La lingua muta e altri saggi benjaminiani
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Bruno tvloroncini

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Questo libro è stato stampato con il contributo del MURST per ricerche di interesse nazionale dell'Università di Sa lerno, Dipartimento di Filosofia e dell'Università di Napoli, Dipartimento di Filosofia

INTRODUZIONE

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© 2000 Fl LEMA edizioni Via Michelangelo Schipa, 61 - 80122 Napoli Tel./Fax 081661091 www.filema.it

ISBN 88-86358-48-2

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La raccolta di questi saggi, scritti nell'arco di un ventennio e votati finora in buona parte ad un'esistenza semiclandestina (tùteriore motivo per giustificare una ristampa), vorrebbe spezzare una lancia a favore di un'immagine di Benjamin come di un pensatore del materialismo. E ciò sia in controtendenza rispetto agli studi più recenti che, concentrandosi sugli anni della formazione, stilla filiazione filosofico-accademica - compito peraltro necessario e encomiabile -, rischiano tuttavia di offuscare del pensiero di Benjam.i n il carattere irregolare e frammentario, la natura anti-istituzionale e rivohtZionaria; ma anche contro il paradigma dominante negli studi degli anni sessanta-settanta secondo il quale si poteva parlare di materialismo a proposito di Benjanùn soltanto a partire dalla cosiddetta svolta degli anni trenta tranciando di netto con tutta o quasi la produzione precedente accusata di essere impregnata di idealismo e/ o di teologia. È da sempre opinione di chi scrive che proprio i primi scritti, dal saggio sulla lingua a quello sulle Affinità elettive, dalla dissertazione suJla critica romantica al Trauerspielsbuch, siano al contrario fra gli esempi p iù alti della p ratica del materialismo e che lungi dall'essere in contrasto con testi come Strada a senso unico, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Di alcuni motivi in Baudelaire e il Passagen-Werk ne siano, come d'altronde Benjamin non si è mai stancato di ripetere, non solo degli abbozzi, ma delle vere e proprie anticipazioni, una specie di officina in cui viene forgiato l'armamentario concettuale che verrà usato 5

in seguito in quella che Althusser ha chiamato la lotta di classe nella teoria, cioè lo scontro fra il materialismo e l'idealismo. Per dare un sostegno a questa tesi è necessario in primo luogo liberare il concetto del materialismo (e anche il suo opposto, l'idealjsmo) dalle incrostazioni ideologiche di cui è stato ricoperto. E non solo, prima fra tutte, quella storicistica, alla cui critica d'altronde proprio Benjamin nelle tesi sulla storia ha dato un contributo decisivo, ma soprattutto quella che si potrebbe definire economico-sociologica, queJJa cioè che ha attribuito un significato liberante ed emancipatorio alla tesi secondo cui l'essere dell'uomo dipende interamente non solo dalle leggi della produzione e riproduzione materiale, ma soprattutto dalla loro genesi e eziologia sociali. In nome di un tipico processo di idealizzazione, da cui bisognerà distinguere accuratamente l'idealismo filosofico, questa misinterpretazione del materialismo trasforma la sottomissione al vincolo in una pratica emancipatoria, il peso delle catene in esercizio della libertà. Sono note le moralistiche inversioni cui si è dedicata questa tradizione interpretativa del marxismo di tipo umanistico-antropologico: al posto del lavoro-merce che produce valore e plus-valore l'hitleriano valore del lavoro, il 'lavoro che vi rende liberi', invece della prostituzione universale già colta dal Marx dei manoscritti del '44 il rinvigorimento superegoico delle virtù morali, contro l'asocialità delle 'classi pericolose' la stretta religiosa del legame sociale. Se l'idealismo (almeno quello moderno da Leibniz a Fichte, ché con Platone la cosa va diversamente sia dal punto di vista storico-filosofico generale che da quello più specifico di Benjamin) è quella posizione di pensiero, e quindi anche e soprattutto un'etica, per la quale il possibile ha il primato sul reale, la variazione sulla monotonia, la differenziazione sull'uniformità, il materialismo invece dà spazio alla resistenza della datHà empirica, mette l'accento stilla potenza della ripetizione, riconosce senza infin6

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gimenti il do1ninio delle forze. Se, di conseguenza, l'idealismo, come giustamente sosteneva Fichte, è l'unica posizione filosofica che si coniughi legittimamente alla libertà pratica per il fatto di non riconoscere validità alcuna a ciò che è solamente positivo, dal momento che permette di modulare costantemente l'esperienza trasformando il suo 'was', cioè il suo ftùcro opaco e resistente, nel 'wie', cioè nella maniera soggettiva della sua apprensione, il materialismo al contrario sta dalla parte della necessità, è la scienza e/o l'arte dei vincoli. Sta qui la grandezza di Marx: nell'aver compreso che nella modernità la produzione e riproduzione della vita umana, emancipatesi radicalmente dal legame con la terra e con i suoi tempi 'naturali', erano ormai completamente mediate dalla relazione storico-sociale, ma non per questo avevano cessato di costituire vincolo. Se la modernità prende un abbaglio esso consiste nell'illusione che la continua traduzione della datità in idea, del concreto in astratto, del contenuto in forma, la destrutturazione generalizzata cui sono sottoposte tutte le forme di vita e il radicale scioglimento dei legami (che è quanto Marx nel Manifesto attribuisce all'opera del capitale), siano sufficienti per lasciarsi alle spalle una volta per h1tte il regno della necessità, per rendere la natura definitivamente 'preistoria'. Spetta al materialismo la decostruzione dell'apparenza della libertà: mostrare per esempio che la formalizzazione dei rapporti di scambio fra le cose non è lo specchio di armoniosi rapporti fra i soggetti, ma al contrario che a suo fondamento stanno l'asimmetria e la disparità di relazioni di dominio. Il materialismo insomma riconduce costantemente la genealogia ideale alla genesi empirica, il dominio formale a quello delle forze, le 'magnifiche sorti e progressive' della storia al passato delle epoche preistoriche. Nel capitale dispiegato vede l'ombra oscura di un'accumulazione primitiva, nello scambio misurato del mercato l'arcano della merce. Dal punto di vista del materialismo storico il capitale è quindi un evento perlomeno doppio: esso è per un lato 7

ciò che innesca un processo generalizzato di emancipazione, dall'altro l'ostacolo che vi si frappone. Come iinpaurito dai suoi stessi effetti che lasciati a se stessi lo condurrebbero all'autodissoluzione, il capitale mette un freno al suo stesso moviinento, economizza le risorse liberate, riaddomestica le passioni e i saperi resi pubblici. Ed è a questo punto che l'idealismo di cui si alimentava si trasforma in idealizzazione: la mobilità virtualizzante dell'idea si pietrifica e congela nell'iinpassibilità dell'ideale; il modello archetipico che costringe all'identificazione e ripartisce i pretendenti al riconosciinento sociale in eletti e dannati detta le regole del comportamento, rico1npatta la vita dei soggetti e la risottomette al dominio del legame sociale. Se l'idealismo dava forza al lato emancipante del capitale, quale linfa nutre al contrario quello idealizzante? Esattamente il ricorso surrettizio al passato più selvaggio e arcaico. Come per Freud il super-io ha le sue radici nell'es, così l'ideale, soprattutto se morale (e tutti gli ideali lo sono), trae la sua capacità di iinporsi agli individui, nonostante la pena e la rinuncia al desiderio che comporta, da una forza che nessuna forma è stata finora in grado di scalfire: il nocciolo duro della riproduzione della specie, il vincolo della legge naturale. Fra i compiti di una politica del materialismo storico quale Marx l'abbozza, Lenin la ripensa e Benjamin la rilancia, non stanno quindi né l'apologia del lavoro né la difesa della relazione sociale. Se lavoro e società sono nella modernità i pilastri del processo globale della produzione e riproduzione della specie, essi sono semmai da decostruire, non da rinforzare. Una politica con\unista si caratterizzerà per il tentativo di interrompere e sospendere il corso della storia e di districare o addirittura sciogliere il legame sociale. Mostrando di che stoffa e pasta sono fatti entrambi violenza, dominio e forza - essa non solo ne denuncia praticamente l'impostura, ma ripercorrendone a ritroso la genesi può ritrovare lungo le stazioni della via crucis della costruzione della civiltà umana le possibilità abortite, le 8

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vie non esplorate, i desideri che non hanno avuto storia. Confermando così l'assunto del materialismo secondo il quale autentico futuro è solo quello che proviene dal passato più lontano e diinenticato, che il vero futuro è solo il futuro anteriore. Questo è, ci sembra, il procediinento adottato da Benjamin nel suo lavoro, questa la strategia con cui legge e interpreta testi e autori canonici della modernità come Goethe e Kafka, Proust e Baudelaire, con cui ricostruisce e decostruisce insieme movimenti ctùturali come il romanticismo di Schlegel e Novalis, il teatro barocco tedesco del seicento, il surrealismo e l'espressionismo, con cui affronta e tratta forme di sapere e oggetti della riflessione filosofica come il linguaggio e l'opera d'arte, la storia e la teologia, con cui infine analizza e comprende forme di vita e regioni dell'esperienza soggettiva come la gioventù e la scienza, l'infanzia e l'eros. Al lettore benevolo e paziente la cura di verificare capitolo per capitolo quanto di questo programma sia stato effettivamente realizzato. All'autore, nel momento in nù se ne distacca e lo vede allontanarsi in mare aperto, l'estremo tentativo attraverso una dedica di assicurare a questo libro l'approdo in un porto sicuro: a Rosanna. BRUNO MORONCINI

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CAPITOLO PRIMO

LA LINGUA MUTA Benjamin, Celan e il problema della lingua

Come a poco a poco si scalda la parola fino all'incognito e al materiale GHIANNIS RtTSOS

Sempre di nuovo, ad ogni svolta del tempo, la scritti.ua è posta di fronte al compito di dare voce al muto. In una lettera a Martin Buber del luglio del 1916, Walter Benjamin, quasi esponendo il programma della sua futl.ua attività di scrittore, dichiara di poter concepire lo scrivere, in generale, soltanto come poetico, profetico e obiettivo per quel che riguarda il suo effetto (Wirkung), ma in ogni caso magico, cioè im-mediato (un-mittel) . L'effetto salvifico della scrittura, aggiunge, riposa sul mistero della parola e della lingua, e distruttivo, al contrario, è quell'uso del linguaggio che lo distorce a mera mediazione (Vermittlung) di contenuti extra-linguistici. Lo scrittore abita la lingua, non l'adopera come uno strumento, e non comunica attraverso la lingua, ma comunica (nel)la lingua, comunica l'im-medwtezza della lingua 1 • Abitare la lingua, agire (wirken) all'interno della sfera Cfr. W. BENJAMIN, Briefe, Frankfurt am Main 1966, 125-128, tr. it di A. Marietti e G. Backhaus in Id., Lettere 1913-1940, Torino 1978, pp. 23-25, d'ora in poi siglate Br. 1

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linguistica, e quindi attraverso di essa, è, per Benjamin, una lotta ed una sfida: se lo scrittore vuole dischiudere nel modo più puro la digni~ e l'essenza della lingua, egli deve combattere contro l'indicibile (Unsagbaren), deve eliminarlo. Ammettere l'indicibile e l'ineffabile all'interno della lingua è la perversione satanica dello spirito linguistico, vuol dire negare alla radice la dignità della lingua che nella sua essenza è comunicazione. L'eliminazione dell'indicibile coincide per Benjamin con quello stile di scrittura, insieme obiettivo, sobrio e spoglio, che egli vuole realizzare. Questo stile delinea la relazione che deve intercorrere fra la conoscenza (Erkenntnis) e l'azione (Tat) all'interno della magia linguistica. Il concetto di stile, scrive, che sia insieme obiettivo e altamente politico, consiste nel condurre a ciò che disdice la parola: solo dove si schiude nel suo potere indicibilmente puro la sfera del muto, del privo di parola (Wortlosen), può scoccare la scintilla magica fra la parola e l'azione motrice (bewegender Tat). La vera efficacia (Wirkung) della scrittura si ottiene soltanto spingendo intensivamente la parola dentro il nucleo del più profondo ammutolire. Non è vero che solo l'agire 'reale' ('wirkliche' Handeln) sia ciò che è più vicino al 'divino'; anche la parola, una volta che riesca a toccare la sfera del privo di parola, lo è, e di conseguenza può portare nel 'divino' attraverso se stessa e la propria purezza; se, invece, la si prende come mezzo (Mittel), allora si sviluppa in modo abnorme e parassitario. La domanda di Benjamin riguarda l'efficacia della scrittura, la sua effettualità, vale a dire la sua capacità di produne degli effetti nella realtà o, in altri termini, di provocare un movimento reale. Per essere effettuale, la scrittura non ha bisogno di rinviare ad un agire che sia ad essa esterno, all'agire cosiddetto 'reale' ('wirkliche' Handeln): essa è capace di u.n agire specifico, la cui peculiarità consiste .nel rapporto che,-la scrittura intrattiene con lo spazio che le è proprio, vale a dire lo spazio della lingua. Lo scrittore agisce nella lingua e con la lingua. Il problema

Cfr. W. BENJAM1N, Gesammelte Scl1riften, Unter Mitwirkung von Theodor W. Adorno und Gershom S