La grande cesura. La memoria della guerra e della Resistenza nella vita europea del dopoguerra


165 26 19MB

Italian Pages 559 Year 2001

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

La grande cesura. La memoria della guerra e della Resistenza nella vita europea del dopoguerra

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

La grande cesura La memoria della guerra e ·della resistenza · nella vita europea del _dopoguerra

a cura di

Giovanni Miccoli Guido Neppi Modana Paolo Pombeni

il Mulino

PERCORSI

Il presente volume raccoglie gli atti del convegno La grande cesura. La società europea tra memoria della gue"a e della resistenza e ricostruzione, tenutosi a Bologna il 9, 10 e 11 novembre 1995, realizzato dall'Istituto regionale Ferruccio Parri per la storia del movimento di liberazione e dell'età contemporanea in Emilia Romagna, promosso dal Comitato regionale per le celebrazioni del 50° anniversario della resistenza e della liberazione Emilia-Romagna. Hanno presieduto le sessioni del convegno Francesco Berti Amoaldi Veli, Nicola Tranfaglia, Mariuccia Salvati. I testi dal francese sono stati tradotti da Andrea Borghi e Sandra Dal Bosco. I testi dal tedesco sono stati tradotti da Giovanna Sarti. Cinzia Venturoli ha curato la redazione. Pubblicazione realizzata con la collaborazione dell'Istituto regionale Ferruccio Parri per la storia del movimento di liberazione e dell'età contemporanea in Emilia Romagna e del Comitato regionale per le celebrazioni del 50° anniversario della resistenza e della liberazione Emilia-Romagna.

,

LA GRANDE CESURA La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra

A CURA DI GIOVANNI MICCOLI, GUIDO NEPPI MODONA E PAOLO POMBENI

SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: http://www.mulino.it

ISBN 88-1,-08143-7 Copyright © 2001 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

INDICE

Presentazione, di Luca Alessandrini

p.

9

PARTE PRIMA: CULTURA LAICA E CULTURA RELIGIOSA

La memoria della guerra e della resistenza nella cultura politica e religiosa della Francia del dopoguerra, di ]ean Marie Mayeur

17

Cattolici e comunisti nel secondo dopoguerra: memoria storica, ideologia e lotta politica, di

Giovanni Micco/i Guerra e resistenza nella cultura politica socialista in Francia (1945-1955), di Eric Mechoulan

31

89

Resistenza, guerra, fascismo nel cattolicesimo ita-

liano (1943-1948), di Paolo Blasina

123

PARTE SECONDA: GIUSTIZIA

L'epurazione in Francia, di ]ean Pie"e Rioux

197

La giustizia in Italia tra fascismo e democrazia repubblicana, di Guido Neppi Modona

223

Le trasformazioni dello statuto di partigiano, di

Olivier Wieviorka

285

5

La transizione dal fascismo alla democrazia nella «memoria» della magistratura italiana, di Pao-

lo Soddu I guardasigilli comunisti Togliatti e Gullo: sanzioni contro il fascismo e processo alla resistenza, di Francesco Scalambrino

p. 309

327

PARTE TERZA: POLITICA ISTITUZIONALE

Memoria collettiva e identità nazionale nella Germania postbellica: le strategie politiche e simboliche di rilegittimazione, di Wol/ang

Kaschuba

357

Il peso del passato. Storia d'Italia e strategie costituzionali all'Assemblea costituente, di Paolo

Pombeni

383

Come si parlava della Germania, come la si lasciava e come si ritornava. Gli ebrei tedeschi, l'antifascismo e la questione del ritorno (1945-1950), di Joachim Schlor

403

La transizione difficile: l'immagine della guerra e della resistenza nell'opinione pubblica nell'immediato dopoguerra, di Stefano Cavazza

427

Crisi della società e radicamento dei partiti di massa, di Angelo Ventrone

465

La memoria della guerra e della resistenza nelle culture politiche del «mondo cattolico» (1945-1955), di Guido Formigoni

479

La memoria della guerra nell'associazionismo post-resistenziale, di Patrizia Dogliani

527

6

Colpa ed espiazione. Le strategie di superamento dd passato nell'immediato dopoguerra analizzate in base ai dibattiti pubblici della zona di occupazione sovietica dal 1945 al 1948, di lna Merkel

p. 557

7

PRESENTAZIONE

Sono qui pubblicati gli atti di un convegno realizzato dall'Istituto regionale Ferruccio Parri e promosso dal Comitato regionale per le celebrazioni del 50° anniversario preparato nella stagione delle celebrazioni del cinquantesimo anniversario della resistenza e della liberazione Emilia-Romagna. Il convegno si tenne a Bologna nei giorni 910-11 novembre 1995. La pubblicazione degli atti dopo cinque anni può legittimamente apparire eccessivamente tardiva, tuttavia si è ritenuto che quanto prodotto non dovesse andare disperso, e fosse proposto nella sua unitarietà. Le giornate de La grande cesura, costituirono un momento di riflessione interessante, nell'ambito di una fase di intensa produzione storiografica e di divulgazione storica, che si è misurata con i temi della memoria della guerra, anche alla luce di una particolare fase della viia italiana, nella quale trovava spazio una rinnovata domanda di storia diffusa. È di quegli anni un incremento delle vendite di videocassette a carattere storico tale da poter esse considerato un'esplosione, la proposizione di numerose trasmissioni televisive di storia, la presenza di inserti e servizi sulla stampa quotidiana e periodica. Se per la natura particolare che assume la divulgazione in Italia, si tratta di comunicazione prevalentemente scandalistica, tuttavia essa toccava - e tocca ancora - nodi centrali dell'identità nazionale, la cui incerta ed incompleta acquisizione rende temi caldi. Se non esita a manifestarsi in diverse forme ciò che è ormai comunemente definito uso pubblico della storia, ciò nondimeno esso si esercitava, e si esercita, in una fase di grande mutamento nella storia dell'Italia repubblicana e del contesto internazionale, dopo la fine della guerra fredda, e dopo Tangentopoli e la fine degli equilibri ga9

rantiti dai partiti politici. In sostanza, la storia ha dovuto - e deve ancora, giacché non è avvenuto un decisivo passaggio di fase - misurarsi in modo più diretto che negli anni precedenti, con il presente. In tale contesto, il triennio 1993-1995, nell'ambito delle celebrazioni del 50° anniversario della resistenza italiana, è stato occasione di una riflessione che si è materializzata in una vasta produzione storiografica e in innumerevoli attività culturali. In termini di ricerca scientifica, i lavori in quel triennio si sono orientati su due direttrici. L'una, rivolta allo sviluppo di diversi temi nell'ambito della vicenda storica della seconda guerra mondiale e della resistenza, ha approfondito lo scavo, su scala locale o in direzione di settori di studio meno considerati nei decenni precedenti. L'altra si è volta nella prospettiva della valutazione del biennio di guerra di liberazione italiana in un più ampio contesto geografico e temporale, risalendo al periodo tra le guerre e ai fascismi che tale periodo hanno caratterizzato, e esaminando il decennio successivo, nonché collocando la frattura della seconda guerra mondiale e delle resistenze nella dimensione europea. È il caso della mostra La menzogna della razza, che proponeva gli esiti di cospicue ricerche sul razzismo del fascismo italiano dalle sue origini e nelle sue articolazioni. A questa seconda tendenza appartengono le attività promosse dall'Istituto Parri non senza incontrare qualche perplessità da parte di chi si attendeva iniziative relative alla stretta vicenda resistenziale. Benché gli studi avessero conosciuto nuovi e importanti campi di ricerca oltre i venti mesi di lotta armata che erano stati al centro della storiografia resistenziale per quattro decenni, con una svolta importante nella seconda metà degli anni Ottanta, pareva necessaria una nuova prospettiva, la ricollocazione in un quadro più ampio del periodo. L'esperienza dell'Istituto era già da tempo caratterizzata da una attenzione alla vicenda storica dell'Italia fascista e dei fascismi, indagati nell'arco degli anni Ottanta, nella seconda metà dei quali si era sviluppata l'attenzione per il dopoguerra, anche nella prospettiva economica. Pa10

rallelamente, il patrimonio archivistico e bibliografico dell'Istituto si era accresciuto in relazione all'intera storia del Novecento. L'Istituto Parri giunse alla formulazione di progetti diversi, alcuni a carattere prettamente divulgativo, altri, come La grande cesura, con finalità di ricerca e di bilancio scientifico, incentrati sul primo decennio del dopoguerra, per cogliere quanto dell'esperienza della tragica frattura della guerra ha significativamente influito sulla vita cli quegli anni. In tal modo, la seconda guerra mondiale, la resistenza, la liberazione dagli eserciti d'occupazione, dai fascismi, dalla guerra stessa assumevano lo spessore di una frattura epocale, che poteva essere esaminata attraverso la traccia di sé che ha lasciato nella società europea negli anni di una lunga e complessa ricostruzione non soltanto materiale. Come si ritenne di dover allargare la prospettiva scegliendo il punto di osservazione del decennio successivo alla liberazione, parve utile la comparazione tra esperienze nazionali diverse. L'opzione fascista, quale insidiosa nuova forma di governo della nuova società di massa, aveva accomunato l'intera società europea nel periodo fra le due guerre mondiali, assumendo presto i contorni di una minaccia continua alla democrazia in politica interna ed alla pace in politica estera, giungendo al potere dapprima in Italia, poi in diversi altri paesi, rimanendo esperienza minoritaria e marginale altrove. Con la guerra, le occupazioni militari da parte delle forze dell'Asse, i governi collaborazionisti, il coinvolgimento diretto della popolazione civile, l'intera Europa dovette affrontare le medesime distruzioni materiali e morali. I punti di osservazione della società europea in quel decennio di transizione tra la guerra e gli anni che l'avevano preceduta e le nuove democrazie, sono stati definiti in tre ambiti di ricerca e di discussione: le culture laica e religiosa, la giustizia e la politica istituzionale. In tali ambiti sarebbe stato possibile prendere in esame la ricomposizione del conflitto, sia tra nazioni che all'interno di queste; i valori e le appartenenze, sia in termini di tessuto 11

nazionale ed internazionale, che di gruppi politici; i temi del reinserimento e dell'oblio, nella duplice accezione del necessario superamento degli aspetti più aspri del conflitto e di rimozione. Al fine di considerare in modo non generico la dimensione europea si è scelto di comparare un solo paese con l'Italia per ognuno degli ambiti enunciati. La Francia per la cultura laica e la cultura religiosa, e per la giustizia, la Germania per la politica istituzionale. Ogni paese si è impegnato nella ridefinizione di un assetto costituzionale, l'Italia e la Germania hanno avuto regimi autoritari di massa che hanno scatenato la guerra, l'Italia e la Francia hanno avuto governi collaborazionisti. L'Italia e la Francia hanno conosciuto forme di resistenza importanti e partecipate, nell'un paese per l'estensione del reclutamento partigiano e per l'adesione larga della popolazione, nell'altro per la sua durata, fin dagli anni in cui i successi militari delle dilaganti armate tedesche lasciavano spazio a ben esili speranze. Infine, si scelse di non giungere ad un convegno nel quale raccogliere l'apporto di relatori diversi, ma di proporre ricerche originali, confrontate nel loro farsi, per giungere ad un appuntamento di reale discussione su nuovi risultati. Per ogni tema e per ogni paese sono stati indicati uno studioso di consolidata esperienza italiano ed uno straniero, e ricercatori italiani e stranieri. I due anni di ricerca e preparazione sono stai scanditi da incontri di discussione sull'avanzamento dei lavori e di confronto tra i tre ambiti tematici prescelti. Di tale progetto di percorso di ricerca, di confronto ed infine di convegno ebbi l'onere di un coordinamento che ho potuto svolgere soltanto grazie a diverse persone che hanno apprezzato l'iniziativa e l'hanno resa possibile. Alla progettazione iniziale hanno partecipato con slancio Pierre Sorlin e David Ellwood e decisiva è stata la convinta adesione del Presidente dell'Istituto regionale Ferruccio Parri Francesco Berti Arnoaldi Vdi. Il senso della proposta fu colto da Federico Castellucci, Presidente del Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna e del Comitato regionale per le celebrazioni del 50° anniversario della re12

sistenza e della liberazione, che sposò l'iniziativa e la sostenne con partecipe convinzione anche dopo la fine dd suo mandato. Giovanni Miccoli, Guido Neppi Modona e Paolo Pombeni hanno immediatamente aderito all'iniziativa, hanno seguito, corretto, incoraggiato puntualmente le fasi preparatorie, e soprattutto hanno accettato di guidare le ricerche di ognuno dei tre ambiti tematici in cui il convegno si è articolato. Suggerimenti preziosi sono giunti da René Remond. Stefano Cavazza, oltre all'impegno di ricerca, si è fatto carico del rapporto con i relatori tedeschi. Mariuccia Salvati e Nicola Tranfaglia hanno introdotto e moderato il dibattito delle sezioni relative rispettivamente alla politica istituzionale e alla giustizia. Paolo Blasina e Paolo Soddu, oltre al cospicuo lavoro scientifico, hanno saputo dare un indimenticabile sostegno morale. Francesca Pasqua ha permesso lo scambio tra lingue diverse durante gli incontri preparatori. Il convegno, divenuto iniziativa di punta della stagione delle celebrazioni dd 50° della liberazione, è stato sostenuto dalla fatica dell'intero Istituto Parri, in particolare di Luisa Cigognetti, mentre la segreteria organizzativa è stata curata da Lorenza Servetti, Maria Teresa Veratti, Stefano Stoppani. Non posso non ricordare qui Pietro Saraceno, che partecipò a tutti i lavori preparatori e al convegno presentò una ricerca sul tema dell'epurazione della magistratura dopo la caduta del fascismo, scomparso nd corso della preparazione degli atti. Il vuoto che lascia in campo scientifico è sotto gli occhi di tutti, umanamente la perdita è indicibile. La rara capacità di coniugare lavoro intellettuale e disponibilità privata, la generosità ed onestà intellettuale ne facevano al tempo stesso uno studioso acuto e una persona rara. Pur consapevoli della gravità della rinuncia, abbiamo scelto di non rimaneggiare noi la relazione che svolse al convegno per tradurla in lingua scritta. La registrazione sonora è comunque disponibile presso l'Archivio dell'Istituto regionale Parri. LUCA ALESSANDRINI

Direttore dell'Istituto regionale Ferruccio Parri 13

PARTE PRIMA

CULTURA LAICA E CULTURA RELIGIOSA

}EAN MARIE MAYEUR

LA MEMORIA DELLA GUERRA E DELLA RESISTENZA NELLA CULTIJRA POLITICA E RELIGIOSA DELLA FRANCIA DEL DOPOGUERRA Il tema molto vasto proposto a questa relazione invita innanzitutto ad una definizione dell'argomento. Quali limiti cronologici adottare? Ci si guarderà da una cronologia breve che _porterebbe a fermarsi alla fine del 1946, alla nascita della IV repubblica, o al 1947, anno dell'inizio della guerra fredda e dell'allontanamento dei ministri comunisti dal Governo. Al contrario, arrivare fino alla fine della IV repubblica e al ritorno al potere del gen. de Gaulle sarebbe ugualmente contestabile: questa formula condurrebbe ad evocare gli anni della crisi finale della IV r~pubblica. Sicuramente, la formula più appropriata è quella di arrivare fino all'inizio degli anni Cinquanta. A partire da questa data la memoria della resistenza è presente in maniera meno diretta: è sorprendente, a questo riguardo, come nel 1952 un vecchio membro del Consiglio nazionale di Vichy, il moderato Antoine Pinay formi un governo. Le nozioni di cultura politica e di cultura religiosa, richiedono anche qualche chiarimento. Intendiamo con questi termini le idee, i sentimenti, le rappresentazioni, i riferimenti privilegiati fondati, ben inteso, su di un immaginario ed una memoria. In altre parole non si evocheranno che incidentalmente i grandi tratti, che si suppone siano conosciuti, della storia della vita politica e della vita religiosa dd periodo. Si è preferito parlare di cultura politica perché in Francia la distinzione del politico e del religioso è antica, perché la nozione di cultura laica non ha la stessa pregnanza che in Italia, tanto la realtà della laicità (intendiamo con ciò una cultura secolarizzata che non s'identifica ad un'ideologia laica) è fortemente presente. Si presterà, invece, l'attenzione necessaria alle correnti politiche che chiamano in causa la laicità militante. 17

Un'ultima osservazione di metodo s'impone. Il titolo della relazione non significa certamente che s'imputino solo alla guerra e alla resistenza i tratti originali della cultura politica e della cultura rdigiosa degli anni successivi al 1945. Ognuno sa bene l'importanza dell'apporto degli anni Trenta alla vita del cattolicesimo e del protestantesimo francesi. Se si guarda verso il mondo della politica, s'insiste sempre maggiormente oggi sull'importanza dello stesso decennio il cui peso si fa sentire in maniera durevole. Questa constatazione non mette in causa l'interrogativo che serve da base a questa relazione, ma essa porta al cont__rario ad ampliarlo. E lecito pensare che la guerra e la resistenza abbiano ravvivato delle riflessioni e delle analisi formulate precedentemente. In qualche modo, lo spirito di resistenza appariva già dalla fine degli anni Trenta e la parola è usata particolarmente da Georges Bidault e i suoi amici di fronte alle dimissioni di Munich. Prima di ogni altra analisi, è necessario delineare qualche tratto dello spirito del tempo a cui partecipano molto largamente i contemporanei, al di là di tutto ciò che li divide. Una prima costante è la straordinaria intensità del sentimento nazionale e dell'affermazione dell'attaccamento alla patria liberata. Secondo la formula di René Remond: «la disfatta risveglia l'amor proprio nazionale»'. Dal disastro del 1940 nasce la volontà di fondare una nuova Francia. La critica della III repubblica, ormai alla fine, che avevano formulato con tanto vigore i «non conformisti» degli anni Trenta, che ripresero a loro modo i collaborazionisti di Vichy della rivoluzione nazionale, come i francesi liberi a Londra e i partigiani, è inseparabile dall'esaltazione della patria liberata dall'umiliazione della sconfitta e dell'occupazione.

1

18

R. Réné, Notre siécle de 1918 à 1988, Parigi, 1988, p. J36.

I discorsi di guerra del gen. de Gaulle, instancabili inviti a una «Francia riunita che riprenda nel mondo il suo posto e la sua grandezza»2 sono infinitamente rappresentativi di questo patriottismo, in linea con il nazionalismo dei primi dell'Ottocento. «La Francia di domani sarà al primo posto delle grandi nazioni che hanno più doveri verso i diritti e la libertà di tutti», proclama Charles de Gaulle ad Algeri il 14 luglio 1943, in una forma che evoca la visione di Michelet della «Grande Nazione» messaggera di libertà e che si trova costantemente nei discorsi della resistenza e della liberazione. Tanto grande è la «passione comune», secondo le parole del buon testimone Léo Hamon, che anima i partigiani al momento della liberazione3. Tutti i partiti dopo la liberazione esaltano il patriottismo e il sacrificio dei loro militanti. Come ha osservato il più incontestabile storico della tradizione repubblicana, ritornando ai suoi anni di studente comunista, all'indomani della liberazione, il partito comunista, più di tutti gli altri, fa la sua propaganda «essenzialmente sul tema patriottico»4 • L'affermazione nazionale va di pari passo con una volontà propriamente rivoluzionaria. Non c'è parola che ritorni più frequentemente di rivoluzione negli scritti, nei discorsi del tempo. La formula che funge da sottotitolo a «Combat», il giornale di Albert Camus, dà il tono generale: «dalla resistenza alla rivoluzione». Dopo il crollo delle «élites» tradizionali, una rivoluzione nel profondo sembra indispensabile. Il termine non ha all'inizio un senso politico, né tantomeno economico e sociale, esso designa una rivoluzione 2 Discorso pronunciato ad Algeri il 14 luglio 1943, Discours de guerre, Parigi, 1970, p. 313. 3 Confronta il suo intervento nel 197 4 al convegno La Uberation de la France, Parigi, 1976, p. 945. 4 M. Agulhon, La République, t. 2, Parigi, 1984, p. 202. L'autore mostra il cara nere eccessivo dell'affermazione secondo la quale il partito avrebbe dato «75.000 des siens pour que vive la France» (75.000 dei suoi affinché viva la Francia).

19

morale e culturale. Non cerchiamo solamente questa asp(razione rivoluzionaria nelle fila della sinistra marxista. E il movimento repubblicano popolare di ispirazione democratico-cristiana che nel suo manifesto del novembre 1944 «afferma la sua volontà rivoluzionaria» che, nel primo paragrafo, riafferma per cinque volte «noi vogliamo una rivoluzione, che, in conclusione lanci un appello ai rivoluzionari»- per fondare un partito «veramente nuovo, animato dalla volontà rivoluzionaria del popolo francese e al servizio esclusivo della grandezza nazionale». Nel suo libro Vers une doctrine de la Résistance: Le socialisme humaniste (Verso una dottrina della resistenza. Il socialismo umanisticoP, pubblicato nel luglio 1944, il costituzionalista André Hauriou affermava che la resistenza aveva saputo «ritrovare la permanenza rivoluzionaria francese» e che essa poteva essere «una guida spirituale per i paesi dell'Europa occidentale che avevano aderito alla resistenza». Questa aspirazione rivoluzionaria era certamente stata affermata dai «non conformisti» degli anni Trenta, Mounier come Maritain avevano invitato ad una rivoluz(one che mettesse fine al «disordine costituito», ma il soffio della resistenza attizza quelle braci la cui fiamma illumina il paesaggio della Francia liberata. Che la parola «rivoluzione» racchiuda molte ambiguità, che il gen. de Gaulle, preoccupato di evitare gli eccessi, la sostituisca, a partire dal discorso di Algeri del 14 luglio 1943, con «rinnovo nazionale», che l'MRP (Movimento repubblicano popolare) parli di rivoluzione nell'ordine e attraverso la legge questo è incontestabile, ma non mette in causa l' essenziale: questa aspirazione potente per il cambiamento dopo gli anni di «routine» e di stagnazione della Francia della fine della III repubblica6 • Algeri, 1944, p. 206. Egli lo usa di nuovo nel suo imponante discorso al «Palais de Chaillot» il 12 settembre 1944, invitando a lottare contro le «Bastiglie» (discorso d'Algeri del 14 luglio 1943 ). Nella sua dichiarazione del 23 giugno 1942, de Gaulle parla di rivoluzione. Egli aveva già usato il termine di «rénovation» spirituale, sociale, morale ed anche politico all'Università di Oxford il 25 novembre 1941. 5 6

20

La volontà di modernizzazione si presenta al di là della ricaduta della fiamma rivoluzionaria e chi domina la Francia del dopoguerra e fino agli anni Sessanta si alimenterà a questa fonte. Una terza esigenza segna il clima del tempo, quella di rigore morale, di austerità, di etica nella vita pubblica e nella vita privata. La condanna degli scandali della III repubblica ormai alla fine e della rilassatezza dei costumi è comune alla Vichy della rivoluzione nazionale e ai partigiani. Essa stessa definisce anche il clima della Francia liberata. Non si tratterà qui della ricostruzione delle forze politiche ndla Francia del dopoguerra, argomento oggi ben conosciuto, ma si tratteranno i punti che permettono di chiarire il nostro discorso. Il fatto principale è il fallimento subìto dal tentativo di creazione di un ~grande partito della resistenza» e di un laburismo francese. Il rifiuto di de Gaulle di prendere le redini di tal partito7 , la ricostituzione del partito socialista SFIO (Sezione francese dell'internazionale operaia) attaccato alla «vieille maison», la nascita del movimento repubblicano popolare, di ispirazione democratico-cristiana, rendono vana questa ipotesi. Agli occhi dei partigiani, tra cui F renay, essa evitava il ritorno ai partiti tradizionali e rendeva possibile la costruzione di una nuova Francia. Fin dall'inizio del 1945, il fallimento della commissione presieduta dal socialista André Philip che aveva per missione di trovare una soluzione alla «questione . .scolastica», attesta la persistenza delle vecchie scissioni. E incontestabile che i partigiani avessero la volontà di sormontare gli antagonismi tra «colui che credeva al cielo e colui che non ci credeva», e che la liberazione non fosse caratterizzata da una spinta di anticlericalismo, ma molto velocemente riapparvero, eredità di una lunga storia, i conflit7 Rimandiamo alle memorie di Henry Frenay, fondatore del movimento Combat. Egli invitò il gen. de Gaulle prima del suo discorso del 2 marzo 1945 all'assemblea consultiva, a prendere la direzione di un raggruppamento di tipo laburista, cosa a cui il capo del Governo provvisorio risponde invitando i partigiani ad animare i partiti esistenti «de l'intérieuD. H. Frenay, La nuil /inira, t. 2, Parigi, 1977, p. 278.

21

ti intorno alla laicità. Questi ultimi, di cui non tratteremo qui la storia, impedirono un riawicinamento durevole e profondo tra i socialisti e i repubblicani popolari, e sono ampiamente responsabili, a partire dal 1951, del passaggio all'opposizione della SFIO e dunque dell'aggravarsi dell'instabilità del regime. L'ampiezza nella vita politica della IV repubblica, dei dibattiti sulla questione scolastica, illustra il persistere di una cultura politica vecchia, quella che opponeva «le due France>> intorno alla questione religiosa, di fronte alla cultura politica che si cercava nella resistenza. La cultura laica, come ideologia militante, radicata nelle lotte della laicità repubblicana, si presenta nella tradizione di sinistra, non conosce cambiamenti profondi negli anni della liberazione, in rapporto a prima della guerra; tutt'al più essa continua a perdere vitalità, di fronte al sorgere di nuovi problemi, tanto più che un certo numero di menti brillanti, come Léon Blum, André Philip (SFIO) aspirano ad un superamento dei vecchi conflitti. Del progetto di laburismo francese restò una piccola formazione politica e untaspirazione durevole. La formazione politica è «L'unione democratica e socialista della resistenza» che è all'inizio una federazione di movimenti di resistenza, prima di diventare un partito8 • Questa federazione riunì dei partigiani ostili al partito comunista che sapevano di non potersi trovare a proprio agio né nel MRP, giudicato confessionale, tale è l'analisi di René Plaven o di Eugène Claudius-Petit, né nella SFIO. All'UosR aderirono anche dei gollisti desiderosi di rinnovamento politico e sociale come Jacques Baumel e René Capitant, che andarono in seguito nel RPF (Raggruppamento del popolo francese), dei socialisti come Robert Verdier e Francis Leenhardt, che fece poi carriera nella SFio. Molto velocemente l'UDSR, contributo indispensabile

8 Confronta la tesi ancora inedita di Eric Duhamel sull'UosR, Università di Parigi La Sorbona, 1993.

22

---==-

di ogni maggioranza di Governo, partito «cerniera» come lo era stato il partito repubblicano socialista nella ill repubblica, divenne un vivaio di ministri, tra cui F rançois Mitterrand che vi aderì nell'autunno dd 1946. In compenso l'aspirazione ad un laburismo francese, esito della resistenza, restò presente nella memoria politica e riapparve periodicamente, sia nel 1965 all'epoca del fallito tentativo di grande federazione democratica socialista - facendo appello a tutti «gli uomini di progresso, dai socialisti ai democristiani» - sia nell'autunno dd 1994, quando l'eventuale candidatura di Jacques Delors raccolse nei sondaggi una larga adesione. Se l'UDSR è il solo partito direttamente uscito dalla resistenza, due altre formazioni devono molto a quest'ultimo, il movimento repubblicano popolare9 e il raggruppamento dd popolo francese. Il primo si inscrive facilmente nella tradizione della democrazia d'ispirazione cristiana e della sua cultura politica, ma questa realtà non deve mascherare tutto ciò che la nuova formazione deve allo spirito della resistenza 10 • Il nome stesso del movimento, la volontà rivoluzionaria, il desiderio affermato nel manifesto del novembre 1944 che «l'unità morale ed organica della resistenza possa mantenersi attraverso la diversità delle correnti politiche tradizionali», l'augurio per «un'economia diretta da uno Stato libero da potenze economiche», tanti tratti che attestano ciò che la nuova formazione deve alla resistenza. Fino ad arrivare al manifesto della tribuna del primo congresso: un berretto frigio sul fondo di croci di Lorena, come ulteriore testimonianza.

9 La tesi per molto tempo inedita di Pierre Letamendia sul MRP è stata pubblicata, Parigi, 1995. Prefazione di François Bayrou. IO Nelle sue memorie, Pierre-Henry Teitigen osserva che l'MRP non deriva soltanto da una corrente democristiana, ma anche «da un'abbondante trasfusione di sangue nuovo che proviene dalla resistenza». E2li nota la «venuta di agnostici che intendono fare appello solamente alTa cultura ebraico-cristiana» come Léo Hamon, Faites entrer le lémoin suivant 1940-1958. De la Résistance à la Vème République, Parigi.

23

Il raggruppamento del popolo francese, il RPF, fondato dal gen. de Gaulle nel 1947, non è molto citato quando si evoca l'apporto della resistenza nella ricomposizione delle forze politiche dopo la guerra. Questa situazione sembra dipendere da due motivi: il RPF nasce praticamente tre anni dopo la liberazione, al termine di peripezie politiche complesse, dopo le quali la resistenza pareva già allontanarsi. D'altra Rarte, per situare il RPF in una lunga storia nel segno della destra politica, dal «bonapartismo> al «boulangisme» e alle «ligues», si è probabilmente sottovalutato tutto ciò che esso deve alla resistenza. Basti, fertanto, rileggere la dichiarazione del gen. de Gaulle de 14 aprile del 1947: «invito ad unirsi a me nel ragruppamento tutte le francesi e tutti i francesi che vogliono unirsi per il bene comune, come hanno fatto ieri per la liberazione e la vittoria della Francia» 11 • «Firmato il capo della Francia libera rinnovato con le elezioni del 18 giugno» 12 • Un comunicato ai militanti del 1947, presenta il RPF come «il prolungamento della Francia libera» 13 • Uno studio inedito di Bernard Lachaize riguardo il RPF in Aquitania, mostra che i suoi militanti comprendono una maggioranza di partigiani. Questi ultimi, come i dirigenti del movimento, provengono da orizzonti politici differenti. I ricordi del gollismo di guerra e della resistenza li conducono a questo gollismo d'opposizione, dove si forgiano i quadri delle formazioni golliste del periodo dopo il 1958. Così la memoria degli anni di guerra, delle scelte e delle solidarietà di allora resta presente ben al di là della IV repubblica. Non è sempre agevole indicare la posizione di awenimenti come la guerra e la resistenza in una cultura politica ed è ancor_più delicato tentare una simile analisi quando si tratta della cultura religiosa. Non si affronta, per eccellenza, un campo che è quello della tradi11

«France Forum», ottobre-dicembre 1994, p. 28. Come osserva da Jean Charlot, Le gaullisme d'opposition 19461958, Parigi, 1983, p. 77. 13 Citato da J. Charlot, Le gaullisme, Parigi, 1970, p. 39. 12

24

zione e della lunga durata 14 • Se è incontestabile che la cultura religiosa, nel mondo cattolico e protestante, conosce dei cambiamenti di grande spessore di cui eccellenti operer, hanno marcato i grandi tratti, queste ultime sono presentate a partire dagli anni Venti e soprattutto negli anni Trenta. Esse si prolungano fino agli anni Sessanta e al Concilio. Sarebbe evidentemente molto inesatto imputare allo shock della guerra, all'esperienza della resistenza la responsabilità di questi cambiamenti. Eppure l'una e l'altra hanno potuto accelerare, indirizzare delle evoluzioni già ingaggiate ed hanno potuto anche, sul momento o in seguito, segnare tali aspetti della cultura religiosa. Lo sviluppo dei movimenti di Azione cattolica, la preoccupazione missionaria, la ricerca di nuove formule pastorali, la posizione dei laici nella riflessione religiosa, l'apertura sociale, lo scrupolo ecumenico sono caratteristiche del cattolicesimo francese, presenti durante la guerra, ma anche prima e dopo di essa. Lungi dall'essere frenato dalle condizioni di vita francese sotto l'occupazione, questo movimento si afferma ancora di più sia perché il tragico dell'esistenza favorisce un ritorno del religioso sia perché la scomparsa di altre attività conduce a guardare verso ciò che sembra essenziale. Si è stesa spesso la lista delle creazioni, sul piano intellettuale o pastorale, intervenute durante la guerra. Nel 1941 è fondata la rivista «Economie et Humanisme» (Economia e umanesimo) di padre Lebret, François Perroux, Gustave Thibon, nel 1942 a Lione la raccolta Sources Chrétiennes (Fonti cristiane) con i padri Danielou e de Lubac intraprende la pubblicazione dei testi dei padri della Chiesa, nel 1943 è creato da padre Duployé, dome-

1 ◄ Come aveva osservato René Rémond, Le catholicisme /rançais pendant la seconde gue"e mondiale, in «Revue d'histoire de l'Eglise de France», luglio-dicembre 1978, p. 205. 1' Ci si limiterà a rimandare ai contributi di Etienne Fouilloux, L'histoire du christianisme, t. 12, Parigi, 1990 e L'histoire de la France réligieuse, t. 4, Parigi, 1992; Y.M. Hilaire e G. Cholvy, Hisloire de la France conlemporflùte, t. 3, Tolosa, 1988.

25

nicano, il centro d( pastorale liturgica, per ritornare alle fonti della liturgia. E ancora nd 1943 che viene pubblicato France pays de mission (Francia paese di missione) degli abati Godin e Daniel, rapporto sulla decristianizzazione degli ambienti operai 16• La fondazione della missione di Francia e della missione di Parigi sono contemporanee. Le maggiori innovazioni dd cattolicesimo francese dd dopoguerra: il rinnovamento liturgico e pastorale, la preoccupazione della missione operaia, l'ossessione derivante dalla decristianizzazione, la preoccupazione della ricerca intellettuale, si affermano allora. Si può legittimamente pensare che, di fronte all'ampiezza della crisi che il paese conosce, aspirazioni fino ad allora soggiacenti si precipitino in altrettante iniziative. Bisogna aggiungere che il clima eccezionale del tempo lascia una certa libertà a queste ultime. Roma è lontana e le relazioni con essa sono sempre più difficili. Le circostanze costringono all'ammorbidimento nd campo liturgico, ad esperienze originali così anche nei campi di prigionieri e deportati. Se la guerra gioca un ruolo d'acceleratore in un movimento già impegnato che prosegue successivamente, essa porta anche a delle prese di coscienza. Due esempi qui si impongono: il movimento ecumenico e il riavvicinamento al giudaismo. L'impegno comune dei cattolici e dei protestanti nella resistenza è illustrato dal titolo infine scdto per l'organo della resistenza spirituale: «Témoignage chrétien et non catholique» (Testimonianza cristiana e non cattolica). Per riprendere le conclusioni di Etienne Fouilloux: «il conflitto ha indurito e fortificato un'avanguardia [. ..] d'altra parte è stato occasione di un' osmosi tra confessioni, senza la quale questa avanguardia sarebbe rimasta marginale» 17 •

16

Confronta R. Wattaebled, Stratégies catholiques en monde ou-

vn·e, de la France d'après gue"e, Editions ouvrières, 1990. 17

26

Confronta E. Fouillox, Une épreuve tonique pour l'oecumenisme,

L'arcivescovo di Tolosa, mons. Saliège, lo scrive nella sua «Semaine Religieuse» il 16 gennaio del 1944: la guerra «ha dato una forza più grande a questo desiderio, a questo · bisogno dei credenti di ritrovare l'unità perduta». La persecuzione antisemita porta ad una riflessione sulle relazioni dd cristianesimo e del giudaismo e alla fondazione, nel 1948, di, «Amitié judeo-chretienne» (Amicizia giudaico cristiana). E in verità fino ad oggi che continua e si approfondisce questa riflessione, che ha portato a sradicare ciò che soprawive dell'antisemitismo cristiano nella cultura cristiana e a dare la sua piena dimensione ali' apporto dd giudaismo in seno ad essa. Molto di più che il movimento in favore dell'unità dei cristiani anteriore alla guerra e la cui ulteriore evoluzione deve assai poco alla memoria ddla guerra, il riavvicinamento tra ebrei e cristiani non cessa di trovare il suo radicamento e il suo riferimento nell'evento fondatore della persecuzione. Soprattutto le scdte contrastate dei cattolici francesi di fronte a Vichy e alla resistenza portano a dei conflitti e a delle rimesse in causa le cui tracce furono profonde. Il mondo protestante non conobbe una simile situazione, sia a causa delle strutture interne del protestantesimo e dell'assenza di una gerarchia come nella Chiesa cattolica, sia perché il regime di Vichy non vi trovò che una simpatia limitata 18• Si sa bene oggi che il mondo cattolico francese, a immagine del paese, si divise tra una debole minoranza collaborazionista, una minoranza partigiana che si ingrandì con l'aumentare dei delusi della rivoluzione nazionale e una larga adesione al regime del maresciallo Pétain almeno fino al 1942. Questo non è il posto giusto in cui

in •Eglises et chrétiens dans la Ilème guerre mondiale», diretto da Xavier de Montclos, Lyon, 1982, pp. 525-533. L'insieme dell'opera costituisce sempre un riferimento indispensabile. 18 Si dispone da poco di un notevole insieme di studi: Les protestants /rançais pendant la seconde gue"e mondiale (I protestanti francesi durante la seconda guerra mondiale), Atti del convegno di Parigi, riuniti da André Encrevé e Jacques Poujol, supplemento a «Bullenin dc l'histoire du protestantisme françai~, 1994, p. 737.

27

descrivere i luoghi del conflitto: l'atteggiamento senza dubbio verso il regime dd «Principe schiavo», l'atteggiamento di fronte al primo ed al secondo statuto degli ebrei e alla deportazione, l'atteggiamento di fronte al servizio dd lavoro obbligatorio, l'atteggiamento rispetto alla resistenza. Dei teologi, dei semplici preti, dei laici, impegnati o no in movimenti cattolici, si opposero alle prese di posizione o all'atteggiamento di attesa dell'episcopato. Innumerevoli testimonianze e studi hanno evocato que~ta storia. E più complicato apprezzare in che misura essa abbia contribuito a modificare la fisionomia dd cattolicesimo francese del dopoguerra ed abbia costituito una memoria vivente. Certi dati sembrano comunque acquisiti: I' autorità dei vescovi è più difficilmente accettata dopo la guerra, almeno quando essi affrontano i loro impegni nella città. L'antica tradizione d'indipendenza dei cattolici francesi rispetto agli interventi delle autorità religiose nella vita pubblica è rafforzata. I movimenti di Azione cattolica non sono più portati ad accettare senza discussione la teoria del «mandato» dato dalla gerarchia. Siamo alle origini delle crisi dei movimenti di azione cattolica dd 1956 e degli anni seguenti, i cui protagonisti non mancarono di fare riferimento alle scelte drammatiche degli anni di guerra. Se si affronta il mondo della ricerca intellettuale, si osserva un simile indebolimento dell'autorità. I cardinali e gli arcivescovi avevano ricusato i documenti anonimi redatti da persone senza responsabilità e senza mandato (4 ottobre 1943, essi miravano ai teologi gesuiti di Fourvière a Lione, i padri Chaillet, de Lubac, Fessard, Fontoynont). Ma l'influenza di questi ultimi risulta ancora più grande anche se Roma si sforza, negli anni del dopoguerra, ad una ripresa del controllo. Così il ricordo degli anni della guerra contribuisce a modificare le relazioni dei fedeli e del clero con l'episcopato. L'autorità dei vescovi è indiscutibilmente diminuita negli anni del dopoguerra, anche se l'epurazione dd corpo episcopale, contrariamente al

28

desiderio dei cattolici partigiani, non riguarda che rarissime personalità 19• L'opera, apologetica, ma utilmente documentata di mons. Guerry: La Chiesa cattolica in Francia sotto l'occupai.ione, pubblicata nel 1947 dall'arcivescovo coordinatore di Cambrai, segretario dell'assemblea dei cardinali e degli arcivescovi, si sforzò di giustificare il comportamento dell'episcopato. È solamente vent'anni più tardi con il libro di Jacques Duquesne, Les catholiques /rançais sous l'occupation (I cattolici francesi sotto l'~ccupazione), che si incominciò una revisione storica. E importante che negli anni dd dopoguerra l'assemblea dei cardinali e degli arcivescovi sia ritornata a più riprese sugli anni del regime di Vichy, invitando i francesi ad una riconciliazione e ad un superamento dei conflitti di quel periodo. Il 16 ottobre 1947, l'assemblea dei cardinali e degli arcivescovi indirizzava una lettera al presidente della repubblica, pubblicata due mesi più tardi, che invitava il Governo a «considerare con sovrana serenità la soluzione al tragico problema dell' epurazione»20 • Il 4 marzo 1948, l'assemblea dei cardinali e degli arcivescovi evoca la sorte dei 100.000 francesi accusati di indegnità nazionale, auspica un'amnistia ed una soluzione di giustizia21 • Quando scompare il maresciallo Pétain, il 23 luglio 1951, i cardinali francesi tra cui figurano Gerliér, Renard, Roques e Saliège, ricordano che il capo di Stato francese è stato «per un caso unico negli annali della nostra storia, prigioniero per più di cinque anni, fino all'età di 95 anni», aspettando il giudizio della storia, essi sottolineano che «egli ebbe il pericoloso onore di essere condotto da

19

Confronta la messa a punto di Andrè Latreille che fu in carica

al «Boureau des cultes» del ministero dell'interno alla liberazione, de Gaulle, la Ubération et l'Eglise catholique (de Gaulle, la liberazione e la Chiesa cattolica), CERF, 1978. 20 Pubblicato da «La Croix» del 24 dicembre e «Documentation catholique», 28 marzo 1948. 21 «Documemation catholique», 28 marzo 1948.

29

un'op1mone pubblica avvilita, malgrado i suoi 84 anm, alla suprema magistratura dello Stato»22 • L'insistenza sull'età, sull'atteggiamento dell'opinione, sul disastro, vuole spingere a comprendere il dramma dell'anziano eroe di Verdun che ha sempre protestato per la «rettitudine delle sue intenzioni» e a capire anche il comportamento dei vescovi al suo riguardo. Sarebbe eccessivo, in mancanza di un lavoro approfondito sull'argomento, formulare qui delle conclusioni certe sulla posizione di Vichy e della guerra nella memoria dei cattolici francesi nd decennio dd dopoguerra. Si ha comunque la sensazione che la divisione dei cattolici francesi durante la guerra, che ravviva ed inasprisce, in parte, delle divisioni, così tra sostenitori dell'azione francese e della democrazia di ispirazione cristiana, trascina l'esistenza, negli anni seguenti, di memorie separate. Il discorso ufficiale che invitava all'unione e alla riconciliazione, esaltando il patriottismo e la resistenza al nazismo, le maschera. D'altra parte, molto vdocemente, altre linee di scissione si aggiungono a quelle dovute al periodo di guerra. Esse suscitano delle ricomposizioni, ma anche dei conflitti intorno a ciò che i loro avversari chiamano «la Nouvelle Théologie» (la nuova teologia), o all'opera pastorale. Sarebbe prematuro trarre delle conclusioni a queste osservazioni che volevano soltanto tentare di discernere la pressione della memoria della guerra e della resistenza nella cultura politica e religiosa della Francia del dopoguerra. Ci si limiterà a due osservazioni: la guerra e la resistenza giocano indiscutibilmente un ruolo di acceleratore nelle evoluzioni già cominciate, esse non sono un punto di partenza assoluto. D'altra parte, la loro presenza nella cultura politica e religiosa non si conclude al decennio del dopoguerra, ma si estende sino ai giorni nostri23 • Ma questa è un'altra storia. 22

«Documentation catholique», 29 luglio 1951. Le quattordici testimonianze riunite da Olivier Wievorca, Nous enlrerons dans la cam'ère, De la Résislance à /'exeràce du pouvoir, Parigi, 1994, comportano un insieme di documenti che chiariscono la memoria della resistenza e la sua rilettura ndla Francia odierna. 23

30

G1ovANNI MICCOLI

CATTOLICI E COMUNISTI NEL SECONDO DOPOGUERRA: MEMORIA STORICA, IDEOLOGIA E LOTIA POLITICA Permettete alcune considerazioni a titolo di premessa. La domanda di fondo cui il nostro convegno è chiamato a rispondere penso possa essere sintetizzata così: in quale misura il proprio immediato passato, così tragicamente greve di distruzioni e lacerazioni, di odii e contrapposizioni sanguinose e feroci, così vistosamente inciso e presente allora non solo nella memoria ma nelle stesse rovine di città e paesi come nel perdurante disordine della vita civile, condizionò e orientò l'opera degli uomini negli anni dell'immediato dopoguerra, a quale intrico di idee, sentimenti, aspirazioni e proposte esso diede espressione? Specificamente, in questa prima giornata dedicata alla cultura, è sulle idee, sui giudizi, sugli atteggiamenti verso quella storia tutta recente che ci si dovrà soffermare, idee, giudizi e atteggiamenti che, per l'Italia, non possono venir circoscritti però alla guerra e alla resistenza soltanto, ma devono necessariamente allargarsi al ventennio fascista di cui la guerra, appunto, costituì il sanguinoso epilogo. Furono, lo si vedrà almeno in parte tra poco, idee, giudizi e atteggiamenti non poco varii e frastagliati, spesso divergenti e contrapposti, con una caratt~ristica comune però che va subito rilevata, perché tale da imporre ben precisi binari alla nostra analisi. Essi infatti non solo erano profondamente innervati, com'è ovvio, nei criteri e negli orientamenti ideali dei vari gruppi e delle diverse culture che li espressero, ma erano anche immediatamente funzionali alle scelte e alle battaglie politiche del pre-

li testo viene stampalo così com'è sia/o lei/o durante il convegno di Bologna. Sono sia/e aU,iunle sollanlo le noie essenziali.

31

sente, rappresentarono una componente essenziale, vorrei dire quasi una ragione costitutiva, del modo con cui si ritenne di dover affrontare i complessi e gravi problemi aperti nella società italiana dd dopoguerra. Parte integrante del ~ibattito politico, dell'opera di costruzione e ricostruzione di nuove articolazioni politiche e istituzionali, quelle idee vanno perciò colte ed esaminate nei loro nessi con i progetti, gli orientamenti ed i comportamenti politici che caratterizzarono le diverse forze in campo, perché è solo in tale quadro che esse svelano la loro portata reale ed il loro spessore. Più che mai, allora, l' atteggiamento verso il vicino passato fu condizione e ragione delle scdte operate nel presente e spia delle prospettive assunte per l'avvenire. Il campo d'indagine dunque è straordinariamente ampio, aperto a innumerevoli piste di ricerca. Un minimo di chiarezza e di pulizia espositiva impone perciò di precisare i limiti di ciò che dirò. Nd brulicante formicolio di gruppi, di idee e di propositi che si affacciarono in quegli anni sulla scena italiana ho privilegiato l'analisi delle posizioni e degli orientamenti dei due grandi sistemi culturali - il cattolico ed il comunista - che più di altri mi pare furono allora espressione e punto di riferimento di grandi masse di uomini incidendo profondamente, per adesione o per rifiuto, nei modi di pensare e di agire degli italiani. Furono due sistemi culturali, penso lo si possa dire, che formarono e caratterizzarono allora, per un certo numero di anni, due «popoli» CQntrapposti e distinti, pur se intrecciati e confusi all'interno della più ampia società italiana. Un'ulteriore osservazione preliminare mi pare necessaria. Il periodo preso in considerazione è quello della fondazione della repubblica: un periodo dunque in cui si apre un ciclo e si dà avvio ad un sistema politico entrato in questi ultimi anni in una grave crisi. Una crisi che non è soltanto di partiti e di ideologie, di fiducia nelle istituzioni e di partecipazione alla politica, ma che sembra, per certi suoi aspetti, investire e mettere in discussione alcuni dei criteri e dei valori fondanti la nostra stessa convivenza 32

-----.----

e compagine civile. È difficile perciò, parlando di quei lontani inizi, evitare di chiedersi se stanno già lì, ed in quale misura e con quali caratteri, le prime radici delle nostre attuali difficoltà e delle nostre debolezze. La domanda è perfettamente legittima anche se ogni tentativo di risposta si profila gravido del rischio di anacronismi e deformazioni interessate, come sempre avviene quando la storia del passato più o meno prossimo viene appiattita sul proprio presente; quando tale storia è, non dico studiata, ma richiamata ed evocata, e perciò mutilata e manipolata in funzione esclusiva di esso. La sommaria, spesso rancorosa libellistica storico-politica che, con poche eccezioni 1, propone precipitose e disinvolte revisioni della storia tanto implausibili quanto interessate, costituisce un vistoso campanello di allarme per. chiunque voglia avventurarsi su questo terreno. Non per questo, però, esso va eluso. Vorrei dire, anzi, che sarebbe intellettualmente e moralmente scorretto evitarlo. Ma avendo ben chiaro, tuttavia, questo rischio, di manipolazioni e strumentalizzazioni propagandistiche cui lo studio della storia contemporanea è costantemente soggetto: con esiti negativi non solo per una corretta ricostruzione e comprensione del nostro passato (e perciò di chi siamo e da dove veniamo) ma anche per la stessa pulizia e correttezza del dibattito politico e per la formazione di una più solida consapevolezza civile e politica. E non è certo polemizzando con quel passato, o rivoltandolo secondo le nostre opzioni e le nostre simpatie, o valutandolo alla luce di vicende e processi successivi, che potremo trovare una soluzione ai nostri problemi, meno che mai un capro espiatorio per assolverci dalle nostre difficoltà. Cercar di capire, al di là della passione che preme e del coinvolgimento emotivo 1 Tra queste è da annoverare l'agile volumetto di G.E. Rusconi, Resistenza e post/tJscismo, Bologna, 1995. Un esempio dd primo caso è offerto da R De Fdice, Rosso e nero, a cura di P. Chessa, Milano, 1995: non vi mancano spunti e osservazioni felici, troppo sovente accompagnati però da forzature semplificanti e da una singolare arroganza di tono e di scrittura.

33

che difficilmente può essere assente quando entrano in campo memorie dirette e speranze e aspirazioni vissute. Cercar di capire: questo è l'atteggiamento preliminare di ogni onesta ricerca storica. Tutto il resto viene dopo. A tale regola cercherò, come posso, di attenermi. 1. I cattolici

Comincerò dai cattolici, tra i quali emergono, fin dal declino del regime e ancor di più in seguito, nel corso della resistenza e nel primissimo dopoguerra, una straordinaria varietà di scelte, di spunti, di orientamenti: opera certamente solo di piccoli gruppi, ma non per questo meno significativa di un fermentare tormentato e vivace che ha nel riesame e nella critica del passato, proprio e collettivo, e nell'esperienza catastrofica della guerra, conclusasi per non pochi nella resistenza o negli orrori dei campi di concentramento nazisti, i propri fondamentali punti di riferimento 2• Sono atteggiamenti che meritano di essere ricordati (e qualche cenno cercherò di darne più avanti). Tuttavia ove non ci si voglia appiattire ad una rilevazione tutta empirica di esperienze minoritarie colte nell'immediatezza delle loro manifestazioni, ma si cerchi piuttosto di guardare al contesto complessivo, e alle sue linee reali di forza, come alle sue prospettive e possibilità di evoluzione, non c'è dubbio che per parlare dei cattolici in quegli anni bisogna parlare in primo luogo della Chiesa, ossia della Santa sede, della gerarchia episcopale e del clero, che esercitano allora sul laicato fedele un preciso ruolo di direzione e di orientamento, cui nessun ambito della vita individuale e collettiva resta, in linea di 2 Per un quadro complessivo dr. V.E. Giuntella, La Resistenza ca/· tolica, in Divonario storico del movimento callolico in Italia 1860-1980, a cura di G. Campanini e F. Traniello, voi. I, 2, I falli e le idee, Casale Monferrato, 1981, pp. 112-128. Ma vedi anche in questo stesso volume la relazione di P. Blasina, Resistenza, guerra, fascismo nel callolicesimo italiano (1943-1948).

34

princ1p10, estraneo; cui i laici, organizzati o meno, devono fare costantemente capo, per ricavare le linee maestre dei propri orientamenti sociali e politici. Circostanze eccezionali - e tali furono quelle verificatesi in Italia fra il '43 e il '45 - potevano consigliare una maggiore autonomia all'azione dei laici, potevano sollecitare addirittura il lasciar maturare scelte ed esperienze diverse e perfino contrapposte, per non compromettere la Chiesa in situazioni di difficile discernimento, per lasciar meglio emergere le condizioni in cui si dovrà operare nell' avvenire3. Ma erano appunto solo circostanze eccezionali, di incertezza e fluidità estreme, nelle quali poteva verificarsi, ed esser finanche opportuno, un disporsi come a ventaglio dei cattolici, cui peraltro non mancava per lo più, nelle loro stesse scelte individuali, il consiglio o l'avallo di un sacerdote. Ma la dottrina, come la prassi prevalente nel mondo cattolico italiano non potevano lasciare dubbi: ciò si poteva verificare solo fino a quando il magistero non avesse ritenuto di doversi esprimere chiaramente ed univocamente sul da farsi. «Sudditi» della Chiesa, com'erano definiti i cristiani nel Catechismo per gli adulti del cardinale Gasparri4, essi erano chiamati all Ho svolto più ampiamente tale discorso in Problemi di ncerca sull'alleggiamenlo della Chiesa durante la resistenza con particolare riferimento alla situazione del confine orientale, in Società rurale e Resistenza nelle Venezie, Milano, 1978, pp. 241-262, e in Chiesa, partito callolico e società civile (1945-1975), in Fra mito della cn·stianità e secolarizz.avone. Studi sul rapporto Chiesa-società nell'età contemporanea, Casale Monferrato, 1985, pp. 377 ss. Per un quadro d'insieme dell'atteggiamento dei cattolici nel corso della guerra cfr. le ottime sintesi di R Moro, I cattolici italiani di fronte alla guerra fascista, in La cultura tklla pace dalla Resistenza al Patio Atlantico, a cura di P. Pacetti, M. Papini e M. Saracinelli, Bologna-Ancona, 1980, pp. 75-126; F. Traniello, Il mondo cattolico italiano nella seconda gue"a mondiale, in L'Italia nella seconda gue"a mondiale e nella Resistenza, a cura di F. Ferratini Tosi, G. Grassi e M. Legnani, Milano, 1988, pp. 225-267 e A. Riccardi, Vescovi, parroci, Azione cattolica, in Sulla crisi del regime fascista. La società italiana dal «consenso» alla Resistenza, a cura di A. Ventura, Istituto veneto per la storia della Resistenza, in «Annali», 13-16 (1992199.5); Venezia, 1996, pp. 523-538. ◄ P. Gasparri, Catechismo callolico, Brescia, 1932, p. 120.

35

l'obbedienza, in particolare nei confronti del papa: un'obbedienza che non comporta solo il dovere di «ottemperare ai suoi ordini» ma anche quello di «inchinarsi ai suoi consigli ed ai suoi desideri». Sono formulazioni estreme: ma i criteri di fondo cui si richiamavano erano quelli dominanti la cultura religiosa del periodo. L'unità politica dei cattolici nella democrazia cristiana, quale si realizza fin dai primissimi anni del dopoguerra, trova qui la sua prima essenziale giustificazione. Ciò implicava, come fu osservato\ fare dell'identità religiosa l'elemento fondante dell'unità politica, non senza inevitabili ricadute sull'azione e sugli orientamenti del partito, al quale del resto restavano affiancate, ad ulteriormente condizionarlo, le schiere compatte dell'associazionismo confessionale, che conobbe , in quegli anni un costante, notevolissimo incremento6 • E alla luce di tale condizione complessiva che vanno esaminati gli atteggiamenti verso il passato fascista, la guerra e la resistenza che prevalsero allora nel mondo cattolico. La Chiesa, si sa, usciva dal ventennio fascista con dietro le spalle un lungo periodo di collaborazione e di alleanza con il regime. Non erano mancati momenti di tensione e di frizione anche aspri. Nulla di simile tuttavia con quanto era awenuto in Germania, dove lo scontro ideologico e la persecuzione strisciante contro la Chiesa ~ G. Dossctti, Fisionomia del Il Congresso della Dc:, in «Cronache sociali», I, 13, 30 novembre 1947, p. 14 [198]. 6 Cfr. C. Falconi, La Chiesa e le organiu.azioni calloliche in Italia (1945-1955), Torino, 1956, pp. 399 ss.; La presenza sociale del PCI e della Dc, in Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Ricerche sulla partecipazione politica in Italia, IV, Bologna, 1968, pp. 360 ss. (La ricerca sulle organizzazioni cattoliche e la Dc è stata coordinata da A. Prandi); J.-D. Durand, L'Eglise catholique dans la crise de l'/Jalie (1943-1948), «Collection de l'Ecole française de Rome», 148, Roma, 1991, pp. 233 ss. e 282 ss. Per i nuovi statuti dell'Azione cattolica, pubblicati nel 1946, che, confermando la già avvenuta centralizzazione verticistica, le avevano però conferito una maggiore elasticità di movimento e un nuovo dinamismo di penetruione nei diversi «ambienti» della società, vedi L. Ferrari, Una stona de/l'Azione callolica. Gli ordinamenti statutari da Pio XI a Pio Xll, Genova, 1989, pp. 231 ss.

36

avevano messo chiaramente in luce, per chi voleva vedere, l'assoluta incompatibilità fra la dottrina nazista e il cristianesimo. Le diverse visioni del mondo e della storia che pur avrebbero potuto dividere e contrapporre fascismo e cattolicesimo romano erano rimaste per dir così sullo sfondo, oscurate dalla scelta di Mussolini di fare del sostegno dei cattolici uno dei pilastri del proprio regime e dalla disponibilità della Santa sede e delle gerarchie ecclesiastiche di accettare le sue profferte. Le tensioni e le frizioni dunque erano nate soprattutto dalla concorrenzialità di due poteri che aspiravano entrambi all'egemonia sulla vita associata, e che operavano perciò con prospettive e finalità diverse. Ma tali tensioni non avevano rotto quel sostanziale equilibrio, fatto di appoggi e di riconoscimenti reciproci, che si era stabilito fra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta. Confermato dal pieno sostegno dato da vescovi e clero alla campagna d'Etiopia e alla guerra di Spagna, esso non era stato incrinato durevolmente nemmeno dall'introduzione delle leggi razziali, nonostante i sospetti ed i timori causati dall'alleanza del regime con il III Reich, di cui tali leggi potevano configurarsi come una prima significativa co~seguenza7. Né tale atteggiamento era mutato con l'entrata dell'Italia in guerra, nel corso della quale, fino all'inverno 1942/43, la Chiesa aveva svolto un ruolo fondamentale nella tenuta del fronte intemo8 • I «disordinamenti libera-

7

Cfr., contro una vulgata storiografica dura a morire, P. Soave e

P.G. Zunino, La Chiesa e i cattolici nell'autunno del regime fascista, in «Studi storici», XVIII (1977), pp. 69-95 e quanto ho documentato in Santa sede e Chiesa italiana di fronte alle leggi antiebraiche del 1938, in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Atti del Convegno nel cinquantenario deHe leggi razziali (Roma, 17-18 ottobre 1988), Roma, 1989, pp. 214 ss. 8 Cfr. R De Felice, Mussolini l'alleato (1940-194.5), 1/2. L'Italia in guerra (1940-1943). Crisi e agonia del regime, Torino, 1990, pp. 775 ss. Per il quadro complessivo dr. Moro, / callolici italiani di fronte alla guerra Jascisla, cit., pp. 75-126, e Traniello, li mondo callolico italiano nella li guemJ mondiale, cit., pp. 325-367.

37

li» - come li aveva definiti Pio XI9 - cui il fascismo aveva posto fine, costituivano, agli occhi del mondo cattolico, un merito che non poteva essere misconosciuto. Ed era ancora il fascismo, grazie ai suoi principi illiberali, che aveva ridato alla Chiesa, con il Concordato, una parte almeno di quella «libertà» che i precedenti governi liberali le avevano tolto. Ma in questo caso, per i cattolici, si trattava dell'unica vera «libertà», quella che andava concessa alla «verità» di cui la Chiesa era esclusiva depositaria, e che a torto il pensiero politico moderno, di ispirazione liberale e democratica, aveva rivendicato per tutti. In effetti l'apprezzamento che il mondo cattolico aveva nutrito per il regime, la consonanza di criteri e di valori esaltata su tutti i toni nel corso del ventennio, riposavano in primo luogo su quel drastico ripudio delle «libertà moderne» e dei loro principi ispiratori, che il fascismo aveva promosso e realizzato 10 • Non mancano precise tracce, del resto, all'indomani della caduta del fascismo, delle aspirazioni di autorevoli ambienti di curia di poter mantenere in Italia un governo di tipo moderatamente autoritario 11 , che conservasse aspetti non secondari della legislazione fascista. Esprimono con chiarezza tali tendenze le raccomandazioni rivolte dalla segreteria di Stato al proprio mediatore con il Governo Badoglio di guardarsi bene dal sostenere l'abrogazione delle leggi razziali, conformemente alla richiesta avanzata dall'unione delle comunità israelitiche italiane,

9 Discorso ai professori e agli studenti de/l'Università callolica del Sacro Cuore di Milano (13 febbraio 1929), in Parole pontificie sugli accordi del Laterano, Roma, 19292, pp. 29 ss. (anche in Discorsi di Pio Xl, a cura di D. Benetto, voi. Il, Torino, 1960, p. 18). 10 Cfr. G. Baget Bozzo, I/ fascismo e /'evoluzione del pensiero politico calloliro, in «Storia contemporanea», V (l 97 4), pp. 6 71-697. Per l'analisi di un significativo caso panicolarc vedi V. Marchi, «L'Italia» e la missione civi/iuatrice di Roma, in «Studi storici,., 36 (1995), pp. 485-.531. 11 Cfr. Miccoli, Chiesa, partilo cattolico e società civile, cit., pp. 375 s. e G. Manina, La Chiesa in Italia negli ultimi trent'anni, Roma, 1977, pp. 30 ss.

38

perché, «secondo i principi e la tradizione della Chiesa», tale legislazione presenta «bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene altre meritevoli di conferma» 12 • In quelle stesse settimane dell'agosto 1943 «La Civiltà Cattolica», pur prudentissima nel tono, non mancava di rimarcare il «discutibile ibridismo» di «manifesti comuni» con cui i cinque partiti che avrebbero formato il CLN si rivolgevano alla popolazione, rilevando insieme come «il riaffacciarsi alla vita pubblica di personaggi e tendenze per lo meno discutibili» suggerisce «un prudente riserbo e di attendere gli sviluppi futuri» 0 • Per parte sua l' organo degli assistenti dell'Azione cattolica era ancor? più esplicito nel mettere in guardia i propri associati: «E tornata la libertà, non solo per il bene, ma anche per il male» 14 • Si riaffacciava il passato prefascista, col suo disordine e con quel pluralismo di idee e di opinioni, quanto spesso malvagie, che il fascismo nonostante tutto aveva opportunamente tolto di mezzo. Ed era appunto questa «libertà per il male» a costituire un aspetto non facile da accettare per chi fosse fermamente persuaso che solo la «verità» ed il «bene», di cui la Chiesa era esclusiva depositaria e garante, potevano rivendicare la libertà con pieno diritto. Non è un caso del resto che autorevolissime figure di curia continuassero a guardare alla Spagna del regime di Franco, allora ed in seguito, come al proprio ideale politico'~. Questo insieme di idee e di giudizi riposava sulla

12 In Ades et documents du Saint Siège relati/s à la seconde gue"e mondiale, 9, Tip. poliglotta vaticana, 1975, n. 317, p. 459. Cfr. G. Miccoli, La Santa Sede nella II gu~a mondiale: il problema dei «silenzi» di Pio Xll, in Fra mito della cristianità e secolariUllz.ione, cit., pp. 328 ss. 13 Cronaca contemporanea, ll. Italia, in «La Civiltà Cattolica», 94 (1943), voi. III, pp. 320 ss. (fase. del 21 agosto). 14 F. Sargolini, I doveri dell'ora, in «L'Assistente ecclesiastico», XIII 0943), p. 247. 15 Cfr. A. Riccardi, Chiesa di Pio Xli o Chiese italiane?, in Le Chiese di Pio Xli, a cura di A. Riccardi, Bari, 1986, pp. 40 e 51, n. 93; G. Verucci, La Chiesa nella soaelà contemporanea, Bari, 1988, pp. 189 ss.

39

classica distinzione tra la tesi e l'ipotesi, tra la piena attuazione temporale cioè di un regime organizzato secondo i dettami della dottrina cristiana, che riconoscesse alla Chiesa quel compito di supremo orientamento della vita e dell'ordine sociale che essa riteneva le competesse per divino mandato (una società cristiana insomma, «ordinata a riconoscere Gesù Cristo come suo re supremo») 16, e l'adattamento alle condizioni date, che poteva consigliare o imporre compromessi pratici e rinunce operative per evitare mali maggiori. Taie distinzione operava ancora realmente negli indirizzi e nell'azione politica della Chiesa, sollecitando all'adattamento quando più incerta e difficile appariva la situazione, ma senza cessare di guardare alla tesi e cercando anzi di avvicinarsi il più possibile ad çssa quando le circostanze fossero apparse più favorevoli. E con tali criteri che la Chiesa aveva guardato al fascismo e si era accordata con esso, ed è con tali criteri che essa si dispose ad affrontare il difficile dopoguerra e le nuove situazioni che si prospettavano. Ciò spiega come le critiche ed i rimproveri rivolti al regime all'indomani della sua caduta facessero di preferenza riferimento agli «errori» da esso compiuti (l'alleanza con il III Reich, la guerra, i periodici contrasti con il Vaticano) piuttosto che ai principi politici e sociali che lo avevano ispirato, secondo un filo di ragionamento che trovava al suo termine la banalizzazione estrema dei giudizi cui Guglielmo Giannini e il movimento dell'«Uomo qualunque» diedero voce e legittimazione politica 17 • 16 Così A. Oddone, Ubertà moderne, in «La Civiltà Cattolica», 96 (194.5), vol. III, p. 81. 17 Una raccolta significativa dei loro luoghi comuni in G. Giannini, La /olla. Seimila anni di I.olla contro la tiranmde, Roma, Ed. Faro, 1945. Per un esempio cfr. p. 123: «Se quello sciocco del signor Mussolini avesse formata e presieduta una Lega degli Stati Neutrali, alla quale tutti gli Stati non belligeranti avrebbero aderito, oggi sarebbe il solo vittorioso e potrebbe sedere al tavolo delJa pace con ben altri titoli che non i cinquantamila morti chiesti al signor Badoglio, con ben altre forze che non i suoi mai visti otto o dieci o dodici milioni di baionette». Una penetrante analisi contemporanea del linguaggio e de-

40

Il lungo memoriale predisposto nel dicembre 1943 dal sostituto alla segreteria di Stato mons. Domenico T ardini per il rappresentante personale del presidente Roosevelt presso la Santa sede, Myron Taylor, ricorda naturalmente tra gli «aspetti negativi del fascismo» anche il suo aver negato «la libertà all'individuo, ai sindacati e la libertà di azione politica», nel senso che «a nessuno era consentito criticare pubblicamente o muovere accuse contro il fascismo e i suoi capi» 18• Ma significativamente considera non più di una «stupidaggine» il fatto che «un partito soltanto era tollerato ed esso era quello fascista» 19• E naturale pensare che un diplomatico accorto come mons. Tardini, nello scrivere il suo lungo testo, tenesse anche attentamente conto delle idee e degli orientamenti dell'interlocutore americano. Anche per questo certi giudizi, che è difficile non definire minimizzanti dell'opera del fascismo, appaiono tanto più significativi del suo sentire profondo. Come quando, scrivendo della «mancanza di abilità» di Mussolini, egli riduce le leggi razziali del novembre 1938 nei termini di una «legge contro i matrimoni tra ariani e ebrei [. .. ] che provocò le energiche proteste di Pio XI», giudicandola per questo «un [. .. ] grave errore»20 : Se si considera che in Italia i cosiddetti matrimoni misti ammontano a stento a 100 all'anno su un totale di circa 300.000, è evidente che non valeva la pena di creare un demento di discordia con il supremo potere spirituale [. .. ] su una questione così circoscritta.

gli atteggiamenti del movimento offre G. Glisenti, I/ partito dell'Uomo Qualunque e il II Congresso nazionale, in «Cronache sociali», l/9 (30 settembre 1947), pp. li ss. [131 ss.]. Ma vedi anche, da un altro punto di vista, le osservazioni di L. Mangoni, Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo, in Storia de/l'Italia repubblicana, I. La costruzione della democrazia, Torino, 1994, pp. 688 ss. 18 In E. Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti 1939-1952. Dalle carte di Myron C. Taylor, Milano, 1978, n. 134, pp. 285 ss. 19 20

Ivi.

lvi, p. 287.

41

Non è solo un'ulteriore indiretta conferma che nella curia si pensava che in quelle leggi vi erano norme «meritevoli di conferma», che non erano esse, in quanto tali, a dover provocare la ripulsa dei cattolici. Evidenziare con il proprio interlocutore solo il divieto dei matrimoni misti il divieto appunto che costituiva un vulnus al Concordato - attesta implicitamente ancora una volta come il criterio di fondo degli ambienti ecclesiastici per giudicare di un regime o di un movimento politico fosse offerto dal loro atteggiamento nei confronti delle rivendicazioni della Chiesa. Tale fu il criterio di giudizio applicato al fascismo e al suo regime, e tale restò sostanzialmente, e sia pure avvolto per lo più nelle nebbie dell'implicito, anche all'indomani della sua caduta. Non vi è dubbio tuttavia che, dopo il disastro dell '8 settembre e alla luce delle situazioni drammatiche che il paese stava vivendo, sempre più chiara divenne negli ambienti vaticani la consapevolezza che il regime cui l'Italia si stava avviando e che alla fine della guerra sarebbe pr).

86

Giuseppe Dossetti ne rilevò con grande acutezza la forza ed i limiti già in un rimarchevole articolo apparso su «Cronache sociali» nel novembre 1947 134 - oscurò e accantonò ogni altra questione e ogni altro problema. Era una questione decisiva: ma non era certo sufficiente per affrontare e modificare nel profondo le pesanti e difficili eredità che erano il lascito del passato prossimo.

134 Cfr. G. Dossetti, Fisionomia del Il Congresso della Dc, in «Cronache sociali», I, 13 (30 novembre 1947), p. 15 [190].

87

ERIC MECHOULAN

GUERRA E RESISTENZA NELLA CULTURA POLITICA SOCIALISTA IN FRANCIA (1945-1955)

Riflettere sul ruolo della seconda guerra mondiale e della resistenza nella cultura politica socialista francese nd dopoguerra sembra rientrare nd campo delle assurdità. Mentre la memoria della resistenza costituisce parte integrante dell'identità socialista - è sufficiente per convincersene leggere le memorie di Jules Moch, in cui gli uomini sono giudicati ed apprezzati solamente in funzione del loro atteggiamento negli anni Trenta poi nel corso della guerra -, lo storico si scontra, invece, con una serie di problemi assai ardui da sormontare. In effetti, i socialisti che sono, anche se si esita a dirlo, marxisti sanno leggere la congiuntura grazie ad una griglia d'interpretazione che permette loro di rendere conto contemporaneamente degli avvenimenti nella loro materialità e del proprio ruolo nella storia. Lo si è visto a proposito della prima guerra mondiale, intesa per gli uni come un'opposizione di interessi tra imperialismi antagonisti, e per gli altri come l'affrontarsi di due sistemi di valori. Il problema si ripropone nel 1939 con una acuità tanto più intensa in funzione delle risposte adottate, alcuni socialisti hanno rinunciato dal 1938, a volte anche da prima, all'idea di combattere i fascismi europei. Per un socialista francese pensare alla guerra non equivale, dunque, a ricordare un periodo cronologicamente determinato, ma implica una messa in causa dell'identità socialista a doppio titolo. Innanzitutto perché si trova assegnata alla guerra, come concetto, una funzione particolare nel pensiero marxista; in seguito perché a seconda del suo grado di sottomissione al dogma marxista o alla sua interpretazione, ogni socialista francese non ha vissuto la stessa guerra.

89

Ma la definizione di guerra non implica solamente un ritorno sul pacifismo di una gran parte dei socialisti, essa suppone anche di precisare la natura del nemico e, questione ancora più delicata, degli alleati imposti dalla storia. Le ostilità prendono il loro significato soltanto tramite gli obiettivi che si attribuiscono al combattimento, che non sono obbligatoriamente identici a quelli dei commilitoni. Per quanto la storia della resistenza, compresa quella socialista, sia ben nota, tutte queste questioni conducono ad intraprendere qui ciò che si potrebbe definire una storia delle rappresentazioni, poiché l'oggetto di questo studio è di comprendere meglio come i socialisti francesi si percepiscono ed in quale misura fondano la loro identità sulla loro storia passata, dunque quale immagine vogliono dare del loro partito e a quale fine. La cultura politica è dunque intesa nel suo senso più largo, dalla memoria collettiva che i militanti del partito nutrono di loro ricordi individuali fino all'utilizzo del passato partigiano per fini politici congiunturali tramite le istanze esecutive locali e nazionali, all'occorrenza per mezzo del comitato direttivo della SFIO. D'altronde, una storia basata sulle sole mentalità si sarebbe rivelata impossibile da realizzare per diverse ragioni. La prima è che sarebbe stata certamente necessaria realizzare un'indagine a caldo, con questionario in appoggio, per rendere le misure delle mutazioni operate all'interno de mondo militante alla liberazione. Inoltre, quest'indagine non avrebbe evidentemente fornito nulla di originale all'interno di un gruppo comunicante all'unisono nel ricordo della gloria partigiana. In seguito perché se ci si doveva accontentare delle memorie e dei ricordi pubblicati, questo lavoro sarebbe fallito sul campo. In effetti, i testi di questa natura sono _posteriori agli anni Cinquanta e redatti dopo il ritiro dalla vita attiva, pubblica o meno. Essi portano spesso il segno dell'immaginario collettivo più che rivelarne le sfumature d'opinione. Per cercare di comprendere in quale misura gli anni della guerra e della resistenza abbiano contribuito a forgiare l'identità socialista del dopoguerra ed come abbiano

1

90

alimentato i paradossi dd socialismo francese, abbiamo iniziato a spulciare i giornali, volantini, riviste e bollettini socialisti del decennio che segue la fine delle ostilità. Questo lavoro permette così di costruire, in via preliminare, un quadro generale di riferimenti al periodo 1939-45 all'interno delle pubblicazioni socialiste, al fine di valutare da subito in che misura le nozioni di guerra e di pace si siano trasformate all'interno del partito, e in seguito di definire il ruolo giocato dal riferimento alla guerra e alla resistenza nel rapporto tra la SFIO e le altre formazioni politiche e, infine, quali sono le conseguenze interne di queste evoluzioni. Se si scelgono indifferentemente «Le Populaire» o «Le Populaire-Dimanche» nei mesi che seguono la liberazione, la guerra non è che l'occasione di far conoscere eroi ed i martiri del partito: gli articoli che si succedono descrivono le imprese di un militante e ricordano il sacrificio di un altro. Tal volta personalità generate dalla resistenza riportano i loro recenti ricordi. Non una riflessione d'ordine generale sulla guerra e sulle sue finalità, ma una successione di ritratti. I primi numeri de «La Revue Socialiste», fatta eccezione per i rari articoli consacrati agli anni 1939-1945, tendono allo stesso modo a tenere alta la memoria di quelli che sono morti, armi in mano, sotto tortura o ancora in deportazione 1• Per di più, il conflitto mondiale viene solo menzionato generalmente per fare apparire l'arretramento sociale degli anni di privazione in rapporto ai benefici del fronte popolare2. Questo aspetto commemorativo naturale e necessario,

1 «La Revue Socialiste», 1946, 6, p. 731 e 1949, 32, pp. 488-496. Non si tratterà in questo luogo la problematica dei racconti di deportazione, troppo specifica per trovare il suo postò in questo contributo. D'altronde, nella visione di tutte le memorie consacrate a questo soggetto, non se ne trova traccia nella penna dei socialisti prima di una data molto avanzata. 2 «La Revue Socialiste~. 1947, 8, pp. 191-196 e 1949, 31, pp. 314335. Citiamo per essere esaurienti un articolo sul cinema come nuovo strumento di acculturazione e di propaganda, 1949, 29, pp. 22-30.

91

per ragioni patriottiche, soprattutto tra la liberazione e il termine delle ostilità, non è esente da intenzioni politiche. I rapporti redatti in vista del 37° congresso della SFIO, che si tenne nell'agosto del 1945, riproducono allora la circolare indirizzata dal segretario generale del partito socialista clandestino, Daniel Mayer, ai segretari regionali e dipartimentali, nel giugno del 1944: Delle accuse interessate sostengono che il partito socialista ha adottato un atteggiamento attendista e si tiene al di fuori della lotta. Noi siamo impegnati nella battaglia con tutte le nostre forze, sia come Partito che come individui Ogni giorno, decine dei nostri cadono. Quando si redigerà la lista dei francesi vittime della repressione hitleriana - e del regime di Vichy, il numero di socialisti che vi troverà posto sorprenderà per la sua rilevanza 3•

Ma quando arriva il momento di questa redazione, i socialisti esitano ed assumono un comportamento imbarazzato: «Il partito non ha l'abitudine di utilizzare i nomi dei suoi morti per fini propagandistici», scrive Moch in un opuscolo del 1945, prima di propinare al lettore un paragrafo costituito dalla lista delle vittime più celebri della famiglia socialista4• Queste affermazioni rappresentano anche una posta in gioco politica. Prima della fine della guerra, la SFIO esprime il suo interesse per la sorte di tutti quelli che hanno sofferto; così, nel dicembre 1944, essa accorda il suo patrocinio all'associazione nazionale delle vittime della Germania e di Vichy che conta già numerosi militanti a titolo personale5. Ma la prudenza è di rigore, per esempio, quando il comitato direttivo respinge la pubblicazione di un volantino redatto dalla commissione dei deportati e prigionieri che informava i lavoratori, precettati ed anziani, del servizio di lavoro obbligatorio, del fatto che 3 SFIO,

37° congresso, Rapporls, Parigi, 1945, p. 33. Moch, Argumen/s Socialistes, Parigi, 1945, p. 29. ' Archivi dell'Office universitaire de recherches socialistes (OURS), resoconto delle sedute del comitato direttivo, 21 dicembre 1944. 4

92

J.

essi dovevano far valere i loro diritti e che il partito li avrebbe sostenuti a questo proposito, per il motivo che esso rischiava di trovarsi dei lavoratori volontari nella lista dei beneficiari di questo sostegno6 • Prima di interpretare più nel dettaglio la naturale insistenza dei socialisti nd distinguere tra partigiani autentici e partigiani dell'ultima ora, conviene descrivere le modalità di questo sforzo. In effetti, dalla fine degli anrii Sessanta, Mayer non ha mai smesso di affermare che «è assolutamente necessario che la storia dd partito socialista sia scritta (o piuttosto [. .. ] il ruolo dei socialisti nella resistenza)»7• Oltre alla preoccupazione di rompere con l'attendismo reale di certi socialisti generati dalla tendenza pacifista dd 1940, l'intenzione di Mayer è quella di insistere sulla rottura tra il partito del periodo tra le due guerre e quello della liberazione, le cui radici affondano nella resistenza grazie ali'azione di individualità rivelate dagli awenimenti. La resistenza trattata in questa relazione non è solamente quella dell'informazione e del colpo di mano. Mayer ci tiene a sottolineare forme d'azione troppo spesso passate sotto silenzio. Per cominciare, le iniziative di unificazione della resistenza, in particolare la proposta di un esecutivo comune prefigurante il consiglio nazionale della resistenza e soprattutto il suggerimento di quello che doveva diventare il suoJ'rogramma, d'ispirazione socialista. Poi, il peso morale e intellettuale delle analisi di Blum - non solo i suoi testi come «A l'échelle humaine», diffusi da «Le Populaire dandestin», ma ancora la sua difesa al processo di Riom continuamente evocata nella trasmissione «i francesi parlano ai francesi» e trasformandosi in una requisitoria contro Vichy i cui contenuti potevano anche essere compresi tra le righe della versione ufficiale da un pubblico più vasto rispetto ai soli militanti socialisti8 • 6

Comitato direttivo, 26 settembre 1945. D. Mayer, Les socialistes dans la Résistance, Parigi, 1968, p. 4. 8 D. Mayer, Le role des socialistes, la Ubération de la France, Atti dd convegno internazionale, Parigi 28-31 ottobre 1974, Parigi, CNRS, 1976, p. 96 e colloquio. 7

93

Così facendo, Mayer si inscrive nel filone di quelli -che hanno cercato di forgiare questa nuova identità socialista, alla liberazione, nella gloriosa filiazione della resistenza - si potrebbe ricordare, ancora, che André Philip ci tiene a sottolineare la distinzione tra la ricostruzione del partito per merito di Mayer e la resurrezione dell'ideale socialista, opera di Léon Blum9 • Prima ancora della liberazione del territorio nazionale, si trova questa idea in un opuscolo pubblicato ad Algeri intitolato Le Parti socialiste dans la Résistance (Il partito socialista nella resistenza) che sembra essere la prima pietra di questa ricostruzione sull'identità. Dedicato alla memoria dei martiri socialisti, questo testo non menziona i militanti attivi per ragioni di sicurezza e riserva ai socialisti l'incombenza di rivelare ulteriormente il ruolo della SFIO nella «lotta contro l'invasore» - si noterà qui il ricorso ad un vocabolario che ha più a che fare con l'unione sacra che con la retorica partigiana. L'autore, Pierre Duprandon, identifica i primi partigiani con gli oppositori a Pétain, il 10 giugno 1940, ma accorda il primato della resistenza attiva ai militanti socialisti che avevano organizzato il passaggio verso sud di aviatori e che avevano raccolto informazioni ancora prima dell'armistizio. Dalla fine del mese di giugno 1940, i primi socialisti si riuniscono e pensano ad una nuova organizzazione in margine alle antiche federazioni del partito, riporta il succitato opuscolo. Oltre alla preoccupazione di accentuare la purezza del nuovo socialismo francese ricostituito sulla base di «nuclei di uomini e donne scelti tra i militanti più attivi e devoti» 10 , questo testo segna l'inizio di un processo quasi genealogico destinato a monopolizzare l'iniziativa partigiana che assomiglia ad una gara di velocità intrapresa prima della liberazione della metropoli. Essa prosegue con la conferenza di Gérard Jaquet ri9

A. Philip, Les Soàalistes, Parigi, 1967, pp. 105-106. P. Duprandon, Le Parti soàaliste dans la Résistancc, Algeri (ed. di f-ratémité), 1944, pp. 1-9. 10

94

prodotta sotto il titolo di Les Mouvements de Résistance en France (I movimenti di resistenza in Francia), ed apparsa nella serie della scuola del propagandista della federazione della Senna, nel corso del secondo semestre del 1945. Gérard J aquet - respingendo così i «Conseils à l'occupé» (consigli all'occupato), distribuiti sottobanco dal militante socialista Jean Texcier alla fine del 1940, nella categoria delle opere tardive - fa risalire il primo movimento della resistenza all'iniziativa di Léon-Maurice Nordmann in risposta all'appello del 18 giugno: Insieme ad alcuni amici, tutti socialisti o simpatizzanti del socialismo, essi redassero dei proclami contro l'occupante e dei volantini ciclostilati furono distribuiti nella regione parigina. Questo movimento non era molto potente. Non aveva delle ramificazioni in provincia ma era composto da uomini giovani, dinamici, decisi a battersi 11 •

Tuttavia, il partito socialista clandestino, sempre rivoluzionario e fedele alla sua identità di sezione francese dell'internazionale operaia, «non intendeva per questo essere una forza distinta di forze nazionali create per portare a buon fine la battaglia patriottica» 12 • Duprandon può così giustificare il rifiuto del partito socialista di possedere il proprio movimento di resistenza armata, al contrario dei comunisti: Il partito si trovava [. .. ] davanti ad una situazione di fatto. Ha giudicato che non doveva ritirare i suoi militanti dai diversi movimenti dove si erano impegnati. D'accordo con Blum, i membri dei comitati direttivi del comitato d'azione socialista hanno invitato i loro militanti ad irrigare le organizzazioni di partigiani. Il partito ha fornito a questi movimenti dei dirigenti e delle truppe. Ha fatto ancora di più. Ha operato per portare alla fusione di tutti i movimenti partigiani. Ha impedito le divi-

li G. Jaquet, Les Mouvements de Résistance en France, conferenza del 15 giugno 1945, federazione socialista della Senna, scuola di propaganda, corso n. 6, Parigi, 1945, p. 4. 12 D. Mayer, art. cii., p. 96.

95

sioni e facilitato i riawicinamenti. Possiamo ben scrivere oggi che il partito socialista è all,origine del comitato centrale della resistenza, poiché questo organismo fu creato in seguito a numerosi contatti presi in Francia tra alcuni membri del direttivo del CAS e dei rappresentanti dei servizi speciali della Francia libera1l.

Questa spiegazione non permette soltanto di rovesciare l'argomento secondo il quale i socialisti non hanno potuto costituire il loro movimento di resistenza perché non sono stati pionieri in questo campo - l'autore lo riconosce implicitamente menzionando una «situazione di fatto» - ma ancora tende a porre sullo stesso livello il socialismo clandestino ed i servizi speciali della Francia libera. Certamente, l'assenza d'organizzazioni di resistenza propriamente socialiste provenienti dalla SFI0 14 è stata volontaria e spontanea da parte di Mayer e dei suoi compagni ed hanno esplicitamente sperato che la battaglia condotta dai socialisti si integrasse nel contesto della lotta nazionale. Ma quest'assenza di equivalenti nel fronte nazionale comunista mette, dal primo semestre del 1944, i socialisti in una posizione difensiva, anche se la miglior difesa restano gli argomenti propagandistici d'attacco. Pierre Duprandon si affretta d'altronde ad aggiungere, dopo aver riconosciuto l'assenza di un movimento partigiano uscito dal partito clandestino, che oltre al loro ruolo di ispiratori del programma del CNR (Consiglio nazionale della resistenza), i socialisti hanno infine stabilito la propria struttura di informazione ed azione «che è stata infine riconosciuta ad un livello di uguaglianza dalle altre organizzazioni». Nell'opuscolo pubblicato l'indomani della liberazione, nel 1944, intitolato La Vie clandestine du Parti socialiste (La vita clandestina del partito socialista), Robert Verdier

13

P. Duprandon, op. cii., pp. 17-18. A parte i gruppi Veni e Brutus. Libération-Nord, praticamente diretto da socialisti, non è però un movimento socialista. 14

96

riprende gli stessi argomenti insistendo sul duplice ruolo del partito nella resistenza: promotore del programma del CNR e della «riunificazione di tutte le forze golliste e partigiane che fino ad allora andavano in battaglia in ordine sparso» 15 • Nel 1945, Moch si spinge ancora più in là; secondo lui, «i socialisti volevano evitare così l'anarchia risultante dalla coesistenza di milizie politiche rivali. L'esperienza della liberazione prova che essi ebbero ragione e seivirono l'interesse nazionale rinunciando alla creazione della propria forza armata» 16• Gérard Jaquet si sente tuttavia ancora obbligato a rispondere a ciò che è ormai diventata una critica portata contro la SFIO, alla quale alcuni rimproverano di non aver partorito un «movimento di resistenza diretto ed animato da lei», non invocando più le esig~nze nate dalle circostanze. E necessario ormai affermare la volontà di scindere il gesto politico partigiano e l'azione nazionale della resistenza, i socialisti esprimono in tal modo la consapevolezza di un compito comune al quale sanno sottomettere i loro interessi immediati, trasformando una situazione parzialmente subita in situazione completamente scelta. Più di vent'anni dopo la fine della guerra, Philip può rilevare, a proposito dei socialisti dispersi in seno alla resistenza, non senza lasciar trasparire le proprie speranze deluse di un grande partito socialista umanistico, che, «nell'insieme di questi movimenti, ad eccezione del fronte nazionale, in cui il partito comunista cercava già di organizzare le nuove forze sotto il suo controllo, in vista di un ulteriore utilizzo, non c'erano più distinzioni, né di classe, né di opinione filosofica o religiosa» 17 • In tutte le pubblicazioni, immediatamente posteriori o meno alla guerra, la qualità dei partigiani ha la meglio 15

R Verdier, La Vie clandestine du Parli socialiste, Parigi, 1944, p.

16

J. Moch,

27.

Le Parli socialiste au peuple de France, Parigi, 1945,

p. 23. 11

A. Philip, op. àt., p. 103.

97

sulla loro quantità: Mayer l'ha chiarito ai militanti socialisti a partire dal febbraio 1944 con una circolare riprodotta anche nel rapporto del congresso del 1945: «il dovere dei socialisti è totalmente tracciato. Dobbiamo essere "i migliori della resistenza". Il posto che occuperà domani il nostro Partito sarà in funzione di due elementi: la politica generale e l'atteggiamento collettivo che esso adotterà; il ruolo che giocherà sul piano locale, così come l'atteggiamento dei suoi membri» 18 • Se Robert Verdier riconosce a posteriori che il suo opuscolo è un'opera di comando e di circostanza destinato, dall'estate 1944, a non lasciare ai comunisti il monopolio della gloria della resistenza, senza tuttavia menzionarlo, Gérard Jaquet, un anno dopo e quindi in pieno tripartitismo, non esita a ricordare il ruolo ambiguo ricoperto dal Pc (parti communiste) tra il 1939 ed il giugno 1941, addirittura dopo l'invasione del-

l'URSS. I socialisti non hanno dimenticato che nonostante la presenza del gruppo Jean Jaurès a Londra, il gen. de Gaulle ha passato un accordo con il Pc e non con la SFIO. Questo ricordo pesa loro tanto più che i suoi esiliati della Francia libera ed i suoi militanti clandestini di metropoli hanno avuto un ruolo di garante destinato a preparare il ritorno dei socialisti sulla scena politica. La memoria socialista non si nutre tuttavia dell'attività svolta a Londra e ad Algeri, nemmeno della guerra vissuta sotto l'uniforme delle forze francesi libere, come nel caso di Moch; essa preferisce mettere l'accento sulla resistenza interna, più eroica nell'immaginario collettivo e soprattutto più gratificante per i militanti. T uni i socialisti sono dunque lontani dal proporre, come Vincent Auriol in Hier... Démain (Ieri ... Domani), una visione politica e parlamentare della guerra. Alcuni non esitano d'altronde a «recuperare» la storia, se si può dire, in una logica socialista come Jean Pierre Bloch nella sua apologia del gen. de Gaulle pubblicata nel 1945: 18

98

SFIO, 37° congresso, Rapporls, Parigi, 1945, p. 29.

Un vento d'apocalisse passò sulla Francia. Vista attraverso

il tempo, non era che un'apocalisse per borghesi, che dovevano viaggiare senza letto e senza cibo su strade di follia. Era soprattutto il panico interiore, una sorta di cattiva coscienza che si trasformava in un mea culpa collettivo.

Per l'autore di queste righe, la disfatta del 1940, non è che il naufragio di una Francia radicale. Quanto agli anni di Vichy: Era il tradimento della piccola borghesia. Essa mancò ai doveri più elementari di solidarietà nazionale, ostentò il suo lusso ed il suo denaro, rinunciò a tutto ciò che è rettitudine e l'onore fu per lei una parola senza significato. Da quando lo Stato francese ebbe promulgato le leggi razziali, 1'85 % dei negozianti si affrettò ad apporre un'attestazione infiocchettata che diceva: Ditta Francese 19•

L'autore si affretta con manicheismo a salvare la Francia operaia, precisando che «il popolo non ci stette». Per quanto una lettura così dogmatica, degli anni bui sembra rimanere marginale all'interno della SFIO, all'indomani della liberazione, non risulta essere banale chiedersi come i socialisti abbiano percepito gli avvenimenti del 1944 in una logica partigiana da cui non potevano, per definizione, staccarsi senza rinunciare alla loro identità. Al capo dei francesi liberi, il socialista e gollista Philip non ha forse dichiarato: Lei può fare nello stesso tempo sia la rivoluzione che la guerra come facevano i nostri grandi antenati. No, ha obiettato il generale, poiché la rivoluzione era pressoché terminata nel 1792, mentre la guerra continuava20 •

Certamente, i socialisti rimangono fedeli a loro stessi nel loro attaccamento alla democrazia, ma non sono in-

19 J.P. Bloch, Char/es de Gaulle. Prémier ouvrier de France, Parigi, 1945, pp. 5 e 64-65. 20 Comitato direttivo, 22 novembre 1944.

99

sensibili alle potenzialità che cela una situazione così eccezionale come la liberazione, seguendo in questo il pensiero di Blum, per il quale «la guerra può, in certi casi, creare delle condizioni favorevoli all'insurrezione ed alla conquista del potere, ma non alla trasformazione rivoluzionaria»21 che solamente un processo democratico può portare a buon fine. Sembra che, per i socialisti, la guerra e la resistenza non diano diritto alla rivoluzione ma permettano loro di meritarla22 • Blum stesso esprime quest'idea dapprima davanti a1 segretari di federazione al suo ritorno dalla prigionia: Considero la resistenza come il fenomeno politico più importante che sia mai apparso in questa Nazione da lunghi anni. Non credo, da parte mia, che la resistenza abbia creato a vantaggio di qualcuno un diritto al potere. Nessuno ha diritto al potere in una democrazia. La sovranità popolare ha anche il diritto di essere ingrata23 •

Non ne legittima nemmeno le aspettative socialiste nelle colonne del «Populaire» interpretando in termini rivoluzionari i recenti avvenimenti: Durante la crisi rivoluzionaria della resistenza e della liberazione, si è liberata una volontà collettiva. Il popolo voleva che la Nazione francese fosse una democrazia e lo Stato francese una repubblica. Il popolo, trasformato e rigenerato dai disastri, la lotta e la vittoria, voleva che lo Stato repubblicano fosse trasformato e rigenerato allo stesso modo24 •

21 L.

Blum, A l'échelle humaine, in L'Oeuvre de Léon Blum, V,

1940-45, Parigi, 1955, p. 487. 2 2 Colloquio con Robert Verdier che riprende l'idea di Blum: «la resistenza non crea dei diritti al potere a profitto delle persone» espressa in Les devoirs el les taches, in L'Oeuvre de Léon Blum, Vl-2 1937-1940, Parigi, 1958, p. 10. 23 Ibidem, p. 9. 24 L. Blum, Légalité révolutionnairc, in «Le Populaire», 3-4 giugno 1945.

100

E più tardi: «La resistenza e la liberazione non sono state di per sé una rivoluzione. Nessuno contesterà tuttavia [. .. ] che esse siano state, per lo meno, un sussulto dal carattere rivoluzionario»2'. L'idealista del socialismo francese riproduce dunque, qui, la dottrina tradizionale dd partito in materia di rivoluzione democratica e giustifica la sua induttabilità tenendo conto anche della diffusione di una tal concezione d'origine socialista nella Nazione intera. Ma soprattutto egli rifonda l'attaccamento jauressiano all'idea repubblicana ricordando ai socialisti che essi ne sono i campioni, così come l'aveva fatto all'epoca dd processo di Riom26 • Così, i socialisti rompono infine con il pacifismo degli anni Trenta fondato sull'imperativo di preservare la vita individuale ad ogni costo, cioè a costo degli imperativi fondamentali che sono la democrazia e la repubblica. La guerra e la resistenza permettono dunque al socialismo di ricostituire una scala di valori: L'uomo deve conoscere il prezzo della vita, deve saperla subordinare a dei fini ideali, che sono dei fini collettivi: la giustizia, la libertà umana, l'indipendenza nazionale, la pace stessa, perché la pace si colloca nel novero degli scopi necessari all'umanità e, forse, è il più importante di tutti, nel senso che essa è la condizione di quasi tutti gli altri. Questa subordinazione si chiama, praticamente, sacrificio ed una propaganda rivoluzionaria che non lo sappia più insegnare si abbassa e si volgarizza [. .. ]. L'esperienza insegna che, nei momenti più temibili della vita, l'uomo la salva mettendola a rischia27 •

Denunciando il «pacifismo bdante [ ... ] troppo spesso confuso [. .. ] con degli sforzi di pace organizzata» come «misticismo fanatico», Auriol non fa che esprimere la stessa idea, cioè giustificare la presenza della lotta antifascista nella lotta contro la guerra28 • 2j 26

L. Blum, L'aulre danger, in «Le Populaire», 30 giugno 1945. L. Blum a Riom in L'Oeuvre de Uon B/um; IV-2, 1937-1940,

Parigi, 1965, p. 349. 27 L. Blum, A L'éche//e humaine, V, cit., p. 464. 28 V. Auriol, Hier... Démain, Parigi, 1945, pp. 164-165.

101

La guerra, che non è ancora finita all'inizio del 1945, non è già più una battaglia per la vittoria ma per dei valori internazionalisti dimenticati nel decennio precedente, altrimenti, essi avrebbero evitato lo scatenarsi del conflitto: la sicurezza collettiva, l'arbitrato obbligatorio e il disarmo. Nello stesso momento in cui la democrazia sociale, l'esperienza della guerra e della resistenza fanno quasi dell'organizzazione internazionale della pace e della costruzione europea un nuovo motivo di guerra, senza che nessuno osi domandarsi se i detentori di questa trilogia non abbiano la loro parte di responsabilità nell'incrementare i pericoli: Blum, non aveva teorizzato il disarmo unilaterale? Checché ne sia, questo ragionamento permette allora ai socialisti di conciliare le loro aspirazioni pacifiste ed il loro impegno nella battaglia, ma sacrificando parzialmente la loro idea di vittoria sulla Germania. In effetti, la guerra acquista un valore positivo e non si riduce più ad una semplice impresa di annientamento dell'avversario; per di più, la resistenza diventa la battaglia contro un regime che ha accettato il trionfo della forza sul diritto. Ancor prima della fine della sua prigionia, Blum si riavvicinava al rifiuto socialista «della pace rimessa in pugno ai tre grandi vincitori, della pace di forza» 29 , nella direzione dell'opposizione socialista al trattato di Versailles. Questo ritorno alle origini dell'interpretazione socialista delle relazioni internazionali, mette la SFIO un po' in difficoltà in rapporto allo spirito pubblico più portato a rinnovare l'antagonismo tradizionale tra tedeschi e francesi, sotto forma di opposizione tra democrazia e totalitarismo nazista, più che a sostituire la prima con il secondo. Peggio: Blum arriva perfino ad assimilare ai nazisti quei francesi che facevano della sola distruzione della Germania l'unico scopo della guerra, anziché combattere per l'indipendenza nazionale avente come fine ultimo la creazione di un mondo pacifico attraverso «un accordo libero tra popoli liberi»} 0 • 29 L. Blum, Notes d'Allemagne, in L'Oeuvre dc Léon Blum, V, cit., p. 509. Jo Ibidem, p. 418.

102

Non si creda, però, che simili distinzioni siano proprie di Blum; dal 1944, Mayer si sforza di imporre l'idea che la lotta non prosegue contro la Germania, ma contro il nazismo 31 - un nazismo mal definito dd resto - quando alcuni dirigenti nazionali come Boubtien o WeilP 2 tengono fermamente all'opposizione tradizionale tra l'indole francese e quella tedesca e finiscono per cedere solo al peso dell'autorità morale di Blum. Quest'ultimo rifiuta tuttavia le argomentazioni anti-germaniche a partire dalla sua prigionia: «Non credo alle razze di decaduti e dannati. Non ci credo né per i tedeschi né per gli ebrei. [... ]. Un minuscolo cambiamento di circostanze è sufficiente per rianimare la brutalità dell'uomo, di tutti gli uomini»H. Un'affermazione molto categorica da parte di un uomo che ha subito una deportazione privilegiata, se così si può dire. Non pensiamo tuttavia che questa sfaldatura riproduca nn' eventuale divisione tra teorici e militanti che preferiscono le spiegazioni semplici in termini di responsabilità collettive. Da un lato si può constatare che molti militanti si sono trovati rapidamente soddisfatti nella loro identità socialista nd vedere il loro partito incarnare una posizione specifica riguardo alla questione tedesca34 ; d'altra parte, si ritrova nella «Pensée Socialiste», organo della sinistra più marxista e dogmatica del partito, un'interpretazione della guerra in termini di affronto tra le nature dei popoli e non tra le loro ideologie3'. Moch si permette anche di esprimere la sua opinione nd nome dd partito scrivendo: «La responsabilità collettiva dd popolo tedesco - e non solo dei

Colloquio con Robert Verdier. S. Bombois, in La SFIO el l'A/lemagne 1945-1951, universitaria, Parigi I, 1991, aggiunge a questa lista il nome di Auriol, ciò che contestava Mayer che abbiamo intervistato. H L. Blum, Notes d'Allemagne, in L'Oeuvre de Léon Blum, V, cit., p. 513. 34 Colloquio con D. Mayer. 3' A. Haulot, L'Allemagne nouvelle noeud du problème européen, in «La Pensée socialiste», 1946, 3, p. 5. 3l 32

103

gerarchi nazisti - si trova coinvolta. Il partito lo proclama»36. Invece il partito proclama il contrario. Siamo agli antipodi dd rifiuto di ogni responsabilità collettiva, ritenuta essere la posizione ufficiale del partito ed il segno della sua specificità, cbme tiene sempre a precisare Mayer3 7• La definizione del nemico, è dunque lontana dall'essere agevole all'inizio. L'apparente indulgenza di Blum è infatti tributaria di un'analisi del nazismo che lo riduce ad una intesa tra una forma specifica di fascismo tedesco e la borghesia che i nazisti propongono di liberare dalla sinistra. Se questo tipo di spiegazione ha il vantaggio di non fare del nazismo un fenomeno isolato e di giustificare la guerra e la resistenza con una spiegazione universale che rende conto, nella sua globalità, della lotta delle democrazie contro i totalitarismi, essa presenta però il difetto di soddisfare difficilmente lo spirito pubblico 311 . Succede che la posta supera largamente l'interpretazione della guerra: si tratta prima di tutto della purezza del sentimento rivoluzionario che non deve essere inquinato né da un'epurazione che faccia prevalere la vendetta sulla giustizia, né da un patriottismo che rischi di minare pesantemente le potenzialità d'internazionalismo per l'avvenire. Questa specificità socialista è carica di conseguenze sui rapporti tra la SFIO e gli altri partiti. I non socialisti non hanno mancato di essere urtati dall'andamento intellettuale che ha finito per imporsi all'interno del partito, come Maurice Schumann, venuto a protestare presso Robert Verdier, che denunciava un socialismo che riproduceva i suoi antichi errorP 9 • «Noi ci sentivamo vittime della coalizione gaullo-MRP e comunista», riconosce Robert Verdier a nome dei socialisti che, all'indomani della liberazione, rimpiangono ormai di non aver avuto il proprio movimento di resistenza 36 H 38

J.

Moch, Arguments socialistes, cit., p. 82. Colloquio con D. Maycr. Sul dettaglio di questa questione, vedi S. Bombois, op. cii., pas-

sim. 39

104

Colloquio con Robert Verdier.

armata. Essi soffrono per non essere stati ammessi al ristretto circolo del CNR, quando essi facevano parte della suà assemblea plenaria, assemblea che ha per altro rifiutato, nel dicembre 1943, di accordare ai socialisti la stessa rappresentatività concessa ai comunisti40 • Questa assemblea è estranea all'ambizione socialista di liberare l'uomo dalla condizione di salariato ed allo stesso tempo il territorio nazionale dall'occupante, per quanto riguarda i più moderati41 , o preferisce forse evitare una seria concorrenza sul terreno rivoluzionario, per quanto riguarda i comunisti. Contrariamente al partito socialista belga, solidamente seduto su una rete sindacale ed associativa che gli permetteva non solamente di occupare il primo piano della scena politica senza avere il controllo del movimento armato, ma anche di non legare la sua sorte al divenire di tali movimenti42 , la SFIO sembrava dover fondare la sua identità su delle azioni individuali. Nel 1944, è ormai lontano il tempo in cui Gaston Defferre poteva dire a Félix Gouin: «il nostro Partito è [. .. ] la sola espressione politica del proletariato francese. Il Pc riceve i suoi ordini da Mosca e si preoccupa molto meno della Francia»43 • Non è dunque necessario attendere lo scacco dei negoziati d'unità nel 1945, per vedere la memoria socialista' nutrirsi di un'opposizione viscerale al comunismo. Il ricordo della resistenza comune si fa tanto più discreto in quanto i due partiti si allontanano progressivamente l'uno dall'altro. Ma gli argomenti che fanno la popolarità del comunismo francese mettono decisa40

M. Sadoun, Les Sociaiistes sous i'Occupation, Parigi, 1982, p.

139.

Colloquio con D. Mayer. . Gotovitch, Ruptures et continuités: personnel dirigeant et choix stratégiques socialistes de la clandestinité à la uhéralion (Rotture e continuità: personale dirigente e scelte strategiche socialiste dalla clandestinità alla liberazione}, in «Socialisme» (Bruxelles), luglio-agosto 1984, p. 305. 4 3 f. Gouin, Un certain goul de cendre, manoscritto, t. 2, pp. 274275 [Bibliothèque Nationale]. 41 42

J.

105

mente il socialismo in una posizione difficile: come competere con il patriottismo del Pc, all'indomani del ritorno di Thorez, con la sua demagogia in favore della soluzione Pleven contro Mendès France nella lotta contro l'inflazione e la sua sostituzione, dall'epurazione alla questione sociale al momento della liberazione, senza tener conto dei punti che segna all'interno della CGT (Confederazione nazionale del lavoro). Quando Mayer, nel 1974, spiega ancora che «se il pudore ha impedito (al partito socialista) di costruire i suoi successi elettorali sul numero delle sue vittime, esso rappresentava niente meno che una delle forze politiche più importanti della Nazione»44, non sta proseguepdo la polemica con il partito dei «75.000 fucilati»? E in questo contesto di concorrenza che bisogna capire la preoccupazione dei socialisti, danneggiati dalla loro diluizione all'interno dei movimenti partigiani, di insistere sulla c·ontinuità che essi personificano attraverso la loro presenza a Londra al fine di sottolineare meglio la rottura che costituisce l'anno 1941 per i comunisti, e la loro assenza di preparazione alla clandestinità causata dal loro attaccamento alla democrazia, ancora una volta, a differenza dei comunisti4'. Tuttavia, nel 1952, «La Revue socialiste» non manca di giudicare infine il Pc degli anni 1939-1941 46 • Si comprende ora ancora meglio la discrezione della S1-10 nell'evocare gli anni di guerra e resistenza a partire dal 1945, sa di non avere alcuna chance di battere il suo avversario comunista, predisposto «dottrinalmente» all'azione illegale, sul suo terreno prediletto: l'identità partigiana. Incapaci di rivaleggiare in materia con i loro concorrenti di sinistra, i socialisti si trovano ugualmente in una bruttissima posizione di fronte al gollismo. Il generale è ancora, nel 1945, l'incarnazione della resistenza. I socialisti possono proiettare su di lui le loro speranze partigia44 4'

46

106

D. Mayer, ari. cii., p. 99. R. Verdier, op. cii., p. 4. «La Revue Socialiste», 1952, 60, pp. 247-254.

ne, come fa Jean Pierre Bloch, secondo cui «Charles de Gaulle è il primo operaio di Francia; è colui che ha deposto la prima pietra della ricostruzione, colui che ha posto i perni della struttura che sosterrà la IV repubblica, colui che ~a piantato i chiodi della nuova vita sociale francese». E soprattutto lui che attraverso il suo libro Vers l'Armèe de métier «raggiunge l'opera di Jaurès e dà finalmente all'arte militare una nozione vivente dd socialismo» e che, in occasione di un'intervista a Londra, delineò a Jean Pierre Bloch, «in qualche parola, la storia dei nostri errori, dell'accecamento della borghesia», in altre parole ciò che voleva intendere47 • Tuttavia, dal febbraio 1945, le reticenze del generale di fronte all'impresa delle riforme strutturali prima delle elezioni, convincono i socialisti delle divergenze future; ma rompere con de Gaulle, quindi con la Francia partigiana in persona, equivarrebbe a sottrarre il socialismo alla dinamica partigiana ancora vivace e ad abbandonare il monopolio ai non socialisti. Notiamo in quell'occasione che i socialisti, convinti di aver ispirato alla resistenza il loro spirito, hanno forse proiettato la loro propria visione delle riforme sulle aspettative dei partigiani cristiani e non marxisti. La rottura con il generale sulla questione del budget militare, secondaria per i socialisti nel dicembre 1945 vista l'evoluzione della guerra all'interno del partito, come si è detto, è anche da parte loro la rottura con una certa idea della Francia che essi non condividevano ma che era troppo legata all'idea stessa della resistenza, questo aveva impedito che se ne separassero prima. L'opposizione sistematica del nuovo capo dell'RPF (Raggruppamento del popolo francese) al sistema dei partiti spinge anche i socialisti a sottolineare la differenza tra de Gaulle e la resistenza interna, cosa che fa affermare a Blum all'indomani del discorso di Bruneval: «Il discorso si presenta praticamente, nei suoi contenuti, come un'apolo-

47

J.P. Bloch, op.

cii., pp. 8, 30 e 79.

107

gia della resistenza interna e come una dimostrazione del ruolo capitale che essa ha ricoperto nella vittoria della Francia, tema abbastanza nuovo per essere detto dal generale de Gaulle»48 • L'emergere dell'MRP (Movimento repubblicano popolare), in apparenza devoto al generale, non fa che aumentare l'imbarazzo dei socialisti che rimpiangevano un tempo l'assenza di una democrazia cristiana in Francia e trovavano ormai in essa dei seri concorrenti, tra i quali autentici partigiani. Delle individualità isolate, dirà più tardi Mayer secondo il quale «è evidente che la sinistra, nel suo insieme, è stata più "partigiana" del resto del paese» ed aggiunge, quasi 25 anni dopo la liberazione rivolto al gollismo, senza accusarlo esplicitamente: Il fenomeno della resistenza, in ciò che ha avuto di spontaneo, è essenzialmente di sinistra. Il vero patriottismo, non quello verbale, dell'esaltazione gratuita ed enfatica della patria, ma quello dei fatti e dei sacrifici, è tradizionalmente una caratteristica della sinistra49 •

Il MRP non è di sinistra? La volontà di minimizzare l'apporto cristiano alla resistenza, solidamente ancorata ad un anticlericalismo tradizionale, è maggioritaria ma non unanime nella S1-10. Un socialista cristiano come Philip non saprebbe farla sua; al contrario, l'emergere dell'MRP rappresenta per lui una constatazione di fallimento del socialismo partigiano anche a causa delle innegabili potenzialità rigeneratrici del movimento democratico-cristiano: Un'azione ardita della S1-10 in rotta con un guesdismo (atteggiamento politico dei sostenitori di Guesde) retrogrado, [. .. ] che fonde in un partito laburista le forze fuoriuscite dalla resistenza, avrebbe evitato la costituzione dcll'Mru>, e costituito, di fronte al partito comunista, un partito socialista democratico, in grado di conquistare la maggioranza nel paese~ 0 • L. Blum, Dt'UX discours, in «Le Populairc», 2 aprile 1947. D. Mayer, op. cit., pp. 280 e 285. ~o A. Philip, op. cit., p. 111.

48 49

108

Sono questa convinzione ed anche l'imperioso bisogno di trarre strategicamente il maggior profitto dalle forze vive uscite dalla resistenza che spingono Léon Blum, Vincent Auriol, André Philip, Moch, Danid, Mayer... a vedere nella resistenza «una delle condizioni di rinnovamento materiale» della SFIO e ad implorare i militanti di non temere «il contatto con le forze fresche uscite dalle stesse circostanze e dagli stessi movimenti di pensiero che si sviluppano di fianco a noi»' 1• Il riferimento intellettuale alla resistenza, alle sue ispirazioni ed ambizioni, non è sufficiente senza gli uomini, e l'obiettivo di rinnovamento del partito, che passa attraverso l'appello di massa agli elementi partigiani, testimonia nuovamente l'impossibilità di concorrere con il Pc su questo terreno umano. Gérard Jaquet s'affretta allora a precisare: «Non si tratta di fare dd partito socialista un blocco anticomunista, ma di fame un partito rinnovato, ringiovanito nella resistenza e a contatto con i partigiani»'2. Da qui, l'accettazione del pieno diritto accordato a tutti i partigiani che desiderano entrare nel partito «facendo partire la loro data d'anzianità dalla data del loro ingresso nella resistenza»' 3• Non si rifarà qui la cronistoria dei legami tra la SFIO e i movimenti di resistenza, dalle ambizioni di fusione alla liberazione alla rottura dd 1946. Ricordiamo per la cronaca, che al consiglio dei segretari federali del 20 maggio 1945, Mayer prende posizione per «una sorta di federazione della resistenza che rappresenta tutti i socialisti e tutti i simpatizzanti dd socialismo», ma che un anno dopo, il 9 giugno 1946, il consiglio nazionale riattivato,

51 L. Blum, Le socia/isme mai/re de l'hcur, discorso al 37° congresso della SFIO, 1945, in L'Oeuvre de Léon B/um, VI-1, cit., pp. 73-74, e Les Devoirs e/ /es /aches, ibidem, p. 10. Vedi anche J. Moch, Le Parti soàalisle au peuple de France, cit., pp. 24-25, e Comitato direttivo, 19 maggio 1945. ,2 G. Jaquet, Rapporto politico al congresso della federazione della Senna, Bullettin hebdomadaire fédéral, 28 gennaio 1945, p. 15. H SFIO, Déàsions du congrès de 1944, Parigi, 1944, p. 34.

109

decide alla richiesta delle federazioni «che i vecchi partigiani che aderiscono al partito non beneficino più, a partire dal 1° luglio, di un'anzianità risalente alla loro entrata nella lotta contro l'occupante» e la ebbe vinta 5·1. Prendiamo dunque in considerazione solamente la posta in gioco politica interna che rappresenta per i socialisti la costituzione a posteriori di una identità partigiana. In occasione della riunione dd comitato direttivo del 21 agosto 1945, Renée Blum propone come nome per le liste comuni alla SFIO e all'UDSR (Unione democratica della resistenza) che federa la resistenza di sinistra indipendente: «La lista d'unione dei Partigiani per l'azione socialista». Moch, che approva, fa notare che nelle circoscrizioni dove l'UDSR non propone dei candidati «ci sarebbe forse interesse a ciò che essa chiama "Unione dei Partigiani"». Mayer chiede a Moch di «non aggiungere confusione e di mantenere il nome», ma quest'ultimo «vorrebbe che la lista omogenea del partito si chiamasse unione dei partigiani»55. Si nota bene qui che si tratta niente di meno che di monopolizzare l'etichetta partigiana e di evitare che l' apporto della resistenza si metta al servizio di nuove formazioni o concorrenti. Su questo terreno i comunisti si rivelano, del resto, molto più efficaci ed il comitato direttivo ripete più volte nel corso degli anni seguenti il divieto rivolto ai membri del partito socialista di riprendere contatto con il CNR56 • In realtà, sembra che la resistenza riscuota meno successo all'interno della SFIO da quando fare appello ad essa non serve più agli interessi del partito al Governo. Si possono percepire i segni di questa evoluzione a partire dal gennaio 1945, quando François Tanguy-Prigent stila un bilancio di «Divorzio tra [. .. ] il Governo e la resistenza in seguito a degli eccessi commessi da quest'ultima» e quando Adrien Tixier spiega che «La resistenza vi riveste 54 Citato da J. Jaffré, La Crise du Parli Socialiste cl l'avènt'menl dc Guy Molle/ (1944-1946), memoria IEP, 1971, p. 75. 55 Comitato direttivo, 2 I agosto 1945. 56 Comitato direttivo, 8 ottobre 1946 e 2 luglio 1947.

110

un posto che non è in grado di conservare. Il suo programma non è un pannello elettorale»'7 • Giocare la carta della resistenza equivale a fare il gioco dei comunisti. L'opposizione precoce dei socialisti agli stati generali della resistenza ed il loro sostegno alla sola idea di azione concertata con i movimenti politici generati dalla resistenza rientrano nella stessa logica. Certamente, lo spirito partigiano resta una componente essenziale del socialismo, ma a titolo individuale, cioè ad immagine della partecipazione socialista alla resistenza. Il presidente della repubblica incarna perfettamente questa tendenza, lui che vede, nel 1947, nell'opposizione tra Moch e Robert Schuman, a proposito della nazionalizzazione della marina mercantile, quella del CNR e del liberalismo, e che dichiara, nel 1948, ai partigiani dell'aria di deplorare «tanti uomini morti per un'idea di cui oggi si è perduto il significato: bisogna che tutte le forze morali (resistenza, vecchi combattenti) si adoperino per scuotere l'aria malsana che awelena l'atmosfera nazionale»' 8 • Ma il partito ha compreso molto velocemente che egli non si sarebbe imposto nell'arena elettorale riferendosi agli anni di guerra e resistenza. Di fatto, la relazione alle altre formazioni trionfanti alla liberazione è l'occasione di una scissione all'interno della SFIO. Per i vecchi clandestini, de Gaulle resta il capo della resistenza, l'adesione collettiva al partito dei movimenti di resistenza rimane un ideale, l'alleanza con l'MRP una necessità. Per gli ex attendisti, il generale non è che l'incarnazione della destra, solamente delle adesioni individuali, che implicano la sottomissione al partito, possono essere accettate e i democratico-cristiani divengono gli awersari nel nome della laicità. Blum ha tuttavia posto gli uni e gli altri di fronte alle loro responsabilità, nel suo discorso davanti alla conferenza dei segretari federali:

'7

Comitato direttivo, 25 gennaio 1945. V. Auriol, Journal du seplennal 1947-1954, I, 1947, Parigi, 1970, p. 57 e II, 1948, Parigi, 1974, pp. 82-83. '5 8

111

È necessario che noi diamo l'impressione della continuità e anche l'impressione del rinnovamento. Bisogna che noi mostriamo che siamo sempre il Partito socialista, lo stesso partito socialista, e che noi siamo allo stesso tempo un partito socialista rinnovato, ringiovanito, trasformato, 9 • Non è per caso che i primi si etichettino come partigiani della partecipazione ministeriale e dell'evoluzione dottrinale, mentre i secondi come quelli dell'opposizione parlamentare e dell'immutabilità del dogma60 • A Mayer, che aveva dichiarato «Noi non siamo il partito d' anteguerra», questi ultimi possono rispondere citandolo: «Il socialismo non intende rinnegarsi. Esso ha una dottrina, un programma, un passato, dei capi. È, dopo aver fatto la selezione necessaria, fedele agli uni ed agli altri. Intende rimanerlo»61 • Invece di essere il primo partito della resistenza in Francia, la SFIO, sceglie dunque di giocare la carta dell'epurazione interna e di ostentare l'immagine di un partito rigenerato, così come ne abbozza il ritratto il suo storiografo Roger Quillot: «Non c'è, senza dubbio, un solo partito francese - se si fa eccezione per le nuove formazioni - che sia cambiato in modo simile. I suoi eletti comunali, cantonali, parlamentari, devono il loro credito e la loro notorietà alla loro attività partigiana»62 • Dal 1944, i socialisti ricostruiscono la loro identità sul fondamento dell'epurazione drastica che mette in opera il nuovo segretario generale del partito, Mayer. Del resto, l'autocritica di fronte alla sozzura che rappresentano i parlamentari che hanno votato i pieni poteri al maresciallo Pétain, è anche l'occasione di una glorificazione del parti':s'J L. Blurn, Les devoirs cl !es IJches, in L'Oeuvre de Léon Blum, VI-I. cit., p. 6. >, 1946, 15, p. 15.

115

comunisti nel 1939-1940, che sono sempre allo stesso posto. La risposta di Mayer è lapidaria: «Lei sembra dimenticare soltanto che mentre certi uomini [. .. ] commettevano quelli che lei definisce colpe veniali, altri uomini han,no sacrificato la loro vita per la rinascita del Partito»73 • E chiaro che per un certo numero di militanti, la guerra e la resistenza non sono che una parentesi nella storia del socialismo. L'epurazione condotta a vantaggio dei membri d' anteguerra «che fornirono la prova di un'azione partigiana personale o di sentimenti patriottici incrollabili», ha toccato meno del 40% del personale federale in maggioranza pacifista dell'anteguerra74 ed anche i nuovi quadri direttivi restano, per definizione, sottomessi alla pressione della loro base che non ha certamente collaborato - il collaborazionismo è stato molto spesso prerogativa di persone importanti - ma ha conservato delle relazioni personali con gli individui sanzionati e si riconosceva più volentieri nel parlamentare inattivo durante la guerra piuttosto che nel partigiano. Così, dopo che il congresso respinge la domanda di reintegrazione del sindaco di Saint-Nazaire, Biancho, la federazione della Loira inferiore costituisce una giuria d'onore per reintegrarlo, alla quale essa arriva perfino ad invitare un rappresentante del comitato direttivo75 • Il congresso del 194 9 deve allora riaffcrmare le conclusioni della commissione incaricata della questione delle reintegrazioni e ricorda che la decisione del 1946 rimane la legge del partito e «che nessuna nuova domanda di reintegrazione sarà più accolta in futuro». La commissione nazionale dei conflitti, incaricata di istruire le pratiche in corso, dovrà dunque sentenziare ispirandosi al «grado effettivo di resistenza dei parlamentari interessati, dal 1940 alla liberazione del territorio nel quale essi abitavano», alla «prova dei servizi che i suddetì3

BO]. 74 75

116

Archivi Jell'OURS, corrispondenza Dupuis-Mayer, 1946 [C7 56

J. Jaffré, op.

cii., p. 19, e M. Sadoun, op. cii., p. 236. Comitato direttivo, 5 febbraio 1947.

ti parlamentari hanno reso al partito dal 1940 al 1949», ed all' «opinione della federazione d'origine e di quella in cui essi si trovano attualmente». In assenza di uno di questi criteri, nessuna reintegrazione potrà essere concessa76. Questo crescendo di severità che testimonia la pressione delle federazioni a fianco della direzione del partito per far puramente e semplicemente dimenticare gli anni di guerra, ed all'occorrenza di non resistenza, non è eterno. Undici parlamentari vengono reintegrati nel 1950 dal Consiglio nazionale, uno nel 1951 e tre nel 1956, con discrezione, se non addirittura nella «clandestinità», per utilizzare una parola di Gérard Jaquet77 • Ma soprattutto il congresso lascia accogliere il principio di nuove richieste di reintegrazione dalla base dopo il 194978 . Resta che il rigore esercitato nei confronti di parlamentari non ha niente in comune con quello che ha guidato il rinnovamento dei quadri federali. L'estromissione di Mayer a vantaggio di Mollet al congresso del 1946 non testimonia dunque, oltre all' opposizione al segretario generale inflessibile, che incarna una tendenza centralizzatrice favorevole alla riduzione dei poteri federali ed alla tentazione di un socialismo modernizzato - e falsamente «umanistico», per riprendere il termine usato in senso peggiorativo da Mollet -, la volontà di voltare pagina sul periodo della guerra, o almeno su un socialismo nato dalla guerra? Quando nel 1946, nel corso della conferenza dei segretari federali, alla vigilia del ristabilimento del mandato imperativo nel partito e del Consiglio nazionale, il delegato delle Cotes-du-nord critica un comitato direttivo parigino, burocratico, autoritario, i cui poteri giustificati nel periodo della resistenza,

Sno, 42° congresso, Rapporls, Parigi, 1950, p. 127. Colloquio con Gérard Jaquet. 78 Vedi gli archivi dell'OURli, dossier di reintegrazione. Conviene considerare a parte il caso di Marceau Pivert che aveva rotto con la SFIO anteguerra e che invoca i suoi sforzi per rientrare in Francia e la sua «attività patriottica» in Messico al fine di sollecitare la sua reintegrazione, dr. J. Kergoat, Marceau Piverl, Parigi, 1994, p. 215. 76

77

117

sono «adesso contrari all'espressione stessa della democrazia all'interno del partito»79 , non è testimonianza della stanchezza di un partito che vuole trovare la sua identità non nella resistenza, ma al di là della resistenza? Come fa giustamente notare Robert Verdier, è e rimarrà impossibile affermare in che misura i sentimenti ostili all'epurazione interna abbiano influito sulla venuta di Mollet, che si è dichiarato lui stesso «il portavoce di una somma di minoranze»80. Senza contare un cattivo sentore di antisemitismo anti-blumista che avrebbe anche contribuito a catalizzare l'opposizione a Mayer, antisemitismo che resta caratteristico della tendenza pacifista e paul-faurista della SFJO d'anteguerra. In effetti, alcune federazioni trovano che Blum e Mayer, come autorità sul partito, siano troppo giudaiche: «uno ma non due»81 • Non si poteva ugualmente rimproverare a Mayer il fatto di non aver saputo dare al socialismo l'immagine di un movimento partigiano capace di competere con quelli che erano diventati i concorrenti politici, nel momento delle delusioni elettorali, quando il rifiuto di un movimento di resistenza era stato, un tempo, condiviso? Checché ne sia, Mayer stesso stima che se tali oppositori alla direzione generata dalla resistenza si sono schierati a fianco di Mollet, non hanno fatto la differenza al momento dell'elezione del nuovo segretario generale. La posta in gioco dell'identità partigiana del partito rimane senz'alcun dubbio secondaria nel dibattito del 1946, ciò non significa che sia trascurabile. AJ contrario. Prova ne sia la posizione di Philip, secondo il quale «nel 1944, la vecchia SFIO era così ricostituita, ed i vecchi quadri locali stavano per guardare con sfiducia i giovani partigiani, la cui presenza rischiava di mettere in causa le situazioni acquisite», anche prima del ritorno in forza del

79 &J 81

118

Citato da J. Jaffré, op. àt .. p. 143. Colloquio con R. Verdier e G. Mollet, cit., p. 237. Riferito da D. Mayer.

«guesdismo» (atteggiamento politico dei sostenitori di Guesde) «più settario del 1905», con Mollet nd 194682 • Guardiamoci tuttavia dall'opporre i giovani quadri so• cialisti usciti dalla resistenza ed i vecchi militanti dell' ap• parato del partito, nel nome di una riformulazione del so• cialismo. Gli uni come gli altri l'aspettano e si oppongono solamente al suo contenuto. Mentre i primi sperano, seguendo in questo Blum, in un rinnovamento del pensiero attraverso il rinnovamento degli uomini, i secondi reclamano un ritorno alle origini. La resistenza offre ai primi il mezzo della rinascita, ai secondi l'occasione di richiederne, al di là di derive individuali del tempo di guerra, per rawivare la coscienza di classe. Per i primi, la guerra e la resistenza devono rinnovare il socialismo, per i secondi queste non devono arrestare il suo cammino storico. Quando nel 1955 Mayer ed Henry Miche!, segretario generale del comitato storico della seconda guerra mondiale, chiedono: «La resistenza ha ancora un ruolo da giocare?», «La Revue socialiste» non può che rispondere traducendo un sentimento generale di delusione all'uscita dei vivi dibattiti sulla questione. Delle speranze rivoluzionarie della liberazione non resta che l'ambizione universalistica e plurisecolare di una lotta continua contro la tirannia in tutte le sue forme, ciò che permette sempre di appropriarsi dello spirito della resistenza nell'eredità di un pensiero socialista tipicamente nazionale - dunque in gran parte non marxista - nato dalla rivoluzione francese: «La resistenza è nella tradizione di Jaurès e socialista, ed anche nella tradizione rivoluzionaria ed umanistica, nella grande tradizione della progressiva liberazione dell'umanità»83 • La specificità dello spirito della resistenza appartiene già, checché se ne dica, ad un passato trascorso e si fonda sull'ideale democratico di resistenza all'oppressione.

82

A. Philip, op. dt., pp. 112-113. M. Granet, La Résistance a-t-ii encore un role à jouer?, in «La Revue socialiste», 1955, 90, p. 311. 83

119

Che non si fraintenda pertanto il posto accordato dai socialisti alla loro memoria collettiva all'interno delle pubblicazioni di partito. Se esse non ritornano sulla storia recente, è soprattutto perché, oltre al silenzio che permette di scongiurare le sofferenze passate, i socialisti hanno l'impressione, dopo l'estate 1944, che è più che mai tempo di andare avanti e che dipende da loro - almeno nei primi due anni che seguono la liberazione - modellare l'aspetto istituzionale, economico e sociale del paese in un ambiente mondiale, capace di evitare in futuro gli errori della SON (Società delle nazioni). Non ci si compiace nell'evocazione -del passato quando si è «maitre de l'heure» (padroni dd momento), quindi costruttori dell'avvenire. L'impegno di buona condotta riguardo al Pc, all'epoca delle velleità unitarie e del tripartitismo che i socialisti arbitrano, impedisce subito la minima messa in causa della resistenza comunista all'inizio della guerra - quando l'anticomunismo è stato uno dei motori del pacifismo socialista tra il 1938 ed il 1940. In seguito, le esigenze della politica della terza forza impongono ai socialisti, al fine di difendere il funzionamento della Costituzione uscita dalla liberazione, di farsi prudenti su di un terreno dove i gollisti ed i comunisti sono in posizione favorita. Quanto all'atteggiamento verso l'MRP, la SFIO oscilla tra solidarietà partigiana e riflesso anticlericale, che il riferimento alla resistenza non saprebbe mantenere in linea con una storia punteggiata da urti più o meno violenti. Inoltre, gli obiettivi di costruzione europea in periodo di guerra fredda implicano il fatto di non mettere più l'accento sul conflitto con la Germania, quando ancora i socialisti divergono sul senso da dare alla pace come compimento degli scopi della guerra, malgrado l'unanimità imposta da Blum. Tra il 1944 ed il 1951, la partecipazione socialista al Governo obbliga dunque le pubblicazioni di partito ad una certa riserva; dopo il 1951, il riferimento agli anni bui non è decisamente più attuale. I socialisti sono così presi tra la necessità di rivendica120

re la loro appartenenza collettiva alla resistenza e l'impossibilità di competere in questo campo con i loro avversari a partire dal 1947, di giustificare la guerra contro la Germania nazista e di non condividere con il resto della Nazione la soddisfazione della vittoria. La costituzione della loro identità storica nella guerra e nella resistenza ha quindi come funzione di aiutarli a sormontare queste difficoltà in ambito politico. All'attivo di questa politicizzazione, bisogna considerare «le preoccupazioni per l'avvenire» della SFIO, al passivo, notare che il CAS si è ben presto rinchiuso «in un'azione dove dominano i problemi d'organizzazione» ed ha messo in rilievo la sua partecipazione alla ricostruzione politica del paese attraverso il riferimento ai testi di Blum o alla sua influenza sul CNR84 • Questa politicizzazione è indispensabile per imporsi alla liberazione, ma non manca di favorire, paradossalmente, i partigiani della continuità rispetto a quelli del cambiamento, come se Mayer avesse, in parte, fatto il gioco dei suoi futuri avversari. Per Mare Sadoun, che ha studiato la SFIO nel periodo che precede quello di cui ci siamo occupati, «è un bene, in definitiva, la separazione tra riflessione politica e l' azione contro l'occupante alla quale il CAs ha acconsentito, che è al principio della sua sclerosi alla liberazione»8,. Il riferimento alla resistenza doveva essere l'occasione di un rinnovamento morale; per delle ragioni pçlitiche congiunturali e strutturali, non ha avuto luogo. E vero che, contrariamente a quello che è successo in Italia, il partito socialista francese non ha avuto l'impressione di dover costruire un partito di massa, ma solamente quello di dover assumere un ruolo che gli spettava di diritto in quanto «ispiratore dottrinale delle forze politiche nate dalla resistenza e chiamate al potere»86 , malgrado la sua contraddizione con la realtà della predominanza comunista sul piano militare. 84

s,

M. Sadoun, op. cii., pp. 131-132 e 277.

Jb,dem, p. 241. 86 H. Michel, Les Couranls de pensée de la Résìslance, Parigi, 1962, p. 550.

121

Lontani dal favorire l'oblio degli anni di guerra, i socialisti si dividono tuttavia tra guardiani gelosi dell'ortodossia contro l'innovazione figlia della resistenza intorno a Mollet e guardiani non meno gelosi della memoria attorno a Mayer, una tale divisione rende conto unicamente di una frazione delle realtà socialiste del dopoguerra. Ma benché Blum abbia timidamente riconosciuto che una più grande fermezza riguardo ai fascismi, addirittura una guerra preventiva contro Hitler avrebbe evitato delle decine di milioni di morti, e benché i socialisti condividano tutti l'ossessione di una nuova Monaco - l'affare di Suez lo attesterà - essi si accordano sul non rimettere in questione un ideale pacifista che ha oscurato il loro giudizio nel corso di tutti gli anni Trenta. È vero che senza questo ideale non sarebbero più veramente loro stessi. Trovandosi, in nome di una congiunzione di motivi, costretti a ridurre la resistenza ad uno stato di reliquia tanto più adorata in quanto privata di potenzialità riformatrici, i socialisti del 1946 hanno semplicemente scelto, in maggioranza ma non all'unanimità, di definire la loro identità attraverso l'attaccamento alle tradizioni, cioè restando precisamente identici a loro stessi.

122

PAOLO BLASINA

RESISTENZA, GUERRA, FASCISMO NEL CATTOLICESIMO ITALIANO (1943-1948)

25 luglio 1943 - 25 aprile 1945

Epurazione o pacificazione?

Alla fine di maggio del 1945, dopo la fine del conflitto, p. Salvatore Lener iniziava su «La Civiltà Cattolica» una lunga disamina su Diritto e politica nelle sanzioni contro il fascismo e nell'epurazione dell'amministrazione•. Il gesuita, giurista e già allievo di Arturo Carlo Jemolo, affrontava le diverse questioni esistenti sul piano della continuità dello Stato e sul piano delle responsabilità rispetto alla tragedia nazionale appena conclusa. Un discorso in cui si discutevano dal punto di vista giuridico tutti i vari passaggi che avevano portato a quella situazione, ma era anche l'occasione per svolgere indirettamente alcune considerazioni importanti sull'esperienza del ventennio. Questo lavoro è la prosecuzione e l'approfondimento della ricerca i cui primi esiti sono stati presentati al Convegno organiuato dall'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione «Fe""ccio Pam·» di Bologna su La grande cesura: la società europea tra memoria della guerra e della resistenza e ricostruzione (9-11 novembre 1995) con una relavone dal titolo Magistero episcopale, clero, Azione cattolica tra fascismo, guerra e resistenza (1943-1952), ora pubblicata in «Qualestoria», 1999, 2, pp. 109-13 7.

Le sigle usate sono le seguenti: AdC = «L'Amico del Clero»; CC = «La Civiltà Cattolica»; Gi = «Gioventù»; OR = «L'Osservatore Romano»; PdC = «Palestra del clero»; Pm = «Perfìce munus»; Rei = «Rivista del clero italiano»; SC = «La Scuola cattolica»; St = «Studium». 1 CC, 1945, II, pp. 289-300; III, pp. 279-289; IV, pp. 83-93; pp. 220-232. L'ultimo articolo portava, come gli altri, la dizione «Continua», ma sotto tale titolo non usciva altro. Vedi anche R. Sani, Da De Gasperi a Fanfani. «La Civiltà Ca11olica» e il mondo callolico italiano nel secondo dopogue"a (1945-1962), Brescia, 1986, pp. 27-28.

123

Si fissavano alcuni punti fermi: la legalità e la legittimità del regime; il punto di svolta rappresentato dalla legge Acerbo, votata da un parlamento non fascista, e l'esistenza quindi di un consenso nel momento di passaggio dalla fase parlamentare alla dittatura. Entrando poi nel merito del decreto sull'epurazione del luglio 19442 , esso veniva contestato duramente, per tutte le possibili implicazioni prima e dopo il 25 luglio 1943. Anche se l'illegittimità del Governo repubblicano era cosa manifesta, ciò non poteva significare la condanna in blocco, come ribelle o traditore, di chi vi aveva collaborato, essendo anche qui molto varie le ragioni delle possibili adesioni ad esso. La ricostruzione del Lener del 25 luglio e soprattutto dell'8 settembre sottolineava tutte le «perplessità oggettivamente gravi» che ne erano potute derivare ai tanti che avevano poi operato una scelta per la repubblica sociale; ma era soprattutto dagli errori e dalla fuga del Governo legittimo che discendeva l'incapacità di giudicare e condannare le azioni scaturite e determinate da quegli stessi errori di partenza. Era un fatto essenziale: quell'armistizio «senza pace, senza utile e senza dignità» era alla base di comportamenti che non potevano essere giudicati dagli autori di quell'atto o dai loro legittimi successori. La trattazione del gesuita si fondava essenzialmente sul Saggio teoretico di diritto naturale del padre T aparelli d'Azeglio, sia nella discussione sulle degenerazioni in chiave tirannica del fascismo, sia sul complesso tema dcli'autorità e del rapporto rispetto all'ingiusto possessore o al sovrano illegittimo; ma accanto a tali argomentazioni si coglieva uno spirito polemico non limitato ai decreti epurativi, ma a tutto quel clima di rivalsa e di condanna in blocco dell'esperienza appena conclusa, a quell'antifasci2 Sull'epurazione cfr. M. Hores, L'epurazione, in AA.W., t'ltalia dalla liberazione a/la repubblica, Milano s.a., 1977, pp. 413-467; L. Mercuri. L'epurazione in Italia, Cuneo, 1990, nonché H. Woller, I conli col /asàsmo. L'epurazione in Italia (1943-1947), Bologna, 1997.

124

smo che, nel suo giudizio, non sembrava talvolta fare i conti con la realtà. Così in una lunga nota, quasi en pas. sant, al di là di tutte le argomentazioni giuridiche, si svolgevano le considerazioni più dense di significato: Volere o non l'Italia per un ventennio è stata fascista. Lo è stata anzitutto nel suo ordinamento giuridico-cosùtuzionale, ma non solo in questo. Tutte le pubbliche istituzioni, tutte le opere dello Stato, tutte le manifestazioni della vita nazionale all'interno e all'estero (volcntibus nolentibus in pectore molti, ciò socialmente non conta) per venti anni hanno avuto questa qualifica essenziale. Fino al '43 il partito, a iscrizioni bloccate, ha vantato milioni di iscritti e controllato effettivamente, con le organizzazioni dipendenti, un terzo dei cittadini. Per venti anni la magistratura ha applicato leggi che si dicevano fascistissime e l'amministrazione le ha fatte eseguire, senza neppure un dubbio sulla legittimità di esse in toto o in parte. Che indossare la camicia nera in varie occasioni sia stata un'odiosa imposizione, può ammettersi; ma altro è rivestire una divisa contro voglia, altro applicare per venti anni comandi giuridici ritenuti illegittimi. Il vero è che un errore individuale o collettivo, si può riconoscere ed espiare individualmente o collettivamente, e l'Italia lo ha anche troppo riconosciuto e duramente espiato. Ma quando per venti anni si è lasciato dominare la nostra vita, non si può più togliere alla storia quel periodo o all'anima quel passato. Una cosa sola è possibile e doverosa: non ricadercP.

Vi erano quindi precise consapevolezze rispetto a vent'anni della propria storia, che non si potevano facilmente ignorare; tuttavia allo stesso tempo si introduceva qud concetto di errore inteso come colpa/peccato, già espiato con tante sofferenze. Un concetto questo ribadito più avanti: «L'errore collettivo è stato, come dicemmo già, dalla collettività nazionale, tragicamente pagato. Se tutti peccammo, tutti ora piangiamo. Tutti portiamo nella carne i lutti propri e nell'anima quelli comuni»4 • Una cosa erano quindi le responsabilità personali, da giudicare in via di diritto, altra cosa erano stati l'adesione e il favo3 4

Dirillo e politica, III, cit., p. 280. Ivi, p. 289.

125

re al fascismo, un errore di cui ci si era resi conto forse tardivamente, ma che pure vi erano stati. Piuttosto era l'espiazione dall'aver aderito al fascismo che in qualche modo impediva di soffermarsi troppo sul significato profondo di quell'esperienza: vi era sì la consapevolezza che quella vicenda era ormai una realtà storica, vissuta, concreta, ma fin da subito si evitava di andare oltre questo fatto. Non era solo la polemica contro il decreto epurativo da parte del p. Lener a spiegare ciò, ma vi erano più profonde motivazioni. Allo stesso tempo emergevano con molta evidenza tutte le cautele e le diffidenze verso il movimento di liberazione, preso nel suo complesso. Si parlava infatti delle «intemperanze dell'odierno antifascismo che in molte cose ha solo mutato segno e colore al metodo fascista» 5 , o di coloro che «nei rifugi poveri ma ospitali dei conventi hanno ideato e organizzato i così detti comitati di liberazione»6 , sottolineando così due temi dalla larghissima fortuna nella pubblicistica cattolica: il rischio di una nuova dittatura, mutata di segno e peggiore del fascismo; l'appoggio determinante, per molti esponenti politici e delle resistenza, da parte degli uomini di Chiesa, nel periodo clandestino. E quando poi il p. Lener andava a toccare il tasto degli aderenti alla repubblica sociale condannabili sulla base del diritto comune o per le efferatezze, le stragi e le rappresaglie compiute, significativamente ricordava, come cosa da «aver presente», l'esistenza anche tra i partigiani, accanto agli eroi, degli «indegni della causa comune»; l'essersi verificate anche da questa parte crudeltà, ruberie, devastazioni; il dovere/diritto per il Governo repubblicano - per quanto illegittimo - di mantenere l'ordine pubblico (reagendo quindi, ma nelle forme sancite dalla legge, agli attentati, alle uccisioni, ed ai sabotaggi dei partigiani); e da ultimo, in modo quasi sibillino, l'esser la legittima difesa un diritto naturale7• Era evidente lo scopo Dirillo e politica, IV, cit., p. 231. Dintto e politica, III, cit., p. 84. Per una chiara ostilità verso gli «antifascisti», cfr. Ritorni di fiamma, in CC, 1945, IV, pp. 38-45. 7 Dirillo e politica, IV, cit., p. 221. 5 6

126

di colmare il fossato tra vincitori e vinti, una volta terminata la guerra civile - come testualmente si definiva il periodo '4 3-458 - in un disegno di pacificazione nazionale che proprio a partire dai decreti sbagliati sull'epurazione rischiava di essere messo in disparte; del resto, alla fine del discorso del p. Lener gli epurabili rimanevano assai pochi e il sigillo alle sue argomentazioni era dato dall'episodio di Gesù e l'adultera: «Chiunque fra voi è senza peccato scagli la prima pietra»9 • Al termine delle ostilità, la rivista dei gesuiti, dopo il radiomessaggio di Pio XII, aveva pubblicato un breve testo in cui si stigmatizzavano duramente le uccisioni, le violenze e le vendette successive al 25 aprile, «compiute dai fratelli sui propri fratelli» 10• Vi era anche qui un testuale richiamo alla guerra civile e al suo «orrore», ma erano soprattutto gli esiti violenti a infangare la vittoria dei patrioti, che sarebbe rimasta «più pura e meglio raccomandabile alla storia se non fosse stata offuscata da questa macchia di sangue civile» 11 • I giudizi e le fucilazioni sommarie venivano deplorate 12 , così come si condannavano lo «scempio» e il «ludibrio» di piazzale Loreto, senza più rispetto per la morte, «suprema espiazione delle colpe commesse». Vi era quindi una lettura complessivamente negativa sull'Italia che usciva dal conflitto, nel senso che le stragi, il non rispetto dell'avversario, le forme truci assunte dal conflitto dimostravano lo scadimento etico ed ideologico di tutta la società. Non era il momento dell'attribuzione 8 Sviluppa e articola questo discorso C. Pavone, Una gue"a civzle. Saggio sulla moralità della resisten1.1J, Torino, 1991. 9 Un uso analogo del versetto giovanneo l'avrebbe svolto su OR il conte Dalla Torre 1'11 agosto dello stesso anno: cfr. Voci ed echi. Col-

ta per via. Dopo la tregua delle armi, in CC, 194.5, II, pp. 219-222. lvi, p. 221. 12 Significativa la censura ai giornali di intonazione cattolica che avevano parlato di «tribunali del popolo» e di «giustizia popolare», termini che la CC rigettava aspramente, per il controsenso insito nel poter parlare di giustizia in mezzo alle sommosse ed ai tumulti. 10 11

127

delle responsabilità, quanto l'ora d~gli auspici per la patria, cli una collaborazione cli tutte le «classi e gruppi» per l'immenso lavoro cli ricostruzione che occorreva intraprendere; tuttavia, chiusa definitivamente una pagina, se ne apriva un'altra, e non mancava un cenno abbastanza preciso per ribadire quali fossero i nemici al primo posto 13 • Dopo la caduta di Mussolini

Dopo la fine del fascismo e 1'8 settembre non erano mancati fin da subito importanti momenti cli ripensamento sul ventennio. La rivista dei laureati cattolici, «Stuclium», pubblicava un'acuta rilettura, non firmata, ma dovuta a Sergio Paronetto 14 , che al centro della propria riflessione poneva i temi della cittadinanza futura cli tutti gli italiani, della formazione cioè di una «coscienza civile» per tutti i nuovi cittadini, e che allo stesso tempo era molto fermo nel giudicare gli anni del regime. Un ripensamento che coinvolgeva tutto il corpo sociale, ma che voleva essere un «esame di coscienza» a tre livelli, come cittadini, classe dirigente, popolo italiano. Per fare ciò occorreva avere anche una «maggiore consapevolezza su questo recente passato». Nel fascismo - che pure Paronetto curiosamente, ma programmaticamente, vien da pensare, riusciva a non nominare - si erano manifestate due «colpe collettive»: in primo luogo la sottovalutazione dell'individualità, owero il disconoscimento dell'unicità di ogni personalità a favore dell'inquadramento nella massa; in secondo luogo le alleanze portate avanti, contrarie alla «tradizione e [all'] anima della Nazione». 1J Mi sembra evidente il richiamo ai comunisti quando scriveva del «gioco infido di qualche partito votato per programma alla violenza, il quale mentre canta inni alla libertà e alla democrazia ne distrugge i fondamenti»: cfr. Dopo la tregua delle armi, cit., p. 222. 14 Morale professionale del ci/ladino, in St, 1943, nn. 8-9, pp. 22 l · 225.

128

L'asciutta riflessione sul modo in cui si era realizzato l'essere stati cittadini in quegli anni giungeva a definizioni icastiche sull'evasione dal proprio ruolo avvenuta allora 1'; né si poteva far leva su una presunta «buona fede». Gli interrogativi posti dal giovane funzionario ddl'IRI erano molto precisi e, mi pare, tutt'altro che retorici, ma piuttosto scaturiti da un ripensamento già iniziato: Quante volte abbiamo peccato di omissione, di debolezza, di stolta paura? Quante volte abbiamo ripetuto, fino a farcene uno schema mentale, l'arido gesto di Pilato? Quante volte abbiamo rinunziato al dovere di giudicare, rifiutando gli attributi umani del raziocinio e dello spirito critico? Quante volte abbiamo evitato la ricerca della verità, per paura di trovarla scomoda, contraria ai nostri interessi, alle nostre abitudini, a quelle che credevamo con superficiale presunzione le nostre idee? Pochi italiani - pochi di noi, anche - possono guardare senza rossore e senza rimorso al loro passato di cittadini, alla loro personale partecipazione alla vita civica del corpo sociale 16•

Era un discorso che serviva anche a rivendicare in positivo il ruolo passato e futuro di «Studium», di cui ricordava i «dignitosi silenzi», i «cocenti sacrifizi» e le «trasparenti riserve», unici modi per poter mantenersi coerenti. Non fu, quello di Paronetto, un intervento del tutto isolato: nello stesso numero egli stesso aveva modo di polemizzare con quelle riviste dichiaratamente cattoliche e fasciste - quali «Segni dei tempi» e «Italia e fede» che col loro atteggiamento avevano reso possibile l'accusa ai cattolici di essersi adeguati ai tempi, accettando una

1' I toni di Paronetto erano durissimi. Parlava infatti degli «abissi di incomprensione e di insipienza, di umilianti abdicazioni, di miopi egoismi, di falsi e ingigantiti timori»; e ancora «di tortuose menzogne, di astute ipocrisie, di abili riserve mentali» che caratterizzavano «il nostro recente passato di cittadini» (ivi, p. 222). L'importanza attribuita a tale intervento fu tale che venne ristampato, con l'attribuzione al giovane dirigente dell'IRI, nel volume storico rievocativo su Il Movi• men/o Laureali di A.C. No1i1.ie e Documenti (19J2.J947), a cura di G.B. Scaglia, Roma, 1947, pp. 213 ss. 16 Morale professionale, cit., p. 222.

129

«collaborazione ufficiale» con un sistema che contrastava con i loro principi; era un'accusa ingenerosa, «fatta certo senza indulgenza», ma d'altra parte, annotava, «non sono tempi di indulgenze, questi» 17 • Nel numero successivo usciva un altro articolo 18 che partendo dallo iato esistente tra le premesse «religiose» del paese (l'ottimo Concordato, la Nazione cattolica, la legislazione familiare tra le prime del mondo) e la formidabile crisi attraversata allora, andava a riconsiderare come ciò fosse stato possibile, investendo così direttamente l'agire della Chiesa in quegli anni. Tutti i pregi iniziali del fascismo - la lotta alla piazza comunista, il ricambio apportato nell'amministrazione dello Stato, la conciliazione, la coesione nazionale raggiunta - avevano come contraltare la delega assoluta, lasciando mano libera a tutta la mitologia del regime, ali' educazione dei giovani «senza ideali». Si era creato così un «clima» in cui già si individuavano i segni della crisi; in ciò si innestava poi la classica lettura sacerdotale sulle crepe profonde che quegli anni avevano portato dal punto di vista morale nella società, diffondendo comportamenti «borghesi» in ogni dove, facendo così rimpiangere l'antico mondo di un tempo 19• La parte più pregnante riguardava gli uomini di Chiesa, che nonostante i «vantaggi» del Concordato non erano andati oltre un lavoro di superficie, di massa, «senza incidere a fondo nelle coscienze». Tutti i dati relativi alla partecipazione popolare alle cerimonie religiose, che durante il regime nelle città erano state particolarmente frequentate, avevano confermato vescovi e sacerdoti sulla religiosità degli italiani; eppure quante carenze di base si potevano cogliere in quel-

S. P., Osservatorio, ivi, pp. 272-273. L. V., Vita ecclesiale. Le lappe di una crisi, in St, 1943, n. 10, pp. 317-320. 19 Si ricordavano la dissoluzione delle famiglie, il controllo delle nascite, la «sete dei godimenti», la sparizione della classe agricola, l'inurbamento, l'espansione della macchina burocratica, l'invasione femminile «nelle scuole e nella vita pubblica», il bisogno del cinematografo; inoltre era venuto meno anche l'amor di Patria. 17

18

130

la partecipazione, quanta «convenienza sociale» vi era in quella frequentazione, mentre allo stesso tempo si potevano cogliere più in profondità i segni della scristianizzazione incombente2°. Non mancavano rincoraggiamento e r auspicio per il futuro, dopo quella guerra forse voluta dal Signore per rinnovare «la vitalità della civiltà cristiana» e per «ricostruire la vita nazionale su basi veramente cristiane»; tuttavia non c'è dubbio che molti aspetti tanto decantati negli anni del fascismo da parte cattolica, delrunione cioè manifestatasi tra Nazione e religione, venivano illuminati ora nella loro pochezza, nella loro esteriorità per gran parte di facciata. L'ottica di fondo restava comunque assai retrò, ferma cioè al rimpianto del lontano tempo andato. Il tema dello sbandamento morale era fortemente presente nella pubblicistica cattolica, a sottolineare quel cinismo sempre più incombente, quell'elasticità di giudizio che rendeva lecito ogni comportamento; analogamente alla rivista dei laureati cattolici anche «L'Amico del Clero», organo della federazione delle associazioni del clero, faceva risalire tali tendenze alr abdicazione alle proprie libertà, fatto che comportava un irrigidimento verso il mondo circostante e la tendenza a preoccuparsi solo di sé. Non si andava oltre la denuncia di un malessere diffuso, che colpiva cioè la massificazione di quegli anni2 1; ma proprio da ll, da quei guasti, nasceva l'urgenza del mo-

20 Un'analoga lettura degli anni del regime, densi di cerimonie religiose grandiose e partecipate, ma in realtà non rappresentative di una religiosità profondamente vissuta, sarebbe apparsa pochi anni dopo su «L'Amico del Clero»: cfr. Illusioni e realtà, in AdC, 1946, 1, pp. 8-9. 21 La grande lenlazione dell'ora, in AdC, 1943, n. 9, pp. 168-170. «Da troppi anni siamo stati abituati a farci menare, a farci tirare dove volevano gli altri, senza possibilità di far valere la nostra opinione, adattandoci a un regime, a un sistema che non permetteva di pensare, di agire, di reagire, obbligandoci tutti a camminare per la medesima strada, come pecore l'una dopo l'altra» (p. 169). Sulla FACI e su mons. Orlandi, suo animatore, si rinvia ali' esaustiva ricerca di A. Erba, «Proletariato di Chiesa» per la cristianità. La FACJ Ira cuna romana e /asasmo dalle ongini alla Concil,avone, Roma, 1990.

131

mento, la mobilitazione e la partecipazione dd clero alle dispute, ai movimenti e alle «correnti politiche» che avrebbero contrassegnato l'opera di" ricostruzione, soprattutto morale e spirituale, dd paese. Non era impegno politico diretto, ma un ruolo di guida per il popolo, per insegnare quella «vera libertà» che solo dal V angdo poteva scaturire. Era un impegno inderogabile: «altri falsi pastori» erano già pronti a rispondere a quella richiesta che giungeva dal popolo, col rischio di portarlo a rovine ancora maggiori, a disastri ancora più «sanguinosi e paurosi» di quelli allora attraversati. Sulle reazioni della stampa cattolica e della gerarchia episcopale alla caduta del fascismo e nel periodo successivo all'8 settembre sono stati offerti importanti contributi documentari e di interpretazione storiografica22 , che offrono ampi panorami sui diversi momenti di discussione che attraversarono il mondo cattolico. Sono noti ad esempio su «La Civiltà Cattolica» gli interventi del p. Oddone su La resistenza alle leggi ingiuste secondo la dottrina cattolica23; Durand sottolinea come la distanza nell'uscita tra i due articoli fosse indice di qualche difficoltà a esprimersi chiaramente su tali temi, ma come in ogni caso le condizioni poste dal gesuita per rendere lecita la resistenza armata attiva fossero pienamente esaudite2◄. Ora, che i cattolici resistenti potessero trovare incoraggiamento da tali interventi, è fuori discussione - anche se appunto il loro apparire in tempi così avanzati li rendeva talvolta superati dalla stessa realtà; tuttavia è difficile poter dire che tutti i vincoli posti dal padre gesuita e dalla tradizione si sciogliessero nella realtà allora vissuta. Se infatti la tirannia doveva essere costante e abituale, doveva pure essere

22 Cfr. J.D. Durand. L'Eg/ise catho/ique dans la crise de l'ltalie (1943-1948), Collecùon de l'Ecolc Française de Rome, 148, Rome, 1991, pp. 9 ss., e le osservazioni e le critiche a tale volume presenù nd saggio di R Moro, J cauolici italiani e il 25 luglio, in «Storia contemporanea», XXIV (1993), 6, pp. 967-1017, in particolare pp. 973 ss. 2 3 Cfr. CC, 1944, III, pp. 329-336 e 1945, I, pp. 81-89. 24 Cfr. J.D. Durand, L'Eglise catholique, cit., pp. 138-139.

132

d'una gravità tale da mettere in pericolo i beni fondamentali della Nazione, in pn'mis la religione; altra conditio era l'essere la resistenza espressione non di una iniziativa privata, ma frutto della parte maggiore e migliore (per onestà e saggezza) dd popolo, che prendeva tale iniziativa dopo aver giudicato in tutta la sua portata la gravità della situazione. Infine occorreva considerare le probabilità di successo (che dovevano essere molte), e soprattutto si doveva evitare alla caduta della tirannia un sistema o una situazione ancora peggiore. Non mi pare quindi che vi fosse una completa rispondenza o l'esaudimento totale delle condizioni poste dalla tradizione tomista, poiché alcuni vincoli apparivano ben forti, nonché alcuni pericoli, quali quelli insiti nei rischi costanti di rappresaglie sul popold'. Sarebbe stato il concreto comportamento dei sacerdoti ed il coinvolgimento nella lotta a superare nei fatti i limiti posti dalla tradizione, le cautde che a ben vedere si frapponevano all'innescarsi della resistenza e al conseguente appoggio dd clero. Appoggio dd resto affatto scontato: è noto come parte dd clero, pur svolgendo un'opera fondamentale rispetto alla popolazione, rimase a margine rispetto alla resistenza, o, in alcuni casi, sostenne l'altra parte26 • Da parte dello stesso p. Oddone non sarebbero mancate allusioni, in qualche

2' 26

A. Oddone, La resistenza alle leggi ingiuste, I, cit., p. 98. Sulla partecipazione del clero al movimento resistenziale, nonché sull'atteggiamento e il ruolo da esso assunto nd passaggio della guerra lungo la penisola, la bibliografia è ormai molto ampia; rinvio quindi alle ricerche recenti promosse dall'Istituto Sturzo confluite in più volwru sulle realtà regionali italiane: Cattolia~ Chiesa, resistenza, a cura di G. De Rosa, Bologna, 1997; Cattolici, Chiesa e resistenza nell'Italia Centrale, a cura di B. Bocchini Camaiani, Bologna, 1997; Cauolici e resistenza nell'Italia settentrionale, a cura di B. Gariglio, Bologna, 1997; I cauolici e la resistenza nelle Venezie, a cura di G. De Rosa, Bologna, 1997; Cauolia~ Chiesa e resistenza in Abruu.o, a cura di F. Mazzonis, Bologna, 1998. Per ciò che riguarda i sacerdoù ed i religiosi inquadrati nell'esercito e schierati dalla parte di Salò, cfr. le pagine di M. Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Treviso, 1991.

133

modo riferite alla situazione italiana e in linea con quanto già sostenuto in tema di resistenza27 • Eppure intorno alla complessa tematica dell'autorità, legittima, di fatto, tirannica, e quant'altro, le cose non erano così pacifiche. Il tema dell'ubbidienza fu assai discusso a livello di base nei mesi del conflitto, coinvolgendo in tutte le regioni interessate parroci, sacerdoti, vescovi. Le stesse risposte potevano essere opposte, a conferma di come le opzioni possibili fossero perlomeno diversificate. Contrariamente alle caute - e diluite nel tempo prese di posizione de «La Civiltà Cattolica», Anastasio Filocalo, penna giuridica di «Palestra del clero», abbastanza presto poneva chiari vincoli alla possibilità per i cattolici dell'Italia del nord di ribellarsi al «Cesare» del momento28 • Le coordinate di riferimento erano l'origine divina dell'autorità; il rischio per la società del restarne senza, tanto da preferire la tirannia all'anarchia; l'impossibilità per il privato di attuare forme di violenza, tranne per casi di legittima difesa. Non furono questioni momentanee, tanto da innescare uno scambio polemico tra «Palestra del clero» ed il gesuita p. Petazzi, sulle pagine de «La Scuola cattolica», scambio che si protrasse in postille e precisazioni ben oltre il termine delle ostilità29 • 27 Cfr. A. Oddone, L'auton·1à soàale e l'osservanza delle leggi, in CC, 1945, I, pp. 230-236. Il gesuita accennava alla reazione di rifiuto di un popolo di fronte ad una legge ingiusta - tale da richiedere ai cittadini un atto disonesto e intrinsecamente malvagio - in questi termini: «Ed è da augurarsi che per l'onore d'un popolo si intensifichi e si allarghi un tale rifiuto e un tale atteggiamento di opposizione e di resistenza. È evidente che in questo caso l'autorità, non essendo appoggiata e secondata dal fiore della cittadinanza, dovrà, con poco suo decoro, disarmare e disdirsi, se pure non vorrà aggravare l'iniquità colpendo e perseguitando i migliori tra i sudditi». Difficile non vedervi un'allusione al presente, peraltro condotta in termini asmmi. 28 A. Filocalo, Date a Cesare, in PdC, 20 novembre 1943, pp. 236240. 29 Iniziava la polemica p. Pctazzi: cfr. Obbedienza àeca o 11/uminata, in Se, 1944, 1, pp. 129-131, che, come esplicitamente affermava, prendeva le mosse dall'intervento dal medesimo titolo di A. rilocalo, uscito in PdC, 20 aprile 1944. Del resto, già nel numero del IO maggio 1944 della stessa rivista, era intervenuto diversamente da Filocalo

134

Il tema dell, obbedienza fu quindi centrale nel corso del conflitto: nel giugno del ,44 su «Palestra del clero», facendo il punto della situazione, si stigmatizzavano duramente quei frati e sacerdoti che avendo aderito alla repubblica sociale attaccavano continuamente il pontefice3°, rimettendo in discussione il concetto di autorità. Di fi gli inviti a non essere di parte, come del resto incessantemente ribadivano i vescovi italiani al loro clero, in circolari e lettere pastorali. Ma era proprio autorità la parola chiave: la non obbedienza gerarchica era bollata come ribellione e tradimento, né, si ricordava, i possibili difetti gravi di essa la facevano per questo decadere; il richiamo era quindi consequenziale: «disciplina, disciplina, disciplina e obbedienza»H. Erano discorsi interni in qualche modo all'istituzione ecclesiastica, che avevano un riflesso immediato per argomenti, toni e contenuti, anche sul terreno dei comportamenti da tenere verso i poteri politicocivili e militari esistenti nell'Italia del nord. A conflitto terminato, «Palestra del clero» sarebbe ritornata sull'argomento, riprendendo propri articoli o pubblicandone alcuni non usciti, autocensurati cioè nel corso del '44, onde evitare allora problemi alla rivista. Si continuava a contestare a quelli di «Crociata italica» che l'attacco ai principi d'autorità aveva scalzato «ogni base della stessa autorità repubblicana», tanto «da favorire e legittimare ogni ribellione»32 • E non a caso, nel giugno '45, si ricordava un proprio intervento dell'aprile '44 in cui si era evidenziato il comportamento dei preti filorepubblicani e antivaticani che, «mentre [. ..] gridano giustamente con ogni loro forza contro la ribellione all'autorità S. Benassuti, Anastasio Fi/oca/o ossia del/'obbedienUl. Un anno dopo Filocalo sarebbe tornato ripetutamente sull'argomento: cfr. un primo cenno in Autontà e peccato, in PdC, 10 maggio 1945, pp. 209-213; Id., ObbedienUl cieca o illuminata, 1° giugno 1945, pp. 245-255; I O luglio 1945, pp. 1-7. 30 A. Filocalo, Opinioni e certezze, in PdC, 20 giugno 1944, pp. 273-279. Trasparenti i richiami a don Calcagno. 31 Ibidem. 32 Filocalo, Autorità e peccato, cit., p. 210.

135

civile e gridano al tradimento, non credono tradimento la ribellione alla Santa sede e ai loro vescovi [... ]»H. Il rispetto dell'autorità era quindi qualcosa di imprescindibile e la ribellione, a ben vedere, tutt'altro che lecita. Nel commento alla «Corrispondenza Repubblicana» n. 63 su Chiesa e Stato dell'estate '44, commento uscito su «Palestra del clero» nel giugno '45l4, in quanto «non potuto pubblicare» un anno prima (e quindi dal valore storico-documentario), Filocalo rispondeva alle accuse allora rivolte da parte repubblicana al clero italiano: la rottura dello spirito di collaborazione tra Chiesa e regime, la mancanza d'amor patrio, il fomentare esso anarchia, disordine, opposizione alle leggi, chiaro riferimento questo all'appoggio dato al movimento resistenziale. Dopo aver confutato i rilievi di parte fascista, sulla fine dei buoni rapporti esistiti tra il 1929 ed il 1935n, e dopo aver rivendicato il proprio senso della patria - e senza quasi schierarsi nella lotta devastante di allora 36 - , si negavano O H A. Filocalo, Obbedienza cieca o illuminata, in PdC, l giugno 1945, p. 247, corsivo mio. L'intervento citato era del 10 aprile 1944. A posteriori però si parlava di Veneto occupato dai tedeschi e «pseudogovernato» dalla repubblica sociale italiana, con chiaro giudizio negativo. l 4 A. Filoca1o, Chiesa e Staio, in PdC, 20 maggio 1945, pp. 233236 e 1° giugno 1945, pp. 249-255. Si soffermano su tale documento di parte repubb1icana A. Fappani e f. Molinari, Chiesa e Repubblica di Salò, Torino, 1981, pp. 41, 75-77, 85. 3' Filocalo, Chiesa e Staio, II, cit., p. 252, con un curioso giudizio su Pio XII che con il suo tatto e la sua santità aveva sanato il dissidio venutosi a creare tra fascismo e Pio Xl: «E dal 1939 ad oggi si potrà accusarlo di silenzio come fanno gli irresponsabili; ma nessuno ha mai sorpreso sulle sue labbra una frase sola che anche lontanamente echeggiasse le terribili espressioni di Pio XI». 36 «[. .. ] la Patria è una sola ed inequivocabile: È L'ITALIA, la nostra diletta, tradita e straziata Italia. Quella di Legnano come que1la di Dante, come quella di Macchiavelli [sic]. come quella di Mazzini, di Gariba1di, di Cavour: L'ITALIA; sempre l'Italia, solo l'Italia. Sia essa invasa dai Barbari come ai tempi di Attila, oppressa da Barbarossa[...), sia essa una o spezzettata sotto il tal1one straniero: SOLO L'ITALIA, SEMPRE L'ITALIA. Sia essa retta a Monarchia o a repubblica; sia essa semplice Regno o assurga, per merito del Fascismo, a dignità imperiale: La Patria è l'lta1ia [. .. ] Che non può essere identificata e cri-

136

con forza le accuse finali presenti nel documento fascista, di un clero fautore addirittura «del crimine»; ma era una difesa abbastanza formale, in cui si chiedevano nomi e cognomi di atti che, se veri e dimostrati, erano di rilevanza penale e come tali da giudicare. Si rivendicava piuttosto il «cuore di cittadino» che batteva sotto ogni talare e la condivisione immediata e profonda dei dolori del popolo: anche questa era la Patria, «realtà viva e operante e martirizzata di un popolo sotto il peso di mille sciagure».

Di chi è la colpa? Tuttavia, nonostante la portata della tragedia e delle ferite profonde inferte alla propria patria, non era ancora giunto il momento dell'attribuzione delle responsabilità di quella catastrofe. A dire il vero poi quel momento non sarebbe mai arrivato concretamente, né allora né qualche anno dopo. Beninteso, è abbastanza ovvio pensare che nel giudizio degli uomini di Chiesa si fossero determinati con abbastanza chiarezza i motivi e le origini di quei mali e dei conseguenti giudizi, e per la maggior parte di essi, oltre naturalmente all'alleanza col III Reich, era la guerra il grande errore di Mussolini, la mossa sbagliata che aveva iniziato a sgretolare il sistema, anche se non era stato il 10 giugno a marcare il distacco dei cattolici37 • Al termi-

stallizzata in nessuna forma di governo, in nessuna condizione per quanto felice o sventurata in cui venisse a trovarsi. L'ITALIA CATTOLICA, con i suoi 45 milioni di cittadini!», ivi, p. 253. 37 Cfr. R Moro, I callolici italiani di fronte alla gueml fascista, in La cultura della pace dalla resistenza al Patto Atlantico, a cura di M. Pacetti, M. Papini e M. Sarcinelli, Ancona, 1988, pp. 75-126; F. Traniello, Il mondo callolico italiano nella seconda gue"a mondiale, in L'Italia nella seconda guerra mondiale e nella resistenu, a cura di F. Ferratini Tosi, G. Grassi e M. Legnani, Milano, 1988, pp. 225-267; A. Riccardi, Vescovi, parroci, Auone cattolica, in Sulla crisi del regime fascista. La società italiana dal «consenso» alla resistenza, a cura di A. Ventura, Istituto veneto per la storia della resistenza, Annali 13-16, 1992-1995, Venezia, 1996, pp. 523-538.

137

ne del conflitto motivazioni diverse avrebbero portato a non scandagliare troppo a fondo il ventennio: era forse il desiderio di non rivangare i rapporti tra Chiesa e regime per ciò che di «sconveniente» vi poteva essere, anche se non credo che il giudizio avrebbe potuto essere troppo negativo 38 ; l'accentuata dimensione di massa che il fascismo aveva avuto, con tutto ciò che comportava rispetto ad una presa di coscienza generalizzata ed ai comportamenti conseguenti 39 ; soprattutto la necessità di guardare avanti rispetto ai complessi processi di ricostruzione, non solo economica, ma morale e sociale soprattutto, che doveva essere opera corale, evitando dunque di dover rinfacciare qualcosa a qualcuno. Una parziale eccezione - al di là cioè di volumi dichiaratamente apologetici, quali ad esempio quelli di Dalla Torre o Castelli40 - era offerta da Igino Giordani, che pubblicava un testo che era all'origine un diario di riflessioni scritte allora tra l'autunno del '4 3 ed il dicembre successivo41 • Un volume denso di significato in quanto Giordani, già noto «autore» cattolico, spostava il discorso interpretativo su un piano diverso, ovvero lo scontro bimillenario tra civiltà greco-romano-cattolica e mondo germano-barbarico. Beninteso, non c'era parola nel libro sul rapporto Chiesa/fascismo, se non nel ribadire l'alterità esistente tra regime e principi cristiani. Si accennava JK Cfr. le osservazioni in tal senso di G. Miccoli, La Chiesa di Pio XII nella società italiana del dopogue"a, in Storia dell'Italia repubblicana, I. La costruzione della democrazia, Torino, 1994, pp. 537 ss. e Id., Cauolici e comunisti nel secondo dopogue"a: memoria storica, ideologia e lolla politica, in «Studi storici», 1997, 4, pp. 963 ss. 39 Esempio tipico di questa tendenza tesa a rigettare su Mussolini ogni responsabilità, il saggio di A. Novelli, Responsabilità della ca/astro/e nai.ionalc. Sguardo retrospellivo, in Se, 1946, 1, pp. 185-204. 40 G. Dalla Torre, Azione callolica e fascismo, Roma, 1945, su cui cfr. La lolla del 1931 contro l'Azione ca/Jo/ica italiana, in OR, 23.I V.194 5, in cui si auspicava che il volumetto potesse «modificare preconcetti errati» ed essere quindi utile nella «fase nuova» della vita nazionale; G. Castelli, li Vaticano nei lenlaco/i de/ /asàsmo. La storia ignorala di una lolla solle"anea, Roma, 1946. 41 I. Giordani, Dall'orda all'ordine, Roma, 1945.

138

quindi agli «ondeggianti compromessi» di quegli anni, o si additava la Conciliazione come «sprazzo di intelligenza» da parte del fascismo. Tuttavia la spietata requisitoria verso il fascismo analizzava più che i motivi alla base del suo prender piede in Italia, i frutti del suo sistema di potere sul costume morale degli italiani, ormai del tutto intossicato, per cui si imponeva un, epurazione non solo degli uffici, ma anche delle coscienze; sul significato profondo di quella esperienza, a tutti i livelli, non vi erano comunque dubbi42 • Il ruolo degli intellettuali, pronti ad avallare tutto e a sospendere l'uso della coscienza per trenta denari, l'esercito, la magistratura, la scuola: tutti colpiti dalla stessa «malattia tremenda», capillarmente diffusa. T aie «mercimonio» aveva investito anche i pilastri della trasmissione dei valori, maestri, professori, scrittori e anche alcuni insospettabili, alcuni pochissimi sacerdoti•0. L,uscita da tale stato di cose per Giordani era iniziata prima della guerra, in un processo di resipiscenza ormai diffuso, che nel conflitto aveva trovato poi coronamento; l'assenza di motivazioni rispetto alla guerra, i frutti della vuota educazione fascista, completarono il quadro: «Gl'italiani - è inaudito! - non bramarono che d'essere sconfitti: d,essere sconfitti per travolgere nella rovina chi era la causa della loro rovina»44 • Come già per Salvatore Satta, che analogamente in campagna scriveva il proprio De profundis, l'auspicio della sconfitta o il favore verso i bombardieri alleati che acceleravano la fine del

42

«Quel disprezzo contro l'uomo di parer contrario, quell'avidità

cli potenza e di denaro per procurarsela, quella vacuità vestita di locuzioni drastiche, quella reticenza nell'esprimere i pensieri, e l'adulazione e l'amoralismo che han formato un abito, di cui non sarà facile svestire la nostra psiche. Dico nostra, anche dei non tesserati, anche degli antifascisti, perché, insomma, non si sta per venti anni immersi in una atmosfera vizza senza pigliare cefalee», ivi, pp. 190-191. 43 «E la nausea doveva essere infinita quando a cader nd brago erano magari uomini di Chiesa: pochi, la dio mercè, perché se resistenza ci fu essa si compose sopra tutto attorno ai principi religiosi e a uomini di fede», ivi, p. 144. 44 Ivi, p. 112.

139

conflitto era, da parte degli italiani, un fatto diffuso; diverso era il giudizio sull'8 settembre, non morte della Patria, come avrebbe scritto il giurista sardo, ma punto finale di tutta la parabola mussoliniana: Allora il fascismo lasciò cadere il suo pomo: il pomo marcio, maturato in vent'anni di disgregazione morale della Nazione. E cioè, allora, come un pomo marcio, la Nazione si disfece; l'esercito crollò, le corporazioni si dissolsero, il partito scomparve, gli organi dello Stato spezzati si polverizzarono. Si constatò che, sotto l'apparato di forza, di vociferazioni e di carta, non c'era niente: c'era solo una turba che faceva man bassa dei beni dello Stato4'.

Occorreva ora fondare la democrazia «adveniente», con tutte le conseguenze che la libertà portava con sé, libertà che era nata con la Chiesa, nella cui orbita politica e sociale, si poteva provare, secondo Giordani, ad incardinare la «vita associata», assumendo così, da quella dimensione universalistica e dagli «ideali divini» là incarnati, la soluzione ai mali appena attraversati. Il volume di Giordani uscì nel '45, ma ancora durante il conflitto si evitò accuratamente ogni recriminazione, tanto più perniciosa nel corso della lotta. Così, su «Palestra del clero» nel marzo del '44 erano usciti alcuni articoli su La Patria e la guerra che incrociavano il tema della responsabilità - e quindi della possibile colpa di aver a torto iniziato la guerra - con il diritto/ dovere per i cittadini di auspicare comunque la vittoria della propria patria. Questione a ben vedere assai spinosa in cui si intersecavano i dibattiti sull'accelerazione della sconfitta per l'Italia, nonché il problema della attribuzione del giudizio di guerra giusta o ingiusta ove, si diceva, la carità di patria aveva il sopravvento sulla giustizia. Si rifiutava la logica del decidere o giudicare sulla «colpevolezza delle nazioni» a seconda delle colpe e dei peccati46 • In questo 4 ~ lvi, pp. 127-128. Sul volume di S. Satta, De Profundis, Padova, 1948, dr. le osservazioni di S. Lanaro, L'Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino, 1988, pp. 26-28. -u, G. Verla, La Patria e la gue"a, in PdC, 10 marzo 1944, p. 125.

140

senso si trovava addirittura appoggio nel radiomessaggio di Pio XII del Natale 1941, sulle responsabilità diffuse del conflitto, conseguenza dei lunghi processi che avevano portato a togliere Dio «dai cuori degli uomini». Non solo: la lode presente nel testo ai paesi che sempre favorirono «o seppero rimettere in onore [. .. ] i valori della civiltà cristiana» veniva senza esitazione attribuita all'Italia. Occorreva vedere le cose nel loro insieme: le cause del conflitto erano complesse, non ci si poteva fermare solo a considerare «l'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso»47 • Solo a Dio spettava il giudizio finale: «Ci vuole una buona dose di superbia e d'ignoranza per dire: il tal uomo, il tal Governo, la tal Nazione è la causa esclusiva della guerra e responsabile dei disastri da essa provocati»48. Ma era un argomentare in qualche modo di retroguardia, preoccupato cioè degli esiti funesti di sconfitta che incombevano sull'Italia, come indirettamente confermava l'invocazione, «soprattutto su di noi», della misericordia divina. Il non «attardarsi» sui recenti trascorsi era già stata parola d'ordine della più autorevole rivista cattolica italiana fin dal 25 luglio49 , e se si rivendicava l'alterità cattolica a fronte del coro inneggiante allo «Stato assoluto» durante il ventennio50 , nel momento in cui ci si soffermava sulla durezza della «lotta fratricida» per tutto ciò che significava, si proponeva allo stesso tempo una lettura della recente storia italiana con un taglio molto particolare. Le violenze e l'odio del presente si riconnettevano direttamente alla stagione del primo dopoguerra, ove «seguaci di opposte ideologie rivoluzionarie se ne fecero ugualmente apologisti»51 • Bolscevisti, anarchici e sostenitori lvi, p. 127. Ibidem, in PdC, 10 aprile 1944, p. 170. 49 Nell'ora grave della patria, in CC, 1943, III, p. 173. Sulle reazioni cattoliche aJla caduta del fascismo, cfr. R. Moro, I callo/id italiani e il 25 luglio, cit. ,o A. Messineo, Ubertà o liberalismo?, in CC, 1943, III, p. 382. 51 L'apoteosi della violenza e i suoi /rulli di IOJco, in CC, 1944, Il, pp. 346-347. 47

48

141

dello Stato onnipotente e neopagano si erano scontrati duramente, lacerando il paese e introducendo prassi e costumi che uscivano dal solco ordinato del vivere italiano. Gli appelli di Pio XI e dei cattolici non sortirono effetto; di lì, obliterando la presa del potere fascista e vent'anni di regime, la rivista dei gesuiti suturava stavolta i due momenti storici con gran naturalezza: «[Ma] la marea dell'odio continuò a salire e si è fatta oggi più minacciosa. La germinazione della malapianta non si è esaurita, ma produce oggi ancora più abbondanti i suoi frutti amari»52. Il nesso era preciso - il salto storico pure - l'equidistanza dalle violenze e l'equivalenza delle stesse inquadrava bene i bersagli polemici: alle code dell'esperienza fascista ormai perdente si affiancavano ora duri e pericolosi antagonisti contro cui indirizzare i propri strali più forti, vista la loro pericolosità. Gli appelli alla pacificazione, si sa, furono frequentemente ripetuti da parte dell'episcopato italiano in quel periodo 53 , anche se in alcuni casi condanne di azioni partigiane o inviti ad essi a disarmare furono fonte di aspre polemicheH. Il richiamo a porre termine alla lotta fratricida fu diffuso nelle lettere pastorali dei vescovi nel biennio '43-45, così come furono presenti i richiami a spiegare la guerra come frutto maturo della moderna, ormai secolare apostasia del mondo dalla Chiesa. ·Temi assolutamente costanti e di lunga tradizione nella cristianità, anche se non mancarono anche qui differenziazioni e accenti diversi da parte dei diversi pontefici55 • Nelle lettere pa52 53

54

lvi, p. 347, corsivo mio.

Cfr. J.D. Durand, L'Eg/ise italienne, cit.

Ricordo, a titolo d'esempio, i noti casi dei vescovi di Firenze e Udine, su cui cfr. rispettivamente B. Bocchini Camaiani, Ricostruzione concordataria e processi di secolariuaz.ione. L'azione pastorale di Elia Dalla Costa, Bologna, 1983, pp. 173 ss. e G. Miccoli, Chiesa e società nella diocesi di Udine fra occupai.ione tedesca e resistenza (1943-1945), in Id., Fra mito de/fu cristianità e secolarizzai.ione, Casale Monferrato, 1985, pp. 366 ss. 55 Individua nel corso del Novecento tali spostamenti di registro D. Menozzi, La cultura cattolica davanti alle due gue"e mondiali, in La

142

storali dei vescovi - accanto ai temi polemici tesi a difendere la figura di Pio XII dalle accuse largamente circolanti sulla sua presunta responsabilità diretta nell'origine e nella continuazione del conflitto~ 6 - con diversità di toni si batterono con buona costanza gli stessi tasti, con richiami impliciti alle situazioni locali, o con visioni più complessive, ma in qualche modo più di maniera. Riapparvero così , ibidem, pp. 281-290; Id., Il SO?.J!.ello del potere costituente, ivi, 1946, I. pp. 32-40; Id., I limiti del potere costituente, ibidem, pp. 400-409; Id., Le /unzioni del potere coJtituente e la volontà popolare, ivi, li, pp. 268-275; Id., Il fondamento teorico del referendum successivo, ibidem, pp. 338-346. In generale cfr. R. Sani, Da De Gasperi a Fan/ani, cit., pp. 15 ss. IO'-J A. Brucculeri, Il dovere delle urne nell'ora presente, in CC, 1945, IV, p. 309. 110 lvi.

165

molta fortuna aveva evidentemente avuto nel ventennio appena trascorso 111 • Così dunque si esprimerà p. Lombardi parlando de L'ora presente e l'Italia: «La missione storica che Dio ha attribuito all'Italia, nello scenario dell'universo che ci guarda come centro, è quella d'essere Nazione pienamente cattolica. Essere buon italiano contiene anche l'essere cattolico; essere anticattolico contiene per noi l'essere traditore della Patria» 112 • Il portare alle estreme conseguenze l'assioma cattolico/italiano non sarà quindi solo un eccesso nazionalistico/patriottico 11 l, ma servirà di più a precisare i contorni del nemico incombente, responsabile dunque della più grave colpa possibile contro la Nazione. Alle analisi del p. Messineo, sempre attento a sottolineare il valore non assoluto della volontà del popolo, fa111 Molti spunti in tal direzione si trovano in G. Isola, Abbassa la tua radio per favore ... Storia dell'ascolto radiofonico neli'ltalia faJcista, rirenze, 1990, pp. 147-165, che si sofferma su una figura esemplare di tali concezioni, come p. Vittorino Facchinctti, notissimo oratore radiofonico e poi vicario apostolico a Tripoli; dr. inoltre per alcuni filoni del giornalismo cattolico il saggio di V. Marchi, «L'Italia» e la mmione civiliualrice di Roma, in «Studi storici», 1995, 2, pp. 485-53 I; anche M. Franzinelli, nei suoi lavori sulla presenza