La molteplicità del sé. Disagio emotivo, vissuto corporeo e adolescenza 8843027638, 9788843027637

Il problema del sé ha radici profonde nella tradizione religiosa e filosofica delle culture occidentale e orientale. Tut

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Italian Pages 206 Year 2003

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La molteplicità del sé. Disagio emotivo, vissuto corporeo e adolescenza
 8843027638, 9788843027637

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BIBLIOTECA DI TESTI E STUDI f 243 PSICOLOGIA

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore via Sardegna so, 00187 Roma, telefono o6 l 42 81 84 17, fax o6 l 42 74 79 31

Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it

Mauro Meleddu

Laura Francesca Scalas

La molteplicità del sé Disagio emotivo, vissuto corporeo e adolescenza

Carocci editore

Volume pubblicato con il contributo dei fondi per la ricerca locale (ex 6o%) Università di Cagliari, Dipartimento di Psicologia.

1' edizione, settembre 2003

© copyright 2003 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel settembre 2003 dalle Arti Grafiche Editoriali srl, Urbino

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico

Indice

Prefazione

II

1.

Unità e molteplicità del sé

15

1.1.

Origini filosofiche e religiose

15

1.1.1. Evoluzione storica l 1.1.2. TI sé come nucleo centrale ed elemento unitario l 1 . 1.3. La pluralità del sé 1.2.

La prospettiva psicologica

19

1.2.1. Fondamenti e indirizzi l 1.2.2. La concezione unitaria l 1.2.3. Corrente psicodinamica e influenze esistenzialistiche l 1.2-4- La

molteplicità del sé

2.

2.1.

La concezione multidimensionale contemporanea

33

Globalità e specificità

33

2.1.1. Orientamenti recenti l 2.1.2. Conoscenza di sé e desidera-

bilità sociale 2.2.

Stabilità, variabilità e funzioni del sé

36

2.2.1. Gli autoschemi l 2.2.2. Struttura e contenuti del sé l 2 .2.3. Costruzione individuale e socioculturale l 2.2-4- Rappresentazione sociale di ruoli l 2.2.5. Influenze culturali e storiche l 2.2.6. Prospettiva evolutiva e sé corporeo



3.1.

Emozioni e discrepanza del sé in prospettiva cognitiva

59

Le emozioni

59

3.1.1. Correnti d'indagine l p.2. Questioni centrali nello studio

delle emozioni 7

Il\'DICE

3.2. Teorie cognitive sulle emozioni p.I. Caratteri generali l p.2. Il modello di Carver e Scheier l 3.2.3. Ansia e depressione 3· 3· La teoria della discrepanza del sé 3-3.1. TI sé e l'affettività l 3·3-2· Postulati e ipotesi della teoria l 3-3·3· Ricerche e risultati l 3-3+ Sviluppo del sel/-system e affettività l 3·3·5· Prospettive attuali della teoria

66

73



Il sé fisico

89

4·1.

Radici dell'esperienza corporea

89

4.1.1. Lo schema corporeo l 4.1.2. L'immagine corporea l 4·1.3. La psicoanalisi e il corpo l 4. 1-4- La prospettiva fenomenologica

4.2. Aspetti socioculturali e biologici 4.2.1. Significato simbolico del corpo l 4.2.2. Differenze di genere l 4.2.3. Influenze culturali l 4.2.4. Contenuti ideali e normativi

98



Immagine corporea e physical self-concept

107

p.

Evoluzione del concetto di immagine corporea

107

p.I. Rielaborazione dei costrutti di immagine e schema corporeo l p.2. L'influenza cognitivista l P·3· Le dimensioni principali l P+ L'immagine corporea come struttura cognitiva l P·5· Disturbi alimentari l p.6. Il contributo psicofisiologico

5.2. Il physical sel/-concept p.I. L'esperienza corporea globale l p.2. La struttura del concetto fisico di sé l P·3· Autostima e sé fisico l P·4· Fattori mediatori nel rapporto tra sé fisico e autostima 5 3· La misurazione del sé fisico 5.3.1. Indirizzi di ricerca l 5·3-2· Strumenti per la valutazione degli aspetti percettivi l 5-3·3· Strumenti per la valutazione delle componenti soggettive ·

6.

Rielaborazione del sé corporeo in adolescenza

Adolescenza e cambiamento 6.2. Evoluzione delle ricerche sull'adolescenza 6.1.

8

117

126

137 137 138

Il\TIICE

6.2.1. Studi classici sull'adolescenza l 6.2.2. Gli approcci integrati 6.3. La transizione adolescenziale 6.3.1. Adolescenza e compiti di sviluppo l 6.p. L'esperienza puberale l 6.3.3. I cambiamenti somatici della pubertà 6+ Il sé fisico in adolescenza 6.4.1. La problematica del corpo l 6.4.2. Differenze di genere e d'età l 6+3· Le influenze ambientali l 6+4· Schematicità rispetto al sé corporeo l 6.4.5. Sviluppo di discrepanze, sé fisico e disagio emotivo

Bibliografia

9

1 44 150

Prefazione

Il lavoro esamina il problema del sé facendo riferimento alla vastissima let­ teratura degli studi psicologici sull'argomento. In questo contesto, prende in considerazione la molteplicità dei suoi domini e la stretta connessione con le emozioni. In particolare, si sofferma sul problema del disagio emo­ tivo legato alla " discrepanza" del sé. Per quanto concerne i vari domini, si focalizza sull'indagine delle caratteristiche del sé fisico. Infine, esamina l'argomento in rapporto all'età adolescenziale. Da lungo tempo, il pensiero occidentale si è interessato all'analisi del sé da un punto di vista filosofico e religioso. Si può affermare, tuttavia, che il concetto del sé è stato formalizzato solo in epoca moderna. Nella psicologia contemporanea, sia in ambito clinico che sperimenta­ le, il sé costituisce un costrutto di fondamentale importanza. :\'ello studio della personalità, soprattutto, svolge un ruolo di notevole interesse, dato che gli sono attribuite funzioni basilari legate all'autoconsapevolezza, al coordinamento e all'unità dell'esperienza. Tuttavia, nonostante gli aspetti unitari, il sé implica anche il riferimento a caratteristiche peculiari di mol­ teplicità e variabilità. Da questo punto di vista, le concezioni sul sé possono essere divise, in due prospettive principali: quella unitaria e quella della molteplicità del sé. Il primo capitolo del lavoro è dedicato, principalmente, alla consi­ derazione delle radici di questi due indirizzi nella tradizione religiosa, in quella filosofica e nella prospettiva psicologica. Il secondo capitolo pren­ de in esame gli sviluppi contemporanei degli studi sia teorici che empi­ rici. Negli sviluppi contemporanei, molti autori concordano su un'inter­ pretazione multidimensionale ed interattiva del concetto di sé. Questa in­ terpretazione tiene conto della complessa interazione esistente tra molte­ plici elementi individuali e ambientali. I primi riguardano le attività men­ tali nelle loro componenti cognitive, emotive e motivazionali, i loro fon­ damenti nervosi, i processi biologici e quelli evolutivi. I secondi si estenII

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

dono dalle relazioni familiari a quelle socioculturali, e includono aspetti linguistici e storici. La prospettiva plurifattoriale ha portato alla distinzione tra una con­ cezione generale di sé e una specifica. Quest'ultima riguarda vari aspetti, o dimensioni, di sé, come quello fisico, accademico, affettivo o sociale. La concezione multifattoriale comprende diversi elementi che riguardano la conoscenza di sé, la struttura, la dinamica e i contenuti. In tale ottica, un costrutto di notevole validità esplicativa è quello di autoschema. Esso con­ sente di effettuare un collegamento tra i vari aspetti del sé e tra diversi in­ dirizzi d'indagine. Il concetto comprende aspetti stabili e dinamici del sé in riferimento a componenti cognitive ed emotive. A causa della loro cen­ tralità, gli autoschemi vengono introdotti nel secondo capitolo e vengono ripresi diverse volte nei capitoli successivi. Nel secondo capitolo, inoltre, sono esaminati i cambiamenti e le ca­ ratteristiche dinamiche del sé. Nella sua molteplicità, il sé riguarda aspet­ ti non solo reali, ma anche ideali, normativi, temuti o attesi in futuro. Tali elementi sono strettamente connessi ai processi motivazionali ed emotivi. Per quanto riguarda il cambiamento in generale, esso è legato a diver­ se componenti di tipo sociale, educativo, culturale, storico ed evolutivo. I fattori sociali e i fattori evolutivi sono quelli che assumono maggior rilie­ vo. Numerosi studi confermano che la nascita e lo sviluppo del sé sono condizionati in maniera rilevante dalle relazioni di interazione sociale con gli altri. In tal senso, sono soggetti anche a influenze culturali e storiche. I cambiamenti si manifestano soprattutto nell'adolescenza in conse­ guenza di processi individuali e di sollecitazioni ambientali. Tali cambia­ menti, e in particolare quelli riguardanti il sé fisico, si riflettono sul piano emotivo e possono essere causa di disagio. Ciò specialmente in condizioni di incertezza, di difficoltà o in presenza di discrepanza tra aspetti deside­ rati e indesiderati del sé. Nella prospettiva in considerazione, il sé corporeo costituisce un aspetto specifico del sé. Secondo diversi autori, corrisponde a un nucleo iniziale che svolge una funzione di guida nella strutturazione della cono­ scenza di sé. L'importanza del suo ruolo emerge soprattutto nell'infanzia e nell'adolescenza, ma la sua influenza si manifesta anche in età adulta. Du­ rante l'adolescenza, comunque, le evidenti trasformazioni somatiche, in concorso con altri fattori individuali e ambientali, portano a una revisione del sé fisico. Ciò si ripercuote sulla percezione globale di sé e sul vissuto emotivo. In questo quadro, nel capitolo terzo, vengono esaminati il ruolo delle emozioni nella vita psichica e il rapporto con il problema della discrepan­ za del sé. 12

PREFAZIO:-IE

Le emozioni consentono di valutare l'esperienza in termini di "piace­ re" e di " dolore" . In generale, si può dire che alla formazione del senti­ mento emotivo concorrono diversi elementi costituiti da processi fisiolo­ gici, mentali, comportamentali, linguistici e sociali. Le varie teorie che si occupano dell'argomento attribuiscono valori diversi alle singole compo­ nenti. Negli studi contemporanei, le interpretazioni cognitive delle emozioni risultano particolarmente utili. Per quanto concerne il nostro argomento, esse sono strettamente legate al concetto di sé, soprattutto per quanto ri­ guarda il problema della discrepanza. Le teorie cognitive focalizzano l'attenzione sul processo valutativo. In questa impostazione, l'affettività deriva dal modo in cui il soggetto inter­ preta gli eventi sul piano cognitivo. Lo stato emotivo conseguente può es­ sere vissuto, con diversi gradi di intensità, come sentimento piacevole o sgradito. In questa prospettiva, viene considerata particolarmente utile la teoria della discrepanza del sé di Higgins. Il paradigma si incentra sulle concezio­ ni che ogni individuo ha di sé. Quando entrano in conflitto, esse condu­ cono il soggetto a sperimentare particolari tipi di sconforto emotivo. Il col­ legamento esistente tra disagio emotivo e credenze contrastanti è stato esa­ minato da numerosi autori. Rispetto alle altre teorie, quella di Higgins è più completa e, soprattutto, consente di prevedere tipi di reazioni emoti­ ve specifiche in conseguenza di tipi specifici di discrepanza. Essa può es­ sere applicata all'età evolutiva e alle problematiche riguardanti il sé fisico. I capitoli quarto e quinto esaminano il problema del sé fisico. In par­ ticolare, il quarto capitolo espone gli argomenti riguardanti le radici del sé fisico secondo le principali correnti teoriche. Considera, inoltre, i princi­ pali riferimenti socioculturali e biologici. Il quinto capitolo discute gli svi­ luppi attuali delle questioni riguardanti il concetto di sé fisico. In modo particolare, si sofferma sui progressi del punto di vista cognitivo. In que­ sto quadro, fa riferimento al self-system, inteso come riguardante l'espe­ rienza corporea in senso lato. Infine, esamina il contributo fornito dall'in­ dirizzo psicometrico. L'ultimo capitolo è dedicato all'approfondimento dell'analisi dell'età adolescenziale e alla trattazione delle problematiche peculiari legate al vis­ suto corporeo in questo stadio. L'adolescenza si configura come una fase cruciale di transizione del ci­ clo di vita al cui esito è legata l'evoluzione successiva dell'individuo. So­ prattutto, durante l'adolescenza si ampliano varie componenti della di­ mensione interiore. Mentre il bambino è legato al pensiero concreto ed è proiettato verso l'attività esterna, l 'adolescente tende a un ripiegamento su 13

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

se stesso. In quest'età, emerge la categoria del possibile, si ampliano gli orizzonti dell'esperienza, aumentano le capacità riflessive, e quelle di com­ prensione e di critica. Ciò favorisce la conquista dell'autonomia, ma espo­ ne contemporaneamente ai rischi dell'incertezza e al disagio emotivo. Tali rischi sono favoriti dagli sconvolgimenti legati allo sviluppo puberale e, so­ prattutto, alle trasformazioni somatiche. Queste attirano in maniera parti­ colare l'attenzione dell'adolescente, e possono essere fonti di discrepanza in relazione alla percezione della differenza tra aspetti ideali e condizioni reali del proprio corpo. Il capitolo si conclude con l'esposizione di questi argomenti e con l'e­ same degli sviluppi della teoria della discrepanza in rapporto al disagio emotivo nel vissuto adolescenziale del sé fisico.

14

I

Unità e molteplicità del sé

I. I

Origini filosofiche e religiose 1.1.1.

Evoluzione storica

Nel mondo occidentale, da un punto di vista storico (cfr. Wells, Marwell, Baumeister, 1987; Logan, 1987; Hattie, 1992), il sé è stato oggetto di analisi speculative in ambito filosofico e religioso sin dall'antichità classi­ ca. I greci e i romani avevano nel loro vocabolario dei termini che posso­ no essere accostati al concetto di "sé ", come cxùt6ç e ipse. Tuttavia, è solo in epoca moderna che il concetto del sé prende realmente forma, e diven­ ta un problema centrale per la psicologia (Baumeister, 1987; Cushman, 1976;

1990). 1.1.2.

Il sé come nucleo centrale ed elemento unitario

Nella tradizione risalente a Socrate (470-399 a.C.) e a Platone (428-347 a.C.), il vero sé corrisponde all'anima. L'interesse principale di quest'in­ dirizzo era rivolto a individuare la vera natura del sé intesa come l'essen­ za unitaria più profonda dell'uomo. Per il raggiungimento dell'obiettivo fondamentale, riconducibile alla massima delfica «Conosci te stesso», un'importanza essenziale veniva attribuita alle capacità cognitive. Per So­ crate, l'Essere si ritrova dentro la stessa struttura del nostro pensare: la ri­ cerca di sé equivale a quella del vero. Inoltre, il sapere, la consapevolez­ za profonda e critica di sé, corrisponde alla virtù, al giusto. Platone, nel­ la Repubblica (trad. it. 19 53), differenzia l'anima in tre parti: " razionale" , "irascibile" e " concupiscibile" . Quella razionale, con l'aiuto della parte irascibile, ha il compito di tenere sotto controllo gli impulsi inferiori. Es­ sa consente di superare i limiti della fallace variabilità dei sensi e di rag­ giungere la conoscenza delle forme reali e universali delle cose. Le anime che hanno usato correttamente la ragione, dopo la morte fisica, ritornano 15

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

nella condizione originaria di sapienza e felicità, e resteranno in tale sta­ to per l'eternità. Anche nella tradizione cristiana l'anima rappresenta il vero sé. Per i padri della Chiesa, il problema principale riguarda il rapporto tra Dio e il sé dell'uomo. La fede svolge un ruolo centrale, tuttavia, alla ragione viene attribuita un'importanza che varia a seconda del periodo. Nella patristica, sino al IV secolo, ad esempio, la fede costituisce la condizione della cono­ scenza ed è strettamente legata alla ragione. Questa ha il compito fonda­ mentale di organizzare in un sistema dottrinario compiuto la verità che la filosofia greca aveva raggiunto solo in modo parziale. Diversamente, S. Agostino (354-430) nelle Confessioni (trad. it. 1979) , afferma che la verità ri­ siede e si rivela nel profondo dell'anima, al di là del nucleo più recondito dell'Io. La verità è Dio e la sua ricerca equivale a cercare l'anima median­ te la confessione introspettiva. Ciò implica il chiarimento di tutti i proble­ mi dell'esistenza mediante il rivolgimento dell'attenzione verso l'interio­ rità, il ripiegamento su se stesso e il riconoscersi nella propria natura spi­ rituale. Per S. Agostino la ricerca della verità non è soltanto intellettuale ma è anche amore, e il principio illuminante di tutto il percorso è la rive­ lazione dell 'Essere. Successivamente, nella concezione tomista, viene nuo­ vamente recuperato il valore della ragione. Nella cultura orientale, in maniera simile al cristianesimo (cfr. de Sii­ va, 1979) , il buddismo e l'induismo prendono in considerazione il rappor­ to tra il sé individuale e la divinità nell'ambito del fine supremo, costitui­ to dalla liberazione ed il raggiungimento dell'Assoluto. A questo, secondo le diverse espressioni del pensiero indiano, si può arrivare per mezzo di tre vie principali: "razionale" , "sentimentale" e "passionale" (Zolla, 1995) . La conoscenza razionale, la fede e l'esaltazione religiosa conducono tutte alla liberazione. :\'ell'uomo liberato cessano i desideri, l'idea illusoria di per­ sona si annulla, tutto si concentra nell'interiorità e nella calma contempla­ ZIOne. Il buddismo attribuisce alla mente la capacità di creare il mondo inte­ ro dell'esperienza esterna e interna (cfr. Fernando, Swidler, 1981). Il com­ plesso sistema di relazioni e condizioni, sia esterne che personali, ha ca­ rattere illusorio ed è fonte di delusione. Villuminazione, il nz'rvana, viene raggiunta quando si comprende che non esiste nessun mondo di delusio­ ni fuori dalla mente. Anche per l'induismo, i pregiudizi nati dall 'immaginazione non con­ sentono di raggiungere la pace suprema. Abhinavagupta, tra il 933 e il 1015, insegnò che nella liberazione svaniscono tutte le costruzioni e i ricordi (cfr. Zolla , 199 5) . La potenza del Signore si manifesta come soffio e vibrazione dando luogo all'illuminazione. La verità si può capire soltanto scoprendo 16

1.

L"I\ITA E .\IOLTEPLICITA DEL SÉ

la vibrazione recondita che costituisce l'origine e la sostanza del mondo. Nel Tantraloka , Abhinavagupta sostiene che, per avvertire la vibrazione primordiale, è necessario arrivare al punto in cui il corpo non si distingue più dal mondo esterno. Da qui, abbandonandosi completamente alla vi­ brazione fondamentale, grazie al Tantra, si può procedere verso uno stato di quiete assoluta, in una dimensione al di là del tempo e dello spazio. In altre espressioni della letteratura tantrica, come il Visvasarataranta, beati­ tudine e puro Essere coesistono nella coscienza primordiale prima della manifestazione dell'universo. I riti consentono il risveglio della coscienza e, nella sua luce, scompaiono le illusioni e gli inganni del mondo. Secon­ do il pensiero orientale, in questi stadi, il nostro sé può essere concepito come un'unità di pura coscienza illuminata. La tradizione che si rifà a Locke rappresenta un indirizzo unitario dif­ ferente, a carattere empirista . In tale prospettiva, il centro del sé è rappre­ sentato dalla persona che pensa e può riflettere su diverse cose, compresa la stessa conoscenza (Locke, 1693). Questa non è legata a una sostanza spi­ rituale, ma deriva esclusivamente dai sensi, e non implica la distinzione tra coscienza e autocoscienza. A questi due orientamenti diversi, rispettivamente di tipo spiritualista ed empirista, si riallaccia la concezione unitaria del sé che prenderemo in esame più avanti. Nonostante le differenze, l'aspetto comune è costituito dal riferimento al sé come un nucleo centrale in cui la conoscenza e il suo contenuto costituiscono un unico elemento. 1.1.3. La pluralità del sé Mentre l'indirizzo considerato precedentemente ha concepito il sé come un elemento unitario, altre correnti filosofiche hanno messo in evidenza le caratteristiche di molteplicità del sé e la separazione tra conoscente e cono­ sciuto. Questa separazione non sempre risulta chiara in tutte le concezio­ ni. Di conseguenza, talvolta, è difficile effettuare una distinzione netta tra unità e pluralità del sé. Cartesio, ad esempio, ha contrapposto all'unità spirituale il dualismo mente corpo, ed ha sostenuto che il sé corrisponde ai pensieri propri di un individuo (Cartesio, 1637) . Non ha escluso, comunque, la considerazione di un fondamento unitario della stessa sostanza dell'uomo. Egli, infatti, ha posto la ragione e la consapevolezza del pensare (io penso) al centro della certezza dell'esistenza umana. Hume, invece, ha rifiutato radicalmente l'idea di entità unitaria stabi­ le e ha interpretato il sé come un flusso di esperienze in continuo cambia­ mento (Hume, 1738). 17

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

Secondo Kant, ciò che conosciamo di noi stessi deriva dall'esperienza sensoriale ed implica la considerazione di due punti di vista: il pensiero co­ me soggetto, e il pensiero come oggetto, o contenuto, di ciò che si pensa. Nella Critica della ragion pura (1787) egli ha rilevato che l'uomo conosce se stesso non come è realmente, ma come appare nella sua molteplicità feno­ menica. Kant, nondimeno, ha fatto riferimento a un elemento unitario co­ stituito dall'autocoscienza il quale, come atto originario dell'intelletto, rappresenta la possibilità di conferire organicità alla molteplicità dell'e­ sperienza in termini di connessione necessaria tra i fenomeni. Alla base della sintesi si colloca l'io penso. Questo, comunque, non è riconducibile a una sostanza, ma riguarda un processo che esprime l'atto di determina­ re l'esistenza dell'uomo come essere pensante finito. J ames Mill, J ohn Stuart Mill ed Herbert Spencer, nell'ambito del po­ sitivismo, hanno esaminato il sé da un punto di vista associazionistico. I primi due autori hanno condiviso l'interpretazione di Hume che riduce la mente a una corrente di sensazioni. Le idee si associano seguendo l'ordi­ ne delle sensazioni (Mill, 1829 ) , così l'idea del sé appare necessaria soltan­ to per il collegamento dei ricordi. Secondo J . S. Mill (1832) , il sé è ricon­ ducibile alla memoria cosciente delle esperienze riguardanti il soggetto e può essere inteso come un legame di carattere empirico che conferisce una continuità personale all'esperienza (Mill, 1865). Per Spencer (1 855), invece, in maniera simile a Kant, esiste un principio unitario, di tipo "inconosci­ bile" , che sta alla base della coesione delle impressioni e delle idee. Bergson ha fatto riferimento al ruolo della memoria in una prospetti­ va spiritualista. Questa corrente, secondo lui, per poter intendere in ma­ niera problematica i condizionamenti legati all'esperienza concreta della coscienza, deve tenere conto dell'esistenza del corpo e dell'universo mate­ riale. In tale prospettiva, il sé è il risultato organico dell'unione del pre­ sente e del passato, il quale sopravvive nella memoria (Bergson, 1911). Al pensiero di Bergson e alle dottrine che riconoscono nell'azione il fondamento della conoscenza, note come "filosofia dell'azione" , si collega il movimento pragmatista. Peirce (1940, 1960), fondatore del pragmatismo americano, ha rilevato che il sé non è riconducibile soltanto alla memoria, in quanto implica coerenza e continuità di sentimenti, azioni e idee. Per­ tanto, è necessario ammettere l'esistenza di un fenomeno che viene chiama­ to sé personale. Si tratta di un fenomeno illusorio ma che, comunque, deve essere ritenuto esistente sulla base degli effetti che gli vengono attribuiti. Su una posizione affine si colloca la fenomenologia di Brentano e Hus­ serl. Questa concezione, in contrapposizione al naturalismo, ha come pun­ to di partenza la centralità dei fenomeni psichici. L'atteggiamento adottato è quello fenomenologico di semplice contemplazione di sé e del mondo co18

1.

L"I\ITA E .\IOLTEPLICITA DEL SÉ

me si presenta alla coscienza. Secondo Brentano (1874) , i fenomeni psichi­ ci sono caratterizzati dall'intenzionalità, in quanto si riferiscono a un og­ getto immanente, ossia che cade nell'ambito dell'atto della stessa esperien­ za psichica. In questa prospettiva, Husserl (1913) ha posto le basi della cor­ rente, e dei successivi sviluppi esistenzialistici, sostenendo che l'esperienza si fonda sempre su contenuti particolari in determinati momenti e situazio­ ni. È possibile ammettere l'esistenza della coscienza senza quella del mon­ do, tuttavia, essendo l'intenzionalità la struttura necessaria della coscienza, questa si configura in maniera valida soltanto nel rapporto col mondo. L'esistenzialismo ha sviluppato in maniera particolare il problema fon­ damentale dell'esistenza dell'uomo nel mondo. Heidegger (1927), rifacen­ dosi strettamente a Husserl, ha messo in evidenza che l'esperienza indivi­ duale riguarda in ogni caso un contesto nel mondo: gli individui non esi­ stono separati dal mondo. Prima di lui, Kierkegaard (1843) ha affermato che il sé è costituito da relazioni che collegano ciascuno con se stesso e con il mondo in cui è in­ serito. Questa relazione non può essere capita in astratto indipendente­ mente dall'inserimento nel mondo. In tale contesto, l'esistenza si presenta come incerta, oscura e minacciata dalla possibilità angosciosa del nulla. A Kierkegaard si collega in maniera particolare J aspers, il quale ha focalizza­ to l'attenzione sull'autocomprensione, il chiarimento a se stesso dell'esi­ stenza nel mondo del singolo individuo (Jaspers, 193 5) . In questa prospet­ tiva, Sartre ha sostenuto che il sé non corrisponde a una sostanza ma co­ stituisce un processo in continuo sviluppo. L'essenza del sé consiste in una scelta continua di autoprogettazione rispetto alle possibilità future, in una condizione perpetua di equilibrio instabile tra l'identità come assenza di diversità, e unità come sintesi di molteplicità (Sartre, 1955) . 1.2 La prospettiva psicologica

1.2.1. Fondamenti e indirizzi Seguendo i cambiamenti della società, il sé ha assunto nel tempo un signi­ ficato importante nel sentire della gente comune in termini di autocono­ scenza, di realizzazione personale, di relazione tra individuo e società. Se­ condo Baumeister (1987) , gli eventi critici per la costruzione in termini mo­ derni del concetto di sé possono essere così riassunti. Nel tardo medioevo (XI-XV sec.), si è sviluppato gradualmente un con­ cetto cristallizzato dell'unità di ogni singola vita umana. All'inizio dell'età moderna (XV-XVII sec.), si è posta la distinzione tra un sé interno e un sé 19

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

esterno. Durante quest'epoca, il puritanesimo ha aumentato l'autoconsa­ pevolezza, riconoscendo la possibilità dell'autoinganno. Nell'epoca ro­ mantica (tardo XVIII-inizio XIX sec.), le persone hanno cominciato a cerca­ re e ad enfatizzare forme di realizzazione personale, e ad avvertire un profondo conflitto tra l'individuo e la società. Durante l'epoca vittoriana (medio e tardo XIX sec.) , si è verificata una crisi in tutte le questioni rile­ vanti per il sé. Agli inizi del xx secolo, si è parlato di alienazione e svalu­ tazione del sé in relazione alla dipendenza dell'individuo dalla società. Si­ no alla Seconda guerra mondiale, gli individui si sono adattati ai cambia­ menti delle realtà sociali, ma hanno continuato a cercare a tentoni ideali e significati dell'autodefinizione e dell'autorealizzazione. Fino ad arrivare ai giorni nostri in cui, l'unicità dell'individuo, il valore dell'autoesplorazione e la ricerca della realizzazione personale sono pienamente riconosciuti. In ambito psicologico, l'interesse crescente per i problemi legati al sé si è esteso in diversi settori della psicologia moderna che vanno da quella clinica alla ricerca in laboratorio. :\'ella letteratura sull'argomento, tutta­ via, non esiste una definizione chiara e univoca del termine sé o un'unica prospettiva teorica (cfr. Byrne, 1984; Epstein , 1973; Hattie, 1992; Wells, Marwell, 1976; Wylie, 1989) . Ciò ha portato a numerose critiche e riserve radicali sulla validità teorica del concetto (Epstein, 1973). Da un punto vista di strettamente metodologico, il sé è un costrutto concettuale utile per spiegare e predire il comportamento di ciascuno (cfr. Shavelson, Hubner, Stanton, 1976) . Nonostante le divergenze, ha un valo­ re essenziale nella moderna psicologia della personalità (cfr. Caprara, Cer­ vone, 2ooo; Pervin, John, 1997) . Al sé, generalmente, è attribuita la fun­ zione principale di spiegare il coordinamento, l'unità, la coerenza e l'equi­ librio dell'esperienza consapevole dell'individuo (cfr. Allport, 1965; Erik­ son, 1968; Epstein, 1973 ; Stagner, 1961). Il sé è intimamente legato al concetto di identità e implica un coinvol­ gimento della sfera cognitiva, affettiva e comportamentale. Pervin e John (1997) , ad esempio, lo definiscono come un'organizzazione delle cono­ scenze individuali costituita dai processi cognitivi associati dal soggetto al­ l'Io. Brettschneider e Heim (1997) identificano il concetto di sé con l'in­ sieme di conoscenze che un individuo ha di se stesso, relative ad aspetti importanti della vita e alla personalità. Il concetto di identità è, in un cer­ to senso, comprensivo del concetto di sé, in quanto l'identità si riferisce al­ l'avere una chiara definizione di sé e si fonda sul concetto che noi abbia­ mo di noi stessi. Tutto ciò, sul piano emotivo, implica una stretta associa­ zione con l'autostima (cfr. Hattie, Marsh, 1996) . L'identità riguarda specificamente la continuità dell'esperienza in rap­ porto a se stessi e agli altri (cfr. Erikson, 19 50b , 1968, 1980) . In tal senso, 20

1.

L"I\ITA E .\IOLTEPLICITA DEL SÉ

presenta anche una dimensione sociale. Per Tajfel (1982) , l'identità sociale può essere definita come quella parte dell'immagine di sé, derivante dalla consapevolezza di appartenere a gruppi sociali e dal significato che l'indi­ viduo assegna a tale appartenenza. L'identità, inoltre, comprende i valori, le mete e le credenze che la persona ritiene propri e nei quali si impegna (cfr. Waterman, 1985) . Secondo Breakwell (1992) , essa è un processo dina­ mico in cui vi è una continua interazione tra aspetti biologici, fisici, socia­ li e situazionali. Sebbene il sé sia spesso considerato piuttosto stabile, per certi autori ha carattere dinamico. In particolare, si sviluppa in termini evolutivi (cfr. Harter, 199oa) e, anche quando abbia raggiunto una certa stabilità nel sog­ getto adulto, potrà comunque essere modificato da fattori esterni (cfr. Markus, Kunda, 1986) . Nel periodo attuale, il sé viene considerato da molti autori come un'organizzazione di conoscenze, che si sviluppano entro una realtà es­ senzialmente sociale (cfr. Greenwald, Pratkanis, 1984; Kihlstrom , Cantar, 1984) . Da un punto di vista cognitivo, il sé è costituito da due aspetti, uno contenutistico e uno strutturale. A livello dei contenuti, il sé è composto dall'insieme delle esperienze individuali sviluppatesi nel contesto sociale. Si hanno, così, conoscenze di­ chiarative che comprendono ricordi episodici e semantici. Ossia, si parla di ciò che una persona sa (componente conoscitiva) e pensa (componente valutativa) di se stessa. Ci sono anche conoscenze procedurali legate agli aspetti funzionali del sé, cioè all'elaborazione delle informazioni. Per quanto riguarda gli aspetti strutturali del sé, questi si riferiscono a come le varie conoscenze su di sé sono organizzate. Naturalmente la strut­ tura del sé è strettamente legata agli aspetti funzionali. Infatti, il modo di elaborare le informazioni dipende dall'organizzazione dei dati stessi (cfr. Arcuri, 19 88) . In generale, la letteratura contemporanea concorda in larga misura nell'assegnare al sé un valore basilare per l'organizzazione, l'integrazione e lo sviluppo dei diversi aspetti della personalità (cfr. Markus , 1983 ; Harter, Pike, 1984; Harter, 1990a) . Inoltre, il sé costituisce una sorta di " crocevia" tra discipline psicologiche e biologiche (cfr. Ammaniti, 1989; LeDoux, 2002) e riveste una notevole importanza in ambito epistemologico (cfr. Del Miglio, 1989) . Negli sviluppi recenti, rappresenta un costrutto fondamen­ tale per il superamento di annose controversie negli studi di personalità come quelle individuo/situazione e cognizione/emozione (cfr. Bandura, 1977a; Epstein, 1994; Mischel, Shoda, 1998). In sintesi, si può sostenere che il sé è un costrutto fondamentale nel­ la psicologia contemporanea e in particolare nello studio della persona21

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

lità. Al sé sono attribuite funzioni essenziali di coordinamento del com­ portamento e dell'esperienza. È legato a concetti fondamentali come quelli di identità, autostima, coerenza ed equilibrio dell'individuo. Impli­ ca unità e continuità, ma anche molteplicità e variabilità. Ciò esige il rife­ rimento a un complesso quadro teorico che tiene conto di processi inte­ rattivi tra fattori individuali e ambientali. I primi inglobano il piano bio­ logico, i processi evolutivi, le attività mentali e i loro fondamenti nervosi. Sul piano mentale sono coinvolte varie sfere: cognitiva, emotiva e moti­ vazionale. Questo comporta anche la considerazione di giudizi in termini di valori e della dimensione del futuro. I secondi si estendono dalle rela­ zioni familiari a quelle socioculturali. In tal senso, implicano anche aspet­ ti linguistici e storici. I primi studiosi che si sono occupati del sé lo hanno considerato come un elemento molteplice (cfr. James, 1890, 1892; Cooley, 1902) . Altri, invece, lo hanno concepito come un elemento unitario (cfr. Wicklund, Eckert, 1992; Harter, 1996) . Con il passare del tempo e, soprattutto, grazie alla ri­ cerche basate su analisi statistiche quali l'analisi fattoriale, ci si è spostati sempre più frequentemente verso modelli multifattoriali e interattivi del sé. Le varie concezioni psicologiche sul sé possono essere ricondotte, in­ nanzitutto, alle due prospettive tradizionali, ossia quella unitaria e quella della molteplicità del sé. In alcune concezioni, le due prospettive si diffe­ renziano per gradi o sfumature e, pertanto, una classificazione dicotomica non sempre risulta adeguata. Posizioni intermedie si presentano in manie­ ra particolare nella concezione dinamica di origine psicoanalitica o di tipo esistenzialista. 1.2.2. La concezione unitaria Secondo la prospettiva unitaria, il sé è stato interpretato come un costrut­ to globale in cui la conoscenza non è distinta dall'oggetto conosciuto (cfr. Wicklund, Eckert, 1992) . Diversi autori, tra i quali Allport, Assaggiali, J ourard, Maslow, Rogers, condividono questa impostazione. In genere, in maniera conforme alla tradizione platonica e a quella religiosa, il nucleo centrale e indivisibile del sé è considerato come il vero sé. Questo nucleo, fatta eccezione per alcune posizioni come quella di Allport, si contrappo­ ne agli aspetti molteplici e superficiali che sono propri delle altre identifi­ cazioni sociali o falsi sé. Il rifiuto delle pressioni sociali e l'importanza per la salute attribuita all'essere autentici accomunano diversi indirizzi clinici e della psicologia dello sviluppo (cfr. Wallach M. A., Wallach L., 1983) . Per Allport (1955) , il sé corrisponde al proprium, definito come la tota­ lità degli aspetti della personalità che forniscono un senso di unità interio22

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re, e che l'individuo considera particolarmente suoi. Il proprium non è in­ nato, ma si sviluppa con l'esperienza e, così, consente il raggiungimento dell'autonomia funzionale. Il senso del sé riguarda diversi aspetti come, ad esempio, quello fisico, l'identità personale e l'autostima. Nessuno di que­ sti elementi, tuttavia rappresenta un'entità distinta dal resto della perso­ nalità. La conoscenza di sé si esplica all'interno di un continuum, e non im­ plica la separazione tra entità conoscente e processo conoscitivo (Allport, 1937) . Egli, tuttavia, ha criticato la possibilità di mettere in luce gli aspetti più profondi e veri del sé mediante l'introspezione, intesa come orienta­ mento volontario della conoscenza verso l'interiorità. Allport riteneva, però, che certe persone, dotate di elevata sicurezza e senso dell'umorismo, possano avere una conoscenza adeguata di sé. Tale adeguatezza è valuta­ bile in base alla corrispondenza tra la concezione che una persona ha di sé e quella che gli altri hanno della stessa persona. Al centro della psicologia umanistica di Rogers e Maslow si colloca l'individuo inteso come entità olistica in divenire. L'organismo individuale può raggiungere diversi livelli di sviluppo in funzione dell'intervento del processo unitario di autoconsapevolezza del sé. La coscienza corrisponde alla "simbolizzazione" di alcune esperienze personali. Per Rogers (1951 e 1961) il comportamento deriva dal campo fenomenologico costituito dall'e­ sperienza soggettiva. Il sé si sviluppa gradualmente nel campo dell'espe­ rienza in relazione all'Io, assumendo una configurazione variabile ma or­ ganica e coerente (Rogers, 1959). Oltre al sé, che corrisponde a come una persona è "realmente" , Rogers ha preso in considerazione un " sé ideale" equivalente a come uno vorrebbe essere. Egli ha sottolineato l'importanza di separare le esigenze del nucleo centrale del vero sé dai condizionamen­ ti ambientali. Secondo l'autore, la crescita tende spontaneamente verso fi­ ni positivi. L'individuo trova in se stesso questi elementi di progresso e sol­ tanto lui è in grado di conoscerli. Le pressioni ambientali possono ostaco­ lare il processo di crescita, dar luogo a discrepanze nel sé e innescare svi­ luppi devianti o patologici. Gli ostacoli principali sono costituiti dalla mancata corrispondenza tra la simbolizzazione delle esperienze del sé de­ rivanti dall'esterno e le esigenze profonde dell'organismo. L'educazione e l'intervento terapeutico hanno come scopo quello di favorire la piena at­ tuazione delle potenzialità individuali e l'acquisizione dell'autonomia. Maslow (1954; 1961; 1971) ha focalizzato la sua teoria sul concetto di au­ torealizzazione. Questa costituisce il fine principale dello sviluppo umano che, come per Rogers, ha carattere positivo. I bisogni naturali sono essen­ zialmente "buoni" e hanno struttura gerarchica. Alla base si collocano i bisogni organici e quelli strettamente individuali di sicurezza, accettazio­ ne e identità. Superati questi bisogni, l'uomo è motivato da interessi idea23

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

li di creatività e di trascendenza. La patologia deriva dalla negazione del­ la natura spontanea dell'uomo. Gli individui sani, spontanei, autonomi, sicuri di sé e dotati di capacità creative, possono raggiungere notevoli li­ velli di autorealizzazione (Maslow, 1962) . Questa, con la mediazione es­ senziale della conoscenza di sé e la soddisfazione dei bisogni naturali, può condurre a dimensioni superiori di completezza, come l'autonomia tra­ scendentale e la piena attuazione delle potenzialità individuali (Maslow, 1962) . In tal senso, il vero sé corrisponde allo stadio finale dell'autorealiz­ zaziOne. Jourard (1958 e 1971) , in maniera simile a Rogers e Maslow, considera l'interesse per il sé un prerequisito per la salute mentale, e uno strumento per raggiungere il fine desiderato della buona conoscenza di sé. Questa è caratterizzata dall'assenza di influenze ambientali come il mercato, la mo­ da e il conformismo (Jourard, Lasakow, 1958) . Ugualmente, il metodo della psicosintesi introdotto da Assaggiali (1973) riflette molti aspetti della prospettiva unitaria. Alla base della con­ cezione, si colloca l'esperienza della crisi esistenziale che ostacola il rag­ giungimento della felicità e del successo. La condizione di crisi è legata al­ la dominanza di troppi ruoli sociali di facciata. L'identificazione eccessiva con questi ruoli impedisce il contatto con il vero nucleo del sé. La solu­ zione della crisi consiste nel rivolgimento verso la profondità interiore e l'esplorazione del vero sé. Alla concezione unitaria si rifanno anche ricercatori come Cooper­ smith (1967) e Piers (1977), i quali hanno interpretato il sé come una sorta di entità monolitica. 1.2.3. Corrente psicodinamica e influenze esistenzialistiche La prospettiva psicodinamica è strettamente legata agli sviluppi della teo­ ria psicoanalitica. Freud non ha utilizzato il termine sé, ma si è limitato al riferimento all'Io, definito come il centro dell'organizzazione dell'espe­ rienza più vicino alla coscienza anche se non del tutto corrispondente al­ l'esperienza cosciente (cfr. Freud, 1922) . Negli sviluppi della teoria freu­ diana è stato introdotto il riferimento al sé, inteso come elemento interio­ re di riflessione consapevole, che sta alla base della costruzione dell'iden­ tità. L'interesse principale è orientato verso gli aspetti dinamici, la sua for­ mazione e i processi affettivi e relazionali. In tal senso, mette in evidenza le caratteristiche di molteplicità, conflittualità e frammentazione del sé. Tuttavia, in certi casi, l'indirizzo riprende anche la considerazione di aspetti riguardanti il nucleo centrale del "vero sé" . Considerazioni simili possono essere estese ad alcuni orientamenti clinici di tipo esistenzialista. 24

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La psicologia analitica junghiana si colloca in una posizione dissiden­ te rispetto alla concezione di Freud. Per J ung, il sé è un archetipo che rap­ presentanza il centro della personalità unificata. Mentre l'Io è il centro del­ la mente cosciente, il sé costituisce il punto di equilibrio tra coscienza e in­ conscio. È una meta, un obiettivo da raggiungere, più che una condizione in atto. Rappresenta il fine ultimo dell'umanità, raggiungibile solo da po­ chi individui (cfr. Jung, 1934) . In questo senso, la concezione junghiana, specie nella fase finale della sua elaborazione, si avvicina alla tradizione re­ ligiosa. Presenta elementi in comune con la concezione unitaria, ma se ne differenzia in quanto, come archetipo, il sé fa parte dell'inconscio colletti­ vo. Secondo J ung, tuttavia, per il raggiungimento della condizione finale di equilibrio e unità della personalità, è necessario anche il contributo del­ la conoscenza razionale. Nel tentativo di far chiarezza rispetto alla visione freudiana, Hartmann (1950) ha operato una distinzione concettuale tra Io, sé e rappresentazione di sé, che ha avuto enormi influenze sugli sviluppi ulteriori della psicoa­ nalisi, in particolare nella tradizione americana. Hartmann sostiene che con il termine Io si intende un'istanza psichica o sottostruttura della per­ sonalità, e che il sé si riferisce alla "propria persona" , cioè alla persona in­ tera. Invece, il termine rappresentazione di sé indica le rappresentazioni consce, inconsce e preconsce del sé contenute nel sistema dell'Io, in quan­ to controparte della rappresentazione dell'oggetto. Sulla base delle distinzioni concettuali introdotte da Hartmann, la J a­ cobson (1964) ha cercato di spiegare i processi di internalizzazione delle prime fasi di sviluppo e i relativi risvolti psicopatologici. L'autrice ha mes­ so in evidenza un orientamento sempre più marcato degli studi psicoana­ litici verso la considerazione dell'identità e l'interpretazione del sé come ri­ specchiamento di tutte le caratteristiche psichiche e fisiche di un soggetto. In tal senso, il sé riguarda sia le parti nei loro diversi piani (esteriore, ana­ tomico, fisiologico, attitudinale, cognitivo, affettivo, inconscio, conscio ecc.), che la loro organizzazione. In particolare, la Jacobson ha introdotto uno schema evolutivo relativo alla comparsa del senso di sé, che si svilup­ perebbe attraverso esperienze di piacere e dispiacere. In tal modo, si for­ merebbero le prime rappresentazioni di sé e dell'oggetto, inizialmente scisse in buone e cattive e, progressivamente, integrate. L'autrice ipotizza una fase iniziale in cui il sé e l'oggetto non sono separati nella mente del bambino. Gradualmente, la rappresentazione del sé e dell'oggetto si diffe­ renziano, e portano allo sviluppo parallelo dell'investimento libidico del sé e dell'investimento oggettuale. Lo studio del sé nell'ambito della relazione oggettuale è stato ap­ profondito da diversi autori. La Mahler lo ha considerato in riferimento al 25

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

superamento della condizione infantile di indi/ferenziazione dalla figura materna. Alla differenziazione, o separazione, è legato il processo di indivi­ duazione (Mahler, 1963) . La separazione riguarda il superamento della fu­ sione simbiotica con la madre, mentre l'individuazione è costituita dall'as­ sunzione delle caratteristiche individuali (Mahler, Pine, Bergman , 1975) . Il processo di separazione-individuazione si manifesta tra il sesto mese ed il terzo anno di vita, e presenta fasi conflittuali associate ad aspetti buoni e cattivi dell'oggetto. In questa fase l'esistenza della madre emerge come og­ getto separato dalla rappresentazione di sé. Così, nel processo di interio­ rizzazione del bambino, si differenziano sé e oggetto, Io e realtà. All'esito delle modalità di separazione-individuazione si associano le condizioni della salute mentale (Mahler, 1971). Bios (1967) , come vedremo in seguito, ha applicato la concezione del­ la Mahler allo studio dell'adolescenza. Questa si configura come un " se­ condo processo di individuazione" , in cui la separazione avviene nei con­ fronti delle immagini genitoriali interiorizzate nell'infanzia. Ciò comporta un investimento narcisistico e un autoaccrescimento del sé (Bios, 1979) . Sempre in riferimento alla relazione oggettuale, Kohut (1971 e 1977) ha analizzato gli aspetti conflittuali del sé. Questo non è una parte della men­ te, ma una rappresentazione. In conseguenza dell'alternarsi di gratifica­ zioni e frustrazioni materne, la rappresentazione iniziale di sé del bambi­ no deve passare da una situazione di completo investimento narcisistico su se stesso a una rinuncia realistica di obiettivi narcisistici. L'immagine " grandiosa" di sé del primo periodo viene superata passando attraverso l'idealizzazione delle figure genitoriali, una conseguente fase di frammen­ tazione e, successivamente, mediante una ricostruzione coerente e stabile. Kernberg (1975 e 1976) ha messo in evidenza la possibilità di sviluppi patologici nella rappresentazione narcisistica di sé in conseguenza di rela­ zioni madre-bambino eccessivamente frustranti. Secondo Winnicott (1965a) , il bambino inizia a uscire dalla condizione di simbiosi con la madre nei primi due anni di vita, mediante un'esperien­ za simile all'osservazione allo specchio della propria immagine. Questo ri­ specchiamento è alla base della formazione del sé ed è strettamente legato al rapporto con la figura materna. Lo specchio è rappresentato dallo sguardo materno " di ritorno" nei confronti del comportamento del bam­ bino. La madre può rimandare un rispecchiamento che favorisce le esi­ genze di separazione ed individuazione del bambino, oppure può rinviare un'immagine incompleta e frammentata che ritarda il distacco dalla fusio­ ne iniziale. Il senso del sé come unità della personalità individuale si rea­ lizza soltanto grazie al senso di continuità dell'esistenza trasmesso dalla fi­ gura materna (Winnicott, 1986) . Al "vero sé" , frutto di uno sviluppo sano,

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si contrappone "il falso sé" , caratterizzato da conflitti e frammentazioni che suscitano la messa in atto di meccanismi di difesa, i quali possono as­ sumere caratteristiche patologiche. Un altro indirizzo ha preso in considerazione l'influenza delle relazio­ ni sociali. Adler, uno dei primi dissidenti freudiani, ha sottolineato l'im­ portanza del sentimento sociale. Per Adler il sé è strettamente connesso al­ lo stile di vita. Questo riguarda il modo in cui vengono affrontati i compi­ ti fondamentali della vita. Tutte le attività essenziali dell'uomo dipendono dalle relazioni sociali. L'individuo isolato difficilmente riesce a sopravvive­ re. Per rispondere alle sfide dell'esistenza, ogni uomo tende necessaria­ mente a raggiungere un livello ottimale di adattamento all 'ambiente. Ciò si configura in termini di inclinazione fisiologica alla superiorità. Per rag­ giungere tale obiettivo è indispensabile il rapporto con gli altri (cfr. Adler, 1933). La relazione inadeguata con gli altri, invece, preclude il raggiungi­ mento della superiorità e sta alla base del disadattamento e dello sviluppo patologico. Il sé media la connessione tra l'individuo e gli altri. Il succes­ so favorito dalle relazioni sociali positive si associa a una valutazione posi­ tiva di sé. Per proteggere l'immagine positiva di sé, in conseguenza di dif­ ficoltà nei rapporti sociali, vengono messe in atto delle difese. Il fallimen­ to, ad esempio, può innescare un complesso di superiorità. Questo rap­ presenta una configurazione patologica della tendenza alla superiorità che, per difesa dall'insuccesso sociale, si manifesta come esigenza di ostenta­ zione esagerata di successo fittizio. All'interno della concezione ortodossa, Erikson (1968) ha effettuato una distinzione tra Io, Ego e sé. L'Io rappresenta l'organizzazione dell'esperien­ za cosciente, l'Ego la parte inconscia dell'Io e il sé costituisce l'autoconsa­ pevolezza dell'Io. Il sé è legato all' identità e all'autostima. L'identità è ciò che ci permette di sentirei in continuità con il nostro passato e di ricono­ scerei nel modo in cui gli altri ci vedono (Erikson, 195ob) . In tal senso, in­ clude due aspetti importanti: identità personale e identità sociale (Erikson, 1968). La prima riguarda la continuità della propria esperienza individuale e la distinzione dagli altri. La seconda si riferisce alla continuità dell' espe­ rienza di relazione col gruppo sociale di appartenenza. L'interruzione della continuità si caratterizza come elemento di crisi. La continuità è vissuta po­ sitivamente e corrisponde a un'autostima elevata. La crisi di identità, inve­ ce, è vissuta con disagio ed è caratterizzata da una bassa autostima. L'iden­ tità ha anche un aspetto storico. In questo contesto, il sé non comporta un rifugio nell'interiorità e un allontanamento dalle relazioni sociali, ma impli­ ca continuità col gruppo sociale di appartenenza e con la sua storia. Anche altri autori come la Horney (1937 e 1939) e Sullivan (1953) han­ no messo in risalto l'esigenza di continuità tra il sé e gli altri. Sullivan 27

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(1953), in particolare, ha indicato la funzione primaria delle relazioni imer­ personali e l'impossibilità per gli individui di vivere separati dagli altri. Agli autori sopra citati, può essere accostato Laing (1960 e 1961) , il qua­ le ha affrontato il rapporto tra " vero" e "falso sé" in una prospettiva clini­ ca di tipo esistenzialista. Il sé si modella nell'infanzia e nell'adolescenza sulla base del rapporto con gli altri e, in particolare, con i genitori. L'iden­ tità personale non può prescindere totalmente dagli altri. Lo sviluppo del­ l'identità implica la sostituzione originaria dei genitori con altre persone di riferimento. Secondo l'autore, l'ambiente sociale ha un 'importanza fonda­ mentale nel processo di crescita. L'individuo può sviluppare un falso sé quando attribuisce troppa importanza alle richieste degli altri. Ciò può da­ re luogo a soluzioni patologiche di diverso livello, e impedisce la scoperta del vero sé. Questo non è innato, ma si sviluppa dalla conquista della con­ sapevolezza da parte del soggetto di poter agire con le proprie capacità. Per Laing (1960) , in accordo con l'esistenzialismo filosofico di Kierkegaard e Sartre, la consapevolezza di non essere necessariamente come gli altri de­ siderano viene vissuta con disagio, e costituisce un dilemma esistenziale. Abbiamo visto precedentemente che l'esistenzialismo si colloca in una prospettiva fenomenologica. Questa ha fornito un contributo di rilievo al­ l'analisi del sé corporeo, mettendo in evidenza sia componenti di molte­ plicità che elementi di unicità. :\'el capitolo 4, ci soffermeremo brevemen­ te sull'argomento e, in particolare, sulla concezione di Merleau-Ponty. 1.2+ La molteplicità del sé In campo psicologico, lo studio del sé in termini di diversi elementi costi­ tutivi o componenti ha avuto inizio con J ames, Cooley e George Herbert Mead. I:eredità di

William ]ames

J ames ha dato un impulso considerevole allo sviluppo del pragmatismo di Peirce. Egli è considerato l'iniziatore degli studi psicologici sul sé e il pun­ to di riferimento per l'indirizzo della molteplicità. I contributi di J ames allo studio del sé sono numerosi (} ames 1890, 1892) . Uno, di particolare rilievo, è la distinzione che lui per primo ha ope­ rato tra due aspetti fondamentali del sé: l'Io e il Me. Tale differenziazione corrisponde al sé come soggetto e al sé come oggetto. Per James, l'Io è il sé come conoscitore, cioè il soggetto che organizza e interpreta l'esperienza. Im p lica un senso di continuità personale e di uni­ cità della propria esistenza. E ciò che ci fa sentire degli individui assoluta-

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mente diversi degli altri. Inoltre, è l'attivo responsabile della costruzione del Me. Il Me, invece, rappresenta il sé come oggetto conosciuto. È il Me che è stato etichettato come concetto di sé e al quale è stata dedicata maggio­ re attenzione nel campo della psicologia del sé (cfr. Harter, 1996) . Il Me viene definito come la somma di tutto ciò che una persona può conside­ rare "proprio" . Questa totalità può essere suddivisa in tre componenti principali: il sé materiale (materia! se/j) , il sé sociale (social se/j) e il sé spi­ rituale (spiritual se/j) . Il sé materiale include sia il sé corporeo (bodily se/j) , che i beni mate­ riali di ciascuno. Il sé sociale consiste nelle caratteristiche del sé ricono­ sciute dagli altri. Data la potenziale diversità delle opinioni altrui, J ames (1890, p. 190) afferma che «un uomo ha tanti sé sociali quanti sono gli in­ dividui che lo riconoscono e hanno un'immagine di lui nella loro mente». Il sé spirituale è definito come un insieme di pensieri, disposizioni, giudizi morali, e così via, che costituiscono gli aspetti più stabili del sé. Le tre componenti del Me sono organizzate gerarchicamente. Alla ba­ se si colloca il sé materiale che costituisce il fondamento degli altri sé. Il sé sociale occupa la posizione successiva. Nella concezione di J ames, infatti, noi siamo interessati maggiormente ai legami umani che non al nostro cor­ po o ai beni materiali. Il sé spirituale occupa la posizione più alta, e rap­ presenta il patrimonio più prezioso: piuttosto che perderlo, un uomo do­ vrebbe essere disposto a rinunciare agli amici, alla gloria, alle proprietà e alla vita stessa (J ames, 1890) . J ames sottolinea l'esistenza di una molteplicità di sé. Questa è legata soprattutto ai ruoli sociali, e può essere armoniosa o discordante. Infatti, quando il soggetto non riesce a integrare i vari ruoli, può arrivare ad un " conflitto tra i diversi Me" . A questo proposito, ripudiare particolari ruo­ li non è necessariamente un danno per il senso globale del valore della per­ sona. Secondo J ames (1890) , infatti, l'autostima è il risultato del rapporto tra i successi e le aspirazioni delle persone. Così, se i successi percepiti ec­ cedono le aspirazioni di risultati positivi, ne deriva un 'elevata autostima. Di contro, se le pretese eccedono i successi, cioè se una persona speri­ menta degli insuccessi in domini nei quali aveva delle aspirazioni elevate, ne deriva un abbassamento dell'autostima. Di conseguenza, la mancanza di un buon risultato in un'area nella quale una persona non abbia pretese, non danneggia l'autostima in quanto quel settore non è importante per la definizione di sé del soggetto. In tal senso, sia la presenza sia l'assenza di aspirazioni assumono un ruolo importante nella teorizzazione jamesiana. Infatti, abbandonare certe pretese può essere un sollievo tanto quanto cer­ care di raggiungere delle mete. 29

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Rispecchiamento e intera·zione sociale Per Cooley (1902) e George Herbert Mead (1925 e 1934) , il sé è principal­ mente una costruzione sociale che si forma attraverso le relazioni con gli altri. Questi autori, così, hanno posto le basi per la considerazione delle in­ fluenze ambientali e, soprattutto, per lo sviluppo dell'interazionismo sim­ bolico. Tale indirizzo ha messo in evidenza come le interazioni sociali del­ l'individuo con gli altri modellino profondamente il sé attraverso gli scam­ bi linguistici (interazioni simboliche) . A Cooley (1902) si deve l'introduzione del concetto di sé rispecchiato (looking glass selj) . Per Cooley, gli altri significativi costituiscono uno spec­ chio sociale nel quale l'individuo guarda con insistenza per scorgere le opi­ nioni altrui nei propri confronti. La percezione delle opinioni altrui in­ fluenza la formazione del concetto di sé e dell'autostima. In questo modo, le valutazioni riflesse diventano le proprie valutazioni. Cooley (1902) so­ stiene che ciò che ci fa sperimentare orgoglio o vergogna non è il mero ri­ flesso meccanico di noi stessi, ma il sentimento che gli attribuiamo, l' ef­ fetto che immaginiamo quel riflesso abbia sulla mente dell'altro. Questo sentimento è inizialmente sociale: si fonda sulla cultura e le opinioni so­ ciali, fino a venire incorporato nel sé attraverso il processo di internalizza­ zione. Per Cooley, la persona con un sé bilanciato e maturo ha delle mo­ dalità di pensiero su di sé, che non possono essere scalfite da visioni tran­ sitorie o contrastanti di altri significativi. In Mead, troviamo una rielaborazione dei temi indicati da Cooley con un'insistenza ancora più marcata sul ruolo dell'interazione sociale e, in particolare, dell'interazione linguistica. Per Mead, noi ci configuriamo in termini di sé nella misura in cui facciamo nostre le opinioni che gli altri hanno di noi, cioè, assumendo il ruolo dell'altro generalizzato. In questo modo, appariamo come oggetti sociali e come sé. In termini evolutivi, Mead (1925) ritiene che vi sia un processo a due stadi attraverso il quale il bambino assume gli atteggiamenti degli altri nei suoi confronti. Mead chiama questi stadi "gioco" (play) e "gioco organiz­ zato" (game) . Il gioco, per Mead, è l'imitazione dei ruoli adulti che si osserva facil­ mente nei bambini quando si divertono a far finta di essere il genitore, l'in­ segnante, il poliziotto, il pirata ecc. Nello stadio successivo, caratterizzato da giochi di società, ci sono procedure obbligatorie e regole: «Il bambino non deve solo assumere il ruolo di un altro, come fa nel gioco, ma deve as­ sumere i ruoli di tutti i partecipanti al gioco e condurre le sue azioni in ac­ cordo con gli altri. Se gioca in prima base, è il soggetto al quale la palla verrà lanciata dall'esterno o dal ricevitore. Le loro reazioni organizzate diJO

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ventano ciò che ho chiamato l'altro generalizzato che accompagna e con­ trolla la sua condotta. È questo altro generalizzato che nasce dalla sua esperienza, che gli fornisce un sé» (Mead, 1925, p. 271) . Il concetto di altro generalizzato, perciò, implica che l'individuo rea­ gisca ad un insieme di altri specifici con i quali lui interagisce in una data situazione. L'analisi di Mead è focalizzata principalmente sul Me, che è definito in senso più sociale rispetto a quello di J ames. Il Me è costituito dall'interio­ rizzazione delle opinioni e delle aspettative altrui sul soggetto. Tuttavia, Mead non trascura il concetto di Io. Il suo Io condivide con quello jame­ siano l'enfasi sull'azione. L'Io, infatti, conferisce organicità alle esperienze e fornisce un senso di libertà e di iniziativa (Mead, 1934) , sebbene debba agire in associazione con il Me. Il sé è il risultato dell'interazione circolare tra Io e Me. Presenta un carattere più articolato delle altre istanze, e sta al­ la base dell'autoriconoscimento, dell'identità e del potenziamento dell'au­ tonomia individuale. Oltre agli elementi multidimensionali, in J ames, Cooley e Mead, pos­ siamo individuare diversi temi che costituiscono un argomento centrale nello studio contemporaneo del sé. Di particolare rilievo è il ruolo che vie­ ne attribuito da Cooley e Mead alle opinioni degli altri nel modellare, at­ traverso l'interazione sociale, il concetto di sé. In più, come si è visto, Coo­ ley fa riferimento a un processo evolutivo di internalizzazione per mezzo del quale le opinioni riflesse degli altri vengono incorporate nel sé. Pro­ cesso che ha delle implicazioni per la stabilità e la coerenza del concetto di sé. Infine, le considerazioni di James sull'autostima e l'idea di Cooley che i giudizi sul sé siano accompagnati da sentimenti sul sé, introducono la considerazione dell'importanza dei processi affettivi. Tali aspetti verranno approfonditi nell'analisi della teoria della discrepanza del sé, dopo aver esaminato, nel prossimo capitolo, gli sviluppi contemporanei della conce­ zione pluridimensionale.

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2

La concezione multidimensionale contemporanea

2.1

Globalità e specificità

2.1.1. Orientamenti recenti Negli sviluppi contemporanei, molti studi sia teorici che empirici concor­ dano su una interpretazione multidimensionale del concetto di sé (ad esempio Gergen, 1967, 1971; Epstein, 1973; Markus, 1977; Byrne, 1984; Mar­ sh, Shavelson, 1985; Markus, Wurf, 1987; Hattie, 1992;) . In questa interpre­ tazione, che riprende la visione di James, Cooley e Mead, il sé presenta una natura multisfaccettata, costituita da vari aspetti come quello fisico, intel­ lettuale, affettivo o sociale. In tal modo, oltre al concetto generale di sé, si possono definire diversi sé in varie dimensioni (cfr. Markus, 1977; Hoge, McCarthy, 1984; Kihlstrom, Cantar, 1984; Marsh, 1986; Markus, Nurius, 1986, 1987; Linville, 1987; Markus, Wurf, 1987; Showers, 1992a) . Ciò ha con­ dotto alla distinzione tra una percezione globale e una spect/ica di sé stret­ tamente legata al problema della conoscenza di sé. 2.1.2. Conoscenza di sé e desiderabilità sociale Spesso termini come concetto di sé, consapevolezza di sé, coscienza di sé, concezione di sé sono usati come sinonimi per indicare genericamente il modo di percepire o intendere il sé (cfr. Byrne, 1996) . Nonostante le di­ vergenze, diversi autori concordano sul fatto che percezione e conoscenza di sé rappresentano aspetti differenti del sistema del sé. Ciò implica una considerazione plurifattoriale ed allargata del costrutto di sé che include elementi cognitivi, affettivi e comportamentali (Brinthaupt, Erwin, 1992; Hattie, 1992) . In questa prospettiva (cfr. Duval, Wicklund, 1972; Fazio, Zanna, 1978; Markus, 1983; Klein, Loftus, 1993; Woike, Baumgardner, 1993), la conoscenza di sé (self-knowledge) può essere considerata come un'adeguata consapevolezza di certe caratteristiche di sé, mentre la per33

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

cezione di sé (self-perception) riguarda un modo più ampio e generico di percepire il sé. Una tecnica usata frequentemente per studiare la conoscenza di sé consiste nel richiedere ai soggetti di convalidare giudizi o diagnosi fatti da altri su di loro. L'esame di questi studi mette in evidenza che, solitamente, le persone danno su sé stesse risposte non corrispondenti alle loro carat­ teristiche reali. Ciò dipende da diversi fattori (cfr. Snyder, Shenkel, Lowery, 1977) . Tra questi emergono la desiderabilità o la positività dei pro­ fili da validare (Collins, Dmitruk, Ranney, 1977; Mosher, 1965; Snyder, Shenkel , 1976; Sundberg, 1955; Weisberg, 1970) , e l'ambiguità o genericità delle affermazioni (Carrier, 1963 ; Gauquelin, 1969 ; Lattai K. A., Lattai A. D., 1967; Manning, 1968; Merrens, Richards, 1970; O'Dell, 1972; Snyder, 1974; Snyder, Larson, 1972; Stagner, 1958; Sundberg, 1955). Un altro fattore di rilievo è costituito dalla variabilità delle caratteristiche individuali (Car­ ver, 1975; Gibbons, 1978 ; Hormuth , 1982) , le quali possono adattarsi alle va­ rie situazioni. A tale variabilità si aggiunge la mutevolezza dell'autoperce­ zione (Hovland, Janis, 1959). Le autodescrizioni, generalmente, forniscono un criterio di autovalu­ tazione meno vago, più preciso e specifico (cfr. Mischel, 1968; Snyder, 1974) . Diverse ricerche hanno riscontrato che l'accuratezza delle autode­ scrizioni è condizionata dall'esistenza di determinate condizioni interne ed esterne di consapevolezza di sé (cfr. Duval, Wicklund, 1972; Gibbons, 1983; Hormuth, 1982; Scheier, Buss A. H., Buss D. M., 1978; Willerman, Turner, Peterson, 1976). Questi studi escludono la considerazione della persona come un'unità conoscente e implicano l'analisi della conoscenza di sé in termini di processi conoscitivi e cognizioni specifiche (Wicklund, Eckert, 1992) . Interessante è la posizione della teoria dell'autoconsapevolezza di Duval e Wicklund (1972). Gli autori hanno introdotto i concetti di auto­ consapevolezza soggettiva e oggettiva . Essi sostengono che noi abitualmen­ te abbiamo una consapevolezza soggettiva, in quanto concentriamo la no­ stra attenzione sul contesto e cerchiamo nell'ambiente le spiegazioni degli eventi. A volte, però, siamo costretti a focalizzare la nostra attenzione su noi stessi, cercando di guardarci come ci vedono gli altri. In questi mo­ menti ci troviamo in uno stato di autoconsapevolezza oggettiva. In parti­ colare, secondo gli autori, il soggetto ha maggiori probabilità di descriver­ si in modo adeguato se si guarda allo specchio o ascolta la sua voce regi­ strata. Le esperienze provenienti dalla percezione globale e da quella specifi­ ca concorrono entrambe a fornire informazioni sul sé (Klein, Loftus, 1993) . Alcuni risultati (Fazio, Zanna, 1978; Zanna, Fazio, 1982) indicano che l'a­ deguatezza delle autovalutazioni è facilitata quando le persone hanno una 34

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base comportamentale chiara, o recente, di riferimento per fondare la de­ scrizione delle loro disposizioni. Le caratteristiche di stabilità e specificità di alcune dimensioni primarie come l'estroversione ed il nevroticismo (Ey­ senck, 1960, 1967, 1969; Eysenck H. J . , Eysenck S. B. G., 1969) possono for­ nire una solida base di esperienze e comportamenti su cui fondare le au­ todescrizioni (cfr. Meleddu, Guicciardi, 1998). Ciò, tuttavia, non esclude, a seconda delle situazioni, l'interferenza di fattori esterni o interni legati al­ la desiderabilità dei tratti o al conformismo sociale. Fazio, Effrein e Falen­ der (1981) , per esempio, hanno trovato che i soggetti tendono a definirsi estroversi o introversi in funzione delle aspettative comportamentali tra­ smesse dallo sperimentatore. La conoscenza di sé, comunque, è riconducibile a un complesso pro­ cesso di interazione che include anche i condizionamenti culturali, il lin­ guaggio verbale (Baumeister, 1987; Benenson, Dweck 1986; Cushman, 1990; Miller, 1984) e i fattori emotivi. Questi, in particolare, sono associati a contenuti piacevoli e spiacevoli (Showers, 1992b), e sono soggetti a mec­ canismi di difesa e a condizionamenti sociali. Diversi studi hanno mostra­ to che le autodescrizioni possono essere influenzate da sottili rinforzi am­ bientali (Doob , 1947; Verplanck, 1955) e dalla tendenza a presentarsi in ma­ niera socialmente desiderabile (Cravens, 1975; Crowne, 1979 ; Crowne, Marlowe, 1964) . Caratteristiche quali il disadattamento (Bleda, 1974) , l'in­ troversione (Hendrick, Brown, 1971; Star, 1962) e l'elevata ansietà (Ham­ mes, 1964; Smith, 1954), diversamente dall'estroversione e dalla bassa an­ sietà, sono tratti non desiderabili. Le stesse considerazioni valgono per il nevroticismo che, in base ai risultati di diverse analisi fattoriali, può esse­ re considerato equivalente all'ansietà come tratto (Eysenck, 1981; Eysenck H. J., Eysenck M. W. , 1985) . La desiderabilità, tuttavia, non è legata esclu­ sivamente alle qualità specifiche dei tratti. Ciò rende ulteriormente più complessa la relazione tra la desiderabilità e la specificità nella conoscen­ za di sé. Inoltre, è necessario distinguere fra i tratti e le dimensioni gene­ rali. L'introversione-estroversione, ad esempio, comprende diversi tratti e disposizioni specifiche come la tenacia, la timidezza e la sensibilità (Ey­ senck, 1960, 1964, 1973, 1977) . Ognuna di queste può essere caratterizzata da diversi livelli di gradimento (cfr. Hendrick, Brown, 1971) che possono incidere, con modalità variabili, sull'accuratezza della conoscenza di sé. In generale, sia la desiderabilità che la specificità dei tratti svolgono un ruolo fondamentale, ma la loro influenza può cambiare con le condizioni dell'autovalutazione e la presenza di conflitti. La desiderabilità sociale e i fattori conflittuali possono assumere un'importanza particolare nell'adole­ scenza (cfr. Hoge, McCarthy, 1984; Rosenberg, 1965) . In quest'età, come vedremo successivamente, la crescente differenziazione e articolazione del 35

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

sé (cfr. Damon, Hart, 1982; Harter, 199ob, 1996; L'Ecuyer, 1981) consente agli adolescenti di percepirsi in diversi modi rispetto a specifiche caratte­ ristiche, ruoli o contesti sociali (cfr. Hart, 1988; Marsh, 1989). Ciò può far variare i vissuti e il valore dell'autopercezione. Per esempio, se un tratto non piacevole costituisce una caratteristica comune di un gruppo, la con­ divisione con altri può ridurre l'intensità del disagio associato al tratto (cfr. J ellison, Zeisset, 19 69) . Sulla base dei risultati riguardanti l'accettazione di caratteristiche po­ sitive e negative della personalità, Collins, Dmitruk e Ranney (1977) sug­ geriscono che i giudizi su sé stessi sono, in certa misura, una specie di bi­ lanciamento tra diversi inputs, che coinvolge processi cognitivi ed emoti­ vi. Si può ipotizzare che l'autopercezione si fondi su una sorta di valuta­ zione bilanciata e variabile di aspetti specifici, della loro accettabilità e importanza. I soggetti non tengono conto soltanto del possesso reale di certe attitudini o delle aspettative sociali, ma sembrano rispondere diver­ samente in funzione del valore emotivo che la percezione di questi con­ tenuti può assumere. Da questo punto di vista, il bilanciamento può es­ sere considerato come un processo di interazione tendente a ottenere una condizione di equilibrio ottimale per l'autostima (cfr. Greenberg et al. , 1992) . 2.2

Stabilità, variabilità e funzioni del sé

2.2.1. Gli autoschemi In un contesto di multidimensionalità del concetto di sé, una posizione di rilievo è occupata dalla teoria degli autoschemi. Questa riguarda aspetti stabili e dinamici del sé in rapporto a componenti cognitive ed emotive. Il contributo

della Markus

La Markus (1977) ha introdotto questo concetto in riferimento al proble­ ma dell'elaborazione delle informazioni sul sé. Tale attività ha carattere se­ lettivo e dipende da alcune strutture cognitive interne dette self-schemas. Gli autoschemi sono generalizzazioni cognitive che organizzano e guidano sia l'ingresso che l'uscita delle informazioni sul sé, derivano dall'esperien­ za passata e sono influenzati in maniera particolare dalle relazioni sociali e da fattori legati allo sviluppo del soggetto. Includono rappresentazioni co­ gnitive derivate dalla ripetuta categorizzazione-valutazione del comporta­ mento della persona, fatta da questa stessa o da altri intorno ad essa.

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Il funzionamento degli autoschemi nell'elaborazione delle informazio­ ni sul sé è stato analizzato in diverse ricerche (ad esempio Markus 1977; Markus, Kunda 1986; Markus, Hamill, Sentis 1987) . Via via che gli indivi­ dui accumulano ripetute esperienze di un certo tipo, i loro autoschemi di­ ventano sempre più resistenti a informazioni incoerenti o contraddittorie, sebbene non siano mai del tutto invulnerabili rispetto ad esse. Gli auto­ schemi possono essere visti come un riflesso delle invarianze che la gente scorge nel proprio comportamento sociale. Così, essi verranno generati nella misura in cui il nostro comportamento presenta alcune regolarità e ridondanze. Questo perché i sel/-schemas sono utili nel capire intenzioni e sentimenti e nell'identificare probabili o appropriati patterns di compor­ tamento. Ciò, però, non significa che gli autoschemi siano una sorta di de­ posito. Il concetto di sel/-schema implica, infatti, che l'informazione sul sé in una certa area venga categorizzata od organizzata, e che il risultato di questa organizzazione possa essere usato come base per giudizi futuri, de­ cisioni, inferenze o predizioni sul sé. Gli autoschemi forniscono un punto di vista, una cornice di riferimento per la comprensione e la guida del comportamento. Per la Markus (1983), la conoscenza di sé (self-knowledge) è un aspet­ to centrale della personalità del soggetto. Gli individui costruiscono con­ cetti di sé sulla base di informazioni contenute nelle loro esperienze di vi­ ta. In questo modo guadagnano una base di conoscenza e una certa ex­ pertise circa le proprie abilità, successi, preferenze, valori e mete. La co­ noscenza di sé ha il ruolo fondamentale di inquadrare il comportamento, guidarlo e dirigerne il corso. Cambiamenti nel contenuto e nell'organizza­ zione della conoscenza di sé riflettono significative e durature differenze tra la gente rispetto alle percezioni e alle azioni sociali. La Markus consi­ dera il sé come una struttura dinamica che include la conoscenza di sé re­ lativa a preferenze e valori, mete e motivazioni, ruoli e strategie per rego­ lare o controllare il comportamento. L'autoconoscenza determina il modo in cui la situazione è costruita o interpretata, e quali strategie comporta­ mentali sono chiamate in causa. Ciò influenzerà il risultato comportamen­ tale finale. Per questo, specificare i domini rilevanti per sé è fondamenta­ le perché è in questi domini che gli individui saranno più attenti al loro comportamento, si sentiranno più responsabili per esso e cercheranno di regolarlo. In breve, è in questi domini rilevanti per il sé che troveremo i le­ gami più forti tra personalità e comportamento. I diversi aspetti o domini del sé possono essere più o meno importan­ ti per l'individuo, il quale può essere più o meno schematico in riferimen­ to ad aspetti specifici del sé. Una persona schematica in una dimensione del sé elaborerà le informazioni a essa attinenti in modo diverso da una 37

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aschematica per quel dominio. La Markus (1983), in base ai risultati di di­ versi studi da lei condotti, ha riassunto le caratteristiche principali sull'ar­ gomento: 1. i soggetti schematici in un certo dominio (ad esempio dipendenza o indipendenza) sono in grado di elaborare efficientemente le informazioni legate a quel dominio e possono quindi dare dei giudizi su quell'aspetto con relativa facilità e certezza; 2. sono coerenti nelle loro risposte; 3 · hanno una maggiore capacità di riconoscimento e richiamo per le informazioni rilevanti rispetto a quel dominio; 4 · possono prevedere il proprio comportamento futuro in quell'ambito; 5· possono resistere a informazioni controschematiche (contrastanti con lo schema stesso) ; 6. possono valutare nuove informazioni sulla base della loro rilevanza per un dato dominio. Abbiamo visto precedentemente come gli autoschemi siano delle strutture di conoscenza di sé generate essenzialmente dall'esperienza pas­ sata del soggetto. Secondo la Markus, però, la personalità dipende in gran parte anche dalle concezioni del possibile e del potenziale (Markus, 1983; Markus, Nurius, 1986, 1987) . Le rappresentazioni di sé comprendono non solo il sé reale, cioè il con­ cetto che ciascuno ha di se stesso per come si percepisce, ma anche le pos­ sibilità future più o meno sperate o temute. I sé possibili riguardano quello che potremmo o vorremmo diventare, ma anche ciò che abbiamo paura di diventare. In tal senso, riflettono le proprietà dinamiche del sé proiettate nel futuro, e includono i sé sperati e quelli temuti. Essi sono descritti come strutture cognitive del concetto di sé che funzionano come portatori di aspirazioni, motivazioni e mete della persona. Di conseguenza, si collegano strettamente ai processi motivazionali (cfr. Halisch, Kuhl, 1987) . La Markus sottolinea l'importanza di un bilanciamento tra sé attesi po­ sitivi e sé temuti negativi. In tal modo, i sé possibili positivi possono fun­ gere da guida verso il raggiungimento di mete desiderate, mentre i sé pos­ sibili negativi possono chiarire cosa è necessario evitare (cfr. Markus, Oy­ serman, 1990) . I sé possibili, pertanto, creano un contatto tra presente e fu­ turo, e servono a definire il modo in cui noi potremmo cambiare rispetto a come siamo adesso. In questo senso, sono espressione del sé attivo e han­ no un ruolo critico nella previsione del comportamento. Qualunque va­ riazione nel contesto socioesperienziale del soggetto, che modifichi, frustri o faciliti notevolmente le motivazioni di un individuo, determina l'attiva­ zione di sé possibili rilevanti e accessibili in quel momento. Quando atti­ vati, i sé possibili influenzano l'elaborazione delle informazioni e mediano

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il comportamento. L'immediata disponibilità di pensieri e sentimenti lega­ ti ai sé possibili, che si verifica quando una motivazione permanente viene frustrata, suggerisce che i sé possibili sono aspetti relativamente stabili del concetto di sé. Focalizzarsi sui sé possibili come portatori di motivazioni può anche fornire una qualche risposta al perché noi sviluppiamo autoschemi in cer­ ti domini e non in altri. Un'attenzione selettiva verso alcune caratteristiche di comportamento, e l'esclusione di altre, può essere il riflesso di certi bi­ sogni o motivazioni sottostanti. In questo modo, lo sviluppo di uno speci­ fico sé possibile può precedere lo sviluppo di uno specifico autoschema (Markus, 1983) . Il sé, secondo la Markus, è costituito da una molteplicità di concezio­ ni di sé. Abbiamo visto che questa include nel suo ambito un'ampia varietà di aspetti come quelli buoni, cattivi, sperati, temuti, esclusi, ideali, possi­ bili. Un elemento centrale nel sel/-system è il sé ideale che, come vedremo in seguito, secondo molti studiosi, ha un ruolo centrale nella costituzione dell'autostima. Il sé ideale ha le sue radici nel concetto di ideale dell'Io (cfr. Freud, 1917; Horney, 1950; Rogers, 1951). Nella teoria degli autoschemi, il sé ideale è la rappresentazione delle caratteristiche che una persona vor­ rebbe avere e comprende anche le sue speranze, aspirazioni o desideri (cfr. Harter, 1996; Higgins, 1987) . Il ruolo motivazionale del sé ideale è stato sot­ tolineato spesso in letteratura (cfr. Epstein, 1973; Markus, Nurius, 1986, 1987; Van der Werff, 1985) . Vedremo in seguito la sua funzione nel proces­ so di autoregolazione del comportamento (Carver, Scheier, 1982) e nell'af­ fettività (Higgins, Klein, Strauman, 1985). Inoltre, è stato definito una del­ le guide del sé (Higgins, 1987) . Da questo punto di vista, secondo Rosen­ berg (1979), bisogna distinguere tra gli ideali realizzabili, che di conse­ guenza hanno un forte potere motivazionale (Epstein, 1973 ; Van der Werff, 1985) , e gli ideali irrealizzabili legati a un'immagine glorificata di sé. Uno specifico sottoinsieme di concezioni del sé, accessibile e attivo in un dato momento, viene definito working sel/-concept o sé operante (Markus, 1983; Markus , Wurf, 1987) . Il working sel/-concept ha una funzio­ ne regolatrice del sé. Solo le informazioni presenti in un dato momento nel working sel/-concept sono in grado di influenzare i processi di elaborazio­ ne dell'informazione e di guidare il comportamento in quel dato momen­ to (Markus, Wurf, 1987) . Esiste poi un nucleo del sé (core) che comprende una valutazione affettiva del sé, gli schemi universali e le rappresentazioni più significative del sé (Markus, 1983 ; Markus, Wurf, 1987) . Data la loro importanza nella definizione del sé (cfr. Gergen, 1968; Stryker, 1980, 1986) , si ritiene che queste rappresentazioni siano costantemente accessibili. Hig­ gins, come vedremo nel prossimo capitolo, le ha definite «cronicamente 39

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

accessibili» (Higgins, Bargh, 1987) . Altre concezioni del sé, invece, variano nel livello di accessibilità a seconda degli stati affettivi o motivazionali del soggetto, oppure a seconda del contesto sociale del momento. In tal sen­ so, il sé operante si presenta come una struttura temporanea la cui confi­ gurazione è legata all'ambiente sociale. Il contenuto di un particolare sé operante, infatti, dipende sia dal nucleo del sé, che è parte integrante e co­ stantemente attiva del working sel/-concept, sia dalla situazione specifica in cui è inserito l'individuo. Sebbene il sé sia piuttosto stabile, questa stabilità può mascherare si­ gnificative variazioni locali che sorgono quando l'individuo risponde a eventi che si verificano nell'ambiente sociale. Il sé, pertanto, è contempo­ raneamente stabile e modificabile (Markus, Kunda, 1986) . A questo pro­ posito, si può fare riferimento alla tradizionale distinzione in psicologia della personalità, fra tratti e stati. Così, il concetto di sé inteso come stato, è legato a specifiche condizioni che variano attraverso i contesti e i mo­ menti. Riguardo a questo, è evidente il nesso con il concetto di sé operan­ te. Il concetto di sé inteso come tratto, invece, comprende le disposizioni del soggetto che poco hanno a che fare con i comportamenti specifici. Quindi, il concetto di sé può essere visto come stabile nel senso che l'uni­ verso di concezioni sul sé è relativamente costante. Certamente, nuove concezioni di sé si aggiungeranno, ma una volta che una certa concezione di sé è stata creata, è improbabile che scompaia anche se attivata rara­ mente. Le caratteristiche dinamiche e mutevoli, invece, derivano soprat­ tutto dalla natura prevalentemente sociale del sé. Infatti, le concezioni di sé attive nel pensiero e nella memoria variano al variare del contesto so­ ciale. In tal senso, il concetto di sé è modificabile dal momento che i con­ tenuti del sé operante cambiano. La prospettiva di Neisser Il concetto di schema ha un ruolo centrale anche nella prospettiva di Neis­ ser (1976) , ma riguarda strettamente il piano dei processi cognitivi. :\'eisser introduce il concetto di ciclo percettivo entro il quale esiste un'interazione costante tra il soggetto con i suoi schemi anticipatori e l'ambiente in cui l'informazione è disponibile. Gli schemi anticipatori, infatti, predispongo­ no il soggetto a esplorare attivamente l'ambiente (assimilarlo) , ma sono an­ che influenzati (accomodati) dai risultati della percezione stessa (Del Mi­ glio, 1989). Dal momento che il ciclo percettivo di Neisser include sia il sog­ getto che l'ambiente, si può dire che l'attività percettiva è allo stesso tempo percezione dell'ambiente e di sé, benché con gradi differenti di consapevo­ lezza. Ambiente e soggetto vengono considerati percettivamente insepara-

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bili in quanto la percezione di sé è la controparte della percezione dell'am­ biente. In tal senso, le informazioni relative al sé sono in parte assimilabili alle informazioni relative agli oggetti. Infatti, vanno considerate come dati oggettivi presenti nell'ambiente, e come specificate sia dalle proprietà degli oggetti che dalle caratteristiche del percipiente (cfr. Gibson, 1966, 1979). Il sé, comunque, non è solo oggetto della percezione, ma è contempo­ raneamente oggetto del pensiero (Neisser, 1993). Pertanto, le informazioni relative al sé costituiscono anche un oggetto del pensiero e della memoria e, quindi, sono sottoposte ai processi di elaborazione cognitiva. Secondo :\'eisser (1988, 1993), le persone percepiscono e conoscono sé stesse da diversi punti di vista. In tal modo, le informazioni che raccoglia­ mo ci permettono di definire vari aspetti del sé: il sé ecologico, il sé inter­ personale, il sé esteso, il sé privato, il sé concettuale. Il sé ecolog{co riguarda l'individuo che percepisce se stesso immerso nell'ambiente. E colto direttamente ed è specificato dall'informazione pre­ sente nel mondo fisico immediatamente circostante. Questa proviene da vari canali, come quello ottico, quello uditivo e quello propriocettivo, ma anche dal comportamento. Il sé ecologico, inoltre, non è necessariamente oggetto di pensiero. Tali idee sono state sviluppate a partire dalla teoria della percezione di Gibson (1966, 1979). Secondo questa teoria, la perce­ zione è una forma di conoscenza diretta, non inferenziale, e immediata: le informazioni che noi avvertiamo sono oggettivamente presenti nell'am­ biente e specificano le nostre percezioni in rapporto alle nostre caratteri­ stiche di percettori. In questo senso, noi percepiamo l'ambiente e con­ temporaneamente percepiamo noi stessi. Il sé ecologico è un sé agente, noi siamo consapevoli dei nostri movimenti, delle nostre azioni e dei loro ef­ fetti. Ogni situazione offre un certo numero di possibilità d'azione che vengono definite disponibilità (a//ordances) . Tali disponibilità dipendono tanto dalla situazione quanto dall'individuo. La nostra percezione di noi stessi come agenti è in larga misura dipendente dalle conseguenze che de­ terminano le nostre azioni. Se le conseguenze delle nostre azioni sono coe­ renti con lo schema che le aveva generate, le percepiamo realmente come nostre e siamo consapevoli di noi stessi (cfr. Lee, 1993). Il sé interpersonale, secondo Neisser, si riferisce all'individuo che per­ cepisce se stesso e gli altri quando è impegnato in un'interazione faccia a faccia. Ha carattere diretto come il sé ecologico, si presenta molto preco­ cemente ed è specificato da segnali specie-specifici legati a relazioni emo­ zionali e comunicative. Il sé interpersonale si rende evidente solo durante un'interazione sociale, ed è basato essenzialmente su informazioni cineti­ che e visive legate proprio agli scambi interpersonali (gestualità e corpo­ reità dei partecipanti) . 41

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

Il sé ecologico e il sé interpersonale sono basati su una percezione im­ mediata di sé. Le altre forme di conoscenza di sé, invece, sono mediate da ricordi, immagini, concettualizzazioni. Esse sono, in qualche modo, co­ struite a partire dalla percezione di sé; hanno necessità di essere "pensa­ te" , inferite, mentre la percezione di sé in termini ecologici e interperso­ nali è quasi automatica (Neisser, 1993). Il sé ecologico e il sé interpersona­ le sono le prime forme di consapevolezza e percezione di sé, e si sviluppa­ no nell'interazione tra l'individuo e il suo ambiente (Gibson E. J., 1993). Infatti, fin dalla nascita, il bambino ha tutta una serie di competenze per­ cettive, che danno al bambino varie informazioni sulle disponibilità am­ bientali, ma anche sulle sue specifiche capacità. Con lo sviluppo ulteriore, le capacità del bambino crescono e gli forniscono la possibilità di utilizza­ re nuove disponibilità ambientali. Si tratta di un meccanismo circolare tra ambiente e soggetto che, costantemente, specifica le caratteristiche di en­ trambi in modo diretto e immediato. Il sé esteso, o sé ricordato, è fondato su informazioni relative alla me­ moria autobiografica. Si tratta di informazioni che riguardano le esperien­ ze passate di un individuo, ma includono anche le sue routine abituali. Es­ se, pertanto, permettono anche di anticipare il proprio futuro. Il sé esteso, quindi, pur basandosi sul passato, è direttamente proiettato nel futuro at­ traverso un processo di anticipazione. Si sviluppa attorno ai 3 anni, quan­ do il bambino comincia a strutturare gli script e ad avere una certa consa­ pevolezza su come si svolgono le abitudini familiari anche nel momento in cui non sono eseguite (cfr. Nelson, Gruendel, 1980) . Il sé ricordato non è indipendente dal sé concettuale, cioè dall'idea che abbiamo di noi stessi; anzi, il concetto che abbiamo di noi influisce su ciò che intendiamo ricor­ dare e su come lo ricordiamo. Il sé privato si riferisce alla consapevolezza che alcune esperienze per­ sonali, quali pensieri, idee, emozioni e sensazioni, non sono condivise da altri, ma riguardano solo sé stessi. Il sé privato riguarda l'esperienza inte­ riore, gli aspetti soggettivi del percepire e dell'agire. Questo aspetto della conoscenza di sé sembra svilupparsi verso i 4 anni e mezzo, quando la teo­ ria della mente si struttura e il bambino ha chiaro il concetto di segreto (cfr. Wimmer, Perner, 1983). Il sé privato è relativamente indipendente dal sé ecologico e dal sé interpersonale, e non è legato necessariamente agli aspetti attuali dell'esperienza. Il sé concettuale, o concetto di sé, riguarda ciò che la persona pensa di sé. In accordo con Epstein (1973), come vedremo tra poco, è una sorta di teoria su sé stessi. Si costruisce, soprattutto, su idee elaborate nella vita so­ ciale e comunicate verbalmente. Il sé concettuale è una specie di collante tra i diversi tipi di sé, in quanto fornisce un'immagine coerente di noi co-

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me persone in rapporto con gli altri. È una forma di autocoscienza rifles­ siva ed è fortemente influenzato da aspetti culturali . Sembra che cominci a strutturarsi solo dopo il primo anno di vita, quando si consolida l'atten­ zione condivisa e il bambino diventa consapevole di essere oggetto di at­ tenzione da parte di altri (cfr. Tomasello, 1988). I cinque tipi di conoscenza di sé di cui parla Neisser devono essere in­ tesi come cinque punti di vista sul sé, che nascono dalla tendenza del no­ stro sistema cognitivo a selezionare le informazioni sulla base di schemi cognitivi (Del Miglio, 1989). Alla luce di tali considerazioni, pertanto, gli autoschemi possono esse­ re considerati generalizzazioni cognitive su di sé, derivanti dall'esperienza passata, ma che sono proiettati nel futuro (cfr. Markus, 1983; Markus, �u­ rius, 1986) grazie alla funzione anticipatoria (cfr. Singer, Kolligian, 1987) . Questa favorisce l'organizzazione e la guida dell'elaborazione di informa­ zioni legate a sé contenute nelle esperienze sociali del soggetto (cfr. Markus, 1977, 1983; Greenwald, Pratkanis, 1984; Kihlstrom, Cantar, 1984) . In quest'ottica, gli schemi sono contemporaneamente struttura e proces­ so, contenuto e funzione (Del Miglio, 1989). 2.2.2. Struttura e contenuti del sé La distinzione tra i contenuti del concetto di sé e la sua struttura ha assun­ to un valore importante nelle attuali concezioni (Campbell et al. , 1996) . La tradizione psicologica, a partire da J ames, Mead e Allport, si è occupata principalmente dei contenuti del concetto di sé (Del Miglio, 1989). Attual­ mente, invece, vi è un grande interesse per la struttura del concetto di sé (cfr. Marsh, Hattie, 1996) . Struttura e organizzazione Le caratteristiche strutturali si riferiscono al modo in cui le conoscenze so­ no organizzate. La struttura del sé è stata esaminata con procedure fatto­ riali derivanti, spesso, dai corrispondenti studi sull'intelligenza (Marsh, Hattie, 1996) . I primi modelli saturavano un/attore generale in maniera del tutto simile al modello che Spearman (1927) elaborò per l'intelligenza. Da questi si è passati a modelli che, trascurando l'esistenza di un fattore ge­ nerale, implicano diverse componenti del sé relativamente indipendenti o correlate tra loro; ossia, a modelli detti tassonomici, che tengono in consi­ derazione diversi aspetti per ogni dimensione del sé. Si è arrivati, infine, ai più recenti modelli multidimensionali e gerarchicamente organizzati attor­ no a un fattore globale. In tale contesto, numerose ricerche hanno messo 43

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in evidenza che il sé ha una configurazione multidimensionale (Marsh, Hattie, 1996; Shavelson, Hubner, Stanton, 1976), di tipo dinamico (Hattie, 1992; Markus, Kitayama, 1991a, 1991b ; Markus, Kunda, 1986; Marsh, 1989; Marsh, Craven, Debus, 1991), che si costruisce con l'esperienza e, soprat­ tutto, mediante l'interazione sociale (Markus, 1983; Secord, Backman, 1964; Shavelson, Humbner, Stanton, 1976). Pertanto, la natura multidimensionale del concetto di sé, ormai, può essere considerata largamente accettata. Tuttavia, si discute ancora sul mo­ dello più idoneo a rappresentarla. Molte dispute riguardano il tipo di strut­ tura multidimensionale e le ipotesi di organizzazione gerarchica (Harter, 1983, 1985; Marsh, Hocevar, 1985; Marsh, Richards, Barnes, 1986; Marsh, Shavelson, 1985; Shavelson, Hubner, Stanton, 1976) . Il dibattito, però, si ri­ ferisce anche alla complessità dell'organizzazione stessa (Linville, 1985, 1987) . Questa può essere più o meno integrata (Donahue et al. , 1993), più o meno differenziata (Showers, 1992b), e più o meno definita, coerente e stabile nel tempo (Campbell, 1990; Campbell, LaVallee, 1993 ; Campbell et al. , 1996) . Un modello che sicuramente ha dato notevole impulso alla ricerca sul concetto di sé è quello proposto nel 1976 da Shavelson, Hubner e Stanton e rivisto in seguito da Marsh e Shavelson (1985) . Gli autori, innanzi tutto, hanno messo in evidenza una serie di errori teorici e metodologici com­ messi dai ricercatori. Questi riguardano l'ambiguità della definizione del concetto di sé e la differenza tra i vari strumenti di misurazione utilizzati; inoltre, includono la scarsa importanza attribuita ad altri costrutti come, per esempio, la desiderabilità sociale, la quale è risultata essere un fattore potenzialmente disturbante in molte ricerche psicologiche. Per Shavelson e colleghi, il concetto di sé corrisponde alla percezione che ogni persona ha di se stessa. Una tale percezione si forma attraverso l'esperienza e l'in­ terpretazione del proprio ambiente: è influenzata da rinforzi e valutazio­ ni di altri significativi, e da autoattribuzioni sul proprio comportamento. Gli autori hanno sottolineato, comunque, che il concetto di sé non è una sorta di entità presente dentro la persona, ma è un costrutto potenzial­ mente importante e utile nello spiegare e nel predire il comportamento di ciascuno. Il modello di Shavelson e colleghi parte dal presupposto che il sé sia organizzato in modo multidimensionale e gerarchico. Si ipotizza all'apice un concetto di sé generale, relativamente stabile, da cui discendono i fatto­ ri di second'ordine. Questi sono distinti in un sé accademico e in/attori non accademici quali: un sé sociale, uno emozionale e uno fisico. Dai fattori di second'ordine discendono, poi, delle sottoaree dei concetti di sé. Così, ad esempio, per il sé accademico avremo: la matematica, le scienze, le lingue, 44

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la storia. Vi saranno, in seguito, aspetti sempre più specifici legati al conte­ sto situazionale, progressivamente meno stabili e maggiormente suscetti­ bili di influenze ambientali. Inoltre, il modello prevede uno sviluppo in chiave evolutiva. In particolare, ipotizza che il concetto di sé si modifichi diventando, gradualmente, più definito e differenziato con il crescere del­ l'età. Questo aspetto verrà ripreso più avanti nell'ambito della prospettiva evolutiva. Attualmente, si discute molto sull'organizzazione gerarchica del con­ cetto di sé e su come i molti fattori di primo livello si connettano nel dare origine a fattori di ordine superiore (Hattie, Marsh, 1996). In alcune ricer­ che (cfr. Massaro, Friedman, 1990; Shaw, 1982) , ci si chiede se predomini­ no processi dal basso (integrazione e sintesi di elementi primari) o dall'al­ to (assimilazione di nuovi elementi sulla base di uno schema interno) . Si vuoi sapere secondo quali criteri le informazioni vengono integrate nel sé: sulla base dell'attribuzione di un peso, o mediante regole combinatorie (Coombs, 19 54) . Alcuni autori si domandano se le informazioni siano ela­ borate in parallelo o serialmente (cfr. Das, 1980; Das, Jarman, 1991). Altri preferiscono focalizzare la loro attenzione sugli aspetti del sé accessibili in un dato momento (Markus, 1983; Markus, .:\'urius, 1986; Oyserman, Markus, 1993). Per altri ancora, il sé è una struttura categoriale gerarchica (Rogers, 1981) o un prototipo, sulla base del quale si confrontano i nuovi stimoli (Kuiper, 1981). In questa prospettiva, molti parlano di un sistema del sé (self-system) nel quale è possibile individuare una sorta di direttore del sé, assimilabile all'Io jamesiano, che ha funzioni di guida e organizzazione del sé (cfr. Fox, 1997) . Il self-director può essere considerato come un elaboratore di infor­ mazioni che prende decisioni in modo più o meno consapevole. Tra i compiti autodirettivi sono state individuate due tendenze (cfr. Swann, 1985; Swann, Pelham, Chidester, 1988): l'accrescimento del sé (self­ enhancement) e la coerenza del sé o autoveri/ica (sel/-consistency, sel/-veri­ /ication) . Gli individui differiscono nell'uso dell'una o dell'altra strategia. Vautoaccrescimento è una modalità più attiva che cerca di ottenere il mas­ simo dalle esperienze. La tendenza alla coerenza del sé è, invece, orientata ad affermare la stabilità del sé contro le minacce interne ed esterne (Fox, 1997) . Tutta una serie di altre strategie cognitive specifiche vengono utiliz­ zate in tal senso (ad esempio svalutazione, self-handicapping, distorsione, comparazione sociale, automonitoraggio) con l'obiettivo di sviluppare un senso di controllo della situazione e di sé (cfr. Hattie, Marsh, 1996) . Fox ritiene che esista un continuo scambio tra processi dal basso e dal­ l'alto. Questi scambi, da un lato, aiutano il sé a prender forma e definirsi 45

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e, dall'altro, guidano il comportamento futuro. A tal proposito, alcuni so­ ciologi parlano di ri/lessività del sé (cfr. Giddens, 1991). Con questo termi­ ne intendono il fatto che il sé, costantemente, revisiona se stesso nel ten­ tativo di integrare gli eventi che producono forti scombussolamenti nella propria vita (cfr. Guidano, 1986) . Gli individui cercano di mediare tra l'im­ patto che le esperienze hanno su ciò che loro pensano di sé stessi e le scel­ te comportamentali (cfr. Fox, 1997) . Contenuti e autostima I contenuti possono essere suddivisi in componenti conoscitivo-descrittive e in componenti valutative (cfr. Campbell, 1990) . Le prime comprendono credenze sulle proprie caratteristiche specifiche, ruoli, valori e mete per­ sonali. Le seconde riguardano specifiche considerazioni e giudizi su di sé, e una valutazione globale di sé. Alcuni autori ritengono, invece, che la di­ stinzione tra aspetti descrittivi e valutativi dal punto di vista pratico non abbia alcuna utilità (cfr. Shavelson, Hubner, Stanton, 1976) . Sebbene a livello teorico gli aspetti contenutistici e quelli strutturali possano essere considerati indipendenti, alcuni autori hanno evidenziato connessioni tra elementi strutturali e contenutistici del sé, soprattutto in rapporto all'autostima (cfr. Baumgardner, 1990; Campbell, 1990) . In diversi studi, nell'analisi dei contenuti del concetto di sé, emerge la centralità del bisogno di autostima (cfr. Greenberg et al. , 1992; Kernis, Grannemann, Mathis, 1991), del suo legame con l'identità (Erikson, 195ob, 1968, 198o) e con il concetto generale di sé (Hattie, Marsh, 1996) . L'auto­ stima, infatti, ha avuto un ruolo centrale in ambito psicologico (Burns, 1979 ; Byrne, 1984; Harter, 1983; Marsh, Shavelson, 1985; Robinson, Shaver, 1973; Wells, Marwell, 1976; Wylie, 1974, 1979) , sia come indice di adatta­ mento (Allport, 1955; Erikson, 1968; Gergen, 1971; Maslow, 1954) , sia come mediatore del comportamento (Campbell, 1984; Harter, 1978; Maehr, Bra­ skamp, 1986; White, 1959). Un problema che caratterizza lo studio del sé e dei costrutti ad esso le­ gati è la vaghezza con cui, spesso, vengono definiti. In particolare, i termi­ ni autostima e concetto di sé vengono utilizzati a volte in modo interscam­ biabile, sebbene a livello teorico non siano sovrapponibili. Rosenberg de­ finisce l'autostima come un atteggiamento (Rosenberg et al. , 1995). Come ogni atteggiamento, l'autostima include aspetti cognitivi ed elementi affet­ tivi, sia positivi che negativi. L'idea dell'autostima come valutazione di sé stessi è largamente condi­ visa, mentre esiste un dibattito sul rapporto tra autostima e concetto di sé in termini strutturali.

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C'è chi parla di un generale self-system, all'apice del quale si colloche­ rebbe l'autostima come /attore sovraordinato (cfr. Bednar, Wells, Peterson, 1989; Fleming, Courtney, 1984; Fox, Corbin, 1989) o coordinato (per esem­ pio Campbell, 1990; Campbell et al. , 1996) del concetto di sé. Altri, inve­ ce, sottolineano che la distinzione tra autostima e concetto di sé non è sta­ ta dimostrata empiricamente (per esempio Shavelson, Hubner, Stanton, 1976; Marsh, Shavelson, 1985; Bracken, 1992) perciò, spesso, i due termini sono usati come sinonimi. Molti ritengono che l'autostima dipenda dal modo in cui l'individuo percepisce se stesso (cfr. Shavelson Hubner, Stanton, 1976; Marsh, Shavel­ son, 1985; Bracken, 1992) e le proprie competenze (per esempio Harter, 1983; Deci, Ryan, 1991, 199 5). Altri attribuiscono un ruolo centrale agli ideali (per esempio James, 1890; Marsh, 1993; Moretti, Higgins, 1990; Rosenberg, 1979). Mentre, altri ancora sottolineano il peso dell'ambiente socioculturale in cui è inserito l'individuo (per esempio Harter, 1993; Markus, Kitayama, 1991a, 1991b). Più in generale, Rosenberg e Kaplan (1982) affermano che la forma­ zione dell'autostima è riconducibile a quattro fattori: valutazione di sé, com­ parazione sociale, autoattribuzione, centralità psicologica. Alcuni ricercatori ritengono che competenza e autoaccettazione siano le due maggiori componenti dell'autostima (Epstein, 1973; Gecas, 1982; Har­ ter, 1983, 1985; Wells, Marwell, 1976) . La competenza si riferisce ai senti­ menti di capacità e controllo su di sé e sull'ambiente. I.:autoaccettazione si riferisce invece al rispettare sé stessi compresi i propri difetti (Wylie, 1979). Altri autori (Kohn, Schooler, 1969, 1983; Shahani, Dipboye, Philips, 1990; Owens, 1993; Rosenberg et al. , 1995; Prezza, Trombaccia, Armento, 1997) parlano di fiducia in sé, miglioramento (sel/-con/idence, sel/-enhancement) e autocritica (self-deprecation, self-derogation) , quali componenti dell'auto­ stima. Nello studio dell'argomento, sono stati individuati diversi tipi di auto­ stima e, spesso, sono state fatte distinzioni quali: autostima di tratto e di stato (Heatherton, Polivy, 1991; Brewer, Miller, 1996) ; autostima personale e sociale (Breckler, Greenwald, 1986; Cracker, Luhtanen, 1990; Long, Spears, Manstead, 1994) ; autostima globale e spect/ica (Marsh, 1986; Rosen­ berg et al. , 1995). L'autostima di tratto viene definita come il prodotto delle valutazioni di sé che vengono effettuate in un lungo periodo di tempo, mentre l'auto­ stima di stato è il prodotto delle valutazioni di sé relative all'immediato presente (Kline, 1993). La distinzione tra autostima personale e sociale fa riferimento alla più generale contrapposizione tra identità personale e sociale. L'autostima per­ sonale implica una concezione individualistica della società. In tal senso, la 47

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società è costituita da tanti " singoli" che costruiscono la stima di sé sulla base dei propri bisogni, motivazioni e ideali personali. L'autostima sociale si riferisce, invece, al bisogno delle persone di rispecchiare l'immagine so­ ciale condivisa con il gruppo di appartenenza. In quest'ottica, le persone si impegnerebbero maggiormente nel tentativo di ottenere un 'autostima positiva come membri del gruppo, piuttosto che come individui (Rubin, Hewstone, 1998) . Per autostima globale, infine, s'intende il generale senso del proprio valore come persona, mentre l'autostima specz/ica si riferisce alla stima re­ lativa ad aspetti particolari della definizione di sé (ad esempio sé fisico, sé accademico ecc.). Come abbiamo visto precedentemente, l'autostima svolge un ruolo es­ senziale nella conoscenza di sé. In particolare, è associata alla coerenza del sé (Lecky, 1945; Markus, Wurf, 1986; Swann, 1987; Swann et al. , 1987) in ri­ ferimento alla percezione globale e a quella specifica. Gli studiosi del sé si sono spesso interrogati sul rapporto tra domini spect/ici e globali del sé, sia in riferimento alla formazione di un concetto generale di sé, sia in rapporto all'autostima (cfr. James, 1890; Harter, 1985, 1986b , 1989; Marsh , 1986, 1993; Rosenberg, 1965, 1979 ; Pelham , Swann , 1989; Wells, Marwell, 1976) . Diverse ricerche indicano una stretta associazione tra l'autostima glo­ bale e le concezioni specifiche di sé (Baumgardner, 1990; Hoge, McCarthy, 1984; Marsh, 1986; Rosenberg, 1979 ; Wells, Marwell, 1976; Woike, Baum­ gardner, 1993; Wylie, 1974) . Per esempio, i soggetti con alta autostima ten­ dono ad avere concezioni specifiche di sé altamente positive (Pelham, Swann, 1989); in maniera simile, quelli che possiedono numerose categorie di sé ritengono di poter affrontare con maggior efficacia diverse situazio­ ni (Markus, Nurius, 1986) . Rosenberg (Rosenberg et al. , 1995) sostiene che l'autostima specifica permette di predire adeguatamente i comportamenti nel dominio di perti­ nenza, in quanto il potere predittivo di un atteggiamento dipende dalla vi­ cinanza che ha col comportamento target (cfr. Fishbein, Ajzen, 1975) . Inol­ tre, l'autostima specifica si riferisce ad aspetti del sé legati ad aree di com­ petenza. Per questo, possiamo dire che l'autostima specifica ha molto a che fare con il concetto di autoe/ficacia (Bandura, 1982) il quale, come ve­ dremo, è strettamente connesso alla realizzazione comportamentale. L'au­ tostima globale, invece, è molto più distante dal piano dei comportamen­ ti ed è, dunque, scarsamente predittiva in questo ambito. Di contro, esiste una stretta relazione tra autostima globale e benesse­ re psicologico. Già Maslow (19 54) aveva considerato l'autostima uno dei principali bisogni umani e, recentemente, la teoria del self-enhancement

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(Greenwald, 1980; Baumeister, 1982; Swann, 1987) ha confermato questo assunto. L'autostima elevata è legata al benessere psicologico, mentre la bassa autostima è associata al disagio psichico e in particolare alla depres­ sione (Harter, 1993). La connessione tra bassa autostima e depressione è nota in psicologia (cfr. Rosenberg, 1985; Harter, 1993) e ha origini antiche (ad esempio Freud, 1914 e 1917) . Recentemente, Watson e colleghi (Wat­ son, Suls, Haig, 2002) hanno proposto un modello in cui bassa autostima e depressione coincidono. Questi autori, infatti, ritengono che stima posi­ tiva di sé e depressione costituiscano i due poli di una dimensione di per­ sonalità che fa capo al superfattore nevroticismo ipotizzato dal modello Big Five (Digman, 1990; Costa, McCrae, 1992) . In generale, numerosi fattori affettivi e cognitivi contribuiscono al­ l'autostima (Baumgardner, 1990; Gollob , Dittes, 1965; Pelham, Swann, 1989; Swann , Pelham , Chidester, 1988). Le indagini sulla coerenza (self-con­ sistency) mostrano che le persone cercano di mantenere l'unità e l'integrità del sé, accettando i feedback delle informazioni sociali concordanti con il concetto di sé e rifiutando quelli che non concordano (Campbell, 1990; Shrauger, 1975; Swann, 1987; Swann, Read, 1981) . Sull'accettazione influisce anche il grado di certezza riguardante il possesso di determinate caratteri­ stiche (Baumgardner, 1990; Woike, Baumgardner, 1993). Altre ricerche hanno messo in evidenza l'importanza per l'autostima del contenuto posi­ tivo o negativo delle informazioni sul sé (Marsh, 1986; Ogilvie, 1987; Pelham, Swann, 1989). Una parte di queste derivano da fattori individuali. Gli aspetti negativi del sé, ad esempio, sono facilmente accessibili negli stati depressivi (Bargh, Tota, 1988; Hammen et al. , 1985; Pietromonaco, Markus, 1985) . Tuttavia, le valutazioni positive o negative delle caratteristi­ che di personalità, come rilevato precedentemente, sono influenzate in maniera particolare anche dalle opinioni sociali. Nell'insieme, lo studio di vari aspetti del sé, come i contenuti, la loro desiderabilità, l'autostima, il valore di sé e la coerenza, conferma l'esigen­ za del riferimento a una complessa interazione tra processi cognitivi, di­ namiche emotive, comunicazione e influenze sociali. 2.2.3. Costruzione individuale e socioculturale In questa prospettiva, emergono le caratteristiche di costrutto del sé in rapporto a fattori individuali e ambientali. La teoria generale dell'appren­ dimento di origine comportamentista costituisce uno dei punti principali di riferimento. Secondo Skinner (1963 e 1971), da un punto di vista neocomportamen­ tista, il sé riguarda la parte privata dell'esperienza della realtà, ed è legato 49

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alla consapevolezza della propria esistenza che caratterizza gli esseri uma­ ni. La sua coerenza deriva dalle risposte comportamentali a determinati insiemi di occasioni. Da quelle sociali si forma il "sé conoscente", mentre dalle situazioni personali ha origine il sé come " conosciuto" . Bem (1972) h a rilevato che noi, in parte, conosciamo i nostri stati inte­ riori tramite la loro inferenza dall'osservazione del nostro comportamento e delle situazioni in cui si manifesta. Mahoney e Thorensen (1972) hanno messo in evidenza le attività di programmazione e controllo comportamentale svolte mediante la consa­ pevolezza di sé. Questa consente di potenziare le capacità di autocontrol­ lo con modalità comparabili a quelle dello scienziato, che progetta e mo­ difica le strategie operative sulla base dell'osservazione dei risultati. In maniera simile, per Epstein (1973) il concetto di sé non è altro che una teoria su di sé. Una teoria che l'individuo ha costruito inconsapevol­ mente su se stesso, ed è parte di una più ampia teoria che comprende tut­ ta la sua intera esperienza significativa. Avremo quindi una teoria sulla na­ tura del mondo, una teoria sulla propria natura, e una sull'interazione tra sé ed il mondo. La funzione fondamentale della teoria su di sé è quella di ottimizzare il rapporto piacere/dolore nella vita dell'individuo. Epstein in­ dica altre due funzioni importanti del sé: facilitare il mantenimento del­ l'autostima e organizzare i dati esperienziali in modo adeguato. Come abbiamo riportato precedentemente in riferimento alla struttu­ ra, anche il modello di Shavelson mette in evidenza che il concetto di sé è influenzato dai rinforzi derivanti dagli altri significativi. Day (1977) ha sostenuto che lo sviluppo del sé favorisce la creazione di un ambiente positivo per le relazioni sociali e la riduzione delle possibilità di rinforzi negativi. Negli sviluppi del neocomportamentismo, è stato sottolineato, in ma­ niera particolare, il ruolo svolto nella formazione del sé dai rinforzi am­ bientali e dal modellamento operato dagli altri significativi. Bandura (1962, 1969, 1977a, 1977b, 1986) ha elaborato una teoria dell'apprendimento so­ ciale in cui l'imitazione assume un valore essenziale. Solitamente, il com­ portamento manifestato da un modello esemplare viene considerato come standard da imitare e interiorizzare (Bandura, 1969) . Le persone rinforza­ no se stesse quando le loro prestazioni o i loro comportamenti corrispon­ dono a quello dello standard interiorizzato. Bandura, così, ha messo in re­ lazione il sé con gli autorin/orzi positivi, associati al confronto del proprio comportamento con quello, interiorizzato, di altre persone importanti. Sull'acquisizione cognitiva di schemi comportamentali si fonda la forma­ zione delle aspettative sulle capacità di successo personale (cfr. Bandura, 1977a) . Il potenziamento della percezione dell'autoef/icacia dipende da 50

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informazioni positive provenienti da varie fonti: esperienza di abilità per­ sonali, osservazione delle capacità altrui, persuasione verbale e coinvolgi­ mento emotivo. Vedremo, nell'ultimo capitolo, che l'autoefficacia costi­ tuisce un fattore importante di protezione dal disagio soprattutto nel pe­ riodo adolescenziale. Attualmente, in questo contesto, al sé viene attribuita una funzione es­ senziale nell'ambito della personalità. Per molto tempo, nello studio della personalità si è manifestata una ra­ dicale contrapposizione tra due posizioni principali (cfr. Mischel, Shoda, 1998) . Una prende in considerazione tipi, tratti e disposizioni tendenzial­ mente stabili dell'individuo, sia in termini di strutture psicologiche, che di fondamenti biologici. L'altra attribuisce maggiore importanza alle influen­ ze sociali in riferimento ai fattori dinamici di apprendimento, formazione e sviluppo. Una contrapposizione simile è stata effettuata anche per il rap­ porto eredità/ambiente e, nell'ambito del cognitivismo (cfr. Miller, Galan­ ter, Pribram, 196o; Neisser, 1967) , per quanto concerne la relazione tra fat­ tori emotivi e fattori cognitivi. Lo sviluppo di modelli interattivi dinamici avanzati (cfr. Endler, Ma­ gnusson , 1976; Magnusson , Endler, 1977) tiene conto del processo circola­ re di interazione continua tra persona e situazione. Così, i processi cogni­ tivi e quelli affettivi possono essere considerati all'interno di un unico qua­ dro interpretativo (Mischel, Shoda, 1995, 1998) . Tale prospettiva consente di spiegare più adeguatamente il comportamento in funzione dei tratti di personalità, della percezione di sé e della variazione delle situazioni (Chiu et al. , 1995) . Da questo punto di vista, il sé costituisce un elemento di con­ giunzione tra il piano ambientale e quello individuale. All'interno di que­ st'ultimo, rappresenta il collegamento tra la sfera emotiva e quella cogni­ tiva. Infine, sta alla base del collegamento tra l'attività mentale ed i sotto­ stanti processi nervosi (cfr. Gazzaniga, 1992; Sperry, 1982) . Per quanto riguarda gli sviluppi recenti delle neuroscienze, LeDoux (2oo2) ha riassunto i risultati degli studi che consentono di interpretare in termini di formazione di connessioni sinaptiche la nascita del sé e del sen­ so di continuità su cui si fonda la personalità. 2.2-4- Rappresentazione sociale di ruoli Molti psicologi, soprattutto di impostazione sociale, hanno focalizzato la propria attenzione sui vari ruoli assunti dalle persone nella realtà sociale. Queste adattano il proprio comportamento in funzione della natura spe­ cifica della relazione interpersonale e del suo contesto situazionale (cfr. Gergen, 1968 e 1979). 51

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Secondo Sherif (1967), il sé si forma dall'interazione con gli altri in contesti di apprendimento e comunicazione sociale. I gruppi sociali co­ stituiscono sin dall'infanzia il punto di riferimento per lo sviluppo di per­ cezioni personali, giudizi e modelli comportamentali (Sherif, 1968). Rifa­ cendosi al rispecchiamento del sé di Cooley, Miller D. R. (1963) ha chia­ mato «identità pubblica soggettiva» la percezione che un individuo ha della sua appartenenza a un gruppo. Egli ha osservato che un soggetto possiede numerose identità, legate ai diversi modi in cui il soggetto ritie­ ne di essere percepito da parte di vari gruppi. Nel rapporto con gli altri, tuttavia, si forma un sé intimo che corrisponde al nucleo più profondo dell 'individuo. Per Secord e Backman (1964) , il sé corrisponde all'insieme di identità pubbliche associate ai diversi ruoli sociali che l'individuo svolge nel corso della sua esistenza: bambino, scolaro, ragazzo, fratello, amico e così via. Gli autori hanno posto l'accento sulla funzione attiva svolta dalle persone nella scelta del ruolo compatibile col proprio concetto di sé (Backman, Se­ card, 1968). Il soggetto tende a comportarsi in maniera coerente con la propria immagine di sé e cerca anche di spingere gli altri ad assumere at­ teggiamenti simili nei suoi confronti. In proposito, è estremamente interessante la prospettiva drammatur­ gica di Goffman che, considerando gli individui come attori sociali , fa del sé un vero e proprio camaleonte. Goffman (1959, p. 289) afferma infatti: « [ . ] il sé è il prodotto di una scena che viene rappresentata e non una sua causa. Il sé, quindi, come personaggio rappresentato non è qualcosa di or­ ganico che abbia una collocazione specifica, il cui principale destino sia quello di nascere, maturare, e morire; è piuttosto un effetto drammaturgi­ co che emerge da una scena che viene presentata». Dal momento che le scene cambiano in continuazione, soprattutto a seconda dei personaggi che vi partecipano, è evidente che anche il sé di ciascuno verrà modifica­ to e adattato alla rappresentazione in atto. Anche Harrè (1979) si è soffermato sull'aspetto riguardante la rappre­ sentazione di diversi ruoli, e ha sottolineato che la parte svolta dall'attore non può essere compresa se non in riferimento al tipo di contesto sociale in cui si manifesta. Le azioni si basano sulle regole e le convenzioni dei contesti sociali e culturali in cui l'attore è inserito. Harrè ( 1 983 a) ha preso in considerazione due elementi del sé. Uno corrisponde alle caratteristiche individuali che differenziano le persone tra loro e che costituiscono il fon­ damento del senso di identità. Comprende tratti personali, temperamen­ to, attitudini, pensieri e stati interiori. L'altra componente riguarda il mo­ do di presentare le caratteristiche personali agli altri, in maniera da for­ mare in loro un'impressione corrispondente alle nostre intenzioni. Il con..

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cetto di sé, pertanto, non dipende soltanto dalle qualità individuali, ma an­ che dal tipo di situazione in cui l'azione si deve svolgere (Harrè, 1983b). Queste condizioni implicano, inoltre, un aspetto normativa legato alle ri­ chieste di adeguamento alle pressioni sociali. 2.2.5. Influenze culturali e storiche Diversi autori hanno esteso l'analisi delle influenze sociali a quelle cultu­ rali e storiche. La ricerca sull a variabilità del concetto di sé in rapporto al contesto culturale è stata stimolata, negli ultimi anni, grazie ai lavori di Markus e collaboratori ed è, oggi, ampiamente documentata (Fiske, et al. , 1997; Markus, Kitayama, 1991a, 1991b; Markus, Kitayama, Heiman, 1996; Oyserman , Markus , 1993 ; Triandis, 1989). Markus e Kitayama (1991a, 1991b) ritengono che la concezione del sé vari nelle culture. In particolare, ritengono che in quelle occidentali pre­ valga l'idea del sé come indipendente, in termini di un'entità vincolata, unitaria e stabile, che è interna e privata. Nelle culture orientali, invece, prevale un sé interdipendente connesso col contesto sociale, flessibile, va­ riabile, esterno e pubblico. Questa diversa visione del sé nelle culture ha, secondo gli autori, delle conseguenze a livello cognitivo, affettivo e moti­ vazionale. Infatti, le basi per l'autostima risultano differenziate nelle due culture. Per gli occidentali, l'autostima è raggiunta attraverso la realizza­ zione di sé tramite le proprie capacità, è mediata dall'approvazione e dal riconoscimento degli altri, e scaturisce da una valutazione positiva di sé nel confronto con gli altri. Nelle culture orientali, invece, l'autostima è legata a modestia e a vicinanza relazionale ed emotiva con gli altri. La cultura occidentale, inoltre, sembra ossessionata dall'immagine, tanto da far parlare spesso di società narcisistica (Lasch, 198o; Wallach M. A., Wallach L., 1985). La sindrome narcisistica, infatti, presenta un ecces­ sivo investimento nella propria immagine a discapito del vero sé (Lowen, 1985) e, in generale, un eccessivo interesse per sé stessi o autoassorbimento (Emmons, 1987) . Il fatto che in Occidente, dove si è svolta la maggior par­ te degli studi, prevalga a livello globale la cultura individualista del sé, co­ munque, non esclude l'esistenza di sottoculture (o controculture) che im­ plicano un diverso sistema di valori in rapporto al sé e all'autostima. Secondo Cushman (1990) , la configurazione del sé è plasmata dall'e­ conomia e dalla politica dei vari periodi storici. Questi hanno riflessi an­ che sugli aspetti patologici. Nel mondo occidentale, dopo la Seconda guerra mondiale, le vicende storiche hanno dato luogo a vissuti di caren­ za di appartenenza sociale, tradizione e valori comuni . Ciò ha plasmato il sé in un modo che si configura come "sé vuoto" . Per alleviare il disagio, si 53

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

cerca di colmare il vuoto con i prodotti di consumo, l'assunzione di cibo e il culto di personaggi famosi. Hall (1992) ha tracciato una sorta di percorso storico dell'evoluzione del senso di identità dell'uomo. L'uomo illuminista era caratterizzato so­ prattutto dal senso di individualità personale. Tale concezione implica l'e­ sistenza di una sorta di centro, di nucleo individuale di ciascuno, che emerge già dalla nascita, si esplica nella personalità e resta costante per tutta la vita. L'uomo moderno è caratterizzato, invece, da una maggiore complessità. Come sostengono gli interazionisti simbolici, infatti, il sé si costituisce nell'interazione con gli altri ed è fortemente influenzato cultu­ ralmente. Il nucleo del sé continua ad esistere, ma è specificato in termini sociali. Secondo questo autore, il senso di sé che, fino a poco tempo fa, ve­ niva considerato unitario e stabile, adesso assume un carattere frammen­ tario. Ciò è legato all'aumentare della complessità della società, che è ca­ ratterizzata da un eccesso di relativismo e dalla riduzione di punti di rife­ rimento stabili. Non vi è più una singola identità, ma molte identità e spes­ so contraddittorie. Sulla base di queste premesse, secondo i postmoderni (cfr. Gergen, 1991), noi possiamo avere un senso di noi stessi unitario e stabile solo per­ ché costruiamo delle storie coerenti su noi stessi e interpretiamo la realtà e gli eventi di conseguenza. In tal senso, la nozione del sé come qualcosa che esiste separatamente, e che abbia un valore autonomo, viene rifiutata. Noi viviamo in un'epoca caratterizzata da una cultura cibernetica (Esco­ bar, 1994) , nella quale gli individui si trovano a fare i conti con un enorme numero di potenziali ruoli da interpretare. Questi caratterizzano ciò che Gergen (1991) e Gottschalk (1993) hanno definito «sé saturo», «sovrappo­ polato» e «multifrenico». Giddens (1991) sostiene che il periodo contemporaneo di high moder­ nity è caratterizzato da incertezza e dubbio. In questa situazione, le per­ sone si cimentano nella stesura di un progetto su di sé, costruito sulla ba­ se di narrazioni autobiografiche, fondate su continue interpretazioni e reinterpretazioni delle proprie esperienze di vita. In tale accezione, la vita è una narrazione (Bruner, 1987) costantemente revisionata e influenzata so­ cialmente dalle storie e dai filoni narrativi che la cultura ci mette a dispo­ sizione (Sparkes, 1997). In accordo con Schwalbe (1993), infatti, le persone possono essere con­ siderate come complessi sistemi di segni il cui significato dipende dalla cultura. Il processo di acquisizione dell'identità è un processo di acquisi­ zione di significato. Questo senso, poi, si esplica in varie forme, come nel modo di parlare, di vestire ecc., suscita risposte negli altri e dipende dal contesto. Ciò indica che le persone possono significare cose diverse e che, 54

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in tal modo, il sé cambia. Se da un lato, come affermano i postmoderni, un unitario e coerente senso di sé è solo un'illusione, dall'altro lato sembra che questa illusione sia essenziale per riuscire a dare un valore alla nostra esistenza e al mondo (Sparkes, 1997) . La consapevolezza interiore dell'es­ sere sé stessi, quindi, risulta importante in quanto fornisce la base per il concetto di noi stessi e il nostro benessere emotivo. 2.2.6. Prospettiva evolutiva e sé corporeo Dalla letteratura sull'argomento, pertanto, emerge che il sé presenta sia una struttura stabile e duratura, che protegge se stessa dal cambiamento, sia aspetti dinamici e mutevoli. Il cambiamento dipende da diversi fattori come, ad esempio, quelli socioculturali (cfr. Markus, Kitayama, 1991a, 1991b; Markus, Kunda, 1986), le generazioni e i programmi educativi (cfr. Hattie, 1992) . Diversi autori hanno esaminato il problema in una prospettiva evolu­ tiva (cfr. Harter 1996; Harter, Monsour 1992; Hattie 1992) . In tal modo, hanno messo in evidenza le variazioni del sé che avvengono durante lo svi­ luppo. Hattie (1992) individua alcuni punti critici nello sviluppo del concetto di sé dall'infanzia fino all'età adulta: la capacità di distinguere tra sé e gli altri, e tra sé e l'ambiente circostante; il modo in cui le aspettative si svi­ luppano e si modificano nel corso dello sviluppo; i cambiamenti nell'indi­ viduazione delle cause del proprio comportamento; i cambiamenti nello sviluppo cognitivo; l'incontro con i valori culturali; il modo in cui ricevia­ mo conferma o disconferma attraverso il confronto sociale. Hattie sottoli­ nea che lo sviluppo del sé implica molteplici fattori, i quali assumono un'importanza differente a seconda della fase evolutiva del soggetto. Per esempio, nella prima infanzia le tappe principali dello sviluppo del sé im­ plicano la distinzione tra sé e l'ambiente, la capacità di sviluppare empatia nel rapporto con gli altri e la capacità di cogliere le cause del comporta­ mento individuale. :\'ell'adolescenza, invece, assume un ruolo centrale lo sviluppo cognitivo. In particolare, la capacità di integrazione delle infor­ mazioni è centrale nel superamento dell'adolescenza stessa. Al contrario dei bambini, il pensiero degli adolescenti diventa sempre meno egocentri­ co. I ragazzi sono in grado di valutare le cose e, soprattutto, sé stessi da di­ versi punti di vista. Aumenta la capacità introspettiva; inoltre, i ragazzi possono prefigurarsi stati possibili di sé e definire i propri ideali. Tutto ciò incrementa notevolmente la percezione delle proprie potenzialità, ma può anche determinare un certo grado di incertezza su chi si è realmente e sul proprio futuro. Inizialmente, la capacità di analizzare le cose da diverse 55

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

prospettive può far nascere dei conflitti e aumentare il senso di confusio­ ne rispetto all'identità. Ma, gradualmente, i ragazzi acquisiscono la capa­ cità di integrare le diverse prospettive sul sé all'interno di astrazioni più generali che permettono di rendere compatibili anche aspetti specifici del sé, apparentemente contrastanti tra loro (Fischer, 1980) . Per esempio, "fe­ lice" e " depresso" possono essere integrati in un'astrazione di livello su­ periore quale "lunatico" . Inoltre, diventano consapevoli del fatto che tut­ ti noi presentiamo alcuni tratti contraddittori e che a volte il comporta­ mento va mediato in funzione delle circostanze in cui ci si trova. Capisco­ no che questo non è necessariamente sinonimo di incoerenza o falsità, semmai di capacità di adattamento e flessibilità. In sostanza, non vedono più le cose o bianche o nere, ma riescono a cogliere la ricchezza delle sfu­ mature. Il modello di Shavelson, come abbiamo visto precedentemente, ac­ cenna a una prospettiva evolutiva del concetto di sé. Sostiene che questo diventa sempre più differenziato e multidimensionale con il crescere del­ l'età (Shavelson, Hubner, Stanton, 1976) . L'argomento è stato approfondi­ to da Marsh (1989) attraverso un'analisi delle risposte di vari gruppi di sog­ getti alle diverse forme del Self Description Questionnaire (I, II, III) , co­ struite in funzione dell'età. Egli ha valutato il grado di correlazione tra le dimensioni del concetto di sé misurate dal questionario, ipotizzando che la differenziazione delle componenti fosse un indice della multidimensio­ nalità del concetto di sé. Di fatto, ha trovato che le correlazioni tra i vari aspetti del sé decrescono con l'età. Inoltre, Marsh ha mostrato che le dif­ ferenze di punteggio, nelle varie scale del SDQ, di una stessa persona di­ ventano più ampie con l'età. Ciò significa che i bambini hanno dei concetti di sé più uniformi rispetto ai ragazzi più grandi (Marsh et al. , 1984; Marsh, 1989 ; Marsh, Craven, Debus, 1991). Tuttavia, lo stesso Marsh ha dimostra­ to che i bambini, dai 5 agli 8 anni, hanno dei concetti di sé molto più dif­ ferenziati di quanto non si credesse in passato (Marsh, Craven, Debus, 1991). L'ipotesi che i domini si differenzino con il crescere dell'età dei sog­ getti è stata confermata anche dal lavoro della Harter (1983, 1985, 199ob). L'autrice ritiene che il concetto di sé diventi sempre più articolato via via che si passa dall'infanzia all'adolescenza. In particolare, sostiene che nella prima infanzia i bambini tendono a descriversi sulla base di caratteristiche concrete di sé, quali i comportamenti. Successivamente, nella media in­ fanzia, si passa a concezioni di sé caratterizzate da tratti psicologici, per ar­ rivare a descrizioni sempre più astratte durante l'adolescenza. La Harter ha riscontrato che i bambini, a partire dalla metà dell'infanzia, sono capa­ ci di effettuare dei giudizi globali del proprio valore come persone, così

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come sono in grado di fornire specifiche autovalutazioni in vari domini (Harter, Pike, 1984) . I bambini più piccoli, invece, non possiedono un con­ cetto cosciente e verbalizzabile della stima di sé globale, e non capiscono items che fanno riferimento al valore complessivo di una persona. Inoltre, non hanno domini chiaramente differenziati. I cambiamenti si manifestano soprattutto nell'adolescenza. In una ras­ segna sull'argomento, Damon e Hart (1982) sottolineano alcuni punti fer­ mi del passaggio dall'infanzia all'adolescenza. Da un'iniziale concezione di sé in termini fisici, basata soprattutto sull'azione e sul fare nel mondo, si passa gradualmente a una concezione di sé in termini più propriamente psicologici. In particolare, durante l'adolescenza si sviluppa una maggiore interiorità dell'individuo. L'adolescente, infatti, è più attento alle caratte­ ristiche interne del sé. La conoscenza e la comprensione di sé diventano sempre più caratterizzate da riflessività e intenzionalità. Inoltre, in questa fase, il ragazzo è visto in modo diverso da coloro che lo circondano e ten­ de ad assumere molteplici ruoli sociali (cfr. Hart, 1988; Marsh, 1989). Il suo sviluppo intellettivo, in particolare, gli permette di individuare le contrad­ dizioni e i conflitti (Fischer, 198o) che esistono tra i diversi ruoli da lui as­ sunti nei vari contesti sociali. Questo genera un senso di smarrimento e di perdita d'identità (cfr. Broughton, 1981; Erikson, 1968; Van Hook, Higgins, 1988) . Il conflitto verrà, poi, risolto nella tarda adolescenza, quando il sog­ getto sarà in grado di conciliare i ruoli discordanti portando il problema a un livello più elevato di astrazione. Come si è visto sopra, infatti, potrà so­ stenere, per esempio, di essere una persona flessibile, o che è normale comportarsi in modo diverso a seconda delle persone con cui si interagi­ sce. Inoltre, nella tarda adolescenza i pensieri e i sentimenti su sé stessi di­ ventano più autocentranti e più resistenti alle pressioni sociali. Ciò deter­ mina una maggiore accettazione di sé, perlomeno nella maggior parte de­ gli adolescenti (Demo, Savin-Williams, 1992) . Approfondiremo questo ar­ gomento e gli aspetti riguardanti il sé fisico nel capitolo sull'adolescenza. Nella prospettiva in considerazione, il sé corporeo costituisce un aspetto specifico del sé. In particolare, nell'infanzia e nell'adolescenza svolge un ruolo di primo piano. Secondo diversi autori, quello corporeo costituisce il nucleo iniziale del sé (Epstein, 1973; Hoffer, 1950, 1983; J acob­ son, 1964; Wallon, 1959a, 1959b). Lo sviluppo psicologico del bambino passa attraverso il suo corpo. Il piccolo, infatti, entra in relazione con chi lo circonda tramite i bisogni del suo corpo. Le sensazioni di fame, sete, sonno, e tutte le sue necessità fi­ siologiche, determineranno i ritmi dei rapporti con gli adulti. Soprattutto le prime interazioni con i genitori hanno un ruolo centrale nello sviluppo del sé fisico (Krueger, 1989; Mahler, McDevitt, 1982) . Il modo in cui i ge57

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

nitori entrano in contatto col corpo del bambino influisce sul tono affetti­ vo dell'esperienza corporea e del sé (Fisher, 19 86) . Se i genitori si dimo­ strano responsivi, empatici e non intrusivi rispetto alle esigenze corporee del bambino, è più facile che si sviluppi una buona integrazione del sé cor­ poreo e dell'intero sé (Krueger, 1989) . Infatti, è proprio in questi contatti con l'ambiente circostante, grazie alle diverse sensazioni provenienti dal corpo (propriocettive ed esterocettive) , che il bambino scopre se stesso. In seguito, con lo sviluppo sempre più pieno della vista e, soprattutto, con il controllo della motricità (Piaget, 1964) , il bambino avrà la possibilità di fa­ re nuove esperienze. I suoi orizzonti si allargheranno e, così, diventerà sempre più padrone e consapevole di sé e del suo spazio. Durante l'ado­ lescenza, i drastici e repentini mutamenti corporei associati a fattori indi­ viduali e ambientali (Downs, 1990; Lerner, Galambos, 1998; Petersen, 1988; Petersen, Taylor, 1980) portano a un necessario rimaneggiamento del sé fi­ sico. Ciò ha profonde ripercussioni sul sé globale, sull'identità e sull'emo­ tività (Coleman, 1980; Blyth et al. , 1981; Simmons, Blyth, 1987) . In accordo con questa concezione, Damon e Hart (1982) considerano il sé fisico come una sorta di prototipo che guida il bambino verso la conoscenza più ge­ nerale di sé. Anche studi effettuati sugli adulti confermano il ruolo prato­ tipico del sé fisico (Del Miglio, 1989). Abbiamo visto che, da un punto di vista multidimensionale, il concet­ to di sé comprende diversi domini: intellettuale, accademico, affettivo, fi­ sico o sociale. Questi possono essere più o meno rilevanti e importanti per la vita psichica del soggetto. Ciò viene espresso nel concetto di schemati­ cità della Markus. :-\ella teoria degli autoschemi, l'individuo può mostrare diversi gradi di schematicità in relazione ad aspetti specifici del sé. Tale schematicità è influenzata dai fattori ambientali, intesi in senso lato, e an­ che da fattori legati allo sviluppo del soggetto. Nel presente lavoro, siamo interessati particolarmente alla riorganiz­ zazione del sé corporeo che si verifica nella prima adolescenza. In questo periodo, in seguito allo sviluppo puberale e ai suoi effetti, l'attenzione del soggetto viene focalizzata sul corpo. Ciò fa ritenere che i giovani adole­ scenti siano schematici in relazione al sé corporeo e che tale schematicità si rifletta nel modo di percepire sé stessi con tutte le conseguenze emozio­ nali associate. Nei capitoli successivi, approfondiremo lo studio del sé fisico in rela­ zione ai suoi vissuti emotivi, ai problemi legati alla discrepanza nel sé fisi­ co e all'età adolescenziale. A tal fine, esamineremo la prospettiva cogniti­ vista della discrepanza del sé e il rapporto con l'emotività. In questo qua­ dro, nel prossimo capitolo, cercheremo di chiarire l'importanza e il ruolo delle emozioni nella vita psichica.

3

Emozioni e discrepanza del sé in prospettiva cognitiva

3·1

Le emozioni J.I.I.

Correnti d'indagine

Le emozioni sono un aspetto fondamentale dell'esistenza che, da lungo tempo, interessa e affascina l'uomo in quanto consente di valutare l'espe­ rienza in termini di "piacere" e di " dolore" . Il termine "emozione" deriva dal latino emotio. Questa parola ha origine da emotus, participio passato di emovere che, letteralmente, significa "muovere da, allontanare" . In sen­ so traslato, il verbo significa anche " scuotere, sconvolgere " . La sensazione di essere mossi da ciò che si prova, e che sembra provenire dal nostro in­ terno, è una caratteristica fondamentale dell'esperienza emotiva (cfr. De Rivera, 1977) . L'interesse della psicologia verso le emozioni risale a pionieri come Wundt, J ames e Freud. Gli studi si sono sviluppati secondo varie pro­ spettive. Analizzando la letteratura sulle emozioni dalla nascita della psicologia ad oggi, possiamo individuare quattro impostazioni teoriche che si sono contese le scene (cfr. LeDoux, 1996; Leventhal, Tomarken, 1986) : le teorie istintuali, le teorie degli effetti periferici, le teorie degli effetti centrali e le teorie dell'attivazione. Tra le teorie istintuali possiamo collocare la psicoanalisi e il pensiero di McDougall. In senso stretto, Freud non si è occupato di emozioni, ma ha studiato le basi emotive del comportamento, attribuendo ai processi af­ fettivi un ruolo centrale nella vita umana. Dai suoi scritti (cfr. Freud, 1905, 1915, 1920) emerge che le emozioni sono legate agli istinti. Questi si collo­ cano all a base della motivazione e derivano dalle tensioni associate ai bi­ sogni organici. Le emozioni positive possono essere ricondotte agli istinti di vita, mentre le emozioni negative sono legate agli istinti di morte. I pri­ mi rispondono alle esigenze di soprawivenza dell'individuo e a quelle di propagazione della specie. I secondi sono associati alle tendenze verso la 59

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

morte e la distruzione. Freud considera le emozioni forme di energia psi­ chica soggette prevalentemente al principio del piacere. In questo senso, si può affermare che il soggetto sperimenta emozioni positive, in corri­ spondenza di una riduzione della tensione istintuale, ed emozioni negati­ ve in rapporto a un aumento della tensione. Anche McDougall (1908) attribuisce un ruolo importante agli istinti. Infatti, ritiene che le emozioni siano legate a un certo numero di entità bio­ logiche che si sono sviluppate nel corso dell'evoluzione. Queste entità so­ no gli istinti. A essi sono associate caratteristiche peculiari costituite dalla capacità di riconoscimento degli stimoli, da sentimenti emotivi nei loro confronti e da una tendenza ad awicinarsi o ad allontanarsi rispetto ad es­ si. In questo quadro, egli sostiene che le emozioni hanno una funzione di guida del comportamento nell'interazione con l'ambiente. Secondo l'au­ tore, ogni istinto ha un'emozione corrispondente con un suo specifico cor­ relato corporeo. McDougall ritiene, inoltre, che ogni emozione sia legata a pattern di risposte comportamentali che, in passato, hanno permesso al soggetto di soddisfare il proprio istinto. L'esponente di maggior rilievo della teoria degli effetti perzferici è J a­ mes (1890) . Egli sostiene che la percezione di eventi esterni determina del­ le modificazioni corporee periferiche, che vengono poi elaborate retroat­ tivamente a livello cognitivo ed etichettate come emozione o sentimento emozionale. La relazione stimolo-sentimento emotivo può essere riassunta nella sequenza: stimolo, risposta, retroazione, sentimento. In altri termini, la concezione assume che le emozioni sono accompagnate dalla percezio­ ne di reazioni fisiche come tremore, sudorazione, aumento del battito car­ diaco e così via. Il sentimento emotivo non è determinato dallo stimolo ma da queste reazioni. Per fare un esempio: in una situazione di pericolo, tre­ miamo e abbiamo paura. Stando alla teoria, il timore (sentimento) non è originato dal pericolo (stimolo) , ma dal fatto che tremiamo (risposta) . L a posizione diJames, pur facendo riferimento a d aspetti biologici per spiegare le emozioni, è sicuramente più riduttiva rispetto alle interpreta­ zioni istintuali. Queste, infatti, assegnano alle emozioni un ruolo fonda­ mentale nell'organizzazione psichica e comportamentale umana. Secondo James, invece, l'emozione si identifica con le sensazioni corporee ad essa legate. L'autore afferma, infatti, che se noi immaginiamo una qualche for­ te emozione e proviamo ad astrarre dalla nostra coscienza di essa tutte le sensazioni derivanti dalle specifiche modificazioni corporee che vi sono le­ gate, non resterà niente. In risposta all'interpretazione delle emozioni come somma di sensazio­ ni corporee periferiche, Cannon ha proposto una teoria degli effetti centra­ li, in cui si sottolinea il ruolo che le strutture centrali svolgono sulle emo6o

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zioni. L'ipotesi periferica di J ames porta a un corollario, secondo il quale a ogni emozione deve corrispondere uno specifico correlato corporeo. Can­ non, attraverso i suoi studi, ha dimostrato, invece, che gli stessi cambia­ menti viscerali si verificano in stati emozionali molto diversi e anche in sta­ ti non emozionali (Cannon, 1927) . L'ipotesi portata avanti da Cannon è che l'evento elicitante determini un'attivazione centrale che, dal livello del tala­ mo, verrebbe trasmessa all'ipotalamo. Questo riceverebbe il segnale nello stesso momento in cui l'informazione arriva al cervello e invierebbe mes­ saggi ai muscoli del corpo. In tal modo, l'ipotalamo svolgerebbe un ruolo centrale di collegamento tra l'attivazione fisiologica periferica e l'esperien­ za soggettiva dell'emozione (cfr. Darley, Glucksberg, Kincla, 1991) . Gli studi di Cannon hanno costituito la base per le cosiddette teorie dell'attivazione o arousal. Schacter e Singer sono considerati i capostipiti della teoria dell'eccitazione cognitiva. Schacter (1964) sostiene che l'esperienza emotiva si verifica quando una persona si trova in uno stato di attivazione (arousal) e, contempora­ neamente, attribuisce tale condizione a un qualche evento emozionale. Di conseguenza, la consapevolezza dell'arousal rende emozionale l'esperien­ za vissuta dal soggetto. Così, l'elaborazione cognitiva della situazione che ha provocato l'attivazione fisiologica determina il tipo di emozione prova­ ta (cfr. Frijda, 1988). Un esperimento condotto in collaborazione da Schacter e Singer (1962), spiega chiaramente la posizione degli autori. A un gruppo di sog­ getti viene somministrata epinefrina dicendo loro che si tratta di un com­ plesso vitaminico. I soggetti vengono poi divisi in due gruppi assegnati a due condizioni sperimentali differenti. La prima è strutturata in modo da portare a euforia, mentre la seconda dovrebbe determinare rabbia. L'e­ sperimento prevede anche un gruppo di controllo nel quale i soggetti ven­ gono informati della natura e degli effetti dell 'epinefrina da loro assunta. I risultati dell'esperimento confermano l'ipotesi dei ricercatori. Infatti, i soggetti dei gruppi sperimentali interpretano il loro stato di attivazione (dovuto all'epinefrina assunta inconsapevolmente) come euforia o rabbia a seconda del contesto situazionale. Mentre i soggetti del gruppo di con­ trollo, pur vivendo le stesse situazioni sperimentali, affermano di non pro­ vare nessuna emozione particolare. Questi, infatti, hanno a disposizione un'interpretazione cognitiva in grado di spiegare il loro stato di attivazio­ ne e, di conseguenza, non vengono influenzati da ciò che accade nell'am­ biente circostante (condizione-euforia, condizione-rabbia) . Le emozioni sarebbero, così, il risultato dell'interpretazione cognitiva delle eccitazioni secondo il seguente schema: stimolo, eccitazione, cogni­ zione, sentimento. Nella sequenza, la retroazione derivante dall'eccitazio61

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ne fisica non ha carattere specifico, ma costituisce il punto di partenza per "etichettare" il tipo di emozione provata. Ciò avviene in base alla valuta­ zione cognitiva della situazione. La Arnold (1960) ha inserito nel modello l'intervento della " tendenza all'azione" . Secondo l'autrice, la valutazione avviene in maniera inconscia o consapevole, e riguarda una sorta di bilancio dei vantaggi e degli svan­ taggi di una situazione. Sul piano conscio, i suoi effetti danno luogo al sen­ timento emotivo. Questo corrisponde alla consapevolezza dell'attrazione o della repulsione nei confronti di ciò che viene considerato, rispettiva­ mente, positivo o negativo. Pertanto, il sentimento emotivo, in conse­ guenza di un bilancio valutativo della situazione, è legato a una " tendenza ad agire" in termini di avvicinamento o di allontanamento rispetto alla si­ tuazione stessa. La teoria di Schacter e Singer ha aperto la strada ai successivi approc­ ci cognitivisti alle emozioni. Il concetto di valutazione è alla base anche degli sviluppi cognitivisti contemporanei. Questi, nonostante il loro successo, sono stati oggetto di numerose critiche in quanto non sono in grado di spiegare, in modo esau­ riente, l'origine delle emozioni (cfr. Frijda, 1986, 1988). 3.1.2.

Questioni centrali nello studio delle emozioni

Negli ultimi vent'anni, gli studi sull'argomento sono aumentati notevol­ mente e hanno suscitato molte controversie. Sono in discussione diverse questioni sulle emozioni, come la loro causa, il carattere destabilizzante, la funzione, il valore di guida nella vita, la coincidenza con le sensazioni cor­ poree, i fondamenti biologici e quelli socioculturali (cfr. De Rivera, 1977; Ekman, 1984; Kitayama, Markus, 1994a; LeDoux, 1987) . Un problema cruciale riguarda la differenziazione e la relazione causa­ le tra cognizione ed emozione. Gli studi sull'argomento condotti da Zajonc (1980) indicano che la reazione emotiva precede la cognizione e, in tal senso, è indipendente da questa. :\'ell'esposizione a stimoli inconsueti, infatti, sono emerse delle preferenze derivanti da un "semplice effetto espositivo" indipendente dall'identificazione e dalla distinzione consape­ vole delle forme. I risultati mettono in evidenza il ruolo dei processi in­ consapevoli, tuttavia non consentono di concludere definitivamente che emozioni e cognizioni sono indipendenti. Un contributo fondamentale all'analisi del problema è stato fornito dai recenti sviluppi delle neuroscienze. Le ricerche riassunte da LeDoux (1996) confermano che gran parte dell'attività emotiva cerebrale si svolge inconsciamente. Secondo l'autore,

J.

EMOZIOI\1 E DISCREPAI\"ZA DEL SÉ L'l PROSPETTIVA COGI\lm1A

il cervello valuta lo stimolo e stabilisce le modalità di risposta. La valuta­ zione, però, non implica l'accesso immediato ai livelli di cognizione supe­ riore. L'approfondimento delle indagini ha portato a una concezione più complessa del sistema cerebrale rispetto a quella del periodo precedente. Sino agli anni Settanta, per spiegare la relazione tra risposte emotive e cognitive, il modello di riferimento era costituto da quello elaborato da MacLean. Questo, inizialmente, distingueva le zone rinencefaliche, deno­ minate " cervello viscerale" , dalla neocorteccia. Al primo veniva attribuito il coordinamento dell'attività affettiva. La neocorteccia, invece, era consi­ derata il centro delle funzioni cognitive superiori. Dopo varie modifiche, è stata formulata la teoria del cervello trino (MacLean, 1970), secondo la quale il proencefalo sarebbe il risultato dell'evoluzione di tre diversi tipi di cervello: quello dei rettili, dei paleo-mammiferi e dei neo-mammiferi. Il primo presiede ad attività basilari per la sopravvivenza. Il secondo è più evoluto e corrisponde al sistema viscerale o sistema lirnbico, il cui nucleo è costituito dalle cellule piramidali dell'ippocampo. Il terzo corrisponde allo sviluppo della neocorteccia. Nell'uomo e negli altri mammiferi avan­ zati sono presenti i tre cervelli. Essi sono diversi per struttura e funzioni, e operano in maniera relativamente autonoma anche se sono collegati tra loro. McLean ipotizzò che le cellule dell'ippocampo, ricevendo le infor­ mazioni del mondo esterno, agissero come una «tastiera emotiva» attivan­ do le sensazioni delle emozioni. La nostra difficoltà di comprensione del­ le emozioni dipenderebbe dalle capacità di analisi dell'ippocampo che, in conseguenza della sua storia evolutiva, sarebbero più rudimentali rispetto a quelle della neocorteccia. Secondo LeDoux, il modello di MacLean costituisce anche al momen­ to attuale un punto di riferimento, ma richiede diverse correzioni. L'utiliz­ zo di tecniche raffinate d'indagine ha messo in evidenza un sistema di in­ terconnessione cerebrale particolarmente articolato e complesso. Così, è stato dimostrato che l'ipotalamo è collegato con tutte le aree del sistema nervoso, compresa la corteccia. Alcune aree del sistema lirnbico come l'ip­ pocampo sembrano essere implicate anche in funzioni cognitive. Aree pre­ cedentemente escluse dal sistema limbico risultano essere coinvolte nella regolazione autonoma. Inoltre, diversi elementi inducono a pensare che i sistemi emotivi potrebbero essere numerosi e non soltanto uno. In questa revisione, LeDoux considera l'esperienza emotiva come il ri­ sultato di diversi sistemi di elaborazione delle informazioni. Questi com­ prendono il processo di eccitazione, la memoria, l'attenzione e vari tipi di retroazione che includono il piano fisico e quello linguistico. Nell'espe­ rienza emotiva, l'autore attribuisce un ruolo fondamentale all'amigdala, una piccola regione del sistema lirnbico. Questa si trova al centro di un si-

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

stema di comunicazioni, e riceve informazioni da diverse fonti: segnali sen­ soriali specifici dal talamo; informazioni sensoriali di livello superiore dalla corteccia; informazioni generali, di livello ancora più alto e indipendenti dai sensi, dall'ippocampo. L'amigdala, in tal modo, è in grado di elaborare in maniera complessa l'esperienza emotiva di uno stimolo, attraverso il col­ legamento e la retroazione tra centri specifici sensoriali, cognitivi e motori. La funzione delle emozioni è tuttora un punto critico del dibattito. Scherer, per esempio, ritiene che considerare soltanto l'aspetto valutativo costituisca un errore, in quanto porta a confondere la definizione verbale di emozione con il contenuto dell'esperienza emotiva. Egli interpreta le emozioni come l'interfaccia tra l'organismo e il suo ambiente (Scherer, 1984) . In tal senso, l'organismo, innanzi tutto, valuta gli stimoli ambientali in rapporto ai propri bisogni e aspettative. Segue, quindi, la preparazione (fisiologica e psicologica) dell'azione più appropriata in quel contesto. In­ fine, l'organismo comunica le sue reazioni e stati d'animo all'ambiente so­ ciale circostante (Scherer, 1981 e 1982) . Secondo certi autori (cfr. Oatley, Johnson-Laird, 1987) , la funzione principale delle emozioni è proprio quel­ la comunicativa. Alcuni sostengono che le emozioni siano qualcosa di dirompente e ir­ razionale che interrompe il normale flusso cog!J.itivo come, per esempio, negli stati di paura e ansia (cfr. Eysenck, 1977; Ohman, 1992) . Questi stati, in condizioni patologiche come quelle nevrotiche, sfuggono al controllo razionale. Anche in condizioni normali, quando superano una certa inten­ sità, ostacolano la funzionalità del comportamento e sono causa di disagio. Riprenderemo più avanti la relazione con gli effetti negativi di questo tipo. Secondo altri, invece, le emozioni hanno una funzione adattiva e sono funzionali allo sviluppo e all'azione umana (cfr. Oatley, Johnson-Laird, 1987) . Gli studi sull'efficienza del comportamento condotti nell'ambito della teoria dell 'apprendimento indicano che a livelli troppo bassi o trop­ po alti di eccitazione emozionale corrispondono prestazioni inadeguate, mentre un livello ottimale di attivazione favorisce il rendimento (cfr. Ey­ senck, 1977). Da questo punto di vista, un aspetto particolare riguarda il valore del­ le emozioni in termini evoluzionistici. Per Scherer (1984) , la flessibilità comportamentale e adattiva dell'organismo dipende largamente dalle emozioni. Esse, infatti, si sono sostituite a comportamenti innati e rigidi quali i riflessi. In questo modo, hanno contribuito ad ampliare le possibi­ lità di risposta comportamentale di fronte agli stimoli ambientali . Malate­ sta (1990) ritiene che le emozioni promuovano la sopravvivenza della spe­ cie e quella individuale. Inoltre, attribuisce alle tendenze emozionali il ruolo di organizzatori della personalità. Egli sostiene che, nel corso dello

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sviluppo, il bambino acquisisce un'organizzazione emozionale legata ad affetti specifici, la quale influenzerà le sue modalità interattive con l'am­ biente. L'autore parte dal presupposto che gli individui sono predisposti biologicamente verso particolari stati emotivi a causa del loro tempera­ mento. L'ambiente sociale circostante reagisce a questo temperamento e permette l'instaurarsi di particolari esperienze emozionali, che tendono a ripetersi e consolidarsi nel tempo. Tali pattern emozionali possono fun­ zionare come dei tratti di personalità e influenzare una vasta gamma di comportamenti. Per molto tempo ha prevalso tra i ricercatori l'idea di una forte deter­ minazione biologica delle emozioni. Gli studi di Ekman sull'espressione fisica delle emozioni primarie hanno contribuito al rafforzamento di que­ sta posizione. Per questo, molti hanno attribuito alle emozioni un ruolo omeostatico di regolazione del comportamento (cfr. Buck, 1988; Ekman, 1984; LeDoux, 1987) . Negli ultimi anni, invece, diversi ricercatori hanno sottolineato le de­ terminanti socioculturali delle emozioni (cfr. Campos J . J., Campos R. G. Barrett, 1989 ; Frijda, 1986; Lutz, 1988; Ortony, Turner, 1990; Rosaldo, 1984) . L'attuale enfasi sugli aspetti culturali (cfr. Kitayama, Markus, 1994a) non implica comunque una marginalizzazione dei fattori biologici. Si ri­ tiene, infatti, che le determinanti biologiche abbiano un ruolo cruciale, sebbene non esclusivo. Kitayama e Markus (1994b), infatti, affermano che lo sviluppo e l'organizzazione delle emozioni sono influenzati dai sistemi socioculturali di significato, nei quali il sé, gli altri e gli eventi sociali ac­ quistano senso. Gli autori analizzano le modalità in base alle quali le nor­ me e i valori culturali vengono interiorizzati dai membri della società e tra­ sformati in bisogni individuali. Essi ritengono che il punto d'incontro tra l'individuo e il mondo sociale sia il sé. In tal senso, come si è accennato nel capitolo precedente, il sé è il luogo privilegiato in cui vengono incorpora­ ti i valori della società in cui si è inseriti. Attraverso il sé le persone inte­ riorizzano gli " imperativi" della società in cui vivono. Secondo Markus e Kitayama questi imperativi vengono incorporati nel sistema emozionale di ciascuno, così che le persone si sentono bene quando si comportano in ac­ cordo con il rispettivo imperativo e si sentono male quando agiscono in senso contrario ad esso. In riferimento alle problematiche in esame, Ellsworth (1994) sostiene che le posizioni riduzionistiche, sia in senso biologico che socioculturale, sono entrambe inefficaci per la comprensione delle emozioni. L'autrice propone di analizzare l'argomento in rapporto al limitato numero di di­ mensioni che gli individui usano per valutare la natura della situazione. Al­ cune di queste dimensioni valutative possono essere considerate universa-

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

li. Tra queste si possono annoverare la novità e la piacevolezza della situa­ zione. Altre (ad esempio controllo e responsabilità) , invece, sono veicola­ te dall'ambiente sociale e culturale in cui è inserito l'individuo. In sintesi, sebbene esistano ancora posizioni molto lontane tra loro, Scherer (1984) evidenzia alcuni punti di contatto tra i ricercatori che si oc­ cupano attualmente di emozioni. L'emozione è considerata oggi un co­ strutto psicologico costituito da varie componenti: una cognitiva, che com­ prende gli atteggiamenti e le valutazioni degli stimoli situazionali; una fi­ siologica, legata all'attivazione o arousal; una espressivo-motoria, che si ri­ flette nelle reazioni fisiche; un fattore motivazionale, che include anche le intenzioni comportamentali; infine, un aspetto soggettivo, che implica lo stato emozionale. Più in generale, si può dire che le emozioni possono essere definite co­ me un insieme di copioni condivisi socialmente, costituiti da processi fi­ siologici, soggettivi e comportamentali (Kitayama, Markus, 1994b). Molti ricercatori ritengono che le emozioni implichino tutti questi aspetti e non solo alcuni di essi (Averill, 198o; Izard, 1977; Lazarus, Averill, Opton, 1970; Leventhal, 1979; Ortony, Turner, 1990; Plutchik, 1980) . Tuttavia, le varie teorie attribuiscono un peso differente alle diverse componenti. Le teorie cognitive che discuteremo nel prossimo paragrafo focalizza­ no l'attenzione sul processo valutativo. J .2

Teorie cognitive sulle emozioni

3 .2.1. Caratteri generali Nonostante le critiche cui abbiamo accennato, le interpretazioni cognitive delle emozioni sono numerose e occupano un posto centrale nelle ricerche contemporanee. Dal nostro punto di vista, appaiono particolarmente utili in quanto sono strettamente legate al concetto di sé, soprattutto per quan­ to concerne il problema della discrepanza. In questo contesto, ci limitere­ mo ad analizzare i punti essenziali che accomunano alcune delle teorie principali, e ci soffermeremo sugli aspetti che si riallacciano all' argomen­ to centrale del presente lavoro. Secondo le impostazioni teoriche cognitiviste, l'affettività deriva dal modo in cui il soggetto struttura e interpreta gli eventi del mondo circo­ stante, cioè, dipende dalle sue cognizioni. Le emozioni, infatti, possono es­ sere definite come degli stati di personalità che danno senso e colore alle esperienze individuali. Tali stati possono essere vissuti, con diversi livelli di intensità, come positivi o negativi. L'affettività e il comportamento sareb66

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EMOZIOI\1 E DISCREPAI\"ZA DEL SÉ L'l PROSPETTIVA COGI\lm1A

bero largamente determinati dal modo in cui il soggetto struttura il mon­ do e cioè dalle sue cognizioni (Beck, 1976) . Le emozioni sono caratterizzate da specifiche idee e cognizioni, han­ no dei particolari correlati fisiologici e influenzano il comportamento, de­ terminando un effetto retroattivo su quell'ambiente che in origine le ave­ va scatenate. Lo schema sottostante racchiude i punti fondamentali del discorso (cfr. Beck, 1976) : lnput ambientale

--+

valutazione cognitiva

--+

emozione

correlato fisiologico cognizione

t

!

t

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+-

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retro azione sull'ambiente

+-

comportamento

+-

Nel modello, l'emozione si verifica in seguito alla percezione di una mo­ dificazione ambientale che ha un valore rilevante per il soggetto. Ogni emozione, infatti, compare in una particolare situazione che assume uno specifico significato per gli individui che la vivono. Vi sono dei fatti che hanno degli effetti emozionali sulla maggior par­ te delle persone. Ad esempio, una catastrofe naturale suscita paura in quanto è una minaccia per l'esistenza stessa. Altri eventi, invece, hanno una valenza soggettiva, che dipende dalle esperienze passate del soggetto, dalle sue motivazioni, dai suoi interessi ecc. Secondo questa posizione, il fatto in sé non ha valenza emozionale. Il valore emotivo, infatti, nasce dal modo in cui la persona lo interpreta. È per questo che l'individuo può provare emozioni anche per fatti non rea­ li, che lui si immagina o che si aspetta che accadano. Alcuni autori (Frijda, 1986; Oatley, Johnson-Laird, 1987) sostengono che le emozioni si verificano quando una tendenza psicologica viene con­ trastata o interrotta. Più nello specifico, si afferma che le emozioni nasco­ no dalla valutazione (appraisa[) di eventi o situazioni ambientali. Si tratta di condizioni in cui il soggetto avverte una discrepanza tra lo scopo che si era prefisso e l'andamento dell'azione. La valutazione di questo conflitto è la molla che fa scattare l'emozione. Quindi, gli antecedenti emozionali, o «fattori elicitanti» come li chia­ ma Oatley (1997) , sono sempre presenti nell'ambiente o nella mente del soggetto e, a seconda di come vengono percepiti e interpretati, costitui­ scono i fattori scatenanti l'emozione. Il processo è definito in modi diver­ si dai vari autori. Ad esempio, Oatley parla di interruzione del piano por-

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

tato avanti dal soggetto. De Rivera (1977), invece, fa riferimento a modifi­ cazioni della relazione intercorrente tra soggetto e ambiente. Ma, in so­ stanza, si parla sempre dello stesso processo. Ciò che dà senso all'emozione e la colora è la valutazione dell'evento. L'individuo interpreta gli eventi che gli accadono sulla base delle proprie esperienze, motivazioni, interessi personali, credenze e valori. Infatti, ogni persona ha degli scopi, delle mete che si prefigge e, per raggiungere tali mete, segue dei piani d'azione (Oatley, 1997; Carver, Scheier, 1990) . Oatley (1997) ipotizza che i piani d'azione siano organizzati in modo gerarchico e che non sempre siano chiari e lineari. :\'ella vita quotidiana, infatti, noi inseguiamo più obiettivi contemporaneamente (piani multipli), in un ambiente spesso incerto e poco conosciuto, con risorse limitate e in accordo con altre persone. Pertanto, è facile che si presentino degli im­ previsti. Quando si verifica un cambiamento di probabilità nella realizza­ zione di un importante scopo, interviene un meccanismo di controllo, spe­ cifico per ogni tipo di emozione. Questo sistema di controllo ha lo scopo di trasmettere al sistema cognitivo un segnale che lo predisponga al cam­ biamento. Gli esseri umani sperimentano questi segnali, e gli stati di pre­ parazione da essi indotti, come emozioni ( Oatley, J ohnson-Laird, 1987) . In questo senso, le emozioni hanno il ruolo fondamentale di aiutare il sog­ getto a trovare soluzioni nuove alla situazione e di prepararlo all'azione. Le valutazioni cognitive che stanno alla base di tale processo sono par­ te integrante delle emozioni (Frijda, 1988). Infatti, la specifica valutazione cognitiva che il soggetto dà dell'evento in corso scatena una specifica emo­ zione. È noto, infatti, che uno stesso evento può scatenare risposte emoti­ ve differenti in soggetti che hanno dato diverse interpretazioni del fatto. Così come, in momenti diversi, uno stesso individuo può vivere diversa­ mente il medesimo evento, a seconda di come lo valuta. 3.2.2. Il modello di Carver e Scheier Tra i modelli di impostazione cognitivista, ci soffermiamo su quello pro­ posto da Carver e Scheier (1990) , soprattutto per le sue affinità con la teo­ ria della discrepanza del sé di Higgins, che analizzeremo tra breve. Questa prospettiva si focalizza sui processi attraverso i quali le perso­ ne autoregolano le proprie azioni, per minimizzare le discrepanze tra le azioni reali e le azioni che esse desiderano o intendono compiere. Gli autori ritengono che il comportamento intenzionale rifletta un processo di controllo a retroazione (Carver, Scheier, 1981, 1982, 1986) . L'as­ sunto di base della teoria è che la gente si muove, fisicamente e psicologi­ camente, verso delle mete e monitora costantemente il proprio percorso. 68

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Per questo, le persone confrontano continuamente la percezione del pro­ prio comportamento con i propri valori o standard di riferimento. Se il confronto evidenzia una discrepanza tra lo stato attuale e i valori di riferi­ mento, le persone modificano il proprio comportamento in modo da av­ vicinarsi il più possibile ai propri standard. Carver e Scheier, rifacendosi al lavoro di Powers (1973) , sostengono l'esistenza di un'organizzazione gerarchica del comportamento che preve­ de tre livelli. Al livello più alto, che Powers chiama sistema dei concetti, vi sono i valori di riferimento più importanti per il soggetto. Questi valori co­ stituiscono, per esempio, l'immagine ideale di sé, ma anche l'immagine ideale della società e di altri elementi importanti. La gente per cercare di essere chi pensa di voler (o dover) essere usa dei principi guida. Questi di­ scendono dai modelli idealizzati di sé e si collocano al secondo livello del­ la gerarchia comportamentale. I principi guida ispirano i nostri comporta­ menti e ci consentono di attivare specifici programmi comportamentali o scripts. I programmi sono costituiti da sequenze pressoché automatiche di azioni e si collocano al livello più basso della gerarchia. Il fatto che il comportamento sia organizzato in modo gerarchico sul­ la base dei valori di riferimento più importanti non preclude la possibilità per l'individuo che un valore secondario possa diventare centrale, anche per un periodo limitato. La gente non sempre ha successo nel cercare di raggiungere le mete che si è proposta. In genere, di fronte a difficoltà o a novità, reali o attese, il soggetto interrompe la sequenza comportamentale in atto e valuta le proprie possibilità di riuscita. Nel caso in cui si renda conto di non avere grosse aspettative di successo, può abbandonare la meta; oppure, più sem­ plicemente, anche sulla base della sua esperienza precedente, può modifi­ care la personale strategia d'azione. :\'el caso in cui abbia ancora buone possibilità di riuscita, persevererà nei suoi intenti. Per il nostro argomento, è interessante sottolineare che, quando le aspettative di risultato sono favorevoli, la gente tende a sperimentare emo­ zioni e sentimenti positivi. Se, invece, le aspettative di risultato sono sfa­ vorevoli, la gente tende ad avere sentimenti negativi (Scheier, Carver, 1988) . Secondo gli autori, oltre a questo sistema di monitoraggio comporta­ mentale, esiste un circuito di metamonitoraggio che controlla la velocità di riduzione della discrepanza. Il sistema prevede che la riduzione della di­ screpanza si verifichi a una certa velocità di riferimento. Il valore di riferi­ mento è uno specifico e desiderato valore di riduzione della discrepanza. Tale valore può essere imposto dall'esterno, dal soggetto stesso o può na­ scere dal confronto sociale.

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

Anche il circuito di metamonitoraggio ha delle implicazioni per le emozioni. Infatti, se la progressione verso la meta, cioè la riduzione della discrepanza a livello del circuito d'azione, procede secondo lo standard stabilito, allora non si verifica alcuna discrepanza nel metacircuito. In que­ sto caso, non si hanno conseguenze emozionali. Invece, si verifica una di­ screpanza a livello metacognitivo quando la progressione è lenta, cioè la riduzione della discrepanza è inferiore allo standard. In questa condizio­ ne, il soggetto sente di allontanarsi dalla meta e vive stati emozionali ne­ gativi. Infine, quando la progressione è più rapida di quella prevista dallo standard, si ha sempre una discrepanza a livello metacognitivo. In tale si­ tuazione, però, il soggetto sperimenta emozioni positive, in quanto si sta avvicinando rapidamente alla meta. Carver e Scheier (1990) ritengono, inoltre, che si possano individuare due tipi di sistemi di retroazione all'interno del processo generale. Il primo sistema fa riferimento a un circuito di retroazione negativa e prevede la riduzione della discrepanza come obiettivo fondamentale. Un tale sistema implica valori di riferimento con valenza positiva come, per esempio, raggiungere una meta desiderata, ed è basato sulla ricompensa. Il secondo sistema prevede, invece, un circuito a retroazione positiva che amplifica la discrepanza. Il valore di riferimento di questo sistema è una qualità indesiderata. I circuiti a retroazione positiva hanno l'obiettivo di discostarsi da un potenziale effetto negativo quale, per esempio, una punizione. In riferimento alla funzione, i due sistemi di retrazione potrebbero avere basi anatomiche differenti. Alcuni studi (cfr. Diener, Emmons, 1984; Davidson, 1993), infatti, ipotizzano che i lobi frontali dell'emisfero destro agiscano sugli affetti negativi attraverso meccanismi che rispondono al principio dell'evitamento. Mentre i lobi frontali dell'emisfero sinistro po­ trebbero agire sugli affetti positivi con meccanismi di avvicinamento. Nei termini della teoria di Carver e Scheier, possiamo parlare di retroazione positiva, nel primo caso, e di retroazione negativa, nel secondo. Come si potrà constatare più avanti, questi due sistemi di retroazione si possono integrare perfettamente nella teoria della discrepanza del sé (Higgins, 1987) . Inoltre, sembrano in grado di fornire una spiegazione per il verificarsi di due emozioni centrali nel modello di Higgins: l'ansia e la depressione. La depressione potrebbe, infatti, essere legata ad un insuffi­ ciente progresso nel sistema a feedback negativo o sistema di avvicina­ mento, mentre l'ansia si verificherebbe in concomitanza con un'insuffi­ ciente progressione nel sistema a retroazione positiva o sistema di allonta­ namento.

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EMOZIOI\1 E DISCREPAI\"ZA DEL SÉ L'l PROSPETTIVA COGI\lm1A

J .2. J . Ansia e depressione La teoria della discrepanza del sé, che avremo modo di approfondire nel prossimo paragrafo, centra la propria attenzione sul rapporto tra sé ed emozioni. In particolare, analizza due tendenze emozionali. La tendenza all'agitazione, rappresentata dall'ansia, e la tendenza alla demoralizzazione, rappresentata dalla depressione. La depressione è «un abbassamento del tono dell'umore accompa­ gnato generalmente da un rallentamento più o meno marcato di alcune funzioni cognitive (attenzione, percezione, ideazione) e da un rallenta­ mento della psicomotricità» (Colombo, 1996, p. 189). Il paradigma della depressione è rappresentato dalla reazione di lutto, come già aveva sostenuto lo stesso Freud (1917) . Nel caso della depressio­ ne, come nel caso del lutto, si perde qualcosa che si amava: la persona ama­ ta o un'astrazione che ne ha preso il posto o un'ideale. Secondo Freud, in alcuni individui nei quali viene sospettata la presenza di una disposizione patologica, la stessa situazione produce la melanconia invece del lutto. L'ansia, invece, è «uno stato di allarme, di marcata inquietudine e atte­ sa affannosa di un pericolo imminente e indefinibile. Tale stato si associa a sentimenti di incertezza e a vissuti di impotenza. A differenza della paura, che è una risposta emozionale a condizioni di pericolo reale esterno ben ri­ conoscibile, l'ansia è una paura senza oggetto, compare senza che vi sia una reale minaccia riconoscibile dal soggetto» (Colombo, 1996, p. 206) . Freud (1922) ha chiamato angoscia Io stato di apprensione che l'Io pro­ va di fronte alle situazioni di pericolo. Essa è considerata come una mani­ festazione della libido rimossa e non soddisfatta. Egli divide l'angoscia in tre tipi: reale, nevrotica e morale. I primi due tipi corrispondono al timore di sopraffazione originato, rispettivamente, dai pericoli provenienti dal mondo esterno e dalle pulsioni dell'Es. L'angoscia morale, invece, provie­ ne dal Super-Io e ha carattere più complesso. Freud ha formulato due in­ terpretazioni sull'origine e il significato dell'angoscia morale. Questa, se­ condo la prima concezione (Freud, 1922) , deriverebbe dalla conflittualità con la figura paterna vissuta nella fase edipica e, come tale, sarebbe alla base di sensi di colpa inconsci. In particolare, si svilupperebbe attorno al­ la fantasia della minaccia di castrazione da parte del padre. Successiva­ mente, Freud (1925) arrivò a formulare l'idea che l'angoscia morale rap­ presenti un'emozione dolorosa che funge da segnale per l'Io, nel senso che lo avvisa di un pericolo imminente e gli permette di attivare le proprie di­ fese. Tale angoscia, quindi, non sarebbe altro che la ripetizione, in forma attenuata, di un'esperienza traumatica vissuta originariamente nel trauma della nascita e ripetuta, in seguito, nello svezzamento. Da un punto di vi71

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

sta dinamico, l'angoscia morale, detta anche di " castrazione" e di "morte" , nascerebbe da un conflitto tra gli istinti dell'Es e la minaccia di punizioni da parte del Super-lo. In letteratura, spesso si distingue tra ansia di stato e di tratto (cfr. Cat­ tell, Scheier, 1958; Spielberger, 1983). Per la prima, ci si riferisce a uno sta­ to transitorio che implica l'anticipazione apprensiva di un pericolo o di un evento futuro, accompagnata da sentimenti di disforia o da sintomi fisici di tensione (American Psychiatric Association, 1987) . L'ansia di tratto, in­ vece, è una variabile di personalità piuttosto stabile e implica la predispo­ sizione da parte dell'individuo a rispondere in modo ansioso (con picchi di ansia di stato) agli stimoli ambientali. Rispetto alla scuola americana, Eysenck ha utilizzato una terminologia diversa. Nella sua teoria (cfr. Ey­ senck, 1960, 1967, 1969) la dimensione del nevroticismo corrisponde all'an­ sia di tratto, mentre il termine ansietà corrisponde all'ansia di stato. In generale, sono state date diverse interpretazioni sulla natura del­ l'ansia e della depressione. Rimanendo nell'ambito delle prospettive teori­ che cognitive a cui abbiamo fatto riferimento precedentemente, troviamo che secondo Oatley la depressione nasce dalla perdita di un ruolo impor­ tante per il soggetto: «Se un evento o una difficoltà grave nella vita impli­ ca l'eliminazione di un piano che realizzava uno scopo fondamentale per la definizione del sé, la vulnerabilità consiste nel non avere piani alternati­ vi che rendano possibile la soddisfazione di quello scopo, né ruoli supple­ mentari o potenziali che possano sostituire quanto è stato perso» (Oatley, 1997, p. 477) . L'ansia, invece, sarebbe legata a un conflitto che si sviluppa tra le intenzioni, più o meno consce, del soggetto. Le intenzioni, infatti, so­ no alla base del comportamento di ciascuno in quanto permettono l'orga­ nizzazione del comportamento. In realtà, però, ognuno di noi ha più in­ tenzioni o mete che cerca di raggiungere e, se tali intenzioni entrano in contrasto tra di loro, il soggetto sperimenterà ansia. Secondo De Rivera (1977) , nella depressione si ha un chiaro movi­ mento di allontanamento del soggetto dal mondo: l'individuo si sente ina­ deguato e incapace di affrontare il mondo, e per questo si ritira da esso. Nell'ansia, invece, il soggetto cerca di allontanare il mondo da sé. La per­ sona, infatti, awerte il mondo come minaccioso e pericoloso e, di conse­ guenza, cerca di tenerlo fuori da sé. In ogni caso, vari studi sull'argomento mostrano l'esistenza di due tipi di reazione emotiva che possono essere considerati corrispondenti alla de­ pressione e all'ansia. Ricerche fondate su analisi fattoriali e su analisi di clu­ ster (cfr. Cattell, 1973; De Rivera, 1977; Ewert, 1970; Zuckerman, Lubin, 1965) hanno individuato due gruppi di conseguenze emotive: uno è costi­ tuito da insoddisfazione, scoraggiamento, tristezza, sfiducia, sentimenti di 72

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pena e miseria (emozioni legate a demoralizzazione) ; l'altro comprende col­ pa, ansia, paura, sensazioni di tensione, allarme e pericolo (emozioni legate ad agitazione) . Nella letteratura clinica, questa distinzione di base tra emo­ zioni legate a demoralizzazione ed emozioni legate ad agitazione è stata fat­ ta, frequentemente, per distinguere tra depressione ed ansia. Da questo punto di vista, una prospettiva teorica che si è rivelata par­ ticolarmente utile per gli sviluppi successivi è quella formulata da Beck. Come abbiano accennato, l'assunto di base della terapia cognitiva da lui elaborata è che l'affettività e il comportamento siano largamente determi­ nati dal modo in cui il soggetto struttura il mondo, cioè dalle sue cogni­ zioni (Beck, 1976) . Queste cognizioni costituiscono il corso della coscien­ za della persona e riflettono le configurazioni che il soggetto ha di sé, del suo mondo, del suo passato e futuro. Alterazioni nelle strutture cognitive della persona influiscono sul suo stato affettivo e sui suoi pattern compor­ tamentali (Beck et al. , 1987) . Per quanto concerne i vissuti spiacevoli, ciò che porta allo stato affet­ tivo negativo sarebbero, dunque, gli schemi posseduti dal soggetto, le in­ terpretazioni errate degli eventi e le specifiche distorsioni cognitive da questo operate. In riferimento alla depressione, Beck parla di pensieri automatici che si focalizzano su una "triade cognitiva" costituita da temi come l'autosva­ lutazione, le opinioni negative sul mondo e sul futuro. Tali pensieri sono alimentati da sottostanti schemi depressogeni che sono organizzati attor­ no a contenuti di perdita, incapacità personale, inutilità e disperazione. Nell'ansia, invece, abbiamo dei pensieri automatici focalizzati su dan­ ni, o pericoli, attesi dal soggetto. Queste idee sono alimentate da schemi organizzati attorno ai temi di pericolo, incertezza e minacce future (Beck, 1976; Beck, Emery, 1985). In sostanza, in questo quadro, l'ansia e la depressione sono determi­ nate da particolari tipi di cognizioni. Come vedremo, l 'assunto di base del­ la teoria di Higgins si colloca proprio in questa prospettiva. 3 ·3

La teoria della discrepanza del sé

3·3·1. Il sé e l'affettività La teoria della discrepanza del sé elaborata da Higgins (1987) ha fornito un contributo considerevole al problema del collegamento tra il sé e l'affetti­ vità, e costituisce un punto essenziale di riferimento per gli studi contem­ poranei sull'argomento. 73

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

L'impianto generale della teoria è di impostazione cognitiva. Il nucleo attorno al quale si struttura il modello sono le cognizioni e le credenze che ogni individuo ha su di sé le quali, quando entrano in conflitto, conduco­ no il soggetto a sperimentare particolari tipi di sconforto emotivo. Per quanto concerne tali rappresentazioni, nei precedenti capitoli ab­ biamo visto che in letteratura vengono identificati diversi aspetti del sé o dell'immagine di sé. Ad esempio, James (1890) distingue tra il " sé spiri­ tuale" , che include la sensibilità morale e la coscienza di una persona, e il "sé sociale" che include il sé che è degno di essere approvato dal giudizio sociale più alto. Cooley (1902) descrive un "sé ideale sociale" costruito sulla base di un "Io migliore" al quale aspirare, così come appare nella mente delle persone che stimiamo. Gli " altri" possono essere altri signifi­ cativi oppure, altrimenti, l'altro generalizzato di Mead (1934) . Per Rogers (1959), oltre al sé che riguarda come uno è "realmente " , esiste un "sé idea­ le" equivalente a come si vorrebbe essere. E ancora, Rogers (1961) distin­ gue tra ciò che gli altri credono che una persona debba essere (il model­ lo normativa) e le credenze dello stesso individuo su ciò che vorrebbe es­ sere idealmente. In particolare, in termini di autoschemi, si parla di "sé reale" , cioè il concetto che ciascuno ha di se stesso, ma anche di differenti "sé possibili" come quelli sperati, desiderati o temuti (cfr. Markus, Nu­ rius, 1986) . Sviluppando le nozioni di Freud (1922) riguardanti Super-Io e Ideale dell'Io, Schafer (1967) , e Piers e Singer (1971) considerano il Super-Io co­ me la coscienza morale, e l'Ideale dell'Io come l'insieme di speranze e di mete dell'individuo. Inoltre, Colby (1968) distingue tra " credenze come desideri" e " credenze come valori" . Le prime (wish-belie/s) , esprimono i desideri e le speranze di ciascuno, mentre le seconde (value-belie/s) hanno a che fare maggiormente con valori, norme e obblighi. La letteratura sull'argomento ha descritto anche gli effetti negativi dei conflitti tra diversi tipi di sé. Il collegamento tra credenze conflittuali o in­ compatibili e lo sconforto emotivo è stato preso in considerazione da nu­ merose teorie e ha una lunga storia in psicologia. Le prime considerazioni risalgono a J ames e Cooley. J ames (1890) ha parlato della delusione che nasce dal mancato appaia­ mento tra aspirazioni e successi. Egli ha affermato che, quando il succes­ so non corrisponde alle nostre pretese o aspirazioni, noi proviamo un cer­ to disappunto. J ames, inoltre, ha sostenuto che una persona sperimenta vergogna quando l'autostima non combacia con il sé sociale ideale, inve­ ce, si sente in colpa se non rispetta i doveri morali e religiosi. Anche Coo­ ley (1902) si è soffermato sul sentimento di umiliazione conseguente alla percezione di discrepanze nel sé. Egli ha sostenuto che, in presenza di un 74

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senso di disparità tra il sé reale e il sé ideale sociale, la gente prova senti­ menti di vergogna e indegnità. Successivamente, diversi autori hanno sostenuto che i conflitti e le in­ coerenze del sé producono problemi emotivi. Una discrepanza tra il proprio reale comportamento e quello prescritto da altri significativi è stato, spesso, associato a paura e ad ansia come con­ seguenza dell'apprensione, dovuta all'anticipazione di sanzioni o risposte negative da parte degli altri (Freud, 1922; Scheier, Carver, 1977) . Diversi au­ tori, inoltre, hanno collegato la trasgressione dei propri valori morali o reli­ giosi con colpa e autoaccusa (cfr. Freud 1922; Piers, Singer 1971 ; Tompkins, 1984) . Per Allport (1955), la consapevolezza personale della discordanza tra diverse esperienze, o del non aver rispettato gli impegni, è causa di incer­ tezza, ansietà o sensi di colpa. Secondo Rogers (1959, 1961), l'individuo si sente minacciato e angosciato, quando sono presenti caratteri di incon­ gruenza nella simbolizzazione cosciente dell'esperienza che rappresenta il sé. Gli effetti negativi sono legati soprattutto alla discrepanza tra gli aspet­ ti reali e quelli ideali del sé e coinvolgono strettamente le relazioni imer­ personali. In maniera simile, nella loro teoria dell'autoconsapevolezza og­ gettiva, Duval e Wicklund (1972) sostengono che un aumento dell'atten­ zione, focalizzata sul sé, determina un incremento della consapevolezza di discrepanze tra il sé reale e gli standard personali di correttezza. Questo fatto induce una certa insoddisfazione e contrarietà che porta, come con­ seguenza, alla motivazione di ridurre la discrepanza stessa. Lecky (1945) ha costruito un'intera teoria sul tema della coerenza del sé, sottolineando il fatto che il comportamento esprime lo sforzo di man­ tenere un'unità e integrità nel sé. Secondo Lecky, infatti, il sé costituisce il nucleo della personalità. Per questo autore la personalità ha un carattere dinamico ed è un'organizzazione di valori coerenti tra di loro, organizzati in un sistema unitario la cui integrità è essenziale per la salute psichica del­ l'individuo. Il sé ha il ruolo cruciale di stabilire cosa può, o non può, es­ sere integrato nel sistema. Anche Festinger (1957) , nella sua teoria della dissonanza cognitiva, af­ ferma che gli individui cercano di mantenere un determinato grado di coe­ renza tra le cognizioni. Infatti, l'incoerenza tra le proprie credenze o com­ portamenti determina un certo disagio psicologico, che varia in intensità a seconda dell'importanza attribuita alla questione e del grado di incoeren­ za stessa; ciò determina uno stato motivazionale volto a ridurre la disso­ nanza modificando le credenze, o le opinioni, o i comportamenti in modo che risultino coerenti tra loro. Solitamente, le conseguenze emozionali degli stati di incoerenza ven75

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gono descritte in termini generici, come tensione, dispiacere, pressione, conflitto, stress o sconforto. In psicologia sociale, sono state proposte spe­ cifiche teorie sulle conseguenze motivazionali dell'incoerenza. Autori co­ me Abelson o Festinger hanno proposto una relazione tra sconforto emo­ tivo e specifici tipi di incompatibilità tra le credenze delle persone (Abel­ san, Rosenberg, 1958; Festinger, 1957; Heider, 1958). Festinger sostiene che la dissonanza cognitiva ci porta a ridurre con­ seguenze emotive negative di un'esperienza, in modo da giustificare di averla fatta per una così piccola ricompensa. L'individuo ha tre alternative per eliminare la dissonanza: ridurre l'importanza delle opinioni incoeren­ ti; aggiungere credenze più coerenti che smorzino il peso delle credenze dissonanti; cambiare le opinioni dissonanti in modo che non siano più in­ coerenti. La teoria del bilanciamento di Heider sostiene che la mancanza di bi­ lanciamento tra il soggetto, un'altra persona e un oggetto, determina un cambiamento di atteggiamento volto a ristabilire l'equilibrio. Abelson e Rosenberg affermano che esiste una sola relazione tra due oggetti. Secondo gli autori si tratta di una relazione che può presentare di­ versi toni affettivi: positivo, negativo o neutro. Ci sono molti modi per mo­ dificare un disequilibrio, e la gente in genere si basa sulle probabilità di successo delle diverse alternative. Varie teorie hanno individuato diversi aspetti del sé (cfr. Greenwald, Pratkanis, 1984) , ma non forniscono un quadro di riferimento unitario che permetta di individuare le interrelazioni tra i diversi stati del sé. Infatti, le concezioni sopra elencate non consentono di predire quale tipo di sconforto o problema emozionale possa essere indotto da un particolare tipo di incompatibilità tra credenze. In più, non analizzano la possibilità che discordanze costanti nell'incompatibilità tra credenze possano essere legate a differenze individuali nella vulnerabilità emozionale. Infatti, tra le teorie che hanno a che fare con le autovalutazioni, sono relativamente co­ muni quelle che distinguono tra emozioni positive e negative; tra queste abbiamo le teorie sulla motivazione al successo (cfr. Atkinson, 1964) . In­ vece, sono rare le teorie della vulnerabilità a diversi tipi di emozioni nega­ tive e, specialmente, le teorie che legano particolari tipi di credenze a spe­ cifici tipi di vulnerabilità emozionali (cfr. Beck, Brown et al. , 1987) . In riferimento a questi aspetti, uno dei propositi primari della teoria della discrepanza del sé è quello di predire la relazione tra categorie di cre­ denze incompatibili e determinati tipi di emozioni negative. Un altro proposito è quello di valutare se la disponibilità e l'accessibi­ lità di differenti specie di credenze incompatibili inducano differenti tipi di sconforto. Le credenze sono costrutti cognitivi e, come tali, possono va-

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riare sia nella loro disponibilità che nella loro accessibilità. Come vedremo più avanti, la disponibilità si riferisce a costrutti particolari che sono effet­ tivamente presenti (disponibili) in memoria per essere usati nell'elabora­ zione delle informazioni. L'accessibilità si riferisce alla rapidità con la qua­ le ogni costrutto immagazzinato viene utilizzato per l'elaborazione del­ l'informazione (Higgins, Bargh, 1987) . Differenze individuali possono sor­ gere o perché la gente ha diversi tipi di costrutti disponibili, o perché, pur avendo gli stessi costrutti disponibili, differisce nell'accessibilità ad essi. Tali differenze nell'accessibilità possono essere croniche o momentanee. J .J.2.

Postulati e ipotesi della teoria

In questo quadro, Higgins (1987) ha cercato di conferire organicità alle concezioni precedenti. Egli, così, ha elaborato una teoria rivolta ai se­ guenti obiettivi specifici: a) distinguere tra diversi tipi di sconforto, dovuti a credenze incompati­ bili, che la gente può sperimentare; b) mettere in relazione, in modo sistematico, diversi tipi di vulnerabilità emozionale con diversi tipi di discrepanze tra credenze; c) considerare il ruolo sia della disponibilità che dell'accessibilità di di­ verse discrepanze, nel determinare il tipo di sconforto di cui più proba­ bilmente le persone soffriranno (Higgins, 1987) . La teoria della discrepanza del sé (cfr. Higgins et al. , 1986) postula due dimensioni concernenti varie rappresentazioni degli stati di sé: domini del sé (domains o/ the sel/> e punti di vista sul sé (standpoints on the sel/> . I domini comprendono: il sé reale (actual sel/>, che riguarda le caratte­ ristiche realmente possedute da una persona; il sé ideale (idea! self> , costi­ tuito dalla rappresentazione delle caratteristiche ideali o desiderabili di una persona; il sé del dovere o sé obbligatorio (ought self> , che si riferisce alle ca­ ratteristiche che una persona dovrebbe possedere obbligatoriamente. La differenza tra il sé ideale e il sé del dovere si evidenzia nel classico conflitto tra i propri desideri personali e il proprio senso del dovere. I punti di vista consistono nella posizione o prospettiva di formulazio­ ne del giudizio sul sé. Essi possono essere propri o di altri significativi, qua­ li i genitori o gli amici. Combinando ogni dominio del sé con ogni punto di vista sul sé, si ottengono sei fondamentali rappresentazioni di stati del sé: reale-proprio, reale-altrui, ideale-proprio, ideale-altrui, dovere-proprio, dovere-altrui. I primi due stati del sé (reale-proprio, reale-altrui) , ma in par­ ticolare la propria rappresentazione di sé dal punto di vista reale, costitui­ scono ciò che normalmente viene considerato il concetto di sé (cfr. Wylie, 1979) . Le altre quattro rappresentazioni degli stati del sé (ideale-proprio, 77

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

ideale-altrui, dovere-proprio, dovere-altrui) costituiscono, invece, le guide del sé, cioè degli standard, o modelli, in base ai quali le persone regolano e valutano il proprio comportamento. Secondo la teoria della discrepanza (Higgins, Klein, Strauman, 1985; Higgins , Bond et al. , 1986) le persone sono motivate a raggiungere uno sta­ to di equilibrio tra il concetto di sé e le guide del sé, cioè tra il piano reale di un individuo e i piani ideale e obbligatorio. La teoria, inoltre, propone che vi siano delle differenze individuali rispetto al valore attribuito alle due guide. Infatti, per qualcuno, può essere più importante raggiungere un equilibrio tra il sé reale e quello ideale, piuttosto che quello del dovere. In­ vece, per altri, si può verificare una situazione esattamente speculare. In accordo con varie prospettive teoriche, quali la teoria dell'autore­ golazione di Carver e Scheier (1981 e 1982) e la teoria dell'autoconsapevo­ lezza obiettiva di Duval e Wicklund (1972) , Higgins (1989a) precisa che le guide del sé vengono utilizzate sia per l'autoregolazione che per l'autova­ lutazione. Le persone, infatti, regolano le proprie caratteristiche del sé rea­ le (ad esempio azioni, aspetto, appartenenza a gruppi ecc.) in modo da mantenere un accordo o ridurre un disaccordo rispetto alle proprie guide del sé. Inoltre, le persone valutano e monitorano i propri progressi nel­ l'autoregolazione. Il processo autovalutativo, quindi, contribuisce al pro­ cesso autoregolativo fornendo i feedback relativi al grado in cui l'autore­ golazione ha ridotto, con successo, la discrepanza tra lo stato attuale e quello finale. La teoria di Higgins sostiene che la discrepanza tra le diverse compo­ nenti del sé è legata a emozioni negative, e che discrepanze specifiche so­ no associate a stati emotivi negativi specifici. Esistono due basilari tipi di situazioni psicologiche negative associate a diversi tipi di stati emozionali (cfr. Higgins et al. , 1986) : la presenza (reale o aspettata) di un risultato ne­ gativo, che è associata ad emozioni legate all'ansia (ad esempio paura, ap­ prensione) ; e l'assenza (reale o aspettata) di un risultato positivo, che è as­ sociata a emozioni legate alla depressione (ad esempio insoddisfazione, tri­ stezza). Pertanto, anche gli effetti emotivi delle rappresentazione del sé reale sono legati alle aspettative sulle conseguenze associate al possesso reale delle caratteristiche stesse. Tali aspettative riflettono la relazione con le guide del sé. Pertanto, le discrepanze tra gli stati reali del sé e i diversi ti­ pi di guide del sé di un individuo rappresentano diverse situazioni psico­ logiche negative. La teoria di Higgins ipotizza che esse abbiano un diver­ so significato motivazionale ed emozionale secondo lo schema che segue: reale/proprio versus ideale/proprio e reale/proprio versus ideale/altrui: la discrepanza rappresenta la generale situazione psicologica dell'assenza -

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di risultati positivi; pertanto, ci si aspetta che in tale condizione l'individuo sia vulnerabile alle emozioni legate alla depressione (dejection related emo­ tions). Più nello specifico, la discrepanza reale/proprio versus ideale/pro­ prio dovrebbe essere associata a emozioni quali insoddisfazione, disap­ punto, paura di fallire. Infatti, l'insuccesso nel raggiungere le proprie spe­ ranze o desideri dovrebbe indurre sentimenti di disappunto e insoddisfa­ zione. Invece, la discrepanza reale/proprio versus ideale/altrui dovrebbe portare a vergogna, umiliazione, infelicità e rabbia a seguito del non rag­ giungimento delle speranze e desideri di altri significativi. reale/proprio versus dovere/proprio e reale/proprio versus dovere/altrui: tale discrepanza rappresenta la generale situazione psicologica della pre­ senza di risultati negativi; così, un individuo che sperimenti tale condizio­ ne psicologica dovrebbe essere vulnerabile alle emozioni legate all'ansia (agitation related emotions) . In particolare, la discrepanza reale/proprio versus dovere/proprio dovrebbe indurre sentimenti di colpa e indegnità, dovuti alla trasgressione del proprio senso di moralità. Di contro, la di­ screpanza reale/proprio versus dovere/altrui sarebbe legata ad apprensione, paura di essere punito, sentimenti di minaccia, in quanto implica la viola­ zione delle regole e del senso morale altrui (che possono portare a delle sanzioni) . La teoria della discrepanza del sé, inoltre, mette in relazione l o sconfor­ to emotivo rispettivamente con l'ampiezza e il grado di accessibilità della di­ screpanza stessa. L'ipotesi generale è la seguente: «Più grande è l'ampiezza e l'accessibilità di un particolare tipo di discrepanza del sé posseduta da un individuo, e più l'individuo soffrirà del tipo di sconforto associato con quel tipo di discrepanza del sé» (Higgins, Bond et al., 1986, p. 7) . Abbiamo visto che l'accessibilità (accessibility) si riferisce alla rapidità con la quale ogni costrutto è usato nell'elaborazione delle informazioni (Higgins, Bargh, 1987) . Essa è in stretta connessione con la disponibilità, ossia la presenza in memoria di costrutti cognitivi realmente utilizzabili nell'elaborazione delle informazioni. Ciò può essere assimilato al concetto di schematicità della Markus. Per quanto concerne l'ampiezza, essa riguarda il numero delle discre­ panze e la loro dimensione. Le persone possono avere un solo tipo di di­ screpanza del sé o possono possederle per entrambe le guide o, ancora, possono non averne nessuna. Il tipo di discrepanza posseduto dal soggetto è alla base del tipo di vulnerabilità emozionale a cui l'individuo è soggetto. Di conseguenza, chi non ha alcun tipo di discrepanza del sé, probabilmen­ te non sperimenterà grossi sconforti emotivi, mentre chi possiede più tipi di discrepanza potrà essere soggetto a maggiori problemi emozionali.

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LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

Dall'assunto generale della teoria discendono tre ipotesi specifiche (Higgins, Klein, Strauman, 1985): 1. Ipotesi dell'intensità: la discrepanza tra due concetti di sé induce uno stato di sconforto più o meno intenso a seconda dell'ampiezza della di­ screpanza, nel senso che più è ampia la discrepanza, più intenso sarà lo sconforto emotivo vissuto dal soggetto. 2. Ipotesi della qualità: diversi tipi di discrepanza del concetto di sé in­ ducono diverse forme di sconforto emotivo. J. Ipotesi della variabilità contestuale: cambiamenti indotti dal contesto, sia momentanei che di lungo termine, nell'accessibilità o nel contenuto della discrepanza del sé portano a cambiamenti nello sconforto. Inoltre, si assume che la disponibilità di un particolare tipo di discre­ panza del sé dipenda dall'ampiezza della divergenza tra le rappresentazio­ ni dei due stati del sé conflittuali. Più è grande la divergenza di attributi tra le due rappresentazioni degli stati del sé, e più grande sarà l'ampiezza del tipo di discrepanza disponibile per il soggetto. Infine, più è grande l'ampiezza della discrepanza, più intenso sarà lo sconforto emotivo se la discrepanza viene attivata. Tale attivazione dipende dall'accessibilità della discrepanza stessa. L'accessibilità di una discrepanza disponibile in memoria dipende da vari fattori. In primo luogo, da quando è stata attivata: più è recente l'atti­ vazione della discrepanza e più essa sarà accessibile. In secondo luogo, dal­ la frequenza con cui viene attivata: più è frequente l'attivazione della di­ screpanza e più questa sarà accessibile. Infine, dall'applicabilità all'evento stimolo, nel senso che quanto maggiore è la concordanza tra il significato della discrepanza e la situazione ambientale circostante (evento stimolo) , tanto più la discrepanza stessa verrà attivata (Higgins, Bargh, 1987) . J.J.J.

Ricerche e risultati

Higgins ha ottenuto diverse convalide alle sue ipotesi attraverso indagini di tipo correlazionale e sperimentale ( Higgins et al. , 1986; Higgins, Klein, Strauman, 1985; Higgins, 1987) . Nei suoi lavori Higgins ha evidenziato che l'ampiezza della discrepanza è fortemente correlata, in senso positivo, con diverse misure di sconforto emotivo (ad esempio Beck Depression Inven­ tory, Blatt Depressive Experiences Questionnaire, Hopkins Symptom Check­ list, Emotions Questionnaire). Inoltre, ha trovato un'associazione diretta tra tipo di discrepanza e tipo di sconforto emotivo. L'analisi di correlazio­ ni parziali, infatti, ha evidenziato che le emozioni legate alla depressione sono maggiormente legate alla discrepanza reale/ideale più che alla di­ screpanza reale/dovere; mentre le emozioni legate all'agitazione sono magSo

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giormente associate alla discrepanza reale/dovere piuttosto che alla discre­ panza reale/ideale (cfr. Higgins, Klein , Strauman, 198 5). Higgins e i suoi collaboratori (Higgins, Bond et al. , 1986) hanno di­ mostrato sperimentalmente il ruolo dell'ampiezza e dell'accessibilità della discrepanza del sé sullo sconforto emotivo esperito dal soggetto. Nel loro lavoro riportano due studi. Nel primo studio, i soggetti sono stati sottoposti a una situazione spe­ rimentale strutturata per indurre stati emozionali negativi. Ai soggetti, in­ fatti, è stato comunicato un brutto voto in un compito. Una tale condi­ zione negativa ha generato delle conseguenze dal punto di vista emozio­ nale. In particolare, i soggetti hanno sperimentato il tipo di sconforto le­ gato alla discrepanza più ampia da loro posseduta confermando, così, l'i­ potesi. Nel secondo studio, soggetti con elevati valori in entrambe le discre­ panze (reale/ideale; reale/dovere) e soggetti con bassi valori nelle medesi­ me sono stati assegnati a due condizioni sperimentali. Nella prima, ai sog­ getti sono state fatte alcune domande sul loro sé ideale; mentre, nella se­ conda condizione, ai soggetti sono state poste domande sul loro sé del do­ vere. I soggetti con alti valori nelle discrepanze del sé hanno sperimentato le conseguenze emotive legate al tipo di discrepanza resa più accessibile dal dialogo (nella prima condizione, emozioni legate alla depressione e, nella seconda, emozioni legate all'ansia). Di contro, nei soggetti con basse discrepanze non si è riscontrata alcuna differenza tra le due condizioni sperimentali. In entrambi gli studi, inoltre, è emerso che l'attivazione della discre­ panza reale/ideale induce dei cambiamenti nelle emozioni legate alla de­ pressione, mentre l'attivazione della discrepanza reale/dovere induce dei cambiamenti nelle emozioni legate all'ansia. Nel secondo studio, l'accessibilità della discrepanza è stata aumentata attraverso uno stimolo esterno (una discussione) che ha un effetto solo temporaneo sull'attivazione della discrepanza. Ma, se l'attivazione di una particolare discrepanza posseduta dal soggetto è frequente, si può deter­ minare un'accessibilità cronica della discrepanza stessa che, in tal caso, po­ trà essere attivata anche da un semplice stimolo ambiguo. Il concetto di accessibilità cronica appare particolarmente proficuo e sembra che possa essere accostato a quello di schematicità proposto dalla Markus. Infatti, quanto più un soggetto è schematico per un determinato dominio del sé, tanto più il dominio in questione sarà accessibile e facil­ mente recuperabile. Di conseguenza, una discrepanza del sé in un domi­ nio importante per il soggetto risulterà particolarmente accessibile e avrà conseguenze emozionali intense. 8r

LA MOLTEPLICITÀ DEL SÉ

3·3+

Sviluppo del self-system e affettività

Nella maturazione individuale, secondo Higgins (1989a), lo sviluppo del sé e dei suoi sistemi di autovalutazione ed autoregolazione ha un'importanza fondamentale. Questo aspetto è influenzato da diversi fattori. Innanzi tutto, dalle mo­ dificazioni evolutive nelle capacità cognitive del soggetto e, in secondo luo­ go, dallo stile interattivo dei genitori. Sappiamo che, secondo la teoria del­ la discrepanza, le persone sono motivate a raggiungere una condizione di accordo ed equilibrio tra il proprio concetto di sé e le guide del sé. Higgins rammenta che, in accordo con varie prospettive teoriche cui si accennava precedentemente (cfr. Duval, Wicklund, 1972; Carver, Scheier, 1981) , la teoria della discrepanza del sé assume che le guide del sé vengano usate sia per l'autoregolazione che per l'autovalutazione. Essa, in­ fatti, sostiene che le caratteristiche del sé reale (per esempio azioni, aspet­ to, appartenenza a gruppi ecc.) vengono regolate in modo da mantenere un accordo o ridurre un disaccordo rispetto alle guide del sé. Inoltre, af­ ferma che le persone valutano e monitorano i propri progressi nell'auto­ regolazione. Per Higgins, i processi di autovalutazione e autoregolazione sono alla base del rapporto tra sé e affettività. Per spiegare questi aspetti, Higgins analizza i processi in chiave evolutiva. Egli evidenzia alcune tappe dello sviluppo cognitivo che costituiscono dei prerequisiti per l'acquisizione delle guide del sé. 1. Verso la fine del primo anno di vita, il bambino esperisce quattro si­ tuazioni psicologiche emotivamente significative: presenza di risultati positivi (reali o aspettati) : per esempio, quando il bambino, giocando a nascondino, anticipa il volto materno prima che ri­ compaia; questa situazione è associata a sensazioni di gioia e di soddisfa­ zione (cfr. Case, 1988; Sroufe, 1984) ; assenza di risultati positivi (reali o attesi) : quando, per esempio, il bambino non riesce a trovare il giocattolo (non visibile) da lui cercato; ta­ le condizione è associata a sensazioni di tristezza e di frustrazione-rabbia {cfr. Kagan, 1984; Sroufe, 1984) ; presenza di risultati negativi (reali o attesi) : una condizione simile può verificarsi quando il bambino si trova di fronte a una situazione inaspetta­ ta e potenzialmente dannosa; la situazione corrispondente è associata a sensazioni di paura e di sconforto (cfr. Emde, 1984; Kagan, 1984) ; assenza di risultati negativi (reali o aspettati) : ciò può verificarsi quan­ do la madre allontana dal bambino uno stimolo nocivo; questa situazione è associata a sensazioni di calma e sicurezza (Case, 1988; Sroufe, 1984) .

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2. Verso i 2 anni, con l'acquisizione della capacità simbolica, il bambino diventa anche capace di individuare la contingenza sé/altro. Una buona conoscenza della contingenza sé/altro è un fattore determinante per lo svi­ luppo delle guide del sé. 3· Tra i 4 e i 6 anni, il bambino abbandona il pensiero egocentrico. Ades­ so è in grado di interpretare le proprie caratteristiche sulla base di vari stan­ dard, quali il proprio comportamento passato, o il comportamento altrui. 4· Verso i 9-u, anni le guide del sé arrivano alla loro piena evoluzione. Lo sviluppo delle capacità cognitive permette l'individuazione di discrepanze tra le proprie caratteristiche come, per esempio, quelle reali e quelle idea­ li ma, allo stesso tempo, espone il soggetto alla vulnerabilità emotiva. 5· Il sistema si completa attorno ai 13-16 anni. Solo adesso il ragazzo è in grado di distinguere tra il proprio punto di vista su un oggetto e il punto di vista di un altro sullo stesso oggetto. A questo punto, il ragazzo può in­ terrelare tra loro differenti prospettive sullo stesso oggetto, incluso il sé. Ciò, però, significa anche che può sperimentare una discrepanza tra le gui­ de del sé con le relative conseguenze a livello emozionale (cfr. Van Hook, Higgins, 1988). Un ragazzo può, infatti, trovarsi a dover decidere tra posi­ zioni che non coincidono come, in certi casi, i desideri dei genitori e quel­ li degli amici. Talvolta, il soggetto può essere motivato a sanare il conflit­ to, ma può non essere in grado di risolverlo, almeno al momento. Rispet­ to ai processi autoregolativi, avere una discrepanza tra due distinti sistemi di guide del sé dovrebbe rendere difficile pianificare delle mete e orien­ tarsi verso di esse. Infatti, la divergenza tra i due sistemi può portare il sog­ getto a sperimentare una sorta di perdita d'identità e di confusione ri­ guardo a sé. In effetti, un simile evento viene riportato molto spesso nella letteratura sull'adolescenza. Mentre lo sviluppo delle guide del sé è influenzato da fattori cognitivi di tipo evolutivo, la loro forza è determinata dallo stile interattivo dei ge­ nitori e da fattori socioculturali. Secondo Higgins (1989a) , gli stili educati­ vi autoritari e rigidi portano allo sviluppo di forti guide del sé, invece quel­ li assillanti o improntati al rifiuto portano a guide del sé deboli. La forza o la debolezza delle guide ha delle implicazioni non solo per l'individuo, ma anche per la società. Infatti, i soggetti con alti standard presentano un sistema autoregolativo molto efficace, sono più controllati e, di conseguenza, sono meno inclini alla devianza sociale e più propensi al comportamento prosociale. Di contro, i soggetti con guide del sé debo­ li possono essere maggiormente propensi al comportamento antisociale più che a quello prosociale. Tuttavia, se avere cittadini con forti guide del sé può essere considerato un traguardo per la società, è anche vero che esi­ ste una contropartita a livello individuale. I soggetti con forti guide del sé,

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infatti, avranno anche un sistema autovalutativo molto rigido. Avvertiran­ no in modo molto più marcato le conseguenze emotive delle discrepanze del sé e potranno presentare una maggiore vulnerabilità emotiva e soffe­ renza psichica. Da quanto detto finora, emerge che lo sviluppo delle guide del sé è strettamente connesso ai processi di autoregolazione e autovalutazione, ma in modo differente. In proposito, bisogna considerare tre fattori. In­ nanzi tutto, vi sono dei cambiamenti evolutivi nelle caratteristiche di sé importanti per l'autovalutazione, che sono relativamente indipendenti dal­ l'autoregolazione. Per esempio, durante la pubertà avvengono dei cam­ biamenti esteriori che hanno un ruolo importante nella valutazione perso­ nale, sui quali il soggetto non ha quasi nessun controllo. In secondo luogo, durante l'infanzia esiste una stretta connessione tra autovalutazione e autoregolazione. Infatti, il bambino giudica se stesso sul­ la base delle valutazioni di altri significativi (quali genitori e insegnanti) e, in genere, viene lodato quando si comporta bene. Nell'adolescenza, la va­ lutazione di sé è maggiormente legata a standard sociali e alle guide del sé interiorizzate. Perciò, sebbene i soggetti siano ormai in grado di autorego­ larsi piuttosto bene, possono contemporaneamente valutarsi negativamen­ te in quanto, a questo livello, i due processi viaggiano su binari differenti. Queste considerazioni portano alla terza questione: nell'infanzia, i processi di autoregolazione ed autovalutazione non erano connessi alla formazione di discrepanze del sé mentre, successivamente, lo sono. Que­ sto fa sì che un successo nell'autoregolazione possa non portare necessa­ riamente a un'autovalutazione positiva. Infatti, i processi autovalutativi, adesso, dipendono anche dall'eventuale discrepanza del sé che viene atti­ vata dal contesto sociale. Di conseguenza, rispetto all'autoregolazione, con l'età dovrebbe au­ mentare la capacità di controllo del soggetto. Quindi, si dovrebbero ma­ nifestare un andamento essenzialmente positivo e un decremento nei di­ sturbi della condotta. Invece, per l'autovalutazione, il processo evolutivo è negativo, in quanto si procede verso un aumento delle valutazioni nega­ tive di sé e dei disturbi emozionali. Rispetto alle guide del sé, Higgins ipotizza che i bambini con forti gui­ de del sé abbiano una maggiore capacità di autocontrollo e abbiano meno problemi di condotta nell'infanzia. I bambini con guide del sé deboli, in­ vece, potrebbero avere maggiori disturbi di condotta . Di contro, però, i soggetti con guide del sé forti, crescendo, potrebbero sviluppare più pro­ blemi emotivi. Higgins (1989a) analizza un percorso tipo. Nella giovinezza caratteri­ stiche del sé come essere gentile, pulito e ordinato sono molto stimate da-

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gli adulti significativi. Di conseguenza, un soggetto che riesce ad autore­ golarsi in questi aspetti avrà delle risposte positive dall'ambiente, in parti­ colare dai genitori, e ciò avrà un effetto positivo sull'autostima. Nel perio­ do dell'adolescenza, invece, le caratteristiche del sé stimate sono altre co­ me, ad esempio, essere popolare o attraente; cioè, caratteristiche difficil­ mente regolabili, specie quando sia necessario superare il livello medio dei coetanei (Simmons, Blyth , 1987) . Così, un successo nella regolazione delle caratteristiche del sé, legate alla condotta e apprezzate nel periodo giovanile, non garantisce un suc­ cesso nella regolazione del tipo di caratteristiche del sé più gradito in ado­ lescenza. Le conseguenze di una tale perdita del controllo sull'approva­ zione ambientale delle proprie caratteristiche saranno più pesanti per i soggetti con forti guide del sé. Infatti, i bambini con forti guide del sé, avendo standard più rigidi, giudicheranno sé stessi negativamente. Essi sperimenteranno angoscia nella misura in cui non raggiungeranno con successo le caratteristiche del sé giudicate positivamente in adolescenza. Secondo Higgins, esistono dei patterns di sviluppo delle guide del sé diversi tra maschi e femmine. L'autore fa notare come la letteratura sulle differenze sessuali mostri differenti atteggiamenti educativi dei genitori nei confronti dei figli e delle figlie. Le madri, infatti, operano una forte pressione sulle proprie figlie perché sviluppino un comportamento educa­ to e socialmente responsabile (cfr. Huston, 1983; Maccoby, Martin, 1983; Radke-Yarrow, Zahn-Waxler, Chapman, 1983). Inoltre, sono più restrittive con le bambine e intervengono più rapidamente sui loro errori rispetto a quelli dei bambini. Questa differenza nella socializzazione, legata essen­ zialmente a fattori culturali, porta a diversità nella frequenza e nella coe­ renza dell'interazione contingente madre-bambino. Ciò, secondo Higgins (1989a) , determina una differenziazione, rispetto al sesso, nell'acquisizione della forza delle guide del sé. :\'ello specifico, secondo Higgins, le ragazze sono maggiormente rappresentate nel gruppo dei soggetti che acquisisco­ no guide del sé relativamente forti, mentre i ragazzi sono più rappresenta­ ti nel gruppo dei soggetti che acquisiscono guide del sé relativamente de­ boli. Higgins ritiene che questo fatto porti a differenze di genere nell'au­ toregolazione e nell'autovalutazione. Secondo l'autore, infatti, le ragazze sviluppano capacità di autoregolazione relativamente più forti dei ragazzi. Inoltre, dal momento che nel periodo dell'infanzia le autovalutazioni sono legate anche al successo nell'autoregolazione, ci si aspetta che le bambine abbiano meno problemi emotivi nell'infanzia; e di fatto questo dato è con­ fermato dalla letteratura psichiatrica infantile (American Psychiatric Asso­ ciation, 1987) . D'altro canto, dal momento che le caratteristiche del sé sti­ mate in adolescenza sono difficilmente controllabili, ci si aspetta che le ra-

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gazze, durante l'adolescenza, abbiano valutazioni di sé più negative e sia­ no più vulnerabili dei ragazzi rispetto a problemi emotivi . Infatti, per le ra­ gazze, è più probabile che si verifichino discordanze tra le caratteristiche del sé e le guide del sé. Anche questo dato è confermato in letteratura dal fatto che, in adolescenza, le femmine soffrono più dei maschi di disturbi depressivi o disturbi d'ansia (American Psychiatric Association, 1987; Rut­ ter, Garmezy, 1983; Rauste-von Wright, 1987) . In sintesi, quindi, il processo di formazione delle discrepanze del sé ha inizio fin dall'infanzia ed è influenzato da vari fattori come lo stile educati­ vo dei genitori, la maturazione individuale del soggetto, le influenze socio­ culturali ecc. L'esperienza ripetuta di specifici eventi discrepanti, quali non raggiungimento di mete desiderate o non adempimento dei propri obblighi, fa sperimentare all 'individuo specifiche condizioni psicologiche spiacievoli (assenza di risultati positivi, presenza di risultati negativi), fino all 'instau­ rarsi di discrepanze più o meno forti. Questo fatto aumenta il tipo di vul­ nerabilità emozionale associata alla discrepanza posseduta dal soggetto. In conclusione, si può dire che il modello di Higgins ha il pregio di prendere in considerazione più aspetti della relazione tra sé ed emozioni; inoltre, essendo fondato sull'analisi di credenze e cognizioni individuali che possono variare nel tempo, risulta flessibile e modificabile. Proprio per questa versatilità, il modello si presta ad essere applicato a diversi domini del sé, tra cui il sé corporeo, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo. 3·3·5·

Prospettive attuali della teoria

Recentemente si è aperto un acceso dibattito sulla reale validità della teoria della discrepanza del sé. Come abbiamo visto, la teoria presenta un im­ pianto coerente che supera le impostazioni teoriche precedenti sul rappor­ to tra sé e affettività. Diversi lavori, sia correlazionali che sperimentali, han­ no confermato l'ipotesi di una relazione univoca tra specifici tipi di discre­ panza e specifiche forme di disagio emotivo. In particolare, tale univocità è stata trovata mediante metodi diversi: utilizzando procedure di priming per attivare le discrepanze (cfr. Strauman, 1989 , 1992; Strauman, Higgins, 1987) ; selezionando persone appartenenti a gruppi estremi rispetto ai punteggi di discrepanza (Houston, 1990) ; scegliendo soggetti con punteggi estremi in ansia e depressione (Strauman, 1992) e così via. Vi sono, però, altri studi in cui le relazioni univoche previste dalla teo­ ria non sono state rilevate. In particolare, un lavoro di Tangney e collabo­ ratori (Tangney et al. , 1998) ha fatto molto discutere. L'autrice ha provato a replicare lo studio correlazionale di Higgins e collaboratori del 1985. Seb­ bene siano state riprodotte le stesse condizioni d'indagine, gli effetti pre86

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visti dalla teoria della discrepanza non sono stati confermati. Risulta che complessivamente la discrepanza nel sé è legata al disagio emotivo, ma non emerge la relazione univoca tra discrepanza reale/ideale e depressione, e discrepanza reale/obbligatorio e ansia. Secondo la Tangney, questi risulta­ ti contraddittori potrebbero essere legati anche a problemi metodologici relativi alla rilevazione delle discrepanze. L'autrice ritiene, infatti, che il Selves Questionnaire, utilizzato da Higgins, sia in grado di evidenziare so­ lo discrepanze del sé particolarmente intense. Higgins (1999), in risposta al lavoro della Tangney, analizza questi risul­ tati in una prospettiva differente. Per lui, la questione non va posta nei ter­ mini della validità o meno della teoria, cioè nei termini del «si verifica l'ef­ fetto?» («the Is question», come la definisce l'autore). Essa, piuttosto, deve essere impostata rispetto al «quando si verifica l'effetto» previsto dalla teo­ ria stessa («the When question») . Secondo l'autore, infatti, è possibile che le associazioni univoche previste dalla teoria siano mediate da alcuni fatto­ ri che possono facilitare o inibire l'evidenziarsi del fenomeno. Sulla base di speculazioni teoriche e di alcune evidenze empiriche (Boldero, Fancis, 20oo) , Higgins sottolinea il potenziale ruolo moderatore di quattro fattori: l'ampiezza della discrepanza; la rilevanza del contesto; l'accessibilità della discrepanza e l'importanza della guida del sé rispetto a cui si è discrepanti. Comunque, diversi studi confermano l'ipotesi che l'ampiezza della di­ screpanza possa essere un elemento che facilita il verificarsi delle relazio­ ni univoche tra tipo di discrepanza e tipo di disagio emozionale (Strau­ man, 1989; Houston, 1990; Scott, O'Hara, 1993). Le relazioni ipotizzare si presentano più frequentemente anche quando la discrepanza posseduta dal soggetto è accessibile. Si parla sia di accessibilità momentanea, come dimostrano gli studi basati sulla tecnica del priming (Strauman, Higgins, 1987) , sia di accessibilità cronica (Fazio, 1986 e 1995). Inoltre, l'attivazione e l'uso di una discrepanza, così come di ogni elemento presente in memo­ ria, dipendono dalla sua rilevanza e applicabilità al contesto (cfr. Higgins, 1989b, 1996) . Ad esempio, le discrepanze sono applicabili e rilevanti ri­ spetto a eventi negativi, ma non rispetto a eventi positivi (cfr. Higgins, 1989c) . Infine, il significato di una discrepanza dipende dall'importanza e dal ruolo che essa riveste nel processo di autoregolazione, come dimostra l'interessante e articolato lavoro di Boldero e Francis (2ooo). Tutti questi fattori potrebbero avere un ruolo importante nel determinare il verificar­ si o meno delle relazioni previste dalla teoria della discrepanza. Nell'ultimo capitolo, esamineremo gli sviluppi della teoria in riferi­ mento alla considerazione del disagio emotivo e del problema del sé fisico nell'adolescenza.

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Il sé fisico

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Radici dell'esperienza corporea

In letteratura vengono utilizzati diversi termini per riferirsi all'esperienza corporea (cfr. Fisher, 1990) , tra questi i più ricorrenti sono schema corpo­ reo e immagine corporea: il primo si riferisce maggiormente al piano neu­ rofisiologico o percettivo, e il secondo al piano psicologico o rappresenta­ tivo (Nenci, 1997) . 4.1 .1. Lo schema corporeo Lo schema corporeo è alla base della percezione diretta del proprio corpo, del processo di integrazione delle sensazioni e della programmazione mo­ toria (cfr. Rezzonico, Strepparava, 1997). Il concetto nasce in ambito neu­ rofisiologico dall'esigenza di chiarire tutta una serie di patologie legate al­ la rappresentazione e all'orientamento del corpo. Lo schema corporeo è stato introdotto da Bonnier (1905) per spiegare l'aschematia. Tale patolo­ gia si manifesta con alterazioni della raffigurazione corporea, le quali com­ portano la scomparsa di certe parti dalla rappresentazione che abbiamo del nostro corpo. Bonnier si rese conto dell'assenza di un termine che in­ dicasse la condizione in cui si trova normalmente l'individuo, quando è in grado di rappresentare e orientare se stesso nell'ambiente circostante. Di conseguenza, ha utilizzato l'espressione " schema corporeo" per indicare una sorta di rappresentazione topografica e spaziale del corpo, che per­ mette l'orientamento ed è guidata dall'attività vestibolare. Già nell'Ottocento, comunque, troviamo un concetto precursore dello schema corporeo. :\'ella cultura medico-psichiatrica di quel secolo, infatti, era piuttosto ricorrente il termine cenestesi. Questo si riferisce al sentimen­ to per cui il corpo appare continuamente all'lo come proprio, e l'individuo si percepisce e si sente esistere nella delimitazione del proprio organismo. Si tratta, quindi, di una sorta di senso generale di sé, derivato dalla somma di stimoli e sollecitazioni che operano a livello inconscio, per poi fondersi

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in un tutto. In seguito, diversi altri studiosi hanno sostenuto l'ipotesi di una struttura centrale, riconducibile al concetto di schema corporeo, che sta al­ la base dell'orientamento spaziale e del riconoscimento del proprio corpo. Pick (1908) ha parlato di immagine spaziale del corpo, intendendo con questa espressione una rappresentazione che si costruisce, durante lo svi­ luppo infantile, grazie all'integrazione delle afferenze sensoriali prove­ nienti dalla periferia. In particolare, le informazioni tattili e soprattutto quelle visive avrebbero un ruolo decisivo nella strutturazione di questa im­ magine. La sua alterazione sarebbe alla base dell'autotopoagnosia, vale a dire l'incapacità di indicare parti del proprio corpo. È con Head (1920) , comunque, che si ha l 'elaborazione di una teoria posturale ben strutturata che influenzerà anche gli studiosi successivi. Head ha iniziato a rendersi conto dell'ambiguità del concetto di schema corporeo. Questo, infatti, non riesce a spiegare in che modo la sensazione, e quindi un evento essenzialmente fisiologico, si traduca in un fatto psico­ logico qual è la rappresentazione. Secondo Head, ogni nuova sensazione o pastura viene messa in relazione con le esperienze passate, attraverso un'attività corticale di base di tipo automatico e preconscio. Tale proces­ so non coinvolge la coscienza, ha carattere plastico e consente di modifi­ care la rappresentazione corporea sulla base di nuove informazioni in in­ gresso. Anche altri studiosi (cfr. Babinski , 1914; Gerstmann, 1927; Lher­ mitte, 1939) hanno ipotizzato la presenza, nell'emisfero dominante, di un substrato anatomo-fisiologico riconducibile, in qualche modo, al concetto di schema corporeo e responsabile, in caso di lesione, di agnosia o di apras­ sia; cioè: incapacità di riconoscere gli aspetti esterni, e incapacità di com­ piere movimenti elementari. Nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, diverse critiche sono state rivolte ai fondamenti anatomo-fisiologici del concetto di sche­ ma corporeo (cfr. Angelergues, 1973 ; Denes, 1977; Hecaen, 1948). In gene­ rale, non sono emerse le prove neuropsicologiche dell'esistenza di un'uni­ ca struttura cerebrale, che possa spiegare le diverse patologie dell'orienta­ mento e del riconoscimento corporeo. Infatti, pur avendo un comune de­ nominatore, queste patologie sono riconducibili a genesi differenti. In par­ ticolare, sono stati individuati due ordini di problemi. In primo luogo, non è risultato chiaro se lo schema corporeo sia un dispositivo anatomo-fisio­ logico di funzionamento della corteccia cerebrale o la capacità psichica dell'uomo di rappresentarsi il proprio corpo (cfr. Carlini, Farneti, 1980) . In secondo luogo, non è stata accertata l'esistenza di un'unica struttura cere­ brale identificabile con lo schema corporeo. Un problema cruciale si è presentato in riferimento all'arto fantasma. Risultava, infatti, che questo fenomeno si verifica con un'elevata percentuale nei casi d'amputazione

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successiva ai 6 anni, ma che non si presenta prima di quest'età. Ciò veni­ va interpretato come conferma del fatto che, verso i 6 anni, si arriva a un pieno consolidamento della struttura anatomo-psichica intesa come sche­ ma corporeo. Ma saranno proprio le ricerche su tale problema a far vacil­ lare il concetto di schema corporeo. L'arto fantasma, infatti, non può es­ sere spiegato solo in termini fisiologici, ma è necessario ricorrere alla dia­ lettica mente-corpo e coinvolgere i vissuti corporei. Questi, in realtà, non rientrano nella nozione di schema corporeo ma, come vedremo, possono essere meglio analizzati mediante l'immagine corporea o la prospettiva fe­ nomenologica dell'essere al mondo. 4.1.2. L'immagine corporea La disputa sul fenomeno dell'arto fantasma ha spostato il problema in am­ bito più propriamente psicologico con l'introduzione del concetto di im­ magine corporea (cfr. Carlini, Farneti, 1980; Martinelli, 1974; Guaraldi, 1990) . L'immagine corporea, infatti, indirizza l'attenzione sull e dinamiche affettivo-emotive e i processi rappresentativi, in maniera più o meno am­ pia a seconda delle varie concezioni. Il termine è stato introdotto da Schilder (1950) , il quale ne ha indivi­ duato le basi neurofisiologiche. Inoltre, ne ha sottolineato i risvolti emo­ zionali legati agli investimenti libidici e alle relazioni sociali. Secondo Schilder, l'immagine corporea si costituisce a partire dall'attività percetti­ va e motoria del corpo. Essa, però, viene integrata con le dimensioni co­ gnitive, affettive, sociali e culturali sia sul piano conscio, che su quello in­ conscio. In tal senso, è legata al rapporto che ogni individuo stabilisce con gli altri e può estendersi oltre i confini del proprio corpo. Schilder, tutta­ via, non differenziava il concetto di immagine corporea dalla nozione di " schema corporeo" o da quella di " schema posturale del corpo" elabora­ ta da Head. Egli, comunque, pur adoperando indistintamente i termini so­ pra citati, ha analizzato la questione su tre piani diversi. Secondo lui, si possono individuare varie sfaccettature del concetto di immagine corpo­ rea. Schilder, infatti, era convinto che si dovesse scandagliare il paralleli­ smo tra aspetti propriamente psicosociali e aspetti fisiologici. Schilder (1950, p. 35) afferma: Con l'espressione "immagine del corpo umano" intendiamo il quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo, vale a dire il modo in cui il corpo appare a noi stes­ si. Noi riceviamo delle sensazioni, vediamo parti della superficie del nostro corpo, abbiamo impressioni tattili, termiche, dolorose, sensazioni indicanti le deforma­ zioni del muscolo[ ... ] e sensazioni di origine viscerale. Ma al di là di tutto questo

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vi è l'esperienza immediata dell'esistenza di un'unità corporea che, se è vero che viene percepita, è d' altra parte qualcosa di più di una percezione: noi la definia­ mo schema del nostro corpo o schema corporeo, oppure, seguendo la concezione di Head che sottolinea l'importanza della conoscenza della posizione del corpo, mo­ dello pastura/e del corpo. Lo schema corporeo è l'immagine tridimensionale che ciascuno ha di se stesso: possiamo anche definirlo immagine corporea.

Pertanto, egli considera l'immagine corporea come una Gestalt, vale a di­ re come una struttura che è di più, e diversa, dalla semplice somma delle parti costitutive. Tale struttura è in continuo divenire, si costruisce duran­ te tutta l'esistenza in relazione all'esperienza individuale e si modifica nel corso dello sviluppo. L'immagine corporea ha delle basi fisiologiche ben precise. Esse risie­ dono nelle esperienze del dolore, in quelle visive, nell'azione e nel sistema vestibolare. Questo, integrando le varie sensazioni, ci rimanda un'impres­ sione unitaria del nostro corpo. In ogni caso, secondo Schilder, i fattori più importanti sono quelli legati al dolore e all'azione. Egli sottolinea, infatti, che le reazioni del bambino al dolore sono fortemente incomplete. Que­ sto fatto dimostrerebbe che l'immagine corporea si costruisce nel tempo, grazie al contributo delle sensazioni positive e negative conseguenti al con­ tatto con la realtà. Per Schilder, inoltre, il dolore è un'esperienza che aiu­ ta nella costruzione della personalità: ci permette di decidere cosa voglia­ mo mettere al suo centro e cosa vogliamo ne stia fuori. Il secondo fattore determinante nella costruzione dell 'immagine cor­ porea è il movimento. Esso ci permette di stabilire delle relazioni ben de­ finite tra noi e il mondo esterno, e di arrivare a conoscere a fondo sia la realtà che ci circonda, sia noi stessi. L'elaborazione dell'immagine corpo­ rea, di fatto, non può prescindere dal contatto con l'ambiente esterno. Per questo, le parti che entrano maggiormente in rapporto con esso risultano essere più importanti anche a livello psicologico. Ciò spiega perché, ad esempio, parti come la mano o il piede, in caso di arto fantasma, scom­ paiono molto più lentamente di altre zone corporee. Schilder mette a fuoco anche gli aspetti affettivi dell'immagine corpo­ rea. Egli, infatti, non disconosce la necessità di un'attività corticale per l'integrazione finale dei diversi processi concorrenti alla costruzione del­ l'immagine del corpo. Tuttavia, ritiene che la fonte energetica di questi processi debba essere identificata negli stati emotivi e nei bisogni della personalità. La formazione della nostra immagine corporea è, quindi, le­ gata alla storia delle nostre esperienze affettive e relazionali, oltre che alle vicende percettive e motorie del nostro corpo. L'aspetto, forse, più interessante dell'opera di Schilder riguarda la strut-

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tura libidica dell'immagine corporea. Da questo punto di vista, ha introdot­ to in ambito psicoanalitico un concetto che è risultato estremamente profi­ cuo in clinica e che, come vedremo tra poco, ha influenzato diversi studi. L'immagine corporea è, infatti, profondamente legata alla libido e alla sua localizzazione nelle varie zone erogene durante gli stadi dello sviluppo psicosessuale. Seguendo il modello freudiano, Schilder mette in evidenza come, nello sviluppo, anche l'immagine corporea si modifichi in funzione degli investimenti libidici e della continua interazione tra le tendenze del­ l'Io e le tendenze libidiche. Quest'immagine, quindi, dal momento che di­ pende dagli investimenti dinamici, libidici e aggressivi, è in continuo ri­ maneggiamento. Per Schilder, però, non bisogna, dimenticare che il bambino è inseri­ to in una determinata realtà sociale. Le persone che gli stanno vicine lo in­ fluenzano nella costruzione della sua immagine corporea. Esse mostrano interesse per il suo corpo e per i loro stessi corpi, attraverso azioni, paro­ le e atteggiamenti. Così, la costruzione dell'immagine corporea si fonda non soltanto sulla storia singola di un individuo, ma anche sui suoi rap­ porti con gli altri. Egli ritiene che vi sia un qualche fattore maturativo re­ sponsabile delle linee primarie di sviluppo dell'immagine corporea. Tutta­ via, mette anche in evidenza che il modo in cui queste linee si sviluppano dipende in larga misura dall'esperienza e dall'attività. Secondo Schilder, l'immagine corporea può estendersi addirittura ol­ tre i confini del corpo. Citando Head, infatti, afferma che il modello po­ sturale del corpo di una donna può raggiungere persino la punta della piu­ ma del suo cappello. Gli abiti che indossiamo diventano, quindi, parte in­ tegrante della nostra immagine corporea, e vengono investiti di libido nar­ cisistica, assumendo il significato simbolico della stessa immagine del cor­ po o di parti di essa. In questo modo, attraverso gli abiti, possiamo iden­ tificarci con gli altri, impadronirci della loro immagine corporea o, più in generale, cambiare la nostra immagine corporea. In tal senso, egli sottolinea gli aspetti sociali dell'immagine corporea in base ai quali, tra la nostra immagine corporea e le immagini corporee degli altri, avviene un continuo interscambio. Assumiamo, così, parti dell'imma­ gine corporea altrui o trasferiamo sugli altri parti della nostra. Inoltre, spes­ so, la scoperta del nostro corpo avviene osservando i corpi degli altri. Si parla, quindi, di un corpo sociale che, nella prospettiva fenomeno­ logica di Merleau-Ponty, diventerà il veicolo "dell'essere al mondo". In Schilder, questo concetto è presente implicitamente. L'immagine del no­ stro corpo è considerata, infatti, come l'espressione della nostra stessa vi­ ta, della nostra personalità. Pertanto, vi è pieno sviluppo della personalità e dei suoi valori solo attraverso il corpo e la sua immagine: «Un corpo è 93

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sempre espressione di un lo e di una personalità, ed esiste in un mondo» (Schilder, 1950, p. 348). Le caratteristiche esaminate da Schilder verranno prese in considera­ zione da diversi studi sino al periodo contemporaneo. Secondo Schonfeld (1969), per esempio, l'immagine corporea è una costruzione psicosociale determinata da quattro componenti: percezione soggettiva del proprio aspetto e dell'adeguatezza delle funzioni fisiologiche; fattori fisiologici in­ terni; confronto tra corpo reale e ideale; fattori sociali. Molte ricerche (cfr. Shontz, 1969) mettono in evidenza che il corpo e le sue parti vengono con­ siderati come simboli di aspetti della personalità e dell'emotività. Witkin (1964) , in particolare, pone una sorta di parallelismo tra l'esperienza del mondo esterno e l'esperienza del corpo. Egli evidenzia che una percezio­ ne negativa o positiva di sé, in termini fisici, influenza la percezione glo­ bale che la persona ha di se stessa; di contro, una persona ben adattata do­ vrebbe presentare una percezione realistica e differenziata del proprio corpo (cfr. Witkin et al. , 1962) . Esamineremo nel prossimo capitolo gli sviluppi successivi del concet­ to di immagine corporea. 4.1.3. La psicoanalisi e il corpo L'importanza del corpo nello sviluppo individuale è stata sottolineata in modo particolare in ambito psicoanalitico. Il legame corpo-psiche è molto forte già in Freud, il quale sostiene che la differenziazione dell'Io dall'Es avviene soprattutto in riferimento al corpo e, soprattutto, grazie alla sua superficie. In L'Io e l'Es, Freud (1922, p. 488) afferma: «l'Io è anzitutto una entità corporea; non è soltanto un'entità superficiale, ma anche la proie­ zione di una superficie». Inoltre, tutta la teoria dello sviluppo psicoses­ suale si fonda sul corpo, la libido, infatti, è l'espressione dinamica, nella vi­ ta psichica, della pulsione sessuale (Freud, 1923). In questo contesto, Federn (1953) distingue un lo mentale e un lo cor­ poreo, e considera quest'ultimo come la sensazione del corpo nel suo com­ plesso. Un aspetto interessante della concezione di Federn, che si riallaccia in qualche modo a quanto affermato da Schilder, è che i limiti di questo lo corporeo sono flessibili e non corrispondono necessariamente ai confini so­ matici. Mentre l'Io corporeo è la consapevolezza continua del proprio cor­ po, lo schema corporeo è la conoscenza mentale del corpo stesso. Invece, l'immagine corporea consiste nella rappresentazione del corpo presente nella mente e, in quanto tale, può variare da momento a momento. Successivamente, in ambito psicoanalitico, diversi autori si sono sof­ ferrnati sulla considerazione del corpo. Soprattutto, hanno sottolineato 94



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l'importanza della sua superficie come luogo privilegiato per lo sviluppo della funzione simbolica, e come luogo di trasmissione e d'incontro del­ l'affettività (cfr. Bick, 1968; Hoffer, 1983; Winnicott, 1988). A questo proposito, la Bick ha messo in evidenza il ruolo della pelle nello sviluppo del lattante. L'autrice parte dall'ipotesi che le componenti della personalità del lattante si trovino a uno stadio estremamente primi­ tivo, nel quale non sono ancora del tutto distinte dal corpo e hanno biso­ gno di essere tenute insieme. La Bick (1968 , p. 90) afferma: JSTEAD B. A., }A!\DA L. H. (1985), Your body, your sel/: A psychology to­

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