La letteratura. Giacomo Leopardi (estratti) [First ed.]

Gli interventidi Leopardi nel dibattito fra classicisti e romantici. Antologia critica dallo Zibaldone di pensieri. Anto

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La letteratura. Giacomo Leopardi (estratti) [First ed.]

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Gli interventi di Leopardi nel dibattito fra classicisti e romantici La poesia non è imitazione da Lettera in risposta a quella di Madame de Staël

Finzione e verità nella poesia da Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica

Come il poeta moderno può accostarsi alla natura da Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica

© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

La poesia non è imitazione da Lettera in risposta a quella di Madame de Staël Da Recanati, il 18 luglio 1816, Giacomo Leopardi invia ai redattori della rivista “Biblioteca italiana” una seconda lettera – la prima, datata 7 maggio 1816, non era stata né mai sarebbe stata pubblicata – in risposta alla celebre epistola, critica nei confronti dei letterati italiani, inviata in gennaio da Madame de Staël e tradotta da Pietro Giordani. Il titolo completo con cui il testo di Leopardi compare nell’edizione delle sue opere è: Lettera ai sigg. compilatori della Biblioteca italiana in risposta a quella di Mad. la Baronessa di Staël Holstein ai medesimi. Come la precedente lettera, neppure questa sarà mai pubblicata. Gli argomenti principali trattati dal giovane Leopardi nel suo testo, che inizia e si sviluppa polemizzando con le tesi della de Staël, sono di estrema originalità e interesse. Vertono, infatti, sulla difesa della grande letteratura classica e italiana, sull’idea secondo cui è contraddittorio – da parte della de Staël – criticare gli scrittori italiani perché imitano i classici e, nel contempo, esortarli a imitare gli autori nordici della nuova tendenza romantica europea. Il ragionamento di Leopardi si incentra poi su una concezione della grandezza del poeta che si distingue sia dalle tesi classiciste sia da quelle del nascente Romanticismo ossianico, in quanto esclude ogni imitazione, e, infine, si conclude con una rivendicazione della supremazia artistica e letteraria italiana in Europa. Altri temi patriottici non interessano il giovane Leopardi, come egli scrive esplicitamente nelle ultime righe: l’Italia è grande per l’ingegno e perché è erede dell’arte greca e latina.

PISTE DI LETTURA

L’opposizione sia alle tesi della de Staël sia a ogni poetica dell’imitazione La concezione della poesia e l’esaltazione della grandezza della letteratura classica e italiana Uno stile talora ironico e polemico, talora lucidamente argomentativo Recanati 18 Luglio 1816

Signori, Voi avete promesso ove qualche Italiano voglia fornirvi una risposta alla nuova lettera della Baronessa di Staël che è nel num. 6 della vostra Biblioteca, di riceverla con gratitudine e di pubblicarla fedelmente1. Una lettera, già due mesi io vi ho fatto tenere che non vi è paruto bene di far pubblica2, e di che io rispettando il vostro tacito giudizio mi astengo dal mentovare il suggetto. Se anco questa vi piacerà di tener nascosta, ciò sarammi segno che non sapete che fare delle cose mie3, né io vorrò lagnarmene, che sarebbe stoltizia, ma ristarò di noiarvi colle mie baie, che tali dovrò riputare i miei scritterelli; e di ciò voi ed io, spero, saremo lieti. Vedrete che questa non è lettera da insuperbirne. Un esordio ironico Io dunque non taccio il mio nome perché la illustre Dama4 non asconde il suo, ed egli mi par non sia cosa da uomo magnanimo quel combattere sempre a visiera calata. Se trascorrerò in detti ingiuriosi e disconvenevoli, non il Pubblico ma la mia coscienza avrò da temere; se in ispropositi, per questo appunto non si crederà che da matto orgoglio sia stato indotto a nominarmi. Ad ogni modo agevol cosa vi sarà toglier via il mio nome, ove abbiate contrario pensiero. 1. Voi avete promesso... fedelmente: lo stesso direttore della “Biblioteca italiana”, Giovanni Acerbi, in una nota apparsa sulla rivista, aveva invitato i lettori a rispondere alla lettera di Madame de Staël, impegnandosi a pubblicare i testi che sarebbero pervenuti: Noi siamo ben lontani dal credere che la lettera di mad. di Staël non ammetta risposta. Speriamo anzi che qualche Italiano ce ne vorrà fornire qualcuna, e noi la riceveremo con gratitudine, e fedelmente la riporteremo (da “Biblioteca italiana”, tomo II, pag. 417). La celebre lettera di Madame de Staël, intitolata Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, era stata pubblicata nel mese di gennaio. 2. Una lettera... pubblica: Leopardi allude alla propria precedente lettera, da lui inviata in data 7 maggio 1816 alla “Biblioteca italiana” e che mai sarebbe stata pubblicata. Il

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poeta stesso annota con amara ironia in una postilla in calce all’autografo napoletano della lettera stessa: Questa lettera fu in effetto consegnata al Sig. Direttore Acerbi che forse avralla smarrita. 3. che non sapete... mie: che quanto io vi scrivo non vi interessa affatto. Leopardi, nelle righe successive, dichiara poi che se anche la seconda lettera non sarà pubblicata, non disturberà più con le proprie insignificanti sciocchezze (baie; ma l’espressione è usata ironicamente, come il successivo termine scritterelli) i redattori (compilatori) della rivista. Ed è appunto ciò che si verificherà. 4. la illustre Dama: Madame de Staël. L’espressione non è esente da ironia, come molti altri successivi riferimenti alla scrittrice.

GLI INTERVENTI DI LEOPARDI NEL DIBATTITO FRA CLASSICISTI E ROMANTICI

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La polemica con la de Staël

I grandi letterati sono italiani

Forseché alcuno mi avrà prevenuto, e perché di certo avrà fatto meglio che non farò io, dovrò rallegrarmene sinceramente5. Io risi molto, e credo che Madama avrà riso del pari, ed altro che ridere non può farsi, in udire il gran romore che menano i fanatici per vergogna d’Italia, accagionando la Dama di preoccupazione contro la patria nostra, solito e facile rimbrotto da gittare in faccia a qualunque avversario per chi non usa né vuole né sa altro che fare strepito. Ancor più risi quando in certe note piccanti vidi mettere in beffe quel detto di Madama: Niuno vorrà in Italia per lo innanzi tradurre la Iliade; poiché Omero non si potrà spogliare dell’abbigliamento onde il Monti lo rivestì6: quasi fosse da apporle a delitto l’aver creduto che Italia dopo esser giunta al sommo di una cosa sapesse fermarsi, né volesse dispogliare al primo Classico antico la veste che sola se gli confà: e davvero Madama in crederlo ha avuto il torto. Non risi però quando vidi che un Italiano col tuono dell’uomo da senno nella lettera a voi indiritta, e pubblicata nel num. 4 della Biblioteca, venìa provando qualche sua opinione diversa da alcune di Madama, e per dirla schiettamente trovai che io pensava com’egli7. Madama che come denno fare tutti che hanno gl’intelletti sani8, non ha degnato rispondere alle frasche con che molti hanno creduto perseguitarla, ha replicato a quell’articolo, e sopra la lettera che ha scritta a questo fine ho divisato di ragionare. Che conoscere non porti seco necessità d’imitare è proposizione che benché paia vera così a prima giunta, esaminata con maturità di riflessione potrebbe non parer tale in tutta la sua ampiezza. Ma di ciò poi. Ben parmi certo che ogni scrittore drammatico Italiano possa conoscere, e considerare, e notomizzare diligentemente le tragedie e le commedie francesi senza vederle rappresentate in teatro; e che in Italia non ne manchino lettori e traduzioni, e che ogni meschino letterato italiano abbia tanto capitale di lingua francese da potere ove il voglia, trarre dalle tragedie e dalle commedie francesi quante idee gli piaccia, e che volere rappresentar quelle ne’ nostri teatri in luogo delle Italiane, sarebbe metterci a rischio di non aver più teatro proprio, e che Madama dicendo che non per questo bisogna ignorare le produzioni straniere di tal genere, non abbia risposto alla obbiezione, e che però il consiglio dato a noi di volgerci al teatro francese sia per lo meno inutile. Se gli scienziati italiani s’istruiscono con diligenza dello stato delle scienze loro presso gli stranieri, questo è perché le scienze, possono fare, e fanno progressi tutto giorno dove che la letteratura non può farne, cosa che l’Italiano autore della lettera a voi indiritta ha dopo infiniti altri dimostrato egregiamente, e a cui non so per qual ragione la illustre Dama abbia fatto vista di non badare. Non è un sacro orrore che c’impedisce di por soverchia cura in istudiare le lettere straniere ma una sacrosanta ragione di che non una sola volta han favellato gl’Italiani, e che ripeterò appresso ancor io. Gli scienziati italiani, dice Madama, hanno una riputazione universale, ma i letterati, tranne alcuni pochi non sono niente più conosciuti dall’Europa di quello ch’essi braman conoscerla. Se Europa non conosce Parini, Alfieri , Monti, Botta, la colpa non parmi d’Italia9.

5. Ad ogni modo... sinceramente: anche nei confronti dei compilatori della rivista, sotto una patina di apparente umiltà, il tono usato dal giovane Leopardi si rivela qui e altrove fortemente ironico, se non sarcastico. 6. Niuno... rivestì: l’espressione – come altri brani successivamente riportati nella lettera – è diretta citazione da Madame de Staël. Nel passo – pubblicato sulla “Biblioteca italiana” nella traduzione di Pietro Giordani – l’autrice sostiene che nell’Italia dominata dalla poetica classicista nessuno avrebbe sostituito con nuove traduzioni dell’Iliade quella del caposcuola del classicismo, Vincenzo Monti. Leopardi ritiene ridicola tale ipotesi. 7. Non risi... com’egli: l’intervento cui allude il giovane Leopardi è un pacato scritto di Pietro Giordani (17741848), con il quale il giovane recanatese concorda. Giordani, in seguito, avrebbe avuto grande importanza © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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nella formazione e nella vita stessa di Leopardi. Per le posizioni assunte nella “Biblioteca italiana”, insieme a Vincenzo Monti, sarebbe stato allontanato dalla rivista da parte del direttore, Giuseppe Acerbi. 8. gl’intelletti sani: l’espressione è una citazione dantesca (Inferno, IX, 61), che contribuisce ad accentuare il tono ironico di questa parte della lettera. 9. Se gli scienziati italiani... Italia: alla critica della de Staël nei confronti dei letterati italiani che, a differenza degli scienziati, non si ispirano alle letterature europee avviate alla nuova tendenza romantica, Leopardi replica vantando la grandezza della letteratura italiana, che costituisce una sua peculiarità rispetto al resto dell’Europa. A supporto di tali argomenti, in una nota apposta accanto al nome di Vittorio Alfieri, Leopardi aggiunge la seguente postilla sarcastica nei confronti della bassa qualità delle traduzioni

GLI INTERVENTI DI LEOPARDI NEL DIBATTITO FRA CLASSICISTI E ROMANTICI

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Oggetti delle idee e loro uso

La poesia e l’imitazione

Se poi gli stranieri non conoscono i nostri piccoli letterati, e né manco noi conosciamo i loro, e i Francesi non conoscono quelli d’Inghilterra né gl’Inglesi quelli di Germania, e già si sa che ad acquistar fama presso le altre nazioni vuolsi 65 grandezza d’ingegno, onde qui non veggo luogo a meraviglie. Già vengo di proposito al suggetto della nuova lettera di Madama, ed è: che gl’Italiani denno spesso rivolgere l’attenzione ad oltremonte e ad oltremare, e porre opera diligentissima a conoscere la Letteratura degli stranieri: cosa che al dotto Italiano non era saputa buona. Ora Madama viene fra le altre cose osservando che Dante ebbe una erudizione immensa per la età in cui visse, e che 70 da Omero fino ai dì nostri i Poeti si sono sempre adoperati a raccogliere lumi sopra quest’Universo cui aveano a celebrare: con argomentarne che un uomo di genio prestante non trascurerebbe studio il qual valesse a somministrargli una idea di più. E qui non vorrà, io spero, tenersi offesa la celebre Dama, se dirò parermi che 75 ella confonda gli oggetti delle idee, coll’uso che se ne fa. Che il poeta debba saper di Storia, di Geografia, di Metafisica, di Morale, di Teologia, non pure il concedo agevolmente, ma anco espressamente lo affermo. Che però gli faccia mestieri conoscere i gusti di tutti i popoli, e le maniere tutte con che si mettono in uso le idee Storiche, Fisiche, Metafisiche, Teologiche negolo risolutamente10. 80 Gran rischio, dice Madama, corre la letteratura italiana di essere inondata da idee, e frasi comuni; bisogna guardarsi dalla sterilità che debbe seguirne. E se le menti italiane son fredde, crediamo noi che il settentrione possa riscaldarle? Non poca lettura, ma scarsa vaghezza di mettere a frutto l’ingegno proprio ne fa poveri di grandi poeti, e di spiriti creatori. Io non veggo come si possa essere 85 originale attingendo, e come un largo studio d’ogni gusto e d’ogni letteratura, abbia a menarne ad una originalità trascendente. Forse che quanto si è più ricco di suppellettile poetica, tanto si è più atto a crear cose grandi? né sapranno gl’Italiani crear altro che materia già creata? Scintilla celeste, e impulso soprumano vuolsi a fare un sommo poeta, non stu- 90 dio di autori, e disaminamento di gusti stranieri11. O noi sentiamo l’ardore di quella divina scintilla, e la forza di quel vivissimo impulso, o non lo sentiamo. Se sì, un soverchio studio delle letterature straniere non può servire ad altro che ad impedirci di pensare, e di creare di per noi stessi: se no, tutti scrittori del mondo non ci faranno poeti in dispetto della natura. Ricordiamoci (e parmi 95 dovessimo pensarvi sempre) che il più grande di tutti i poeti è il più antico, il quale non ha avuto modelli12, che Dante sarà sempre imitato, agguagliato non mai, e che noi non abbiamo mai potuto pareggiare gli antichi (se v’ha chi tenga il contrario getti questa lettera che è di un mero pedante) perché essi quando voleano descrivere il cielo, il mare, le campagne, si metteano ad osservarle, e 100 noi pigliamo in mano un poeta, e quando voleano ritrarre una passione s’immaginavano di sentirla, e noi ci facciamo a leggere una tragedia, e quando voleano parlare dell’universo vi pensavano sopra, e noi pensiamo sopra il modo

inglesi e francesi delle opere alfieriane, per evidenziare il fatto che i letterati europei non valutano gli artisti italiani quanto meriterebbero: Le tragedie d’Alfieri voltate in inglese sono state di fresco stampate in Londra per lo Lloyd. Le sono pure state recate in francese e pubblicate già qualche tempo con riflessioni su cadauna tragedia da C. B. Petitot, Dio sa come, ché io non ho letta questa traduzione, ma la ci farà pur vedere in Alfieri un eccellente scrittor di spirito (dunque un umorista, anziché un tragediografo quale è). E, subito dopo: Non sanno gli stranieri altro che domandarne quali sono di presente i nostri grandi uomini. Carissimi stranieri, degli uomini grandi ha dovizia fra voi come de’ piccoli? E’ si credeva un tempo che dappertutto ne fosse carestia, e che un secolo il quale avesse un solo uomo veramente grande, non fosse povero. Nominate di grazia un uomo de’ vostri che possa stare a petto a Canova; citate un numero d’ingegni superiori uguale a quello che può ora citare l’Italia.

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10. Che però gli faccia mestieri... risolutamente: Leopardi concorda con la de Staël sul fatto che il poeta deve avere una ricca cultura, ma nega però (negolo risolutamente) che debba possedere anche una conoscenza dei gusti e delle abitudini di tutti i popoli. 11. Scintilla... stranieri: l’argomentazione leopardiana è originale e non rientra in ambito classicista né romantico. Egli afferma, infatti, che il grande poeta non si forma imitando altri autori o ispirandosi a gusti stranieri: è perciò sottinteso che egli non deve imitare neppure quegli autori che, come i nuovi poeti romantici europei, criticano l’imitazione classicistica. 12. il più grande di tutti i poeti... modelli: Leopardi allude a Omero. L’argomentazione secondo cui i grandi poeti dell’età classica non sono imitatori di altri poeti è sostenuta da autori romantici italiani – ad esempio, Giovanni Berchet – in polemica con i letterati classicisti.

GLI INTERVENTI DI LEOPARDI NEL DIBATTITO FRA CLASSICISTI E ROMANTICI

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Il rapporto con gli scrittori europei

L’importanza della lettura...

…dei classici e dei grandi italiani

in che essi ne hanno parlato; e questo perché essi e imprimamente i Greci non aveano modelli, o non ne faceano uso, e noi non pure ne abbiamo, e ce ne gioviamo, ma non sappiamo farne mai senza, onde quasi tutti gli scritti nostri sono copie di altre copie, ed ecco perché sì pochi sono gli scrittori originali, ed ecco perché c’inonda una piena d’idee e di frasi comuni, ed ecco perché il nostro terreno è fatto sterile e non produce più nulla di nuovo13. Ebbene date dunque agl’Italiani altri modelli, fate che leggano gli autori stranieri: questo è mezzo certo per aver novità e cacciare in bando il rancidume. Vanissimo consiglio! Apriamo tutti i canali della letteratura straniera, facciamo sgorgare ne’ nostri campi tutte le acque del settentrione, Italia in un baleno ne sarà dilagata, tutti i poetuzzi Italiani correranno in frotta a berne, e a diguazzarvi, e se n’empieranno sino alla gola (poiché pur troppo ne sono essi andati sempre ghiottissimi, tuttoché Mad. recando l’esempio del Sig. Leoni intenda provare l’opposito) si aumenterà del doppio il vocabolario delle nostre frasi e delle nostre idee; e dopo dieci anni tutte le frasi e tutte le idee aggiunte diverranno viete e comuni; e noi torneremo là onde eravamo partiti, o più veramente c’inoltreremo buon tratto verso il pessimo. Questo rimedio è come una dose d’oppio che differisce il dolore e ne lascia la cagione. Vuolsi andare alla radice e gridare agl’Italiani: create né vogliate curarvi di legger tutto, e se non sapete creare né vi sentite accesi da quel divino fuoco che è puro dono d’Apollo fate quel che più vi aggrada che già non è da sperar nulla da voi. Ma farà dunque mestieri non legger più; e dei veri Poeti quello sarà più grande che avrà letto meno?14 Nello stato in che il mondo si trova di presente, non si può scrivere senza aver letto, e quello che era possibile ai giorni d’Omero è impossibile ai nostri. Leggiamo e consideriamo e ruminiamo lungamente e maturamente gli scritti dei Greci maestri e dei Latini e degl’Italiani che han bellezze da bastare ad alimentarci per lo spazio di tre vite se ne avessimo. O Italiani che vi pensate di aver tanto bevuto a queste fonti che le siano già secche, dite qual è il vostro Omero, quale il vostro Anacreonte, quale il vostro Cicerone, quale il vostro Livio15. Ove già aveste agguagliati questi altissimi ingegni, vorrei perdonarvi se diceste: siamo giunti al fine di questa strada, andiamo a cercarne altre: avvengaché allor pure sarebbe da gente di poco senno parlar così, poiché se aveste aggiunto Omero, dovreste pensare ad avanzarlo, e non cercare altre strade per restare inferiori ad altri modelli: ma mentre tanto cammino vi rimane a fare per questo sentiero, volere entrare in altri è consiglio da mentecatti. Leggete i Greci, i Latini, gl’Italiani, e lasciate da banda gli scrittori del Nord, e ove pure vogliate leggerli, se è possibile non gl’imitate, e se anco volete imitarli, non aprite più mai, ve ne scongiuro per le nove Sorelle, Omero Virgilio e Tasso né vogliate innestare nei lor celesti Poemi Fingallo e Temora16, con far mostri più ridicoli de’ Satiri, più osceni delle Arpie. Non vo’ già dir io che sia necessario ignorare affatto quello che pensano e creano gl’Ingegni stranieri, ma temo assaissimo la soverchia imitazione alla quale Italia piega tanto, che parmi faccia d’uopo a levarle il mal vezzo usar maniere che sentano dell’eccessivo. Conoscere non porta seco assoluta necessità d’imitare, ma se non costringe, muove, e giunge a tanto da rendere il non imitare

13. non produce più nulla di nuovo: annota qui Leopardi: Spedita la lettera, leggendo la Epistola del Pindemonte ad Apollo mi avvenni con gioia a pensieri che mi parver simili ai miei. Pregherei di cuore i lettori, a dare un’occhiata a quella Epistola, se non credessi la preghiera inutile. Niuno aspetti che io citi il Trattato della Composizione Originale di Young. Altri che io lo vanterà. Ippolito Pindemonte, cui Foscolo si rivolge nel carme Dei Sepolcri, è un importante scrittore italiano, vissuto fra il Settecento e l’Ottocento; Edward Young (1683-1765) è un caposcuola della poesia sepolcrale preromantica nordica e Leopardi afferma che altri, non lui, ne loderanno la poetica (altri che io lo vanterà). 14. Ma farà dunque... meno?: con un’interrogativa retorica © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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a sottintesa risposta negativa, Leopardi nega qui l’irrilevanza delle letture nella formazione del poeta. Il giovane scrittore ribadisce però che la lettura degli autori classici e dei grandi della letteratura italiana è molto più importante e formativa di quella degli scrittori europei e nordici. 15. quale il vostro... Livio: Anacreonte è un poeta lirico dell’antica Grecia; Cicerone e Livio sono prosatori latini. 16. Fingallo e Temora: versione italianizzata dei nomi di personaggi dei Canti di Ossian, con i quali la tendenza romantica europea aveva cominciato ad affermarsi nella sua forma più estrema: quella nordica. Tali personaggi e opere sono ritenuti di secondaria importanza da Leopardi, come egli chiarisce più avanti.

GLI INTERVENTI DI LEOPARDI NEL DIBATTITO FRA CLASSICISTI E ROMANTICI

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L’utilizzo dei poemi ossianici

Il patriottismo letterario

poco men che impossibile, ond’è che Metastasio non volle mai leggere tragedie francesi. E che sia difficilissimo schifare la imitazione di quel che si è letto e ponderato diligentemente, è cosa di che ogni letterato, io penso, per poco, che abbia scritto, può citare in fede la propria sperienza. Nutriamoci d’Ossian e d’altri poeti settentrionali, e poi scriviamo se siam da tanto, come più ci va a grado senza usare le loro immagini e le loro frasi. Forse Madama non sarebbe malcontenta di questo effetto, ma molti Italiani i quali assai frequentemente trovano in quegli scrittori esagerazioni ed immagini gigantesche, ed assai radamente la vera castissima santissima leggiadrissima natura, ne avrebbon grande increscimento. Se mi è lecito, dirò ad esempio di Madama, parlare un momento di me, io come Talete17 ringraziava il Cielo per averlo fatto Greco, ringraziolo di cuore per avermi fatto Italiano, né vorrei dar la mia patria per un Regno, e ciò non per il potere d’Italia che niuno ne ha, né per il suo bel clima di cui poco mi cale né per le sue belle città di cui mi cale ancor meno, ma per lo ingegno degli Italiani, e per la maniera della italiana letteratura che è di tutte le letterature del mondo la più affine alla greca e latina, cioè a dire (parlo secondo la mia opinione, ed altri segua pure la sua) alla sola vera, perché la sola naturale, e in tutto vota d’affettazione18. Spero che queste poche righe non ispiaceranno alla preclarissima Baronessa la qual vedrà agevolmente che amor di patria, non di fazione, ed intimo convincimento, mi han mosso a scrivere, perché più presto sarò ripreso dagl’Italiani che da Lei, di cui tutto ho in somma riverenza salvo la opinione. Sono con grandissima e non mentita stima Il vostro Umil.mo Obbed.mo Servo Giacomo Leopardi.

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da Tutte le opere, I, a cura di W. Binni, Sansoni, Firenze, 1969

17. Talete: filosofo dell’antica Grecia. 18. né vorrei... affettazione: il patriottismo che Leopardi si attribuisce riguarda solo l’ingegno artistico italiano e la maniera della italiana letteratura, che egli ritiene la migliore

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perché più vicina alle letterature classiche; tale patriottismo non riguarda altri aspetti, verso i quali egli si dichiara indifferente.

GLI INTERVENTI DI LEOPARDI NEL DIBATTITO FRA CLASSICISTI E ROMANTICI

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Finzione e verità nella poesia da Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica Fra il gennaio e l’agosto del 1818 (la datazione è rilevabile dalla lettera del 31 agosto a Pietro Giordani) Leopardi approfondisce la sua riflessione filosofica e poetica scrivendo il Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, polemica risposta alle tesi esposte da Ludovico di Breme sulla rivista “Spettatore italiano”. Nell’ampio testo Leopardi sottolinea in particolare l’opposizione tra i concetti di “natura” e “ragione”, cui corrisponde l’antitesi fra antichità e fanciullezza e moderna degenerata età razionale. In arte, tale polarità si traduce nella distinzione fra la poesia classica antica – fondata sul rapporto diretto con la natura e sulle favole greche ammirate dal giovane scrittore – e la tendenza del Romanticismo (cui appartiene Ludovico di Breme), che predilige un’arte ispirata al mondo moderno, moralmente decaduto, o a culture europee lontane dalla classicità. Leopardi, nello stralcio qui proposto, afferma che l’opposizione alle favole greche e l’ammirazione romantica per la verità nell’arte, sostenute da di Breme, distruggono la poesia, trasformandola in arida esposizione razionale. Il poeta deve invece creare finzioni (inganni) perché la sua arte deve illudere, ispirandosi alla natura. Il “Discorso” di Leopardi fu pubblicato solo postumo.

PISTE DI LETTURA

La polemica con le tesi romantiche di Ludovico di Breme La difesa di una poesia dell’illusione, della finzione e dell’inganno immaginativo e fantastico Le ragioni della superiorità dell’arte e del mondo classico antico rispetto al mondo e alla poesia moderna

La poesia dei sensi e dell’intelletto La tesi anticlassicista di Ludovico di Breme

La poesia è finzione e non verità

Le strane e pazze opinioni romantiche

Già è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di sviare il più che possono la poesia dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà finattantochè sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto, e strascinarla dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale1. Dice il Cavaliere2 che la smania poetica degli antichi veniva soprattutto dall’ignoranza, per la quale maravigliandosi balordamente3 d’ogni cosa, e credendo di vedere a ogni tratto qualche miracolo, pigliarono argomento di poesia da qualunque accidente, e immaginarono un’infinità di forze soprannaturali e di sogni e di larve4: e soggiunge che presentemente, avendo gli uomini considerate e imparate, e intendendo e conoscendo e distinguendo tante cose, ed essendo persuasi e certi di tante verità, nelle facoltà loro non sono, dic’egli co’ suoi termini d’arte, compatibili insieme e contemporanei questi due effetti, l’intuizione logica e il prestigio favoloso: smagata è dunque di questa immaginazione la mente dell’uomo. Ora da queste cose, chi voglia discorrer bene e da logico, segue necessarissimamente che la poesia non potendo più ingannare gli uomini, non deve più fingere né mentire, ma bisogna che sempre vada dietro alla ragione e alla verità5. E notate, o lettori, sul bel principio quell’apertissima e famosa contraddizione. Imperocché i romantici i quali s’accorgevano ottimamente che tolta alla poesia già conciata com’essi l’avevano, anche la facoltà di fingere e di mentire, la poesia finalmente né più né meno sarebbe sparita, e di netto si sarebbe immedesi-

1. Già è cosa manifesta... spirituale: è questa una critica fondamentale che Leopardi muove a Ludovico di Breme e ai romantici, italiani in particolare. Essa riguarda il carattere razionalistico, metafisico e spiritualistico attribuito alla loro arte. Secondo Leopardi la poesia deve invece basarsi sui sensi (l’importanza che il giovane poeta attribuisce loro in questa fase risale alla sua adesione al Sensismo illuministico); deve inoltre fondarsi sul rapporto con la natura e sulla finzione, non sulla ragione. 2. il Cavaliere: Ludovico di Breme (1780-1820). Il Discorso leopardiano è concepito come risposta al testo di Ludovico di Breme, scrittore legato al “Conciliatore”. 3. balordamente: l’avverbio – come altri passi del Discorso © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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leopardiano – è in corsivo in quanto il poeta recanatese lo riprende direttamente dal testo di Ludovico di Breme, polemico nei confronti dei classici e dei classicisti, la cui smania poetica viene attribuita dal Cavaliere alla loro ignoranza. 4. larve: esseri fantastici, creati dall’immaginazione. 5. Ora da queste cose... verità: Leopardi espone qui una convinzione che ha già precedentemente sostenuto nel Discorso e che riprenderà con dovizia di argomentazioni: è grave errore sostenere che la poesia debba identificarsi con ragione e verità (concezione che sul piano logico Leopardi ritiene sottintesa nelle tesi esposte da Ludovico di Breme). L’arte poetica è invece finzione e deve mentire, ingannare i lettori a livello fantastico, illudendoli per dare loro diletto.

GLI INTERVENTI DI LEOPARDI NEL DIBATTITO FRA CLASSICISTI E ROMANTICI

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La superiorità delle favole greche

Il Cavaliere si contraddice

Falso intellettuale e falso fantastico Il fantastico moderno

A proposito dei lettori

mata e diventata tutt’uno colla metafisica, e risoluta in un complesso di meditazioni, non che abbiano soggettata pienamente la poesia alla ragione e alla verità, sono andati in cerca fra la gentaglia presente di ciascheduna classe, e specialmente fra il popolaccio, di quelle più strane e pazze e ridicole e vili e superstiziose opinioni e novelle che si potevano trovare, e di queste hanno fatto materia di poesia6; e quello ch’è più mirabile, intantoché maledicevano l’uso delle favole greche, hanno inzeppate ne’ versi loro quante favole turche arabe persiane indiane scandinave celtiche hanno voluto, quasi che l’intuizione logica che col prestigio favoloso della Grecia non può stare, con quello dell’oriente e del settentrione potesse stare. Ma di questa incredibile contraddizione d’aver fatto tesoro delle favole orientali e settentrionali dopo scartate le favole greche come ripugnanti ai costumi e alle credenze e al sapere dell’età nostra, parlerò più avanti a suo luogo. Ora tornando al Cavaliere, seguita egli dicendo immediatamente che la facoltà immaginativa è sostanzialissima nell’uomo, di maniera che non può svanire né scemare, ma per l’opposto arde oggi come sempre [...]. Ed ecco come anch’egli concede che la poesia debba ingannare, la qual cosa poi asserisce e conferma risolutamente in cento altri luoghi delle sue osservazioni. A me pare di scorgere molto chiaramente che il Cavaliere medesimo arrivato a questo passo vide che il suo ragionamento si piegava, e la punta si disviava, e s’io non erro, quelle parole perfino e del tutto sono la saldatura ch’egli ci volle fare, come tutto giorno si fa, dopo che quello, torcendosegli fra le mani, se gli fu rotto7. Ma questa saldatura è veramente di parole, perché dalle cose precedenti seguita che la poesia non possa né debba ingannare, e se ella può e deve ingannare, tutti i raziocini susseguenti del Cavaliere e dei romantici, non avendo dove posino, è forza che caschino a terra. Imperocché non c’è chi non sappia che bisogna distinguere due diversi inganni; l’uno chiameremo intellettuale, l’altro fantastico8. Intellettuale è quello per esempio d’un filosofo che vi persuada il falso. Fantastico è quello delle arti belle e della poesia a’ giorni nostri; giacché non è più quel tempo che la gente si guadagnava il vitto cantando per le borgate e pe’ chiassuoli i versi d’Omero, e che tutta la Grecia raunata e seduta in Olimpia ascoltava e ammirava le storie d’Erodoto più soavi del mele, onde poi nel vederlo, l’uno diceva all’altro, mostrandolo a dito: Questi è quegli che ha scritte le guerre di Persia, e lodate le vittorie nostre9: ma oggi i lettori o uditori del poeta non sono altro che persone dirozzate e, qual più qual meno, intelligenti: vero è ch’il poeta in certo modo deve far conto di scrivere pel volgo; se bene i romantici pare che vengano a volere per lo contrario ch’egli scriva pel volgo e faccia conto di scrivere per gl’intelligenti, le quali due cose sono contraddittorie, ma quelle che ho detto io, non sono; perché la fantasia degl’intelligenti può bene, massime leggendo poesie e volendo essere ingannata, quasi discendere e mettersi a paro di quella degl’idioti10, laddove la fantasia degl’idioti non può salire e mettersi a paro di quella degl’intelligenti.

6. E notate, o lettori... materia di poesia: secondo quanto qui afferma Leopardi, Ludovico di Breme e i romantici, essendosi accorti che, ridotta a ragione e verità, la poesia sarebbe morta (sparita) trasformandosi in meditazione filosofica, hanno pensato di rimediare a ciò introducendo nella poesia stessa strane e pazze e ridicole e vili e superstiziose opinioni e novelle, tratte dalla gentaglia di ogni classe sociale e soprattutto dal popolaccio. Leopardi polemizza qui duramente sia con lo spiritualismo metafisico sia con l’ispirazione alle credenze e tradizioni popolari, entrambe concezioni proprie dei romantici. 7. Ora tornando... rotto: di Breme, in un passo che Leopardi cita e che qui non riportiamo, ammette che il poeta non può dire solo verità e che deve ingannare in quanto non avverrà mai che la facoltà immaginativa [...] nell’uomo non soggiaccia alle illusioni. Tale tesi, secondo

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Leopardi, è in contraddizione con quanto di Breme aveva precedentemente affermato. Il giovane ritiene che la teoria prima sostenuta da di Breme era così assurda che il Cavaliere stesso ha dovuto almeno in parte abbandonarla, cadendo in contraddizione. 8. l’uno... fantastico: la distinzione fra inganno intellettuale e inganno fantastico è un altro cardine di questo passo e dell’intero Discorso leopardiano. L’inganno – o finzione – della poesia moderna è fantastico, in quanto nasce nell’immaginazione del poeta e si rivolge all’immaginazione del lettore. 9. Questi è... vittorie nostre: così scrive Luciano di Samosata (nato attorno al 120 d.C.), antico scrittore greco, all’inizio del suo Erodoto. 10. degl’idioti: delle persone incolte.

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L’inganno poetico dell’immaginativa...

…non verte sui costumi moderni

Le finzioni poetiche sono molto diverse fra loro

L’ufficio e il fine della poesia

Ora di questi che ho detto essere i lettori o uditori del poeta, l’intelletto non può essere ingannato dalla poesia, ben può essere ed è ingannata molte volte l’immaginativa11. Il Cavaliere dunque e col Cavaliere i romantici, quando gridano che il poeta nel fingere s’adatti ai costumi e alle opinioni nostre e alle verità conosciute presentemente, non guardano che il poeta non inganna gl’intelletti né gl’ingannò mai, se non per avventura in quei tempi antichissimi che ho detto di sopra, ma solamente le fantasie; non guardano che sapendo noi così tosto come, aperto un libro, lo vediamo scritto in versi, che quel libro è pieno di menzogne, e desiderando e proccurando quando leggiamo poesie, d’essere ingannati e nel metterci a leggere preparando e componendo quasi senz’avvedercene la fantasia a ricevere e accogliere l’illusione12, è ridicolo a dire che il poeta non la possa illudere quando non s’attenga alle opinioni e ai costumi nostri, quasi che noi non le dessimo licenza di lasciarsi ingannare più che tanto, e che ella non avesse forza di scordarsi né il poeta di farle scordare e opinioni e consuetudini e checchessia, non guardano che l’intelletto in mezzo al delirio dell’immaginativa conosce benissimo ch’ella vaneggia, e onninamente e sempre tanto crede al meno falso quanto al più falso, tanto agli Angeli del Milton e alle sostanze allegoriche del Voltaire quanto agli Dei d’Omero, tanto agli spettri del Bürger e alle befane del Southey quanto all’inferno di Virgilio, tanto che un Angelo collo scudo celeste di lucidissimo diamante abbia difeso Raimondo, quanto che Apollo coll’egida irsuta e fimbriata abbia preceduto Ettore nella battaglia13. In somma tutto sta, come ho detto da principio, se la poesia debba illudere o no; se deve, com’è chiaro che deve, e come i romantici affermano spontaneamente14, tutto il resto non è altro che parole e sofisticherie e volerci far credere a forza d’argomenti quello che noi sappiamo che non è vero; perché in fatti sappiamo che il poeta sì come per cristiano e filosofo e moderno che sia in ogni cosa, non c’ingannerà mai l’intelletto, così per pagano e idiota e antico che si mostri, c’ingannerà l’immaginazione ogni volta che fingerà da vero poeta15. Resta perciò che questi potendo illudere come vuole, scelga dentro i confini del verisimile quelle migliori illusioni che gli pare, e quelle più grate a noi e meglio accomodate all’ufficio della poesia, ch’è imitar la natura, e al fine, ch’è dilettare16.

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da Tutte le opere, I, a cura di W. Binni, Sansoni, Firenze, 1969 11. Ora di questi... immaginativa: l’inganno della poesia nei confronti dei lettori riguarda l’immaginazione, non l’intelletto. 12. aperto un libro... illusione: il lettore di poesia, secondo Leopardi, si attende di essere ingannato – a livello fantastico – e, iniziando una lettura, si prepara ad essere illuso da essa, così da distaccarsi dalla dolorosa realtà del mondo moderno. Da ciò – chiarirà poi Leopardi – deriva il suo piacere (diletto). 13. l’intelletto... battaglia: mentre legge una poesia, l’intelletto sospende le proprie facoltà critiche e accetta qualsiasi finzione proposta dal poeta. Tali finzioni, più o meno false, sono molto diverse fra loro. Gli esempi cui Leopardi accenna riguardano molti scrittori. Gli autori citati sono John Milton (1608-1674), che nel suo poema Paradiso perduto fonda la finzione poetica sull’esistenza degli angeli; Voltaire (1694-1778), che nei suoi romanzi filosofici basa la finzione su eventi – spesso fantastici – che hanno anche un significato allegorico; Omero, che nei suoi poemi fa intervenire gli dèi nella vicenda narrata; Gottfried August Bürger (17471794), poeta preromantico tedesco, nei cui poemi appaiono anche creature fantastiche e fantasmatiche (spettri); Robert Southey (1774-1843), scrittore romantico inglese ancora vivente mentre Leopardi scrive il Discorso, nelle cui liriche appaiono figure religiose e fantastiche (befane qui significa “epifanie, apparizioni”); Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), maestro della poesia latina, che nell’Eneide narra la discesa nell’Ade (inferno) del protagonista. L’accenno alla difesa di Raimondo di Tolosa da parte di un angelo si riferisce alla Gerusalemme liberata (Canto VII, LXXXII, 2) di © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Torquato Tasso (1544-1595); l’allusione all’intervento in battaglia di Apollo con la terrificante egida (lo scudo di Giove) è tratta dall’Iliade (Libro XV), qui citata nella traduzione del classicista Vincenzo Monti (1754-1828). L’ampio ventaglio degli esempi addotti da Leopardi intende dimostrare che le belle finzioni poetiche presentano caratteristiche assai varie, a differenza di quanto aveva sostenuto Ludovico di Breme, che nel suo intervento, quando ammetteva le finzioni immaginative, lodava solo quelle moderne. 14. spontaneamente: senza riflettere, dunque senza rendersi conto di cadere così in contraddizione, dato che di Breme aveva precedentemente identificato poesia, verità e ragione. 15. In somma... vero poeta: nella conclusione di questo passo, Leopardi ribadisce che ammettere l’illusione significa presupporre la necessità, per il poeta, di ingannare l’immaginazione; non si deve dunque, come fa di Breme, identificare la poesia con la verità razionale. 16. Resta perciò... pare: introducendo il successivo passo del Discorso, Leopardi tira le somme di quanto ha sostenuto nel passo precedente e ribadisce, riassumendole (Resta perciò), alcune sue fondamentali convinzioni. A suo avviso, fermo restando che il poeta deve illudere sempre – altrimenti non è poeta ma filosofo –, è libero di scegliere il modo migliore di farlo (scelga [...] quelle migliori illusioni che gli pare); il giovane autore ritiene inoltre che imitar la natura – non, quindi, gli autori classici, come sostengono invece molti classicisti – sia ufficio (funzione, compito) della poesia e che dilettare (dare piacere, secondo la poetica classicista) ne sia il fine.

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Come il poeta moderno può accostarsi alla natura da Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica Proponiamo qui un secondo stralcio del Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, in cui Leopardi ribadisce alcune tesi che costituiscono il filo conduttore dell’intero testo: in particolare, la concezione del poeta come artefice di illusioni, che deve creare inganni per l’immaginazione allo scopo di suscitare diletto nel lettore. Ulteriori riflessioni, però, lo collocano in una posizione originale e indipendente, che è polemica con quella romantica, ma che non coincide neppure con quella classicista. Egli sostiene infatti che l’incivilimento del decaduto mondo moderno si accompagna alla snaturatezza – vale a dire, al distacco dalla natura, con cui gli antichi avevano un rapporto diretto e spontaneo – e che, per recuperare tale rapporto, per il poeta moderno è molto utile e quasi indispensabile studiare i classici, evitando però assolutamente di imitarli. Nel passo emerge insomma il rifiuto di qualsiasi forma di imitazione: dei moderni autori europei romantici, ma anche – e qui Leopardi si distacca esplicitamente dai classicisti – degli scrittori antichi. Egli ritiene che solo la natura vada imitata. La posizione di Leopardi è dunque assai originale, anche se le favole greche sono da lui ritenute superiori a quelle moderne o ai miti dell’Europa nordica.

PISTE DI LETTURA

Un pensiero e una poetica che non si identificano né con il Romanticismo né con il classicismo Lo studio dei classici è prezioso per il poeta moderno che intende imitare la natura in un mondo degradato Occorre evitare ogni imitazione di altri scrittori: sia dei romantici europei sia dei classici antichi

Una sintesi delle tesi espresse in precedenza

Ma per recare in poco quello che fin qui s’è disputato largamente1, abbiamo veduto come s’ingannino coloro i quali negando che le illusioni poetiche antiche possano stare colla scienza presente, non pare che avvertano che il poeta già da tempi remotissimi non inganna l’intelletto, ma solamente la immaginazione degli uomini; la quale potendo egli anche oggidì, mantenuta l’osservanza del verisimile e gli altri dovuti rispetti, ingannare nel modo che vuole, dee scegliere le illusioni meglio conducenti al diletto derivato dalla imitazione della natura, ch’è il fine della poesia; di maniera che non essendo la natura cambiata da quella ch’era anticamente, anzi non potendo variare, seguita che la poesia la quale è imitatrice della natura, sia parimente invariabile, e non si possa la poesia nostra ne’ suoi caratteri principali differenziare dall’antica, atteso eziandio sommamente che la natura, come non è variata, così né anche ha perduto quella immensa e divina facoltà di dilettare chiunque la contempli da spettatore naturale, cioè primitivo, nel quale stato ci ritorna il poeta artefice d’illusioni; e che in questo medesimo stato nostro è manifestissimo e potentissimo in noi il desiderio di questi diletti e la inclinazione alle cose primitive2 [...]. Occorre lo studio Ora da tutto questo e dalle altre cose che si son dette, agevolmente si comprendegli antichi... de che la poesia dovette essere agli antichi oltremisura più facile e spontanea che non può essere presentemente a nessuno, e che a’ tempi nostri per imitare poetando la natura vergine e primitiva, e parlare il linguaggio della natura (lo dirò con dolore della condizione nostra, con disprezzo delle risa dei romantici) è pressoché necessario lo studio lungo e profondo de’ poeti antichi3. Imperocché non basta ora al poeta che sappia imitar la natura; bisogna che la 1. Ma... largamente: per riassumere in breve ciò che ho prima affermato con ampie argomentazioni. Leopardi, come altrove nel Discorso, sintetizza in poche righe ciò che ha scritto nella parte precedente, qui omessa. 2. abbiamo veduto... primitive: le tesi riassunte in questi paragrafi sono ampiamente esposte da Leopardi nelle precedenti pagine del Discorso. Fra esse, emergono le seguenti concezioni: è un errore porre sullo stesso livello le illusioni poetiche antiche e il modo di pensare ed esprimersi del degenerato mondo moderno; in ogni caso, scopo della poesia moderna è ancora e sempre illudere, ingannando

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non l’intelletto ma l’immaginazione; per raggiungere il suo scopo, il poeta è libero di scegliere le vie migliori per creare illusioni e condurre così il lettore al diletto (piacere) che deriva dall’illusione stessa e dall’imitazione della natura. Anche il poeta moderno è dunque artefice d’illusioni e deve raggiungere lo scopo della poesia – il diletto – imitando la natura e inclinando alle cose primitive, come già facevano gli artisti classici. 3. agevolmente... poeti antichi: il giovane autore introduce qui un’altra sua fondamentale convinzione. Egli sostiene che la poesia spontanea – che permise agli antichi di parla-

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…per riscoprire la natura

L’incivilimento è causa di snaturatezza

L’ingegno poetico spontaneo è rarissimo

La superiorità delle favole classiche...

sappia trovare, non solamente aguzzando gli occhi per iscorgere quello che mentre abbiamo tuttora presente, non sogliamo vedere, impediti dall’uso, la quale è stata sempre necessarissima opera del poeta, ma rimovendo gli oggetti che la occultano, e scoprendola, e diseppellendo e spostando e nettando dalla mota dell’incivilimento e della corruzione umana quei celesti esemplari che si assume di ritrarre. A noi l’immaginazione è liberata dalla tirannia dell’intelletto, sgombrata dalle idee nemiche alle naturali, rimessa nello stato primitivo o in tale che non sia molto discosto dal primitivo, rifatta capace dei diletti soprumani della natura, dal poeta; al poeta da chi sarà? o da che cosa? Dalla natura? Certamente, in grosso, ma non a parte a parte, né da principio; vale a dire appena mi si lascia credere che in questi tempi altri possa cogliere il linguaggio della natura, e diventare vero poeta senza il sussidio di coloro che vedendo tutto il dì la natura scopertamente e udendola parlare, non ebbero per esser poeti, bisogno di sussidio. Ma noi cogli orecchi così pieni d’altre favelle4, adombrate inviluppate nascoste oppresse soffocate tante parti della natura, spettatori e partecipi di costumi lontanissimi o contrari ai naturali, in mezzo a tanta snaturatezza e così radicata non solamente in altri ma in noi medesimi, vedendo sentendo parlando operando tutto giorno cose non naturali, come, se non mediante l’uso e la familiarità degli antichi, ripiglieremo per rispetto alla poesia la maniera naturale di favellare, rivedremo quelle parti della natura che a noi sono nascoste, agli antichi non furono, ci svezzeremo di tante consuetudini, ci scorderemo di tante cose, ne impareremo o ci ricorderemo o ci riavvezzeremo a tante altre, e in somma nel mondo incivilito vedremo e abiteremo e conosceremo intimamente il mondo primitivo, e nel mondo snaturato la natura? E in tanta offuscazione delle cose naturali, quale sarà se non saranno gli antichi, specialmente alle parti minute della poesia, la pietra paragone che approvi quello ch’è secondo la natura, e accusi quello che non è? La stessa natura? Ma come? quando dubiteremo appunto di questo, se avremo saputo vederla e intenderla bene? [] L’indole e l’ingegno? Non nego che ci possano essere un’indole e un ingegno tanto espressamente fatti per le arti belle, tanto felici tanto singolari tanto divini, che volgendosi spontaneamente alla natura come l’ago alla stella, non sieno impediti di scoprirla dove e come ch’ella si trovi, e di vederla e sentirla e goderla e seguitarla e considerarla e conoscerla, né da incivilimento né da corruttela né da forza né da ostacolo di nessuna sorta; e sappiano per se medesimi distinguere e sceverare accuratamente le qualità e gli effetti veri della natura da tante altre qualità ed effetti che al presente o sono collegati e misti con quelli in guisa che a mala pena se ne discernono, o per altre cagioni paiono quasi e senza quasi naturali; e in somma arrivino senza l’aiuto degli antichi a imitar la natura come gli antichi facevano. Non nego che questo sia possibile, nego che sia probabile, dico che l’aiuto degli antichi è tanto grande tanto utile tanto quasi necessario, che appena ci sarà qualcuno che ne possa far senza, nessuno potrà presumere di potere5. [...] Ma [...] non voglio lasciar di ammonire i romantici, che oramai si riposino da quelle vane decrepite inette declamazioni contro l’uso delle favole greche6. Non ricordo qui le favole orientali e settentrionali, amori e delizie loro; non metto in campo le disonestà le scelleraggini che sono, non pure incidenti, ma soggetti

re il linguaggio della natura – nel moderno mondo decaduto e dominato dalla ragione, dalla scienza e dalla tecnica non è più possibile se non riscoprendo la natura e disseppellendola dalla mota (cioè dal fango) dell’incivilimento; ciò richiede lo studio lungo e profondo de’ poeti antichi (la qual cosa per Leopardi non coincide affatto con l’imitazione degli antichi propria della poesia classicista). 4. altre favelle: le lingue straniere moderne che, insieme a tutto ciò che caratterizza la modernità e che viene elencato nelle successive righe, allontanano il poeta dalla natura, creando in lui snaturatezza (distacco dalla natura stessa). Da ciò, secondo Leopardi, deriva la necessità di studiare i classici per riscoprire la natura e la maniera naturale di favellare. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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5. L’indole... potere: l’autore – accostandosi qui a una tesi propria della poetica romantica – non nega che l’indole e l’ingegno (il “genio” artistico) possano riscoprire spontaneamente la natura; ritiene però tali doni creativi tanto felici tanto singolari tanto divini [...] quanto improbabili. Facendo proprie e accentuando le tesi dei classicisti moderati e aperti alle novità come Pietro Giordani, egli ritiene perciò sia necessario, per i poeti moderni, l’aiuto degli antichi a imitar la natura come gli antichi facevano. 6. Ma... favole greche: Leopardi qui assume – in polemica con le tesi anticlassiciste dei romantici – la difesa della bellezza delle favole greche, ossia dei miti e delle leggende della poesia classica degli antichi.

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…non ne giustifica l’abuso

Non vanno imitati gli autori...

…ma soltanto la natura

principali delle poesie di quelli che ci rinfacciano tutto giorno, che abbrividisco- 70 no che impallidiscono in ridursi a memoria i delitti favoleggiati dagli antichi. Già le contraddizioni nelle cose della nuova setta non vanno più notate. Sia concesso alle opinioni ai detti ai fatti dei romantici, poeti e filosofi sommi, quello che non si sopporta negli uomicciattoli; che sieno incoerenti e contraddittori. Sappiano che quando noi disputiamo che la poesia moderna non si dee né si 75 può diversificare dall’antica, non difendiamo l’abuso né l’uso delle favole de’ Gentili7. Vogliamo che sieno essenzialmente comuni alla poesia greca e latina colla presente e con quella di tutti i tempi, le cose naturali necessarie universali perpetue, non le passeggere, non le invenzioni arbitrarie degli uomini, non le credenze non i costumi particolari di questo o di quel popolo, non i caratteri 80 non le forme speciali di questo o di quel poeta: le favole greche sono ritrovamenti arbitrari, per la più parte bellissime dolcissime squisitissime, fabbricate sulla natura, come forse accennerò nel progresso, ma fabbricate da altri non da noi, fabbricate, come ho detto, sulla natura, non naturali; perciò non sono comuni agli antichi con noi, ma proprie loro: non dobbiamo usurpare le imma- 85 ginazioni altrui, quando o non le facciamo nostre in qualche maniera, o non ce ne serviamo parcamente come di cose poeticissime, notissime a tutti, usitatissime appresso quei poeti che tutto il mondo legge ed esalta, fonti di ricchezza alla elocuzione poetica, utilissime alla speditezza e alla nobiltà del dire, in generale, alla lontana, come di fondamenti alle invenzioni nostre, adoperando la reli- 90 gione degli antichi, come opportuna alle finzioni, amica de’ sensi, e più naturale che ragionevole non altrimenti che la poesia. Quindi, non solamente l’abuso delle favole greche, non solamente le oscenità e le brutture, ma l’uso o smoderato o sol tanto non parco, si sconsiglia e biasima e rigetta da qualunque de’ nostri ha senno e sapere; perché noi non vogliamo che il poeta imiti altri poeti, 95 ma la natura, né che vada accattando e cucendo insieme ritagli di roba altrui; non vogliamo che il poeta non sia poeta; vogliamo che pensi e immagini e trovi, vogliamo ch’avvampi, ch’abbia mente divina, che abbia impeto e forza e grandezza di affetti e di pensieri, vogliamo che i poeti dell’età presente e delle passate e avvenire sieno simili quanto è forza che sieno gl’imitatori di una sola 100 e stessa natura, ma diversi quanto conviene agl’imitatori di una natura infinitamente varia e doviziosa8. da Tutte le opere, I, a cura di W. Binni, Sansoni, Firenze, 1969

7. Sappiano... Gentili: i romantici devono sapere che noi – vale a dire, Leopardi e chi ha posizioni simili alle sue – non difendiamo l’abuso né l’uso delle favole de’ Gentili (termine, quest’ultimo, con cui venivano definiti i Greci e i Latini nei testi biblici). Il giovane autore qui critica abuso e uso, nella poesia, dei riferimenti alla mitologia greca, tracciando una netta linea di separazione fra la propria poetica e quella della maggioranza dei classicisti. 8. Quindi... doviziosa: Leopardi ribadisce ora un’altra concezione per lui fondamentale e spesso ricorrente nel Discorso: non si devono imitare altri autori, né classici né moderni; va imitata soltanto la natura. Al passo qui proposto fa seguito una dura polemica contro ogni forma di imitazione: sia quella classicista nei confronti degli autori

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greci e latini, sia quella che, secondo il giovane scrittore, di fatto i romantici italiani propongono, indicando come modelli gli autori europei. In un passo che non è stato riportato, Leopardi afferma che non si deve lodare aprioristicamente chi cita i grandi romantici come lo Schlegel il Lessing la Staël, né si deve aprioristicamente schernire chi cita Aristotele Orazio Quintiliano. Con grande originalità, già nel suo giovanile Discorso, Leopardi non si schiera dunque con nessuna delle due fazioni – romantici e classicisti – che si contrappongono ai suoi tempi, ma di entrambe critica le prese di posizione aprioristiche e la pedissequa imitazione, che egli non condivide: la grande arte, a suo avviso, non si crea imitando né schierandosi con una categoria di autori contro l’altra.

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Antologia critica dallo Zibaldone di pensieri A partire dalla prima, fondamentale edizione a stampa patrocinata da Giosue Carducci nel 1898-1900, lo Zibaldone di Giacomo Leopardi, per oltre un secolo, è stato considerato un insieme di frammenti e pensieri privi di ordine interno. In realtà l’autore – come attesta fra l’altro una sua lettera all’editore milanese Stella, datata 13 settembre 1826 – procedette a un riordino delle migliaia di pagine manoscritte dell’opera, attraverso un sistema di voci e numeri redatto su numerose schede, oggi conservate presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. Con rigore filologico e critico, una studiosa, Fabiana Cacciapuoti, ha recentemente ricostruito il progetto sistematico dell’opera, in un’edizione apparsa nel 2014, alla quale si fa qui riferimento per riproporre una piccola antologia di testi, tratti dalla sesta e ultima delle sezioni in cui la studiosa ha suddiviso lo Zibaldone, sulla base degli intenti e delle annotazioni di Leopardi. Tale sezione si intitola Memorie della mia vita. Ognuno dei brani che qui di seguito proponiamo – il cui titolo è scelto da noi e non compare né nello Zibaldone leopardiano né nella recente edizione critica curata dalla Cacciapuoti – è preceduto da un numero fra parentesi, che indica la pagina dello Zibaldone in cui il brano è tradizionalmente collocato. Nella nuova edizione critica è presente anche una sorta di rubrica, redatta da Leopardi stesso e riportata per la prima volta come glossa a margine. Tale rubrica elenca sinteticamente gli argomenti trattati in ogni brano e le tesi sostenute dall’autore.

La crisi della letteratura e della lingua italiana moderna La grandezza delle cose e l’impossibile felicità

I gradi dell’infelicità universale e gli effetti dell’incivilimento

Contraddizioni e paradossi della natura

La consolazione del dolore per gli antichi e per i moderni

Piacere del vago e rimembranza

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La crisi della letteratura e della lingua italiana moderna Nel passo del 1823 di cui qui proponiamo un ampio stralcio, Leopardi analizza caratteristiche e problemi della lingua e della letteratura italiana del suo tempo, che egli ritiene in grave crisi. Nelle schede cui si è precedentemente accennato, strumenti fondamentali nel riordino leopardiano di tutto lo Zibaldone, l’autore seleziona questo brano sia per l’argomento “Civiltà, incivilimento” sia per l’argomento “Lingue”. Le tesi sostenute con lineare chiarezza nel passo riguardano appunto la decadenza della moderna letteratura e lingua italiana – rispetto a quella francese, inglese e tedesca – e ne indicano esplicitamente le cause nel culto della pedissequa imitazione diffusosi in Italia fra i letterati a partire dal Seicento: dapprima, assumendo come modello i classici, successivamente le lingue e letterature straniere affermatesi in Europa. Nell’ultima parte del brano Leopardi delinea una pur difficile soluzione per il caso italiano. Essa si identifica con quella sinteticamente chiarita nella rubrica: bisogna fare all’Italia una lingua moderna.

PISTE DI LETTURA

Un’analisi delle principali lingue e letterature dell’Europa svolta allo scopo di risolvere il caso italiano La crisi, iniziata nel Seicento e originata dalla letteratura, investe lingua e pensiero nazionali I danni causati sia dagli imitatori degli antichi sia dai recenti imitatori dei letterati europei

Letteratura e lingua italiana di oggidì. Trista condizione di un vero letterato in Italia. Gli bisogna fare all’Italia una lingua moderna. Considerazioni in questo proposito. Caratteristiche della lingua francese, inglese e tedesca

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Un francese, un inglese, un tedesco che ha coltivato il suo ingegno, e che si trova in istato di pensare, non ha che a scrivere. Egli trova una lingua nazionale moderna già formata, stabilita e perfetta, imparata la quale, ei non ha che a servirsene1. Né dal principio della loro letteratura in poi, è stato mai bisogno ad alcuno scrittore di queste nazioni, qual ch’ei si fosse, il formarsi una lingua moderna, cioè tale che volendo scrivere, come ognun deve, alla moderna, ei potesse col di lei mezzo esprimere i suoi concetti in qualsivoglia genere2. Come dal principio delle loro letterature in poi, quelle nazioni non hanno mai intermesso di coltivar esse medesime gli studi in esse introdotti; o creando e inventando nuovi generi o discipline, con esse hanno naturalmente e sin dal loro principio creato o formato il linguaggio che loro si conveniva; o accettando generi o discipline forestiere, non mai per ancora in esse nazioni conosciute o trattate, insieme con essi generi e discipline accettarono senza contrasto alcuno quei modi e quei vocaboli, ancorché forestieri, che con esse erano congiunte, e che a volerle trattare indispensabilmente si richiedevano; così non è stato mai tempo alcuno in cui gli scrittori di quelle nazioni, avendo che scrivere, non avessero come scrivere; mai tempo alcuno in cui quelle nazioni non avessero La specificità lingua nazionale moderna per qualunque genere di letteratura e per qualsivodell’Italia glia disciplina da loro trattata3. Ben diverso è oggidì il caso dell’Italia. Come noi

1. Un francese... servirsene: la lingua di un francese, un inglese o un tedesco di buona cultura (che ha coltivato il suo ingegno) gli permette di passare agevolmente dalla elaborazione di un pensiero alla sua scrittura nella lingua nazionale. Come Leopardi afferma più avanti, la lingua italiana dei suoi giorni non lo permette. 2. Né dal principio... qualsivoglia genere: nelle nazioni europee precedentemente citate, nessuno scrittore che

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ANTOLOGIA CRITICA DALLO ZIBALDONE DI PENSIERI

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vuole esprimersi modernamente (alla moderna) o trattare argomenti moderni ha mai dovuto crearsi da solo una propria lingua. 3. non è mai stato tempo... trattata: il giovane autore loda qui l’apertura delle nazioni europee alle nuove discipline e ai vocaboli ad esse legati, quand’anche provenienti dall’estero (forestieri): ciò ha la funzione di generare un costante e quasi automatico rinnovamento delle lingue. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Le conseguenze della nostra decadenza letteraria... …causata dall’imitazione degli antichi

Una nuova dannosa moda: imitare gli europei

Gli scienziati sono indifferenti al linguaggio Indicazioni per superare la crisi

non abbiamo se non letteratura antica, e come la lingua illustre e propria ad essere scritta, non è mai scompagnata dalla letteratura, e segue sempre le vicende di questa, e dove questa manca o s’arresta, manca essa pure e si ferma4; così fermata tra noi la letteratura, fermossi anche la lingua, e siccome della letteratura, così pur della lingua illustre si deve dire, che noi non ne abbiamo se non antica5. Sono oggimai più di centocinquant’anni che l’Italia né crea, né coltiva per se verun genere di letteratura, perocché in niun genere ha prodotto scrittori originali dentro questo tempo, e gli scrittori che ha prodotto, non avendo mai fatto e non facendo altro che copiare gli antichi, non si chiamano coltivatori della letteratura6, perché non coltiva il suo campo chi per esso passeggia e sempre diligentemente l’osserva, lasciando però le cose come stanno; né per rispetto di questi scrittori verun genere della nostra letteratura s’è per niuna parte avanzato o migliorato, niun genere nuovo introdotto; la nostra letteratura è d’allora in poi, quanto a questi scrittori, affatto stazionaria; or questo si chiamerà aver coltivato la nostra letteratura? potremo dir che sia stata coltivata senza profitto alcuno: ciò viene a esser la stessa cosa. In questo spazio di tempo la letteratura francese e la tedesca sono nate, la letteratura inglese si è primieramente formata e stabilita. Queste tre letterature, quante elle sono e quanto abbracciano, s’includono, si può dir, tutte, quanto al tempo, ne’ centocinquant’anni della immobilità della nostra letteratura. La depravazione e quindi il cominciamento dell’ozio e della inoperosità della letteratura italiana furono quasi il segnale alle altre letterature più famose d’Europa di sorgere e comparire nel mondo. [...] Introducendosi fra noi appoco appoco la notizia delle letterature e discipline straniere, que’ pochi italiani ch’eccitati da queste nuove cognizioni si trovarono un capitale di mente da poter loro aggiungere qualche cosa di loro; quei molti più che invaghiti della novità, o mossi da qualunque altro motivo, deliberarono, senza però aver nulla di proprio da scrivere, d’introdurre o divulgare, come si doveva, in Italia i nuovi generi, le nuove letterature e discipline, la nuova filosofia, anzi per meglio dire, la filosofia, non bastando a ciò la lingua italiana antica, intieramente la dismessero7, e come di facoltà e di pensieri, così di lingua andarono a scuola dagli stranieri; e da cui toglievano le cose, sia per solamente ripeterle, sia pur talora per accrescerle e in qualche parte migliorarle, da essi tolsero anche le voci e le maniere e le forme del favellare e scrivere8. Gli scienziati propriamente detti, rispetto ai quali la nostra nazione non fu quasi per alcun tempo seconda a verun’altra, sempre però poco curanti della lingua, seguirono la barbarie venuta in uso, come il linguaggio ch’era loro alla mano, e come indifferentemente avrebbero seguito qualunque altro linguaggio o puro o impuro che avessero avuto in pronto e che fosse stato comune, il che sempre avevano fatto qui ed altrove9. Tristo veramente e difficile era il caso loro, ma peggio il partito a cui s’appigliarono. Difficile il caso, perocché quanto è facile

4. Come noi... si ferma: secondo la tesi di Leopardi, la lingua italiana si basa – a differenza delle lingue europee – quasi esclusivamente sulla letteratura; quando perciò manca un rinnovamento letterario, anche la lingua si impoverisce e non progredisce (si ferma). Ciò determina anche un impoverimento del pensiero. 5. e siccome della letteratura... antica: come la letteratura, così anche la lingua italiana è illustre e antica. Il termine illustre, in riferimento alla lingua italiana, ricalca quello usato da Dante nel trattato De vulgari eloquentia. 6. e gli scrittori...letteratura: la polemica leopardiana nei confronti dei letterati italiani post-rinascimentali (dai barocchi ai classicisti inclusi) è qui esplicita. Essi sono accusati di non avere fatto altro che copiare gli antichi, determinando una decadenza sia della letteratura sia della lingua italiana. A ciò corrisponde, quasi a controbilanciare l’inoperosità della letteratura italiana, l’ascesa delle altre più famose let© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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terature e lingue europee. 7. non bastando...dismessero: essendo la loro antiquata lingua inadatta a esprimere le novità maturate, i letterati italiani la abbandonarono completamente (intieramente la dismessero), scegliendo un’altra forma di acritica imitazione: quella dei letterati europei. 8. e come di facoltà...scrivere: e presero lezione (andarono a scuola) dagli stranieri nell’ambito del pensiero, della letteratura, imitandoli anche nei modi di esprimersi (favellare) e scrivere. 9. Gli scienziati...altrove: Leopardi in questo passo sostiene che la barbarie linguistica dei letterati italiani coinvolge anche gli scienziati, dei quali l’Italia è sempre stata ricca, ma che si disinteressano da sempre delle questioni linguistiche, in quanto usano qualunque linguaggio, purché comune e di agevole uso pratico (o puro o impuro che avessero avuto in pronto e che fosse stato comune).

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il continuare a una nazione la sua lingua illustre insieme colla sua letteratura, tanto è difficile, interrotta per lungo spazio la letteratura, e dovendo quasi ricrearla, riannodare la lingua a lei conveniente colla già antiquata lingua illustre della nazione, colla lingua che fu propria della nazionale letteratura prima che questa fusse totalmente interrotta10. [1-2 Settembre 1823.].

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da G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Cacciapuoti, Donzelli, Roma, 2014

10. Tristo veramente... interrotta: come emerge anche dal raffronto con altre annotazioni dello Zibaldone che trattano analogo argomento, Leopardi intende qui affermare che l’arretratezza della letteratura italiana va posta in relazione con la mancanza di una lingua nazionale adeguata e moderna, e che ciò determina un conseguente indebolimento della filosofia italiana stessa, ferma su schemi antichi o pedissequa imitatrice degli Europei. La letteratura italiana del tempo è insomma ritenuta dal giovane scrittore del tutto priva di originalità: da ciò dipendono tanto la triste condizione dei veri letterati quanto l’impoverimento della lingua e del pensiero stesso, che della lingua fa uso

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La grandezza delle cose e l’impossibile felicità I tre appunti dello Zibaldone qui insieme proposti sono raggruppati dalla curatrice – secondo gli intendimenti di Leopardi – all’interno di una medesima rubrica che reca il sintetico titolo Nullità o piccolezza delle cose. Come Fabiana Cacciapuoti annota, tale espressione ha come corrispettivo, nello schedario leopardiano e nell’Indice dello Zibaldone predisposto dall’autore nel 1827, la seguente affermazione, ancora più esplicita: Le cose non son veramente nulle o piccole in sé, ma per noi. Il contenuto del brano – redatto, in tre distinti momenti, nello spazio di due giorni – verte su un’antitesi: da un lato, l’autore afferma che la natura è di per se stessa grandiosa e meravigliosa; dall’altro, sottolinea, con precise argomentazioni, che né essa, né le opere umane possono dare all’uomo – e a nessuno degli altri esseri viventi – la felicità, vale a dire ciò a cui ogni individuo aspira come scopo dell’esistenza. L’ammirevole grandezza della natura viene dunque in gran parte vanificata dalla dolorosa condizione esistenziale di tutti gli esseri. Nel brano, redatto nel 1823, il poeta-filosofo inizia ad allontanarsi dal “pessimismo storico” e a intraprendere il cammino che lo condurrà al “pessimismo cosmico”, che considera la natura crudele matrigna.

PISTE DI LETTURA

La grandezza delle opere della natura non giova all’uomo, in quanto non si può essere felici L’esistenza: un mistero meraviglioso ma senza fine e senza frutto per l’uomo e per gli altri viventi Per le grandi cose fatte dall’uomo vale, con le debite proporzioni, il discorso fatto per le opere della natura Nullità o piccolezza delle cose

Le opere della natura sono in sé grandi... …ma l’aspirazione alla felicità è vana

L’esistenza: straordinario spettacolo

[2936,1] Le cose ch’esistono non sono certamente per se né piccole né vili: né anche una gran parte di quelle fatte dall’uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l’uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch’ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch’egli s’immaginava nella sua fanciullezza e prima gioventù, e ch’ei s’immagina ancora tutte le volte ch’ei s’abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi1. Ed essendo di un altro genere, benché grandi, e forse talora più grandi di quello che il fanciullo o l’uomo s’immaginava, l’uomo né il fanciullo non è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza2. E così le cose esistenti, e niuna opera della natura né dell’uomo, non sono atte alla felicità dell’uomo3. (10 luglio 1823). Non ch’elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l’uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch’egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell’uomo, non essendo un nulla per se medesime4. E chi potrebbe chiamare un nulla la miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei

1. Ma esse... lungi: dopo avere premesso che le cose esistenti in natura e una parte di quelle create dall’uomo non sono di poco conto (non sono [...] né piccole né vili), Leopardi aggiunge che esse però mai coincidono con le cose che l’uomo desidera, vale a dire (che sarebbe) con quelle cose che l’uomo crede necessarie alla sua felicità, che l’uomo immagina quando si abbandona alla fantasia e quando osserva e medita (mira) tutto da lontano (da lungi). 2. l’uomo... sperienza: a causa dell’impossibilità di realizzare i propri desideri di felicità, quando l’uomo, o il fanciullo, si accosta alle cose, benché grandi, prova delusione e dolore. 3. E così... uomo: perciò le cose esistenti in natura, o create © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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dall’uomo, non possono dargli mai felicità. Queste righe sono fondamentali per comprendere l’evoluzione che nell’anno 1823 avviene nel pensiero di Leopardi: il poetafilosofo sta abbandonando il “pessimismo storico”, che riteneva infelici i moderni ma felici gli antichi, perché legati alla natura. 4. Così elleno... medesime: le cose sono nulla in relazione allo scopo umano, che è il raggiungimento della felicità, ma non lo sono di per se stesse. Nelle righe successive Leopardi tesse poi una lode della miracolosa e stupenda opera della natura, pur ribadendo che a noi esseri umani in sostanza essa non serve a nulla.

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L’uomo può comprendere ben poco Il mistero che circonda le cose

Neppure le grandi opere umane rendono felici

mondi, benché a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poiché non ci porta in niun modo mai alla felicità. Chi potrebbe disprezzare l’immensurabile e arcano5 spettacolo dell’esistenza, di quell’esistenza di cui non possiamo nemmeno stabilire né conoscere o sufficientemente immaginare né i limiti, né le ragioni, né le origini; qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della esistenza e della vita delle cose6, benché né l’esistenza e vita nostra, né quella degli altri esseri giovi veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici7? ed essendo per noi l’esistenza così nostra come universale scompagnata dalla felicità, ch’è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica utilità che l’esistenza rechi a quello ch’esiste? e quindi esistendo noi e facendo parte della università della esistenza, senza niun frutto per noi8? Ma con tutto ciò come possiamo chiamar vile e nulla quell’opera di cui non vediamo né potremo mai vedere nemmeno i limiti? né arrivar mai ad intendere né anche a sufficientemente ammirare l’artifizio e il modo? anzi neppur la qualità della massima parte di lei? cioè la qualità dell’esistenza della più parte delle cose comprese in essa opera9; o vogliamo dir la massima parte di esse cose, cioè degli esseri ch’esistono. Pochissimi de’ quali, a rispetto della loro immensa moltitudine, son quelli che noi conosciamo pure in qualunque modo, anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e maniere occulte dell’esistenza che noi non conosciamo né intendiamo punto, neppur quanto agli esseri che meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra specie e al nostro proprio individuo10. (10 luglio 1823.). [2938,1] Questo ch’io dico delle opere della natura, dicasi eziandio proporzionatamente di molte o grandi o belle o per qualunque cagione notabili e maravigliose opere degli uomini, o sieno materiali, o appartengano puramente alla ragione; o di mano o d’intelletto o d’immaginativa; scoperte, invenzioni, scienze, speculazioni ec. ec. discipline pratiche o teoriche; navigazioni, manifatture, edifizi, costruzioni d’ogni genere, opere d’arte11 ec. ec. (11 luglio 1823)

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da G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Cacciapuoti, Donzelli, Roma, 2014

5. immensurabile e arcano: incommensurabile – rispetto all’uomo – e avvolto nel mistero. 6. qual uomo... cose: in una gradazione o climax ascendente di tono lirico, qui il poeta-filosofo esalta la grandezza sconfinata e il fascino dell’infinito e misterioso spettacolo della esistenza benché esso giovi veramente nulla all’uomo e così pure agli altri esseri viventi. A tutti, e in ogni epoca, è dunque negato il raggiungimento della felicità. 7. esser felici: il corsivo corrisponde ad una sottolineatura nel manoscritto leopardiano, che evidenzia l’importanza attribuita dall’autore alle due parole. 8. ed essendo... per noi?: attraverso un’incalzante serie di proposizioni interrogative retoriche, Leopardi ribadisce la terribile condizione universale – che non riguarda, dunque, solo l’uomo – determinata dal fatto che l’esistenza è scompagnata dalla felicità. 9. Ma con tutto ciò... opera: con tono anche qui lirico, Leopardi nega – quasi ad attenuare la precedente affermazione – che si possa considerare di poco conto (vile) la realtà dell’esistente, che è così complessa e sconfinata che di essa non vediamo né potremo mai vedere nemmeno i limiti. La grandezza della natura e dell’universo infinito è però tale solo in sé: non dà felicità all’uomo e agli esseri viventi.

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Ciò è terribile perché la felicità è qui ritenuta da Leopardi fine, anzi unica utilità dell’esistenza. 10. Pochissimi de’ quali... individuo: queste righe mettono in luce soprattutto i limiti della conoscenza umana, riguardo alla propria specie e al nostro proprio individuo (vale a dire, alla nostra persona) e, ancor più, alle ragioni e maniere dell’esistenza sconfinata, che non conosciamo né comprendiamo e di cui molte cose ci restano nascoste e segrete (occulte). Commentando qui l’intero passo – e anche le righe successive, datate 11 luglio 1823 ma a esso direttamente collegate e perciò unite nella recente edizione – la Cacciapuoti scrive che la Nullità o piccolezza delle cose per Leopardi è, in ultima analisi, un fatto relativo: anche le cose più grandi sembrano inutili quando si cerca quella felicità che vuol essere l’unico motivo valido alla vita dell’uomo”. 11. Questo ch’io dico... arte: Leopardi completa le tesi esposte per precisare come ciò che egli ha detto delle opere della natura sia valido anche (eziandio: il vocabolo è un latinismo) per quelle opere degli uomini che siano grandi, meravigliose, belle o per qualsiasi motivo notevoli (notabili), a qualsiasi ambito esse appartengano.

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I gradi dell’infelicità universale e gli effetti dell’incivilimento Il brano dello Zibaldone qui proposto, scritto a Bologna, risale al luglio 1826 e mette in luce nuovi aspetti dell’elaborazione filosofica dell’autore. Il suo significato è evidenziato, in una nota in calce al testo, dalla curatrice. La Cacciapuoti scrive in sostanza che se la felicità è per tutti i viventi impossibile da raggiungere e se il desiderio di felicità è proporzionale al grado di sensibilità dell’individuo, il meglio che l’uomo possa augurarsi è di essere poco sensibile: concetto connesso alla teoria del piacere. Rispetto agli Antichi, però, la modernità vive un ulteriore dramma, dovuto al progredire di Perfettibilità, Civiltà e Incivilimento, che acuiscono la sensibilità e, con essa, l’infelicità. Secondo l’autore, dunque, i moderni – e soprattutto i più sensibili fra loro – devono distrarre il loro animo, tenendolo occupato. L’azione ha in ciò – per le nazioni come per l’individuo – un ruolo fondamentale (e ciò fa comprendere l’importanza che riveste il Manuale di filosofia pratica, seconda delle sei sezioni dello Zibaldone riordinato in base alle schede leopardiane).

PISTE DI LETTURA

Universale inesistenza della felicità e desiderio di essa sono la causa della sofferenza dei viventi La maggiore sensibilità, tipica dei moderni, determina maggiore infelicità: agire per distrarsi è il rimedio Un testo riflessivo strutturato secondo una precisa logica fondata su passaggi sillogistici CIVILTÀ. INCIVILIMENTO - PERFETTIBILITÀ O PERFEZIONE UMANA. PIACERE. TEORIA DEL PIACERE. Antichi – Felicità, impossibile, e non esistente nell’universo

L’apparente contraddizione nelle tesi dell’autore... …è invece parte di un sistema coerente La felicità è irraggiungibile

[4185, 2] Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l’azione, l’attività, l’abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno animali, ossia più poveri di vita, l’inazione e la infingardaggine dei selvaggi1; insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è compatibile coll’esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l’una che l’altra2. Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell’anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita3; resta

1. Pare affatto contraddittorio... selvaggi: Leopardi afferma qui, in sintesi, che potrebbe sembrare contraddittorio il fatto che nella sua riflessione filosofica (sistema) riguardante la felicità, da un lato egli lodi l’azione, l’attività, la vitalità (l’abbondanza di vita), preferendo inoltre (quindi) la condizione complessiva (il costume e lo stato) degli antichi a quella dei moderni, e dall’altro invece ritenga (considerando nel contempo) più felice (o meno infelice) fra i modi di vita quello degli uomini più stolti (stupidi) o inetti come pure degli animali meno vitali (meno animali), e anche quello dei primitivi (selvaggi), portati a comprendere meno, usi ad avere scarsa sensibilità e intelligenza (l’infingardaggine) e ad agire meno, preferendo una vita passiva (l’inazione). 2. Ma in vero... l’altra: l’autore precisa che la contraddizio© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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ne cui precedentemente ha alluso (vedi nota 1) non esiste. Il seguito del passo, con stringenti argomentazioni, chiarirà perché queste due cose (le tesi che sembrano in contrasto fra loro) si accordano molto bene insieme, anzi sono entrambe conseguenze necessarie della sua filosofia. 3. Riconosciuta... sentita: collegandosi alla propria teoria del piacere e della felicità, l’autore postula (ripetendo il termine riconosciuta o riconosciuto) alcune premesse, che si possono così sintetizzare: è impossibile essere felici; è però impossibile anche cessare di desiderare, più di ogni altra cosa (sopra tutto, anzi unicamente) di esserlo; lo spirito (l’anima) desidera dunque qualcosa che mai può raggiungere (un fine impossibile a conseguirsi); da ciò derivano la sofferenza e l’infelicità generale e inevitabile (universale, e necessaria) di tutti i viventi; tale infelicità è tanto maggiore

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Il primitivo soffre meno del civile

Il progresso accentua l’infelicità

Chi è sensibile non può ritornare insensibile L’importanza dell’azione nelle nazioni civili

che4 il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gl’individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento5. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perché io preferisco lo stato selvaggio al civile6. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell’animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile, tanto negl’individui che nei popoli, l’impedirne il progresso. Gl’individui e le nazioni d’Europa e di una gran parte del mondo, hanno da tempo incalcolabile l’animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio è impossibile. Intanto dallo sviluppo e dalla vita del loro animo, segue una maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità7. Resta un solo rimedio: La distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell’animo8. Per tal modo il sentimento della detta tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato, confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi dall’equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l’uomo è incivilito. – Questo delle nazioni. Degl’individui similmente9. P. e.10 il più felice italiano è quello che p. natura e per abito è più stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per natura o per abito abbia l’animo vivo, non può in modo alcuno acquistare o ricuperare la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può più la sua sensibilità11. – Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser contrario all’attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di Europa, agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini sempre più attivi e più occupati, gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole (quanto al principio, dico, di attività e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi analoghi), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera lo stato selvaggio, l’animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior condizione possibile per la felicità umana12. (Bologna, 13 luglio 1826.).

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da G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Cacciapuoti, Donzelli, Roma, 2014 quanto più una specie o individuo vivente (animale: l’uso in tale accezione del vocabolo risale alla filosofia aristotelica) è sensibile, perché avverte maggiormente tale condizione (quanto, la detta tendenza è più sentita). 4. resta che: ne consegue che. 5. Le specie... tal sentimento: le specie e gli individui viventi (animali) soffrono l’infelicità (tal sentimento) in misura minore possibile se sono meno sensibili, vale a dire meno vitali (meno vivi per natura). In questa considerazione sembra abbozzata la futura teoria leopardiana della morte come liberazione dalla sofferenza. 6. Ecco... civile: in quanto i primitivi sono meno sensibili, l’autore li preferisce (io preferisco lo stato selvaggio al civile): l’affermazione va qui intesa nel senso che Leopardi li considera meno infelici. Nella possibilità di cambiamento dell’essere umano – dimostrata dall’incivilimento – consiste la sua perfettibilità, cui si allude nella rubrica. Il tema della perfettibilità, in relazione alla perfezione, è più ampiamente trattato e sviluppato in altri passi dello Zibaldone. 7. Gl’individui... maggiore infelicità: il progresso – che comporta maggiore sensibilità (un animo sviluppato) – è inevitabile e irreversibile, come dimostra la storia delle nazioni d’Europa e di una gran parte del mondo; esso determina una maggiore infelicità. 8. Resta... rimedio: la distrazione è considerata da Leopardi l’unico rimedio all’accrescimento dell’infelicità causato dall’incivilimento; essa consiste nella maggior somma possibile di attività e di azione, così da occupare il più possibi-

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le la vita interiore (le sviluppate facoltà e la vita dell’animo), costringendola a distrarsi dalla condizione infelice dell’esistenza. 9. Questo... similmente: ciò che si è detto riguarda le nazioni, ma il discorso è analogo per gli individui (Degl’individui similmente). 10. P. e.: per esempio. Nei testi dello Zibaldone, che hanno spesso caratteristiche di appunti, l’autore fa spesso uso di abbreviazioni. Talora, inoltre, non completa le frasi, e utilizza espressioni come eccetera. 11. il più felice... insensibilità: l’italiano più felice è quello che per natura (p. natura è un’altra abbreviazione) e abitudine (abito) è meno sensibile e più povero e insensibile interiormente (di animo più morto). Chi ha sensibilità e vitalità (animo vivo), peraltro, non può tornare a essere insensibile. 12. Da questo discorso... umana: il passo conclusivo si riallaccia all’inizio del brano, per sottolineare come la contraddittorietà delle tesi citate inizialmente non sussista. Da un lato, infatti, è giusto lodare [...] l’azione, l’attività, l’abbondanza della vita (come l’autore scrive nell’incipit), in quanto esse distraggono dalla maggiore infelicità coloro che hanno raggiunto quella sensibilità che è legata all’incivilimento, il quale domina una gran parte di Europa; l’animo meno sensibile e meno attivo, tipico di chi vive nello stato selvaggio dell’epoca antica, corrisponde tuttavia alla miglior condizione possibile per la felicità umana, e dunque è auspicabile per l’uomo trovarsi in tale condizione. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Contraddizioni e paradossi della natura Nell’anno 1826 in particolare, come attesta esemplarmente questo passo, Leopardi si pone una domanda per lui essenziale, che riguarda il fine della natura. Tale domanda è anche al centro di questo brano, scritto il 25 e il 26 settembre di quell’anno. Per gran parte del testo, il poeta-filosofo evidenzia le contraddizioni e i paradossi che caratterizzano la natura e trae la conclusione che non si può capire perché, ad esempio, essa fornisca a certi animali gli strumenti di offesa atti ad aggredirne altri, che dota però di armi di difesa, o perché abbia creato sia i veleni che causano malattie, sia i loro antidoti. Rilevante è il fatto che, benché la rubrica redatta da Leopardi parli di Perfezione assoluta, di Ente perfettissimo e di Dio, di tali argomenti non si faccia menzione nel brano, come se l’autore avesse qui rinunciato ad affrontarli. Nell’annotazione riportata alla fine del passo e a commento dello stesso, Fabiana Cacciapuoti – curatrice della edizione critica da cui è tratto il brano – scrive, ricollegandosi alla prima parte della rubrica, che l’Artifizio della natura genera Contraddizioni e che la riflessione su di esse e sui Paradossi in essa impliciti inducono Leopardi a interrogarsi sui fini della natura: a ciò è connessa l’idea di Perfettibilità.

PISTE DI LETTURA

Le innumerevoli contraddizioni e paradossi che si possono osservare nel mondo della natura La domanda senza risposta riguardante il fine della natura La riflessione sui limiti della scienza e degli scienziati

Artifizio della Natura nell’universo, se sia veramente ammirabile –Contraddizioni ridicole in esso sistema – Paradossi – Perfezione assoluta. Ente perfettissimo. Dio Il mondo della natura abbonda di contraddizioni Le armi di attacco e difesa degli animali Pulci, cimici ed esseri umani

[4204, 1] Contraddizioni innumerabili, evidenti e continue si trovano nella natura considerata non solo metafisicamente e razionalmente, ma anche materialmente1. La natura ha dato ai tali animali l’istinto, le arti, le armi da perseguitare e assalire i tali altri, a questi le armi da difendersi, l’istinto di preveder l’attacco, di fuggire, di usar mille diverse astuzie per salvarsi. La natura ha dato agli uni la tendenza a distruggere, agli altri la tendenza a conservarsi. La natura ha dato ad alcuni animali l’istinto e il bisogno di pascersi di certe tali piante, frutta ec.2, ed ha armato queste tali piante di spine p.3 allontanar gli animali, queste tali frutta di gusci, di bucce, d’inviluppi d’ogni genere, artificiosissimi e diligentissimi, o le ha collocate nell’alto delle piante ec. La natura ha creato le pulci e le cimici perché ci succino il sangue, ed a noi ha dato l’istinto di cercarle e di farne strage4. L’enumerazione di tali ed analoghe contrarietà si estenderebbe in infinito, ed

1. Contraddizioni... materialmente: la natura, secondo Leopardi, è contraddittoria non solo se analizzata a livello filosofico (metafisicamente e razionalmente), ma anche se si osserva il mondo naturale quale ci appare (materialmente). Nel passo successivo, Leopardi elenca quelle che considera assurdità logiche – che nella rubrica definisce ridicole –, cominciando dal fatto che la natura ha dato a certi animali strumenti di offesa per attaccare altri animali, che ha però dotato di mezzi di difesa dagli attaccanti. 2. ec.: eccetera. Si tratta di una abbreviazione. Leopardi ne fa spesso uso nello Zibaldone, in quanto le sue pagine sono state scritte in forma di appunti mai pubblicati durante la © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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vita dell’autore. 3. p.: per. 4. La natura... strage: dopo aver citato alcuni esempi di paradossi della natura tratti dal mondo vegetale e animale, l’autore chiama in causa il rapporto fra gli animali e l’uomo. Senza motivo giustificato, la natura ha creato pulci e cimici per succhiare (perché ci succino) il nostro sangue, e contemporaneamente ci ha dato l’istinto di cercarle e farne strage. Il pensiero di Leopardi, come si vede, si orienta sempre più verso la concezione di una natura incomprensibile, se non matrigna e nemica dei viventi che ha generato.

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Il fine dei paradossi della natura è ignoto Ciò che i naturalisti non si domandano

Gli insolubili enigmi della natura

Il paragone con un medico incapace

La paradossale creazione di veleni e di antidoti

abbraccierebbe ciascun regno5, ciascuno elemento, e tutto il sistema della natura. Io avrò torto senza dubbio, ma la vista di tali fenomeni mi fa ridere. Qual è il fine, qual è il voler sincero e l’intenzione vera della natura?6 Vuol ella che il tal frutto sia mangiato dagli animali o non sia mangiato? Se sì, perché l’ha difeso con sì dura crosta e con tanta cura? se no, perché ha dato ai tali animali l’istinto e l’appetito e forse anche il bisogno di procacciarlo e mangiarselo? I naturalisti ammirano la immensa sagacità ed arte della natura nelle difese somministrate alla tale o tale specie animale o vegetabile o qualunque, contro le offese esteriori di qualunque sia genere. Ma non pensano essi che era in poter della natura il non crear queste tali offese?7 che essa medesima è l’autrice unica delle difese e delle offese, del male e del rimedio? E qual delle due sia il male e quale il rimedio nel modo di vedere della natura, non si sa8. Si sa ben che le offese non sono meno artificiosamente e diligentemente condotte dalla natura che le difese9; che il nibbio o il ragno non è meno sagace di quel che la gallina o la mosca sia amorosa o avveduta. Intanto che i naturalisti e gli ascetici10 esaminando le anatomie de’ corpi organizzati, andranno in estasi di ammirazione verso la provvidenza per la infinita artificiosità ed accortezza delle difese di cui li troverà forniti, io finché non mi si spieghi meglio la cosa, paragonerò la condotta della natura a quella di un medico, il quale mi trattava con purganti continui, ed intendendo che lo stomaco ne era molto debilitato, mi ordinava l’uso di decozioni di china e di altri attonanti per fortificarlo e minorare l’azione dei purganti, senza però interromper l’uso di questi. Ma, diceva io umilmente, l’azione dei purganti non sarebbe minorata senz’altro, se io ne prendessi de’ meno efficaci o in minor dose, quando pur debba continuare d’usarli11? (Bologna. 25 settembre 1826). V. p. seg.12

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[4205, 2] Alla p. preced.13 Si ammiri quanto si vuole la provvidenza e la benignità della natura per aver creati gli antidoti, per averli, diciam così, posti allato ai veleni,

5. ciascun regno: ciascuno dei regni – minerale, vegetale, animale – in cui si usano suddividere gli esseri viventi. 6. Qual è il fine... natura?: Leopardi afferma che non si comprendono lo scopo (fine) e l’intenzione vera della natura. Per chiarire meglio ciò che intende dire, subito dopo, l’autore aggiunge un ulteriore esempio. 7. I naturalisti... offese?: la concezione di Leopardi sui limiti della scienza e degli scienziati – uno dei cardini del suo pensiero – è qui espressa apertamente. Gli studiosi della natura (naturalisti) ammirano l’astuta intelligenza (sagacità) con cui la natura stessa ha dotato specie animali o vegetali di artificiosi e mirabili strumenti per difendersi dagli attacchi (offese) di altre specie, ma non pensano che la natura avrebbe potuto evitare di dotare di strumenti di difesa queste altre specie. In altre parole: i naturalisti studiano vegetali e animali, ma non si interrogano sui fini ultimi della natura. 8. che essa... non si sa: in questa, come nella precedente domanda, appare ormai compiuta una sorta di divinizzazione leopardiana della natura, alla quale sembrano essere attribuite caratteristiche tipiche degli dèi e delle divinità. Forse per questa ragione, nella rubrica, è presente un richiamo a Dio, Ente perfettissimo: la natura di cui si parla nel brano manca delle caratteristiche benevole e positive di Dio. Per certi aspetti, essa ricorda gli dèi antropomorfi del mondo classico. Nel testo, si attribuisce alla natura, autrice unica – quasi personificandola – anche un modo di vedere. Esso risulta incomprensibile per l’uomo. Numerosi testi leopardiani successivi – in particolare delle Operette morali e

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dei Canti – presenteranno la natura con queste medesime caratteristiche. 9. Si sa ben... difese: la natura non crea solo mirabili artifici di difesa; anche le armi di distruzione (le offese) nel mondo naturale sono da essa costruite con straordinaria abilità (non meno artificiosamente e diligentemente). 10. gli ascetici: gli asceti, la cui fede religiosa è dotata di intensa spiritualità. Essi tendono al distacco dal mondo e al mistico superamento della carne e della materia. 11. io... usarli: il tono del paragone è amaramente ironico. Rifacendosi a una sua esperienza personale (come spesso accade nella sezione Memorie della mia vita), l’autore ricorda un medico incapace che gli prescriveva continuamente purganti e che, vedendo poi il suo stomaco indebolito (debilitato) dalla terapia, gli aveva ordinato di assumere decotti (decozioni) di china e altre medicine atte ad aiutare lo stomaco (attonanti), senza però sospendere l’uso dei purganti. L’operato della natura viene considerato contraddittorio come quello di questo medico. 12. V. p. seg.: vedi pagina seguente. Leopardi stesso rinvia alla pagina manoscritta successiva in cui, il giorno seguente al 25 settembre, aggiunge alcune righe al brano. Anche tali righe – raggruppate sotto la stessa rubrica – sono qui da noi riportate, in quanto Leopardi riconduce i due brani nella medesima rubrica. 13. Alla p. preced.: alla pagina precedente. L’annotazione abbreviata in questa forma è presente nel manoscritto di Leopardi.

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per aver collocati i rimedi nel paese che produce la malattia. Ma perché creare i veleni? perché ordinare le malattie? E se i veleni e i morbi sono necessari o utili all’economia dell’universo, perché creare gli antidoti14? perché apparecchiare e porre alla mano i rimedi?15 (Bologna. 1826. 26 settembre)

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14. Si ammiri... antidoti: evidenziando ancora i limiti della scienza, come nell’appunto del giorno precedente, Leopardi aggiunge una considerazione. Essa riguarda le lodi che alla natura sono spesso tributate per il fatto che essa stessa crea antidoti alle proprie sostanze tossiche (veleni). L’autore ribadisce che non vi è ragione per giustificare la creazione, da parte della natura, di questi veleni che generano le malattie. Si spinge però anche oltre, affermando che, se per qualsiasi ragione sconosciuta all’uomo, le © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

malattie (morbi) e i veleni fossero in qualche modo utili all’economia dell’universo, la natura non avrebbe alloro dovuto creare gli antidoti che difendono da essi, ostacolando l’operato distruttivo dei veleni. 15. perché... rimedi?: il poeta-filosofo ribadisce il fatto che, se per qualsiasi ragione ignota all’uomo la natura ritenesse generalmente utile il male delle sue creature – qui esemplificato dai veleni –, non dovrebbe predisporre (apparecchiare) i rimedi ai veleni stessi.

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La consolozione del dolore per gli antichi e per i moderni Il brano è composto da un passo del 15 gennaio 1827 e da una breve ma significativa aggiunta del 22 aprile 1827, che tratta il medesimo argomento, indicato – nella rubrica scritta dall’autore – con le sole parole: Consolazione – Dolore. Come bene annota Fabiana Cacciapuoti, curatrice dell’edizione critica dello Zibaldone da cui è tratto questo brano, per i moderni la vera forma di Consolazione al Dolore è il tempo. L’autore sottolinea come migliore fosse però il conforto predisposto dalla natura, consistente in spontanei sfoghi fisici (urla, gesti inconsulti e simili): esso, praticato dagli antichi e dai selvaggi, è in età moderna usato ormai solo dalla gente del volgo. Ma nella breve aggiunta scritta in aprile, Leopardi prende le distanze dalle esagerate lamentazioni degli antichi, scrivendo che per loro esse erano quasi un piacere (voluttà). Il poeta-filosofo appare quindi diviso tra il controllo di sé di fronte al dolore, imposto dalla modernità, e il desiderio di gridare il proprio dolore, secondo la naturalità antica. Il brano è selezionato da Leopardi anche per la sezione dello Zibaldone intitolata Manuale di filosofia pratica.

PISTE DI LETTURA

Gli sfoghi fisici naturali di fronte alla sventura sono usati da antichi, selvaggi e, in età moderna, dal volgo L’unica consolazione al dolore per i moderni è domare l’animo con l’aiuto del tempo La civiltà moderna ha privato l’uomo del migliore anestetico, predisposto dalla natura

Consolazione – Dolore. Non si conforta più il dolore con urla e sfoghi fisici

Praticare sfoghi istintivi consola

Il tempo ci aiuta a domare l’animo sofferente

[4243, 8] A noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte, strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti, cose usate nelle sventure dagli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi oggidì dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore1; e veramente a noi non sarebbero, perché non ci siamo più inclinati e portati dalla natura in niun modo2; e quando anche le facessimo, le faremmo forzatamente, sarebbe studio3 e non natura, e però4 cosa inutile: tanto è mutata, vinta, cancellata in noi la natura dall’assuefazione5. Ma egli è però certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si può volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto grandissimo ed un compenso molto opportuno nelle calamità6. Quella resistenza che l’animo fa naturalmente alla sciagura e al dolore, è il più penoso che abbiano le disavventure7, è il maggior dolore che prova l’uomo. Quando l’animo è domato, ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile. Questo domar l’animo, questo ridurlo a cedere alla necessità e conformarsi allo andamento e alla condizion delle cose, lo fa in noi il tempo8, il quale però il Voltaire chiama consolatore9. Ma lo fa con lunghezza; e quella prima resisten-

1. A noi non pare... dolore: gli sfoghi fisici (gridare [...] dar del capo nelle pareti) di antichi, selvaggi e moderna gente di basso ceto (genti del volgo) sono considerati dall’autore forme di consolazione (conforto) al dolore o alla sventura inefficaci. Il noi leopardiano – come in molti altri passi – funge qui da prima persona singolare. L’autore, però, usando il noi si fa anche in qualche modo portavoce delle altre persone moderne e civili di animo non primitivo. 2. non ci siamo... niun modo: la natura non ci spinge più in alcun modo (niun modo) a sfogarci in forme simili a quelle sopra citate. 3. studio: atto artificioso, volontariamente studiato. 4. però: perciò. Però al posto di perciò è un arcaismo.

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5. assuefazione: abitudine (in questo caso, alla sopportazione del dolore e all’autocontrollo). 6. Ma egli è... calamità: chi però nelle sventure (calamità) pratica istintivamente (naturalmente) questi atti, insegnati dalla natura, ne ricava grande conforto al dolore. 7. Quella resistenza... disavventure: resistere al dolore senza manifestare reazioni e riuscendo a vincere i propri spontanei impulsi di ribellione alla sventura (domar l’animo) è la cosa che dà maggiore sofferenza (è il più penoso). 8. Questo domar... il tempo: solo il trascorrere del tempo aiuta i moderni a domar l’animo e ad assuefarlo al dolore. 9. il quale però... consolatore: il quale tempo è perciò chiamato da Voltaire consolatore del dolore. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Differenze fra le due forme di conforto

Vantaggi dello sfogo fisico primitivo

La civiltà priva l’uomo della consolazione migliore

Il piacere degli antichi nell’ululare per il dolore

za, oltre al durar di più, ha questo ancora di più doloroso, che ella si rivolge e si esercita contro di noi stessi; ella è dell’animo all’animo10. Laddove nei selvaggi e nelle persone volgari, ella si esercita contro le cose esterne, per così dire; e siccome le sue operazioni sono più vive, così ella langue e manca11 più presto. Ella abbatte il corpo, e però travaglia assai meno l’animo; bensì perché col corpo anco l’animo è abbattuto, perciò quelle tali persone, dopo quegli atti, si trovano aversi domato l’animo e ridotto, per dir così, alla dedizione, da loro stessi, senza aspettare il tempo; onde quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l’animo accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso, senza esser però coraggiosi. Ed è già notato e notasi giornalmente che nei plebei il dolore delle grandi sventure dura assai meno che nelle persone colte. Sicché quegli sfoghi sono veramente una medicina quasi un narcotico preparata dalla natura medesima, perché l’uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente. E noi siamo ridotti a non saper né pure intendere12 come essi giovino a quelli che naturalmente gli vediamo esercitare. Ed è questo un altro beneficio della filosofia e della civiltà13, che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro14. V. p.428315. (Recanati 15. 1827. S. Paolo, primo eremita16.). [4283, 1] Alla p. 4245. Aggiungi a queste cose17 la voluttà (ben conosciuta e notata dagli antichi) del piangere, del gemere, dello stridere, dell’ululare nelle disgrazie; della quale noi siamo privati18. (Recanati. Domenica in Albis. 22 aprile 1827)

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10. Ma lo fa... animo: la consolazione che si basa sul tempo è ritenuta dall’autore meno efficace perché agisce in un periodo più lungo (lo fa con lunghezza) e perché implica una lotta interiore, per dominare il proprio animo (ella è dell’animo all’animo), in chi è stato colpito da sventura. 11. langue e manca: si affievolisce e viene meno, si spegne. 12. intendere: comprendere. 13. Ed è questo... civiltà: l’espressione è ironica e sarcastica, e va intesa in senso opposto a quello letterale. Come in seguito l’autore chiarisce, l’incivilimento, facendo apparire come comportamenti da vili e da ignoranti (indotti) gli sfoghi naturali del dolore, ha privato i moderni del conforto predisposto dalla natura, che era assai più efficace di tutti gli altri in uso. 14. molto più efficace... loro: Leopardi si contraddice: all’inizio afferma, seguendo il pensiero di Voltaire, che l’unico rimedio al dolore è il tempo; qui invece sottolinea come gridare e sfogare fisicamente la propria sofferenza e sventura aiuti a sopportarla e superarla. Tale seconda consolazione, anestetico predisposto dalla natura, era ed è, per chi riesce spontaneamente a metterla in atto, di gran lunga il migliore. L’affermazione è però in qualche modo attenuata dal contenuto delle righe aggiunte alcuni mesi dopo (vedi nota 18): esso appare infatti critico verso la tendenza degli antichi a ricavare un piacere (voluttà) dal dolore gri© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

dato esageratamente, con caratteristiche quasi animalesche (stridere [...] ululare). 15. V. p. 4283: vedi pagina 4283. La nota, scritta a mano da Leopardi molto tempo dopo la stesura del brano principale, rinvia alle righe che trattano ancora della consolazione del dolore. 16. 15… primo eremita: S. Paolo, primo eremita viene festeggiato 15 gennaio. Da qui si deduce la data di questo passo dello Zibaldone. 17. Alla p. 4245… queste cose: la nota Alla p. 4285, scritta a mano da Leopardi, è il rimando al passo dello Zibaldone che è stato appena proposto e testimonia l’intenzione dell’autore di ordinare sistematicamente i suoi scritti. L’espressione queste cose allude – come se il discorso interrotto continuasse – alle considerazioni svolte nelle ultime righe del brano del 15 gennaio 1827. 18. la voluttà... privati: quasi per controbilanciare le tesi precedentemente sostenute, Leopardi sottolinea il fatto che gli antichi, a differenza dei moderni che di ciò sono privati, consideravano come una sorta di piacere (voluttà) piangere, gemere, stridere e ululare nelle disgrazie. I verbi stridere e ululare, in particolare, conferiscono un tono ironico al breve passo, in quanto si riferiscono a grida emesse da specie animali quali alcuni grossi uccelli (stridono, ad esempio, le cornacchie) e all’ululato dei lupi.

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Piacere del vago e rimembranza Il brano è destinato esplicitamente e prioritariamente da Leopardi alla sezione Memorie della mia vita: anche secondo la Cacciapuoti indicare tale destinazione è lo scopo principale dell’ellittico incipit, che sembra quasi un titolo. Prendendo le mosse dall’esperienza personale dell’autore, il testo allude a due elementi a lui cari: il vago o indefinito – citato nella rubrica – e la rimembranza. Come annota la curatrice, il passo tratta anche di malinconia (Leopardi si definisce tristo; per questo il testo è selezionato dall’autore per il “Trattato delle passioni, qualità umane ec.”), ma, nel contempo, indica una positiva via d’accesso al piacere e alla contentezza (e per questo motivo è selezionato anche per il “Manuale di filosofia pratica”). I concetti leopardiani qui espressi si ritrovano anche nei Pensieri e nei Canti.

PISTE DI LETTURA

Nel passato dell’autore un luogo diventava per lui caro solo grazie ai ricordi, anche di cose irrilevanti Il rapporto fra rimembranza e piacere dato da ciò che è vago, espresso dalle parole-chiave della rubrica PIACERE. TEORIA DEL PIACERE. Rimembranze – Vago

Una memoria di vita di Leopardi

La dolcezza della vaga rimembranza...

…scacciava la sua tristezza e ogni luogo gli pareva caro

[4286, 6] Memorie della mia vita1. Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m’avvidi che io non mi trovava2 mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo3, finattantoché4 io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo5, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento6; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare7. Però8 io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll’andar del tempo mi trovava sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo9. (Firenze. 23 luglio 1827.). Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo natio10.

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1. Memorie della mia vita: queste parole, che introducono il breve brano, secondo quanto osserva la Cacciapuoti, indicano che Leopardi lo ha “scelto consapevolmente” per la sezione dello Zibaldone denominata Memorie della mia vita, perché di essa è un esempio tipico. 2. non mi trovava: non mi trovavo. Qui, come in molti altri passi e versi di Leopardi, la prima persona singolare dell’imperfetto indicativo ha una desinenza che finisce in -a (si tratta di un latinismo; la -a sarà sostituita da -o dopo la riforma linguistica manzoniana). 3. mai naturalizzato... ottimo: l’autore non si sentiva mai a suo agio (naturalizzato) in un luogo, anche se quel luogo aveva eccellenti caratteristiche (comunque peraltro ottimo). 4. finattantoché: fino a che. 5. delle rimembranze... luogo: dei ricordi da collegare a esso. Sono tali ricordi, spesso riferiti a cose irrilevanti, a ren-

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dere il luogo importante e dolce, dunque fonte di piacere. 6. non sarà stata… momento: sarà stata di scarsa importanza. 7. se non... mancare: se non con il trascorrere (successo) del tempo, e il tempo che passava non poteva più cancellarla (col tempo non mi poteva mancare). 8. Però: perciò. 9. io era... luogo: per alcuni mesi, giunto in un luogo, l’autore era triste (tristo), ma in seguito (coll’andar del tempo) si affezionava a ogni luogo, in quanto qualunque luogo, diventando vago e indefinito nel ricordo e trasferendosi in esso, lo rendeva contento. 10. Colla rimembranza... natio: queste parole, aggiunte dopo la data, sono di fondamentale importanza. In esse Leopardi sottintende ciò che altrove afferma con chiarezza, vale a dire che la rimembranza dà piacere in quanto appartiene alla sfera del vago. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Antologia critica Le Memorie della mia vita nello Zibaldone ordinato secondo gli Indici – di Antonio Prete Titanismo e pietà nell’opera di Leopardi – di Umberto Bosco Leopardi e le città: Milano – di Attilio Brilli

Amore, morte e malinconia in Leopardi – di Elio Gioanola

L’inno all’amore nella conclusione dei Canti – di Leone Piccioni

Filosofia e poesia del nulla nella Ginestra – di Emanuele Severino

Il pessimismo agonistico: la lotta titanica contro la natura – di Sebastiano Timpanaro

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Le Memorie della mia vita nello Zibaldone ordinato secondo gli Indici

INTERPRETAZIONE CRITICA

Antonio Prete

Il critico Antonio Prete, in un ampio passo di cui qui presentiamo gli stralci fondamentali, chiarisce, analizza e interpreta le caratteristiche della sezione dello Zibaldone intitolata Memorie della mia vita. Per la prima volta, l’ordine dei testi non segue più la successione progressiva e cronologica delle migliaia di pagine del manoscritto leopardiano, ma procede secondo gli Indici e le schede predisposte dall’autore per riorganizzarlo. Dalle intenzioni di Leopardi emerge una suddivisione dello Zibaldone in sei parti, rispettivamente intitolate: Trattato delle passioni; Manuale di filosofia pratica; Della natura degli uomini e delle cose; Teorica delle arti, lettere. Parte speculativa; Teorica delle arti, lettere. Parte pratica; Memorie della mia vita. Nel passo proposto Antonio Prete, relativamente all’introduzione all’ultima sezione, mette in luce aspetti di notevole rilievo, fra cui le intenzioni di Leopardi nell’organizzarla e il poliedrico significato del titolo Memorie della mia vita. Egli spiega, inoltre, l’importanza di alcune parole chiave dell’universo leopardiano, che ritornano nelle Memorie e altrove: fra esse, in particolare, il termine ricordanza.

Quando, a partire dall’11 luglio del 1827, Leopardi pose mano agli Indici del suo Zibaldone, l’“immenso scartafaccio” gli sarà apparso come un selvoso1 paesaggio i cui sentieri per essere ripercorsi avevano bisogno di una guida. L’autore decide allora di farsi guida a se stesso, lasciando al frammento la sua autonomia e nello stesso tempo disseminando cartigli perché i pensieri tra di loro si possano richiamare, corrispondere, aggregare in disegni più ampi, in possibilità discorsive, senza perdere nulla della loro frammentarietà e del loro legame con l’occasione, con la sospensione, con la scansione dei giorni. La guida vorrebbe insomma avvertire che il cammino si svolge all’aperto, e ci sono, prima e dopo il singolo passaggio, lontananze e riflessi che possono attrarre lo sguardo dell’osservatore2. [...] Sulla soglia di questo particolare Zibaldone3 che, per le cure di Fabiana Cacciapuoti, dà forma per così dir visibile ed esplicita alla rivisitazione per temi compiuta dallo stesso autore, possiamo indugiare4 brevemente su alcune di quelle questioni che dal tempo della scrittura leopardiana, un tempo scandito dal trascorrere dei giorni5, giungono, con integra energia, nel cuore della nostra epoca, e ci interpellano6, e vanno a posarsi nel vivo delle nostre ragioni, delle nostre passioni. [...] Sotto la voce Memorie della mia vita7 Leopardi non ha raccolto i passaggi di un’autobiografia né il disegno di un’esistenza, ma una raggiera di riflessioni8 che, appunto alla maniera di Montaigne9, dalla riva dell’io10, si interrogano sull’esistenza in generale, sulle sue forme, sui saperi e la loro vanitas11, sul tempo e la sua irreversibilità, sulla poesia e la malinconia, sulle fantasmagorie del nulla – con la loro energia raggelante –, sul desiderio e il piacere, sulla compassione, sulla tensione verso l’infinito e sulla sua impossibile rappresentazione, sulla leggerezza e l’immaginazione, sui costumi e la loro variabilità, sui caratteri dei giovani e dei vecchi, sull’amor proprio e la solitudine, sulla caducità dell’individuo e dei popoli, sull’universalità del male12. Nell’espressione “mia vita” c’è il tempo-spa-

1. selvoso: coperto di boschi. 2. L’autore... osservatore: nel suo elegante stile ricco di metafore, Antonio Prete mette in luce come Leopardi, stilando gli Indici del 1827 dello Zibaldone, abbia inteso fornire una guida e una possibilità di lettura basata su rimandi, legami e connessioni attraverso indicazioni scritte (i cartigli sono minuscoli testi: per lo più titoli e rubriche), ma abbia al tempo stesso voluto lasciare a ogni frammento del testo la sua autonomia, senza introdurlo in un sistema filosofico organico. 3. Sulla soglia... Zibaldone: cioè introducendo l’innovativa (particolare) edizione critica dello Zibaldone (vedi l’introduzione a questo brano). 4. indugiare: soffermarci. 5. un tempo... giorni: il manoscritto leopardiano, e ogni edizione tranne quella innovativa introdotta da Prete, segue l’ordine delle pagine e, dunque, delle date progressive (il trascorrere dei giorni) che Leopardi appone in calce a ogni annotazione dello Zibaldone.

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ANTOLOGIA CRITICA

6. ci interpellano: ci pongono domande, vale a dire suscitano in noi interrogativi. 7. Memorie della mia vita: come si è detto, è questo il titolo dell’ultima delle sei grandi sequenze in cui lo Zibaldone è riordinato secondo le intenzioni di Leopardi e, dunque, anche nell’edizione curata da Fabiana Cacciapuoti e introdotta da Antonio Prete. 8. una raggiera di riflessioni: un insieme di riflessioni che, come raggi, si diramano in direzioni diverse. 9. Montaigne: lo scrittore francese Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592), autore degli Essais (“Saggi”), opera con struttura aperta che tratta sinteticamente numerosissimi argomenti secondo il punto di vista dell’autore. 10. dalla riva dell’io: prendendo le mosse dall’io dell’autore. 11. vanitas: latino, vanità. 12. sull’esistenza... male: questo elenco di argomenti comprende i principali temi affrontati da Leopardi nella sezione Memorie della mia vita. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

zio di un’infanzia e di un’adolescenza nel quale l’interrogazione sul sapere e sull’esistenza prende forma, e ha trasalimenti, dubbi, stupori, paure13. Questi frammenti14 dello Zibaldone raccontano splendidamente come la memoria sia davvero un raccoglimento del pensiero presso se stesso, una meditazione, un’esplorazione di sé che si fa interrogazione del mondo . L’immaginazione è quel che sostiene questo movimento15. [...]. I ricordi si dispongono come segnali intorno a cui si raccolgono le forme di un’assidua meditazione. La stessa riflessione sulla ricordanza, così rilevante nel definirsi di una poetica, poggia sull’esperienza della fanciullezza16. [...] Per Leopardi, come è rilevante l’antico, così lo è la fanciullezza. Nella quale hanno fondamento idee e carattere individuale, modi d’essere e d’agire. Anche il privilegiamento dell’epopea, degli eroi greci e troiani più che della storia greca o romana o ebraica, ha il segno di un’esperienza fanciullesca17, della sua vitale forza immaginativa e creativa. L’analisi leopardiana del sentire ha come teatro dell’elaborazione la propria interiorità e come testimone il proprio ricordare. Dall’esperienza muove quell’assiduo curvarsi sulle passioni e lo stesso sguardo sulla bellezza18. [...] Quel “mia vita” non ha alcuna recinzione biografica, sa che della propria vita si può dire in rapporto a tutti i viventi, uomini e animali e piante e corpi celesti. Ed è questo sguardo, che sa spingersi verso l’oltretempo lunare e stellare, a presiedere al movimento della poesia19, al suo dispiegarsi. Così, nella parte dello Zibaldone che segue alla rappresentazione degli Indici20, proprio la poesia sarà campo di riflessione privilegiato. [...] La poesia è per Leopardi davvero l’ultima cura, l’ultimo respiro21. da A. Prete, Preludio, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, Donzelli, Roma, 2014

13. Nell’espressione... paure: Antonio Prete interpreta l’espressione “mia vita”, contenuta nel titolo della sezione, come la testimonianza del legame fra le riflessioni presenti nei frammenti manoscritti e gli interrogativi e le emozioni che Leopardi si è posto o ha sperimentato fin dall’infanzia e dall’adolescenza. 14. Questi frammenti: i frammenti appartenenti alla sezione Memorie della mia vita. 15. raccontano... movimento: la frase intende sottolineare come la parola “memoria”, inclusa nel titolo della sezione analizzata, vada interpretata in modo molto ampio. Essa si riferisce, in senso stretto, alla ricordanza o ricordo – la cui importanza per Leopardi sarà evidenziata subito dopo – ma, sostenuta dalla immaginazione, si spinge ben oltre tale ambito. 16. I ricordi... fanciullezza: passando ad analizzare la concezione leopardiana dei ricordi, spesso oggetto di riflessione o direttamente presenti nelle Memorie della mia vita, Antonio Prete ne evidenzia il legame con la fanciullezza, la quale rappresenta un elemento fondamentale nella poetica leopardiana. 17. Per Leopardi... fanciullesca: la considerazione del critico evidenzia qui come la rilevanza della fanciullezza e quella dell’antico – vale a dire, della fanciullezza dell’umanità, ma anche dei lontani e vaghi ricordi d’infanzia del poeta – siano strettamente interconnesse in Leopardi. 18. L’analisi... bellezza: Prete ribadisce qui come ogni cosa © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

importante per Leopardi – dal sentire alla visione della bellezza – si fondino, nel poeta-filosofo, sulla elaborazione interiore, resa possibile dal ricordo (ha come teatro dell’elaborazione la propria interiorità e come testimone il proprio ricordare). Ciò si manifesta con particolare evidenza nelle Memorie della mia vita. 19. Quel “mia vita”... poesia: Antonio Prete conclude la propria ampia riflessione critica sulle Memorie della mia vita sottolineando come l’espressione “mia vita” non vada intesa in senso solo autobiografico (non ha alcuna recinzione biografica), in quanto la vita sofferente, cui Leopardi accomuna la propria, è un fenomeno universale (si può dire in rapporto a tutti i viventi, uomini e animali e piante e corpi celesti). Essa si spinge sempre oltre, nel tempo e nello spazio, e non è racchiusa in netti confini. Questo spingersi oltre è anche un carattere tipico della grande poesia. 20. nella parte... Indici: nelle Memorie della mia vita e negli altri testi che derivano dagli Indici dello Zibaldone (in particolare, le schede predisposte da Leopardi per riorganizzare le migliaia di pagine del suo manoscritto). 21. La poesia è... respiro: fino all’istante che conclude la sua vita, per Leopardi la poesia è l’ultima preoccupazione affettuosa (cura) e ciò che fino all’ultimo dona senso e spirito (respiro) alla vita. Lo attesta, fra l’altro, come anzidetto (vedi nota 19), il vastissimo spazio di riflessione che il poeta-filosofo dedica alla poesia nelle Memorie della mia vita.

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Titanismo e pietà nell’opera di Leopardi

INTERPRETAZIONE CRITICA

Umberto Bosco In uno studio critico di cui riportiamo uno stralcio, Umberto Bosco analizza le fasi del titanismo leopardiano, che a suo avviso è presente in tutta l’opera del poeta, ma con caratteristiche che si evolvono e rivelano perciò tratti diversi. A partire dalla canzone Bruto minore, in particolare, secondo quanto Leopardi stesso afferma, per il poeta-filosofo il coraggio umano si identifica con l’eroismo di chi conduce una esistenza senza speranza ma la sopporta, attribuendone la colpa al ferreo destino che domina l’universo e non trasformando in capri espiatori gli altri uomini. Nell’ultima parte dello stralcio proposto, Bosco evidenzia come in Leopardi la pietà verso le creature si accompagni spesso al titanismo inducendolo – con esiti poeticamente notevoli – a non incentrare la sua lirica sul dolore individuale proprio o di singoli personaggi, ma a presentare il male di vivere come espressione della “ragion d’essere, cioè di soffrire, di tutti”.

Leopardi si riconoscerà sempre in Bruto1. Scriverà al De Sinner2 il 24 maggio 1832: “Mes sentiments envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j’ai exprimés dans Bruto minore. Ç’à été par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes recherches à une phjlosophie désespérante, je n’ai pas hésité à 1’embrasser toute entière”3. Qui è colto dal Leopardi stesso il passaggio dall’uno all’altro coraggio, e insieme la loro sostanziale identità4. Le Operette morali, e specialmente le prime venti di esse, composte come si sa tutte nel 1824, possono essere considerate frutto poetico di questo coraggio intellettuale, espressione del titanisrno del pensiero, a cui accennavamo, in un suo particolare momento. [...] Qui il suo titanismo è per cosi dire raccolto, schivo di esibirsi; il convincimento è cosi totale, che rifiuta anche lo sfogo della maledizione. Si esprime soprattutto nella fermezza e lucidità dello stile, in cui si riflette un fermo e lucido coraggio; la persuasione, cosi profondamente negativa che sembrerebbe non poter essere espressa che con un grido lirico o, nel campo biografico, con un disperato gesto, e pacatamente ragionata. [...] Da questo stato il Leopardi “risorgerà” nel 1828 [...]. È la breve felice stagione dei grandi Idilli5. Nei quali senza dubbio altri spiriti, altri toni sentimentali e stilistici (i quali, d’altra parte [...] sono propri e caratterizzanti di tutto il Leopardi e non solo del poeta di quel biennio) hanno di gran lunga la prevalenza sui titanici [...]. Ma oltre il biennio dei grandi Idilli, riappare il titano folgorante di prima: non più, s’intende, combattente per la patria e per risvegliare dall’inerzia i suoi simili, non più neppure inflessibilmente fedele a una credenza che per essere erronea non cessa d’essere magnanima; ma sempre indomito lottatore contro la “ferrata necessità”6. Ma c’è da fare un’altra considerazione [...]. Anche quando canta direttamente se stesso, la sua infelicità, il Leopardi contempla in sé medesimo gli altri, l’infelicità di tutti. Né potrebbe essere diversamente. La propria infelicità egli non la considera come effetto di determinati eventi e situazioni, ma come costituzionale, necessaria, perpetua; essa non e propria a lui solo, ma comune a tutti. Se considera determinate crea-

1. Bruto: si allude qui al protagonista della canzone leopardiana Bruto minore, da Leopardi stesso ritenuto modello di un eroismo che il poeta identifica con il proprio coraggio. Storicamente, il Bruto cui è dedicata la canzone muore suicida dopo la sconfitta di Filippi ed è il figlio adottivo di Caio Giulio Cesare, al cui assassinio Bruto contribuì, nel 44 a. C., con altri congiurati. 2. De Sinner: destinatario della lettera in lingua francese del 1932 – di cui Bosco qui riporta uno stralcio –, Luigi De Sinner è un filologo e studioso svizzero entrato in rapporto di amicizia con Leopardi. 3. “Mes sentiments... entière”: “I miei sentimenti verso il destino sono stati e sono sempre quelli che ho espressi in Bruto minore. È stato in seguito a questo stesso coraggio che, essendo io condotto dalle mie ricerche a una filosofia senza speranze, non ho esitato ad abbracciarla interamente”. La lettera è scritta da Leopardi in francese, lingua usata

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dal destinatario. La traduzione è di Umberto Bosco. 4. il passaggio... identità: Bosco ha precedentemente affermato che in una prima fase il titanismo di Leopardi è di stampo alfieriano e che verte sullo sdegno verso i contemporanei; solo con il Bruto minore ha inizio una seconda fase, basata sull’eroica solitudine dell’uomo che non intravede speranze nell’esistenza e che combatte contro il destino umano. 5. grandi Idilli: i canti composti negli anni 1828-1830, detti anche pisano-recanatesi. In una parte qui omessa, Bosco ritiene tuttavia che nel principale fra essi – il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829-1830) – si manifesti in qualche modo titanismo leopardiano, poiché il pastore “non rinuncia a porsi tremende domande, pur sapendo di non poter dare loro risposta”. 6. “ferrata necessità”: ferreo destino. Citazione dal Bruto minore (vv. 31-32). © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

ture (e lui stesso) è perché esse sono esemplari di tale perpetua e universale infelicità: lui stesso più degli altri, in quanto egli è: la testimonianza a lui naturalmente più vicina, controllabile, e pertanto incontrovertibile, dell’idea che egli si è fatta della sorte degli uomini, anzi di tutti gli esseri. [...] Contrariamente alla tradizionale opinione di origine romantica, la poesia degli ultimi versi delle Ricordanze, quelli di Nerina, pur alti, non sono pari per purezza ai precedenti, non sono esenti da qualche traccia d’enfasi: e ciò avviene appunto quando la rimembranza della dolce e tradita giovinezza si concreta in una determinata figura e, più, in una determinata vicenda di morte. Silvia7, pur poeticamente configurata in una precisa personalità, riflette in sé ed esprime una sorte comune che trascende quella personalità: la figurazione di Nerina, pur sulla stessa linea, non è così profonda, perché ha in sé qualcosa di biografico; ella e un po’ “personaggio”. E il Leopardi non può, come abbiamo detto, creare personaggi, cioè figure che abbiano solo in sé stesse e nelle loro personali vicende la loro ragion d’essere, ma crea lievi, fuggevoli figure che riflettono la ragion d’essere, cioè di soffrire, di tutti. da U. Bosco, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze, 1957

7. Silvia: la protagonista di A Silvia, che, secondo Bosco – assai più di Nerina, figura centrale nelle Ricordanze – è simbolo dell’universale condizione umana. A parere del critico, A Silvia è poeticamente meglio riuscita, in quanto il titanismo di Leopardi in essa si accompagna sempre alla pietà per il dolore che fa soffrire tutte le creature. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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Leopardi e le città: Milano

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Attilio Brilli Recanati – il natìo borgo selvaggio di cui Leopardi scrive nelle Ricordanze –, ma anche Roma, Bologna, Milano, Pisa, Napoli, sono le principali città che Antonio Brilli prende in considerazione per studiare il rapporto che con esse ha il poeta e per fare luce sui giudizi che egli ne dà. L’interessante studio, di indirizzo biografico e psicologico, si basa soprattutto sul vastissimo Epistolario di Leopardi e sulle lettere dei suoi numerosi corrispondenti. L’analisi del rapporto con la Milano asburgica, cui si riferisce lo stralcio qui proposto, conduce Brilli a trarre la conclusione secondo cui il giudizio del grande scrittore nei confronti del capoluogo del Regno Lombardo-Veneto – pure comunque generalmente ostile alle città, tranne forse, in parte, a Napoli – è particolarmente negativo. Il brano attesta ed evidenzia le ragioni di ciò e ci presenta un Leopardi che della città lombarda traccia un’immagine diametralmente opposta a quella che dipinge lo scrittore francese Stendhal, entusiasta di alcune caratteristiche della realtà milanese – come il poter “bighellonare” senza scopo per la città – , invise invece al grande autore recanatese, che alla vita nelle aggregazioni urbane preferisce un mondo ben diverso: quello della sua ricchissima immaginazione e vita interiore.

Sin dagli anni della prima giovinezza l’immagine di Milano s’era associata in Leopardi a quella delle fortune editoriali e implicitamente all’idea della gloria letteraria. “A Milano si stampa quel che si vuole da chi ha la fortuna di trovarvisi, e tutto a conto degli stampatori e con sicurezza degli esiti”, cosi scriveva il poeta con qualche ingenuità nel 18161. Resta il fatto che Milano è di gran lunga la città con il più alto numero di periodici. Dell’editoria in generale può essere considerata la capitale. Figura di rilievo nel panorama editoriale milanese è Anton Fortunato Stella che ha da tempo rapporti con casa Leopardi e che, sin dalla sua visita a Recanati nel 1816, ha intuito la straordinaria intelligenza e la sconfinata erudizione del figlio di Monaldo. Come è noto, con la progettata edizione delle opere di Cicerone, lo Stella formula al giovane Leopardi la proposta d’una collaborazione e con essa l’invito a recarsi a Milano [...]. Leopardi giunge a Milano la sera del 30 luglio 1825, “dopo un viaggio felice fatto in compagnia di due viaggiatori inglesi”. Come previsto, prende alloggio in casa dello Stella, nei pressi del Teatro alla Scala. La sistemazione non è delle più consone all’indole, alle esigenze e diciamo pure alla suscettibilità del poeta il quale, un mese dopo l’arrivo, il 7 settembre, fa al fratello una sorta di bilancio: “L’imbarazzo di cui ti parlavo, nasceva solamente dal tuono mercantile2 di questa casa, la quale mi parve a prima vista la peggior locanda che mi fosse capitata nel viaggio. Poi le cose si sono un poco accomodate.” Per quanto riguarda la città in generale, invano cercheremmo nelle lettere un giudizio complessivo o almeno qualche annotazione sufficientemente circostanziata che tradisca l’instaurarsi di un effettivo rapporto con il luogo. A suo modo risponde ad una disarmante verità quello che Leopardi scrive a Carlo Antici il 20 agosto: “Io vivo qui poco volentieri e per lo più in casa, perché Milano è veramente insociale, e non avendo affari, e non volendo darsi alla pura galanteria, non vi si può fare altra vita che quella del letterato solitario”; oppure al fratello il 7 settembre: “Il fatto si è che in Milano nessuno pensa a voi, e ciascuno vive a suo modo anche più liberamente3 che in Roma. Qui poi, cosa incredibile ma vera, non v’è neppure una società4 fuorché il passeggio ossia trottata, e il caffè”. Ancora una volta emerge il senso estraniante della grande città che Leopardi aveva immediatamente avvertito all’arrivo, quando aveva scritto al fratello in data 31 agosto: “Milano non ha a che far niente con Bologna. Milano è uno specimen5 di Parigi,

1. scriveva... nel 1816: la citazione, come tutte le altre analoghe presenti nel brano, è tratta dal monumentale Epistolario leopardiano in sette volumi, curato da F. Moroncini e – dopo la sua morte – da G. Ferretti e A. Duro (edizioni Le Monnier, Firenze, 1934-1941). 2. tuono mercantile: chiasso paragonabile al rumore di un tuono, simile a quello che si ode nei mercati durante le contrattazioni.

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3. anche più liberamente... Roma: badando solo ai fatti propri, ancor più che a Roma. L’avverbio liberamente ha qui significato negativo. 4. una società: una vita sociale. 5. specimen: modello (qui, nel senso di immagine speculare). Il vocabolo è stato fatto proprio dalla lingua inglese dove è tuttora usato, ma ha origine latina.

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ed entrando qui, si respira in un’aria della quale non si può avere idea senza esservi stato. In Bologna nel materiale e nel morale tutto è bello, e niente magnifico; ma in Milano il bello che vi è in gran copia, è guastato dal magnifico e dal diplomatico, anche nei divertimenti”. La reazione negativa del poeta nei confronti della città grande – per non dire della sua incapacità di trovarsi realmente bene in qualsiasi posto – deriva anche dalla percezione di un’atmosfera sicuramente diversa, satura di influssi stranieri, varia, distaccata, diversa da quella percepita nelle altre città sino ad allora conosciute. [...] Il paradosso del soggiorno milanese del Leopardi consiste proprio in questo: nel non dirci alcunché di quei luoghi celebratissimi, La Scala, il Duomo, che pure doveva vedere quotidianamente col semplice metter piede fuori di casa. È inutile ricordare che Leopardi non è un turista, e che non viaggia en touriste6. Forse è più proficuo dire che è iniziato da un pezzo quel suo nero viaggio entro se stesso che lo porta a respingere come indesiderabile e quindi invivibile ogni luogo che non venga connotato da qualche sua ricordanza, da qualche proiezione immaginativa. da A. Brilli, In viaggio con Leopardi, Il Mulino, Bologna, 2000

6. en touriste: come usano fare i turisti (l’espressione appartiene alla lingua francese). La conoscenza della realtà esteriore della città e delle sue bellezze, anche artistiche, non incuriosisce né interessa Leopardi che, secondo Attilio Brilli, alla vita della città preferisce la propria ricca vita interiore © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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Amore, morte e malinconia in Leopardi

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Elio Gioanola Elio Gioanola, dopo aver condotto accurati studi sulla malinconia, propone in un’opera critica e psicologica al tempo stesso una mappa per l’esplorazione dell’universo leopardiano. Essa intreccia aspetti letterari e del vissuto dello scrittore e verte sulla malinconia o tedio, come il poeta la definisce: essa viene qui considerata la chiave per interpretarne il pensiero e l’opera. Nello stralcio proposto, utilizzando l’operetta morale Storia del genere umano e alcuni canti del “ciclo di Aspasia”, Gioanola sottolinea come l’amore – inteso da Leopardi come una propria passione interiore che non ha mai riscontro alcuno con la realtà – si identifichi in qualche modo anche con la morte, come alcuni componimenti del poeta stesso affermano esplicitamente. A parere di Gioanola, tale identificazione non è però di stampo romantico ma dipende appunto dal predominio della malinconia: amore e morte sono fratelli perché entrambi si contrappongono a quel pietrificante annientamento interiore dei vivi che è il tedio – oggi definito, nel linguaggio terapeutico, depressione – rispetto al quale l’amore ideale, la morte stessa e ogni “rinascimento” in vite “diverse” sono accomunati in quanto ne rappresentano delle vie d’uscita.

Nella Storia del genere umano1 Giove, dopo aver mandato sulla terra la Verità, che distrugge ogni illusione, preso da compassione per la sorte degli uomini concede ad Amore, che è sempre vissuto in cielo, di scendere qualche volta tra i mortali: “Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa del tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine2”. Questo divino fantasma, a differenza del Cupido3 della tradizione mitologica, non ha il compito di congiungere con le sue frecce due cuori, ma visita singolarmente le anime grandi e sensibili per suscitare in loro, con la sua semplice presenza, una parvenza di felicità: infatti Giove non gli consente di unire due cuori nello stesso sentimento, se non rarissimamente, perché allora gli uomini godrebbero di una felicità troppo simile a quella degli dei. Anche per la via della manipolazione mitologica4, Leopardi ribadisce la circolarità, senza sbocchi verso l’esterno, dell’affettività amorosa, che ‘finge’ un suo oggetto solo per negarlo come tale5 [...]. Ma nel caso della Fanny6, non stanno diversamente le cose? Non siamo in presenza di una donna in carne ed ossa, dalla quale il poeta è attratto anche fisicamente, come documenti e testimonianze lasciano pensare e come molti critici affermano? In realtà i veri documenti sono le poesie nate in quelle circostanze, nelle quali il quadro che è venuto componendosi sotto i nostri occhi non appare affatto mutato. E dire che le poesie sono ‘documento’ non significa svilirne il valore, facendone una semplice testimonianza del vissuto, perché ‘documento’ vuole qui indicate la stretta connessione di amore e poesia, essendo l’amore così poco un fatto della vita reale da invocare la poesia per esistere: amore e poesia non sono in Leopardi cose appartenenti a due mondi diversi, perché ci si aggira sempre in quell’unico ambito mentale, in cui prende vita ciò che, nella vita, non può essere né esperito né detto7. […]

1. Storia del genere umano: ampio testo leopardiano appartenente alle Operette morali. 2. piuttosto... beatitudine: qualcosa che sembra la vera beatitudine, più che somigliarle soltanto. La citazione leopardiana è tratta dalla Storia del genere umano e si riferisce all’effetto consolatorio e beatificante di Amore. 3. Cupido: figlio di Venere e dio dell’amore. Il suo nome è di derivazione latina, ma corrisponde anche, nella mitologia classica, al dio greco Eros, figlio di Afrodite. 4. manipolazione mitologica: scrittura che esprime concetti filosofici ricorrendo anche all’uso adattato (manipolazione) del mito. 5. la circolarità... come tale: secondo Gioanola, in sostanza, la concezione leopardiana dell’amore è caratterizzata

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da circolarità in quanto crea l’immagine (finge) di un oggetto esterno – la donna amata – non per stabilire un reale rapporto, ma solo per negarlo come tale (in quanto, come si afferma nella citazione leopardiana sopra riportata, l’amore corrisposto è rarissimo e, dunque, pressoché impossibile). 6. Fanny: Fanny Targioni Tozzetti, la donna amata invano dal poeta che – indicata con vari nomi – gli ispirò le liriche del cosiddetto “ciclo di Aspasia”. 7. amore e poesia... detto: in Leopardi, l’amore appartiene alla sfera dell’interiorità del poeta e dei suoi versi; a questa sfera non corrispondono – neppure nel caso dell’innamoramento per Fanny – vicende biografiche o attinenti alla realtà che attestino come tale passione abbia avuto riscontri biografici. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

In A se stesso8, dichiarato morto l’amore, l’unico dono rimane la morte che invece formava coppia solidale col ‘fratello’ in Amore e morte. In questi carmi fiorentini9 la fenomenologia amorosa comprende sempre la previsione del morire [...]. Nel Consalvo addirittura [...] il protagonista non tanto riceve il bacio di Elvira prima di morire, ma per morire non potendo sopportare nessuna forma di svolgimento per un evento di tenore assoluto. Se in Leopardi amore e morte appaiono le due facce di un’unica situazione, non è certo per omaggio ad una tradizione antica quanto la letteratura, e tanto meno alla vulgata romantica: è infatti in gioco la personalissima indisponibilità a situare mondanamente l’eros, per cui l’innamoramento è vissuto subito come una condizione senza riferimenti, “sogno e palese error10” che non tollera confronti con i realia11, neppure con quel primo reale che è la persona da cui l’amore è stato suscitato. [...] In effetti, l’amore e la morte non sono termini di opposizione ma d’identificazione perché, semplicemente, entrambi stanno dalla parte della vita12, e la vera opposizione è tra l’amore-morte da un lato e l’inabitabile deserto della vita dall’altro. La morte che si accompagna all’amore è un addormentarsi quietato nel seno della Cosa materna13, contro quell’unico vero e terribile morire che è dato dal tedio malinconico. Dice Eugenio Borgna14 nella sua bella prosa di psichiatra-scrittore: “Nella malinconia non si muore, la vita non si spegne, e nondimeno in essa si è già alla fine [...]; si è nel deserto di un vuoto indicibile che si esprime nel vissuto di un essere-morti interiormente. L’attesa della morte è l’attesa della vita: di una nuova forma di vita.” da E. Gioanola, Leopardi, la malinconia, Jaka Book, Milano, 1995

8. A se stesso: è il componimento con cui il poeta chiude il “ciclo di Aspasia” dedicato a Fanny, dichiarando finito non solo il proprio amore per lei, ma anche il proprio amore per altre donne. Al “ciclo di Aspasia” appartengono tutti gli altri componimenti leopardiani in seguito citati da Gioanola. 9. carmi fiorentini: il gruppo dei Canti del “ciclo di Aspasia”. 10. sogno e palese error: sogno irrealizzabile, fondato su un’erronea illusione. L’espressione è tratta da Il pensiero dominante. 11. i realia: le cose reali e non immaginarie. Il termine è latino. 12. stanno dalla parte della vita: il termine vita va qui inteso nel senso che viene successivamente chiarito nel passo di Eugenio Borgna, vale a dire come speranza di una vita nuova e diversa in chi – come, secondo Gioanola, anche © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Leopardi – è affetto dal male oscuro della malinconia (il tedio), e si sente interiormente morto pur essendo vivo. 13. La morte... Cosa materna: si allude qui alla morte vissuta come condizione di ritorno a una indefinibile realtà protettiva, paragonabile a un grembo materno. 14. Eugenio Borgna: è l’autore del passo citato, tratto dallo studio Malinconia, Feltrinelli, Milano, 1992 . L’analisi della malinconia, sviluppata da Borgna (Malinconia, 1992), è ritenuta da Gioanola una fondamentale chiave interpretativa del pensiero amoroso e di tutti i temi presenti nell’intera opera leopardiana. Gioanola, dunque, analizza il pensiero del poeta-filosofo recanatese come un “caso patologico”, analogamente a quanto già fecero molti contemporanei ottocenteschi. Il critico sottolinea però spesso come la dolorosa condizione di Leopardi contribuisca a generare la sua straordinaria creatività artistica.

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L’inno all’amore nella conclusione dei Canti

Leone Piccioni Nei suoi ampi studi critici, Leone Piccioni intravede nell’opera leopardiana una svolta fondamentale. Tale radicale cambiamento, a suo avviso, si manifesta negli ultimi Canti e soprattutto nella Ginestra, composta quando ormai la riflessione filosofica espressa nello Zibaldone si è inaridita. Il cardine di tale svolta – che il critico ritiene un vero e proprio testamento spirituale di Leopardi, oltre che un inno all’amore – consiste nel superamento di una concezione individuale del dolore e nell’approdo a un canto corale, in cui la voce del poeta-filosofo si fa interprete della sofferenza di tutti gli uomini e li chiama a “confederarsi” in una reciproca solidarietà, superando i propri contrasti. Oltre a sviluppare tali concetti, il passo verte anche sulla concezione leopardiana della natura – che si distingue dall’uomo per la propria immutabilità e inconsapevolezza, contrapponendosi perciò a lui – e mette in luce come, secondo Leopardi, il dolore umano si accentui con lo sviluppo della civilizzazione, che comporta maggiore consapevolezza della miseria della condizione umana.

Siamo ormai alla conclusione di questa raccolta1, che scorre come un diario, il diario degli ultimi anni della sua vita2. Tutto quello che [Giacomo Leopardi] aveva avuto da riflettere sull’andamento della società, sugli errori dei “maestri”3, sulle utopie del progresso, collegato alla felicità, esplode, con polemica e lucidissima profezia, nella lunga Palinodia della primavera del ’35, mentre già col Tramonto della luna (e quella chiusa stupenda che canta ancora l’inno della vita, della giovinezza e della luminosità), e poi soprattutto con la Ginestra giunge al vero testamento da lasciare agli uomini per tutta l’esperienza fatta, per tutte le conclusioni che si possono, vicino a morte, trarre dagli insegnamenti della vita. E nella Ginestra, il più alto raggiungimento, torna un grande inno d’amore: non è più l’amore privato, è il solidale amore fra gli uomini, il loro fraterno aiuto a confederarsi a “sofferir la vita”4. È la grande dimensione della religiosità laica che trionfa in Leopardi, è una invocazione di pietà e insieme di impegno vitale. S’è detto: il punto di riferimento costante della lirica leopardiana, i suoi tempi apparentemente diversi e modificati, sostanzialmente condotti avanti con stringente univocità, e certamente con l’aggiungersi cumulabile della esperienza, la sua vera profeticità5 hanno sempre a che vedere, dal 1815 alla morte, con un tema fondamentale: quello dei rapporti tra l’uomo e la natura, sdoppiando l’entità umana in una sostanza in parte modificabile ed in parte no, ed aggregando la parte immodificabile dell’uomo al concetto ampio di natura6. Perché quello che interessa a Leopardi, e lo rende profetico e modernissimo spirito vigilante, è la possibilità di osservare il processo per il quale certe parti della presenza umana che si sono e anche più si vanno modificando, non abbiano rapporto alcuno, alcun dialogo con una inesistente e parallela possibilità di modificazione della natura, che è immobile ed immutabile. Ed il dolore umano che è a piene mani cosparso nei millenni della preistoria e nei secoli della storia che si può indagare – anche se aggravandosi via via – deriva sempre dalla impossibilità di sanare il contrasto tra l’uomo e la natura: contrasto dal quale si apre, a forbice, con una lama sempre fissa come la lancetta dell’orologio sul mezzogiorno, e l’altra che si apre, si apre e sempre più tenta aprirsi in una terribile lacerazione. L’ampio compasso del dolore7. [...] 1. questa raccolta: i Canti leopardiani, che l’autore ha ampiamente analizzato in precedenza. 2. della sua vita: della vita del poeta. 3. sugli errori dei “maestri”: sugli errori di coloro che si presentano come guide della società o che sono erroneamente ritenuti tali. 4. a confederarsi a “sofferir la vita”: l’espressione si riferisce al passo centrale della Ginestra, che contiene l’appello del poeta agli uomini a unirsi (confederarsi) per sopportare la vita e aiutarsi reciprocamente e con solidarietà, nei mali dovuti alla loro misera condizione. 5. profeticità: capacità di prevedere il futuro, tipica dei profeti. 6. aggregando... natura: a parere di Piccioni, secondo la

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concezione leopardiana nell’uomo c’è una parte immodificabile – che è legata alla natura – e una parte specificamente umana, che entra in contrasto con la natura e che patisce il dolore in quanto, a differenza della natura stessa, è libera, consapevole della propria condizione e, come più oltre meglio si chiarisce, non immutabile. 7. L’ampio... dolore: la sofferenza umana nasce dal conflitto fra l’uomo, mutevole e consapevole, e la natura, immutabile. Questi due elementi, come le seste di un compasso, tendono a divaricarsi sempre più, determinando un acuirsi del dolore, che si accentua con il procedere della civilizzazione, in quanto questa comporta maggiore consapevolezza dell’infelice condizione umana.

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Imboccare la strada della civilizzazione e, dunque, quella della stessa cultura, vuol dire imboccare la strada del dolore: un dolore che si farà sempre più abbondante, fino a straripare via via che ci si addentrerà nella strada dell’incivilimento, e del tentativo di diradare il mistero che circonda la natura8. […] Scoperta la dimensione, insieme pietosa e virile, della solidarietà e della diffusione di un amore che non è più soltanto privato, ma si fa corale e sociale9, Leopardi non ha più bisogno di miti e arriva davvero a concludere – in uno scatto morale prodottosi quasi senza lasciarci le prove del suo percorso di pensiero (lo Zibaldone, s’è detto, tace da tanto) – con l’indicazione più ampia, il lungo territorio delle sue esplorazioni sull’uomo, sulla natura, sulla vita dell’individuo e la sua sorte di dolore e di così rara felicità. L’ambiguità e l’ironia del primo periodo (che del “mito” discuteva, insieme distaccatamente e con passione) si sono decantate negli anni della riflessione tra il ’23 ed il ’28; la ripresa del canto privato e di sfogo del ’28 aveva bisogno per restare permanente e vitale, per non essere solo una trenodia10, della immagine, forse involontariamente, mitizzante della giovinezza e della attesa: questa ultima corale conclusione umana non ha invece bisogno d’altro che di se stessa ad enunciarsi, di nuovo, in modo cosciente e amaro, ma ancora una volta vitale, e con immediatezza e con forza d’ammonimento per tutte le generazioni. L. Piccioni, Linea poetica dei “Canti” leopardiani, Rusconi, Milano, 1988

8. Imboccare... natura: interpretando la filosofia del poeta-filosofo recanatese, Piccioni ribadisce qui come lo sviluppo della conoscenza, della cultura, dell’incivilimento, e l’abbandono delle favole sul mistero della natura (proprio come il superamento dell’infanzia e della giovinezza nell’individuo) determinino per l’umanità un dolore via via più abbondante. 9. Scoperta... sociale: riallacciandosi al discorso sviluppato nella prima parte del passo, il critico analizza ora l’ultima © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

fase del pensiero filosofico e della poesia leopardiana, e li ritiene caratterizzati da una nuova concezione del dolore, inteso non più come fatto individuale, ma sociale e universale. Ne consegue, secondo Leopardi, la necessità di una pietosa e amorosa solidarietà reciproca fra gli esseri umani. Il testo poetico in cui questa concezione è più esplicitamente espressa è, come già affermato, La ginestra. 10. trenodia: lamento, compianto disperato derivante dal dolore. Il vocabolo è un grecismo.

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Filosofia e poesia del nulla nella Ginestra

INTERPRETAZIONE CRITICA

Emanuele Severino Pensatore prima che critico, Severino, nella sua analisi della Ginestra – di cui qui riportiamo uno stralcio – vede in Leopardi il poeta-filosofo che, nella sua poesia, non illude gli uomini ma mostra loro la verità che essi non osano vedere. Il vero filosofo (la “nobil natura”) è il “genio” che è in grado di saldare la filosofia con la poesia, guardando e mostrando in piena luce la verità dell’esistenza – che è il deserto del nulla –, attraverso la franchezza ardita della lingua, e cantando quella nullità dell’essere che è espressa con lucidità nei Pensieri. Di ciò la Ginestra è ritenuta da Severino primo e fondamentale esempio nella storia dell’Occidente, che apre la via al nichilismo in seguito ampiamente sviluppato nella sua filosofia. Come il finale della Ginestra evidenzia, infine, il fiore del deserto – il “pensiero poetante” del “genio” leopardiano – benché sia anch’esso partecipe della sorte terribile dei viventi in quanto cresce come testimone del nulla, può consolare il deserto stesso profumandolo con la sua “bellezza”. In sostanza, secondo Severino, la Ginestra di Leopardi canta per la prima volta nell’Occidente il deserto del nulla che gli uomini non osano guardare e indica ai lettori una sola possibile consolazione a tale misera realtà: la poesia filosofica.

Non detraendo nulla al vero, [nella “Ginestra” leopardiana] la “nobil natura”1 è il vero filosofo. Ma al filosofo vero non s’addice lo sguardo spento di chi resta accecato dal fuoco2, bensì la potenza e grandezza dello sguardo che regge con ardimento la vista del fuoco – “a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato” –; e si addice la “franca lingua” che riconosce la nullità umana e la nullità insensata e contraddittoria dell’essere. L’ardimento dello sguardo, la franchezza ardita della lingua, la grandezza e fortezza nella sofferenza sono i tratti del poeta. L’ardimento dello sguardo è l’ardimento stesso della lingua; e l’“ardire” del linguaggio è l’essenza stessa della bellezza della poesia. Solo il vero poeta è vero filosofo. Solo il vero filosofo è vero poeta. È, questo, il nodo centrale del pensiero di Leopardi. Alla poesia non è più concesso di illudere, evocando il sogno dell’infinito e dell’eterno: la vera poesia non detrae nulla alla verità, ossia è vera filosofia. Il “genio” – la nobile natura che unisce in sé la vera poesia e la vera filosofia – sta “su l’arida schiena” del vulcano sterminatore (vv. 1-3). Guarda il fuoco della lava e il fiammeggiar delle stelle. La nobile natura del genio è la ginestra, il “fiore del deserto”. E innanzitutto in se stesso è inevitabile che Leopardi veda la nobile natura del genio, cioè veda la ginestra nel proprio pensiero poetante – che per la prima volta nella storia dell’Occidente, “nulla al ver detraendo”, scorge l’impossibilità di ogni eterno e di ogni infinito, aprendo la strada a tutta la filosofia contemporanea e conducendo l’Occidente3 alla forma più rigorosa e inevitabile della coscienza che la nostra civiltà può avere di sé –; il pensiero poetante che per la prima volta canta nella poesia, con ardimento supremo, quella nullità dell’essere che nelle pagine dei Pensieri è indicata con una potenza speculativa che fa del pensiero di Leopardi una delle forme più alte della filosofia dell’Occidente (e dunque del nichilismo dell’Occidente) [...]. Alla fine del Canto il cantore torna a rivolgersi, come all’inizio, alla ginestra, e la chiama “più saggia” e “tanto / meno inferma” dell’uomo (vv. 314-15). Diversa dall’uomo, perché essa è l’uomo nella forma della nobile natura del genio. Non un super-uomo, ma “Uom di povero stato e membra inferme / che sia dell’alma generoso ed alto» (vv. 87-88); sì che la nobile natura della ginestra – che sta per soccombere anch’essa

1. “nobil natura”: qui e in tutto il passo Severino parafrasa alcuni versi della Ginestra (vedi in questo caso il verso 117). 2. dal fuoco: qui Severino interpreta il senso metaforico da attribuire in Leopardi al rifiuto del fuoco – la luce cui si allude nel sottotitolo della Ginestra, vale a dire il versetto biblico tratto da Giovanni (III, 19): “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce” – : gli uomini non hanno il coraggio di ammettere la loro misera condizione e temono

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dunque la verità, proprio come hanno paura di fissare la luce accecante delle fiamme. 3. conducendo l’Occidente: il riferimento all’Occidente dipende dal fatto che, secondo Severino, la condizione della moderna filosofia nichilista è dovuta allo sviluppo della scienza e della tecnica, concentratosi nel mondo occidentale. Prima di Leopardi, inoltre, nessuno in Occidente aveva affermato il nichilismo radicale cantato nella Ginestra e destinato poi a diffondersi ampiamente. 4. è la consolazione: la consolazione è la poesia filosofica, © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

“alla crudel possanza / [...] del sotterraneo foco” e come ogni altra cosa non riesce a rimaner ferma di contro al nulla che la invade – è “tanto / meno inferma” dell’uomo perché è ben più ferma dell’uomo nella sua saggezza, che non le farà piegare il capo supplicando il fuoco annientante di risparmiarla, e non glielo farà nemmeno tenere “eretto / con forsennato orgoglio inver le stelle, / né sul deserto” in una vana illusione di immortalità. “Non io / con tal vergogna scenderò sotterra” (vv. 63-64). Alla ginestra compete la saggezza della filosofia autentica dell’Occidente, che scorge la nullità del tutto. Ma le compete anche la potenza consolatrice della poesia, soprattutto una volta che anche la natura e l’essere in quanto essere si mostrano come contraddizione e insensatezza estreme. [...] Il profumo è il modo in cui la ginestra indica e rappresenta il deserto, di cui essa è la sentinella, il modo in cui gli si rivolge e lo accoglie in sé. Per consolarlo, deve averlo dinanzi – e ogni uomo ha dinanzi il deserto, anche se non solleva su di esso lo sguardo –, ma la ginestra lo ha dinanzi profumandolo, e il profumo è la consolazione4. In questo profumo che consola il deserto consiste la poesia. Lo dice Leopardi stesso, in modo esplicito, in quelle pagine [...] dei Pensieri, alle quali abbiamo continuato a riferirci5. da E. Severino, Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano, 1997

con la sua bellezza che profuma il deserto del nulla. 5. Lo dice... riferirci: Severino fa risalire la propria interpretazione del pensiero filosofico sotteso alla Ginestra ai Pensieri leopardiani, alle cui tesi filosofiche egli si riallaccia © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

in più occasioni nel corso del suo saggio (alle quali abbiamo continuato a riferirci).

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INTERPRETAZIONE CRITICA

Il pessimismo agonistico: la lotta titanica contro la natura

Sebastiano Timpanaro Facendo appello alla solidarietà umana, nella Ginestra Leopardi lancia un appello affinché gli uomini cessino di lottare tra di loro e concentrino, invece, i loro sforzi nel contrastare la natura (dal greco agón: lotta). Tale lotta riguarda indistintamente tutti gli uomini, senza alcuna differenza: in ciò Sebastiano Timpanaro riconosce un afflato democratico nel pensiero del poeta recanatese, che elimina quella coloritura aristocratica che il titanismo aveva avuto fin allora. La lotta contro la natura a cui il Leopardi chiama l’umanità è e rimarrà sempre una lotta disperata, in quanto la vittoria definitiva spetterà comunque alla natura, ma non di meno è fondamentale che gli uomini si impegnino in essa.

Bisogna tener conto del fatto che il passaggio del Leopardi a un materialismo coerente, che avviene appunto dal ’23 in poi, costituì, almeno in un primo tempo, un incentivo al disimpegno politico. Mentre il pessimismo «storico», democratico-russoiano degli anni precedenti era, per così dire, spontaneamente progressista sul piano politico-sociale, molto meno facile e immediato era il compito di coordinare il nuovo pessimismo materialistico con un atteggiamento politico-sociale progressista. La persuasione dell’infelicità radicale di tutti gli esseri viventi, a cui il Leopardi era giunto, poteva far apparire come trascurabili gli sforzi per conquistare migliori istituzioni. [...] Il Leopardi progressivo di Luporini soffre un po’ di un’indeterminatezza del concetto di progressismo, che non è un fatto isolato nella storiografia marxista. La lotta per la liberazione dell’uomo dai pregiudizi religiosi e metafisici e per la conquista di una visione del mondo integralmente laica è logicamente – ed è stata anche storicamente, ed è tuttora – connessa con la lotta contro ogni sorta di oppressione politicosociale. Tuttavia connessione non significa identità immediata, ed è facile citare molti casi di sfasatura, o addirittura di temporaneo contrasto tra progressismo politicosociale e progressismo «scientifico», tra democraticità e razionalismo laico. Nel caso del Leopardi, non si tratta minimamente di limitare il suo progressismo al piano razionalista-laico. Progressista il Leopardi fu anche sul piano politico-sociale: questa conquista del saggio di Luporini non si cancella. Ma la distinzione tra i due piani serva, per il Leopardi, a raggiungere una visione più articolata del suo pensiero, a riconoscere che in diversi periodi della sua vita ora l’uno ora l’altro progressismo furono predominanti, a rendersi conto, infine, che tra l’uno e l’altro vi furono delle collisioni e che l’ultimo Leopardi è caratterizzato appunto dallo sforzo di armonizzare questi due aspetti del proprio pensiero. Nel saggio luporiniano, invece, il materialismo è preso in esame – e valutato positivamente – quasi soltanto in funzione del progressismo politico-sociale: il momento materialistico viene ad assumere importanza non in sé, ma come raccordo tra il primo e l’ultimo Leopardi, come ancoraggio contro il rischio di esser travolto dai flutti dell’irrazionalismo prima di aver elaborato la nuova morale laica e combattiva. […] Il nuovo vigore che il motivo della fraternità umana assume a partire dal Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827), la nuova grande fioritura lirica del canti pisano-recanatesi del ’28-’29, segnano l’abbandono definitivo della morale dell’atarassia, ma non ancora un deciso ritorno all’interesse politico. Fu il contatto polemico con l’ambiente cattolico-liberale, specialmente nel secondo soggiorno fiorentino e poi nel napoletano, a porre dinanzi al Leopardi il problema di ristabilire, su basi necessariamente diverse che nel 1821, un nesso tra il proprio pessimismo e un atteggiamento politico progressista. Sul piano politico, assistiamo (accanto a un rinvigorimento dell’avversione ad ogni posizione reazionaria e assolutista, testimoniato dai Paralipomeni e dall’epistolario) a due successivi momenti della polemica contro i moderati cattolici. Dapprima, nei primi canti dei Paralipomeni, un recupero di motivi patriottici di stampo classicheggiante, con punte di xenofobia settaria e di esaltazione retorica della romanità […]. Un secondo momento è rappresentato dal ben noto passo della Ginestra in cui il Leopardi fa appello alla solidarietà di tutti gli uomini nella lotta contro la natura. Nessun dubbio sulla grande potenzialità democratica di questo appello. Soltanto, bisogna parlare appunto di potenzialità, per sottolineare, accanto all’estrema apertu-

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ra e spregiudicatezza del discorso leopardiano, anche la sua indeterminatezza. Non vi è traccia in esso di preclusioni di classe, di cautele da «liberale», anzi vi è l’esplicita esigenza di far partecipe della nuova morale laica tutto il popolo; ma non c’è nemmeno alcun accenno a una lotta contro l’oppressione politico-sociale, come condizione preliminare per raggiungere la «confederazione» dell’intera umanità. Il Leopardi pensa che i contrasti tra gruppi umani siano secondari, e perciò da mettersi a tacere, di fronte all’esigenza di far blocco contro il nemico numero uno, l’empia Natura. Quando il Pascoli trovava preannunciato nella Ginestra il proprio solidarismo, trascurava certamente l’ispirazione illuministica e l’afflato eroico che sono essenziali alla posizione leopardiana, e che mancano all’ideologia pascoliana; rimane però il fatto che anche il Leopardi propugna un solidarismo, cioè un appello alla cessazione della lotta «fratricida», per dirigere tutti i colpi non contro un avversario umano, ma contro la Natura. Rifacendoci ancora una volta alla distinzione tra progressismo politico-sociale e progressismo «scientifico», possiamo dire che il Leopardi assorbe il primo nel secondo. Soltanto, in quest’ultima fase del suo pensiero, egli toglie al proprio materialismo pessimistico quel carattere alquanto solitario e umbratile che aveva assunto negli anni di Bologna, così come, riprendendo il titanismo del Bruto minore, ne elimina quella coloritura aristocratica che il titanismo aveva sempre avuto fin allora. Non c’è più alcuna contrapposizione di principio tra l’eroe e il volgo, anzi il pessimismo agonistico è destinato a divenire un atteggiamento comune a tutta l’umanità, una filosofia popolare. In questo senso si può dire che il progressismo politico non si dissolve semplicemente nel progressismo scientifico, ma gli infonde la propria esigenza democratica. Inoltre, non bisogna dimenticare che la lotta contro la natura a cui il Leopardi chiama l’umanità è e rimarrà sempre una lotta disperata, per ciò che riguarda gli obiettivi di fondo. Certo il Leopardi non nega la possibilità di raggiungere successi parziali di notevole rilievo (di qui la sua rivendicazione della «civiltà, che sola in meglio / guida i pubblici fati» o: Ginestra, vv. 76 sg.). Ma che la vittoria definitiva spetti alla natura, tutta la Ginestra lo riafferma, come lo riafferma il Tramonto della luna, che appartiene allo stesso periodo finale della vita e del pensiero leopardiano. da S. Timpanaro, Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi, in Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1965

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