66 Serrati G. M., 74
139, 175-6, 179, 246 Portinaro P. P., 53 Predieri A., 174
Quagliariello G., 53-4, 179 Quasi A., 245
Quazza G., 14, 55, 59, 131, 133, 137, 241, 243
Ragionieri E., 52, 55, 129-30, 241-2 Ranelletti O., 114 Rapone L., 134-5
Sestan L., 241
Sgarabelli A., 56 Solari G., 67 Sorel G., 68 Spagnoli U., 57, 128, 180, 243, 249
Ravera C., 82 Rescigno G. U., 56 Rescigno U., 59
Spano V., 246
Righi M. L., 59
Spriano P., 55, 129-30, 135, 242
Rizzo G., 39, 56 Rocco .A;, 115, 117, 137 Rodotà S., 57-60, 128, 137, 175, 180 242 Rolland R., 68, 70, 82
Stalin (J. V. Dzugasvili), 83 Stolfi M., 39, 41 >
Taddei F,, 133, 181 Tasca A., 66, 68, 77
260
INDICE
Tilgher A., 133 Togliatti P., 26, 36, 45-8, 50, 55, 58
DEI NOMI
>
60, 66, 68-9, 71-2, 82, 106, 130, ISI > 161, 167, 169, 171-2, 176, 178, 180-1 ") 184, 186, 217, 237, 241, 246, 248-9
Vidotto V., 134 Vitta C., 38, 39 Vittoria A., 135 Vittorio Emanuele m, re d’Italia, 18
Tolstoj L. N., 82 Tosato E., 219-21, 223-4, 245-7 Tranfaglia N., 53, 135
Woolf S. J., 54 Zagrebelsky G., 53-4, 56, 61, 249 Zangrandi R., 135
Treves C., 90 Trockij, L. D., 83 Turi G., 137
Zannino F, 174 Zanobini G., 39 Zolo D., 11, 14
Valiani L., 241 Vassalli G., 98
Zucaro D., 131 Zunino P. G., 132-3
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Lo studio del contributo delle sinistre di orientamento socialista e comunista al dibattito costituzionale — condotto in questo volume attraverso l’analisi dell'operato di quattro protagonisti — permette di cogliere aspetti decisivi della vicenda da cui prese forma il testo fondamentale della Repubblica: in primo luogo viene proposta una rinnovata immagine delle matrici culturali della Costituzione del 1948 e dei suoi principi base; in secondo luogo viene revocata in dubbio la tradizionale rappresentazione di una sinistra poco attenta lle questioni del diritto e delle istituzioni. Alla ricostruzione delle biografie intellettuali di Basso, Crisafulli, Laconi e Terracini, si accompagna l'esame dei rispettivi orientamenti espressi nelle sedi di preparazione e redazione della carta costituzionale. Risaltano così le singole sensibilità politico-giuridiche, sullo sfondo del più generale dibattito dipanatosi in Italia e in Europa all'indomani del secondo conflitto bellico, in relazione alla determinazione di nuovi assetti statuali.
Chiara Giorgi, dottoranda presso l’Università degli studi di Siena, si è occupata della storia politica e intellettuale della sinistra italiana durante il fascismo e nel secondo dopoguerra. Ha curato il volume di Francesco De Martino, Socialisti e comunisti nell'Italia repubblicana, La Nuova Italia, Firenze 2000. È attualmente impegnata in una ricerca sulla storia dell’inps nel periodo fascista.
ISBN
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