La morte di Pinelli iconografia di un anarchico, 1969-1975 9788822907509, 9788822913357


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La morte di Pinelli iconografia di un anarchico, 1969-1975
 9788822907509, 9788822913357

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Biblioteca Passaré Studi di arte contemporanea e arti primarie

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La collana Biblioteca Passaré, diretta da Luca Pietro Nicoletti, è patrocinata dalla Fondazione Passaré nata a Milano nel 2007 in ricordo di Alessandro Passaré (1927-2006), medico ed esperto d’arte. Dalla sua vasta collezione proviene l’importante raccolta di trecento pezzi di arti primarie africane attualmente in deposito presso il Museo delle Culture (MUDEC) di Milano, dove sono parzialmente esposti, e che nel 2011 erano già stati oggetto della mostra Mal d’Africa presso il Castello Sforzesco. Per rendere fruibile a un pubblico più ampio la propria collezione di arte contemporanea la Fondazione ha stipulato un comodato di deposito presso il MAGA di Gallarate. La Fondazione ha inoltre al suo attivo una serie di mostre, in collaborazione con istituzioni pubbliche e private, e ha promosso attività didattiche volte a sensibilizzare verso le culture «altre» gli studenti delle scuole dell’obbligo. La collana presenta una serie di contributi scientifici rivolti alle due grandi passioni del medico e collezionista a cui è dedicata: l’arte contemporanea e l’arte africana. In omaggio a queste predilezioni estetiche, la collana propone, avvalendosi della collaborazione di specialisti, studi originali, e ha in programma nuove edizioni di classici ormai difficilmente reperibili, dando al contempo spazio al lavoro di giovani studiosi e a ricerche inedite per taglio tematico e interpretativo. L’obiettivo è quello di creare una collezione di testi in cui nuove indagini sul secondo Novecento e sull’arte africana, o sulla loro reciproca influenza, diventino «vicini di scaffale», nella cornice di un discorso unitario, esibendo così le loro «risonanze», per usare una felice espressione dello stesso Alessandro Passaré. Com’egli infatti osservava, riferendosi soprattutto alle opere d’arte africana e alla loro alterità rispetto alla cultura occidentale, l’arte non è costituita solo dai manufatti, ma anche dagli sguardi che su di essi si posano, costruendovi, con l’occhio e con la parola, un «epigramma visuale». Questa collana vuole raccontare la storicità di quegli sguardi. Fondazione Alessandro Passaré

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Lucia Pessina La morte di Pinelli Iconografia di un anarchico 1969-1975

Quodlibet

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Prima edizione: agosto 2022 isbn 978-88-229-0750-9 e-isbn฀978-88-229-1335-7 © 2022 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it La collana «Biblioteca Passaré. Studi di arte contemporanea e arti primarie» è diretta da Luca Pietro Nicoletti.

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Fondazione Alessandro Passaré Via Tortona 86, 20144 Milano [email protected] www.fondazionepassare.com

La casa editrice, esperite tutte le pratiche per acquisire i diritti relativi alla riproduzione delle immagini, rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto che non è stato possibile rintracciare.

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Indice

9

Prefazione

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di Federica Rovati

11

Introduzione

15

1969 Tre giorni, una strage

19

1970 Morte sospetta di un anarchico

20 24 27

La satira, un film Pinelli assassinato Processi, dentro e fuori il tribunale

41

1971 Occasioni di dissenso

51 58 63 66

Ma il fascismo non passerà Processo politico Libri per un suicidio di stato Vendetta per Pinelli

75

1972 Un quadro di Enrico Baj

79 92 98

Da Picasso a Carrà Baj, un quadro A Palazzo Reale, maggio 1972

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8

INDICE

1972 Il simbolo di un’epoca

111 112 117 123

Artisti contro la strage di stato Testimonianza per Pinelli Tra rivolta e rivoluzione 12 dicembre

129

1973-1975 Sentenze ufficiali, incertezze morali

135

Appendice

161

Bibliografia

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111

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Prefazione

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Federica Rovati

Questo libro è dedicato all’iconografia del caso Pinelli che prese forma subito dopo la morte dell’anarchico milanese, 15 dicembre 1969, ed impegnò per anni artisti e intellettuali italiani. Il materiale raccolto è eterogeneo per tipologia, qualità e ambizioni, e compone uno stretto dialogo con le vicende processuali e i resoconti giornalistici di quel tragico evento, al netto di pregiudiziali ideologiche o schieramenti di parte. Bastano i fatti a evidenziare opacità, reticenze e contraddizioni dei presunti colpevoli, o viceversa le smagliature di una denuncia politica impostata su rigide contrapposizioni fra cittadino e Stato, organi di stampa e organi di governo, libertà individuali e legge: esasperata fino al punto di capovolgere la legittima richiesta di giustizia per Giuseppe Pinelli nel linciaggio morale e poi assassinio del commissario Luigi Calabresi, 17 maggio 1972. Il discorso di Lucia Pessina è lucido e obiettivo, ma non privo di pietà per tutte le vittime dirette e indirette coinvolte in quella tragica morte. Questo libro, che nasce da una tesi magistrale in Storia dell’arte discussa all’Università degli Studi di Torino, ricostruisce il rapido definirsi di una tradizione iconografica attraverso manifesti, fumetti, vignette satiriche, film, dipinti, fra i quali I funerali dell’anarchico Pinelli di Enrico Baj è soltanto l’esito più noto. Si configura come l’iconografia di un martire, con gli attributi identificativi del luogo e delle circostanze del martirio: la scarpa, le bottiglie, la finestra, connesse all’interrogatorio e alla morte di Pinelli nel palazzo della Questura di Milano, divennero ben presto capaci di evocare il personaggio anche in assenza della sua diretta rappresentazione, persino in contesti narrativi estranei. A fianco, ci sono tutte le fonti visive su cui questo repertorio di simboli e immagini si costituì nel concreto lavoro degli artisti, ossia le fotografie allora diffuse

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FEDERICA ROVATI

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sulle pagine di quotidiani e riviste che l’autrice recupera e interroga con occhio attento ai dettagli: indizi e più spesso prove per ricostruire il quadro di un’epoca e dei suoi inganni.

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Introduzione

Nel cinquantesimo anniversario dalla morte di Giuseppe Pinelli la città di Milano ha posto una lapide in suo ricordo. La dedica recita «Ferroviere, anarchico, partigiano. 18^ vittima innocente in seguito alla Strage di Piazza Fontana». Pochi giorni dopo è stata ritrovata a pezzi. Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, che indissolubilmente si legò alla vicenda Pinelli, ha condiviso attraverso Twitter la foto di un fiore posto sui cocci della targa e ha condannato il «gesto vile e infame». L’atto vandalico, insignificante nelle sue conseguenze materiali, è però sintomatico di un passato irrisolto, di una storia che ha lasciato ferite profonde. È una storia in cui sono ben chiari gli innocenti, molto meno i colpevoli. Ne erano coscienti gli artisti, gli uomini di cultura e gli intellettuali che, dopo la morte di Pinelli nel dicembre 1969, si spesero in un proprio personale tributo alla vicenda, per cercare le risposte in un episodio in cui verità e menzogna sembravano inestricabili. Questo lavoro intende analizzare le testimonianze iconografiche legate alla figura di Giuseppe Pinelli comparse tra il 1969 e il 1975: dipinti, mostre d’arte, film, spettacoli teatrali, libri, manifesti, fumetti, vignette satiriche, fotografie. Non si pone differenza di valore nei materiali né nel profilo dei loro autori poiché si vuole riconoscere l’importanza che ogni testimonianza ha avuto nella narrazione del caso Pinelli. La varietà e la consistenza numerica dei lavori dimostrano il ruolo cruciale che la vita di un uomo comune ha rivestito per artisti e intellettuali di diverse generazioni. Per alcuni di loro la vicenda fu l’occasione per aderire con rinnovata convinzione alla lotta collettiva in cui erano già impegnati: Paolo Baratella, Arnaldo Pomodoro, Dario Fo, i vignettisti di «Lotta Continua»; per coloro che stavano esplorando un percorso di coscienza politica Pinelli non poteva essere ignorato, come nel caso di Pier Paolo Pasolini, Elio Petri, Nelo Risi, Gian Maria Volontè, Dimitri Plescan; per altri que-

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

sta fu la prima vera occasione per confrontarsi con un tema di scottante attualità, assumendosi il rischio delle conseguenze: è il caso emblematico di Enrico Baj con I funerali dell’anarchico Pinelli, di cui si ricostruiscono le fasi ideative e la sfortunata vicenda espositiva. Molti degli artisti resero Pinelli l’esclusivo protagonista del proprio lavoro, altri utilizzarono la sua morte per narrare vicende politiche di portata più ampia, considerandola preludio ai successivi anni di piombo. La circolazione di quelle opere e le esposizioni dedicate non ebbero vita facile: furono spesso osteggiate affinché la controversa vicenda non avesse spazio, ma il risultato ottenuto fu opposto. La narrazione visiva del caso non ha mezze tinte, è univoca: la morte di Pinelli non è stata né un suicidio né un incidente. Esistono alcune costanti iconografiche, poiché la figura di Pinelli rimase legata a una simbologia precisa. Egli è rappresentato morto o nell’atto di cadere; lo accompagnano attributi fissi, gli strumenti del suo martirio in una dimensione quasi agiografica: la scarpa e la finestra. Il suo volto tumefatto e le sue fotografie in vita diventarono le immagini della vittima innocente per eccellenza. Come responsabili della sua morte – morali per alcuni, materiali per altri – si puntò il dito verso i poliziotti e il commissario Calabresi. Il lavoro si fonda sullo spoglio di quotidiani nazionali e riviste periodiche, quali «Il Giorno», «l’Unità», «L’Espresso», «Lotta Continua», «il manifesto», «A/Rivista Anarchica», «Lotta Poetica», «BCD, Bollettino di Controinformazione Democratica», «Linus», «Cineforum», «NAC, Notiziario di Arte Contemporanea», «Bolaffiarte», «Flash Art» e sulla consultazione dei materiali d’archivio. In particolare, per l’approfondimento su I funerali dell’anarchico Pinelli di Enrico Baj sono stati consultati il Fondo Mostre presso la Cittadella degli Archivi del Comune di Milano e il Fondo Enrico Baj conservato all’Archivio del ’900 del MART di Rovereto. Quest’ultimo, donato nel 2014 da Roberta Cerini Baj, è stato il punto di partenza per la ricerca grazie alla ricchezza quantitativa dei documenti che custodisce. Per ricostruire la vicenda ho potuto attingere alla vasta corrispondenza fra l’artista e personalità italiane e internazionali e al fascicolo miscellaneo dedicato all’opera su Pinelli.

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INTRODUZIONE

13

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In Appendice sono riportati alcuni fra i più importanti testi legati alla vicenda dell’opera I funerali dell’anarchico Pinelli di Enrico Baj, tra cui due contributi dell’artista. Desidero ringraziare la Fondazione Passaré e Luca Pietro Nicoletti per avermi dato l’opportunità di pubblicare questo testo, Federica Rovati per averlo seguito fin dalla sua ideazione. Un ringraziamento particolare va a Roberta Cerini Baj, che ha condiviso con me i suoi ricordi sull’opera di Enrico Baj. Grazie a Paola Pettenella, Duccio Dogheria, Carlo Prosser, Federico Zanoner, Patrizia Regorda e Mariarosa Mariech. Molti dei ritagli stampa e dei manifesti politici visionati sono conservati presso l’Archivio proletario internazionale di Milano e l’Archivio Licia Rognini Pinelli, depositato presso il Centro Studi Libertari di Milano, che ringrazio per la disponibilità. Gran parte del materiale utilizzato per il paragrafo sul film Processo politico di Francesco Leonetti e Arnaldo Pomodoro giunge dall’Archivio Arnaldo Pomodoro, depositato presso la Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano: grazie a Bitta Leonetti per i suoi racconti e per l’aiuto nella ricostruzione della vicenda legata al film. Ringrazio Andrea Bellucci dell’Archivio comunale di Montelupo Fiorentino, l’Archivio Enrico Cattaneo e la Fondazione Marconi, Paola Marabelli, Sergio Borghesi, Andrea Rauch, Paolo Baratella e Pablo Echaurren per il tempo dedicatomi. In ultimo, un ringraziamento alle amiche e agli amici che mi hanno accompagnato in questi anni di ricerca, a Max Collini e alla mia famiglia, alla quale dedico questo libro.

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1969

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Tre giorni, una strage

La bomba di piazza Fontana concretizzò il timore di un ritorno a un’epoca di violenza e di terrore che in Italia serpeggiava da anni. La sala della banca dell’Agricoltura dilaniata dall’esplosione fu immortalata in una fotografia che si fatica a dimenticare, insieme a quelle dei morti e dei feriti; immagini così crude non si vedevano dalla Seconda Guerra Mondiale. Il 12 dicembre la «strategia della tensione» voluta dai neofascisti era un vago sospetto solo per alcuni; gli artefici dell’attentato, per la grande maggioranza delle persone, andavano ricercati tra le file più estreme dei partiti di sinistra, o fra coloro che in un partito non si rispecchiavano, gli anarchici. Passeranno anni prima attribuire la strage ai movimenti neofascisti, anni che si lasciano alle spalle un innocente incarcerato, Pietro Valpreda, decine di feriti e mutilati dalla bomba e diciassette vittime più una, Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi la notte del 15 dicembre 1969. La sorte di Pinelli, un ferroviere anarchico di 41 anni, avrebbe dovuto passare in sordina nel clima concitato di quei giorni. Non fu così. L’uomo venne fermato subito dopo la strage e bloccato in Questura oltre le 48 ore di fermo legale1. Fu sottoposto a un interrogatorio sfibrante nonostante non avesse alcuna informazione concreta da fornire alla polizia e di fatto nulla da confessare: si sospettava di lui per le bombe sui treni dell’agosto 1969, anch’esse rivelatesi poi fasciste. Quando cadde dalla finestra e morì poco dopo in ospedale, furono i giornalisti a comunicarlo alla vedova Licia Rognini, che affacciatasi all’uscio di casa intimò ai cronisti di fare piano per non svegliare le figlie Silvia e Claudia. La stessa notte in via Fatebenefratelli il questore Marcello Guida e il commissario Luigi Calabresi rila1 Giorgio Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, Einaudi, Torino 1999, p. 8.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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sciarono le prime versioni dei fatti. Guida disse che «[Pinelli] era fortemente indiziato di concorso in strage… il suo alibi era caduto… non posso dire altro… si era visto perduto… è stato un gesto disperato. Una specie di autoaccusa, insomma»2. Inoltre: «eravamo in fase di contestazione di indizi. Evidentemente a un certo punto si è trovato come incastrato. Allora è crollato psicologicamente. Non ha retto…»3. Calabresi affermò: «Lo credevamo incapace di violenza, invece… è risultato implicato con persone sospette… implicazioni politiche»4. Secondo la ricostruzione di quella notte, il commissario, nel tentativo di estorcere a Pinelli informazioni relative alla bomba, gli avrebbe detto «Valpreda ha parlato!» e Pinelli, sentendosi perso, tradito da un compagno di fede, si sarebbe buttato dalla finestra5. Ben presto il racconto di Guida e di Calabresi si intrecciò a quello degli altri ufficiali presenti in Questura, il tenente dei carabinieri Lograno, i sottufficiali Mainardi, Panessa, Caracuta e Mucilli, trasformandosi in un groviglio di incongruenze e inverosimiglianze che non passò inosservato alla vedova Pinelli e a buona parte dei cittadini. Orari sballati, improvvise distrazioni mentre Pinelli si lanciava verso la finestra e, in ultimo, il racconto di Panessa, il quale dichiarò di essersi ritrovato con una scarpa in mano nel tentativo di fermare Pinelli per le gambe6. Quando ritrattò la propria versione era già troppo tardi: i giornalisti videro Pinelli nel cortile della Questura con le due calzature ai piedi7 e il racconto si trasformò in una macchia indelebile nella narrazione del caso. Su una questione gli ufficiali non ebbero dubbi: il commissario Calabresi non si trovava nella stanza al momento della caduta di Pinelli, era nell’ufficio del commissario capo Antonino Allegra per consegnare il verbale dell’interrogatorio. 2

Marco Sassano, Pinelli: un suicidio di stato, Marsilio editori, Padova 1971,

p. 23. 3

Camilla Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Feltrinelli, Milano 1971,

p. 13. 4

Marco Sassano, Pinelli: un suicidio di stato cit., p. 23. Giampaolo Testa, Gli dissero: abbiamo preso Valpreda e Pinelli saltò giù dalla finestra, «Il Giorno», 17 dicembre 1969, p. 2. 6 Marco Sassano, Pinelli: un suicidio di stato cit., p. 25. 7 Camilla Cederna, Pinelli cit. p. 28. 5

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1969.

TRE GIORNI , UNA STRAGE

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Calabresi e Pinelli si conoscevano da tempo ed erano uniti, se non da amicizia, da reciproco rispetto Mario Calabresi ha affidato a un libro i ricordi e la ricostruzione della storia della propria famiglia e più volte ha sottolineato come in casa loro Pinelli «non [fosse] mai stato un nemico»8, ricordando che, durante un corteo nel 1967, Pinelli prese le difese del padre davanti a Marco Pannella, dicendo che «Calabresi era una bravissima persona»9. Capitò anche uno scambio di libri in occasione di un Natale, Mille milioni di uomini di Enrico Emanuelli da parte di Calabresi, ricambiato da Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, il libro prediletto dall’anarchico10. Fu Calabresi a raggiungere Pinelli al Circolo anarchico in via Scaldasole dopo lo scoppio della bomba, dove gli chiese di seguirlo in Questura. A riprova di una situazione informale, a Pinelli fu permesso di spostarsi con il proprio motorino e non a bordo dell’auto della polizia. Il 20 dicembre 1969 si celebrarono i funerali di Pinelli. L’evento si svolse nella commozione generale delle migliaia di persone accorse per dare l’ultimo saluto all’anarchico. Qualcuno ricordò la giornata come «di sconfitta, […] c’erano solo mille o duemila persone, pochissimi compagni»11, alla vedova Pinelli, invece, era «sembrata moltissima gente»12. Anarchici accorsero da Torino, dalla Toscana, addirittura dalla Puglia13. Il corteo che dall’obitorio giunse al cimitero di Musocco si riunì poi intorno alla fossa 434, sulla cui lapide era stata incisa una poesia dell’amata Antologia di Spoon River. Qui vennero intonate Addio Lugano bella e L’Internazionale. Dalle fotografie di quella giornata si percepisce il clima di raccoglimento intorno al defunto e alla sua famiglia (fig. 1). I compagni con il pugno alzato, qualche bandiera nera, alcune donne si asciugano le lacrime con un fazzoletto: tranne Licia, che non pianse mai e si mostrò sempre fiera e composta, nello «sforzo di non lasciar 8

Mario Calabresi, Spostando la notte più in là, Mondadori, Milano 2008, p. 54. Ivi, p. 44. 10 Giorgio Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969 cit., p. 68. 11 Piero Scaramucci, Licia Pinelli. Una storia quasi soltanto mia, Mondadori, Milano 1982, p. 17. 12 Ibidem. 13 Fabio Mantica, Senza incidente i funerali dell’anarchico suicida, «Corriere della Sera», 21 dicembre 1969, p. 8. 9

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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1. P. M. Paoletti, Folla e bandiere anarchiche ai funerali di Pino Pinelli, «Il Giorno», 21 dicembre 1969, p. 23.

trapelare i sentimenti. Per non dargli la soddisfazione»14, venne definita «l’anti-archetipo della vedova tradizionale»15. La questura aprì l’inchiesta sulla morte dell’anarchico, affidandola al sostituto procuratore Caizzi e non permettendo alla moglie e alla madre di Pinelli di costituirsi parte civile16. Negli ultimi giorni del 1969 Licia e la madre di Pinelli decisero di querelare il questore Guida per «diffamazione continua e aggravata»17 a proposito delle dichiarazioni che questi fece subito dopo la morte di Pinelli. La vedova, in quel momento, non pensò di denunciare gli agenti di polizia per la morte del marito, poiché «alla morte non potevo porre rimedio, alla diffamazione sì»18. 14

Piero Scaramucci, Licia Pinelli cit., p. 17. Giovanni Giudici, Biografia di un ferroviere, «L’Espresso», 28 dicembre 1969, p. 7. 16 Camilla Cederna, Pinelli cit., p. 18. 17 La vedova e la madre di Pinelli querelano il questore, «Corriere d’informazione», 27-28 dicembre 1969, p. 1. 18 Piero Scaramucci, Licia Pinelli cit., p. 20. 15

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1970

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Morte sospetta di un anarchico

Nel gennaio 1970 la cronaca cercò di spazzare via l’accaduto. Il «Corriere della Sera» titolava sbrigativamente Caso Pinelli: tutto chiarito? asserendo che «l’inchiesta sulla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli è entrata nella fase finale», poiché «nessuno può essere ritenuto penalmente responsabile della tragedia»1. Vi erano infatti altre questioni a cui pensare: le accuse a Pietro Valpreda avrebbero permesso di dare risposte ai familiari delle vittime della bomba di Piazza Fontana. Ma Pinelli non passò in secondo piano. Iniziarono a comparire infatti testimonianze, ricordi e racconti sull’anarchico che contribuirono a poco a poco a creare l’immagine di un «un eroe positivo»2, un uomo pacifista e non incline alla violenza, come dissero di lui gli obiettori di coscienza Giuseppe Gozzini e Pietro Pinna3. Le figlie Silvia e Claudia furono protagoniste di gesti di solidarietà4, alcuni giornalisti si spesero per tentare di delineare una ricostruzione credibile della morte di Pinelli. Fra questi si distinse Camilla Cederna, firma de «L’Espresso», periodico che fu tra i primi a contestare la pista anarchica per la strage di Piazza Fontana, ritenendo che l’attentato fosse di matrice neofascista5. La giornalista iniziò una lunga campagna stampa per cercare la vera causa della morte dell’anarchico, non convinta che l’uomo si fosse suicidato, ma nemmeno che fosse stato un incidente. Com’è morto il Pinelli e perché? Che sia valida l’ipotesi di un incidente sul lavoro durante l’interrogatorio? O che per una certa ragione 1 Caso Pinelli: tutto chiarito?, «Corriere d’Informazione», 17-18 gennaio 1970, p. 4. 2 Camilla Cederna, Pinelli cit., p. 19. 3 Archivio Licia Rognini Pinelli, Pietro Pinna, L’amico Pinelli, «Azione nonviolenta», febbraio-marzo 1970, ritaglio stampa. 4 Archivio Licia Rognini Pinelli, Solidarietà del «Piccolo» con le orfane di Pinelli, «Avanti!», 11 gennaio 1970, ritaglio stampa. 5 G. C., La Repubblica è più forte, «L’Espresso», 21 dicembre 1969, p. 1.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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Pinelli si sia sentito molto male e sia caduto a capofitto nel tentativo di rimettersi con una boccata d’aria? O, terza ipotesi (suggerita dall’agenzia IN), sia stato stroncato da un infarto e allora qualcuno l’abbia buttato giù? Prima però si cerchi di capire perché l’avevano trattenuto tre giorni in questura6.

La giornalista riportò i numerosi cortocircuiti in cui erano incappati il commissario Calabresi e la polizia, come l’ora in cui venne chiamata l’ambulanza: secondo il centralino dei vigili a mezzanotte e cinquantotto secondi, due minuti prima della caduta di Pinelli, che a detta del giornalista testimone avvenne a mezzanotte e tre minuti; oppure il fatto che sulle mani di Pinelli non venne trovato neppure un graffio, dettaglio che non si addice a una caduta volontaria, dove il suicida per istinto porta le mani in avanti7. Quelle della Cederna erano sicuramente supposizioni scottanti, ma in linea con i dubbi causati dall’ennesima dichiarazione controversa di Calabresi: l’11 gennaio 1970, infatti, quest’ultimo sostenne: «Non avevamo niente contro di lui, era un bravo ragazzo, l’avremmo rilasciato il giorno dopo»8.

La satira, un film Se la Cederna avanzava le prime ipotesi di una morte alternativa a quella dichiarata dalla polizia, ci fu chi non esitò a scagliarsi contro l’operato dei funzionari, accusando il commissario Calabresi di omicidio. Il settimanale «Lotta Continua» fu il principale veicolo di questa campagna di controinformazione, affinché non «cali […] la comoda cortina della noia e dell’indifferenza»9. A partire dal gennaio 1970 comparvero una serie di vignette satiriche firmate da Roberto Zamarin10. Queste avevano per soggetto Calabresi, in collage dove la fotografia della 6

Camilla Cederna, Cinque modi di morire, «L’Espresso», 22 febbraio 1970, p. 6. Ibidem. 8 Ibidem e in Camilla Cederna, Pinelli cit., p. 23. 9 Per un’indagine su un commissario al di sopra di ogni sospetto, «Lotta Continua», 21 febbraio 1970, p. 6. 10 Ricordo di Roberto Zamarin, «Lotta Continua», 22 dicembre 1972, p. 3. 7

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1970.

MORTE SOSPETTA DI UN ANARCHICO

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sua testa era inserita all’interno di un disegno11. Se ne trovano più di una dozzina nel corso del 1970 e vanno da quelle più ironiche, dove un paracadutista bussa alla porta dell’ufficio del commissario o un pendolare sul tram che scocciato dice: «Ma dotto’!... che fa? Spinge?»12 (fig. 2), a quelle più graffianti, in cui un agente di polizia raccoglie i corpi gettati dalla finestra della questura urlando «A dotto’ me lo potevate dire ch’era un confronto»13. L’immagine che si voleva trasmettere al lettore era quella di un commissario feroce, senza scrupoli, e per la sua definizione gli autori di «Lotta Continua» attinsero a piene mani dal film di Elio Petri Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Uscito nelle sale a febbraio 1970, ma scritto e girato prima della strage alla Banca dell’Agricoltura14, il film colpì per alcuni suoi tratti profetici. Il commissario di polizia protagonista, interpretato da Gian Maria Volonté, uccide la propria amante seminando dappertutto prove della sua colpevolezza, non riuscendo a farsi sospettare poiché parte del potere costituito e dunque al di sopra della legge. Stremato da un’accusa che tarda ad arrivare, si consegna infine alla giustizia, confessando il delitto. Il film suscitò un acceso dibattito, poiché si colsero le somiglianze e le facili sovrapposizioni con i protagonisti delle vicende politiche dell’epoca. Come lo stesso co-sceneggiatore Ugo Pirro raccontò, «c’è in Indagine […] una scena che si potrebbe definire profetica: una bomba scoppia all’interno della Questura, l’attentato provoca una repressione indiscriminata nei confronti dei militanti dell’estrema sinistra. È quanto acca-

2. [Roberto Zamarin], [senza titolo], «Lotta Continua», 28 febbraio 1970, p. 3.

11 La fotografia utilizzata circolava nel dicembre 1969 ed è molto simile a quella comparsa su Lo stato maggiore della «politica», «Il Giorno», 17 dicembre 1969, p. 4. 12 [Roberto Zamarin], [s. tit.], «Lotta Continua», 28 febbraio 1970, pp. 2-3. 13 Inquirenti o colpevoli?, «Lotta Continua», 24 marzo 1970, p. 6. 14 Sauro Borelli, Come Petri rivede Kafka, «l’Unità», 12 febbraio 1969, p. 3.

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3. Due commissari, «Lotta Continua», 21 febbraio 1970, p. 6

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de all’indomani della bomba di Piazza Fontana»15. Per «Lotta Continua» il ruolo rivestito da Gian Maria Volonté ricalcava perfettamente la figura di Calabresi. Gli abiti sempre impeccabili, il portamento raffinato, la riga laterale dei capelli impomatati permettevano la sovrapposizione dei due uomini. Calabresi era un uomo distinto, «se non l’uomo più elegante, almeno il più moderno della questura»16, un’immagine che contrastava con la presunta ferocia di cui lo si riteneva capace. L’articolo che uscì nel febbraio 1970 presentava un montaggio fotografico: a sinistra Volontè nei panni del commissario di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, a destra Calabresi. La didascalia aveva il gusto della sentenza: «Due commissari. Quello di sinistra […] ha già confessato»17 (fig. 3). Nel corso dell’anno, a fianco delle vignette comparvero articoli sempre più violenti. Adriano Sofri, che sarà implicato nell’omicidio del commissario, ricorderà: «la nostra campagna contro Calabresi diventò poi una persecuzione, un linciaggio, un’agonia distillata. Furono scritte cose truci e feroci»18. In alcuni articoli si equivoca il nome – «Calabrese» – e la biografia, attribuendo al commissario un corso di specializzazione presso la CIA negli Stati Uniti permesso dai suoi contatti con il generale De Lorenzo19 (fig. 4). Sempre Sofri dichiarò: «Eravamo certi 15 Christian Uva, Elio Petri, la sinistra e la militanza: il caso di Ipotesi su Giuseppe Pinelli, in Gabriele Rigola (a cura di), Elio Petri, uomo di cinema. Impegno, spettacolo, industria culturale, Bonanno editore, Roma 2015, p. 149. 16 Camilla Cederna, Pinelli cit., pp. 10-11. 17 Per un’indagine su un commissario al di sopra di ogni sospetto, «Lotta Continua», 21 febbraio 1970, p. 6. 18 Adriano Sofri, La notte che Pinelli, Sellerio, Palermo 2009, p. 70. 19 Per un’indagine su un commissario al di sopra di ogni sospetto, «Lotta Continua», 21 febbraio 1970, p. 6. Questa vicenda in realtà è falsa o, meglio, è frutto di un malinteso dei giornalisti: la persona in questione era un altro funzionario della polizia, Lorenzo Calabrese, che aveva effettivamente avuto rapporti con i Servizi Segreti statunitensi. Secondo il giornalista Aldo Giannuli non è detto che

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1970.

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4. Pinelli, un rivoluzionario. Calabresi, un assassino, «Lotta Continua», 1 ottobre 1970, p. 13.

che Calabresi fosse il principale responsabile della morte di Pinelli e risoluti a portarlo in tribunale con quella imputazione: e per ottenere questo, a farci portare in tribunale da Calabresi»20. L’intento dei giornalisti di «Lotta Continua» riuscì, poiché il commissario in aprile sporse denuncia «per diffamazione aggravata e continuata»21 nei confronti del professore Pio Baldelli, che firmava come direttore del giornale22.

«Lotta Continua» non sapesse che la notizia fosse inesatta, ma avendo avviato una campagna giornalistica dai toni «esasperati […] è facile immaginare che, di fronte a notizie così “piccanti”, non sia andata troppo per il sottile nell’usarle» in Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, BUR, Milano 2008, p. 186. 20 Adriano Sofri, La notte che Pinelli cit., p. 70. Nel testo sono ricordate alcune tra le pagine più dure di «Lotta Continua» dedicate a Calabresi, fra queste: «noi […] di questi nemici del popolo vogliamo la morte», Un’amnistia per Calabresi?, «Lotta Continua», 6 giugno 1970, p. 15; «Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara», Pinelli un rivoluzionario, Calabresi un assassino, «Lotta Continua», 1 ottobre 1970, p. 13. 21 Il commissario Calabresi querela «Lotta continua», «Corriere della Sera», 7 maggio 1970, p. 8. 22 Camilla Cederna, Pinelli cit., p. 37.

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Pinelli assassinato Calabresi attese alcuni mesi prima di querelare «Lotta Continua», poiché sentiva che era «già nell’aria la notizia dell’archiviazione»23 dell’istruttoria su Pinelli. Sperava così di mettere tutto a tacere senza alzare altri polveroni. Le sue sensazioni si avverarono, ma le accorate richieste di «fare piena luce sulla morte dell’anarchico»24 non si placavano, così come vacillavano gli indizi di colpevolezza di Valpreda: il sospetto di una responsabilità dei gruppi della destra estrema si faceva sempre più concreto25. In quei primi mesi del 1970 si moltiplicavano le manifestazioni di solidarietà nei confronti di Pinelli e Valpreda: un corteo a Milano26, un sit-in di anarchici in Piazza del Duomo qualche giorno dopo27, una colorita occupazione delle torri papaline di Porta San Giovanni a Roma da parte di un gruppo di anarchici muniti di cartelloni28 e, sempre nella capitale, un’azione teatrale di strada, in cui da un edificio di Largo Chigi venne lanciato un manichino in mezzo alla folla, seguito da una pioggia di volantini con scritto «Gli italiani credono ancora alla Befana e credono anche che Pinelli si sia suicidato, mentre invece è stato assassinato dalla polizia»29. Una prima analisi degli eventi contemporanei fu offerta dal libro Le bombe di Milano30, dodici capitoli scritti dalle penne di spicco dei quotidiani italiani. Il capitolo su Pinelli, di Cor23

Ivi, p. 34. Quando la verità su Pinelli?, «l’Unità», 1 aprile 1970, p. 2. 25 Ibidem. 26 Tensione nelle strade del centro per due cortei di anarchici e neofascisti, «Corriere della Sera», 25 marzo 1970, p. 8. 27 Manifestazione di anarchici in piazza del Duomo, «Corriere d’Informazione», 28 marzo 1970, p. 5. 28 Anarchici sulla torre: cartelli per Valpreda, «Il Giorno», 3 maggio 1970, p. 5. 29 Lanciano da una terrazza un pupazzo «vestito» da Pinelli, «Corriere della Sera», 25 aprile 1970, p. 7. L’evento è citato, con alcune inesattezze, in Pio Baldelli, Informazione e controinformazione, [I ed. Mazzotta editore, 1972], Stampa Alternativa, Viterbo 2006, p. 225. Vi furono altre manifestazioni del genere. Sono citate in Gino Baratta, Ideologia teatro e prossemica, «Marcatrè», 62/62, giugno luglio 1970, pp. 33-34, a dimostrazione di come gli interventi si configurassero come una vera e propria opera di controinformazione pubblica. 30 Aa. Vv., Le bombe di Milano, Guanda, Parma 1970. 24

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rado Stajano, ripercorreva gli ultimi giorni di vita dell’anarchico e adduceva come ipotesi della morte un colpo di karatè, che avrebbe ucciso l’uomo senza lasciare sul suo corpo segni di violenza; la defenestrazione avrebbe coperto l’omicidio. Il testo fu oscurato dalla pubblicazione del libro La strage di stato, una controinchiesta destinata a diventare un best seller. Scritto da «un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare»31, raccontava come la strage di Piazza Fontana fosse parte di «un piano finalizzato a respingere le lotte sociali in atto […] [a cui] sarebbe dovuto seguire un colpo di stato di tipo greco»32. Il capitolo era dedicato alla ricostruzione della morte di Pinelli, al quale peraltro il libro era dedicato. La grande diffusione del testo non poteva che giovare alla tesi dell’omicidio che «Lotta Continua» perseguiva con la sua serrata campagna di stampa. Nel numero del 18 aprile 1970 uscì l’articolo Perché parliamo di Pinelli33: la morte dell’anarchico, l’arresto di Valpreda e le vittime di Piazza Fontana erano gli ingranaggi di una macchinazione più grande, diretta dallo «stato borghese contro l’autonomia operaia e il movimento rivoluzionario»34. Compariva un disegno che avrebbe avuto larghissima fortuna nella narrazione del caso da parte di «Lotta Continua»: due mani spingono verso il basso Pinelli. L’uomo, il cui viso è deformato dall’urlo, apre impotente le braccia. Solo un piede è calzato da una scarpa, indelebile atto d’accusa verso i funzionari di polizia. A riprova di una lettura perentoria, il disegno era incorniciato dalla sentenza Pinelli assassinato (fig. 5). Tra maggio e luglio 1970 si concretizzò ciò che era nell’aria: Caizzi trasmise gli atti dell’istruttoria sulla morte di Pinelli al giudice Amati chiedendone l’archiviazione35. La causa del decesso fu descritta come «accidentale»36: «se la lingua italiana ha un senso» disse il legale della famiglia Pinelli, «ciò significa 31 Aa. Vv., La strage di stato, [I ed. Samonà e Savelli, 1970], Odradek, Roma 2000, p. 1. 32 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro cit., p. 42. 33 Perché parliamo di Pinelli, «Lotta Continua», 18 aprile 1970, p. 15. 34 Ivi, p. 16. 35 Proposta dal PM l’archiviazione dell’inchiesta sulla morte di Pinelli, «Corriere della Sera», 23 maggio 1970, p. 8. 36 Pinelli: morte accidentale, «Corriere d’informazione», 6-7 luglio 1970, p. 5.

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che suicidio non c’è stato»37. Il 24 settembre 1970 su «Il Giorno», nella rubrica «Lettere del giorno», comparve un appello di alcuni medici e intellettuali italiani che chiedevano la verità sull’accaduto: Pino Pinelli, ferroviere, è morto nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 precipitando da una finestra della Questura di Milano. Non sappiamo come. Sappiamo soltanto che era innocente. Marcello Guida, questore, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, aggrediva Pinelli con accuse infamanti, ne dichiarava caduti gli alibi, lo definiva ormai preso dalla legge, ne annunciava la morte come una confessione. Non sappiamo perché. Sappiamo soltanto che mentiva. [...] Dobbiamo rispetto al magistrato, ma non possiamo non attribuirgli la stessa responsabilità di chi ha ucciso un’altra volta Giuseppe Pinelli inchiodandone il ricordo a colpe che non ha commesso e la responsabilità, altrettanto grave, di chi uccide in noi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non possa riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. A questa coscienza facciamo appello perché levi alta la sua voce. La voce di quanti intendono che chiedere, oggi, la verità per Pinelli significa difendere quei valori senza i quali domani la nostra società non potrà più dirsi civile e la nostra Repubblica democratica38.

5. Pinelli assassinato, «Lotta Continua», 18 aprile 1970, p. 16.

Processi, dentro e fuori il tribunale Il 9 ottobre 1970 si aprì il processo contro «Lotta Continua» presieduto dal giudice Carlo Biotti39. Per difendere Baldelli dall’accusa di diffamazione nei confronti di Calabresi40, gli avvocati dichiararono l’intenzione di «provare che il dottor Calabresi ha ucciso Pinelli. Ucciso anche non direttamente. A ogni modo che la responsabilità della fine dell’anarchico cade

37

Pinelli in archivio, «L’Espresso», 31 maggio 1970, p. 6. Archivio Licia Rognini Pinelli, Per Pinelli, «Il Giorno», 24 settembre 1970, ritaglio stampa. Il testo è ripreso anche in L’anarchico e il questore, «L’Espresso», 27 settembre 1970, p. 9. L’appello fu firmato dai medici Giulio Maccacaro, Cesare Musatti e dagli intellettuali Lucio Gambi, Marino Berengo, Enzo Paci e Carlo Salinari, ai quali si aggiunsero Elio Fachinelli, Giovanni Giolitti, Vladimiro Scatturin e Mario Spinella. 39 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro cit., p. 117. 40 Imponente servizio d’ordine attorno al Palazzo di giustizia, «Corriere d’Informazione», 9 ottobre 1970, p. 8. 38

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28 6. Dimitri Plescan, Per la defenestrazione di G. Pinelli, 1970, china (fotografia in 24+4 disegni e sculture, catalogo della mostra (Arese, Milano, Galleria d’arte Gipico, Galleria Valentini), 1977, s. p.). 7. Dimitri Plescan, Finestra, 1970, china su carta, 35x25 cm (fotografia in Aspetti della ricerca figurativa 1970/1984, catalogo della mostra – Milano, Rotonda di via Besana –, [1984], p. 27).

su di lui»41. L’aula in cui si tenne la prima udienza fu presto affollata dai numerosi anarchici e militanti di sinistra accorsi per l’evento. Nei corridoi si cantavano La ballata del Pinelli («Quella sera a Milano era caldo / Calabresi nervoso fumava / Tu Lograno apri un po’ la finestra / ad un tratto Pinelli cascò»42), L’Internazionale, si scandivano contro Calabresi gli slogan «Ass-a-ssi-no! Ass-a-ssi-no!»43. Per come si svolse, il processo fu un vero boomerang mediatico per Calabresi e per gli altri poliziotti. Le dichiarazioni rilasciate non coincidevano con quelle fornite la notte in cui Pinelli morì e ciò contribuì a rafforzare la convinzione nei cittadini che i funzionari stessero mentendo e che stentassero a concordare la stessa versione dei fatti. Licia Pinelli, sempre presente alle udienze, ricordò come a un certo punto ci si fosse dimenticati che il commissario era la parte lesa: «Tutti chiedevano: “dov’è l’aula del processo contro Calabresi?”»44. Secondo la Cederna quelle ore di interrogatori portarono alla presa di coscienza dell’opinione pubblica che la storia raccontata dagli agenti di polizia era assurda45. Nel dicembre 1970 gli avvocati di Baldelli chiesero che una nuova perizia fosse fatta al cadavere di Pinelli46. Datata 1970, la china di Dimitri Plescan è fra le primissime opere dedicate al caso Pinelli. Il titolo Per la defenestrazione di G. Pinelli47 non lasciava spazio a interpretazioni e si inseriva perfettamente nel rabbioso clima di accuse di quell’anno (fig. 6). Dall’asta issata a una finestra timpanata sventola uno scheletro. La macabra marionetta è ancorata per gli arti inferiori, mentre il resto delle ossa puntano verso il basso, rievocando la caduta di Pinelli. L’anarchico si era trasformato nella bandiera di morte che sventolava dalla questura di Milano a imperitura memoria di ciò che accadde fra quelle mura. Plescan in quegli 41

Marco Sassano, Pinelli: un suicidio di stato cit., p. 73. Ivi, p. 160. 43 Camilla Cederna, Pinelli cit., p. 63. 44 Piero Scaramucci, Licia Pinelli cit., p. 88. 45 Camilla Cederna, Pinelli cit., p. 66. 46 Marco Sassano, Pinelli: un suicidio di stato cit., p. 87. 47 24+4 disegni e sculture, catalogo della mostra (Arese, Milano, Galleria d’arte Gipico, Galleria Valentini), 1977, s.p. 42

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anni faceva rivivere nelle sue opere l’amara constatazione della condizione umana e riservava ai disegni la cronaca quotidiana di avvenimenti privati e sociali48. La morte di Pinelli, colta quasi in presa diretta, era il soggetto ideale per rappresentare la fine di un uomo, tanto cruenta quanto ridicola. Parco di parole e spesso criptico nei suoi titoli, Plescan si espose senza remore nel suo personale tributo al concittadino, non esitando a assumerne la valenza politica: la defenestrazione era l’infamante accusa che perseguitava la polizia milanese. La china comparve per la prima volta nel 1978 nel catalogo della mostra 24+4 disegni e sculture49 presso la galleria Gipico di Arese, ma non si esclude che possa essere stata mostrata al pubblico prima50. Del 1970 48 Aspetti della ricerca figurativa 1970/1984, catalogo della mostra (Milano, Rotonda di via Besana), [1984], p. 112. 49 24+4 disegni e sculture cit., [s.p.]. 50 Per esempio, con data decisamente precoce, alla mostra Merisi, D. Plescan, P. Plescan, Vaglieri, catalogo della mostra (Cremona, Gruppo d’Arte Renzo Botti), 1970, o presso la Sezione Grafica della Libreria Brera nell’aprile 1970, dove vennero esposte opere di Plescan a seguito del testo Catalogo 1 Sezione grafica «La libreria di Brera», catalogo della mostra (Milano, Libreria Brera), 1970.

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è anche la piccola china Finestra (fig. 7). Questa occupa interamente lo spazio del foglio e si impone con le sue linee nervose e i drammatici chiaroscuri: l’ombra che si staglia sul parapetto ne amplifica l’atmosfera inquietante. La visuale è fortemente scorciata dal basso verso l’alto, l’intelaiatura si allontana con un gioco di linee concentriche e la strana vertigine che il disegno provoca va letta seguendo Per la defenestrazione di G. Pinelli: è l’ultimo sguardo alla finestra dell’anarchico, che sta cadendo verso il basso? A conferma di una lettura politica vi è la pubblicazione della china nel catalogo Aspetti della ricerca figurativa 1970/1983 nella sezione La partecipazione sociale. La sua riproduzione è qui affiancata a opere fortemente politicizzate – Valsecchi, La strage di Brescia, Reggiani, Nero su nero (Sacco e Vanzetti) – ed è accolta accanto all’opera di Agostino Pisani, Morte per caduta, un piccolo diorama in legno il cui tetto è formato dall’intelaiatura di una finestra. Nei due precoci esempi di opere dedicate a Pinelli, possibili grazie all’attenta lettura del presente di Plescan, sono già evidenti le costanti della narrazione visiva: la caduta e la finestra. Quest’ultima con una valenza così essenziale da vivere come entità autonoma. L’intuizione di associare alla morte di Pinelli uno scheletro, invece, resterà un unicum nell’iconografia dedicata all’anarchico. Del 1970 è anche il lungometraggio Documenti su Giuseppe Pinelli. Realizzato dal «Comitato Cineasti Italiani contro la repressione» in collaborazione con l’Unitelefilm51, iniziò a circolare nell’autunno 1970. Esso soddisfaceva tutti i requisiti per definirsi opera di cinema militante, configurandosi come «volutamente anti-spettacolare, documentaria, di breve durata»52, ma è da considerarsi tuttavia un ibrido. L’idea del lavoro era nata per volontà di Elio Petri e Ugo Pirro subito dopo la strage di piazza Fontana53 e aveva coinvolto decine di autori e attori appartenenti alle associazioni ANAC e AACI. Il progetto doveva ricalcare il libro Le bombe di Milano: cre51

Christian Uva, Elio Petri, la sinistra e la militanza cit., p. 151. Jennifer Malvezzi, Immagini e parole per la rivoluzione. Film e video militanti nella Milano del «lungo decennio», in Cristina Casero, Elena Di Raddo (a cura di), La parola agli artisti. Impegno a Milano negli anni Settanta, Postmedia Books, Milano 2016, p. 59. 53 Christian Uva, Elio Petri, la sinistra e la militanza cit., p. 151. 52

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are cinque diversi gruppi di lavoro, ognuno dei quali avrebbe «portato a termine un episodio dell’opera di controinformazione inerente ai fatti del 12 dicembre ’69»54. Di questo film si avevano già avute notizie in un breve articolo de «L’Espresso», che prospettava una «colossale cinema-inchiesta» in cui «si parlerà del caso Valpreda, come del processo Bellocchio, del caso Pinelli come dello sciopero dei netturbini romani»55. Alla fine fu raccolta una grande quantità di materiale, ma girò solo il gruppo di Elio Petri e Nelo Risi56. Il lavoro concluso era dunque un dittico composto da Materiale n.1 Giuseppe Pinelli di Risi e Materiale n.2 Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli di Petri, ma la proiezione fu firmata «da tutti gli aderenti al comitato per un’assunzione collettiva di responsabilità politica»57. Materiale n.1 Giuseppe Pinelli, a cura di Nelo Risi, è un documentario militante, in cui sono intervistati i conoscenti di Pinelli, tra i quali un collega, gli amici con cui egli giocò a carte il 12 dicembre 1969 e alcuni anarchici che erano stati fermati in questura insieme a lui. Gli ultimi minuti sono dedicati a Licia Pinelli. La donna siede al tavolo di casa, al suo fianco una macchina da scrivere. Come sempre è composta e lucidissima nelle risposte. Risi, fuoricampo, incalza con le domande: «Lei crede che suo marito si sia suicidato?» «No», la risposta della vedova è fulminea. «Signora noi sappiamo che in Italia c’è stata un’opinione pubblica estremamente favorevole a suo marito poco dopo il tragico fatto. Vorrei sapere se però c’è stata anche qualche voce discorde». «Ho ricevuto due lettere anonime, contro gli anarchici, non contro di me. Io posso dire questo, no? A tutti quelli che pensano male nei confronti degli anarchici: che io sono orgogliosa di essere… stata la moglie di un anarchico, per il semplice motivo che Pino, sia in piena coscienza che inavvertitamente, non ha mai fatto male a 54

Ibidem. Le bombe al cinema, «L’Espresso», 31 maggio 1970, p. 21. 56 Christian Uva, Elio Petri, la sinistra e la militanza cit., p. 151. 57 Elio Petri, Nelo Risi, Documenti su Giuseppe Pinelli, lungometraggio, 1970. I firmatari furono Bernardo Bertolucci, Tinto Brass, Luigi Comencini, Mario Monicelli, Giuliano Montaldo, Pier Paolo Pasolini, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola, Luchino Visconti. 55

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32 8. Elio Petri, Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, in Documenti per Giuseppe Pinelli, 1970, fotogramma dal film (courtesy AAMOD Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico).

nessuno». Questa prima parte di Documenti viene configurata come una canonica declinazione del cinema militante, il documentario, conta sul coinvolgimento emotivo dello spettatore e su una chiara «propaganda ideologica»58 resa dalla ricostruzione della figura di Pinelli a partire dalle persone che l’hanno conosciuto. Petri realizzò invece un «instant movie militante»59, utilizzando una tecnica metateatrale e un modus operandi che fu tipico del teatro epico di Bertolt Brecht, in cui gli attori «”raccontano e non incarnano” gli agenti di polizia»60 e lo stesso Pinelli, è costretto a «morire e risorgere per tre volte, esponendo poi al pubblico […] le incongruenze di questi suicidi simulati»61. L’efficacia del capitolo fu sicuramente dovuta al talento di Volontè, che al ruolo di «cronachista» somma quello di «agente». Dopo il ruolo in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto 58 59 60 61

Christian Uva, Elio Petri, la sinistra e la militanza cit., p. 152. Ivi, p. 151. Jennifer Malvezzi, Immagini e parole per la rivoluzione cit., p. 59. Christian Uva, Elio Petri, la sinistra e la militanza cit., p. 153.

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MORTE SOSPETTA DI UN ANARCHICO

33 9. Elio Petri, Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, in Documenti per Giuseppe Pinelli, 1970, fotogramma dal film (courtesy AAMOD Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico).

e la conseguente campagna di «Lotta Continua», egli era anche qui identificato con il commissario Calabresi. Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli dura poco più di dieci minuti ed esemplifica quanto le testimonianze dei poliziotti avessero giocato un ruolo fondamentale nel racconto della vicenda. Il ciak precede l’ingresso degli attori e Volontè, microfono in mano, esordisce dichiarando il loro intento: Allora, siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo. Ci proponiamo, attraverso l’uso del nostro specifico, il comportamento degli attori, i registi, i tecnici, di ricostruire le tre versioni ufficiali, cioè quelle avallate dalla magistratura, sul suicidio… il presunto suicidio dell’anarchico Pinelli62.

Tutto il filmato è giocato sul cortocircuito che gli attori creano entrando e uscendo continuamente dal ruolo che devono interpretare. Lo spettatore si trova quindi di fronte alla dichiarata messa in scena, sottolineata dagli abiti «civili» dei protagonisti, dal montaggio serrato senza fronzoli né cure par62

Elio Petri, Nelo Risi, Documenti su Giuseppe Pinelli, film, 1970.

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ticolari, dal ciak esposto a inizio inquadratura e prima di ogni ricostruzione. Gli attori sembrano seguire un canovaccio e, quando presenti, le battute sono tratte direttamente dalle dichiarazioni della magistratura. In un luogo identificato come l’ufficio di Calabresi sono evocate le tre versioni della morte di Pinelli: il «balzo felino» compiuto nell’indifferenza degli agenti; il lancio dalla finestra frenato inutilmente dai poliziotti; il tentativo di salvataggio da parte di Panessa, che si ritrovò con una scarpa di Pinelli in mano (fig. 8). Volontè commenta con fredda consapevolezza: «Il corpo dell’anarchico Pinelli è stato trovato a tre metri dal muro con tutte e due le scarpe ai piedi […] nonostante lo zelo dei quattro funzionari, l’anarchico Pinelli è riuscito a guadagnare il cortile». Allo spettatore è destinata l’interpretazione. Nella seconda sezione del corto, Titoli Pinelli, gli attori leggono a voce alta i titoli dei capitoli del libro La strage di stato e quelli dei quotidiani dell’epoca e con la stessa tecnica metateatrale mettono in scena la morte dell’anarchico Romeo Frezzi, anch’egli morto dopo una caduta da un ballatoio della questura: una perizia medica accertò che non si trattò di suicidio63 (fig. 9). Volontè e gli attori percuotono il collega che interpreta l’anarchico fino a farlo stramazzare a terra, per poi gettarne il corpo dalla finestra. Volontè, sguardo fisso in camera, dice: «Pino Pinelli, l’ultimo di una lunga serie di anarchici suicidi». Nonostante venisse auspicata una distribuzione capillare attraverso la RAI64, il film si limitò a circolare in associazioni e club privati65. Lo prova una locandina stampata in occasione della proiezione di «un film su Pinelli» durante un’assemblea di Lotta Continua nell’ottobre 1970. La sagoma nera disegnata sul manifesto era un istantaneo riferimento a Pinelli, ma dichiarava la sua ispirazione alle locandine cinematografiche di Vertigo di Hitchcock e di Anatomia di un omicidio di Preminger (figg. 10, 11, 12).

63

Corrado Stajano, Pinelli, in Le bombe di Milano cit., p. 135. Sergio Saviane, Un bel film che non vedremo, «L’Espresso», 8 novembre 1970, p. 21. 65 La locandina è conservata presso la Biblioteca Franco Serantini, sezione archivio Carte A. Frezza, Pisa. 64

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MORTE SOSPETTA DI UN ANARCHICO

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Il 10 dicembre 1970 Dario Fo e il collettivo La Comune misero in scena per la prima volta Morte accidentale di un anarchico66. Il tema della commedia, non serve nemmeno dirlo, era la vicenda Pinelli; il titolo stesso era la citazione della «morte accidentale» dichiarata da Caizzi durante l’archiviazione del caso. Lo spettacolo iniziava con una premessa: si volevano raccontare i fatti legati alla morte dell’anarchico Andrea Salsedo, il migrante italiano che nel 1921 fu defenestrato dal quattordicesimo piano del palazzo della polizia di New York67. Ai fini della trasposizione scenica, però, l’opera era stata ambientata a Milano e qualora il pubblico avesse riscontrato qualche punto in comune con eventi attuali, ciò era causa dell’«indecifrabile magia […] che storie pazzesche, completamente inventate, si siano trovate ad essere impudentemente imitate dalla realtà»68. La trama si snodava intorno al personaggio del Matto (Fo) che, fermato in questura, riusciva a farsi credere un alto magistrato giunto da Roma per rivedere il caso dell’anarchico morto. Fingendo di voler aiutare il questore e il commissario (con i quali ovviamente si alludeva a Guida e Calabresi) si faceva rivelare tutti i dettagli dell’accaduto. Ne nasceva una grottesca commedia degli equivoci in cui venivano a galla le contraddizioni dei racconti della polizia. Evidente era la grande conoscenza che Fo aveva degli atti e della cronaca del caso Pinelli. Se ne ripercorrevano tutte le tappe, dall’archiviazione dell’istruttoria alla citazione della vignetta di «Lotta Continua» in cui Calabresi è sull’autobus («No commissario… […] non spinga così… la prego… perché mi vuol far scendere? …Non è la mia fermata!»69), all’allusione al dettaglio biografico del questore Guida, che durante il fascismo era stato a capo della colonia di confino di Ventotene70 («il Matto sfogliando i verbali conta: “venticinque ventisei ventisette ventotto ventotene…”»71). Veniva ricordata la prima dichiarazione di Panessa, al quale sarebbe ri66 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro cit., p. 178. Il testo della commedia venne pubblicato per la prima volta nel 1974 e ripubblicato negli anni successivi. 67 Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico, Einaudi, Torino 1974, p. 111. 68 Ibidem. 69 Ivi, p. 14. 70 Camilla Cederna, Pinelli cit., p. 11. 71 Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico cit., p. 31.

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10. Proletari. Gli assassini di Pinelli sono i nostri assassini, 1970 manifesto di Lotta Continua (Biblioteca F. Serantini, sez. archivio, Carte. A. Frezza). 11. Alfred Hitchcock, Vertigo, 1958, locandina del film. 12. Otto Preminger, Anatomy of a Murder, 1959, locandina del film.

masta in mano una scarpa di Pinelli mentre cercava di salvarlo dalla caduta («Un momento… ma qui, qualcosa non quadra. Il suicida aveva tre scarpe?»72). Vale la pena ricordare il momento in cui il Matto, dopo aver ascoltato tutti i racconti degli agenti dichiara che con gran difficoltà essi sarebbero stati creduti. Il brano riassumeva il senso di tutta l’opera: Prima dite una cosa, poi la ritrattate… date una versione, dopo mezz’ora ne date un’altra tutta diversa […]. Fate dichiarazioni a tutta la stampa e, se non mi sbaglio, addirittura al telegiornale, di questo tenore: «naturalmente» degli interrogatori fatti all’anarchico non esiste nessun verbale, non s’è fatto in tempo... e dopo un po’: miracolo, ne saltano fuori addirittura due o tre di verbali… […] Ma se un indiziato si contraddicesse una metà di come vi siete impapocchiati voi, l’avreste come minimo accoppato! Sapete cosa pensa a ’sto punto di voi la gente? Che siete dei gran cacciaballe… oltre che dei biricchini… Ma chi volete che vi creda più ormai, oltre il giudice archiviatore, naturalmente. E sapete la ragione principale del perché la gente non vi crede?... perché la vostra versione dei fatti, oltre che strampalata, manca di umanità… di calore umano. Nessuno dimentica la risposta sgarbata e insolente data da lei, 72

Ivi, p. 65.

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1970.

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commissario, alla povera vedova dell’anarchico che le chiedeva perché non l’avessero avvisata della morte del marito. Non c’è mai un momento di commozione… nessuno di voi che si lasci andare… che sbraghi…magari che rida, pianga… canti! …La gente vi saprebbe perdonare tutte le contraddizioni in cui siete caduti ad ogni piè sospinto, se, in cambio, dietro a questi impacci, riuscisse ad intravedere un cuore… due «uomini umani»73.

Il successo della commedia fu immediato, nei mesi successivi fu messa in scena centinaia di volte e fu vista da almeno trecentomila persone74. Il carattere derisorio e satirico scatenò la polizia, che denunciò più volte Fo e tentò in ogni modo di fermare gli spettacoli, spesso entrando nel mezzo della serata e rendendosi involontariamente parte del copione, poiché Fo, appoggiato dal pubblico, trasformava quei momenti in un’ulteriore occasione di denuncia alle forze dell’ordine75. Fo ricordò il motivo che lo spinse a scrivere quel testo, ovvero il senso di necessità che il caso Pinelli imponeva al fine di risvegliare i cittadini poco informati e distratti o i quotidiani ancora troppo tiepidi nel giudicare gli avvenimenti76. Ragionava anche sul motivo del grande successo, generato non solo dalle risate che le menzogne dei poliziotti sapevano suscitare, ma soprattutto dal «discorso sulla socialdemocrazia e le sue lacrime di coccodrillo, […] lo scandalo che esplode, quando si viene a scoprire che massacri, truffe, assassinii sono compiuti da organismi del potere»77. La vedova Pinelli non vide mai la commedia per «paura di non resistere»78, ma pensò che fosse un’operazione di grande coraggio mettere in scena la vicenda a distanza di un solo anno dalla morte del marito. La madre di 73 74 75 76 77 78

Ivi, pp. 52-53. Ivi, p. 117. Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro cit., p. 149. Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico cit., p. 115. Ivi, p. 117. Piero Scaramucci, Licia Pinelli cit., p. 124.

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Pinelli, invece, partecipò a una replica, affermando che «Dario e Franca [Rame] erano eccezionali, che lo spettacolo era bellissimo ma che lei la notte si era sentita male»79. Tanti sono i disegni che accompagnarono l’uscita della commedia e che furono riportati sulle locandine e le copertine dell’opera. Volo dell’anarchico, firmato da Dario Fo, è il disegno scelto per una recente ristampa della commedia, ma è datato 1970: Pinelli sta cadendo verso il basso e l’attrito dell’aria fa volgere i suoi arti verso l’alto, come un paracadutista. La sagoma dell’uomo si sta schiantando a terra anche nella copertina del testo stampato da «La Comune» (figg. 13-14).

79

Ibidem.

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1970.

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Esiste la testimonianza di un «filmetto underground»80 firmato da Giovanni Bruno Solaro dal titolo Anarchici. Il regista dichiarò su alcune testate: «Io li conoscevo bene. Pinelli mi scriveva e Valpreda lavorava giusto dietro casa mia. Il suo gruppo? Non sono tipi da gettar bombe quelli. Pinelli è innocente, Valpreda è innocente»81 e poi: «Ho subito pressioni, intimidazioni, ricatti e perfino un attentato […] ma io il mio film lo finisco lo stesso. So molte cose sui fatti di Milano e le voglio dire»82. Successivamente su «Astrolabio» comparve un lungo articolo in cui si raccontava l’incontro tra il giornalista e il regista, sedicente anarchico e fondatore del gruppo «I Cavalieri del nulla». Solaro sottolineò nuovamente il feroce boicottaggio del film per il quale «anche la vedova Pinelli ha rifiutato la sua collaborazione»83. L’articolo, fortemente ironico, illumina immediatamente la situazione: Bruno Solaro è un mitomane, non ha alcuno scoop sui fatti del 12 dicembre e la sua è solo una «piccola speculazione sulla morte di Pino Pinelli»84. Del film Anarchici non c’è traccia, probabilmente non fu mai girato.

13. Volo dell’anarchico, tavola realizzata da Dario Fo per il manifesto della commedia Morte accidentale di un anarchico (1970) (© Archivio Rame Fo Fondazione Fo Rame). 14. Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico, EDB, Verona 1970.

80 Archivio Licia Rognini Pinelli, Pinelli, la bionda e il nulla, «Astrolabio», 5 luglio 1970, ritaglio stampa. 81 Le bombe al cinema cit., p. 21. 82 Ibidem. 83 Archivio Licia Rognini Pinelli, Pinelli, la bionda e il nulla cit. 84 Ibidem.

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1971 Occasioni di dissenso

Nel febbraio 1971 sulla rivista di Eugenio Miccini «Tèchne» comparve un allegato firmato da Fabio De Poli, sette pagine studiate per essere sfogliate come un flipbook (fig. 15). Dalla prima all’ultima pagina la figura di un uomo cade nel vuoto, sfracellandosi a terra in una pozza di sangue. In copertina il titolo P&S (Pinelli e Salsedo)1 è accompagnato da un altro disegno, con un tratto grafico differente dal precedente: un uomo ammanettato affiancato da un carabiniere. Se l’uomo che cade nel vuoto è facilmente identificabile con Pinelli, non solo per l’evidenza nella caduta, ma anche perché veste abiti contemporanei, i due in copertina non sono facilmente riconoscibili. Appartengono chiaramente a un’altra epoca, ma non sono identificabili con Salsedo e con un agente statunitense perché la divisa indossata è quella storica dei carabinieri italiani, ben radicata nella cultura visiva del nostro Paese2. I due uomini richiamano una fotografia storica, probabilmente riferita a un arresto di briganti italiani. Difficile risalire all’origine precisa, si può constatare tuttavia la fortuna che ebbe negli anni successivi, legandosi indissolubilmente al movimento anarchico: lo sguardo mesto dell’uomo in manette ben esemplificava il comune destino di molti militanti, spesso arrestati soltanto per vaghi sospetti. Il soggetto compare nella copertina di Canti anarchici3, in una elaborazione simile ma non uguale a quella di De Poli, firmata da Sergio Barletta, in cui compaiono due coppie di uomini4 (fig. 16). 1

Fabio De Poli, P&S (Pinelli Salsedo), «Tèchne», 9-10, 1971. Si pensi alle illustrazioni di Pinocchio di Attilio Mussino, utilizzate in quel periodo anche in ambienti di controcultura, come la copertina di «ControInformazione», 0, ottobre 1973. 3 Laura Falavolti, Leoncarlo Settimelli (a cura di), Canti anarchici, Samonà e Savelli, Roma 1972. 4 La fotografia è anche in copertina del Canzoniere internazionale. Gli anarchici 1864/1969, disco sonoro, Fonit Cetra, Torino 1973 e di Canzoniere interna2

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15. Fabio De Poli, P&S (Pinelli e Salsedo), «Tèchne», febbraio 1971.

Mentre nel marzo 1971 il giudice Biotti tornava in aula per considerare la richiesta di una nuova perizia sul corpo di Pinelli, nelle sale cinematografiche veniva proiettato l’ultimo film di Giuliano Montaldo, Sacco e Vanzetti. La vicenda dei due anarchici italiani emigrati negli anni ’20 e ingiustamente condannati a morte era al centro, in quegli anni, di numerose pubblicazioni ed eventi; si pensi a Pino Reggiani, che aveva licenziato un’intera mostra nel 1970, rileggendo la tragica vicenda sia attraverso le fotografie delle vittime che delle due vedove5. Montaldo si interessò da subito alla vicenda Pinelli. Comparso fra i firmatari di Documenti per Giuseppe Pinelli, pensò egli stesso a un film sul tema. Nel progetto mai realizzato Sophia Loren avrebbe recitato nel ruolo di Licia Pinelli, la quale, appresa la notizia, non fu d’accordo, ritenendo l’attrice «troppo bella»6 per poterla impersonare. La pellicola, in cui Sacco e Vanzetti erano interpretati da Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volontè, era più che mai atzionale. Addio a Lugano/canzone per giuseppe pinelli, disco sonoro, Fornit Cetra, Torino 1975. 5 Pino Reggiani, catalogo della mostra (Roma, Galleria 88), 1970. Un’ampia sezione dedicata a Sacco e Vanzetti viene riservata in Pino Reggiani, Immagine e memoria, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 142-167. Alle opere sono affiancate fotografie d’epoca e corrispondenza dei due anarchici. 6 Piero Scaramucci, Licia Pinelli cit., p. 122.

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1971.

OCCASIONI DI DISSENSO

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tuale: i parallelismi con il caso Pinelli risultarono palesi, non solo per il tema e la storia narrata, ma per alcuni dettagli dello stesso film. Più volte, infatti, viene citato Andrea Salsedo, morto all’epoca in cui è narrata la vicenda e vengono proposte alcune brevi sequenze in cui è inscenata la sua morte, con un corpo che cade dall’alto di un edificio (fig. 17). La vedova Pinelli ricordò che si sentì male guardando il film: «Lì c’è una scena in cui defenestrano un anarchico e tutta la sala, che era pienissima, è scoppiata, gli ha dato il nome, tutti hanno gridato “Pinelli”»7. Ovviamente «Lotta Continua» non si lasciò sfuggire l’occasione nel rivedere «negli aguzzini americani del 1920 i Calabresi, gli Amati, i picchiatori fascisti di oggi»8. In una delle scene più famose del film, di fronte al giudice e alla Corte, Vanzetti esclama: Sto soffrendo e pagando perché sono anarchico… […]. Ma sono così convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte e io per due volte potessi rinascere, rivivrei per fare esattamente le stesse cose che ho fatto […]. Noi dobbiamo ringraziarli. Senza di loro noi saremmo morti come due poveri sfruttati. Un buon calzolaio, un bravo pescivendolo e mai in tutta la nostra vita avremmo potuto sperare di fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra gli uomini. Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati!9

Le parole rievocavano la semplice vita da ferroviere di Pinelli, diventato suo malgrado 7 8

Ivi, p. 125. Sacco e Vanzetti, «Lotta Continua», 23 aprile 1971,

p. 4. 9

Giuliano Montaldo, Sacco e Vanzetti, film, 1970.

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simbolo di soprusi e violenza, allineandosi alla tragica fine dei predecessori anarchici, in un pantheon ideale di vittime ingiuste: Frezzi, Salsedo, Sacco, Vanzetti e Pinelli10. Mentre si attendeva una decisione sulla perizia da effettuare sul corpo di Pinelli11, sulle colonne del «Corriere della Sera» Ernesto Treccani era immortalato di fronte a una sua opera, con la didascalia: «Treccani davanti al suo quadro “I funerali di Pinelli”»12 (fig. 18). Il lavoro era definito come: «Un enorme quadro, cinque metri per tre […]. Sulla tela galleggiano grappoli di volti; saranno, alla fine, quattrocento […] gli amici “sognati” quella mattina del 15 dicembre 1969 (i funerali del Pinelli, per chi non ricordasse)»13. Questo non manterrà il titolo I funerali di Pinelli, è anzi da ritenere che il nome riportato dal quotidiano sia un errore. Il quadro si chiamerà Un popolo di volti, fra i lavori più ambiziosi di Treccani, frutto di una lunga gestazione (fu terminato e presen10 Nella distribuzione italiana la scena in cui Vanzetti-Volontè è di fronte alla sedia elettrica è in parte censurata, per pochi secondi le sue labbra si muovono senza produrre alcun suono. Fu infatti eliminata la battuta «viva l’anarchia!» per agevolare la vendita della pellicola alla RAI. Ricordava forse troppo quel «è la fine dell’anarchia!» che avrebbe pronunciato Pinelli prima di gettarsi dalla finestra; in Sacco e Vanzetti, in Il Mereghetti. Dizionario dei film 2002, Baldini e Castoldi, Milano 2001, p. 545. 11 Superperizia per Pinelli, «Corriere della Sera», 27 marzo 1971, p. 8. 12 Alberico Sala, Dipinge la memoria, «Corriere della Sera», 11 aprile 1971, p. 12. 13 Ibidem; In realtà i funerali si tennero il 20 dicembre 1969: Pinelli morì nella notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969.

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16. Sergio Barletta, copertina per Canti anarchici, Samonà e Savelli, Roma 1972 17. Giuliano Montaldo, Sacco e Vanzetti, 1971, fotogramma dal film (courtesy Unidis Jolly Film srl).

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18. Alberico Sala, Dipinge la memoria, «Corriere della Sera», 11 aprile 1971, p. 12.

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19. Milano piange i suoi morti, «Corriere della Sera», 16 dicembre 1969, p. 9.

tato nel 1975): la suggestione nacque il giorno delle esequie delle vittime della strage14 e non durante il funerale di Pinelli. Il titolo dell’opera fu suggerito da Mario De Micheli e il risultato finale è una «galleria di ritratti, una sorta di diario dipinto in cui […] ha fissato volti e fisionomie di amici, di persone appena conosciute, di operai del nord e contadini del sud»15. I volti di Treccani, in uno scaglionamento verticale verso l’alto, sono la trasfigurazione di quella folla immensa che invase piazza Duomo il giorno dei funerali. Le immagini dall’alto riportate dai quotidiani mostrano un tappeto di persone di cui non si vede la fine, mentre i primi piani univano in un’istantanea donne, uomini, ragazzi accomunati dalla compassione del momento16 (fig. 19). A fine aprile il processo Calabresi – «Lotta Continua» cambiò definitivamente il suo corso: l’avvocato del commissario de14 Treccani: centocinquanta dipinti, sculture, disegni, incisioni: 1940-1981, catalogo della mostra (San Gimignano, Palazzo e biblioteca comunale, 1982), Vangelista Editore, Milano 1982. 15 L. C., Politica e società, in Mostra antologica Ernesto Treccani, catalogo della mostra (Milano), 1989, p. 59. 16 Si veda per esempio la foto comparsa in Milano piange i suoi morti, «Corriere della Sera», 16 dicembre 1969, p. 9.

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cise di ricusare il giudice Biotti proprio mentre questi stava per dare l’approvazione definitiva per la perizia17. Camilla Cederna fu durissima nei confronti di Calabresi, ricordando che alla maggioranza consapevole […] non interessa più tanto come andrà a finire il processo, come sarà la sentenza, e se faranno o no la perizia. Per costoro, secondo il tribunale della loro coscienza, oggi il processo potrebbe considerarsi chiuso […]. Il processo appare finito, con totale successo della difesa e decisa sconfitta della polizia18.

Le accuse nei confronti degli anarchici per le bombe del 1969, poi, stavano inesorabilmente cadendo per lasciar spazio al coinvolgimento dei gruppi neofascisti. Il professore veneto Guido Lorenzon aveva accusato un amico di vecchia data, Giovanni Ventura, di conoscere numerosi dettagli a proposito degli ordigni utilizzati per le bombe sui treni dell’agosto 1969 (quelle per cui era stato interrogato Pinelli) e sulla strage di Piazza Fontana19. Ventura, impegnato nella sua attività sovversiva da editore, ebbe come sodale Franco Freda, un avvocato veneto di 28 anni, promotore di Ordine Nuovo. L’indagine nei loro confronti aveva avuto una battuta d’arresto quando Valpreda venne accusato, ma grazie alla tenacia del giudice istruttore Giancarlo Stiz, nell’aprile del ’71 furono perquisite le abita17 A. D. G., Il patrono del commissario Calabresi ricusa il presidente del tribunale, «Corriere della Sera», 30 aprile 1971, p. 8. La «clamorosa iniziativa» nacque a seguito di presunti commenti colpevolisti nei confronti di Calabresi che Biotti avrebbe fatto mesi prima in via confidenziale a Lener, avvocato del commissario. La ricusazione sembrò un pretesto mal celato per togliere dalla piazza il giudice, trasferire il processo in altre mani affinché l’eventuale perizia non complicasse gli esiti del processo, in Replica il presidente ricusato, «Corriere d’Informazione», 30 aprile-1 maggio 1971, p. 5. 18 Camilla Cederna, Pinelli cit., p. 112. 19 Giorgio Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969 cit., pp. 153-154.

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zioni di Freda e Ventura, stabilendone l’arresto con l’accusa di associazione sovversiva e furono imputati come gli autori degli attentati sui treni20. Scoperto il coinvolgimento fascista nelle bombe, crollate le accuse per gli anarchici, la ricusazione di Biotti aveva ancora più il sapore della rapida fuga dal processo. Su «L’Espresso» del 13 giugno 1971 comparve una lettera che nelle settimane successive si trasformò nella più esplicita dichiarazione a favore di Pinelli comparsa su un giornale: Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione. Oggi come ieri – quando denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore Michele [sic] Guida, e l’indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati – il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza – che non ha minor legittimità di quella di diritto – rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini21.

Non era il primo appello sul caso Pinelli, ma era sicuramente il più importante, il più coraggioso e anche il più duro. I promotori erano gli stessi che firmarono nel settembre 1970 l’appello contro l’archiviazione del caso, ai quali si aggiunse la storica dell’arte Anna Maria Brizio22. Nelle settimane successive 20

S. M., Ombre dietro gli attentati, «Corriere della Sera», 15 aprile 1971,

p. 11. 21 Camilla Cederna, Colpi di scena e colpi di karatè, «L’Espresso», 13 giugno 1971, p. 6. 22 Nell’Archivio Anna Maria Brizio, conservato presso la Biblioteca di Storia delle Arti, della Musica e dello Spettacolo dell’Università statale di Milano, esiste

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l’appello fu sottoscritto da un numero impressionante di personalità di spicco italiane, moltissime delle quali appartenenti al mondo dell’arte23, raggiungendo un totale di 757 firme. Fu una dimostrazione di responsabilità civile e morale, priva di ricerca di visibilità, come si nota dalla presenza di personaggi poco inclini a mettere in mostra il proprio nome, come Primo Levi o Luciano Bianciardi24. Forte del consenso popolare e dell’ormai evidente difficoltà della polizia di difendere le proprie posizioni, Licia Pinelli decise a fine giugno 1971 di denunciare formalmente i commissari Allegra e Calabresi e gli altri appartenenti all’ufficio politico, per i reati di «omicidio volontario, violenza privata, sequestro di persona, abuso di ufficio e abuso di autorità»25. A fine luglio la richiesta fu accolta e fu predisposta la riesumazione del cadavere di Pinelli26. Nello stesso mese Calabresi fu promosso commissario capo27, ma questo non gli impedì di risultare imputato formalmente per omicidio colposo: a fine agosto gli giunse infatti l’avviso di reato, così come ad Allegra, accusato di «fermo illegale»28. Probabilmente circolò in quel periodo un manifesto ad opera di ignoti, forse anarchici o gruppi extraparlamentari, in cui era riprodotta una fotografia di Calabresi che con sguardo dubbioso alzava le mani macchiate di sangue: «lo stato mandante premia i suoi killers. L. CALABRESI assassino di PINELLI nominato commissario CAPO. I compagni non dimenticano»29. (figg. 20 e 21) un piccolo fascicolo denominato «Caso Pinelli, 1971» nel quale sono contenuti articoli di giornale e corrispondenza con Giulio Maccacaro, a riprova dell’impegno e dell’interesse per la vicenda. 23 Tra i nomi compaiono Giulio Carlo Argan, Agostino Bonalumi, Maurizio Calvesi, Bruno Caruso, Mario Ceroli, Pietro Dorazio, Gillo Dorfles, Paolo Fossati, Laura Grisi, Renato Guttuso, Fabio Mauri, Giò Pomodoro, Ernesto Treccani, Emilio Vedova, Lea Vergine. 24 Adriano Sofri, La notte che Pinelli cit., p. 195. 25 La vedova Pinelli accusa, «Corriere d’informazione», 25-26 giugno 1971, p. 5. 26 Riaperta l’istruttoria sulla morte di Pinelli, «Corriere della Sera», 24 luglio 1971, p. 8. 27 Promosso questore, «Corriere della Sera», 2 luglio 1971, p. 2. 28 Sandro Bianchi, Finalmente Calabresi è imputato per la morte di Pinelli. Ma l’accusa è «omicidio colposo», «il manifesto», 27 agosto 1971, p. 3. 29 La foto di Calabresi utilizzata era comparsa in Camilla Cederna, I superproletari. Commissario, alzatevi, «L’Espresso», 25 ottobre 1970, p. 9.

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20. Lo stato mandante premia i suoi killers. L. Calabresi assassino di Pinelli nominato commissario capo [1970], manifesto (courtesy Archivio proletario internazionale, Milano). 21. Camilla Cederna, I superproletari. Commissario, alzatevi, «L’Espresso», 25 ottobre 1970, p. 9. 22. Sarenco, I pericoli e l’avventura dell’andare in questura, «Lotta Poetica», 6, novembre 1971, p. 12.

Un appello in favore di Pinelli comparve anche su «Lotta Poetica», rivista nata poco tempo prima per volontà di Sarenco e Paul de Vree30 con un dichiarato intento militante. Non doveva stupire dunque nel settembre 1971 la pagina intitolata Pinelli ti vendicheremo firmata dalla lega marxista-leninista di Brescia, città in cui la rivista veniva pubblicata; l’attacco a Calabresi e la teoria della strage di Stato erano espressi con toni accesi: Aspettare oggi un verdetto che condanni Calabresi per quello che è: un assassino, sarebbe come pretendere che il governo ammettesse di essere un governo reazionario che per nascere ha avuto bisogno di una strage. Calabresi non può essere condannato perché egli è stato un semplice esecutore di ordini precisi: i mandanti stanno molto più in alto di lui31.

Nei mesi successivi la rivista presentò altri due interventi per Pinelli: in ottobre fu riprodotto il lavoro di Fabio de Poli

30 Giorgio Bacci, Ingaggiare le immagini: il caso di «Lotta Poetica», «Annali della Classe di Lettere e Filosofia della Scuola Normale Superiore di Pisa», Serie 5, 8/2, Pisa 2016, p. 598. 31 Pinelli ti vendicheremo, «Lotta Poetica», n. 4, settembre 1971, p. 10.

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già comparso su «Tèchne»32; in novembre comparve un political poems di Sarenco, I pericoli e l’avventura dell’andare in questura, in cui figurava il ritratto fotografico di Pinelli circondato da riproduzioni di segnali stradali di «pericolo di caduta»33 (fig. 22).

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Ma il fascismo non passerà Nel settembre 1971 la giunta comunale di Montelupo Fiorentino, un piccolo comune in provincia di Firenze, decise di organizzare la prima edizione di una rassegna di pittura nazionale: il tema era «Ma il fascismo non passerà»34. L’iniziativa, caratterizzata dall’«alto valore morale e civile», era nata dalla «volontà di interpretare la sicura vocazione democratica e antifascista del popolo di Montelupo Fiorentino»35. Agli artisti invitati si fece presente che la mostra avrebbe voluto avere «un notevole livello estetico», ma che non sarebbe stata «elegante», che non ci sarebbe stata «mondanità»36 e che era un modo di «rispondere alla involuzione reazionaria che vorrebbe passare nel nostro paese»37. Gli artisti coinvolti furono Luca Alinari, Paolo Baratella, Gianfranco Baruchello, Antonio Bueno, Umberto Chiodi, Fabio De Poli, Pablo Echaurren, Mario Fallani, Silvio Loffredo, Renzo Margonari, Roberto Matta, Giangiacomo Spadari, Mauro Staccioli, Emilio Tadini, Angelo Titonel 32

Editoriali, «Lotta Poetica», n. 5, ottobre 1971, p. 3. Sarenco, I pericoli e l’avventura dell’andare in questura, «Lotta Poetica», 6, novembre 1971, p. 12. 34 Archivio Comune Montelupo Fiorentino, Biblioteca comunale, fascicolo «Atti dalla istituzione (1963) al febbraio 1973», lettera dattiloscritta dal presidente della commissione della biblioteca e dal sindaco Bini indirizzata agli artisti coinvolti nella mostra, 17 giugno 1971. 35 Ivi, lettera dattiloscritta dal presidente della commissione della biblioteca e dal sindaco Bini indirizzata agli artisti coinvolti nella mostra, 26 giugno 1971. 36 Ibidem. 37 Ibidem. 33

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23. Un episodio tra mille, «il manifesto», 21 ottobre 1971, p. 4. 24. La finestra di interno della questura milanese, da dove è precipitato Giuseppe Pinelli, «l’Unità», 10 gennaio 1970, p. 9.

e Emilio Vedova. La mostra avrebbe dovuto inaugurare la sera del 6 settembre 1971 presso le scuole elementari e durante i giorni di apertura era stata programmata una serie di eventi collaterali basati sul tema: conferenze, proiezioni di film, spettacoli teatrali38. Come da prassi vennero commissionati i manifesti per pubblicizzare l’evento e ne fu ordinata la stampa il 30 agosto 197139, una settimana prima dell’inaugurazione. Nonostante la dichiarata posizione politica assunta dall’amministrazione nell’atto di licenziare la mostra, la visione dei manifesti un paio di giorni prima dell’apertura dell’esposizione – che verosimilmente era già stata allestita – deve aver gettato nel caos gli organizzatori. Una lettera dattiloscritta e firmata dal sindaco il 5 settembre 1971 (una domenica) chiedeva alla ditta incaricata di non affiggere i manifesti e di riconsegnarli al Comune40. Questa decisione maturò dopo aver preso visione del soggetto prescelto: era stata inequivocabilmente rappresentata la defenestrazione di Pinelli (fig. 23). La disegnatrice Ivana Poli – moglie dell’artista Luca Alinari – aveva lavorato in una griglia composta da nove quadrati a colori, all’interno dei quali si susseguiva la narrazione come in un fumetto, da leggere da sinistra verso destra.

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Ivi, lettera dattiloscritta dal sindaco senza destinatario, 4 settembre 1971. Ivi, lettera dattiloscritta dal sindaco Bini a Pietro dell’Acqua, responsabile della Nuova Grafica Fiorentina, 30 agosto 1971. 40 Ivi, lettera dattiloscritta dal sindaco Bini e dall’assessore alla P. I. indirizzata alla Ditta A.L.P.I., 5 settembre 1971. 39

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In un ambiente qualificato da elementi tipici di un ufficio – una sedia, una lampada e un tavolo con una bottiglia – un uomo in abiti civili è trascinato a forza verso una finestra da un agente di polizia e da un altro personaggio. Il finale è prevedibile: l’uomo giace supino al suolo, mentre il poliziotto tiene in mano una scarpa, all’interno della quale si legge il titolo della mostra Ma il fascismo non passerà. Il volo del «Pinelli» è mostrato da un omino stilizzato in caduta, la cui traiettoria è una freccia tratteggiata: un’espediente che comparve sui giornali all’indomani della morte dell’anarchico41 (fig. 24). Solo un dettaglio non sembra aderente alla narrazione, la divisa del poliziotto, verde e di fattura diversa da quelle indossate dalle forze dell’ordine italiane. È simile all’abbigliamento tipico della polizia spagnola o sudamericana, tanto che l’ispirazione potrebbe derivare dalle fotografie circolate nel 1967 che ritraevano il cadavere di Che Guevara circondato da poliziotti che indossano proprio quel tipo di divisa42. Il manifesto aveva un’evidenza didascalica nel narrare la morte di Pinelli. Ogni elemento era inequivocabile ai fini del racconto: immancabili la finestra e la scarpa. La sedia, la lampada e la bottiglia non fungono solo da semplici complementi d’arredo, hanno una rilevanza maggiore: sono gli stessi oggetti presenti in una delle scene

41 Ad esempio in La finestra di interno della questura milanese, da dove è precipitato Giuseppe Pinelli, «l’Unità», 10 gennaio 1970, p. 9. 42 La fotografia del cadavere di Che Guevara compare ad esempio in Stokely Carmichael, Al popolo negro per la morte di Che Guevara, «La sinistra», 0, 10 dicembre 1967, p. 16.

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di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, in cui un giovane anarchico viene interrogato da Gian Maria Volonté in una stanza della questura (fig. 25). Il significato della bottiglia può essere ricondotto a un preciso tipo di immaginario legato al mondo fascista: nel 1941 Renato Guttuso ne aveva collocate due nella natura morta in primo piano della sua Crocifissione per ricordare le purghe con l’olio di ricino praticate durante la dittatura43. In campo cinematografico la bottiglia si incontra nella celebre scena finale di Roma città aperta (1945): durante la sequenza della tortura, alle spalle del partigiano Manfredi si intravede una bottiglia simile a quelle verdi finora citate, simbolo anch’esso delle violenze fasciste. Come nella scena di Indagine al di sopra di ogni sospetto anche in Roma città aperta la bottiglia rimane un elemento visivo sul fondo della scena: si può pensare a una suggestione di Petri per ricordare il clima violento che si respirava in quegli anni. Di due anni successivi al manifesto di Montelupo la bottiglia comparve in un’altra scena di interrogatorio, quella di Amarcord di Fellini, quando il padre di Titta viene portato al cospetto di alcuni gerarchi fascisti e obbligato a bere olio di ricino, contenuto proprio in una bottiglia verde. La mostra di Montelupo era stata organizzata con l’intento di perpetuare il ricordo dei morti per mano nazifascista e per reagire agli attacchi neofascisti contemporanei. Un disegno in cui la polizia veniva ancora una volta accusata dell’omicidio di Pinelli non fu tollerato dalla giunta comunale, che scelse di ritirare i manifesti. È da supporre che, venuti a conoscenza di questa storia, alcuni artisti protestarono contro la decisione della giunta: se il manifesto non fosse ricomparso avrebbero rifiutato di esporre le proprie opere. È ciò che si intuisce da missive che il sindaco inviò ad alcuni artisti, fra i quali Titonel, Alinari, De Poli, Echaurren, in conseguenza della loro «dichiarazione espressaci […] di non aderire alla rassegna di pittura, qualora non si fosse proceduto all’affissione del manifesto pubblicitario della rassegna»44. Il sin-

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Enrico Crispolti, Crocifissione, Accademia, Roma 1970, p. 34. Archivio Comune Montelupo Fiorentino, Biblioteca comunale, fascicolo «Atti dalla istituzione (1963) al febbraio 1973», lettera dattiloscritta dal presidente della commissione della biblioteca e dal sindaco Bini indirizzata a Titonel, 27 settembre 1971. 44

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25. Elio Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970, fotogramma dal film (courtesy Lucky Red srl).

daco ricordava come i pittori avessero aderito alla manifestazione «senza alcuna condizione sul tipo di pubblicità da effettuarsi»45 e che a seguito della decisione di non affiggere i manifesti la giunta aveva optato per «non procedere all’apertura della rassegna e a sospendere la rassegna a tempo indeterminato»46. Lo stesso giorno veniva inviata una lettera più cauta e cordiale ad altri due artisti, Baratella e Margonari, forse ancora ignari dell’accaduto, in cui si spiegava che per «alcune difficoltà organizzative intervenute nella ultima fase organizzativa» la commissione era stata costretta «a sospendere la rassegna […] a tempo indeterminato»47. Il sindaco ringraziava per la partecipazione sperando che «la sospensione dell’attuale iniziativa non abbia alterato la possibilità di collaborazione a future iniziative»48. Un mese dopo la notizia della mostra censurata comparve sulle colonne de «il manifesto» insieme alla riproduzione a tutta pagina del manifesto incriminato. L’articolo ripercorreva le tappe della vicenda: le locandine erano state ritirate e «la sera del 6 settembre, all’apertura della mostra, i pittori presenti non ne trovarono traccia. “Perché?” – domandarono i pittori. “Per 45

Ibidem. Ibidem. 47 Ivi, lettera dattiloscritta dal presidente della commissione della biblioteca e dal sindaco Bini indirizzata a Baratella e Margonari, 27 settembre 1971. 48 Ibidem. 46

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26. Paolo Baratella, Rigurgito, 1971, collage (courtesy Paolo Baratella). 27. Hannah Höch, Von Oben, 1927 in Willy Verkauf (a cura di) Dada. Monograph of a Movement, Niggli, Teufen 1961, p. 122.

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questioni organizzative” – fu la risposta laconica dell’amministrazione. “O ricompare il manifesto o niente mostra” – dissero i pittori. Niente mostra, fu la conclusione»49. Altre notizie legate alla mostra sono praticamente inesistenti. È difficile ricostruire quali opere furono inviate dagli artisti: anche nei loro archivi sembra essere scomparsa ogni traccia dell’evento. Si è risaliti a una delle due opere inviate da Paolo Baratella50: secondo le sue indicazioni è Rigurgito, del 1971 (fig. 26). Il lavoro esemplifica la ricerca dell’artista in quegli anni, cioè l’assemblage fotografico con materiali pubblicitari, fotografie storiche, opere d’arte. In questa composizione egli inserì uno scatto con il proprio volto urlante, volendo «rivelare la tragedia e la necessità di prenderne atto: “…sono io che urlo ma quel che urlo io lo dovete urlare anche voi. La tragedia si compie per tutti; tutti dobbiamo esserne coscienti e dobbiamo ribellarci…”»51. Il volto dell’artista crea qui una sovrapposizione con quello di Pinelli, poiché i connotati dei due sono molto simili. In Rigurgito un fascio littorio irrompe in profondità, citando il collage di Hannah Höch Von Oben del 192752 49 Un episodio tra mille, «il manifesto», 21 ottobre 1971, p. 4. L’ episodio venne utilizzato altre volte come esempio di censura e repressione: in Pio Baldelli, Informazione e controinformazione cit., pp. 223-224 viene riportato interamente l’articolo de «il manifesto» e la riproduzione della locandina della mostra (la data dell’articolo de «il manifesto» riportata da Baldelli nel testo è errata: non è il 10 ottobre 1971 ma il 21 ottobre 1971). Dario Fo inserì il manifesto nell’apparato fotografico della commedia Pum, pum! Chi è? La polizia! [1 ed. dicembre 1972], Bertani editore, Verona 1974, s.p.; Fo utilizzò il manifesto per un evento organizzato da La Comune, forse una grande manifestazione accanto a uno spettacolo teatrale. Mantenuto il titolo Ma il fascismo non passerà e virati i colori sul rosso e nero, venne aggiunta nella parte inferiore la scritta «Provocazione visiva 1», nome della manifestazione. Le uniche informazioni a cui si è riusciti a risalire arrivano da Alberto Coppo, responsabile della Libreria Passi Perduti di Perugia e del suo catalogo, in cui compare il manifesto, e dall’Archivio di stato di Ravenna. Il manifesto è riprodotto nel testo Saturno Carnoli, Guido Pasi, Il Sessantotto. Dire fare baciare progettare stampare incollare…correre, Edizioni Moderna, Ravenna 2015, p. 61. Il manifesto è indicato come serigrafia, 50x70 cm. 50 Archivio Comune Montelupo Fiorentino, Biblioteca comunale cit., dattiloscritto firmato da Paolo Baratella, [1971]. 51 Baratella: mostra antologica 1952-1992, catalogo della mostra (Gallarate, Civica Galleria d’Arte), 1993, pp. 5-6. 52 The photomontages of Hannah Höch, catalogo della mostra (Minneapolis, Walker Art Center), 1996, p. 97. Il collage comparve in Willy Verkauf (a cura di) Dada. Monograph of a Movement, Niggli, Teufen 1961, p. 122.

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(fig. 27). Baratella è fra i pochi artisti ad aver riportato nei propri cataloghi la partecipazione alla mostra di Montelupo Fiorentino, indicandola con la dicitura «mostra non realizzata per paura degli organizzatori»53. Pablo Echaurren inviò due piccoli smalti e chine su cartoncino, datati 1970, a tema politico: The Importance of Being Red e Anzi. Piccoli quadrati si dispongono in una griglia simmetrica: in The Importance of Being Red sfilano una serie di bandiere che hanno mutato i colori originali nei toni del grigio e del nero. Solo la bandiera cinese mantiene quelli autentici, rosso con le stelle gialle, come autentico era ritenuto il suo messaggio politico. In Anzi animali e simboli escono dalle bandiere di cui fanno parte e vivono liberamente in natura: l’aquila statunitense spicca il volo, la foglia d’acero canadese è in un bosco. Il globo terrestre, invece, è abbracciato dalla falce e dal martello54.

53 Paolo Baratella (a cura di) Paolo Baratella, catalogo della mostra (Ferrara, Centro Attività visive, Palazzo dei Diamanti), 1971, s. p. 54 Conversazione con Pablo Echaurren, 1 luglio 2020.

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Processo politico

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Il 15 settembre 1971 alla settima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro venne presentato il film Processo politico, firmato da Francesco Leonetti e Arnaldo Pomodoro55. La pellicola e il titolo nacquero dal materiale che Leonetti produsse durante il processo Calabresi–«Lotta Continua», che aveva avuto avvio nell’ottobre 1970. Il regista partecipò alle udienze e ne riprese clandestinamente alcuni minuti con una micro-cinepresa introdotta eludendo la sorveglianza56. La ripresa all’interno dell’aula del tribunale Non voleva avere uno stretto valore documentario, ma quello di presentazione nuova della legalità borghese (escludendo ogni deformazione visiva, sino al punto che il processo ha dato ottimi «attori» nei questurini, attraverso il nostro intervento corretto e posteriore di montaggio)57.

La pellicola fu presentata come un’opera collettiva, elemento determinante per un lavoro militante: «1970, ottobre / 1971, luglio. Il gruppo della rivista “CHE FARE” presenta il film Processo politico»58. Fra le persone coinvolte spiccano Pio Baldelli, i fotografi Carla Cerati e Massimo Vitali59. La brochure di accompagnamento alla proiezione del film tracciava il percorso artistico di Leonetti e Pomodoro, che già avevano stretto un sodalizio per un film precedente, Shaping Negation. Con questa pellicola ritennero di aver «completato il loro “apprendistato” comune»60 del linguaggio filmico. In Processo politico Leonetti si occupò del «soggetto e realizzazione», mentre Pomodoro della «supervisione»61. Il coin-

55 Archivio Arnaldo Pomodoro, Settima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, opuscolo, 11-18 settembre 1971, Pesaro 1971. 56 Jennifer Malvezzi, Immagini e parole per la rivoluzione cit., p. 71 e Christian Uva, Elio Petri, la sinistra e la militanza cit., p. 149. 57 Francesco Leonetti, La voce del corvo. Una vita (1940-2001), DeriveApprodi, Roma 2011, p. 88. 58 Ibidem. 59 Archivio Arnaldo Pomodoro, Settima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, opuscolo, 11-18 settembre 1971, Pesaro, pp. 3-4. 60 Ivi, p. 3. 61 Ivi, p. 1.

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volgimento di quest’ultimo, ad ogni modo, sembrerebbe essere ridotto vista la scarsità di informazioni reperibili nei libri dedicati all’artista, che si soffermano piuttosto sulla mostra apertasi a Pesaro nello stesso periodo della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Nella città marchigiana, infatti, Pomodoro aveva inaugurato una personale voluta dalla galleria di Franca Mancini e Milena Ugolini, in cui le opere erano diffuse su tutto il territorio urbano62. Il nome scelto per la mostra era Sculture nella città63, volutamente simile a Una scultura nella strada tenutasi a Milano, a cui Pomodoro aveva partecipato utilizzando il ricavato a sostegno del film64. Le parole che appaiono a inizio pellicola dichiarano immediatamente il carattere del lavoro e il suo intento: Vogliamo, con questo film militante, analizzare ciò che nel ’69 e ’70 è stato tentato in Italia dai servi dell’imperialismo contro i sinceri rivoluzionari e il movimento di massa. E nel quadro politico degli avvenimenti di Milano diamo una visione autentica del processo borghese che si riferisce alla morte di Giuseppe Pinelli mentre era interrogato in questura65.

I presupposti del film si avvicinavano a Documenti per Giuseppe Pinelli. Il timore di una sovrapposizione riecheggia nella puntualizzazione sull’opuscolo di presentazione: «è necessario dire chiaramente che il film Processo politico non è un film sulla morte di Pinelli né sul processo legale che vi è riferito»66. Il film fu pensato come il racconto non cronologico degli eventi milanesi degli anni 1969 e 1970 che due giovani ragazzi fanno a un amico straniero mentre passeggiano per le vie di Milano. Quando i giovani giungono nei luoghi più significativi, immagini e filmati d’epoca si sovrappongono alla finzione, creando un collage tra piano storico e recitazione. Fra gli episodi sono citati le contestazioni del 1969, l’occupazione dell’Hotel 62 Arnaldo Pomodoro, Francesco Leonetti, L’arte lunga, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 92-93. 63 Materiali e notizie sulla mostra di Arnaldo Pomodoro “Sculture nella città”, Pesaro, opuscolo della mostra, estate 1971. 64 Francesco Leonetti, La voce del corvo cit., p. 89. 65 Archivio Arnaldo Pomodoro, Francesco Leonetti, Arnaldo Pomodoro, Processo politico, film, 60’. 66 Archivio Arnaldo Pomodoro, Settima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, opuscolo, 11-18 settembre 1971, Pesaro, p. 3.

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Commercio e gli scontri davanti al teatro Lirico nel novembre 1969 durante i quali morì il poliziotto Annarumma. Giunti gli attori davanti al Palazzo di Giustizia, iniziano i minuti filmati all’interno del processo Calabresi – «Lotta Continua». Di fronte al giudice Biotti si susseguono Antonino Allegra, il commissario Calabresi e i funzionari Mucilli, Mainardi e Panessa. Alle spalle della corte la giovane Carla Cerati è impegnata a scattare con la sua macchina fotografica: i suoi scatti e quelli di Massimo Vitali accompagnano le riprese del processo. I fotogrammi in cui Calabresi compare di fronte al giudice, ripresi probabilmente durante la seconda udienza67 si soffermano sui dettagli del suo linguaggio non verbale, uno sguardo corrucciato e le mani continuamente in movimento comunicano un senso di ansia e fragilità. Compare poi su fondo bianco la scritta «Assassino»: era questo l’epiteto con cui il Commissario era chiamato dal pubblico nell’aula del tribunale. Quando la ripresa si sposta su Pio Baldelli si notano al suo fianco Licia Pinelli, Camilla Cederna e i difensori Bianca Guidetti Serra e Marcello Gentili. Il giudice Biotti era inquadrato intento a sfogliare gli atti del processo: compare, tra le carte, anche la copertina de La strage di Stato, in cui Valpreda alza il pugno fra due sagome di poliziotti. Processo politico fu proiettato a Pesaro il 15 settembre 1971. Il giorno successivo comparvero le prime recensioni: con unanimità il lavoro veniva stroncato. Un articolo su «La Notte», che sbeffeggiava lo scultore già dal titolo – Pomodoro in salsa politica –, raccontava come con Processo politico si fosse giunti al «ridicolo» durante la Mostra di Pesaro, anzi, non si comprendeva come un artista «tanto bravo nel plasmare il bronzo» fosse «così cieco dietro la cinepresa»68. Non meno feroce fu il commento del «Corriere della Sera», che giudicò la pellicola incapace di utilizzare il materiale del processo Calabresi-Baldelli a causa delle «goffe scene di fantasia recitate 67 Questo confrontando il filmato con le fotografie uscite sui giornali: Tumulti e cariche nel palazzo di giustizia mentre depone il commissario Calabresi, «Corriere d’Informazione», 14-15 ottobre 1970, p. 4; Aldo De Gregorio, Calabresi depone sulla morte di Pinelli, «Corriere della Sera», 15 ottobre 1970, p. 8. 68 Archivio Arnaldo Pomodoro, Eugenio Alborghetti, Pomodoro in salsa politica, «La Notte», 16 settembre 1971, ritaglio stampa.

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da attori storditi», considerando complessivamente il lavoro come «privo di senso critico, inservibile e anche a livello informativo, spesso ridicolo nella sua arroganza apodittica»69. «Paese Sera» valutò la proiezione come «la punta più bassa della rassegna»70. «Il calendario del popolo» considerò la pellicola una «controproducente postilla sui casi giudiziari Baldelli e Calabrese [sic]»71. Negativo anche il giudizio del cronista de «La provincia pavese», che distinse lo scultore che «s’ammira a Pesaro, nelle eleganti, sobrie e importanti composizioni» da quello che «sembra aver al massimo influenzato qualche inquadratura di un filmetto assolutamente inadeguato al tema proposto»72. Fu certamente più apprezzato nel festival il film di Giancarlo Romani Adami Vacanze nel deserto, al quale collaborò il fratello Valerio Adami73. I commenti sui giornali si susseguirono con impressionante monotonia nelle critiche, quasi a descrivere prese di posizione pregiudiziali, indipendenti o quasi dalla visione della pellicola. Alcune voci fuori dal coro ci furono, poche e timide, come «Momento Sera», che riconosceva al film «una sua scabra efficacia, in qualche sequenza “vera”, in qualche momento del processo, in qualche squarcio aneddotico», non sufficienti a evitare la «supremazia della visione»74 in corso d’opera. Oltre alle recensioni, un ulteriore affronto ai registi giunse da una persona insospettabile: Pio Baldelli. Egli, che oltre alle riprese in aula si prestò per una scena del film, disse di non aver visionato la pellicola e di essere radicalmente in disaccordo con l’opera, per la scarsa capacità di convincimento ideologico dato al contesto della ricostruzione del processo, 69 Giovanni Grazzini, Giovani cineasti in crisi, «Corriere della Sera», 17 settembre 1971, p. 13. 70 Archivio Arnaldo Pomodoro, Aldo Scagnetti, Un film sulla morte di Pinelli, «Il Secolo XIX», 17 settembre 1971, ritaglio stampa. 71 Archivio Arnaldo Pomodoro, Tino Ranieri, Processo politico, «Il calendario del popolo», ritaglio stampa, ottobre 1971, p. 179. 72 Archivio Arnaldo Pomodoro, Riccardo Richard, «I giorni dell’acqua» chiude degnamente, «La provincia Pavese», 19 settembre 1971, ritaglio stampa. 73 Ibidem. 74 Archivio Arnaldo Pomodoro, Giorgio Polacco, Un tedesco a Roma contro la «spazzatura culturale», «Momento sera», 16-17 settembre 1971, ritaglio stampa.

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[…] per la incapacità di costituire una fonte di controinformazione in quanto il film non ha nessuna qualità per raggiungere gli spettatori75.

Persino «l’Unità» non risparmiò i giudizi negativi: il materiale filmato in aula era di fatto sprecato nel risultato finale e i temi affrontati nella narrazione erano trattati «con tale semplicismo […] di mezzi e di toni, da piombare rapidamente nel ridicolo»76. Presso l’Archivio Arnaldo Pomodoro è presente una lettera dattiloscritta diretta a «l’Unità», dove i due artisti si dicono «amareggiati e sorpresi» dall’articolo. Leonetti e Pomodoro offrivano una serie di delucidazioni sul loro operato, come la scelta di avvicinarsi all’espressione filmica per l’urgenza di diffondere il tema da un «punto di vista “leninista”»77. Veniva anche ricordato che durante la proiezione a Pesaro ci furono in sala «provocatori fascisti» intenti a «urlare e ridere», minacciando anche di «linciare il film», attacchi a cui si aggiunse la dissociazione di Pio Baldelli, con atteggiamento «di “réthoricien”». Concludevano dicendo che «La nostra esibizione si è compiuta quando il dott. Calabresi veniva promosso. Ma è un film, è un prodotto estetico, non vale la pena di difenderlo; c’è altro da fare»78. La sfortuna critica di Processo politico fu la causa del suo oblio. Il film, dal carattere «artigianale» rispetto a Documenti per Giuseppe Pinelli, non era l’esito di due registi. L’avvicinamento di Leonetti e Pomodoro ad un film militante fu dettato dall’urgenza di un’azione politica e sociale più che dalla ricerca della perfezione formale. La visione di questa pellicola rimane significativa oggi, poiché testimonianza unica del processo Calabresi–«Lotta Continua», della rappresentazione – seppur edulcorata e univoca – degli anni della contestazione di massa, ma soprattutto dell’intraprendenza di due artisti che, avvalendosi di mezzi espressivi non abituali a loro, si confrontavano con un tema politico di vasta portata. 75 Archivio Arnaldo Pomodoro, Un film sulla morte di Pinelli, «Il Secolo XIX», 17 settembre 1971, ritaglio stampa. 76 Aggeo Savioli, Vite violente nel Giappone moderno, «l’Unità», 17 settembre 1971, p. 7. 77 Archivio Arnaldo Pomodoro, Francesco Leonetti, Arnaldo Pomodoro, Lettera all’«Unità» sul film «Processo politico», lettera dattiloscritta, [settembre 1971]. 78 Ibidem.

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Libri per un suicidio di stato Nell’ottobre 1971 la salma di Pinelli venne riesumata e fu eseguita la perizia richiesta dai legali della vedova79. Secondo le prime indiscrezioni il corpo non avrebbe subito lesioni agli arti e al capo, facendo presupporre una «”caduta di piatto”, che secondo alcuni esperti sarebbe tipica d’un corpo che è privo di capacità di reazioni»80. In quell’autunno uscirono due libri interamente dedicati all’anarchico: Pinelli: un suicidio di stato di Marco Sassano81 e Pinelli. Una finestra sulla strage, di Camilla Cederna82. Il giornalista dell’«Avanti!» ripercorreva la vicenda dal principio, a partire dal fermo in questura fino alle più recenti indagini che coinvolgevano Valpreda e il processo Calabresi-«Lotta Continua», per arrivare alle responsabilità fasciste nella strage di Piazza Fontana. Il libro della Cederna riassumeva l’inchiesta che aveva personalmente condotto sulle colonne de «L’Espresso», a volte citando letteralmente passi dei suoi articoli. Questo libro, insieme a La strage di stato, divenne un altro punto di riferimento nella costruzione della vicenda Pinelli e un best seller da sessantamila copie vendute83. La sua fortuna stava nella schiettezza tipica della giornalista; dopo la ricusazione del giudice Biotti la Cederna si scagliò ancora più duramente contro Calabresi, ritenendo che l’operazione fosse l’ennesima prova di insabbiamento per coprire la morte violenta. Il libro si chiudeva con parole al vetriolo: Pinelli […] è la prova che la giustizia non è uguale per tutti: da una parte lo stato con i suoi baluardi da difendere, dall’altra un cittadino senza diritti […]. I baluardi dello stato non si toccano, la magistratura non si discute […], la polizia è al di sopra di ogni sospetto, va coperta, va giustificata. […] Ristabilire la verità sulla sua morte è un dovere politico e morale; è indispensabile per aiutare a far sì che la giustizia in Italia non sia soltanto quella statua melensa ritta nel cortile di un tribunale che si è 79 G. Zi, Esumata la salma di Pinelli. A gennaio i risultati delle perizie, «Corriere della Sera», 22 ottobre 1971, p. 8. 80 Pinelli: solo lesioni al torace, «Corriere d’Informazione», 28-29 ottobre 1971, p. 4. 81 Marco Sassano, Pinelli: un suicidio di stato, Marsilio editori, Padova 1971. 82 Camilla Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Feltrinelli, Miano 1971. 83 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro cit., p. 120.

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64 28. [Gianni-Emilio Simonetti], Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una bella sera lo suicidarono, … Ma l’amor mio non muore, Arcana editrice, Roma 1971, p. 228.

rivelato incapace di assolvere i suoi compiti. Ed è la premessa per evitare che vi sia una seconda vittima innocente: Pietro Valpreda84.

Nel novembre 1971 uscì il libro … Ma l’amor mio non muore a cura di Gianni-Emilio Simonetti, destinato a diventare un caposaldo della controcultura e degli ambienti underground. Era un insieme di materiali eterogenei che ripercorreva una serie di argomenti strettamente legati alla controcultura: si passava dalla descrizione delle comuni a quella delle armi utilizzate dalle forze dell’ordine. Dalle diverse droghe alle ricette di cucina in cui utilizzarle. Una sezione del libro si intitola Lo stato della ragione e dà consigli su come comportarsi nel caso di un arresto, di un fermo o di un interrogatorio. Questa sezione è introdotta da un’illustrazione, con una certa sicurezza attribuibile a Gianni-Emilio Simonetti, dove compare un fumetto ambientato negli Stati Uniti (lo si nota dalla divisa di uno dei soggetti, tipica di un poliziotto americano) in cui un uomo sta precipitando da una finestra e tre uomini lo guardano dal basso85. Compaiono due scritte aggiunte dall’artista, che utilizzava abitualmente la tecnica di détournement nei suoi lavori, la prima per bocca dell’agente: «16 dicembre 1969 – Milano», la seconda in alto: «Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una bella sera lo suicidarono. (da Il processo di Franz Kafka)»86 (fig. 28). Ovviamente la citazione da Kafka era stata modificata sostituendo il termine «arrestato» con «suicidato»: la vicenda del protagonista, accusato e processato per un fatto a lui ignoto sembrava descrivere perfettamente la situazione di Pinelli. Una citazione kafkiana era inoltre già stata utilizzata in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto in chiusura a proposito della posizione del commissario-Gian Maria Volontè: «Qualunque impressione faccia su di noi egli è un servo della legge, quindi 84

Camilla Cederna, Pinelli cit., pp. 152-153. Non si è riusciti a risalire alla fonte esatta utilizzata da Simonetti, ma si può ipotizzare che essa derivi dal fumetto di Leonard Starr Mary Atkins, del quale uscivano brevi strisce sul quotidiano «Il Giorno» fino al dicembre 1969, si veda per esempio Mary Atkins, «Il Giorno», 12 novembre 1969, p. 19; una striscia di Mary Atkins è riprodotta anche nel testo di Lea Vergine, Attraverso l’arte. Pratica politica / pagare il ’68, Arcana editrice, Milano 1976, p. 40, nel capitolo dedicato a Gianni-Emilio Simonetti. 86 Gianni-Emilio Simonetti, … Ma l’amor mio non muore [1 ed. Arcana editrice, 1971], DeriveApprodi, Roma, 2008, p. 228. 85

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appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano». Nella pagina accanto vi è una macabra fotografia: un uomo nudo giace steso a terra, di spalle; un vistoso livido appare sulla schiena. Sembra l’immagine di un cadavere tratta da un manuale di medicina legale. L’averla affiancata al fumetto dove “Pinelli” sta precipitando è un richiamo inevitabile alla morte per caduta a cui l’uomo era andato incontro. Qualche pagina dopo il disegno si poteva leggere una serie di informazioni legate al fermo di polizia. Venivano elencati i presupposti minimi per essere posti in stato di fermo. Si aggiungeva: Ricordatevi solo quello che è successo dopo la strage di piazza Fontana. In un paio di notti i «gravemente indiziati» per i quali vi era pericolo di fuga hanno riempito i cameroni della questura di Milano. Erano così gravemente indiziati che poi li hanno fatti uscire tutti dalla porta, meno uno che è uscito, ve lo ricordate bene, dalla finestra87.

Alla fine del 1971 non serviva più citare il nome di Pinelli per parlare di lui. 87

Ivi, pp. 236-237.

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29. Il commissario aggiunto Luigi Calabresi, dell’ufficio politico della Questura di Milano, in Paolo Baratella (a cura di) Paolo Baratella, catalogo della mostra (Ferrara, Centro Attività visive, Palazzo dei Diamanti), 1971, s. p. 30. Vendetta per Pinelli, in Paolo Baratella (a cura di), Paolo Baratella, catalogo della mostra (Ferrara, Centro Attività visive, Palazzo dei Diamanti), 1971, s. p. 31. Sul lettino dell’accettazione dell’ospedale Fatebenefratelli, «Corriere d’Informazione», 16-17 dicembre 1969, p. 1.

Vendetta per Pinelli Nel novembre 1971 a Ferrara aprì una mostra personale di Paolo Baratella. Il catalogo che la accompagnava era un manifesto politico visivo, dove opere dell’artista si sommavano a fotografie storiche: a Hitler e ai campi di concentramento nazisti erano affiancate pubblicità erotiche, gli scoppi della bomba atomica, i morti del Vietnam; il mondo consumista

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e capitalista e quello soggiogato e oppresso. Si redarguiva il lettore: «Guardate solo queste immagini che non hanno vergogna di essere parlanti. Domani vi perseguiteranno, affluiranno irresistibilmente alla vostra memoria»88. Non a caso il catalogo iniziava con un primo piano di Valpreda accanto all’opera a lui dedicata da Baratella: Innocente! Nessuno fa niente per salvarlo?, quindi una fotografia di Calabresi, l’unico personaggio a essere identificato attraverso una didascalia (fig. 29). Il ritmo concitato, in cui opere e immagini si affastellano senza quasi lasciar spazi vuoti, cambia nelle ultime due pagine del catalogo: su un volantino, replicato due volte identico, campeggia il viso di Pinelli, tumefatto e ferito, gli occhi chiusi. L’anarchico è morto. Lo accompagna la perentoria scritta «Vendetta per PINELLI»89 (fig. 30). Se le fotografie dei morti per mano nazista non erano una novità e le stragi indocinesi troppo lontane per colpire un lettore italiano, il primo piano di Pinelli si imponeva in tutta la sua sfacciata violenza. Una foto dell’uomo in ospedale era circolata all’indomani della sua morte: è quella comparsa sulla prima pagina del «Corriere d’Informazione» il giorno successivo alla caduta. Lo scatto era poco nitido, si intravedeva Pinelli sul lettino affiancato da due operatori sanitari90 (fig. 31). Non si ri88 Jean Dypréau, Pro Iustitia, in Paolo Baratella (a cura di) Paolo Baratella, catalogo della mostra (Ferrara, Centro Attività visive, Palazzo dei Diamanti), 1971, s. p. 89 Paolo Baratella (a cura di) Paolo Baratella, catalogo della mostra (Ferrara, Centro Attività visive, Palazzo dei Diamanti), 1971, s. p. 90 «Sul lettino dell’accettazione dell’ospedale Fatebenefratelli, l’anarchico Giuseppe Pinelli: sta morendo, invano gli infermieri tentano di rianimarlo», in Sul lettino dell’accettazione dell’ospedale Fatebenefratelli, «Corriere d’Informazione», 16-17 dicembre 1969, p. 1.

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32. Arnaldo Pomodoro, Francesco Leonetti, Processo politico, 1971, fotogramma dal film (courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro).

conosceva il viso, ma solo la testa coperta da una benda91. Alla foto di Pinelli con il capo fasciato aveva fatto cenno anche la Cederna nel suo libro, riferendola al maggio 1970: La vedova Pinelli trova i muri della metropolitana tappezzati con una fotografia fino allora inedita del marito. La sua testa avvolta nelle bende, e, sotto, il viso martoriato, chiazzato, graffiato. Una fotografia tremenda ma non agghiacciante. In quel viso c’è infatti qualcosa di composto e solenne92.

Baratella ricorda che la foto da lui utilizzata gli fu consegnata da Giampaolo Testa, giornalista de «Il Giorno» e si trattava di repertorio d’agenzia93. È più verosimile pensare che la foto91

In Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005: linee di tendenza e percorsi è presentata una foto di Giuseppe Colombo quasi analoga a quella posta sulla prima pagina del «Corriere d’Informazione»: verosimilmente si tratta dello scatto di una stessa sequenza, Uliano Lucas (a cura di), Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005: linee di tendenza e percorsi, catalogo della mostra (Milano, 2006-2007) La Stampa, Fondazione Italiana per la Fotografia, Torino 2006, p. 156. 92 Camilla Cederna, Pinelli cit., p. 42. 93 Conversazione con Paolo Baratella, 23 febbraio 2019.

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grafia derivasse dall’autopsia del cadavere di Pinelli avvenuta il 18 dicembre 1969. La relazione medica fu interamente pubblicata il 15 dicembre 1970 da «BCD: Bollettino di Controinformazione Democratica»94 e nella descrizione delle condizioni del capo di Pinelli si parla di «bende di garza bianca […] trattenute da cuffia di rete elastica»95. L’esame autoptico venne effettuato dopo aver «tolto il bendaggio»96, quindi la descrizione si conclude con il rimando alla «foto 1»97. La fotografia in questione potrebbe dunque essere parte della documentazione allegata all’autopsia. Questa si ritrova infatti negli atti del processo Calabresi – «Lotta Continua». Lo si evince da una sequenza di una manciata di secondi visibile in Processo politico. Il giudice Biotti mentre sfoglia un dossier, volta una pagina e ne rivela il contenuto: è la foto di Pinelli (fig. 32). La foto circolò anche negli ambienti della controcultura e dei movimenti extraparlamentari: lo stesso volantino utilizzato da Baratella comparve anche in una versione con due fori sul lato sinistro, una tipologia tipica dei ciclostili dell’informazione underground di quegli anni98. L’immagine del cadavere, così potente e drammatica, valicò i confini nazionali, diventando parte di un manifesto in lingua tedesca dedicato a Pinelli e conservato presso l’International Institute of Social History di Amsterdam. È un collage con ritagli dalla stampa italiana dell’epoca che narra la vicenda con toni violenti: il volto di Pinelli morto è contrapposto alla foto dell’uomo vivo99 (fig. 33). A quella data la violenza delle immagini si faceva sempre 94 Comitato dei giornalisti per la libertà di stampa e per la lotta contro la repressione (a cura di), Documenti sulla morte di Giuseppe Pinelli, «BCD: Bollettino di Controinformazione Democratica», 5, documento ciclostilato, 15 dicembre 1970, p. 11. 95 Ibidem. 96 Ibidem. 97 Ivi, p. 12. 98 Il volantino è inserito nel catalogo digitale della Libreria dei Passi Perduti di Perugia di Alberto Coppo, disponibile online (http://www.passiperduti.it/public/ images/cataloghi/pdf/73.pdf). 99 La fotografia di Pinelli vivo è tratta da Camilla Cederna, L’anarchico esce dalla sabbia, «L’Espresso», 24 maggio 1970, p. 3. L’International Institute of Social History di Amsterdam data il manifesto 1969, inverosimile poiché gran parte dei ritagli sono successivi, per esempio la vignetta di «Lotta Continua» di Roberto Zamarin comparve su «Lotta Continua», 24 marzo 1970, p. 6., il manifesto Pinelli assassinato comparve su «Lotta Continua», 18 aprile 1970, p. 16.

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33. [Autore ignoto], [senza titolo] [1971], manifesto (International Institute of Social History, Amsterdam). 34. Pinelli, [1971], manifesto, (courtesy Archivio proletario internazionale, Milano). 35. Il fascismo è violenza, «Lotta Continua», 26 giugno 1971, p. 4.

più esplicita, specialmente fra i militanti più politicizzati: in un manifesto la scritta «Pinelli» era trafitta da un coltello che reca sul manico la scritta «Dux», evocando un manifesto del PCI in cui una spada fende la scritta «Il fascismo è violenza»100 (figg. 34, 35). Il linciaggio verso Calabresi continuò fino alla sua 100 Il manifesto comparve in Le conseguenze del voto (il fascismo è violenza), «Lotta Continua», 26 giugno 1971, p. 4.

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morte. Il suo volto e quello di altri politici furono sostituiti a quello dei cadaveri dei comunardi di Parigi nella celebre foto di André-Adolphe-Eugène Disdéri in un manifesto probabilmente di «Lotta Continua» (fig. 36). Come sostenne il giudice D’Ambrosio, che chiuderà il caso Pinelli, «Lotta Continua» «ha lavorato a fondo nelle coscienze della gente di sinistra convincendola che Pinelli era stato ucciso e che i processi erano finti. Non volevano la verità ma la sentenza che avevano in testa loro»101. Anche il figlio di Calabresi ha ripensato la vicenda: Molte volte mi sono chiesto come mi sarei comportato se fossi stato un giornalista allora. E la risposta è netta: mi sarei indignato. La polizia e la questura avevano il dovere di spiegare cos’era successo, senza opacità, senza reticenze […]. Invece ci furono ambiguità, chiusure, quel pezzo di Stato […] diede una pessima prova di sé e con le sue reticenze insultò il Paese e avallò i più terribili sospetti. […] L’indignazione e poi la rabbia […] si concentrarono su Luigi Calabresi, che era il più gio-

101

Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là cit., p. 49.

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vane, il più visibile, il più dialogante. Uno dei pochi a distinguersi tra i poliziotti d’allora102.

Nel dicembre 1971 Franco Freda, Giovanni Ventura e altri tre uomini furono arrestati per detenzione illecita di armi dal giudice Stiz103. Il 12 dicembre, a due anni dalla morte di Pinelli, comparvero nuovamente numerosi necrologi per l’anarchico, accompagnati da frasi che riassumono la pesante aria che si respirava allora e il temuto ritorno al fascismo: «Contro le provocazioni di destra e la repressione padronale, ricordiamo l’assassinio del compagno Giuseppe Pinelli»; «I ferrovieri […] ricordano la nobile figura del collega Giuseppe Pinelli tragicamente scomparso negli uffici della questura di Milano e volgarmente infangata dalla assurda dichiarazione dell’ex carceriere di Ventotene»; «Due anni sono trascorsi dal mostruoso rigurgito di reazione che ha determinato la morte di Giuseppe Pinelli»,104 sono solo alcuni di quelli che si possono leggere.

36. [Lotta Continua], [1971], manifesto (courtesy Archivio proletario internazionale, Milano).

102

Ivi, p. 43. Le indagini sulle armi di Castelfranco: 5 arresti, «Corriere della Sera», 6 dicembre 1971, p. 17. 104 Archivio Licia Rognini Pinelli, Necrologi per il secondo anniversario della morte di Giuseppe Pinelli, [dicembre] 1971, ritaglio stampa da giornale non identificato [Il Messaggero]. 103

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1972 Un quadro di Enrico Baj

L’opera che ad oggi resta la più significativa fra quelle dedicate alla vicenda Pinelli, nonché la più imponente per dimensioni, è I funerali dell’anarchico Pinelli di Enrico Baj. Presentata nel 1972, essa è composta da un pannello orizzontale di più di dodici metri che mette in scena la caduta dell’anarchico, in discesa con le braccia tese e il volto sfigurato. Ai suoi lati, con una logica quasi didascalica, due schieramenti si fronteggiano: un gruppo di civili alza i pugni e le bandiere anarchiche verso sette Generali, creature dall’aspetto mostruoso presenti nel repertorio di Baj fin dalla fine degli anni Sessanta. Le figlie e la vedova di Pinelli, staccate dal pannello, mostrano la disperazione nell’assistere, impotenti, alla morte dell’uomo. Intorno a Pinelli si affastellano braccia e mani, talvolta brandenti un’arma: non hanno corpo, non hanno volto, lo indicano e lo spingono verso il basso. Sono le mani che si ritrovano in un pannello staccato dalla composizione principale, la finestra da cui Pinelli è appena caduto. Lo squillante collage e i colori acrilici impiegati rendevano l’opera «un festoso carnevale multicolore che contiene un incubo»1, capace di allontanare il racconto dal rigido bianco e nero a cui i cittadini si erano abituati scorrendo le immagini di Pinelli fra le pagine dei giornali. L’opera presentava l’iconografia necessaria per la narrazione visiva del caso Pinelli: nulla di cui stupirsi a quell’altezza temporale. Più inconsueta è la scelta di questo tema da parte di Baj, un artista le cui posizioni politiche e i cui interessi verso vicende strettamente nazionali non erano mai state assunte esplicitamente all’interno delle sue opere. A quella data Baj era un artista affermato a livello internazionale, con un lungo percorso artistico alle spalle. A par1 Herbert Lust, I funerali dell’anarchico Pinelli, una crocifissione senza Dio, in Baj: i grandi quadri, catalogo della mostra (Mantova, 1982), Electa, Milano 1982, p. 33.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

tire dagli anni Cinquanta era stato promotore e animatore del «Movimento della Pittura Nucleare»2 e del Mouvement International pour une Bauhaus Imaginiste3. Il suo avvicinamento all’arte informale derivò dalla presa di distanza dal realismo e dal conseguente avvicinamento al gruppo CoBra, all’interno del quale strinse un vivace legame artistico con Asger Jorn4. Queste esperienze segnarono le sue scelte artistiche: l’estraneità ai dettami di qualsiasi partito politico e l’apertura della sua arte a una dimensione internazionale. Baj mantenne questa posizione durante i mutamenti sociali che dalla fine degli anni Sessanta cambiarono anche il modo di fare arte. Questo non gli impedì di muoversi con estrema disinvoltura fra gli ambienti artistici più istituzionalizzati, come le Biennali, e i luoghi e gli eventi più strettamente legati all’arte della contestazione: fra tutti si ricordi la sua partecipazione a Arte contro 1945-1970 dal realismo alla contestazione, nel 1970 e a Campo Urbano – Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana a Como nel 19695. Questa fortuna espositiva fu permessa dalla serie più famosa, i Generali. Quella che rappresentavano non era una contestazione diretta verso un bersaglio preciso, quanto una critica generica alle autorità e al loro mondo, spesso imbrigliato in una dimensione anacronistica fatta di parate, proclami retorici, medaglie e onorificenze. Da una parte i Generali si prestavano alla polemica antimilitarista nei luoghi di contestazione, dall’altra tali opere non svincolavano l’artista dall’utilizzo dei mezzi espressivi tradizionali e dal sistema artistico di gallerie da cui dipendeva, in primis quella di Giorgio Marconi. Avvicinarsi al tema Pinelli proiettava Baj nel campo della stretta attualità. L’artista dichiarò a proposito dell’accaduto: «il fatto naturalmente mi impressionò e dopo aver preso contatto con Camilla Cederna […] mi recai […] a casa della vedova e del-

2 Enrico Crispolti, Catalogo generale delle opere di Enrico Baj dal 1972 al 1996, Marconi-Menhir, Milano-La Spezia 1997, p. 67. 3 Ivi, p. 69. 4 Ivi, p. 62. 5 Per la storia di Campo Urbano si rimanda a Alessandra Acocella, Avanguardia diffusa: luoghi di sperimentazione artistica in Italia, 1967-1970, Quodlibet, Macerata 2016, pp. 179-192.

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UN QUADRO DI ENRICO BAJ

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le due figlie giovanissime»6. Silvia Pinelli ha ricordato che «Baj aveva cominciato a lavorare a quell’opera il giorno del funerale di Pino»7. Baj non partecipò ai funerali di Pinelli8, l’artista non fu tra i firmatari dell’appello comparso su «L’Espresso» nel giugno 1971, al quale aderirono invece molte personalità del mondo artistico e non fece alcuna menzione dell’accaduto negli articoli di giornale che saltuariamente licenziava per il «Corriere della Sera» in quegli anni9. La prima idea di un’opera dedicata a Pinelli comparve in un’intervista nel settembre 1971. Qui Baj dichiarò che il Comune di Milano gli aveva offerto la possibilità di allestire a Palazzo Reale una mostra antologica10, come prima di lui avevano fatto Dova e Crippa11, e pensò alla realizzazione di una sola grande opera, un quadro «lungo dodici metri» che avesse «per soggetto i funerali dell’anarchico Pinelli»12. L’autunno 1971 fu un momento cruciale per la vicenda: in quei mesi uscirono il libro della Cederna e quello di Sassano, Giorgio Bocca nella rubrica Hanno scelto di «Bolaffiarte» indicava Licia Pinelli tra i personaggi degni di nota: «è la donna che in Italia si batte di più per i diritti civili»13. Un acconto effettuato il 16 novembre 1971 rivela l’acquisto da parte di Baj di dieci «pannelli in paniforte listellato di Betulla Finlandese»14, esattamente il materiale utilizzato per I funerali dell’anarchico Pinelli. Il 22 novembre 1971, egli comunicava all’amico Her6 Enrico Baj, Automitobiografia [1 ed Rizzoli, 1983], Johan Levi, Monza 2018, p. 79. 7 Paolo Brogi, Pinelli. L’innocente che cadde giù, Castelvecchi, Roma 2019, p. 78. 8 Conversazione con Roberta Cerini Baj, 12 aprile 2021. 9 Enrico Baj, Agropittori, «Corriere della Sera», 2 agosto 1970, p. 5; Enrico Baj, En plein air, «Corriere della Sera», 6 settembre 1970, p. 6. 10 Enrico Baj, Comment j’ai écrit certains de mes tableaux, in Baj: i grandi quadri cit., p. 105. 11 Gianni Dova, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, 1971-1972), Arti Grafiche Fiorin, Milano 1971; Roberto Crippa, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, 1971), Arti Grafiche Fiorin, Milano 1971. 12 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, «Ritagli stampa», Domenico Porzio, I suoi quadri entrano solo nei musei, «Il Milanese», 5 settembre 1971, ritaglio stampa. 13 Hanno scelto, «Bolaffiarte», 13, ottobre 1971, p. 80. 14 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», Fattura ai fratelli Bini, 15 dicembre 1971.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

bert Lust: «Next month I will start again with another major work, perhaps the most important of my life»15. Per quale ragione Baj abbia pensato al caso Pinelli a quella data è solo ipotizzabile, ma è verosimile che l’opera fosse l’esito di una riflessione maturata negli ultimi mesi. L’artista aveva un legame di amicizia con Dario Fo e ricorderà che: «Io e Dario […] ci siamo incontrati idealmente dopo la morte dell’anarchico Pinelli; lui aveva scritto Morte accidentale di un anarchico e io avevo realizzato nel 72 il “Pinelli”»16. Una suggestione forse decisiva va ricercata sfogliando i quotidiani dell’epoca. Nell’ottobre 1971 la salma di Pinelli venne riesumata e la notizia fu riportata dai principali giornali. Erano descritti la bara dissotterrata, macchiata di rossiccio dalla decomposizione della bandiera anarchica in cui era stata avvolta due anni prima17, l’epigrafe tratta da Antologia di Spoon River e i fiori posti dalla moglie in occasione del quarantatreesimo compleanno del marito, occorso proprio in quei giorni18. La bara fu caricata su un furgone per essere portata in obitorio e, una volta che questo si fu allontanato dal cimitero, «un vecchio compagno di fede dell’anarchico Pinelli ha salutato il triste corteo con il pugno chiuso»19. Leggen-

15 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.24 «Usa sino al 1975», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Herbert Lust, 22 novembre 1971. 16 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, «Ritagli stampa», Norberto Furlani, Baj: «Ci ha unito il dramma di Pinelli», «La Prealpina», 10 ottobre 1997. 17 Ibio Paolucci, La salma di Pinelli riesumata a quasi due anni dalla morte, «l’Unità», 22 ottobre 1971, p. 2. 18 Gino Mazzoldi, Milano: riesumati i resti di Pinelli per la perizia disposta dal giudice, «La Stampa», 22 ottobre 1971, p. 9. 19 G. P., Il suicidio del fermato a Milano stanotte durante gli interrogatori, «La Stampa», 16 dicembre 1969, p. 1.

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UN QUADRO DI ENRICO BAJ

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do la cronaca sembrava di ripercorrere il funerale di Pinelli «al contrario». L’articolo comparso sul «Corriere della Sera», poi, era accompagnato da una fotografia che mostrava quattro persone intente a maneggiare la bara con alcune corde, mentre un gruppo di persone sosta intorno a loro. La bara in primo piano è il dettaglio più suggestivo: se non contestualizzata sembrerebbe davvero di essere di fronte alla sepoltura dell’anarchico20 (fig. 37).

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Da Picasso a Carrà Fin dalla progettazione dell’opera Baj dichiarò il precedente preso a modello: «It will be a painting large about the double of Guernica, but not so high»21; nel marzo 1972 la descriverà così: «I’ve finished my largest painting: that is 30% or more larger than Guernica; so I’m happy now because it look [sic] beautifully»22; «[l’opera è] presque le double de Guernica»23. Egli ammise: «con la mia brava dose di presunzione milanese volli fare di più di Guernica, almeno nel formato»24. Le ambizioni di Baj erano dunque rivolte ad affiancarsi idealmente a Picasso, la cui Guernica si era impressa nella memoria dei milanesi dopo la sua esposizione proprio presso la Sala delle Cariatidi nel 1953. Baj, accettando la proposta del Comune di Milano, era a conoscenza della collocazione finale della sua opera, tanto da utilizzarla come spunto ideale per la morte di Pinelli:

37. G. Zi., Esumata la salma di Pinelli. A gennaio i risultati delle perizie, «Corriere della Sera», 22 ottobre 1971, p. 8. Didascalia della foto: «La bara di Pinelli appena disseppellita viene calata in un apposito contenitore che sarà aperto stamane all’obitorio».

Visitando la Sala delle Cariatidi, semidistrutta dalle bombe della guerra, avevo ricordato l’emozione provata anni prima, nel ’53, 20 G. Zi., Esumata la salma di Pinelli. A gennaio i risultati delle perizie, «Corriere della Sera», 22 ottobre 1971, p. 8. 21 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.24 «Usa sino al 1975», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Herber Lust, 22 novembre 1971. 22 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.24 «Usa sino al 1975», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Herber Lust, 20 marzo 1972. 23 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.2.5 «Jaguer», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Édouard Jaguer, 3 giugno 1972. 24 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», Grytsko Mascioni, Requiem per un requiem, materiale video, luglio 1972.

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quando in quella sala era stata esposta Guernica. Pensai a un seguito ideale di Guernica, un’opera di denuncia, contro la guerra e contro il potere25.

La sala trasmetteva un «senso del cadere e del decadere di orpelli, decori, valori, simboli e simulacri», che lo spinsero a realizzare «la più tragica caduta del momento, quella di Pino Pinelli»26. Baj era consapevole di condurre un’operazione dal gusto scenografico, tanto che ricordò come il progetto dell’esposizione nacque «sull’idea di un’ambientazione, di una scena, di una scenografia insomma, era quasi un’idea teatrale svolta con i miei mezzi»27. In diverse occasioni pensò alla Sala delle Cariatidi come una reminiscenza dei quadri di Monsù Desiderio, «il pittore di terremoti e incendi»28. Questa è «une salle ou tout tombe et qui rassemble à un merveilleux Monsu’ Desiderio réel»29. Nel luglio 1970 su «Rinascita», accanto all’articolo Arte merce potere fu riprodotta La visita dell’Equipo Cronica, un collettivo di pittori spagnoli le cui ironiche parodie di celebri opere nascondevano la critica al regime franchista30. Ne La visita, Guernica è collocata sul lato lungo di una grande sala, dalla cui porta stanno entrando alcuni visitatori. Ma la testa del soldato è caduta a terra come un coccio rotto, la mano con la lampada si allunga vertiginosamente verso l’alto, rivelando la sua concretezza nell’ombra gettata sul muro, la donna che cammina si è staccata dalla tela e prosegue sul pavimento. Quest’ultima, curiosamente, è una delle soluzioni principali adottate da Baj per la sua opera (fig. 38). Nel corso degli anni Guernica era diventata un «“codice” di immaginazione culturale di massa»31 immediatamente rico25

Enrico Baj, catalogo della mostra (Loano, Palazzo Doria, 2007), Litografia Bacchetta, Albenga 2007, p. 107. 26 Enrico Baj, Comment j’ai écrit certains de mes tableaux, in Baj: i grandi quadri cit., p. 105. 27 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», Grytsko Mascioni, Requiem per un requiem, materiale video, luglio 1972. 28 Enrico Baj, Automitobiografia cit., p. 79. 29 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.2.5 «Jaguer», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Édouard Jaguer, 3 giugno 1972. 30 Antonio Del Guercio, Arte merce potere, «Rinascita», 31 luglio 1970, p. 11. 31

Enrico Crispolti (a cura di), Catalogo generale delle opere di Enrico Baj cit., p. XL.

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38. Equipo Cronica, La visita, 1969, otografia in Arte merce potere, «Rinascita», 31 luglio 1970, p. 11.

noscibile e considerata dagli ambienti di sinistra opera imprescindibile: Questa sinistra ha accolto e depositato nelle sue case il «Guernica» di Picasso come un certificato murale, come un diploma di appartenenza a una certa cultura politica che sentiva profondamente come propria perché non era né quella del bolscevismo russo né del capitalismo industriale americano, ma parigino-spagnolo-italiana, capace di rievocare […] la Spagna della guerra civile, la Francia e l’Italia dell’antifascismo con tutti i miti resistenziali, socialisti e pacifisti che ne seguirono32.

32 Giorgio Bocca, Compagno collezionista, «Bolaffiarte», n. 15, dicembre 1971, p. 50.

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39. Pablo Picasso, Uomo che cade, 1937 (© Succession Picasso, by SIAE 2022). 40. Enrico Baj, Silvia, 1971, tempera (fotografia in Baj, un quadro, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, 1972) [1 ed. Ripartizione iniziative culturali, Milano 1972], Skira, Milano 2012, p. 28). 41. Enrico Baj, I funerali dell’anarchico Pinelli, 1972, particolare di Silvia, fotografia di Enrico Cattaneo, collezione privata, (courtesy Fondazione Marconi, Milano Archivio Baj, Vergiate).

Baj era stato fortemente influenzato da Picasso, tanto da scegliere, a partire dal 1968, di realizzare una serie di opere dichiaratamente legate al maestro spagnolo, culminate nella mostra parigina Baj chez Picasso33. Prima dell’inizio de I funerali dell’anarchico Pinelli, si era dedicato all’esecuzione di alcuni d’après, fra cui Les Demoiselles d’Avignon e Guernica stessa, sentendo la necessità di confrontarsi con opere di grandi dimensioni, per criticare «l’affamato collezionismo che imperversa in Italia: ci hanno costretto a diventare fabbriche di quadretti»34. I disegni preparatori per I funerali dell’anarchico Pinelli si accostano a modelli picassiani per il nucleo principale: Pinelli, Licia e le due figlie, la cui rappresentazione è tracciata con una certa sicurezza, poiché le variazioni da disegno a disegno sono pochissime. Licia segue le sembianze della donna che in Guernica avanza da destra verso sinistra: Baj ne rispettò la nudità. Solo il 33

Baj chez Picasso, catalogo della mostra (Parigi, Galleria Creuzevalt, 19691970), Mazarine, Paris 1969. 34 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj «Ritagli stampa», «il Milanese», ritaglio stampa [5 settembre 1971].

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neo sulla guancia sinistra era un particolare reale della vedova. Per Pinelli gli studi si concentrarono sull’elaborazione dei dettagli del modello visivo scelto: la donna che cade dalla casa in fiamme all’estrema destra di Guernica. Baj capovolse la figura, completandola degli arti inferiori e privandola dei capelli. Il volto di Pinelli venne trattato mantenendo i caratteri «picassiani», come gli occhi e le narici a goccia. Gli studi sembrano ricalcare quelli di Picasso raccolti da Rudolf Arnheim nel testo Guernica. Genesi di un dipinto35, in cui era presentato il vasto apparato iconografico degli studi e delle fotografie del murale nelle fasi di realizzazione: il modello femminile per il Pinelli può sembrare insolito, ma sfogliando il libro si scopre che Picasso disegnò un’altra versione della figura, un Uomo che cade36, il cui viso è caratterizzato da una folta barba scura (fig. 39); se l’idea fu abbandonata da Picasso, Baj potrebbe esserne rimasto suggestionato. Come per Licia, anche il Pinelli è 35 Rudolf Arnheim, Guernica. Genesi di un dipinto, Feltrinelli, Milano 1964, p. 103. 36 Ibidem, p. 103.

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42. Enrico Baj, Claudia, 1971, tempera (fotografia in Baj, un quadro, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, 1972) [1 ed. Ripartizione iniziative culturali, Milano 1972], Skira, Milano 2012, p. 28). 43. Ottobre 1971. Licia Pinelli con le figlie Silvia e Claudia attese dai fotografi il primo giorno di scuola, in Pietro Scaramucci, Licia Pinelli. Una storia quasi soltanto mia, Mondadori, Milano 1982, s. p.

privato di ogni connotato riconoscibile. Inizialmente Baj pensò di rappresentarlo vestito, indicando sinteticamente gli abiti con una linea alle caviglie e ai polsi a simulare la fine della maglia e dei pantaloni, per poi mantenere solo questi ultimi, lasciando la figura a torso nudo. Un dettaglio è trattato con attenzione: la scarpa, o meglio, la sua assenza a uno dei due piedi di Pinelli. Il particolare conferma la fortuna visiva di questo dettaglio e Baj, con una felice intuizione, mozzò il piede scalzo rendendo ancora più grottesco il riferimento. Silvia e Claudia Pinelli hanno caratteri picassiani ma senza alcuna aderenza a figure specifiche di Guernica. Nel corso dei disegni preparatori l’idea di Silvia non mutò: la bambina si copre il volto con la mano per nascondere la sua disperazione: un topos pittorico noto, che si ritrova nel Giudizio universale di Michelangelo e ne La fucilazione del 3 maggio 1808 di Goya (figg. 40-41). Claudia fu invece pensata in due modi differenti. Nella prima idea la bambina è frontale, il braccio destro in avanti, il sinistro nascosto dietro la schiena; gli occhiali da vista sono il dettaglio che la distingue dalla sorella37 (fig. 42). 37 Archivio Licia Rognini Pinelli, «Oggi Illustrato», [1969], ritaglio stampa. Qui compare una fotografia delle due bambine i cui nomi sono invertiti, è Claudia la bambina con gli occhiali da vista.

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Sebbene le fonti per la figura di Silvia siano convincenti, una fotografia dell’epoca sembrerebbe essere il modello principale per i disegni di Baj. Fu pubblicata nel testo di Licia Pinelli del 1984 con la dicitura «ottobre 1971»38 (fig. 43) e mostra la donna con le due figlie a braccetto la mattina del loro primo giorno di scuola. La somiglianza fra le bambine e i modelli di Baj fa supporre che l’artista avesse avuto modo di vederla già nel 197139: l’immagine apparve molto simile sui quotidiani dell’epoca. Claudia rivolge lo sguardo verso l’obiettivo, il braccio sinistro è davanti al corpo, mentre quello destro tiene a braccetto Licia, di fatto scomparendo, come nella soluzione di Baj. Oltre al dettaglio degli occhiali, lampante è anche il colletto del grembiule scolastico, anch’esso descritto nel disegno preparatorio. Silvia, che cammina alla destra di Licia, ha lo sguardo rivolto verso il basso, nascosto dalla mano destra, la stessa soluzione adottata nei disegni. Nel secondo studio Claudia è presentata di profilo, con le braccia alzate verso l’alto, i capelli sono raccolti in due codini: sarà questa la soluzione finale (fig. 44). Il carattere picassiano del volto presuppone nuovamente la consultazione di Guernica. Genesi di un dipinto40 dove compare un disegno in cui la madre con il bambino è studiata di profilo, con le braccia tese (fig. 45). Ultimo elemento strettamente legato alla vicenda Pinelli è la finestra, protagonista di uno studio a tempera intitolato ironicamente La finestra sul cortile. In una cornice arcuata com-

44. Enrico Baj, I funerali dell’anarchico Pinelli, 1972, particolare di Claudia, fotografia di Enrico Cattaneo, collezione privata (courtesy Fondazione Marconi, Archivio Baj, Vergiate).

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Piero Scaramucci, Licia Pinelli cit., s. p. Fotografia simile, ma scattata da diversa angolatura, fu pubblicata in Ibio Paolucci, Caso Pinelli: chiesta la ripresa del processo Baldelli-Calabresi, «l’Unità», 2 ottobre 1971, p. 3. 40 Rudolf Arnheim, Guernica cit., p. 107. 39

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45. Pablo Picasso, Madre con bambino morto, 1937 (© Succession Picasso, by SIAE 2022).

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paiono tre mani e la lampada di Guernica che pende dal soffitto. Il significato del disegno è evidente: le mani sono l’ennesimo atto di accusa di defenestrazione, di cui si aveva avuta eco già in manifesti politici dell’epoca. La resa finale della finestra sarà diversa: sarà aggiunta una mano e l’austera cornice sarà sostituita con fastose colonnine in stile cosmatesco41 e un timpano triangolare42 e sarà posta all’uscita della sala, «per ricordare agli spettatori l’uscita violenta di Pinelli spinto da quelle mani», anche se «era stato dipinto in un primo momento per essere messo in alto, molto in alto sopra al quadro»43 (fig. 46-47 De Chirico). Baj immortalò la realizzazione dell’opera in numerose fotografie che, insieme ai disegni preparatori per la famiglia Pinelli e per l’opera finale, vennero incluse nel catalogo della mostra di Milano del 1972. Gli scatti si offrono al lettore come istantanee della vita nello studio milanese di Baj, il quale è concentrato in diverse mansioni, a testimoniare la complessità del lavoro. In una pagina, per esempio, l’artista è alle prese con le sagome intagliate nel legno della famiglia Pinelli, quindi è intento a creare gli occhiali di Claudia incollando un cordoncino; in uno scatto disegna le sagome dei Generali sul 41 Debitrice di questa finestra è la litografia Le mani misteriose di Giorgio De Chirico datata 1973: da quattro finestre di un palazzo si allungano alcune mani in direzione di un uomo completamente nudo che sembra aver appena spiccato il volo dall’edificio, in Edoardo Brandani, Giorgio De Chirico: catalogo dell’opera grafica 1969-1977, Bora, Bologna 1990, p. 201. 42 Questo venne aggiunto durante l’allestimento della mostra a Palazzo Reale, come visibile in Baj, un quadro, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, 1972) [1 ed. Ripartizione iniziative culturali, Milano 1972], Skira, Milano 2012, p. 18. 43 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.28 «Altri», lettera di Enrico Baj agli studenti dell’Istituto svedese per il teatro delle marionette, 29 maggio 1977.

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87 46. Enrico Baj, [senza titolo], [1972] (fotografia in Baj, un quadro, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, 1972) [1 ed. Ripartizione iniziative culturali, Milano 1972], Skira, Milano 2012, p. 61).

pannello impresso di bianco, rivelando le grandi dimensioni dell’opera. In ultimo, Baj è su una scala, mentre dipinge un dettaglio nella parte superiore del pannello. L’urgenza di autoritrarsi legava ancora una volta Baj a Picasso: gli scatti ripercorrevano quelli di Dora Maar, che aveva fotografato le fasi realizzative di Guernica e Picasso in studio44. Negli scatti Picasso è accanto all’opera, pennello in mano impegnato a completare il murale. Casuale o voluto, vi è anche un parallelo negli abiti indossati: entrambi gli artisti portano pantaloni lunghi e camicia, esibendo una certa eleganza malgrado la fatica del mestiere. Picasso in uno scatto esibisce addirittura una cravatta (figg. 48-51). Per entrambi gli artisti quelle foto erano la prova del loro primo impegno in un’operazione artistica dal contenuto politico, ideologico e di storia contemporanea: Baj si autoproclamava epigono dell’esperienza di Guernica. La scelta di Picasso di adottare il grande formato tipico dei quadri di storia per un evento della contemporaneità fu un dettaglio che non sfuggì a Baj, che con le dimensioni imponenti de I funerali dell’anarchi-

47. Giorgio De Chirico, Le mani misteriose, 1973, litografia (© Giorgio De Chirico, by SIAE 2022).

44 Le fotografie di Dora Maar comparvero in José Bergamin, Mystère tremble. Picasso furioso, «Cahiers d’Art» 4-5, 1937 e in Edward Kern, Guernica. Cry of Anger, «Life», 26-27, 1968, pp. 86; 93.

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48. Enrico Cattaneo, [Enrico Baj], 1972, fotografia di Enrico Cattaneo, collezione privata (courtesy Fondazione Marconi, Milano Archivio Baj, Vergiate). 49. Enrico Cattaneo, [Enrico Baj], 1972, collezione privata (courtesy Fondazione Marconi, Milano Archivio Baj, Vergiate).

co Pinelli cristallizzava e battezzava come storica una vicenda che era sì tutta milanese, ma la cui tragicità e la cui portata politica valicava i confini comunali e nazionali. L’opera descriveva l’evento specifico ma anche l’atmosfera di un periodo: gli scontri fra polizia e cortei di manifestanti, le bombe a mano, le molotov e gli altri oggetti di guerriglia urbana, la medaglia

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di Mao Tse Tung al collo del bambino in primo piano erano elementi generici che descrivevano la simbologia di quegli anni. Leggendo l’opera con questo filtro neanche il vivace collage con cui I funerali dell’anarchico Pinelli fu completata si distanzia dal lavoro di Picasso: durante lo sviluppo di Guernica l’artista spagnolo incollò pezzi di tappezzeria sul murale, «in modo da introdurre il colore e la presenza di un altro genere di realtà»45, soluzioni ben visibili nelle fotografie presentate nel testo di Arnheim46. Ne I funerali dell’anarchico Pinelli lo scollamento fra soggetto e titolo dell’opera è evidente fin dalla prima occhiata: non siamo di fronte alle esequie di Pinelli, l’anarchico è ancora vivo e sta precipitando verso terra. I poliziotti non aderiscono alla cronaca del funerale, che fu caratterizzato dall’«ordine, compostezza, commozione»47, con un servizio d’ordine «in borghese»48 che non ebbe motivo di intervenire. Baj dichiarò che: «in alcune occasioni, forse anche giustamente, [l’opera fu] ribattezzata “l’assassinio dell’anarchico Pi-

50. Dora Maar, Photographie prise dans l’atelier de Picasso, 1937 (fotografia in José Bergamin, Mystère tremble. Picasso furioso, «Cahiers d’Art» 4-5, 1937, s. p.). 51. Picasso before his mural «Guernica» in May, 1937, in Edward Kern, Guernica. Cry of Anger, «Life», 26-27, 1968, p. 86.

45 Roland Penrose, Pablo Picasso. La vita e l’opera, Einaudi, Torino 1969, p. 362. 46 Rudolf Arnheim, Guernica cit., p. 139. 47 R. L., Bandiere nere sulla bara di Pinelli, «La Stampa», 21 dicembre 1969, p. 2. 48 Ibidem.

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nelli”: ma credo che vada meglio il titolo primitivo anche per discendenza memoriale da quei funerali dell’anarchico Galli del Carrà futurista»49. Il tributo al pittore futurista che Baj riserva nel titolo inscrive l’opera nella tradizione storico-artistica, calibrando l’univoca lettura in chiave di militanza politica e trova le radici nella volontà di realizzare un d’après proprio dell’opera di Carrà, idea poi abbandonata: Quando trovarono Pino Pinelli precipitato da una finestra di questura e subito morto, mi preparavo a riproporre, dopo le mie lunghe visite a Picasso prima e a Seurat poi, una ben nota opera futurista di Carrà: «I funerali dell’anarchico Galli». Pensavo di rifare quel quadro alla mia maniera, seppure rispettando il formato e la composizione del modello, come feci con «Guernica» […]. Pensavo ai «funerali dell’anarchico» da tempo, sia perché dopo i francesi volevo rifare un quadro moderno di autore italiano, sia perché pensavo (e penso) che alla radice dell’esperienza futurista (poi degenerata nei modi ben noti) vi fosse una forte componente anarcoide e che proprio grazie a tale componente il movimento riuscì a scuotere i propri adepti salvandoli dal naufragare nel cretinismo e nel conformismo e nel provincialismo di una cultura savoiarda i cui maggiori poeti, dopo che sciacquati i panni in Arno, sapevano dirci al massimo «T’amo, o pio bove», oppure: «Salve, Piemonte! A te con melodia mesta da lungi risonante, come gli epici canti del tuo popol bravo scendono i fiumi. Scendono pieni, rapidi gagliardi, come i tuoi cento battaglion…». Ma la fine attuale e sconvolgente a più aspetti di un altro anarchico mi fecero subito mettere da parte Galli e Carrà50.

Baj avrebbe voluto omaggiare il periodo futurista dell’artista, giudicato autentico e realmente capace di rinnovare la cultura dell’epoca, considerata retrograda e provinciale. Dagli anni Sessanta era iniziata una rilettura del Futurismo. Le conclusioni che i critici e gli storici dell’arte avanzavano erano quelle condivise da Baj; alla XXX Biennale di Venezia una sezione dedicata al futurismo così riassumeva: «che agli elementi nazionalistici e protofascisti se ne mescolassero altri qualificabili genericamente come anarcoidi e socialisteggianti, è innegabile; ma il peso di quest’ultimi elementi ci pare poco rilevante rispetto ai primi: 49 Enrico Baj, Comment j’ai écrit certains de mes tableaux, in Baj: i grandi quadri cit., p. 105. 50 Enrico Baj, Cosa è un quadro, in Baj, un quadro cit.,p. 45.

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la tendenza anarchica […] e la componente socialista venivano come schiacciate dal nazionalismo guerresco»51. Anche Maurizio Calvesi riconosceva in Carrà un autentico spirito avanguardistico dettato dal suo «umore anarcoide», tramutatosi presto in Metafisica e poi nel Novecento, un ultimo «arroccamento di nobile provincia»52. Dello stesso parlò Giuliano Briganti all’indomani della morte dell’artista, nel 1966, verificando come «la rivolta contro il passato» proclamata dal futurismo «avrebbe ripescato quella tradizione così ostinatamente gettata dalla finestra»53. Il titolo di Baj, dunque, voleva essere un tributo all’opera che incarnava ancora lo spirito autentico del futurismo e quella «componente anarcoide» che davvero animò Carrà negli anni giovanili, quando egli partecipò all’esperienza di alcuni gruppi libertari italiani e esteri54. Baj riassunse: La componente più valida del futurismo, che la salvò dai disastri della cultura contemporanea italiana, […] dal conservatorismo, dal conformismo e da tutte le altre pecche fu un certo loro senso anarcoide dei futuristi, poi travisato in mille modi, finito in nazionalismo addirittura in volontà di guerra, di fascismo… e penso sia stato proprio questa certa tendenza anarchica del movimento a spingere anche il Carrà a fare quel quadro. Cioè, i futuristi non erano degli anarchici, però erano degli individualisti, guardavano con simpatia all’individualismo politico55.

È certo che Baj conoscesse l’opera di Carrà per la sua indiscussa fama, anche perché ebbe una discreta circolazione pure prima del 1972, sia a mezzo stampa, sia in esposizioni56. Non 51 Luciano De Maria, Marinetti e il futurismo letterario, in La Biennale di Venezia. XXX Biennale d’arte di Venezia, Stamperia di Venezia, Venezia 1960, p. 5. 52 Maurizio Calvesi, Le due avanguardie, Lerici editori, Milano 1966, p. 91. 53 Giuliano Briganti da «L’Espresso», Roma, 24 aprile 1966, in Massimo Carrà, Carrà. Tutta l’opera pittorica, vol. 1 - 1900-1930, Edizioni dell’Annunciata, Milano 1967, p. 310. 54 Per la corretta lettura de I funerali dell’anarchico Galli si veda Alessandro Del Puppo, I funerali dell’anarchico Carrà, in Id., Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte del primo Novecento, Quodlibet Studio, Macerata 2013, p. 39. 55 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», Grytsko Mascioni, Requiem per un requiem, materiale video, luglio 1972. 56 Durante la XXX Biennale d’Arte di Venezia l’opera fu ricordata come uno dei più significativi esempi della fase futurista di Carrà, in Guido Ballo, Mostra storica del futurismo, in La Biennale di Venezia: XXX Biennale internazionale d’arte,

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è da escludere, inoltre, che l’artista abbia potuto vedere l’opera in prima persona: una nota biografica descrive Baj in viaggio a New York nel 1961, «in occasione della mostra “The Art of Assemblage” al MoMA, in cui è presente con uno Specchio»57.

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Baj, un quadro Il titolo scelto per la mostra di Milano fu Baj, un quadro, decisamente sommesso, come a calibrare il più scoperto titolo dell’opera. Così come per il suo lavoro, anche il catalogo era attentamente studiato per guidare il lettore nelle fasi ideative de I funerali dell’anarchico Pinelli: il volume risulta infatti piuttosto corposo per essere dedicato a un’opera sola. Per tentare di elevare la mostra a una dimensione internazionale e per legittimare l’opera a espressione di protesta politica, durante la stesura del catalogo Baj contattò due capisaldi della cultura internazionale: Jean Paul Sartre e Herbert Marcuse. Per raggiungere Sartre, Baj si affidò a una donna francese, Paulette Jacques, con una lettera in cui le descriveva i suoi progetti per la mostra e per il catalogo: Une présentation-introduction de J. P. Sartre aiderait le tableau à prendre sa dimension et aiderait vigoureusement cette lutte qu’on mène contre la police et ses méthodes. Nous devons rappeler ici que la mort de Pinelli est devenue en Italie un symbole de lutte libertaire et encore qui l’affaire Pinelli (et aussi Valpreda) est bien le lien dans lequel tous les mouvements parlementaires et extraparlementaires de gauche sont Stamperia di Venezia, Venezia 1960, pp. 10-11. Nel 1967 il bozzetto venne esposto a Milano in occasione della mostra sull’opera grafica dell’artista, Mostra dell’opera grafica di Carlo Carrà, catalogo della mostra (Milano, Salone napoleonico dell’Accademia di Brera, 1967), Luigi Maestri editore, Milano 1967, p. 21. Tra il 1967 e il 1968 la Galleria Annunciata pubblicò tre imponenti volumi con la raccolta di tutta l’opera di Carrà: due pagine sono dedicate alla riproduzione dello studio e del dipinto, Massimo Carrà, Carrà: tutta l’opera pittorica, Edizioni dell’Annunciata, edizioni della Conchiglia, Milano 1967-1968, p. 173; p. 203. Nel 1970 uscì per Rizzoli un volume più agile con una selezione dell’opera di Carrà, in cui è presente ovviamente I funerali dell’anarchico Galli, Carlo Carrà, L’opera completa di Carrà dal futurismo alla metafisica e al realismo mitico 1910-1930, Rizzoli, Milano 1970, Tav IV. 57 Luciano Caprile, Roberta Cerini Baj (a cura di), Baj: dalla materia alla figura, Skira, Milano 2010.

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d’accord, oubliant leurs nombreux contrastes, soit dans la valutation des faits aoit [sic] dans l’action58.

Ricordò il valore civile che l’operazione aveva: «L’xposition [sic] n’a aucun bût lucratif et le tableau sera donné à la veuve»59. Per rivolgersi a Sartre, Paulette Jacques chiese la mediazione dello scrittore Michel Racheline: «Mon meilleur ami terminé un livre sur le Nazisme, et hier soir il m’annonce que J. P. Sartre lui écrit sa préface. Il est d’acord pour presénter votre demande et très vite»60. Purtroppo l’ottimismo di Paulette Jacques non fu profetico: il 27 febbraio 1972 allegò alla propria lettera quella di Racheline, che comunicava il rifiuto dello scrittore: «Sartre a lu cette lettre attentivement et y a reflechi. Malheureusement sa réponse est négative car il ne prête pas à moviment anarchiste l’intérêt que nous pensions»61. In un ricordo scritto anni dopo la vicenda, Baj raccontò una versione più romantica dei fatti, rievocando una giornata trascorsa a Parigi insieme a Man Ray, dove i due si imbatterono proprio in Sartre: Avevo spiegato a Man Ray che avevo il problema di trovare una presentazione, anche sotto l’aspetto politico-rivoluzionario, per il mio Pinelli. E allora Man Ray mi spinse e disse: «Ma chiedila a Sartre». E infatti attaccammo a parlare e gli chiesi se poteva essere coinvolto e così via. Ma non accettò, perché lì c’erano di mezzo questioni anarchiche sulle quali lui non è che fosse contrario, ma neanche tanto disponibile62.

La seconda personalità coinvolta fu Herbert Marcuse. La lettera è datata marzo 1972 e a scriverla fu Arturo Schwarz, che si qualificò come un suo vecchio studente. Egli, che si definisce

58 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Paulette Jacques, 3 febbraio 1972. 59 Ibidem. 60 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera di Paulette Jacques a Enrico Baj, 31 gennaio 1972. 61 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera di Michel Racheline a Paulette Jacques, 27 febbraio 1972. 62 Enrico Baj, Renato Guttuso, Fantasia e realtà, Rizzoli, Milano 1987, p. 22.

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52. Enrico Cattaneo, [Sagoma di Giuseppe Pinelli], 1972, collezione privata (courtesy Fondazione Marconi, Milano Archivio Baj, Vergiate). 53. Licia la vedova. Non fu suicidio, «Corriere della Sera», 3 marzo 1972, p. 7.

«editor» del catalogo63, parlò di Baj come «one of the most vital Italian painters»64, raccontò la vicenda Pinelli e il progetto dell’opera a lui dedicata, quindi la richiesta di una breve prefazione o un’introduzione da inserire nel catalogo65. Schwarz non esitò a sottolineare che «Enrico Baj and myself […] are not anarchist […] we are reacting to this shameful affair as any honest human being would, denouncing this terrible fact that has happened in a country that claims to be democratic»66. Le due richieste non avranno seguito, ma è interessante notare come Baj abbia cercato l’appoggio di due fra le più grandi personalità di quei tempi: Sartre era il simbolo dell’intellettuale impegnato, Marcuse era stato assunto come profeta da gran parte della critica artistica dell’epoca67.

63 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera dattiloscritta di Arturo Schwarz a Herbert Marcuse, 2 marzo 1972. In una lettera Baj comunica a Schwarz di avergli inviato un «assegno 50’000 fondo spese vive catalogo Pinelli», Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», lettera manoscritta da Enrico Baj ad Arturo Schwarz, 22 febbraio 1972. 64 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera dattiloscritta di Arturo Schwarz a Herbert Marcuse, 2 marzo 1972. 65 Ibidem. 66 Ibidem. 67 Fabio Belloni, Militanza artistica in Italia 1968-1972, l’Erma di Bretschneider, Roma 2015, pp. 36-43.

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Il catalogo venne dato alle stampe con un breve testo di presentazione di Paolo Pillitteri, assessore alla Cultura del Comune di Milano68. Le cinque pagine iniziali erano dedicate alla riproduzione del lemma «Anarchism»69 probabilmente tratto dalla Encyclopaedia Britannica70, proposto in lingua inglese. Baj aveva visitato la casa di Pinelli quando decise di intraprendere l’opera e aveva avuto occasione di consultare la libreria dell’anarchico71: «portammo a casa un mucchio di suoi libri, proprio per capire chi fosse. […] Volevamo anche trarne, da questa libreria di Pinelli, una specie di ricostruzione che potesse servire a inquadrare la mostra, a introdurla, a presentarla»72. Il testo riportato ricordava il progetto iniziale e tracciava uno stringato racconto del movimento anarchico fin dalla sua origine, affinché si allontanasse l’idea che i militanti appartenessero a un gruppo terroristico. Seguiva una fotografia della sagoma del Pinelli nello studio di Baj73: è afflosciata al suolo, le braccia abbandonate, il volto 68

Baj, un quadro cit., p. 7. Ivi, p. 9. 70 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», busta “Baj / negativi (Encyclopaedia ecc) / BRITANNICA”. 71 Enrico Baj, Comment j’ai écrit certains de mes tableaux, in Baj: i grandi quadri cit., p. 105. 72 Enrico Baj, Automitobiografia cit., p. 79. 73 La sagoma di Pinelli afflosciata fu immortalata in diversi scatti anche da Enrico Cattaneo durante l’allestimento dell’opera presso la Sala delle Cariatidi nel maggio 1972. 69

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54. Enrico Baj, [I funerali dell’anarchico Pinelli], 1972, fotografia di Enrico Cattaneo, collezione privata (courtesy Fondazione Marconi, Milano Archivio Baj, Vergiate). 55. Enrico Baj, I funerali dell’anarchico Pinelli, 1972, fotografia di Enrico Cattaneo, collezione privata (courtesy Fondazione Marconi, Milano Archivio Baj, Vergiate).

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sfigurato dall’urlo. A prima vista sembrerebbe una istantanea casuale, ma la posizione di rilievo nel catalogo richiama un particolare legato all’inchiesta sulla morte di Pinelli: ricorda alcune fotografie del marzo 1972, quando un manichino venne gettato dalla finestra dell’ufficio di Calabresi per tentare la ricostruzione della caduta dell’anarchico74 (figg. 52-53). Gli scatti seguivano la sequenza di caduta del fantoccio e la posizione drammaticamente scomposta assunta una volta schiantatosi a terra. Così anche il Pinelli di Baj si accascia a terra come appena caduto dall’alto, topos metafisico del manichino muto, descritto solo attraverso le pose che assume. Il vasto apparato fotografico comprendeva anche il lavoro ultimato: oltre agli scatti nello studio dell’artista si incontrava un montaggio che prevedeva uno degli Specchi di Baj a copertura del pavimento davanti al pannello (fig. 54). I vetri scheggiati riflettono la trama bugnata dello sfondo e sotto alla figura di Pinelli lo specchio è infranto, come se l’uomo vi si fosse già schiantato. Una suggestiva immagine riprendeva l’opera nella Sala delle Cariatidi. La statua acefala che sovrastava l’opera e i segni dei bombardamenti sulle pareti e sulle colonne accrescono il senso drammatico, amplificato dalla stampa in bianco e nero. Al centro del libro vi è una visione ravvicinata dei Funerali dell’anarchico Pinelli (fig. 55). Tra il gruppo di personaggi che è indicato genericamente come quello degli «anarchici» sono stati identificati lo stesso Baj, suo figlio Pietro75 e Camilla Cederna76. La serrata geometria della stoffa «a piccolo bugnato» utilizzata per il fondo è una presenza rilevante, che aiuta a dare completezza al pannello. Secondo la testimonianza di Silvia Pinelli, il motivo grafico fu ispirato dalla copertina dei quaderni in cui Licia raccoglieva i ritagli stampa sulla vicenda Pinelli77. In realtà, il filaticcio «Orvietano» utilizzato da Baj veniva prodotto 74 G. M., Pinelli: negativa la prova-manichino. Sarà rifatta da un tuffatore in piscina, «La Stampa», 13 marzo 1972, p. 8. 75 Domenico Porzio, I funerali dell’anarchico Pinelli, «Bolaffiarte», 20, maggio 1972, p. 56. 76 Lo si deduce dal titolo Camilla attribuito da Baj al disegno preparatorio della donna frontale, in Baj, un quadro cit., p. 35. 77 Paolo Brogi, Pinelli cit., p. 78.

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dalla ditta di tessuti Lisio fin dagli anni Venti78 e utilizzato dallo stesso artista già a partire dal 1969 per un Militare decorato, Ubu e per il Poeta laureato del 1970. Il tessuto utilizzato per la finestra è anch’esso Lisio, chiamato Primavera poiché ispirato alla veste della Flora botticelliana. Anch’esso fu utilizzato da Baj per due Dame del 1969. Al centro del volume vi era l’unico testo di tutto il catalogo, infine redatto da Baj, che ripiegò su questa soluzione dopo le rinunce da parte di Sartre e Marcuse. Il testo era una lunga e intensa riflessione dedicata alla ragione dell’opera, una vera dichiarazione poetica che collocava I funerali dell’anarchico Pinelli al centro di un percorso artistico definito.

A Palazzo Reale, maggio 1972 Un articolo comparso su «L’Espresso» comunicava il 7 maggio 1972 l’imminente apertura della mostra, che sarebbe avvenuta «soltanto dopo le elezioni», poiché il tema della mostra «non è di quelli che fanno comodo in questa vigilia»79. Il timore del cronista si rivelò premonitore. La data dell’inaugurazione della mostra Baj, un quadro venne fissata per il 17 maggio 197280. Il giorno precedente erano stati affissi gli striscioni e lo stendardo pubblicitario in punti nevralgici della città di Milano: via Torino, piazzale Cadorna, piazzale Duca d’Aosta81. Una tragica coincidenza volle che la mattina del 17 maggio il commissario Luigi Calabresi venisse ucciso con due colpi di pistola mentre si apprestava a salire in auto per dirigersi al lavoro. 78 Firenze, Archivio Storico Fondazione Arte della Seta Lisio, Filaticcio «Orvietano», Messa in Carta 149, informazioni ottenute grazie a Paola Marabelli. 79 F. D., Enrico Baj, «L’Espresso Colore», 7 maggio 1972, p. 41. Le elezioni politiche avvennero il 7 maggio 1972. 80 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», invito alla mostra, [maggio 1972]. 81 ACM Cittadella degli Archivi del Comune di Milano, Fondo Mostre, faldone 1970-75 «Mostre realizzate III Baj» lettera dattiloscritta di Luigi Cerini al Comune di Milano, 18 maggio 1972.

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Le indagini per la ricerca dei responsabili procedettero da subito con fatica, diramandosi anche in ambiti extranazionali82. Gli occhi vennero puntati su Lotta Continua, responsabile della violenta campagna di discredito e di accuse condotta nei confronti di Calabresi. Anche l’artista Enrico Castellani finì nella rete delle indagini, già accusato nei mesi precedenti di essere «il pittore delle Brigate Rosse»83 e di aver partecipato a un attacco incendiario presso la Pirelli di Linate. I sospetti su di lui caddero presto84, ma egli non scampò alla perquisizione del suo studio, che raggiunse momenti di grottesca ironia quando i suoi quadri furono sequestrati, poiché equivocati: «ad un posacenere […] era appoggiato un cartoncino-bersaglio per il tiro a segno, forato da una dozzina di proiettili»85. Nel 1988 un ex membro di «Lotta Continua», Leonardo Marino, confessò di aver partecipato all’omicidio Calabresi e indicò i suoi complici in Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, anch’essi militanti del gruppo: questi rigetteranno sempre con forza le accuse. Il 17 maggio 1972, quando la notizia della morte di Calabresi iniziò a circolare, Baj era pronto per l’inaugurazione della mostra. Per l’amministrazione comunale, però, sembrò troppo pericoloso, offensivo e fuori luogo mostrare al pubblico un’opera dedicata all’anarchico Pinelli nella quale la polizia aveva sembianze di mostri feroci, pronti ad aggredire una folla di persone inermi. Così Baj ricordò anni dopo quella giornata:

82 La nuova pista: una bella irlandese dagli occhi verdi, «Corriere d’Informazione», 27-28 maggio 1972, p. 1. 83 Sparito il pittore delle «Brigate Rosse», «Corriere d’Informazione», 26-27 marzo 1971, p. 4. 84 Revocato il mandato di cattura contro il pittore Castellani, «Corriere della Sera», 11 ottobre 1972, p. 9. Questa vicenda di Castellani è ormai relegata a notizia di cronaca e non viene menzionata nei più recenti studi dedicati all’artista. Una curiosa anticipazione, però, si trova nel catalogo Enrico Castellani Pittore, Achille Mauri editore, Milano 1968, p. 3: l’artista è presentato con una scheda anagrafica, con tanto di impronta digitale. Davvero simile a una scheda segnaletica della polizia. 85 Lo stanzone del «quartier generale», «Corriere della Sera», 26 marzo 1971, p. 8; Lea Vergine, Attraverso l’arte cit., p. XV.

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Arrivai presto, per controllare che tutto fosse a posto. Vidi gente molto turbata. Come se non osassero avvicinarsi per parlarmi. Avevano appena telefonato dalla Questura. Il commissario Calabresi era stato ucciso. […] L’inaugurazione fu sospesa86.

L’amministrazione provvide a contattare la società che aveva affisso gli striscioni per chiederne la rimozione, che avvenne il pomeriggio stesso87. La mostra, ufficialmente, venne sospesa per «motivi tecnici». Un telegramma di Baj indirizzato al sindaco Aldo Aniasi aveva un tono perentorio: «Invitovi disporre immediata apertura mia mostra Palazzo Reale di cui est stata rinviata inaugurazione per motivi tecnici inesistenti»88. La mostra non aprì nei giorni successivi e alcuni giornali ne diedero notizia, giudicando l’episodio come un atto di censura ai danni di Baj. Fra i primi «il manifesto», che in prima pagina riportò un lungo articolo dove a testimonianza del pesante clima si dava notizia della soppressione dello spettacolo teatrale di Aldo Rostagno La camera degli sposi e della mancata apertura della mostra di Baj, entrambi colpevoli di essere contro le forze dell’ordine. L’intento del cronista non era tuttavia quello di solidarizzare con gli artisti censurati, quanto evitare un’agiografia postuma del commissario: Baj è chiamato frettolosamente «Baicon», così anche Aldo è «Restagno»89. Baj aveva già vissuto episodi censori sulla propria pelle: durante la Biennale di San Paolo del Brasile, nel 1963, alcuni dettagli dei Generali furono eliminati, poiché al centro di un’aspra critica da parte dell’ex Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, che giudicò le opere «un volgare insulto alle nostre Forze Armate»90. 86

Enrico Baj cit., p. 105. «Comunichiamo che gli striscioni relativi alla mostra “Baj” in programma […] per il 17 maggio sono stati rimossi nello stesso giorno in seguito al rinvio della mostra stessa», ACM Cittadella degli Archivi del Comune di Milano, Fondo Mostre, faldone 1970-75 «Mostre realizzate III Baj», lettera di Luigi Cerrini al Comune di Milano, 19 maggio 1972. 88 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», telegramma di Enrico Baj al sindaco di Milano Aldo Aniasi, [maggio] 1972. 89 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», Tiziana Majolo, Una campagna intimidatoria volta a stroncare anche la protesta intellettuale, «il manifesto», 20 maggio 1972, ritaglio stampa. 90 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj «Ritagli stampa», L’Italia alla Berlina, in «SIM Stampa italiana nel mondo», 10 marzo 1964, p. 1. 87

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Alla Biennale di Venezia del 1964 sorsero i medesimi problemi: le medaglie affisse ai petti dei Generali vennero oscurate da nastro adesivo per non rischiare di incorrere nell’accusa di vilipendio91. Le censure non erano dunque una novità e di ciò era consapevole anche la stampa specializzata. Nel novembre 1971 «NAC» riportava la notizia della scomparsa dei manifesti di Ivana Poli e la mancata apertura della mostra di Montelupo Fiorentino92. Nel medesimo articolo era ricordato l’episodio che aveva coinvolto Alik Cavaliere e Enzo Scanavino durante la XI Biennale di San Paolo del Brasile, quando Omaggio all’America Latina non venne esposta e scomparve dal catalogo, in un atto di censura «preventiva». L’opera, giudicata «di natura politica e quindi extra artistica»93 fu nascosta alla critica e al pubblico, prima dunque di poter scatenare qualsiasi polemica, che secondo Cavaliere sarebbe stata «utile, costruttiva»94. Il trattamento riservato all’opera dei due artisti, amici di Baj, si avvicina drammaticamente a quello destinato a I funerali dell’anarchico Pinelli, anch’essa celata agli occhi del pubblico. Alla luce della morte di Calabresi gli articoli di cronaca avevano toni polemici nei confronti dell’opera: i Generali di Baj erano la rappresentazione inequivocabile della violenza poliziesca. Ne è esempio l’articolo che comparve su «La Notte»: «Superfluo dire che il signor Baj, nel comporre il suo artistico manufatto, si era ispirato alla dissennata campagna di stampa che attribuisce detta morte – sulla base di un mucchio di chiacchiere non corrette da alcun indizio concreto – al povero commissario Luigi Calabresi»95. Agli attacchi violenti nei confronti di Baj si affiancavano voci di critici d’arte che comprendevano le ragioni dell’opera, come 91 Dino Buzzati, Per quale quadro il “no” del Patriarca?, «Corriere d’Informazione», 22-23 giugno 1964, p. 3. 92 Mauro Staccioli, e anche a Montelupo, «NAC», n. 11, novembre 1971, p. 8. 93 Sara Fontana, W la libertà. La scultura di Alik Cavaliere tra ricerca, politica e didattica, in Cristina Casero, Elena Di Raddo, Francesca Gallo (a cura di), Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta, Postmedia books, Milano 2017, p. 245. 94 Alik Cavaliere, Censura a San Paolo, «NAC», 11, novembre 1971, p. 7. 95 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», pagina con la trascrizione dattiloscritta dell’articolo A spese del Comune una mostra di pittura che denigra Calabresi!, «La Notte», 20 maggio 1972.

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Domenico Porzio: «il tema della composizione del pittore è la discussa morte dell’anarchico Pinelli. […] In questo quadro non c’è né polemica né politica: c’è l’aspra e virile meditazione sul nostro tragico quotidiano che va ben oltre la satira e il grottesco»96. A fine mese anche sul «Corriere d’Informazione» uscì la notizia della mostra a quasi due settimane dalla mancata apertura. Il giornalista riconobbe opportuna la decisione del Comune, ma senza far mistero del motivo: «sarebbe stato molto meglio dire che il quadro non veniva fatto vedere “per lutto cittadino”»97. Si affermava che Baj avesse scritto un testo da aggiungere al catalogo, in cui avrebbe ribadito di «aver dato vita a un’opera impegnata, ma non ad un’opera polemica»98. Il catalogo non ebbe questa aggiunta, ma si conserva una bozza chiaramente scritta nei giorni successivi la chiusura della mostra: Ho fatto un quadro ispiratomi da un dramma verificatosi in un periodo di estreme tensioni. Non vi è polemica o allusione alcuna al Commissario Calabresi criminalmente assassinato con incredibile coincidenza lo stesso 17 maggio. […] Non sono un [sic] Sherlock Holmes e gli enigmi polizieschi non mi interessano. Nella fattispecie l’interpretazione dei fatti è lasciata allo spettatore, realizzandosi così ancora una volta la ben nota previsione di Duchamp: «C’est le spectateur qui fait l’oeuvre». Libertà interpretativa per lo spettatore, libertà di ispirazione e di espressione per l’artista: non credo si vogliano mettere in dubbio queste elementari libertà. […] Fonti della mia opera sono stati il quadro dipinto da Carlo Carrà nel 1911 «I funerali dell’anarchico Galli», il ricordo della presentazione in quella stessa sala nel 1953 di Guernica […] e infine le opere del pittore napoletano del XVII secolo Monsù Desiderio. Nessuno di quelli che hanno già formulato critiche e anche duri attacchi, nessuno dico, ha ancora visto il quadro. Vi invito quindi a vedere quest’opera e il suo ambiente, prima di sputar sentenze; e vi invito a giudicare serenamente sul piano artistico, spogli da prevenzioni e passionalità estranee all’arte. Sono un pittore e faccio dei quadri e basta99. 96 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», Domenico Porzio, Nemmeno il coraggio di denunciare un errore, «Il Milanese», 28 maggio 1972, p. 14. 97 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», Mario Perazzi, Le mostre fantasma del Comune di Milano, p. 1, ritaglio stampa. 98 Ibidem. 99 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», pagine dattiloscritte da Enrico Baj, [maggio 1972].

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La presa di posizione di Baj è comprensibile e condivisibile nella misura in cui non vi fu alcun attacco concreto alla polizia italiana o al commissario Calabresi: né l’artista né la città di Milano, che patrocinava la mostra a Palazzo Reale, ne aveva alcun interesse. La volontà artistica dichiarata dalla frase «sono un pittore e faccio dei quadri e basta» liberava il campo da un impegno politico che andasse oltre l’autoreferenzialità dell’opera. I continui rinvii della mostra e la campagna stampa che seguì furono per l’artista motivo di comprensibile sconforto, ma ancor prima di irritazione. In alcune pagine vergate a mano il 30 maggio 1972, Baj fece alcune considerazioni, notando con non poco rancore come la sfortunata coincidenza dell’inaugurazione con la morte del Commissario non avrebbe dovuto verificarsi: La mostra doveva essere inaugurata il 15 maggio. Tale data era già stata comunicata dalla stampa (L’Espresso? Il Milanese?). Verso la fine di aprile Elio Santarella funzionario della ripartizione iniziative culturali addetto alle mostre del Palazzo Reale, mi telefona per dirmi che il Sindaco aveva chiesto di spostare la mostra al 17 maggio. Chi sapeva di questo spostamento? Chi vi aveva interesse? Lamentatomi con Marconi, mio gallerista, feci presente che non mi piaceva affatto il giorno 17. […] Comunque feci una telefonata, al solito senza esito come tutte le mie telefonate al sindaco, parlai colla segretaria del sindaco, affinché la mostra fosse mantenuta al 15 maggio. Mi dissero che non era possibile100.

Baj sfogò la sua frustrazione in alcune lettere inviate ad amici stranieri. Il tono non è quello conciliante rilasciato nelle dichiarazioni italiane, è invece incline a riconoscere uno spirito contestatario all’opera, censurata dalla politica nazionale. Rivolgendosi a Édouard Jaguer esordisce fulmineo: «huit mois de 100 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», pagine manoscritte da Enrico Baj, [maggio 1972]. Un’ulteriore coincidenza relativa alla giornata del 17 maggio fu rivelata solo anni dopo, quando Marino confessò il proprio coinvolgimento nell’omicidio di Calabresi: questo non doveva avvenire il 17, bensì il giorno precedente. Quella mattina, secondo la ricostruzione del pentito, gli esecutori si erano appostati presto davanti all’abitazione del Commissario, nell’attesa che uscisse. Ma Calabresi fece più tardi del solito e uscì in auto direttamente dal garage, spostando il piano di morte dei suoi esecutori di ventiquattr’ore, in Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là cit., p. 37.

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travail et une lutte acharnée qui se deroule dépuis le fameaux matin de 17 mai, n’ont abouti à rien si non à la censure»101. E ancora «J’ai lutté et je lutte, maintenet [sic] pour fire [sic] scandale»102. Riconobbe poi come i giornali «borghesi» lo stessero appoggiando, mentre quelli di sinistra no, «Unità en tête!»103 e amaramente concluse che avrebbe lasciato Milano a breve, poiché la città era diventata «insupportable»104. Baj condivise riflessioni simili con l’amico Serge Sautreau, dichiarando però che la mostra «ne s’ouvrira jamais»105. In quei giorni del giugno 1972 si alternarono solidarietà e accuse. «Lo Specchio» giudicava il lavoro «trenta metri quadri di insulti alla polizia»106, una cartolina anonima indirizzata a Finarte recitava: «Se accoglierete ancora nella vostra Galleria dei quadri di Baj troveremo il modo di bruciarvi tutto….. Questo a titolo di premio per il magnifico quadro su Pinelli. I cinque»107, mentre un’altra, indirizzata a Baj, aveva toni altrettanto minacciosi: «Complimenti per il suo grandioso quadro “I funerali dell’anarchico Pinelli”. In questi giorni ci vuole proprio un qualche cosa per rinvigorire l’odio tra le opposte fazioni. Così anche lei ha concorso a fare uccidere una persona. Chi dei sette atroci polizziotti [sic] è Calabresi? Lo scriva sopra, così la sua grande opera sarà completa»108. Giunse una cartolina solidale da Giulio Maccacaro, uno fra i primi ideatori e firmatari dell’appello del settembre 1970 contro l’archiviazione del caso Pinelli e di quello su «L’Espresso» del giugno 1971. Egli auspicava l’apertura della mostra affinché il quadro potesse trasmet101 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.2.5 «Jaguer», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Édouard Jaguer, 3 giugno 1972. 102 Ibidem. 103 Ibidem. 104 Ibidem. 105 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.6 «Francia», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Serge Sautreau, 3 giugno 1972. 106 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj 4.1.1 «Pinelli fino anni 90», Carlo Patrizi, Agonia di un’indagine, «lo Specchio», 4 giugno 1972, p. 4, ritaglio stampa. 107 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj 4.1.1 «Pinelli fino anni 90», fotocopia di cartolina postale, 10 giugno 1972. 108 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj 4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera e busta indirizzate a Enrico Baj, [22 maggio o giugno 1972].

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tere a tutti «ciò che è stato e rimane […] la morte di Pinelli. Non solo dolore e rabbia, ma anche pietà e tenerezza»109. In una pagina autografa Baj stilò la lista degli «Articoli soppressi»110, comprensibilmente infastidito che la vicenda della sua mostra fosse messa a tacere: -Un articolo a firma Liana Bortolon su «Grazia» del 28/5/72 viene tagliato completamente e sostituito con poesie. -Sul «Corriere della sera» del 18 maggio viene eliminata una fotografia del quadro. -Sull’Unità non escono due articoli uno a firma Smuraglia e l’altro a firma M. De Micheli pure già vistati e approvati dal direttore. Detti articoli dovevano apparire tra il 3 e l’11 giugno 1972. -Una lunga intervista con Fabrizio Dentice destinata all’Espresso del 8 giugno non viene pubblicata affatto. -Un articolo che Domenico Porzio nel Milanese del … viene pubblicato e tagliato e sormontato dal gran titolo … in totale contrasto con quanto affermato dall’articolista111. -Nessun accenno viene fatto da giornali come «Lotta Continua» o «Umanità Nuova»112.

Non celò il proprio malumore nei confronti de «l’Unità» quando, nell’agosto 1972, rispose piccato a una lettera di Aletta, membro della Federazione Comunista Romana, che lo invitava a partecipare alla mostra di grafica al festival dell’Unità del 1972: Da una parte vi è la mia sincera volontà di partecipare alla mostra prevista […] d’altro canto come e perché sostenere un giornale la cui direzione non è stata inferiore alla sollerzia [sic] del ministro Rumor (o di chi per lui) nell’occultare, reprimere, censurare la mia vasta opera ispirata ai «Funerali dell’anarchico Pinelli»? Mi è noto infatti che ben due articoli dedicati alla mancata esposizione della detta opera al Palaz109 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera manoscritta da Giulio Maccacaro a Enrico Baj, 11 giugno 1972. 110 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», pagina manoscritta da Enrico Baj, [giugno 1972]. 111 Baj fa qui riferimento all’articolo Domenico Porzio, Nemmeno il coraggio di denunciare un errore, «il Milanese», 28 maggio 1972, il cui titolo non rispecchia il contenuto del testo. 112 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», pagina manoscritta da Enrico Baj, [giugno 1972].

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

zo Reale di Milano, dovuti l’uno alla penna di Mario de Micheli e l’altro a quella del capo gruppo regionale comunista avv. Smuraglia, benché già approvati dalla direzione milanese, non apparvero mai. Ahi! Ahi! Come mai?113

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Anche qui Baj non esitava a leggere la chiusura della mostra come parte di un più ampio disegno politico destinato a reprimere ogni manifestazione legata al caso Pinelli, che arrivava a comprendere anche il ministro degli Interni Mariano Rumor. Enrico Crispolti su «Il Margutta» pubblicato a giugno si schierava a fianco di Baj: L’opera di Baj non ha a che fare con la tragica vicenda del commissario […] mentre intende essere, a suo modo, un «memorial» di una vittima emblematica della strategia della tensione, Pinelli. Ma appunto per questo occorre elevare la più vibrata protesta, per il tentativo di togliere la parola o comunque di impedirla, a chiunque (come in questo caso Baj con il suo grande quadro) dissenta anche indirettamente dall’associarsi alla celebrazione, di delirio agiografico spesso, di un commissario finito vittima anch’egli della macchinazione terroristica reazionaria della quale proprio Pinelli è stato fin dall’inizio, e ignobilmente «a priori», capro espiatorio114.

L’affondo finale si rivelava più esplicito: [Baj] è venuto ricordando un episodio profondamente emblematico della società italiana di questi anni, e proprio del suo volto: sia di cruda verità, l’uccisione di un innocente, sia della farsa di verità di comodo e di abusi e di falsità che attorno a quella verità crudele si è voluta costruire, per celarla e mistificarla115.

Vi fu un grande segnale di vicinanza e solidarietà a Baj nelle prime settimane del giugno 1972, quando numerosi artisti e intellettuali sottoscrissero un appello, indirizzato al sindaco di Milano Aldo Aniasi e all’assessore Paolo Pillitteri, chiedendo a gran voce l’apertura della mostra: 113 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera dattiloscritta di Enrico Baj ad Aletta, 23 agosto 1972. 114 Enrico Crispolti, «I funerali dell’anarchico Pinelli», «Il Margutta», anno V, giugno 1972, p. 15. 115 Ibidem.

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UN QUADRO DI ENRICO BAJ

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I sottoscritti, informati da tempo dell’imminente apertura della mostra di un quadro del pittore Enrico Baj […] hanno atteso invano che la mostra aprisse. […] I manifesti sono scomparsi, la porta della mostra […] è sbarrata; né si riesce a sapere se e quando tale situazione avrà fine, ma è logico temere che essa cesserà quando la sala delle Cariatidi risulterà impegnata per altra manifestazione culturale. Ora, i sottoscritti trovano che è veramente incredibile che fatti del genere possano avvenire nell’anno 1972, in una città che vuol essere moderna e avanzata come Milano e ad opera di una Amministrazione civica che si è sempre vantata di svolgere una politica culturale libera, indipendente e aperta ad ogni esperienza. Poiché le ragioni «tecniche» è pacifico che non esistono, bisogna pensare che ciò che impressiona sia il contenuto del quadro di Enrico Baj. Ma se è così, dove finisce la libertà dell’arte? E perché la rievocazione, in chiave artistica, di una vicenda realmente accaduta, dovrebbe essere impossibile, oggi, a Milano, quasi che una decisione delle Autorità competenti possa cancellare quanto è accaduto nel dicembre 1969 e negare il valore della rappresentazione artistica che ne è stata fatta? L’Amministrazione comunale ha assunto un impegno con l’artista ed è logico che debba rispettarlo. Ma ha assunto anche un impegno con la cittadinanza, alla quale non può ora arbitrariamente togliere il diritto di vedere la mostra, di discuterla, di giudicarla. Chiediamo quindi che venga disposta, con assoluta urgenza, l’apertura della mostra […]. Se poi di ciò qualcuno potrà adontarsi, invitiamo il Sindaco, l’Assessore, l’Amministrazione comunale tutta a non preoccuparsene: chi vuol impedire una manifestazione d’arte con un pretesto di contenuto, fa parte della sottocultura e di quella fazione conservatrice che – sempre – si è posta contro la libertà dell’arte116.

I firmatari dell’appello furono numerosissimi e scorrendo i loro nomi si incontrano quelli di Arman, Gianfranco Baruchello, Bernardo Bertolucci, Giorgio Bocca, Alik Cavaliere, César, Enrico Crispolti, Mario De Micheli, Gillo Dorfles, Luciano Fabro, Renato Guttuso, Mario Monicelli, Giuliano Montaldo, Elio Petri, Ugo Pirro, Luciano Pistoi, Pierre Restany, Inge Feltrinelli, Lea Vergine e alcune personalità straniere: Jan Van Der Marck, direttore del Museo di Arte contemporanea di Chicago, Pontus Hultén, direttore del Museo di Arte Moderna di Stoccolma, Jean Leering, direttore del museo di Eindhoven, e Renilde Hammacher, direttrice del Boijmans Museum di Rotterdam. 116

Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», pagine dattiloscritte (5 copie) con firme originali, [12] giugno 1972.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

In luglio su «Paese Sera» Renzo Margonari commentò l’iniziativa. L’autore non faceva mistero sul proprio giudizio: «Il quadro non è così esplosivo da provocare una simile reazione. In fondo in esso Baj non è andato oltre le sue grottesche rappresentazioni di generali per cui è ben noto. È troppo rappresentativo perché possa essere considerato uno dei capolavori dell’artista»117. Una cosa era certa: «l’argomento Pinelli è tabù» e a dimostrazione si ricordava l’episodio di censura di Montelupo Fiorentino118. In luglio «Bolaffiarte» riportava la chiusura definitiva della mostra con un piccolo trafiletto titolato L’hanno vista solo i lettori di Bolaffiarte, in cui alcuni scatti del fotografo Enrico Cattaneo ricostruivano in chiave ironica e inventata la successione degli eventi il 17 maggio 1972: in uno Marconi si mette le mani nei capelli, «La mostra è sospesa», nel seguente Baj e il gallerista hanno sguardi pensosi, «riflessione», nell’ultimo scatto si vede una sezione smontata dei Funerali dell’anarchico Pinelli, «Si smonta il pannello»119. Altre fotografie di Cattaneo sono state pubblicate nell’introduzione della ristampa anastatica del catalogo Baj, un quadro nel 2012120 e confermano la presenza a Palazzo Reale di Giorgio Marconi, gallerista di Baj, proprietario tutt’oggi dei Funerali dell’anarchico Pinelli, il quale ha raccontato: In seguito [alla chiusura definitiva della mostra] Baj decise di regalare il quadro alla famiglia del povero Pinelli. «Grazie», gli disse Licia, la vedova, «ma dove lo metto? Ho due locali…». «Fa niente», disse il Baj, e con la sua consueta praticità aggiunse: «Vendiamolo, così ti restano i soldi per far studiare le bambine». Poi venne da me e disse: «Perché non lo compri tu, il Pinelli, che ti piace?» 117 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», Renzo Margonari, Censurato il «Pinelli» di Baj?, «Paese Sera», 8 luglio 1972, ritaglio stampa. 118 Ibidem. 119 L’hanno vista solo i lettori di Bolaffiarte, «Bolaffiarte», 22, estate 1972, p. 80. Le foto proposte sono da riferirsi al momento dell’allestimento della mostra e non del suo smantellamento. 120 Baj, un quadro cit.

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UN QUADRO DI ENRICO BAJ

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Come potevo dirgli di no? E così, da allora, l’opera è rimasta sempre con me121.

Nonostante l’accorato appello degli artisti, l’amministrazione comunale aveva quindi deciso di chiudere la mostra. L’assessore Pillitteri rassicurò Baj promettendogli la programmazione di una nuova mostra antologica a lui dedicata122. A un anno dai fatti, nel marzo 1973, in una interpellanza comunale, Pillitteri rivelò infine che le ragioni della chiusura della mostra non furono di natura tecnica, ma «facilmente intuibili», «molto serie e molto gravi»123 e coincidevano chiaramente con la difficoltà di procedere in pubblico con un’opera su Pinelli il giorno della morte del commissario Calabresi: «credo giustamente l’amministrazione ha deciso di non aprire la mostra; probabilmente la motivazione [...] per ragioni tecniche, era una motivazione del tutto sbagliata, era una ragione di lutto cittadino»124. Dopo la chiusura della mostra, ai cittadini venne data l’opportunità di vedere l’opera attraverso un documentario televisivo realizzato dalla TV Svizzera dal titolo Requiem per un requiem. Il 10 luglio 1972, l’autore Grytsko Mascioni inviava a Baj un telegramma in cui comunicava che il documentario sarebbe andato in onda il 25 luglio125, come riportato dai palinsesti televisivi126. È chiaro che l’occasione fu apprezzata da Baj, il quale comunicò a Herbert Lust: «This largest painting has provoked already many troubles but many satisfactions too: of course the curiosity and the interest is improuving evry [sic] day»127.

121

Ivi, p. 11. Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera dattiloscritta di Paolo Pillitteri a Enrico Baj, 20 giugno 1972. 123 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», copia dattiloscritta degli atti del Consiglio comunale del 5 marzo 1973, p. 62. 124 Ibidem. 125 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90», telegramma di Grytsko Mascioni a Enrico Baj, 10 luglio 1972. 126 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», Oggi sul video, «Il Giorno», 25 luglio 1972, ritaglio stampa. 127 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.24 «Usa sino al 1975», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Herbert Lust, 17 luglio 1972. 122

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1972 Il simbolo di un’epoca

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Artisti contro la strage di stato I funerali dell’anarchico Pinelli non passò certamente inosservata a coloro che proseguivano una politica attiva per un punto d’arrivo sul caso Pinelli, anche attraverso la promozione di mostre. Una lettera firmata dall’anarchico Paolo Braschi, uno fra i fermati e interrogati dopo la strage di Piazza Fontana, invitò Baj a un’iniziativa organizzata dai «gruppi anarchici toscani»1. Per qualificarsi invitò l’artista a rivolgersi «ai compagni della Crocenera», o direttamente «alla Licia Pinelli»2. L’evento cui fa riferimento Braschi è Artisti contro la strage di stato, organizzato dai Gruppi Anarchici Toscani come «mostra itinerante»3. Non rimane alcuna documentazione dell’evento, solo una nota biografica di uno degli artisti coinvolti, Sergio Borghesi4 e il manifesto di presentazione. Qui, una scritta in alto, in grassetto e in tipico stile underground, indica il titolo della mostra. Al centro, in uno schizzo di sangue, compare la foto del volto tumefatto di Pinelli, lo stesso incontrato nel 1 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera manoscritta di Paolo Braschi a Enrico Baj, [1972]. 2 Ibidem. 3 Archivio Proletario Internazionale, manifesto, 1972. 4 Sergio Borghesi inserisce la sua partecipazione ad Artisti contro la strage di stato nel catalogo della mostra Volterra ’73. Sculture, ambientazioni, visualizzazioni, progettazione per l’alabastro, catalogo della mostra (Volterra, 1973), Centro Di/edizioni, Firenze 1974, s. p., indicando Livorno come città ospitante. Il lavoro presentato da questo artista consisteva nel ritratto di Pinelli morto, con il nome e la data del decesso. Il volto era ripetuto serialmente su una lastra di plexiglas di circa cm.120 x 120, stampato in serigrafia a due colori, carnicino e nero. Il lavoro purtroppo è andato perduto. L’artista mi ha comunicato che alla mostra partecipò Flavio Costantini. (Conversazione con Sergio Borghesi, 18 febbraio 2019). Esiste una tempera su cartoncino del 1970 dedicata a Pinelli intitolata Milano, 15 dicembre 1969, che potrebbe essere l’opera presentata dall’artista (informazione dell’Archivio Flavio Costantini, Genova-Carrara).

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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56. [Paolo Baratella], Artisti contro la strage di stato, 1972, manifesto (courtesy Archivio internazionale proletario, Milano). 57. No alla tregua sociale durante le elezioni, «Lotta Continua», 16 marzo 1972.

catalogo di Baratella. Ed è proprio Baratella a confermare la paternità del manifesto5. Il volto dell’anarchico è qui attraversato in diagonale da un fascio littorio insanguinato, secondo una soluzione visiva già utilizzata in Rigurgito. In basso vi è un gruppo di giovani di spalle, la figura al centro alza le braccia al cielo, brandendo un bastone. La datazione è solamente ipotizzabile, tuttavia si possiede un termine post quem: il gruppo di ragazzi fu ricavato da una fotografia comparsa sulla prima pagina di «Lotta Continua» del 16 marzo 19726 (figg. 56-57). È difficile credere che Baj partecipò alla mostra, non esistendo alcuna testimonianza a riguardo (fig. 58).

Testimonianza per Pinelli Un mese prima della data inaugurale della mostra di Palazzo Reale Baj ricevette una lettera dal sindaco di Siena Roberto Barzanti, il quale lo invitava a partecipare alla mostra che il Comune e l’Amministrazione provinciale stavano organizzando. Il tema

5 6

Conversazione con Paolo Baratella, 23 febbraio 2019. No alla tregua sociale durante le elezioni, «Lotta Continua», 16 marzo 1972,

p. 1.

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IL SIMBOLO DI UN’EPOCA

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58. Flavio Costantini, Milano, 15 dicembre 1969, 1970, tempera su cartoncino (courtesy Archivio Flavio Costantini, GenovaCarrara).

era «La morte di Pino Pinelli e la strage di Stato»7 e il ricavato dalla vendita delle opere sarebbe stato devoluto alla famiglia Pinelli. La mostra aprì il 22 luglio 1972 come Testimonianza per Pinelli. Organizzata dall’Arci e dal circolo Turati con il sostegno del Comune e della Provincia di Siena, fu allestita presso il Palazzo Patrizi. Il manifesto che la presentava era essenziale ma evocativo: su un fondo nero si stagliava l’infisso di una finestra a due ante8 (fig. 59). Nella parte inferiore vi erano elencati i nomi degli artisti partecipanti: Luca Alinari, Carlo Ambrosoli, Anselmo Francesconi, Enrico Baj, Paolo Baratella, Andrea Burroni, Ennio Calabria, Bruno Caruso, Giuseppe Ciani, Guido Crepax, Federico D’Agostino, Fernando Farulli, Nino Gianmarco, Federico Gismondi, Adriano Loreti, Silvio Monti, Carlo Quattrucci, Fernando Rea, Nillo Tinazzi, Ernesto Treccani, Pietro Tredici, Emilio Vedova, Renzo Vespignani e Andrea Volo9. Un articolo de «l’Unità» anticipò l’inaugurazione sottolineando l’alto valore civile della mostra e faceva riferimento a

59. Augusto Mazzini, manifesto per Testimonianza per Pinelli, 1972 (fotografia in Produrre memoria 1968/2018: Manifesti, libri, illustrazioni, teatro: 50 anni con la grafica di Andrea Rauch. Quasi una biografia professionale, La casa Usher, Firenze 2018, p. 20).

7 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera di Roberto Barzanti a Enrico Baj, 18 aprile 1972. 8 L’autore del manifesto è Augusto Mazzini; in Produrre memoria 1968/2018: Manifesti, libri, illustrazioni, teatro: 50 anni con la grafica di Andrea Rauch. Quasi una biografia professionale, La casa Usher, Firenze 2018, p. 20. 9 Testimonianza per Pinelli, catalogo della mostra (Siena, Palazzo Patrizi, 1972), La Diana, Siena 1972.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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114 60. Guido Crepax, La morte di Pinelli, 1972, guazzo (fotografia in Testimonianza per Pinelli, catalogo della mostra (Siena, Palazzo Patrizi, 1972), La Diana, Siena 1972, p. 65 (courtesy Archivio Crepax). 61. Elio Petri, Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, in Documenti per Giuseppe Pinelli, 1970, fotogramma dal film (courtesy AAMOD Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico).

«sessanta quadri esposti»10. Licia Pinelli si diceva contenta di sapere che la mostra avrebbe aperto, avendo temuto che potesse non accadere, «com’è successo appunto a Milano, per il grande quadro di Enrico Baj»11, chiosava il cronista. Il catalogo è la testimonianza più significativa rimastaci. I testi introduttivi collocavano la mostra in una dimensione di impegno politico e sociale: «Non solo per essere uomini è necessario essere partigiani, prendere parte: anche per compiere quella forma di lavoro che si è soliti chiamare arte è necessario essere partigiani»12. Delle sessanta opere citate da «l’Unità», quarantotto sono riprodotte in catalogo. Se è indubbio il merito civile e morale della partecipazione alla mostra, non tutte le opere avevano un alto valore artistico. Molte di queste si attenevano a una serie di cliché consolidati, sicuramente utili per la maggiore commerciabilità: la finestra e un uomo in caduta (Ennio Calabria, Giuseppe Ciani e Pietro Tredici); una rosa calpestata da uno

10 11 12

Carlo Fini, Testimonianza per Pinelli, «l’Unità», 22 luglio 1972, p. 3. Ibidem. Testimonianza per Pinelli cit., s. p.

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IL SIMBOLO DI UN’EPOCA

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stivale militare (Gismondi) o una colomba abbattuta (Tinazzi). Artisti come Caruso, D’Agostino e Volo trassero spunto per le loro opere dalle fotografie della cronaca del caso Pinelli che affollavano i giornali. Guido Crepax presentò un guazzo datato 8 maggio 1972 intitolato La morte di Pinelli. In una stanza vi sono tre gruppi di personaggi: in basso a sinistra c’è Pinelli, prono, appena precipitato dalla finestra; sul viso scorciato si riconosce il caratteristico pizzetto nero e ai piedi porta entrambe le scarpe. Addossati alla parete di fondo un capannello di quattro persone intente a parlare ricorda i quattro attori-poliziotti di Documenti per Giuseppe Pinelli nel momento in cui recitano una delle dichiarazioni rilasciate dopo la caduta dell’anarchico (figg. 60-61). Alcuni artisti presentarono lavori non legati direttamente alla figura di Pinelli, come Baratella o Vespignani, il quale dedicò il suo lavoro alla morte di Feltrinelli, occorsa nel marzo 1972; Dubbi ufficiali, certezze morali esprimeva la discussa morte dell’editore raffigurando un doppio volto di Feltrinelli: in basso quello riconoscibile dell’uomo, in alto quello camuffato tratto dalla carta d’identità fasulla con cui l’editore venne ritrovato sotto il traliccio dell’alta tensione. Al centro vi era

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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il segno lasciato da un’esplosione e una svastica, con uno dei bracci trasformato in punto interrogativo. Spicca nel catalogo la fotografia dei Funerali dell’anarchico Pinelli, decisamente fuori misura rispetto allo standard dell’esposizione, tanto che per la sua riproduzione vi sono riservate due pagine ripiegate. Viene presentato come lavoro separato anche il pannello della finestra con il titolo La finestra sul cortile. La fotografia dell’opera è tratta dal catalogo di Palazzo Reale, nell’ambientazione della Sala delle Cariatidi e c’è da domandarsi se effettivamente Baj abbia partecipato alla mostra di Siena. Dopo la rabbia per la mancata apertura, i risentimenti, i numerosi articoli usciti sui quotidiani e riviste è incredibile come nessuno, nemmeno l’artista, abbia fatto riferimento a Testimonianza per Pinelli come prima occasione per il pubblico di vedere I funerali dell’anarchico Pinelli. La partecipazione alla mostra, inoltre, non verrà citata da Baj nei cataloghi successivi, né sulla ristampa anastatica del catalogo di Palazzo Reale13. Un ricordo di Andrea Rauch, uno degli organizzatori della mostra di Siena, conferma che la grande opera di Baj non venne presentata a Testimonianza per Pinelli: al suo posto furono esposti disegni e acqueforti dell’artista, ma si decise ugualmente di inserire la fotografia dei Funerali dell’anarchico Pinelli per dare rilievo al catalogo della mostra14. Nell’ottobre 1972 anche Milano ospitò Testimonianza per Pinelli, avendo la mostra un «carattere di mobilità»15. Ne fece annuncio «L’Avanti!», pubblicando insieme all’articolo una riproduzione de Il bersaglio di D’Agostino. L’inaugurazione, a cui fu presente anche Licia Pinelli, fu accompagnata da un dibattito a cui parteciparono alcuni politici. La scelta di aprire la mostra a Milano escludeva «ogni tono rievocativo, di “commemorazione” di Pinelli martire»16 per affrontare, con forza e con basi molto più solide rispetto agli anni precedenti, la questione della «strage di Stato». 13

Baj, un quadro cit., p. 30. Conversazione con Andrea Rauch, 25 maggio 2020. 15 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1 «Pinelli fino anni 90», lettera di Roberto Barzanti a Enrico Baj, 18 aprile 1972. 16 Riccardo Calzeroni, Pinelli «rivive» in una mostra per rivendicare tutta la verità, «L’Avanti!», 22 ottobre 1972, p. 4. 14

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IL SIMBOLO DI UN’EPOCA

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Tra rivolta e rivoluzione Nel corso del 1972, Giuseppe Pinelli diventò argomento non solo di discussione fra i movimenti più politicizzati, ma anche in ambienti letterari meno schierati, come nel romanzo di Carlo Castellaneta mandato alle stampe per l’estate, La Paloma, il cui protagonista era proprio il ferroviere anarchico. La Paloma narrava la storia di Pinelli, chiamato qui Pietro, dal punto di vista della moglie. «L’Avanti!» lo definiva un progetto che aveva «l’intento di fornire il ritratto “globale” di una personalità passata di colpo dall’anonimato alla statica notorietà del monumento»17. Tra il 25 novembre 1972 e il 14 gennaio 1973 si tenne a Bologna la mostra Tra rivolta e rivoluzione. Immagine e progetto. Curata dal critico Franco Solmi e dall’artista Concetto Pozzati, non si offriva come un’esposizione tradizionale, aveva piuttosto un carattere interdisciplinare, presentando esperienze eterogenee, quali la pittura, il cinema, la musica, che mantenevano tuttavia un filo comune, la forte politicizzazione nel loro contenuto18. Per questo motivo Solmi volle esporre I funerali dell’anarchico Pinelli e nell’estate 1972 ne fece richiesta a Giorgio Marconi. In un primo momento quest’ultimo sembrò rifiutarne la concessione poiché spaventato dalle difficoltà espositive e dalle possibili reazioni pubbliche19. Solmi rassicurò il gallerista dicendo che «la città intera sarebbe pronta, in ogni caso, a difendere il lavoro di un artista impegnato»20 e che l’esposizione a Bologna «intendeva proprio dar modo qualificato di presentazione al pubblico del “Pinelli”»21. Alla lettera inviata a Baj in copia, Solmi aggiungeva alcune righe, augurandosi che l’intervento di Baj potesse far cambiare idea a Marconi, poiché la notizia che il Pinelli sarebbe stato esposto era già circolata e ritrattare «sembrerebbe un atteggiamento “poli17 Stefano Giovanardi, Un romanzo su Pinelli, «l’Avanti! - Supplemento della domenica», 14 maggio 1972, s.p. 18 Per questa e altre informazioni si rimanda a Fabio Belloni, Militanza artistica in Italia 1968-1972 cit., pp. 126-138. 19 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.15, «Corrispondenza Italia», lettera dattiloscritta (con aggiunta manoscritta) di Franco Solmi a Giorgio Marconi (copia destinata a Enrico Baj), 1 luglio 1972. 20 Ibidem. 21 Ibidem.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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tico” incomprensibile»22. Marconi infine concesse l’opera, con i ringraziamenti di Solmi che prometteva di curare «in modo particolare l’allestimento» perché fondamentale «per la corretta lettura dell’opera»23. Baj si premurò di scrivere a Solmi per indicargli quali fossero i testi da inserire nel catalogo, fra cui «un lungo testo critico di Alain Jouffroy, molto violento e polemico»24. Il catalogo della mostra, infatti, si presentava come un volume corposo, in cui ampio spazio era dedicato alle immagini e ai testi. Anche Herbert Lust scrisse un testo sui Funerali dell’anarchico Pinelli, di cui Baj nel settembre 1972 si disse pienamente soddisfatto, a dispetto dell’opera che, fino a quel momento, gli aveva procurato solo dei problemi25. A quella data era certamente il testo critico più lungo e significativo dedicato all’opera e Lust non rinunciava a toni violenti e drammatici per descrivere la vicenda Pinelli e generosamente lusinghieri per l’opera di Baj. La scelta del soggetto era descritta con toni sentimentali: «In Pinelli the artist is so paralysed by this gross injustice that he can just picture it, leaving him speechless, mindless. […] The real subject then in Pinelli is that eternal conflict between good and evil, that struggle between the beast and angel inherent in Human Nature. Pinelli is a crucifixion without God»26. Non solo Baj, ma anche sua moglie si rivelò entusiasta del testo scritto da Lust: Roberta was especially shocked by your idea of considering the Pinelli painting like a crucifixion without God. In fact in another way Pinelli is reminding a crucifixion: as there is just a opposite scheme of the composition. In the traditional crucifixion the scheme is ascending toward heaven, in the Pinelli the scheme is descending and giving an idea of a fall (of our civilization together with Pinelli)27.

22

Ibidem. Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.15, «Corrispondenza Italia», lettera dattiloscritta di Franco Solmi a Giorgio Marconi, 12 luglio 1972. 24 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.15, «Corrispondenza Italia», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Franco Solmi, 27 luglio 1972. 25 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.24 «Usa sino al 1975», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Herbert Lust, 5 settembre 1972. 26 Ibidem. 27 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.12, «Usa sino al 1975», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Herbert Lust, 7 settembre 1972. 23

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IL SIMBOLO DI UN’EPOCA

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Il catalogo della mostra bolognese lasciava ampio spazio all’opera di Baj e alle vicende della chiusura della mostra con un tono diretto, polemico e drammatico insieme. Questo linguaggio si allineava con il chiaro carattere politico dell’esposizione e ridimensionava l’opera di Baj come fortemente politicizzata e militante: «Pinelli muore senza riprendere conoscenza lasciando la moglie Licia e le figlie Claudia e Silvia. Il Dr Luigi Calabresi viene promosso Commissario Capo. Baj dipinge un quadro»28. Il commissario era apertamente criticato: «Al momento della morte pendeva a carico di Calabresi presso il Tribunale di Milano un procedimento per omicidio colposo di Pinelli. Inoltre, sempre presso il Tribunale, Calabresi era indiziato di altri reati. Alla TV il Ministro degli Affari Interni, Mariano Rumor, dichiara, lo stesso 17 maggio, che Luigi Calabresi era un funzionario esemplare»29. Seguiva il testo di Herbert Lust, rielaborato rispetto alla prima stesura e tradotto in lingua italiana. Il titolo, I funerali dell’anarchico Pinelli. Una crocifissione senza Dio, sviluppava l’intuizione approvata da Baj, utilizzandola come metafora per tutto lo svolgimento del testo: Molti poliziotti usano il loro potere per realizzare i sogni di potere propri di tutti gli uomini. E quale più grande sogno di potere ci può essere che quello di distruggere l’opposizione anche se ciò significhi uccidere Dio stesso? […] Tre anni fa, la polizia italiana, agendo per conto di tutti gli uomini di oggi, replicò la Crocifissione. […] Per me questo «Funerale dell’Anarchico Pinelli» è la nostra prima moderna Crocifissione senza Dio. […] Nella crocifissione tradizionale Cristo è innalzato verso il cielo e la sua famiglia è dolente e i soldati minacciano. […] La tragedia così innalza la speranza, perché Dio e l’eternità accoglieranno l’eroica vittima. La vittima ci offre speranza, poiché essendo il figlio di Dio, redime i nostri peccati. […] Il quadro di Pinelli contraddice tutto questo. La sua composizione scende verso il vuoto, indicando una caduta generale. E il suo contenuto è mille volte più tremendo che la scena cristiana. Perché non offre nessuna speranza. […] Per me il più 28 [Enrico Baj], I fatti, in I funerali dell’anarchico Pinelli. Enrico Baj, Ente Bolognese Manifestazioni Artistiche (a cura di), Tra rivolta e rivoluzione. Immagine e progetto, catalogo della mostra (Bologna 1972-1973), Grafis edizioni d’arte, Bologna 1972, p. 46. 29 Ente Bolognese Manifestazioni Artistiche (a cura di), Tra rivolta e rivoluzione. Immagine e progetto, catalogo della mostra (Bologna 1972-1973), Grafis edizioni d’arte, Bologna 1972, p. 146.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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profondo significato del quadro «Pinelli» è l’estremo segno che l’era cristiana è morta30.

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Nel catalogo era stato dunque omesso il testo di Alain Jouffroy31 intitolato «I funerali dell’anarchico Pinelli» vietati a Milano: La scena rappresentata […] è senz’altro questa che, oggi, può far riflettere di più sul senso e la funzione dell’arte nella nostra società. Non penso che si sia trattato, per Baj, di una semplice constatazione […] ma di una protesta violenta, nata da una pura e semplice rivolta della sua sensibilità davanti ad un atto di ingiustizia. […]Baj afferma una continuità di lotta che si sviluppa, all’insaputa degli speculatori, in seno a tutte le contraddizioni sociali in cui i pittori operano. […] Baj ha il diritto di guadagnare quanto vuole, e di farne quello che vuole. Egli ha inoltre il diritto di dipingere per protestare contro ignobili assassinii. […] i pittori e gli scrittori debbono organizzarsi su un piano internazionale per resistere al neo-fascismo, e contribuire ad abbatterlo definitivamente, prima che sia troppo tardi. Niente contrattacco: attacchiamo per primi, dappertutto ove sia necessario32.

A mostra aperta I funerali di Togliatti di Guttuso stavano per terminare la loro esposizione a Mosca33. Solmi e Pozzati dibatterono a lungo sulla possibile presenza della tela a Tra rivolta e rivoluzione, con esito negativo34. Sarebbe stato senz’altro seducente il confronto nello stesso luogo di due opere dedicate a esequie funebri realizzate quasi in parallelo, ma gli organizzatori preferirono mostrare solo l’opera di Baj: «piuttosto che celebrazione e continuità» riscontrabili in Guttuso, 30

Ivi, pp. 150-152. Presso la Biblioteca d’Arte di Torino alla collocazione 81.BOL.1972 è presente un fascicolo di carte sciolte allegato al catalogo della mostra Tra rivolta e rivoluzione. Qui è presente il testo di Alain Jouffroy «I funerali dell’anarchico Pinelli» vietati a Milano. 32 Alain Jouffroy, «I funerali dell’anarchico Pinelli» vietati a Milano, carte sciolte presso la Biblioteca d’Arte di Torino, 81.BOL.1972, pp. 2-3. 33 Per una lettura dell’opera si rimanda a Fabio Belloni, L’ultimo quadro di storia, in Pier Giovanni Castagnoli (a cura di), Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ’68, catalogo della mostra (Torino, GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2018) Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2018, pp. 42-63. 34 Fabio Belloni, Militanza artistica in Italia 1968-1972 cit., p. 128. 31

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IL SIMBOLO DI UN’EPOCA

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«si cercò una tempestiva, quasi cronachistica registrazione dei “fatti d’arte” impegnati nella denuncia politica»35. Benché le due opere fossero state presentate in contesti istituzionali, ebbero opposta accoglienza: l’opera di Guttuso, dopo un iter espositivo in Europa, nei territori dell’Unione Sovietica e in Italia fino alla Biennale di Venezia del 197536, trovò la sua collocazione permanente a Bologna, accolta dal Comune dopo la donazione al Partito37. I funerali dell’anarchico Pinelli rimase un unicum nel lavoro dell’artista, legato indissolubilmente alla vicenda Pinelli e alla sua sfortuna espositiva in Italia e non trova ad oggi una collocazione permanente. Andrea Rauch, uno degli organizzatori di Testimonianza per Pinelli, ha ricordato che Baj propose di donare I funerali dell’anarchico Pinelli al Comune di Siena, ma la giunta di sinistra la rifiutò38. Durante l’allestimento a Palazzo Reale a Milano l’opera fu vista dalle figlie di Pinelli. In un ricordo, Silvia racconta: «Il giorno prima della morte del commissario Calabresi era venuta a prenderci la moglie di Carlo Smuraglia, Chicca Domeneghetti, e ci aveva accompagnato […] a Palazzo Reale […]. Baj avrebbe voluto fotografarci accanto alla sua opera. Chicca giustamente non volle»39. A Bologna partecipò invece Licia Pinelli, accompagnata da Baj e dalla moglie Roberta: quest’ultima ricorda come Baj si rivelò fortemente insoddisfatto dell’allestimento, tanto da abbandonare l’esposizione durante l’inaugurazione40. Una lettera del 31 dicembre 1972 indirizzata a Herbert Lust rivela un Baj stanco e sconfortato dall’anno appena trascorso: «Is just the last day of the year and I am very happy that will be finish in a few hours. It wasn’t an happy year: robberys [sic],

35 Sara Catenacci, Documenti d’arte impegnata: Tra rivolta e rivoluzione: immagine e progetto, Bologna, 1972-1973, in Francesca Gallo, Alessandro Simonicca (a cura di), Effimero. Il dispositivo espositivo tra arte e antropologia, CISU, Roma 2016, p. 167. 36 Ivi, p. 56. 37 Ivi, p. 51. 38 Produrre memoria 1968/2018: Manifesti, libri, illustrazioni, teatro: 50 anni con la grafica di Andrea Rauch cit., p. 20. 39 Paolo Brogi, Pinelli cit., pp. 78-79. 40 Conversazione con Roberta Cerini Baj, 12 aprile 2021.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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fire, censure on Pinelli and many other fights made me tired enough»41. Proseguiva con alcune impressioni sulla mostra di Bologna, per la quale elargì solamente critiche, a partire dalla sala in cui l’opera fu esposta, giudicata troppo piccola e dalle decorazioni ingombranti: One of the last deception was the show in Bologna, where the painting was badly on exhibit: the room (which was promised enormous) too small and already too full of baroc [sic] decorations, no good lighting, enormous confusion in all the other departments of the show (in spite of a fashinating [sic] title: Between revolt and revolution). The catalogue is the same: an heavy book style «culture by weight». Deception was deeper through the catalogue as I was contributing to the show giving free for sale to the town of Bologna around 50 etchings in the Pinelli subject: and they promised me to print in the catalogue the text of Jouffroy in italian and your text both in italian and english [sic]. Finally: the etching disappeared (probably in the “collections” of the organisaterus), the text of Jouffroy disapeared [sic] too, and yours was printed only in Italian: perfect Italian style of “cultural revolution”!!! Catalogue is so heavy that I will send just a copy by mail and then you will see42.

Dopo la mostra di Bologna, I funerali dell’anarchico Pinelli ebbe una discreta fortuna espositiva all’estero, in nord Europa. A partire dai primi mesi del 1973 e fino al 1975 fu esposta a Rotterdam, Stoccolma, Düsseldorf, Ginevra e Anversa43. Nel 1977 Baj ricevette dalla Svezia anche la richiesta di alcuni giovani studenti del Marionetteatern44 di fare una «creazione drammatizzata»45 della vicenda Pinelli, a cui l’artista aderì con 41 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.12, «Usa sino al 1975», lettera dattiloscritta di Enrico Baj a Herbert Lust, 31 dicembre 1972. 42 Ibidem. 43 Enrico Baj: de begrafenis van de anarchist Pinelli, Museum Boymans-van Beuningen, Rotterdam 16 maart-29 april 1973; Affären Pinelli en målning av Enrico Baj: Moderna Museet, Stoccolma, 12 maj-17 juni 1973; Monumente: Eine fast zufällige Ausstellung von Denkmälern in der zeitgenössischen Kunst: 26. Juni12. August 1973; Baj: oeuvre gravé, donation de l’artiste, Cabinet des Estampes, Genève: Les funérailles de l’anarchiste Pinelli, Musée d’Art et d’Histoire, Genève, 18 octobre-24 novembre 1974. 44 Enrico Baj, Automitobiografia cit., p. 85. 45 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.2.1.21, «Svezia», lettera dattiloscritta di studenti svedesi del Marionetteatern di Stoccolma a Enrico Baj, 25 maggio 1977.

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IL SIMBOLO DI UN’EPOCA

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grande entusiasmo. Solo nel 2012 I funerali dell’anarchico Pinelli fu esposta nella cornice originaria, la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano46.

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12 dicembre Il 13 maggio 1972 il Ministero del Turismo e dello Spettacolo rilasciò il nulla osta per la circolazione di 12 dicembre47, film di Pier Paolo Pasolini in collaborazione con i giovani militanti di Lotta Continua. L’idea nacque tempo prima: se ne ha notizia su «l’Unità» nel dicembre 1970, mese dell’inizio delle riprese. Il quotidiano si mostrava scettico nei confronti del progetto, nonostante questo intendesse tracciare «un quadro quanto più veritiero della realtà italiana d’oggi»48. Il titolo originario del lavoro, Attacco al potere49, trovò il nome definitivo solo nel dicembre 197150, ma l’intenzione di partire dalle bombe di piazza Fontana per tracciare un resoconto più ampio della società italiana non mutò. Il film, però, non avrebbe compreso solamente gli episodi più politicizzati di quegli anni, ma si sarebbe concentrato anche su quelli di cronaca nera, come il caso Lavorini e il caso Casati Stampa51, sintomatici del clima violento che si stava diffondendo in Italia. «l’Unità» temeva che queste inclusioni potessero trasformare un film d’intento politico in uno «di costume»52. Le bombe di piazza Fontana turbarono Pasolini, che all’indomani della strage scrisse la straziante poesia Patmos. Ciò che più sorprende non è la scelta delle tematiche, quindi, quanto di 46

Baj, un quadro cit. Roberto Chiesi, Pasolini e il viaggio nel presente di 12 dicembre (1972), «Studi Pasoliniani», 9, 2015, p. 19. 48 Sauro Borelli, Pasolini alla ricerca della verità perduta?, «l’Unità», 20 dicembre 1970, p. 7. 49 Le bombe secondo Pasolini, in Walter Siti, Franco Zabagli (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, «I meridiani», Mondadori, Milano 2001, vol. II, p. 2987. 50 Roberto Chiesi, Pasolini e il viaggio nel presente di 12 dicembre (1972) cit., p. 18. 51 Ivi, p. 17. 52 Sauro Borelli, Pasolini alla ricerca della verità perduta? cit., p. 7. 47

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avvalersi della collaborazione dei militanti di Lotta Continua: Pasolini non lavorò mai collettivamente e questa fu la prima e unica volta che ciò avvenne53. La scelta di condivisione del progetto è da ricercarsi nella sincera speranza che il regista riponeva nei giovani militanti, ancora fiduciosi nella lotta di classe54, spinti dalla «passione» e dal «sentimento»55. Alcuni ritennero che fu un modo per Pasolini di smacchiarsi dalle accuse reazionarie che gli furono mosse all’indomani del suo Il Pci ai giovani comparso sulle colonne de «L’Espresso», dove, come è noto, dopo gli scontri di Valle Giulia il regista si schierò con i poliziotti56. Pasolini dichiarò di aver girato «un 60 per cento»57 del materiale e di averne iniziato il lavoro in moviola al termine delle riprese, nel giugno 197158, ma poco dopo lasciò il montaggio in mano a Maurizio Ponzi59, dovendo recarsi in Inghilterra per I racconti di Canterbury. Presentato a Roma nel febbraio 1972, recensito a fine aprile da Alberto Moravia, in Italia il film ebbe scarsa distribuzione, quasi esclusivamente nei Circoli di Ottobre affiliati a Lotta Continua60. Praticamente dimenticata fu la presentazione al XXII Festival di Berlino fra giugno e luglio 1972 insieme a I racconti di Canterbury. Il risultato del film, infatti, si rivelò un ibrido che non soddisfece né Pasolini né i giovani di Lotta Continua. Il primo aveva infine scartato gli episodi cronachistici per soffermarsi unicamente sul racconto dell’Italia da nord a sud; Lotta Continua si accorse di come il paventato documentario militante portasse con sé in maniera troppo evidente il timbro pasoliniano. Benché il regista 53

Roberto Chiesi, Pasolini e il viaggio nel presente di 12 dicembre (1972) cit.,

p. 11. 54

Ivi, p. 15. Nico Naldini, Cronologia, in Walter Siti, Franco Zabagli (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Per il cinema cit., p. CVII. 56 Pier Paolo Pasolini, Il Pci ai giovani, «L’Espresso», 16 giugno 1968, p. 13. 57 Bettina Gamba, Un pomeriggio con Pasolini, Itaca, Castel Bolognese 2005, p. 20. 58 Roberto Chiesi, Pasolini e il viaggio nel presente di 12 dicembre (1972) cit., p. 15. 59 Ivi, p. 18. 60 Ivi, pp. 18-19. 55

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IL SIMBOLO DI UN’EPOCA

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dichiarasse nel 1972 che «Da una parte ho messo quella che è la realtà, dall’altra ho fatto dire le loro idee a questi di Lotta Continua»61, la critica riconobbe in 12 dicembre «un film d’”autore”», dove «Lotta Continua c’entra, ma vi si infila a gomitate e ad agitare la manina come fanno taluni davanti alle telecamere»62. Lo si capiva, secondo Italo Moscati, «dal taglio delle immagini e dal montaggio che tende ad assicurare […] l’impegno di non precipitare nella convenzione tipica di lavori del genere (il linguaggio trionfalistico e arrogante)»63. L’incipit del film sorprende per l’assenza del nome di Pasolini come regista, sostituito da quello di Giovanni Bonfanti, un dirigente militante di Lotta Continua. Pasolini scelse di dichiarare il film come una sua «idea»64, dopo una consulenza con i propri avvocati, che temevano il rischio di denunce65. Pasolini accettò benché si mostrasse sprezzante verso il pericolo: «Se finirò in prigione, avrò modo di leggere tutti i libri che altrimenti non sarei mai riuscito a leggere»66. Il documentario è un insieme di sequenze che racconta l’Italia di quegli anni: da Milano alle cave di marmo a Carrara, dai disoccupati di Napoli agli immigrati siciliani a Torino, per arrivare poi agli scontri di Reggio Calabria. Gli episodi sono introdotti dalla strage di piazza Fontana e dalla morte di Pinelli, due eventi uniti in un unico, drammatico episodio, prologo dei fatti successivi. La scelta di trattare la vicenda Pinelli è verosimilmente di Pasolini stesso, che curò personalmente le riprese a Milano, al cimitero di Musocco; nel 1970 la rivista «ABC» aveva dato notizia del film definendolo addirittura Un film-documento su Pinelli67. La pellicola si apre con un lungo corteo di manifestanti e la scritta in sovrimpressione colloca temporalmente l’episodio: «Mi-

61

Ivi, p. 12. Italo Moscati, Il “tallone di ferro” sulle lotte dei proletari, «Cineforum», marzo 1972, p. 16. 63 Ivi, p. 17. 64 Giovanni Bonfanti, Pier Paolo Pasolini, 12 dicembre, disponibile online (https://www.youtube.com /watch?v=zXsri6amiMI). 65 Bettina Gamba, Un pomeriggio con Pasolini cit., p. 20. 66 Ibidem. 67 Archivio Licia Rognini Pinelli, Un film-documento su Pinelli, «ABC», 1 gennaio 1971, ritaglio stampa. 62

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lano: 12 dicembre 1970. A un anno dalla strage di Piazza Fontana». Alcuni passanti sono intervistati a proposito delle bombe: «secondo lei chi è stato?», «lei avrebbe qualcosa da dirmi riguardo la strage della Banca dell’Agricoltura?», ma questi scuotono la testa abbassando lo sguardo a terra. Viene narrata la vicenda del tassista Cornelio Rolandi, che, sospettando di aver portato alla Banca dell’Agricoltura l’esecutore della strage, aveva avvisato la polizia, facendo scattare il fulmineo arresto di Valpreda. Breve è la testimonianza video di Rolandi: il tassista aveva deciso di non rilasciare più dichiarazioni dopo la sovraesposizione mediatica che gli aveva causato la perdita del lavoro e l’allontanamento dei suoi conoscenti. Rolandi era morto il 16 luglio 1971, come riporta la scritta in sovraimpressione: «Dopo il 12 dicembre 1969 sono già morte 8 persone, tutte implicate nella strage»68. Si passa dunque alla sequenza girata all’interno del cimitero di Musocco a Milano. In un primo momento uno spezzone mostrava Pasolini intento a filmare la tomba di Pinelli e il volto di Licia, ma egli volle categoricamente che questa sequenza fosse eliminata dal film, poiché riteneva che non dovesse rivelarsi la presenza degli autori69. La scena si apre su un capannello di persone che si stringe intorno alla tomba di Pinelli. Licia ha lo sguardo rivolto in basso, lo stesso dignitoso atteggiamento che fu immortalato il giorno dei funerali del marito. Inizia la sua intervista, filmata lo stesso giorno della scena al cimitero, come ricorderà lei stessa: Era il primo anniversario di Pino […]. Pasolini […] parlava poco, faceva domande, ma non ricordo molto anche se siamo stati insieme tutta la giornata: al mattino da me, poi al cimitero a filmare la tomba […]. Alla fine mi ha detto: «Se ha bisogno di qualunque cosa si rivolga a me in qualsiasi momento». Mi hanno detto poi che per lui era una cosa un po’ eccezionale70.

La donna, con lucidità e rigore, racconta gli ultimi momenti di vita del marito, le chiamate ricevute da Calabresi, fino all’ar68

Giovanni Bonfanti, Pier Paolo Pasolini, 12 dicembre, lungometraggio. 80 mila metri di pellicola, in Adriano Sofri (a cura di), Il malore attivo dell’anarchico Pinelli, Sellerio, Palermo 1996, p. 99. 70 Piero Scaramucci, Licia Pinelli cit., p. 125. 69

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IL SIMBOLO DI UN’EPOCA

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rivo dei giornalisti che le annunciarono la morte del marito. A fianco di Licia c’è Rosa Malacarne, madre di Pinelli: anche lei parla della notte in cui il figlio morì, con una obiettività, una chiarezza e coerenza nel linguaggio inaspettati. La madre evoca il momento in cui giunse in ospedale, dove vide il figlio morto: «lo ricordo benissimo in quel minuto e non vorrei più riviverlo» e nel pronunciare queste parole cede alle lacrime, che nasconde dietro una mano. Questa sezione narrata è un documento preziosissimo per la testimonianza fornita dalle persone direttamente collegate a Pinelli. Si pensi alla brevissima sequenza dedicata al tassista Rolandi: sapere che egli morì pochi mesi dopo le riprese rende la sua presenza ancora più drammatica. Sebbene il film giungesse con ritardo nel dibattito intorno alla morte di Pinelli, le immagini di Pasolini non fanno che fortificare il sentimento collettivo sul dramma della morte. Il rilievo dato alla vicenda è infatti maggiore dello spazio lasciato al racconto della strage di piazza Fontana. Licia Pinelli era già comparsa in Documenti per Giuseppe Pinelli, ma qui la sua immagine si cristallizza in una dimensione senza tempo, dove la validità delle sue posizioni è immutata, così come la sua immagine di vedova che lotta per conoscere la verità sul marito. Per Pasolini la strage di piazza Fontana fu uno spartiacque nella storia italiana, «l’avvenimento più grave degli ultimi anni. È stato il momento in cui, più di tutti, siamo andati vicini alla perdita della democrazia formale, in Italia»71.

71 Le bombe secondo Pasolini, in Walter Siti, Franco Zabagli (a cura di), Pier Paolo Pasolini cit., p. 2988.

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1973-1975 Sentenze ufficiali, incertezze morali

La morte di Pinelli era stata ormai trattata, discussa e rappresentata così a lungo da essere facilmente fagocitata dalla satira dell’epoca. Si prendano come esempio due fumetti che trattarono la vicenda sulla scia delle vignette di «Lotta Continua». Il primo è La guerra della Cocca-Cocca di Enzo Lunari, comparso a puntate su «Linus» tra il 1973 e il 1974. Ambientata in un medioevo fantastico, la vicenda vede contrapporsi i cittadini di Milano e quelli di Buscatesù per la riacquisizione in commercio della bevanda «Cocca-Cocca». Una notte due uomini entrano di nascosto nel municipio di Milano e rubano tutti i timbri dagli uffici, rendendo impossibile per i dipendenti varare qualsiasi tipo di decisione. Il giorno seguente una guardia municipale rivela i suoi sospetti al Podestà di Milano: «è successo che il terrore rosso si è scatenato di nuovo!»1. Il Podestà tenta di far ragionare l’uomo: «Capitano! Quante volte le debbo dire che il terrore rosso va bene di giorno per spauracchiare i gonzi ma che non deve servirle a tirarmi giù dal letto di notte?»2. Uno degli impiegati resta bloccato con la pratica relativa a «Pinello»: Tale Pinello, anarchico, fermato per accertamenti in merito all’attentato di questa notte, mentre passeggiava nel chiostro della questura conversando amabilmente col commissario, scivolava accidentalmente su una buccia di banana. Nella caduta l’anarchico si procurava la frattura di tre costole, la lussazione della spalla destra, bruciature alle piante dei piedi, oltre a diverse ecchimosi nella regione zigomatica e frontale e ferite lacero-contuse al cuoio capelluto per cui decedeva all’istante ... richiesta urgentissima del permesso di inumazione3.

1 2 3

Enzo Lunari, La guerra della Cocca-Cocca, «Linus», dicembre 1973, p. 121. Ibidem. Ivi, p. 122.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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62. Alfredo Chiappori, Vado l’arresto e torno, Feltrinelli, Milano 1973, p. 11.

La satira presenta gran parte degli elementi della vicenda Pinelli trattati finora, dal rapporto personale dell’anarchico con il commissario Calabresi all’uso di una terminologia che ricordava quella delle perizie mediche. Non è casuale nemmeno il termine «accidentale», così come il riferimento alla veloce inumazione del cadavere, in antitesi all’esumazione fortemente richiesta da Licia Pinelli. Anche Vado, l’arresto e torno di Alfredo Chiàppori4 descrive le false accuse nei confronti degli anarchici. Il disegnatore di Up il sovversivo presenta nelle strisce di apertura un uomo con una bombetta e un mantello che agitandosi esclama: «Sono stati gli anarchici! / ...quei pazzi sanguinari! / Gli anarchici! Sono stati loro!!», gli risponde un anziano signore seduto alla scrivania: «Si calmi, si calmi, le bombe non sono ancora scoppiate!»5. In un’altra sequenza il protagonista è Pinelli. Lo si deduce dall’iconografia adottata, un uomo che con le braccia tese sta precipitando verso il bordo inferiore della pagina. Chiàppori spezza le strisce del fumetto al passaggio della figura, enfatizzandone la caduta. In alto vi sono cinque uomini: uno non ha ancora abbassato le braccia dopo aver spinto «Pinelli». Un altro si rivolge agli altri generali dicendo loro «è la fine dell’anarchia!»6, la frase fatta pronunciare a Pinelli poco prima della sua caduta (fig. 62). 4 5 6

Alfredo Chiappori, Vado, l’arresto e torno, Feltrinelli, Milano 1973. Ivi, p. 7. Ivi, p. 11.

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SENTENZE UFFICIALI , INCERTEZZE MORALI

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Nel 1975 uscì la storia a fumetti Un fascio di bombe. In un racconto a fumetti la strategia della tensione 7, scritta da Alfredo Castelli e Mario Gomboli e illustrata da Milo Manara. Fu pubblicata per volontà del PSI e distribuita durante il periodo elettorale8. Si volevano raccontare la strage di Piazza Fontana e i suoi strascichi nell’ottica di evidenziare l’ormai accertato coinvolgimento di cellule neofasciste. Immancabile è Pinelli, al quale viene dedicata una pagina intera: la sua vicenda è la prima conseguenza della bomba e il primo tentativo di depistare le indagini verso gli ambienti di sinistra. Le immagini utilizzate per questi disegni e per quelli dedicati a Valpreda e Rolandi, ricalcano fotografie uscite sui giornali dell’epoca, immagini a cui i lettori erano ormai abituati (fig. 63). Manara recupera una delle tante fotografie del cortile interno della questura9 (fig. 64), aggiungendo la figura di Pinelli che sta cadendo a terra. Il questore Guida è raffigurato intento a rilasciare la dichiarazione subito dopo la morte dell’anarchico «...si è ucciso quando ha visto che la legge l’aveva preso...». C’è quindi un riferimento alle scritte sui muri di Milano, con l’ormai celebre sentenza «Pinelli è stato suicidato» e infine la figura di Pinelli steso a terra. Per composizione e idea il disegno sembra richiamare quello che Guido Crepax aveva presentato alla mostra Testimonianza per Pinelli e ricorda anche una foto scattata durante il sopralluogo dell’ottobre 197110 in cui un poliziotto simulò la posizione assunta a terra dal corpo di Pinelli (fig. 65). In primo piano Manara colloca una scarpa destra, ormai divenuta il simbolo dell’innocenza dell’anarchico. Il 27 ottobre 1975 si chiuse il processo che aveva come imputati Calabresi, Allegra e gli ufficiali di polizia. Durante la sentenza, il giudice incaricato Gerardo D’Ambrosio ripercorse la vicenda analizzando e chiarendo i punti più controversi: il 7 Alfredo Castelli, Mario Gomboli, disegni di Milo Manara, Un fascio di bombe. In un racconto a fumetti la strategia della tensione, s.e., 1975. 8 Alfredo Castelli, Mario Gomboli, disegni di Milo Manara, Un fascio di bombe. In un racconto a fumetti la strategia della tensione, Q Press, Torino 2010, p. 2. 9 Il disegno sembra rifarsi alla fotografia comparsa in Le ultime ore di Pinelli, «l’Unità», 10 gennaio 1970, p. 9. 10 Le fotografie compaiono in Pinelli: sopralluogo in questura, «Corriere di Informazione», 23-24 ottobre 1971, p. 1.

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63. Alfredo Castelli, Mario Gomboli, disegni di Milo Manara, Un fascio di bombe. In un racconto a fumetti la strategia della tensione, s.e., 1975, p. 38. 64. Le ultime ore di Pinelli, «l’Unità», 10 gennaio 1970, p. 43. 65. Pinelli: sopralluogo in questura, «Corriere di Informazione», 23-24 ottobre 1971, p. 1.

commissario Calabresi non si trovava nel suo ufficio al momento della caduta di Pinelli, l’ambulanza venne chiamata subito dopo la caduta dell’uomo, il segno sulla schiena del cadavere non era dovuto al colpo di karatè ma era la traccia procurata dal prolungato appoggio del cadavere sul lettino dell’obitorio.

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1973 .

SENTENZE UFFICIALI , INCERTEZZE MORALI

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Per la morte di Pinelli prevalse l’idea dello «slancio attivo»11: l’uomo, dopo tre giorni di interrogatori, un’alimentazione e un riposo insufficienti sarebbe stato colto da un crollo, ma non un «collasso […] che si manifesta con la lipotimia, risoluzione del tono muscolare e piegamento degli arti inferiori»12, bensì un malore che provocò «l’alterazione del “centro di equilibrio”», per cui Pinelli ebbe «un’improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata» tale per cui «il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto»13. Calabresi e gli altri agenti vennero prosciolti dall’accusa di omicidio. Il caso si chiuse giudiziariamente nel 1975, ma l’assenza di colpevoli per la fine di Pinelli fu un amaro epilogo per tutti coloro che si erano spesi per la causa. La sua figura si è cristallizzata intorno all’iconografia qui percorsa al punto che durante la manifestazione del 2019, organizzata in occasione del cinquantesimo anniversario della strage, sulla facciata della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano è stata proiettata la 11 12 13

Le ultime ore di Pinelli, «l’Unità», 10 gennaio 1970, p. 43. Ivi, p. 63. Ivi, pp. 63-64.

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sagoma di Giuseppe Pinelli tratta dall’opera di Enrico Baj. La narrazione visiva contemporanea di quegli eventi e della storia personale di Pinelli ancora oggi dipende dalla sedimentazione di quanto approfondito in questo studio e ci restituisce una verità che non è più solo giudiziaria o storica, ma prevalentemente politica, sociale, artistica.

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Appendice

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Enrico Baj, Cosa è un quadro?

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Pubblicato in Baj, un quadro, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, 1972) [1 ed. Ripartizione iniziative culturali, Milano 1972], Skira, Milano 2012, pp. 44-45.

Un grande pannello di cm. 305 per 1200 circa in paniforte di betulla finlandese (la migliore) suddiviso in tredici parti, simili alle tessere di un «puzzle» gigante. Le divisioni del pannello sono state tracciate seguendo la composizione dell’opera, cioè i contorni delle figure; dette divisioni, identificandosi col disegno, sono praticamente invisibili. Oltre al pannello principale il quadro comprende alcune figure (quattro), intagliate a mo’ di grande traforo ligneo nel predetto paniforte finlandese, e una finestra illuminata, con un gioco di mani... Il tessuto di fondo, tipo «filaticcio orvietano», è in canapa e cotone e ricorda nel disegno un muro in pietra a piccolo bugnato. Detto tessuto è stato appositamente eseguito dalla ditta «Lisio: Arte della Seta». La tecnica usata nel dipingere è quella dell’assemblaggio dei vari manufatti e materie quali cordoni, ciniglie, fiocchi, zuffoli, paramani, galloni, passamani, ovatte, pizzi, vetri, legni, celluloidi, plastiche, meccani, ingranaggi, medaglie, nastri, gradi, decorazioni, acciai, ecc. Le varie materie aderiscono al pannello mediante incollaggio effettuato con «Vinavil» e nei casi più ardui, come per gli acciai, con «Silicon». Le parti in «meccano» sono invece avvitate o inchiodate. I colori impiegati nel quadro sono acrilici di tipo «Liquitex, Rembrandt e Polymer». Che rappresenti mele e/o pere, che raffiguri polverose lucerne accoppiate ai vuoti simulacri del Lambrusco, che descriva personaggi, figure, fatti, carnevali o tragedie, la pittura è poca cosa se confrontata alla realtà degli uomini e dell’ambiente. Un quadro è niente. E l’ipotesi vale anche se ci si accosti a forme d’arte molto avanzate come a una compressione d’automobile, firmata d’artista; o a una accumulazione (firmata) sia di robi vecchi che d’oggetti tecnologici; e il confronto si addice anche allo smisurato (eppur firmato) ingrandimento d’un fumetto.

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Un cimitero d’auto da comprimere (o già compresse), una accumulazione di spazzatura «en plein air» o a «downtown» (ancor meglio se propiziata da uno sciopero), anche un fumetto vero, sono ben altra e maggior cosa e prima inventata da anonimi artisti. L’arte si fa quindi, soprattutto e prioritariamente, nella vita e nell’ambiente di ognuno, in quel che succede o che si fa succedere, come volevano i Picabia e i Breton dei giorni felici. Arte può essere allora il modo di essere, di atteggiare, di scegliere, di comporre, di fare all’amore; arte possono essere le cose, gli alberi, i sassi, i fiumi, le stelle. Arte ovunque, dentro e fuori. Il riconoscersi in questa verità essenziale si risolve in un processo lentissimo e spesso contraddittorio. Anche nella cultura restano da superare le infinite differenziazioni classiste, a cominciare dagli obsoleti diaframmi posti ad esempio tra arte colta e arte incolta. E poi, abbattuti paraventi e diaframmi, non sarà questione di elevare l’«art brut» (come quella di bambini, paranoici e malati di mente) al rango della parente più ricca, sistematizzandola e culturalizzandola, come fa un Dubuffet: ma piuttosto si dovrà negare il comune punto d’approdo, insito per entrambe nella produzione di un oggetto artistico, di un quadretto, per intenderci. È l’emblema «quadro» con la sua sublime inutilità che verrà in ipotesi combattuto e non già la futile classificazione dei valori, le cui dispute si apparentano a quelle incentrate sul sesso degli angeli. Oggi noi pittori facciamo tagli e buchi, scriviamo poesie sui quadri, componiamo disegni geometrici o violente grafie automatiche, percuotiamo pianoforti, facciamo multipli e lito, qualche stentata fotografia, un po’ di films, un po’ di sassi messi in cumulo e qualche linea d’ombra d’un filo teso all’intersezione di candidi muri di gallerie d’arte, rese «più bianche» (ma «più bianco non si può») da tubi fluorescenti (spesso firmati) evocanti purezze perdute (nello smog cittadino) e presenze di un qualche dio. Tutto ’sto gran daffare si tramuta nella enorme espansione dell’arte cui oggi assistiamo, espansione propiziatrice della sintesi arte-vita che, come quella clorofilliana, darà, speriamo, nuovo ossigeno alle nostre menti inquinate. Inoltre, nel caos

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APPENDICE

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delle informatiche, della produzione, dei consumi, dei detersivi, dei nuovi tipi d’olio e di «super», di code infinite alle autostrade e sulle riviere, ai ristoranti, ai cinema, agli ospedali, alle scuole a triplo turno, se in tutto ’sto bordello ti capita di soffermarti a pensare che la velocità ha una sua bellezza (e quanto desiata da chi sia in coda all’autostrada), lo devi pure a un Marinetti; se per caso ti attardi a guardare delle carcasse d’auto, lo devi anche a César; se ti fai attrarre da un taglio o da un buco, lo dovrai pure a Fontana. Nel caos della produzione e della informazione, è arduo, se non impossibile, distinguere detersivo da detersivo, notizia da notizia: tutto viene accettato prima e respinto poi, genericamente. Ancorché sconvolti nelle nostre associazioni mentali da Mamma TV con «caroselli» e «arcobaleni», con «telegiornali», «tribune» e «canzonissime», talvolta un fatto, un amore, una gioia o una tragedia o un assassinio possono penetrarti dentro e non mollarti. Il verificarsi di una tale anomalia non è escludibile a priori. In simili casi si affievoliscono la validità e le giustificazioni interne che l’arte di invenzione sa fornire a sè stessa e alla propria splendida autonomia. E l’artista, pur convinto della inutilità attuale di una pittura rappresentativa sarà sollecitato a fare un’opera, un quadro che rappresenti qualche cosa, un fatto, un amore, o un assassinio, una vita o una morte. L’arte si scosterà allora dalla generica spinta alla identificazione gestuale con la vita e eccezionalmente si verificheranno nuove, rarissime ipotesi (vedi Guernica) di rappresentazione e di celebrazione da parte del pittore. A che varrebbe in tali casi trincerarsi dietro a un fumetto alla Lichtenstein o dietro a un gigantesco «hot-dog» alla Oldenburg o una accumulazione di Arman? A che varrebbe guardar tutto attraverso un buco? O aspirare all’assoluto geometrico? O a far muovere macchinette subito rotte? O far piramidi di terra? O far fare disegni dall’elaboratore? A che varrebbe l’invenzione estetica mentre quello sta lì sfracellato per terra, in mano alla polizia, quella stessa che difende le nostre proprietà e incolumità e i nostri bei «vernissages»? E non ne siamo forse tutti responsabili con le nostre convenzioni, col nostro conformismo, con la sifilide mentale delle tradizioni

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e dei pregiudizi, che ancor oggi, dopo millenni, reclamano il capro espiatorio? E loro in via Fatebenefratelli te lo danno il capro, se proprio lo vuoi. Quando trovarono Pino Pinelli precipitato da una finestra di questura e subito morto, mi preparavo a riproporre, dopo le mie lunghe visite a Picasso prima e a Seurat poi, una ben nota opera futurista di Carrà: I funerali dell’anarchico Galli. Pensavo di rifare quel quadro alla mia maniera, seppure rispettando il formato e la composizione del modello, come feci con Guernica, colle Demoiselles, con la Grande Jatte e la Baignade. Pensavo ai «funerali dell’anarchico» da tempo, sia perché dopo i francesi volevo rifare un quadro moderno di autore italiano, sia perché pensavo (e penso) che alla radice dell’esperienza futurista (poi degenerata nei modi ben noti) vi fosse una forte componente anarcoide e che proprio grazie a tale componente il movimento riuscì a scuotere i propri adepti salvandoli dal naufragare nel cretinismo, nel conformismo e nel provincialismo di una cultura savoiarda i cui maggiori poeti, dopo che sciacquati i panni in Arno, sapevano dirci al massimo «T’amo, o pio bove», oppure: «Salve, Piemonte! A te con melodia mesta da lungi risonante, come gli epici canti del tuo popol bravo scendono i fiumi. Scendono pieni, rapidi gagliardi, come i tuoi cento battaglion…». Ma la fine attuale e sconvolgente a più aspetti di un altro anarchico mi fecero subito mettere da parte Galli e Carrà. La realtà e la vita e la morte di Pino si sostituivano nella mia mente al ricordo dei libri letti, degli eroi del passato, del futurismo e del dadaismo da me amati, reclamando, in luogo di un divertito rifacimento parodico-letterario, la celebrazione di una tragedia familiare e politica, che andava rappresentata, anche in pittura, più o meno coi mezzi di sempre. Mi si reclamava insomma una rappresentazione, e rappresentazione ho fatto, affinché testimonianza resti del fatto, di lui, delle violenze subite, del dolore di Licia, di Claudia e di Silvia.

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Alain Jouffroy, I funerali dell’anarchico Pinelli vietati a Milano

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Inedito, conservato presso il Mart, Rovereto, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90».

Ogni giorno, in occidente, la situazione si aggrava. Milano, che era il paradiso di Stendhal, sta forse diventando l’inferno dei milanesi? Malgrado l’accresciuta tensione, che si sente per strada, questo inferno rimane ancora tollerabile per certuni che, come Baj, possono lavorarvi in una libertà relativa: quella consentita dalle difficoltà e dai vantaggi della posizione di un artista, in una società in cui il pittore tenta di dimostrare con il contenuto sociale, intellettuale e politico delle sue opere, che non si confonde, lui, con un servo del commercio. Questa situazione, si sa, è inestricabile, come le innumerevoli contraddizioni che implica. Solo un pittore di genio, come Picasso, riesce a dominarle con l’influenza extra-artistica che esercita il riflesso stesso della sua opera, e il carattere di gesto generale, di portata internazionale, del senso di tutto il suo lavoro. Pensando in particolare all’evoluzione di Baj, che non ha fatto che aumentare la sua autorità in tutti i campi, ci si può chiedere se non sta prendendo quel posto estremo, difficile, che un individuo di eccezione può conquistare attraverso l’arte, nel momento stesso in cui le contraddizioni di cui parlo toccano un grado parossistico in tutti i paesi d’Occidente. Da quando ha “rifatto” Guernica, sembra effettivamente che Baj si preoccupi sempre più del carattere di messaggio sociale che, tramite il tema continuato dei suoi “generali”, articolavano in sordina le forme buffonesche, grottesche, parodistiche di tutti i personaggi della sua pittura. Lungi dal contentarsi del proprio successo – Chicago gli ha appena consacrato una grande mostra retrospettiva – e dal ripetersi, meccanicamente, come è sollecitato a fare da più parti, Baj se ne impossessa per dire e per comunicare qualche cosa di molto preciso. Che cosa? Un immenso pannello, intitolato I funerali dell’anarchico Pinelli (e che Baj ha voluto esporre nelle sale in rovina del

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

Palazzo Reale in cui Guernica fu appunto esposto a Milano all’indomani della guerra) può servirci a definire la “cosa” in questione. Questo pannello, composto come un puzzle d’elementi incastrati gli uni negli altri seguendo il contorno stesso dei personaggi che egli ci presenta, esplode in diverse direzioni: 1) il suo titolo si riferisce al celebre pannello futurista che Carrà ha dipinto fra il 1910 e il 1911: I funerali dell’anarchico Galli. 2) la figura dell’anarchico Pinelli si riferisce, essa, a Guernica, così come l’immagine della sua sposa e quella della sua figlia maggiore, che Baj presenta davanti al suo pannello come gli elementi ritagliati di una messa in scena teatrale. 3) l’anarchico Pinelli (per il quale molti hanno acquisito la certezza che sia stato gettato dall’alto di una finestra dalla polizia milanese per camuffare in suicidio un assassinio sotto le torture) precisa il riferimento contemporaneo, sotto l’angolo della ripetizione, alla situazione politica e sociale dell’Italia. L’insieme di questo quadro gigantesco – 12,50 m. di lunghezza su 3,60 m. – dunque molto più grande di Guernica – è illuminato da un quadro-finestra, in cui si vedono delle mani ancora sospese nel vuoto. Sistemato, come l’ho visto nel marzo scorso, in questa sala in cui delle statue sfigurate, delle finestre murate e dei detriti creano un’atmosfera di civiltà in rovina alla Monsù Desiderio, dava un’impressione inquietante di allarme. Tutto si svolge come se Baj avesse voluto con i mezzi della pittura del collage, mettere a nudo una situazione irreale, che preoccupa oggi un numero crescente di intellettuali e di artisti europei. La scena rappresentata: Pinelli che cade con la testa in avanti tra un gruppo di manifestanti in strada, ed un battaglione di militari bardati di decorazioni (di cui alcune sono delle croci di ferro naziste), è senz’altro quella che può far riflettere maggiormente, oggi, sul senso e la funzione dell’arte nella nostra società. Non penso che si tratti, per Baj, di una semplice constatazione (come l’aveva fatta Warhol nella sua Blue Electric Chair ed il suo Pink Race Riot), ma di una protesta violenta, nata da una pura e semplice rivolta davanti a un diniego di giustizia. Tramite i suoi riferimenti al futurismo del 1910 e a Picasso del 1937, Baj afferma una continuità di lotta, che si trama,

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all’insaputa degli speculatori, in mezzo a tutte le contraddizioni sociali in cui i pittori lavorano dall’inizio del secolo. Ed è questa continuità di lotta – ove la rivoluzione estetica implica la volontà di trasformazione del mondo – che definisce ai miei occhi la cosa in questione. Che l’esposizione di questi Funerali al Palazzo Reale sia stata differita nel tempo (ed in seguito soppressa) “per ragioni tecniche” allorché Calabresi, il capo della polizia che si indicava quale probabile responsabile della defenestrazione di Pinelli, fu ucciso a colpi di rivoltella su un marciapiede di Milano, non è certo da attribuire a puro caso. Nemmeno sorprende il fatto che si crei ora attorno a Baj un clima di ostilità e di sospetto. Se Goya dipingesse oggi l’equivalente dei “disastri della guerra”, ci sarebbero certamente delle buone anime gelose per rimproverargli d’aver dipinto i membri della Corte di Spagna. Si cerca sempre di mettere in contraddizione le opinioni rivoluzionarie di un pittore con il suo successo. Si vuol pure farci credere che i pittori, con i loro dollari in tasca, sono obbligati ad approvare i governi di destra. Effettivamente questo succede. Ma non tutti i pittori sono Avida Dollars, e Picasso non ha mai fatto il ritratto di un ambasciatore di Francia. Oggi è necessario rimettere le cose al loro giusto posto: la sinistra deve cessare di giustificarsi davanti all’accusa di tutti i reazionari. Baj ha il diritto di dipingere per protestare, ha il diritto di prendersela con chi gli pare. Baj è libero, ed è della libertà che ci parla molto violentemente nella sua pittura. Questa libertà, egli l’ha conquistata col suo genio individuale. La censura da cui è stato colpito a Milano il più grande di tutti i quadri che gli ha dipinto, prova una sola cosa: la libertà di espressione, vessillo delle nostre democrazie occidentali, non è altro che un cencio di teatro, stracciato dalla testa ai piedi da quegli stessi che se ne addobbano per uccidere Overney, Pinelli o Feltrinelli. I pittori e gli scrittori debbono adesso organizzarsi, su un piano internazionale, per resistere al neo-fascismo, e contribuire ad abbatterlo definitivamente, prima che sia troppo tardi. Non più il contrattacco: attacchiamo per primi, dappertutto ove sia necessario.

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Enrico Crispolti, I funerali dell’anarchico Pinelli

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«Il Margutta», V, giugno 1972, pp. 15-16.

Scrive Enrico Baj in una nota nel catalogo dedicato alla mostra della sua grande ultima opera, I funerali dell’anarchico Pinelli, a cura della Ripartizione iniziative culturali del Comune di Milano, nella Sala delle Cariatidi in Palazzo Reale (mostra che doveva essere inaugurata il giorno 17 maggio ’72, e che è stata rinviata, almeno a tutt’oggi, per l’assassinio di Calabresi avvenuto proprio quel giorno): «Quando trovarono Pino Pinelli precipitato da una finestra di questura e subito morto, mi preparavo a riproporre, dopo le mie lunghe visite a Picasso prima e a Seurat poi, una ben nota opera futurista di Carrà: I funerali dell’anarchico Galli. Pensavo di rifare quel quadro alla mia maniera, seppur rispettando il formato e la composizione del modello, come feci con Guernica, colle Demoiselles, con la Grande Jatte e la Baignade. Pensavo ai «funerali dell’anarchico» da tempo, sia perché dopo i francesi volevo rifare un quadro moderno di autore italiano, sia perché pensavo (e penso) che alla radice dell’esperienza futurista (poi degenerata nei modi ben noti) vi fosse una forte componente anarcoide e che proprio grazie a tale componente il movimento riuscì a scuotere i propri adepti salvandoli dal naufragare nel cretinismo nel conformismo e nel provincialismo di una cultura savoiarda i cui maggiori poeti, dopo che sciacquati i panni in Arno sapevano dirci al massimo «T’amo, o pio bove», oppure: «Salve, Piemonte! A te con melodia mesta da lungi risonante, come gli epici canti del tuo popolo bravo scendono i fiumi. Scendono pieni, rapidi gagliardi, come i tuoi cento battaglion…». Ma la fine attuale e sconvolgente a più aspetti di un altro anarchico mi fecero subito mettere da parte Galli e Carrà. La realtà e la vita e la morte di Pino si sostituivano nella mia mente al ricordo dei libri letti, degli eroi del passato, del futurismo e del dadaismo da me amati, reclamando in luogo di un divertito

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rifacimento parodico-letterario, la celebrazione di una tragedia familiare e politica, che andava rappresentata, anche in pittura, più o meno coi mezzi di sempre. Mi si reclamava insomma una rappresentazione, e rappresentazione ho fatto, affinché testimonianza resti del fatto, di lui, delle violenze subite, del dolore di Licia, di Claudia e di Silvia». Il «quadro» è un enorme pannello, alto tre metri e lungo dodici, al quale si accompagnano alcune figure staccate: appunto la vedova di Pinelli, le figlie, e Pinelli stesso; e staccata è anche la finestra del cortile della questura milanese in Via Fatebenefratelli. È la più vasta opera di Baj. Il montaggio presenta un margine di libertà, nel senso che la finestra – staccata – può essere posta realmente in alto, sopra la scena di poliziotti e spettatori, e il corpo di Pinelli quasi fra le due distanze, oppure il montaggio (come nella Sala delle Cariatidi) può essere più libero, e per associazione di memoria: cioè Pinelli è già precipitato nel gruppo a terra, e la finestra è staccata, solo idealmente ricollegata (posta sulla porta di ingresso alla sala, mentre la scena, su una pedana che le dà maggior risalto è sul fondo di quella singolarissima rovina che è la Sala delle Cariatidi). Naturalmente non si può parlare di quest’opera di Baj, se non dicendo subito che è stata, finora almeno, censurata alla visione del pubblico. Baj è stato oggetto di malumore in occasione di una Biennale di San Paolo, in Brasile, ove il grottesco militaresco non poteva che spiacere allo strapotere militare privo di liberazioni ironiche. Ma è stato censurato anche nella Biennale di Venezia del 1964 (che fu, nella partecipazione italiana, una presenza di dissenso e di critica, quattro anni prima che la contestazione assumesse aspetti di certa teatralità velleitaria con la conseguente teatralità poliziesca di risposta), per alcune sciarpe azzurre, e altre decorazioni. Oggi il «Pinelli» è censurato perché si teme che suoni ad offesa (come ha subito scritto la stampa fascista milanese) del commissario Calabresi principale protagonista del «suicidio dell’anarchico Pinelli», e per questo come tutti sanno «indiziato di reato». Ovviamente l’opera di Baj non ha a che fare con la tragica vicenda del commissario, se non per la fatalità di coincidenza del giorno (anzi in un primo tempo l’inaugurazione doveva avvenire il 15, e soltanto diffi-

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

coltà organizzative, giacché occorreva liberare interamente la sala da precedenti pannellature, ha costretto a un rinvio di due giorni); mentre intende essere, a suo modo, un «memorial» di una vittima emblematica della strategia della tensione, Pinelli. Ma appunto per questo occorre elevare la più vibrata protesta, per il tentativo di togliere la parola o comunque di impedirla, a chiunque (come in questo caso Baj con il suo grande quadro) dissenta anche indirettamente dall’associarsi alla celebrazione, di delirio agiografico spesso, di un commissario finito vittima anch’egli della macchinazione terroristica reazionaria della quale proprio Pinelli è stato fin dall’inizio, e ignobilmente «a priori», capro espiatorio. Il «Pinelli» di Baj non è una ricostruzione della tragedia dell’anarchico ucciso (come il libro della Cederna, o altri più documentati). Non è una cronaca. Con i suoi mezzi più tipici (che portano in campo tutto un repertorio grottesco e farsesco in chiave fortemente critica) Baj ha inteso realizzare un grande «quadro» civile. È venuto ricordando un episodio profondamente emblematico della società italiana di questi anni, e proprio nel suo volto: sia di cruda verità, l’uccisione di un innocente, sia della farsa di verità di comodo e di abusi e di falsità che attorno a quella verità crudele si è voluta costruire, per celarla e mistificarla. E il carattere «civile» di questa opera di Baj è, a mio parere, proprio nel particolare sinistro accento che il tipico farsesco del pittore vi assume. Grottesco e farsesco sono i modi appunto di nascondere nella retorica e nella falsità programmata una verità scottante, che occorre invece ricordare. Ma «civilmente» appunto la tragedia non è soltanto quella «di lui, delle violenze subite, del dolore di Licia, di Claudia e di Silvia», ma anche appunto «del fatto», nel suo complesso, della sua natura di momento emblematico della condizione di una società. Introducendo la retrospettiva della sua opera organizzata nel 1965 nel Castello Spagnolo de l’Aquila, sottolineavo: «Al di là dell’apparenza di divertimento è forse uno degli artisti più critici in Italia in Europa, negli ultimi anni, verso il volto della società contemporanea». Ed ecco riconfermarcelo Baj in una occasione «civile» come la vicenda di Pinelli e in una prospettiva anzitutto rivolta alla società italiana.

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Domenico Porzio, I funerali dell’anarchico Pinelli

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«Bolaffiarte», 20, maggio 1972

Metafora è chiamare, disegnare, dipingere le cose col nome, il segno ed i colori di altre cose: è analogia tra dissimili. La metafora con la quale Enrico Baj ha allestito la sua «personale» nella Sala delle Cariatidi del palazzo Reale di Milano, è un unico quadro: un collage altro tre metri e dieci e lungo tredici. Su questi trenta e più metri quadri di superficie, l’artista ha raccontato un fatto di cronaca e, insieme, ha tenuto una memorabile lezione sulla pittura. Il fatto, riferito ufficialmente col titolo I funerali dell’anarchico Pinelli per un richiamo ed un omaggio al Carrà futurista di I funerali dell’anarchico Galli, in realtà verte sulla discussa defenestrazione di via Fatebenefratelli ed è raccontato da diciotto figure con il concorso di altre quattro staccate dal pannello, ma inserite nella rappresentazione: undici mani – è un quadro di mani – scendono dall’alto come artigli nello spazio figurativo. Il racconto continua sulla parete di fronte dove, su un isolato pannello, si apre una significativa finestra: qui, nel vuoto limitato da due colonnine e da un timpano, si alzano altre mani illuminate da una nota lampadina picassiana a grosso filamento, la lampada di Guernica. L’azione si svolge lungo un muro di stoffa, un muro bugnato, realizzato su un disegno di cinquant’anni fa; ma in una più dilatata prospettiva, quei riquadri appaiono come fitte e strazianti finestre di una moderna casa alveare, chiamata qui a far da fondale da una qualsiasi città del mondo. Alla base del quadro si stende (non necessariamente) un pavimento pure di stoffa, costellato di scaglie di vetro nero che si irradiano da un sole funereo, infranto e centrale. Le figure, tutte estraibili come tessere di un puzzle, sono ritagliate su sagome di legno listellare: lavorate, vestite, dipinte e poi inserite nel racconto,

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così come un tempo usavano per gli affreschi. Un grande strepito a destra: minaccioso e digrignante avanza un manipolo di sette atroci e clauneschi «generali» sospinti da un generalissimo col becco di avvoltoio e l’occhio tondo di rotelle e ingranaggi. Avanzano grondanti di denti e di medaglie, di patacche e distintivi, con armi e mani alzate e spavalde, beffarda parodia dei luogotenenti in marcia nella notturna ronda di Rembrandt. Le loro armi sono in acciaio inossidabile e satinato: aspirano alla pulizia, persino all’eleganza e come tutti i prodotti del design consumistico nascondono nella loro estetica una brutalità di fondo. Commozione, sdegno e pianto a sinistra. Undici anarchici, tra cui una donna ed un bambino, alzano le mani a pugno e osservano sgomenti. Vestono di ciniglia, di ovatta, di fiocchi; stringono bandiere, hanno volti ed occhi umani dai quali scendono immobili lacrime di vetro. Un vecchio anarchico volta le spalle ai generali urlanti: si preoccupa di coprire la scena al bimbo in pellicciotto e cappello; è il ritratto di Pietro, figlio di Baj, che fa lui pure parte del gruppo nell’autoritratto di profilo, dietro il vecchio. Il drappello degli anarchici è risolto su tonalità dimesse: grigi di lutto e livide terre; i generali-pupazzi della destra, giustappongono, nell’insieme, sommessi verdi a bianchi e rossi, accennando ad un ineffabile e amarissimo tricolore. Al centro dell’intero pannello c’è l’urlo: nel tripudio delle mani ad artiglio, precipita da una finestra (una finestra che si immagina e che esiste, qui come altrove, qui come dentro di noi), la vittima designata, il capro espiatorio: una caduta senza fine, che continuamente si ripete. L’arcangelo scende col volto della disperazione, un volto che Baj ha ripreso, con lievi modifiche, dalla figura urlante che Picasso ha collocato nel quadrante superiore destro di Guernica. Questa figura calante, staccata dal contesto di fondo, fa da vertice ad un triangolo, ad un timpano, chiuso ai lati da altre figure picassiane: a destra inginocchiata e sbigottita, la moglie Licia Pinelli, ricalco della grande figura femminile che sta a destra in Guernica. A sinistra, all’altro vertice, le sagome delle bambine Claudia e Silvia Pinelli: una di volto picassiano e con le mani tese a trattenere il padre, l’altra già piangente e con una mano sul viso. Il timpano che forma il frontone famigliare è sottolineato dai colori chiari.

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Questo «Baj chez Picasso» non è nuovo nel grottesco teatro figurativo dell’artista milanese ed il riferimento a Guernica – sostiene l’autore – è, in questa composizione, un riferimento d’obbligo, considerato che è quello l’unico quadro drammatico, moderno. La metafora raccontata da Enrico Baj si dichiara fin dal titolo: tuttavia sarebbe banale, quanto ovvio, ridurre l’inaspettata composizione ad un semplice gesto politico. Le motivazioni di fondo del quadro, nonostante il loro ancoramento alla cronaca, trascendono la realtà e il suo orrore. In quest’opera accade qualcosa che riguarda personalmente l’artista: dal suo teatro è uscita la meraviglia di maniera e vi è salito, protagonista, il dramma: alla commedia dell’arte si è sostituita la tragedia. Il fatto che qui popola la superficie pittorica va ben oltre la satira delle medaglie delle nappe: c’è la virile meditazione su un’agonia e su un’offesa, la cui realtà trafigge la memoria e continua in noi, al di là del pannello. Quei personaggi da circo, che parevano fatti con tutto quanto (merletti, bottoni, fiocchi raccolti da una sfrenata vendita fallimentare) doveva estraniarli dalla apparente tradizione pittorica, si sono definitivamente incastonati nella nostra, e non solo nostra, pittura, proclamando una sincerità morale documentaria tanto assoluta da divenire compiuta verità estetica. Baj ha realizzato questo quadro in sette mesi, andando, a suo modo e con molta umiltà, a bottega da Picasso: per imparare qualcosa. Alla lezione ha reagito scoprendo in se stesso un linguaggio nuovo: i vecchi oggetti del suo repertorio magico ed ironico si sono accesi e finalmente agiscono scendendo nel nostro spazio di vita e di dolore. Enrico Baj afferma che questo è il suo ultimo quadro. «Ne ho fatti», dice, «mille e ottocento: anche troppi. Non voglio farmi strumentalizzare dal commercio. Piuttosto cambio mestiere e prevedo, comunque, una lunga vacanza mercantile». Un quadro spartiacque, dunque, anche nella sua carriera. È certamente questa moralità che gli ha permesso di realizzare con «I funerali di Pinelli» una così duratura metafora del concitato e tragico quotidiano in cui viviamo.

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Enrico Baj, Comment j’ai écrit certains de mes tableaux

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Estratto da Baj: i grandi quadri, catalogo della mostra (Mantova, 1982), Electa, Milano 1982, p. 106

[…] La prima opera in ordine di tempo è I funerali dell’Anarchico Pinelli del 1971-72, in alcune occasioni, forse anche giustamente, ribattezzata «l’assassinio dell’anarchico Pinelli»: ma credo che vada meglio il titolo primitivo anche per discendenza memoriale da quei funerali dell’anarchico Galli del Carrà futurista. Il Comune di Milano nell’autunno del 1971 mi offriva di tenere una mostra alla Sala delle Cariatidi annessa al Palazzo Reale: una sala tutta distrutta dalla guerra e non restaurata se non nelle parti essenziali e funzionali. In questa sala di statue e colonne e cariatidi decapitate, gambizzate, quasi sbranate da bombe e incendi, ove tutto, come in un Monsù Desiderio, dava il senso del cadere e del decadere di orpelli, decori, valori, simboli e simulacri, io concepii la più tragica caduta del momento, quella di Pino Pinelli, precipitato dalle finestre della questura di Milano. L’hanno buttato? Si è buttato? Che importanza aveva, dal momento che non era libero? Eppure gli addetti ai lavori ne disquisiscono ancora. Io e colei che ha cura del particolare ci siamo recati a casa della famiglia Pinelli. Abbiamo parlato con Licia e con le figlie, abbiamo esaminato la piccola biblioteca di Pino dove erano allineati parecchi libri sull’anarchia. In un primo momento volevo trovare materiale per presentare la mostra. Poi mi sono messo all’opera, facendo numerosi disegni della composizione nel suo insieme e dei vari particolari, un po’ come si è sempre fatto per le vaste opere murali. Quindi ho trasferito il disegno finale ingigantendolo su un pannello di legno listellato di betulla finlandese avente la dimensione complessiva di 305 x 2100 cm. Essendo una tale opera impossibile da trasportare e da montare in un sol pezzo, ho diviso il pannello in tredici parti, simili alle tessere di un puzzle gigante. Le divisioni del pan-

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nello sono state tracciate seguendo la composizione dell’opera, cioè i contorni delle figure: dette divisioni, identificandosi col disegno, sono praticamente invisibili. Il tessuto di fondo del pannello, tipo «filaticcio orvietano», è in canapa e cotone e ricorda nel disegno un muro in pietra a piccolo bugnato. Detto tessuto è stato appositamente eseguito dalla ditta «Lisio: Arte della seta», la stessa che negli anni Venti forniva a D’Annunzio i damaschi setosi di cui sono cosparsi letti, divani, cuscini e tappeti del Vittoriale. Oltre al pannello principale, ove la polizia si scontra col corteo degli anarchici, l’opera comprende quattro figure intagliate a mo’ di grande traforo ligneo: queste sagome, disposte con distacco davanti al grande pannello rappresentano appunto Pinelli e la sua famiglia. La tecnica usata nel dipingere e quella dell’assemblaggio di vari manufatti e materie quali ovatte, cordoni, ciniglie, fiocchi, zufoli, paramani, galloni, passamani, pizzi, vetri, legni, celluloidi, plastiche, meccani, ingranaggi, medaglie, nastri, gradi, decorazioni, acciai ecc. Materie e manufatti sono stati incollati con «Vinavil» e talvolta con colle epoxidiche o al silicone. I pezzi di Meccano sono invece generalmente avvitati o inchiodati. I colori impiegati sono acrilici di tipo «Liquitex» o «Rembrandt» o «Polymer».

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Petizione in favore della riapertura della mostra di Enrico Baj Conservato presso il Mart, Rovereto, Archivio del ’900, fondo Baj, Baj.4.1.1. «Pinelli fino anni 90».

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Ill.mo Sig. ALDO ANIASI Sindaco di Milano Ill.mo Sig. PAOLO PILLITTERI Assessore alla cultura del Comune di Milano I sottoscritti, informati da tempo dell’imminente apertura della mostra di un quadro del pittore Enrico Baj, ispirato – in forma originale e di grande interesse culturale – alla morte di Giuseppe Pinelli, hanno atteso invano che la mostra si aprisse. Il 17 maggio hanno solo appreso che l’inaugurazione era rinviata per ragioni tecniche. Dopo di che, i manifesti sono scomparsi, la porta della mostra (che doveva tenersi nella sala delle Cariatidi) è sbarrata; né si riesce a sapere se e quando tale situazione avrà fine, ma è logico temere che essa cesserà quando la sala delle Cariatidi risulterà impegnata per altra manifestazione culturale. Ora, i sottoscritti trovano che è veramente incredibile che fatti del genere possono avvenire nell’anno 1972, in una città che vuol essere moderna e avanzata come Milano e ad opera di una Amministrazione civica che si è sempre vantata di svolgere una politica culturale libera, indipendente e aperta ad ogni esperienza. Poiché le ragioni «tecniche» è pacifico che non esistono, bisogna pensare che ciò che impressiona sia il contenuto del quadro di Enrico Baj. Ma se è così, dove finisce la libertà dell’arte? E perché la rievocazione, in chiave artistica, di una vicenda realmente accaduta, dovrebbe essere impossibile, oggi, a Milano, quasi che una decisione delle Autorità competenti possa can-

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cellare quanto è accaduto nel dicembre 1969 e negare il valore della rappresentazione artistica che ne è stata fatta? L’amministrazione comunale ha assunto un impegno con l’artista ed è logico che debba rispettarlo. Ma ha assunto anche un impegno con la cittadinanza, alla quale non può ora arbitrariamente togliere il diritto di vedere la mostra, di discuterla, di giudicarla. Chiediamo quindi che venga disposta, con assoluta urgenza, l’apertura della mostra secondo gli impegni assunti dal Comune e secondo l’attesa di tutto il mondo culturale di Milano ed oltre. Se poi di ciò qualcuno potrà adontarsi, invitiamo il Sindaco, l’Assessore, l’Amministrazione comunale tutta a non preoccuparsene: chi vuol impedire una manifestazione d’arte con un pretesto di contenuto, fa parte della sottocultura e di quella fazione conservatrice che – sempre – si è posta contro la libertà dell’arte. Milano, 12 giugno 1972. Giancarlo Adami, Age, Umberto Allemandi, Arman, Natalia Aspesi, R. A. Augustinci, Riccardo Barletta, Gianfranco Baruchello, Franco Bartoli, Setta Bass, Franco Belli, Mario Bertolini, Bernardo Bertolucci, Vittorio Boarini, Giorgio Bocca, Agostino Bonalumi, Pietro Bonfiglioli, Anna Bozza, Pol Bury, Francesca Caminoli, Lorenzo Cappellini, Renato Cardazzo, Mario Carrieri, Pietro Cascella, Enzo Catania, Alik Cavaliere, César, Flory Calò, Jack Clemente, James Coleman, Gianni Colombo, Antonio Consagra, Claudio Costa, Enrico Crispolti, Eugenio Degani, Antonio Del Guercio, Lucio Del Pezzo, Mario De Micheli, Adriana Di Cagno, Giorgio Di Genova, Rosaria Di Gioia, Enrica Domeneghetti, Gillo Dorfles, Eulisse, Errò, Carla Fabbri, Ottavio Fabbri, Luciano Fabro, Marco Ferreri, Folòn, Marcello Fondato, Teresita Fontana, Antonio Fomez, Lino Franchina, Avv. Geìrland, Paola Ghiringhelli, Franco Giraldi, Enrico Gramigna, Carlo Grossetti, Renato Guttuso, M.Me Hammaker (Direttrice Boymans Museum Rotterdam), Hiquily, Pontus Hulten (Direttore Museo Arte Moderna Stoccolma), Felix Landau, Graziano Laurini, Jean Leering (Direttore Museo Eindhoven), Guido Le Noci, Nanni Loy, Milvia Maglione, Gianni Malabarba, Elio Marchegiani, Giorgio Marconi, Renzo Margonari, Henry Martin, Francesco Maselli, Luciano Minguzzi, Paola Mistri, Mario Monicelli, Giuliano Montaldo, Morando Morandini,

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Giovanni Panozzo, Gianfranco Pardi, Osvaldo Patani, Dagoberto Pavia, Mario Perotti, Elio Petri, Josè Pierre, Cesare Pillon, Ugo Pirro, Luciano Pistoi, Antonio Pitta, Giancarlo Politi, Maurizio Pollini, Domenico Porzio, Concetto Pozzati, Ermanno Rea, Pierre Restany, Pasquale Ribuffo, Loredana Rizzardi, Riccardo Rizzardi, Mario Rossello, Ciro Ruju, Furio Scarpelli, Salvatore Scarpitta, Ettore Scala [sic], Flavio Simonetti, Vanni Scheiwiller, Inge Schoenthal Feltrinelli, Gualtiero Schonenberg, Irina Subotic, Emilio Tadini, Ruggero Tarantola, Giovanni Testori, Jorrit Tornquist, Gianni Toti, Carlo Tumbarello, Giulio Turcato, Jean Van Der Marck (Direttore Museo Arte Contemporanea Chicago), Lea Vergine, Francesco Vincitorio, Cesare Vivaldi, Renato Volpini, Simona Veller, Cesare Zavattini

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Herbert Lust, I funerali dell’anarchico Pinelli. Una crocifissione senza Dio

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Pubblicato in Ente Bolognese Manifestazioni Artistiche (a cura di), Tra rivolta e rivoluzione. Immagine e progetto, catalogo della mostra (Bologna, 19721973), Grafis edizioni d’arte, Bologna 1972, pp. 149-152

Uccidere, distruggere, schiavizzare, degradare la condizione umana in altri uomini, tutto questo orrore, messo in pratica per elevare e mettere al sicuro il proprio ego, è sempre esistito presso gli uomini di tutti i tempi. La volontà di potere e di dominare gli altri è sempre in agguato anche nei più semplici rapporti umani, nella famiglia, nell’amicizia e in amore. Se si gratta sotto la vernice delle più celebrate civiltà vien fuori l’incubo umano. Egizi, greci e romani trattavano gli schiavi come se si trattasse di legno, olio o carbone. La schiavitù era spesso atroce quanto i campi tedeschi di sterminio. Anche quelli che non erano schiavi vivevano in costante pericolo di condanna da parte dei potenti. Il Cristianesimo attenuò parzialmente questi sanguinari impulsi dell’uomo. Oggi, ci dicono, movimenti illuminati come la democrazia e il socialismo hanno reso gli uomini ancora più umani. Tuttavia, l’uomo rimane un assassino. Più spesso che no è un assassino per procura, cioè uno che guarda con assoluta compiacenza la degradazione del suo prossimo. E per quanto progrediscano le nazioni nei nostri tempi, abbiamo i Giapponesi in Cina, Hitler e Stalin e innumerevoli altri fatti, ultimo dei quali il Vietnam, per renderci conto che malgrado trenta secoli di cosiddetta civiltà, l’uomo è sempre l’uomo. Odiare tutto ciò che gli si oppone, è per l’uomo un naturale istinto di sopravvivenza. Egli ha paura di qualunque cosa che sfidi le sue abitudini, perché qualsiasi novità potrebbe diminuire o annullare il suo potere. È questa insana paura che spinge gli uomini a cercare di soffocare ogni differente opinione. Questo tratto cannibalesco, esistente in tutti gli uomini, prospera con la massima intensità tra i burocrati, poiché essi possono sempre invocare la legge per provare che il loro sistema è l’unico e che ogni deviazione da esso è criminale. Forse i burocrati più violenti sono quelli della polizia. Non si vuol dire che tutti i poliziotti

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

siano bestie; molti sono migliori e più caritatevoli del cittadino medio perché hanno visto più sofferenze. D’altra parte molti poliziotti usano il loro potere per realizzare i sogni di potere propri di tutti gli uomini. E quale più grande sogno di potere ci può essere che quello di distruggere l’opposizione anche se ciò significhi uccidere Dio stesso? È perciò logico che la polizia possa aggiungere un ulteriore capitolo alla crudele storia dell’uomo. Tre anni fa, la polizia italiana, agendo per conto di tutti gli uomini di oggi, replicò la Crocifissione. Il crimine commesso fu una bomba che esplose in una banca di Milano e uccise diciannove persone. L’uomo giusto crocifisso fu l’anarchico Pinelli. Fu prelevato con qualche fragile pretesto. II suo credo anarchico non violento si opponeva in qualche modo alla teologia ufficiale della polizia. L’essere diverso dagli altri era prova della sua colpa anche se tale diversità era impegno di non violenza. Era colpevole perché era differente. Fu torturato. Poi fu gettato dal piano superiore della centrale di polizia. La polizia dichiarò che si era suicidato per evitare di fare ammissioni, ma questa affermazione fu screditata dai fatti. Inoltre l’innocenza di Pinelli è oggi riconosciuta ovunque in Italia, anche dalla polizia. Si sa anche che le bombe furono opera dei fascisti. Come nella Crocifissione originale, il dramma continua. Il giorno che il grande quadro di Enrico Baj su questo soggetto doveva essere esposto per la prima volta, il commissario di polizia indicato come responsabile della morte di Pinelli fu ucciso come un cane per strada. In quel momento l’ufficialità se la prese con Enrico Baj, col suo grande quadro, e in genere con gli intellettuali italiani. Oggi il fatto saliente è la profonda compassione e risentimento che Pinelli ha suscitato tra gli animi liberali, un risentimento intensificato a causa della moglie e delle figlie rimaste senza il suo appoggio. Per trasferire l’intera situazione in un contesto artistico, si deve chiarire che tutto ciò in un certo modo richiama il bombardamento di Guernica ordinato da Franco. Proprio come il dipinto di Picasso fu il definitivo segno di protesta liberale contro la crudeltà di Franco, il panoramico collage di Baj è la più illustre risposta al caso Pinelli.

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È difficile essere brevi sulle ideologie che l’opera implica. Prima di tutto, e cosa più significativa, Baj non è né un comunista né un anarchico. È un liberale, ma abbastanza conservatore, come un John Kennedy. Così Baj non ha nessuna particolare ragione di risentimento per Pinelli. Secondo: Baj non conosceva neppure Pinelli. Baj è offeso perché la morte di Pinelli è una ferita alla natura umana. Così egli si è accostato a questo soggetto da incubo non da partigiano, ma da artista obbiettivo. Il quadro che ha creato su questa vicenda ha un preciso ma superficiale riferimento ad altre grandi opere di protesta, come i Funerali dell’anarchico Galli di Carrà, Guernica di Picasso e Cinco de Mayo di Goya. Non è altro che l’ultimo capitolo nella grande protesta moderna degli artisti contro il sistema. Comunque questo legame storico è il fatto meno importante circa i Funerali dell’Anarchico Pinelli di Baj. Più importante è che il quadro presenta certe precise innovazioni visive del tutto insolite nell’arte di protesta. E inoltre enuncia idee più pessimistiche di quanto si sia visto sinora nella storia dell’arte. Quanto a percezione visiva, la protesta di Baj è all’opposto di Picasso. Picasso usa colori sordi, essendo Guernica quasi monocromo, mentre Baj è un impressionista, usando grandi masse con colori vivi e contrastanti. Nel modo di disegnare Baj si riferisce a Picasso non più di quanto faccia qualsiasi artista che si serva della propria tradizione corrente. Il disegno di Baj è più primitivo, più semplice, più bidimensionale, più sciolto che quello di Picasso. In generale gli artisti della protesta, come Picasso, Daumier e Goya usano colori spenti per dipingere la tragedia. Si potrebbe dire che Baj conferisce alla tragedia un sapore kitsch. Crea un campo ironico dalla tensione tra i colori vivaci e il soggetto drammatico. L’arte di protesta di Baj è un festoso carnevale multicolore che contiene un incubo. Questo è un importante contributo alla storia dell’arte. Se si vuole fare un riferimento, bisogna farlo all’espressionismo tedesco e non a Picasso. Ma mentre i colori tedeschi sono torturati, turbolenti e violenti come il soggetto, quelli di Baj sono sereni e kitsch. Questi colori sereni e brillanti rendono la protesta di Baj più ironica di quella tedesca e personalmente preferisco questa ironia.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

Come noi abbiamo altrove sottolineato, secondo una semplice base statistica, a partire dal periodo nucleare nel 1950, nessun artista dopo la seconda guerra mondiale ha creato tanti nuovi colori, dai più tragici ai più kitsch, quanto Baj. I nuovi colori inventati da Baj devono essere parecchie centinaia. Nel suo periodo nucleare, Baj ha seguito la tradizione usando colori scuri per la tragedia. Ma per il suo «Guernica» e ora per «Pinelli» ha inventato una vasta sinfonia di colori con gradazioni splendenti in una luce ambigua. Per quello che riguarda le idee, «Pinelli» si dilata su certi temi nichilisti, già presenti nel Guernica. Nel Guernica di Baj c’è un certo intellettualismo e «artisticità», perché unisce al nichilismo una estetica studiata e la convinzione che l’arte può trarre dall’arte stessa i suoi soggetti. Questa tematica e questa estetica sono assenti nel «Pinelli». Qui il dipinto è sconvolto da rabbia e orrore personali. Il Guernica di Baj prova che l’artista ha occhio e mente sottili. Il «Pinelli» prova che ha un grande cuore. Ogni filosofia qui è gettata al vento. Al suo posto c’è il puro risentimento umano, le viscere, la pura atterrita sorpresa che un uomo abbia potuto fare tanto male a un altro uomo. Nel «Pinelli» l’artista è così paralizzato dall’enorme ingiustizia, che può solo dipingerla, restando senza parola e senza pensiero. Questo quadro è un incubo urlato, con Pinelli crocifisso nel mezzo, pendente sulla propria morte, sulla moglie e le figlie dolenti; i suoi amici da un lato guardano, mentre la polizia dall’altro minaccia ancora violenza e esulta. Questo è tutto. Nessun accenno che la decenza umana possa prevalere. Solo una morte violenta, con i poliziotti cattivi e gli amici buoni. Sembrerebbe quindi che il vero soggetto del «Pinelli» sia l’eterna lotta tra il bene e il male, una lotta in cui nessuna delle due parti dimostra rimorso. Entrambi credono di essere nel giusto. Niente può cambiare questa [sic] stato di cose. Ora, sebbene l’artista non abbia inteso dare altro messaggio nel «Pinelli» che il suo profondo dolore personale, chi scrive crede che abbia rispecchiato in modo molto concreto l’angoscia e la tendenza di questa particolare civiltà. Per me questo «Funerale dell’Anarchico Pinelli» è la nostra prima moderna Crocifissione senza Dio. Segnala la più pro-

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fonda decadenza dell’era cristiana, sia nella reale composizione fisica, sia nella ideologia. Nella Crocifissione tradizionale Cristo è innalzato verso il cielo e la sua famiglia è dolente e i soldati minacciano. L’intera composizione ascende verso il cielo, verso Dio. La tragedia così innalza la speranza, perché Dio e l’eternità accoglieranno l’eroica vittima. La vittima ci offre la speranza, perché, essendo il figlio di Dio, redime i nostri peccati. La sua morte è una fine tragica che segna un inizio di speranza per l’umanità. Il quadro di Pinelli contraddice tutto questo. La sua composizione scende verso il vuoto, indicando una caduta generale. E il suo contenuto è mille volte più tremendo che la scena cristiana. Perché non offre nessuna speranza. I disarmati amici di Pinelli non sembrano poter fronteggiare la polizia armata. L’eroica vittima non sale al cielo eterno, ma è schiacciato a una morte ignobile, su un prodotto industriale, la strada. Questa bella morte non redime l’umanità. Anzi spinge l’uomo più giù nello schifo. In questo senso il dipinto distrugge la speranza, perché in esso il puro risentimento e la dignità umana non sono in grado di battersi contro i burocrati. Ci sono troppi pochi uomini interessati alla giustizia. L’eroico gruppetto che protesta contro la disumanità dell’uomo verso l’uomo, che protesta contro lo sdegno dei burocrati per chi è diverso, non trionferà mai. Il meglio che posso sperare è che un giorno la loro coraggiosa storia abbia un effetto civilizzatore sul mondo. Si direbbe che il mondo moderno abbia effettuato un sinistro trapasso. Se non dà più fiducia a preti e cardinali, al loro posto ha innalzato la polizia, i generali, i burocrati, i tecnocrati, in una parola, lo stato. In fondo il mito cristiano dava la speranza che le vittime potessero pregare un Dio giusto, amoroso, perfetto. Oggi le vittime possono appellarsi solo ai loro simili, ma sono proprio questi simili i carnefici. Ad esempio per avere giustizia la vedova di Pinelli può solo appellarsi ai tribunali, ma essi appartengono allo stato che ha ucciso suo marito. La più terribile ferita nel suo appello già scontato è che non c’è speranza per il futuro, nessuna immortalità, nessun giudizio finale: c’è solo l’uomo.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

Per me il più profondo significato del quadro «Pinelli» è l’estremo segno che l’era cristiana è morta. La tecnocrazia ha preso il suo posto. Così le vittime non possono più andare verso l’alto. Vanno giù sul cemento. In conclusione torniamo all’inconsueto traguardo visivo rappresentato dai Funerali dell’Anarchico Pinelli. Esso amplifica ulteriormente la grande ricerca di Baj, che ha fatto un collage panoramico quanto una grande pittura ad olio o ad affresco. Il suo grande formato, circa doppio di Guernica, sostiene il grande tema. Come collaggio murale ha anche una caratteristica spaziale interessante, nel fatto che la moglie e le figlie sono statue a collage che stanno fuori dalla scena principale e la guardano. Queste figure dolenti che stanno fuori e al di là della scena principale orchestrano tutto in un environment opprimente e soffocante. Questo quadro prova ancora una volta che l’opera di Baj è troppo vasta per darle un’etichetta. Se Baj per gran parte è un dada-impressionista, a volte dimostra di essere un puro espressionista. «Pinelli» è un insolito quadro che unisce l’espressionismo e la tradizione di protesta. Chi altro se non Baj avrebbe potuto usare colori carnevaleschi per un mondo in cui Dio, speranza e giustizia sono tutti morti?

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Bibliografia

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Articoli su quotidiani e riviste (1969-1973) G. P., Il suicidio del fermato a Milano stanotte durante gli interrogatori, «La Stampa», 16 dicembre 1969, p. 1. Milano piange i suoi morti, «Corriere della Sera», 16 dicembre 1969, p. 9. Sul lettino dell’accettazione dell’ospedale Fatebenefratelli, «Corriere d’Informazione», 16-17 dicembre 1969, p. 1. Giampaolo Testa, Gli dissero: abbiamo preso Valpreda e Pinelli saltò giù dalla finestra, «Il Giorno», 17 dicembre 1969, p. 2. Lo stato maggiore della «politica», «Il Giorno», 17 dicembre 1969, p. 4. G. C., La Repubblica è più forte, «L’Espresso», 21 dicembre 1969, p. 1. Fabio Mantica, Senza incidente i funerali dell’anarchico suicida, «Corriere della Sera», 21 dicembre 1969, p. 8. R. L., Bandiere nere sulla bara di Pinelli, «La Stampa», 21 dicembre 1969, p. 2. La vedova e la madre di Pinelli querelano il questore, «Corriere d’informazione», 27-28 dicembre 1969, p. 1. Giovanni Giudici, Biografia di un ferroviere, «L’Espresso», 28 dicembre 1969, p. 7. La finestra di interno della questura milanese, da dove è precipitato Giuseppe Pinelli, «l’Unità», 10 gennaio 1970, p. 9. Le ultime ore di Pinelli, «l’Unità», 10 gennaio 1970, p. 9. Caso Pinelli: tutto chiarito?, «Corriere d’Informazione», 17-18 gennaio 1970, p. 4. Per un’indagine su un commissario al di sopra di ogni sospetto, «Lotta Continua», 21 febbraio 1970, p. 6. Camilla Cederna, Cinque modi di morire, «L’Espresso», 22 febbraio 1970, p. 6. Inquirenti o colpevoli?, «Lotta Continua», 24 marzo 1970, p. 6. Tensione nelle strade del centro per due cortei di anarchici e neofascisti, «Corriere della Sera», 25 marzo 1970, p. 8. Manifestazione di anarchici in piazza del Duomo, «Corriere d’Informazione», 28 marzo 1970, p. 5. Quando la verità su Pinelli?, «l’Unità», 1 aprile 1970, p. 2.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

Perché parliamo di Pinelli, «Lotta Continua», 18 aprile 1970, p. 15. Lanciano da una terrazza un pupazzo «vestito» da Pinelli, «Corriere della Sera», 25 aprile 1970, p. 7. Anarchici sulla torre: cartelli per Valpreda, «Il Giorno», 3 maggio 1970, p. 5. Il commissario Calabresi querela «Lotta continua», «Corriere della Sera», 7 maggio 1970, p. 8. Proposta dal PM l’archiviazione dell’inchiesta sulla morte di Pinelli, «Corriere della Sera», 23 maggio 1970, p. 8. Camilla Cederna, L’anarchico esce dalla sabbia, «L’Espresso», 24 maggio 1970, p. 3. Le bombe al cinema, «L’Espresso», 31 maggio 1970, p. 21. Pinelli in archivio, «L’Espresso», 31 maggio 1970, p. 6. Pinelli: morte accidentale, «Corriere d’informazione», 6-7 luglio 1970, p. 5. Antonio Del Guercio, Arte merce potere, «Rinascita», 31 luglio 1970, p. 11. Enrico Baj, Agropittori, «Corriere della Sera», 2 agosto 1970, p. 5. Enrico Baj, En plein air, «Corriere della Sera», 6 settembre 1970, p. 6. L’anarchico e il questore, «L’Espresso», 27 settembre 1970, p. 9. Imponente servizio d’ordine attorno al Palazzo di giustizia, «Corriere d’Informazione», 9 ottobre 1970, p. 8. Tumulti e cariche nel palazzo di giustizia mentre depone il commissario Calabresi, «Corriere d’Informazione», 14-15 ottobre 1970, p. 4. Aldo De Gregorio, Calabresi depone sulla morte di Pinelli, «Corriere della Sera», 15 ottobre 1970, p. 8. Camilla Cederna, I superproletari. Commissario, alzatevi, «L’Espresso», 25 ottobre 1970, p. 9. Sergio Saviane, Un bel film che non vedremo, «L’Espresso», 8 novembre 1970, p. 21. Comitato dei giornalisti per la libertà di stampa e per la lotta contro la repressione (a cura di), Documenti sulla morte di Giuseppe Pinelli, «BCD: Bollettino di Controinformazione Democratica», 5, documento ciclostilato, 15 dicembre 1970, p. 11. Sauro Borelli, Pasolini alla ricerca della verità perduta?, «l’Unità», 20 dicembre 1970, p. 7. Fabio De Poli, P&S (Pinelli Salsedo), «Tèchne», 9-10, 1971. Lo stanzone del «quartier generale», «Corriere della Sera», 26 marzo 1971, p. 8. Sparito il pittore delle «Brigate Rosse», «Corriere d’Informazione», 2627 marzo 1971, p. 4.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

Hanno scelto, «Bolaffiarte», 13, ottobre 1971, p. 80. Alik Cavaliere, Censura a San Paolo, «NAC», 11, novembre 1971, p. 7. Sarenco, I pericoli e l’avventura dell’andare in questura, «Lotta Poetica», 6, novembre 1971, p. 12. Tre episodi, «NAC», 11, novembre 1971, pp. 6-8. Giorgio Bocca, Compagno collezionista, «Bolaffiarte», 15, dicembre 1971, p. 50. Le indagini sulle armi di Castelfranco: 5 arresti, «Corriere della Sera», 6 dicembre 1971, p. 17. Italo Moscati, Il «tallone di ferro» sulle lotte dei proletari, «Cineforum», marzo 1972, p. 16. G. M., Pinelli: negativa la prova-manichino. Sarà rifatta da un tuffatore in piscina, «La Stampa», 13 marzo 1972, p. 8. No alla tregua sociale durante le elezioni, «Lotta Continua», 16 marzo 1972, p. 1. Stefano Giovanardi, Un romanzo su Pinelli, «l’Avanti! - Supplemento della domenica», 14 maggio 1972, s.p. F. D., Enrico Baj, «L’Espresso Colore», 7 maggio 1972, p. 41. La nuova pista: una bella irlandese dagli occhi verdi, «Corriere d’Informazione», 27-28 maggio 1972, p. 1. Domenico Porzio, I funerali dell’anarchico Pinelli, «Bolaffiarte», 20, maggio 1972, p. 56. Enrico Crispolti, I funerali dell’anarchico Pinelli, «Il Margutta», V, giugno 1972, p. 15. Carlo Fini, Testimonianza per Pinelli, «l’Unità», 22 luglio 1972, p. 3. L’hanno vista solo i lettori di Bolaffiarte, «Bolaffiarte», 22, estate 1972, p. 80. Revocato il mandato di cattura contro il pittore Castellani, «Corriere della Sera», 11 ottobre 1972, p. 9. Riccardo Calzeroni, Pinelli «rivive» in una mostra per rivendicare tutta la verità, «L’Avanti!», 22 ottobre 1972, p. 4. Ricordo di Roberto Zamarin, «Lotta Continua», 22 dicembre 1972, p. 3. Enzo Lunari, La guerra della Cocca-Cocca, «Linus», dicembre 1973.

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Testi e cataloghi 24+4 disegni e sculture, catalogo della mostra (Arese, Milano, Galleria d’arte Gipico, Galleria Valentini), 1977. Aspetti della ricerca figurativa 1970/1984, catalogo della mostra (Milano, Rotonda di via Besana), [1984]. Baj chez Picasso, catalogo della mostra (Parigi, Galleria Creuzevalt, 1969-1970), Mazarine, Paris 1969. Baj: i grandi quadri, catalogo della mostra (Mantova, 1982), Electa, Milano 1982. Baj, un quadro, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, 1972) [1 ed. Ripartizione iniziative culturali, Milano 1972], Skira, Milano 2012. Baratella: mostra antologica 1952-1992, catalogo della mostra (Gallarate, Civica Galleria d’Arte), 1993. Canzoniere internazionale. Addio a Lugano/canzone per Giuseppe Pinelli, disco sonoro, Fonit Cetra, Torino 1975. Canzoniere internazionale. Gli anarchici 1864/1969, disco sonoro, Fonit Cetra, Torino 1973. Catalogo 1 Sezione grafica «La libreria di Brera», catalogo della mostra (Milano, Libreria Brera), 1970. Enrico Baj, catalogo della mostra (Loano, Palazzo Doria, 2007), Litografia Bacchetta, Albenga 2007. Enrico Castellani Pittore, Achille Mauri editore, Milano 1968. Gianni Dova, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, 1971-1972), Arti Grafiche Fiorin, Milano 1971. La Biennale di Venezia. XXX Biennale internazionale d’arte, Stamperia di Venezia, Venezia 1960. Merisi, D. Plescan, P. Plescan, Vaglieri, catalogo della mostra (Cremona, Gruppo d’Arte Renzo Botti), 1970. Mostra Antologica Ernesto Treccani, catalogo della mostra (Milano), Fabbri editori, Milano 1989. Mostra dell’opera grafica di Carlo Carrà, catalogo della mostra (Milano, Salone napoleonico dell’Accademia di Brera, 1967), Luigi Maestri editore, Milano 1967. Pino Reggiani, catalogo della mostra (Roma, Galleria 88), 1970. Produrre memoria 1968/2018: Manifesti, libri, illustrazioni, teatro: 50 anni con la grafica di Andrea Rauch. Quasi una biografia professionale, La casa Usher, Firenze 2018. Roberto Crippa, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, 1971), Arti Grafiche Fiorin, Milano 1971.

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

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LA MORTE DI PINELLI . ICONOGRAFIA DI UN ANARCHICO

—, Pum, pum! Chi è? La polizia! [1 ed. dicembre 1972], Bertani editore, Verona, 1974. Fuga, Gabriele - Maltini, Enrico, Pinelli. La finestra è ancora aperta, Colibrì, Milano 2016. Gallo, Francesca - Simonicca, Alessandro (a cura di), Effimero. Il dispositivo espositivo tra arte e antropologia, CISU, Roma 2016. Gamba, Bettina, Un pomeriggio con Pasolini, Itaca, Castel Bolognese 2005. Giannuli, Aldo, Bombe a inchiostro, BUR, Milano 2008. Kern, Edward, Guernica. Cry of Anger, «Life», 26-27, 1968. Leonetti, Francesco, La voce del corvo. Una vita (1940-2001), DeriveApprodi, Roma 2011. Lucas, Uliano (a cura di), Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005: linee di tendenza e percorsi, catalogo della mostra (Milano, 2006-2007), La Stampa, Fondazione Italiana per la Fotografia, Torino 2006. Mancino, Anton Giulio, L’altra faccia del «pasticciaccio brutto» di Piazza Fontana, «Cineforum», 513, aprile 2012, pp. 4-9. Mary Atkins, «Il Giorno», 12 novembre 1969, p. 19. M. Br., Napolitano e le stragi: manca ancora la verità, «Corriere della Sera», 10 maggio 2009, p. 2. Mereghetti, Paolo, Il Mereghetti. Dizionario dei film 2002, Baldini e Castoldi, Milano 2001. Pasolini, Pier Paolo, Il Pci ai giovani, «L’Espresso», 16 giugno 1968, p. 13. Penrose, Roland, Pablo Picasso. La vita e l’opera, Einaudi, Torino 1969. Pomodoro, Arnaldo - Leonetti, Francesco, L’arte lunga, Feltrinelli, Milano 1992. Edward, Quinn, Picasso al lavoro. Un’intima biografia fotografica, Longanesi, Milano 1965. Rigola, Gabriele (a cura di), Elio Petri, uomo di cinema. Impegno, spettacolo, industria culturale, Bonanno editore, Roma 2015. Sassano, Marco, Pinelli: un suicidio di stato, Marsilio editori, Padova 1971. Scaramucci, Piero, Licia Pinelli. Una storia quasi soltanto mia, Mondadori, Milano 1982. Simonetti, Gianni-Emilio, … Ma l’amor mio non muore [1 ed. Arcana editrice, 1971], DeriveApprodi, Roma 2008. Siti, Walter - Zabagli, Franco (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, «I meridiani», Mondadori, Milano 2001, vol. II. Sofri, Adriano (a cura di), Il malore attivo dell’anarchico Pinelli, Sellerio, Palermo 1996. —, La notte che Pinelli, Sellerio, Palermo 2009.

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Vergine, Lea, Attraverso l’arte. Pratica politica / pagare il ’68, Arcana editrice, Milano 1976. Verkauf, Willy (a cura di) Dada. Monograph of a Movement, Niggli, Teufen 1961.

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Biblioteca Passaré Studi di arte contemporanea e arti primarie Fondazione Passaré

Volumi pubblicati:

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Mariella Milan, Milioni a colori. Rotocalchi e arti visive in Italia. 19601964 Enrico Crispolti, Burri «esistenziale». Un «taccuino critico» storico preceduto da un dialogo attuale, a cura di Luca Pietro Nicoletti Alessandra Acocella, Avanguardia diffusa. Luoghi di sperimentazione artistica in Italia 1967-1970 Alessandro Botta, Illustrazioni incredibili. Alberto Martini e i racconti di Edgar Allan Poe Barbara Drudi, Milton Gendel. Uno scatto lungo un secolo. Gli anni tra New York e Roma 1940-1962 Giulio Calegari, Aperture all’immaginario. Tra archeologia africana e incertezze Valentina Raimondo, L’arte del metallo. Storia di Nino Franchina scultore Vanessa Righettoni, Bianco su nero. Iconografia della razza e guerra d’Etiopia Silvia Vacca, Dinamismo di un corp0 umano. Una litografia di Boccioni Sergio Risaliti, Autoritratto come Odisseo. Azioni di Jannis Kounellis dopo il 1960 Denis Viva, La critica a effetto: rileggendo La trans-avanguardia italiana (1979) Giuliana Tomasella (a cura di), Il confronto con l’alterità tra Ottocento e Novecento. Aspetti critici e proposte

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Annalisa Laganà, Paolo Porreca, Mondrian 1956. Traccia di una fortuna italiana

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Lucia Pessina, La morte di Pinelli. Iconografia di un anarchico 1969-1975

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Finito di stampare nel mese di agosto 2022 presso o.gra.ro - Roma

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