La merce che ci mangia 9788858444504, 8858444507

Wolf Bukowski ci accompagna, girone dopo girone, in un viaggio al centro di quella spirale infernale in cui il bisogno p

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Italian Pages 51 [41] Year 2023

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La merce che ci mangia
 9788858444504, 8858444507

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Wolf Bukowski

La merce che ci mangia Il cibo, il capitalismo e la doppia natura delle cose

Quanti Einaudi

La merce che ci mangia

Il cibo è una merce? Se pensiamo alle navi cariche di cereali che attraversano gli oceani, alle grigie fabbriche di conserva che divorano pomodori, ma anche alle colorate corsie d’un ipermercato, tra le quali ci smarriremmo se i marchi, le etichette, non ci prendessero per mano, allora la risposta non può essere che sí, il cibo è merce. Lo sappiamo, lo vediamo, ma intuitivamente; dire cosa sia a renderlo tale è piú difficile.

Potremmo

iniziare

da

qui:

merce

non

è

tutto

ciò

che

è

venduto

e

comprato. Il commercio e il pagamento in moneta non sono sufficienti, da soli, a conferire alla cosa lo stato di merce: «La merce, – scrive Anselm Jappe, – non è identica a un “bene” o a un “oggetto scambiato”. È la forma particolare che una parte, maggiore o minore, dei “beni” assume in alcune 1

società umane» . Per Marx la merce è la cellula elementare del capitalismo, 2

che nel suo insieme si presenta come un’«immensa raccolta di merci» . La merce, quindi, costituisce il capitalismo, ma insieme ne è costituita, non 3

presentandosi infatti la cosa come merce se non nel capitalismo stesso . È una vicenda in effetti piena di paradossi, e questo non è che il primo.

Quando la cosa si riconosce come merce, si gonfia d’una tensione tutta nuova: quella tra valore d’uso e valore di scambio. Nella merce, è ancora Marx

a

scriverlo,

contraddizione»

4

di

si

realizza

questi

due

l’«immediata aspetti:

eccoci,

unità» in

e

poche

l’«immediata righe,

già

al

secondo paradosso. Il valore d’uso consiste nella capacità dell’oggetto di soddisfare bisogni umani. Il suo segno è quello della qualità: una mela non soddisfa precisamente lo stesso bisogno di una patata, una patata non può soddisfare il bisogno di un libro. Questo valore d’uso a prima vista sembra una cosa buona, indiscutibile. Non è sempre cosí, se ci pensiamo appena un

po’ piú a fondo: anche i droni da guerra e il cibo spazzatura sono dotati di un loro peculiare valore d’uso, solo per fare un paio di esempi. In ogni caso, il valore d’uso è inseparabile dal valore di scambio, cioè dal valore che la merce assume nella sua relazione con le altre merci, e in particolare con quella

merce

specialissima

che

è

il

denaro.

Il

valore

di

scambio

è

indifferente alla qualità; le volta le spalle, per cosí dire. Il suo segno è quello della quantità, che è espressa in denaro: non è mela piú mela fino a saziarmene, ma due euro e trentotto in mele. Il denaro entra cosí sottilmente a

costituire

semplice

la

natura

mezzo

della

tecnico

di

merce;

non

scambio,

rimane

come

può

qualcosa

di

estrinseco,

accadere

invece

in

un

commercio di cose. Tutto questo si rivelerà determinante anche per quanto riguarda la produzione di mele, come vedremo tra un momento.

L’imperativo delle merci è nella loro circolazione, che consiste in cicli infinitamente ripetuti di acquisto e vendita (o di produzione e vendita, che è lo stesso), il cui scopo è di ottenere al termine di ogni ciclo piú denaro di quello immesso da principio: la merce viene venduta e diventa denaro; il denaro ne procura di nuova; da questa nuova merce si dovrà ottenere piú denaro, e cosí via, all’infinito. Il termine di un ciclo coincide sempre con l’inizio di quello successivo: la valorizzazione del valore non basta mai a sé 5

stessa . Prendiamo qui di nuovo le mele. La loro produzione dipende interamente dalla possibilità di convertirle in piú denaro di quanto sia stato investito nella coltivazione, e non dipende invece per nulla dall’esigenza sociale di avere mele a tavola. La differenza può sembrare capziosa, e quello che promette la gran parte delle teorie economiche è precisamente la capacità del mercato, anzi una superiore capacità del mercato, di portare in modo spontaneo, come per mezzo di una mano invisibile, le mele là dove c’è piú bisogno di mele. Questo in realtà non accade: il sistema è tutt’altro che

perfetto.

Anzi,

per

meglio

dire,

la

sua

indifferente

perfezione

si

manifesta nel complesso del grande movimento delle merci, e mai nei singoli casi, che sono invece facilmente sacrificati. Può benissimo quindi accadere che le mele siano prodotte in sovrabbondanza da una parte, e di conseguenza

siano

vendute

sottocosto

al

supermercato,

ma

manchino

dall’altra; può altrettanto accadere che un produttore sia rovinato dai debiti contratti per incrementare il proprio raccolto di mele, mentre un altro, al

contrario, tracolli in conseguenza all’eccesso di mele giunte sul mercato, che ne ha fatto precipitare il prezzo, ma nulla di tutto ciò è di per sé motivo di crisi del capitalismo. In realtà, come verifichiamo ogni giorno, non lo è neppure lo smisurato eccedere del cibo in alcune parti del mondo, e la sua mancanza in altre.

Il cibo può non essere merce?

Tra

2009

e

2014

è

andata

componendosi,

da

piú

parti,

una

stima

diventata universalmente conosciuta, secondo la quale almeno il settanta per 6

cento del cibo consumato al mondo proviene da piccola agricoltura . Si intende con questo una realtà composita, regolata o non regolata da leggi vigenti localmente, e che è fatta di agricoltura contadina, a conduzione familiare, di forme tradizionali di caccia, pesca e raccolta; di produzione per autoconsumo,

microallevamenti

e

cosí

via.

Quella

proporzione

ha

poi

assunto una sua rilevanza anche per le istituzioni sovranazionali, e proprio questo

l’ha

fatta

diventare

il

bersaglio

di

ricalcoli

cavillosi,

volti

a

ridimensionarla. Il linguaggio dei numeri è quello proprio della merce, difficile strappargli a lungo una confessione che la tradisca. E, in ogni caso, la controffensiva piú insidiosa della merce non viene da quei ricalcoli, ma dall’avanzare

quotidiano,

nel

mondo

reale

ben

prima

che

in

cifra,

dell’agroindustria.

Non tutto il settanta per cento è cibo che non è merce; ma al suo interno è certamente possibile trovarne. Si tratta di quello che proviene dagli orti per autoconsumo, dalla raccolta di frutti spontanei, ma anche e soprattutto del cibo di cui si fa commercio in circuiti strettamente locali. Come già detto, non basta la vendita in moneta a fare la merce; bisogna che vi si accompagni

l’imperativo

delle

merci,

ovvero

l’infinita

crescita

della

circolazione. Oggi è forte la tentazione di dire che tutto è irrevocabilmente merce, di dirlo con cinismo oppure con rassegnazione. Ma non è cosí: la merce è sí dappertutto, ma ancora non è tutto; e il confine della vendita del cibo locale rimane un confine conteso, non solo in remote campagne ma anche

nelle

città.

Nelle

metropoli,

è

vero,

i

mercati

contadini

sono

costantemente umiliati dagli appetiti della gentrificazione, e peggio ancora 7

sono minacciati dalla sottile tentazione del diventar carini , eppure tra i loro banchi è ancora possibile trovare cibo che è cibo soltanto.

La difesa delle forme locali di produzione è stata un’istanza centrale per i movimenti sociali e contadini della fine degli anni Novanta. Riprendendo in 8

mano un libro di allora, Il mondo non è in vendita , mi sono accorto che il sottotitolo

originale

era

«des

paysans

contre

la

malbouffe»,

che

nella

traduzione italiana era reso però con «agricoltori contro la globalizzazione alimentare». Il punto ovviamente non è filologico. Oggi una formulazione cosí schietta suonerebbe orribilmente sovranista; allora invece dava voce a un sentire comune: la globalizzazione è un male; questo male s’incarna nella malalimentazione. Il movimento si è poi sfaldato, sfrangiato; un suo imprevedibile esito è stato che, piuttosto rapidamente, molte delle persone che vi avevano aderito si erano convinte d’esser state, e fin da principio, non contro

la

globalizzazione

ma

a

favore

di

una

globalizzazione

diversa.

L’ingiunzione a pensare positivo, cioè a pensare entro i paradigmi del capitalismo,

aveva

picchiato

duro,

e

raggiunto

il

suo

scopo.

Lascito

persistente di quel movimento era stata invece una diffusa contrarietà agli Ogm,

che

sembrava

essersi

depositata

in

maniera

incancellabile

nella

coscienza collettiva. Come vedremo piú avanti, quell’eredità è sulla via di dissolversi con l’arrivo di nuove, piú suadenti, tecniche di manipolazione genetica: forse vi sarà chi, tra un po’ di tempo, ricorderà sinceramente d’esser stato, e fin dall’inizio, non contro gli Ogm ma a favore di Ogm diversi.

Anche il Papa ha piú volte criticato lo statuto di merce del cibo: «quando la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi, – aveva detto nel 2014, – milioni di persone 9

soffrono e muoiono di fame» . Ma una volta che il cibo è scambiato sul mercato mondiale, diventa giocoforza una merce qualsiasi, sottoposta al pieno dinamismo delle merci, volubilità del prezzo compresa. Gli aumenti di costo dei cereali a cui fa riferimento Francesco, quelli che avevano accompagnato la crisi del 2007-2008, erano in realtà iniziati già prima, e per

cause

lontane

dalla

finanza:

il

prezzo

del

petrolio,

le

sovvenzioni

governative

ai

biocarburanti,

la

concorrenza

tra

il

cibo

e

il

foraggio

destinato agli infernali allevamenti industriali, e cosí via. All’interno del paradigma della merce l’instabilità dei prezzi è insanabile: se non è la finanza a causarla, lo saranno altri settori capitalistici, o l’una e gli altri insieme. Il solo cibo che non vi sia sottoposto è quello non mercificato, cioè il cibo locale, il cibo di «piccoli coltivatori, […] famiglie contadine e […] orticoltori» che ancora, almeno in buona misura, «ci danno da mangiare», come ricorda Vandana Shiva

10

.

Una merce globale.

Il «mercato mondiale, – scrive Marx, – è […] tanto un presupposto quanto un risultato della produzione capitalistica»

11

; altrettanto globale

dev’essere quindi la merce. A costituire il cibo come merce globale è stato lo scambio colombiano, quel traffico di generi alimentari, senza precedenti per varietà e dimensioni, che occorre tra le sponde dell’Atlantico nel

XVI

secolo. In quell’occasione il cibo è diventato modello per le altri merci, quasi in modo inatteso: «benché gli europei cercassero in terre americane soprattutto metalli preziosi, il loro vero tesoro furono i prodotti alimentari», scrive la storica María de los Ángeles Pérez Samper

12

. La conquista e la

predazione, che per Paul Sweezy costituiscono l’impronta originaria del capitalismo

13

,

assumono

la

propria

esportazione, attività che fin dentro il dall’utilizzo

di

manodopera

forma XIX

nel

commercio

di

cibo

da

secolo è inseparabile dal traffico e

schiavistica:

è

cosí

che

questo

sistema

economico mondiale nasce a sé stesso.

Questo

un

tempo,

questo

il

«presupposto».

E

il

«risultato»,

cioè

il

presente? Prendiamo un cibo merce perfetto, irresistibile: la Nutella. Sulle sue materie prime non tramonta mai il sole: nocciole da Turchia, Italia, Cile e Stati Uniti; olio di palma da Malesia e Indonesia; cacao da Costa d’Avorio, Ghana e Nigeria; zucchero di canna da Brasile, Messico, India, Australia… eccetera

14

. Latte, zucchero di barbabietola e confezioni sono invece di

provenienza piú prossima agli stabilimenti produttivi, che a loro volta sono sparsi per il mondo: cinque nell’Unione europea, uno in Russia, tre nelle

Americhe, uno in Australia

15

. Tutto ciò ha un suo fascino e una sua forza

evocativa, inutile negarlo: è l’impersonalità assoluta del capitalismo che sa mimare il movimento opposto. Il mondo ci appare raccolto affinché noi lo si possa comprare in vasetto, in modo simile a quando riteniamo di averlo in tasca grazie allo smartphone, quando invece è sempre vero il contrario: sono le merci ad averci in saccoccia e a menarci dove intendono andare.

Un’altra caratteristica abituale del cibo merce, oltre a l’essere globale, è quella di subire un qualche tipo di lavorazione o modellazione meccanica. Non intendo qui solo il momento preciso in cui il cibo incontra la macchina per lavaggio, cottura, estrusione, confezionamento, eccetera; ma anche ciò che precede, predispone e infine segue quell’incontro. Per esempio: le distanze tra file di alberi o viti sono stabilite in funzione del passaggio della macchina; le varietà da mettere in campo sono selezionate già in funzione della raccolta meccanica; la maturazione, si pensi ai pomodori, deve essere sincrona per lo stesso motivo, e quando già non basta la selezione varietale a

farla

raggiungere,

la

si

comanda

con

una

spruzzatina

di

etilene,

affermando cosí il dominio della macchina industriale (del suo prodotto chimico di sintesi) non solo sul frutto ma anche sul tempo. E ancora, per conservare

le

insalate

di

quarta

gamma,

cioè

pronte

al

consumo,

le

proporzioni tra i gas che compongono l’atmosfera naturale vengono alterate e nella loro busta viene immessa «atmosfera protettiva», cioè modificata: l’aria che ha fin qui consentito una generosa sovrabbondanza di vita sulla Terra non è piú all’altezza delle esigenze del mercato.

La mercificazione del cibo, suggerisce Jose Luis Vivero-Pol, ha tra i suoi segni distintivi tanto lo sviluppo di caratteristiche di lavorabilità meccanica, quanto l’adattamento a meccanismi di profitto («for-profit market-based mechanisms») propri del sistema agroindustriale

16

. Tra questi ultimi porrei,

per esempio, le innovazioni di prodotto volte ad aumentare i margini di redditività (introdurre una conserva di pomodorini in luogo di quella di pomodori; poi una conserva di pomodorini gialli in luogo della precedente, e

cosí

via);

l’integrazione

logistica

della

filiera,

o

per

converso

il

frazionamento di fasi produttive prima unitarie, eccetera. Ma, anche, si potrebbero leggere come forma estrema di quei meccanismi di profitto certi

processi culturali piú generali, volti a plasmare i gusti pur lasciando che essi ci si presentino come del tutto liberi e individuali. È in questo modo che il cibo merce è diventato misura di ogni altro cibo: facendo apparire tutto ciò che è estraneo al suo perimetro come antiquato, poco invitante e infine come

pericoloso.

Cosí

è

stata

espulsa

dal

consumo

e

persino

dall’immaginario una bevanda prima assai gradita come il latte vaccino crudo, troppo di prossimità e troppo poco lavorato per essere merce di vaglia. Avviene però anche il perfetto contrario: qualcosa su cui grava un diffuso disgusto, se accade che divenga appetibile al mercato, deve il prima possibile diventare appetibile anche come cibo. Da questo, e non da altro, deriva l’insistenza attorno al cibo a base di insetti: si presentano come un buon affare e quindi devono per forza essere anche un pasto desiderabile. Il processo che vede gli insetti come vittime predestinate fa ricorso proprio alla duplice leva che abbiamo appena ricordata: la modellazione meccanica (la

trasformazione

culturale

della

in

società

farina

per

intera,

sviare

che

si

il

disgusto)

realizza

tanto

e

la nel

modellazione creare

mode

consumistiche, quanto nel produrre discorsi alti, levigati e ragionevoli.

Monocoltura.

Riprendiamo dalla credenza il vaso di Nutella che vi abbiamo da poco riposto. Le nocciole utilizzate provengono in gran parte dalla Turchia, ma nel

2018

Ferrero

promuove

il

Progetto

Nocciola

Italia,

«concreta

opportunità di riconversione e valorizzazione di ampie superfici del nostro territorio»; promessa «di sviluppo economico, sociale e sostenibile». Con questo «progetto di filiera», per mezzo di contratti di fornitura tra l’azienda e imprenditori agricoli, si vogliono portare i terreni dedicati a «piantagioni di noccioleto» da 70mila a 90mila ettari

17

. C’è chi, forse, ricorda le miserie

della politica dipanatesi attorno a questa vicenda. Matteo Salvini, nel 2019, aveva dichiarato in un comizio una sorta di disamore per la Nutella, che fin lí invece spalmava abbondantemente sulla sua presenza social, perché aveva «scoperto» che nella produzione erano impiegate «nocciole turche». La sinistra

gli

aveva

risposto

sventolando

il

progetto

di

Ferrero

e

identificandolo in tutto e per tutto, senza tentennamenti, con l’interesse

generale. Non una parola, da ambo i lati, era stata spesa sugli effetti ambientali e sociali delle monocolture e sul dato, come minimo inquietante, che Ferrero, da sola, risulta essere l’acquirente di un terzo delle nocciole commercializzate al mondo

18

. La «sfera della “politica”», benché oggetto di

costante sopravvalutazione, si confermava ancora una volta quale «funzione secondaria merce»

19

nell’incessante

processo

di

automediazione

della

forma-

, come scrive Robert Kurz. La politica definisce il contesto, la

cornice, entro la quale la merce afferma sulla società le proprie inderogabili ragioni; e allo stesso tempo preleva dalla società ogni tipo di aspettativa, la rielabora e infine la risputa dopo averle dato forma di merce. La cosa sofisticata è che questi meccanismi della politica avvengono in forma di contrasto, e quindi essa conserva e anzi ha stretta necessità di avere, al suo interno, contraddizioni forti, persino insanabili. È questo dinamismo ad attrarre persino chi, a pelle, ne rigetterebbe la funzione; è cosí che sempre nuovi soggetti entrano in politica con l’intenzione di strapparla al suo ruolo servile, finendo però, con il loro stesso entrarvi, per confermarne credibilità e ruolo, e quindi per essere coinvolti nelle sue mediazioni mercantili. In questo modo la sentita necessità di ridurre l’inquinamento è diventata il green, nuova «immensa raccolta di merci» che si autoproclama salvatrice del mondo; la volontà di liberare le strade dal traffico, pedonalizzandole, si è risolta nel farne dei centri commerciali a cielo aperto; oppure l’esigenza di mantenere e anzi rafforzare una produzione di cibo nel territorio si è riconosciuta nello specchio deformante del made in Italy, quando non nei progetti autocoloniali delle «piantagioni».

L’Italia, si legge nel comunicato stampa di Ferrero, ha una quota di mercato del 12 percento della produzione globale di nocciole; scopo del progetto ricavarne

è

aumentare

«una

autoevidente,

del

30

produzione

trattandosi

qui

percento

corilicola di

la

100

noccioleti

superficie percento radicati

a

noccioleti,

italiana» in

20

Italia).

per

(com’è Sono

le

quantità a qualificare le ragioni della merce. Alice Rohrwacher, in una lettera aperta, racconta invece della perdita di qualità naturali e agricole causata dall’espansione quantitativa dei noccioleti in Centro Italia: «campi, siepi, alberi» che «scompaiono per lasciare posto a impianti di nocciole a

perdita d’occhio»; una «monocoltura perenne» che va «cancellando ogni cosa»

21

.

Qual è l’insegnamento di questa vicenda? L’irriformabilità della merce. Il (parzialissimo) ridursi della distanza viene infatti compensato da un di piú in modellazione: sono i territori («interi territori», scrive Rohrwacher) a essere plasmati e trasformati

22

. Niente di nuovo, in effetti: la monocoltura è

il modo consolidato con cui il territorio diviene merce. Qualcosa di simile, se pure diverso, potremo osservare piú avanti, quando parleremo della gentrificazione dello spazio urbano operata per mezzo di una sorta di monocoltura commerciale: quella di ristorazione e turismo.

Cose e non-cose.

Oggetto, obiectum, è ciò che mi è posto innanzi, che mi si contrappone. Nella prima infanzia ogni oggetto viene assaggiato portandolo alla bocca: il nutrirsi e il confrontarsi con ciò che è esterno a sé, con le cose del mondo, si presentano inizialmente come una stessa attività. Il cibo si rivela cosí oggetto straordinariamente oggettuale: ci sta di fronte; lo mangiamo per farlo diventare noi; lo deglutiamo per abolire la barriera tra il nostro sé e il mondo, rianimando piú volte al giorno, per tutto il corso della nostra vita, le piú informi fantasie del lattante. «M’hai provocato e io ti distruggo adesso, io me te magno»: la battuta di Alberto Sordi di fronte alla pastasciutta è piú universale di quanto appaia a prima vista.

Hannah Arendt traccia una linea tra gli oggetti durevoli e le «cose fatte per il consumo incessante», come è il cibo. I primi conferiscono al mondo familiarità e stabilità; le seconde vi «appaiono e scompaiono». La «speranza di vita» di un pane «a stento supera un giorno», scrive, mentre un tavolo «può facilmente sopravvivere a generazioni di uomini»

23

. E però, oggi, le

due categorie tendono a confondersi. Il cibo riceve dal suo essere merce una sorta di rassicurante persistenza, attraverso il marchio o l’aspetto ricorrente, standardizzato;

mentre

gli

oggetti

permanenti

come

il

tavolo,

che

compriamo non dal falegname ma in un magazzino globale, dove è esposto

accanto a biscotti burrosi, sono fatti per durare non piú generazioni, ma neppure una; sono fatti anzi per durare il meno possibile. I mobili si sfaldano, e tutto ciò che è piú sofisticato, come elettrodomestici o dispositivi digitali,

ha

programmata

in



la

propria

fine,

e

se

è

dotato

di

una

connessione in rete è tramite quella che giunge la sua terminazione, sotto forma di aggiornamento.

Gli oggetti, che di per sé sarebbero cosa buona e stabilizzante della nostra esistenza, invece la assediano; non abbiamo piú spazio per alloggiarli nei nostri luoghi di vita, da tanto che si sono riprodotti. La causa del loro eccesso non risiede nell’essere oggetti, ma nell’essere merce. Come già detto, il capitalismo non produce oggetti al semplice scopo di darceli in uso, proprio come non produce mele per farle giungere alla nostra mensa, ma produce qualsiasi cosa purché in essa si trovi un’incarnazione provvisoria del valore; e poiché il valore deve crescere sempre, quasi fatalmente il capitalismo produce troppe cose. Però allo stesso tempo, non appena si trova nella possibilità sociale e tecnologica di farlo, salta volentieri il passaggio degli oggetti e passa alla produzione diretta di merci. Quelli prodotti dal capitalismo digitale non sono oggetti ma informazioni merce e comunicazione merce; Byung-Chul Han chiama queste merci non-cose, contrapponendole proprio alle «cose del mondo» di Arendt

24

. Le non-cose

non sono affatto merci innocue, sentimentali o di fantasia, anzi: richiedono un immane sforzo materiale ed energetico, ed esigono un’adesione interiore assai piú completa e totalizzante di quella che sia mai stata pretesa dai semplici oggetti. Non avremmo mai passato ore a fissare il frigorifero, neppure quello giallo che osammo comprarci, e men che mai il cibo che conserva e contiene; invece le foto di cibo che insoddisfano il vuoto della nostra fame di tutto, e le altre non-cose che c’illuminano in cicli infiniti dal telefonino, quelle sí, potremmo guardarle per il giorno intero.

Mirabili grilli.

Poiché il cibo si consuma e si esaurisce piú rapidamente di altri beni, non può provocare la stessa affezione che investe gli oggetti di lunga durata (una

categoria che, come detto, patisce un arretramento). Il sentimento che muove non riguarda quindi la singola unità di cibo ma si manifesta in modo piú impalpabile, riannodandosi alla traccia di memoria che quel cibo ha lasciato

e

ai

scanalature d’arancia

piaceri

di

sensibili

conchiglia;

artificiale

che

che

l’odore

bevevo

promette. di

da

certi

Un

dolce

sughi

bambino:

il

paffuto

casalinghi;

medesimo

il

dalle succo

meccanismo

interiore presiede tanto al consumo di cibo merce quanto al consumo di cibo non merce. Si potrebbe forse constatare che il cibo ha inscritta in sé una

particolare

psicoanalitico

tendenza

di

a

farsi

condensazione

e

feticcio,

quantomeno

proiezione

di

nel

un’emozione

significato su

di

un

oggetto; e ciò avviene probabilmente per il suo essere stato il primo oggetto dell’infanzia, come abbiamo già notato. Il cibo precucinato o di rapida preparazione, soprattutto negli anni della sua espansione incontrastata, è stato spesso accompagnato da una duplice messa in opera emotiva: veniva rappresentato da un lato come nuova epifania dei sapori di una volta, dall’altro come modello e strumento di uno stile di vita piú moderno e dinamico e cioè di uno stile di vita sempre piú dipendente da merci. È in questo secondo aspetto che si anticipa il contenuto del feticismo in senso marxiano,

che

ha

proprio

nei

«rapporti

tra

cose»

il

nucleo

solido

di

svolazzanti fantasmagorie.

Introducendo il «carattere di feticcio della merce», Marx fa l’esempio di un tavolo. Fino a quando il tavolo rimane un tavolo, scrive, è cosa «sensibile e comune»; ma poi, «quando appare come merce si trasforma in un oggetto sensibilmente soprasensibile», e comincia a dimenarsi, tirando «fuori dalla sua testa di legno» dei mirabili «grilli». Al tavolo vengono dei grilli per la testa: sa di non essere piú un semplice tavolo ma qualcosa di piú. È diventato cosa soprasensibile, cioè sociale. Di ogni cosa però, e non solo della merce, si può dire che è sociale, perché circola e vive la sua vita di cosa in una società umana. Cosa intende Marx, allora? La merce è cosa sociale nel senso che nella merce il rapporto sociale tra persone è stato sussunto

da

un

«rapporto

sociale

tra

fantasmagorica di un rapporto tra cose»

25

oggetti»;

ha

preso

«la

forma

. Il feticismo è dunque solo questo

apparire come rapporto tra cose di quello che è, invece, un rapporto sociale tra persone? È solo, quindi, parvenza e inganno?

La risposta, a mio parere, è no; ma leggendo come brano a sé quello sul feticismo delle merci non se ne viene a capo. A causa del gran numero di immagini esuberanti che contiene, il capitoletto si presta a interpretazioni generiche e aneddotiche – che anch’io, lo devo ammettere, in passato ho fatte mie. Per dipanare queste complicazioni è necessario tornare all’inizio di quella che è, secondo Marx, la vicenda della merce. Nel capitalismo non si producono mele perché altri mangino mele ma per il loro valore di mercato, cioè per la spirale tra mele e denaro. Lo stesso lavoro nel pometo, il lavoro umano di potatura, raccolta eccetera, è merce perché ha nel denaro la forma riconosciuta del proprio valore. Nella produzione capitalistica di mele,

quindi,

il

spersonalizzato

«rapporto

tra

merce

e

sociale merce

tra e

oggetti»,

tra

denaro

e e

cioè merce,

il

rapporto sostituisce

veramente e non solo in apparenza il rapporto sociale tra persone. Si potrebbe anzi dire che a quest’ultimo è concesso di vivere una sua esistenza derivata solo nella misura in cui anche il primo si regge: se le mele non si vendono, cioè se il «rapporto tra cose» si guasta, i rapporti tra persone che si sono annodati attorno all’azienda Buone Mele Snc si dissolvono come la neve al sole della val di Non. La questione quindi del lacerare il velo delle apparenze, che sembra essere sempre l’istanza principale quando si parla del feticismo delle merci, è dunque piú intricata di quanto non sembri a prima vista, perché il rapporto tra cose è reale, e i rapporti sociali tra persone che sono alle sue spalle sono già stati disarticolati e riarticolati attorno alla merce. Se strappo il velo non trovo nulla, la comunità è dissolta; il rapporto sociale tra persone, quello a cui tendiamo vanamente la mano nella

nebbia,

quello

che

sappiamo

esserci

necessariamente,

è

tutto

da

reinventare.

Cibo e digitale.

E però, se anche il feticismo non si risolve in un inganno, l’inganno feticistico è reale, ed è l’aspetto visibile che assume il «rapporto sociale tra oggetti». Proverò qui a dire di quell’inganno tramite la questione della pizza a casa, e di ciò di piú sofisticato che ne segue. Mi serve un termine temporale a cui appigliarmi per cominciare, piú affidabile della memoria,

cosí provo a cercarlo nell’archivio de «La Stampa», dove trovo la pubblicità di Pronto Pizza, che promette «pizza calda a domicilio» con «consegne anche in tutta la cintura di Torino» già nel 1988

26

. Negli anni Novanta,

quando mi era capitato di distribuire pubblicità nelle buchette postali, ho avuto tra le mani anche i volantini delle pizzerie telefoniche. La grafica era minimale,

la

promessa

di

godimento

modesta:

pizza

calda,

bibita

(illusoriamente) a gratis. Su di me quell’offerta aveva un effetto del tutto antifeticistico. Se prima non mi ero mai soffermato sui rapporti tra il proprietario della pizzeria e i suoi dipendenti, la comparsa di quel soggetto in piú, il fattorino in motorino (allora non si usava la bici), mi spingeva a interrogarmi. Quanto sarà pagato? A consegna oppure a ore? E soprattutto: è giusto che una persona affronti il traffico per un motivo tanto futile quanto il portare la pizza a chi potrebbe benissimo infilarsi le scarpe e andarsela a prendere?

In perfetta contraddizione con la risposta che mi ero dato io, in poco tempo la pizza consegnata a casa era diventata qualcosa di analogo a un diritto intangibile; dapprima nei centri urbani, poi anche nei paesi. Il vizio era semmai il rifiuto di aderirvi, il decidere di andarsela a prendere per conto proprio, talvolta con l’impressione di creare fastidio nel flusso di lavoro della pizzeria, del tutto articolato attorno alla consegna. In ogni caso, il precedente della pizza telefonica aveva spianato la via ai successivi ordini via internet: tutto è già avvenuto, e quindi non fa problema. La dimensione del fenomeno risulta, come è intuibile, abissalmente diversa: i fattorini di Deliveroo,

nel

solo

Regno

Unito

e

nel

solo

2022,

hanno

percorso

quattrocentocinquantatre volte la distanza tra la Terra e la Luna e ritorno

27

;

ma la differenza, vien detto a chi medita qualche perplessità, è solo nei numeri (e ai numeri, lo sappiamo, la merce sa far dire ogni cosa). Poiché l’ordine procede dallo smartphone, dove tutto è mediato, retroilluminato e piú vero del vero, nulla può né la consapevolezza astratta della mancanza di senso di quel lavoro di consegna, né la visibilità concreta dei ciclofattorini. Veloci, in pericolo nel traffico; diventando a loro volta un pericolo quando pedalano su piste ciclabili (dissennatamente) tracciate su marciapiedi; con ogni tempo atmosferico, il cubo termico sulle spalle; oppure tornando a casa, stipati su treni notturni con la bici appresso, non potendosi permettere

di vivere nei quartieri dove sono piú richieste le loro consegne: in ciascuno di questi luoghi la loro presenza reale è meno vera del vero digitale, cioè della verità feticistica della merce, che è il suo miglior inganno. Basta lasciarsi andare a quella verità e tutto va da sé: ci si può far consegnare il cibo anche quando si è fuori casa, per esempio in una piazza cittadina, dove in pochi passi si potrebbe raggiungere l’intero mondo gastronomico, ogni sorta di piatto planetario, ma quel mondo ancora non basta; perché, nella società dominata dalla merce, ogni persona è mantenuta in uno stato di perenne indigestione e fame; consuma ed è consumata dalla merce.

È nei Grundrisse che si trova questa strana immagine: il soggetto («il lavoratore, ad esempio») ha di fronte a sé «la cosa»; questa «cosa» è divenuta la sua «vera comunità, che egli cerca di consumare e dalla quale viene

consumato»

28

.

Se

torniamo

col

pensiero

ai

«rapporti

tra

cose»,

possiamo comprenderla per analogia: la cosa fattasi vera comunità sono i rapporti personali sussunti e mediati dalla merce. Il fatto curioso è che, sebbene il passaggio sia sempre tradotto con consumare, il verbo che Marx adopera è «verspeisen», che indica il consumo di cibo, il mangiare

29

.

Dunque si potrebbe dire che la persona, qui, cerca di mangiare la comunità che si è rappresa in merce, e ne risulta invece divorata. Qualcosa di simile è rappresentato

nello

spettacolo

Foodification

di

Marco

Perucca

e

Paolo

Tessarin. In scena sono due personaggi, un ciclofattorino e un cameriere, che cercano consolazione dalla loro vita grama, di lavoratori sfruttati della ristorazione, nei consumi modaioli di cibo, e cioè in un’adesione anche interiore a quell’ideologia urbana del cibo della quale, piú tardi, diremo. I due cercano quindi di consumare la comunità fattasi merce al fine, illusorio, di appartenervi pienamente. Ma invece ne sono consumati: l’agnizione ha luogo

quando

scoprono

di

essere,

per

cosí

dire,

causa

del

reciproco

sfruttamento, che si realizza proprio nel sistema tramite il quale pensano di emanciparsi

30

. Credevano di mangiare la comunità; invece è la merce a

mangiarli.

Nella sua rappresentazione social, poi, il cibo è sottratto all’essere cibo, all’essere cosa nel senso migliore del termine, per divenire proiezione fantasmagorica e al tempo stesso non-cosa. In virtú di questi nuovi e

retroilluminatissimi attributi di merce, il cibo nega il proprio ancoraggio al reale metabolico: sarà digerito nella merce digitale ben prima, o persino invece, dell’essere masticato da bocca umana. Fingendo di guardare alle loro spalle, non perdo d’occhio quattro uomini seduti al tavolino di un bar in riva al lago di Suviana. Si fotografano coi piatti straripanti di crescentine e salumi che hanno appena ricevuto, «caricano» l’immagine e sembrano quasi attendere il sigillo della condivisione social sul loro convivio. Quel doppio digitale del loro pasto, analizzato da intelligenze artificiali che lo etichettano in base al testo e alla geolocalizzazione, viene automaticamente ascritto al discorso merce che tra i tanti risulta piú congruo, e cioè, per esempio, quello dell’Appennino bolognese come luogo turistico in cui si sta bene e si mangia generosamente, con stile popolare e senza precauzioni salutistiche. Infine quel doppio digitale torna loro, in forma di suggerimenti algoritmici ancor piú mirati, nel dopopasto, quando come catoblepi si ripiegano sullo smart, cercandovi la vera comunità da mangiare, quella che felicemente li ha già divorati.

Le tipicità.

Cominciamo lasciavano

le

dal

città

ritorno e

si

alla

terra

trasferivano

degli

in

anni

Settanta:

campagna,

giovani

contestando

che

però

il

produttivismo agricolo che aveva sedotto la generazione precedente e ne aveva

fatto

biologica,

un’accanita

vengono

spargitrice

recuperate

prassi

di e

pesticidi. varietà

Nasce

tradizionali;

l’agricoltura si

deposita

un’attenzione verso il territorio, il locale. Negli Ottanta già qualcosa è cambiato:

nonostante

emergano

gravi

contaminazioni

alimentari

e

di

conseguenza si diffonda la diffidenza verso il cibo industriale, la cultura critica che potrebbe fare tesoro di quella diffidenza ha ormai assorbito l’edonismo che si respira tutt’attorno. Non piú in grado di proporre una diserzione dalla merce, si limita a una critica interna al suo consumo, giocata sulle corde di una rilassata apologia del godimento. Da una costola de «il Manifesto», quotidiano comunista, nasce «Gambero Rosso»; attorno a

questo

si

costituisce

Arci

Gola,

che

diverrà

Slow

Food.

Negli

anni

Novanta le istanze del cibo locale, tipico, ormai camminano da sole. Le

istituzioni, pienamente consapevoli del proprio ruolo di avanguardia della sussunzione capitalistica, ne colgono le potenzialità rimodulando marchi esistenti e via via istituendone di nuovi, che sono poi quelli che abbiamo imparato a conoscere: prima Doc e Docg, poi Dop e Igp.

Intorno a tutto questo la merce opera la sua eterogenesi dei fini. Le prime a trovarvisi invischiate sono le istanze neocontadine del ritorno alla terra. Una buona esemplificazione è nella vicenda di Alce Nero, cooperativa nata nel 1977 e pioniera del biologico italiano. Nel 1999, insieme al consorzio Conapi,

costituisce

una

società

allo

scopo

di

distribuire

i

prodotti

di

entrambi; nel 2000 vi entra anche Coopfond, la finanziaria di Legacoop. In breve i rapporti si deteriorano; Alce Nero lamenta «scelte non condivise» e si ritiene messa ai margini della gestione. Il motivo di conflitto principale sembra riguardare la presenza nei supermercati della grande distribuzione, dai quali Alce Nero vorrebbe uscire possibilità

di

disporre

del

31

marchio.

; e lo scontro finisce per toccare la «In

assemblea

ci

furono

battaglie

epiche», ricorda uno dei protagonisti; di fronte ad Alce Nero «avevamo dei veri colossi del mondo cooperativistico italiano». L’ipotesi di una causa legale,

che

in

ogni

caso

sarebbe

stata

lunga

e

costosa,

viene

presto

accantonata, e nel 2004, non senza amarezza, il marchio di Alce Nero viene venduto a Conapi e Coopfond

32

.

Seconda vittima di quell’eterogenesi dei fini sono, strano a dirsi, proprio i

prodotti

tipici.

Un

cibo

tipico

è

prodotto

secondo

tradizione;

ma

la

tradizione è vaga, incerta, variamente interpretabile; mentre lo Stato e il mercato,

quando

procedono

alla

sua

valorizzazione

(cioè

alla

sua

trasformazione in merce), hanno bisogno di punti fermi: devono trarre, da un’indisciplinata tradizione, quello che sarà un disciplinare produttivo

33

.

Per farlo tracciano confini dove prima non ne esistevano affatto: può quindi facilmente

accadere,

ruvidamente

tipici,

e

accade,

venga

che

interdetto

a

contadini l’uso

del

e

allevatori

nome

del

marginali,

vino

o

del

formaggio che producono da sempre; mentre aziende con le spalle piú larghe,

fatalmente

piú

lontane

dalla

certificata tipicità nell’ampio mercato.

tradizione,

potranno

vantarsi

della

La terza eterogenesi dei fini è nel ruolo che le tipicità alimentari hanno assunto

nella

mercificazione

delle

città.

È

nei

quartieri

gentrificati

e

turistificati che il cibo tipico trova infatti il suo approdo d’elezione. Le borse dei turisti piú creduloni straripano d’involti di antiche botteghe che appena l’anno prima non esistevano, ma è per i nuovi residenti, per il ceto medio dell’aperitivo, che fioriscono «i mercati locali» e si diffonde quella che Giovanni Semi descrive come «l’ideologia del localismo, dalla filiera corta all’onnipresente cibo biologico, mescolata a un sentimento nostalgico verso un

passato

contadino,

autentico»

34

.

Questi

abitanti,

che

quando

erano

percepiti come avanguardia venivano chiamati foodies o hipsters, sembrano restituire al cibo una dimensione estranea alla merce, quella conviviale, ma ciò è solo un velo, un’apparenza. La mercificazione ha semplicemente fatto un salto di scala, investendo per intero la convivialità stessa. L’idea del tipico e la ricerca del cibo genuino sono qui solo un mezzo per posizionarsi come persone colte nel mercato delle opinioni; e questo mercato delle opinioni coincide fatalmente, per le professioni cosiddette creative in cui quel ceto cerca d’accomodarsi, con il mercato del lavoro. Se nella società dello spettacolo, come avvertiva Guy Debord, «il vero è un momento del falso»

35

; nella società interamente mercificata, che è la stessa, la non merce

può facilmente diventare solo un momento della merce.

Da merce a non merce?

In un saggio del 1986, l’antropologo Arjun Appadurai sostiene che quella di merce può essere non l’essenza, ma solo una fase nella vita di alcuni oggetti; e che dunque «gli oggetti possono essere spostati dentro e fuori dallo stato di merce». Questo spostamento avverrebbe in conseguenza al

«perenne

e

universale

braccio

di

ferro

fra

la

tendenza

di

tutte

le

economie» a espandere al massimo la mercificazione, «e la tendenza di tutte le

culture

a

formulazione

limitarla» mi

è

36

.

Benché

tornata

in

non

mente

mi

convinca

ascoltando

del

tutto,

Martina

Lo

questa Cascio

raccontare delle condizioni d’esistenza, e in particolare di quelle abitative, dei lavoratori migranti stagionalmente occupati nell’olivicoltura del Belice. Tra le attività che i braccianti organizzano nei loro luoghi di vita, dice la

sociologa, c’è sempre quella della cucina, spesso anzi delle cucine, plurali e diverse secondo le tradizioni alimentari dei paesi di provenienza. – Dove fanno la spesa? – non mi trattengo dal chiederle. – Al supermercato o all’hard discount, – mi risponde. Gli insediamenti dei braccianti nascono nell’informalità. Fino a quando vi restano, la cucina sforna i suoi pasti; quando però entrano in campo le istituzioni

la

cucina

viene

considerata

fonte

di

rischio

impossibile

da

contenere, e su di essa viene posto un divieto. Il volontariato piú legalitario si prodiga quindi a offrire panini; si progetta un catering ufficiale, a prezzo calmierato, ma tutto questo viene contestato dai braccianti, che vorrebbero continuare a cucinare da sé. Tutto il cibo, qui, è merce (e le olive che i braccianti raccolgono sono una tipicità…); ma quello acquistato e cucinato in proprio afferma, quasi contro la sua natura di merce, un residuo di autonomia conculcata

esistenziale, 37

particolarmente

prezioso

dove

essa

è

cosí

.

La domanda che avevo rivolta a Martina, cioè dove facessero la spesa i braccianti, suona certamente banale. Nel formularla tornavo col pensiero a qualcosa che mi aveva colpito in un altro luogo di bracciantato migrante, Rosarno, nel 2015. Si trattava della constatazione, naïve al punto di risultare imbarazzante, che anche le persone piú sfruttate da un regime del cibo dominato dalla grande distribuzione, come sono questi braccianti, alla fine di una durissima giornata di lavoro vanno a fare la spesa nei supermercati. Dove altro potrebbero andare, in effetti? Non solo per la capillarità dei punti vendita,

ma

anche

perché

avendo

redditi

bassi

è

proprio

alla

grande

distribuzione che devono rivolgersi, dove il costo del cibo è basso anche perché sono bassi i loro redditi. L’impressione che ne avevo ricavato mi è rimasta in testa per anni. A lungo ho cercato di venirne a capo con gli strumenti dell’analisi di classe, ma questi non facevano che piegarsi nello scontro con la realtà. Che fare, per esempio, della constatazione che un aumento

dei

salari

dei

braccianti

avrebbe

spinto

i

subfornitori

dei

supermercati ancor piú rapidamente verso la meccanizzazione? Invece di migliorare la condizione di quei lavoratori, si sarebbe cosí inverato ciò che avevo sentito raccontare come incubo da un giovane burkinabé a Venosa, in Basilicata: arrivare «al campo una mattina e scopri[re] che una macchina ha

raccolto i pomodori al posto nostro» piú,

perché

il

problema

si

trova

38

. Quegli strumenti non mi bastavano

ben

alle

spalle

della

classe,

ed

è

nell’implacabile sistema della merce: è la merce che fa della classe ciò che vuole; è la merce a plasmare il mondo che la classe abita, e non viceversa

39

.

Voglio qui saggiare un’ultima volta la possibilità di un braccio di ferro tra merce e cultura, seppure in un contesto del tutto diverso: quello degli orti urbani. Dopo lunga disattenzione, all’inizio di questo secolo si è infatti ricominciato

a

parlarne;

non

sono

però

piú

quelli

novecenteschi,

che

eravamo soliti chiamare orti per anziani e che erano assegnati in modo burocratico dalle istituzioni, ma poi lasciati al libero uso, cioè al produrre cibo non merce per uso familiare – che è il piú nobile scopo che si possa immaginare per un piccolo orto. Gli orti di nuovo conio sono brillanti, pure un po’ retroilluminati per la loro presenza social, e sono inseriti in strategie del cibo protese alla valorizzazione urbana, al salutismo neoliberale, nel complesso

alla

mise

en

scène

della

città

interclassista.

Preferibilmente

collettivi, perché cosí «fa piú comunità», vengono istituiti in quartieri etichettati come difficili, ovviamente prestando attenzione a non disturbare i processi di espansione del cemento; e sembrano in tutto e per tutto, se osservati a distanza, il perfetto esempio d’iniziativa partecipativa e dal basso. Di questo si deve ringraziare la competenza della classe creativa e progressista che, spesso per pochi spicci, li governa dall’alto indirizzandoli esattamente dove vuole il committente, cioè il comune, la multiutility di turno o chi per loro, ma col massimo candore della spontaneità. Scopo ultimo di questo articolato sforzo rieducativo, ignoto a chiunque solo perché è troppo ben in vista, è istruire le torme della periferia a starsene al posto loro,

senza

transumare

verso

il

centro,

dove

per

la

loro

stessa

natura

sguaiata disturberebbero il fluire e defluire dei turisti nei plateatici e nei negozi di tipicità. Dall’orto si parte, dunque, per risalire fino a ristoranti di buon nome, che potranno, una volta o due l’anno, volendo, mettere a tavola un po’ d’indigenti in cambio di eterna riconoscenza, della presenza di almeno un assessore, e di foto strappacuoricini per i social. Analizzando la food strategy di Londra tra 2006 e 2012, come ha fatto Agnese Cretella, si trovano: due sindaci di colore opposto che la sostengono, Ken il Rosso e BoJo; il coinvolgimento di «contadini, scrittori, ristoratori, organizzatori

comunitari» marcatamente alternativi; e il mutarsi della strategia stessa in sfondo

verdizzato,

verdurizzato,

delle

olimpiadi,

grande

l’apoteosi sognata da ogni città che si propone sul mercato

evento 40

che

è

. Cosa ne è,

qui, del braccio di ferro tra merce e cultura? Ben lungi dal generare qualcosa di diverso dalla merce, il braccio di ferro si è rappreso, diventando esso stesso merce culturale.

Farsi merce.

Nel

dissolversi

dei

movimenti

che

ne

avevano

fatto

una

battaglia

qualificante, l’opposizione agli Ogm era stata avocata a sé dalle catene dei supermercati e dal consumerismo, che l’avevano ridotta ai suoi aspetti piú pop e superficiali. La questione dei brevetti era ovviamente spiacevole da maneggiare

per

chi

vive

di

marchi;

e

quindi

si

preferí

parlare

di

fragolapesci, cioè di organismi chimera mai stati seriamente ipotizzati, e della presunta incompatibilità tra le colture tipiche e quelle transgeniche, cioè tra merce e merce. Poi si è fatto strada un sostanziale disinteresse, come se quello degli Ogm fosse un problema che andava in dissolvenza, benché dal 1996, quando erano stati commercializzati i primi semi, non avessero

mai

cessato

di

diffondersi

41

.

Cosí,

quando

arrivano

le

Nuove

tecniche genomiche, non trovano quasi nessuna opposizione ad accoglierle. A differenza di quanto accade con gli Ogm classici, che sono transgenici, le nuove tecniche non introducono geni estranei alla specie manipolata, ma si limitano a rimescolare, tagliare, ricucire, spegnere o attivare quelli già presenti. Se il problema erano le chimere, ecco che le chimere non ci sono piú; e se il problema erano le tipicità, piú non si pone, perché le nuove tecniche promettono poco meno che miracoli di resistenza, resilienza e tolleranza

alle

condizioni

avverse

42

.

Se

il

problema

è

invece

la

manipolazione del vivente e il dominio della merce, beh, questo c’è tutto, e risulta persino accresciuto dalla piú incisiva capacità mimetica.

Il pomodoro Sicilian Rouge High GABA è il primo vegetale con genoma editato, cioè modificato, a raggiungere il commercio, ed è stato creato da un’azienda biotecnologica giapponese, Sanatech Seed. Non riuscendo a

trovare in alcun luogo una spiegazione di cosa c’entri precisamente la Sicilia,

credo

un’evocazione

di

poter

considerare

mediterranea,

un

la

grillo

di

dedicazione merce;

ma

null’altro

neppure

che

rinvengo

traccia di reazioni da parte di enti italiani, di solito suscettibili fino al parossismo sui nomi commerciali italianeggianti, e questo già dice molto di come stia cambiando la sensibilità in merito alle manipolazioni genetiche. Il pomodoro ha un contenuto cinque volte piú elevato della molecola GABA, che

abbassa

consumarlo

la sia

pressione piú

sanguigna

efficace

«del

43

;

anche

mangiare

se

non

normali

è

chiaro

pomodori

se

il

[regular

tomatoes]», si legge su «Nature Biotechnology». La questione è a mio parere di nessuna importanza: di integratori e alimenti che hanno effetto sulla pressione sono già pieni gli scaffali, non ne serviva certo uno in piú. Non

è

il

rispondere

a

un

bisogno

a

spingere

la

produzione

del

postpomodoro, ma sono gli imperativi della merce, corroborati qui da un auspicio piú generale, di portata sociale: quello di affidargli, grazie alle promesse salutistiche, il compito di «aprire il mercato a piú frutta, verdura e persino pesce modificati geneticamente [genome-edited]»

44

, come scrive

ancora «Nature». E cioè a nuovissime, potenzialmente infinite, forme di cibo

merce.

Dalla

lettura

dei

resoconti

emerge

come

l’azienda

abbia

operato, tramite tecnologie sociali raffinate quanto quelle laboratoriali, in modo da creare consenso ed entusiasmo preventivo attorno al suo prodotto, e

ciò

con

marketing

piattaforme orizzontale

online, e

cosí

gruppi

via

45

.

Di

di

test

nuovo:

tra se

orticoltori la

merce

dilettanti, è

la

vera

comunità, la comunità vera è quella che orbita attorno alla merce; e per mantenere entrambe a passo degli avanzamenti tecnologici del capitalismo, è necessario aggiornarle reciprocamente.

Poi c’è una questione piú grande ancora. Il corpo (e all’estremo opposto il cosmo) è luogo di conquista delle forme sempre nuove della merce; e poiché il corpo vi oppone una sorta di sorda resistenza, questo rende piú acuto il desiderio della merce. Cibo e farmaci sono le sole cose e merci che si accettano nel corpo; l’idea per esempio dell’impianto sottocutaneo di un chip, pur avendo i suoi entusiasti come ogni altra perversione, rimane problematica per la gran parte delle persone. È quindi tramite il farmaco e il cibo, o meglio ancora una sintesi tra i due, che le merci piú sofisticate

cercheranno la propria naturalizzazione nel corpo. Cosí, mentre il cibo diviene prodotto altamente tecnologico, la tecnologia diventa cibo, e cioè diventa sensori e circuiti non piú solo ingeribili, ma persino commestibili, che si tuffano nel corpo per sorvegliarlo meglio. A scopo diagnostico, certo, ma anche per verificare se una persona (una vittima, stavo per scrivere, chissà

perché)

abbia

assunto

correttamente

il

farmaco

che

le

è

stato

prescritto. Altri sensori commestibili, invece, sono pensati per restare adesi al cibo per monitorarne lo stato di conservazione

46

; cosa che potrebbe

essere fatta in mille modi piú semplici e diretti, per esempio annusandolo. Ma, di nuovo, neppure qui è il valore d’uso atteso a essere decisivo, ma un valore

piú

astratto

e

piú

ambizioso.

Cibo

tecnologico

e

tecnologia

commestibile non sono solo l’ennesima merce in piú, che può servire o non servire e che quindi troverà o meno il suo mercato, come ci potrebbero suggerire quelle che György Lukács, un secolo fa, chiamava «abitudini di pensiero già reificate». Cibo tecnologico e tecnologia cibo vanno invece riconosciuti nella loro nuova qualità. Che è quella d’incidere, e sempre piú profondamente, il segno della merce «su tutte le manifestazioni di vita»

47

.

Realizzo ora, ed è tardi, di aver dedicato poco spazio al cibo che non è merce, che pure esiste ed è piú di quanto spesso non si creda. Forse, nel parlarne sí poco, tradisco anch’io uno sguardo catturato dalla merce; e un pensiero avvinto in abitudini reificate. Né ho scritto punto dell’orto che vorrei

coltivare.

Dal

prendermene

cura

non

attendo

la

soluzione

a

qualsivoglia problema del cibo, cosa che non si dà tanto facilmente, ma il poter tendere l’orecchio, pur senza mai capirle, alle verità che la terra sussurra, e la merce calpesta.

Cedri canditi e pistacchi.

– Una cosa ho compreso, stimata compagnia, e voglio ne siate partecipi: che il nostro orto dev’essere coltivato.

– Candido amico, – replica pacioso il maestro Mangiatutto, – ciò che proponete è nobile nelle intenzioni, ma assai ingenuo. Dacché l’umana

stirpe è entrata nel giardino della merce, essa si è ben adattata al non piú faticare; il farlo le sarebbe ormai innaturale. Non sono forse quelli festivi i suoi giorni piú lieti, quando i centri commerciali sono aperti, i parcheggi pieni di macchine e carrelli, e però non si lavora? Certo, qualcuno sí, è alle casse o nel magazzino, ma quasi per un suo intimo piacere: si vede che il martedí ha altro da fare, e lo vuol libero, oppure che ha contratto qualche innocente debituccio. In ogni caso il lavoro vivo non è che il residuo di un passato oscuro, presto ne saremo del tutto liberi, e voi volete trarci a lavorare nell’orto? Perché dovremmo faticare per ottenerne verzure quando, con assai meno sforzo, il supermercato ne offre in profluvio? Già lavate, appena da condire, nonché certificate al sommo grado d’ecocompatibilità; di quelle cresciute laggiú, tra erbe e sterpi, si può dir lo stesso? Lavoro poi, travail e cioè tortura: che infelice espressione! Semmai dedichiamoci un poco all’agrifitness, ginnastica orticola all’aria aperta, giusto per giungere con appetito all’ora dell’aperitivo. È tempo, Candido caro, di mettersi a giorno, d’essere illuministi; in seguito, encore un effort, si potrà divenire merce, ché la merce non è che l’evoluzione dell’umano. Il mondo era assai perfettibile, era cosí cosí; la merce lo rende poco meno che perfetto; la merce ne fa il migliore dei mondi possibili. Voi qui mangiate kiwi di Nuova Zelanda,

des

cédrats

confits

et

des

pistaches.

Senza

la

merce,

che

sgranocchiereste?

– Ma pure ancora lavoriamo, e di questa gran copia di merce poca ce ne giunge,



gli

risponde

Attivista,

a

un

passo

dall’essere

irritata.



Il

plusvalore è estratto, ci è rubato. Ma noi ben sappiamo che sono il nostro vigore e il nostro multitasking a forgiar le macchine che servono i padroni; e quelle stesse macchine, il dí che saranno loro sottratte, risplenderanno di plastica, acciaio e libertà! Avremo cosí anche noi, e finalmente!, vini d’Australia

a

impatto

zero,

fragole

senza

patirne

sfoghi

d’epidermide,

algoritmi socialisti a ottimizzare i cicli della lavastoviglie: questo è il reale compiersi dell’Illuminismo. Perdonate, magister, la troppa schiettezza, ma i vostri lumi non son che moccoli, mentre i nostri son fari a led. La comodità rivoluzionaria, telos della storia del progresso, è sí lontana; pure il suo costante pensiero ci induce a rilassata lotta. Nostra sarà la merce! Chi ci

nega il Bengodi è malevolo, crumiro, reazionario; forse persino un po’ complottista.

– Ben detto! – esclama Candido, desiderando solo che l’uno e l’altra tacciano, per poter ascoltare il vento e i suoi pensieri. – Ben detto davvero: resterei ore ad ascoltarvi dibattere d’un futuro che, mal che vada, sarà perfettissimo. Ma è tempo di muoversi, l’astro ha iniziata già la sua discesa, e tanto c’è da fare! Il faut cultiver notre jardin: andiamo dunque, andiamo!

1. A. Jappe. Le avventure della merce. Per una critica del valore, Mimesis, Milano - Udine 2022, p. 30. Il debito del testo che qui comincia con quello di Jappe è maggiore di quanto non sia rappresentato dalle singole note. 2. K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, a cura di Eugenio Sbardella, Newton Compton, Roma 1996, I, I .1.1., p. 53. 3. Marx, Il capitale cit., I, I .1.4., pp. 76-84. 4. «La merce è l’immediata unità di valore d’uso e valore di scambio, e cioè di due contrari. Essa è perciò un’immediata contraddizione» (corsivi nell’originale; traduzione mia): K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, digitalizzazione MEGA della

prima

ed.

1867,

1.

Buch,

1.

Kapitel,

p.

51.

(http://telota.bbaw.de/mega/#?

doc=MEGA_A2_B00500_ETX.xml&book=5&part=0&pageNr=51&startPage=&endPage=&startLine=&endLi ne=&startTerm=&endTerm=). Il passaggio è soppresso nelle successive edizioni de Il capitale. 5. Marx, Il capitale cit., I, 2.4.1., pp. 125-29. 6. Sulla stima, e su come alcune pubblicazioni tentino di metterla in discussione, si veda ETC

Group,

Small-scale

farmers

and

peasants

still

feed

the

world,

2022

(https://www.etcgroup.org/files/files/31-01-2022_smallscale_farmers_and_peasants_still_feed_the_world.pdf). 7. G. Semi, Bdsg. Breve manuale per una gentrificazione carina, Einaudi, Torino 2022. 8. J. Bové e F. Dufour, Il mondo non è in vendita. Agricoltori contro la globalizzazione alimentare, Feltrinelli, Milano 2000. 9. Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti all’incontro mondiale dei movimenti popolari,

2014

(https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/october/documents/papafrancesco_20141028_incontro-mondiale-movimenti-popolari.html). 10. V. Shiva, Chi nutrirà il mondo? Manifesto per il cibo del terzo millennio, Feltrinelli, Milano 2015, pag. 21. 11. K. Marx, Teorie sul plusvalore III, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 271. 12. M. Á. Pérez Samper, Lo scambio colombiano e l’Europa, in M. Montanari e F. Sabban (a cura di), Storia e geografia dell’alimentazione, vol. I, Risorse, scambi e consumi, Utet, Torino 2006, p. 356. 13. P. M. Sweezy, Il capitalismo moderno, Liguori, Napoli 1975, pp. 19-20. 14. Dal sito www.nutella.com sezione Scopri Nutella. 15. Organisation for Economic Co-operation and Development (Oecd), Mapping Global Value

Chains,

Parigi

2012

(https://www.oecd.org/dac/aft/MappingGlobalValueChains_web_usb.pdf). 16. Jose Luis Vivero-Pol, The idea of food as commons or commodity in academia. A systematic review of English scholarly texts, in «Journal of Rural Studies», LIII (2017), pp.182-201 (https://doi.org/10.1016/j.jrurstud.2017.05.015). 17.

Ferrero

lancia

«Progetto

Nocciola

Italia»,

comunicato

stampa,

4

aprile

2018

Dicembre

2019

(https://www.ferrero.it/News/?IDT=82290&newsRVP=611). 18.

Da

dove

vengono

le

nocciole

della

Nutella,

in

«Il

Post»

,

6

(https://www.ilpost.it/2019/12/06/nutella-nocciole-salvini/). 19. R. Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Manifestolibri, Roma 1997, p. 36. 20. Ferrero lancia «Progetto Nocciola Italia» cit. 21. A. Rohrwacher, Il paesaggio trasformato, in «La Repubblica», 31 gennaio 2019, p. 24. 22. Poiché la dismisura è la sola misura della merce, il complesso della superficie a noccioleto in Italia, che negli auspici del 2018 era posto a 90mila nel 2025, già nel 2023 è

giunto

a

piú

di

95mila,

secondo

la

stima

di

Istat

(http://dati.istat.it,

sezione

Coltivazioni). 23. H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 2017, pp. 116-17. 24. B.-C. Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 2022. 25. Marx, Il capitale cit., I, I .1.4., p. 76-77. 26. Pronto Pizza (inserzione pubblicitaria), in «Stampasera», sabato 8 ottobre 1988, p. 18. 27. Deliveroo reveals top 100 trending dishes of 2022 sul sito Deliveroo Uk, 17 novembre 2022 (https://deliveroo.co.uk/more/news-articles/deliveroo-100).

28. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), vol.1, Einaudi, a cura di Giorgio Backhaus, Torino 1976, p. 476. 29. «In der bürgerlichen Gesellschaft steht der Arbeiter z. B. rein objektivlos, subjektiv da; aber die Sache, die ihm gegenübersteht, ist das wahre Gemeinwesen nun geworden, das er zu verspeisen sucht, und von dem er verspeist wird». K. Marx, Grundrisse der Kritik der

politischen

Ökonomie,

digitalizzazione

MEGA,

II

Teil,

p.

400

(http://telota.bbaw.de/mega/#?doc=MEGA_A2_B00102_ETX.xml&book=1&part=2&pageNr=400&startPage=&endPage=&startLine=&end Line=&startTerm=&endTerm=). 30. Foodification. Come il cibo si è mangiato la città, di e con Marco Perucca e Paolo «Tex» Tessarin, prima rappresentazione il 30 novembre 2017 a Torino. 31. L. Cavazzoni con G. De Pascale, I semi di mille rivoluzioni. Alce nero: storie di ulivi, uomini e api, Ponte alle Grazie, Milano 2014, p. 76. 32. C. Ortolani (a cura di), Girolomoni 1971-2021. Custodi della Terra, Fondazione Girolomoni, Isola del Piano 2022, p. 163-64. 33. Viaggio nei paesaggi del cibo globale, intervento di Giacomo Pettenati al Festival delle Geografie, Villasanta 2022 (https://www.youtube.com/watch?v=H5OyVtZhBp8). 34. G. Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, il Mulino, Bologna 2015, p. 86. 35. G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2001, p. 55. 36. A. Appadurai, Introduzione: Merci e politica del valore, in id. (a cura di), La vita sociale delle cose. Una prospettiva culturale sulle merci di scambio, Meltemi, Milano 2021, p. 38. 37. Comunicazione di Martina Lo Cascio al Festival Umana², Patti 2023; e inoltre M. Lo Cascio e V. Piro, Ghetti e campi: la produzione istituzionale di marginalità abitativa nelle campagne siciliane, in «Sociologia urbana e rurale», 2018, n. 117, pp. 77-97. 38.

W.

Bukowski,

«Internazionale»,

L’ottimismo 26

di

settembre

Candido 2015

tra

i

braccianti

del

Burkina

Faso,

in

(https://www.internazionale.it/weekend/wolf-

bukowski/2015/09/26/braccianti-pomodori-venosa-scuola). 39. Quella che qui evoco è la questione del Marx «“essoterico” e positivo» oppure «“esoterico” e negativo». Si veda: R. Kurz, Il duplice Marx, in Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro e altri scritti, Mimesis, Milano - Udine 2023, p. 157 sgg. 40. A. Cretella, Beyond the Alternative Complex. The London Urban Food Strategy and Neoliberal

Governance,

in

«Métropoles»,

(https://journals.openedition.org/metropoles/5147).

2015,

n.17

41.

Dal

sito

Isaaa,

Pocket

K

No.

16:

Biotech

Crop

Highlights

in

2019

(https://www.isaaa.org/resources/publications/pocketk/16/). 42.

Commissione

europea,

Proposta

di

regolamento

del

Parlamento

europeo

e

del

Consiglio relativo alle piante ottenute mediante alcune nuove tecniche genomiche, nonché agli alimenti e ai mangimi da esse derivati, e che modifica il regolamento (UE) 2017/625,

versione

datata

5

luglio

2023

(https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-11592-2023-INIT/it/pdf). 43. Sito di Sanatech Seed, pagina About (https://sanatech-seed.com/en/about-en/). 44. E. Waltz, GABA-enriched tomato is first CRISPR-edited food to enter market, in «Nature Biotechnology», 14 dicembre 2021 (https://www.nature.com/articles/d41587021-00026-2). 45. M. Maxwell, Sanatech Seed launches world’s first GE tomato, Eurofruit (sito), 16 marzo 2021 (https://www.fruitnet.com/eurofruit/sanatech-seed-launches-worlds-first-getomato/184662.article). 46.

Elettronica

commestibile:

potrà

aiutare

la

medicina?,

Radio24

(Smart

City

XL,

podcast), puntata 42, 15 settembre 2023 (https://www.radio24.ilsole24ore.com/podcastoriginali/smart-city-xl/podcast/elettronica-commestibile-potra-aiutare-la-medicina120000-2407742278887721). 47. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1991, p. 109.

Gli altri Quanti Cibo

M. F. K. Fisher, poetessa degli appetiti secondo Updike, racconta di una figura semiapocrifa che abitava l’immaginario di sua madre, forse una ragazza del sud conosciuta in collegio, il cui peccato capitale consisteva nel non essere capace di far bollire l’acqua. Certo far bollire l’acqua comme il faut, ci spiega poi Mary Frances, è una faccenda complicata: sarebbe meglio sgorgasse pura da una sorgente ed esiste un unico momento in cui è au point, prima non ha raggiunto la temperatura giusta, dopodiché è troppo cotta, proprio come una bistecca o una crêpe suzette. E forse nel dirlo ci sta anche un po’ prendendo in giro. Ma per sua madre, donna d’altri tempi, saper bollire l’acqua era una soglia d’accesso alla realtà, un’attestazione di senso pratico fondamentale per potersi dire consapevoli e adulti. E per prendersi cura degli altri. Tanto che alla frase «Quella non sapeva neppure far bollire l’acqua» seguiva immancabile «Prima di prendere marito». Chi era in grado di farlo poteva provvedere al piú elementare dei bisogni: nell’America ormai civilizzata, ma tutt’altro che prospera, mettere in tavola un pasto era l’equivalente di ciò che per Jack London significava accendere un fuoco nella natura selvaggia. A bollire l’acqua adesso siamo piú o meno tutti capaci, ma sembriamo averne un po’ smarrito il senso. Ci sono quelli che usano rigorosamente il Roner e cuociono solo sottovuoto e a bassa temperatura, oppure quelli che preferiscono

consumare

ogni

cosa

cruda,

al

massimo

centrifugata.

Ci

aggiriamo confusi, tra chi non può piú fare a meno di impiattare – parola che

l’Accademia

della

Crusca

si

è

rassegnata

ad

accettare

prima

del

correttore automatico di Microsoft –, e chi pur di vivere un po’ piú a lungo è disposto a credere al detox e a scordarsi di avere un corpo. Oggi, in una parte di mondo, il cibo ha smesso di essere qualcosa di cui possiamo godere o di cui sentiamo la feroce assenza, malgrado ci siano altrove milioni di

persone per cui è ancora cosí. L’atto di mangiare si è smaterializzato, ha perso quella concretezza che lo legava al desiderio e dunque al mercato, che in fondo è espressione del troppo desiderio dei pochi, dei cannibali direbbe la filosofa Nancy Fraser, assunto a legge indiscutibile a discapito delle vite dei molti. E cosí tra un cooking show e l’altro, tra cuochi veri e improvvisati che imperversano tra le reti, nella rete e nell’etere, ci siamo dimenticati che dietro a un piatto si nascondono piaceri, ossessioni e dolori che affondano le loro radici nella carne di cui sono fatti gli esseri umani e nella materia sociale di cui è fatto il reale. Ossessioni che prendono le sembianze della divoratrice raccontata nel suo Quanto da Anna Giurickovic Dato. O meglio raccontata dalla sua insolita narratrice, una ciambella assai consapevole del proprio io e della realtà che la circonda, al punto da comprendere le ragioni della bulimia della sua «proprietaria», arrivando ad agognare di essere mangiata per provare invano a guarirla da tutte le sue angosce. Arrivando a immaginare la possibilità di strafogarsi non tanto per espandere il corpo, ma per farlo svanire, per nascondersi, per fare di sé la propria prigione. Circondati da pietanze illuminate con cura, per renderle appetibili piú di quanto non siano, ci siamo poi anche dimenticati, anzi l’abbiamo proprio fatta sparire dalle nostre coscienze, vere o false che siano, della doppia natura del cibo, come ci ricorda Wolf Bukowski. Il cibo che da un lato è soltanto cibo, che ci nutre e ci offre momenti genuinamente conviviali, e dall’altro è sempre piú merce tra le merci; e non solo quando viene stoccato e trasportato ovunque per le esigenze della grande distribuzione, ma anche quando si maschera da prodotto etico soltanto per aprire una nuova fetta di consumi consapevoli. Insomma non si producono mele perché altri mangino mele ma per il loro valore di mercato, cioè per la spirale tra mele e denaro, che le mele con etichetta bio e made in italy, comprate sentendoci in pace con noi stessi, non fanno altro che allargare. Una spirale in cui precipitano primi tra tutti gli amanti della cucina, i gourmand, dei cui rovelli ci parla Sara Porro, che ci aiuta a districarci nella notte in cui tutto è diventato gourmet, chiedendosi come mai a un certo punto abbiamo cominciato a pensare che l’intero spettro del commestibile – incluso il cibo per cani – dovesse tendere a un ideale di raffinatezza culinaria che molto spesso, oltre ad avere ben poco di raffinato, non è sostenibile per il pianeta. La risposta forse

sta

nello

smettere

di

consumare

status

symbol

e

tornare

«savariniamente» a essere soltanto gastronomi informati, godendosi tutta la meraviglia che può suscitare una frittura eseguita a regola d’arte. Un’altra

risposta

nel

mezzo

di

tutta

questa

confusione

può

darcela

Damon Runyon, l’autore del regalo di Natale che quest’anno i Quanti vogliono fare alle loro lettrici e ai loro lettori. La cronaca, a cavallo tra il vero e il falso come spesso lo sono le storie di Runyon, di una gara d’abbuffata negli Stati Uniti degli anni Trenta. Un racconto di un’ingordigia spassionatamente tenera, come poteva esserlo solo durante la Depressione, che ci invita a guardare a ciò che mangiamo e a come lo facciamo con occhi piú disincantanti e al tempo stesso piú umani. La redazione dei Quanti

«Ho passato la giornata a preoccuparmi di non essere mangiata e adesso – mi vergogno di ammetterlo anche a me stessa – mi chiedo se non abbia sbagliato tutto. Devo essere partita da un preconcetto errato: che io sono l’oggetto del mangiare e che il soggetto mi mangia quando lo decide. Ho supposto che vi fosse un rapporto tra fame e autocontrollo, e ho presunto che la divoratrice scegliesse, anziché lasciarsi scegliere». Anna Giurickovic Dato, La divoratrice

«In senso stretto, il vocabolo “gourmet” indica un cibo di alta qualità o costoso, che

richiede

competenze

e

capacità

per

essere

preparato.

Ma

servono

competenze pure per mangiarlo: il gourmet è quindi anche colui che si intende di cibo. Il valore di un alimento si sostituisce alla persona che lo consuma, il che contribuisce a spiegare la sua potenza: accettiamo di spendere di piú non tanto perché questa spesa ci offra una qualità piú elevata, piuttosto perché eleva noi stessi». Sara Porro, La notte in cui tutto divenne gourmet

«Non dico che Nicely-Nicely sia il piú grande mangiatore professionista di sempre, quel che dico è che se la potrebbe giocare. Anche il Professor D., che insegnava in un’università della costa Ovest prima di dedicarsi a tempo pieno alle corse dei cavalli, e che ha studiato storia, lo darebbe vincente due a uno contro chiunque in qualsiasi epoca». Damon Runyon, Una fetta di torta

Il libro

I

n tempi in cui tutto, ma proprio tutto, è merce, non è difficile immaginare che anche il cibo lo sia. Basta pensare alle navi cariche di cereali

che

attraversano

gli

oceani,

alle

fabbriche

di

conserva

che

divorano pomodori o alle scintillanti corsie dei supermercati. Basta pensare al fatto che in una parte del mondo il cibo si spreca mentre in altre esplodono le carestie. Anzi, il cibo merce lo è quasi da sempre: i prodotti alimentari sono stati quelli intorno a cui si è consolidato il mercato globale. Eppure il cibo non è una merce del tutto come le altre, e neppure è facile dire cosa sia precisamente a renderlo tale: in cosa differiscono le mele che compriamo al mercatino bio con la coscienza pulita da quelle avvolte dalla plastica che mettiamo senza pensarci dentro al carrello? Wolf Bukowski ci accompagna, girone dopo girone, in un viaggio al centro di quella spirale infernale in cui il bisogno piú elementare si tramuta in desiderio e profitto.

L’autore

WOLF BUKOWSKI

ha scritto di cibo, di agricoltura e delle trasformazioni

materiali dell’esistenza in diversi volumi, da Il grano e la malerba (Ortica Editrice 2012) a La danza delle mozzarelle e La buona educazione degli oppressi (Edizioni Alegre 2015 e 2019). La sua pubblicazione piú recente è Perché non si vedono piú le stelle (Eris Edizioni 2022), dedicata alla piú abbagliante

di

quelle

trasformazioni,

nell’Appennino bolognese.

l’inquinamento

luminoso.

Vive

Quanti Einaudi, nuova serie, 36 © 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Progetto grafico: dieci04

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www.einaudi.it www.biancamano2.it/quanti [email protected]

Ebook ISBN 9788858444504

Indice

Copertina Frontespizio Quanti Einaudi La merce che ci mangia Gli altri Quanti. Cibo Il libro L’autore Copyright