La resa di Roma. 9 giugno 53 a. C., battaglia a Carre 8842098027, 9788842098027

Il 9 giugno del 53 a.C, sulla pianura di Carre nell'Alta Mesopotamia, un esercito di cavalieri venuti dall'Ira

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Italian Pages 212 [229] Year 2011

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La resa di Roma. 9 giugno 53 a. C., battaglia a Carre
 8842098027, 9788842098027

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Economica Laterza 587

Dello stesso autore in altre nostre collane:

Marco Antonio «Biblioteca Essenziale Laterza»

428 dopo Cristo. Storia di un anno «Storia e Società»

La tecnica in Grecia e a Roma «Universale Laterza»

Giusto Traina

La resa di Roma 9 giugno 53 a.C., battaglia a Carre

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2011 Edizioni precedenti: «Storia e Società» 2010 www.laterza.it L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.

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Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9802-7

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Prologo 9 GIUGNO 53 A.C., PIANA DI CARRE, ALTA MESOPOTAMIA Vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene, ma la terra resta sempre la stessa. Qohelet, 2-41 ... i nemici schierarono la cavalleria corazzata in avanti contro i romani, che intanto erano circondati dagli altri cavalieri, lanciati in ordine sparso a sconvolgere la piana. Dal fondo del terreno sollevavano cumuli di sabbia, scuotendo un immenso polverone: i romani non riuscivano più a vedere né a emettere suoni. Raccolti in un piccolo spazio, venivano colpiti e cadevano gli uni sugli altri, agonizzando lentamente: straziati da un dolore insopportabile, rotolavano sui dardi, che si spezzavano dentro le ferite. Nello sforzo di estrarre le punte, penetrate nelle vene e nei nervi e ripiegate come un amo, essi finivano per distruggersi e dilaniarsi da sé. Così tanti morivano, mentre i superstiti erano allo stremo delle forze...2.

Così, all’inizio del II secolo d.C., Plutarco di Cheronea evocava una fase drammatica del primo grande scontro fra un

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esercito romano e un esercito iranico. La battaglia che si svolse sulla piana di Carre, il 9 giugno del 53 a.C.3, segnò una battuta d’arresto per Roma: la sua avanzata verso la conquista del mondo, ritenuta fino ad allora irresistibile, fu bloccata da un’armata di cui si erano sottovalutate la perizia militare, la forza d’urto, e soprattutto la capacità di resistere al temibile dispositivo della legione. I parti arrestarono e sbaragliarono il potente esercito romano, inviato a sottomettere la Mesopotamia col pretesto di risolvere una crisi dinastica. Il comandante della spedizione era il potente e ambizioso Marco Licinio Crasso, l’uomo che diciotto anni prima aveva sconfitto Spartaco e fatto crocifiggere sulla via Appia seimila tra schiavi e gladiatori ribelli. Egli morì poco dopo la sconfitta, travolto dal disonore e dall’orrenda visione della testa del proprio figlio, Publio Crasso, mozzata e posta in cima a una picca nemica. I pochi soldati superstiti furono deportati, mentre il nemico poteva ostentare al mondo il possesso delle insegne legionarie prese sul campo, simbolo della disfatta di Roma. Plutarco, fonte principale dell’evento, scriveva queste pagine a più di un secolo e mezzo dalla catastrofe. La sua Vita di Crasso offre uno dei resoconti più dettagliati mai scritti su una campagna militare dell’antichità: oltre la metà della biografia si concentra sugli ultimi due anni di vita del comandante. Descrivendone le operazioni militari, la battaglia e la fine ingloriosa, Plutarco narra la cronaca della morte annunciata di un personaggio negativo e funesto, spinto alla rovina dalla sua dissennata avidità. Un tale interesse per la sfortunata campagna del 54-53 a.C. non si doveva solo all’importanza intrinseca dello scontro o all’interesse per un personaggio come Crasso, ma era dettato soprattutto dall’attualità del tema. All’epoca, Roma stava preparando una nuova spedizione, questa volta vittoriosa: tra il 114 e il 117 d.C., l’imperatore Traiano inva-

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se la Mesopotamia e, al termine di una lunga campagna, occupò il territorio, conquistò la residenza partica di Ctesifonte (circa 35 km a sud dell’attuale Baghdad) e quindi riuscì dove Crasso aveva fallito. Il messaggio di Plutarco era chiaro: l’optimus princeps Traiano avrebbe lavato per sempre il disonore, mentre lo sconfitto di Carre sarebbe passato alla storia come un esempio negativo, monito per le future generazioni. Crasso fu dipinto come un comandante dozzinale, un uomo d’affari che, per brama d’oro e potere, aveva coinvolto la patria in un disastro epocale4. Il cliché ebbe una lunga fortuna, e lo ritroviamo ancor oggi nella letteratura militare destinata al grosso pubblico: Crasso resta lo stratega incapace e maldestro, che manda al macello i suoi uomini nel «vano tentativo di eguagliare la gloria delle menti militari più brillanti dell’epoca, Cesare e Pompeo», con il risultato di «ottenere il suo posto nella storia come uno dei peggiori comandanti di tutti i tempi»5. Non a caso, è con la vicenda di Crasso che si apre il brillante libro di Charles Fair sulla storia della stupidità militare, dalle origini alla guerra del Vietnam6. Questa visione, ricostruita dai moderni in base alla vulgata antica, non è certo infondata: il comandante aveva senz’altro le sue colpe, e non ho certo la presunzione di rovesciare, in una prospettiva ‘revisionista’, il consueto profilo di un Crasso «insufficiente in materia di logistica, addestramento e informazione», suggerito da Plutarco e da vari altri autori7. Al tempo stesso, occorre fare un ulteriore sforzo di ricostruzione di una campagna ben più complessa di quanto non appaia dalle fonti. Certo, Plutarco è un autore di grande sensibilità storica e un attento ricercatore di fonti rare e insolite: le Vite parallele restano una testimonianza importante, nel nostro caso addirittura essenziale. Ma il biografo non intendeva narrare lo sviluppo delle vicende storiche, dal momento

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che il suo obiettivo era quello di delineare le vite dei grandi uomini greci e romani: del resto egli non amava la «ricerca inutile», e il suo ideale di historìa era una narrazione «vòlta a comprendere il carattere e il comportamento» dei suoi personaggi, costruiti come figure esemplari (in senso positivo o, come nel caso di Crasso, negativo)8. Il risultato finale fu la banalizzazione di una realtà storica ben più articolata, dove la responsabilità della disfatta fu imputata al solo Crasso, mentre in realtà era coinvolta buona parte dell’aristocrazia romana, con la connivenza di vari interessi. L’ideologia creava l’illusione storica, distraendo i cittadini romani dalla tragedia collettiva. Come è stato osservato, «nell’interpretazione della battaglia di Carre, il pensiero moralistico è più importante di quello strategico»9. La reputazione del comandante ha attraversato i secoli, tanto che ancor oggi, nel gergo delle accademie militari francesi, si definisce crassus un cadetto lavativo (da cui anche il verbo crassusser, «sottrarsi a un’attività», «copiare durante un esame», «fare il meno possibile»)10. Del resto, Plutarco non è la sola fonte da ‘decodificare’. L’insieme della documentazione sulla battaglia non consente di capire cosa sia realmente accaduto sul campo. Dalla lettura delle fonti, discordanti in molti punti, si ricostruisce un quadro della battaglia limitato allo scontro fra parti e romani, trascurando ad esempio l’apporto delle forze ausiliarie11. Nonostante questa oggettiva difficoltà, molti hanno cercato di delinearne almeno le fasi principali, ma, in definitiva, la documentazione non permette di ricostruire del tutto la tattica di Crasso, né tantomeno quella dei parti. Pur disponendo di vari dettagli sulle manovre impiegate dai due eserciti, che permettono di cogliere a sprazzi alcuni momenti dello scontro, non è possibile ottenerne una visione d’insieme senza ricorrere a ricostruzioni di fantasia12. Della battaglia restano

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soprattutto impressioni, suoni, immagini, tanto da restarne confusi e disorientati proprio come il diciassettenne Fabrizio del Dongo a Waterloo, nel celebre brano della Certosa di Parma di Stendhal. Di fatto, le fonti su Carre narrano soprattutto gli aspetti tradizionali del combattimento, dove il punto di vista è quello del comandante o al massimo degli ufficiali: il «volto della battaglia», secondo la celebre definizione di John Keegan, qui non appare né potrebbe farlo13. Al tempo stesso, la plateale sconfitta di Crasso ha concentrato l’attenzione quasi esclusivamente sui suoi errori, distraendoci da un’analisi più lucida della strategia da lui messa in atto. Del resto, a differenza di altre battaglie dell’antichità, qui è più difficile assumere la prospettiva dell’«occhio di chi comanda»14. I testi classici sono il nostro unico riferimento, ma d’altro canto ci privano di quella visione d’insieme che solo la controparte orientale potrebbe fornirci. Non sappiamo se una memoria della vittoria su Crasso si sia preservata nella tradizione iranica o iranizzante, come talvolta è stato proposto: gli indizi in tal senso sono evanescenti15. Così, ad esempio, resta indimostrabile la pur suggestiva ipotesi che l’apparizione «fiammeggiante» della cavalleria partica venisse intesa come un’apparizione delle fravaΔi, i demoni d’Oltretomba che fiancheggiavano il dio Mithra nella sua lotta contro le forze dell’Oscurità16. Molte di queste tradizioni restano avvolte nel mistero, ed è quanto mai difficile estrarre dati storici da una letteratura che le ha rielaborate a distanza di secoli. Peraltro, queste fonti invogliano a formulare ipotesi audaci: così, ad esempio, si potrebbe riscontrare una lontana reminiscenza di Crasso nell’antica epopea di Rostam, eroe dell’Asia centrale, le cui gesta sono state effettivamente accomunate a quelle di Surena, il generale che sconfisse i romani. Nell’epica persiana medievale, Rostam salva per l’appunto l’Iran da un’arma-

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ta infernale capeggiata da una creatura definita come il Demone Bianco (D∞v-∞ Sep∞d). Con le sue arti magiche, era riuscito a sgominare il re dei persiani e a segregarlo, dopo averlo accecato insieme ai suoi cortigiani e ufficiali17. Il poeta Fird∂s∞ (X-XI secolo) descrive il Demone Bianco «qual monte nel corpo / le spalle e la nuca della lunghezza di dieci corde», o ancora «Color del carbone il volto, come leone i capelli, / della sua altezza e larghezza si riempiva la terra»18. Ecco una scena cruciale dei combattimenti: Tutti insieme sguainarono la spada dell’odio E si scagliarono l’un contro l’altro. Corno e tamburo s’alzarono da ognuno dei due eserciti, Cerulea si fece l’aria, d’ebano la terra: Come folgore lampeggiante da un’oscura nube, Fiamme scaturivano da asce e spade. L’aria divenne rossa, e nera e viola, Per la moltitudine delle lance e la varietà degli stendardi. Per le urla dei demoni e la scura polvere, Per il tuonare dei tamburi e i cavalli da battaglia, Si fendette il monte e la terra si lacerò. Nessuno vide una pugna così carica d’odio. Giungeva il fragore delle mazze, delle spade e delle frecce, E del sangue dei prodi la piana si fece lago. La terra sembrava un mare di pece, Le cui onde erano di pugnali, mazze e frecce: E i cavalli zampe di vento, come navi sull’acqua, Parevano aver fretta di affondarvi. E le mazze piovevano su elmi e caschi, Come il vento d’autunno fa piovere dal salice le foglie19.

Non è stata trovata una soluzione soddisfacente per identificare questo demone dal colore insolito (nella tradizione iranica, i demoni sono neri)20. Ma certo è forte la tentazione di rav-

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visare, in questo Demone Bianco, un’epifania di Crasso, trasfigurato dai bardi partici in uno spirito di morte dal colore livido, venuto a portare lutto e distruzione con le sue magie (proprio come i romani con le loro macchine da guerra)21, e sconfitto infine dall’eroe nomade, giunto dall’Asia centrale a salvare il grande impero d’Iran dalla minaccia delle legioni romane. Iniziato in un anno bisestile, questo libro è stato scritto in un periodo di transizione, e pertanto elaborato in varie tappe, e via via migliorato grazie agli stimoli e ai contributi da parte di amici e colleghi. Ho discusso alcune tesi di questo lavoro a Berlino, al convegno Krieg in Wörter (aprile 2008) organizzato da Marco Formisano, che ringrazio per le osservazioni critiche, insieme a Pascal Brioist, Serafina Cuomo, Glenn Most, Christoph Röck e Matteo Valleriani. Successivamente, ho ripreso la discussione a Palermo, in occasione del colloquio Truppe e comandanti nel mondo antico (novembre 2009), dove ho utilmente dialogato con Rosalia Marino, Antonino Pinzone e Giuseppe Zecchini. Con la loro erudizione, Antonio Panaino e Andrea Piras mi hanno aperto nuovi orizzonti sulle tradizioni iraniche. Ringrazio, per i consigli e i suggerimenti bibliografici, gli amici e/o colleghi Gianfranco Agosti, Gastone Breccia, Giovanni Brizzi, Pierangelo Buongiorno, François Cadiou, Francesco Caparrotta, Claudia Ciancaglini, Salvo Demeis, Aldo Ferrari, Patrick Le Roux, Ed Luttwak, Bertille Lyonnet, Guido Milanese, Marco Mirabella, Roberto Nicolai, Marek Jan Olbrycht, Paola Orsatti, Antonio Piccolo, Eugenio Polito, Maurice Sartre, Oliver Schmitt, Koen Verboven, Nurettin Yardımcı. Con la consueta sensibilità, Carlo Franco e Giacomo «Jimmy» Traina mi hanno permesso di evitare numerose inesattezze e oscurità.

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Alessandro Barbero, Gérard Chaliand, Olivier Cosson, Patrice Faure, Christian Ingrao, Sylvain Janniard, Alessandro Politi, Odile Roynette, Everett Wheeler hanno fornito preziosi spunti per approfondire vari problemi di storia militare. Le belle versioni poetiche da Fird∂s∞ e dal V∞s ∂ Rπm∞n sono di Mario Casari. Artemij Keidan e Gabriele de Seta hanno verificato rispettivamente le traduzioni dall’Arthas´πstra e da S∂¯nzıˇ.. Quando non specificato, le traduzioni dal greco e dal latino sono mie. Ernie Haerinck mi ha gentilmente fornito la fotografia e il disegno del rilievo di Tang-e-Sarvπk, mentre il «principe di Sˇami» mi è stato inviato da Carlo Lippolis, del Centro Scavi di Torino. Paola Giovetti, del Museo civico archeologico di Bologna, mi ha gentilmente procurato l’immagine della dracma di Orode II. L’amico Ruben Vardanyan, del Museo storico nazionale di Erevan, mi ha inviato l’immagine della dracma di Artawazd di Armenia. Grazie alla biblioteca dell’IsIAO di Roma è stato possibile reperire un’immagine nitida della placchetta di Orlat. I ringraziamenti ‘canonici’ sarebbero potuti terminare qui, se a un certo momento della stesura non fosse apparsa Gabriella Imperiale. Il dialogo con lei è nato per caso, ma ha sortito un effetto salutare: riposta la panoplia accademica, ho modificato il percorso di scrittura, dando attenzione ai suoni della parola. Credo che questa rilettura ‘orale’ sarebbe piaciuta a Chico Rossi, il carissimo maestro e amico che purtroppo non potrà leggere queste pagine. È solo grazie alla ‘regia’ di Gabriella se i personaggi della vicenda si sono potuti materializzare come attori sulla scena, come del resto accadeva anche nella realtà. Questo ha permesso altresì di visualizzare la battaglia: e qui sono stati di grande aiuto Alessandro Politi, con il suo sapere strategico, e i wargamers Gabrie-

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le Callari, Vitaliano Da Col, Riccardo Goeta e Giovanni Vassallo, che hanno provato delle simulazioni del combattimento, confermandomi alcune intuizioni che nel corso della ricerca avevo potuto formulare solo in modo teorico. Anche per questo sviluppo, Gabriella si è rivelata fondamentale. Nel maggio 2008 ho percorso la piana di Carre: non ho trovato Crasso, e il ritorno è stato più difficile del previsto. Un anno dopo, forse proprio grazie al dio S∞n, ho trovato un’altra strada. La serendipity ha smosso le acque. Ah, dimenticavo: davaj. Paris-Palermo, aprile 2010

LA RESA DI ROMA 9 GIUGNO 53 A.C., BATTAGLIA A CARRE

I L’INVASIONE Il conquistatore, una volta valutata la relativa forza e debolezza di se stesso e del suo avversario, il potere, i luoghi, i tempi, la durata dell’itinerario e del reclutamento dell’esercito, le conseguenze, le perdite di uomini e denaro, i profitti e il pericolo, dovrà mettersi in marcia con tutta la forza possibile. Altrimenti dovrà starsene tranquillo. Kaut˝il∞ya, Arthas´πstra, IX 1, 1

I due imperi I parti entrarono nella storia intorno al 240 a.C. Il fondatore dell’impero, Arsace, era il capo di una tribù dell’Asia centrale appartenente a quella galassia di nomadi iranici che i greci definivano, con un unico nome-contenitore, «sciti». Alla testa di un’orda di guerrieri, dalle sue terre situate a sudest del Mar Caspio, Arsace penetrò nel territorio dell’impero seleucide, occupando la satrapia detta Parthava (Partia), una regione oggi situata fra l’Iran orientale e il Turkmenistan. I

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successori di Arsace vennero chiamati «parti» e governarono fino al 224 d.C.1. Essi occuparono a più riprese i possedimenti orientali dell’impero seleucide, finché, intorno al 120/110 a.C., si impadronirono definitivamente della Babilonia, gettando le basi di una nuova potenza. Nel I secolo a.C., l’impero partico si estendeva dall’Alta Mesopotamia all’Asia centrale, e intendeva raccogliere l’eredità della dinastia degli Achemenidi, interrotta nel 330 con l’invasione di Alessandro Magno. Mentre il nuovo impero iranico prendeva vita, quello di Roma stava occupando una posizione sempre più importante nel Mediterraneo. A differenza dei loro rivali orientali, i romani non erano governati da re, bensì da magistrati elettivi, i consoli e i pretori, che rispondevano delle loro azioni all’assemblea dei senatori. Con la forza delle armi o con l’astuzia diplomatica, a partire dal III secolo a.C. essi neutralizzarono i regni ellenistici, occupando la sfera commerciale di buona parte del Vicino Oriente. Si parla a buon diritto di «imperialismo romano»: l’avanzata di Roma nel Mediterraneo orientale non dipese infatti da casuali circostanze, ma fu il risultato di una politica di conquista retta da logiche relativamente razionali. I primi contatti ufficiali tra i due imperi risalgono agli anni 90 a.C.2. All’epoca, la situazione politica era ancora fluida: solo dopo Carre si può effettivamente parlare di due blocchi contrapposti separati dall’Eufrate. Inoltre, ai tempi della guerra tra Pompeo e la coalizione armeno-pontica di Tigran e Mitridate Eupatore, i parti avevano contribuito al successo di Roma. In quegli anni, il Senato romano non dava molto peso alla potenza iranica: a quanto pare, intorno al 69 a.C. il proconsole Lucullo avrebbe già pensato a un’invasione3. Agitato dalle guerre esterne e dai contrasti interni, l’impero partico appariva come un’entità effimera, e nel 65 il vittorioso

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Pompeo contribuì a indebolirlo con la decisione di perdonare il re Tigran e lasciargli ampia autonomia nella gestione del regno armeno. Poco dopo, il comandante romano liquidò quel che restava dell’impero seleucide, e fece della Siria una nuova provincia, controllata da almeno una legione (altre forze si trovavano nella vicina Cilicia, e potevano eventualmente essere impiegate per far fronte a minacce dall’esterno). La fascia di frontiera dell’Anatolia orientale venne affidata a re e dinasti locali sottomessi in varia misura all’autorità romana. Non sappiamo se fossero tenuti a versare un tributo, ma certo erano legati a Roma da complessi rapporti che in gran parte ci sfuggono. Infine, a est della Siria si trovavano le tribù semitiche dei «saraceni», capeggiate da vari signori della guerra che avevano approfittato del vuoto di potere nella regione dopo la caduta definitiva dei Seleucidi e l’umiliazione di Tigran d’Armenia4. Già nel 69, quando Lucullo aveva sconfitto Tigran, i capitribù dell’Osroene si erano sottomessi ai romani5. Il personaggio più influente era Abgar Ariamnes, capo della tribù araba degli o(s)rei. Nella successiva campagna di Pompeo, Abgar si era alleato ai romani, probabilmente con un patto o un trattato, e il suo aiuto si era rivelato prezioso per portare l’ordine nei territori più difficili da controllare6. La sua tribù aveva preso il controllo di Edessa, un’importante città aramea, ma di cultura ellenizzata, non lontana da Carre, che di fatto aveva autorità su tutta l’Osroene, a scapito delle altre tribù. I principali rivali degli osrei erano i rambei: Cassio Dione chiama il loro capo «Alchaudonios», ma altri autori lo citano più correttamente come «Alchaidamos» (in arabo al-hid˝amm, «si˘ gnore magnifico»)7. Combattendo in Alta Mesopotamia, i romani avevano recuperato un ingente bottino nelle città di Tigranakert (Tigra-

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nocerta) e Nisibi8. Da questi avamposti dell’Oriente si intravedevano ricchezze ancor più favolose: controllare la Terra tra i Due Fiumi avrebbe permesso un’apertura alle vie commerciali verso l’India e la Cina. Questi passaggi erano controllati dai parti, che rappresentavano quindi un ostacolo alle mire della potenza mediterranea. Essi, però, non davano particolari segni di ostilità, e nel 64 avevano accettato le condizioni di Pompeo: fu solo grazie a una loro crisi dinastica che il Senato trovò il pretesto per attaccarli. Nel settembre del 58 morì il re Fraate III, probabilmente per mano dei due figli Orode e Mitridate. Subito dopo, i due fratelli vennero a contesa per il trono, rivendicando il prestigioso titolo di «re dei re»9. Mitridate si rifugiò in Siria e chiese l’appoggio romano contro il fratello. Questo permise a Roma di muovere contro la potenza partica senza infrangere il precedente trattato di pace: di fatto, il Senato sosteneva Mitridate, riconoscendolo come il legittimo re di una nazione alleata. Al console Aulo Gabinio, un uomo di Pompeo, fu assegnata la provincia di Siria a partire dall’anno seguente: a otto anni dalla sua fondazione, dopo il governo di tre senatori di rango pretorio, la provincia accoglieva il suo primo governatore di rango consolare, e questo indicava chiaramente che la posta in gioco si era fatta più alta. Grazie alle abili manovre di Publio Clodio, il potente tribuno della plebe, il proconsole aveva ottenuto libertà di movimento anche in Mesopotamia e in Iran10: insomma, tutto era pronto per una guerra contro i parti, e a Roma già si cominciava a guardare con ostilità quella parte del mondo. Il poeta Catullo, morto poco prima della sconfitta di Carre, evocava i «parti, portatori di frecce», ma anche «la sacrilega superstizione dei persiani», che permetteva rapporti incestuosi nell’ambito della casta sacerdotale dei magi. Si tratta del tipo di unione noto come «nozze intrafamiliari» (xw™d≥dah in medio-

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persiano), e che greci e romani utilizzarono spesso come argomento per stigmatizzare gli iranici, non solo barbari ma anche incestuosi11. Molti giovani aristocratici desiderosi di gloria e bottino, tra cui il futuro triumviro Marco Antonio, si unirono all’impresa. Vari potenti alleati locali chiesero di partecipare alla spedizione. Uno di essi era Archelao, gran sacerdote dell’importante città-santuario di Comana in Cappadocia; ma il Senato sospettava che egli fosse un figlio naturale di Mitridate del Ponto, il grande nemico di Roma, e rifiutò la sua richiesta. In un primo momento, Gabinio avrebbe dovuto limitarsi a un cauto appoggio all’Arsacide Mitridate, che si era attestato nella Media, controllando la strada di arroccamento che lo collegava al territorio degli alleati romani. Successivamente, con l’assenso del proconsole, il principe si spostò in Mesopotamia12. Alla fine, però, i sogni di gloria dei romani furono rinviati. La situazione non era favorevole per una guerra contro la potenza iranica: Gabinio era in gran parte impegnato a risolvere i problemi economici della provincia di Siria, dove la sua politica finanziaria aveva incontrato l’opposizione dei «pubblicani», cittadini romani di rango equestre, incaricati di riscuotere le imposte. Quindi decise di rimandare la campagna partica e accettare invece la richiesta di soccorso del re d’Egitto Tolemeo XII, esiliato in seguito a un colpo di Stato. L’offerta era allettante: Tolemeo aveva promesso un’ingente somma in cambio di un appoggio militare. Al tempo stesso, il Senato si era reso conto dell’impegno che comportava un’offensiva su grande scala contro i parti; l’oro egiziano avrebbe permesso di finanziare la spedizione senza gravare sui provinciali. Inoltre, le piste carovaniere della Siria erano infestate dai beduini ‘saraceni’, le cui razzie minacciavano l’ordine della provincia romana13. Gabinio attraversò l’Eu-

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frate solo nel 55, senza però riportare grandi successi. Nel frattempo, a Roma, gli equilibri politici erano mutati, e soprattutto era stato rinnovato un patto privato di spartizione del potere, il cosiddetto «primo triumvirato» (l’espressione, per quanto impropria, risale già alla tarda antichità). I protagonisti di questo accordo, stretto già dal 60, erano i tre uomini più influenti del momento: Cesare, Pompeo e Marco Licinio Crasso.

La nuova campagna orientale e il suo comandante Crasso era uno degli uomini più ricchi e potenti di Roma. L’anno della sua nascita non è attestato con precisione, ma nel 55 aveva un’età più che rispettabile14. Con la sua carriera esemplare incarnava il profilo ideale di un membro dell’aristocrazia senatoria: una grande esperienza sia politica che militare, un immenso patrimonio accumulato grazie agli affari, e di conseguenza un enorme prestigio sia pubblico che privato15. In gioventù aveva combattuto al fianco di Silla nella guerra civile contro Mario. In seguito, approfittando della situazione favorevole, si arricchì ed estese la sua rete di clientele. Nominato pretore nel 73, un anno dopo ottenne poteri straordinari per reprimere nel sangue la rivolta servile di Spartaco. Infine, nel 70 giunse all’apice della carriera senatoria con l’elezione al consolato, che rivestì insieme a Pompeo. Navigando abilmente tra le insidie della politica romana, egli consolidò via via il suo potere, rafforzandolo definitivamente con il patto del «primo triumvirato». Crasso è passato alla storia come un politico e un affarista navigato, travolto in età ormai avanzata da una campagna in Oriente superiore alle sue capacità. Il cliché di Crasso «ban-

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chiere» è piuttosto diffuso: tra le curiosità, un sito web lo classifica in ottava posizione tra i dieci uomini più ricchi di tutti i tempi, dopo Henry Ford e prima dell’imperatore bizantino Basilio II16. Certo, si trattava di un uomo ricchissimo, che aveva saputo accrescere il proprio patrimonio con energia e spregiudicatezza: l’avidità di denaro surclassava le sue altre qualità. Partendo da un già ragguardevole patrimonio iniziale di trecento talenti (trentamila libbre d’oro), era riuscito a raggiungere la somma eccezionale di settemilacento talenti, a cui vanno aggiunte le ricche proprietà terriere (valutate a duecento milioni di sesterzi), le miniere d’argento, gli schiavi17. Giudiziose speculazioni, soprattutto nel campo dell’edilizia, avevano contribuito alla crescita esponenziale della sua ricchezza, che peraltro, a differenza di altri suoi concittadini, egli non amava ostentare, mantenendo al contrario uno stile di vita piuttosto sobrio. Pur disponendo di un simile patrimonio, il suo atteggiamento non era isolato, e anzi era abbastanza comune nella Roma dell’epoca: i notabili romani, sia senatori che cavalieri, non disdegnavano il mondo degli affari. «Voler accrescere il proprio patrimonio non era considerato un atteggiamento illegittimo, anzi; al contrario, lasciar diminuire le proprie ricchezze era ritenuto indegno. Al tempo stesso, questi notabili erano implicati in tutta una serie di atti di solidarietà, di cui dovevano tener conto socialmente. Essi erano legati ai propri parenti, a quelli della moglie ed eventualmente a quelli delle ex-mogli, ai loro amici e ai congiunti degli amici, ai loro clienti, ai membri del loro ordine, ecc. Coesistevano due tendenze, entrambe considerate come legittime: quella di guadagnare e arricchirsi, e quella di mostrarsi generosi e compiere gesti sociali»18. Chi poi era ricco poteva permettersi di prestare denaro ai cittadini legati a lui da un rapporto di amici-

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tia, a un minimo tasso di interesse o addirittura senza interessi. Il tornaconto era qui sociale e politico, anche se sottoposto a regole: in questi casi, Crasso era piuttosto rigoroso nel reclamare il suo denaro alla scadenza del prestito19. Se ben amministrate, le ricchezze erano determinanti per l’affermazione di un cittadino romano di buona famiglia come lui, e costituivano una valida protezione. Nel 63, ai tempi della congiura di Catilina, venne arrestato un certo Lucio Tarquinio, che per negoziare la propria incolumità rivelò le implicazioni di Crasso nel complotto. Nessuno ne dubitò, ma nessuno fece ugualmente nulla: «in un simile contesto, sembrava opportuno assecondare piuttosto che esasperare un uomo così potente: la maggior parte di essi aveva un debito con Crasso negli affari privati»20. Sul piano della moralità si presentava come un uomo irreprensibile. I suoi nemici preferivano mettere in discussione l’onorabilità della moglie Tertulla, vedova di uno dei suoi fratelli, che a quanto pare sarebbe stata sedotta da Cesare e avrebbe avuto una relazione con un tale Assio, in cui Cicerone ravvisava una certa somiglianza con uno dei figli di Crasso21. Non si può stabilirne con certezza la fisionomia: Plutarco allude vagamente a una «grazia seducente del volto»22. Gli sono stati attribuiti vari busti di epoca repubblicana, ma la mancanza di monete con un suo ritratto ha reso difficile una sicura identificazione. Tuttavia, alcuni storici dell’arte antica sembrano convenire sull’attribuzione del ritratto oggi conservato a Copenaghen, rinvenuto a Roma nel sepolcro dei Licinii, insieme al più celebre dei ritratti di Pompeo (Fig. 2)23. Queste immagini si discostano dal ‘verismo’ che caratterizza i ritratti romani di età repubblicana, che come è noto si ispiravano alle maschere eseguite in cera, riservate ai senatori a partire da un certo momento della loro carriera. Non si trat-

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tava di maschere mortuarie, poiché venivano realizzate quando il personaggio era ancora in vita. Le imagines venivano custodite in un apposito armadio nell’atrio della domus, in modo da costituire un vero e proprio archivio di ritratti degli antenati, che veniva esposto e utilizzato in determinate cerimonie, come il trionfo24. L’ascesa di Crasso era stata favorita dal clima politico. A Roma, sul finire degli anni 60, la situazione era precipitata, costringendo anche i tradizionalisti a radicalizzarsi e opporre ai loro avversari atteggiamenti ugualmente plateali, come quando Catone il Giovane, nel 59, pronunciò un intervento in Senato durato un giorno intero (e per questo ostruzionismo fu fatto incarcerare dal console Cesare)25. Si infittivano le tensioni tra le due fazioni politiche, solitamente definite con i termini un po’ schematici di optimates e populares. Nel 56, Cicerone scriveva che la differenza principale tra i due gruppi di cittadini impegnati in politica consisteva nell’obiettivo di compiacere la folla oppure gli «ottimi» cittadini26. Non dobbiamo però considerare le due fazioni come formazioni partitiche né tantomeno come schieramenti omogenei: gli accordi e i rapporti di forza variavano di continuo, e soprattutto gli optimates non erano sempre attestati su posizioni tradizionaliste; in determinati casi, si verificava addirittura il contrario. Non a caso, proprio negli anni in cui il «primo triumvirato» deteneva il potere videro luce opere di riflessione politica sulla natura dello Stato, come il De re publica (perduto) di Gaio Aurelio Cotta e l’omonimo trattato di Cicerone27. In ogni caso, il successo di un uomo politico della tarda Repubblica era determinato anche dalla sua spregiudicatezza. Cicerone, che con Crasso aveva un rapporto complesso e ambiguo, lo ricordava come un uomo disposto a mettersi al servizio di chiunque, pur di conseguire il risultato voluto28:

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ma questo atteggiamento non era isolato, e si riscontra in altre personalità dell’epoca, come Silla o Cesare. Anche l’avidità di denaro, che più tardi sarebbe stata rinfacciata a Crasso, rispecchiava lo spirito dei tempi. Tuttavia, se pure i romani rispettavano la ricchezza, essi non perdonavano chi la ostentava senza decoro: quando un senatore troppo soddisfatto perdeva il dovuto contegno, gli avversari politici ne approfittavano per screditarlo. Per Cicerone e per molti altri, la mancanza di decorum era il punto debole di Crasso, che lo portava ad atteggiamenti sconvenienti: a quanto pare, all’annuncio di aver ricevuto una ricca eredità, si sarebbe messo a danzare nel Foro per la contentezza29. Secondo Plutarco «egli era potente per i favori che accordava, e per la paura che incuteva, soprattutto per la paura»30. Crasso poteva rivelarsi «vendicativo e intrattabile» nei confronti degli avversari politici. Di lui, con un’espressione popolaresca, si diceva che avesse «del fieno sul corno» (gli allevatori romani legavano del fieno sulle corna dei bovini più aggressivi, perché la gente potesse identificarli ed evitarli)31. Una simile arroganza non era inusuale per un rappresentante dell’aristocrazia romana. Sul campo militare, poi, questi atteggiamenti erano molto apprezzati, purché chi li ostentasse sapesse anche ricorrere, al momento opportuno, alla dovuta diplomazia: e, in effetti, al momento giusto Crasso sapeva abbandonare il suo lato caratteriale per rivelarsi affabile e cortese, e piuttosto alla mano anche con gli estranei. Abilissimo oratore, poteva semmai capitargli di esagerare con le manovre seduttive, come quando, pur di procurarsi un terreno che gli interessava, non aveva esitato a dispiegare tutto il proprio charme con la vergine vestale Licinia, rischiando una gravissima condanna32. Ciò, beninteso, non faceva di lui un politico popularis: si può parlare semmai di un optimas che mirava

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alla popolarità, ovvero al necessario consenso per esercitare la propria influenza33. Queste qualità furono ricordate ancora negli anni a venire, tant’è che, intorno al 70 d.C., il ceto dirigente romano continuava a ispirarsi alle sue orazioni34. Quanto al suo talento militare, possiamo considerarlo come un «ordinario generale romano», come ebbe a osservare Karl Marx in una celebre lettera a Friedrich Engels35. Insomma, non era un generale peggiore di tanti altri. Nulla fa pensare a una sua mancanza di perizia bellica, e del resto la sua carriera militare era di tutto rispetto: aveva combattuto in Italia al fianco di Silla, e poi sul fronte iberico, e soprattutto si era distinto nella spietata repressione della guerra servile di Spartaco. Il suo profilo si avvicinava a quel ritratto di comandante ideale che, secondo Cicerone, doveva disporre dei seguenti requisiti: «preparazione militare, valore, autorità, fortuna»36. Se Crasso era arrivato fin dove era arrivato, evidentemente possedeva i primi tre e, almeno fino a questo momento, neanche la felicitas gli difettava37. Fu la disonorevole sconfitta di Carre a mettere in ombra le sue qualità di stratega. Ma la sua maggiore sfortuna fu quella di confrontarsi con Cesare e Pompeo: dove gli altri due ‘triumviri’ si distinguevano per genialità e carisma, lui si comportava con la consueta arroganza dell’aristocratico. Carenza che gli impedì di creare quell’empatia necessaria per assicurare la coesione di un grande esercito38. Nel 56, col rinnovo del «triumvirato», mentre Cesare aveva già cominciato la sua lunga e vittoriosa serie di campagne nelle Gallie, Pompeo e Crasso si assicurarono il consolato per l’anno seguente. Allo scadere della magistratura, essi si sarebbero occupati della Siria, per riprendere l’offensiva fallita da Gabinio, e della penisola iberica, ricca di metalli preziosi. Per confermare il loro potere grazie alle conquiste militari, i

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‘triumviri’ avevano ottenuto mandati straordinari per una durata di cinque anni. Gabinio fu sacrificato in virtù di questi accordi, e la sua missione sconfessata: più tardi si ebbe a dire che il Senato non gli avrebbe mai concesso di muovere guerra ai parti39. In realtà, l’intervento armato contro l’Iran restava in programma, e il momento era ormai propizio per le ambizioni di Crasso. All’epoca, Roma stava vivendo una rinnovata stagione di offensive e aggressioni. Le campagne di Cesare in Gallia avevano segnato un’escalation di massacri, che in alcuni casi avevano assunto le proporzioni di un vero e proprio genocidio: nella prima metà del 55, il proconsole aveva reagito alla migrazione di massa, oltre il Reno, delle tribù germaniche degli usipeti e dei tencteri (le fonti contano tra 300.000 e 440.000 persone). Dopo averne trucidato i capi, i romani passarono per le armi gran parte dei germani senza risparmiare donne e bambini40. La geografia delle conquiste romane si espandeva: dopo i successi contro galli e germani, Cesare mirava alla Britannia, dove compì due spedizioni, nel 55 e nel 54. Il risultato fu inferiore alle aspettative, ma il «successo di immagine» fu grande. Osserva Luciano Canfora: «L’iniziativa di spingersi fino all’estremo Nord (dove si immaginavano i britanni) mirava infatti, tra l’altro, a creare intorno al proconsole delle Gallie ed alle sue interminabili campagne un alone di grandezza e di realizzazioni epocali in terre lontane pari a quello che stabilmente contornava la figura di Pompeo. Sanguinose guerre di prestigio che servivano a influenzare durevolmente l’opinione pubblica a Roma e in Italia»41. Questo modo di fare la guerra era inviso ai tradizionalisti, che temevano lo strapotere dei loro concittadini ancor più del nemico. Agli inizi della guerra gallica, alcuni senatori chiesero addirittura di consegnare Cesare al nemico (come accadeva

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quando un comandante non rispettava le regole), ma le sue vittorie scoraggiarono la proposta42. L’atmosfera delle guerre civili, e il crescente contrasto fra optimates e populares, avevano finito per rafforzare il ruolo dell’esercito, destabilizzando i tradizionali equilibri della politica romana. Alcuni dei personaggi più potenti della Repubblica divennero dei veri e propri signori della guerra, che si ponevano in modo sempre più contraddittorio rispetto ai valori propugnati dai tradizionalisti: il cosiddetto mos maiorum, il «costume degli antenati»43. Come ricordava Sallustio, i nobili erano ora in preda a due vizi capitali, l’avidità e l’ambizione44; questi vizi avevano dato vita a un’atmosfera di corruzione dilagante, trascinando il populus e convincendolo ad appoggiare campagne militari sempre più audaci. Infatti, le pressioni popolari influivano sempre più sulle decisioni del Senato, in particolare quando si trattava di assegnare a un comandante un imperium extra ordinem, una missione con poteri straordinari45. Questa situazione generale fomentava l’aggressività dei romani. Dalla guerra mitridatica in poi, il Senato inviò dei generali con poteri (mandata) eccezionali e con la facoltà di muoversi liberamente, ed eventualmente sconfinare in territori vastissimi. I senatori, pur appoggiando le loro missioni, temevano il potere che col tempo potevano acquisire46. Nel 55, una volta eletti consoli, Pompeo e Crasso indissero il sorteggio delle province per l’anno seguente47. Crasso ottenne la Siria, e quindi l’incarico di preparare la spedizione partica. L’esito del sorteggio fu accolto con gioia da Pompeo, che a quanto pare non avrebbe gradito un eventuale incarico in Siria e, comunque, al momento preferiva restare a Roma, e difatti governò a distanza la sua provincia di Spagna, affidandola a dei legati48. Da parte sua, Crasso si abbandonò a sfrenati sogni di gloria: mostrando ancora una volta di per-

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dere il senso del decorum di fronte alla prospettiva di diventare ancora più ricco, immaginava già di spingersi fino all’estremo Oriente, nelle terre degli indiani e dei battriani, ovvero ai confini di quelle immense regioni che solo il grande Alessandro era riuscito a conquistare. Certo, Lucullo e Pompeo avevano riportato l’ordine in Asia minore, ma la nuova spedizione avrebbe fatto passare queste imprese per un «gioco da ragazzi»49. E se, poco prima, i poteri di Gabinio erano stati messi in discussione (fra l’altro dallo stesso Crasso, prima che Pompeo gli facesse cambiare idea), quelli del proconsole designato, intenzionato a rafforzare il proprio prestigio militare, sembravano ben più solidi: poteva muover guerra, per terra e per mare, a ogni popolo egli volesse50. Del resto, Crasso non era il solo a coltivare propositi così ambiziosi. Nel 61, in occasione del suo terzo trionfo, Pompeo aveva fatto sfilare un proprio ritratto interamente composto da perle del Mar Rosso e del Golfo Persico: in tal modo veniva esaltato colui che aveva aperto ai romani la strada per le favolose ricchezze che si trovavano ai confini orientali del mondo, eccitando l’immaginazione di chi, come Crasso, era particolarmente sensibile a questo messaggio51. Simili manifestazioni, se da una parte eccitavano la folla, dall’altra dovevano suscitare un costante mormorio di disapprovazione. Ma questo allontanarsi dal mos maiorum rientrava nel sottile gioco inscenato dai grandi uomini politici della tarda Repubblica. Nella loro sfrenata ascesa al potere, personaggi come Pompeo, Cesare, Crasso o Clodio – e per contrasto anche i loro avversari tradizionalisti – recitavano come degli attori sulla scena della politica. L’ostentazione del lusso pubblico e privato e gli atti trasgressivi e provocatori erano parte di un clima all’insegna della spettacolarità, poiché ora per l’uomo politico non contava tanto il consenso dei «buoni» cittadini

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quanto la dimostrazione dello sforzo di imporsi sulla scena. Alla fine della Repubblica si affermò dunque un nuovo volto del potere. Imitando gli eccessi dei monarchi ellenistici, i protagonisti delle guerre civili, con la loro politica disinvolta e spregiudicata, finirono per anteporre la propria immagine alla visione identitaria della comunità che fino ad allora aveva preservato la solidità di Roma52. I ‘triumviri’ erano dunque gli antesignani di quello che in seguito verrà esasperato da imperatori trasgressivi come Caligola e Nerone. In seguito, si disse addirittura che Crasso si sarebbe mosso contro i parti di propria iniziativa, senza l’avallo ufficiale del Senato. Questo assunto è inverosimile, dato che i ‘triumviri’, pur godendo di una relativa indipendenza, non potevano comunque evitare di passare dalla decisione dei senatori, che almeno in parte li sostenevano. Varie fonti dimostrano che il Senato aveva emesso il proprio assenso alla campagna partica. Anche se si tratta di autori tardi, essi attingevano alla Storia romana di Tito Livio, purtroppo in gran parte perduta, dove si descrivevano lo svolgimento della campagna e le modalità dell’incarico del comandante53. Vi è poi un altro importante indizio: la delibera del Senato di annettere alla provincia di Siria il sito noto come la «Giuntura» (in greco Zeugma), punto strategico fondamentale per il passaggio dell’Eufrate54. La «Giuntura» comprendeva due città separate dal fiume, Seleucia e Apamea, e apparteneva alla Commagène, all’epoca governata da un re che si definiva «filelleno e filoromano», Antioco Theòs. Questo sgarbo nei confronti di un re alleato, che oltretutto veniva così privato di una dogana importante e redditizia, non poteva giustificarsi se non con l’esigenza di assicurare un controllo diretto al principale punto di passaggio verso Oriente. L’ambizione di Crasso era forse smisurata, ma non infon-

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data. Il comandante frequentava personaggi di grande cultura, e conosceva bene la storia55. Il suo maestro di storia e filosofia si chiamava Alessandro; si tratta probabilmente di quello stesso Alessandro detto «il Poliistore», noto per la sua erudizione in svariati campi. Questo intellettuale greco, che si trovava a Roma fin dall’82, accompagnava regolarmente Crasso nelle missioni, ed è quindi probabile che lo avesse seguito in Siria e in Mesopotamia, con l’incarico di narrare le sue gesta56. Circondandosi di letterati greci, i condottieri romani dell’epoca seguivano in modo più o meno superficiale il modello di Alessandro Magno, che a suo tempo si era avvalso di un precettore d’eccezione come Aristotele57. Pompeo, ad esempio, era in stretti rapporti con il grande studioso Posidonio di Apamea, e nelle sue campagne asiatiche si era fatto accompagnare dallo storico Teofane di Mitilene. Prima di lui, Lucullo aveva portato con sé in Oriente il filosofo Antioco di Ascalona e il poeta greco Archia di Antiochia, incaricato di cantare le sue imprese. Come i re ellenistici, che invitavano esperti e uomini di cultura in qualità di consiglieri e collaboratori, molti protagonisti della tarda Repubblica sapevano che la presenza di questi ‘amici’ non era solo un vezzo ellenofilo, ma aiutava a garantire la buona riuscita di una spedizione e ad accrescere il proprio carisma ‘regale’ presso gli orientali (non senza scandalo presso i concittadini più conservatori, che ravvisavano in questo un cedimento della propria identità culturale). Certo, non bisogna sopravvalutare l’influenza di questi dotti, né tantomeno l’influenza della cultura greca sui comandanti romani del I secolo a.C. Del resto, se questi ultimi amavano ostentare un aristocratico ellenismo, ciò non implicava necessariamente il rifiuto dell’esperienza ereditata dalla

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tradizione repubblicana58. In realtà, gli intellettuali greci svolgevano il ruolo di intermediari con le comunità elleniche, diffuse in tutta l’Asia. La loro attività diplomatica, che comprendeva accordi puntuali con le aristocrazie locali, era fondamentale per evitare i rischi della propaganda avversaria. Poco tempo prima, durante la sua guerra contro Roma, il re Mitridate VI del Ponto aveva orchestrato un’abile propaganda di intellettuali e demagoghi per aizzare buona parte dei provinciali d’Asia e di Grecia contro la dominazione romana. Le comunità greche, vessate dalla rapacità dei pubblicani, reagirono con una serie di veri e propri pogrom in cui migliaia di romani e italici furono brutalmente massacrati. Memore di questa tragedia, Roma cercava ora di parlare lo stesso linguaggio dei greci, con la mediazione del fior fiore della loro intelligencija, per evitare il rischio che gli emissari partici alimentassero il malcontento nell’Oriente romanizzato. Si è ritenuto che il comandante, in mancanza di informazioni certe, non si fosse reso conto del pericolo rappresentato dal nemico59. In realtà, egli conosceva bene i contrasti interni alla corte partica, e riteneva che i romani, appoggiati dagli alleati, sarebbero riusciti a sfondare il ventre molle dell’impero nemico, favoriti dalla quinta colonna delle comunità greche60. Ma aveva sottovalutato le capacità di ripresa dei parti.

Il corpo di spedizione Il comandante soleva dire: «Solo chi può mantenere una legione con il reddito di un anno può considerarsi un uomo ricco»61. Non era un’esagerazione, dal momento che l’epoca delle guerre civili aveva segnato un miglioramento nella vita militare. I soldati avevano una paga più alta, disponevano di

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grano e schiavi, e al momento del congedo venivano ben ricompensati con distribuzioni di terre. Lo sforzo economico per formare la spedizione fu quindi notevole, ma la ricchezza di Crasso era quasi proverbiale. Da circa mezzo secolo, l’organizzazione della legione romana era stata profondamente modificata dall’uso generalizzato della coorte, un’unità di combattimento equivalente a un decimo dell’organico di una legione, e dunque tre volte più potente rispetto al tradizionale manipolo di 120-160 uomini. La coorte era stata impiegata sin dalla fine del III secolo per far fronte alle tecniche di guerriglia delle tribù locali della penisola iberica, e successivamente contro i liguri e altre popolazioni di montagna; ma solo con la riforma di Gaio Mario, intorno al 104-103, fu adottata come unità di riferimento per la costruzione del dispositivo militare. Le coorti erano a loro volta ripartite in centurie (circa 80 uomini): l’unità di base era il contubernium di otto legionari, che condividevano la tenda e il pasto, la fatica e le sofferenze. Una coorte ben addestrata poteva rivelarsi micidiale anche nel caso di uno scontro con la cavalleria, come avvenne alla battaglia di Farsàlo nel 48, quando solo sei coorti di Cesare riuscirono a neutralizzare ben settemila cavalieri pompeiani, in gran parte orientali62. L’introduzione di questo nuovo sistema è stata considerata come un effetto dell’influenza della cultura greca sui comandanti romani, che si sarebbero ispirati alle imprese di Alessandro63. Ma si tratta di un’interpretazione forzata, che andrebbe quantomeno attenuata. Gli strateghi romani attingevano al sapere dei greci per ragioni più culturali che pratiche: all’epoca della battaglia di Carre circolavano trattati come quello di Asclepiodoto, che descriveva nei dettagli il funzionamento di un dispositivo ormai obsoleto come la falange macedone. Di fronte a questa riproposizione di un modello

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anacronistico, Gastone Breccia si chiede «a che pubblico potesse mai rivolgersi il nostro autore: eruditi, intellettuali nostalgici del passato eroico di Alessandro, certo non a dei militari di professione»64. In realtà, non è così scontato fissare una linea di demarcazione tra il sapere pratico dei centurioni e degli ufficiali – che più si avvicinavano al moderno concetto di militare di professione – e l’universo intellettuale di un senatore posto alla guida di un esercito, che risentiva di un’educazione sempre più ellenizzata, dove il riferimento a Senofonte o Alessandro era d’obbligo. Insomma, i generali romani utilizzavano le tecniche del presente ispirandosi agli esempi del passato. Questo spiega come «le opere militari passarono dalle mani di esperti impegnati direttamente sul campo a competenti ‘teorici’: ciò sembrerebbe segno di un allargamento sia dell’interesse rivolto a tali materie, non più considerate esclusivo appannaggio degli uomini d’arme, sia dei destinatari delle opere di argomento militare»65. Se poi questo esercito era destinato a una grande campagna orientale, non si poteva certo prescindere dal modello di Alessandro Magno e della sua falange. In ogni caso, dai trattati strategici ellenistici si poteva continuare a trarre qualche lezione proficua: ad esempio, quando suggerivano al comandante di non lasciarsi coinvolgere dalla battaglia, ma limitarsi a sovraintendere al complesso sistema degli schieramenti66. Questo distacco, che traspare chiaramente dal corpus degli scritti di Cesare, permetteva alla legione di evolversi e marcare meglio la propria superiorità rispetto al nemico. La riforma della fine del II secolo modificò il rapporto fra il comandante e le sue truppe. In precedenza, i legionari appartenevano solo ai ceti più abbienti. Con la creazione di un esercito professionale, furono abbassati i requisiti economici per arruolarsi, e questo favorì la nascita di un vero e proprio

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gruppo sociale formato da militari e veterani. Sollecitati dalla prospettiva di arricchirsi, e soprattutto di ottenere un lotto di terreno coltivabile al momento del congedo, i nuovi legionari erano ancor più legati ai loro comandanti. Appiano, che in pieno II secolo d.C. scrisse una storia delle guerre civili, osservava che i soldati dell’epoca erano più uniti al loro comandante che non alla patria67. L’aura d’invincibilità dei romani era determinata dalla grande esperienza accumulata nei teatri operativi di tutto il Mediterraneo: dalla Spagna all’Africa, dai Balcani all’Asia minore, la legione sembrava destinata ad avere la meglio su qualsiasi terreno. Delle sconfitte del passato era stato fatto tesoro per suggerire importanti innovazioni tattiche. Ogni legionario era addestrato a seguire l’insegna della propria unità, e a muoversi al segnale dei trombettieri. La ferrea disciplina e le durissime pene che scattavano al minimo accenno di insubordinazione tempravano il soldato romano e gli conferivano un rigore non comune. Al tempo stesso, i comandanti intrattenevano con le truppe rapporti camerateschi e le esortavano alla vittoria con la prospettiva di un ricco bottino e di ulteriori premi e laute ricompense ai più valorosi. La legione, come già la falange ellenistica, si serviva poco delle truppe montate: il nerbo dell’esercito era la fanteria pesante legionaria, mentre i cavalieri rappresentavano un complemento utile ma non decisivo. L’ordine di battaglia rispecchiava la composizione della società romana, che aveva da tempo abbandonato le tradizioni aristocratiche più antiche, quando i cavalieri costituivano l’élite dei guerrieri. Le successive campagne di conquista confermarono questa tendenza: alla fine del II secolo, con la riforma di Mario, la formazione standard di una legione fu caratterizzata da una forte riduzione non solo degli effettivi di cavalleria, ma anche dei

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fanti armati alla leggera. Nell’ultimo secolo della Repubblica, la fanteria permanente era composta essenzialmente da guerrieri pesantemente armati, e si riteneva che questi ultimi fossero più efficaci dei cavalieri, in quanto capaci di resistere in un combattimento prolungato68. Le altre forze tattiche erano pertanto fornite dai corpi ausiliari, che venivano arruolati in base alle esigenze locali e ai piani del comandante. Secondo Plutarco, l’armata di Crasso era formata da ben sette legioni, fra trenta e quarantamila uomini dotati di armamento pesante, oltre alle forze già stanziate in Siria da Pompeo e poi da Gabinio, che non dovevano aver subito gravi perdite69. Questa cifra si riferisce ai soli soldati romani: ciò spiega perché Floro, una fonte contemporanea a Plutarco, parla invece di undici legioni. Il contrasto fra le due testimonianze è solo apparente: in tutta evidenza, Plutarco attinge a una fonte contemporanea agli eventi, quando il divario tra legionari e ausiliari era ancora molto forte, e si teneva conto solo dei primi. Floro, invece, avrà preferito includere nel calcolo anche le unità ausiliarie, come era logico sulla base della composizione dell’esercito agli inizi del II secolo70. Un calcolo analogo è riportato da Appiano, che parla di centomila uomini: pur se arrotondato in eccesso, come gran parte delle cifre fornite da questo autore, il dato allude chiaramente alla grande quantità di ausiliari che si affiancavano ai legionari, a cui vanno poi aggiunti i vari portatori e inservienti71. D’altra parte, il comandante aveva già dovuto impiegarne ottomila – due coorti per ogni legione, più mille cavalieri – destinati alle guarnigioni nelle città ‘greche’ della regione. Come ora vedremo, anche i re e i dinasti alleati fornirono un buon numero di soldati, o l’equivalente in denaro per arruolare truppe mercenarie. Resta da capire quale fosse il numero degli effettivi di una legione ai tempi di Crasso: probabilmente si trat-

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tava di una cifra più bassa rispetto ai 5500-6000 uomini (compresa l’ala di cavalleria) calcolati per l’età del Principato72. I legionari erano affiancati da quattromila cavalieri e da un contingente di fanti leggeri; seguivano poi i vari inservienti, attendenti e palafrenieri. In qualità di proconsole, Crasso aveva a disposizione undici littori, che badavano alla sua incolumità e all’occorrenza infliggevano pene corporali ed eseguivano condanne a morte. Secondo Paolo Orosio, un autore cristiano del V secolo d.C. che attinge in gran parte a Tito Livio, nella battaglia morirono «molti senatori, e anche alcuni uomini di rango consolare e pretorio»73. L’esercito di Crasso comprendeva quindi un certo numero di ufficiali di nobile estrazione74. Pur senza arrivare alla compatta rete di solidarietà che si era formata tra gli ufficiali di Cesare in nove anni di guerra nelle Gallie, anche il corpo di spedizione orientale avrà avuto una certa coesione almeno tra i legati, i tribuni e i centurioni75. Gli ufficiali di rango superiore erano i legati, che appartenevano all’ordine senatorio e avevano una certa esperienza alle spalle. Tre di essi sono noti: Ottavio, Vargunteio e il giovane Publio Licinio Crasso76. Un quarto potrebbe essere Arrio, protagonista del carme 84 di Catullo, che attesta una sua missione in Siria (se il personaggio coincide con Quinto Arrio, che Cicerone ricorda come uomo di fiducia di Crasso)77. I legati avevano a disposizione uno «scudiero», un attendente che si occupava delle loro armi. Nella gerarchia degli ufficiali seguivano i prefetti, che potevano essere di rango senatorio o equestre: le fonti attestano i nomi di Egnazio e di Coponio, cui venne poi affidata la guarnigione della città di Carre. Ai prefetti seguivano i tribuni militari. Plutarco menziona un «chiliarca», versione greca del latino tribunus, di nome Petronio, implicato nella scaramuccia in cui Crasso venne uc-

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ciso78. Il biografo ricorda anche un «Censorino» (quindi un Marcio, dato che tale cognomen era portato esclusivamente dai membri di questa gens) e un certo «Megabacco»; quest’ultimo è forse il «Megabocco» a cui accenna Cicerone, dipingendolo come un giovane facinoroso79. Infine, la logistica di una spedizione romana era garantita dalla presenza di un questore, magistrato di rango senatorio. Il questore non si limitava a preoccuparsi dell’approvvigionamento, e spesso si faceva affidamento sulla sua esperienza per missioni particolarmente delicate80. Per la spedizione partica fu scelto Gaio Cassio Longino, il futuro cesaricida, che era stato eletto questore per il 54. Poiché ogni legione era comandata da un legato, dobbiamo concludere che parteciparono alla spedizione almeno dieci senatori, compresi il comandante e suo figlio. Tra i personaggi di probabile rango superiore, Plutarco menziona inoltre un certo Rustio, che dopo la battaglia fu fatto prigioniero. I parti avrebbero trovato nel suo bagaglio un’opera considerata licenziosa, le Favole Milesie di Aristìde81, e si servirono di questa scoperta per screditare i nemici di fronte all’assemblea di Seleucia. Se l’aneddoto è attendibile, è molto probabile che si trattasse dell’originale greco, il che farebbe pensare a un ufficiale. È vero che questo scritto era stato tradotto in latino da Cornelio Sisenna, pretore per l’anno 78, ma è improbabile che i parti fossero in grado di leggere un testo latino. In ogni caso, anche se si fosse trattato di latino, è difficile immaginare che un semplice legionario fosse abbastanza facoltoso (e alfabetizzato) da portarselo nel bagaglio. Poiché Plutarco cita i nomi romani con una certa approssimazione, questo Rustio potrebbe forse coincidere con uno dei due fratelli Roscii, inviati a parlamentare con i parti, che evidentemente conoscevano il greco82. Infine, menziona un certo Gaio Pacciano, che a quanto pare somigliava molto

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a Crasso, e di conseguenza non doveva essere troppo giovane: si è ritenuto fosse il figlio di Vibio Paciano, che trent’anni prima aveva fornito ospitalità al comandante in Spagna. In tal caso, forse anche questo personaggio era un ufficiale. Lo spiegamento di forze mostra che il nemico non era stato sottovalutato: si trattava di un contingente di proporzioni eccezionali, come del resto eccezionali erano i tempi83. Tuttavia, almeno secondo Plutarco, il comandante non si sarebbe curato di addestrare a dovere la truppa durante l’inverno, e soprattutto non avrebbe contato il numero dei suoi effettivi, preoccupato com’era di valutare le ricchezze della sua provincia e l’ammontare dei contributi, in uomini o denaro, da prelevare agli alleati84. L’accusa è probabilmente eccessiva, e certo Plutarco risente del luogo comune che faceva della Siria un ambiente deleterio per la disciplina dei legionari85. D’altra parte, il problema era comune a tutte le legioni della tarda Repubblica: in mancanza di un esercito permanente, non era sempre possibile portare a termine un addestramento completo. Inoltre, le truppe migliori e con maggior esperienza si trovavano in Gallia al seguito di Cesare. Il nerbo della truppa era formato da legionari italici. Essi costituivano il serbatoio delle guerre esterne come di quelle civili, e da tempo i capi politici avevano preso l’abitudine di attingere alle proprie clientele in Italia: trent’anni prima, ai tempi del conflitto tra Mario e Silla, il giovane Pompeo aveva reclutato dei legionari nel Piceno, dove suo padre si era assicurato dei clientes fidati86. È probabile che le unità militari fossero composte secondo l’area di provenienza delle truppe, e che Crasso schierasse una legione lucana, una legione marsa, ecc.87. Questi soldati erano da tempo estranei all’antica immagine del milite contadino, difensore delle proprie terre, ed erano semmai legati al proprio generale-patrono88. Si fa-

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ceva sempre meno attenzione alla loro origine, e nei momenti di emergenza non si esitava a reclutare schiavi, affrancati per l’occasione, o individui più o meno marginali, che i membri dell’aristocrazia potevano trattare con disprezzo o condiscendenza a seconda della convenienza89. Al tempo stesso, non possiamo considerarli come soldati di ventura, poiché chi partiva per la guerra non lo faceva solo per la paga e il bottino, ma anche per il prestigio sociale che una campagna vittoriosa gli avrebbe conferito. I capi politici facevano assegnare ai veterani delle terre in Italia, assicurando loro una posizione decorosa nell’ambito della comunità di appartenenza. Un alto ufficiale poteva aspirare a dirigere un consiglio municipale, e un centurione a diventarne consigliere90. Non tutti i legionari erano volontari. Durante le guerre civili si potevano attuare leve eccezionali, e non solo fra gli italici, ma anche presso la cosiddetta plebe urbana di Roma, solitamente più restia all’arruolamento. Cassio Dione ricorda che nel 55, quando Pompeo e Crasso stavano reclutando gli eserciti consolari di Spagna e d’Oriente, il popolo sarebbe stato dapprima contrariato, ma poi avrebbe cambiato idea91. Evidentemente, i comandanti erano riusciti a persuaderli dei vantaggi di una spedizione in paesi colmi di ricchezze, contro dei barbari da cui avrebbero avuto ben poco da temere. Le elezioni consolari per l’anno 54 erano state rinviate alla fine del dicembre del 55, ma già si prefigurava la vittoria di due senatori, Lucio Domizio Enobarbo e Appio Claudio Pulcro, politicamente avversi al cosiddetto triumvirato. Una volta eletti, essi avrebbero potuto impedire a Crasso di partire: come se non bastasse, uno dei pretori eletti (e cognato del console Domizio) era Catone il Giovane, uomo rispettato e grande avversario dei populares, che già si era battuto invano per impedire che i ‘triumviri’ ottenessero le rispettive zone di ope-

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razione militare. Il comandante, che nel frattempo aveva già arruolato le truppe, aveva quindi tutto l’interesse di lasciare Roma prima che i consoli assumessero le loro funzioni all’inizio del nuovo anno, e aveva inviato un legato per accelerare il passaggio delle consegne con Gabinio, che rientrò a Roma nel settembre del 54 (per venire processato e costretto all’esilio)92. Così, senza attendere la conclusione del proprio consolato, il comandante partì alla volta della Siria prima che il clima si facesse troppo sfavorevole per i viaggi in mare. In una lettera all’amico Attico, datata 15 o 16 novembre 55, Cicerone ironizza su questa partenza poco dignitosa per un anziano senatore di rango consolare, paragonandolo per scherno a Lucio Emilio Paolo, che nel 168 aveva messo fine al regno macedone: «Si dice che il nostro Crasso si sia messo in viaggio col mantello da comandante, ma meno dignitosamente di quanto non avesse fatto il suo omologo Lucio Paolo: eppure anch’egli era stato due volte console. Che uomo dappoco!»93. Ma se Cicerone poteva abbandonarsi in privato a simili considerazioni, almeno con i suoi interlocutori più fidati, in pubblico era costretto a comportarsi diversamente: in quel momento egli si trovava dalla parte dei ‘triumviri’, e in una lettera inviata a Crasso, quando questi era ormai lontano, si preoccupava di confermargli il proprio appoggio a Roma: «vorrei che tu considerassi questa lettera come un vero e proprio patto solenne: quello che qui ti prometto e per cui mi adopererò sarà da me osservato con il massimo della lealtà e dell’impegno. Prendo la responsabilità di difendere la tua rispettabilità mentre sei lontano, e lo farò continuamente non solo a causa della nostra amicizia, ma anche per la mia coerenza»94. Col senno di poi, si osservò che la partenza del comandante era stata accompagnata da numerosi presagi negativi, che avrebbero dovuto far desistere, o almeno riflettere, un ro-

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mano rispettoso delle tradizioni95. In effetti, tra gli avversari di Crasso vi erano alcuni tribuni della plebe, che cercarono di giocare questa carta per impedire la spedizione. Uno di essi, Gaio Ateio Capitone, inscenò una lugubre cerimonia, lanciando oscure maledizioni alla volta del comandante in procinto di lasciare Roma: queste formule (in latino dirae) erano considerate imprecazioni potentissime, micidiali per chi le riceveva e pericolose anche per colui che le pronunciava96. Crasso, però, aveva avuto l’accortezza di farsi accompagnare da Pompeo, e anche quest’ultima resistenza fu vinta97. Ancora una volta, la politica-trasgressione ebbe la meglio sul mos maiorum. Non sappiamo se il corpo di spedizione fosse stato radunato a Roma; forse i soldati lucani e apuli attesero il passaggio della colonna sulla via Appia per unirsi al resto della truppa, dopo aver pronunciato il solenne giuramento che li impegnava a obbedire al comandante e agli altri ufficiali98. Lo stuolo dei legionari era preceduto da un vexillum più alto e grande degli altri, dalla stoffa tinta di porpora, su cui spiccava il nome di Crasso in lettere d’oro99. Al porto di Brindisi si aggiunse un nuovo episodio alla lista dei presagi nefasti: mentre il comandante faceva imbarcare gli uomini, dal vicino mercato si udì «Cauneas!». Era il grido di un venditore, che lodava i suoi fichi secchi provenienti dalla città di Cauno in Asia minore. A molti, però, parve di aver sentito cave ne eas, «attento, non andare»: un vero e proprio «esempio di omen vocale dal messaggio profondo che occorre saper riconoscere e che Crasso non riuscì a comprendere»100. Queste oscure premonizioni accompagnarono il comandante durante tutta la sua avanzata. Nell’antica tradizione politica, nel corso di un dibattito ci si richiamava spesso al rispetto della religione, e lo stesso fu tentato per rimandare la

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partenza di Crasso. Ma nella tarda Repubblica una simile obiezione non rappresentava più un deterrente, e non solo perché il potere dei ‘triumviri’ era più forte di qualsiasi argomento, ma anche perché si viveva un passaggio alla razionalità e alla ragione, una sorta di ‘illuminismo romano’ fortemente critico nei confronti delle tradizioni più arcaiche101. Non si trattava solo di antiche superstizioni, poiché la credenza nei presagi rientrava anche nella dottrina filosofica degli stoici. Posidonio, la voce più rappresentativa di questa corrente, sosteneva fortemente il principio di una predestinazione voluta dagli dèi102. Ma nella coscienza intellettuale, almeno presso le aristocrazie colte, il relativismo era ormai diffuso: l’esempio più evidente è costituito dai trattati di Cicerone Sulla divinazione e Sul destino, redatti dopo la morte di Cesare e debitori del pensiero della Nuova Accademia. Oltretutto, Crasso poteva rifarsi all’esempio di Lucullo, che sedici anni prima aveva sconfitto il re Tigran d’Armenia attaccandolo in una data considerata come «nefasta», e violando quindi le norme religiose: agli ufficiali che gli avevano consigliato di rimandare la battaglia aveva risposto: «e io farò di questo giorno un giorno fasto per i romani!»103. La vittoria gli permise di sfuggire a gravi sanzioni, anche se l’episodio certo contribuì a ritardare il suo trionfo, che fu celebrato solo nel 63, quando la sua fama militare era stata ormai oscurata da Pompeo. Ma il suo esempio aveva aperto la strada a soluzioni più disinvolte. Del resto, né l’intervento di un tribuno, né la resistenza delle frange più tradizionaliste del Senato avrebbero potuto ritardare la partenza di Crasso. Infatti, i comandanti si erano ormai affrancati in gran parte dall’autorità senatoria e da eventuali tabù legati alla tradizione religiosa. Proprio intorno all’epoca della partenza del comandante, nel Poema della natura, Lucrezio evocava l’immagine di un ammiraglio ro-

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L’itinerario di Crasso

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mano che trasportava le truppe senza voler ricorrere al favore degli dèi: Anche quando la forza d’un vento violento, in mare, il comandante di una flotta, sull’acque, trascina insieme a forti legioni e agli elefanti, non ricorre, egli, alla pace divina con voti, e pregando richiede, spaventato, la pace dei venti e favorevoli brezze: per nulla, ché spesso da gorgo violento trascinato, ugualmente è portato ad acque di morte? Così, dunque, una qualche forza nascosta le cose dell’uomo schiaccia, e bei fasci e scuri crudeli sembra spesso calpesti, facendosi gioco di loro104.

È suggestivo pensare che questa immagine possa alludere all’avanzata verso Oriente di un Crasso incurante di maledizioni e prodigi, pronto a prendersi da solo il favore degli dèi105. Nel suo pessimismo, Lucrezio evocava naufragi e disastri: del resto, fin dal proemio aveva invocato Venere perché portasse la pace sui romani, placando Marte con le sue pratiche amorose: «intanto le opre feroci di guerra / per i mari e tutte le terre, tacciano in quiete: / tu sola infatti puoi con pace serena giovare / ai mortali»106. Certo, il comandante poté superare l’Adriatico senza difficoltà: ma la «forza nascosta» lo attendeva al varco in Oriente. Come si è visto, il console aveva radunato un esercito di notevoli dimensioni. Non abbiamo un resoconto dettagliato dell’itinerario, ma è probabile che i legionari di Crasso, una volta attraversato l’Adriatico, marciassero fino all’Ellesponto lungo la via Egnazia, costruita dai romani circa un secolo prima: la colonna dovette quindi sbarcare nell’attuale Albania, nel porto di Apollonia (Pojani) o in quello di Dyrrachium

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(Durrës), e percorrere la Macedonia e la Tracia107. La partenza invernale obbligava la spedizione a prendere la via di terra, attraversando l’Asia minore. Questo percorso, se pure prevedeva una marcia lunga e faticosa, permetteva di verificare lo stato della regione e di accertarsi delle buone intenzioni degli alleati, a cominciare da Deiòtaro, l’anziano re dei galati. Già capo di una coalizione di tribù celtiche, che da tempo governavano una regione dell’Anatolia centrale detta Galazia (in greco «la terra dei galli»), Pompeo gli aveva concesso il titolo regale e l’ampliamento del suo regno. Il Senato aveva ratificato queste misure intorno al 59, e da quel momento Deiòtaro era diventato l’alleato più fedele di Roma. La posizione del suo regno era strategica, poiché la Galazia costituiva un passaggio obbligato per attraversare l’Anatolia nel più breve tempo possibile108. Il re dei galati era ufficialmente un «alleato e amico» del popolo romano. Giuridicamente parlando, il ruolo di questi alleati era ambiguo, poiché essi non erano soggetti ufficialmente all’imperium Romanum, ma al tempo stesso il trattato di «amicizia» li obbligava a stare dalla sua parte109. In passato Deiòtaro aveva già fornito truppe ausiliarie, sostenendo Pompeo contro Mitridate. Mentre le truppe romane facevano tappa in Galazia, Crasso fece una visita al re, che in quel momento stava fondando una nuova «città» (forse la fortezza di Peium, destinata a custodire il tesoro regio). Con l’appoggio di Roma, Deiòtaro era riuscito ad accentrare tutto il potere sul complesso sistema tribale dei celti d’Asia; la nuova fondazione, eseguita secondo i canoni dell’architettura ellenistica, era un segno di potere del sovrano. Il re e il comandante si scambiarono cortesie, ironizzando amichevolmente sulla loro età avanzata110. I galati avevano una grande tradizione militare. Apprezzati per la loro disciplina, venivano spesso impiegati come

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mercenari. Intorno al II secolo, essi combattevano ancora all’uso celtico, ma ora Deiòtaro, presumibilmente con l’aiuto di consiglieri militari romani, aveva allestito un nuovo esercito di ben trenta coorti (dodicimila uomini), equipaggiato con un armamento di tipo romano111. Gli ausiliari celto-asiatici giunsero poi a formare una legione in piena regola che successivamente sarebbe stata integrata – con il nome di legio Deiotariana – nell’esercito regolare romano.

Il primo anno di guerra Crasso raggiunse la Siria, e di lì organizzò la sua offensiva contro la Mesopotamia. Il passaggio dell’Eufrate avvenne in condizioni difficili, poiché il corso impetuoso del fiume non consentiva la costruzione di ponti in pietra, ed era quindi necessario allestire dei ponti di barche, che un esercito attraversava con difficoltà e soprattutto con lentezza, con la minaccia costante di un’onda di piena: proprio quel giorno, un vento di tempesta divelse le insegne militari dal terreno112. Col senno di poi, il fatto venne interpretato come l’ennesimo cattivo presagio, ma in quel momento il fortunoso passaggio del fiume trasformò questo episodio in un evento altamente simbolico, una vera prova iniziatica che i romani erano riusciti a superare malgrado l’avversità degli elementi113. E difatti, il comandante non incontrò grandi resistenze: Silace, governatore della Mesopotamia, tentò di opporsi, ma non aveva uomini a sufficienza, e fu battuto presso la cittadella di Ichnai (finora non identificata) e costretto alla fuga114. Secondo Plutarco, gli abitanti delle città «greche» della regione accolsero i romani come liberatori: forse alcuni gruppi di notabili erano effettivamente filoromani, ma è più ragione-

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vole credere che temessero rappresaglie o saccheggi. Del resto, avevano già avuto modo di constatare la spietatezza delle legioni a Zenodotia (altra località non identificata): per vendicare la morte di un centinaio di romani, uccisi con l’inganno dal «tiranno» locale Apollonio, Crasso mise la cittadina a ferro e fuoco e ne trasse gli abitanti in schiavitù, ricevendo per questo un’acclamazione da parte delle truppe che gli permise di fregiarsi del titolo di imperator, «generale vittorioso», onore solitamente accordato al comandante che avesse massacrato almeno l’equivalente di una legione di nemici115. Poi si ritirò a svernare, lasciando delle guarnigioni nei centri occupati, per un totale di settemila legionari e mille cavalieri. La cittadella di Carre, come si è detto, fu affidata al prefetto Coponio. Se questo personaggio coincide con il futuro pretore del 49, si trattava di un uomo di Pompeo, e non è da escludere che il proconsole gli avesse conferito questo incarico per evitare che un fedele pompeiano acquisisse eccessiva gloria. Scegliendo di tornare nella sua provincia anziché proseguire la marcia, Crasso si attirò ulteriori critiche: si disse che il nobile comandante preferiva gli ozi di Siria alla conquista della Mesopotamia. In effetti, sul fronte interno partico la situazione era diventata favorevole per il suo alleato Mitridate, che ora controllava gli importanti centri di Babilonia e Seleucia: se i rinforzi romani lo avessero raggiunto, egli avrebbe potuto sconfiggere il fratello nemico Orode. Questi, invece, assediò Mitridate a Babilonia, lo costrinse alla resa e subito dopo lo fece massacrare. Orode inviò un’ambasciata a Crasso, che si trovava ancora nella cittadella di frontiera di Nikephorion116. L’ambasciatore riportò le aspre accuse del re: Crasso «avrebbe varcato l’Eufrate contro i patti stipulati da Lucullo e Pompeo, spinto da avidità: per la qual cosa si sarebbe esposto senza indugi a esser coperto di ferro cinese, anziché di oro parti-

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co»117 (con l’epiteto «cinese» si designava l’ottimo ferro dell’Asia centrale, quello che Plutarco chiama «ferro partico» e che componeva le armature dei cavalieri iranici118). In realtà, la ritirata di Crasso era inevitabile. Il clima invernale era sfavorevole, e non è da escludere che il comandante operasse una riflessione sull’apparente facilità con cui i romani avevano attraversato l’Eufrate: c’era effettivamente il rischio che i parti, attirandoli nelle profondità del loro territorio, applicassero poi la strategia della terra bruciata, proprio come avrebbe fatto secoli dopo il maresciallo Kutuzov, al tempo della campagna napoleonica contro la Russia. Da buon discepolo di Alessandro Poliistore, Crasso conosceva bene gli esempi del passato, e i rischi di una guerra in queste zone desertiche. E, soprattutto, sapeva bene che i pur disciplinati legionari non avrebbero potuto reggere da soli un attacco dei parti, senza un adeguato contingente di cavalleria. Gli storici antichi e moderni hanno trascurato, più o meno volutamente, questi aspetti pratici: in fondo, un autore del I secolo a.C. che non si fosse mai mosso dal Mediterraneo doveva guardare alla Mesopotamia come una landa deserta e inospitale, adatta tutt’al più allo stile di vita dei beduini. Gli storici d’oggi viaggiano essenzialmente nelle biblioteche, ed è comprensibile che abbiano preso per buono il racconto libresco, ignaro dei luoghi, di un Plutarco o di un Cassio Dione. In questo caso, però, sarà bene distaccarsi dagli storici di professione e affidarsi piuttosto all’esperienza concreta di una grande viaggiatrice come Freya Stark, che nel suo libro sui romani in Oriente ha scritto quella che è forse la descrizione più vivida della campagna di Carre: «d’altra parte, è ingiusto criticare Crasso per non aver attaccato in inverno, poiché i deserti argillosi dell’Iraq sono praticamente intransitabili dopo la pioggia, e tutte le operazioni di guerra degli ara-

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bi si fermano» (basti pensare, del resto, alle difficoltà incontrate dalle truppe britanniche, durante la prima guerra mondiale, sul fronte mesopotamico)119. In una lettera inviata dalla Gallia, Cesare, che era intento a sottomettere i celti del Nord, lodava l’iniziativa del comandante, incitandolo alla guerra120. Dopo il primo anno di preparativi, l’alleato politico gli inviava infine i rinforzi desiderati: un’unità di mille cavalieri, tutti ausiliari gallici. La storia di questi soldati è stata riproposta dall’archeologo e scrittore di successo Alfred Duggan, nel romanzo di finzione storica Winter Quarters (1956), e, più di recente, dalle storie del giovane gallo Alix del fumettista Jacques Martin121. Ausiliari celti e germanici erano già stati impiegati nella campagna di Gabinio: alcuni di essi avevano finito per sistemarsi ad Alessandria122. Il capo del contingente celtico era il figlio cadetto di Crasso, Publio. Egli aveva dato prova di un certo talento militare nelle Gallie, dove fin dal 58 aveva combattuto con Cesare, che alla sua prima apparizione sul campo lo definisce affettuosamente un «ragazzino» (adulescens). In realtà, il giovane doveva avere almeno venticinque anni, visto che, a partire dall’anno successivo, si trovava già al comando di una legione123. Nel 56 Cesare gli aveva affidato l’intera zona d’operazioni dell’Aquitania, dove il «ragazzino» si era esercitato nell’arte del massacro124. Anche il fratello maggiore, Marco, aveva militato con Cesare, con qualche buon risultato. Ma Publio Licinio Crasso aveva avuto migliori occasioni di distinguersi, battendosi contro un grande capo come Ariovisto, e contribuendo in maniera decisiva alla sottomissione dell’Aquitania. Tutti concordavano nel definirlo un lectissimus iuvenis, «giovane di assoluta eccellenza»125, minimizzando la sua propensione a lanciarsi in manovre inutilmente rischiose.

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Nel 55 vediamo Publio a Roma al fianco del padre console: vi rimase fino alla partenza per la Siria, qualche mese dopo l’inizio della spedizione. Nel gennaio del 54 il giovane si trovava ancora a Roma, insieme al fratello Marco126. Mentre il padre cominciava ad allestire quella che si prefigurava come una lunga campagna, la presenza del «ragazzino» era un’ulteriore garanzia contro i colpi bassi degli avversari politici. In una lettera scritta in febbraio al fratello, Cicerone racconta di un suo colloquio con Crasso cui anche il figlio era presente127. L’oratore ne parla in termini affettuosi, chiamandolo anch’egli adulescens e menzionando con orgoglio le dichiarazioni di stima che il giovane gli rivolgeva. Evidentemente, Publio non era solo un militare coraggioso, ma era anche ben educato in materia di diplomazia. Con la sua presenza, egli poteva eventualmente mitigare certe durezze del padre, aiutandolo nelle pubbliche relazioni con il suo profilo da ragazzo modello. Del resto, Plutarco lo ricorda come un «cultore delle lettere e delle scienze»128, e non a caso in Oriente lo accompagnava Apollonio, uno schiavo (o un liberto) letterato. Anche il figlio del comandante, quindi, disponeva di un suo Poliistore129. Si è detto che la scelta di ufficiali di nascita oscura era dovuta all’esigenza di mettere in evidenza il giovane Crasso, considerato come la vera promessa della spedizione130. L’osservazione, pur se ingegnosa, non è del tutto pertinente: come abbiamo visto, Orosio (sulla base di Livio) annoverava tra gli ufficiali di Carre molti uomini di rango consolare e pretorio. Oggi questi senatori appaiono come figure evanescenti, ma non è affatto detto che fossero dei personaggi minori, ed è più probabile che le loro famiglie abbiano voluto operare una sorta di rimozione del triste episodio, reso ancor più vergognoso se si considera che alcuni di loro, anziché cadere sul

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campo con onore, potevano addirittura essere stati presi prigionieri dal nemico. Il primo anno di guerra mise Crasso di fronte a una realtà più complessa del previsto. Per la nuova fase della campagna, il comandante – che certo era ricco, ma non disponeva degli stessi mezzi di un re ellenistico del passato – aveva bisogno sia di nuove truppe che di denaro, necessario per nutrire e pagare i legionari e gli alleati. I principi locali potevano scegliere tra il versamento di una somma o l’arruolamento di un contingente di guerrieri131. E naturalmente si potevano requisire denaro e uomini, o richiedere determinate corvées, nella provincia del comandante, la Siria, e probabilmente anche nella vicina Cilicia, che era governata da Publio Cornelio Lentulo, un uomo legato a Pompeo che in effetti dovette sostenere alcune difficoltà economiche all’epoca del suo proconsolato132. Non abbiamo un quadro completo degli alleati di Roma in questa campagna, ma, come abbiamo visto, essi costituivano una parte considerevole dell’armata. Questo aspetto è però oscurato dalle fonti, che quasi sempre sviliscono, quando non rimuovono addirittura, la memoria dei combattenti non romani: un topos ricorrente è quello della scarsa fiducia dei comandanti nei confronti di popoli giudicati infidi133. È molto probabile che Deiòtaro abbia fornito un contingente, e altri re ‘clienti’ furono certamente implicati nella campagna: Antioco Theòs di Commagène, nei limiti di quanto poteva fornire il suo piccolo regno, e soprattutto Ariobarzàne II di Cappadocia, insediato sul trono da pochi anni. In effetti, nel 57 il re aveva approfittato dei servigi di Gabinio per eliminare una fronda interna, e questo lo aveva obbligato a contrarre un forte debito con Pompeo, compromettendo le finanze del suo regno134. Sprovvisto di denaro e in qualche modo ri-

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cattato dai ‘triumviri’, fu probabilmente obbligato ad arruolare delle truppe e a concedere un contingente dell’esercito cappàdoce. Quando gli alleati non potevano fornire un numero adeguato di soldati, è probabile che si limitassero a inviare una certa quantità di inservienti e palafrenieri: si suppone infatti che un corpo di ottocento cavalieri richiedesse l’assistenza di almeno mille uomini135. Un altro dinasta apparentemente fidato era Abgar di Osroene. Almeno ufficiosamente, i romani avevano confermato la sua autonomia, e questo gli aveva permesso di prosperare su un importante snodo del traffico carovaniero come Edessa, che doveva fruttare congrui diritti di dogana. Con le sue ricchezze, Abgar aveva contribuito abbondantemente a finanziare la spedizione di Crasso136. Data la vicinanza con i parti, egli poteva spiare il nemico e riferirne le mosse ai romani, dal momento che i suoi possedimenti si trovavano al di là dell’Eufrate, e costituivano una testa di ponte in un territorio posto teoricamente sotto l’influenza partica. L’alleato più potente era Artawazd d’Armenia, che si era insediato da poco sul trono, in seguito alla morte del padre Tigran. Quest’ultimo, una decina d’anni prima, era stato costretto da Pompeo a rinunciare ai propri sogni di gloria e ad abbandonare le conquiste nel Mediterraneo orientale che avevano fatto dell’Armenia, sia pur per breve tempo, una potenza internazionale affacciata sul Mediterraneo. Tigran aveva gettato le basi del suo effimero impero con l’annessione dell’Alta Mesopotamia, approfittando della debolezza dei parti, che avevano continuato ad attaccarlo fino al 65 circa, quando era impegnato nella guerra contro Roma137. D’altra parte, in quella circostanza, Pompeo si era mostrato clemente con Tigran, permettendogli di conservare i possedimenti in Subcaucasia, purché si ritirasse dall’Alta Mesopotamia e

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dalle regioni a ovest dell’Eufrate. Del resto, il comandante romano non aveva alcun interesse a indebolire il regno armeno: un’Armenia non del tutto priva dell’antica potenza costituiva infatti un valido bastione contro le ingerenze partiche. Dopo la sconfitta armena, il re Fraate III aveva sottratto a Tigran il titolo di «re dei re», simbolo politico che in Oriente rappresentava una chiara rivendicazione dei territori un tempo appartenuti all’impero achemenide. Roma doveva quindi appoggiarsi all’Armenia per porre un freno alle rivendicazioni territoriali dei parti. Qual era il ruolo di Artawazd in questo delicato equilibrio? Secondo Ruben Manaseryan, storico dell’Università di Erevan, il suo regno costituiva una sorta di «terza forza», se non l’ago della bilancia138. Formulata così, la considerazione risponde all’esigenza nazionalista di recuperare il ruolo dell’Armenia contro i consueti schemi degli storici occidentali, che vedono questo stato antico con la lente dei moderni imperialismi, talvolta utilizzando il concetto anacronistico di «stato cuscinetto». Ma, al di là dei presupposti ideologici, l’idea è giusta: in effetti, la posizione del regno armeno trova un preciso riscontro in quei precetti di buon governo che gli indiani codificarono nel trattato sanscrito dell’Arthas´πstra. Attribuita tradizionalmente a Kaut˝il∞ya, dignitario dell’impero Maurya vissuto nel III secolo a.C., l’opera fu scritta o rielaborata probabilmente più tardi, forse in una data non lontana dagli eventi qui narrati. Kaut˝il∞ya teorizzava un vero e proprio «cerchio (man˝d˝ala) dei re», dove ogni regnante era tenuto a valutare i propri limiti per determinare le sue alleanze e il proprio comportamento139. Una delle categorie più importanti elaborate nel trattato era il re madhyama, «mediatore», ovvero quel re «vicino al territorio sia del re nemico (= oggetto della conquista) che del re conquistatore, capace di

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aiutare entrambi loro sia insieme che individualmente, e che è nella condizione di far fronte a entrambi»140. La storia del regno armeno nei secoli successivi mostra come, per analizzare il suo ruolo nel contesto geopolitico, sia più utile avvalersi dei concetti introdotti dal trattato indiano, piuttosto che ricorrere a espressioni moderne141. L’Armenia era quindi un regno «mediano», e non solo per la sua posizione geografica. Di fatto, con la sua ambiziosa politica, Tigran il Grande l’aveva trasformata in un vero e proprio regno ellenistico, laddove gli elementi locali si fondevano con esperienze di governo all’avanguardia. L’iconografia delle monete del re, ripresa dal figlio Artawazd (cultore delle lettere greche), lo mostra molto chiaramente (Fig. 3); su questi ritratti monetali, la tiara regale è ornata da due aquile affrontate, al cui centro è posta una stella o una rosetta: una composizione di elementi orientali e mediterranei, dove la stella/rosetta era un chiaro simbolo di regalità ellenistica: lo sfasciamento dell’impero seleucide aveva favorito questa rivendicazione. Come è stato osservato, «nel clima che caratterizza la fase finale del processo di sfaldamento di questo impero, i sovrani che crescono sulla debolezza seleucide, come l’Armenia o la Commagène, proclamano attraverso i tratti salienti dell’iconografia monetale la loro gloria e il diritto legale a governare i loro domini effettivi. Ripropongono infatti i segni di un repertorio iconografico che esprime una chiara preoccupazione di potenza regale legittimamente presentata dal punto di vista sia delle concezioni iraniche che di quelle ellenistiche». In definitiva, la compresenza di elementi orientali ed ellenistici nell’iconografia monetale dei re armeni indica lo «sguardo attento sia a est che a ovest» del loro regno142. Questo si può osservare anche sul piano militare. Contro le legioni di Lucullo e Pompeo, Tigran aveva schierato un’ar-

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mata tatticamente mista, dove fanti e cavalieri addestrati in modo tradizionale combattevano a fianco di formazioni oplitiche143. L’esercito che il figlio Artawazd metteva ora a disposizione di Crasso disponeva di un buon numero di cavalieri, che corrispondevano ai vari gradi della nobiltà locale: l’aristocrazia armena, di tradizione iranica, costituiva la cavalleria pesante, mentre quella leggera era formata dalla nobiltà minore, i cosiddetti «liberi»; la massa dei sudditi combatteva nella fanteria144. Presso gli armeni, il rapporto fanti/cavalleria doveva corrispondere grosso modo a quello attestato per le forze schierate nel 69 da Tigran contro Lucullo, dove i cavalieri rappresentavano più o meno un terzo dell’intero contingente. Altri alleati erano i vari «dinasti», signorotti o signori della guerra più o meno potenti, ma sprovvisti di un titolo regale. Uno di essi, «alleato e amico» di Roma, era Tarcondimoto, che dominava una confederazione di «tiranni» e aveva la sua base al monte Amano, il massiccio che domina la Cilicia. Per la sua fedeltà a Roma, più tardi fu addirittura nominato re145. Un altro personaggio importante era Archelao, discendente di Mitridate del Ponto e gran sacerdote del ricco santuario di Comana Pontica, che possedeva ben seimila schiavi sacri146. Il padre di Archelao, per la sua intrusione nella crisi dinastica egizia, era stato ucciso da Gabinio. Il suo discendente aveva quindi tutte le ragioni per fornire a Roma un adeguato tributo147. Non potendo richiedere ulteriori sforzi a popolazioni già vessate da Roma, Crasso decise di attingere ai tesori dei santuari della sua provincia. Il comandante decise addirittura di impadronirsi dell’oro custodito nel santuario della dea Atargatis a Hierapolis e nel Tempio di Gerusalemme. Con questo sacrilegio, egli violava i templi delle divinità più importanti

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della sua provincia, il dio degli ebrei e la principale divinità femminile del mondo semitico, la Grande Madre, chiamata dai romani Dea Syria e in aramaico Tar‘atha (da cui la variante greca Atargatis). Questa pratica impopolare era abbastanza ricorrente nel mondo ellenistico, ma la cieca cupidigia di Crasso oltrepassò ogni limite, fomentando il malcontento della popolazione locale. Secondo lo storico ebreo Flavio Giuseppe, egli si spinse a prelevare il denaro sacro del Tempio, laddove dieci anni prima Pompeo, pur profanando il luogo sacro, non aveva osato toccarne le ricchezze: «anzitutto prese una trave fatta di un solo blocco d’oro massiccio, del peso di trecento mine (la nostra mina equivale a due libbre e mezza). Fu un sacerdote chiamato Eleazar a dargli questa trave, e non certo per malvagità, poiché era un uomo giusto e probo. Ma egli era preposto alla guardia dei veli del santuario, ch’erano di mirabile bellezza e riccamente lavorati, e a questa trave erano appesi. Quando vide che Crasso stava per far man bassa su tutti gli oggetti d’oro, egli temette per l’insieme della decorazione del santuario, e gli diede questa trave per riscattare tutto il resto, dopo avergli fatto giurare di non portar via nient’altro dal Tempio, contentandosi del dono che stava per fargli, del valore di decine di migliaia di dracme. Questa trave era celata nella cavità di un’altra trave di legno, sicché nessuno si accorse della sua sparizione, di cui il solo Eleazar era al corrente. Crasso quindi la prese, assicurandogli che non avrebbe toccato nient’altro nel Tempio. Poi, violando il giuramento, prese tutto l’oro che si trovava nel santuario», per un totale di ben ottomila talenti che, sommati ai duemila del denaro sacro, costituivano la somma favolosa di diecimila talenti, più di 150 tonnellate d’oro148. Con una somma del genere, equivalente a vari anni di tributi pagati da un regno alleato, si poteva finanziare una lunga cam-

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pagna. Anche in questo caso non mancarono i cattivi presagi. All’uscita del santuario di Atargatis, Publio scivolò sulla soglia e cadde, e dietro di lui anche il padre149. La morte dei due Crassi era ormai annunciata.

Il piano di Crasso Tutto sembrava favorevole per la vittoria romana. La campagna era stata preparata accuratamente, con una strategia analoga a quella ideata da Lucullo nel 69: inglobare la Mesopotamia fino a Babilonia, togliendo ai parti quelle regioni che avevano strappato ai Seleucidi durante la seconda metà del II secolo. Nella primavera del 53, il comandante fu raggiunto da Artawazd. Il re forniva a Crasso ben seimila cavalieri della sua guardia personale, con la promessa di far seguire un ulteriore contingente di diecimila cavalieri corazzati e ben trentamila fanti150. Si trattava probabilmente di un’armata simile a quella che lo stesso re, diciassette anni dopo, avrebbe inviato a sostegno della spedizione di Marco Antonio151. Ma Artawazd proponeva anche un cambiamento del piano originario, che richiedeva più oro per le truppe e per gli alleati: i romani avrebbero dovuto seguire un percorso più lungo, passando dalla Siria in Armenia, e di lì nella Media Atropatene. Occorreva quindi prendere la strada che da Edessa conduceva verso nord, valicando le montagne dell’Armenia meridionale152. «A Crasso [...] sembrava perfettamente ovvio che non si dovesse credere agli armeni. L’offerta di Artawazd era un ovvio stratagemma per salvare il suo regno dall’invasione partica, lasciando fare tutto ai romani. Del resto, vi era la chiara eventualità che gli armeni avessero ordito un tranello, per unirsi ai parti una volta ingaggiata la battaglia»153. Certo, è

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difficile valutare le cose sulla base dell’unica fonte che ci informa sulla proposta del re armeno, Plutarco. Questi, da buon greco, considerava i barbari come dei potenziali traditori. Chi poi suggeriva il piano era quello stesso Artawazd a cui più tardi Marco Antonio avrebbe addebitato il fallimento della sua campagna partica. Comunque sia, il comandante non poteva permettersi di cedere al consiglio di un re che era certo il suo più importante alleato, e sulla carta era «amico del popolo romano», ma di fatto restava un barbaro subalterno (inoltre, l’amicizia con l’Armenia era stata opera del collega/rivale Gneo Pompeo). Del resto, gli ufficiali romani non amavano guidare le legioni nel combattimento in montagna. Anche se il territorio armeno non era del tutto ignoto, Crasso avrebbe dovuto fare pieno affidamento sull’esperienza degli ausiliari, e soprattuto sull’autorità del re, ponendo il suo esercito in una situazione di debolezza. Egli decise quindi di seguire la strada più breve per raggiungere il cuore dell’impero partico, passando per l’Alta Mesopotamia. L’esercito romano conosceva già la regione, esplorata ai tempi della campagna mitridatica di Pompeo. All’epoca, il legato Lucio Afranio era stato salvato dal congelamento, insieme a tutti i suoi, proprio dagli abitanti di Carre, ricordati dalla fonte di Cassio Dione come «coloni macedoni» per meglio evidenziare la loro estraneità al mondo orientale154. In seguito si disse che Crasso, allettato dalle ricchezze della Mesopotamia, si era comportato in modo irresponsabile. Gli storici moderni, influenzati dalla ‘leggenda nera’ elaborata dagli autori del Principato, hanno finito per credere che la sua campagna orientale fosse del tutto improvvisata e superficiale. Ma questo è poco credibile. La letteratura militare, almeno a partire da Senofonte, evidenzia bene la necessità di una buona conoscenza del territorio. Publio Crasso aveva

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avuto modo di mettere in pratica questi precetti nelle Gallie, imparando a non sottovalutare dei nemici che, oltretutto, avevano potuto studiare le tecniche di combattimento dei romani. In realtà, come si è visto, la decisione di aggredire l’Iran non era dovuta alla decisione di un solo uomo ma era stata programmata da tempo, e la strategia messa in atto non era poi così assurda. Di fatto, la Mesopotamia era il cuore dell’impero rivale. Nel corso del II secolo, i parti avevano lottato a lungo per strapparla ai Seleucidi: la decadenza del grande impero ellenistico si deve in gran parte alla perdita di questa regione. Successivamente, una grave crisi dinastica sotto il regno di Mitridate II aveva favorito l’usurpazione del satrapo Gotarze, che dal 91 all’80 aveva occupato varie province occidentali e si era insediato a Babilonia, lasciando l’Alta Mesopotamia a Mitridate II. Ma quest’ultimo morì nell’88, e la conseguente anarchia favorì l’ascesa di Tigran d’Armenia, che per un certo periodo controllò parte della regione. Il regno di Fraate III (71-58) riportò l’ordine nell’impero, ma la nuova crisi dinastica rimetteva ora tutto in discussione. Crasso era ben consapevole della posta in gioco e, in definitiva, la scelta di non cambiare fronte era apparentemente la più ragionevole: la Mesopotamia era una sorta di ventre molle dell’impero partico, e soprattutto era popolata da comunità urbane ellenizzate, dove i contatti diplomatici ed economici erano più agevoli e familiari per un rappresentante di Roma. Un altro argomento forte era la storia di queste regioni: Alessandro Magno aveva conquistato l’impero persiano passando dalla Mesopotamia, mentre non aveva mai messo piede in Armenia. Secondo la tradizione, presso la «Giuntura» si conservava una catena del ponte sull’Eufrate che il Macedone aveva attraversato; e Cassio Dione, narrando del passaggio di

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Crasso, allude all’avanzata di Alessandro su quello stesso punto155. Il comandante passò nuovamente l’Eufrate, senza incontrare le condizioni sfavorevoli dell’anno precedente. La meta era la residenza reale di Ctesifonte con la vicina città di Seleucia, ma il problema era l’itinerario da scegliere tra le varie vie carovaniere. Plutarco spiega che l’esercito romano avrebbe dapprima seguito l’Eufrate, con l’obiettivo di raggiungere in fretta la residenza imperiale. Questo era l’avviso di Cassio, poco convinto degli esploratori e dei consiglieri stranieri. Ma Abgar avrebbe persuaso il comandante e gli altri ufficiali a percorrere una diagonale per raggiungere il punto in cui il fiume Balissos (l’odierno Bal∞h) sfocia nell’Eufrate, ossia presso l’attuale Raqqah, dove si ˘trovava la cittadella di Callinicum. Si trattava probabilmente della «via dei nomadi», un percorso ricordato dal geografo Strabone156. Questo antichissimo itinerario non prevedeva il passaggio di centri abitati importanti, ma consentiva un’avanzata più rapida, e soprattutto permetteva agli uomini e ai cavalli di abbeverarsi lungo la strada157. Sempre Plutarco sostiene che i romani si sarebbero avventurati in una terra ignota, in balia delle guide barbare, ma la sua ricostruzione si basa su una contraddizione di fondo. Se davvero fosse stato così, allora come spiegare la presenza di guarnigioni romane in varie città della regione, installate durante la prima campagna? La vulgata imperiale ha fuorviato gli storici moderni, che hanno finito per ignorare la notizia, trasmessa oltretutto dallo stesso Plutarco, che da vari mesi la cittadella di Carre era sorvegliata dalle coorti del prefetto Coponio. La pianura del Bal∞h, che si trovava immedia˘ tamente a sud, era occupata dai romani e costituiva la punta avanzata oltre Eufrate della provincia di Siria158. La devia-

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zione a est era necessaria, poiché a sud di Zeugma l’Eufrate si inoltrava nel deserto siriano. L’itinerario delle «tappe partiche» scritto da Isidoro di Charax, un autore di età augustea che utilizzava fonti locali, indica i centri toccati da questo percorso. Anche se alcuni nomi sono corrotti, sembra evidente che il tragitto prevedesse un passaggio da Carre per dirigersi poi verso Callinicum, attraversando la cittadella di Ichnai159: tutte località della «via regia» partica, che Crasso aveva occupato durante la campagna del 54 e che permettevano di dirigersi agevolmente verso il centro dell’impero, la residenza di Ctesifonte con la vicina metropoli di Seleucia, che si trovavano a 724 miglia di distanza160. Il luogo della battaglia si sarebbe quindi trovato a una quarantina di chilometri da Carre, nell’attuale territorio siriano161. Di certo, il comandante aveva deciso di prendere la strada dell’Armenia a battaglia finita: in fondo, se all’andata aveva preso la strada del grande Alessandro, al ritorno poteva ben imitare Senofonte, un altro modello di sapienza militare ben noto alla generazione di Crasso, facendo sfilare le legioni vittoriose attraverso le terre sicure degli alleati. Agli uomini depressi dalla marcia nel deserto, egli avrebbe ribadito questa decisione con un solenne giuramento. Inoltre, aveva ordinato di distruggere il ponte fatto costruire al suo primo passaggio dell’Eufrate, per neutralizzare un eventuale attacco diversivo del nemico ma anche per mostrare la propria determinazione, e la certezza di conquistare prossimamente Seleucia e Ctesifonte. Purtroppo comunicò questa decisione ai soldati in modo infelice, dicendo loro: «Abbiate fede, nessuno di noi farà ritorno per questa strada». Molti soldati, poi si disse, interpretarono queste parole come un pessimo augurio162. Numerosi cattivi presagi vennero poi ricordati, a riba-

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dire che tutta la spedizione, privata del favore degli dèi, era votata all’insuccesso. Intanto, l’esercito partico era stato diviso in due contingenti: quello guidato personalmente dal re Orode si spostò verso nord e penetrò in Armenia, per impedire ad Artawazd di unire le sue forze con quelle romane, mentre le truppe stanziate in Mesopotamia furono destinate a bloccare l’aggressione di Crasso. Il re armeno lo avvertì della propria impossibilità di unirsi al suo esercito, consigliandogli nuovamente di cambiare percorso. Ma il comandante respinse la proposta con stizza e arroganza: «non ho tempo per occuparmi degli armeni»163. Di fatto, la richiesta del re fu interpretata come un vero e proprio tradimento164, poiché Crasso faceva affidamento sui nuovi rinforzi di cavalleria che avrebbero dovuto proteggere i legionari dalle manovre partiche, e ora si trovava privo di una componente fondamentale del suo piano. Plutarco descrive la pianura mesopotamica come una landa desolata. Il percorso sarebbe stato «una via dapprima facile e agibile, ma successivamente accidentata, con sabbie profonde e pianure prive di alberi e acqua, senza che se ne potesse vedere la fine. Oltre allo scoraggiamento dovuto alla sete e alla durezza della marcia, vi era l’inesorabile sconforto dovuto alla desolazione del paesaggio: non una pianta in vista, non un ruscello, non il protendersi del pendio d’un monte, o il germoglio dell’erba; l’esercito era interamente circondato come da flutti marini di dune desertiche». Come se non bastasse, il perfido Abgar avrebbe schernito i legionari, che pensavano «di viaggiare per la Campania» anziché nel territorio di confine tra arabi e assiri165. È probabile che i successivi errori tattici vadano addebitati anche alla mancanza di sistemi informativi adeguati. Nei

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suoi resoconti delle campagne galliche, Cesare afferma di eccellere in questa pratica, dove altri comandanti erano più propensi ad affidarsi ai consigli degli alleati166. Non sappiamo se gli esploratori inviati in ricognizione fossero romani, greci o arabi; in ogni caso tornarono con informazioni errate, e riferirono «che il paese era disabitato, ma avevano incontrato orme di molti cavalli, che in apparenza si eran volti all’indietro come in fuga». Inoltre, la spedizione non poteva marciare rapidamente, poiché la colonna veniva rallentata dalle vettovaglie trasportate dagli animali (muli o forse anche cammelli forniti dagli alleati). Non si menzionano macchine da guerra, ma è difficile pensare che Crasso, da buon ammiratore di Alessandro, non avesse previsto il loro impiego per il prossimo assedio della residenza partica, in una regione priva di alberi che potessero fornire il legname per la loro costruzione. Forse questi aspetti erano curati dalle guarnigioni già insediate in precedenza sul territorio. Lo scontro era dunque imminente.

II ASPETTANDO IL DEMONE BIANCO I bravi generali non combattono mai in uno scontro aperto se non quando si presenta l’occasione giusta o per motivi di forza maggiore. Vegezio, L’arte della guerra romana, XXVI 311

Harran/Carre Le rovine di Carre si trovano in Turchia, non lontano dalla frontiera siriana (Fig. 5). La città ha mantenuto l’originario nome semitico di Harrπn, attestato fin dal XXIV secolo a.C.; ˘ i greci la chiamavano Karrhai, da cui il latino Carrhae, italianizzato in Carre. Presso la città scorreva il G˙ullπb, un affluente del Bal∞h, principale corso d’acqua della pianura. La ˘ valle del Bal∞h è stata popolata fin dal sesto millennio, e an˘ che a Harran le prime tracce di insediamenti umani sembrano risalire a questo periodo2. Per secoli, la città fu un importante centro dell’«Assiria», ovvero dell’Alta Mesopotamia3. Oggi sono ancora visibili le mura, per un circuito di quasi cinque chilometri, e importanti vestigia medievali come il ca-

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stello e la Ulu Camii, la grande moschea dell’VIII secolo. L’area è in gran parte disabitata: dopo le distruzioni operate dai mongoli, avvenute intorno al 1260, l’insediamento si è ridotto a due piccoli villaggi sorti nella zona archeologica, con le tipiche abitazioni in pietra e argilla cruda, sormontate da cupolette «ad alveare». Infine, negli ultimi anni, ai margini del sito si è formato un moderno abitato. Intorno alla città si estende una vasta pianura, da cui emergono numerose collinette artificiali (höyuk) – risultato di una secolare frequentazione antropica – che testimoniano un intenso sfruttamento del territorio a partire dall’età del Rame4. Dall’antichità al Medioevo, Harran/Carre fu un considerevole snodo commerciale e un luogo di passaggio privilegiato per le carovane – o gli eserciti – che si spostavano dalla Siria alla Mesopotamia. Sede di un grande mercato, la città si trovava all’incrocio di due importanti piste carovaniere: quella che collegava la Siria con la valle del Tigri e quella che partiva dalla valle del fiume Halys per dirigersi verso l’Eufrate e il Golfo Persico. Del resto, il nome sembra connesso al termine semitico harrπnu (in accadico «strada, itinerario»)5. ˘ di crocevia commerciale era nota anche ai Questa funzione romani: come ricorda Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), i mercanti arabi vendevano l’incenso sul mercato di Carre, dove a loro volta acquistavano vari profumi ed essenze provenienti dall’Iran e dalla Siria6. Carre fu anche un importante centro religioso. Nomadi e sedentari vi si recavano in pellegrinaggio per rendere omaggio a S∞n: questo antico dio lunare della Mesopotamia proteggeva i passaggi e gli spostamenti periodici, e vegliava sulla salute dei nascituri. Il suo antichissimo tempio fu più volte distrutto e successivamente restaurato o ricostruito, talora su iniziativa dei nuovi governanti, che intendevano così otte-

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nere il favore della popolazione7. La città fu anche un luogo di memoria del popolo ebraico: secondo la Bibbia, vi avrebbe soggiornato il patriarca Abramo8. Nel corso dei secoli, varie potenze si avvicendarono nel controllo della città: dopo gli amorriti fu il turno del regno di Mitanni, e successivamente degli ittiti e dagli assiri. Contesa dai babilonesi e dai medi, Carre venne infine inglobata nell’impero achemenide. Dopo le conquiste di Alessandro fu governata dai macedoni e dalla dinastia dei Seleucidi, con la conseguente formazione di una comunità ellenofona che continuò a prosperare anche dopo l’arrivo dei parti verso la fine del II secolo a.C.9. In definitiva, si trattava di uno dei tanti centri urbanizzati del Vicino Oriente, senza particolare importanza agli occhi dei greci o dei romani. Almeno fino al 9 giugno del 53 a.C.

L’armata di Surena Mentre la colonna dei romani si avvicinava a Carre, anche Orode, ormai giunto in Armenia, aveva organizzato la sua strategia. Fino a questo momento la difesa della Mesopotamia era stata affidata al governatore residente, Silace10. Ma quest’ultimo, durante le operazioni del 54, non era riuscito a contenere l’invasione romana. Il nuovo comandante del contingente mesopotamico era un dignitario partico della grande famiglia dei S∂r™n: il nome (imparentato al termine s∂ra, che in avestico significa «forte») è reso in greco come Sour™nas, Surena nella variante latina11. La stirpe dei S∂r™n governava la regione orientale dell’impero detta in greco «Sakast™n™», ovvero Sakπstan, «terra dei Sakπ». Con questo appellativo generico (in greco Sakai) i persiani definivano gli «sciti», ovvero i nomadi delle

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steppe eurasiatiche appartenenti a varie etnie (non tutti necessariamente di stirpe iranica)12. Verso la fine del II secolo, alcuni gruppi di questi nomadi si erano spinti fino ai confini orientali dell’impero partico, occupando il territorio poi noto come Sakπstan, e più tardi Sistπn, che per molti secoli fu il «granaio dell’Iran antico»13. I parti cercarono di respingerli, finché, nel 111/110, il re Mitridate II risolse il conflitto con un onorevole compromesso: egli mantenne il controllo dell’impero, assumendo il titolo di «re dei re», ma accordò ai S∂r™n, divenuti principi vassalli del Sakπstan, importanti privilegi a corte. Oltre alle funzioni militari d’obbligo per i grandi capiclan, questa famiglia ottenne il grande onore di incoronare i monarchi arsacidi, e mantenne un grande prestigio anche dopo l’avvento dei sasanidi14. La loro terra fu a lungo celebrata nei testi iranici, sia per l’importanza del territorio che per i riferimenti storici e religiosi15. Le principali grandi famiglie si riunivano nell’assemblea dei «consanguinei», probabilmente membri delle più antiche tribù orientali che avevano fondato il regno dei parti. Nel periodo che ci interessa, questo sistema era già stato descritto da Posidonio, il filosofo greco amico di Pompeo, e dal romano Pompeo Trogo: del primo restano pochi frammenti, mentre del secondo abbiamo un riassunto essenziale, redatto in età imperiale da un certo Giustino. Nel libro XLI delle Storie filippiche Pompeo Trogo parlava anche della selezione dei comandanti, «scelti nell’ambito del popolo per la guerra, come venivano scelti i magistrati per la pace»16: i generali come Surena provenivano da questa assemblea. Racconta Plutarco: «Orode aveva subito diviso le sue forze: mentre lui era intento a devastare l’Armenia per punire Artabaze [= Artawazd], aveva lasciato a Surena l’incarico di combattere i romani: ma non, come alcuni dicono, per di-

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sprezzo verso questi ultimi. Infatti, Orode non era certo uomo da disdegnare un Crasso, primo tra i romani, per andare a combattere un Artabaze e mettersi a distruggere villaggi di armeni: in realtà, io credo ch’egli, temendo il pericolo, stesse piuttosto sulla difensiva. Insomma, se aveva mandato avanti Surena, lo aveva fatto per avere un’idea del valore del nemico e per distrarlo»17. Plutarco mostra qui di non comprendere il significato strategico degli ordini di Orode, dove invece altri autori avevano ben chiara la logica della sua decisione: per un re era più dignitoso combattere contro un altro re, lasciando a un sottoposto l’incarico di occuparsi del rappresentante del Senato romano. Certo, anche per noi è difficile capire perché Orode preferisse combattere gli armeni anziché i romani: forse i parti pensavano che Crasso avrebbe effettivamente preso la strada dell’Armenia, ma è più probabile che Orode stesse meditando da tempo la sua rivincita contro il regno confinante, che considerava evidentemente come un obiettivo primario. Quel che è certo è che i parti non sottovalutavano affatto i romani, e che, per respingere Crasso, Orode aveva dato il comando a un personaggio di tutto rispetto come Surena. Il S∂r™n che combatté a Carre era giovane: pur non avendo ancora trent’anni, era dotato di una grande mente e riconosciuto per la sua saggezza e perspicacia. Orode sembrava riporre grande fiducia in lui: in effetti, il dignitario aveva svolto un ruolo fondamentale, distinguendosi per iniziativa e coraggio e permettendo al re di prendere il potere contro il fratello Mitridate. Forse il ruolo privilegiato di Surena era dovuto a patti stipulati in precedenza fra il re dei parti e la componente nomade dell’impero18. Con un curioso anacronismo che risale almeno a JeanBaptiste Crevier (continuatore della Histoire romaine di Rol-

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lin), Theodor Mommsen gli attribuiva il titolo di «visir» del regno partico19: evidentemente, per il grande storico tedesco le istituzioni orientali erano talmente immutabili da mantenere le stesse cariche senza soluzione di continuità, dagli antichi imperi iranici fino a quello ottomano. Non tutti erano lungimiranti come il drammaturgo Pierre Corneille, che riprese la vicenda del grande comandante nella sua ultima tragedia, Suréna général des Parthes (1674)20. Nell’avvertimento al lettore, ispirandosi al profilo che Plutarco delineava nella Vita di Crasso, il poeta osservava: «con simili qualità, egli non poteva non essere uno degli uomini più importanti della sua epoca»21. In effetti, Plutarco presenta Surena come l’uomo più potente dell’impero partico dopo Orode22. Rispettato e temuto, forse somigliava al principe guerriero raffigurato dalla grande statua virile in bronzo rinvenuta a ¤ami, in Susiana, e oggi esposta nel Museo nazionale di Tehrπn (Fig. 6)23. Come il «principe di ¤ami», che ostenta un diadema sulla capigliatura ben curata, Surena si distingueva dagli altri soldati per la particolare cura del fisico. Egli aveva il volto truccato e i capelli divisi da una scriminatura in mezzo. Ciò lo distingueva dalla truppa, che portava i capelli all’indietro «all’uso scitico»24. Plutarco ne sottolinea il carattere «effeminato» e decadente per far meglio risaltare la sua vittoria sul marziale Crasso, ma un osservatore orientale avrebbe pensato piuttosto a certe figure mitiche del mondo indo-iranico, come il dio Indra, a cui si attribuivano simili sembianze25. Del resto, il comandante partico sfoggiava un lusso orientale destinato a impressionare i sudditi e i nemici: «nei suoi spostamenti privati portava sempre mille cammelli con i bagagli e duecento carri di concubine, e per la scorta mille cavalieri corazzati e un numero ancor maggiore di cavalleggeri: in totale, con lui non vi erano meno di diecimila uomini tra cavalieri, servitori e

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schiavi»26. Una vera e propria corte ambulante, che portava con sé l’atmosfera conviviale di un bazm, il sontuoso e prolungato simposio dove i piaceri della tavola e del vino erano accompagnati da musiche, in occasioni di festività religiose, per celebrare una vittoria, o anche per distendersi nel corso di una faticosa campagna militare27. In realtà, come fa capire lo stesso Plutarco, Surena era un ottimo generale. Mettendolo a capo dell’esercito di frontiera, Orode aveva compiuto una mossa previdente, dato che il governatore Silace era stato sconfitto nella precedente campagna, ed era quindi utile affiancargli un comandante prestigioso e carismatico. Detto questo, il satrapo della Mesopotamia avrà pur conservato una certa autorità28: ma nella memoria storiografica e letteraria ‘occidentale’ vi era spazio per il solo Surena, che Plutarco ha saputo trasformare in un personaggio affascinante, in opposizione alle scarse virtù del comandante romano29. L’idea che gli ‘occidentali’ avevano del nemico è sintetizzata dal breve excursus che Cassio Dione fa precedere al resoconto della battaglia di Carre: Non tengono in alcuna considerazione l’uso dello scudo: il loro esercito è composto da arcieri a cavallo e portatori di picche, per la maggior parte ricoperti da corazze. I fanti sono pochi, e si tratta dei guerrieri più deboli, ma anch’essi sono tutti arcieri. Si esercitano fin da piccoli in entrambe le pratiche [= l’arco e l’equitazione], favoriti in questo dal clima e dal territorio. In effetti, il loro paesaggio è in gran parte pianeggiante, e si presta ottimamente ad allevare cavalli e a cavalcarli. In guerra ne portano con sé intere mandrie, in modo da poter cambiare cavalcatura, effettuare degli assalti prolungati e ritirarsi all’improvviso. L’aria del cielo che li sovrasta è estremamente secca, senza la minima parte di umidità, sì che gli archi si mantengono sempre in piena tensione, tranne quando è pieno inverno. Per

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questo, in quella stagione non combattono mai; durante il resto dell’anno, è difficile batterli nel loro paese o in paesi simili al loro. Infatti hanno una grande resistenza al sole cocente, e hanno trovato molti rimedi alla scarsità d’acqua potabile e alla difficoltà nel procurarsela: di conseguenza, non hanno problemi a difendersi contro chi invade la loro terra. Al di fuori di essa, al di là dell’Eufrate, gli è capitato talvolta di vincere con qualche incursione improvvisa, ma non riescono a sostenere una guerra lunga e senza tregua30.

Per Cassio Dione, queste informazioni erano ancora valide per la sua epoca, gli inizi del III secolo d.C. Una generazione dopo, Erodiano riteneva che i guerrieri partici non usassero elmi o corazze, ma questa è forse una reminiscenza di situazioni ben più antiche31. Sarebbero stati poco avvezzi all’arte degli assedi, e in genere alla dura disciplina in cui eccellevano le truppe romane. All’epoca di Crasso le informazioni erano ancor più vaghe, e ci si limitava a riportare le impressioni colte nel corso degli incontri ravvicinati con il nemico, o riportate dagli esploratori in ricognizione. Così, sappiamo ad esempio che i soldati portavano i capelli alla maniera dei nomadi, con lunghe chiome irsute e pettinate all’indietro, quasi a imitare le criniere dei cavalli: un aspetto che, per gli standard del mondo classico, era indizio della loro barbarie, ma ne rifletteva anche il coraggio e l’indipendenza32. Si ritiene che, prima del 53 a.C., i romani sottovalutassero la potenza militare degli avversari, considerandoli alla stregua degli armeni o dei cappàdoci, che poco tempo prima Lucullo aveva sbaragliato senza problemi33. In questo giudizio vi era forse un intento propagandistico, vòlto a convincere il Senato ad appoggiare la spedizione. In realtà, i romani avevano già avuto modo di valutare la loro abilità di guerrieri affrontandoli negli scontri con gli eserciti ellenistici, in cui militavano anche cavalieri persiani, medi, nomadi dell’Asia centra-

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le, e naturalmente parti. Nel 190 a.C., a Magnesia, i romani avevano battuto l’esercito del sovrano seleucide Antioco III, che schierava anche delle unità di cavalleria pesante iranica, i temibili «catafratti»34. Queste truppe montate erano interamente ricoperte da una corazza composta da lamelle, bande di metallo ovvero cotte di maglia simili a quelle dei cavalieri dell’Occidente medievale35. Con un simile equipaggiamento, portare uno scudo era ovviamente superfluo. L’arma dei catafratti era una picca lunga fino a quattro metri, tenuta con entrambe le mani. Il punto debole della cavalleria pesante era la difficoltà del cavaliere a compiere manovre rapide. Se preso in disparte, poteva essere facilmente disarcionato. Per questa ragione, gli attacchi dei catafratti erano sferrati da schiere che caricavano in sincronia, formando un micidiale muro di sfondamento. Il loro modo di cavalcare era condizionato dalla mancanza di staffe, e questo determinava una postura particolare: tenevano infatti la lancia sopra o sotto il braccio, utilizzandola non tanto per creare un «urto» quanto per spingere via o arrestare il nemico36. La superiorità dei cavalieri sui fanti rispecchiava le origini dello stato partico, nato da un’invasione di popoli nomadi che avevano stretto un patto con l’aristocrazia delle regioni assoggettate, per il controllo della popolazione sedentaria e delle vie commerciali37. I comandanti erano tenuti a fornire delle truppe raccolte nei territori da loro controllati. A questi capi venivano inoltre affiancati i governatori dei territori interessati dal conflitto: a Carre, come abbiamo già visto, Surena combatteva insieme a Silace, e non a caso una tradizione che dovrebbe risalire a Tito Livio li indica entrambi come praefecti dell’esercito nemico38. Il contingente di Surena era composto da diecimila uomini. Apparati militari di questo genere si ritrovano in Asia e nel

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mondo iranico fin dall’impero achemenide: il numero di diecimila rifletteva un’antica tradizione di organizzazione dell’esercito che si basava su un sistema decimale osservato nel corso dei secoli, dai celebri «Immortali» di Serse fino agli unni39. Non conosciamo bene la composizione dell’esercito partico in questa epoca, ma dobbiamo immaginare che anche Surena disponesse sia di un esercito regolare, reclutato in tutto il territorio imperiale, sia di ausiliari locali messi a disposizione dai governatori di frontiera: in occasione di una campagna particolarmente impegnativa, il re poteva richiedere truppe anche ai sovrani subordinati40. Forse esisteva già la suddivisione in «draghi», unità di mille arcieri a cavallo, ognuna raccolta sotto un’insegna che rappresentava un dragone41. Il ruolo strategico di Surena era senz’altro essenziale, dato il suo rango: come ricordava Trogo/Giustino, i nobili più importanti erano quelli che potevano radunare il maggior numero di cavalieri e arcieri42. Tuttavia, il suo contingente non rappresentava che una parte dell’armata nemica; questo aspetto è stato sottovalutato dagli autori moderni, che hanno focalizzato l’attenzione sulle cifre riportate da Plutarco, pensando che gli uomini di Surena costituissero l’intero esercito, e che pertanto avessero riportato una vittoria contro un nemico numericamente superiore. In realtà, alle truppe scelte del principe dei Sakπ si affiancavano il contingente mesopotamico di Silace e varie unità di alleati o mercenari, come il signore della guerra «Alchaidamos». I nomadi «saraceni», rivali di Abgar, erano infastiditi dalla presenza romana in Siria, che impediva loro le razzie alle carovane. Essi fornivano ai parti i dromedari, che trasportavano i bagagli dell’esercito e inoltre, durante una battaglia, permettevano di fornire rapidamente nuove frecce ai cavalieri43. Questo tipo di organizzazione, in un certo senso analogo a quello dei romani, è at-

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testato all’epoca della guerra tra Nerone e Vologase (53-63 d.C.), quando si parla appunto di ausiliari partici reclutati in Adiabene44. In questo modo si poteva rapidamente affiancare una milizia di terra all’esercito regolare. I guerrieri arabi locali potevano evidentemente prender parte alle operazioni, e del resto sappiamo che milizie mercenarie erano spesso arruolate fra le tribù «scitiche» (nomadi dell’Asia centrale o del Mar Caspio)45. Le conquiste di regioni ricche come la Mesopotamia, e il controllo di importanti città ellenizzate, fornivano il denaro necessario per pagare questi soldati. All’epoca della battaglia di Carre, l’impero partico stava attraversando la fase finale della sua espansione, e forse queste truppe avevano una funzione meno importante. Al tempo stesso, l’alleanza con le tribù locali garantiva un controllo più efficace delle regioni periferiche dell’impero, dove il fenomeno del banditismo era corrente46. Inoltre, i diecimila uomini di Surena non erano forse tutti cavalieri in armi: la sua guardia personale era composta da mille catafratti e da un buon numero di cavalieri armati alla leggera, ma anche dai «servitori» e dagli «schiavi» (in greco, pelatai e douloi) del dignitario. Se ci atteniamo alla definizione tradizionale di schiavitù delle antiche società mediterranee, potremmo concludere che le unità del contingente partico includessero gli scudieri, e probabilmente anche i cammellieri adibiti al trasporto delle vettovaglie e delle armi. Ma è bene riflettere sulla definizione di «servitori» e «schiavi» riportata da Plutarco, confrontandola con le indicazioni di Pompeo Trogo. Questi, seguendo uno schema riferito più tardi anche agli unni, afferma che i parti di condizione libera svolgevano le principali attività sociali senza mai scendere da cavallo, mentre gli schiavi andavano a piedi: potremmo quindi desumere che gli «schiavi» dell’armata di Surena non fos-

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sero solo palafrenieri, ma anche semplici fanti. D’altra parte, sempre Trogo afferma che nel 36 a.C. l’esercito di Marco Antonio venne affrontato da cinquantamila cavalieri, di cui solo quattrocento erano «liberi»47. Questo termine, che traduce l’iranico azadπn, «nobili minori», era relativamente noto agli autori classici: Flavio Giuseppe ricorda che nel 40 a.C., quando i parti invasero la Giudea al comando del figlio di Orode, Pacoro, quest’ultimo guidava un battaglione di «liberi»48. È probabile che la cavalleria di élite fosse composta esclusivamente da catafratti. Questo tipo di armamento risale almeno al secondo millennio, ed è attestato in Mesopotamia e in Egitto; ma è con l’arte partica che la figura dei catafratti viene valorizzata appieno49. Alcune raffigurazioni ci permettono di ricostruire, anche se parzialmente, l’equipaggiamento di questi guerrieri a cavallo. Una rappresentazione spettacolare si ha in uno dei rilievi rupestri del complesso sacrale di Tang-e-Sarvπk, nelle montagne dell’Elimaide (Fig. 8)50. Il rilievo, datato intorno al primo secolo della nostra èra, rappresenta un catafratto nell’atto di travolgere un nemico con la lunga lancia. Alle sue spalle, due guerrieri in scala minore sembrano cercare inutilmente di arrestarne la carica micidiale, l’uno con un arco, l’altro con un grosso masso, forse scagliato dalle mura di una città; un altro guerriero nemico giace esanime. Il rilievo di Tang-e-Sarvπk non intendeva tanto raffigurare una scena storica, quanto la potenza vittoriosa di questo ignoto personaggio, che forse non era inferiore a Surena per nobiltà e prestigio. Ricorrendo a categorie più ideali che storiche, potremmo considerare l’esercito partico come un perfezionamento su base statale delle antiche orde di cavalieri nomadi: come spiega bene Pompeo Trogo, il loro modo di combattere univa le tecniche «patrie» a quelle scitiche51. Ma la scelta di rafforza-

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re le unità di cavalleria era dovuta anche a ragioni di ordine pratico. L’impero era costantemente in tensione su due fronti: a ovest contro i Seleucidi e poi i romani, a nord e a est contro i nomadi ‘sciti’. Ciò richiedeva un esercito mobile e rapido52. In qualche maniera, l’evento di Carre non va considerato tanto come uno scontro tra fanteria o cavalleria, quanto fra nomadi e sedentari53. I testi di epoca sasanide danno un’idea del ruolo svolto dai militari nella società iranica. La parola chiave è hunar, che possiamo tradurre con «valore», ma che significa al tempo stesso talento militare, coraggio, virilità54. Un testo zoroastriano redatto nel IX secolo, ma di più antica tradizione, elenca i doveri del soldato: «È rivelato nell’Avesta: se dei nemici non iranici entrano nella terra d’Iran per prendere ostaggi e provocare danni, i guerrieri devono avanzare contro di loro. Spesso accade che i guerrieri vengano uccisi; e anche allora, per via della loro grande violenza, i non iraniani vengono, annientano il Fuoco di Wahrπm (tempio zoroastriano legato all’ideologia della vittoria) e gli uomini giusti, fanno prigionieri e creano danni nella terra d’Iran. Il guerriero che non va in battaglia e fugge commette peccato mortale; chi va e viene ucciso in battaglia diventa beato»55. Probabilmente, i parti non avevano una letteratura militare come i greci e i cinesi, né trattati politici comprensivi di capitoli sulla strategia come gli indiani. I pochi frammenti superstiti di letteratura iranica militare risalgono a qualche secolo dopo, e appartengono a un testo di età sasanide legato al genere letterario dell’™w™n nπmag (libro dei costumi), citato dall’arabo Ibn Qutaybah (IX secolo) nel suo trattato Le fonti di informazione (‘Uy∂n al-ahbπr)56. Vi si trovano tuttavia indicazioni utili anche per noi,˘ in quanto le tattiche sviluppate dai Sasanidi fra III e VI secolo derivano direttamente da quel-

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le partiche. Vi apprendiamo, ad esempio, che lo schieramento era composto da due «parti principali», affiancate a loro volta da due ali di cavalieri: i mancini venivano posti sull’ala sinistra, che aveva una funzione essenzialmente difensiva. Quanto al comandante, egli doveva assicurarsi «che i raggi del sole si trovino alle spalle dell’esercito. Egli non dovrà entrare in azione se non in caso di estrema necessità, e se si trova in una posizione in cui non si può evitare di dar battaglia». Il trattato consiglia inoltre di non impedire che il nemico possa abbeverarsi a una fonte d’acqua, «poiché è facilissimo vincere un uomo nel momento in cui egli è sazio»57. La tradizione sasanide sconsigliava di attaccare il nemico con un esercito che non lo sovrastasse per numero: l’ideale era un numero di forze superiore tre o quattro volte all’avversario, ovvero, quando era necessario difendersi, di almeno una volta e mezza. Tuttavia, «quando il nemico invade il paese, è lecito che l’esercito combatta anche se in numero minore»58. Surena non aveva scelta.

Nascere con l’arco I romani non ignoravano del tutto il modo di combattere dei parti. Come si è già accennato, in un carme composto durante o subito dopo la campagna di Gabinio, Catullo li definisce sagittiferos, «portatori di frecce»59. Le frecce e gli archi dei parti divennero ben presto un vero e proprio topos letterario. Seneca osserva che «un bambino nato in Partia subito tenderà l’arco»60, e non è un’esagerazione: già nel trattato Shiji, lo storico cinese Sima Qian (145-85 a.C.) ricorda che i nomadi dell’Asia centrale noti come Xiong-nu (antenati degli unni?) erano abituati fin dalla più tenera età a montare a

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cavallo e tirare con l’arco: i bambini si impratichivano cavalcando le pecore61. L’arma in questione era ben diversa da quella conosciuta dai guerrieri mediterranei. Si trattava del temibile arco composto, che poteva scoccare le frecce a una distanza almeno doppia rispetto a quelli utilizzati dagli arcieri ellenistici e romani. Il graduale perfezionamento di quest’arma micidiale fu decisivo per le vittorie dei parti e, successivamente, dei Sasanidi e degli unni. L’arco composto di tipo partico, simile a quello scitico, aveva i flettenti in corno di capro selvatico, legno e colla, mentre la forte tensione della corda era assicurata da tendini di cervo o gazzella. Le monete partiche raffigurano questo tipo di arco, utilizzato ancora in Iran fino agli inizi dell’Ottocento62. Il corpo della freccia partica era ricavato da una canna acquatica. Nella sezione della Storia naturale dedicata alle canne, Plinio il Vecchio (riprendendo senz’altro topoi più antichi attribuiti ai persiani) osserva: «I popoli d’Oriente decidono le guerre con le canne. Applicandovi delle penne, con esse arrecano una rapida morte; vi aggiungono punte uncinate mortali, che non si possono estrarre e si spezzano dentro la ferita, come un doppio strale. Con queste armi possono oscurare il sole». Plinio elenca una serie di popoli che si servono dell’arco, dagli etiopi ai sarmati, concludendo la lista con la menzione di «tutti i regni dei parti», e con l’osservazione che «i popoli di quasi mezzo mondo sono dominati dalle canne»63. Ma l’osservazione di Plinio non era solo di carattere tecnico. Per i popoli iranici, l’arco era un simbolo di regalità, e ancor più per i parti, la cui stirpe era di origine nomade e portava con sé le reminiscenze di un’antica tradizione64. Gli eroi dell’epos iranico sono spesso grandi arcieri, a cominciare dal mitico ArexΔa (l’E¯raΔ della letteratura pahlavi), la «freccia più

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veloce tra gli ari», in grado di scoccare un dardo da una montagna a un’altra65; altri richiami a eroi arcieri si trovano nella letteratura armena66. Nelle dottrine astronomiche dell’Iran, del Vicino Oriente e della Cina, la stella Sirio, connessa a vari temi simbolici di fertilità, fa parte della costellazione dell’Arco67. Simili modelli si ritrovano anche nel Mediterraneo, ad esempio nei poemi omerici, ma in Grecia l’evoluzione delle tecniche belliche finì per trasformare l’arciere in una figura marginale68. Viceversa, la tradizione iranica e indo-iranica non sembra aver mai rinnegato il passato. Nelle lingue indiane, il termine per indicare le arti marziali è ancor oggi dhanurved (sanscrito dhanurveda-), letteralmente «conoscenza dell’arco», e ancora nell’alto Medioevo un trattato religioso indù evocava quattro gradi di nobiltà nel combattimento: arco e frecce avevano il primo posto, mentre battersi con la spada solo il terzo (l’ultimo era il volgare combattimento a mani nude)69. Nell’88 a.C. il re del Ponto Mitridate VI, che si vantava di discendere dalla grande stirpe degli Achemenidi, si esibì con il lancio di una freccia alla distanza di oltre uno stadio – 177 metri, una distanza irrisoria per un arciere persiano – per delimitare il perimetro del santuario di Efeso70. Varie monete di re arsacidi raffigurano un sovrano seduto in trono, nell’atto di reggere un arco, che alcuni identificano con Arsace, il capostipite della dinastia (Fig. 9)71. Nel I secolo d.C., Seneca evocava l’immagine del Gran Re, un signore dei popoli costretto a mantenere la vigilanza «senza mai allentare l’arco»72. Infine, non vanno trascurati gli aspetti sacrali e magici di quest’arma: un inno vedico celebra le vittorie segnate dall’arco e invoca come una divinità la Freccia, «resa acuminata dalla nostra preghiera», pregandola di ricadere sui nemici senza ri-

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sparmiarne alcuno73. Nella letteratura persiana si riscontrano accenni ai poteri magici delle piume utilizzate per l’impennaggio del dardo, mentre in un testo pahlavi di tradizione partica l’eroe bambino Bastwar benedice la sua freccia prima di andare in battaglia74. Gli arcieri a cavallo (hippotoxotai in greco) eccellevano in una tecnica nota ancor oggi con il nome di «freccia del parto», che consisteva nel fingere la fuga, volgersi indietro e colpire l’avversario75. L’espressione ha conosciuto una certa notorietà in varie letterature dell’Ottocento: si pensi al poemetto L’Expiation di Victor Hugo (dalla raccolta Les Châtiments, 1853) in cui, alcuni versi dopo il celebre «Waterloo! Waterloo! Waterloo! Trista piana!», si rievoca «Napoleone, ridiventato Bonaparte / come un romano ferito dalla freccia del parto». Questa particolare tecnica di combattimento, utilizzata anche nella caccia, risale a tempi abbastanza antichi, ed è già attestata nell’VIII a.C. da raffigurazioni di età neoassira. L’arte classica ha più volte rappresentato guerrieri sciti in questo atto, sia sui vasi attici che sulle gemme ellenistiche. E gli scavi di Nisa vecchia, nell’attuale Turkmenistan, hanno portato alla luce i frammenti di una grande pittura murale, dove due gruppi di cavalieri, entrambi armati all’uso partico, si affrontano in questo modo76. Gastone Breccia ha descritto con efficacia il ruolo dell’arciere nella storia militare antica: «Provocare, ferire dalla distanza, eludere l’urto frontale, provocare di nuovo, attirare lontano dalle proprie basi il nemico in uno spazio vasto e ostile, inadatto alla concentrazione dello sforzo, a quel parossismo di violenza risolutiva che è il combattimento in ordine chiuso: questi sono i principi cui si devono uniformare la strategia e la tattica dell’arciere; se gestiti in maniera appropriata, sono potenzialmente letali per le armi pesanti tipiche del-

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l’Occidente, come una serie di disastri testimoniano attraverso i secoli, da Carre al Vietnam»77. Non è sempre facile considerare questo tipo di armi con il filtro degli autori classici, tenendo conto che la tradizione greca aveva relegato in una dimensione marginale – associandolo al mondo dei barbari e degli stranieri – il combattente che si serviva di armi diverse da quelle dell’oplita78. In un certo senso, i romani erano affascinati dagli archi partici, ed è interessante vedere come questa fissazione li distogliesse dall’aspetto principale della tattica del nemico, l’uso combinato di forze di cavalleria leggera e pesante. Questa manovra sembra aver perfezionato delle forme di combattimento già attestate in Asia centrale, in particolare il ricorso alla pioggia di frecce, impiegato dai nomadi contro l’esercito cinese all’inizio del I secolo a.C.79. Come è stato ben osservato, «almeno in origine, erano i caroselli degli arcieri che, simili a cani da pastore, costringevano il nemico ad ammassarsi in ricerca istintiva di un riparo e favorivano così l’attacco irresistibile e micidiale dei cavalieri corazzati»80. Era la tecnica già utilizzata dagli sciti contro l’imperatore persiano Dario, attestata ancora in età bizantina e riproposta nel Medioevo dai turchi Selgiuchidi e dalle orde mongole, che la chiamavano nerge, utilizzando un termine tipico delle battute di caccia81. Almeno dopo Carre, i comandanti romani avranno probabilmente elaborato tattiche adeguate per rispondere a questo tipo di manovra; ma ciò non è attestato, poiché gli autori classici hanno preferito considerarla come un subdolo stratagemma, degno dei perfidi orientali. Solo molto più tardi, sul finire del VI secolo, essa verrà finalmente descritta sotto il nome di «imboscata scitica» (dunque come uno stratagemma) in un’opera di strategia, il trattato dell’imperatore Mauri-

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zio82. Di fatto, le antiche tecniche di combattimento elaborate in Asia centrale continuarono a venir adottate e perfezionate dai cavalieri delle steppe contro cui si scontravano i bizantini. Una simile perizia si otteneva solo dopo anni di apprendistato: il già menzionato trattato militare sasanide dedicava una sezione all’apprendimento del tiro con l’arco, descrivendo nei particolari la postura dell’allievo e la posizione delle mani83. Gli arcieri leggeri portavano l’abito «scitico», che rivelava le origini nomadi della nazione partica: una tunica di pelle o di stoffa allacciata alla spalla, spesso con borchie metalliche, larghe brache e stivaletti leggeri, e il caratteristico copricapo a punta, un cappuccio di cuoio o di stoffa, antenato del baΔlyk portato ancor oggi dagli osseti. Le brache potevano essere coperte da una jambière per proteggersi dalle sterpaglie, ma anche per fare da contrappeso alla faretra e mantenere l’equilibrio84. Se i cavalli degli arcieri erano piccoli e veloci, quelli dei catafratti erano grandi e imponenti, di razza detta «nisea» (dalla piana di Nisa in Margiana, in Asia centrale). Fin dal periodo achemenide, i destrieri nisei erano destinati alla cavalleria scelta. Verso il 106 a.C., in seguito a un accordo diplomatico fra i parti e l’impero cinese degli Han, questi cavalli furono esportati in Cina lungo la «Via della Seta», dove contribuirono alle vittorie del Celeste Impero. Per il combattimento ravvicinato, i parti si servivano di sciabole, daghe e pugnali. I re raffigurati sulle monete dell’epoca portano una spada corta, arma che i greci chiamavano akinak™s85. I guerrieri dell’Asia centrale combattevano con un tipo di sciabola destinata a grande fortuna, fabbricata in acciaio (pulπd)86. Queste armi sono raffigurate sui rilievi commemorativi, e possono confrontarsi con gli esemplari rinve-

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nuti in vari scavi (datati al I o II secolo d.C.), eseguiti in una lega simile all’acciaio. Le analisi confermano l’affermazione di Plinio, che attribuiva ai cinesi la palma di questo tipo di metallurgia, assegnando ai parti il secondo posto87. La tecnica impiegata per la fabbricazione delle sciabole era di origine cinese: Sima Qian ricorda che i popoli dell’Asia centrale non conoscevano l’arte della fusione delle armi prima del loro contatto con la Cina88. I legionari romani erano equipaggiati con le armi tradizionali, il gladio e il giavellotto (pilum). Ma queste armi potevano ben poco contro i rapidi movimenti degli arcieri a cavallo e le pesanti corazze dei catafratti. La lorica hamata, la tipica cotta di maglia del legionario, non riusciva a frenare l’urto delle frecce nemiche, e sotto il sole della Mesopotamia si rivelava più che altro un ulteriore tormento. Certo, i romani disponevano di un’efficacissima tattica, la formazione a «testuggine», che permetteva anche a grandi unità di formare un quadrato, reso impenetrabile da una barriera costituita dagli scudi. Ma questa tattica bloccava il margine di manovra della legione, riducendone quindi le potenzialità offensive. Inoltre, le armi dei romani finivano per rompersi per il troppo uso89.

III CRONACA DI UNA SCONFITTA ANNUNCIATA Esistono percorsi che non devono essere battuti, armate che non devono essere colpite, fortezze che non devono essere attaccate, territori su cui non si deve combattere, e ordini del principe che non si devono accettare. S∂nzıˇ B∞ngfaˇ (Sun Tzu), L’arte della guerra di Maestro Sun, VIII 3

Lo scontro del 9 giugno All’alba del 9 giugno del 53, giorno consacrato alla dea Vesta, la colonna romana si mise in marcia e giunse nei pressi del fiume Bal∞h, dove i soldati, i cavalli e le bestie da soma ˘ poterono riposarsi e abbeverarsi. A giorno fatto trovarono il nemico. I romani furono presi alla sprovvista: Crasso era convinto che l’esercito di Surena fosse una semplice avanguardia, e decise di seguire il consiglio del figlio Publio che, con gli altri cavalieri, intendeva ingaggiare subito il combattimento. In effetti, non si vedeva il bagliore delle armi, che il nemico ave-

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va opportunamente coperto con mantelli e guaine di pelle. Con uno dei suoi consueti pezzi di bravura, Plutarco narra l’esordio della battaglia: «Non appena si avvicinarono, quando il comandante diede il segnale, un rimbombo insopportabile e uno strepito terrificante riempirono la piana. Di fatto, non è con i corni né con le trombe che i parti si lasciano incitare alla battaglia, ma fanno rimbombare all’unisono da svariati punti dei piccoli timpani cavi, fatti di pelle, che vengono tesi con sonagli di bronzo ed emettono un suono cupo e spaventoso, un misto tra l’urlo di un mostro e la violenza di un tuono. Essi hanno ben compreso che dei sensi è l’udito a sconvolgere maggiormente l’anima, la turba più in fretta e soprattutto, suscitando la confusione, non permette di capire che cosa stia succedendo»1. Un’atmosfera analoga si ritrova in una scena di battaglia eseguita su una placchetta in osso, rinvenuta nella necropoli di Orlat presso Samarcanda, dove catafratti, arcieri leggeri e fanti si affrontano in un combattimento ravvicinato (Fig. 11)2. I romani ritenevano che fosse soprattutto la vista, e non l’udito, a influire psicologicamente sul morale dei combattenti3. A Carre prevalsero invece i tamburi di guerra dei parti, che Trogo/Giustino considera come degli elementi distintivi del loro modo di combattere4. Ma, oltre a costituire un espediente strategico, il tamburo era un elemento connaturato all’antichissima tradizione sciamanica di questi popoli, la cui furia guerriera era originata da una vera e propria esperienza di estasi ascetica: «Impeto, esaltazione, canto animalesco e ululati, furore, ebbrezza: per non parlare dello strumento sciamanico per eccellenza, il tamburo e i sonagli adoperati nella guerriglia psicologica che tanta parte ebbe nella sconfitta dell’esercito di Crasso a Carre. Infatti, cacciare i demoni o scacciare i nemici non rappresenta grandi differenze

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nella messa in scena di opposti antagonismi [...] il particolare del tamburo denuncia un caratteristico strumento musicale atto a procurare un incitamento collettivo»5. Questo, peraltro, non implica necessariamente che i parti fossero dei «guerrieri folli», furiosi combattenti seminudi alla maniera dei berserkir nordici6. Anche se Plutarco non perde occasione per evidenziare le usanze barbariche degli iranici, nella Vita di Crasso egli mette in scena – come del resto gli altri autori classici – lo scontro di due eserciti ben organizzati. Non disponiamo di resoconti orientali della battaglia, ma il poema V∞s ∂ Rπm∞n, una sorta di Tristano e Isotta orientale redatto nell’XI secolo sulla base di tradizioni partiche, descrive con efficacia l’atmosfera e soprattutto il fragore di un combattimento: Quando si levò da oriente il re delle stelle, Re cui la luna è vizir, e il cielo trono, Dai due accampamenti tuonarono i due tamburi dell’odio, E davanti ai due re vennero i due eserciti a guerra. Ma non eran tamburi di guerra: essi erano i demoni dell’odio, Il cui fracasso chiunque udisse si riempiva d’odio. Il flauto urlante si fece pari alla Tromba [del Giudizio], Il timpano i morti rendeva vivi. [...] Il fronte dei catafratti si stendeva sulla piana Come un monte in mezzo alle onde del mare, E tra le onde gli eroi come coccodrilli, Sul monte i cavalieri come leopardi. Quegli uomini che altrove erano saggi, Divenivano pazzi sulla piana di guerra. [...] Per gli stendardi, la piana era divenuta un bosco di cipressi, E luccicante la luna per il broccato degli stendardi, Sulla cima di ciascuno un uccello d’oro,

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Aquila o falco, pavone o simorgh. Sotto il falco un leone dai bei colori, Avresti detto che il falco tiene il leone tra gli artigli. [...] Quando i due eserciti si fecero l’un l’altro vicini, Si lanciarono l’un contro l’altro all’assalto gli eroi, E avresti detto che improvvisamente due monti d’acciaio Si erano scontrati l’un l’altro in quella piana E lo stridio del flauto sembrava il corno del Giudizio finale, ridando vita alla lotta quando si esauriva [...]»7.

Iniziò così una lunga ed estenuante giornata di scontri. I due autori fondamentali, Plutarco e Cassio Dione, non concordano sull’esposizione dei fatti, se non su un punto chiave: la fanteria romana non poté dar luogo a un combattimento ravvicinato a causa dell’incessante pioggia di frecce a cui la esposero i cavalieri partici. Come è stato osservato in un altro contesto (la battaglia di Azincourt del 1415), «la pioggia di frecce comporta anche un impatto psicologico, se non altro a causa del suono, una sorta di cacofonia che rimbombava sulle corazze e sulle teste»8. Le buone condizioni meteorologiche favorirono l’attacco degli arcieri: come ricorda Plinio, il punto debole dell’arco erano le giornate di vento e pioggia, che costringevano i parti a restare in pace9. La formazione iniziale prevedeva un classico schieramento di fanteria pesante. I romani dispiegavano la potente organizzazione fondata sul movimento delle legioni in campo aperto: una tattica, più volte sperimentata, che finora si era rivelata pressoché imbattibile. Nel corso delle guerre affrontate contro i re ellenistici per il controllo dell’Oriente mediterraneo, le legioni avevano avuto la meglio sulle falangi di tipo macedone, a lungo considerate come le migliori formazioni di battaglia. La forza della legione consisteva nella sua capacità di fra-

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zionarsi rapidamente: le unità che la componevano potevano essere impegnate a turno per fronteggiare lo schieramento nemico e arrestarne il ritmo combattendo un accanito corpo a corpo con il gladio – la spada corta del legionario – ovvero allontanando il pericolo con micidiali lanci di pilum (giavellotto). Va detto che i romani non applicavano modelli prestabiliti, come ritenevano un tempo i moderni strateghi che, basandosi su descrizioni letterarie, ricostruivano a tavolino le battaglie di Alessandro o di Scipione. In realtà, come già teorizzava Cesare, il fattore sorpresa era essenziale10. L’esercito di Crasso era stato dapprima disposto su una lunga linea, coperta ai lati dalle unità di cavalleria. Successivamente, il comandante aveva optato per una disposizione a ranghi serrati, che Plutarco definisce plinthion amphistomos kai bathy, un «quadrilatero a duplice fronte e profondo». Autori di tecnica militare come il contemporaneo Asclepiodoto, e più tardi Onasandro ed Eliano Tattico, descrivono una tecnica analoga detta diphallagia amphistomos, «schieramento doppio a due fronti opposti», una formazione coperta ai fianchi che permetteva all’esercito di passare rapidamente dalla marcia all’offensiva. Questo dispositivo sembrava particolarmente adatto per le guerre contro i ‘barbari’, e del resto è stato utilizzato anche nelle guerre coloniali di età moderna11. Secondo altri studiosi, questa formazione coinciderebbe non tanto con la «testuggine», quanto con il cosiddetto agmen quadratum, uno schieramento chiuso in funzione difensiva, con dodici coorti per lato (oltre ventiquattromila uomini). Nella sua Tattica, scritta negli anni 160 d.C., Arriano di Nicomedia parla in effetti di una formazione che permetteva di passare da una linea allungata a una massa compatta di legionari protetti dagli scudi12. Quanto ai due fronti opposti, sembrerebbe ragionevole pensare ai settori dello schieramento capeggiati da Cassio e da Crasso junior13.

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Di più non si può dire, e ricostruzioni più precise restano ipotetiche14. I parti pensarono di sfondare le linee romane con i catafratti, ma si accorsero presto della struttura delle legioni, e allora decisero di inviare gli arcieri a cavallo, applicando la consueta tattica del movimento avvolgente. I romani tentarono allora di attaccare, ma vennero respinti dalle frecce. Cassio Dione descrive il micidiale effetto dei dardi partici: «piombando in massa sui romani da ogni parte, ne ferivano mortalmente parecchi, e parecchi impossibilitavano a combattere, e nessuno poteva trovar pace. Infatti i dardi sfrecciavano sugli occhi, sulle mani e su tutto il resto del corpo; trapassavano le armature, li lasciavano senza protezione e, continuando a ferirli, li costringevano a esporsi: se qualcuno si difendeva dal dardo o cercava di estrarlo, un altro lo colpiva e una ferita si aggiungeva all’altra. Che si muovessero o restassero impassibili, non avevano via di scampo, poiché entrambe le soluzioni erano insicure e portavano alla morte: infatti, la prima cosa gli era impossibile, mentre la seconda li rendeva più vulnerabili»15. I romani decisero allora di ricorrere ai cavalieri gallici di Publio Crasso, che intrapresero un’azione diversiva dandosi da fare per sventrare i cavalli nemici, con una tecnica che conoscevano alla perfezione16. Questa manovra doveva permettere ai legionari e agli ausiliari di riprendere fiato e formare un quadrato ancor più impenetrabile, coprendosi a vicenda con gli scudi strettamente connessi l’uno all’altro17. Si trattava di una tattica da manuale, ma il comandante aveva sopravvalutato la saggezza del figlio adulescens. Publio decise di inseguire gli arcieri, che portarono i suoi uomini direttamente a confronto con i catafratti. Il suo contingente contava 1300 cavalieri, 500 arcieri e otto coorti di legionari18. Affiancato dai tribuni Censorino e Megabacco, Publio proseguì l’inseguimen-

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to con i suoi cavalieri, seguiti rapidamente dalla fanteria. Ma, prima che i romani riuscissero a ricompattarsi, i parti si fermarono, opponendo loro un vero e proprio muro di catafratti, mentre gli arcieri ripresero la pioggia di frecce. Sorpresi dalla manovra e incalzati dal tiro, i romani ebbero la peggio, e furono costretti a ritirarsi su una collina. Circondati dai nemici, i legionari cercarono di resistere chiudendosi in una formazione quadrata utilizzata in caso di emergenza, la cosiddetta «torre»19. Messi alle strette, Publio e Censorino si fecero uccidere, mentre Megabacco si suicidò. I nemici fecero irruzione, catturarono cinquecento romani e mozzarono le teste degli ufficiali caduti. La testa di Publio Crasso fu innalzata su una picca, che venne mostrata al padre. Moriva così l’orgoglio della famiglia, l’ambizioso «ragazzino» destinato a grandi cose. Crasso tentò invano di contenere il dolore e la rabbia, ma cadde rapidamente in uno stato di prostrazione. Sul finire del giorno, i catafratti travolsero i fanti romani. Osserva Giovanni Brizzi: «È impossibile che i lancieri – trattenuti all’inizio dello scontro dalla profondità dell’agmen romano e impiegati poi solo contro le forze di Publio – siano stati ora scagliati contro uno schieramento compatto quanto il precedente; occorre pensare, invece, che Crasso abbia offerto al Surena (sic) l’occasione di usare finalmente al meglio il suo corpo di élite». L’attacco fu devastante, contro dei legionari esausti al comando di un Crasso stravolto, che commise l’errore di dispiegare lo schieramento per reagire ai catafratti, con risultati disastrosi. Plutarco ha messo in evidenza le fasi principali della battaglia, ma per ragioni di eleganza letteraria ha evitato un resoconto dell’ultima fase dello scontro, che avrebbe appesantito la narrazione20. Ma è evidente che, una volta attestate le posizioni dei contendenti, il seguito fu essenzialmente una batta-

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glia di logoramento21. I romani furono ulteriormente sorpresi, poiché ritenevano a torto che i parti, e in generale i barbari, fossero incapaci di reggere un combattimento prolungato22: una sessantina d’anni dopo, a Teutoburgo, avrebbero commesso lo stesso errore contro i germani guidati da Arminio. Di fatto, qui Surena mostra di applicare gli stessi precetti degli autori di scienza militare dell’antica Cina. Ad esempio, il trattato di S∂nzıˇ (Sun Tzu), la cui stesura definitiva sembra risalire al IV secolo a.C., considera perfetta una formazione militare che non si metta in mostra e non appaia sempre allo stesso modo, evitando così di essere scoperta dal nemico: è il celebre insegnamento della «forma dell’acqua»23. Il maestro affermava di poter sconfiggere in questo modo qualsiasi forza, quale che fosse il numero dei suoi effettivi. Il filosofo François Jullien, raffinato interprete di questa letteratura, osserva: «Si sa che le circostanze sono spesso impreviste, perfino imprevedibili se non totalmente inedite, ed ecco perché non è possibile allestire un piano prestabilito; tuttavia esse contengono un certo potenziale di cui possiamo approfittare grazie alla nostra elasticità e disponibilità. Ecco perché lo stratega cinese non progetta né costruisce nulla. Egli nemmeno ‘delibera’, né deve ‘scegliere’ (tra mezzi che gli sarebbero egualmente possibili). Questo presuppone che per lui non vi sia nemmeno un ‘fine’, predisposto a distanza di tempo e secondo una modalità ideale; anzi, egli non smette di approfittare della situazione man mano che essa si svolge (ciò che lo guida è semplicemente il profitto da trarre). Più precisamente, tutta la sua strategia consiste nel far evolvere la situazione in modo tale che l’effetto risulti progressivamente da sé, e che sia un effetto costrittivo. Questo può verificarsi stancando e paralizzando l’avversario a poco a poco, sì che, quando infine si decide a dar battaglia, l’altro abbia già rinunciato a combattere»24. Le legioni romane

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erano relativamente ben addestrate e soprattutto ben armate, e sarebbe stato impossibile travolgerne lo schieramento: ma il loro modo di combattere non prevedeva certo un nemico che, come l’acqua che scorre, sapeva evitare i pieni e attaccare i vuoti. La battaglia fu decisa dall’intelligenza tattica di Surena, che era evidentemente a conoscenza del modo di combattere dei romani. Così, anziché attaccare subito la legione con i catafratti, il comandante partico decise di continuare a stancare il nemico con gli arcieri leggeri, e di ordinare la carica dei catafratti solo al momento opportuno. John Keegan ha osservato giustamente che le legioni sono descritte dalla storiografia romana in modo stereotipato, come una formazione «monumentale, marmorea, quasi monolitica»25. Tuttavia, se volessimo studiare Carre alla luce dell’approccio al vissuto delle battaglie introdotto da Keegan (influenzato a sua volta dallo stratega ottocentesco Charles Ardant du Picq), dovremmo concludere che il 9 giugno 53 si svolse uno scontro di cavalleria contro fanteria26. Ma, come abbiamo visto, la realtà era più complessa e lo scontro più articolato, e l’aspetto da evidenziare non è tanto quello dell’ordine di battaglia, impossibile da ricostruire, quanto quello della tattica di Surena, comandante capace di irreggimentare l’irruenza ‘barbarica’ dei suoi cavalieri grazie a una genialità degna di uno stratega cinese.

La fine La notte seguente trascorse all’insegna della confusione. I parti si sarebbero ritirati, poiché, almeno secondo Cassio Dione, non erano abituati al combattimento notturno27. Lasciavano un Crasso sconvolto dal dolore, isolato in un ango-

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lo dell’accampamento. Le tensioni erano evidenti: il questore Cassio e il legato Ottavio non erano riusciti a smuovere il comandante dal suo stato di prostrazione, e decisero di ricorrere a una misura straordinaria, convocando a consiglio anche i sottufficiali, centurioni e «capireparto» (Plutarco forse distingue i primipili dai semplici centurioni). Questo consiglio straordinario ordinò la ritirata. Il prefetto Egnazio, alla testa di trecento cavalieri, annunciò alla guarnigione di Carre l’esito della battaglia, poi cominciò a ritirarsi verso l’Eufrate. Allora Coponio, il comandante della guarnigione, uscì a recuperare il grosso degli scampati. Intanto il legato Vargunteio, con duemila uomini, si era smarrito nella notte. Il suo contingente fu circondato dai parti su una collina e massacrato: solo una ventina di uomini riuscirono a rientrare a Carre. Almeno secondo Cassio Dione, Abgar di Osroene fece un rapido voltafaccia e prese ad accanirsi contro quelli che fino a poc’anzi erano stati i suoi alleati28. I parti invasero l’accampamento, mentre Surena, ormai su posizioni sicure, prese ad assediare Carre29. L’11 giugno, Surena si presentò davanti alle mura della città per incontrare il nemico e proporgli un armistizio in cambio della consegna di Crasso e Cassio, ma i romani avevano deciso di evacuare la città nottetempo. Un notabile di Carre, il greco Andromaco, si era offerto di guidarli verso la salvezza, ma in realtà si era già messo d’accordo con i parti, e guidò gli scampati verso terreni difficili, paludosi e accidentati30. Intanto, l’esercito romano cominciava a dividersi: il questore Cassio, con cinquecento cavalieri, tornò a Carre e di lì partì immediatamente per la Siria, incurante delle guide che gli sconsigliavano di partire: la Luna, essi dicevano, era entrata nel segno dello Scorpione31. In altre parole, dopo Egnazio anche Cassio abbandonava il suo comandante. Un altro gruppo di

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cinquemila uomini, capeggiati dal legato Ottavio, si dirigeva verso l’Armenia, ma i nemici li raggiunsero all’altezza delle colline di Sinnaka. Verso l’alba, Crasso continuava a seguire Andromaco, marciando con quattro coorti e pochi cavalieri. Bloccato dalle asperità del paesaggio e dalla palude, fu infine sorpreso dai nemici su una collina a dodici stadi da Sinnaka. Il 15 giugno, Crasso tentò anch’egli la fuga con un gruppo ristretto di soldati. In qualità di magistrato con imperium, lo accompagnavano cinque littori (gli altri sei erano evidentemente caduti in battaglia), un drappello di cavalieri e quattro coorti. Anche lui, come Ottavio, si dirigeva verso i monti di Sinnaka. I parti dovevano fermarlo prima che raggiungesse gli altipiani dell’Armenia: Surena e i suoi cavalieri corsero all’inseguimento, giungendo rapidamente alle spalle del comandante, che non aveva perso di vista gli uomini di Ottavio. Questi, dapprima con un drappello di cavalieri, poi con tutti i suoi uomini, tornò indietro per far quadrato intorno a Crasso. A tre giorni dal primo disastro si riaccese lo scontro, e questa volta i romani sembrarono ottenere un certo vantaggio. Fu allora che Surena decise di parlamentare, inviando due «mezzi greci» per proporre un negoziato e impegnandosi a rispettare le regole diplomatiche. Non è detto che questi inviati, di cui ignoriamo il grado, conoscessero il greco, come del resto Surena. Quindi è probabile che degli ausiliari, o dei cittadini di Carre, svolsero la funzione di interpreti. Crasso, temendo l’inganno, non era disposto al negoziato, e furono i suoi uomini a reclamarlo. La strada per l’Armenia, che al principio era sembrata il percorso più adeguato per concludere l’‘anabasi’ romana, sembrava ora una pericolosa incognita, dal momento che vi si trovava l’armata del re Orode. A un certo punto, spinti dal malcontento delle truppe, Petronio e Ottavio decisero di abbandonare il loro comandan-

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te. Questi, ammettendo la difficoltà della situazione, non ebbe altra scelta che quella di accettare le condizioni di Surena. Mentre si allontanava disse: «Ottavio e Petronio, e voialtri ufficiali romani, vedete quale via sono costretto a prendere, e potete comprendere le atroci indegnità che subisco. Quando sarete in salvo, dite a tutti gli altri uomini che Crasso è morto per l’inganno del nemico, e non per l’abbandono da parte dei suoi concittadini»32. Consapevole di una morte imminente, il comandante aveva voluto formulare le ultime parole che avrebbero dovuto assolverlo di fronte al tribunale della storia. Ma forse, in quest’ultima frase-testamento, egli lasciava intravedere non solo l’amarezza dell’inganno, ma anche lo sgomento dell’abbandono, da parte degli alleati e, quel che è peggio, dei suoi concittadini. Dopo aver inviato a parlamentare i due fratelli Roscii, Crasso si apprestò a incontrare Surena, avanzando a piedi. Quando i due furono a confronto, Surena propose di suggellare un trattato di pace sulle rive dell’Eufrate, e si preoccupò che anche il comandante nemico avesse un cavallo del suo rango, con un morso d’oro. A questo punto non si riesce a capire bene l’accaduto: i palafrenieri partici misero Crasso sul cavallo, incitandolo con un colpo di frusta. Fu allora che Ottavio reagì, prese la spada di un parto e uccise uno degli scudieri, mentre Petronio, gettatosi nella mischia, venne neutralizzato e ferito. Ne risultò una scaramuccia disordinata, nella quale il comandante trovò la morte33. Le strane circostanze della morte di Crasso furono addebitate alla perfidia dei parti, «razza quanto mai inaffidabile»34. Il resto della truppa romana si disperse, ma fu inseguito dai cavalieri arabi. Il bilancio della battaglia fu catastrofico: sui circa quarantamila legionari attestati da Plutarco, ventimila caddero sul campo e solo diecimila, organizzati in due

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legioni, sopravvissero35. È probabile che gran parte dei sopravvissuti non avesse partecipato alla battaglia, ma facesse parte delle guarnigioni stanziate in Mesopotamia.

Il corpo del comandante Che fine fece il corpo di Crasso? Ovidio allude vagamente a una sepoltura di padre e figlio, ma secondo molti altri autori i loro cadaveri erano stati abbandonati alla mercé degli animali36. Secondo Valerio Massimo, il corpo del comandante fu «lasciato sul posto, in mezzo ai morti ammucchiati alla rinfusa, perché gli uccelli e gli animali selvatici lo dilaniassero». Lo storico aggiunge subito dopo: «Avrei voluto [esprimermi] in modo più gradevole, ma quanto riferisco è la verità»37. In effetti, all’epoca circolavano strane dicerie sul nemico orientale. Da secoli, i popoli dell’Iran e dell’Asia centrale erano accusati delle peggiori forme di barbarie: a maggior ragione i parti, considerati discendenti degli sciti. In realtà, il trattamento delle spoglie del comandante e di suo figlio non è necessariamente un indizio di depravazione barbarica, ma al contrario rappresenta un aspetto importante dei riti funerari tuttora in uso presso gli zoroastriani38. Di fatto, la religione mazdea vietava l’inumazione dei morti. Le prescrizioni in materia sono note dal trattato religioso noto come Vid™vdπd: per evitare la contaminazione con carni impure, le spoglie dovevano essere purificate in una zona isolata, esponendole agli elementi e ad animali come cani e avvoltoi. Solo a questo punto, una volta che le ossa erano state liberate, si potevano raccogliere e conservare in uno spazio sacro, esposte alla luce ma protette dalla pioggia e dagli animali39. Le ossa venivano deposte nei dakhma, ambienti sca-

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vati nella roccia dalla diversa tipologia, da semplici nicchie o sarcofagi fino a veri e propri monumenti funerari in forma di edicola o pilastro40. È più difficile identificare i luoghi dedicati all’esposizione delle salme, ma in compenso conosciamo bene quelli utilizzati ancor oggi dai parsi, gli zoroastriani dell’India, noti come «Torri del Silenzio». Paolo Mantegazza, saggista di successo nell’Italia di fine Ottocento, ci dà un’idea dell’effetto che provocavano in un osservatore occidentale: «Nell’interno una piattaforma che non si può vedere dal di fuori è divisa in tre zone concentriche con un pozzo nel mezzo [...] È là che si depongono i cadaveri affatto nudi, gli uni accanto agli altri. Appena uno di essi è messo nella Torre, i mille avvoltoj e corvi che stanno sugli alberi vicini, vi si precipitano, e in meno di un’ora lo riducono in scheletro, che poi il sole e la pioggia imbiancano. Quando non rimangono più che le ossa, i sacerdoti con pinze e guanti le precipitano nel pozzo, dove si dice che le ceneri vanno al mare trascinate dalle piogge e dalle correnti sotterranee»41. Gli antichi conoscevano bene quest’uso iranico almeno dai tempi di Erodoto, che lo attribuiva ai soli Magi, seguito in questo da Cicerone42. Pompeo Trogo/Giustino dice espressamente che i parti esponevano i morti agli uccelli e ai cani, per seppellire in seguito le ossa spolpate43. I romani erano quindi a conoscenza di questi riti, e ritenevano che il trattamento fosse stato riservato anche al comandante e a Publio. L’orrore per questo tipo di riti funerari è chiaramente comprensibile. Un contemporaneo di Mantegazza, l’indianista Angelo De Gubernatis, non nascondeva il raccapriccio per questo rituale: «La cerimonia era semplice e grave. Ma una madre nostra non reggerebbe di certo all’idea di abbandonare le spoglie della sua creatura allo strazio certo che ne

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faranno in breve i sordidi corvi ed avvoltoi; ciò che si consuma nelle fiamme va bensì perduto; ma il freddo orrore della morte non vi fa almeno schifo; il pensare invece che una parte del vostro sangue, delle vostre carni, che le vostre forme predilette vanno a perdersi ignobilmente nelle fauci voraci d’animali ingordi che verranno poco dopo a digerire il pasto infame sul tetto stesso della vostra dimora, ripugna talmente a tutti i nostri sentimenti morali ed estetici che mi meraviglio grandemente della tenacità con la quale gli odierni Parsi tanto ingentiliti custodiscono la loro usanza...»44. La medesima repulsione aveva origini antiche. Fin dai poemi omerici, la prospettiva di un cadavere insepolto e divorato dagli animali era considerata come un oltraggio estremo45. Se la voce che correva a Roma era effettivamente giustificata, potremmo quindi concludere che il pio Surena aveva riservato adeguate cure funerarie ai cadaveri di Crasso padre e figlio. Il problema resta però aperto, vista la scarsità di dati oggettivi sullo zoroastrismo in età partica46. Comunque, una profanazione dei corpi era già avvenuta. Publio era stato decapitato, e lo stesso trattamento fu riservato al padre. Plutarco ricorda infatti che l’uccisore di Crasso gli recise la testa e la mano destra, che poi Surena inviò al re Orode. Le teste degli altri ufficiali vennero affisse sulle mura di Seleucia o Ctesifonte47. L’antico rituale della decapitazione risaliva alle origini ‘scitiche’ dei parti. In effetti, secondo Erodoto, «(lo scita) reca al re le teste degli uomini che uccida in battaglia, e quando riporta una testa può partecipare alla spartizione del bottino, altrimenti no»48. Se la decapitazione del nemico era d’uso comune presso molti popoli dell’antichità, romani compresi, è più interessante soffermarsi sul taglio della mano destra. Questa pratica è di uso più circoscritto, e si ritrova ad esempio nell’Egitto del secondo mil-

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lennio; casi analoghi di amputazione della mano sono attestati per l’Assiria del IX secolo a.C.49. Nella tradizione indoeuropea, il re era tenuto a mantenersi integro nel corpo, e a maggior ragione doveva conservare la mano destra, simbolo del suo potere50. Gli antropologi hanno osservato come in numerose società antiche la mutilazione del cadavere rappresentava una sorta di eliminazione dell’integrità del corpo, poiché limitava le attività del morto nell’Aldilà51; Erodoto, e le leggende degli osseti studiate da Georges Dumézil, confermano che questa credenza era diffusa anche presso gli antichi sciti, che mutilavano per vendetta il corpo del nemico ucciso recidendogli il braccio destro, per evitare in tal modo che il morto, qualora tornasse per vendicarsi a sua volta, fosse in grado di nuocere al suo uccisore52. I particolari più interessanti si riferiscono alla sorte della testa di Crasso. Secondo una tradizione accolta da Floro, nella bocca dell’avido comandante sarebbe stato versato dell’oro fuso, per saziarne la sete di ricchezza53. Questo trattamento era già stato riservato vari anni prima a un altro comandante romano, Manio Aquilio, ai tempi della prima guerra mitridatica54. Lo strano rituale è stato messo in relazione con un aneddoto di Erodoto relativo alla morte di Ciro il Grande (530 a.C.). Secondo questa particolare versione, il re sarebbe stato ucciso in battaglia dai massàgeti, la cui regina Tomyris voleva vendicare la morte del figlio. Trovato il cadavere di Ciro, lo fece decapitare e ne immerse la testa in un otre di sangue umano, saziando in tal modo la sete di sangue del suo nemico55. Forse, però, la spiegazione va ricercata altrove. Sappiamo infatti che i persiani, per determinare se un accusato dicesse o meno la verità, praticavano varie forme di ordalia: una di esse consisteva nel versare sul corpo del metallo fuso. Questa pratica attuata sui vivi sembra essere stata valida, al-

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meno simbolicamente, anche per i morti. Infatti, gli zoroastriani immaginavano che, nel giorno del giudizio, un fiume di metallo fuso avrebbe travolto i corpi degli uomini resuscitati per mondarne i peccati: «il metallo darà alla persona veritiera l’impressione di camminare nel latte caldo, mentre al mentitore, il medesimo metallo darà l’impressione di camminare nel metallo fuso»56. Comunque sia, la testa di Crasso fu consegnata a Silace perché la portasse a Orode57. Questi, dopo la notizia della disfatta romana, aveva prontamente stretto un’alleanza con Artawazd. I due re celebravano le nozze della sorella del monarca armeno con Pacoro, figlio del re partico. Il banchetto si teneva nella reggia di Artawazd: anche se Plutarco non lo indica, dovevano trovarsi nella capitale di Artaxata (il sito si trova nell’attuale Repubblica di Armenia). Finito il pasto, alle famiglie reali e ai cortigiani furono presentati degli «akousmata venuti dalla Grecia», ovvero dei brani poetici e musicali del repertorio classico, eseguiti da attori professionisti di Grecia o d’Asia minore. Quasi a immaginare la reazione stupita del lettore, Plutarco precisa che Orode conosceva bene il greco, mentre il re armeno era addirittura un cultore delle lettere elleniche e componeva opere in questa lingua58. Un attore originario della Caria, Giàsone di Tralles, stava recitando la parte di Agave nelle Baccanti di Euripide, accompagnato dal coro59. Diventata menade e accecata dal delirio dionisiaco, la madre del re di Atene Pènteo non aveva esitato a decapitarlo come se avesse ucciso una fiera: tutto l’orrore tragico si concentrava in questa scena. Proprio in quel momento Silace entrò nella sala, mostrando agli astanti la testa di Crasso. Con macabra presenza di spirito, l’attore se ne impadronì, affidò a uno dei coreuti la maschera che rappresentava la testa di Pènteo, e riprese il suo canto tra l’entusiasmo generale. A un certo mo-

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mento, alla richiesta del coro «chi lo uccise?», Giàsone/Agave rispose «mio è l’onore», suscitando la reazione risentita del parto che aveva effettivamente ucciso il comandante, e che aveva quindi diritto a una giusta ricompensa60. Questi, a sua volta, si impossessò del trofeo, e venne premiato da Orode. La presenza di teatro greco in Armenia non deve stupire61. Tigran, il padre di Artawazd, nella sua capitale di Tigranakert aveva fatto costruire un vero e proprio teatro, destinato certamente ad accogliere spettacoli più elaborati. Quando Lucullo, nel 69, aveva espugnato la città, vi aveva trovato numerosi attori greci, che il re aveva radunato «da ogni parte»62. Per il banchetto nuziale di Artaxata la messinscena era più semplice, in quanto i nobili parti e armeni a banchetto assistevano a semplici estratti di teatro recitati e cantati. Plutarco menziona un solo attore, a cui va aggiunto un certo numero di coreuti, non necessariamente i dodici o quindici previsti. Queste esibizioni erano forse alternate ai tradizionali canti dei g≥sπn, i bardi locali, che intervenivano ai banchetti reali, come sappiamo dal poema V∞s ∂ Rπm∞n. Il g≥sπn, come osserva un testo manicheo in lingua partica, «proclama il valore dei re e degli antichi eroi»63. Queste composizioni univano musica e poesia, e spesso si rivolgevano ai re con allegorie politiche, esattamente come gli akousmata di tradizione greca presentati al banchetto di Artaxata, dove la tragedia di Pènteo era particolarmente appropriata per celebrare la sconfitta romana di Carre.

I prigionieri e le insegne perdute Una parte del contingente di Crasso era riuscita a scampare «attraverso i monti, là dove si trovavano degli amici», mentre un altro contingente, al comando di Cassio, era riu-

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scito a raggiungere la Siria. Ma un gran numero di prigionieri fu catturato dai parti. Numerosi feriti, raccolti sul campo di battaglia, morirono di sfinimento o per mancanza di cure64. Altri, però, sopravvissero, e furono condotti a Seleucia, dove furono costretti a sfilare, scherniti dalla popolazione, in una sorta di parodia del trionfo romano. Il posto d’onore spettò a Pacciano, il sosia di Crasso, che per l’occasione fu vestito da donna: la cerimonia sembra ricordare analoghe celebrazioni folkloriche, tipiche del Carnevale europeo65. La sorte dei prigionieri sopravvissuti al massacro è in gran parte avvolta nel mistero, ma nel 23 a.C. (a trent’anni dalla battaglia, quando i superstiti avevano ormai raggiunto un’età matura) il poeta Orazio poteva ancora rievocarne le disgrazie, mostrando tuttavia ben poca pietas per la sorte dei suoi concittadini. In una delle «odi romane», destinata a rafforzare il sentimento patriottico dell’ordine augusteo sorto dalle ceneri delle guerre civili, egli denunciò la «rovina» arrecata alla patria dalla situazione scandalosa creata dai prigionieri che si erano comportati da veri e propri disertori: Se il Campidoglio e l’Urbe erano intatti come ha potuto il soldato di Crasso, venuto dall’Apulia e dalla Marsica, vivere senza onore, con una barbara consorte (o sovvertiti costumi di degno Senato!) e invecchiare combattendo per i suoceri, agli ordini di un re persiano, dimentico dei sacri scudi di Marte, del popolo romano, della toga e del fuoco eterno di Vesta?66

Questi versi sembrano implicare un comportamento indegno da parte dei prigionieri, che avrebbero abbandonato

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la toga per rivestire abiti orientali: un’accusa implicita di tradimento, non dissimile da quella riservata da Stalin dopo il 1945 ai soldati dell’Armata Rossa ‘colpevoli’ di essere stati presi prigionieri dal nemico. D’altra parte, il richiamo ai combattenti marsi e apuli permetteva a Orazio, originario della Lucania, di alludere implicitamente al valore dei suoi conterranei. Infatti i lucani, che avevano formato una parte del contingente di Crasso, erano tutti morti nello scontro. Anche in questo caso, il massacro sarebbe stato preannunciato: l’anno precedente, la Lucania era stata flagellata da una pioggia torrenziale, talmente fitta da far pensare a una caduta di «spugne di ferro»67. Nessun lucano, quindi, sarebbe stato preso prigioniero, deportato in qualche località dell’impero partico e ‘costretto’ a rifarsi una famiglia in terra straniera. Ridotti a uno stato di servaggio, i prigionieri furono impiegati in varie mansioni. Plinio il Vecchio ricorda che Orode prese i superstiti della «sconfitta crassiana» e li deportò nella lontana Alessandria di Margiana, oggi Merv nel Turkmenistan68. La deportazione dei prigionieri era un uso già praticato nell’impero achemenide, e la scelta del luogo non era casuale: i legionari venivano condotti all’estremo opposto dell’impero, in modo da scoraggiare eventuali tentativi di fuga. Inoltre, si poteva sfruttare l’esperienza militare e tecnica dei romani in una piazzaforte situata alla frontiera orientale dell’impero partico, di grande importanza strategica per il controllo dei commerci verso la Cina e per la difesa dalle incursioni dei nomadi69. Secondo la suggestiva ipotesi del sinologo Homer Dubs, alcuni prigionieri di Carre sarebbero stati impiegati come mercenari in Cina70. In effetti, fonti cinesi narrano le operazioni militari intraprese in reazione alle invasioni unniche. Uno dei capi nemici aveva costruito una residenza fortificata presso il

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fiume Du-Lai, in Asia centrale. Nell’autunno del 36 a.C., i cinesi attaccarono la città. Per difendere le mura, gli unni avevano allestito davanti alla porta una doppia palizzata in legno, difesa da oltre cento soldati schierati «in formazione a spina di pesce» (yü-li-qen). Questo tipo di tattica era inusuale sia per i cinesi che per i nomadi, e in effetti l’unico paragone possibile è quello con la «testuggine» romana e con le pratiche analoghe adottate dai legionari di fronte a un attacco di arcieri a cavallo. Con una buona dose di immaginazione, Dubs ha ritenuto che i soldati del manipolo fossero stati risparmiati a Carre e deportati nella città di Li Qian (presso l’attuale villaggio di Zhelaizhai, nella regione di Gansu), la cui esistenza è nota a partire dal 5 d.C. Li Qian è una storpiatura di «Alessandria», toponimo che avrebbe indicato anche Roma (qualcuno ha pensato addirittura a una variante cinese del latino legio, «legione», ma l’ipotesi è del tutto fantasiosa)71. Effettivamente, sono state osservate delle caratteristiche somatiche di tipo occidentale presso la popolazione del distretto, in particolare a Zhelaizhai. Recenti indagini di genetisti cinesi sembrano sconfessare questa teoria, e del resto l’ipotesi di Dubs è stata accolta con scetticismo dai suoi colleghi72. Tuttavia, a prescindere da un’effettiva eredità genetica «romana» in questa regione di frontiera dell’antico impero cinese, non è da escludere che le cognizioni tecniche dei romani venissero utilizzate con profitto anche in queste regioni. Del resto, in Galazia e in Armenia alcune unità di soldati venivano armate «alla romana», forse con l’aiuto di ex ausiliari o di militari di stanza nelle guarnigioni lasciate a garanzia dell’alleanza73. Nel frattempo, a Zhelaizhai è stato eretto un monumento in stile romano per commemorare le origini del sito. Non tutti i prigionieri avevano avuto la stessa sorte. Alcuni sopravvissuti riuscirono forse a tornare in patria nel 20

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a.C., quando i parti si accordarono con Augusto per restituire i superstiti74. Peraltro, non sappiamo quanti reduci di Carre componessero il gruppo, in cui si trovavano anche i prigionieri delle campagne più recenti di Decidio Saxa (40 a.C.) e di Marco Antonio (36 a.C.). Cassio Dione aggiunge un particolare interessante: alcuni di essi non erano stati riconsegnati in quanto «si erano nascosti nelle campagne, e lì erano rimasti»75. In altre parole, erano riusciti a darsi alla macchia, scomparendo nell’immensità dell’impero partico. Evidentemente, quello dei fuggitivi era un problema ricorrente per i parti. Che fine avevano fatto? Forse possiamo rintracciarne almeno uno. Ai tempi della spedizione di Antonio, quando il triumviro «aveva già perduto non meno di un quarto dei suoi effettivi, egli fu salvato dal leale suggerimento di un prigioniero, che era però romano; questi era stato catturato al tempo della disfatta di Crasso, ma la sua sorte non ne aveva mutato l’animo. Nottetempo, si avvicinò al posto di guardia romano, affinché non si dirigessero lungo l’itinerario previsto, ma attraversassero un percorso alternativo tra i boschi. Fu la salvezza di Marco Antonio e di tutte quelle legioni»76. Questo prigioniero era veramente un reduce di Carre? Così racconta il romano Velleio Patercolo. Invece, secondo Plutarco, il salvatore di Marco Antonio sarebbe stato un ausiliare dell’etnia dei mardi, montanari nomadi della Media77. A mio parere, quella di Plutarco è una lectio facilior: in fondo, nelle montagne della Media era ben più naturale trovare dei mardi che dei romani. Ma, in realtà, queste zone di montagna erano familiari anche ai legionari italici scampati a Carre. Molti di loro, come indica Orazio, erano per l’appunto dei marsi, nati fra i monti boscosi dell’Abruzzo78. Non è escluso che questi esperti soldati, sfuggiti alla cattività, avessero po-

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tuto ambientarsi, apprendere i rudimenti della parlata locale (in un impero multietnico, la lingua costituiva un problema minore) e vivere di pastorizia e brigantaggio, o guidando mercanti e viaggiatori per queste montagne. In una grotta del territorio di Avroman, nel Kurdistan iraniano, sono state ritrovate delle pergamene, custodite in un vaso (il documento più recente risale al 53 d.C.). Questi documenti, redatti in greco e in partico, contenevano dei contratti agrari. Forse il proprietario li aveva lasciati in un rifugio sicuro, e non era riuscito a recuperarli a causa di un attacco di briganti, marsi o mardi che fossero79. Surena consacrò nel tempio di Anπhitπ, a Ctesifonte, ben sette ‘aquile’80. Le aquile erano le insegne militari romane più importanti, e si accompagnavano a un complesso sistema in cui ogni unità della legione possedeva un proprio emblema distintivo. Le insegne avevano la funzione pratica di indicare ai legionari il proprio posto nella schiera. Nel gergo militare latino vi erano numerose espressioni tecniche o colloquiali caratterizzate dal riferimento ai signa: ad esempio movere signa, «spostare le insegne», significava «levare le tende». A sua volta, ciascuna centuria che componeva la legione era provvista di un proprio signum, che permetteva ai soldati di coordinarsi e costituiva anche una sorta di spirito tutelare (genius) dell’unità. Il «genio» della legione era rappresentato dall’aquila legionaria, un’insegna con l’asta sormontata dall’effigie argentea di un’aquila. Una piccola aquila bronzea databile all’epoca della battaglia è stata acquistata sul mercato antiquario siriano alla fine dell’Ottocento, ma è difficile che si riferisca a una delle sette insegne catturate dai parti, ed è più probabile che sormontasse un vessillo di minore importanza; in effetti, le aquile legionarie erano in argento e non in bronzo81.

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Ma le insegne avevano anche una funzione religiosa della massima rilevanza. Secondo Plinio, i signa erano sacri come gli stessi simulacri degli dèi. Quando i legionari piantavano le tende, le insegne venivano custodite in un apposito spazio di culto; durante le festività, venivano cosparse di unguenti e profumi82. Nel sistema di valori dell’esercito romano, la perdita di un’insegna legionaria costituiva un estremo disonore (pudor). Ora, come ricorda Ovidio, il nuovo custode delle insegne era un guerriero partico83. Del resto, impadronendosi delle aquile romane – e consacrandole ad Anπhitπ, nota anche come divinità guerriera – Surena non faceva altro che appropriarsi di un simbolo di vittoria ben noto al mondo iranico: basti pensare all’aquila d’oro posta in cima a una lancia, che almeno a partire dai tempi di Senofonte era il simbolo del potere dei re achemenidi, diffuso anche presso parti, armeni e Sasanidi84. Non è escluso che Surena vedesse nelle aquile romane qualcosa di ben più familiare per lui: l’uccello mitico con zampe a tre artigli, detto S™nmurw, che secondo la tradizione iranica aveva allevato Zπl, il padre dell’eroe centroasiatico Rostam85.

Le ripercussioni politiche e militari Fino alla battaglia, i romani avevano sottovalutato la potenza dei parti. Da questo momento, almeno per gli autori più sensibili ai problemi politici orientali, si ammise la presenza di due grandi potenze contrapposte. Per giustificare la propria campagna, Crasso aveva insistito sulla mollezza effeminata del nemico orientale: ora si affermava un’immagine opposta, quella del parto barbaro e feroce86. I romani sapevano bene che il principale ‘effetto collate-

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rale’ della morte di Crasso non era tanto il disonore per la sconfitta, quanto la perdita dell’equilibrio politico della tarda Repubblica, che di lì a poco avrebbe scatenato la guerra civile tra Cesare e Pompeo. La fine del comandante aveva mutato l’equilibrio del cosiddetto triumvirato e precipitato la corsa dei due contendenti superstiti per ottenere il potere supremo87. I moderni condivisero questo giudizio, come ad esempio Jacques-Bénigne Bossuet nel Discours sur l’histoire universelle (1681), una sintesi storica che raccoglieva le lezioni da lui impartite al Delfino di Francia. Ma il giudizio fu ribadito anche in seguito, e consolidato da gran parte degli studi di storia romana. Intanto, con l’appoggio di Abgar e dei signori della guerra arabi, Surena occupò nuovamente la Mesopotamia occidentale. Orode si trovava in Armenia, e un attacco in territorio romano non era attualmente in programma, almeno senza un ordine diretto del re. Comunque, per il momento la politica dei parti non prevedeva eventuali passaggi oltre Eufrate. La regione di Carre fu ricondotta sotto il loro controllo, e il traditore Andromaco fu nominato governatore della città, ma la sua condotta crudele e violenta fece scoppiare una rivolta e i concittadini lo diedero alle fiamme con tutti i suoi familiari88. Cassio era riuscito a raggiungere la provincia di Siria, dove assunse le funzioni di governatore, riempiendo il vuoto lasciato da Crasso. In qualità di questore, teoricamente non avrebbe potuto aspirare a una provincia che, a partire da Gabinio, andava assegnata a un senatore di rango consolare. Tuttavia, egli riuscì a sfruttare al meglio la situazione di emergenza, creando una buona immagine di sé nonostante la sconfitta e la fuga. Egli avrebbe rifiutato l’invito dei soldati a prendere il comando e, grazie a una serie di beaux gestes (for-

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se amplificati dalla sua stessa propaganda), riuscì ad acquisire una certa notorietà. Rimase per tre anni in Siria, fronteggiando i parti che continuavano ad attaccare la frontiera, e nel 51 si spinsero fino alla periferia di Antiochia. I suoi detrattori osservavano però che la minaccia «partica» consisteva soprattutto in razzie da parte delle tribù arabe89. Abbiamo già visto il macabro trattamento della testa di Crasso alla corte armena. Come si è detto, la posizione di Artawazd corrispondeva a un ruolo già teorizzato, forse proprio in quegli anni, dall’Arthas´πstra. Tra i vari tipi di accordi di pace, l’indiano Kaut˝il∞ya menziona il «trattato aureo», che prevedeva l’invio di una somma ragionevole di denaro ed eventualmente un’alleanza matrimoniale90. Parallelamente, Artawazd aveva promesso un’altra delle sue figlie al galata Deiòtaro, il fedele alleato di Roma, mostrando ancora una volta il carattere «mediano» della sua politica91. La storia dei regni ellenistici abbonda di simili esempi, e gli stessi parti, pur professando una religione in cui l’individuo era tenuto a dire la verità e rispettare i patti, nella realtà si comportavano diversamente. Gli armeni svilupparono una particolare versione dei fatti, con una curiosa variante della morte di Crasso. Mosè di Khoren, autore di una Storia d’Armenia scritta nel V secolo, rielabora gli eventi in una narrazione che rifonde nozioni storiche attendibili, attinte a Flavio Giuseppe, ma adattandole a un modello centrato sulla regalità armena. Mosè, che osserva la situazione politica dal punto di vista del suo popolo, analizza l’intervento romano come una serie di campagne consecutive, da Pompeo a Marco Antonio. Crasso appare qui come il nuovo emissario di Roma, inviato a sostituire Gabinio che aveva preferito cambiare fronte dopo aver concluso accordi segreti con Tigran. Per questa ragione, i romani lo avrebbero destituito e sostituito con Crasso. «Questi, passa-

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to l’Eufrate, viene massacrato con tutto l’esercito in una battaglia con Tigran. Tigran, raccolti i propri tesori, ritorna in Armenia». Lo storico armeno ha preferito attribuire l’onore di aver annientato Crasso a un grande re come Tigran piuttosto che a suo figlio Artawazd, che altrove critica per le abitudini lussuriose e, in generale, per le scarse qualità92. Al di là di questo anacronismo, il passo della Storia dell’Armenia potrebbe già riferirsi a una tradizione più antica, forse non contemporanea agli eventi, ma risalente almeno alle gesta dei re arsacidi di Armenia, che furono raccolte a partire dalla seconda metà del I secolo d.C. Intanto, i romani cercavano di riprendersi da una sconfitta gravissima quanto inaspettata. Ammirato dai greci per la sua versatilità e per la capacità di acquisire nuove tecniche dal contatto con i nemici, questa volta l’esercito di Roma era stato battuto da un avversario imprevedibile. In una lettera scritta nel febbraio dell’anno 50, Cicerone cerca di fare dell’umorismo, spiegando che l’allestimento di una squadra di navi veloci sarebbe stato il solo armamento efficace contro la cavalleria partica93. Egli aveva appena concluso il suo proconsolato in Cilicia, dove in ogni momento aveva temuto un attacco dei parti contro le province romane. Nella stessa lettera, Cicerone ricorda non solo di aver letto tutta la Ciropedia di Senofonte, fino a consumarne il manoscritto, ma anche di averla messa in pratica nella gestione della sua provincia. Come è noto, in questa singolare opera Senofonte eleva a modello ideale di governante nientemeno che Ciro il Grande, fondatore della dinastia achemenide. La Ciropedia è una miniera di informazioni sul mondo iranico, ma questo a Cicerone interessava meno: qualche anno prima, aveva dichiarato di considerare il trattato di Senofonte, come già aveva fatto Scipione Africano, come un testo di rife-

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rimento e un manuale di buongoverno, al di là della sua veridicità storica94. Molti indizi sembrerebbero evidenziare i limiti dei romani sul controllo strategico del territorio: è stato anche detto che «la caratteristica principale della Roma repubblicana era l’ignoranza, e non la conoscenza del mondo che tentava di conquistare»95. In effetti, a una settantina d’anni dal disastro, nella sezione introduttiva della sua Geografia Strabone elencava una serie di battaglie il cui esito era stato determinato dal grado di padronanza dello spazio geografico, dall’età omerica fino alle Termopili, alludendo poi a esempi più attuali quali la «recente campagna contro i parti» e il disastro patito contro i germani a Teutoburgo, nel 9 d.C.96. Strabone pensava forse anche alla più recente sconfitta di Marco Antonio, e proponeva la sua opera geografica come un’utile guida per i comandanti. Secondo il geografo, l’errore di Crasso non era stato di ordine tattico, bensì di imperizia in materia di geografia, che costringeva i generali a servirsi dei consigli di alleati poco affidabili, se non addirittura a dover scegliere, come Crasso, tra i consigli discordanti di due diversi alleati. Se vogliamo utilizzare la terminologia di S∂nzıˇ, il comandante romano sembrerebbe aver trascurato la valutazione dei vari tipi di «terreni», i nove jiudi che dettavano allo stratega «la regola delle azioni di guerra»97. Ma la sconfitta di Carre si doveva solo a un errore di valutazione del nemico o dei luoghi? E fino a che punto il mondo iranico rappresentava un’incognita per i romani, al di là dei filtri ideologici di matrice greca? È improbabile che un comandante navigato come Crasso decidesse di investire fatica e denaro senza una preparazione adeguata. E, soprattutto, è un errore pensare che i generali romani adottassero alla lettera i modelli etici e culturali proposti dalle loro dot-

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te letture. L’exemplum di Alessandro Magno, o anche quello di Senofonte, erano dei modelli più letterari che realistici. I costumi barbarici dei parti, riportati da autori come Posidonio, si limitavano a descrizioni vaghe quanto distorte. Sul piano tecnico, la realtà era ben diversa, anche se l’apparato ideologico dei romani è talmente convincente da indurre lo storico d’oggi a credere che i loro comandanti fossero effettivamente modellati da una cultura basata su cliché letterari98. Bisogna oltretutto chiedersi se la battaglia si svolse effettivamente come è stata raccontata, ovvero se il contrasto fra i ‘quadrati’ legionari e l’elasticità della cavalleria partica – una sorta di Azincourt ante litteram – non sia stato volutamente esagerato dalle fonti romane. Quel che è certo è che lo scontro presentava un modo di combattere inusuale, almeno per il mondo classico: sulla pianura di Carre sarebbero venuti a conflitto due eserciti del tutto diversi per armamento e formazione99. Si è detto che il modo di combattere degli uomini di Surena ricorda «una banda di ragazzi fuorviati, senza fede né legge, che praticavano una guerra di folgoranti colpi di mano, logorando la preda fino alla morte, per perdersi subito dopo nell’immensità delle distese desertiche». Questo giudizio di un moderno studioso non è dissimile da quello formulato a suo tempo da Machiavelli, secondo cui «la milizia de’ Parti era del tutto contraria a quella de’ Romani, perché i Parti militavano tutti a cavallo e, nel combattere, procedevano confusi e rotti; e era uno modo di combattere instabile e pieno di incertitudine»100. Si è anche pensato che questo modo di combattere fosse tipico del Männerbund, l’unione di guerrieri di antica tradizione indoeuropea che ha ispirato ideologie suggestive ma pericolose101. In effetti, i guerrieri germanici esaltati da una certa tradizione combattevano in modo apparentemente anar-

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chico, almeno in confronto alla rigida compostezza delle legioni. In realtà, le tecniche di guerriglia descritte da Plutarco non erano prerogativa dei soli cavalieri Sakπ, ma potevano ben attribuirsi anche agli alleati beduini di Arabia e Mesopotamia, guerrieri valorosi ma non esattamente ‘ariani’. Un’idea diffusa tra gli storici dell’antichità è che, dopo Carre, il modo di combattere dei romani sia cambiato. Di certo si dotarono di armi più efficaci, migliorando la qualità delle corazze e dei giavellotti per affrontare i catafratti. I generali appresero una grande lezione di tattica, che misero in pratica per difendersi dai parti, e probabilmente anche per ispirarsene. D’altronde, lo scambio di tecniche si verificò da entrambe le parti. A partire dal I secolo d.C., i cavalieri iranici vengono rappresentati con una sella ‘cornuta’ per cui si trovano confronti nella Gallia romanizzata102. Forse, la forma dei corredi dei cavalieri di Publio Crasso ha ispirato i nemici a modificare parte del loro equipaggiamento in favore di una sella più stabile, che sostituiva la semplice e tradizionale gualdrappa103. Con una delle sue brillanti intuizioni, Theodor Mommsen ha commentato la tattica dei parti a Carre: «L’irresistibile superiorità della fanteria romana nel combattimento ravvicinato sembra aver portato i nemici di Roma a opporre un combattimento a distanza con la cavalleria. Essi lo fecero indipendentemente l’uno dall’altro, ma nello stesso momento, in varie zone del mondo, e con analoghi successi. Cassivellauno vi era riuscito pienamente in Britannia, e Vercingetorige parzialmente in Gallia, mentre Mitridate aveva già tentato di farlo in certa misura. Anche il visir di Orode portò questo piano a esecuzione, ma in scala più ampia e completa»104. Mommsen evoca un’immagine suggestiva, con i popoli alle frontiere che reagivano alle aggressioni di Roma, guidati da capi eccezionali: il re del Ponto Mitri-

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date, il britanno Cassivellauno che aveva arrestato le ambizioni espansionistiche di Cesare, il gallo Vercingetorige, e soprattutto il parto Surena. In questa ottica, i barbari sembravano saper reagire anche sul piano tattico, obbligando Roma a mutare i propri schemi. La realtà storica mostra però che Carre rappresenta un episodio isolato. L’esercito romano non conobbe altre sconfitte così cocenti, se non quando il nemico era numericamente superiore; inoltre, la sconfitta di Crasso non mutò nella sostanza l’equilibrio fra le due potenze105. Inoltre, a partire da questo momento, i parti ingaggiarono raramente grandi scontri campali. In definitiva, nonostante l’esito della vittoria, la tattica di Surena non fu più riproposta. Quanto ai romani, essi continuarono a utilizzare le stesse tecniche militari, servendosi a tempo e a luogo della cavalleria ausiliaria, come del resto avevano sempre fatto. Insomma, la tentata invasione di Crasso si risolse in un pesante fallimento, ma questo non scoraggiò le mire dei romani, che dopo una breve battuta d’arresto ripresero regolarmente le ostilità106. Tuttavia, col passare del tempo, gli imperatori finirono per assimilare nuovi modelli per la propria immagine di guerriero, come Domiziano, che divenne un arciere provetto107. Pur restando greco-romano, l’impero cercava di sviluppare nuove strategie volte a comprendere meglio il linguaggio del nemico, anziché limitarsi a respingerlo con il consueto disprezzo antibarbarico. Nel trattato di interpretazione dei sogni di Artemidoro di Daldi, un greco d’Asia minore più o meno contemporaneo di Plutarco, leggiamo: «Sognare di leggere bene e correntemente una lingua barbara significa che ci si trasferirà in paesi e ambienti stranieri, e che ivi si compirà qualche atto insigne; invece, leggere male una lingua barbara indica che ci si troverà male in un paese straniero, oppure che

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ci si ammalerà e si cadrà in delirio, a causa della difficoltà di comprendere la lingua»108. Certo, in un impero segnato dal bilinguismo, l’idea di imparare un idioma barbaro era relegata al mondo onirico; tuttavia, non era più considerata così peregrina.

IV LA MEMORIA DELLA BATTAGLIA Un comandante avveduto non impegna il nemico in una battaglia in campo aperto, se non vi è un’opportunità ovvero un vantaggio eccezionale. Maurizio, Strat™gikon, VIII 2, 86

Propositi di vendetta Della battaglia non restano testimonianze dirette. Il resoconto più esauriente degli eventi risale a Plutarco, e molti hanno dedotto che il biografo di Crasso attingesse a una fonte contemporanea ai fatti. Gli studiosi si sono abbandonati a identificazioni più o meno fantasiose: si è pensato a Gaio Cassio Longino, che mirava a scaricare su Crasso tutti gli errori della battaglia, ma anche al liberto alessandrino Timagene, attivo a Roma dopo il 55 (Gabinio lo aveva deportato come schiavo) e noto per le sue critiche alle derive imperialistiche della tarda Repubblica1. Altri hanno pensato a uno storico greco sensibile ai problemi dell’Oriente, Nicola di Damasco2, altri ancora al romano Asinio Pollione3. Qualcuno ha proposto addirittura Artawazd di Armenia, cultore delle lettere greche. Un’altra ipotesi, ancor più suggestiva, attribuisce il

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resoconto della battaglia a un anonimo greco di Mesopotamia, che avrebbe scritto una monografia sull’invasione romana della Partia. Questo non è del tutto improbabile, ma purtroppo non vi è alcun indizio per confermare che «l’apparizione in una città greca del Medio Oriente, intorno al 50 a.C., di un uomo con un senso storico di tale ampiezza, la dice lunga sulla natura di queste comunità»4. Più di recente, è stato suggerito che Plutarco si fosse servito di uno scritto di Apollonio, il liberto di Publio Crasso, scampato al disastro. Due anni dopo, durante il suo proconsolato in Cilicia, Cicerone aveva potuto apprezzare di persona le sue qualità di letterato greco, tant’è che qualche tempo dopo lo aveva raccomandato a Cesare5. Poiché la Vita di Crasso esalta la memoria del giovane Publio, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un libro di Apollonio dedicato alle sue gesta6. Dopo la disfatta, i romani non erano certo rimasti a guardare. Tra il 52 e il 50, Cassio difese con successo la provincia di Siria contro i nemici, che ne avevano occupato una vasta parte e ora minacciavano anche la vicina Cilicia. Secondo Trogo/Giustino, l’ex «questore di Crasso» approfittò dell’assenza di Pacoro, figlio di Orode e responsabile dell’offensiva partica in Siria, che il padre aveva deciso di richiamare in patria. I romani distrussero l’armata nemica e uccisero tutti i comandanti7. Con questa mossa, il pro-questore evitò il peggio: altrimenti, «molte province orientali si sarebbero sottratte all’alleanza e alla protezione del popolo romano»8. Il suo successore, Marco Calpurnio Bibulo, riuscì poi a convincere Orode che il figlio Pacoro stesse tramando contro di lui9. Grazie a questa manovra di controinformazione, la crisi successiva a Carre fu almeno sedata, ma simili successi erano poca cosa rispetto all’onta cocente delle insegne perdute e della sorte dei prigionieri10. In ogni caso, tenuto conto del suo

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comportamento a Carre, Cassio era forse l’uomo meno indicato per vendicare il comandante. In quel momento, Cicerone dovette allontanarsi dalla più congeniale vita politica romana per andare a governare la provincia di Cilicia. All’epoca stava completando il suo trattato De re publica; un celebre excursus di quest’opera è noto come Il sogno di Scipione, che mette in scena due grandi personaggi delle conquiste romane del passato, Scipione Emiliano e Scipione Africano. Il primo vede in sogno il nonno adottivo che lo porta sulla Via Lattea a contemplare la Terra dall’alto. L’Africano lo invita quindi a considerare quanto piccolo sia lo spazio di terra abitato rispetto alla vastità dell’intero pianeta: «Guarda bene: forse che il tuo nome o quello di chiunque altro di noi, rispetto a quelle stesse terre popolate e conosciute, ha mai potuto valicare il Caucaso oppure attraversare a nuoto il Gange? Chi sentirà mai pronunciare il tuo nome nel resto dell’Oriente o ai confini dell’Occidente, o nelle regioni settentrionali e meridionali? Se togli di mezzo queste terre, vedrai quanto ristretti siano i confini entro cui questa vostra gloria pretende di estendersi». A questa dichiarazione segue l’assunto che a nessuno è data la gloria eterna. E poi, chiede l’Africano all’Emiliano, «che importa se gli uomini che nasceranno parleranno di te, quando non ne hanno parlato gli uomini nati in passato, che non erano meno numerosi, e che certamente furono migliori?»11. Nella parte superstite del De re publica, pur non parlandone espressamente, Cicerone sembra alludere ai ‘triumviri’ e alle loro ambizioni. Limitando la gloria dei grandi romani del passato, egli ridimensionava ancor più la baldanza dei condottieri suoi contemporanei, signori della guerra mossi più dal tornaconto personale che dai valori identitari della comunità. E in un’altra opera scritta nello stesso periodo, i Paradossi degli

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Stoici, Cicerone delinea il ritratto di un profittatore che si arricchisce senza scrupoli, con la corruzione e il terrore, e infine allestisce una grande campagna militare. Il personaggio è anonimo, ma tutti vi riconoscevano Crasso senza difficoltà12. Nel 50, alla vigilia della guerra civile tra Cesare e Pompeo, il Senato deliberò la ripresa della guerra partica, ordinando a Cesare di cedere ben due legioni. Queste, però, furono prese in consegna da Pompeo e trattenute in Italia. Successivamente, una volta battuto Pompeo e ottenuto il potere assoluto, il dittatore riprese il progetto13. Egli aveva ottime ragioni per riorganizzare una spedizione vendicatrice della memoria di Crasso e del figlio Publio. La morte dell’adulescens, personaggio emergente dell’aristocrazia romana, aveva determinato nuovi equilibri sociali. Pompeo aveva preso come quinta moglie la sua vedova Cornelia Metella, gesto apparentemente nobile ma ben giustificato: la donna era giovane, bella, colta, di buona famiglia e soprattutto facoltosa. Inoltre, il legame matrimoniale avrebbe permesso a Pompeo di avocare a sé il diritto di organizzare la spedizione vendicatrice14. La fine di Publio giovò anche a Cicerone, che prese il suo posto nel collegio sacerdotale degli àuguri15. Chi forse mostrò maggior rispetto per la memoria del giovane fu Cesare, che nell’ottavo libro della Guerra gallica (pubblicato dopo il 52) diede ampio spazio alle imprese del suo fedele luogotenente in Aquitania, che gli avevano permesso di preparare il terreno per la vittoria finale16. Dato lo spazio minimo concesso ai subordinati di Cesare nei Commentarii, si trattava di un riconoscimento eccezionale. Sempre con Cesare aveva militato il figlio maggiore di Crasso, Marco junior. Questi si trovava sul fronte gallico almeno dal 54, con responsabilità consone al suo rango di questore. Mentre il padre e il fratello cadevano in Oriente, lui combat-

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teva vittoriosamente contro i menapii, e nel 48 sostituì Cesare come governatore della Gallia Cisalpina17. Le tracce di Marco Crasso si perdono dopo questo incarico, ma la sua tragedia familiare mantenne un certo peso presso l’aristocrazia romana. Erede del patrimonio paterno, egli rappresentava una delle famiglie più nobili e ricche di Roma. Anche la sua sposa, Cecilia Metella, era di stirpe nobilissima e deteneva un grande prestigio economico e sociale, come mostra ancor oggi il suo celebre monumento funerario sulla via Appia. Questo aiuta a spiegare un’affermazione dello storico Pompeo Trogo: durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo, i parti avrebbero preso posizione per quest’ultimo, sia per l’antica amicizia, sia perché temevano che Cesare volesse vendicare Crasso. Essi «erano venuti a sapere che suo figlio aveva militato per Cesare, e non avevano dubbi che, nel caso di una sua vittoria, egli avrebbe vendicato il padre»18. Non è quindi improbabile che i parti fossero effettivamente consapevoli del clima politico che si respirava a Roma, laddove la vendetta di Crasso era uno degli elementi chiave del progetto di spedizione maturato da Cesare e ritardato dal proseguimento delle guerre civili. I politici romani sfruttarono gli effetti psicologici delle immagini macabre della fine di Crasso e del figlio: ancora all’epoca dell’imperatore Tiberio, ci si poteva riferire con enfasi retorica ai «Mani di Crasso, che languivano miseramente in terra straniera»19. Come si è visto, all’inizio della guerra civile Pompeo aveva sottratto a Cesare due legioni, col pretesto di destinarle alla campagna partica, mirando in realtà a indebolirlo20. Da Oriente, si guardava con interesse allo scontro fra i due comandanti: quando Pompeo fu eliminato nel 48, poco dopo la disfatta di Farsàlo, correva addirittura voce ch’egli pensasse di rifugiarsi presso la corte partica, spinto dal suo consigliere

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Teofane di Mitilene. Il greco Teofane si ispirava certo al caso analogo di Temistocle, che si era rifugiato presso la corte di Artaserse dopo essere stato cacciato da Atene nel 471 a.C. Vi era quindi un exemplum nobile, ma per i romani, soprattutto a pochi anni dalla disfatta di Carre, sarebbe stata una mossa talmente disdicevole che, si diceva, nemmeno Crasso avrebbe osato immaginarla21. Morto Pompeo, Cesare ebbe campo libero per invadere l’Oriente, ma fu costretto a ritardare la campagna per eliminare gli ultimi seguaci del suo rivale. Uno di essi, Scipione, abbandonò la sua provincia di Siria per unirsi agli alleati. Cesare ricorda questa mossa nella Guerra civile (scritta nel 47), accusandolo di essersi lasciato dietro «i nemici parti, gli stessi che poco prima avevano ucciso il generale vittorioso Marco Crasso»22. Lo stile lapidario non sembra far trasparire particolari stati d’animo, ma l’episodio ha qui la funzione essenziale di esaltare la memoria dell’imperator caduto, ribadire la pericolosità dei parti e giustificare, quindi, un’ulteriore spedizione. Il disegno di Cesare non era ben accolto da tutti. Cicerone, che fino al disastro di Carre aveva garantito gli affari di Crasso a Roma, ora parlava della sua campagna orientale come di una guerra illegittima, intrapresa nulla belli causa23. Egli conosceva bene le modalità che assicuravano a una guerra un quadro di legittimità: un bellum iustum, espressione che non va tradotta come «guerra giusta» ma appunto come «guerra fatta secondo le regole del diritto». La sola ambizione di gloria e potere non bastava a giustificare un conflitto: la dichiarazione di guerra doveva rispondere a ragioni effettivamente accettabili da entrambe le parti, e chi attaccava il nemico senza motivo era considerato alla stregua di un brigante24. Di fatto, l’argomento di Cicerone coincideva con le ragioni dei parti, che a suo tempo avevano rinfacciato a Crasso

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di aver infranto il trattato di pace con l’invasione della Mesopotamia. Presso una parte del Senato cominciava a farsi strada l’idea che il comandante non meritasse la vendetta: aveva commesso troppi errori, per trovare infine una morte ignominiosa e indecorosa25. Abbiamo già visto come Cicerone osteggiasse la retorica delle campagne orientali, dove i generali romani sognavano di spingersi fino alle più remote plaghe dell’Asia e dell’India. Qui, la polemica non era tanto rivolta contro Crasso, che Cicerone teneva in minor conto, quanto contro Cesare, uomo dal talento eccezionale e quindi più temibile. Del resto, agli occhi del grande oratore (per cui, come è noto, «le armi devono cedere di fronte alla toga») lo stesso Alessandro Magno appariva come un modello negativo, «arrogante, crudele, smodato»26, seguendo in questo quei filosofi che vedevano nel Macedone un individuo asservito alla natura e alle passioni. Ma, per quanto sagge, simili considerazioni erano di scarso peso sotto la dittatura di Cesare: nel clima di entusiasmo generale, con i soldati e il popolo che salutavano con gioia l’ormai prossima campagna in Oriente, i ‘falchi’ avevano il sopravvento. Cicerone presentiva il pericolo, e più tardi, quando morto Cesare poté esprimere appieno i propri sentimenti, disse di lui: «aveva ingegno, spirito critico, memoria, applicazione, previdenza, diligenza. Aveva compiuto imprese di guerra, quantunque calamitose per la repubblica, tuttavia grandi. Da anni e anni puntava al regno: alla fine, con uno sforzo immane e a costo di grandi rischi, realizzò il suo proposito [...] Che dire di più? Un po’ con il terrore, un po’ contando sulla rassegnazione, aveva introdotto in un popolo libero l’assuefazione all’asservimento»27. Agli inizi del 44 si avviarono i preparativi della nuova spedizione, destinata a recuperare le insegne, vendicare Crasso e

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anche punire il re Orode, colpevole di aver sostenuto Pompeo. Secondo la propaganda di Cesare, la campagna avrebbe dovuto esaudire il sogno di gloria già concepito da molti comandanti romani: eguagliare l’impresa di Alessandro Magno con la conquista dell’Oriente iranizzato. A Roma si unirono vari stati alleati, e soprattutto l’ultimo dei regni ellenistici, il ricco Egitto della regina Cleopatra, che da Cesare aveva avuto anche un figlio. Ma il 15 marzo l’ambizioso progetto fu interrotto da una circostanza drammatica: Cesare fu assassinato da un gruppo di senatori. Tra i capi della congiura vi era anche il reduce di Carre, Gaio Cassio Longino. Seguirono vari mesi di guerra civile, in cui una parte del Senato, guidata da Cicerone, cercò di ripristinare l’antico ordine. Alla fine, però, ebbe la meglio un nuovo triumvirato (questa volta a carattere ufficiale perché istituito per legge), formato da Emilio Lepido, Marco Antonio e Cesare Ottaviano, il figlio adottivo del dittatore. I tre fecero subito approvare una lista di proscrizione, per liberarsi degli avversari e ‘fare cassa’. Una delle prime vittime fu Cicerone, a cui non tagliarono solo il capo, come alle altre vittime delle proscrizioni, ma anche la mano destra. Marco Antonio ordinò che la testa «fosse collocata, più in vista rispetto alle altre, sulla Tribuna [degli oratori, i cosiddetti Rostra]. Questo perché potessero osservarla da quello stesso luogo in cui avevano ascoltato Cicerone tener discorsi contro Antonio. Insieme alla testa misero anche la sua mano destra, quasi ad alludere che il suo discorso era stato troncato a metà»28. In effetti, gli oratori usavano accompagnare i loro discorsi con ampi gesti della mano: Cassio Dione ha cercato così di spiegare il perché di questa mutilazione, atto inusuale nella tradizione romana. In realtà Antonio, amante dell’esotismo, aveva voluto aggiungere alla sua vendetta un dettaglio di sa-

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pore orientale, richiamandosi probabilmente proprio alla fine di Crasso29. Seguì la guerra contro i cesaricidi Bruto e Cassio, che morirono nel 42 nella battaglia di Filippi. Antonio fu incaricato di occuparsi dell’Oriente, per la sua notevole esperienza militare: non solo si era coperto di gloria nelle Gallie, ma aveva anche una buona esperienza del mondo orientale, che aveva acquisito da giovane ai comandi di Gabinio. Mentre Antonio si occupava di ristabilire l’ordine in Asia e mantenere i rapporti con gli altri due triumviri, la campagna partica venne affidata dapprima a Decidio Saxa, che fu sconfitto dai parti nel 40, e poi a Ventidio, un veterano di Cesare. Nella battaglia decisiva, combattuta in Siria presso il fiume Gindaros nel 38, Ventidio uccise Pacoro, il figlio del re Orode. La testa mozzata, posta su una picca, venne poi esposta per terrorizzare la popolazione, ma anche per ripagare i parti del trattamento fatto subire a Publio Crasso, e mostrare ai romani il successo di Ventidio, permettendogli in questo modo di celebrare il trionfo: si disse allora che Crasso era stato vendicato30. Ma Antonio, geloso di Ventidio, non era di questo avviso: la sua vittoria non era che parziale, dal momento che il problema delle insegne e dei prigionieri restava irrisolto. Questo legittimava il progetto di una nuova spedizione per vendicare davvero l’onta di Carre31. Di conseguenza, Marco Antonio richiese al re Fraate IV, figlio e successore di Orode, la restituzione delle insegne e dei prigionieri32. Quindi si mosse verso Oriente con un grande esercito, ma le sue campagne non si spinsero oltre il Caucaso e i monti Zagros: il triumviro decise di attaccare il regno partico da nord, prendendo la strada dell’Armenia; questa volta, memori del disastro di Carre, il consiglio di Artawazd fu accolto. La spedizione fallì ugualmente e i parti rimasero im-

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battuti, conservando insegne e prigionieri. A Roma qualcuno cominciava a chiedersi se la pratica romana di rovesciare i regni, «per profonda brama di potere e ricchezze», fosse effettivamente utile33. Come sempre, a una grande sconfitta seguiva il crollo psicologico. Ma se in passato i romani avevano dimostrato a più riprese la loro capacità di risollevarsi anche da catastrofi eccezionali, ora il clima delle guerre civili stava logorando questa sicurezza. Alla fine degli anni 30, Antonio fu sbaragliato dal rivale Cesare Ottaviano, detto Augusto dopo il 27. Il vincitore dell’ultima guerra civile, che ottenne pieni poteri, era il legittimo erede di Cesare, e quindi spettava ora a lui vendicare Crasso e recuperare le insegne perdute34: forse non è un caso che nel 30, l’anno della morte di Antonio e Cleopatra, il suo collega nel consolato fu proprio il giovane Marco Crasso, figlio di Marco Crasso junior. I poeti della prima età augustea si auguravano ancora che il nuovo signore di Roma riprendesse la spedizione d’Oriente. Evocando la sorte dei prigionieri italici, Orazio auspicava che Augusto annettesse all’impero romano i popoli dei britanni e dei persiani: ma al tempo stesso, come abbiamo visto, non perdonava il tradimento dei legionari superstiti, accusati di rinnegare le tradizioni patrie35. Nella visione di Orazio, la sconfitta di Crasso veniva ora percepita come un effetto del clima delle guerre civili, che avevano danneggiato l’Urbe e le sue più sacre divinità tutelari, Giove e Vesta, pervertito i costumi e sminuito l’autorità del Senato. Peraltro, non si era ancora smesso di sperare in una nuova guerra in Oriente. Augusto teneva ad apparire come un Uomo della Provvidenza, vincitore delle guerre civili, del disordine, della decadenza, ma i romani speravano ancora nella rivincita. Orazio, che pubblicò quei versi nel 23, auspicava una nuova guerra non solo contro i parti, ma anche contro altre popolazioni orientali36.

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Alcune elegie di Properzio riprendono la stessa tematica: di fatto, con la spedizione di Elio Gallo in Arabia nel 24, Augusto sembrava aver finalmente ripreso il progetto di Cesare, e il poeta prese spunto per ricordare il disastro di Carre, evocando l’immagine del fiume Eufrate, che «ora rifiuta di proteggere alle spalle i cavalieri parti, e si pente di avere fermato i Crassi». In un’altra elegia, scritta in quello stesso frangente, egli sembra abbandonarsi a più gloriose prospettive: presto le terre del Tigri e dell’Eufrate saranno dominate da Augusto, trofei partici verranno innalzati in terra romana e, quel che più conta, i soldati, ricompensati dal ricco bottino, potranno infine vendicare Crasso. È a loro che si rivolge un verso eloquente: «Andate, occupatevi della storia di Roma!». Ed è sempre rivolto a «quelli che apprezzano le armi» l’invito a riportare a casa le insegne di Crasso37. In realtà, nessun romano avrebbe pensato di prendere sul serio i versi di Properzio, scritti con compassata ironia. I soldati venivano esortati a guadagnarsi il bottino, laddove il poeta si sarebbe limitato ad attenderli sulla via Sacra per applaudirli38. Il poeta alludeva qui, con la consueta raffinatezza, alla contraddizione ideologica di quegli anni: da una parte, l’inizio della Realpolitik augustea e la progressiva rinuncia alle grandi imprese propugnate dagli uomini del «primo triumvirato» e da Marco Antonio; dall’altra, il ‘gingoismo’ sciovinista e popolare di chi ancora auspicava nuove conquiste e, forse, non aveva perso del tutto la speranza che gli ultimi sopravvissuti al disastro potessero ancora rientrare in patria. Antonio La Penna ha ben definito la posta ideologica in gioco: «Dunque gli slogan della politica estera ‘ufficiale’ rispondono più alla pressione dell’opinione pubblica e al bisogno di consenso nell’opinione pubblica da parte del principe che all’effettiva politica estera: esiste, insomma, un contrasto tra

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la politica estera ‘ufficiale’ e la politica estera effettiva, non tra una politica estera ‘ufficiale’ proclamata da Augusto e quella voluta dall’opinione pubblica romana e italica. Perciò è difficile dire fino a qual punto nei poeti augustei le attese di nuove conquiste e le celebrazioni di imprese in realtà mediocri siano ispirate dal circolo del principe e fino a qual punto esprimano sentimenti diffusi nel popolo e condivisi, sia pure superficialmente, dai poeti stessi; soprattutto la grande orchestrazione intorno al problema partico fa pensare a direttive ufficiali abbastanza definite: bisogna considerare che il problema partico aveva importanza, ancor più che per l’Italia, per i popoli della parte orientale dell’impero»39.

La memoria augustea e la metamorfosi di Crasso In realtà, una grande guerra in Oriente non rientrava più nel programma di Augusto. Nel 20, il principe lavò l’onta di Carre con una soluzione diplomatica indolore. Qualche tempo prima, approfittando di una nuova crisi dinastica del regno partico, i romani si erano offerti come mediatori tra il re Fraate IV e il pretendente al trono Tiridate. Augusto aveva ottenuto un abile compromesso: il re aveva conservato il potere e Tiridate era stato messo sotto la tutela dei romani, che avevano però preso in ostaggio anche il figlio di Fraate. Augusto propose al re di scambiare il figlio con le insegne partiche e i prigionieri superstiti, che si trovavano in varie località dell’impero40. Seguirono ulteriori trattative, che infine conclusero un negoziato durato almeno dieci anni: tramite il suo rappresentante Tiberio, il futuro imperatore, Augusto recuperò le insegne rimaste in mano nemica, insieme ai prigionieri41. Non si trattava solo delle insegne di Carre: Fraate restituiva contem-

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poraneamente quelle perdute da Marco Antonio, e probabilmente anche quelle appartenute all’esercito di Decidio Saxa42. L’evento fu celebrato in gran pompa, e le insegne, definite come «onore di guerra», furono dapprima depositate nel tempio di Giove Feretrio e successivamente consacrate nel tempio di Marte Vendicatore, inaugurato nel 2 a.C. nel nuovo Foro di Augusto43. Un arco trionfale, detto partico, fu inaugurato nel Foro romano; vi fu apposta la grande iscrizione dei Fasti consolari. Circolarono monete con la legenda signis receptis, «a insegne riprese», e ob civis servatos, «a causa della salvezza dei nostri concittadini». La consegna fu immortalata su un denario del 19, dove un parto, munito dell’inseparabile arco, flette il ginocchio per restituire un’insegna militare (Fig. 10). La medesima scena si ritrova sulla corazza della statua di Augusto ritrovata presso la villa suburbana della moglie Livia, in località Prima Porta: qui una personificazione di Roma, in uniforme da parata, tende la mano verso un parto (questa volta in piedi) nell’atto di restituire una delle «aquile»44. Nelle cosiddette Res Gestae Divi Augusti, una sorta di bilancio politico dell’operato del principe (trascritto in forma epigrafica e diffuso almeno in Asia minore), Augusto si presenta come l’uomo che aveva domato i parti, costringendoli «a chiedere, supplicandola, l’amicizia del popolo romano»45. In realtà, a partire della restituzione delle insegne perdute in Oriente, la sua politica estera si tradusse in una formale rinuncia all’eterna conquista. In fondo, era difficile raggiungere il nemico iranico, la cui sicurezza era garantita dalle armi, dai cavalli e dagli estesi territori, difesi tutt’intorno da fiumi. Ora che il disonore era stato emendato e le insegne erano tornate a Roma, i parti non potevano nemmeno più vantarsi di aver battuto i romani, e il massacro dei Crassi aveva perso ogni significato46.

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Insomma, la vendetta si era risolta con un intervento diplomatico e non armato: l’unica azione militare di Tiberio si era svolta in Armenia, dove fu ripristinato il controllo romano. Ma la propaganda augustea non riuscì a nascondere del tutto alcuni aspetti ambigui del negoziato47: infatti, se i parti avevano accettato di restituire le insegne senza condizioni, al tempo stesso reclamarono un riscatto disonorante per la consegna dei prigionieri, che in parte si suicidarono per la vergogna48. I romani continuavano quindi ad attribuire un’importanza estrema all’onore, come da tradizione; ma la ragion politica del Principato ricorreva a soluzioni ben diverse49. Non tutti si erano contentati della restituzione delle insegne. In una delle sue ultime elegie, Properzio conclude il componimento augurandosi che i nemici consegnassero presto ai romani non solo i loro signa, ma anche i propri50. Dal canto loro, anche i parti davano grande importanza alle loro insegne: Cassio Dione ricorda che i romani scoprirono l’alta qualità della loro seta proprio in occasione della battaglia di Carre, quando videro gli splendidi stendardi del nemico51. Properzio (morto nel 15) si augurò che Gaio e Lucio Cesare, adottati nel 17 dal principe, potessero impadronirsi di questi nuovi trofei, invitando Crasso a rallegrarsi della nuova invasione dell’Oriente «se, tra le nere sabbie, senti ancora qualcosa: ora si può passar l’Eufrate, fino alle tue spoglie». Come si è visto, le varie allusioni di Properzio allo sconfitto di Carre rivelano una certa ironia, e anche questo passo non fa eccezione52. Tuttavia, possiamo ricavarne un fondo di verità storica: in definitiva, in quegli anni, vendicare Crasso e onorarne la memoria era ancora possibile. Ma proprio in quegli anni, forse per scoraggiare una politica orientale invasiva, la propaganda augustea prese a formulare nuovi giudizi, in qualche modo strumentali, sull’operato di

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Crasso. La narrazione più esaustiva si trovava certo nella Storia romana di Tito Livio: nel libro CVI, di cui resta purtroppo solo uno scarno riassunto di epoca tarda, la campagna di Carre occupava una sezione importante. Tracce di Livio più o meno rielaborate si possono reperire nei più tardi resoconti di Cassio Dione (III secolo) e del cristiano Paolo Orosio (V secolo). Ma un’allusione a Carre si riscontra anche in un brano dell’opera superstite di questo storico, il famoso excursus su Alessandro Magno: come si è visto, Livio criticava certi storici greci, che definiva levissimi, ovvero di scarsissima serietà o consistenza, che in odio a Roma avrebbero esaltato il valore dei parti e la figura dell’invitto Alessandro in nome del fatto che «il popolo romano, che pur non ha mai perso alcuna guerra, venne tuttavia sconfitto in molte battaglie»53. In effetti, nel corso del I secolo a.C., gli autori greci presero in considerazione il problema dell’imperialismo romano e delle conquiste orientali della potenza ormai dominante, confrontandola con il glorioso passato di Alessandro Magno. Lo stesso Plutarco, alludendo a scritti di questo genere, non nasconde la propria irritazione per chi insisteva a riproporre il confronto, criticando «quelli che lodano la spedizione di Alessandro e biasimando quella di Crasso»54. Questi detrattori delle glorie militari romane, secondo Livio, non capivano l’assurdità di un raffronto tra le gesta di un singolo giovane re conquistatore e «quelle di un popolo che fa la guerra da ben ottocento anni». In definitiva, «i macedoni avevano un solo Alessandro, che non soltanto si esponeva a molteplici pericoli ma lo faceva di sua spontanea volontà. Invece, molti erano i romani che potevano uguagliare Alessandro per la gloria e le imprese. Ciascuno di essi, a seconda del proprio destino, avrebbe potuto vivere o morire senza che per questo la repubblica corresse alcun rischio»55. Insomma, morto un Crasso, Roma

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continuava a vivere, a differenza dei regni ellenistici che si sfasciavano dopo una sola disfatta. Livio scriveva queste pagine negli ultimi anni in cui un comandante vittorioso che non fosse il princeps poteva ancora aspirare a celebrare il trionfo (l’ultimo fu Balbo, nel 19 a.C.). Ma il passaggio dalla Repubblica al Principato modificò rapidamente i rapporti di forza tra il comandante di una spedizione e il potere centrale. A distanza di una generazione, la sconfitta di Teutoburgo del 9 d.C. ripropose ancora una volta lo schema di Carre: la penetrazione avventata, l’insidia dei barbari, la morte di molti legionari e dello stesso comandante, Quintilio Varo, anche lui decapitato. Commentando il disastro, lo storico Velleio Patercolo poteva affermare: «questa tremenda disfatta è la più grave accaduta in terra straniera dai tempi del disastro di Crasso in Partia»56. Velleio scriveva sotto Tiberio, in un’epoca in cui il modello del Principato si era ormai imposto, e il rapporto fra comandante e potere centrale era notevolmente mutato. La digressione di Velleio su Varo non dà adito a dubbi: lo sconfitto di Teutoburgo era da considerarsi come un nuovo Crasso, che aveva sfruttato il proconsolato in Siria per arricchirsi e che, una volta inviato al Nord, aveva sottovalutato i germani al punto da pensare di sottometterli limitandosi a portare il buongoverno romano tra queste popolazioni. Velleio individuava tre cause principali del disastro: la negligenza del generale, la perfidia del nemico e la cattiva sorte. Anche in questo caso, come per Crasso, il disonore venne elaborato con un certo scarto di tempo: Varo era pur sempre amico di Augusto, e la sua testa, recuperata dopo alcune peripezie, venne sepolta con tutti gli onori nel mausoleo dei Giulio-Claudi. Ma dopo la morte del princeps, il suo disastro pubblico fu trasformato in disastro privato, e anche questo comandante venne bollato come un incapace.

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I segni del cambiamento erano ormai in atto: qualche anno prima, nel primo libro della Geografia, anche il greco Strabone aveva accomunato le battaglie di Carre e Teutoburgo, con un argomento – riproposto secoli dopo dall’Anonimo nel De rebus bellicis – che analizzava al tempo stesso il problema della formazione dei comandanti e il tema della perfidia dei barbari57. I barbari, dice Strabone, rischiavano di passare in vantaggio non tanto per superiorità fisica o tantomeno tattica, bensì per la loro padronanza di un paesaggio fatto di «paludi, foreste e lande impenetrabili», forti della «conoscenza dei luoghi contro un nemico che li ignora», che permetteva loro di neutralizzare la superiorità delle legioni sul piano strategico come su quello logistico58. Ciò consentiva ai barbari di usurpare una superiorità tattica fondata in realtà sull’inganno e sull’ignoranza geografica dei romani59. Lo stesso topos ricorre anche in Tacito e in Cassio Dione, con la differenza che Strabone esortava i romani a porsi sullo stesso piano dei barbari, come di fatto avvenne nello spazio di poche generazioni, mentre gli storiografi mettevano l’ostilità dei luoghi sullo stesso piano della perfidia nemica, appoggiandosi a una visione tipicamente romana del paesaggio ideale e dei iusta loca dove si poteva ingaggiare un combattimento in piena regola60. Se, nel contesto ora citato, Strabone sembra mettere i parti sullo stesso piano degli altri barbari, altrove egli appare più incerto e contraddittorio. Così, in un altro passo della Geografia maggiormente in tono con la propaganda augustea, i nemici appaiono «quasi disposti a consegnare tutto il potere ai romani», chiara allusione alla soluzione diplomatica che Augusto aveva orchestrato approfittando della loro crisi dinastica. Ma in un altro brano della sua opera Strabone presenta l’impero partico come la seconda grande potenza mondiale: «Oggi dominano un territorio così grande, e così tanti

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popoli, da rivaleggiare in qualche modo con i romani per la grandezza del dominio. Causa di questo successo sono il loro stile di vita e i costumi: certo, essi hanno molti elementi comuni con i barbari e con gli sciti, e tuttavia presentano quanto occorre per dominare e per vincere in guerra»61. In definitiva, con Augusto il mondo si divideva in due aree egemoniche: il Mediterraneo romano e l’Asia partica. La battaglia di Carre aveva contribuito a fissare sull’Eufrate la linea di demarcazione tra i due imperi, la divisio orbis già suggerita da Pompeo Trogo62. In seguito, i due mondi sarebbero venuti ancora a conflitto, ma per il momento sembrava opportuno rispettare il confine. Se Marco Antonio, l’ultimo ad averlo oltrepassato, era stato già ampiamente sconfessato, ora la condanna si estendeva anche a Crasso. La sensibilità di Augusto per le immagini e la propaganda letteraria finì per trasformarlo in una figura caricaturale, «da annoverare tra le più gravi iatture dell’impero romano»63. Gli argomenti per condannare la sua impresa erano molteplici: il comandante non aveva dato ascolto ai cattivi presagi, ma soprattutto non aveva rispettato i patti. Un altro argomento chiave era la sua età avanzata: Crasso, si diceva, sembrava «ancor più vecchio della sua età»64, e la sua figura contrastava ancor più con la giovane età delle reclute inesperte. Dal canto suo, Augusto aveva dimostrato di poter prendere decisioni fatali già a diciannove anni, come indicava nell’esordio delle Res Gestae. E Ovidio, evocando nell’Ars amatoria la campagna orientale di Gaio Cesare, prefigurò il trionfo del figlio adottivo di Augusto, che si accingeva a combattere una guerra malgrado la giovanissima età. D’altra parte, nello stesso contesto, Ovidio esortava i Crassi a gioire dalla tomba, e certo l’allusione al comandante morto non deve essere stata apprezzata da Au-

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gusto, come del resto l’inserzione dell’excursus partico in un libro erotico65. Qualche anno dopo, il poeta fu esiliato sul Mar Nero: una delle cause sarebbe stata la composizione di questa opera. La tradizione tardo-augustea non esitò a rimodulare la realtà, fino a implicare che la legge che determinava i limiti della provincia di Crasso non avrebbe previsto una campagna contro i parti66. Questa accusa, a suo tempo formulata contro Gabinio, non corrisponde alla realtà dei fatti: uno storico ben documentato come Livio indicava chiaramente che la zona operativa di Crasso non era limitata alla Siria, ma si estendeva fino al regno dei parti67. Forse i termini previsti da Roma erano stati formulati in modo più o meno volutamente ambiguo, e non si può escludere una falsificazione dei relativi documenti, pratica spesso impiegata nella tarda Repubblica68. Un discorso a parte va fatto per Pompeo Trogo, che nelle Storie filippiche, scritte probabilmente all’inizio del regno di Tiberio, è uno dei pochi autori a riservare a Crasso un trattamento più neutro. La morte del comandante è ricordata brevemente ma icasticamente: il re Orode «spazzò via il comandante Crasso, insieme al figlio e a tutto l’esercito romano». Trogo accenna anche a una «triplice vittoria» partica, contro «comandanti supremi» (ovvero Crasso, Decidio Saxa e Marco Antonio) che li avevano chiamati al combattimento: «fra tutti i popoli, essi furono gli unici a poter competere alla pari con i romani, e addirittura a batterli»69. Un atteggiamento analogo si ritrova anche in Seneca il Vecchio, che nelle Controversie allude più volte a Crasso. Il retore ricorda la sua mancata sepoltura come un esempio di capovolgimento della sorte, e pone lo sconfitto sullo stesso piano di Atilio Regolo, quale «grandissimo comandante» che finisce per esser

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preso prigioniero70. Qualche tempo dopo, il contenuto delle orazioni di Crasso fu condensato in una raccolta di discorsi ed epistole di uomini della tarda Repubblica, redatta dall’ex console Licinio Muciano: l’obiettivo era di mostrare che uomini come Pompeo e Crasso non avevano ottenuto il potere solo con la forza delle armi, ma anche con l’ingegno e la capacità oratoria71. Anche gli ebrei avevano un conto da regolare con Crasso. Il sacco del Tempio di Gerusalemme fu ricordato da Flavio Giuseppe in un breve paragrafo della Guerra giudaica e in un più circostanziato passo delle Antichità giudaiche, opera composta alla fine del I secolo d.C. In entrambi gli scritti, Giuseppe fa un accenno alla sconfitta di Carre, ma nella Guerra sostiene che «non è utile parlarne adesso» e nelle Antichità scrive che l’argomento è stato trattato in altra sede e da altri autori, come Strabone e Nicola di Damasco. È più probabile che sia stato quest’ultimo a fornire a Giuseppe i dettagli sul saccheggio senza ritegno operato da Crasso: oltre a essere schierato sulle posizioni ufficiali, in quanto ebreo Nicola aveva un motivo in più per condannare il comandante, contrapponendolo ancora una volta al grande Cesare72. Nel dossier sulla «leggenda nera» di Crasso, l’elemento più emblematico è forse un passo di Seneca, che giunge a considerarlo come un esempio di follia del potere, accomunandolo addirittura a Serse e Alessandro Magno per la decisione empia di oltrepassare i limiti, spinti solo dalla follia che porta gli uomini a dirigersi verso destinazioni incerte e a muovere guerra contro altri popoli73. L’accostamento ad Alessandro operato da Seneca non è incongruo, dal momento che l’imitatio Alexandri aveva marcato in qualche modo anche la campagna di Carre.

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Con la ripresa delle guerre partiche, la memoria della disfatta fu utilizzata per evidenziare il carattere barbaro e crudele del nemico. Ad esempio, Seneca accenna alla morte di Crasso come esempio della caduta di un potente, determinata in questo caso dal «parto crudele e superbo». In un altro contesto, il filosofo aveva definito il re iranico alla stregua di un mercante di schiavi, costretto continuamente a mantenere la minaccia delle armi sui popoli dominati74. Il nipote di Seneca, Lucano, nel suo poema epico sulla guerra civile mette in scena gli argomenti di Pompeo che, dopo Farsàlo, intendeva rifugiarsi presso i parti, di cui lodava la superiorità militare. Ma il luogotenente Lentulo lo convinceva del contrario, elencando argomenti di carattere tecnico: l’arco partico, diceva, non era poi così temibile, e gli orientali non erano in grado di utilizzare le macchine da guerra, mentre i loro soldati non erano capaci di battersi al di là delle pianure, dove gli archi potevano mostrare tutta la loro efficacia. Infine, Pompeo doveva guardarsi dal carattere lubrico del re dei parti, che avrebbe certamente approfittato della giovane moglie Cornelia, già sposa di Publio Crasso, per accoglierla nel suo harem. Infine, doveva temere il fantasma dello stesso Crasso, il «triste vecchio» che gli avrebbe rinfacciato di brigare un trattato di pace con il nemico che lo aveva ucciso e massacrato75. La memoria della battaglia si ripercosse in tutto il mondo antico, e da quel momento la città di Carre fu associata alla sconfitta dei romani. Nella sua descrizione geografica del Medio Oriente, Plinio il Vecchio specifica espressamente che la fama dell’insediamento si doveva proprio a questa sconfitta76. Ma quello di Plinio era solo un accenno corsivo: nonostante la sua importanza e risonanza, l’evento era destinato a passare gradualmente in secondo piano rispetto ad altre battaglie di eguale o anche minor impatto.

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Lo sguardo partico Poiché non disponiamo di fonti partiche di prima mano, occorre ‘decodificare’ per quanto possibile la prospettiva unilaterale proposta dagli autori classici77. L’assenza di fonti orientali contemporanee non deve sorprenderci, poiché l’islamizzazione dell’Iran nel VII secolo ha determinato la perdita di numerosi testi di epoca sasanide, che a loro volta attingevano alla tradizione degli Arsacidi. Forse, però, alcuni messaggi di propaganda diffusi dai parti nell’Oriente romanizzato venivano raccolti anche in Occidente. Agli inizi del II secolo, Tacito accenna alla «gloria dell’aver massacrato Crasso», che i parti avrebbero vantato fino agli inizi della nostra èra, prima che il loro astro tramontasse. Secondo questo storico, tutto sommato, il dominio dei parti era meno pericoloso per Roma rispetto alla minaccia esercitata da popolazioni bellicose come i germani. L’«Oriente abbattuto», ricorda Tacito, poteva obiettare ai romani solo la vittoria di Carre, che del resto era già stata ampiamente vendicata dalle conquiste di Traiano78. Narra Plutarco che Orode fece eliminare Surena, invidioso della sua gloria79. Nella storia del regno conosciamo già un precedente del genere, quando il re Mitridate II aveva fatto uccidere l’ambasciatore Orobazo, adducendo a pretesto una sua cattiva conduzione del negoziato con i romani nel 96 a.C. Questa drastica decisione si deve forse alle tensioni fra monarchia e famiglie nobili, caratteristica costante di questo impero. Ma non è da escludere che Orode fosse realmente geloso di Surena, tant’è che le sue imprese gli assicurarono la notorietà nei secoli. Le tradizioni orali dei g≥sπn, i bardi partici, narrarono infatti le gesta dell’eroe Rostam figlio di Zπl, originario dell’Iran orientale, il cui ‘ciclo’ fu più tardi inserito nel Libro dei Re

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(¤πhnπme), il grande poema epico di Fird∂s∞80. Le tradizioni orali ereditate dai Sakπ confluirono nella saga di Rostam, dove però l’eroe non è mai presentato come un possibile rivale dei Kayanidi, la dinastia mitica che nel Libro dei Re rappresenta i primi re persiani81, esattamente come la famiglia di Surena non interferiva con il carisma regale (farr-i-¤πhanΔπh∞) dei parti. Le due figure coincidono per molti versi: in effetti, Fird∂s∞ rappresenta Rostam come il custode del carisma regale, lo stesso privilegio di incoronare il re che gli Arsacidi avevano concesso alla famiglia di Surena82. Il rapporto fra eroe e re risale alle più antiche tradizioni indoeuropee, ma non è impossibile – come qualcuno ha anche ipotizzato – che il personaggio di Surena abbia influenzato lo sviluppo della tradizione. In effetti, nel Libro dei Re Rostam appare come l’eroe insostituibile, senza il cui aiuto una guerra si risolve in un disastro. Egli dice di sé: «con la mia spada illumino la scura notte, e disperdo le teste sul campo di battaglia»83. I combattimenti di Rostam non sono descritti in modo particolarmente realistico, ma rievocano il clima degli scontri, più o meno come doveva aver fatto Tito Livio per la sua versione di Carre. Abbiamo già accennato a un possibile riferimento a Carre nella tradizione della guerra di Rostam contro il Demone Bianco. Analoghe gesta si ritrovano anche nel poema V∞s ∂ Rπm∞n, che inoltre sembra raccogliere echi lontani della campagna: il re M≥bad avrebbe infatti mosso guerra all’imperatore di «R∂m», recandosi in Armenia e poi ad Arrπn (ovvero a Carre), per concludere infine una pace vantaggiosa, ottenendo da Cesare il pagamento di un tributo. La capitale di questo re leggendario è Merv, la grande città della Margiana, feudo originario degli Arsacidi. Anche qui, la poesia medievale persiana

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raccoglie un fondo di tradizioni di chiara origine partica, a cui dobbiamo aggiungere quella delle gesta del re Afq∂r (= Pacoro) ¤πh, che secondo un’indicazione raccolta dallo storico arabo al-T˝a‘πlib∞ avrebbe sconfitto i «R∂m», vendicando così l’oltraggio che Alessandro aveva fatto subire a Dario84.

Plutarco e l’età imperiale A tutt’oggi, il resoconto più dettagliato della battaglia si deve a Plutarco, che scrisse la Vita di Crasso intorno al 114 d.C. Nel racconto spicca la relativa benevolenza con cui finisce per trattare l’eroe sconfitto: laddove la vulgata imperiale evidenziava in Crasso una sconsiderata brama d’oro e di gloria, Plutarco restituisce un ritratto più equilibrato del comandante, meno stereotipato di quello elaborato dagli autori augustei, anche se non mancano osservazioni volte a ridurne la statura85. In definitiva, egli appare come un eroe tragico, che per la propria hybris è destinato a patire la giusta punizione86. Simili operazioni erano consentite dal genere biografico, che gli antichi separavano dalla storiografia87. Plutarco aveva quindi piena libertà di rielaborare la tradizione storica, allo scopo di suscitare emozioni nel suo pubblico. Anche Surena, il comandante nemico, poteva uscire dall’ombra e apparire in una luce decisamente lusinghiera; viceversa gli alleati barbari, dall’armeno Artawazd all’arabo Abgar, appaiono tutti come dei potenziali ingannatori: «Plutarco trasforma tutti gli informatori e le guide locali in traditori, per giustificare l’errore di Crasso e drammatizzare la scena»88. Il biografo mirava a «mostrare lo sconvolgimento totale dei valori romani tradizionali» determinato dalla sconfitta.

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«Lo spazio e il tempo sono confusi e tutti i punti di riferimento sono scomparsi. Ma questo non ci stupirà affatto, visto che le varie scaramucce e i combattimenti, o le scorribande fuori pista, si svolgono sia in lande desolate, dalle sabbie profonde, senza un rilievo dove posare lo sguardo e a cui riferirsi, sia in luoghi palustri, pieni di insidiosi pantani. Dobbiamo quindi concludere che Plutarco ha costruito rigorosamente il suo racconto situandolo nel mondo dei margini, che è per eccellenza quello dello stratagemma e del disordine. Scelta perfettamente giudiziosa, visto che la guerra si è svolta alla frontiera del mondo romano e dell’impero partico, in una zona contesa incessantemente fra i due avversari»89. Ma questa parziale rivalutazione del personaggio di Crasso non si deve solo a ragioni letterarie. Il tema era tornato d’attualità: Plutarco metteva in scena la tragedia di Carre alla vigilia della partenza di Traiano, che alla testa di una grande spedizione avrebbe annesso nuovi territori all’impero romano. Nel Confronto tra Nicia e Crasso, una sorta di sintesi con cui il biografo conclude di solito una coppia di Vite parallele, il messaggio è fin troppo chiaro: tutti i grandi condottieri romani, da Lucullo a Cesare, coltivarono grandi progetti di conquista, e in determinati casi si abbandonarono a eccessi e massacri. Plutarco rammenta la proposta di Catone il Giovane, che voleva addirittura consegnare Cesare al nemico, accusandolo di violare i trattati di pace con quello sterminio di usipeti e tencteri che oggi consideriamo come un vero e proprio genocidio; ma la richiesta cadde nel vuoto, poiché il popolo romano preferì abbandonarsi ai festeggiamenti per la vittoria, compiendo sacrifici agli dèi per ben quindici giorni90. «Come si sarebbe dunque comportato, e per quanti giorni avrebbe effettuato sacrifici, qualora Crasso avesse inviato da Babilonia un messaggio di vittoria, ovvero avesse di-

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chiarato province romane i territori da lui invasi della Media e della Persia, l’Ircania, Susa e Bactra?»91. A differenza del vinto di Carre, Traiano non fallì la propria imitazione di Alessandro. Certo preferì non spingersi fino all’Asia centrale, dove peraltro già circolavano mercanti romani, ma in compenso occupò la Mesopotamia, con evidente soddisfazione di un greco come Plutarco: in questo modo, l’optimus princeps liberava le comunità elleniche d’Oriente da un dominio che osava definirsi filelleno. Non a caso, alla fine della Vita di Crasso il biografo si dilunga sul macabro banchetto di Artaxata, evidenziando la visione d’orrore della testa mozzata di Crasso con Euripide in sottofondo, a mostrare che i barbari, con le loro grottesche imitazioni, profanavano la cultura greca. Floro, contemporaneo dell’imperatore Adriano, nella sua Epitome di storia romana dedica un capitolo alla guerra partica di Crasso, in cui condensa tutti gli stereotipi negativi attribuiti al comandante. Questa spedizione, considerata come una «grave ferita» per il popolo romano, sarebbe stata intrapresa in modo del tutto illegittimo, ed esclusivamente per impossessarsi dell’«oro partico». Ma, pecca ancor più grave, Crasso avrebbe cacciato con arroganza gli ambasciatori di Orode, venuti a ricordargli i trattati stipulati con Silla e Pompeo. E gli dèi, indica Floro, avevano così vendicato la rottura dei patti. Questa difesa delle ragioni dei nemici è forse un riflesso della politica orientale di Adriano, la cui prima mossa fu la rinuncia al controllo diretto dell’Armenia portato a termine da Traiano. Non è forse un caso che Floro aggiunga alla galleria dei traditori la figura dell’esule siriano Mazaras92. Una generazione più tardi, nella sua Storia romana Appiano accennò a un libro partico (non sappiamo se mai lo scrisse) in cui avrebbe narrato gli eventi nei dettagli93. La sua ver-

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sione dei fatti, che desumiamo da un passo delle Guerre civili, ricalcava la vulgata augustea: Crasso desiderava una guerra partica, «come se fosse un affare semplice, glorioso e lucroso»94, e nonostante i cattivi presagi, che avevano spinto i tribuni a mettere il veto sulla guerra, non si era piegato, proseguendo la sua strada verso la disfatta. Sotto l’imperatore Antonino Pio, Frontone valuta la battaglia in un contesto più generale: «Solo i parti, tra tutti gli uomini, furono considerati come avversari rispettabili del popolo romano. Lo dimostrano a sufficienza non solo la sconfitta di Crasso e la vergognosa fuga di Antonio, ma anche l’uccisione di un legato durante la spedizione di Traiano. Quest’ultimo, pur essendo un grandissimo comandante, quando lasciò il paese per celebrare il trionfo si ritirò in circostanze poco sicure, e con spargimento di sangue»95.

Carre nella tarda antichità Il centro di Carre continuò a rappresentare una tappa importante per carovane ed eserciti. Alla fine del II secolo, questa ‘città carovaniera’ indipendente fu integrata nel sistema provinciale romano. Ottenne quindi il rango di colonia e, nel 212, di «metropoli», e vi fu istituita anche una zecca per coniare monete bronzee. Fu qui che, l’8 aprile 217, morì assassinato Caracalla, nel corso della propria campagna contro i parti. L’imperatore vi si era recato per onorare la divinità locale, che Erodiano indica come «Selene», ma che l’Historia Augusta chiama correttamente Lunus, interpretazione latina dell’antico dio S∞n96. Dopo Caracalla, i parti regnarono ancora per circa un decennio, finché la loro dinastia non fu soppressa per mano di una tribù originaria della Persia orientale. La nuova casa regnante,

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detta dei Sasanidi (dal nome di Sπsπn, padre del capostipite ArdaΔ∞r I), raccolse l’eredità partica e proseguì l’eterna guerra contro i romani. La città, che si trovava in pieno teatro delle operazioni, fu più volte conquistata e perduta dai due imperi in conflitto, e mantenne una certa preminenza nella regione. Nel 242, quando l’imperatore Gordiano III recuperò la Mesopotamia e l’Osroene cadute in mano ai Sasanidi, nel bollettino di vittoria inviato al Senato romano egli rammentò dapprima la riconquista della Siria, parlando poi di «Carre e delle altre città»97. Fu a metà strada fra Edessa e Carre che i persiani, nel 260, catturarono l’imperatore Valeriano. Questi sarebbe morto in prigionia: ancora una volta, in alta Mesopotamia il prestigio e l’onore del nomen Romanum subirono un duro colpo. Tuttavia la crisi non interruppe le attività commerciali, anche se i papiri recentemente scoperti nella regione, che presentano anche alcuni riferimenti a Carre, sembrano alludere a vari disordini98. Non è escluso che si dati a quest’epoca il commento a Orazio di Pomponio Porfirione, un grammatico del III secolo che conferma la riprovazione del poeta verso i prigionieri in modo ancor più categorico. Secondo Porfirione, anche i soldati di Crasso andavano condannati come responsabili del disastro, poiché avevano accettato di buon grado (aequo animo) di vivere tra i parti, «dimentichi della virtù romana»99. Qualche anno dopo, durante la campagna del cesare Galerio contro i Sasanidi, il loro imperatore Narseh riportò un’ulteriore vittoria a Carre; i romani finirono poi per vincere e occupare la regione per un certo periodo, finché, nel 359, un nuovo attacco persiano obbligò le legioni a evacuare la città. Lo storico del IV secolo Ammiano Marcellino ricorda il passaggio a Carre dell’imperatore Giuliano nel 363, al principio della sua campagna contro i persiani. Ammiano parla di

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Carre come di una «città antica, famosa per le tribolazioni dei Crassi e dell’esercito romano»100. La campagna di Giuliano poteva in effetti apparire come un vero e proprio ricorso storico, l’ennesimo scontro delle due eterne potenze rivali: in effetti, uno dei comandanti persiani era ancora una volta un membro della famiglia dei S∂r™n101. Ma l’imperatore pagano non si preoccupò tanto di rendere omaggio alla memoria di Crasso, quanto a «Luna», ovvero a S∞n, senza purtroppo ottenerne il favore. Tra gli autori che avevano narrato la sfortunata campagna di Giuliano vi era anche uno storico originario di Carre, Magno. Ammiano parla di un ufficiale chiamato Magno, che si era distinto durante la presa di una fortezza presso l’Eufrate: si tratta forse della stessa persona. Di questo storico resta solo un breve riassunto compilato da Giovanni Malalas nel VI secolo: dunque la sua opera circolava ancora in quegli anni, forse già in forma abbreviata, ma non sappiamo in che misura venisse utilizzata dagli storiografi successivi102. La prospettiva tardoantica contribuì a reinterpretare le campagne orientali dei romani come episodi di un’unica lunga guerra combattuta sulla frontiera dell’Eufrate. Nel suo Breviarium rerum gestarum populi Romanum, compilato intorno al 370, il funzionario imperiale Rufio Festo osserva che la campagna di Crasso era stata originata da un «reiterato movimento di guerra dei parti». Questo autore non parla di Carre, e si limita a indicare che la battaglia si era svolta in una «sconosciuta pianura desertica» (ad ignotam solitudinem camporum). Il contemporaneo Eutropio, autore di un più esteso Breviarium ab urbe condita, specifica invece che lo scontro si svolse «dalle parti di Carre»103. Per gli autori cristiani, Crasso non ebbe grande importanza. Eusebio di Cesarea non riporta la battaglia di Carre nella sua Cronaca, e l’evento fu integrato più tardi nella versione la-

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tina di san Girolamo (che però riporta una data erronea, il 56 a.C., e indica la cattura di Crasso, ma non la sua morte)104. Il solo racconto di una certa estensione si deve a Paolo Orosio, che agli inizi del V secolo rielaborò Tito Livio in una prospettiva provvidenziale, dove Dio puniva i romani per la loro empietà con una lunga serie di catastrofi. Anche la narrazione del pagano Zosimo (inizi VI secolo) allude alla sconfitta di Crasso. Egli presenta una versione in disaccordo con la vulgata, in cui la disgrazia del comandante è inserita in un excursus sulle conquiste orientali di Roma, vòlto a dimostrare che la sconfitta di Giuliano nel 363 fu il primo atto di un progressivo abbandono delle province conquistate sin dai tempi di Pompeo, che per primo aveva rafforzato il potere romano in Oriente. Anche questo autore ricordava correttamente che la spedizione di Crasso era stata avallata dal Senato, concludendo che Crasso, «combattendo, ha lasciato in eredità ai romani una fama fino ad ora vergognosa: infatti fu catturato in battaglia e morì per mano persiana»105. Zosimo voleva dimostrare che, nonostante l’ignominia subita, Roma non aveva comunque perduto terreno in Oriente. La sua fonte (forse Eunapio, storiografo del IV secolo) insiste giustamente sull’incarico ottenuto da Crasso dal Senato romano. È quindi evidente che, fra IV e V secolo, l’aristocrazia dell’impero d’Oriente polemizzava sulla politica militare nei confronti della potenza sasanide, in particolare sul progressivo abbandono delle mire imperiali sull’Armenia. Nell’ambito di questa polemica, la «fama vergognosa» di Crasso restava un argomento d’attualità. Col passare del tempo, la memoria dei fatti finì per stemperarsi e proporre versioni meno attendibili della vicenda: ad esempio l’armeno Mosè di Khoren, recuperando una tradizione forse antica, attribuiva la morte di Crasso nientemeno che all’anziano Tigran d’Armenia, che all’epoca della battaglia era già defunto106.

EPILOGO

Per la vulgata storiografica, Carre è stata considerata più come un episodio atipico che come uno scontro significativo. Quasi settant’anni fa, un giovane studioso italiano aveva intuito la chiave della questione: «È problema oscurissimo della storia militare antica la tragica impotenza dell’esercito romano contro le frecce partiche nella giornata di Carre. Ogni tentativo di spiegazione sfugge il nucleo della questione, e si risolve per lo più nel ricostruire come avvenne la sconfitta, non nel determinare perché essa avvenne. Tutt’al più si indicano alcune cause generali del cattivo andamento della campagna: la situazione politica, l’indisciplina e la stanchezza dei soldati, il terreno sconosciuto, l’insufficienza di cavalleria, la sottovalutazione del nemico, la troppa confidenza negli alleati orientali, ecc. Ma la ragione per cui l’armamento stesso delle legioni fu assolutamente impotente di fronte agli arcieri, ch’erano ancora sempre i medesimi delle precedenti battaglie dei Greci e dei Romani in Oriente, rimane misteriosa»1. Ma la vittoria dei parti era poi così misteriosa? Molti storici sembrano credervi ancor oggi, laddove invece varrebbe la pena di riproporre un libro di Pietro Manfrin, prolifico saggista oggi dimenticato. Ex senatore del Regno e ufficiale di cavalleria a riposo, nel 1893 Manfrin aveva pubblicato il saggio La cavalleria dei Parthi, proponendovi, non senza intenti provocatori, un nuovo approccio alla storia militare an-

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tica. Distaccandosi dalla vulgata insegnata nelle accademie militari, dove gli esempi classici restavano Alessandro, Scipione o Cesare, Manfrin suggerì di seguire invece l’esempio dei parti: «La storia dei Parthi pone in evidenza le profonde radici che possono mettere in una nazione le istituzioni militari, quando chi la dirige tenda costantemente a mantenerle; dimostra ancora come tali istituzioni si perfezionino nei concetti tattici e negli indirizzi, se riescono consone alle speciali inclinazioni di un umano consorzio, poiché in tal caso lo spirito nazionale militare sviluppato da chi governa, concorre alla sua volta a confortare e soccorrere il governo stesso. Ed in effetti i metodi usati dalla cavalleria partica ricompaiono quale ultima parola delle moderne cavallerie nel nostro tempo in cui fra lo avanzare di ogni scibile, la scienza militare spicca per segnalati progressi»2. Nell’Europa della Belle Époque, Manfrin non era l’unico militare legato a certi ideali romantici e, appunto, cavallereschi, ormai destinati a cedere il passo alle letali innovazioni della guerra moderna, ma di certo fu il solo a indicare la tattica iranica come un modello esemplare. Il suo studio sulla cavalleria partica rimase a lungo una curiosità editoriale (oggi è accessibile su Google Books), e non fu accolto troppo seriamente né dai militari né tantomeno dagli antichisti. Eppure, dal punto di vista strategico, mostrava di aver colto nel segno. Anche per uno storico d’oggi come Victor Davis Hanson, Carre costituisce un’eccezione particolarmente scomoda per il suo modello di un Occidente sempre imbattuto sul piano militare, contrapposto a un presunto modello orientale della guerra: a suo parere, «anche dei disastri orribili come quello di Carre non hanno la superiorità definitiva delle forze occidentali. La Partia si trova oltre l’Eufrate, e le legioni che pe-

Epilogo

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rirono a migliaia di chilometri da casa non rappresentavano che un quinto delle truppe di cui disponeva Roma»3. Hanson aveva certo in mente Cassio Dione, che riteneva i parti invincibili in patria ma incapaci di nuocere al di là dell’Eufrate; ma non è prudente dar troppo affidamento a giudizi fondati su stereotipi, che finiscono necessariamente per creare costruzioni eccessivamente schematiche4. Basandosi su questi presupposti, i moderni manuali di storia romana continuano a considerare la battaglia come un fatto marginale. Anche una recente raccolta di saggi sui lieux de mémoire di Roma antica, che ha dato il giusto peso agli eventi militari nella costruzione della memoria romana, ha preferito occuparsi di altri episodi di varia entità5. Certo, le perdite di Carre non erano paragonabili a quelle sofferte a Canne nel 216 a.C., dove contro Annibale erano caduti ottantamila uomini. E, soprattutto, la sconfitta di Crasso non ha nulla in comune con quei disastri ‘esemplari’ che venivano registrati con particolare insistenza nella memoria storica dei romani, e specialmente con quelle sconfitte che acquisivano la connotazione di un vero e proprio exemplum negativo, diventando un paradigma storico, come Canne o come il più antico scontro al fiume Allia contro i galli (390 a.C.)6. Ricorrendo a termini più moderni, ma non meno ideologizzanti, Carre non poteva essere definita con la formula ossimorica della «gloriosa disfatta», elaborata dalla propaganda italiana di Otto e Novecento per eventi come Dogali o El Alamein. Qui siamo piuttosto sul versante delle «disfatte ignominiose», come Adua o Caporetto7. È pur vero che, dopo il 9 giugno 53 a.C., i rapporti di forza mutarono direzione: la battaglia di Carre fu il primo grande scontro di una guerra continua, praticamente mai conclusa, fra Roma e l’Iran. Ma resta da capire se, e in che misura,

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sia stata una battaglia determinante. Nei libri sulle «battaglie decisive», impostati secondo la fortunata formula di Edward S. Creasy (1851), l’evento è stato preso in scarsa considerazione8: la tattica dei parti appariva talmente rivoluzionaria da considerare Carre come un fatto anomalo, e Surena come un geniale outsider9. Certo, l’evento non costituisce una battaglia chiave per la storia dell’umanità, almeno nel senso proposto da certi libri cari agli armchair generals. Il lettore proverà forse un senso di delusione: in fondo, affermare che una particolare battaglia ha cambiato il mondo fa sempre un certo effetto. Già Max Weber lo diceva in riferimento a Salamina (dove i greci avrebbero impedito al dispotismo persiano di «strangolare nella culla» la loro civiltà), e ancor oggi si scrive che le grandi vittorie di Sparta e Atene contro l’impero achemenide nel V secolo a.C. avrebbero arginato il dominio orientale sui greci, e quindi sull’Occidente10. Va detto che queste pubblicazioni seguono l’onda lunga dell’11 settembre 2001: esse si fondano su una forte polarizzazione, che si rivela tutto sommato di scarsa utilità. Questa dicotomia condiziona ancor oggi il giudizio sulla strategia di Crasso. Per il grande storico ottocentesco Theodor Mommsen (quello che definiva Surena un «visir»), Carre era stata la prima vittoria dell’Oriente sull’Occidente dai tempi degli Achemenidi. «La cittadinanza romana e il genio dell’Ellade – egli commentava – cominciavano insieme ad adattarsi alle catene del sultanismo» (!)11. Con maggior prudenza, in uno dei contributi più importanti sull’argomento, Emilio Gabba ha osservato che, in età imperiale, la battaglia assunse il valore simbolico di scontro tra due mondi, quello occidentale e quello orientale12. Altri, con un tocco più fantasioso, hanno parlato di «scontro tra i nobili più ricchi dei loro rispettivi imperi»13. Ma la pur fortunata idea dello scon-

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tro di civiltà, elevata a teoria dal politologo Samuel P. Huntington, non è la chiave migliore per interpretare i rapporti fra romani e iranici, soprattutto nell’attuale fase di revisione delle categorie geopolitiche tradizionali, elaborate all’epoca d’oro dell’imperialismo occidentale14. D’altra parte, dato lo squilibrio della documentazione, è impossibile scrivere una storia ‘bilaterale’. I pregiudizi, o almeno il disinteresse, nei confronti dell’Oriente hanno completato il quadro. E poco importa se, come si è visto, il ruolo di Surena nella battaglia va forse ridimensionato: la tattica dei parti a Carre resta comunque un caso esemplare. Reinterpretando le tradizionali pratiche belliche (ereditate dalla millenaria esperienza dell’Asia centrale, dove i guerrieri erano anche cacciatori e allevatori), un comandante geniale ed esperto è riuscito a sbaragliare e praticamente annientare il dispositivo militare più efficace dell’epoca: la legione romana. Iosif Stalin, il vincitore della «grande guerra patriottica», aveva già avuto modo di esaltare la tattica partica come esempio di kontrastuplenije, «contrattacco», paragonando le legioni di Crasso all’esercito di Hitler15. Questo apprezzamento era ben fondato, e i moderni teorici di strategia hanno ampiamente rivalutato il sapere militare dell’Oriente, e non soltanto cinese16. Ad esempio, secondo un recente rapporto dell’influente Rand Corporation, a Carre i parti avrebbero attuato un attacco dispersivo (swarming, «attacco a sciame»), considerato ancor oggi come una tattica esemplare17. Con l’odierna invasione della Mesopotamia da parte dell’impero americano, l’attualità ha riportato alla ribalta anche questa battaglia. In un recente intervento sul Web, il saggista Eric Margolis ha definito la politica statunitense in Iraq come la «Carre americana»18. L’arrogante ignoranza attribuita tradizionalmente a Crasso è qui paragonata a quella di Geor-

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ge W. Bush, incapace di credere ai consigli degli esperti, e disposto ad ascoltare i consiglieri più screditati pur di continuare una politica assurdamente guerrafondaia. Il corrispondente britannico in Iraq, Robert Fisk, ha invece osservato l’analogia tra il ricorso alla guerra contro l’Iran, caldeggiato dai ‘falchi’ americani a partire dall’impasse in Iraq, e le ragioni che avrebbero spinto Crasso ad attaccare i parti19. Simili paragoni a effetto sono poco utili, e tutto sommato non fanno che riproporre in negativo le enunciazioni più ingenue, di stampo neocon, sull’ordine imperiale romano e sui paragoni con quello americano20. In conclusione, la battaglia di Carre non ha cambiato il mondo più di tanti altri eventi: e anche in caso di vittoria dei romani, dato il contesto storico e geopolitico, è difficile credere che il mondo sarebbe stato molto diverso. D’altra parte, la rivisitazione dello scontro ci ha permesso di esplorare aspetti storici e storiografici forse più marginali, ma di una complessità affascinante, e non solo per lo storico dell’antichità classica e orientale. E poi, i cavalieri di Surena erano meno esotici ed estranei di quanto siamo portati a credere: partendo da origini remote, che videro nascere il rapporto religioso tra uomo e cavallo, le loro tecniche belliche furono ulteriormente perfezionate non solo da popoli dell’Asia centrale come unni e mongoli, ma anche dalle popolazioni ‘barbariche’ che hanno contribuito a formare l’Europa medievale. Insomma, «attraverso il Medioevo, un po’ di vento della steppa ci è entrato nelle vene»21.

NOTE

Prologo Traduzione: La Bibbia di Gerusalemme. Plutarco, Vita di Crasso, 25, 5-6. 3 La data è stata calcolata da Groebe 1907. 4 Si è parlato addirittura di «ragioni soggettive» per giustificare lo scoppio di una guerra: Kostial 1995, pp. 100 s. 5 Fawcett 2006, p. 33. In questo saggio, Fawcett presenta l’ennesima sintesi della battaglia. Da segnalare un errore ricorrente: Abgar Ariamnes è chiamato «Arimanes» (come Ahriman, lo spirito demoniaco della tradizione zoroastriana!). 6 Fair 1971 (che peraltro accomuna impropriamente la tattica dei parti alla guerriglia dei Vietcong). 7 La citazione è tratta dal recentissimo – e peraltro pregevole – manuale sull’esercito romano di P. Cosme (2007, p. 60); analogamente, Goldsworthy 2007, p. 98. 8 Vita di Nicia 1, 5; cf. Mazzarino 1966, II 2, p. 138. 9 Mattern-Parkes 2003, p. 389. 10 Cf. http://lma69.com/index.php?option=com_content&task=view &id=21&Itemid=49. Odile Roynette, specialista del gergo militare, comunica (mail privata, 19 marzo 2010) che il termine non appare prima del XX secolo e deriverebbe piuttosto da «crasse», nel senso di «pigrizia crassa». In mancanza di fonti sicure, mi piace pensare che la figura di Crasso (che, secondo Plutarco, non si sarebbe curato dell’addestramento dei propri uomini) possa aver ispirato il cadetto che introdusse questa voce gergale. 11 Cf. già Smith 1916, p. 248. 12 Tra le pagine più notevoli segnalo quelle della viaggiatrice Freya Stark (1966, pp. 114 ss.). Per uno studio più approfondito, si veda soprattutto Brizzi 1983. La recentissima ricostruzione grafica di Gareth Sampson, che nel suo libro sulla campagna di Crasso si basa su una lettura empirica delle fonti nel tentativo di recuperare gli elementi più attendibili, è suggestiva ma del tutto ipotetica: Sampson 2008, pp. 126 ss. (non condivido gli elogi di Schlude 2009, la cui recensione è peraltro più descrittiva che critica). Vd. anche i precedenti e più schematici schizzi di Warry 1980, p. 156, e ora la scheda di Sabin 2009, 1 2

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Note al capitolo I

pp. 203-207, con una descrizione più equilibrata e un’analisi più prudente delle fonti, nonostante l’applicazione sperimentale della tecnica dei wargames (ricostruzione grafica alla fig. 41). Sull’impossibilità di combinare i dati di Plutarco e Cassio Dione cf. già Gabba 1966. Segnalo inoltre il relativo racconto della terza parte (The Brainy Barbarians) del documentario TV di Terry Jones (Monty Python), Barbarians (BBC2, 2006; si può attualmente visionare presso http://www.youtube.com/watch?v=DeplY1pkjzg). 13 Cf. Kagan 2006, p. 9. Sarebbe utile studiare gli antecedenti che hanno portato alla riflessione di Kagan: cf., ad esempio, la lettera di Lord Wavell a Liddell Hart sull’esigenza di studiare gli «aspetti materiali» della guerra e le actualities of war, ripresa di recente da Breccia 2009, p. IX. 14 Cf. le conclusioni di Kagan 2006, p. 200: «La battaglia è un avvenimento complesso, non lineare. Non è possibile sapere in anticipo quali unità, quali posizioni o quali individui possono determinare il risultato o almeno rivelarsi importanti. Questo va messo in conto per l’elaborazione di un metodo storico per narrare una battaglia; le narrazioni e altri resoconti della decisionalità di un comandante costituiscono materiali preziosi per farlo. Il comandante è un individuo unico su un campo di battaglia, e non solo perché ha spesso un effetto sproporzionato sugli eventi. Lui soltanto ha la possibilità di capire nell’insieme il fluire della battaglia. Pertanto, uno storico può capire molto di più delle complessità della battaglia attraverso l’occhio di chi comanda». 15 Toynbee 1939, p. 576 (con riferimento agli «arconti neri» delle dottrine manichee). 16 Desnier 1995, p. 65. Cf. le puntualizzazioni di Gnoli 1982. 17 Sulla tradizione orale partica cf. Christensen 1936; Boyce 1957; sul mito di Rostam cf. Bivar 1983, pp. 51 s. e 1981; Davidson 1985, pp. 61-148 e 1994, pp. 110-127. Nel folklore iraniano sono note diverse varianti di questa leggendaria lotta: testi in Omidsalar 2001. Sull’iconografia nelle miniature persiane cf. Clinton e Simpson 2006. Vd. anche sotto, p. 127. 18 Fird∂s∞, Libro dei Re, II 265; 269 s. Mohl. 19 Ivi, II 280 ss. 20 Omidsalar 2001 propone una chiave «edipica» e identifica il Demone Bianco con lo stesso padre di Rostam, l’albino Zπl. 21 Traina 2006.

Capitolo I 1 Sulla storia partica è d’obbligo il rinvio ai numerosi contributi di J. Wolski, il cui contenuto è condensato in Wolski 1993, con ampia bibliografia. Cf. inoltre Debevoise 1938; Schippmann 1980; Wiesehöfer 1998; Sarkhosh Curtis e Stewart 2007. Una ricca bibliografia aggiornata è disponibile sul sito http://www.parthia.com. 2 Sulle prime relazioni fra romani e parti cf. Frézouls 1995. Una delle fon-

Note al capitolo I

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ti più esaurienti è Pompeo Trogo/Giustino, su cui van Wickewoort Crommelin 1998. Sull’immagine dei parti nelle fonti classiche cf. la messa a punto di Lerouge 2007. 3 Plutarco, Vita di Lucullo 36, 5. 4 Sommer 2005, p. 233. Sulla cronologia del re, cf. la revisione delle fonti siriache in Luther 1999a-b. 5 Festo, Breviario 14. 6 Il trattato è considerato con scetticismo da Grouchevoy 1995, p. 109. 7 Cassio Dione, XL 20, 2. Michael Sommer (2005) ha considerato Edessa in un più ampio contesto, proponendo un modello di «Funktionsethnie» per le popolazioni semitiche situate ai confini tra Roma e la Partia: cf. tuttavia le critiche di Konrad 2008. 8 Plutarco, Vita di Lucullo 36, 7. 9 Le fonti su Orode II e Mitridate III sono raccolte in Karras-Klapproth 1988, pp. 104-109 e 84 s. 10 Cicerone, In difesa della propria casa 23; 60; 124. 11 Catullo, 11, 6; 90, 2-4; cf. de Jong 1997, pp. 424 ss., con fonti e bibliografia. 12 Si ritiene tradizionalmente che Gabinio avesse agito su iniziativa personale, spalleggiato da Pompeo ma contro il volere del Senato: cf., ad esempio, Ziegler 1964, pp. 32 s.; Keaveney 1982. Lo studio di Arnaud 1998 ha dimostrato il contrario, con argomenti a mio avviso definitivi. 13 Cf. Appiano, Libro siriaco 51. 14 Garzetti 1941-1944, parte prima, p. 6. 15 Per una biografia di Crasso cf. Drumann 1908, pp. 108 ss. (ivi, pp. 129 s., sulla vita di Publio Crasso); Garzetti 1941-1944; Marshall 1976 (sulla campagna partica pp. 139-169). Sulla discendenza di Crasso cf. Syme 1993, pp. 400-419. Gran parte della letteratura scientifica è raccolta da Angeli Bertinelli 1993; ben più selettivo Sampson 2008. 16 http://www.justsharethis.com/top-10-richest-person-in-the-world-allthe-time 17 Plutarco, Vita di Crasso 2, 3-8. 18 Andreau 2010, p. 147. 19 Fonti e discussione in Verboven 2002, p. 124. 20 Sallustio, Congiura di Catilina 48, 5. 21 Suetonio, Vita di Cesare, 50, 1; Plutarco, Vita di Cicerone 25, 5. 22 Plutarco, Vita di Crasso 7, 4. 23 Stato della questione in Megow 2005, pp. 75 ss. e tavv. 34-38 (Typus VII). 24 Cf. Pollini 2007 (sul ritratto di Crasso, pp. 259 s.). 25 Gellio, IV 10, 8, su cui Schettino 2009, pp. 99 ss. 26 Cicerone, In difesa di Sestio 96. 27 Sul ricchissimo dibattito storiografico si vedano almeno Mackie 1992 e Zecchini 2009. 28 Cicerone, Dei doveri I 109. 29 Ivi, II 74.

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Note al capitolo I

Plutarco, Vita di Crasso 7, 8. Plutarco, Questioni romane 71. 32 Plutarco, Vita di Crasso 1, 3-5. 33 La formula, particolarmente felice, è di Schettino 2009, p. 97. 34 Tacito, Dialogo degli oratori 37, 3. 35 Lettera a Friedrich Engels, 27 febbraio 1861. Cf. Canfora 2009, p. 33. 36 Cicerone, Sul comando di Gneo Pompeo, 24. 37 Per un’analisi del passo e del suo contesto, cf. Kagan 2006, pp. 148 s. 38 Cf. Keaveney 2007, pp. 15 e 29 ss. 39 Strabone, Geografia XII 3, 34. Sulla base di Plutarco, Vita di Crasso 9, 7, si è ritenuto che a un certo punto il Senato avesse ritirato l’imperium a Crasso, ma vd. le obiezioni di Gruen 1995, p. 41 nota 126; cf. anche Rosenstein 1991, pp. 185 s. Nel 54, una volta rientrato a Roma, Gabinio fu processato per la sua iniziativa di intervenire in Egitto. Cicerone, che assunse la sua difesa più che altro per tornaconto politico, non riuscì a farlo assolvere. Sullo sviluppo di questi argomenti si veda più estesamente sotto, pp. 118 ss. 40 Cesare, Guerra gallica IV 14, 5 ss.; cf. Canfora 1999, pp. 118-120, con un’interessante antologia di giudizi degli storici moderni, e 135 s., sul bilancio generale dei massacri di Cesare nelle Gallie. 41 Canfora 1999, pp. 122 s. 42 Suetonio, Vita del Divo Giulio 24, 3. 43 Cf. Keaveney 2007, p. 2. 44 Sallustio, Congiura di Catilina 11. 45 Gruen 1995, p. 539. 46 Cf. Kennedy 1996, p. 77. 47 In origine, provincia significava soprattutto «zona di operazioni militari», ma verso la fine della Repubblica il termine indicava anche il controllo amministrativo dei territori appartenenti al popolo romano. 48 Cf. Cicerone, Lettere ad Attico IV 9, 1 (27 aprile del 55). 49 Plutarco, Vita di Crasso 16, 2. 50 Plutarco, Vita di Catone Uticense 43, 1; Cassio Dione, XXXIX 33, 2. 51 Plinio, Storia naturale XXXVII 14-16. Cf. Hölscher 2004, pp. 95 s. 52 Hölscher 2004, p. 103, parla di «balzi dimostrativi» rispetto a «strutture della res publica che gli stavano ormai troppo strette». 53 Livio, Periocha 105; Plutarco, Vita di Pompeo 52, 3; Cassio Dione, XXXLIX 33, 2; Festo, 17; Eutropio, VI 18, 1; Orosio, Storie contro i pagani VI 13, 1. L’iniziativa del Senato è confermata anche dallo storico protobizantino Zosimo (inizi VI secolo): cf. sotto, p. 134. 54 Cicerone, Lettere al fratello Quinto II, 10, 2 (12 febbraio del 54): «non solo gli ho sottratto a forza quella cittadina insediata nello Zeugma dell’Eufrate...». Questo particolare è stato trascurato da Speidel 2005, pp. 565 ss., la cui ricostruzione storica va quindi rivista. Fonti su Zeugma in Wagner 1976, pp. 39 ss. Sul sito cf. Gaborit e Leriche 1998, pp. 196-199. 55 Plutarco, Vita di Crasso 3, 6. Nella sua villa di Tuscolo, Crasso ospitava personaggi di riguardo, come il grande giurista Quinto Mucio Scevola (Cicerone, Lettere ad Attico IV 16, 3). 30 31

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Plutarco, Vita di Crasso 3, 7. I frammenti del Poliistore comprendono anche varie indicazioni di ordine geografico, nonché alcuni rimandi a trattati di carattere storico-antiquario sui caldei, gli assiri e gli ebrei: cf. Troiani 1988. 57 Il primo esempio è quello di Ennio, che nell’Ambracia cantò le gesta di Fulvio Nobiliore in Etolia (189 a.C.). Certo, Ennio non era un poeta greco a tutti gli effetti (anche se uno dei suoi tria corda era ellenico): nondimeno, Catone pronunciò un discorso contro Fulvio, considerando disdicevole la pratica di «portar con sé i poeti in una campagna militare» (Cicerone, Tusculane I, 3-4). L’atteggiamento di Catone nei confronti dei greci è ben noto, e in questa critica si può forse individuare un’accusa di atteggiarsi a re ellenistico (Franco 2006, pp. 76 s.): in effetti, i comandanti romani del II secolo a.C. hanno sviluppato dei comportamenti che precorrono l’«imitazione di Alessandro» di età imperiale: Tisé 2002. 58 Lendon 2005, pp. 229 ss., su cui cf. Brizzi 2008. 59 È il ragionamento alla base di Sheldon 2005, pp. 86-99, che riprende in questa chiave tutta la campagna di Crasso, senza peraltro fornire elementi decisivi per una rilettura degli eventi. 60 Cassio Dione, XL 12, 1. 61 Plutarco, Vita di Crasso 32, 4. A questo proposito si veda la polemica di Cicerone, Paradossi degli Stoici, VI 45. 62 Cesare, Guerra civile III 86 ss.; Plutarco, Vita di Pompeo 69-71; cf. Cagniart 2007. 63 Secondo Lendon 2005, pp. 229 s., l’introduzione del nuovo sistema si dovrebbe all’influenza della cultura greca sui comandanti romani. Come osserva Brizzi 2008, il modello proposto è forzato e andrebbe quantomeno sfumato. Sull’approccio semplicistico e «monocausal» di questo libro cf. anche Strauss 2006. Sul rapporto ambiguo dei romani con la tradizione tattica ellenistica cf. Zecchini 2001, pp. 149 ss. 64 Breccia 2009, p. LXI. 65 Schettino 2008, p. 444. 66 Zecchini 2001, p. 153. 67 Appiano, Guerre civili V 17. Il passo va peraltro analizzato nel contesto dell’ultima guerra civile, quando la situazione era ormai precipitata: cf. Keaveney 2007, p. 6. 68 Pseudo-Cesare, Guerra di Spagna 15, 1. 69 Secondo Meyer 1922, p. 170, ogni ‘triumviro’ avrebbe ottenuto otto legioni sulla base degli accordi di Lucca del 56 a.C.; per Brunt 1971, pp. 462 s., Crasso avrebbe portato in guerra anche la legione stanziata nella sua provincia. 70 Floro, I 46, 3. 71 Appiano, Guerre civili II 18. Sul numero degli effettivi romani a Carre cf. Brunt 1971, pp. 461-463. Secondo Delbrück 1920, p. 475, l’insieme del corpo di spedizione, tra soldati e salmerie, si può calcolare tra i cinquantamila e i settantamila uomini. 56

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Secondo Smith 1916, p. 262 nota 1, i soldati erano in tutto trentasei-

mila. Orosio, Storie contro i pagani VI 13, 3. Plutarco introduce gli ufficiali di Crasso nella narrazione chiamandoli per nome, senza fornire ulteriori dettagli, più adatti a un testo storiografico che non a una biografia. Secondo Gruen 1995, p. 73, gli ufficiali di Crasso non appartenevano a famiglie senatorie di spicco; ma si trattava pur sempre di nobiles. 75 Cf. De Blois 2000, pp. 16 ss. 76 Ottavio: Plutarco, Vita di Crasso 31, 5; Vargunteio: ivi, 28, 1-2; Orosio, Storie contro i pagani VI 13, 3. Su Publio Crasso cf. sotto, pp. 38 s. 77 Marshall e Baker 1975. 78 Plutarco, Vita di Crasso 31, 5; cf. Polieno, Stratagemmi, VII 41. 79 Cicerone, Pro Scauro 40; Lettere ad Attico II 7, 4 (scritta nel 59). 80 Harmand 1967, passim; Roth 1999, pp. 250 ss. 81 Plutarco, Vita di Crasso 32, 4. 82 Ivi, 31, 2. 83 Sull’esercito tardorepubblicano cf. Harmand 1967; Keppie 1984; Cagniart 2007. Plutarco (Vita di Crasso 29, 5) ricorda che il legato Ottavio, nelle operazioni dopo la battaglia, comandava una forza di cinquemila uomini, che forse corrisponde agli effettivi di una legione, almeno secondo l’idea di legione di cui disponeva la fonte di Plutarco (Brunt 1971, p. 462). 84 Plutarco, Vita di Crasso 17, 9. 85 Wheeler 1996, pp. 245 s. 86 Keaveney 2007, pp. 31 e 115 nota 256. 87 Sulla sorte dei prigionieri marsi e apuli cf. sotto, p. 92. Secondo Moore 1973, i lucani avrebbero fatto parte della clientela di Crasso, che nell’82 aveva contribuito alla vittoria di Silla nella guerra civile. Diversamente, Nicolet (1989, p. 243) ritiene che nel I secolo a.C. si procedesse a leve eccezionali di legioni circoscritte a determinate regioni. 88 Jal 1962; Brisson 1969; MacMullen 1984. Per uno studio sull’immagine del capo ideale in Cesare, vd. Krebs 2006. 89 Keaveney 2007, pp. 57 s. 90 Si veda, in generale, il classico saggio di Gabba 1951. 91 Cassio Dione, XXXIX 39, 1; 3. 92 Ivi, 60, 4. 93 Cicerone, Lettere ad Attico IV 13, 2. Abbiamo qui un problema di documentazione: l’epistolario ciceroniano presenta un carteggio molto ridotto per l’anno 53, per cui mancano, ad esempio, tutte le lettere ad Attico. 94 Cicerone, Lettere ad Attico IV 5; Lettere agli amici V 8, 5. 95 Sugli aspetti religiosi della sconfitta cf. Rosenstein 1991, pp. 55 ss. (su Crasso, 71 s.). 96 Plutarco, Vita di Crasso 16, 8. 97 Ivi, 16, 5. 98 Fonti e bibliografia sul giuramento dei soldati in Keaveney 2007, pp. 71 ss. e 128 nota 4. 73 74

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Cf. Cassio Dione, XL 18, 3, e l’interpretazione del passo in Alföldi 1959, p. 13. 100 Bettini 2000, p. 7. L’aneddoto è riportato da Cicerone, Della divinazione II, 84. 101 Moatti 1997. 102 Fondamentale al riguardo il saggio di Timpanaro 1988. Cf. Hahm 1989, pp. 1340 ss. 103 Plutarco, Vita di Lucullo 27, 9. Evidentemente, Lucullo non aveva tempo da perdere, e del resto, se l’aneddoto è attendibile, egli doveva aver infranto un divieto ancor più grave già il giorno prima, il 5 ottobre, che coincideva con la ricorrenza del mundus patet, circostanza in cui le anime dei morti sarebbero tornate in terra. Si trattava di un dies religiosus, e sappiamo da un frammento di Varrone che in queste circostanze non si poteva dar battaglia, muovere un esercito o sposarsi: Varrone (presso Macrobio), Saturnali I 16, 18. Cf. Rosenstein 1990, pp. 67 s., e ora Traina 2010a. 104 Lucrezio, V 1226-1235. 105 Probabilmente, Lucrezio morì proprio nel 53 (Donato, Vita di Virgilio, p. 8). Intorno al febbraio del 54, Cicerone commentava brevemente una lettera del fratello in merito al poema (Lettere al fratello Quinto, II 10 [9], 4): sui problemi cronologici legati alla morte di Lucrezio cf. Canfora 1993. 106 Lucrezio, I 29-32. 107 Garzetti 1941-1944, parte terza, p. 38. 108 Sui galati cf. Mitchell 1993; Darbyshire, Mitchell e Vardar 2000. 109 Buona discussione della dottrina giuridica in Cimma 1976, pp. 231 ss. e 337 s. 110 Plutarco, Vita di Crasso 17, 2. 111 Cicerone, Lettere ad Attico VI 1, 14. 112 Baslez 1993, pp. 78 s., indica erroneamente che il ponte avrebbe ceduto. 113 Sui cattivi presagi durante la campagna di Crasso, cf. Keaveney 2007, p. 12. 114 Cassio Dione, XL 12. Sul personaggio cf. Karras-Klapproth 1988, pp. 159-161, con fonti e bibliografia; per il nome (è attestata anche la variante Sinnak™s) cf. Justi 1895, p. 301. Arnaud 1986, p. 140, propende per il nome di Sinnakes, analogo a quello del satrapo partico di Mesopotamia prima delle conquiste di Tigran (Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche XIII 383-386): in effetti, il toponimo di Sinnaka, località a nord di Carre dove Crasso trovò la morte, potrebbe derivare dai possedimenti del satrapo. Sull’ubicazione di Ichnai cf. Lauffray 1983, p. 58. Cfr. sotto, p. 150 nota 18. 115 Diodoro Siculo, XXXVI 14. 116 Floro, I 46, 5. Questo piccolo centro dell’Alta Mesopotamia corrispondeva all’antica Tella: Sartre 2001, p. 119. Nella Siria nordorientale vi era un secondo Nikephorion (oggi al-Raqqah), ma all’epoca era già denominato Kallinikon. Alcuni autori parlano di un presunto accordo diplomatico che avrebbe già fissato sull’Eufrate la frontiera tra le due grandi potenze. Si tratta però di proiezioni anacronistiche, che si riferiscono alla situazione geopo99

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litica di età imperiale: all’epoca non si poteva ancora parlare di una vera e propria frontiera. Cf., ad es., Plutarco, Vita di Pompeo 33. Secondo Plutarco e Cassio Dione, gli ambasciatori partici raggiunsero Crasso più tardi, quando già si trovava a svernare in Siria. Sul nome dell’ambasciatore, Vagise, cf. Justi 1895, p. 338; Karras-Klapproth 1988, pp. 185 s. 117 Orosio, Storie contro i pagani VI 13, 2. 118 Plutarco, Vita di Crasso 24, 1. Cf. KoΔelenko 1966, pp. 73 s. 119 Stark 1966, p. 115. 120 Plutarco, Vita di Crasso 16, 3. 121 La battaglia di Carre è rievocata negli albi Iorix le Grand (2004) e C’était à Khorsabad (con Cédric Hervan, 2006). 122 Secondo Speidel 2004, p. 153, Plutarco indicherebbe come «galli» un contingente in realtà composto da cavalieri celtici e germanici. 123 Cesare, Guerra gallica I 53, 7; II 34, 1. 124 Secondo Cesare (Guerra gallica III 26, 6), Publio Crasso avrebbe risparmiato solo un quarto dei cinquantamila nemici (aquitani e cantabri) convenuti a battaglia. La cifra è senz’altro esagerata, ma non sminuisce la drammaticità delle operazioni. 125 Orosio, Storie contro i pagani VI, 13, 3. 126 Cicerone, Lettere agli amici V 8, 2; 4 s. 127 Cicerone, Lettere al fratello Quinto 13, 2. 128 Plutarco, Vita di Crasso 13, 5. 129 Sull’attività di Apollonio dopo Carre cf. sotto, p. 106. 130 Rawson 1982. 131 Plutarco, Vita di Crasso 17, 9. 132 Magie 1950, pp. 386 s. Sul sistema dei contributi locali alle campagne romane cf. Erdkamp 2007, pp. 106 s. 133 Vd. Yoshimura 1961. 134 Nel 51, alla morte del re, la Cappadocia si trovava ancora in un grave dissesto finanziario: Cicerone, Lettere ad Attico VI 1, 3; Lettere agli amici XV 1, 6. 135 Erdkamp 2007, p. 102. 136 Cassio Dione, XL 20, 2. 137 Sui rapporti fra parti e armeni prima di Pompeo cf. Arnaud 1987. 138 Manaseryan 1997, pp. 16 s. 139 Cf. Kangle 1965, 1972. 140 Arthas´πstra, VI 2, 21. 141 Luttwak 1978, p. 24. 142 Invernizzi 1996, p. XX. 143 Fonti e sintesi della questione in Mayor 2009, pp. 298 e 411 s., note 14-15. 144 Olbrycht 2003, p. 94, propende per un’influenza partica sull’organizzazione della cavalleria armena, ben prima quindi del regno di Artawazd. 145 Strabone, Geografia XIV 5, 18. Il figlio Castore cadde a Farsàlo combattendo per Pompeo. 146 Strabone, Geografia XII 3, 37.

Note al capitolo I

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Sugli alleati dell’Asia minore vari spunti in Syme 1995. Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche XIV 4, 4, 72; cf. 6, 4, 72. 149 Plutarco, Vita di Crasso 56, 1. 150 Ivi, 19, 1. 151 Plutarco, Vita di Antonio 37, 3. Cf. Strabone, Geografia XI 14, 9, e le osservazioni di Nicolai 2001, p. 98. 152 Come è noto, l’esercito del triumviro seguì il percorso di montagna, ma la spedizione si risolse in un fallimento. Antonio volle scaricare la responsabilità sull’alleato armeno: vd. Traina 2003, pp. 83 ss. Non sappiamo se sia stato Artawazd a consigliare il percorso della Media Atropatene; forse fu un’iniziativa di Antonio, reso più prudente dall’esempio di Crasso. 153 Sampson 2008, p. 107. In base a una diversa ricostruzione degli eventi, una studiosa più sensibile ai problemi militari come la Sheldon (2010, p. 33) ritiene che quello di Artawazd fosse tutto sommato un «buon consiglio», ma che la strategia messa in atto da Crasso lo abbia costretto a commettere quello che vede come un errore. 154 Cassio Dione, XXXVII 5, 5. 155 Plinio, Storia naturale XXXIV 150; Cassio Dione, XL 17, 3. Cf. Baslez 1993, p. 78. 156 Strabone, Geografia XVI 1, 27. 157 Churchill Semple 1919, p. 162. 158 Desnier 1995, p. 80 nota 63. 159 Isidoro di Charax, 1. Cf. Lauffray 1983, pp. 57-59, e Chaumont 1984 (da preferire a Gawlikowski 1988). 160 Plinio, Storia naturale VI 126. Secondo Louis Dillemann (1962), dopo il passaggio dell’Eufrate i romani avrebbero proseguito lungo il fiume, per poi deviare all’altezza dell’ansa di Til Barsib (Tell Ahmar). Le legioni si sarebbero quindi volte a sud-est, dirigendosi verso la strada militare partica. Un’altra possibilità è che i romani avessero preso la pista che collegava l’Eufrate al fiume Habur, e che passava dai centri di Serudj/Batnae, Harran/Car˘ re e Ras el Aïn/Res‘ainπ. L’itinerario era utilizzato da soldati e mercanti; nella ricostruzione di Dillemann, esso rappresentava la «strada numero 3», che venne utilizzata per le campagne di Traiano e Settimio Severo, e rimase a lungo la strada principale della regione, come mostra la Tabula Peutingeriana. 161 Dillemann 1962. 162 Cassio Dione, XL 19, 2-3. 163 Secondo Asdourian 1911, p. 56, sarebbe stata l’arroganza di Crasso a spingere Artawazd all’alleanza con Orode. 164 Plutarco, Vita di Crasso 22, 2. 165 Ivi, 22, 1; 22, 4. 166 Fonti e stato della questione in Sheldon 2005. 147 148

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Note al capitolo II

Capitolo II Traduzione di Marco Formisano. Cf. Akkermans e Schwartz 2003; Yardımcı c.s. 3 Da un certo momento in poi, il territorio circostante assunse il nome di Orroene ovvero Osroene, derivato dalla città di Orroa/Urha (oggi S¸anlıurfa), meglio nota ai greci e ai romani con il nome di Edessa che le diedero i coloni macedoni. 4 Cf. la survey di Yardımcı 2004. I siti in territorio siriano sono stati esplorati per il settore orientale, lungo l’alto corso del Habur: cf. Lyonnet 1996. 5 Un’altra località dallo stesso nome si trovava˘ sul Golfo Persico (Stefano di Bisanzio, s.v. Karrhai). In età neobabilonese, il termine harrπnu è im˘ piegato anche per indicare un certo tipo di operazione commerciale: Lanz 1976. 6 Plinio, Storia naturale XII, 80. La fonte potrebbe essere Iuba II, il dotto re di Mauretania morto nel 24 d.C. (FGrHist 275, f 65). 7 Tra gli episodi più importanti vi è quello di Nabonedo o Nabonido (Nab∂-na’id), ultimo re di Babilonia (metà del VI secolo a.C.): cf. D’Agostino 1994, pp. 111 ss. Sui culti locali cf. Green 1992 e, sul culto di Ningal (variante mesopotamica della Grande Madre, consorte di S∞n), Green 1996. Sui rapporti fra religione di Harran e religione iranica cf. Lewy 1962. 8 Genesi 11, 31-32. Cf. le suggestive pagine di Ouaknin 2008, pp. 187 ss. 9 Sulla storia più antica di Carre, cf. la recente messa a punto di Villard 2001. Cf. anche la buona sintesi di Lipin´ski 1987. Per una descrizione del sito cf. Lloyd e Brice 1951. L’articolo riporta le varie fonti fino all’età islamica, ma con varie imprecisioni, per cui è meglio riferirsi a Féhérvári 1971. Cf. anche la rassegna di Sinclair 1990, pp. 29-43. 10 Vd. sotto, nota 18. 11 Fonti in Karras-Klapproth 1988, pp. 165-171. Nella tarda antichità già circolava l’idea erronea che quello di S∂r™n non fosse un nome ma un titolo (cf. Zosimo, III 15): ancor oggi, molti storici dicono impropriamente «il Surena» (vd. ancora Sabin 2009, p. 205). Questo equivoco venne diffuso da Voltaire (1784), che a torto criticò Corneille (vd. sotto, nota 20): «Surena non è affatto un nome proprio, ma un titolo onorifico, che designa una carica. Il surena dei parti era l’ethmadoulet [= a‘z˝am-e-dawlat] degli odierni persiani, il gran visir dei turchi». Cf. Calvo 1885, p. 411, s.v. Suréna. 12 Cf. Ciancaglini 2001, con bibliografia. 13 Cf. Daffinà 1967, da aggiungere alla bibliografia di Olbrycht 1998; Olbrycht 2003. 14 Cf. Widengren 1976, pp. 226-229; Olbrycht 2003, pp. 83 s. 15 Cf. Utas 1984. 16 Giustino, XLI 2, 2. 17 Plutarco, Vita di Crasso 21, 5. 18 Wolski 1981. Un discendente di Surena fu a sua volta capo dell’esercito persiano al tempo della campagna contro Giuliano, nel 363 (Ammiano, XXIV 2, 4; 3, 1; 4, 7; 6, 12; Zosimo, III 15). Forse Surena aveva dei posse1 2

Note al capitolo II

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dimenti nella regione, come potrebbe suggerire il toponimo Basurin, che indica un territorio di montagna dell’Alta Mesopotamia (vd. sopra, p. 147 nota 114). Plutarco (Vita di Crasso 29, 4) ricorda la località di Sinnaka nelle colline subito a nord di Carre; ora, sappiamo da Tacito che uno degli ufficiali di Surena si chiamava Sinnace (Tacito, Annali VI 31), e questo ha fatto pensare che il comandante partico avesse una sorta di feudo in Mesopotamia. 19 Crevier 1744, p. 312 (cf. Voltaire 1764). Mommsen 1904, pp. 346 s. Il titolo ricorre anche in Napoléon III 1866, p. 429. 20 Chauveau 1999, p. 27. La tragedia ebbe scarso successo – il più giovane Racine si era ormai imposto dopo anni di rivalità – e il suo valore letterario e teatrale venne riconosciuto molto più tardi. Cf. ivi, pp. 119 ss. 21 Il Dictionnaire di Bayle (1697) dedica in effetti una lunga e prolissa voce a Surena, concludendo con un duro giudizio sulla barbarie del personaggio (Bayle 1720-1730, vol. IV, pp. 304-306). Un moderno giudizio positivo su Surena si deve a Ball 2001, p. 13: il suo punto di vista ‘orientalistico’, contrapposto a quello di Fergus Millar, ha suscitato la reazione risentita di Whitby 2001. 22 Desnier 1995, pp. 61 ss., dedica a Surena una serie di osservazioni ispirate alla teoria delle tre funzioni di Georges Dumézil, ma in questo è difficile seguire il suo ragionamento. 23 Widengren 1956; Sarkhosh Curtis 1993 e 2000, pp. 26-28. 24 Plutarco, Vita di Crasso 24. Cf. Bernard 1980. L’uso di truccarsi era già noto ai greci almeno dai tempi di Senofonte, che nella Ciropedia parla di hypographe. 25 Widengren 1968, pp. 139 s. 26 Plutarco, Vita di Crasso 21, 7. 27 Fonti in Melikian-Chirvani 1992. 28 Arnaud (1986, p. 140) ritiene che il personaggio di Silace sia stato in qualche modo ‘oscurato’, e che il suo ruolo fosse più importante di quanto non appaia dalle fonti. 29 La documentazione non consente di andar oltre, e le ricostruzioni prospettate da alcuni storici, per quanto suggestive, restano aleatorie. Ad esempio, secondo Tarn (1930, pp. 89 s.) Surena avrebbe «approfittato dell’elastico sistema feudale partico e della propria ricchezza per creare un proprio esercito privato, in modo da portare avanti le sue idee». 30 Cassio Dione, XL 15, 2. 31 Quella di Erodiano (III 4, 7-9) è forse una reminiscenza di Erodoto, VII 64-8. L’uso di una fonte del V secolo a.C. non deve stupire: l’autorità di Erodoto sul mondo iranico era indiscussa, come mostra il suo uso da parte di storici della tarda antichità quali Ammiano Marcellino (IV secolo) o Procopio (VI secolo). 32 Cf. Bernard 1980. 33 Plutarco, Vita di Crasso 18. 34 A Magnesia, le unità dell’esercito di Antioco comprendevano anche guerrieri delle regioni più orientali dell’impero, che il re aveva appena sottomesso dopo una vittoriosa «anabasi» che gli aveva permesso di riprende-

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Note al capitolo II

re il controllo del Caucaso e delle cosiddette «satrapie superiori», il vasto territorio che si estendeva dal Caspio sino alle montagne dell’attuale Afghanistan. Nel 166, Antioco IV aveva passato in rassegna le truppe per la sua spedizione in Oriente, che contava 9500 cavalieri, di cui 1500 catafratti. Del resto, i catafratti costituivano la cavalleria di élite anche degli armeni, dei medi e degli albani: Polibio, XXX 25; Strabone, Geografia XI 14, 9. In generale, si veda Mielczarek 1993. 35 von Gall 1990, pp. 61 ss. 36 Coulston 1986, p. 65, con bibliografia. 37 KoΔelenko 1980; Wolski 1981; Olbrycht 2003. Sull’importanza della cavalleria per la regalità iranica cf. Knauth e Nadjmabadi 1975, pp. 97 ss. Farrokh 2007, p. 135, parla di «all-cavalry doctrine». Si veda anche Azzaroli 1985, pp. 66 ss. e, più di recente, Olbrycht 2003, pp. 88 s. 38 Festo, Breviario 17, 1 (la tradizione manoscritta di Festo riporta la variante Silates). Sul ruolo del satrapo-governatore cf. Widengren 1976, pp. 273-275. 39 Sugli «Immortali» (il termine è un fraintendimento greco del persiano anuΔiya, «seguaci») cf. Briant 1996, pp. 272 s. e passim. Sull’origine tradizionale di questo corpo cf. Gnoli 1981. Sugli unni cf. Olbrycht 2003, p. 97. 40 Plinio, Storia naturale II 26. 41 Sulle insegne militari in Iran cf. Christensen 1925; Melikian-Chirvani 1989. 42 Trogo/Giustino, XLI 2, 5-6. 43 Plutarco, Vita di Crasso 25, 1. 44 Tacito, Annali XV 11. 45 Wolski 1965; più prudente Widengren 1976, pp. 285-287. 46 Cf. Fowler 2007. 47 Trogo/Giustino, XLI 3, 4; 2, 5-6. Si ritiene che questo fosse il numero massimo di forze che l’impero poteva raccogliere (Schippmann 1980, p. 94). 48 Flavio Giuseppe, Guerra giudaica I 13, 3. Sull’organizzazione dell’esercito partico cf. Widengren 1969, pp. 30 ss., e 1976, pp. 295-297 e 280 s., sulla mobilitazione delle truppe su ordine del re: v. ora la sintesi di Olbrycht 2003. L’apparente contraddizione delle fonti nasce da un equivoco linguistico. Di fatto, gli autori greci e romani non riuscivano sempre a cogliere le implicazioni della terminologia iranica, che filtravano sulla base delle proprie categorie sociali, come appunto nel caso dei concetti di libertà e schiavitù. Nelle società mediterranee, la linea di demarcazione tra schiavi e uomini di condizione libera era chiaramente definita; viceversa, negli imperi iranici tutti gli uomini erano in qualche maniera servi del re, e il concetto di dipendenza era piuttosto elastico, come mostra il termine bandak (plurale bandakπn), che possiamo tradurre con «servi», ma anche con «dipendenti, vassalli». Ritroviamo un’eco di questo termine in Plutarco, quando descrive il battaglione di Surena e utilizza il termine pelatai, «servitori» per indicare una condizione intermedia tra i cavalieri liberi e i douloi, gli schiavi veri e propri: in realtà, nonostante l’apparente equilibrio del sistema, Plutarco opera una forzatura, cercando di ridurre alle proprie categorie un concetto co-

Note al capitolo II

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me quello di bandakπn, che non si riferiva necessariamente a una classe sociale: cf. Widengren 1968 e 1976, p. 282 (che non trova un corrispondente per douloi, e ritiene che l’unità di diecimila cavalieri fosse indicata con il termine *baivarpat). Vd. ora Eilers 1989; Herrenschmidt 1989; Olbrycht 2003, p. 86. Quanto ai cavalieri «liberi» di Pompeo Trogo, anche in questo caso l’ambiguità nasce dalla traduzione letterale, e quindi generica, di un termine con implicazioni tecniche: in realtà, le fonti iraniche designano con il termine πzπtan (letteralmente «liberi») una sottoclasse della nobiltà partica, tenuta a fornire un contingente armato per le campagne imperiali. Viceversa, Plutarco non parla di «liberi», e si limita a evocare degli aristoi, «migliori» (Vita di Crasso 30, 2). 49 Kawami 1987, p. 107. 50 Vanden Berghe e Schippmann 1985, pp. 79-81; von Gall 1990, pp. 1319. 51 Trogo/Giustino, XLI 2, 4: armorum patrius ac Scythicus mos. 52 Shahbazi 1987, p. 495. 53 Cf. Chaliand 1998, pp. 31 ss. 54 Tafazzoli 2000, p. 3. 55 Rivayπt pahlavi, capitolo 17. Cf. Tafazzoli 2000, pp. 3 s. 56 Per il testo arabo (Cairo, 1383/1963) si rimanda al vol. I, pp. 8, 112115, 133-134, 151-153. Per una traduzione inglese e un commento vd. Inostrancev 1926. 57 Inostrancev 1926, p. 14. 58 Ibid. 59 Catullo, 11, 6. 60 Seneca, Lettere a Lucilio 36, 7. 61 Sima Qian, Ricordi dello storico, II, p. 153 della traduzione Watson. Per un panorama delle fonti cinesi sui parti cf. Posch 1998. 62 Sulle tattiche e le armi dei parti cf. Medinger 1933; Darkó 1935; Rostovtzeff 1943; Mazahéri 1958; McLeod 1965; Brentjes 1995-1996; T. May 2006; Moshragh Khorasani 2006. 63 Plinio, Storia naturale XVI 159 s. 64 Fonti in Knauth e Nadjmabadi 1975, pp. 104 ss. Cf. anche Inostrancev 1926, p. 36. 65 Inno avestico a Sirio, 36-37, ed. Panaino 1990, pp. 60-63. 66 Ad. es. Mosè di Khoren, I 11, su cui Russell 1986-1987, p. 166. 67 Panaino 1995, pp. 47-59. 68 Si veda lo studio di Lissarrague 1990 e, più di recente, Ivantchik 2005. 69 Agni Purana, 249.6-8. Cf. Lynn 2003, p. 55. 70 Strabone, Geografia XIV 1, 23. 71 Winkelmann 2006, pp. 133 ss. L’identificazione con Arsace è proposta da Raevskij 1977. 72 Seneca, La fermezza del saggio 13, 4. La destrezza del re arciere è evocata da vari testi di epoca sasanide, compresa un’iscrizione bilingue (mediopersiano e partico) di ¤πbuhr I: MacKenzie 1978 e, in generale, Walker 2006, pp. 131 ss.

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Note al capitolo III

R˙gveda, VI 75, 3 ss.; 16 ss. Ayπdgπr ∞ Zar™rπn, 92; altre fonti in Russell 1986-1987, p. 166. 75 Drews 2004, pp. 101 ss.; Ivantchik 2008. 76 Bibliografia in Takeuchi 2004, secondo cui le scene di caccia (in particolare nei piatti di età sasanide) non rappresenterebbero questo tipo di tecnica, bensì una tecnica iconografica «multi-angolare» (?). 77 Breccia 2004, p. 78 (corsivo mio). 78 Lissarrague 1990, pp. 106 ss. 79 Ban Gu, Han-Shu 54, 12. 80 Brizzi 1983 e 2002, pp. 156-165. 81 T. May 2006, pp. 618 ss. 82 Maurizio, Strat™gikon IV 2. Per una traduzione italiana del trattato di Maurizio, vd. Breccia 2009, p. 134. 83 Cf. Inostrancev 1926, p. 36. Sugli aspetti iconografici cf. Zimmer 2003. 84 Widengren 1956; Digard 2004, p. 67. Cf. soprattutto Olbrycht 2003, pp. 90 ss. 85 Winkelmann 2006. Sul termine cf. Malandra 1973, p. 266. 86 J. Allan, in Allan e Gilmour 2000, pp. 19-40. L’epica neopersiana ha tramandato la leggenda dell’eroe GˇamΔ∞d, inventore della fusione del ferro. 87 Plinio il Vecchio, Storia naturale XXXIV, 145. 88 B. Gilmour, in Allan e Gilmour 2000, pp. 48 s. 89 Cassio Dione, XL 24, 1. 73 74

Capitolo III Plutarco, Vita di Crasso 23, 8-9. Bibliografia e ricostruzione tattica in Mode 2003. 3 Tacito, Germania 43, 6, su cui Cosme 2007, p. 148. Manca ancora uno studio degli aspetti militari del «paesaggio sonoro»: utili spunti in Nelis-Clément 2008. 4 Trogo/Giustino, XLI 2, 8. Sui tamburi nel mondo iranico cf. During 1996; sugli strumenti a fiato della legione romana cf. Feugère 1993, pp. 6972. 5 Piras 2001, p. 11. 6 Cf. Speidel 2002. 7 V∞s ∂ Rπm∞n, ed. Todua-Gwakharia, pp. 66 ss. Sul poema cf. Minorsky 1943-1962. Secondo Widengren 1976, p. 228, il poema attinge a tradizioni partiche dell’Iran orientale. 8 Keegan 1993, p. 64. 9 Plinio, Storia naturale XVI 159. 10 Cesare, Guerra civile II 53. Cf. Cagniart 2007, p. 93. 11 Cf. Lammert 1931, pp. 13 ss. 12 Arriano, Tattica contro gli alani 11, 1-4. 13 Derouaux 1942. 1 2

Note al capitolo III

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Come quella dello «hollow square», la formazione in quadrato proposta da Sampson 2008. 15 Cassio Dione, XL 22, 2. 16 Cesare, Guerra gallica IV 12, 2; Plutarco, Vita di Crasso 25, 8. 17 Questa tattica, analoga a quella della «testuggine», fu impiegata più tardi anche da Marco Antonio, che in tal modo poté limitare le perdite durante la sua sfortunata campagna orientale. 18 È difficile capire da dove spuntassero le otto coorti, ovvero quattromila uomini; ma Plutarco era più interessato a esercitare un contrasto letterario tra l’indegno Crasso e il valoroso Crasso junior: cf. Garzetti 1941-1944, parte terza, p. 52. 19 McCartney 1927. 20 Garzetti 1941-1944, parte terza, p. 53. 21 Brizzi 1983 e 2002. 22 Giustino, Epitome di Pompeo Trogo XLI 2, 8. 23 S∂nzıˇ, VI. 24 Jullien 1997, p. 1608. 25 Keegan 1993, p. 42. 26 L’influenza di Ardant du Picq su Keegan è stata ben evidenziata da Audouin-Rouzeau 2008, pp. 190-194. 27 Cassio Dione, XL 24, 2. In realtà, in età sasanide, il trattato riportato da Ibn Qutaybah dedicava almeno un paragrafo agli attacchi da sferrare nel cuore della notte: «questi attacchi notturni sono necessari per terrorizzare e spaventare il nemico» (Inostrancev 1926, pp. 15 s.). D’altra parte, la tradizione mazdea dava grande importanza agli atti compiuti durante il giorno, in particolare a mezzogiorno. Probabilmente, un combattimento notturno veniva considerato dai parti come meno onorevole. 28 Cassio Dione, XL 23, 1. 29 Il racconto che segue cerca di conciliare le informazioni di Plutarco, Vita di Crasso 27, 8 ss. con quelle di Cassio Dione, XL 25 ss. L’analisi più accurata delle fonti resta sempre quella di Regling 1907. 30 Plutarco, Vita di Crasso 29. La valle del Bal∞h era, in effetti, acquitri˘ nosa: Mallowan 1946, pp. 115 s. 31 Nel calendario odierno, tra il 12 e il 15 maggio (il calendario di allora era quello pregiuliano). Dalla lettura di Plutarco dovremmo aggiungere un quarto giorno: ma Cassio Dione (XL 25, 3) parla di luna piena. Dato che Plutarco non parla di due tentativi di fuga, è assurdo pensare che sia rimasto a Carre 14 giorni. Regling (1907, p. 321) notava che non sappiamo quanto fossero precise le osservazioni degli antichi di «luna piena» e «luna nuova». Ma siamo in Mesopotamia, culla dell’astronomia, e per giunta nella città del dio lunare. 32 Plutarco, Vita di Crasso 30, 5. 33 Le fonti non concordano sul nome del parto che uccise Crasso. Il guerriero faceva parte della scorta di Surena, e nella tradizione manoscritta di Plutarco abbiamo le varianti Exathr™s, Pomaxathr™s/Pomaxarth™s, e Maxathr™s/Maxarth™s: cf. Justi 1895, pp. 88, 232. Anche la variante Maxa14

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Note al capitolo III

thr™s è sospetta. La variante Exathr™s è attestata anche in Plutarco (Vita di Alessandro 43, 7), per designare uno dei fratelli di Dario III, l’ultimo imperatore della dinastia achemenide, altrove attestato come Oxathr™s ovvero Oxyarth™s. Il nome corrisponde al partico h˝Δtr, un termine che significava in origine «regno», ma il cui significato si è progressivamente ridotto, passando a indicare anche un territorio più circoscritto (Schmitt 1998, p. 170). 34 Plutarco, Vita di Pompeo 76, 5. 35 Appiano, Guerre civili II 18. 36 Ovidio, Arte di amare I 180; cf. Rawson 1982. 37 Valerio Massimo, I 6, 11. Alla mancata sepoltura di Crasso alludono anche Seneca il Vecchio, Controversie II 1, 7, e Lucano, Farsalia VIII 394 s. 38 Cf. Grenet 1984; Huff 2004. 39 Vid™vdπd, VI 44-45; VIII 10; VI 49-51; cf. Cantera 2002. 40 Fonti e bibliografia in Stausberg 2002-2004, vol. 3, pp. 447-483. 41 Mantegazza 1884, p. 75, su cui Cereti 2004, pp. 468 s. 42 Cicerone, Tusculane I, 44, 108: egli indica che in Ircania si allevava una razza particolare di cani, destinata a spolpare i cadaveri. 43 Erodoto, I 140; Trogo/Giustino, XLI 3, 5; de Jong 1997, pp. 442 ss. (con riferimento alle testimonianze successive). 44 De Gubernatis 1886, p. 137, su cui Cereti 2004, p. 471. 45 Vernant 1982; cf. de Jong 1997, p. 441. 46 Per una sintesi cf. Stausberg 2002-2004, vol. 1, pp. 192-204. Sugli aspetti metodologici cf. Colpe 1969 e 2003, pp. 282 s. 47 Lucano, Farsalia VIII 436 s. 48 Erodoto, IV 64, 1. 49 Sopeña Genzor 2008, pp. 276 s. 50 Lincoln 1991, pp. 248 ss., con bibliografia. 51 Bibliografia in Sopeña Genzor 2008, pp. 275 ss. 52 Erodoto, IV 62, 4; cf. Dumézil 1980, pp. 247 ss. 53 Floro, I 46, 1; cf. Festo, Breviario 17; Servio, Commento all’Eneide VII 606 e Cassio Dione, XL 27, 2-3. 54 Plinio, Storia naturale XXXIII 48; Appiano, Guerra mitridatica 21. Secondo Mayor 2009, p. 169, i parti si sarebbero ispirati al trattamento di Aquilio da parte di Mitridate. 55 Erodoto, I 213. 56 Grande BundahiΔn 34.19: cf. Lincoln 2007, p. 86, con riferimento alle altre fonti. Antonio Panaino mi suggerisce che il metallo fuso incandescente potrebbe essere stato scambiato per oro, alimentando una tradizione romana che si concentrava sull’avidità di Crasso. 57 Arnaud 1986, p. 140 nota 23, osserva che in quest’ultimo tragico episodio Plutarco fa scomparire Surena. Questi poteva essere già caduto in disgrazia, ma non è improbabile che il vero artefice della vittoria fosse Silace, il responsabile della Mesopotamia. 58 Sul filellenismo dei re parti cf. Wiesehöfer 2000; 2002; 2005a, pp. 121 s. 59 Molti studi ripetono erroneamente che la tragedia Le Baccanti fosse stata rappresentata integralmente.

Note al capitolo III

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David Braund (1993) ha suggerito che il tema dionisiaco alludesse alla follia di Crasso, ma l’interpretazione è gratuita: cf. Sampson 2008. Più acuto, ma ancor più forzato, Desnier (1995, pp. 69 s.), che pensa a un contrasto «teatrale» fra Dioniso, dio dell’anarchia, e Pènteo, difensore dell’ordine civico. 61 Il passo è stato più volte commentato, con esiti diversi e talvolta interessanti per la storia degli studi classici: ad esempio, secondo Mommsen (1904, p. 350) la scelta di mettere in scena «la tragedia greca, la più bella creazione del mondo occidentale», sarebbe stata fatta per scherno al nemico vinto. 62 Plutarco, Vita di Lucullo 29, 4. Cf. Traina 2010b. 63 Fonti e stato della questione in Boyce 1957. 64 Cassio Dione, XL 27, 4; XL 25, 2. 65 Carlo Franco mi suggerisce che l’episodio potrebbe costituire un’ulteriore analogia con la sorte di Pènteo nelle Baccanti. 66 Orazio, Odi III 5, 5-12. 67 Plinio, Storia naturale II, 147. 68 Plinio il Vecchio VI, 18. In questa regione si lavorava il ferro da cui provenivano le armature dei catafratti: KoΔelenko 1966, pp. 73 s. Sulla metallurgia medievale a Merv cf. B. Gilmour, in Allan e Gilmour 2000, pp. 50 ss. 69 Sull’influenza occidentale nell’architettura militare di Merv, cf. Olbrycht 1992-1993. 70 Wolski 1965 propende per un servizio forzato dei prigionieri; contro questa ipotesi Kettenhofen 1996, pp. 297 s. 71 Dubs 1941 e 1957a (sintetizzato in Dubs 1957b). Cf. anche Harris 1992. Fortemente scettico Ball 2001, pp. 114 s.: vedi già le conclusioni di Lattimore 1958, che considera il tutto come un «romanzo giallo» (detectivestory), derivante dall’ossessione degli studiosi occidentali per stabilire a tutti i costi un legame tra la Cina e l’Occidente. 72 Zhou et al. 2007. 73 Cf. la legio Deiotariana, sopra, p. 35. L’uso di armare i guerrieri alla romana risale almeno ai tempi di Antioco IV. Fonti e bibliografia in Mielczarek 1993, pp. 21 s. 74 Cassio Dione, LIV 8, 1. 75 Ibid. 76 Velleio, II 82, 2-3. Il dettaglio è riportato anche da Floro, II 20, 4-5. 77 Plutarco, Vita di Antonio 45. Sul ruolo dei mardi nelle società iraniche, cf. Briant 1976, pp. 175 s., e Digard 1976. 78 Tarn 1932, p. 74 nota 1. 79 Bibliografia in MacKenzie 1989. 80 Cassio Dione, XL 28. 81 Hoeing 1925. 82 Plinio, Storia naturale VI 45; XIII 4. Cf. il classico studio di Renel 1903, peraltro influenzato dalla dottrina etnologica dell’epoca, in particolare dal concetto di totemismo. In generale cf. Feugère 1993, pp. 55-62. 83 Ovidio, Fasti V 586. 60

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Note al capitolo III

84 Senofonte, Ciropedia VII 1, 4; cf. Anabasi I 10, 12 (Artaserse II); Curzio Rufo, III 3, 16 (Dario III). Guida ai riferimenti iconografici in Shahbazi 1994. 85 Schmidt 2002. Un’aquila avrebbe allevato Achemene, il mitico capostipite della dinastia degli Achemenidi (Eliano, Natura degli animali XII 2). 86 Sull’immagine romana dei parti cf. Sonnabend 1986; Isaac 2004, pp. 371 ss.; Rose 2005; Landskron 2005; Schneider 2007. 87 Plutarco, Vita di Cesare 28, 1; Floro, II 13, 13. 88 Nicola di Damasco, Fragmenta Historicorum Graecorum III fr. 88. 89 Cassio Dione, XL 28, 2; Appiano, Guerre civili IV 5; Cicerone, Lettere agli amici III 8, 10. 90 Arthas ´ πstra VII 3, 29. 91 Cicerone, Lettere ad Attico V 21, 2. 92 Mosè di Khoren, Storia dell’Armenia II 15-23. 93 Cicerone, Lettere agli amici IX 25, 1. 94 Cicerone, Lettere al fratello Quinto I 1, 23. 95 Austin e Rankov 1995, p. 108. 96 Strabone, Geografia I 1, 17. 97 S∂nzıˇ, IX. 98 Cf. le osservazioni di Kagan 2006, pp. 148 s., e le sue critiche a Goldsworthy 1998 e Lendon 1999. 99 Ibid.; cf. Garzetti 1941-1944, parte terza, p. 51. 100 N. Machiavelli, Dell’arte della guerra (1519-1520), II 83. Cf. II 84 ss.: «I Romani erano, si può dire, quasi tutti a pie’ e combattevano stretti insieme e saldi; e vinsono variamente l’uno l’altro secondo il sito largo o stretto; perché in questo i Romani erano superiori, in quello i Parti; i quali poterono fare gran pruove con quella milizia rispetto alla regione che loro avevano a difendere; la quale era larghissima, perché ha le marine lontane mille miglia, i fiumi l’uno dall’altro due o tre giornate, le terre medesimamente e gli abitatori radi; di modo che uno esercito romano, grave e tardo per l’armi e per l’ordine, non poteva cavalcarlo sanza suo grave danno, per essere chi lo difendeva a cavallo e espertissimo; in modo ch’egli era oggi in uono luogo e domani discosto cinquanta miglia; di qui nacque che i Parti poterono prevalersi con la cavalleria sola, e la rovina dell’esercito di Crasso e i pericoli di quello di Marco Antonio». 101 Desnier 1995, p. 64. Per i presupposti teorici, cf. il dibattito in Lincoln 1991, pp. 147 ss. Cf. sempre Lommel 1939. 102 Herrmann 1989. 103 Sviluppi analoghi sono attestati in Cina per il medesimo periodo: Goodrich 1984, pp. 288 ss. 104 Mommsen 1904, p. 345. 105 Schippmann 1980, p. 40. 106 Cf. Isaac 1992, pp. 20 ss. 107 Suetonio, Vita di Domiziano 19. 108 Artemidoro, Libro dei sogni 53, trad. di Dario Del Corno.

Note al capitolo IV

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Capitolo IV Regling 1899 e 1907; cf. Derouaux 1942. Peter 1865; von Gutschmid 1888, p. 88 nota 2. 3 Altheim 1947, pp. 69-78. 4 Tarn 1951, pp. 51 ss. 5 Cicerone, Lettere agli amici XIII 16. 6 Lintott 1976. 7 Giustino, Epitome di Trogo XLVII 4, 5. 8 Orosio, Storie contro i pagani VI 13, 5. 9 Cicerone, Lettere ad Attico VII, 2-3. 10 Cf., ad esempio ivi, V 21, 2. 11 Cicerone, Repubblica VI 22 s. 12 Cicerone, Paradossi degli Stoici VI 45 s. 13 Malitz 1984. Per una diversa interpretazione, cf. Mattern-Parkes 2003, p. 393. 14 Plutarco, Vita di Pompeo 55, 1 ss. 15 Plutarco, Vita di Cicerone 36, 1. 16 Cesare, Guerra gallica VIII 46, 1. 17 Ivi, V 23, 4; 46, 1-47, 2; VI 6, 1; Appiano, Guerre civili II 41. Probabilmente, Marco junior morì non molto dopo questo incarico: Syme 1993, p. 408. 18 Giustino, Epitome di Trogo XLII 4, 6. 19 Valerio Massimo, VI 9, 9. 20 Cesare, Guerra civile I 9, 4. 21 Plutarco, Vita di Pompeo 56, 4 ss. 22 Cesare, Guerra civile III 31, 3. 23 Cicerone, De finibus III, 75. 24 Questo aspetto è stato compreso solo parzialmente da Mattern-Parkes 2003. 25 Cicerone, Sulla divinazione II 9. 26 Cicerone, Lettere ad Attico XIII 28, 3. 27 Cicerone, Filippiche II, 116, trad. di Luciano Canfora (Canfora 1999, p. 384). 28 Cassio Dione, XLVII 8, 3. Vi è qui un gioco di parole intraducibile, basato sul verbo apotemn≥, che significa «amputare» ma, per traslato, anche «interrompere». 29 Cf. Traina 2009a, pp. 13 ss. 30 Valerio Massimo, VI 9, 9; Plutarco, Vita di Antonio 34, 3; cf. Tacito, Germania 37, 4. 31 Appiano, Guerre civili V 275. 32 Plutarco, Vita di Antonio 37, 2. 33 Sallustio, Storie IV 69 s. 34 Cf. la sintesi di Campbell 1993. 35 Orazio, Odi III 5; cf. sopra, pp. 91 s. 36 Orazio, Odi I 2, 21 ss.; 35, 33 ss. 1 2

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Note al capitolo IV

Properzio, II 10, 13 s.; III 4, 10; III 5, 48. Properzio, III 4, 22. 39 La Penna 1963, p. 76. 40 Giustino, XLII 5. 41 Suetonio, Vita di Tiberio 9, 1. Cf. Gaslain e Maleuvre 2006. 42 Cf. Suetonio, Vita di Augusto 21, in riferimento a Crasso e Antonio. Le insegne perdute dal luogotenente Staziano sarebbero però state già recuperate da Antonio secondo Cassio Dione, XLXI 44: cf. la sintesi di Strugnell 2008, pp. 280-283. 43 Ovidio, Fasti V 585. 44 Cf. Rose 2005. 45 Le imprese del divino Augusto, 29. 46 Ovidio, Fasti V 580 ss. 47 Secondo Gaslain e Maleuvre 2006, questa ambiguità si riscontrerebbe in un testo apparentemente fedele all’ideologia del Principato come Orazio, Epistole I 12, 27-29. 48 Cassio Dione, LIV 8, 1. 49 Vd. la critica di Shaw 2002, p. 294, a Barton 2001, p. 19. 50 Properzio, IV 6. 51 Sui vessilli nella tradizione iranica, cf. Melikian-Chirvani 1989. 52 Properzio, IV 6, 83 s., su cui La Penna 1963, pp. 131 s. 53 Livio, IX 8. Sul passo, famosissimo, cf. ultimamente Muccioli 2007. 54 Plutarco, Confronto tra Nicia e Crasso 4, 4. 55 Livio, IX 17 ss. Cf. Morello 2002. 56 Velleio, I 119, 1. Cf. Schmitzer 2007. 57 Anche Strabone, a cui attinse Flavio Giuseppe, aveva scritto un’opera storica particolarmente attenta alle operazioni in Oriente, di cui restano purtroppo pochi frammenti. Gli scarsi accenni a Crasso nella sua opera superstite, la Geografia, non aggiungono elementi utili. Sui silenzi di Strabone cf. Pothecary 2002. 58 Strabone, Geografia I 1, 16. 59 Ivi, I 1, 17. 60 Cf. Traina 1986-1987. 61 Strabone, Geografia XI 9, 2. 62 Giustino, Epitome di Trogo XLI 1, 1; Strabone, Geografia VI 4, 2; XI 9, 2; XVI 1, 28. 63 Valerio Massimo, I 6, 11. 64 Plutarco, Vita di Crasso 17, 3. 65 Ovidio, Arte di amare I 182-185; I 179. 66 Velleio, II 46, 2; Plutarco, Vita di Crasso 16, 2; più ambiguo Appiano, Guerre civili II 18. 67 Cf. sopra, p. 144 nota 53. La tradizione liviana fu accolta da alcuni autori della tarda latinità, ma anche dallo stesso Plutarco, che nella Vita di Pompeo (52, 3) contraddice quanto affermato nella Vita di Crasso. 68 Cf. Fezzi 2003. 69 Giustino, Epitome di Trogo XLI 4, 4. Un’espressione analoga si ritro37 38

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va in Appiano, Guerre civili II 18. Anche Velleio (I 46, 3) si limita a parlare del re Orode: evidentemente, in un contesto storiografico sintetico, si dava minore importanza al personaggio di Surena, evidenziando invece il sovrano su cui ricadeva la gloria della vittoria; ivi, XLI 1, 7. Santo Mazzarino ha mostrato come questa notazione, apparentemente critica, è ben giustificata dal carattere universale della storia di Trogo, il cui interesse per gli affari partici gli consente di definire la situazione sotto una luce diversa dalla vulgata augustea, senza per questo giustificare del tutto l’errore del «comandante supremo» (Mazzarino 1966, II 1, pp. 488 ss.). 70 Seneca il Vecchio, Controversie II 1, 7. 71 Tacito, Dialogo sull’oratoria 37, 3. Non resta invece alcuna traccia delle epistole, e questo rende legittimo il sospetto che fossero state deliberatamente fatte sparire per oscurare le implicazioni di personaggi influenti nei suoi affari, ovvero una loro corresponsabilità nella disfatta in Oriente. 72 Flavio Giuseppe, Guerra giudaica I 8, 8, 179; Antichità giudaiche XIV 7, 1, 105-109 e 119. 73 Seneca, Questioni naturali V 18, 10. 74 Seneca, Lettere a Lucilio IV 7; La fermezza del saggio 13, 3 ss. 75 Lucano, Pharsalia VIII 257 ss. 76 Plinio, Storia naturale V 86: Crassi clade nobile. Nella sezione della Geografia dedicata alle regioni mesopotamiche, Strabone (XVI 1, 23) nomina Carre tra i centri più importanti della Mesopotamia, ma preferisce collegare Crasso alla località di Synnaka, dove in effetti il comandante trovò la morte qualche giorno dopo la disfatta (cf. sopra, pp. 82 ss.). 77 Per un punto di vista iranico cf. Bivar 1983, pp. 21-99, spec. 48-58. 78 Tacito, Annali II 2, 2; Germania 37, 3 s. 79 Plutarco, Vita di Crasso 33, 8. 80 Sulla tradizione orale partica cf. Christensen 1936; Boyce 1957; sul mito di Rostam cf. Bivar 1983, pp. 51 s. e 1981; Davidson 1985, pp. 61-148 e 1994, pp. 110-127. 81 Cf. Bivar 1981. Ulteriore bibliografia in Shahbazi 1993 (che ripropone la vecchia identificazione di Rostam con il re vassallo Gondophares, vissuto nel I secolo d.C.). 82 Bivar 1981. 83 Sulla tipologia di questo eroe, in qualche modo accomunato ai berserkir della tradizione germanica, cf. Schröder 1957, pp. 23 ss. 84 Wiesehöfer 2005b, p. 115. 85 Secondo Desnier 1995, pp. 55 ss., Plutarco avrebbe invece delineato un ritratto «nero» del comandante, «l’esatta antitesi di Lucullo». 86 Il giudizio di Plutarco su Crasso è stato variamente interpretato. Ad esempio, è stato osservato che il ritratto di Crasso «non risulta dunque del tutto né positivo né negativo: è costruito sulla base di elementi fra loro antitetici» (Angeli Bertinelli 1993, p. XXXVII). Marshall 1976 (seguito da Desnier 1995, p. 63) considera il testo in modo esattamente opposto, ma senza ragioni apparenti. 87 Schmidt 1999, pp. 307 ss., osserva che nella Vita di Crasso gli elemen-

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ti positivi si riscontrano dal capitolo 26 in poi, quando occorre mettere in rilievo la barbarie dei parti. Il capovolgimento letterario è ancor più evidenziato dal contrasto con il ritratto positivo di Surena (ivi, pp. 301 s.). 88 Desnier 1995, p. 64. Per altri autori meno sciovinisti, un cambiamento di nomi poteva evitare una situazione imbarazzante nei confronti degli alleati del momento: ad esempio, il traditore Abgar prese il nome di «Ariamnes» (Floro, che scrive qualche tempo dopo, parlerà di un certo Mazaras, «esule siriano»). 89 Desnier 1995, p. 66. 90 Cf. sopra, p. 16. 91 Plutarco, Confronto tra Nicia e Crasso 4, 3. 92 Floro, I 6. 93 Appiano, Affari di Siria 51; Guerre civili II 18. Bucher 2000, pp. 427 ss., dubita dell’effettiva esistenza del libro. 94 Appiano, Guerre civili V, 17. In questo scritto, Appiano sembra rispettare la potenza partica: Hartmann 1917. 95 Frontone, Principi storici, p. 206 Van der Hout. 96 Erodiano, IV 13; Historia Augusta, Vita di Caracalla 6, 3. 97 Historia Augusta, Vita dei Gordiani 27, 6. 98 Nel VI secolo, il cronografo bizantino Giovanni Malalas (Cronografia XII 34, 7 Thurn) riteneva che Carre fosse stata fondata verso la fine del III secolo, in onore dell’imperatore Caro, che avrebbe fortificato e trasformato in città un preesistente kastron. Il dato è curioso, anche perché Malalas era un siro. D’altronde, nello stesso contesto, Malalas ricorda che Caro avrebbe dato il nome alla provincia di Caria. È più probabile che il cronachista fraintenda in parte la sua fonte, ma non è affatto escluso un passaggio di Caro a Carre per eseguirvi delle opere di fortificazione. 99 Porfirione, commento a Orazio, Odi III, 5. 100 Ammiano, XXIII 3, 1. Il riferimento ai «Crassi», che riecheggia forse Properzio e Ovidio, estende il ricordo della sconfitta anche a Publio Crasso (Properzio, II 10, 14; III 4, 9; Ovidio, Fasti VI, 583). Un secolo più tardi, Sidonio Apollinare (Poemi IX 251) parlerà di «Carre, bagnata dal sangue dei Crassi» (l’uso del plurale è forse dovuto a esigenze metriche). 101 Ammiano, XXIV 2, 4; 3, 1; 4, 7; 6, 12; Zosimo, III 15. 102 Ammiano, XXIV 2, 23. Cf. Fornara 1991, pp. 14 s. 103 Festo, Breviario 17; Eutropio, VI 18, 1. 104 La trasformazione dell’impero romano in impero cristiano ebbe ripercussioni anche nella regione: l’imperatore Teodosio, nel 382, ordinò la distruzione di un tempio di S∞n «presso la frontiera persiana», ma non è detto che si tratti proprio del santuario di Carre (Libanio, Per i templi 44). Poco tempo dopo, durante il suo viaggio in Terrasanta, la pellegrina cristiana Egeria fece tappa a Carre, dove tra il 22 e il 24 aprile 383 fece visita ai luoghi biblici della città e dei dintorni, venerati per la memoria del profeta Abramo e di personaggi come Giacobbe e Rebecca. La devota Egeria osserva che questi luoghi erano anche oggetto di devozione da parte dei pagani (Egeria, Itinerario 20-21). Del resto, a esclusione di alcuni sacerdoti e monaci, la po-

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polazione di Carre era integralmente pagana. Alla fine del IV secolo, la diocesi cristiana di Carre fu affidata a un religioso originario della regione, dal nome significativo di Abramo (morto nel 422). L’agiografia narra i suoi sforzi per la conversione dei pagani. Il processo non fu sempre indolore, visto che un autore locale del IX secolo rievocava le sofferenze dei pagani di Carre a causa della conversione forzata. In ogni caso, il culto lunare di Carre proseguì con la comunità dei sabei, che lo collegavano anche a quello di Abramo (Lewy 1962; Green 1992). 105 Zosimo, III 32, 3. 106 Cf. sopra, p. 98.

Epilogo Garzetti 1941-1944, parte terza, p. 54. Manfrin 1893, pp. 23 s. nota 1. Le opere di Manfrin (senatore nel 18791880) spaziano dalla storia antica al diritto amministrativo e commerciale. 3 Hanson 2002, p. 27. 4 Con il suo ragionamento, Hanson ha voluto confermare su un piano più generale il proprio concetto di «modello occidentale della guerra», che aveva già applicato con un certo successo alla Grecia classica (si vedano tuttavia le riserve critiche di Wheeler 2005). Questo, però, lo ha portato a creare un fantomatico modello orientale della guerra, del tutto astratto. In realtà, se solo confrontiamo la tradizione cinese con quella indiana, apparirà in tutta evidenza la diversità dei modelli tattici e strategici di due tradizioni certo orientali, ma molto diverse tra loro: basta questo a mostrare la debolezza del modello, come ha ben visto Lynn 2003, pp. 13 ss. 5 Stein-Hölkeskamp e Hölkeskamp 2006. La scelta ha una sua logica, dato che gli eventi prescelti – Canne, la guerra gallica, la rivolta di Spartaco, la sconfitta di Teutoburgo – hanno avuto enormi ripercussioni sia nella memoria dei romani che nella coscienza moderna. Possiamo aggiungere a questi episodi un altro disastro ‘epocale’ come la sconfitta di Adrianopoli del 378 d.C., che Alessandro Barbero ha riproposto di recente come uno degli eventi fondatori del Medioevo: Barbero 2005. 6 Cf. Traina 2010a. 7 Vd. Isnenghi 1997. 8 Né il capitano Liddell Hart, né il generale intellettuale Fuller, o tantomeno Victor Davis Hanson, hanno ritenuto utile lo studio di uno scontro decisamente anomalo sul piano militare. Fanno eccezione Baker 1935 e Weir 2004, autori peraltro molto meno autorevoli. Sul concetto di battaglie decisive cf. Harari 2007, con riferimento ad altre opere dello stesso genere. 9 Sampson 2008, p. 146, conclude che la battaglia «non fu perduta per l’incompetenza di Crasso, bensì per l’intelligenza di Surena». 10 Strauss 2004; Cartledge 2006. 1 2

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11 Mommsen 1904, p. 16; cf. Garzetti 1941-1944, parte terza, p. 60: «Trionfo pieno dunque del barbaro Oriente sull’Occidente». 12 Gabba 1966, p. 10. 13 Sampson 2008, p. 105. La panoramica di Farrokh 2007, pp. 135-140, propone un punto di vista iranico, senza peraltro aggiungere nuovi elementi. 14 Cf. Djalili e Kellner 2000. 15 Intervento del 1947 sul bollettino «Propagandist i agitator Krasnoj Armii», citato da BokΔcaˇ nin 1949, p. 41. Il termine, oggi desueto, è tipico del linguaggio elaborato dai sovietici a proposito della «grande guerra patriottica», e implica l’idea di contrattacco difensivo contro un aggressore. 16 Cf. sopra, pp. 8 ss. 17 Edwards 2000, pp. 20 ss. 18 Margolis 2006. Il paragone circola in molti siti e blog di tendenza ‘liberal’, in varianti più o meno radicali: si vedano, ad esempio, W.P. May 2006 e Levey 2008. 19 Fisk 2006. 20 Con una brillante inversione di tendenza, la Sheldon (2010, p. 212) osserva: «mentre gli americani riflettono su quanto il coinvolgimento in Iraq sia una cosa saggia, ci potremmo domandare se i romani si siano mai chiesti se sia stata una buona idea andare in guerra nella medesima regione». Evidentemente, le scelte militari dei romani – e degli americani del XXI secolo – non erano sempre dettate da uno spirito razionale (ivi, pp. 219 ss.). 21 Cardini 1978, p. 85.

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INDICI

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Abgar Ariamnes, signore dell’Osroene, 51, 62, 128, 141n, 162n; alleanza con i parti dopo Carre, 97; alleanza con i romani, 6, 41; consiglia Crasso sull’itinerario, 49; voltafaccia a Carre, 82. Abramo, 55, 162n, 163n. Abramo, vescovo di Carre nel V secolo, 163n. acciaio, 71, 72; v. anche ferro. Achemene, mitico capostipite degli Achemenidi, 158n. Achemenidi, dinastia iranica, impero degli, 5, 42, 48, 55, 68, 92, 96, 99, 158n; v. anche Artaserse I, Ciro il Grande, Dario I, Dario III, Immortali, Iran, persiani, Serse. Adiabene, 63. Adriano, Publio Elio Traiano, 130. Adriatico, 33. Adua, 137. Afquˉr Šaˉh, v. Pacoro. Afranio, Lucio, legato di Pompeo, 47. Africa, 23. Agave, v. Euripide. agmen quadratum, v. esercito romano. albani del Caucaso, 152n. Albania, 33. Alchaidamos, detto anche Alchaudonios, capo della tribù dei rambei, 6. Alchaudonios, v. Alchaidamos.

Alessandria d’Egitto, 38, 93. Alessandria di Margiana, 92, 127. Alessandro (Poliistore?), intellettuale greco dell’entourage di Crasso, 19, 37, 39, 144n s. Alessandro Magno, 5, 17, 19, 21 s., 48 s., 50, 55, 77, 136; giudizio di Tito Livio, 119 s.; modello per i condottieri romani, 17, 19, 21, 22, 48 s., 100, 101, 111 s., 124, 145n; v. anche macedone, impero. Alix, personaggio dei fumetti, 38. Allia, fiume, 137. Alta Mesopotamia, v. Mesopotamia. Amano, monte, 44. Ammiano Marcellino, 132, 151n. amorriti, 55. Anaˉhitaˉ, 95 s.; v. anche Ctesifonte. Anatolia, 34; Anatolia centrale, 34; Anatolia orientale, 6; v. anche Asia minore. Andromaco, notabile di Carre, 82, 97. Annibale, 137. Anonimo del De rebus bellicis, 121. Antiochia di Siria, 98. Antioco III, imperatore seleucide, 61, 151n. Antioco IV, imperatore seleucide, 152n, 157n. Antioco di Ascalona, 19. Antioco Theòs di Commagène, 18, 40.

198 Antonino Pio, Tito Aurelio Fulvo Boionio Arrio, 131. Antonio, Marco, 8, 46 s., 64, 94 s., 98, 100, 112 ss., 117, 123, 131, 149n, 160n. Apamea presso Zeugma, v. Zeugma. Apollonia, porto dell’Adriatico, 33. Apollonio, liberto e precettore di Publio Crasso, 39, 106. Apollonio, tiranno di Zenodotia, 36. Appia, via, VIII, 30, 109. Appiano di Alessandria, 23, 24, 130 s., 160n, 162n. Apulia, apuli, 30, 91. aquila, 158n; v. anche esercito romano, Seˉnmurw. Aquilio, Manio, 88, 156n. Aquitania, aquitani, 38, 148n. Arabia, arabi, 6, 37, 51, 52, 54, 63, 98, 102, 115; v. anche saraceni. Archelao di Comana Pontica, 8, 44. Archia di Antiochia, 19. arcieri, arco, v. esercito partico. Ardant du Picq, Ch., 81. Ardašıˉr I, 132. Arexša, mitico arciere iranico, 67. ari, v. Iran. Ariobarzane II di Cappadocia, 40. Ariovisto, 38. Aristide di Mileto, 26. Aristotele, 19. Armata Rossa, 92. Armenia, armeni, 6, 31, 41 ss., 46 s., 48, 51, 57, 60, 83, 89 ss., 93, 96, 99, 113, 118, 130, 134, 148n; aristocrazia, 44; cavalleria, 44, 51, 148n; esercito, 44; fanteria, 44, 46; v. anche Artawazd, Tigran. Arminio, capo germanico, 80. Arriano di Nicomedia, 77. Arrio, ufficiale di Crasso, 25. Arsace, fondatore dell’impero partico, 3 ss., 68. Arsacidi, 56, 99, 126; v. anche armeni, Arsace, parti.

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Artaserse I, sovrano achemenide, 110. Artaserse II, sovrano achemenide, 157n. Artawazd (Artavasde, «Artabaze» in Plutarco) di Armenia, 41 s., 43, 44, 46 s., 51, 56 s., 89 s., 98 s., 105, 113, 128, 148n, 149n. Artaxata, residenza reale dell’Armenia, 89 ss., 130. Artemidoro di Daldi, 103. Arthas´aˉstra, 3, 42, 98; v. anche Kaut.ilıˉya. Asclepiodoto, autore di strategia, 21, 77. Asia centrale, 3, 5, 37, 60, 66, 70 ss., 85, 93, 139, 140. Asia minore, 17, 20, 23, 30, 89, 117; v. anche Anatolia. Asinio Pollione, Gaio, 105. Assiria, assiri, impero assiro/neoassiro, 55, 69, 88, 145n; v. anche Alta Mesopotamia. Atargatis, divinità siriaca, 44 s., 46. Ateio Capitone, Gaio, tribuno della plebe, 30. Atene, 110, 138. Atilio Regolo, 123. Attico, Tito Pomponio, 29, 146n. Augusto, Gaio Giulio Cesare (Ottaviano), 94, 112, 114 ss.; v. anche Res Gestae Divi Augusti. Aurelio Cotta, Gaio, 12. ausiliari, v. esercito partico, esercito romano. Avesta, 65; v. anche zoroastrismo. Avroman, 95. azadaˉn, v. parti. Azincourt, 76, 101. babilonesi, impero babilonese, 55. Babilonia, città, 36, 46, 48, 129. Babilonia, regione, 5. Baccanti, v. Euripide. Bactra, 130.

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Balbo, Lucio Cornelio, 120. Balcani, 23. Balıˉh, v. Balissos. ˘ Balissos, fiume, 49, 73. banditismo, 63. barbari, barbarie, 8, 28, 46, 49, 60, 77, 80, 85, 96, 101, 104, 120, 122, 125, 130, 161n, 164n. Basilio II, imperatore di Bisanzio, 10. Bastwar, eroe dell’epica iranica, 69. Basurin, toponimo dell’Alta Mesopotamia, 151n; v. anche Surena. Batnae, 149n. battaglie, passim; battaglie «decisive», 138, 164n. Battriana, 17. battriani, v. Battriana. Bayle, P., 151n. bazm, banchetto iranico, 59. beduini, v. arabi, saraceni. bellum iustum, 110. berserkir, 75, 161n. Bibbia, 55. Bibulo, Marco Calpurnio, 106. bizantini, 70 s.; v. anche Basilio II, Maurizio. Bonaparte, N., 69. Bossuet, J.-B., 97. bottino di guerra, 23. Breccia, G., 22, 69 s. Britannia, britanni, 15, 102, 114. Brizzi, G., 79 s. Bruto, Marco Giunio, 113. Bush, G.W., 139 s. caccia, 69 s., 153n; v. anche nerge. caldei, 145n. Caligola (Gaio Giulio Cesare Germanico), 18. Callinicum, città della Mesopotamia, 49 s., 147n. Campania, 51. Campidoglio, v. Roma, Urbe. Canfora, L., 15.

199 Canne, 137, 163n. cantabri, 148n. Caporetto, 137. Cappadocia, cappadoci, 8, 40, 60, 148n. Caracalla (Marco Aurelio Severo Antonino Augusto), 131. Caria, 89, 162n; v. anche Caro, Giàsone di Tralles. Carnevale, 91. Caro, Marco Aurelio, 162n. carovane, piste e vie, 8, 41, 49, 54, 62, 149n; v. anche commerci, mercanti. Carre, città dell’Alta Mesopotamia, 6; appoggio ai romani durante la guerra mitridatica, 47; colonia macedone, 47; comunità greca, 55; cristianesimo, 162n; descrizione di Plinio, 125; etimo del toponimo, 54, 150n; guarnigione romana, 25 s., 36, 49, 82; mercato, 54; monumenti, 54; mura, 53 s.; persistenza del paganesimo, 162n; presunta edificazione da parte di Caro, 162n; riconquistata da Gordiano III, 132; sabei, 163n; storia della città, 53 ss.; tarda antichità, 131 ss., 162n; tempio di Sıˉn, 54 s.; territorio, 54, 97; tradizioni bibliche, 53, 162n; viabilità, 50, 149n; zecca, 131. Caspio, mare, 3, 63. Cassio Dione Cocceiano, 6, 28, 37, 47, 48 s., 59 s., 76, 77, 78, 81, 82, 94 s., 112, 118, 119, 137, 142n, 148n. Cassio Longino, Gaio, 26, 49, 78, 82, 97, 105, 106 s., 112. Cassivellauno, capo britanno, 102, 103. Castore, figlio di Tarcondimoto, 148n. catafratti, v. esercito partico. Catilina, Lucio Sergio, 11.

200 Catone, Marco Porcio, il Censore, 145n. Catone, Marco Porcio, il Giovane, 12, 28. Catullo Valerio, Gaio, 7, 25, 66. Caucaso, 107, 113, 152n. Cauno, 30. cavalleria, v. esercito partico, esercito romano. cavalli, 49, 52, 59, 60, 71, 78, 117, 140. Cecilia Metella, moglie di Marco Crasso junior, 109. celti, v. esercito romano, galati, galli. Censorino, Marcio, ufficiale di Crasso, 26, 78, 79. centuria, v. esercito romano. centurioni, v. esercito romano. Cesare, Gaio Giulio, IX, 13, 14, 17, 25, 106, 113, 114, 129, 136; campagne in Britannia, 15; commentarii e corpus degli scritti, 22, 52, 108, 110; dittatura, 111; guerra civile contro Pompeo, 21, 108; guerra gallica, 15, 25, 27, 38, 52, 108 s., 163n; membro del ‘primo triumvirato’, 9; nel 59 fa incarcerare Catone il Giovane, 12; pensiero strategico, 77; progetto di campagna orientale, 110 ss.; proposta di consegnarlo al nemico, 15; ucciso da una congiura di senatori, 112. chiliarca, greco per «tribuno», v. esercito romano. Cicerone, Marco Tullio, 25, 26, 31, 39, 86, 99, 107 s., 110 s.; appoggia Crasso e cura i suoi affari dopo la partenza per l’Oriente, 29, 110; difende Gabinio in tribunale, 144n; epistolario, 146n; giudizio su Crasso, 12; ideale di comandante, 14; opinioni politiche, 12; politica dopo il cesaricidio, 112;

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proconsole in Cilicia, 99, 106, 107; rapporti con Crasso, 12 s., 29, 39, 111; rapporto con Publio Crasso, 39; uccisione per conto dei triumviri, 112. Cilicia, provincia romana, 6, 40, 99, 106. Cina, cinesi, 7, 36 s., 65, 66, 68, 70, 72, 80 s., 92, 157n, 163n; v. anche Suˉnzıˇ Bıˉngfaˇ. Ciro il Grande, 88, 100. città greche o ellenizzate in Mesopotamia e in Oriente, 20, 24, 35, 52, 55, 63, 99, 130. Claudio Pulcro, Appio, 28. Cleopatra VII, regina d’Egitto, 112, 114. clientes, 27. Clodio Pulcro, Publio, 17. Comana Pontica, 8, 44. Commagène, 18, 40, 43. commerci, 92; v. anche carovane, mercanti. coorte, v. esercito romano. Coponio, ufficiale di Crasso, forse pretore del 49, 25, 36, 49, 82. Corneille, P., 58. Cornelia Metella, moglie di Publio Crasso, 108, 125. Cornelio Lentulo Spinther, Publio, 40. Crasso, Marco Licinio, passim; abilità oratoria, 13 s.; ambizione, 18; amicizia con l’intellettuale Alessandro, 19; arroganza, 13; avallo del Senato alla campagna orientale, 18; avidità di denaro, 13, 45; biografia, 9 ss.; campagna con Silla contro Mario, 9, 14; campagna in Spagna, 14; campagna orientale, 18; combattimento a Carre, 74 ss.; comportamento negli affari, 10; confronto con Surena, 58; console nel 70 insieme a Pompeo, 16; console nel 55 insieme a Pom-

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peo, 16; effettivi del suo corpo d’armata, 24; epistolario perduto, 161n; fama di affarista, 9 s.; fama militare inadeguata, IX s., 10; giudizio di Plutarco, VIII s., 13, 128 ss., 161n; imitazione di Alessandro, 48 s., 50, 52; imitazione di Senofonte, 50; imperizia geografica, 100; implicazione nella congiura di Catilina, 11; ‘leggenda nera’, 47, 119 ss.; mancanza di decorum, 13, 17; membro del ‘primo triumvirato’, 9; mette in discussione i poteri di Gabinio, 17; morte dopo la battaglia, 26, 84 s.; mutilato dopo la morte, 85 ss.; numero degli effettivi, 23, 145n; orazioni, 124; partenza da Roma, 30; possibile identificazione con il Demone Bianco iranico, XIII, 127; pretura nel 73, 9; primo anno della campagna, 35 ss.; progetto di vendicarlo dopo Carre, 105 ss.; rapporti con Cicerone, 12 s., 111; recluta soldati italici per la campagna orientale, 27; reprime la rivolta di Spartaco, VIII, 9, 14; ricchezza, 10 s., 21; richiesto come ostaggio dopo la battaglia, 82; ritratti, 11 s.; saccheggia i tesori della Siria, 44 s.; sconvolgimento dopo la battaglia, 81 ss.; sorte del cadavere dopo la battaglia, 85 ss.; trascura l’organizzazione della campagna, 27; villa di Tuscolo, 144n; v. anche esercito romano, presagi. Crasso, Marco Licinio junior, 38 s., 108 s., 114, 159n. Crasso, Marco Licinio, figio di Marco Crasso junior, 114. Crasso, Publio Licinio, 27, 38 s., 46, 106, 108, 125; assiste il padre a Roma, 39; combatte in Gallia con Cesare, 38, 47 s., 148n; comportamento a Carre, 78; guida un con-

201 tingente di cavalieri gallici, 38, 78, 102, 148n; irruenza in combattimento, 38, 73; morte in battaglia, VIII, 79; nome del suo uccisore, 155n; profilo di giovane esemplare, 39; sorte del cadavere dopo la battaglia, 85 ss. crassus, termine del gergo militare francese, X, 141n. Creasy, E.S., 138. Crevier, J.-B., 57. Ctesifonte, residenza dell’impero partico, IX, 49, 50, 87; tempio di Anaˉhitaˉ, 95. dakhma, v. riti funerari. Dario I, imperatore achemenide, 70. Dario III, imperatore achemenide, 156n. Decidio Saxa, Lucio, 94, 113, 117, 123. De Gubernatis, A., 86. Deiòtaro, re dei galati, 34, 40, 98, 157n; v. anche esercito romano. Del Dongo, Fabrizio, protagonista della Certosa di Parma, XI. Demone Bianco, figura mitologica iranica, XI s., 127. deserto, 6, 50 s. dhanurved, termine hindi per arti marziali, 68. Dillemann, L., 149n. Dioniso, 157n. diplomazia, 5, 13, 20, 39, 48, 71, 84, 116, 118, 147n. dirae, 30. disonore, VIII, IX, 14, 96, 97, 117. Dogali, 137. Domiziano Augusto Germanico, Cesare, 103. Domizio Enobarbo, Lucio, 28. dromedari, v. esercito partico. Dubs, H., 93 s. Duggan, A., 38. Du-Lai, fiume, 93.

202 Dumézil, G., 88, 151n. Dyrrachium, 33. ebrei, 45, 124. Edessa, capitale dell’Osroene, 6, 41, 46, 132, 150n. Efeso, 68. Egeria, pellegrina cristiana, 162n. Egitto, 8, 64, 87, 112, 144n; v. anche Cleopatra VII, Tolemeo XII. Egnazia, via, 33. Egnazio, ufficiale di Crasso, 25, 82. El Alamein, 137. Eleazar, sacerdote del Tempio di Gerusalemme, 45. Eliano Tattico, autore di strategia, 77. Elimaide, 64. Elio Gallo, Gaio, 114. Ellenismo, arte e cultura ellenistica, 19, 22, 34, 45, 69. ellenistica, arte militare, 61, 67. ellenistici, regni, 5, 18, 19, 40, 43, 48, 76, 98, 112. Ellesponto, 33. Emilio Lepido, Marco, 112. Emilio Paolo, Lucio, 29. Engels, F., 14. Ennio, Quinto, 145n. epica iranica, 67; v. anche Firduˉsıˉ, goˉsaˉn. Erodiano, 60. Erodoto, 86, 87, 88, 151n. esercito partico: abbigliamento, 71; arcieri, arco, 59, 66 ss., 71, 77, 117, 125, 135; armature, 37; armi, 71 s.; ausiliari, 62, 63; capigliature, 58, 60; cavalleria leggera ovvero hippotoxotai (arcieri a cavallo), XI, 62, 69, 70, 72, 78, 81, 93; cavalleria pesante corazzata ovvero kataphraktoi, catafratti, IX, 37, 61, 64, 70, 78 s., 81, 102, 135; composizione e organizzazione, 62, 152n; fanteria, 59, 61, 63, 64; frec-

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ce, 63, 67 ss., 76, 78; insegne militari, 76, 118; inservienti, palafrenieri, scudieri, 63 s.; lance dei catafratti, 61, 64, 69 s.; mercenari, 62 s.; modo di combattere, 101 s.; sella ‘cornuta’, 102; tamburi di guerra, 74 ss., 154n. esercito romano: addestramento, 27; armature (corazze, lorica hamata), 72, 101; armi (gladio, giavellotto o pilum), 72, 77, 102; ausiliari, X, 24, 35, 38, 40 s., 78, 93 s., 103, 148n; cavalleria, 23 ss., 38, 82; centuria, 21; centurioni, 22, 25, 28, 82; contubernium, 21; coorti, 21, 24, 83, 155n; disciplina, 23, 27; fanteria leggera, 24 s.; fanteria pesante, 23 s., 76; giuramento dei soldati, 30, 146n; insegne militari o signa (aquile), VIII, 23, 95 ss., 112, 113 ss., 160n; inservienti, palafrenieri, scudieri, 24 s., 41; legati, 25, 26; legio Deiotariana, 35, 157n; legionari, passim; legioni, VIII, 20, 23 ss., 27, 92, 94, 108, 146n; mercenari, 24, 35; prefetti, 25; rapporti fra comandanti e truppe, 23; reclutamento, 27 s.; riforma di Gaio Mario, 21, 23; schieramenti (agmen quadratum, formazione a «testuggine»), 72, 77, 92, 154n, 155n; sella, 102; sottufficiali, 82; strumenti a fiato, 154n; superiorità della legione, 22 s., 77; tribuni, 25; ufficiali, 25, 39, 146n; veterani, 23, 28; v. anche Crasso, insegne militari romane. etiopi, 67. Etolia, 145n. Eufrate, 8, 9, 36, 37, 41, 42, 49 s., 82, 84; come frontiera, 5, 35, 60, 122, 136 s., 147n; ponte di Alessandro, 48 s.; ponte distrutto da Crasso, 50; v. anche Zeugma. Eunapio di Sardi, 134.

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Euripide, 89 s., 130, 157n. Eusebio di Cesarea, 133. Eutropio, 133. Exathres (una delle varianti), uccisore di Crasso, 155n. Fair, Ch., IX. falange macedone, 21, 22, 23, 76. Farsàlo, 21, 109, 125, 148n. Fasti consolari, 117. ferro partico, 36 s., 154n; v. anche acciaio. Festo, Rufio, 133. Filippi, 113. Firduˉsıˉ, poeta persiano (X-XI sec.), XII, 127; v. anche epica iranica. Fisk, R., 140. Flavio Giuseppe, 45, 64, 98, 124, 160n. Floro, Lucio Anneo ovvero Publio Annio, 24, 88, 130. Ford, H., imprenditore statunitense, 10. Fraate III, re dei parti, 7, 42, 48. Fraate IV, re dei parti, 113, 116. fravaši, demoni iranici dell’Oltretomba, XI. frecce, v. esercito partico. Fuller, J.F.C., 163n. Fulvio Nobiliore, Marco, 145n. Gabba, E., 138. Gabinio, Aulo, proconsole di Siria, 7 ss., 14, 15, 17, 24, 29, 38, 40, 44, 66, 97, 98, 105, 113, 143n, 144n. Gaio Giulio Cesare, figlio di Agrippa e Giulia, nipote di Augusto, 118, 122; v. anche Lucio Giulio Cesare. Galazia, galati, 34 s., 93. Galerio Valerio Massimiano, Gaio, 132. Gallia, Gallie, galli, 15, 27, 38, 47, 102, 137, 144n, 148n. Gallia Cisalpina, 109.

203 Gˇamšıˉd, eroe dell’epica iranica, 154n. Gange, 107. Gansu, v. Li Qian. germani, 15, 38, 100, 102, 148n. Gerusalemme, 44, 124. Giacobbe, 162n. Giàsone di Tralles, 89. Gindaros, fiume, 113. Giove, 114, 117. Girolamo (Sofronio Eusebio), santo, 134. Giudea, 64. Giuliano, Flavio Claudio, 132 s., 134. «Giuntura», v. Zeugma. Giustino, v. Pompeo Trogo. gladio, v. esercito romano. Gondophares, vassallo dell’impero partico, 161n; v. anche Rostam. Gordiano III (Marco Antonio Gordiano Pio), 132. goˉsaˉn, bardi di tradizione iranica, 90, 126; v. anche epica iranica. Gotarze, satrapo e usurpatore partico, 48. Grecia, greci, 20, 89 s., 145n, 163n; v. anche città greche. guerra gallica, v. Cesare. guerra mitridatica, v. Mitridate VI Eupatore. guerre civili, 9, 16, 18, 20, 23, 27, 28, 91, 97, 108, 109, 131, 145n. ∙ Gullaˉb, affluente del Balıˉh, 53; v. an˘ che Carre. Habur, fiume, 149n, 150n. ˘ Halys, fiume dell’Asia minore, 54. Han, dinastia cinese, 71. Hanson, V.D., 136 s., 163n. Harran (Harraˉn), v. Carre. ˘ di Siria, 44; v. anche Hierapolis Atargatis. hippotoxotai, v. esercito partico. Historia Augusta, 131.

204 Hitler, A., 139. Hugo, V., 69. hunar, «valore» in medio-persiano, 65. Huntington, S.P., 139. iberica, penisola, v. Spagna. Ibn Qutaybah, 65, 155n. Ichnai, cittadella dell’Alta Mesopotamia, 35, 50, 147n. imagines, 12. Immortali di Serse, 62. imperator, 36. imperialismo romano, 5, 105. imperium extra ordinem, 16. impero macedone, v. macedone, impero; Macedonia. impero partico, v. parti. impero seleucide, v. Seleucidi. India, indiani, 7, 17, 42, 68, 86, 111, 163n. Indra, divinità indo-iranica, 58. informazioni, sistemi informativi, IX, 20, 51, 52, 60. insegne militari, v. esercito partico, esercito romano. intellettuali greci, 19 s. Iran, iranici, XI, 5, 7, 8, 15, 48, 54, 65, 85, 126, 152n; v. anche Achemenidi, Elimaide, medio-persiano, parti, persiani, Susiana. Iraq, 37, 140, 164n. Ircania, 130. Isidoro di Charax, 50. Italia, 14, 15, 27, 28. italici, 20, 27, 94; v. anche apuli, marsi, lucani. ittiti, impero ittita, 55. Jones, T., 142n. Jullien, F., 80. Kaut.ilıˉya, 3, 42, 98; v. anche Arthas´aˉstra. Kayanidi, stirpe regale dell’epos iranico, 127.

Indice dei nomi e delle cose notevoli

Keegan, J., XI, 81. Kurdistan, 95. Kutuzov, M.I., maresciallo di Russia, 37. La Penna, A., 115 s. Lattea, Via, 107. legati, v. esercito romano. legione, v. esercito romano. Lendon, J., 145n. letteratura militare, 22, 65 s., 71, 77. Licinia, vergine vestale, 12. Licinio Muciano, Gaio, 124. Liddell Hart, B., 142n, 163n. liguri, 21. Li Qian, città, 93. littori, 25, 83. Livia Drusilla, moglie di Augusto, 117. Livio, Tito, 18, 25, 39, 61, 119 s., 127. lorica hamata, v. esercito romano. Lucania, lucani, 27, 30, 92, 146n. Lucano, Marco Anneo, 124. Lucca, 145n. Lucio Giulio Cesare, figlio di Agrippa e Giulia, nipote di Augusto, 118, 122; v. anche Gaio Giulio Cesare. Lucrezio Caro, Tito, 31, 33, 147n. Lucullo, Lucio Licinio, 5, 6, 17, 19, 31, 36, 43, 44, 46, 90, 129, 147n, 161n. macedone, impero, 29, 55, 119; v. anche Alessandro Magno, falange macedone. Macedonia, 34. Machiavelli, N., 101, 158n. magi, casta sacerdotale iranica, 7, 86. Magnesia al Sipilo, 61, 151n. Magno di Carre, 133. Malalas, Giovanni, 133, 162n. Manaseryan, R., 42. man.d.ala dei re, v. Kaut.ilıˉya.

Indice dei nomi e delle cose notevoli

Manfrin, P., 135 s., 163n. manipolo, 21; v. anche legione. Männerbund, 101. Mantegazza, P., 86. mardi, 95. Margiana, 71, 92. Margolis, E., 139. Mario, Gaio, 9, 21, 23, 27. Marsica, marsi, 27 s., 91, 95. Marte, 33, 91, 117. Martin, J., 38. Marx, K., 14. massàgeti, 88. Maurizio, imperatore bizantino e autore di strategia, 70, 71, 105. Maurya, impero, 42. Maxathres, v. Exathres. Mazaras, traditore siriano, 130, 162n. mazdeismo, v. zoroastrismo. Mazzarino, S., 161n. medi, impero dei, 55. Media Atropatene, medi, 8, 46, 130, 149n, 152n. medio-persiano, 67. Mediterraneo, 5; Mediterraneo orientale, Oriente mediterraneo, 41, 76. Megabacco, ufficiale di Crasso, 26, 78, 79. menapii, tribù celtica, 109. mercanti, 54; v. anche carovane, commerci. mercenari, v. esercito partico, esercito romano. Merv, v. Alessandria di Margiana. Mesopotamia, VIII, IX, 7, 8, 19, 35, 36, 37, 46 ss., 51, 54, 63, 64, 72, 85, 97, 102, 106, 132, 139, 147n; Alta Mesopotamia, 5, 7, 41, 53, 151n; tradizioni astronomiche, 155n; viabilità, 49. metallo, metallurgia, 72, 88 s., 156n. Millar, F., 151n. Mitanni, 55.

205 Mithra, divinità iranica, XI. Mitridate II, re dei parti, 48, 126. Mitridate (III), principe e pretendente al trono dei parti, 7, 8, 36, 57. Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, 5, 8, 16, 19, 20, 34, 47, 68, 89, 102, 156n. Moˉbad, re del poema Vıˉs uˉ Raˉmıˉn, 127. Mommsen, Th., 58, 102, 138. mongoli, 54, 70. Mosè di Khoren, 98, 134. mos maiorum, 16, 17, 30; v. anche tradizionalismo. Mucio Scevola, Quinto, 144n. mundus pater, 147n. mutilazione rituale, 88, 112 s. Nabonedo, re di Babilonia, 150n. Narseh, imperatore sasanide, 132. nerge, tecnica di caccia dei mongoli, 70. Nero, mare, 123. Nerone, Claudio Giulio Cesare Augusto Germanico, 18, 63. Nicia, 129. Nicola di Damasco, 105, 124. Nikephorion, cittadella dell’Alta Mesopotamia, 36. Nikephorion, v. Callinicum. Ningal, divinità mesopotamica, 150n. Nisa (Mithradatkirt), residenza partica, 71; Nisa vecchia, una delle due cittadelle di Nisa, 69; nisea, razza di cavalli, 71. Nisibi, città dell’Alta Mesopotamia, 7. nomadi, XIII, 3, 49, 54, 55, 56, 57, 60, 61, 62, 64, 66, 70, 92. omerici, poemi, 87. Onasandro, autore di strategia, 77. optimates, 12, 16.

206 Orazio Flacco, Quinto, 91 s., 114 s., 132, 160n; v. anche Porfirione. Oriente, 7, 9, 28, 39, 67, 105, 107, 109, 113, 114, 126, 151n; Estremo Oriente, 17; Medio Oriente, 106, 125; Vicino Oriente, 5, 68. Orlat, placchetta con scena di combattimento, 74. oro, X, 8, 10, 30, 36, 44 s., 46, 76, 84, 88, 96, 156n. Orobazo, ambasciatore partico, 126. Orode II, re dei parti, 7, 36, 51, 55, 56 s., 58, 59, 64, 83, 89, 90, 92, 97, 102, 112, 113, 123, 130, 161n. oroscopo, 82. Orosio, Paolo, 25, 39, 119, 134. Orroa, v. Edessa. o(s)rei, tribù araba, 6. Osroene, 6, 41, 132. osseti, 71, 88. Ottaviano, v. Augusto. Ottavio, ufficiale di Crasso, 25, 82, 83, 84. Ovidio Nasone, Publio, 85, 96, 122 s. Paciano, Vibio, ospite di Crasso in Spagna, 27. Pac(c)iano, Gaio Vibio (?), membro della spedizione e sosia di Crasso, 26, 91. Pacoro, figlio di Orode II, 64, 89, 106, 113, 128. Parthava, v. Partia. Partia, parti, passim; accordo con la Cina degli Han nel 106, 71; accordo con Roma per la restituzione delle insegne, 94; appoggiano Pompeo nella guerra civile contro Cesare, 109, 112; arte, 58, 64; attacchi contro la Siria dopo Carre, 98; azaˉtaˉn ovvero «liberi», 64, 153n; conquista della Mesopotamia, 55; crisi dinastica del 58, VIII, 7, 48; frontiere dell’impero, 59, 62, 92; Gran Re, 68; origini del-

Indice dei nomi e delle cose notevoli

l’impero, 3; schiavi o servi, 63, 152n; tradizioni epiche sulla campagna di Carre, XIII, 126; trattato del 64 con Pompeo, 7; valutazione da parte romana, 7, 60, 86, 97, 131; v. anche Iran, iranici. Peium, fortezza della Galazia, 34. Pènteo, v. Euripide. Persia, persiani, XI s., 7, 55, 61, 67, 69, 127, 130, 131, 154n; v. anche Achemenidi, epica iranica, Iran, medio-persiano, riti funerari, Sasanidi. Persico, golfo, 17. Petronio, ufficiale di Crasso, 25, 83, 84. Piceno, 27. pilum, v. esercito romano. Plinio Cecilio Secondo, Gaio, detto Plinio il Vecchio, 54, 67, 72, 76, 92 s., 96, 125. Plutarco di Cheronea, biografo di Crasso, VII, VIII, X, 13, 24, 25, 26, 27, 35, 37, 39, 49, 56 s., 58, 59, 62, 63, 74, 75, 77, 79, 84, 89 ss., 102, 103, 106 ss., 119, 128 ss., 142n, 148n, 152n, 155n, 161n. Poliistore, v. Alessandro, intellettuale greco. Pomaxathres, v. Exathres. Pompeo Magno, Gneo, IX, 14, 15, 17, 28, 30, 36, 40, 98, 143n, 148n; amicizia con Posidonio, 19, 56; amicizia con Teofane di Mitilene, 19, 110; concede a Deiòtaro il titolo regale, 34; console nel 70 insieme a Crasso, 9; console nel 55 insieme a Crasso, 16; convince Crasso ad appoggiare Gabinio, 17; crisi dinastica del 58, 7; guerra civile contro Cesare, 21, 108 s.; guerra contro Mitridate del Ponto e Tigran d’Armenia, 5 s., 41, 43, 47; legioni stanziate in Siria, 24; medita di rifugiarsi in Partia,

Indice dei nomi e delle cose notevoli

110; morte, 109; profana il Tempio di Gerusalemme, 55; rapporti con l’Armenia, 47; recluta legionari piceni ai tempi della guerra fra Mario e Silla, 27; ritratto, 11; sostenuto da Orode II, 109 s., 112; terzo trionfo nel 61, 17; trattato del 64 con i parti, 7. Pompeo Trogo, Gneo, 56, 62, 63, 64, 74, 86, 106, 109, 122, 123, 143n, 160n. Ponto, v. Mitridate VI. populares, 12, 16, 28. Porfirione, Pomponio, 132; v. anche Orazio. Posidonio di Apamea, 19, 31, 56, 101. prefetti, v. esercito romano. presagi, 29 s., 35, 46, 50 s. prigionieri, 40, 90 ss., 113 s. Principato, età del, 25, 47, 118, 120. Procopio di Cesarea, 151n. Properzio, Sesto Aurelio, 115, 118. province romane: definizione, 144n; sorteggio delle province, 16; zona operativa di Crasso, 123; v. anche Cilicia, Siria. pubblicani, 8, 20. Qohelet, VII. questori, v. esercito romano. Racine, J., 151n. rambei, tribù araba, 6. Raqqah, v. Callinicum. Rebecca, 162n. Reno, fiume, 15. Repubblica romana, età repubblicana, 11, 16, 20, 120; tarda Repubblica, 12, 17 s.,19, 24, 27, 31, 97, 123, 144n. Res Gestae Divi Augusti, 117, 122; v. anche Augusto. Res‘ainaˉ, 149n. riti funerari, 87. Rollin, Ch., 57 s.

207 Roma, passim; v. anche Repubblica romana, Principato. Roma, Urbe, 29, 38, 91; arco partico, 117; Campidoglio, 91; Foro, 13, 117; Foro di Augusto, 117; mausoleo dei Giulio-Claudi, 120; Rostra, 112; tempio di Giove Feretrio, 117; tempio di Marte Vendicatore, 117; tomba di Cecilia Metella, 109; via Sacra, 115; villa suburbana di Prima Porta, 117. Roscii, fratelli, membri della spedizione di Crasso, 26, 84; v. anche Rustio. Rosso, mare, 17. Rostam, eroe dell’epica iranica, XI, 127, 142n, 161n; v. anche Gondophares, Surena, Zaˉl. Russia, 37. Rustio, probabile ufficiale di Crasso, 26; v. anche Roscii. sabei, v. Carre. Sakaˉ, popolo dell’Asia centrale, 55 s., 62, 65, 127; v. anche sciti. Sakasteˉneˉ (Sakaˉstan), v. Sakaˉ. Salamina, 138. Sallustio Crispo, Gaio, 16. Šami, «principe» di, statua partica, 58. Sampson, G., 141n. saraceni, 6, 8, 37, 62. sarmati, 67. Saˉsaˉn, 132. Sasanidi, impero sasanide, 56, 65 s., 71, 96, 126, 132, 134; v. anche Ardašıˉr I. schiavi, servi, v. parti. sciamani, 74. Scipione Africano, Publio Cornelio, 77, 99, 106, 136. Scipione Emiliano, Publio Cornelio, 107. Scipione Nasica, Quinto Metello Pio, 110.

208 sciti, 55, 63, 67, 69, 70 s., 85, 87, 121; v. anche Sakaˉ. scudieri, v. esercito partico, esercito romano. Seleucia presso Zeugma, v. Zeugma. Seleucia sul Tigri, 26, 36, 49, 50, 87, 91. seleucide, impero, v. Seleucidi. Seleucidi, 5 s., 43, 46, 48, 54, 61. Selgiuchidi, 70. Senato, 5, 7, 8, 15, 16, 18, 31, 34, 57, 60, 91, 108, 111, 132, 143, 144n; senatori nell’esercito di Crasso, 26. Seneca, Lucio Anneo, 68, 124 s. Seneca, Lucio Anneo, detto il Vecchio, 123. Seˉnmurw, uccello mitico iranico, 76, 96. Senofonte, 22, 47, 50, 96, 99, 101, 151n. Serse I, sovrano achemenide, 62, 124. Serudj, v. Batnae. Sheldon, R.M., 165n. Sidonio Apollinare, Gaio Sollio, 162n. signori della guerra, 6, 16, 44. Silace, governatore partico della Mesopotamia, 35, 55, 59, 61, 62, 89, 151n. Silla, Lucio Cornelio, 9, 13, 14, 27, 130, 146n. Sima Qian, storico cinese, 66. Simorgh, v. Seˉnmurw. Sıˉn, divinità lunare della Mesopotamia, 54, 131, 133, 162n. Sinnaka, 83, 147n, 150n, 161n. Sinnakes, satrapo della Mesopotamia, 147n. Siria, provincia romana, 6, 7, 8, 14, 16, 19, 24, 27, 29, 35, 36, 38, 40, 46, 54, 62, 91, 98, 106, 120, 148n. Sirio, 68. Sisenna, Lucio Cornelio, 26. Sistaˉn, v. Sakaˉ.

Indice dei nomi e delle cose notevoli

Sommer, M., 143n. Spagna, Spagne, 15, 16, 21, 23, 27, 28. Sparta, 138. Spartaco, VIII, 9, 14, 163n. Stalin (I.V. Džugašvili), 92, 139. Stark, F., 37, 141n. Staziano, Oppio, luogotenente di Marco Antonio, 160n. Stendhal (Henri-Marie Beyle), XI. Strabone, 49, 100, 121 s., 160n. stratagemmi, 46, 70 s., 74. Subcaucasia, 41. Suˉnzıˇ Bıˉngfaˇ (Sun Tzu), 73, 80, 100. Surena, comandante partico, XI, 55 ss., 64, 66, 73, 87, 96, 101, 103, 133, 138, 139, 140, 151n, 155n; aspetto fisico, 58; confronto con Crasso, 58; contingente di diecimila uomini, 62 s.; definito da Mommsen come «visir», 58, 138; famiglia dei Suˉreˉn, 55 s.; feudi in Mesopotamia?, 151n; intelligenza tattica, 81; modello per il personaggio mitico di Rostam, XI; mosse dopo la battaglia, 82 ss.; nome, non titolo, 150n; occupa la Mesopotamia occidentale dopo Carre, 97; ‘praefectus’ dell’esercito partico, 61; rapporto con il toponimo Basurin, 150n; sfoggio di lusso, 58 s.; talento militare, 79 ss. Surena, comandante sasanide nel IV secolo, 150n. Susiana, 58. al-T.a‘aˉlibıˉ, 128. Tacito, Cornelio, 121, 126, 151n. tamburi di guerra, v. esercito partico. Tang-e-Sarvaˉk, 64. Taratha, v. Atargatis. Tarcondimoto, dinasta e re della Cilicia interna, 44. Tarquinio, Lucio, 11.

Indice dei nomi e delle cose notevoli

Temistocle, 110. tencteri, tribù germanica, 15, 129. Teodosio, Flavio, 162n. Teofane di Mitilene, 19, 110. Termopili, 100. Terrasanta, 162n. Tertulla, Axia, moglie di Crasso, 11. testuggine, v. esercito romano. Teutoburgo, 80, 100, 120 s., 163n. Tiberio, Giulio Cesare Augusto, 109, 116, 118, 120, 123. Tigran (Tigrane), re d’Armenia, 5 s., 31, 41 s., 43 s., 48, 99, 134, 147n. Tigranakert (Tigranocerta), fondazione di Tigran d’Armenia, 6, 90. Tigri, 54, 115; v. anche Seleucia sul Tigri. Til Barsib, 149n. Timagene di Alessandria, 105. Tiridate, pretendente al trono partico, 116. Tolemeo XII «Aulete», 8. Tomyris, regina dei massàgeti, 88. Torri del Silenzio, v. riti funerari. Tracia, 34. tradizionalismo romano, 12, 15, 16, 17, 31, 128; v. anche mos maiorum. Traiano, Marco Ulpio, VIII s., 126, 129 s., 131. trattati antichi di strategia, v. letteratura militare. tribuni, v. esercito romano. triumvirato: cosiddetto ‘primo triumvirato’, 9, 28 s., 31, 41, 97; secondo triumvirato, 112; v. anche Cesare, Crasso, Pompeo. trofei, 115, 118. Turchia, 53. Turkmenistan, 5, 92. Tuscolo, 144n. 11 settembre, 138. unni, 62, 63, 66, 93; v. anche XiongNu. Urha, v. Edessa.

209 usipeti, tribù germanica, 15, 129. Vagise, ambasciatore partico, 148n. Valeriano, Publio Licinio, 132. Valerio Massimo, 85. Vargunteio, ufficiale di Crasso, 25, 82. Varo, Publio Quintilio, 120. Varrone, Marco Terenzio, 147n. Vegezio Renato, Publio Flavio, 53. Velleio Patercolo, Marco, 94, 120, 161n. Venere, 33. Ventidio Basso, Publio, 113. Vercingetorige, 102, 103. Vesta, 73, 91, 114. veterani, v. esercito romano. Via della Seta, 71. Videˉvdaˉd, 85. Vietcong, 141n. Vietnam, IX, 70. Vıˉs uˉ Raˉmıˉn, poema neopersiano di tradizione partica, 75, 90, 127 s. Vologase I, re dei parti, 63. Wahraˉm, Fuoco di, il tempio zoroastriano di grado più elevato, legato alla vittoria, 65. Waterloo, XI, 69. Wavell, A.P., 142n. Weber, M., 138. Xiong-Nu, 66; v. anche unni. xweˉdoˉdah, matrimonio incestuoso di tradizione iranica, 7. Zagros, monti, 113. Zaˉl, padre di Rostam, 96, 126, 142n. Zenodotia, città della Mesopotamia, 36. Zeugma, 18, 48, 50. Zhelaizhai, 93 s.; v. anche Li Qian. zoroastrismo, zoroastriani, 87, 155n; v. anche riti funerari. Zosimo, 134, 144n.

INDICE DEL VOLUME

Prologo   9 giugno 53 a.C., piana di Carre, Alta Mesopotamia I.

L’invasione

VII

3

I due imperi, p. 3 - La nuova campagna orientale e il suo comandante, p. 9 - Il corpo di spedizione, p. 20 - Il primo anno di guerra, p. 35 - Il piano di Crasso, p. 46

II. Aspettando il Demone Bianco

53

Harran/Carre, p. 53 - L’armata di Surena, p. 55 - Nascere con l’arco, p. 66

III. Cronaca di una sconfitta annunciata

73

Lo scontro del 9 giugno, p. 73 - La fine, p. 81 - Il corpo del comandante, p. 85 - I prigionieri e le insegne perdute, p. 90 - Le ripercussioni politiche e militari, p. 96

IV. La memoria della battaglia

105

Propositi di vendetta, p. 105 - La memoria augustea e la metamorfosi di Crasso, p. 116 - Lo sguardo partico, p. 126 - Plutarco e l’età imperiale, p. 128 - Carre nella tarda antichità, p. 131

Epilogo

135

212

Indice del volume

Note

141

Bibliografia

165

Referenze iconografiche

193

Indice dei nomi e delle cose notevoli

197