La preghiera, scuola di vita. Commento al Padre nostro. Omelia catechetica 11 9788882277413

La preghiera del Padre nostro per Teodoro riveste una funzione particolare all'interno della vita di fede: essa non

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La preghiera, scuola di vita. Commento al Padre nostro. Omelia catechetica 11
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TESTI DEI PADRI DELLA CHIESA TESTI DEI PADRI DELLA CHIESA

TEODORO DI MOPSUESTIA

LA PREGHIERA, SCUOLA DI VITA

83 MONASTERO DI BOSE MONASTERO DI BOSE MONASTERO DI BOSE

Avvicinare gli uomini e le donne del nostro tempo ai padri della chiesa dei primi secoli, colmando un divario di oltre un millennio, può sembrare impresa proibitiva. Situazioni ­storiche, mentalità, linguaggi, generi letterari, modi di vive­ re, di pensare e di esprimersi sono profondamente cambiati eppure – come paradossalmente – l’uomo di oggi sente il bi­ sogno di ritrovare il proprio terreno vitale, le radici, le fonti del suo esistere. L’intento della collana è proprio questo: facilitare l’acco­ stamento e la conoscenza dei primi testimoni cristiani, di coloro che la Chiesa ha considerato Padri perché capaci di ­trasmettere la vita a intere generazioni di credenti. Presentia­ mo qui brevi testi inediti o di difficile reperimento di padri greci, orientali e latini, scegliendoli dall’enorme patrimonio giunto fino a noi a testimonianza del primo, fecondo incontro tra cristianesimo e cultura. La presentazione dei testi – scelta dei brani, stile di traduzione, brevi introduzioni o profili, an­ notazioni – mira all’essenziale: permettere alla più ampia cer­ chia possibile di lettori di trovare cibo e bevanda per la loro fame e sete spirituale.

TEODORO DI MOPSUESTIA

LA PREGHIERA, SCUOLA DI VITA Commento al Padre nostro Omelia catechetica 11 Introduzione, traduzione dal siriaco e note a cura di Sabino ChialÜ monaco di Bose

MONASTERO DI BOSE

SOMMARIO

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Introduzione

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La preghiera, scuola di vita

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Commento al Padre nostro. Omelia catechetica 11

AUTORE: TITOLO: SOTTOTITOLO: COLLANA: FORMATO: PAGINE: CURATORE: TRADUZIONE: IN COPERTINA:

Teodoro di Mopsuestia La preghiera, scuola di vita Commento al Padre nostro. Omelia catechetica 11 Testi dei padri della chiesa 83 20 cm 36 Sabino ChialÜ dal siriaco a cura di Sabino ChialÜ, monaco di Bose Gesô insegna alle folle, miniatura (xi secolo), cod. 587, f. 19v, Monastero Dionysiou, Monte Athos

Prima edizione digitale 2016 Ó 2006 EDIZIONI QIQAJON MONASTERO DI BOSE 13887 MAGNANO (BI) Tel. 015.679.264 - Fax 015.679.290

isbn 978-88-8227-741-3

INTRODUZIONE

Teodoro

Teodoro nacque verso il 350 ad Antiochia1, cittÜ particolarmente ricca di reminiscenze cristiane: à qui che, secondo gli Atti degli apostoli, «per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (11,26); à qui che Pietro e Paolo fecero le loro prime esperienze missionarie; à qui che videro la luce alcuni tra i testi cristiani piô antichi, come il Vangelo di Matteo e la Didachß. Possiamo considerare quella di Antiochia come la prima comunitÜ cristiana dopo quella di Gerusalemme, e a quest’ultima strettamente legata da vincoli di varia natura. Antiochia fu poi all’interno dell’impero romano anche una delle cittÜ maggiori, insieme a Roma e ad Alessandria: prospera e culturalmente vivace. Teodoro, membro di un’agiata famiglia del luogo, usufruç di tale vivacitÜ, potendosi annoverare tra gli allievi del famoso retore Libanio2. 1 Sulla figura di Teodoro, oltre alle voci a lui consacrate dai vari dizionari teologici e patristici, si vedano in particolare R. Devreesse, Essai sur Thßodore de Mopsueste, Biblioteca Apostolica Vaticana, CittÜ del Vaticano 1948 (Studi e Testi 141) e R. A. Greer, Theodore of Mopsuestia: Exegete and Theologian, The Faith Press, Westminster 1961. 2 Su Antiochia, si veda ancora A. J. Festugiàre, Antioche paäenne et chrßtienne. Libanius, Chrysostome et les moines de Syrie, De Boccard, Paris 1959.

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Accanto agli studi profani, Teodoro fu iniziato alla fede cristiana e allo studio delle Scritture all’interno di quello che fu il primo nucleo della scuola esegetica di Antiochia, che rivaleggerÜ per secoli con l’antagonista scuola di Alessandria. Si tratta dell’asceterio di Diodoro, futuro vescovo di Tarso, di cui fece parte, oltre al nostro, anche Giovanni Crisostomo, anch’egli illustre esponente della teologia antiochena. Come dice il nome, l’asceterio di Diodoro era allo stesso tempo una scuola e una comunitÜ di tipo ascetico-monastico. Allo stimolo di Giovanni Crisostomo, Teodoro pare che debba alcune delle sue scelte fondamentali: il battesimo, innanzitutto, che ricevette intorno ai vent’anni, e piô tardi la rinuncia alla carriera di retore e al matrimonio, a vantaggio di una vita a servizio della chiesa. All’amico titubante e che pensava di abbandonare lo studio della Scrittura e insieme quella particolare forma di vita monastica condivisa nell’asceterio di Diodoro, Giovanni sembra indirizzare l’appassionato scritto A Teodoro lapso, con cui riesce a convincerlo a rinunciare per sempre alla carriera e al matrimonio3. Intorno al 383, Flaviano di Antiochia lo ordina presbitero e nel 392 sarÜ ordinato vescovo di Mopsuestia, una cittÜ della vicina Cilicia. Qui rimarrÜ fino alla morte, avvenuta nel 428. Il nome di Teodoro evoca immediatamente, in chi ha familiaritÜ con la storia cristiana, tristi ricordi, legati in particolare a quel travagliato processo di definizione della cristologia ortodossa che agitð i secoli v e vi in modo particolare. Teodoro fu un esponente di spicco della scuola antiochena, di cui fece parte anche Nestorio; scuola che da tali diatribe uscç perdente, almeno nominalmente. In quanto tale, egli fu condan3 Cf. Jean Chrysostome, A Thßodore, a cura di J. Dumortier, SC 117, Cerf, Paris 1966. Benchß alcuni studiosi contestino l’identificazione di questo Teodoro cui scrive il Crisostomo con il Mopsuesteno, l’ipotesi à altamente probabile.

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nato dal quinto concilio ecumenico, il Costantinopolitano II, nel 553, quindi piô di un secolo dopo la sua morte! • infatti solo dopo la morte che egli si troverÜ coinvolto nella controversia anti-nestoriana – soprattutto a causa delle accuse mossegli da Cirillo di Alessandria – come precursore dell’eresia nestoriana e quindi principale imputato nella condanna dei «tre capitoli». Senza entrare qui nella complessa questione dei concili del v e vi secolo, ci basti ricordare che Teodoro visse e morç in comunione con la chiesa universale e che fu condannato sulla base di definizioni teologiche che al suo tempo non erano cosç chiare come nel vi secolo. Dell’ortodossia teodoriana, conformemente alla teologia dei primi concili (cioà di quelli noti al Mopsuesteno), ci convincono peraltro a sufficienza le Omelie catechetiche stesse, splendido esempio di equilibrio dottrinale e di senso pastorale, che fanno di questa raccolta uno dei documenti mistagogici piô ricchi e interessanti, oltre che completi, dell’antichitÜ cristiana. Si noterÜ, certo, nella cristologia di Teodoro un accento particolarmente marcato posto sull’umanitÜ di Cristo, ma questo à in perfetta continuitÜ con la tradizione antiochena cui il nostro appartiene e che, lungi dal contraddire la visione alessandrina, la completa. Particolarmente attenti al senso letterale e storico della Scrittura, anche per una certa prossimitÜ geografica e culturale con il mondo giudaico, gli antiocheni sono anche sottili indagatori dell’umanitÜ di Cristo, vista come «storicizzazione» dell’azione di Dio a favore dell’umanitÜ. Il Cristo vero uomo à la garanzia che Dio à davvero sceso nella storia degli uomini e l’ha assunta. Condannato nelle chiese poste all’interno dell’impero bizantino, Teodoro fu tuttavia accolto come una delle colonne teologiche portanti in una chiesa collocata al di fuori di quei confini e che, anche per questo, potß continuare a nutrirsi a quella fonte «antiochena» da cui aveva ricevuto il primo annuncio cristiano, intendo dire la chiesa siro-orientale, all’in5

terno della quale sono comprese le attuali chiese assira e caldea, che riconoscono a Teodoro il titolo di «interprete» per antonomasia. • grazie a questa tradizione, peraltro, che buona parte degli scritti teodoriani sono giunti fino a noi: andati perduti o intenzionalmente distrutti, infatti, nel loro originale greco, oggi sono a noi accessibili in modo parziale e perlopiô solo nelle antiche traduzioni siriache.

Il «corpus» delle omelie e il commento al Padre nostro

Tra gli scritti teodoriani giunti fino a noi solo in versione siriaca vi sono anche le Omelie catechetiche, un insieme di sedici testi che, stando alla tradizione manoscritta, à chiaramente scindibile in due serie: una prima, composta di dieci omelie, intitolata «Spiegazione del Credo»; e una seconda, di sei omelie, intitolata «Spiegazione dei misteri della santa chiesa», comprendente un commento al Padre nostro, cioà il testo qui tradotto, seguito da una spiegazione del battesimo e dell’eucaristia, in piô omelie. Vari elementi interni ai testi confermano che si tratta di omelie realmente pronunciate, e molto probabilmente ad Antiochia tra il 383, data approssimativa dell’ordinazione presbiterale di Teodoro, e il 392, data della sua ordinazione episcopale alla sede di Mopsuestia. Riferimenti interni, quali espressioni che rimandano a quanto detto pochi giorni prima, ci rivelano inoltre che le omelie furono pronunciate in un lasso di tempo relativamente breve. Molto probabilmente si deve pensare a una Quaresima, e in particolare agli ultimi giorni che precedono la Pasqua e quindi il battesimo dei catecumeni. Quanto all’uditorio, vi sono certamente i catecumeni, ma à probabile che tali catechesi fossero rivolte all’insieme dell’assemblea cristiana. 6

Il commento al Padre nostro, che apre il secondo gruppo delle Omelie catechetiche, esordisce spiegando il profondo nesso che i padri vedevano tra la formula di fede, cioà il Credo, e la «formula» della preghiera, cioà il Padre nostro: due testi che, ciascuno a suo modo, sono essenziali a chi intraprende il cammino cristiano. Ma la particolaritÜ dell’insegnamento teodoriano sta nella funzione che esso riconosce alla preghiera del Padre nostro all’interno della vita di fede: essa non à tanto una formula di preghiera che, quindi, insegnerebbe «a pregare», appunto, ma piuttosto una sorta di itinerario per il quale il credente impara a vivere la sua fede. Come infatti il Credo, dice Teodoro, introduce al «timor di Dio e a una conoscenza ortodossa», cosç il Padre nostro insegna a conformare la propria vita «ai comandamenti divini»4. In questa preghiera «si trova, in misura sufficiente, l’insegnamento relativo alle condotte» da seguire, dice ancora Teodoro, e conclude in maniera lapidaria: «Ogni preghiera, infatti, quale che essa sia, à un insegnamento sulla vita»5. Pregare per imparare a vivere; ripetere le parole della preghiera trasmessa da Gesô, non tanto per domandare qualcosa, quanto piuttosto per imparare cið che à lecito desiderare e ricercare: questo à il fine secondo Teodoro! Quel breve testo – e il Mopsuesteno ritorna piô volte sul tema della brevitÜ – à dunque innanzitutto una traccia su cui misurare la propria esistenza, con cui sondare i propri desideri, nella quale saggiare il proprio cuore. Per questo à un testo da meditare, piô che da recitare. Vi à dunque per Teodoro una relazione strettissima tra preghiera e vita: la vita rivela la profonditÜ della preghiera, perchß di quest’ultima essa à trasparenza; e la preghiera rivela la radicalitÜ desiderata per la propria vita, perchß mette a nudo i 4 Cf. infra, p. 14. 5 Cf. ibid.

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desideri che abitano il cuore dell’uomo. Preghiera e vita, inoltre, si condizionano a vicenda. Dice Teodoro: • per questo che il beato Paolo ci ha comandato di pregare senza intermissione (cf. 1Ts 5,17): affinchß, tramite la continuitÜ nella preghiera, si imprimano in noi l’amore per Dio e l’essere assidui in quanto egli desidera6.

A vivere e ad amare si impara pregando, cioà meditando, custodendo, scandagliando quelle parole di preghiera che Gesô ha lasciato ai suoi discepoli. Certo, ogni parola detta da Gesô, e contenuta nelle Scritture, à atta a istruire e correggere, ma le parole della preghiera del Padre nostro lo sono in modo particolarissimo poichß, oltre a svelare al credente la strada che Dio gli indica, mettono sulla sua bocca l’invocazione di aiuto che domanda a quel medesimo Dio la forza necessaria per realizzare la conversione richiesta. La preghiera non à dunque un esercizio in cui l’orante, chiedendo qualcosa a Dio, tenta di fargli cambiare idea, ma à piuttosto il tempo in cui à egli stesso a cambiare, meditando quelle parole che recita e facendo suoi gli atteggiamenti che esse descrivono. Allora la preghiera si trasforma in vita. Ed à per questo, dice ancora Teodoro, che Gesô ha lasciato ai suoi solo «poche parole, per ricordare che la preghiera non consiste in parole, ma piuttosto in comportamenti, amore e assiduitÜ in cið che conviene»7. Coloro che sono solleciti nell’amore saranno in preghiera lungo tutta la loro vita8; e il desiderio di condurre una vita evangelica produrrÜ nel cuore dell’uomo «un grande desiderio di preghiera»9. 6 Cf. infra, p. 15. 7 Cf. infra, p. 16. 8 Cf. infra, p. 19. 9 Cf. ibid.

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Pregare responsabilizza e purifica, dice Teodoro, perchß le domande rivolte a Dio diventano come uno specchio in cui l’orante impara a misurare cið che à bene ricercare nella propria vita e cið che invece à da rigettare. Intorno a questa idea Teodoro sviluppa l’intero suo commento alle singole espressioni del Padre nostro. L’invocazione iniziale, ad esempio, ricorda all’orante come Dio, che pure à anche Signore e Dio, à innanzitutto Padre, e che noi siamo suoi figli ed eredi, suoi intimi. GiÜ in questa prima invocazione vi à, secondo Teodoro, l’invito a una purificazione da quella che potrebbe essere un’idea distorta su Dio, perchß solo chi comprende che Dio à Padre, potrÜ vivere da figlio e, dunque, obbedire con la necessaria libertÜ ai suoi comandamenti10. • interessante notare come qui Teodoro non fondi la sua etica sulla minaccia di una punizione o sulla promessa di un premio. Non à questo che puð plasmare una vita cristiana, ma piuttosto il percepire la propria dignitÜ di figli: solo chi comprende in veritÜ di essere figlio, cercherÜ anche di agire di conseguenza. Il fatto poi che Gesô abbia detto «Padre nostro» e non «Padre mio», ricorda la necessitÜ di «custodire l’unanimitÜ» fraterna e aiuta a plasmare tale unitÜ, mentre l’aggiunta «che sei nei cieli» spinge lo sguardo dell’orante a fissare il fine della sua vocazione e la dimensione escatologica della sua esistenza. Procedendo in questo modo, Teodoro mette via via in evidenza come ogni invocazione del Padre nostro à in veritÜ un insegnamento e un’occasione di purificazione. Ecco allora chiarita anche la ragione profonda dell’esortazione finale che egli rivolge al suo uditorio, composto soprattutto di principianti della fede, cioà di catecumeni. Non tanto un invito a pregare, come ci si potrebbe attendere da un commento al Pa10 Cf. infra, p. 22.

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dre nostro, bensç un invito a meditare le parole della preghiera e a metterle in pratica; e la vita, plasmata da quelle parole, diventerÜ essa stessa preghiera e anticipazione del Regno: Siate diligenti nel fissare con chiarezza nelle vostre menti cið che la preghiera del Signore nostro vi ha insegnato mediante brevi parole: meditatele con sollecitudine, e sottoponetevi alla fatica di realizzarle, in modo che, fin da quaggiô, vi conformiate, secondo le vostre forze, al mondo futuro11.

11 Cf. infra, p. 33.

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LA PREGHIERA, SCUOLA DI VITA

La traduzione à stata realizzata sull’edizione pubblicata da A. Mingana nei suoi Woodbrooke Studies VI, Heffer and Sons, Cambridge 1933, pp. 124-142. Per la divisione in paragrafi invece, mancandone l’edizione di Mingana, mi sono rifatto a quella giÜ nota dell’edizione con traduzione, curata da Tonneau e Devreesse (Les Homßlies cathßchßtiques de Thßodore de Mopsueste, a cura di R. Tonneau e R. Devreesse, Biblioteca Apostolica Vaticana, CittÜ del Vaticano 1949 [Studi e Testi 145]). 12

COMMENTO AL PADRE NOSTRO Omelia catechetica 11

Per la tua forza, Signore nostro Gesô Cristo, cominciamo a scrivere la Spiegazione dei misteri1 del beato mar Teodoro. Signore nostro aiutami e fammi giungere al compimento [dell’opera]. Amen2. 1. Per la grazia di Dio, ieri abbiamo terminato di parlarvi di cið che riguarda la fede3 che, secondo le parole delle divine Scritture, i nostri beati padri hanno stabilito a nostro insegnamento, per istruirci secondo la tradizione del Signore nostro, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Oggi, dunque, à bene che diciamo quanto à necessario [sapere] sulla preghiera che il Signore nostro ci ha trasmesso. Queste parole sono fatte seguire a quelle sulla fede perchß à bene che quanti si accostano alla fede del battesimo [le] impa1 Questo titolo si riferisce all’insieme della seconda parte delle Omelie catechetiche, cioà quelle che vanno dall’undicesima alla sedicesima (cf. supra, p. 6). 2 Queste prime righe non sono di Teodoro, ma del copista del manoscritto. 3 Il termine siriaco qui impiegato à haymÚnutÚ che indica normalmente la «fede» ma che qui ha il senso piô specifico di «formula di fede», cioà «Credo». Abbiamo qui un chiaro riferimento alle prime dieci Omelie catechetiche in cui Teodoro illustra appunto le varie parti del Credo (cf. supra, p. 7).

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rino, [le] conoscano e [le] ritengano, subito dopo [aver approfondito] quelle [relative alla fede]. Il Signore nostro, infatti, dopo aver detto: Andate, insegnate a tutti i popoli e battezzateli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo4, aggiunse: E insegnate loro a custodire tutto cið che vi ho comandato, per mostrare che, insieme all’insegnamento del timor di Dio e a una conoscenza ortodossa, ci à necessario essere solleciti nel conformare la [nostra] vita ai comandamenti divini. • per questa ragione che [i padri], accanto alle parole della [regola di] fede, hanno posto la preghiera. In essa infatti si trova, in misura sufficiente, l’insegnamento relativo alle condotte [da seguire]; [insegnamento] che il Signore nostro ha racchiuso in parole semplici e ha tramandato ai suoi discepoli. Ogni preghiera, infatti, quale che essa sia, à un insegnamento sulla vita, per chiunque si prende cura di ricercare cið che conviene; poichß à dal tenore di vita che desideriamo avere, che dipenderÜ anche cið che noi domandiamo con diligenza nella nostra preghiera5. Colui che si sottopone al fardello della virtô e si prende cura di fare cið che à gradito a Dio, à sollecito piô di ogni cosa nella preghiera. Colui, invece, che non à sollecito in alcuna delle virtô e non si sottopone al fardello di cið che à gradito a Dio, à chiaro che sarÜ negligente anche nella preghiera. 2. A noi, infatti, fa sempre piacere incontrare colui che amiamo piô di tutti, intrattenerci con lui e conversare con lui. Quanto, invece, a coloro che non ci piacciono, non siamo solleciti nell’incontrarli e nel parlare con loro. Allo stesso modo, coloro che hanno Dio nella loro mente e che hanno una grande sollecitudine nel fare cið che à gradito a Dio, desidera4 Mt 28,19. 5 Questo mi sembra il senso dell’affermazione di Teodoro. Letteralmente il testo siriaco dice: «Poichß, come vogliamo che siano le nostre condotte, cosç siamo diligenti nell’oggetto della preghiera».

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no intrattenersi in frequenti preghiere, perchß pensano che nel tempo della preghiera à data loro l’occasione di faticare e di intrattenersi con lui. Colui, invece, che disprezza le cose divine ed à assiduo nelle altre, non à sollecito neppure nella preghiera. • per questo che il beato Paolo ci ha comandato di pregare senza intermissione6: affinchß, tramite la continuitÜ nella preghiera, si imprimano in noi l’amore per Dio e l’essere assidui in quanto egli desidera. Per questo, anche il Signore nostro, mentre era uomo nell’aspetto e nella natura, diede, tramite le sue azioni, questo esempio7 di vita e di condotte: egli fu particolarmente assiduo nella preghiera. • per questo che, durante il giorno, egli si intratteneva a insegnare quanto era necessario, [mentre] la notte la riservava all’opera della preghiera. Ed à per questo che egli se ne andava nel deserto: per insegnare che colui che prega deve essere libero da tutto, affinchß lo sguardo della sua anima sia rivolto a Dio, sia fisso in lui e non sia attratto da null’altro. • per questo, ancora, che egli scelse tempi e luoghi [particolari]: affinchß, [lontano] da ogni turbamento che ci travolge, noi fossimo al riparo da cið che à occasione per l’anima di disturbo e di agitazione, e da cið da cui a volte, senza che [essa] lo voglia, à distratta da quanto ha [in mente]. 3. Poichß egli agiva in tal modo, secondo quanto dice il beato Luca, i suoi discepoli si avvicinarono e gli domandarono come bisognasse pregare, perchß [dissero]: Anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli [a pregare]8. Allora, con le brevi parole di [questa] preghiera, egli ha trasmesso tutto9, dicendo: Voi dovete pregare cosç: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta 6 Cf. 1Ts 5,17. 7 In siriaco tupsÚ, calco del greco t÷pos, che indica l’esempio o il simbolo. 8 Lc 11,1. 9 Letteralmente: «La pienezza».

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la tua volontÜ, come in cielo cosç in terra. Dacci oggi il nostro pane che ci à necessario, e rimetti a noi i nostri debiti e i nostri peccati, come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori. E non indurci in tentazione, ma liberaci dal male. Perchß tua à la potenza, il Regno e la gloria, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen10. Egli ha utilizzato [solo] poche parole per ricordare che la preghiera non consiste in parole, ma piuttosto in comportamenti, amore e assiduitÜ in cið che conviene. Colui, infatti, che à disposto [a fare] cið che à bene, à necessario che si dedichi lungo tutta la sua vita alla preghiera, che si rende visibile attraverso la [sua] scelta di [fare] cið che à bene11. La preghiera à, infatti, necessariamente connessa alle condotte, poichß cið che non à opportuno attendersi [che accada], non à neppure conveniente domandarlo [nella preghiera]. Peggiore anche della morte per lapidazione sarebbe la cattiva morte di colui che domandasse a Dio quanto va contro cið che questi ha comandato. Colui, infatti, che presentasse tali domande, si attirerebbe l’avversione di Dio e non la [sua] approvazione o l’esaudimento. La vera preghiera consiste dunque nella rettitudine delle condotte12, nell’amore per Dio e nell’assiduitÜ in cið che à gra-

10 Mt 6,9-13. La formula del Padre nostro qui riportata à quasi identica a quella della versione siriaca della Scrittura (Pshitta), anche laddove questa sembra discostarsi dal testo greco accolto nelle nostre edizioni. Cf. infra, n. 30. 11 Il passo non à molto chiaro, ma mi sembra che Teodoro, in accordo con quanto detto sopra, ribadisca che i sentimenti della preghiera diventano manifesti e vengono confermati attraverso cið che concretamente si ricerca nella propria vita. 12 In siriaco: trisÌutÚ d-dubbare. Ricordo solo che il termine trisÌutÚ («rettitudine») ricorre anche poco prima di qui, all’inizio dell’Omelia, dove perð rimanda alla retta comprensione dei misteri della fede. L’accostamento dell’«ortodossia di fede» all’«ortodossia delle condotte» à un tema chiave dell’Omelia, che intende appunto sottolineare come «dimostrazione» dell’ortodossia della fede à la vita stessa del credente.

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dito a Dio. Colui, infatti, che si intrattiene in cið e il cui pensiero medita questo, prega senza ostacolo, continuamente e sempre, dal momento che egli fa in ogni tempo cið che à gradito [a Dio]. Colui, infatti, che agisce cosç continuamente, ha bisogno di domandare tramite la preghiera13: per il fatto stesso che egli si prende cura di cið che à bene, costui ha bisogno di domandare aiuto a Dio, perchß lo assista in cið di cui si prende cura, affinchß tutta la sua vita sia conforme alla volontÜ di Dio. Colui poi che agisce cosç, à noto che ottiene [cið che domanda], poichß à impossibile che chi si sottopone al fardello delle leggi divine, che cammina in esse e non le trasgredisce, chieda aiuto e non riceva in ogni modo assistenza da colui che ci ha comandato quelle cose. Allo stesso modo, colui che vive una vita opposta [a questa] à giÜ da prima evidente che non riceverÜ nulla nel tempo della preghiera, poichß egli si prende cura di cið che non à gradito a Dio, e domanda [appunto] quelle cose che ha scelto di fare lungo tutta la sua vita. 4. • anche per questo che il Signore nostro ci ha insegnato a non essere negligenti nella preghiera, come dice il beato Luca, e in una parabola ci ha lasciato su questo un insegnamento scritto. Egli dice: Vi era in una cittÜ un giudice che non temeva Dio e non aveva rispetto degli uomini, e vi era una donna vedova che era maltrattata da un uomo piô forte di lei; [questa] andava dal [giudice] incessantemente, per domandare la fine dell’ingiustizia da lei subita. [Il giudice] la fece attendere per molto tempo, ma alla fine fu vinto dall’insistenza della donna che lo spingeva a occuparsi del suo caso e a liberarla dal malvagio piô forte di lei che la trattava ingiustamente. Quindi continua: Ascoltate cosa disse il giudice malvagio: «Farð giustizia a questa vedova, se non altro perchß mi importuna, affinchß non venga costantemente a molestarmi». Dio, dunque, non farÜ 13 Letteralmente: «Delle domande delle preghiere».

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giustizia ai suoi eletti che gridano a lui notte e giorno e li farÜ [a lungo] aspettare14? Poichß coloro che sono assidui nella virtô sono vessati senza sosta dagli impulsi della natura e dalle insidie dei demoni, come anche dagli eventi quotidiani – realtÜ [queste] che spesso fanno deviare molti da cið che conviene –, e per questo essi conducono una lotta senza riposo, affinchß noi non pensiamo che Dio si sia dimenticato di loro per il fatto che non hanno neppure un attimo di riposo dalla loro lotta quotidiana, ecco che [il Signore] ha opportunamente esposto [la parabola] del giudice malvagio, al fine di confermare, mediante [questa] analogia, che à impossibile che Dio si dimentichi di coloro che hanno scelto cið che à bene. Se dunque questo essere esecrabile che non si curava minimamente della giustizia, nß temeva Dio, nß aveva rispetto degli uomini, à stato tuttavia vinto dall’insistenza perseverante della donna, ha fatto cið che conveniva e, contro [ogni] speranza, le ha fatto giustizia da colui che la trattava ingiustamente, come potete pensare che Dio abbandoni coloro che si prendono cura di cið che à bene e sono assidui nel [fare] quanto gli à gradito; egli, che à cosç benevolo e compassionevole e che fa tutto perchß noi viviamo e siamo salvati, al punto che non sopporta di dimenticare neppure coloro che peccano? Non à perchß si dimentica di loro che egli li lascia alle afflizioni e alle prove di ogni giorno; cose che essi sono costretti a subire, senza volerlo, a causa della vessazione delle passioni naturali o a causa della debolezza in essi innata, per la quale molte volte, senza volerlo, essi sono attratti da un qualcosa che non à bene. Essi hanno da sopportare anche una grande battaglia che [viene] dai demoni, essendo continuamente costretti a combattere con le passioni indotte dalle cose che accadono. I beni promessi loro per queste fatiche non sono perð ordinari: [Dio] accoglie il loro desiderio e rende degni tali uomini 14 Cf. Lc 18,2-7.

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della [sua] grande sollecitudine. Egli, infatti, lascia che essi sopportino in questo mondo vessazioni e fatiche, [ma fa questo] affinchß, per essi, costoro ricevano i beni eterni e ineffabili. 5. • per questa medesima ragione che, qui, ai discepoli che chiedevano di imparare una preghiera, egli ha trasmesso queste parole, dicendo: «Se à della preghiera che vi curate, sappiate che essa non consiste in parole, ma nella scelta di una vita virtuosa, nell’amore per Dio e nella sollecitudine per cið che à utile. Se infatti sarete diligenti in queste cose, sarete in preghiera lungo tutta la vostra vita. E dal [vostro] desiderare e scegliere queste cose, vi verrÜ un grande desiderio di preghiera. Allora voi saprete certamente anche cosa dovrete domandare. Se infatti sceglierete cið che conviene, non vi lascerete persuadere a domandare altro al di fuori di cið, dal momento che non acconsentirete a domandare cose di cui neppure vi curate. Voi che desiderate le virtô e siete a esse solleciti, à chiaro che presenterete a Dio [solo quelle] domande che si accordano con tali realtÜ. Se infatti vivrete in tal modo e gli domanderete queste cose con assiduitÜ, voi non ignorate che certo riceverete». 6. Ascoltate, dunque, in poche parole, quali sono le cose di cui à bene che vi prendiate cura, quali sono le condotte e il [genere di] vita che sono da voi attesi, quali sono le cose in cui à bene che perseveriate e per quali à bene che presentiate domande e per le quali, certamente, le vostre domande riceveranno risposta. Dice dunque l’evangelista: E avvenne che, mentre [Gesô] si trovava in un certo luogo e pregava, quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore nostro, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Allora egli disse loro: «Quando voi pregate, dite cosç: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome»15. 15 Lc 11,1-2.

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L’[espressione] pregava in un certo luogo à simile a quella che lo stesso evangelista usa in un altro passo [dove dice]: Accadde in quei giorni che [Gesô] se ne andð sulla montagna a pregare e trascorse la notte a pregare Dio16. L’[espressione] in un certo luogo, infatti, significa qualcosa come: egli presentava [al Padre] la [sua] preghiera in un luogo tranquillo e al riparo dal tumulto della gente. Quando, dunque, i suoi discepoli lo videro pregare cosç, con assiduitÜ, compresero che [la preghiera] non era da ritenere una realtÜ di poco conto, ma che essa era necessaria piô di ogni altra cosa, e gli chiesero che insegnasse anche a loro a pregare, come Giovanni aveva insegnato ai suoi discepoli. Quindi, egli disse loro queste parole di preghiera. Quando dunque vi mettete a pregare17, sappiate cosa à bene domandare a Dio! • chiaro, infatti, che anche voi dovete essere diligenti in cið che state domandando. Cos’à dunque che dovete dire quando pregate e in che cosa dovete essere diligenti? 7. Padre nostro che sei nei cieli. «Bisogna innanzitutto – disse – che voi sappiate cosa eravate, cosa siete e qual à e quanto à [grande] il dono che avete ricevuto da Dio. A voi, infatti, sono accadute cose ben piô grandi di quelle accadute a coloro che vi hanno preceduti. Infatti, cið che accade per mezzo di me a coloro che credono in me e scelgono di diventare miei discepoli, à tale da porli molto piô in alto di coloro che camminano nella Legge di Mosà, poichß la prima alleanza, donata sul monte Sinai, generð la servitô e sia essa stessa sia i suoi figli operano servitô18. Servi furono, infatti, tutti coloro che furono sotto la legge dei comandamenti19. Essi ricevettero quanto era necessario al loro cammino; e sentenze di morte, alle quali 16 Lc 6,12. 17 Letteralmente: «Vi prendete cura della preghiera». 18 Cf. Gal 4,24-25. 19 Cf. Ef 2,15.

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nessuno poteva scampare, erano state pronunciate contro la trasgressione del comandamento. «Voi, invece, per mezzo di me, avete ricevuto la grazia dello Spirito santo, per la quale siete stati resi partecipi dell’adozione a figli20 e avete la parresia di chiamare Dio “Padre”. Voi, infatti, non avete ricevuto lo Spirito per ritornare alla schiavitô e alla paura, ma siete stati resi partecipi dello Spirito dell’adozione a figli, nel quale, con parresia, chiamate Dio “Padre”21. «Ormai la vostra cittadinanza à nella Gerusalemme di lassô22, e siete stati resi partecipi di questa condotta di libertÜ che sarÜ la condizione di coloro che, tramite la resurrezione, saranno immortali e immutabili e vivranno nei cieli in questa [medesima] natura. 8. «Poichß dunque vi à differenza tra voi e quelli che sono nella Legge – nel senso che la lettera, che à la Legge, uccide e comporta per coloro che la trasgrediscono una sentenza di morte da cui non c’à scampo, mentre lo Spirito fa vivere, poichß per grazia, tramite la resurrezione, ci rende immortali e immutabili23 – à bene che, prima di ogni cosa, voi sappiate questo: fate vostre le condotte degne di una tale libertÜ, poichß coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio24, mentre coloro che sono nella Legge hanno ricevuto il semplice nome di figli. • detto, infatti: Io ho detto che voi siete dài, voi tutti figli dell’Altissimo, tuttavia morirete come gli uomini25. 20 Gal 4,5. 21 Rm 8,15. 22 Cf. Gal 4,26; Fil 3,20. Il termine siriaco qui tradotto con «cittadinanza» à pulhÌÚnÚ che in siriaco classico indica piô precisamente il lavoro, l’attivitÜ o, in ambito monastico, l’ascesi. Nelle traduzioni siriache di Teodoro, invece, pulhÌÚnÚ rende normalmente il greco polæteuma («cittadinanza»); tale corrispondenza à stata stabilita grazie alla ricorrenza della citazione di Filippesi 3,20 (cf. Les Homßlies cathßchßtiques de Thßodore de Mopsueste, p. 613). 23 Cf. 2Cor 3,6. 24 Rm 8,14. 25 Sal 81 (82),6-7.

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«Coloro che hanno ricevuto lo Spirito santo, e dunque si attendono con sicurezza l’immortalitÜ, bisogna che vivano secondo lo Spirito, che si abbandonino allo Spirito, che acquisiscano un pensiero degno della libertÜ di coloro che sono governati dallo Spirito santo e che si allontanino da ogni opera di peccato e abbiano condotte degne dello stile di vita della dimora celeste. «• per questo che non vi insegno a chiamare [Dio] “Signore nostro” o “Dio nostro”, benchß sia chiaro che occorre che voi sappiate che egli à Dio, Signore e Creatore di tutto, e anche di voi; e che à lui che vi condurrÜ al godimento di tali beni! Io, invece, vi comando di chiamare [Dio] “Padre”, affinchß, avendo voi compreso la vostra libertÜ e la dignitÜ di cui siete stati resi partecipi e la grandezza cui egli vi conduce – ragioni per cui siete chiamati figli del Signore di tutto, e anche vostro! – voi agiate di conseguenza, fino alla fine. 9. «Per questo io non voglio che diciate “Padre mio”, ma “Padre nostro” – essendo egli il Padre comune a tutti, come comune à anche la grazia, dalla quale abbiamo ricevuto questa adozione a figli – perchß voi non solo dovete offrire a Dio cið che à conveniente, ma avete anche, ciascuno di voi, da ricercare e custodire l’unanimitÜ l’uno con l’altro, perchß voi siete fratelli e sotto la mano di un unico Padre. «Ho anche aggiunto l’[espressione] che sei nei cieli perchß abbiate davanti ai vostri occhi, quaggiô, la condotta di lassô, dove vi à stato donato di essere condotti. Avendo, infatti, ricevuto l’adozione a figli, voi abitate nei cieli, poichß questa à la dimora che conviene ai figli di Dio!». 10. Ma allora, cos’à che devono fare coloro che pensano in tal modo? Sia santificato il tuo nome. Prima di ogni cosa, fate cið che à motivo di glorificazione per Dio vostro Padre. Infatti, colui che in un altro passo dice: Cosç risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perchß vedano le vostre opere buone e glorifichino il Pa22

dre vostro che à nei cieli26, à lo stesso che anche qui dice: Sia santificato il tuo nome, che à come se dicesse: «Bisogna che vi sforziate di fare cið per cui il Nome di Dio à lodato da tutti gli uomini, mentre voi stupite della sua misericordia e della sua grazia riversate su di voi, perchß non à invano che vi ha resi suoi figli; e nella sua benevolenza vi ha dato lo Spirito, perchß possiate senza fine crescere e progredire, e vi ha istruiti27 e vi ha resi tali quali devono essere coloro che sono stati resi degni di chiamare Dio “Padre”». Se, infatti, facciamo qualcosa di contrario, noi siamo causa di bestemmia di Dio, poichß tutti quelli di fuori, vedendoci fare opere malvagie, diranno di noi che non siamo degni di essere figli di Dio. Se, invece, ci comportiamo bene, noi confermeremo che siamo figli di Dio e che siamo degni della libertÜ del Padre nostro, e che siamo opportunamente istruiti e viviamo una vita degna del Padre nostro. Affinchß, dunque, non venga pronunciata tale [bestemmia contro Dio], ma anzi nella bocca di ogni uomo vi sia la lode di Dio che vi ha innalzato a una tale grandezza, siate diligenti nel fare quanto conduce a cið. 11. Venga il tuo Regno. • bene che [il Signore] abbia aggiunto al resto anche questo. Coloro che sono chiamati al regno dei cieli per mezzo dell’adozione filiale e che attendono di essere in cielo insieme al Cristo – quando, secondo la parola del beato Paolo, noi saremo rapiti sulle nubi, nell’aria, per incontrare il Signore nostro e cosç saremo sempre con il Signore nostro28 – devono avere pensieri degni di questo Regno, devono agire secondo cið che conviene alla condotta dei cieli, devono considerare piccole le cose terrestri e credere che à disonorevole intrattenersi con esse e pensarvi. 26 Mt 5,16. 27 Correggo qui il testo edito che ha un termine incomprensibile. 28 1Ts 4,17.

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Colui, infatti, cui à dato di abitare nelle corti del Regno e che à stato reso degno di intrattenersi nel Regno in ogni momento e di contemplarlo, non à bene che vagabondi per i mercati, le locande e [altri] luoghi di questo genere, ma si intratterrÜ con coloro che dimorano costantemente nei luoghi [del Regno]. Allo stesso modo, neppure noi, che siamo chiamati al regno dei cieli, dobbiamo abbandonare le condotte di lassô e cið che conviene al genere di vita di lassô, per intrattenerci nel commercio di questo mondo, dove vi sono molta ambiguitÜ e agire iniquo. Come, dunque, cið sarÜ possibile e come potremo noi agire secondo quanto à degno della libertÜ del Padre nostro? 12. Come potremo perseguire le condotte celesti e come potremo fare cið che potrÜ essere causa di grande lode per il Nome di Dio? Siano fatte le tue volontÜ, come in cielo anche in terra. [Cið accadrÜ] se in questo mondo saremo diligenti, per quanto à possibile, nell’imitare la condotta che attendiamo di seguire in cielo. In cielo, infatti, non c’à nulla che si oppone a Dio, e sarÜ sradicato il peccato e sarÜ annientato il potere dei demoni; insomma, tutto cið che ci muove guerra sarÜ distrutto. Ma quando tutto cið sarÜ stato distrutto, noi risorgeremo dai morti e abiteremo in cielo, in una natura immortale e immutabile. Piô di ogni altra cosa, noi ci atterremo alla volontÜ di Dio, mentre tutti penseremo alle cose del cielo e la nostra volontÜ e le nostre azioni saranno secondo cið che à gradito a Dio, dal momento che [lç] non vi sarÜ piô nessun istinto o impulso contrario alla volontÜ di Dio, che ci muova guerra. Cið che ci à dunque richiesto à di perseverare, per quanto ci à possibile in questo mondo, nella volontÜ di Dio, senza deviare verso cið che [le] si oppone. Dal momento infatti che crediamo che la volontÜ di Dio regna in cielo, dobbiamo attenerci a essa anche sulla terra. Cosç sia anche della nostra volontÜ e del nostro pensiero: non ci [prenda] quaggiô alcun impulso che sia contrario [a Dio], come non ve ne sarÜ alcuno lassô. 24

Cið tuttavia non à possibile finchß siamo in questo mondo, in una natura mortale e mutevole. Ma dobbiamo convertire la nostra volontÜ dagli impulsi che si oppongono [a Dio], evitando di fare spazio anche a uno solo di essi. Dobbiamo fare esattamente cið che il beato Paolo ha comandato, dicendo: Non conformatevi a questo mondo, ma trasformatevi nel rinnovamento dei vostri pensieri, per conoscere qual à la volontÜ di Dio, cið che à buono, gradito e perfetto29. Cið che egli comanda non à che gli impulsi non si levino piô in noi, ma che noi non ci conformiamo a cose che certamente svaniranno insieme alla realtÜ di questo mondo, e che la volontÜ della nostra anima non si conformi allo stile di vita di questo mondo, ma piuttosto combatta contro tutti gli eventi, siano essi dolorosi o lieti, gloriosi o disonorevoli; in una parola si puð dire: siano essi realtÜ esaltanti o umilianti. [Combatta in particolare] cið che piô di tutto à capace di farci scivolare verso pensieri contrari [a Dio] e di distrarre la nostra mente dalla volontÜ del bene. Siamo dunque diligenti a non svilire il nostro amore fino [ad abbassarlo] a tali realtÜ, rinnoviamo i nostri pensieri correggendoli ogni giorno, teniamo lontane le occasioni di male che ci vengono dagli impulsi di questo mondo, innalziamo ogni giorno la nostra volontÜ presso cið che à virtuoso, saggiando [tutto] su cið che à gradito a Dio. Ecco cosa dobbiamo considerare bene perfetto: cið che à gradito a Dio! E in ogni cosa, guardiamo come spregevoli i piaceri di quaggiô, sopportiamo invece le afflizioni che ci capitano, e mettiamo la volontÜ di Dio prima di ogni cosa. Consideriamo noi stessi beati se facciamo questa [volontÜ], anche qualora ci visitassero tutte le afflizioni del mondo, ma sventurati tra i miserabili piô di tutti gli uomini se non agiamo cosç, anche qualora abbondassimo in tutti i beni di questo mondo. 29 Rm 12,2.

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13. Tale à dunque la pienezza delle condotte che il Signore nostro ci ha insegnato, con queste brevi parole; e a coloro che lo seguono ha ordinato di applicarsi alle opere buone, di intrattenersi nelle condotte celesti, di sprezzare tutto cið che à di questo mondo e di sforzarsi, per quanto à possibile, di conformarsi alle realtÜ del mondo futuro. Egli vuole che, fino alla fine, noi domandiamo a Dio tali cose. Infatti, poichß per fare cið à necessario che noi abbiamo una mente sana e un amore vero, e poichß noi sappiamo di essere incapaci di compiere alcunchß senza l’aiuto di Dio, egli ha dovuto trasmetterci tale [insegnamento] sotto forma di preghiera, affinchß noi scegliamo cið con un amore perfetto e perseveriamo nel domandare cið, con ogni assiduitÜ e con la diligenza dell’ardore, come cosa buona e utile. • infatti per noi impossibile ottenere cið, anche qualora lo scegliessimo e lo desiderassimo infinite volte, se Dio non ci venisse concretamente in aiuto. Di certo invece lo otterremo, se lo avremo in un primo tempo desiderato, per [poi] domandarlo a Dio. 14. Il beato Luca, inoltre, ha aggiunto molte cose a questa preghiera detta dal Cristo, Signore nostro, per confermare che tali cose saranno sicuramente [accordate] a coloro che le domanderanno. Volendo, infatti, invitarci a [conformarci] all’immagine del mondo futuro – [mondo] nel quale, quando vi abiteremo, saremo definitivamente innalzati al di sopra delle realtÜ di quaggiô, allorchß non avremo bisogno assolutamente di nulla – ma sembrandogli che, comandando di conformarsi a quella vita immortale, veniva ingiunto qualcosa di impossibile, perchß [rivolto] a degli esseri che sono ancora di natura mortale e abitati da molte necessitÜ in questo mondo, aggiunse in breve: Dacci oggi il pane che ci à necessario30. 30 Circa il testo del Padre nostro seguito da Teodoro, à particolarmente interessante il caso dell’espressione tðn Ûrton hemîn tðn epioþsion (tradotto

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[Con cið] à come se dicesse: «Io desidero che voi guardiate alle realtÜ del mondo futuro e, pur essendo [ancora] in questo mondo, ordiniate la vostra vita, secondo le vostre forze, come se foste giÜ ora in quell’[altro]. Non che non dovete mangiare o che non dovete bere o che non dovete usare di qualcuna delle cose di cui avete bisogno per la vostra vita! Ma [quello che vi chiedo] à che, avendo voi scelto il bene, lo amiate e lo meditiate intensamente. «Riguardo alle realtÜ di questo mondo, vi consento di fare uso di ciascuna di esse, a condizione che soddisfacciate una necessitÜ vitale31. Ma non domandate nß sforzatevi di ottenere piô di cið di cui [avete] bisogno». Quello che infatti disse il beato Paolo: Se abbiamo il pane e il vestito, questo ci basta32, à cið che il Signore nostro chiama qui «pane», indicando cosç cið il cui uso à vitale, poichß noi riteniamo che il pane, per il nutrimento e il sostentamento di questa vita di quaggiô, sia migliore di qualsiasi cosa. Quanto all’[espressione] «oggi», essa significa «adesso», perchß noi esistiamo nell’«oggi» e non nel «domani». Se anche, infatti, noi giungessimo all’«oggi» di «domani», quando vi saremo, saremo nell’«oggi».

normalmente «il nostro pane quotidiano»), che giÜ in epoca patristica poneva problemi di interpretazione. Il testo qui riportato segue la versione siriaca che ha l’espressione d-sunqÚnan («che ci à necessario»). Potremmo pensare che qui à il traduttore siriaco che semplicemente adatta il testo greco seguito da Teodoro (cioà il tðn epioþsion) alla formula in uso nella sua tradizione. Ma cið che à interessante notare à che la spiegazione che Teodoro propone di questo passo à in perfetto accordo con il significato dell’espressione siriaca d-sunqÚnan. Abbiamo dunque qui sia una testimonianza dell’interpretazione antiochena del tðn epioþsion, sia anche un’attestazione del fondamento della traduzione siriaca di quell’espressione. 31 Traduco con «vitale», qui e di seguito, il termine siriaco ‘ÚlsÌÚ, che indica propriamente un qualcosa di stringente, imperativo e assolutamente necessario. 32 1Tm 6,8.

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La divina Scrittura chiama «oggi» quanto c’à giÜ o à prossimo. La parola del beato Paolo: Oggi, se ascoltate la sua voce, non indurite i vostri cuori, come nella contestazione, ma esortatevi a vicenda tutti i giorni, finchß li chiamate «oggi»33, va intesa come se uno dicesse: «Finchß siamo in questo mondo, noi dobbiamo pensare di dover ascoltare continuamente questa voce, e ogni giorno questa voce stimolerÜ la nostra mente, terrÜ sveglia la nostra anima e la spingerÜ a correggere le nostre condotte, facendoci allontanare da cið che à odioso e rendendoci solleciti per cið che à buono». Giorno dopo giorno, finchß esistiamo, progrediamo dunque in questo mondo in cui ci à dato un tempo per la correzione e la conversione, poichß quando l’avremo lasciato si allontanerÜ da noi il tempo della conversione e della correzione e allora verrÜ il tempo del giudizio. Dicendo dunque il Signore nostro: Dacci oggi il pane che ci à necessario, à come se uno dicesse: «Finchß siamo in questa vita, ci à necessario usare cið di cui abbiamo un bisogno vitale». Dice [il Signore]: «Io non vi nego nß vi rifiuto il cibo, nß la bevanda, nß i vestiti, nß quello che serve necessariamente alla sussistenza del corpo». Infatti, finchß li abbiamo, dobbiamo servircene; e qualora ci venissero dati da altri, non siamo reprensibili se li accettiamo, dal momento che non à disonorevole neppure domandarli a Dio. Come puð infatti uno pensare che sia un male usare di qualcosa che possiamo addirittura domandare a Dio, perchß necessario alla sussistenza e al mantenimento della natura [umana]? Infatti egli chiama «pane» cið che à utile alla sussistenza della natura. Usa l’[espressione] che ci à necessario, nel senso di: «A motivo della nostra natura», cioà che à utile e necessario per la natura e per la sussistenza della natura. Essendo infatti il Creatore ad averne disposto l’uso, cioà il bisogno vitale 33 Eb 3,7-8.13.

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[di cið], à bene che ce lo procuriamo; quanto invece a cið che à superfluo e va al di lÜ dell’uso di un qualcosa di vitale, non à conveniente, a uomini che desiderano la perfezione, nß che se lo procurino nß che lo possiedano. [Il Signore] ha giustamente mostrato che la domanda di cið il cui uso risponde a un bisogno vitale à implicita nell’espressione che ci à necessario, da intendersi come «cið che à utile e necessario alla nostra natura». Quanto, invece, all’[espressione] «oggi», [à da intendersi come segue]: se, per la sussistenza della natura, à stato decretato dal Creatore che tali cose fossero necessarie in questo mondo, à giusto domandarle e non à reprensibile utilizzarle; ma quello che va oltre queste cose, io dico che nessuno deve domandarlo a Dio, nß cercarlo, nß applicarsi per procurarselo. Quanto, infatti, non à necessario per la nostra sussistenza nß il suo uso à vitale quaggiô, se viene da noi accumulato, passerÜ poi ad altri, e non sarÜ di alcun vantaggio per colui che à stato sollecito [nel ricercarlo] o per colui che à stato diligente nell’accumularlo e procurarselo, poichß à chiaro che, dopo la sua dipartita, anche senza che egli lo voglia, cið passerÜ ad altri. E poichß [il Signore] non tollera assolutamente che ci si carichi del fardello delle cose superflue, mentre non rifiuta l’uso di cið di cui vi à una necessitÜ vitale, ma, al contrario, ci comanda persino di domandarlo a Dio, poichß noi ne abbiamo bisogno, giustamente aggiunge: E rimetti a noi i nostri debiti. 15. Con le prime espressioni, [il Signore] ha stabilito le condotte della virtô e della perfezione. Aggiungendo: Dacci oggi il pane che ci à necessario, ha limitato la nostra sollecitudine all’uso di cið che à vitale. Ma poichß, per quanto sia grande il nostro applicarci alle virtô, non ci à assolutamente possibile essere senza peccati – dal momento che siamo cosç tante volte spinti involontariamente a cadere, a causa della debolezza della natura – egli ha immediatamente trovato a cið un rimedio nella domanda di remissione. Benchß non sia solo per 29

questo, egli disse: «Se vi prendete cura di cið che à bene, siete in cið assidui e non desiderate domandare nulla di superfluo, ma usate [solo] cið di cui c’à un bisogno vitale, abbiate fiducia che riceverete la remissione dei peccati; [peccati] che avete certamente commesso involontariamente, poichß colui che si cura di cið che à bene e si fa carico del fardello di liberarsi di cið che à odioso, à assolutamente chiaro che à scivolato senza volerlo». Com’à possibile infatti che scivoli volontariamente, colui che detesta cið che à male e desidera cið che à bene? • dunque risaputo che i peccati di un tale [individuo] sono involontari ed egli riceverÜ sicuramente la remissione. 16. Quindi [il Signore] aggiunse: Come anche noi rimettiamo ai nostri debitori. [Con cið] mostra che possiamo aver fiducia che riceveremo la remissione per tali [peccati] se anche noi faremo lo stesso, secondo le nostre forze, nei confronti di coloro che ci offendono. Poichß, anche se abbiamo scelto il bene e ce ne rallegriamo, accade molte volte che noi pecchiamo sia contro Dio sia contro gli uomini, [il Signore] ha opportunamente trovato un rimedio a questi due [mali] nel fatto che, se noi rimettiamo a coloro che ci hanno offesi, possiamo avere fiducia che anche noi di certo riceviamo ugualmente da Dio la remissione delle nostre offese. Come infatti, quando offendiamo [qualcuno], dobbiamo necessariamente prostrarci, supplicare Dio e domandargli la remissione, allo stesso modo, anche noi, dobbiamo rimettere a coloro che ci offendono e ci chiedono scusa; e dobbiamo accogliere con amore coloro che hanno agito male contro di noi o ci hanno fatto soffrire in qualsiasi modo. • infatti chiaro e fuor di dubbio34 che se quanti sono stati offesi o hanno subito una sofferenza perdonano agli offen-

34 Correzione del testo suggerita dall’edizione di Tonneau e Devreesse (cf. Les Homßlies cathßchßtiques de Thßodore de Mopsueste, pp. 316-317).

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sori – allorchß costoro si pentono per il male che hanno fatto e chiedono loro [perdono] – lo stesso sarÜ fatto anche a loro, quando vorranno chieder[lo] a Dio, da parte di coloro che essi hanno offeso. Il Signore nostro, infatti, ci ha chiaramente comandato di domandare la remissione in cambio del fatto che anche noi rimettiamo a coloro che ci hanno offesi. 17. E dal momento che in questo mondo, senza che ce l’aspettiamo, cadiamo in molte tribolazioni – malattie del corpo, cattiverie degli uomini e molte altre [miserie] che ci irritano e ci gettano nel dubbio – al punto che la nostra anima ne à completamente sconvolta a causa dei pensieri che molte volte ci fanno deviare anche dalla strada del bene, giustamente ha [aggiunto]: E non indurci in tentazione, affinchß ne siamo preservati per quanto ci à possibile. Ma se le tentazioni sopraggiungono, siamo molto diligenti nel sopportare con forza le afflizioni inattese che ci assalgono. Prima di ogni cosa, domandiamo a Dio che nessuna tentazione ci colga; se perð siamo indotti in tentazione, [domandiamogli] di saper sopportare con coraggio, e che [la tentazione] passi presto. Non à infatti un segreto che in questo mondo vi sono molte e svariate tribolazioni che turbano la nostra mente. Anche la sofferenza del corpo, infatti, qualora sia lunga e seria, getta in un grande dubbio coloro che vi cadono, e gli impulsi del corpo, senza che lo vogliamo, ci fanno inciampare, allontanandoci da cið che conviene. Un bel volto, intravisto per un istante, risveglia il desiderio che à nella nostra natura; e altre cose [simili] ci capitano, in altro modo, quando meno ce l’aspettiamo. [Eventi] che deviano la nostra scelta e la nostra mente, senza che noi lo vogliamo e [usandoci] violenza, dal fare il bene al fare il male. Sono innanzitutto le menti degli uomini malvagi e insolenti – quelle sollecite a fare cið che à odioso – che riescono a farci deviare, in ogni modo, da cið in cui ci dilettiamo, e [ne sono 31

capaci] anche nei confronti di uno che si prende somma cura della perfezione; ma ancor di piô [cið accade] quando coloro che agiscono in tal modo contro di noi sono dei fratelli nella fede35. • a proposito di loro che il Signore nostro dice: Colui che scandalizza uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che sia gettato nelle profonditÜ del mare, con una mola appesa al collo36. Egli ha detto cið a proposito degli insolenti che sono in mezzo a noi, e li ha minacciati di severe punizioni se, nella loro cattiveria e nella loro malizia, escogitano per gli umili e i buoni queste [trappole] che li allontanano con facilitÜ da cið che conviene. Infatti, egli chiama «scandalizzare» il provocare un danno, con iniquitÜ o perversione, a coloro che, a motivo della virtô, si sforzano di vivere con umiltÜ e bontÜ. • per tutto cið che, dopo aver detto non indurci in tentazione, aggiunse: ma liberaci dal male. 18. La malizia di Satana infatti, tramite queste [occasioni], ci reca un danno non piccolo, per costringerci, in molti modi, a fare cið con cui essa spera di poterci allontanare dal discernere e dallo scegliere cið che conviene. 19. Il Signore nostro, dunque, ha racchiuso in queste parole della preghiera la perfezione delle condotte e ha cosç insegnato chiaramente cið che noi dobbiamo essere, cið in cui dobbiamo essere diligenti, cið da cui ci dobbiamo tenere lontani e cið che dobbiamo domandare a Dio. I beati padri, infatti, i quali ritenevano che, insieme a un insegnamento ortodosso e a una fede autentica, noi dovessimo essere solleciti anche nell’[avere] una vita e condotte belle, hanno trasmesso questa preghiera a coloro che si accostano al dono del battesimo. In tal modo, attraverso la formula di fede, essi ci istruiscono circa l’esattezza della dottrina, mentre, attraverso la preghie-

35 Letteralmente: «Figli della casa della fede». 36 Mt 18,6.

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ra, ordinano la nostra vita affinchß, per mezzo della virtô, essa sia degna di essere condotta da coloro che ricevono il dono del battesimo, i quali sono fin d’ora annoverati tra i cittadini della cittÜ [ove vigono] le condotte celesti. Siate diligenti nel fissare con chiarezza nelle vostre menti cið che la preghiera del Signore nostro vi ha insegnato mediante brevi parole: meditatele con sollecitudine, e sottoponetevi alla fatica di realizzarle, in modo che, fin da quaggiô, vi conformiate, secondo le vostre forze, al mondo futuro, perseguiate cið che il Signore nostro ha insegnato e diventiate degni dei beni celesti che a noi tutti sarÜ dato di ricevere per la grazia dell’unigenito Figlio di Dio, al quale, insieme al Padre e allo Spirito santo, à la gloria ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.

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Tetravangelo, cod. gr. 338, f. 133 (inizio del vangelo di Luca), Centro di ricerche slavo-bizantine «Ivan Dujicˇev», Sofia

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