La donna e l'artista. Musicisti innamorati


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GIORGIO BAR1NI

LA DONNA E L’ARTISTA MUSICISTI INNAMORATI 40 TAVOLE FUORI TESTO

MCMXXVII CASA EDITRICE ALBERTO STOCK ROMA

GIORGIO BARIN1

LA DONNA E L’ARTISTA MUSICISTI INNAMORATI 40 TAVOLE FUORI TESTO

MCMXXVII CASA EDITRICE ALBERTO STOCK ROMA VIA BNNIO QUIRINO VISCONTI, 13-A

PROPRIETÀ LETTERARIA

(190a) Roma, 1937 — Grafìa, S. A. I, Industrie Grafiche

PRELUDIO Edoardo Schuré, in un suo libro tutto animalo da un eletto senso di 'poesia (i), ha definito ed evocato la figura di tre donne inspiratrici, tre donne, cioè, che con l'amore inspirarono ad artisti pensieri fondamentali nell'amore, la cui passione si tradusse possentemente nell'opera del­ l'uomo amato; due di esse, Matilde Wesendonk e Cosima Listz, illuminarono il genio di Riccardo Wagner; la terza, Margherita Albana Mignaty, fu la luce che segnò la via all'intelletto dello stesso Schuré, Alfonso Daudet in un libro che, sotto un aspetto brillante, e perfin giocondo, è forse la sua più dolorosa creazione (2), disegnò invece una serie di figure femminili, legate ad artisti, taluna delle quali appare vittima dell'incoscente egoismo di un uomo che soltanto nell'arte e nell'esercizio di essa trova possibile attività vitale, e tutto all'arte sacrifica; ma la grande mag­ gioranza di esse appare addirittura il cattivo genio del­ l'artista, 0 perchè, non comprendendolo, 0 turba 0 intralcia (1) Eduard Schur^, Femmes inspiratrices ei poètes annonciateurs, Paris, Perrin, 1909. (2) Alphonse Daudet, Femmes d’artistes.

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o deprime ogni sua espansione creatrice; o, consideran­ done soltanto la produttività economica, lo assilla e sfrutta e inaridisce; o, gelosa del suo valore, lo isola e ne mono­ polizza il genio, staccandolo da quella vita che può tener deste le sue facoltà, rendendolo altrui inviso. L'uno e l’altro scrittore hanno ragione; l’eterno fem­ minino è così vario e complesso che può racchiudere in se ogni bene e ogni male: la stessa donna pud in pari tempo essere la inspiratrice appassionata e la nemica che di­ strugge l’artista. D’altra parte, l’influsso della donna è innegabilmente potentissimo; un amore ardente può illuminare una vita e trasformare l’universo agli occhi dell’uomo amante­ amato: e se vi è in lui forza intellettuale creatrice, questa ne sarà stupendamente fecondata; un forte amore può essere mirabile spinta all’opera, ad un’opera tanto più eletta, sublime, quanto più possa in essa aver forza la fantasia. Nelle arti del disegno, gli elementi fondamentali di cui l’opera è costituita sono offerti dalla natura circostante: per quanto liberamente ardita possa spaziare la mente del pittore, dello scultore, essa si appoggia sul vero, lo riproduce, lo imita, lo sviluppa, interpretandolo e tra­ sformandolo. Nella musica, invece, predomina il sentimento intimo: il cuore, la fantasia dettano le idee; è nell’anima stessa del musicista la fonte dell’inspirazione; la musica sem­ plicemente imitativa è una esercitazione cerebrale, mec­ canica, un’arte di derivazione ben diversa da quella ani­ mata dall’intima emozione passionale. Ecco perchè le passioni del cuore necessariamente sono le più possenti molle per suggerire al musicista accenti di meravigliosa ♦ 4 ♦

efficacia e bellezza; ecco perchè la donna amante-amata può esercitare insuperabile influenza sul musicista più che su altri artisti; influenza felice, influenza nefasta. Non mai come per la donna, che sia la vita psichica del musicista, può convenire il simbolico mito della sirena: bellezza affascinante di forme e di voce, sotto cui si na­ sconde la viscida coda; mirabile forza inspiratrice, cui segue dolorosa forza disgregatrice. Ed ecco presentarcisi figure di musicisti originali e vibranti, sulla cui vita, sulla cui arte la donna dominò; chi ne ebbe luce, chi ne ebbe tormento; chi ebbe legami dol­ cissimi o angoscianti; chi, pure tendendo con ogni forza verso l'amore, seppe restar libero da pericolosi ceppi, e nella purezza della vita trovare la possibilità di sublimare l'inspirazione amorosa plasmata in capolavori insupera­ bili. Di questi artisti elettissimi le vicende sono ben note; ma un filo sottile e robusto ne collega i cuori: l'eterno femminino trionfante; arte e amore non possono disgiun­ gersi nella vita e nell'opera di costoro; e noi vogliamo scru­ tare nei loro cuori e vedere con quale profondità vz si incidono le immagini muliebri, e quali ne fanno scatu­ rire fremiti armoniosi, quali vermiglio sangue; senza per­ dere mai di vista ciò che di essi ci interessa sopra tutto, essenzialmente: la creazione artistica. Ma perchè — potrà osservare taluno — i maestri italiani di cui si occupa questo volume sono in minor numero degli stranieri? Perchè talvolta è più breve e con­ cisa la parte che a loro si riferisce? Per una ragione di fatto: le indagini sulla vita intima, la ricerca e la pubblicazione di documenti — e, in prin­ cipal modo, delle lettere — sono state di gran lunga più mi­ nuziose ed ampie, da parte degli studiosi, nei riguardi

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degli stranieri che non per i maestri italiani» D'altra parte nessuno di questi ha lasciato tanti documenti rive­ latori dei propri intimi sentimenti che possano parago­ narsi, ad esempio, con i voluminosi epistolari del Ber­ lioz, dello Schumann, del Liszt, del Wagner; con le me­ morie autobiografiche da essi lasciate ai posteri. Per taluno dei nostri v'è, per di più, qualche circostanza eccezionale, che, invece di gettar luce, ha potuto in parte occultare ai nostri occhi l'intimo cuore di taluno dei musi­ cisti a noi più cari: basti ricordare l'attività di Francesco Fiorimo intesa, a lumeggiare la vita di Vincenzo Bellini, per il quale aveva così profonda adorazione, da indurlo a modificare espressioni, circostanze, da cui potesse rima­ nere offuscata quella immagine del grande musicista catanese, da lui angelicata con assidua cura, in guisa da attenuare i lati meno belli e buoni del suo idolo, il quale, come uomo, aveva non lievi difetti. Quasi temesse che la stupenda bellezza, la espressività profonda della inspira­ zione belliniana potessero perdere qualche atomo della loro magnifica efficacia, perchè il loro autore non era pre­ cisamente l'esponente e la sintesi delle umane perfezioni! L'estensione massima data ai capitoli relativi a Fran­ cesco Liszt e a Federico Chopin è conseguenza della com­ plessità caratteristica delle vicende amorose del primo, complessità tale da richiedere un attento esame delle ramifi­ cazioni dei suoi sentimenti affettivi, del valore, della por­ tata delle notizie e delle leggende che largamente si diffusero riguardo ad un artista sul conto del quale si sbizzarrirono le instancabili trombe della fama e,,, della réclame; delle contradizioni spesso stridenti apparse riguardo allo Cho­ pin in più pubblicazioni, interessate e perfino tendenziose, tali da renderne indispensabile una. attenta analisi cri-

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tica, per scoprire la verità. E le pubblicazioni passionate, spesso pervase da forte acredine polemica, si moltipli­ carono in modo notevole attorno alle figure del Liszt e dello Chopin, principalmente perchè essi ebbero la fortuna e la disgrazia di avere avuto legami amorosi con donneautrici dalla penna scorrevole, dalla fantasia fervida, le quali vollero dare impronta estetica e psichica, a loro favorevole, nel rivelare al mondo il proprio romanzo vis­ suto; scrittrici sorte e fiorite nei momenti più intensamente agitati del periodo romantico, dal cui spirito, dalla cui essenza è tutta pervasa la loro mente e Varie loro. Vi fa chi volle rispondere; si aprirono le cateratte del cielo roman­ tico e diluviò carta stampata; e se qualche eredità diquelVindirizzo più o meno letterario è giunta fino a noi, ciò è dovuto al fatto che quegli artisti ci interessano ancora fortemente, perchè li mantiene in vita l'arte loro, e li sen­ tiamo a noi spiritualmente legati.

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ETTORE BERLIOZ « Quale delle due potenze può elevar Tuomo alle più sublimi altezze, l'amore o la musica ?... È un gran problema. « Tuttavia mi pare si dovrebbe dire: « L'amore non può dare un'idea della musica, la musica può darne una delTamore... Perchè separar l'uno dall'altra? Sono le due ali dell'anima ». Queste espressioni, che si leggono alla fine delle Memorie di Ettore Berlioz, sono come il « credo », il testamento estetico-sentimentale del grande musicista francese: le ripeteva egli stesso, con poche varianti (evi­ dentemente citava a memoria), in una lettera alla prin­ cipessa Carolina Sayn-Wittgenstein, lettera nella quale aveva parlato a lungo alla grande amica di Francesco Liszt del suo primo e ultimo amore, di Estella Duboeufs, poi signora Fornier, la Stella montis che illuminò la sua infanzia e confortò gli ultimi anni di sua vita. Aveva dodici anni e mezzo quando, nell'estate del 1816, ebbe la prima impressione musicale, e insieme sentimentale: nel suo paese natio, La-Góte-Saint-André, nel convento delle Orsoline, ove era in pensione la sua ♦ 9 ♦

sorella Nancy, Ettore fu ammesso eccezionalmente a fare la prima comunione, solo giovinetto presso una numerosa schiera di fanciulle bianco vestite: mentre riceveva l’ostia consacrata, un coro di argentine voci verginali intonava un inno alla Eucarestia, con la me­ lodia della romanza: « Quand le bien-aimé reviendra » nella Nina del Dalayrac. La dolcezza del canto, la gra­ zia femminile, commossero profondamente l’anima del fanciullo e determinarono quali dovevano essere le forze fondamentali della sua vita intellettuale ed affet­ tiva: da allora il romanticismo ebbe in Ettore Berlioz uno dei più significativi rappresentanti. In quei primi anni, nel periodo della vendemmia, che la madre di Ettore soleva trascorrere coi figliuoli a Meylan, presso il proprio padre, il futuro musicista conobbe Estella, che aveva cinque o sei anni più di lui, e per essa ebbe ammirazione appassionata: allora scoprì, nella biblioteca paterna, la pastorale del Flo­ rian Estelle et Némorin, e gli parve di rivivere la vita dell’innamorato eroe; allora i versi del Florian, in cui era idealizzata Estella, inspirarono al fanciullo una melodia ampia ed espressiva; melodia che, nella solenne affermazione della sua potenzialità artistica, nella Sin­ fonia fantastica, egli riprodusse a significare « quel ma­ lessere dell’anima, la indeterminatezza delle passioni, le melanconie, le gioie senza una precisa causa », ossia « quel­ lo stato d’animo che lo Chateaubriand ha così mira­ bilmente dipinto in René ». Il romantico del 1830 trova tutto se stesso nella frase che era sgorgata dalla sua fan­ tasia di tredicenne animata dalla immagine di Estella. « Ho l’amore dell’amore », dichiarò un giorno Ettore Berlioz ad un amico: l’amore dominò infatti tutta la sua ♦ io ♦

vita morale, materiale, estetica, plasmandola e guidan­ dola; fu il suo bene e il suo male: il suo bene, quando lo spinse ad agire, a produrre, inspirandogli le sue opere più forti ed elette; il suo male, quando turbò e trava­ gliò la sua esistenza. Quella aspirazione all’amore che tutto lo pervadeva, ebbe per lui la più possente affer­ mazione rivelandoglisi con la rivelazione del genio dello Shakespeare, nel 1827: fu allora che una compagnia di comici inglesi fece conoscere al pubblico parigino nel testo originale il grande drammaturgo, fino allora ri­ prodotto a traverso le dolcificazioni pseudoclassicheggianti del Ducis. Accanto al Kemble « Amleto » o « Ro­ meo » apparve Harriett Smithson, « Ofelia » e « Giu­ lietta »: giovane bella, bionda, bianca, dai grandi occhi azzurri luminosi ed espressivi, disse con voce armo­ niosa, musicalmente modulata, con accento profondo e commovente, la gioia/lo spasimo, il delirio delle squi­ site creature shakespeariane. Ettore Berlioz ne rimase folgorato: egli vide in Enrichetta-Ofelia-Giulietta farsi realtà i suoi più fervidi sogni, le sue più ardenti aspira­ zioni; nè sapeva come poter giungere fino a lei. Dalla sua finestra, di sbieco, fra l’incrocio di due strade, vedeva l’alloggio della Dea lontana, inaccessibile. « Sarà mia moglie! » esclamava, mentre essa probabilmente non si accorgeva del fervido adoratore. Guidato negli studi musicali da un maestro-teorista originale e ingegnoso, il Lesueur, Ettore Berlioz è am­ messo, nel 1828, al concorso per il pensionato a Villa Medici: debbono i concorrenti porre in musica una can­ tata, Herminie, inspirata da quella dolce figura di Er­ minia che Torquato Tasso aveva plasmato con arte eletta, ed un povero versificatore, A. Vieillard, trattato

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(o maltrattato) in rime miserelìe, da venti anni pef la quinta volta imposte ai concorrenti al premio di Roma. Nella mente del giovane musicista Erminia si iden­ tifica con Enrichetta: una melodia ampia e significativa, che nella cantata designa la protagonista, formerà poi il tema-base della Sinfonia fantastica: è quella « idea fissa », presentata come riflesso melodico di Enri­ chetta-Ofelia, su cui si impernia tutta la grande com­ posizione ciclica, che appare ancora agli occhi nostri una delle più originali ed efficaci manifestazioni del­ l’arte e del genio del Berlioz. Nella Fantastica egli ha voluto esporre le sue emozioni, i suoi sogni, in quello che hanno di musicale: è una specie di autobiografia sinfonica, traversata dalla im­ magine di Ofelia, estrinsecata in un vero e proprio motivo-conduttore che si trasforma a seconda delle varie fasi dell’intimo dramma psicologico che si svolge nella mente e nel cuore del musicista. Per lui la decadenza artistica della Smithson, ridotta a scritturarsi quale figu­ rante all’cc Opéra Gomique » a Parigi (la sua pronunzia anglicizzante non le consentiva di sostenere parti non mute), cioè in un teatro che il Berlioz considerava come un luogo infame per la musica, si trasformava in vera decadenza morale: la sua ardente immaginazione dava corpo ad ogni ombra. Vera reazione alla passione per Enrichetta deve considerarsi la sua infatuazione per un’altra figura, alla quale pure attribuì un nome shakeaspeariano; era Ca­ milla Moke, una pianista, figlia di una olandese ex­ mercantessa di biancherie; « l’angelo » di un pianista valente, Ferdinando Hiller, la quale divenne il « gra­

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zioso Ariele » (il genio benefico e gentile della Tempesta}, civettina intraprendente, che mirava ad assicurarsi un buon matrimonio. Ettore Berlioz, vinto finalmente il premio di Roma nel 1830 con la cantata Sardanapalo, la chiede in moglie e, accettato come fidanzato, parte per l’Italia. Dopo poco, privo completamente di corrispondenze e di notizie di Camilla, agitato per le insinuazioni di Ferdinando Hiller, l’innamorato soppiantato, parte da Roma, per raggiungere Ariele: attende a Firenze, ove finalmente gli giunge la nuova che Camilla Moke sposa il famoso fabbricante di pianoforti Pleyel. Andrà subito a Parigi; per non essere riconosciuto e non destar sospetti si travestirà (si procura infatti un completo abbigliamento da... donna!) e ucciderà l’infedele, la madre di lei, lo sposo... Ma no, non può! Immagina perfino di aver tentato di uccidersi; poi si calma, torna a Roma. Di lì a poco aveva compiuto un melologo, Il ritorno alla vita: l’artista che nella Sinfonia fantastica si avvelenava per Enrichetta Smithson, torna alla vita maledicendo il grazioso Ariele, nel melologo, nel quale risorge anche l’immagine di Ofelia; « l’idea fissa » della Fantastica, come un ricordo ossessionante, vibra ancora nella chiusa della nuova composizione. Tornato a Parigi, prende in affitto una camera, la camera stessa che un tempo occupava Enrichetta: e in quei giorni la Smithson, alla testa di una compagnia di attori inglesi, affrontava ancora il pubblico parigino, che non rispondeva più all’appello; e subito dopo Ettore Berlioz organizzava un « concerto drammatico » il cui programma comprendeva la Sinfonia fantastica e II ritorno alla vita.

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Enrichetta Smithson vi assisteva, bene in vista del pubblico, che vedeva in lei l’eroina oltraggiata nei programmi esplicativi dell’opera berlioziana. Nei giorni seguenti Ettore Berlioz fu presentato a Enrichetta. Che avvenne fra quei due esseri tormentati? Rimproveri? Ricordi? Rimpianti? Egli potè sciivere: « Enrichetta ed io siamo stati calunniati l’uno presso l’altra, in un modo infame. Tutto è chiarito». Dopo una lunga lotta, a traverso difficoltà gravi, non ostante l’opposizione dei genitori, Ettore potè final­ mente sposare Enrichetta: uno dei testimoni era Fran­ cesco Liszt. L’indomani delle nozze egli, scrivendo all’amico che aveva un tempo informato dei tormentosi sospetti che lo avevano spinto ad offendere gravemente la donna amata, nel programma della Fantastica, faceva am­ menda onorevole, rendendo giustizia completa alla irreprensibile onorabilità, alla assoluta purezza della sua sposa. Una vita intimamente affettuosa, pur tra difficoltà e strettezze non lievi, trascorsero i coniugi: l’anno successivo un figlio strinse ancor più fortemente il legame che li univa: ma la felicità non durò a lungo. Senza addentrarmi in considerazioni circa la diffe­ renza sostanziale del temperamento amoroso dell’uno e dell’altra (l’erotismo del Berlioz aveva essenzialmente una base cerebrale, nel suo esaltato romanticismo), non v’ha dubbio che ben diverso era il carattere dei coniugi: Ettore Berlioz aveva amato Ofelia e Giulietta, e delle due eroine essa non aveva che la parvenza esterna, mentre una fiera gelosia verso l’uomo amato, di lei più giovane, la tormentava e la rendeva tormen­ tosa. ♦ 14 ♦

Ma nel primo periodo della vita coniugale, è ben ricca fattività musicale di Ettore Berlioz: Aroldo in Italia, ampio poema sinfonico, in cui il protagonista in­ terviene con la voce di una viola, e — sebbene appaia suggerito dal noto eroe del Byron, è però lo stesso Ber­ lioz che rievoca impressioni e sensazioni del suo sog­ giorno in Italia — elaborato con gioia presso la donna amata; e costei è a sua volta lieta, a fianco del suo gio­ vane marito, e spera di poter presto (dopo che abbia dato alla luce il figlio) concorrere a sostenere la vita familiare, assumendo una scrittura che le consentirà di ricalcare proficuamente le scene. Sostenuto dal Bertin, direttore del Journal des Débats, si accinse alla composizione di uno spartito, il cui soggetto era tolto dalle memorie di Benvenuto Cellini; per le vittime delfattentato del Fieschi, scrive, per incarico ministeriale, la sua grande Messa dei Morti, con le possenti sonorità del Dies irae; Tinsuccesso del Benvenuto Cellini al teatro dell'Opera non lo disanima; una nuova grande opera sinfonica, in cui interviene il coro, alla quale pensava da tempo, prende forma e diviene una delle sue più forti creazioni: Romeo e Giu­ lietta, in cui le figure di Ettore e di Enrichetta sorgono liricamente idealizzate; ecco finalmente, senza ricordare molte composizioni minori, la Sinfonia funebre e trion­ fale. Per riuscire a fare eseguire le sue opere, quale sner­ vante lotta! E frattanto la vita familiare diveniva sempre più dolorosa ed aspra: Enrichetta si abbandonava al gusto di non misurate libazioni: obesa, invecchiata, accoglieva il marito o con violente scene di gelosia o con esuberanti tenerezze... dal fondo alcoolico. Ettore ♦ 15 ♦

Berlioz, esasperato, ebbe tuttavia la forza di resistere a lungo anche alle sue tendenze cerebralmente passio­ nali; finché una giovane donna, una cantante che aspi­ rava ad affermarsi efficacemente, intervenne vittoriosa nella vita del musicista discusso, ma forte, del critico influente e battagliero. Era costei nata a Chàtenay, sobbórgo di Parigi, da un ufficiale francese, Martin, e da una spagnuola, Sotera Vilas; assunse un nome di guerra — che inten­ deva render celebre con i futuri trionfi artistici —, Maria Recio. Bella, attraente, ardente; poca voce, mediocre intelligenza, molta ambizione; per ben venti anni visse coi Berlioz, aggrappata a lui, per esserne sostenuta a farsi avanti ad ogni costo, sacrificandolo come uomo e come artista. Riuscì il Berlioz a farla scritturare alF« Opéra », ove esordì nella parte d’Ines nella Favorita del Doni­ zetti: fu un insuccesso; dopo un mese riapparve nella parte del paggio Isoliero nel Conte Ory del Rossini, parte che sarebbe stata bene adatta alla sua snella e armoniosa figura: nuovo insuccesso; ed il Berlioz, per sostenerla ad ogni costo, si alienava la Stoltz, artista mirabile che gli era devota ed aveva interpretato ma­ gistralmente tante sue creazioni; la Stoltz, che dettava legge all’« Opéra». In seguito egli ottenne che la Recio fosse scritturata all’aOpéra-Comique»: nuovo insuc­ cesso. Maria Recio volle accompagnare il Maestro nei suoi viaggi artistici: volle cantare nei concerti da lui diretti; Tintervento della cantatrice dalla voce ingrata, dalla malsicura intonazione, nuoceva sensibilmente all'esito delle iniziative artistiche del Berlioz. Egli tentò per­ ♦ 16 ♦

fino una evasione, per liberarsi dalla implacabile osses­ sione della meschina cantante, della donna volgare, mentre ne subiva il fascino sensuale; non vi riuscì, mentre altra volta era riuscito a sottrarsi alla vigilanza di Enrichetta: Maria Recio lo inseguì, lo riprese, lo tenne stretto a sè, finché fu da lui sposata dopo la morte della povera Smithson. Eppure il Berlioz, che aveva sempre serbato in cuore sincero affetto per la sua prima moglie, non ignorava una volgare, ignobile scenata di Maria Recio di fronte ad Enrichetta Smithson. Era andata alla casa della moglie abbandonata: — La Signora Berlioz? — Sono io — risponde Enrichetta. — No, sono io. — Scusate, sono io la Signora Berlioz. — No, non siete voi... Ebbe ancora attività notevole il Maestro, come di­ rettore di concerti nel Belgio, in Germania, in Austria, in Russia, in Inghilterra; compose opere grandiose: le Otto scene del Faust del Goethe (1828), divenute, ampliate e organicamente integrate, La dannazione di Faust (1846); per Y Amleto dello Shakespeare compose La morte d'Ofelia, in cui rivive il suo iniziale amore per Enrichetta, ed una Marcia funebre per orchestra e coro; la squisita trilogia L'infanzia - del Cristo; un Te Deum a tre cori, orchestra ed organo; I Troiani (due spartiti: La presa di Troia, I Troiani a Cartagine); Beatrice e Benedetto, opera comica in due atti (da Molto rumore per nulla dello Shakespeare) ; il Grande trattato di strumentazione e orchestrazione moderna; L'arte del direttore d,'orchestra; le sue Memorie; una interminabile serie di articoli, che sono raccolti in più volumi; nume­ rosissime lettere. L'ombra vigile di Enrichetta-OfeliaGiulietta si stende ancora sull'intelletto e sul cuore del ♦ 17 ♦

Musicista, e Shakespeare lo inspira, a traverso la inter­ prete amata; costei trionfa su Maria Recio, che nulla sa inspirare all’uomo, avvinto a lei soltanto dalla feb­ bre dei sensi. Morta la seconda moglie (da più anni aveva perduto Funico figlio), rimasto solo e triste, l’amore venne an­ cora a lui, l’amore di una donna giovane, bella, colta; ma una separazione necessaria, completa, lo lasciò nuovamente solo; una mattina Ernesto Legouvé, in­ contra nel bosco, a Baden, Ettore Berlioz, abbattuto, distrutto, che gli porge una lettera; il Legouvé si stu­ pisce di tanta tristezza: — Questa lettera viene da una donna superiore — osserva: — inoltre, è piena di tene­ rezza e di passione. Che cosa c’è dunque? — G’è che ho sessantanni! — risponde il Berlioz con accento disperato. Ma il cuore amoroso del Musicista ebbe un supremo conforto negli ultimi anni di sua vita; il primo amore risorse: ritrovò Estella, vedova, dai capelli candidi, nonna. Le disse quanto fosse ancor viva nel suo cuore l’antica fiamma; la donna, intelligente e buona, respinse le insistenti proposte di matrimonio di Ettore Berlioz, facendogli riflettere come sarebbe stato atto imperdo­ nabile alla sua età; ma non seppe infine negargli la consolazione di sostenere l’animo di lui scrivendogli lettere nobilmente affettuose, pacate, serene, tali da sollevare l’anima stanca dell’artista esausto Estella inizia e chiude la vita affettiva del Berlioz; e a lui essa inspirò le più sentite melodie: egli stesso ricordava e riportava frasi dell’Aroldo in Italia, della Sinfonia fantastica, di Romeo e Giulietta, dettategli dalla immagine della Stella che illuminò il mattino ♦ 18 ♦

della sua vita. Cosi l’immagine di Enrichetta-Ofelia-Giulietta (non la donna che fu sua moglie) gli rivelò il pensiero meraviglioso dello Shakespeare. Maria Recio, anima calcolatrice, nulla seppe in lui suscitare di forte e inspirato: essa turbò la vita di lui, dominandolo con la forza dei sensi, curandone (a suo modo) gl’interessi materiali, denigrandone i colleghi, danneggiando l’ar­ tista originale per sfruttarlo a proprio favore. Il Berlioz doveva astrarre il suo pensiero da costei per potere ancora dar vita alle immagini sonore che la fantasia e i ricordi d’altri amori e le aspirazioni ad altre gioie potevano dettargli. Estella fu luce d’alba e di crepuscolo: luce limpida e pura; Enrichetta, la fiaccola rivelatrice del genio dram­ matico; Maria, l’ombra grigia. L’arte del Berlioz ebbe vita, con differenti espressioni, dalle prime due passioni; non fu, per fortuna, soffocata dalla terza, avendo egli potuto sottrarsi al pericoloso influsso di costei per pro­ pria intima energia, e sopra tutto perchè essa parlava più ai sensi che all’anima e al cuore.

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ROBERTO E CLARA SCHUMANN. L'arte di Roberto Schumann è immagine completa dell'artista: il cuore, la mente del musicista si estrinse­ cano, si rivelano, si affermano in modo assoluto nell’opera sua. Il dramma terribile che chiuse la non lunga esi­ stenza dello Schumann, offuscando e spegnendo la sua intelligenza prima di spezzar la sua vita, ha minacciosi accenni nei contrasti improvvisi, negli scatti contradittori che non di rado turbano le più serene sue com­ posizioni: ma senza confronto più sensibile e trionfante è lo slancio passionale che illumina e scaldale sue crea­ zioni sonore. L’amore, anzi un amore, è l’essenza, la forma, il colore di ogni sua manifestazione estetica: il romanzo di quella vita è scritto nelle sue opere. Un amore, ho detto: e, di vero, un solo amore occupò e scaldò il cuore di Roberto Schumann: anche quando si entusiasmava per quella Ernestina de Fricken, che chiese in sposa e con cui si fidanzò, egli già subiva il fascino della nobilissima donna che doveva formare la sua felicità, rendergli cara la vita domestica e la fami­ glia, e animare stupendamente la sua fantasia crea♦ 21 ♦

trice, fecondata dal forte e profondo palpito del suo cuore. Giara Wieck era ancora quasi una bambina quando lo Schumann si pose sotto la guida del padre di lei per apprendere la musica, studiare la tecnica pianistica: alla scuola di Federico Wieck era venuta Ernestina, figlia di un ricco barone ungherese, e fu Clara a magnifi­ carle Roberto; ecco in qual modo ella stessa narrava al suo beneamato le prime accoglienze: « Quando Er­ nestina venne da noi, le dissi: — Tu conoscerai Schu­ mann, che m’è il più caro fra tutti i nostri conoscenti. — Essa non voleva saperne, dicendo che ad Asch (piccola città della Boemia ove era nata ed abitava, prima di re­ carsi a Lipsia) conosceva un signore che preferiva infi­ nitamente. Ne risentii amarezza: ma ben presto ti seppe apprezzare; dovetti perfino avvertirla ogni volta che arrivavi. Ne ero tanto lieta: ma tu finivi per non occu­ parti che di lei, limitandoti a scherzare un po’ con me: ne provai qualche dispiacere, sebbene fossi tanto gio­ vane... Per questo il babbo mi mandò a Dresda ed io ripresi a sperare; di già pensavo come sarebbe bello che tu diventassi mio marito! ». Infatti il sentimento che lo Schumann provava per Ernestina era ben diverso da quello che precedentemente aveva avuto per altre donne, ad esempio, per Nanni e Liddy, le due fanciulle tra le quali una volta il suo cuore rimase incerto, per finire ben presto per non interessarsi più nè dell’una nè dell’altra. Del suo amore per Ernestina egli scriveva lunga­ mente a Enrichetta Voigt, sua grande amica e confidente; alla madre, alla quale dichiarava avere Ernestina tutte le qualità che egli avrebbe desiderato in una moglie; ♦ 22 ♦

e che se l’avvenire gli avesse chiesto: — Ohi sceglie­ rai? — avrebbe risposto: — Questa! Il De Fricken padre corse a Lipsia per riprendersi la figliuola e cosi porre argine ad un sentimento che egli, nobile e ricco proprietario, non poteva approvare in lei per un musicista senza risorse, benché ne apprez­ zasse i meriti. La lontananza non valse a troncar l’amore: Ernestina, prima di partire, aveva ricevuto dallo Schumann l’anello del fidanzamento; si ritennero per parecchio tempo reciprocamente impegnati. Quando Roberto si fidanzò con Giara, restituì ad Ernestina la sua parola, spiegando lealmente lo svolgersi del proprio affetto per colei che doveva essergli moglie: Ernestina, sebbene non potesse non risentirne per lo meno una non lieve sorpresa, gli rispose aver sempre pensato che egli non poteva amare che Giara; e mantenne amichevoli rela­ zioni coi fidanzati. L’episodio amoroso con Ernestina ebbe eco notevole nella attività musicale dello Schumann: il padre di lei, musicista dilettante, sottopose al giudizio di Roberto certe sue variazioni, il cui tema suggerì allo Schumann i magnifici Studi Sinfonici (op. 13). In omaggio a Erne­ stina compose il Carnovale, scenette su quattro note (op. 9); le quattro note sono la, mi bem., do, si, le quali, nella notazione tedesca, sono rappresentate dalle let­ tere A-S-G-H, formando così il nome della città natale di Ernestina: ma fra il turbinare delle varie vivaci figure che si agitano nella festa carnevalesca, ecco apparire, con espressione di appassionata dolcezza, « Chiarina », che altra non è se non Clara: breve nota di grazia squi­ sita, di delicata gentilezza. ♦ 23 ♦

In una lettera delFn febbraio 1838, lo Schumann faceva alla sua Giara una specie di confessione generale: « Mia cara e nobile fidanzata, siedi presso di me, piega un po’ la testa dal lato destro, ciò che ti sta tanto bene, e ascoltami: ti debbo fare un lungo racconto. « Da qualche tempo sono più felice di quel che non sia mai stato. Ti sarà grato sapere che hai reso la feli­ cità e la gioia ad un uomo che per lunghi anni è stato preda dei più terribili timori, che si assorbiva tutto nei più tetri pensieri, che avrebbe gettato via una vita che sprezzava!... La mia vera vita cominciò da quando, dopo essermi convinto del mio talento e avere acquistato fiducia in me stesso, stabilii di consacrarmi all’arte... Eri allora una bambinetta un po’ scontrosa, con due bellissimi occhi e ghiottissima delle ciliege... Due anni passarono; verso il 1833 una profonda malinconia co­ minciò a prendermi... sopraggiunse l’impossibilità di suonare che colpì la mia destra. Tu sola riuscivi a strap­ parmi a così tetri pensieri. Senza nè volerlo nè saperlo, sei tu che da molti anni mi hai allontanato dal frequentar donne. Vagamente sorgeva in me il pensiero che un giorno avresti potuto essere mia moglie; ma era ancora in un avvenire tanto lontano! Checché fosse, io ti amavo allora tanto teneramente quanto lo permetteva la no­ stra età... « Nella notte dal 17 al 18 ottobre 1833, sorse in me ad un tratto il pensiero più spaventoso che possa con­ cepire mente umana: il timore di perder la ragione!... corsi da un medico, al quale confidai tutto... Il medico mi rassicurò affettuosamente, e finì col dirmi, sorridendo: — La medicina qui non può nulla: prendete moglie: essa vi guarirà... — Allora tu non ti occupavi molto di ♦ 24 ♦

me: giungevi a quel punto che separa la bambina dalla giovinetta. Allora comparve Ernestina, una creatura tanto buona come poche ve ne sono al mondo. — Ecco, pensai, quella che mi salverà. — Tu sai il resto... « Quando Ernestina fu partita, cominciai a riflettere e a domandarmi come la cosa sarebbe andata a finire. Quando appresi la sua povertà... le disgraziate compli­ cazioni che traversava la sua famiglia... tutto ciò raf­ freddò il mio ardore, debbo confessarlo: la mia carriera artistica mi parve compromessa, l’immagine di colei in cui avevo creduto vedere la mia salvezza, mi persegui­ tava in sogno come uno spettro...». Da allora Clara Wieck si impadronì sempre più completamente del pensiero, del cuore, dell’anima dello Schumann: fu il suo vero, grande, unico amore; fu la inspiratrice del musicista originale e appassionato, la eletta animatrice dell’arte di lui. « Penso spesso a voi, mia Clara, non come un fratello alla sorella, nè come un amico ad una amica, ma come un pellegrino alla lontana immagine che sorge sull’al­ tare... Avete composto? E che cosa? Sento talvolta della musica in sogno: dunque, voi componete...». Il nome di Clara apparisce ad ogni momento nella sua corrispondenza, e sempre egli dimostra un interessa­ mento vivissimo per la donna, per la pianista, per la compositrice: a lei confida tutti i suoi pensieri, le sue impressioni: « Sono tanto felice, quando un raggio di sole danza sul mio pianoforte, come per giocare col suono, che non è a sua volta se non una luce risonante». — « Clara... che mi ha sempre inspirato il più vivo interesse, è restata la medesima. Strana ed entusiasta, corre, salta e giuoca come una bimba, dopo di che tratta ♦ 25 ♦

le più profonde questioni. È un vero piacere seguire i moti sempre più rapidi del suo cuore e del suo spirito, che vibrano sempre all’unisono. Ultimamente, tornando con lei da Connewitz (tutti i giorni facciamo da due a tre ore di camminata), la sentivo ripetere: — Come sono felice, felice! — Chi potrebbe ascoltar ciò senza gran gioia? » (28 giugno 1833). « ...Vi scrivo., sopratutto per rivolgervi una preghiera che desidero vedere da voi esaudita. Siccome non esiste tra noi due una catena calamitata, ho preso una simpatica risoluzione: domani sera alle undici precise suonerò 1’"adagio” delle Variazioni dello Chopin e pen­ serò a voi molto affettuosamente, esclusivamente. La mia preghiera sarebbe che da parte vòstra faceste la medesima cosa, per poterci raggiungere in spirito » (13 luglio 1833). Clara dedica a Roberto un suo Improvviso: egli, la ringrazia commosso: « Se mi foste vicina (anche senza l’autorizzazione di vostro padre), vi stringerei la mano e vi esprimerei la speranza che in avvenire i nostri nomi possano trovarsi riuniti sul titolo di un’opera racchiu­ dente le nostre vedute e le nostre idee » (2 agosto 1833). « Se si potesse fare e dire quello che si desidera, i sacchi di lettere che avreste potuto ricevere da me sa­ rebbero appena bastati: quando penso veramente, ve­ ramente a voi, volo verso il mio pianoforte e vi scrivo più volentieri in accordi di nona... Scrivo in fretta tra una quantità di occupazioni. Addio (ilarissima cara, cara (ilarissima» (io luglio 1834). «Tra le feste del­ l’autunno e le gioie che mi apporta un cielo radioso, mi appare sempre una testa d’angelo che somiglia, come due gocce d’acqua, alla ben nota testa di Clara» (28 ago­ ♦ 26 ♦

sto 1835). li suo giornale intimo, nel novembre di queir anno, nota la gioia del « primo bacio sulla scala della casa del Wieck »; il 6 dicembre: « Unione. Tron-’ cato con Ernestina ». La prima lettera d'amore a noi nota, di Roberto a Clara, è del 13 febbraio 1836, ed è datata da Zwickau, la città natia dello Schumann, là accorso per la morte della madre, che adorava: « ...la tua radiosa immagine si libra su queste tenebre e mi aiuta a sopportare le mie pene!... Forse tuo padre non ritirerà la sua mano quando gli chiederò la sua benedizione... Confido nel nostro buon genio. Siamo segnati dal destino per essere l’uno dell'altra: lo sapevo già da tempo, ma non avevo mai avuto bastante ardimento per dirtelo prima, ed essere da te prima compreso... Scrivimi spesso, tutti i giorni! ». Roberto il 13 agosto 1837 chiedeva a Giara un sem­ plice sì alla sua domanda se avrebbe accettato di con­ segnare una sua lettera al padre il 13 settembre, com­ pleanno della fanciulla, nella speranza di non essere re­ spinto. E Clara gli rispondeva: « Non mi domandate che un semplice si? Come un cuore così pieno, qual'è il mio, di un amore inesprimibile, potrebbe non pro­ nunziare una così breve parola? — così importante però! Dal più profondo dell’anima mia, lo faccio, lo dico e con tutto l'essere mio ve lo mormoro per sempre! ». Ma il padre si opponeva e per gran tempo si oppose alle nozze: e i due giovani, sicuri e saldi, perseverarono, finché vinsero la resistenza paterna e il loro sogno di­ venne realtà. Intanto l'arte sosteneva e animava il loro pensiero, il loro amore: e in quel periodo lo Schumann compose le più nobili e significative sue pagine: il suo ♦ 27 ♦

stile si formò e assunse potenza magnifica: ogni sua pagina ha stupendo calore espressivo, perchè il cuore e Fanima dell'artista vibrano nella inspirazione e nella forma. Scriveva a Giara il 22 dicembre 1837: « Vieuxtemps mi ha parlato del Carnovale, che ti ha sentito suonare: il mio cuore se n'è tutto rallegrato. Nulla dei miei sen­ timenti può leggersi apertamente in queste pagine: ma in due dei Pezzi fantastici, nella Notte, nel Tumulto di un sogno, che presto si pubblicheranno, è a te che ho pen­ sato. Sono così abbandonato, così isolato nella mia via, che devo spesso fare appello a te, che mi comprendi sempre con sì affettuosa facilità ». E il 5 gennaio 1838: « Le Danze dei compagni di David (la vivace schiera dei compagni d'arte dello Schumann) e i Pezzi fantastici saranno compiuti fra dieci giorni. Nelle Danze vi sono molti motivi che fanno pensare al matrimonio: sono nati nei più bei momenti di animazione di cui abbia ricordo ». E nel marzo del 1838: « Mentre attendevo la tua lettera, ho riempito un volume di composizioni sor­ prendenti, folli, quasi solenni. Spalancherai tanto di occhi quando le sonerai... È forse l'eco delle parole che un giorno mi dicesti: “Tu mi fai talvolta l'effetto di un fanciullo"?... Ho scritto una trentina di brevi pez­ zetti, dei quali una dozzina circa ho riunito col titolo Scenette infantili. Ti divertiranno, sebbene, come pia­ nista, non possano interessarti molto... Sapessi il valore che annetto alle tue osservazioni su ogni cosa: a qual punto — quando la mia arte non procede a modo mio — le tue lettere mi rasserenano!... Hai completamente ragione riguardo all'ultima parte della Sonata... l'ho interamente rimaneggiata... Ho ripreso e terminato ♦ 28 ♦

una Fantasia in tre parti, che avevo abbozzato nel giugno del 1836. Il primo pezzo è certamente quello che ho scritto di più appassionato: è il mio profondo lamento che si slancia verso di te!... La Sonata in fa diesis min, non è che un grido del mio cuore verso di te. Il tuo tema vi appare sotto tutte le forme possibili. Le Danze dei compagni di David... sono ben altra cosa che il Carnovale, e si dissimulano dietro di lui come i volti sotto la maschera... Quel che so, è che esse sono state create nella gioia, mentre altre delle mie composi­ zioni sono spesso uscite dal dolore e dai tormenti ». Il 13 aprile: « ...ho terminato tutto il fascicolo di nuove composizioni che intitolerò Kreisleriana, in cui tu e il ricordo di te avete la parte principale... e riderai di cuore quando ti ci ritroverai. Ora la musica mi viene da sè, senza fatica, circondata di semplicità e producendo la stessa impressione su coloro cui la faccio sentire... avremo una vita piena di poesia e di fiori: soneremo, comporremo nel medesimo tempo, come angeli, per il più gran godimento dell’umanità ». Il 3 dicembre: « La musica ribolle in me talmente che avrei bisogno di poterla esprimere, ma — quando mi par­ rebbe necessario — non posso che balbettarla, con que­ sto disgraziato dito inerte (1). È una cosa terribile che mi ha già procurato grandi afflizioni. Ma non ho in te la mia destra?... ». Il 15 gennaio 1839: « Sei una donna (1) Come è noto, Roberto Schumann, quando intendeva acquistare grande virtuosismo come pianista, ebbe l’infelice idea di volere esercitare separatamente le dita sul pianoforte; cominciò con immobilizzare, legandolo, il terzo dito della mano destra, esercitandosi conle altre dita: quello legato finì con para­ lizzarsi, e per qualche tempo tutta la mano rimase intorpidita.

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straordinaria... Come la vista di un tale valore in colei che ama/conforta il morale di un uomo! Questi ultimi giorni ho lavorato più che non avevo fatto da settimane. Gome nell’agosto del 1837, quando ci siamo legati l’uno all’altra, la musica sgorga spontanea: tutto quel che s’intraprende, riesce. Clara mia, sei tu che mi comunichi questa forza; è cosi che una eroica fanciulla può trasfor­ mare il suo fidanzato in una sorta di eroe ». Il 22 giu­ gno 1839: « In questo momento non riesco a comporre... Ma ho te, e tu udrai spesso qualche mia cosa nuova. So che mi stimolerai: sarò tanto felice di sentirti sonare le mie composizioni! Pubblicheremo anche tante cose sotto i nostri due nomi uniti. La posterità ci considererà come aventi un sol cuore e un’anima sola e non distinguerà quel che è tuo da quel che è mio ». Il io luglio: « Dalla tua romanza ho appreso qualche cosa di nuovo: che saremo marito e moglie! Ciascuno dei tuoi pensieri esce dall’anima mia, e sei tu che inspiri tutta la mia musica ». Il 12: « Meraviglioso! Quando hai scritto il pezzo in sol minore? In marzo ho avuto un pensiero simile che si trova nelle Umoresche. Le nostre simpatie sono così stupefacenti!... ». Scriveva a Enrico Dorn il 5 settembre 1839: « Si può certamente trovare nella mia musica la traccia della lotta che ho sostenuto per Giara e sono sicuro che lo comprenderete. Il Concerto, le Sonate, le Danze dei Compagni di David, i Kreisleriana e le Novellette sono quasi interamente inspirati da lei ». La musica doveva festeggiare un loro incontro, che avrebbe dovuto aver luogo nell’aprile del 1840: « Fra quattro settimane (scriveva il 20 marzo), se Dio lo per­ mette, sarò presso di te, fanciulla adorata — sarai con♦ 30

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tenta, felice di riposar sul mio cuore, vero? — Garetta, non vorresti preparare in segreto un piccolo concerto per il tuo fidanzato? Vorrei tanto udire la Sonata in si bemolle maggiore, ma tutta intera; poi uno dei miei Canti, che sonerai e canterai per me; poi un nuovo Scherzo tuo e, per finire, la Fuga in do diesis minore di Bach... ». Il 15 maggio: « Ho ricominciato a lavorare immensa­ mente; sgorga spontaneo; non posso farne a meno; vorrei cantare fino a morirne, come il rosignuolo: ho scritto dodici Canti', non ci penso più, avendo avviato qualche cosa di nuovo». Il 31 maggio: ((Nell’ultima tua lettera tu parli di un certo punto che vorresti vedermi raggiungere. Non aspettarti troppo da me: io non sogno nulla di meglio che un pianoforte e te presso di me ». Il 12 settembre 1840, Gara scriveva nel suo gior­ nale: « Che cosa posso dire di questo giorno?... Alle io il matrimonio è stato celebrato... Tutto l’essere mio traboccava di riconoscenza verso Colui che, fra tanti scogli, ci ha guidati l’uno verso l’altra. La mia ardente preghiera gli ha chiesto di conservarmi il mio Roberto per lunghi, lunghi anni! ...È stata una bella giornata: lo stesso sole, che da più giorni si era nascosto, apparve la mattina per condurci alla cerimonia: spandeva su di noi i suoi dolci raggi, come se avesse voluto benedire la nostra unione. Nulla ci ha turbato in questa giornata, che inscrivo in questo libro come la più bella e la più importante della mia vita ». Meno di sedici anni di vita coniugale furono con­ cessi allo Schumann: periodo breve, ma tutto pieno di attività artistica feconda, di amore profondo ed eletto, di gioia serena, a fianco della sua inspiratrice ed inter­ prete mirabile; di quella Clara che 1 quarantanni in ♦ 31 ♦

cui gli sopravvisse impiegò per diffondere e fare apprez­ zare Parte del musicista insigne; e una stessa tomba li accolse entrambi. E se nell’ultimo periodo l’intelligenza dello Schumann fu distrutta da quella follia che gli era apparsa minacciosa nella prima gioventù, e in seguito aveva talvolta gettato ombre paurose sul suo genio, l’affetto sano e nobile di Clara valse a fare argine per più anni alle insidie del morbo, a tener desta la forza creatrice della fantasia del suo Roberto. In quei sedici anni infatti lo Schumann produsse con una inesauribile felice fecondità una meravigliosa serie di opere, tra le quali le più ampie e forti sue concezioni; nel 1840 era giunto all’opera 37: negli anni successivi giunse alla 148, oltre alcune (fra cui le scene del Faust} non numerate. Del periodo coniugale, basti ricordare le quattro Sinfonie ed una « Suite » per orchestra; i Con­ certi per pianoforte e orchestra, per violoncello e or­ chestra; la Fantasia per violino e orchestra; le «Ouvertures » per La Fidanzata di Messina, « di festa », per Giulio Cesare, Arminio e D orotea; l’opera Genoveffa; la musica per il Manfredo del Byron; Il Paradiso e la Peri; Il Pellegrinaggio della Rosa; tre Quartetti per stru­ menti ad arco; il Quintetto, il Quartetto, tre Trii col pianoforte; due Sonate per pianoforte e violino; ed una quantità enorme di minori composizioni (minori per mole, non per alto valore artistico) per pianoforte e altri strumenti; per canto. Nei Lieder, nelle Canzoni, prorompe ardente, fiam­ mante l’amore del musicista-poeta per la sua donna; nelle raccolte Vita e amore di donna, Amor di poeta, I mirti, nei dodici canti della Primavera d'amore, di Roberto e Clara, l’amore assume espressioni superbe; ♦ 32 ♦

basti accennare all’indimenticabile inno trionfale: « Essa è mia! ». A Clara Wieck-Schumann l’arte dei suoni deve eterna, ammiratrice riconoscenza; sopratutto per aver tenuto viva, forte, pura, la fantasia dell’artista cui fu unita, anche nella lotta tremenda contro la follia che la insidiava; ed anche per il suo instancabile apostolato, nella cura posta per la pubblicazione completa, con­ forme al pensiero dell’autore, delle opère dello Schu­ mann; nel rivelare, con la sua valentia di grande pia­ nista, le opere di lui, che il pubblico da prima non com­ prendeva e non gustava, e man mano divennero popo­ lari. Noi, che abbiamo di recente gustato la squisitezza elegante, la fantasia geniale del Carnovale, le cui pa­ gine hanno potuto lumeggiare con stupenda finezza la evocazione plastica offerta dai danzatori russi, non possiamo a meno di rimanere stupiti di fronte al giu­ dizio di uno dei più celebrati critici musicali del secolo scorso, Paolo Scudo, nel render conto di un concerto dato a Parigi nella sala Erard, nel 1862, da Clara Schu­ mann, che esegui appunto il Carnovale: « Sarebbe dif­ ficile immaginare qualche cosa di più fantastico e meno musicale di questa triste buffonata d’uno spirito malato, che dura più di mezz’ora, e nella quale l’orecchio smar­ rito non può cogliere nè un ritmo nè un’idea rilevante. È il sogno torbido di una immaginazione febbrile, che non ha più coscienza del legame delle idee... La Signora Clara Schumann può essere certa che il suo bel talento di esecuzione, che brilla sopratutto per il vigore e la precisione, a spese della grazia femminile, di cui essa è completamente sprovvista, è stato apprezzatissimo a

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Parigi; ma la musica di suo marito, che ha tentato im­ porci, non ha potuto vincere l'indifferenza del pubblico e la disapprovazione degli uomini di gusto, che non si lasciano stordire da vuoti vaneggiamenti ». Ho avuto la fortuna di udire Maria Wieck, sorella di Clara, cresciuta alla stessa scuola; coloro che ave­ vano conosciuto la Signora Schumann, affermavano che aveva identico gusto estetico: era una pianista squi­ sita, elegante, espressiva, se pure l’età alquanto avan­ zata avesse potuto attenuare qualche sua dote: era proprio « la grazia femminile », quella grazia che lo Scudo negava così recisamente a Clara, che costituiva uno dei più eletti ornamenti dell’arte pianistica di Maria Wieck. Nè, per nostra soddisfazione, possiamo dimenticare che nel 1868 Filippo Filippi, chiamato a Firenze per parlare di Roberto Schumann alla Società del quar­ tetto, poteva dichiarare che non veniva a rivelare il grande musicista, perchè l’arte di lui era già da tempo giustamente apprezzata da quel pubblico eletto e in­ telligente; e a Roma, già da tempo, per l'azione instan­ cabile e convinta di un Ramacciotti, di uno Sgambati, di un Pinelli, e dei loro giovani compagni d’arte, era ben nota, studiata, eseguita, gustata, applaudita la musica di Roberto Schumann, quella musica riboccante di passione viva, perchè tutta impregnata d’amore.

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FEDERICO CHOPIN Il conte Wodzinski, parente di quella Maria che fu per breve tempo fidanzata di Federico Ghopin, pub­ blicò, anni fa, un volume intitolato Les trois romans de Frédéric Chopin (Paris, Calmann-Lévy, 18862), in cui è tracciata una specie di biografia amorosa del grande musicista polacco. Ai tre romanzi segnalati dal Wodzinski se ne potrebbe aggiungere un quarto, svoltosi nel 1826, mentre lo Chopin compiva a Varsavia Tultimo corso degli studi liceali, con una graziosa signorina, di cui si ignora il nome. Fu però breve romanzo, non profondo, e che non segnò tracce visibili nel cuore e nell’anima del musi­ cista; il quale, elegante e delicato, vivace e giocondo come uomo, sentimentale, espressivo e brillante come artista, destava di frequente interessamento e simpatia nella società muliebre che frequentava. In verità il primo sentimento che vibrò nel cuore dello Ghopin fu destato nel 1830, a Varsavia, da una giovane allieva di canto di quel Conservatorio, Co­ stanza Gladkowska; ne era stato colpito ad un saggio degli alunni del Conservatorio: passione subitanea, ♦ 35 ♦

violenta: che gli inspirò l’« Adagio » del suo Concerto in fa minore, e il Valzer n. 3 dell’op. 70; ma che non durò molto e passò; sebbene lasciasse nelFanimo di lui dolce ricordo per tutta la vita. Più sentito l’affetto che lo legò a Maria Wodzinski, da lui riveduta a Carlsbad (era stato assiduo della fa­ miglia a Dresda, anni prima) ed a Marienbad nel 1836. I due giovani si amarono. Tornò la famiglia a Dresda, terminata la cura dei bagni, e con i Wodzinski andò lo Chopin, che allora fu conosciuto e ammirato da Ro­ berto Schumann: e lasciò quella città, fidanzato di Maria. Ma il romanzo s’interruppe: sembra che il padre della fanciulla, preoccupato della cagionevole salute di Federico, non intendesse consentire alle nozze: le lettere divennero più fredde, tanto che in breve tempo lo Chopin comprese che non avrebbe neppure questa volta visto il suo sogno farsi realtà: le lettere di Maria furono legate in un pacchetto, e sopra Federico vi scrisse: Moja biéda, « la mia disgrazia ». Se il primo amore dello Chopin gli suggerì l’« Adagio » del Concerto in fa minore, quello per Maria Wodzinski gli dettò il Notiti,rno in do diesis minore (op. 27, n. 1), che par quasi voglia profilare la linea del sentimento da lui provato per la giovinetta: sorto mentre il suo cuore cercava un cuore di donna che rispondesse al suo palpito; giunto alla gioia dell’amore ricambiato; chiuso poi rimpiombando il musicista nell’ afflizione, nell’incertezza. Sul fluttuante disegno del basso, sorge, come da un abisso tenebroso, una melodia anelante che si ripete finché, dopo un appassionato « crescendo », giunge ad uno scatto vivace: un nuovo « crescendo » conduce ad un motivo brillante e cavalleresco, che, ♦ 36 ♦

dopo una vigorosa cadenza ad ottave nel basso, cede il passo al primo doloroso episodio. Segue, nella stessa op. 27, un secondo Notturno, in re bemolle maggiore, nel quale, sopra un arpeggio lento e tranquillo si eleva un cantico amoroso di grande bellezza, che si svolge adornandosi con grazia squisita. Si afferma altresì che lo Chopin definisse il suo secondo Studio, in fa min. (dolcemente mormorante) il « ritratto ideale di Maria ». D’altra parte si narra che una volta Maria gli presentò un Album, pregandolo di scrivervi un pen­ siero, della musica: ma egli lì per lì non trovò nulla, e tenne l’Album, promettendo di comporre poi qualche cosa. ❖ ❖ * L’artista si sente solo: tanto solo, sofferente, debole, subisce rinflusso del mal tempo: il 6 ottobre del 1837 scriveva queste parole: « Pioggia, soltanto pioggia per tutta una giornata. Nessuno viene da me. Nulla ravviva l’anima mia, nulla interrompe il monotono trapp, trapp, trapp dei battiti del mio cuore. Solo il garzone del giardiniere è venuto a portarmi delle violette, dei grossi mazzi di violette inglesi: violette di Rebecca Stirling (1). Cielo! che donna! Mi pare di somigliarle quando mi vedo in uno specchio: ma è nel pensarla che le somi(1) Era Jane Stirling, la scolara devota e adorante, che de­ dicò allo Chopin le cure più delicate, con squisita nobiltà d'ani­ mo e di procedimenti: ma per lui non rappresentava l'ideale femminile che egli sognava, e talvolta le premure di lei lo irri­ tavano. Disse una volta al suo allievo Gutmann: «La gente pensa ad un matrimonio tra me e Jane Stirling: possono pure ammogliarmi con la morte».

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glio. Il gran naso d’aquila, lo sguardo astuto, e la gran bocca: oh, quella bocca! Il suo sorriso mi fa im­ pazzire. Oh, Rebecca! perchè perseguitarmi così giorno e notte con le tue violette e la tua adorazione: e col tuo naso? Le donne debbono sedurre con la loro distin­ zione; il lampo così dolce dei loro occhi deve agitarmi come fiamma ardente!!! Lo sguardo di Costanza? Co­ stanza? (i) No, svanita, dissolta, come la luna che cam­ bia. Trapp, trapp. Ma non finirà mai! Se potessi so­ nando scacciare il dolore: mi rode il cuore! Eppure la vita è fatta per il godimento e per l’amore. L’amore, dolce come il sogno, dolce come la musica, triste e dolce e gioioso amore! Ah, se non fossi così stanco di tutto! La pendola unisce i suoi battiti a quelli del mio cuore. Uno, due, tre, nove, dieci. E come scorre lenta la notte ! Non voglio sopportare più a lungo questo peso. Voglio riposarmi, riposarmi presso un cuore di donna ». Trovò ben presto questo cuore: « ...calpestavo il tappeto della scalinata che conduce al salone della contessa Laura Czosnowska — scrive il io ottobre 1837. — La mia anima era lieve! Un’ombra traversò la mia via... L’ho poi riveduta tre volte. Mi pare non sia trascorso che un giorno da allora. Mi guardava pro­ fondamente negli occhi mentre sonavo. ...Occhi scuri, occhi singolari. Che cosa dicevano? Si appoggiava siti pianoforte e i suoi sguardi brucianti mi penetravano. L’anima mia aveva trovato il porto. I suoi occhi sin­ golari sorridevano... Il volto era maschile, i lineamenti larghi, quasi grossolani, ma quegli occhi tristi e singolari! Io ne languivo, e nondimeno mi ritirai impacciato. Essa (1) Costanza Gladkowska, il suo primo amore.

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si allontanò. Più tardi parlammo di cose generiche. Liszt, avendomi visto seduto tutto solo, la condusse a me. Fiori intorno a noi. Il mio cuore era preso. Essa lodò il mio mo­ do di sonare; mi comprendeva. Ma quel brutto viso, se­ vero e triste! L'ho poi riveduta due volte, nella sua sala, circondata dall’alta aristocrazia francese, poi una volta, sola. Essa mi ama. Aurora, che nome incantevole! La notte si dilegua » (i). Era Aurora Dudevant, la celeberrima scrittrice nota come Giorgio Sand: l’impressione completa rice­ vuta dallo Chopin nel primo incontro è confermata da una espressione sua in una lettera alla famiglia: « Ho conosciuto una grande celebrità, la signora Du­ devant, nota col nome di Giorgio Sand: ma il suo volto non mi è simpatico e non mi è piaciuto affatto: v’è inoltre in lei qualche cosa che mi inspira avversione ». Ferdinando Hiller scriveva a Franz Liszt: « Una sera riunisti in casa tua il fior fiore della letteratura francese. Naturalmente, Giorgio Sand non poteva mancare. Tornando a casa Ghopin mi disse: — Che donna anti­ patica quella Sand! Ma è proprio una donna? Quasi ne dubito... ». Però, non ostante la differenza grande fra i due, per temperamento, gusti, abitudini, un forte legame li unì ben presto. Preoccupata per le condizioni di salute del figlio Maurizio, allora quindicenne, la Sand stabilì di passare l’inverno in un clima caldo; propose allo Chopin, (i) Non lio, a dire il vero, gran fede nella autenticità di questo Diario, di recente scoperto e pubblicato nel Guide mu­ sical del 15 settembre 1907: ad ogni modo contiene elementi che trovano rispondenza in documenti sicuri.

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sempre sofferente, di andar con loro a Majorca nelle isole Baleari: e Federico fu ben lieto di accompagnarsi con ia Sand. « Dobbiamo partire per il Mezzogiorno — scriveva nel suo diario il 5 novembre 1838. — Sento strani dolori nel petto, una tosse mi soffoca, senza tregua; forse il Mezzogiorno mi farà guarire. Essa mi cura giorno e notte. Il suo dolce alito mi rinfresca. Il volto triste di mia madre mi apparisce nei sogni. Non sognerò più quando il sole meridionale mi riscal­ derà ». L’arrivo a Palma di Majorca fu lietissimo: tempo splendido, natura tropicale. Ma l'alloggio, impossibile, indusse la comitiva ad installarsi in una parte di un antico monastero, a Valdemosa, non molto distante da Palma. Il 28 decembre Federico scriveva all’amico Fontana: « Fra gli scogli e il mare, in una grande Cer­ tosa abbandonata, in una cella le cui porte sono più grandi dei portoni carrozzabili di Parigi, tu mi vedi, senza guanti bianchi, i capelli non arricciati, pallido come sempre. La mia cella ha la forma di una bara di alta dimensione, le volte coperte di polvere;.la finestra piccola dà su aranci, palmizi e cipressi. Di fronte alla finestra, sotto un rosone frastagliato di stile moresco, è il mio letto. Accanto, un tavolino per scrivere, vec­ chio, quadrato, e, sopra, un candeliere di piombo — è un gran lusso — con una candela di sego. Le opere di Bach, i miei manoscritti, le mie note e qualche altro scartafaccio, ecco tutto quel che posseggo ». Ma sei settimane di mal tempo, di forti piogge e grande umidità, non riuscirono davvero utili alla salute dello Chopin; il suo sistema nervoso ne fu pro­ fondamente scosso: tutto lo agitava e turbava: aveva ♦ 40 ♦

vere allucinazioni, che lo ossessionavano. Narra la Sand vari episodi caratteristici: una volta lo Chopin si sentiva affogato in un lago, e gocce d'acqua pesanti e gelide gli cadevano lentamente sul petto; e questa sensazione avrebbe meravigliosamente riprodotto improvvisando il Preludio in re bemolle maggiore, in cui si sentono appunto le gocce della pioggia. Ma — è un peccato! — la storia non è vera nei riguardi del Preludio, che è composizione anteriore al soggiorno a Majorca. A Valdemosa lo Chopin avrebbe composto la Polacca in do minore (op. 40, n. 2) e il terzo Scherzo (op. 39), composizioni impregnate entrambe di profonda tri­ stezza. * ❖ ❖ Il legame che strinse per alcuni anni Federico Cho­ pin e Giorgio Sand è stato oggetto di studi e ricerche, la cui intonazione non sempre risponde a quella obiet­ tività che è desiderabile nella indagine biografica ri­ guardante chi ha nella storia un significato, un valore attivo; si è visto sopratutto in questo legame una in­ fluenza nefasta sull’arte del celebrato musicista polacco, che ne sarebbe stata addirittura soffocata. Mi par giusto esaminare un po’ da vicino, alla luce di documenti sicuri, questo importante episodio, per ben misurarne il valore e la portata. « La signora Sand (sono parole di Francesco Liszt riferite da Janka Wohl) invischiava una farfalla e la addomesticava nella sua scatola, dandole erbe e fiori — era il periodo dell’amore. Poi la infilava con uno spillo e quella si dibatteva — era il congedo, che veniva sempre da parte di lei. Finalmente ne faceva la vivi­

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sezione e la imbalsamava per la sua collezione di eroi da romanzo ». È vero: gli amori della forte scrittrice presentano la parabola felicemente e un po' malignamente dise­ gnata dal Liszt col suo allegorico linguaggio: non solo, ma per tutti essa adotta, nel secondo periodo, quel caratteristico atteggiamento materno, « qualificazione impagabile (aggiunge il Liszt) inventata per segnalare il suo désenchantement ». Di tali amori il più noto e il più appassionatamente discusso, fin da quando gli eroi erano ancora vivi, fu quello della Sand col de Musset: e allorché, non molti anni or sono, fu ripescato e messo alla berlina quel povero dottor Pagello, che già era stato conciato pei* le feste da Paolo de Musset nel suo libro Lui et elle, un nuovo diluvio di scritti inondò riviste e giornali per illustrare più o meno acutamente e sinceramente il clamoroso episodio. Vi fu allora chi, per dar maggior luce al quadro doloroso, fece parola anche di altri amori della celebrata scrittrice: Giulio Sandeau, del cui co­ gnome erasi essa appropriata più che la metà, e Fe­ derico Chopin, furono le figure con maggior frequenza rievocate. Un italiano, Federico de Roberto, deve es­ sere ricordato come quegli che, analizzando gli amori della Sand non soltanto col de Musset, ma anche con lo squisito musicista polacco, seppe dare al secondo episodio rilievo e vita non minori che al primo (i). Dopo quella pubblicazione, nuovi documenti sono venuti alla luce, tra cui molta parte deirinterminabile (i) F. De Roberto, Una pagina di storia dell’ amore, Milano, 1898.

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epistolario di Francesco Liszt e, soprattutto, la preziosa raccolta di Ricordi inediti di Federico Chopin, pubbli­ cati e annotati dà Mieczyslaw Karlowicz (r); ed è note­ vole rilevare come siano state confermate le induzioni dello psicologo italiano, il quale aveva basato il suo studio quasi esclusivamente sui pochi dati fornitigli da una parte interessata, e desunti dalla poetica auto­ biografia della Sand, che il Ponmartin sarcasticamente, e non senza ragione, chiamava Mémoires d’avant berceau (contrapposto ingegnoso alle Memorie d’oltre tomba dello Chateaubriand), e da quel romanzo, Lucre­ zia Floriani, che per l'episodio Chopin ha la stessa importanza che ha Elle et lui per l’episodio de Musset. * * *

La Sand nella Histoire de ma vie parla dello Chopin come di un amico al quale era grandemente affezionata, quasi per far credere che il loro legame non avesse avuto quella forza che il solo amore può dare: è am­ missibile in lei la persuasione che il pubblico ignorasse la vera natura delle sue relazioni col maestro? Il buon senso e la logica avevano già risposto negativamente: i documenti hanno confermato tale risposta. Notevoli le espressioni affettuose che hanno per la Sand tutti i membri della famiglia Chopin; il padre stesso del grande musicista, uomo in cui la rettitudine più assoluta impera, e giunge all’austerità, non può fare a meno di lasciar comprendere che, sotto alcuni aspetti, ha piacere che il figlio non sia lontano da colei che (i) Edizione polacca: Varsavia, J. Fiszer, 1904: traduzione francese di L. Disière. Paris, H. Welter, 1904.

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nella famiglia Chopin è chiamata Vangelo custode di Federico. La sorella Luisa si indispettisce perchè nel rendiconto di un concerto di Federico la France mu­ sicale aveva descritto la impressione destata dall’en­ trata della Sand accompagnata dalle due affascinanti figliuole, mentre non ne aveva che una, Solange; l’altra probabilmente era la nipote, Agostina Brault, di cui parleremo in seguito. « Non è permesso — scrive Luisa — che a Parigi si ignori quante figlie ha Giorgio Sand! ». Il cognato Antonio Barcinski, marito dell’altra sorella, Isabella, dopo aver narrato minutamente a Federico gli ultimi momenti del padre (1844), cerca di confortarlo e gli raccomanda di aver cura di sè. Isabella si unisce al marito e scrive al fratello: « Esprimi tutta la nostra riconoscenza alla tua protettrice per le cure così tenere di cui ti circonda e per il cuore che ha avuto per noi ». Ci tenevano, quei cuori eccellenti, al­ l’amicizia dell’angelo celebre per il loro adorato Fede­ rico; anche la tenera madre dello Chopin presenta i suoi rispetti alla signora Sand. La sorella Luisa col marito, Giuseppe Calasanzio Jedrzejewicz, si recarono in Francia nel 1844 e per qualche settimana furono ospiti della Sand a Nohant: la presenza dell’angelica sorella, la quale aveva affron­ tato il faticoso viaggio ansiosa per la salute di Federico, cui aveva recato un fiero colpo la morte del padre, fu di gran giovamento al fratello. Allorché da Nohant Luisa torna a Parigi per ripar­ tire alla volta di Varsavia, una lettera della Sand, riboccante di affetto, la segue: «Ricordatevi che vi amo con tutta l’anima, che vi comprendo bene, che vi metto nel mio cuore a lato di Federico: è tutto dire,..».

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Subito dòpo, un'altra lettera della Sand e di Federico (18 settembre 1844) raggiungeva Luisa in Polonia. Èssa ben comprendeva e giustamente apprezzava la squisitezza dei sentimenti di Luisa Chopin, e Fede­ rico ne era felice. Ad una lettera di lui del i° otto­ bre 1845, la Sand aggiunge: «Buongiorno, mia diletta: vi amiamo, vi baciamo teneramente; siate benedetta dal buon Dio, sempre »; e lo Chopin a rilevarlo con un secondo poscritto: « È tanto buona, tanto buona per tutti! ». Più importanti assai le notizie che possiamo racco­ gliere circa le vere cause della rottura delle relazioni tra i due, e che, secondo la Sand, possono riassumersi in cinque categorie: carattere difficile dello Chopin ; dispiacere da lui provato ritenendosi posto in scena in modo per lui offensivo nel romanzo della Sand, Lucrezia Floriani; gelosia per parte di entrambi; dissensi tra lo Chopin e i figli della Sand e sopratutto con Mau­ rizio; stato di salute del musicista, che la Sand non può più assistere. Vediamo ora come stanno le cose. Il carattere dello Chopin era in fondo assai allegro e piacevole; le sue straordinarie attitudini per la carica­ tura e la velocità con cui sapeva trasformare il suo aspetto esterno, da tutti concordemente affermata; la predilezione per gli aneddotti curiosi, gli scherzi, i calembours., per cui le sue lettere ricordano così da vicino quelle del Mozart; la squisitezza dei suoi senti­ menti, la bontà del cuore che si rivelano costantemente nelle sue lettere, le quali sono di una indiscutibile since­ rità; tutto ciò dimostra che era degno figlio e fratello

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delle eccellenti anime che i Ricordi ci fanno conóscere e amare. Deve quindi respingersi come non rispondente al vero la fosca pittura che ha fatto il Liszt del carattere intimo dello Chopin, il quale ci appare addirittura un ipocrita, un falso amico, nel libro fosforescente dedicato dal musicista ungherese al musicista polacco. Bisogna però riconoscere che se è da escludersi per parte dello Chopin la falsità che risulterebbe da quelle pagine, non sarebbe giusto, d'altra parte, negare che le sofferenze fisiche e morali dovessero avere influenza gravissima sulla sua squisita sensibilitària Sand, scri­ vendo a Luisa dopo la visita già ricordata, e sotto gli occhi dello stesso Chopin, ricorda come « la buona e santa risoluzione » di venire a vedere il fratello avesse portato i suoi frutti: « ha tolto via tutta l’amarezza del suo animo e l’ha reso forte e coraggioso ». Ciò signi­ fica che la morte del padre lo aveva reso di umore nero in modo sensibile. Lo stesso Federico, in una lettera dell’ottobre del 1846, da Nohant, scrive di non aver preso parte alle numerose gite della estate allora scorsa perchè lo avreb­ bero stancato troppo; e aggiunge: « Quando sono stanco non sono allegro; ciò influisce sull’umore degli altri e i giovani non hanno nessun piacere a stare con me ». D’altronde non si deve dimenticare che i gusti aristocraticamente raffinati dello Chopin dovevano spesso trovarsi in contrasto con le tendenze democra­ tiche della Sand, e con le abitudini non troppo signo­ rili dei numerosi amici artisti che la frequentavano e, sopratutto a Nohant, si comportavano come meglio credevano, senza troppi complimenti.

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Óve si pensi alla infermità che minava il musicista e che negli ultimi anni faceva sì che la stanchezza fosse per lui uno stato normale, è ben probabile che la sua compagnia continua divenisse meno gradevole, principalmente per una donna di un'attività indiavo­ lata come .la Sand. Ma dalla tristezza alla falsità ci corre; e la Sand stessa ha sempre negato di aver voluto adombrare lo Chopin nel suo Karol, in Lucrezia Fioraini, comprendendo che la pittura ivi fatta ne era ecces­ siva, se non calunniosa. Perchè mi pare indiscutibile che Lucrezia Floriani abbia per base l’amore della Sand e dello Chopin, modificato in modo da servire di scusa e magari di glorificazione all’autrice. Sembra però fuor di dubbio che lo Chopin non si sarebbe riconosciuto nel principe Karol. Ma è possi­ bile che egli solo non vedesse quello che tutti gli altri vedevano? È falso quanto afferma la Sand, che egli si indignò quando si convinse di essere stato preso di mira in quel libro? Tra i vari argomenti che valgono a confermare la cecità dello Chopin è da citare una testimonianza degna di fede: Eugenio Delacroix, che fu legato di amicizia col musicista polacco, narrava (e le sue parole sono riportate dalla signora C. Jaubert, nei suoi interessantissimi Souvenirs) che una sera la Sand ebbe l’idea di leggere a entrambi il mano­ scritto della Floriani, ciò che lo fece soffrire forte­ mente; però più che altro era stupefatto per l’atteg­ giamento del carnefice e della vittima; la Sand serena e tranquilla, lo Chopin che ammirava il lavoro. « A mez­ zanotte uscimmo insieme. Lo Chopin volle accompa­ gnarmi ed io colsi l’occasione per indagare le sue impres­ sioni. Recitava forse una parte di fronte a me? No, ♦ 47 ♦

in verità; non aveva compreso, e il musicista seguitò nell’elogio entusiasta del romanzo ». Fra le risposte ad un questionario formulato dal Liszt e diretto alla signora Jedrzejewicz, risposte probabilmente compilate da miss Stirling, e pubbli­ cate nel Ricordi inediti, ecco quanto si legge circa i rapporti dello Chopin con la Sand, il viaggio a Majorca, la fine della relazione tra i due, la verità su Lucrezia Floriani: « La vita intima dello Chopin era per lui un santuario ugualmente intimo; lo Chopin era troppo sobrio di particolari per dar loro posto in una biografia. Cadde gravemente malato nel suo viaggio a Majorca, e da allora le sue forze non poterono più riprendere il loro stato normale. Necessariamente il suo umore, dapprima si gaio, doveva risentirsene ogni giorno di più. Aveva troppa dignità e troppo gusto per ricono­ scersi nelle allusioni del principe eroe del romanzo Lucrezia Floriani, e poneva tanta delicatezza e pro­ bità in tutte le sue relazioni che sarebbe difficilissimo seguirne le pagine intime ». Il viaggio a Majorca è del 1839; la fine della rela­ zione del 1847: otto anni di cattivo umore sono parecchi, e, pur trattandosi del cattivo umore di un grande artista, mi pare si possa ammettere che poteva scap­ pare la pazienza anche a Giobbe: la resistenza della Sand per ciò è forse più da ammirarsi di quello che sia da biasimare la sua violenza per troncare i rapporti con lo Chopin, il quale non voleva saperne di lasciarla. Tanto più che già nel 1840 (lettera del 4 settembre al figlio Maurizio) essa si esprimeva in questa forma: « Ghopin ti manda mille baci. È sempre qui qui qui me mè mè». Ciò che non dimostra fin da allora ecces­ ♦ 48 ♦

sivo sentimentalismo da parte di lei di fronte alle sof­ ferenze del povero Chopin. Ed è anche di quel tempo la sola lettera allo Chopin che si legge nella corrispon­ denza della Sand; lettera fredda e breve, e che chiude con queste parole: « Amate la vostra vecchia come essa vi ama ». Il sentimento della maternità fa già ca­ polino! ❖ * * Eppure la gelosia intervenne in questo legame e non soltanto da parte dello Chopin ma anche, sembra, da parte della Sand: lo Chopin doveva essere geloso del Liszt, passato alla contessa d’ Agoult, dopo aver lasciato la Sand; questa, gelosa della d’Agoult per via dello Chopin e forse anche... per Liszt; questi, sempre olimpico, rassegnato al legame con la d'Agoult, ancora ammiratore della Sand; di cui poi disse molto male... da lontano e privatamente, e molto bene da vicino e in pubblico. Basti ricordare la focosa apostrofe alla bruna Lelia nello studio sullo Chopin (quanto diffe­ rente dalla descrizione laconica fattane dal Merimée, che della Sand non volle sapere: magra come un chiodo, nera, come una talpa!)', e le sue espressioni, alquanto variabili del resto, nelle lettere alla principessa di Wittgenstein ed all’amica Agnese. Ad ogni modo sta di fatto che nel marzo del 1837 la d’Agoult era a Nohant, eia Sand scriveva al Liszt di andarvi anch’esso e di condur seco lo Ghopin; ciò che non si verificò. La Sand medesima ebbe a dichiarare formalmente a Enrico Amie, in occasione di un arti­ colo alquanto fantastico del Rollinat, che il Liszt e lo Ghopin non si trovarono mai insieme a Nohant. Come si sarebbe potuto dare esca a gelosia? 4 49 4

La intesa cordiale con la d’Agoult, cui la Sand dichiara che da lei accetterebbe tutto... tout, except é un amant (caratteristica restrizione!), durò ancora, ma per poco; dopo una lettera del marzo 1838, non se ne incontrano altre, fino ad una del giugno del 1862, in cui la Sand ringrazia la d’ Agoult che le aveva scritto qualche complimento; e soggiunge: « Quando ci si è amati francamente, credo che ci si ami sempre anche durante il tempo in cui si crede di esserci dimen­ ticati. Per conto mio, non so più precisamente quello che passò fra noi... ». Ma la lite era stata assai grave, e per essa anche l’amicizia tra lo Chopin e il Liszt aveva sofferto un colpo esiziale: « Le nostre innamorate si erano bistic­ ciate e noi, da buoni cavalieri, eravamo in dovere di prenderne le parti, » disse il Liszt a Federico Niecks, l’accurato biografo dello Chopin che gli aveva chiesto le cause del dissenso tra i due musicisti V'è chi ha creduto vedere in tale contrasto gelosia di autrici tra la Sand e la d’Agoult; per quest’ ultima è possibile, anzi probabile; per la Sand no. Essa, è vero, al primo incontro con la d’Agoult ne aveva avuto una impressione non troppo favorevole, e anche glielo scrisse quando divennero amiche: ma una invidia letteraria nella Sand per chi, pure essendo valentis­ sima, non soltanto non superava lei, ma neppure la uguagliava, non è ammissibile; i suoi numerosi arti­ coli di critica letteraria e le sue recensioni bibliografiche riboccano di espressioni di simpatia verso molti autori, nelle quali spesso rilevasi vera e propria indulgenza. A me pare che la verità possa ricavarsi da un romanzo, tratto dal vero, ma tanto obbiettivo quanto ♦ 50 ♦

soggettivi Lucrezia Floriani, Elle et lui, Lui et elle, Lui, Nelida, Mémoires d’une cosaque, e altri simili; il romanzo in questione è Béatrix ou les amours forcés del Balzac. Il Liszt dichiarava alla Wohl che, avendo sfogliato quel libro, rimase ammirato di fronte alla intuizione del genio del Balzac: « La signora di Rochefide (il perso­ naggio del romanzo in cui è rappresentata la d'Agoult) è un ritratto magistrale, una fotografia cosi minuta che io, mentre ritenevo di conoscere a fondo quella donna, la quale cercava la notorietà come altri la fuggono, rimasi abbagliato, e la compresi meglio dopo la lettura di quel libro ». Il musicista Conti, altro perso­ naggio del romanzo Béatrix, è Francesco Liszt: « Io pretendo di non esservi, egli dichiara, ina la signora d'Agoult non era affatto del mio parere ». La signorina Felicita des Touches, scrittrice fortissima, con lo pseu­ donimo maschile di Camillo Maupin, è senza il menomo dubbio la Sand: fotografata fisicamente, intellettual­ mente, moralmente; Claudio Vignon è il critico Gustavo Planche; il giovane Calisto du Guénic se non è tutto lo Chopin, lo ò in grandissima parte. Beatrice di Roche­ fide, divisa dal marito, convive col Conti, il quale era prima stato legato a Felicita; questa ama Calisto e ne è riamata, ma sacrifica il proprio affetto per gettare il giovane nelle braccia di Beatrice, per cui egli sente amore; una violenta scena tra le due donne innamorate e gelose, l'attrito fra il Conti e Calisto ci rappresentano probabilmente la verità con più esattezza che non le contradittorie e reticenti dichiarazioni degli eroi del romanzo vissuto. Non è forse ammissibile che la Sand, la quale, come abbiamo visto, si firmava la sua vecchia nei primi anni della loro relazione e per cui Tamore

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con l’artista polacco era stato più che altro fonte di dispiaceri e di delusioni, avesse cercato di far compir l’opera alla contessa d’Agoult, dandole dopo il Liszt anche lo Chopin? I nomi dello Chopin é della d’Agoult sono stati più volte riuniti da chi li conobbe, e si affer­ mò esservi stato tra loro un legame più forte dell’ami­ cizia; ma anche per questo probabilmente in Beatrix è la verità; la signora di Rochefìde e Calisto sono ormai prossimi a intendersi tra loro, ma il Conti interviene in tempo e porta via seco Beatrice. $ *

L’attrito fra lo Chopin e i figli della Sand è con­ fermato limitatamente a Maurizio, mentre per là gio­ vane Solange il gentile artista dimostra una predile­ zione che resta sempre invariata. Già in una lettera del 31 ottobre 1844, da Nohant, egli, parlando di Mau­ rizio, dichiara che l’amabilità non era nella natura di esso, e in pari tempo accenna a Solange, che gli fa buona compagnia; in altra lettera narra che essa lo conduceva a spasso nel suo calessino. Egli si indignò addirittura per l’atteggiamento- della Sand nell’epi­ sodio relativo al matrimonio di Solange e alle sue fa­ tali conseguenze. Nel maggio del 1847 Sand scrive alla sua amica Marliani annunziandole le prossime nozze della figlia con lo scultore Clésinger; è una lettera importante assai, in quanto ci rivela molta incertezza nell’animo della madre circa il futuro imeneo: vi è un cenno affet­ tuoso al dignitoso dolore di un giovane vicino di cam­ pagna, il quale, innamorato di Solange, l’avrebbe voluta in moglie; s’intravedono dubbi circa il Clésinger, per ♦ 52 ♦

le non buone informazioni avute dapprima sul conto di lui e che sarebbero poi risultate insussistenti; circa la subitaneità dell’amore divampato fra i due fidan­ zati e la premura per stringere il nodo nuziale ; e di fronte a ciò, una insistenza nel ripetere come essa speri che tutto potrà riuscir bene, rivelante nella Sand il desiderio di convincere se stessa, più che la Marliani, della ragionevolezza di una determinazione che appa­ riva avventata. Nessuno, neppure lo Chopin, sapeva che il matrimonio era stato imposto dalla necessità di evitare uno scàndalo: Solange, per forzare la mano alla madre, si era fatta rapire dal Clésinger, come ha rivelato Samuel Rocheblave nel suo libro George Sand et sa fitte (i). Quel matrimonio aveva staccato la figlia dalla ma­ dre, e aveva separato la Sand dallo Chopin; fino a poco tempo prima essa dimostrava ancora per lui sentimenti affettuosi, e una lettera del 12 maggio 1847 al Gutmann, allievo e fido amico dello Chopin, ce lo dimostra: le espressioni da lei adoperate per ringraziare il buon gio­ vane, che aveva avuto ogni cura per il maestro soffe­ rente, mentre essa non poteva trovarsi al fianco di lui, non possono sgorgare se non da un cuore che ama, e non mi pare possibile possa sospettarsi non sincera la Sand in quella lettera, che non doveva essere comu­ nicata allo Chopin. Mentre con ciò non è ad ogni modo escluso che la Sand trovasse ormai gravoso il legame che da dieci anni la univa al grande musicista, e che il dissenso per il matrimonio della figlia possa fors’anche considerarsi, come scrive il- Karlowicz, la goccia che (1) Paris, Calmann-Lévy, 1905.

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fece traboccare la coppa troppo piena; non credo, d’al­ tra parte, che sia stato addirittura un pretesto per li­ berarsene. Non fu tra i due un dissenso lieve e passeg­ gero, quello originato dal matrimonio di Solange col Clésinger, e le lettere della figlia della Sand, proibite in Francia, mentre confermano quanto già si rileva da quelle dello Ghopin, provano che questi continuò ad essere solidale con Solange fino al1'ultimo. In una lettera alla sorella Luisa, cominciata il giorno di Natale del 1847 e terminata il 6 gennaio 1848, Federico narra che Sol trovavasi in Guascogna, presso il padre; era passata da Nohant accompagnata dagli amici Duvernet, e la madre l'aveva ricevuta fredda­ mente, dicendole che avrebbe potuto tornare colà ove si fosse divisa dal marito. « Ora la madre sembra più irritata contro il genero che contro la figlia, benché nella sua famosa lettera mi abbia scritto che il genero non è cattivò, ed è sua figlia che Io rende tale. C'è da credere che essa siasi voluta sbarazzare ad un tempo della figlia e di me, perchè eravamo incomodi. Essa sarà in corrispondenza con la figlia: cosi il suo cuore materno, che non può star senza notizie della creatura sua, sarà per un momento tranquillizzato e la coscienza di lei soffocata. Penserà di essere giusta e mi procla­ merà suo nemico, perchè ho preso le parti di suo genero, che essa non sopporta, unicamente perchè ha sposato sua figlia; mentre io mi sono opposto a questo matri­ monio quanto ho potuto. ...Essa vorrebbe per sua scusa trovar dei torti in quelli che le vogliono bene, che credono in lei, che non le hanno fatto mai scorte­ sie, e che essa non può sopportare vicino a sè, perchè sono lo specchio della sua coscienza. È per questo che

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non mi ha più scritto una sola parola... Quando più tardi ricorderà il passato, la signora S. non potrà ritro­ vare nel suo animo che un buon ricordo di me... La cara signora S. avrà ancora molte avventure nella sua vita prima d’invecchiare, le capiteranno ancora molte belle cose, e anche delle brutte ». Il povero Chopin fu profeta! In una lettera del febbraio del 1848 leggiamo altri particolari sulle condizioni della famiglia della Sand, tese violentemente: « Essa non mi ha più scritto una sola parola, nè io a lei... nessuno potrà mai seguire da presso un’anima tanto capricciosa. Otto anni di vita regolata era troppo! Dio ha permesso che fossero gli anni in cui i ragazzi crescevano, e se non fossi stato io, non so da quanto tempo sarebbero col padre e non più con essa. Ma siano forse queste le condizioni della sua esistenza, del suo talento di scrittrice, della sua felicità? ...Il tempo è un gran medico: ma fino ad ora non mi sono rimesso. È per questo che non vi scrivo; tutto quello che comincio, do alle fiamme. Scrivere! e perchè? Non è meglio non scrivere affatto? Ma è tanto che non ci siamo visti senza alcuna battaglia, senza scene! E non potevo andar da lei, avendo per condizione di non parlare della figlia... Finalmente la signora S. mantiene almeno una fredda corrispondenza con la figliuola; questo mi fa piacere, perchè qualche legame esiste ancora tra madre e figlia ». Del resto Solange doveva presto pentirsi di avere sposato il suo scultore, da cui fu costretta a dividersi legalmente nel 1853, perchè la maltrattava, la batteva, ed era anche dedito al vino, per quanto sappiamo da miss Stirling. Ad ogni modo è evidente che Tessersi ♦ 55 ♦

Io Chopin risolutamente schierato dalla parte di So­ lange doveva avergli alienato Maurizio, e per conse­ guenza anche la madre non poteva essergli riconoscente Nelle riservate e prudenti risposte al questionario del Liszt troviamo un solo periodetto circa l’allonta­ namento dello Chopin dalla Sand: « Sembrerebbe che il matrimonio della figlia della signora Sand abbia fatto ritenere quel momento abbastanza serio per una madre, perchè la permanenza dello Chopin a Nohant potesse continuare senza gravi inconvenienti ». E ciò in ultima analisi conferma che appunto quel malaugurato matrimonio segnò la fine del legame tra i due artisti.

❖$ ❖ Che il peggiorare della salute dello Chopin abbia contribuito al distacco può anche essere; prescindendo da ogni altra considerazione, non si deve dimenticare che la Sand, fino agli ultimissimi tempi della sua non breve esistenza, lavorò sempre accanitamente, spinta anche, non di rado, dalla necessità di guada­ gnare per i suoi e per sè: le condizioni dello Chopin richiedevano cure continuate, che essa non aveva il tempo di prestargli. Dopo il ritorno da Majorca, che fu per lui terri­ bilmente pericoloso, egli si riebbe alquanto, poi andò progressivamente perdendo forza; il distacco dalla Sand fu un colpo grave anche per la sua salute; una generosa, affettuosissima lettera del De Gustine, che vuol rianimarlo, inducendolo ad accettare di ripo­ sarsi e distrarsi, ce lo conferma. Poco tempo ancora sopportò la vita; poi, con una lettera che ci strazia, chiamò la sua angelica Luisa, la quale una volta ancora

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volò al fianco del fratello adorato: ma questa volta non riuscì a sollevarne lo spirito, a rafforzarne la fibra. Il cuore, più che il petto, era ferito: l’autopsia sembrò confermarlo. Quando la Sand seppe che Luisa Jedrzejewicz era a Parigi, le scrisse: « Da voi avrò finalmente notizie vere di Federico. Gli uni mi scrivono che è malato molto più del solito; gli altri che è soltanto debole e cagionevole, come l’ho veduto sempre. Scrivetemi una parola, oso chiedervelo, perchè si può essere misconosciuti e trascu­ rati dai propri figli senza cessare di amarli. Parlatemi anche di voi, e non crediate che abbia passato un giorno della mia vita senza pensare a voi e senza aver caro il ricordo di voi. Debbono avere sciupato il mio nel vostro cuore: ma io non credo di aver meritato tutto quello che ho sofferto. « Vostra con tutta l’anima mia « George.

« Ricordatemi a vostro marito ». Rispose Luisa? Non lo so: è certo però che la Sand non rivide più lo Chopin dal marzo del 1848 in poi, come scrisse essa medesima, e come è confermato nelle risposte al questionario del Liszt: « La figlia ha pia­ mente assistito alla morte di lui. La madre non era a Parigi. Egli non ne ha parlato nelle sue ultime ore ».

❖❖ * Arsène Houssaye, ne’ suoi Souvenirs de jeunesse (I, XVI), ha descritto con gran dovizia di particolari gli ultimi giorni e la morte di Federico Chopin.

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Prossino alla fine, questi chiede al Clésinger perchè esse non siano ancora venute; esse erano la Sand e la d'Agoult (sic), due innamorate del grande musicista. «Verranno presto — risponde il Clésinger. — Mi sono riconciliato con mia suocera apposta per questo ». Ecco le due donne che si avanzano, e un ultimo sorriso spunta sulle pallide labbra del morente, un lampo di vita brilla negli occhi appannati... Ma lo Ghopin non muore ancora: deve entrare in scena la contessa Potocka, la quale canta il salmo (sic) dello Stradella mentre l'anima del grande artista abban­ dona il debole corpo... E così si scrive , la storia da chi era già un uomo (aveva trentacinque anni) allorché lo Chopin morì, ebbe legami d'intima amicizia con molti tra coloro che avvicinarono il grande musicista e poteva pertanto avere sugli ultimi giorni di lui notizie esatte e sicure. Però non si deve pretendere Timpossibilità da chi, nel medesimo scritto, afferma con la più assoluta convinzione che il Mozart è Fautore della... Sinfonia eroica! ❖ Ed ora possiamo determinare quale influsso eser­ citò la donna, per l'amore, sull'arte dello Chopin? In verità, ben poco troviamo da dire in proposito: ho accennato all’« Adagio » del Concerto in fa minore, inspiratogli da Costanza Gladkowska; al Nottnrno in do diesis minore, simboleggiante l'amore per Maria Wodzinska; il legame con la Sand, secondo qualche biografo, non soltanto non avrebbe dato impulso alla sua attività creatrice, ma avrebbe soffocato la sua

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arte. Però chi scorra l’elenco delle sue opere non può, in coscienza, riconoscere giusta siffatta afferma­ zione: infatti, da quando conobbe la Sand, Federico Chopin compose ventitré dei venticinque Preludi (op. 28 e 45), i tre Improvvisi, ventisette Mazurche, tre dei quattro Scherzi, dieci Notturni, otto Valzer, due Sonate per pianoforte, una per pianoforte e violon­ cello, tre delle quattro Ballate, cinque delle otto Polac­ che, la Fantasia-Improvviso, la Tarantella, V Allegro di concerto, la Fantasia in fa minore, la Berceuse, la Barcarola: non si può parlare di esaurimento in un artista che offre così mirabile serie di composizioni, ben poche delle quali presentano il virtuosismo alquanto manierato che talvolta turba Parte dello Chopin. Nè è giusto pensare, come più d’uno ha fatto, che il legame con quella donna ne abbia abbreviato la vita: egli da tempo era segnato: e forse le attenzioni materne della Sand hanno valso, anziché ad abbreviare, a prolun­ gare una esistenza destinata a spezzarsi in breve giro d’anni; e nemmeno sarebbe giusto pensare ad una influenza qualsiasi dell’arte della Sand su quella dello Chopin: nessuna influenza poteva esercitare sull’arte dell’altro nè il musicista nè la romanziera, perchè le loro idee erano troppo dissimili.

*** La verità sta nel fatto che il grande amore dello Chopin, quell’amore che gli dettò le pagine sue più possenti ed efficaci, più delicate e sentite, più appas­ sionate e profonde, non fu amor di donna, sebbene a donne sia dedicata la maggior parte delle sue compo­ sizioni: fu l’amore per la Patria sua, per quella infelice ♦ 59 ♦

Polonia che aveva lasciato non ancora ventunenne, il i° novembre 1830, e non doveva più rivedere. Già nella prima serie degli Studi per pianoforte, il terzo dell'opera io, presenta una melodia di meravigliosa dolcezza; egli stesso diceva che in vita sua non aveva trovato altra melodia così bella: e una volta, mentre il suo prediletto allievo Guttmann sonava quello studio, lo Chopin levò al cielo le mani giunte escla­ mando: « Oh, mia patria! » Il cuore della Polonia pal­ pita in quelle note. Il settimo Studio suggeriva al più autorevole bio­ grafo dello Chopin, Ferdinando Hoesick, la visione della steppa sconfinata coperta di neve, con una «kibitka» che porta in Siberia dei prigionieri: nella quiete inanimata si ode soltanto il lamento del vento (melodia della mano sinistra) e l'incessante sonar dei bubboli al collo dei cavalli (note ribattute della destra): immagine della schiavitù polacca sotto il giogo russo. E il dodicesimo Studio, una delle più inspirate e poderose pagine dello Chopin, è il celebre « Studio della rivoluzione » scritto dal musicista a Stuttgart, col cuore straziato alla triste nuova della caduta di Varsavia: mentre un tempestoso arpeggio dei bassi procede con foga incessante, prorompono appelli squillanti, selvaggiamente irruenti, cui ri­ spondono accenti di dolore profondo e fiere grida di rivolta. Così l'ultimo Studio della seconda raccolta (op. 25, n, 12), è fratello del dodicesimo della prima raccolta: vibrante e focoso, è costituito da una serie di rapidi e ampi arpeggi, eseguiti dalle due mani insieme, i quali procedono con animazione costante, e da cui sembra ♦ 60 ♦

sfuggano frammenti di una melodia racchiusa negli avvolgimenti dell'ondeggiante e tumultuoso disegno: l'idea di patria, costretta a celarsi nell'ombra, e atten­ dere il momento propizio per manifestarsi ed affermarsi trionfante. Il 240 Preludio (in do min.) dell'op. 28 è traversato dalla medesima foga guerriera che anima lo Studio in do minore. Del Notturno in fa diesis minore (op. 48, n. 2) narrasi che lo Chopin dicesse che il contrasto dramma­ tico tra i doppi accordi iniziali e le immediate risposte raffigurerebbe un tiranno che ordina, mentre altri chie­ dono grazia: e il Notturno in fa. minore (op. 55, n. 1) presenta con quello notevole analogia formale ed espressiva. La prima idea della Ballata in sol minore (op. 23), varia, efficace, con episodi poetici, di tipo essenzial­ mente romantico, sarebbe stata suggerita allo Chopin dal poema Corrado Vallenrod, in cui Adamo Mickie­ wicz, l'inspirato vate polacco, esalta fino al furore l'amore della patria e l'odio al tiranno oppressore; narra lo Schumann che, avendo detto all’autore esser questa l'opera di lui che più gli piaceva, lo Chopin, dopo un lungo silenzio, gli disse con vivacità: « Ciò mi fa gran piacere, perchè è quella che io preferisco ». Del resto, le quattro Ballate sarebbero state tutte inspi­ rate dai poemi del Mickiewicz. Ecco le Mazurche olezzanti dell'intenso profùmo della terra natia: pagine fresche, brillanti, ricche di colore, sgorgate da una fantasia nutrita dei frutti sapo­ rosi nati dal suolo polacco, vive e geniali; ecco la Krakowiak, intessuta di elementi della danza così nomi­ nata, danza tutta propria della Polonia. ♦ 61 ♦

Ed ecco finalmente la Polacca, danza nazionale per eccellenza, in cui la patria è simboleggiata super­ bamente. Chi abbia letto il caratteristico poema di Adamo Mickiewicz II signor l'addeo di Sopiifa, a ra­ gione definito V Odissea della Polonia, non può averne dimenticato la chiusa: quando, terminate le lotte e il doloroso processo che tutti turbava e stringeva, la serenità viene a sollevare gli animi e le nozze allietano il castello, come apoteosi schiettamente patriottica si inizia la Polacca; e con la danza, descritta con sma­ gliante tavolozza, si chiude la simbolica epopea. Cosi Federico Chopin ha tracciato nelle sue Polacche qua­ dri indimenticabili e insuperabili di vita nazionale, su cui si eleva e squilla, come un inno trionfale, quel miracoloso poema che è la grande Polacca in la bemolle, in cui l'amor di Patria giganteggia. Perchè la Polonia fu Punico vero amore di Federico Chopin. E aveva ben ragione Roberto Schumann quando scriveva: « Le opere dello Chopin sono cannoni nascosti sotto i fiori... ». Se nella musica egli trovava conforto; se lasciava sgorgare al pianoforte, solo con lui, i suoi sentimenti, svelandogli le sue sofferenze (lettera da Vienna al­ l'amico Giovanni Matuszynski); se, preso dall’arte, re­ stava al pianoforte fino ad esaurirsi, per strapparlo dal fascino bastava chiedergli di eseguire la Marcia funebre composta dopo i disastri della Polonia: « Non rifiu­ tava mai di sonarla », scriveva il Legouvé nei suoi Souvenirs; « ma, appena finita l'ultima battuta, pren­ deva il cappello e andava via: quel pezzo, che era come il canto d'agonia della sua patria, gli faceva troppo male; e, dopo, non poteva dir più nulla ». ♦ 62 ♦

*** Quando Federico Ghopin lasciò il suolo natio, portò seco un pugno di terra polacca, offertagli dagli amici in una coppa d'argento: quel pugno di terra egli tenne sempre seco quale preziosa reliquia: e quando l'ala della morte lo ebbe toccato e il suo corpo fu deposto nella fossa scavata allato alla tomba di Vincenzo Bel­ lini, una mano amica gettò sulla bara quel pugno di terra polacca, piccolo frammento della patria lon­ tana che si riuniva al grande suo figlio, per sempre..

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FRANCESCO LISZT. In un acuto e simpatico studio su Francesco Liszt, Camillo Saint-Saèns (uno dei pochi musicisti che sep­ pero rendersi subito conto del vero valore dell’arte del grande maestro ungherese) osserva essere ormai tempo di occuparsi con maggior cura dell’opera e dell’azione efficacissima del Liszt, lasciando da parte le passioni da lui destate, « il suo gusto per le principesse »: l’os­ servazione è giusta, come massima generale; ma appare alquanto eccessiva, ove si esamini un po’ da vicino la sensibile influenza che « l’eterno femminino « esercitò sopra di lui, come artista e come uomo. Certamente non T affermazione che si legge in uno dei maligni libri del ciclo della Cosacca (di cui avrò ad occuparmi) può bastare a giustificare simile indagine, tanto più che tale affermazione è evidentemente esagerata ed è for­ mulata soltanto allo scopo di vendicare su tutto il sesso femminino l’abbandono, anzi (come afferma la scrittrice) il tradimento di Nélida, al secolo contessa Maria d’Agoult; « Tutte le sue ammirabili composizioni, l’intera opera sua è stata scritta ed eseguita per le donne, inspirata dalle donne. Anche la sua musica ♦ 65 ♦

religiosa si indirizza a loro: vuole che nel tempio esse si allontanino da Dio per pensare a lui ». Piuttosto è il caso di tener conto di quello che lo stesso Liszt scrisse alla principessa Carolina di SaynWittgenstein, una volta che essa, non essendo riuscita a imporgli il proprio modo di pensare e di sentire, gli aveva consigliato di far penitenza, ritenendo che la vita mondana influisse dannosamente sull1 animo di lui: « Nel mio Responsorio del sacramento della peni­ tenza (le scriveva il 23 dicembre 1878 da villa d’Este) avete trovato un sincero accento di contrizione alle parole Miserere mei, Deus. Perchè misconoscerlo al­ trove? Perchè separare l’artista dall’uomo? Ciò che questi ha di meglio si traduce nell’arte sua, nel sen­ timento supremo della vita: l’amore, soggetto a molti smarrimenti, ma non indegno della misericordia divina! » E se gli smarrimenti non furono pochi, gli affetti sin­ ceri e nobili, naturalmente più limitati, ebbero ben alta e ammirevole intensità e fermezza. Seguiamo dunque il consiglio da lui formulato: non separiamo l’artista dall’uomo; le sue debolezze non fu­ rono mai tali da diminuire e offuscare la grande e pura, bellezza della sua vita, la quale offre inimitabile esem­ pio di illimitata e illuminata bontà, che si esplicava nella instancabile azione morale e materiale da lui eser­ citata con la più attiva ed efficace propaganda per far trionfare, a malgrado di ogni invidiosa o ignorante opposizione, le manifestazioni di artisti che a ragione a lui sembravano degni di trionfo: rinunziando intanto, senza esitazioni, a far valere le sue proprie creazioni/ trascurandole anzi, senza un rimpianto, in favore di chi il più delle volte, dopo averne sfruttato in ogni ♦ 66 ♦

modo la inesauribile generosità, gli era grato appena a parole, e talvolta coi fatti lo avversava!

*** Primo e più duraturo affetto: la madre, Anna Lager, che il padre di lui conobbe e sposò nel villaggio di Reiding (Eisenstadt), ove Adamo Liszt era stato in­ viato dal principe Esterhazy (il patrono e padrone di Giuseppe Haydn) quale suo intendente, e dove nacque il piccolo Franz nella notte dal 21 al 22 otto­ bre del 1811. Il 28 agosto del 1827 Adamo Liszt moriva, dopo breve e violenta malattia, a Boulogne-sur-Mer, ove aveva accompagnato il figlio, indebolito dalla sover­ chia fatica per i concerti dati in Francia e in Inghil­ terra, per lo studio ininterrottamente intenso del pia­ noforte, e finanche per la composizione di un’opera, a lui commessa dal massimo teatro parigino. Sul suo letto di morte Adamo Liszt diceva al figlio (come questi riferisce) che aveva buon cuore e non mancava d’in­ telligenza; ma temeva che le donne avrebbero tur­ bato la sua esistenza o lo avrebbe dominato. « Questa previsione (scriveva Francesco Liszt nel 1874) era sin­ golare, perchè non avevo allora, a sedici anni, nessuna idea di quel che poteva essere una donna: e domandai ingenuamente al mio confessore di spiegarmi il sesto e il nono comandamento di Dio, temendo di averli forse trasgrediti, senza avvedermene. Più tardi i miei amori sono cominciati assai tristemente, e mi rassegno a vederli finire nello stesso modo! Tuttavia non rin­ negherò mai l’amore a malgrado di tutte le sue false apparenze e delle sue profanazioni! ».

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Subito la madre accorse; e si stabilì col figlio a Parigi: e la presenza di lei impedì al giovinetto di ab­ bracciare lo stato ecclesiastico, per cui egli senti vasi portato: « Era il mio istinto e la mia aspirazione (scri­ veva il 30 gennaio 1873) all'età di quindici a diciotto anni. Il dispiacere di mia madre, e il consiglio del mio confessore d'allora, l'abate Bardin, hanno risoluto diversamente »; e in un'altra lettera, del 18 luglio 1879, alla principessa di Wittgenstein, confermava: « Nes­ suno meglio di voi conosce la mia assoluta mancanza di ambizione per la carriera ecclesiastica. Prendendo, all'età di 54 anni, nel 1865, gli ordini minori al Vati­ cano, l'idea di un avanzamento era da me quanto è possibile lontana. Seguivo soltanto, con semplicità e rettitudine di cuore, l'antica tendenza cattolica della mia gioventù: se non fosse stata contrariata nel primo suo fervore dalla mia ottima madre e dal mio confes­ sore, l'abate Bardin, mi avrebbe condotto al seminario nel 1830, e più tardi al sacerdozio... Sarei stato degno di tale vocazione?... Ad ogni modo, le care tenerezze di mia madre e la prudenza dell'abate Bardin mi hanno lasciato alle prese con tentazioni che non ho saputo vincere se non in modo insufficiente! La poesia, la musica e anche qualche seme di innata rivolta mi hanno soggiogato troppo a lungo! Miserere mei, Domine! ». Chi scorra i due documentatissimi volumi del Prod'homme e del Dandelot su Carlo Gounod, non può non essere impressionato dalla rispondenza che si ri­ vela tra i sentimenti e l'azione della madre del celebre musicista francese, con quelli della madre di Francesco Liszt. Come il Liszt profondamente' sentì la potenza fascinatrice del Lamennais, così Carlo Gounod si era ♦ 68 ♦

fatto ardente seguace delle dottrine del Lacordaire, ed era sul punto di « entrare in religione »; la madre, allar­ mata, gli oppose ragioni che in tutto corrispondono a quelle esposte dalla signora Liszt al proprio figliuolo. Identica orientazione di sentimenti e di ragioni nelle due madri, e uguali tendenze mistiche nei due musicisti, in questo, e nella debolezza verso Teternofemminino (Giorgina Weldon informi, nei riguardi del Gounod), tra loro assai somiglianti, sebbene profon­ damente differenti nei caratteri del rispettivo genio musicale; oggetto entrambe di cure da parte dei figli; desiderosi ciascuno di ricondurre la madre alla stretta osservanza delle pratiche religiose, con esito favore­ volissimo per la signora Gounod; non così per T austera Anna Liszt, la cui serena pietà, ripugnante da mani­ festazioni esterne non rispondenti ai suoi intendimenti, non piegò nè alle insistenze del figlio nè alle magni­ loquenti manifestazioni epistolari sgorgate dalla ine­ sauribile e instancabile penna della principessa di Wittgenstein. Ma la ritrosia materna non poteva in lui scuotere o alterare la piena fiducia e l’amore profondo per Tottima signora, cui non aveva esitato ad affidare i propri figli e la madre loro, la contessa d’Agoult, durante una prolungata peregrinazione artistica: dopo che, ricevuti, il 25 aprile 1865, gli ordini minori, il neo-abate Liszt ne ebbe informato la madre, chiedendole perdono del passo fatto senza averla prima consultata e avvertita, essa rispondeva al suo caro figliuolo una lettera ammi­ rabile per la serena elevatezza e Tuffetto profondo. Affetto ricambiato dal Liszt, sempre: dalla prima giovinezza, a Parigi, quando (come narra Janka Wohl), ♦ 69 ♦

tornando a casa tardi, restava sino alla mattina a gelare per le scale, pur di non turbare il sonno della madre; fino agli ultimi giorni di sua vita, nella quale la cara immagine materna fu sempre animata dinanzi agli occhi suoi. Altro grande amore di Francesco Liszt: quello per le figlie. Mortogli diciannovenne, nel decembre del 1859, il figlio Daniele, che dava di sè grandi speranze; perduta, nel settembre del 1862, la figlia maggiore, Blandina, moglie di Emilio Ollivier, da poco madre di un bambino, rinnovato Daniele; tutta la sua paterna tenerezza si raccoglie sul capo della seconda figlia, Cosima, natagli, al pari di Blandina e Daniele, dalla sua unione con la contessa d;Agoult. In una lettera scritta in Albano, nel giugno del 1839, a Roberto Schumann, Franz Liszt descrive squisitamente la sua piccola Blandina: « Sapete, o non sapete, che ho una figliolina di tre anni, che tutti son d’accordo a trovare angelica (vedete che banalità!). Il suo nome è BlandinaRachele, e il soprannome Moscerino. Non occorre dire che ha una carnagione di rosa e di latte e che i capelli biondi dorati le scendono fino alle calcagna, proprio come a una selvaggia. Del resto è la bambina più silen­ ziosa, più dolcemente grave, più filosoficamente gaia, di questo mondo. Inoltre, ho tutte le ragioni di sperare che non sarà musicista, e da ciò la difenda Iddio! Eb­ bene, mio caro signor Schumann, due o tie volte la settimana (nei giorni belli e buoni) le suono la sera le vostre Scene infantili, ciò che entusiasma lei e me ancor più, come potete immaginare, tanto che spesso ripeto venti volte la prima ripresa senza andar più avanti. In verità, io credo che sareste contento di ♦ 70

questo successo, se poteste esserne testimone! ». Il desiderio che non divenisse musicista era una frase*. infatti, quando le due fanciulle furono affidate alle cure della signora Bulow, il Liszt scriveva al figlio di lei, Hans, grande pianista e valente compositore, di tener assai a che le avesse a far « lavorare molto seriamente, perchè sono, credo, abbastanza avanti negli studi mu­ sicali per profittar bene delle vostre lezioni. Fatene dunque delle buone propagandiste della musica del­ l'avvenire, come è loro dovere, e sopra tutto non ab­ biate indulgenza riguardo a loro, e non lasciate passar loro nè goffaggini nè strafalcioni ». Cosima, dal carattere assai differente da quello' gaiamente e serenamente tranquillo di Blandina, aveva anch'essa bellissime doti musicali; e il Bulow così ne scriveva al Liszt: « Mi chiedete, maestro ca­ rissimo. notizie delle signorine Liszt. Finora mi sa­ rebbe stato impossibile, visto lo stato di stupefazione, di ammirazione ed anche di esaltazione in cui mi ave­ vano ridotto, sopratutto la minore. In quanto alle loro disposizioni musicali, non è talento, è genio quello che posseggono. Sono le degne figlie del mio benefat­ tore — esseri assolutamente eccezionali... Esse com­ prendono meglio di chiunque i vostri capolavori e veramente avete in loro un pubblico sorto dalla natura. Come sono stato commosso e toccato riconoscendovi ipsissimum Lisztum nel modo di sonare della signorina Cosima, la prima volta che l'ho sentita! ». L'entusiasmo di Hans von Bulow per Cosima Liszt, che il padre di lei vedeva molto di buon occhio, andò crescendo e mano mano trasformandosi in amore for­ tissimo: sicché men di due anni dopo la lettera in parte ♦ 71 ♦

citata (che è del 30 settembre 1855) il matrimonio di Hans e di Cosima ebbe luogo: « Mi è impossibile (scri­ veva il Bulow al Liszt) esprimervi tutta l’estensione dei sentimenti di riconoscenza e di devozione da cui sono penetrato, pensando alla felicità che dovrò ancora a voi, come già vi debbo tutto ciò che mi è avvenuto di felice nella mia vita, che io dato da Weimar (nel 1851 il Bulow, raccomandato da Riccardo Wagner, era arrivato a Weimar ove doveva completare i suoi studi pianistici sotto la guida del Liszt)... Avrei desi­ derato di presentare i miei rispetti alla signora princi­ pessa di Wittgenstein, in qualche rigo. Perchè anche a lei spetta di diritto una parte della mia riconoscenza per la felicità della mia vita, poiché è lei che ha avuto l’idea di far mandare le vostre figlie a Berlino, e mi ha fatto trovare quest’angelo di cuore e di spirito che si chiama Cosima ». Poi l’orizzonte cominciò a intorbidarsi: l’anima entu­ siastica di Cosima vide nel genio possente di Riccardo Wagner il suo vero ideale e il Wagner sentì in quella donna forte e altera la degna compagna della sua vita: sempre più vivi dissensi andarono determinandosi tra Cosima e il nervoso, impulsivo Hans, con grande dolore del Liszt, il quale amava con affetto paterno il suo Bulow; nell’agosto del 1869, giunto a Monaco, suo primo pensiero è di far visita alla signora Bulow, madre. « Hans è a Berlino — scrive — per iniziare il divorzio. Io non lo posso aiutare, e probabilmente questa volta non vedrò Hans ». L’anno seguente, dall’ Ungheria, scriveva, ancora alla principessa di Wittgenstein: «Avete saputo il matrimonio di Cosima? Io non l’ho appreso che otto giorni dopo, dai giornali, perchè

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Cosima non mi scrive più da un anno; è nella chiesa protestante di Lucerna che è stata impartita la bene­ dizione nuziale, il 25 agosto ». In seguito, fu fatta la pace; ma qualche ombra ri­ mase ancora: quando, nel febbraio del 1883, morì d’improvviso Riccardo Wagner, subito Franz Liszt scrisse a Cosima se le conveniva che egli la raggiun­ gesse a Venezia per ricondurla a Bayreuth; ma essa gli fece rispondere dalla figlia, Daniela Biilow, in senso ne­ gativo: egli aveva stabilito.di andarla a vedere ai primi d’aprile; ma Cosima gli fece ancora scrivere che non voleva veder nessuno, non facendo eccezione neppure per il padre. Nel luglio del 1884, tornato a Bayreuth per la ripresa del Parsifal, non potè rivedere la figlia, immersa nel lutto. Finalmente il 18 maggio del 1886 Cosima andò a visitare il padre a Weimar: « Non l’avevo riveduta dopo Venezia, qualche settimana prima della morte del Wagner ». E questa visita gli fece rinunziare alla determinazione di non tornare quell’anno a.Bay­ reuth, per le rappresentazioni del Parsifal e dèi Tri­ stano: ad ogni modo vi sarebbe andato qualche giorno prima per il matrimonio della sua nipote DanielaSenta von Biilow con Enrico Thode, che fu poi profes­ sore di Storia dell’arte nella Università di Heidelberg; come vi era andato nell’agosto del 1882 per il matrimonio dell’altra nipote, Blandina von Biilow, col conte Biagio Gravina, siciliano, che procurarono al Liszt la consola­ zione di diventare bisnonno, nel 1883. Anche col Biilow, Francesco Liszt si trovò in disac­ cordo, e per ragione del dissenso con Cosima e per in­ dirizzo d’arte: ma si rappacificarono; e della caratte­ ristica scena della pace dovrò riparlare. ♦ 73 ♦

❖ * * Dopo gli affetti familiari, Famore: e abbiamo già visto come Franz Liszt non rinnegasse mai l’amore, incitatore di nobili azioni e di elette manifestazioni d’arte neppure nella vecchiaia, non esitando a dichiararlo esplicitamente a colei che fu oggetto della sua più lunga e seria passione amorosa, la principessa di Witt­ genstein. Fu nel primo periodo di vita a Parigi, che sbocciò nel cuore del Liszt il suo primo amore, amore che lasciò traccia incancellabile nell'animo suo: amore puro e ideale, che ebbe un seguito caratteristico e che potrà iniziarci a quelle curiose forme di amicizia amorosa, così frequenti nella vita del geniale artista. Per vivere e mantenere la madre, dopo la morte del padre, egli impartiva molte lezioni di pianoforte nelle famiglie aristocratiche di Parigi: aveva diciassette anni; una delle sue allieve, Carolina di Saint-Cricq, ne aveva sedici; era figlia del conte di Saint-Cricq, ministro del com­ mercio. La freschezza giovanile, la grazia, l’intelligenza, le attitudini artistiche della fanciulla, fecero grande impressione nel cuore del giovane maestro, il quale eser­ citò non meno forte attrazione sulla sua gentile allieva. La madre di lei era favorevole a questo amore; e, in punto di morte, raccomandò al marito di non contra­ riarlo: ma il desiderio della defunta non venne soddi­ sfatto, e Francesco Liszt dovette rinunziare al suo bel sogno d’amore e troncare ogni relazione con Carolina. La trionfale e trascinante affermazione del ro­ manticismo francese determinatasi nel 1830, avvinse l’anima giovane del Liszt: ed hanno i caratteri propri del romanticismo le avventure amorose che seguirono il

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primo, casto affetto per Carolina di Saint-Cricq; avven­ ture in cui Fintellettualità e la foga predominavano, a scapito della profonda intimità e sincerità del senti­ mento. La contessa Adele Laprunarède, poi duchessa di Fleury, era giovane, bella, spiritosa; col suo carattere gaiamente civettuolo, cercava un sollievo alla musoneria dei salotti dell’alta aristocrazia e alle gioie discuti­ bili di un matrimonio con un vecchio gentiluomo: essa riuscì ad attrarre il giovane musicista fino a in­ durlo a passar tutto un inverno con la non bene assor­ tita coppia, in un solitario castello nelle Alpi, tra ghiacci e nevi, mentre i parigini non riuscivano a sco­ prire dove fosse nascosto il prediletto artista; il quale tornò a Parigi a primavera, con l’aureola di una mi­ steriosa e romantica avventura, cui devesi aggiungere il suo perfezionarsi nello stile francese, conseguenza di un animato carteggio con la giovane donna. La Rivoluzione polacca aveva spinto molte nobili famiglie della Polonia a stabilirsi lontano dalla patria oppressa: la contessa Plater, nata contessa Brzostowska, si era stabilita a Parigi; e, come usavano la principessa Marcellina Czartoryska e la contessa Delfina Potocka (i cui nomi sono intimamente legati alla memoria di Federico Chopin), la sua casa era aperta agli artisti: quivi Francesco Liszt si trovò spesso insieme a Fer­ dinando Hiller (il grande amico del Mendelssohn) e allo Chopin; triade eletta, per cui la contessa Plater era entusiasta e che argutamente definiva, sotto l’aspetto sentimentale, allorché affermava che, dei tre gio­ vani, avrebbe voluto prendere Hiller quale amico di casa, Chopin per marito, Liszt per amante. Nelle riu* 75 ♦

moni in casa Plater la musica imperava; quivi nobil­ mente e intelligentemente era posto in luce il valore di ogni vero artista; quivi l'arte e l'ingegno del Liszt ebbero campo di affinarsi, sotto alcuni aspetti, al contatto di qualche altro artista, e principalmente dello Chopin, col quale Franz si legò di stretta amicizia.

*** Ecco ora la grande avventura: egli conobbe quasi nel tempo stesso Giorgio Sand e la contessa d'Agoult; la scrittrice la cui potenza già si affermava trionfante, e la dama raffinata, dalla intelligenza mirabilmente coltivata, dalla eleganza squisita: l'una e l'altra lo interessavano vivamente, ma l'amicizia per la Sand è ben diversa dallo slancio passionale per la d'Agoult. Questa, nata in Germania da madre tedesca e da un nobile francese emigrato, il visconte di Flavigny, aveva sposato, a venti anni, il conte Carlo d'Agoult, quarantenne: matrimonio di convenienza, che lusingava i gusti aristocraticissimi della giovane donna, permet­ tendole di brillare nell'alta società parigina. Lo strano fascino che Francesco Liszt esercitava sulle donne, e che gli procurò straordinari entusiasmi muliebri fino agli ultimi anni di sua vita, vinse la superba contessa: per qualche tempo vi fu un certo ritegno nelle loro re­ lazioni: la dolce figura di Carolina di Saint-Cricq vi­ gilava sul cuore del musicista; sembra che egli cercasse di sfuggire ad un legame così forte e grave quale doveva apparirgli quello con una donna come la d’Agoult: si disse che la malattia e la morte di un figlio della contessa, presso il cui letto di dolore restò a lungo e di frequente il Liszt, costituisse per lei l'ultima spinta

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verso il compagno affettuoso delle sue dolorose veglie; si è poi affermato che il Liszt cercò materialmente di fuggire il fascino della bella signora, lasciando Parigi nella primavera del 1835; che fece intervenire la madre, e il confessore di lei (l’abate du Guéry) e il suo amico abate di Lamennais per distoglierla dai propositi amo­ rosi: alla fine di maggio, accompagnata dalla madre, essa andò a raggiungere a Berna Francesco Liszt, e rimase con lui, mentre la madre se ne tornò a Parigi: la data di nascita della loro prima figlia, Blandina, venuta alla luce nel dicembre dell’anno medesimo, a Ginevra, dimostra forse la ragione che più di ogni altra avrebbe determinato la contessa al passo ardi­ mentoso. Il loro legame durò nove anni; nei quali, dopo la felicità del primo, trascorso a Ginevra, i rapporti tra i due amanti si fecero sempre più difficili: una gaia e brillante parentesi è costituita dalla visita fatta loro da Giorgio Sand, nell’ottobre del 1836, e dalla famosa escursione compiuta con la celebrata scrittrice, giunta insieme con Adolfo Pictet e i figli, Solange e Maurizio. La Sand e la d’Agoult, pur conoscendosi per mezzo del Liszt, non si erano mai incontrate: non ostante la note­ vole differenza tra i gusti e le abitudini, si trovarono bene insieme, tanto che, riconosciuto opportuno il ritorno di Franz Liszt a Parigi, ove, durante la sua as­ senza, il Thalberg stava per prenderne il pósto nelle simpatie parigine, la contessa accettò per l’inverno l’ospitalità offertale dalla Sand nel cosiddetto castello di Nohant, non volendo tornare nella capitale, ove era ancor troppo viva la impressione dello scandalo destato dalla sua avventura d’amore. ♦ 77 ♦

Studiando le relazioni tra la Sand e lo Chopin, ho avuto occasione, accennando al grave dissidio che si determinò in quel tempo tra le due donne, alla possibile gelosia della d’Agoult che forse sospettava una intesa tra la Sand e il Liszt: sospetto che poteva essere con­ seguenza delle voci corse fin da quando essa era agitata vivamente, nel periodo risolutivo e terminale del suo amore col Musset: nel gennaio del 1835 essa aveva scritto al Liszt: « Avete avuto la bontà di interessarvi per i miei dispiaceri e di parlarmi dei vostri guai. Mi avete dimostrato una amicizia assai dolce e preziosa. Non so perchè, alcuni a me d'intorno hanno pensato che questa mutua simpatia fosse un sentimento più vivo e perfino un più intimo legame. Altri hanno pen­ sato soltanto che vi era stato da parte mia curiosità e civetteria. Mi appello a voi, amico mio, e vi incarico di aver cura di giustificarmi presso coloro coi quali il caso possa mettervi in condizione di scambiare qualche parola in proposito. Mi trovo in una situazione così dolorosa, in preda a dispiaceri così gravi e circondata da cosi crudeli sospetti, che non ho coraggio di profit­ tare di qualsiasi affezione, per quanto possa essere pura e legittima. Non potreste venire da me senza averne qualche noia. Permettetemi di pregarvi (nel caso che tornaste a Parigi prima di me) di non venirmi a vedere, e credete bene che, ciò non ostante, non vi pro­ sciolgo dalla amicizia che mi avete promesso ». Sarebbe stata questa, come taluno crede, una sem­ plice manovra? Chi sa! Certo si è che nel romanzo di Balzac Béatrix, ou les amours forces, in cui sono posti in azione, sotto veli, molto lievi, la Sand e la d’Agoult, Liszt, Gustavo Planche e lo Chopin, in modo tale da

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far dire al Liszt, come, letto quel libro, egli, che credeva conoscer molto bene la contessa, l’avesse compresa assai meglio; in quel romanzo, tanto vero, Felicita des Touches (la Sand) è dimostrata già amante del musicista Conti (Liszt), il quale convive con Beatrice di Rochefide (la d’Agoult): una scena violenta tra le due donne sarebbe la riproduzione di quella che il Liszt ricordava, per spiegare la causa del dissenso che aveva turbato la sua amicizia con lo Chopin: « Le nostre innamorate si erano bisticciate, e noi, da buoni cava­ lieri, eravamo in dovere di prenderne le parti ». In seguito il Liszt ebbe grande varietà di espressioni riguardo alla Sand: ma le contrarie hanno soprattutto una ragione giustificatrice, da parte sua, nel poco ri­ spetto della scrittrice per taluni precetti della chiesa cattolica, ciò che egli, nelle sue tendenze, trovava ri­ provevole: ma non ha mai per lei accenti che neppur lontanamente possano, raffrontarsi con le taglienti frasi che usa per Nelida. Egli così la chiama, dal nome della protagonista del romanzo autobiografico pubbli­ cato dalla d’Agoult, con lo pseudonimo, divenuto ce­ lebre, di Daniele Stern; romanzo che è una apoteosi della contessa e un attacco al Liszt, presentato sotto le spoglie del pittore Guermann Régnier, artista d’in­ gegno, il quale si crede un genio, e seduce la nobile Nélida più per ambizione che per vera e profonda passione. Dopo il dissidio tra le due donne (luglio 1837), Franz Liszt e la d’Agoult andarono a Bellagio, nella attesa di un secondo parto della contessa: il giorno di Natale del 1837 nacque Cosima, cui fu dato questo nome, perchè venuta al mondo sulle rive del lago di ♦ 79 ♦

Como: concetto gentile e derivazione etimologica alquanto ardimentosa! Trascorsi alcuni mesi sul lago, dedicati essenzialmente alla composizione, Liszt liprese le sue peregrinazioni di concertista: cominciò a svolgere un bel ciclo di concerti a Vienna, ma dovette tornare a Venezia, nel maggio del 1838, richiamato da una malattia della contessa: passarono Testate a Lugano, e, dopo una serie di concerti in Italia, si fermarono a Roma dalla fine di gennaio al novembre del 1839, salvo qualche dimora ad Albano, nei dintorni di Lucca e di Pisa: nel maggio, a Roma, nacque Da­ niele. Questo periodo fu dei più favorevoli alla evoluzione artistica del Listz; ma fu anche dei più tempestosi nei riguardi della sua vita privata: sempre più tese e dif­ fìcili si facevano le relazioni tra i due amanti; Tattrito tra quelle nature ugualmente orgogliose, ribelli, auto­ ritarie; si andava aggravando di giorno in giorno, men­ tre non osavano spezzare la loro greve catena, ribadita dalla presenza di tre figli. Il Liszt, il quale volle sempre provvedere interamente al mantenimento dei suoi respingendo ogni intervendo della contessa, fu costretto a riprendere la carriera del concertista, mentre gli sor­ rideva Videa di abbandonarla per dedicarsi tutto alla composizione. Lasciò a Parigi, presso sua madre, la d'Agoult e i figli, e andò a Vienna, poi a Pest, ove i suoi compatriota gli offrirono la famosa sciabola d'onore su cui tanto si sbizzarrirono i caricaturisti francesi; e ancora via via per tutta l'Europa. Durante un giro in Inghilterra, non bene predisposto e per ciò meno riu­ scito, la gelosa contessa lo raggiunse a Londra, non gio­ vando all'andamento dei concerti:e quindi maggior ♦ 80 ♦

ragione di dissidio. Tuttavia nell’estate di queir anno (1841) e dei due successivi, egli si trattenne con la d’Agoult e i figli nell’isoletta di Nonnenwerth, sul Reno, non lungi da Bonn, la patria del Beethoven, imbevendosi del romanticismo tedesco, dopo essersi nutrito della classica arte italiana, la quale a sua volta erasi impressa profondamente nell’animo del giovane, affermatosi da prima mentre si sviluppava lussureg­ giante la fioritura romantica francese. La rottura definitiva tra i due amanti avvenne nel­ l’aprile del 1844: la tradizione vuole che la ragione (o il pretesto) sia da cercarsi in Lola Montès. Ad ogni modo la contessa d’Agoult aveva ripreso, in parte, la vita d’un tempo a Parigi, e doveva formarsi bella fama di scrittrice: ma Franz Liszt non seppe mai perdonarle di averlo voluto porre alla berlina sotto gli ambigui tratti di Guermann nel romanzo Nelida. Nella infinita serie delle lettere del Liszt troviamo frequenti accenni alla d’Agoult e sempre improntati ad una severità non mai attenuata. Notevole è una lettera da lui diretta all’abate de Lamennais, il quale avevagli scritto in merito all’avvenire dei figli, dopo la separazione dalla contessa, e questo, con una forma che al Liszt era sem­ brata contenesse per lui qualche biasimo; scrive al­ l’amico che le sue intenzioni si limitano a due punti principali: « La educazione che conviene dare ai miei figli, e le misure da prendere per assicurare, per quanto dipende da me, l’avvenire della, loro posizione, sopra tutto riguardo alla legalità. « Riguardo alla loro educazione, mi pare diffìcile trovare un mezzo termine migliore di quello che ho adot­ tato l’anno passato, su proposta della signora d’A. ♦ 81 ♦

La mia figliuola maggiore è allevata come non si può meglio presso la signora Bernard. Da tutte le lettere che in proposito mi giungono, il suo sviluppo fisico, morale e intellettuale continua nel modo più felice... Cosima, più giovane e più delicata di salute, non potrebbe essere meglio curata che presso mia madre, la quale l'adora, e, da cinque anni, ha tenuto sempre con sè i miei tre figliuoli, prodigando loro tutta la sua sollecitudine e la sua bontà ». Per il secondo punto, osserva che i suoi figli, i quali portano tutti e tre il suo nome, seguono la sua condizione: sono dunque ungheresi e soggetti alle leggi del suo paese; si propone pertanto di ottenerne la legittimazione dal­ l'imperatore, mediante l'intervento del palatino d'Un­ gheria. In una lettera del 6 luglio 1853, alla principessa di Wittgenstein, Franz Liszt le narra che Nélida scrive ogni tanto ad una amica per comunicarle... gli elogi che i giornali fanno dei suoi libri! Aggiunge che essa in altri tempi definiva gli amici « dei commissionari elevati alla seconda potenza »: e narra poi un inutile e non simpatico aneddoto riguardante una visita della d'Agoult al Proudhon. Il i° giugno 1855 scrive all'amica signora Street-Klindworth di aver ricevuto a Dussel­ dorf « una lettera di madama d’Agoult, di un tono ab­ bastanza addolcito, col suo antico suggello — in alta solitudine — intorno a un rhododendron, che si fece fare a Ginevra. Mi fa premure perchè vada per 48 ore a Parigi, per intendermi con lei sulle disposizioni da prendere riguardo ai figliuoli nel caso che venisse a mancar loro mad. Patersi (era stata la educatrice della principessina Maria di Wittgenstein e a lei erano stati ♦ 82 ♦

affidati i figli del Liszt, su proposta della principessa Carolina). Io mi priverò di questo viaggio, quantunque alla fine della lettera essa mi assicuri che non rimpiangerò di aver consacrato questo breve spazio di tempo ad affezioni vive e profonde: e le risponderò da Weimar ». Nel maggio e nei primi di giugno del 1861 Franz Liszt fu a Parigi, festeggiatissimo ovunque: rivide la d’Agoult e le fece visita, rendendone conto minuta­ mente alla principessa di Wittgenstein: « Nélida non mi ha riveduto per parlarmi di qualsiasi cosa che avrebbe potuto interessarci, ma soltanto perchè molti le parlavano di me, dei miei piccoli successi ed anche dei miei motti di spirito. Il nome delle mie figliuole non è stato pronunziato se non di passaggio, alla fine dell’ultima mia visita. Allora mi domandò perchè avevo impedito a Cosima di seguire la sua vo­ cazione, che era di percorrere una carriera d’artista: secondo Nélida era quel che meglio conveniva. Su questo punto, come su tanti altri, non mi riesce di con­ dividere la sua opinione ». (E qui cita proprio un caso di dissenso in cui la d’Agoult — la quale aveva fiducia nella futura unità italiana — aveva ragione di fronte a lui, che la riteneva un vano fantasma!). Narra poi di una colazione a cui fu da lei invitato, e dell’ultima visita: « Si parlò di Mad. Sand, che avevo avuto la intenzione di andare a trovare a Nohant; ma essa era ancora nel Mezzogiorno, presso Tolone... Nélida mi disse che il signor Girardin si era messo in testa di farla ritrovare con la Sand, ma rincontro non aveva prodotto nemmeno l’apparenza di un ravvicinaménto. Osservai che essa l’aveva lasciata troppo male per ri­ vederla bene! — Ma voi, riprese essa, voi siete rimasto 83

suo buon amico? — Il vostro dissenso ha un po’ raffred­ dato le mie relazioni con lei, perche, quantunque in fondo io vi dessi torto, ciò non ostante avevo preso le vostre parti. — Credevo il contrario. — Senza nessuna ragione, come altre volte... Sentendomi parlare di me, del mio egoismo e della mia ambizione, della parte che concedo al pubblico e di quella che resta riservata al­ l’artista, della perfetta identità dei miei sforzi di un tempo con le mie idee d’oggi, della permanenza di questo me che aveva trovato tanto odioso, essa risentì non so quale emozione e tutto il suo volto si coprì di lacrime. Io la baciai in fronte, per la prima volta dopo lunghi anni, e le dissi: — Maria, lasciatemi parlare il linguaggio dei contadini: che Dio vi benedica! Non mi augurate male. — Essa non mi potè rispondere, ma le sue lacrime scorsero più abbondanti. Ollivier mi aveva raccontato che al tempo del suo viaggio in Italia con lei, l’aveva vista più volte piangere amaramente in diversi luoghi che le ricordavano più particolarmente la nostra gioventù. Le dissi che ero stato toccato per tale ricordo: essa quasi balbettando mi disse: — Re­ sterò sempre fedele all’Italia e all’Ungheria! — Allora la lasciai dolcemente. Scendendo la scala, l’immagine del mio povero Daniele mi apparve! Non si era detto una parola riguardo a lui nelle tre o quattro ore che avevo parlato con sua madre! ». La livide, e fu a pranzo con lei il 6 ottobre 1864, a Parigi; nel marzo del 1866, ancora a Parigi, quando la sua Messa di Gran ebbe l’accoglimento sfavorevole che tanto lo afflisse e per così lungo tempo, rivide ancora la d’Agoult: rimandava di giorno in giorno la visita, perchè non voleva rientrare in commercio spirituale con

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lei; finalmente, spinto dall’Olii vier e da altri, fu a tro­ varla due volte. L'incontro fu aspro: « Nélida mi in­ formò della sua intenzione di pubblicare le sue confes­ sioni. Risposi che non credevo possibile che essa scri­ vesse le sue confessioni: perchè quello che intitolasse in tal modo si ridurrebbe a pose e menzogne. Così per la prima volta ho posto nettamente con lei la que­ stione tra il vero e il falso! Sono parole gravi ma ho do­ vuto pronunziarle, per compiere il mio dovere. Come il continuare un commercio spirituale con lei diventava una immoralità, non avevo altro partito da prendere, rivedendola, se non di insistere sul dovere. Inoltre la parte di Guermann è una gran sciocca invenzione: è tempo di finirla, una volta per tutte, con siffatto sen­ timento dottrinale. Madame d’Agoult non ha da usare indulgenza con me: con la mano sulla coscienza, credo di essere nel vero in tal materia, e non potrei rimpro­ verarmi che di aver messo un po’ di violenza nella forma. Disgraziatamente, non è possibile dire certe cose in modo gradevole a quelli che esse feriscono! Non è a colpi di ventaglio che si fanno le operazioni chirur ­ giche! » Alcuni anni dopo, nel giugno dei 1877, raccontava con maggior calma e con più miti espressioni il dialogo avuto con la d’Agoult: perchè tanta ira nel 1866? Al­ lora egli era assai inasprito, per l’insuccesso della sua Messa a Parigi; i giornali ripetevano un motto attribuito al Rossini: « Liszt compone delle Messe per avvezzarsi a dirle! »; e il Liszt osservava: « La verità è che ho più pregato la mia Messa, di Gran che non l’abbia compo­ sta: già da gran tempo mi abituo a cantare il mio bre­ viario ! » ♦ 85 ♦

Una delle acerbe critiche al suo lavoro, pubblicata nel giornale La Liberté, era di Guy de Charnacé, genero di Nélida: Franz Liszt afferma che era stata lei a det­ tare l’articolo, essendo andata alla prova col genero; inde irae! Nel giugno del 1870, a proposito del romanzo Lothair del Disraeli, protesta di nuovo contro i romanzi che pongono in azione personaggi della vita reale, e cita Beatrix e Nélida} e nel giugno del 1875 si ricorda ancora del Guermann di Nélida' Ai primi di marzo del 1876 la contessa d’Agoult moriva dopo brevissima malattia; una flussione di petto presa durante una passeggiata, che in cinque giorni la trasse alla tomba. Francesco Liszt, appresa la notizia dai giornali, scriveva alla principessa di Wittgenstein: « A meno d’ipocrisia, non saprei piangerla di più dopo il suo decesso che quando era viva. Larochefoucauld ha detto bensì che l’ipocrisia è un omaggio reso alla virtù, ma è ancora permesso di preferire gli omaggi veri ai falsi. Ora madame D’Agoult aveva eminentemente il gusto, e perfino la passione del falso, salvo che in certi momenti d’estasi, dei quali non ha potuto più tardi sop­ portare il ricordo! Del resto, all’età mia, le condoglianze non sono meno imbarazzanti delle felicitazioni. Il mondo va da sè... ». Emilio Ollivier, nel notificargli la notizia della fine della d’Agoult, gli mandava una lettera in cui Luigi de Ronchaud narrava gli ultimi giorni della defunta, e il testamento, con cui essa lasciava al nipote Daniele Ollivier, in memoria della madre, Blandina, la sua proprietà letteraria. E il Liszt rispondeva, un po’ meno crudamente: «La memoria che. io serbo a Mad. d’Agoult è un segreto di dolore; lo confido a Dio, pre­ gandolo di concedere pace e luce all’anima della madre

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dei tre miei figli adorati. Nulla di più conveniente che il legato a Daniele Ollivier della proprietà letteraria di Daniele Stern ». Non v'ha dubbio che il periodo di vita trascorso con la d’Agoult sia stato grave per il Liszt, ed altresì, come accennò al Lamennais, abbia avuto larga parte nei ri­ tardi della sua carriera e in quelli della sua posizione, e conseguenze non liete con l’ulteriore trascorrere degli anni: ma la non breve consuetudine di vita con lei diè frutti preziosi per l’avvenire di artista del Liszt. Era in lei squisitezza di gusto, mente acuta, solida e vasta cul­ tura: con lei, le cognizioni affastellate nella mente del giovane musicista andavano ordinandosi e chiarendosi: la contemplazione delle opere d’arte assumeva impor­ tanza massima, per il giudizioso ed entusiastico com­ mento di colei che doveva dare alta fama allo pseudo­ nimo di Daniele Stern: la natura assumeva eloquente significato, se osservata a lei daccanto, mentre in se­ guito andò man mano perdendo i suoi incanti per il musicista, quando ebbe altre guide intellettuali. Con la d’Agoult non soltanto egli potè penetrare i misteri delle arti plastiche; ma i massimi scrittori si rivelarono a lui nella loro vera essenza; e mentre, a scopo essenzial­ mente finanziario, egli seguitava a scrivere ogni tanto le sue prestigiose trascrizioni, si dedicava alla composi­ zione con quegli intenti medesimi che lo guidarono poi, giunto che fu alla sua maturità artistica. Scorrendo l’elenco delle composizioni sue del periodo di legame con la d’Agoult, troviamo abbondanti lavori sommamente significativi: molti dei quadri poetico-musicali che en­ treranno poi nelle raccolte degli Anni di 'pellegrinaggio; i Fiori melodici delle Alpi; la Fantasia quasi Sonata ♦ 87 ♦

dopo una lettura dantesca, primo e splendido embrione ideale della sua grande Sinfonia sulla Divina Commedia; la mirabile elaborazione dei Grandi studi di esecuzione trascendentale (indice superbo della rinnovata tecnica pianistica), uno dei quali, Mazzeppa, si trasformerà poi quasi naturalmente e necessariamente, in uno dei suoi più eloquenti Poemi sinfonici; le melodiche visioni ita­ liane, tra cui tre Sonetti del Petrarca; le due Mareie nello stile ungherese, primi saggi delle sue grandi com­ posizioni a base di temi nazionali; la massima parte dei suoi Lieder, Nel novembre del 1839, apprestandosi ad andare in Ungheria, scriveva ad un amico: « Giungerò più invec­ chiato, più maturo e, permettetemi di dirlo, più per­ fezionato come artista, di quel che mi abbiate cono­ sciuto l’anno passato, perchè da allora ho enormemente lavorato in Italia ». Perla d’Agoult comprendeva le gioie profonde e indistruttibili dell’amore paterno, di cui prima eco mu­ sicale si ha nelle Campane di Ginevra squillanti allorché nacque Blandina: e poi la dolce canzone (la prima del Liszt) Angiolin dal biondo crin, su poesia di Cesare Bo­ celli, in onore dei capelli di Blandina, riproducenti la splendida chioma della madre. E per lei potè ben presto apprendere a determinare la esatta misura del valore di certi entusiasmi femmi­ nili, da cui fu perseguitato per tutta la vita: potè così assumere la sua abitudine di serena dolcezza sotto la quale non si scopriva la diffidenza e la indifferenza, che gli permettevano di passare incolume a traverso a pas­ sioni fervorose, che non lasciavano nel suo animo trac­ cia più sensibile di quella che lascia una pietra caduta ♦ 88 ♦

in uno stagno; mentre il suo cuore restava caldo.di lido affetto per quelle persone che sentiva sinceramente e nobilmente animate verso lui da sentimenti profondi e veri, e degne di esserne ricambiate.

*** Dopo il primo amore sentimentale, 1' avventura ro­ manzesca, la violenta passione romantica, ecco il defi­ nitivo legame d'affetto, che offre, in proporzioni di straordinaria ampiezza, la evoluzione medesima che rilevasi in altri legami amorosi di Francesco Liszt: uno slancio ardente prima; poi un sentimento più calmo, cui fa seguito una amicizia cordiale e durevole. L'in­ contro del forte musicista con la principessa Carolina di Sayn-Wittgenstein, nata Iwanowska, avvenuto nel febbraio del 1847 a Kiew, determinò subito una forte corrente di simpatia tra i due; nella visita del Liszt a Woronince (la villa campestre della principessa in Podolia) e poi nel nuovo incontro in Odessa, la simpatia andò ben presto trasformandosi in amore possente: la contessa Maria Potocka, grande amica della principessa di Wittgenstein, sembra, in alcune sue lettere, divinarne i sentimenti e bene auspicare per la unione dei due saldi cuori, delle due menti elette. uAvete dunque avuto Liszt a Woronince — scrive il 17 febbraio 1847 —; ne sono ben lieta per lui e per voi... Ha molto spirito, una bell'anima! Finalmente, gli ho sempre voluto molto bene, per un felice fiuto che posseggo ». E il 27 marzo: « Avete fissato una casa a Odessa? La speranza di vedervi il caro Liszt non ha lasciato un angolo libero in tutta la città. A proposito, ho letto il romanzo di Daniele Stern (Nélida, della ♦ 89 «

d’Agoult). Ci vuole un bel coraggio a mettersi meno che in camicia per mostrare le proprie ammaccature e in­ dicare la mano che le ha fatte (o piuttosto accusarla ingiustamente). Ma che vigore, che elevazione nel pen­ siero e nel sentimento!... D’altra parte potete immagi­ nare quanto mi abbia indignato questo lavoro. È odioso abbassare un carattere nòbile e bello al livello di quel che la vanità e la mancanza di sentimento hanno di meno elevato; è anche più odioso accusarlo di un torto di cui egli aveva generosamente consentito a prendere le ap­ parenze, mentre il torto era tutto dall’ altra parte ». Il 24 agosto altra lettera di entusiasmi per « il nostro caro Liszt, che noi amiamo così cordialmente. Io posso attestare di non avere aspettato molto a risolver­ mi a quest’amore. Il mio fortunato fiuto fa le cose assai più presto che non il dotto discernimento dei più abili ». Nel marzo del 1848, quando la principessa si accingeva a lasciar la Russia per unire il suo al de­ stino del Liszt, la contessa Potocka le scriveva ancora: « Il cielo sorride al vostro progetto di viaggio: ecco un mese di marzo fatto apposta per voi. L’erba crescerà sotto i vostri passi e i fiori si affretteranno a profumare la vostra via. È sempre la vostra buona stella che fa tutto... Buon viaggio! Gioia e felicità: queste vi auguro per compagne di via ». Quel viaggio doveva condurre la principessa a Wei­ mar, ove Francesco Liszt era direttore della musica nel Teatro granducale; quivi si installarono entrambi nell’Altenburg, dimora che divenne, sotto i loro auspici, vera reggia dell’arte; nel denso volume che la instan­ cabile e inesauribile La Mara ha dedicato a quella di­

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mora (Aus der Glanzzeit der Weimar er Altenburg, Leip­ zig, Breitkopf und Hàrtel, 1906) è riprodotta una scher­ zosa incisione che rappresenta Liszt, coronato, seduto a fianco della principessa (che ha pure il capo cinto da un diadema) sopra una specie di trono ornato da una cetra, mentre la principessina Maria di Wittgenstein porge la mano al bacio del bibliotecario Hoffmann, camuffato da gatto stivalato. Le diffuse notizie conte­ nute in quel libro, nei due grossi volumi di Adelheid von Schorn, F. Liszt et la Princesse C. de S, W. (tradu­ zione francese, Paris, 1904), e Das nachklassische Wei­ mar (Weimar, G. Kiepeneuer, 1911) e in altre pubbli­ cazioni, mi permettono di non estendermi troppo sopra un periodo veramente splendido nella storia della pic­ cola capitale sassone, tale da ricordare da vicino il glo­ rioso tempo della dittatura goethiana: ma non già di tralasciare Toccasione per ricordare ancora una volta come allora potè il Liszt dare le più belle prove pub­ bliche di quella insuperabile bontà per cui, sacrificando sè e Parte propria, dedicò ogni sua attività per.chè fos­ sero degnamente apprezzate le opere dei più arditi e impopolari musicisti del suo tempo; basti accennare alle opere wagneriane eseguite a Weimar per cura del Listz (Tannhduser il 16 febbraio del 1849, Lohengrin il 28 agosto del 1850) e a quanto fece per convincere il Granduca ad aprire le porte del teatro di Weimar a L’Anello del Nibelungo; alla esecuzione che risollevò a Weimar, il 20 marzo del 1852, il Benvenuto Cellini del Berlioz dalla caduta rumorosa di Parigi; alla cura af­ fettuosa posta nel rivelare e sostenere le opere di Peter Cornelius, la Genoveffa dello Schumann, Alfonso ed Estrella dello Schubert; e, nei concerti da lui diretti, ♦ 91 ♦

le più caratteristiche opere sinfoniche e corali dei clas­ sici e dei giovani, e tra questi primo il Berlioz medesimo. Ma quello che a me pare non inutile far presente, per cercare di definire il carattere del legame che univa il Liszt alla principessa di Wittgenstein, è un fatto che si determina fino dai primi anni della loro residenza in Weimar, all’Altenburg: Francesco Liszt, nella immensa quantità di lettere scritte alla principessa (non tutte e non per intero pubblicate), ripetutamente dichiara di dirle sempre e in tutto la verità, di confidarle ogni più riposto segreto; ed è vero. Infatti, troviamo la prin­ cipessa in relazione epistolare diretta, o con Liszt per intermediario, con le donne che più intimi e stretti le­ gami d'affetto ebbero con lui, e che restarono sue buone amiche; non solo: ma anche egli rivela alla principessa particolari di sue avventure, sopra tutto (S’intende) di quelle che avevano fatto qualche rumore. Sembra chiaro che essa, ben sapendo distinguere i fuochi di paglia, numerosi e frequenti in lui, dall'ardore conte­ nuto e inestinguibile che egli aveva in cuore per lei; le esuberanze transitorie del temperamento amoroso, dalla calma serenità del sentimento amicale; sembra, dicevo, che essa non nutrisse gelosia delle donne che lo accerchiavano così spesso e volentieri; e, di vero, i soli rimproveri da lei rivoltigli, riguardano la perdita del suo tempo prezioso, che le occupazioni mon­ dane sottraevano alla attività artistica. Non manca, è vero, l'accenno a qualche scatto: sembra, infatti, che una volta capitasse in mano alla principessa un pacchetto di lettere di donna, dirette al Liszt, alquanto compro­ mettenti, e ne movesse a lui rimprovero; egli allora, bonariamente, cercò di tranquillarla, assicurandole che ♦ 92 ♦

nelle ceneri di quelle carte, distrutte dal fuoco, non era rimasta neppure una favilla, V'è qualche altra osservazione, cui in seguito avrò occasione d'accennare: ma è ben poca cosa in confronto dei molti assedi e assalti amorosi di cui egli era oggetto, e che essa deplorava perchè troppo lo distraevano. ❖

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Caratteristiche sono le lettere di colei che era stata il primo amore del Liszt: Carolina d'Artigaux, nata con­ tessa di Saint-Cricq, aveva una figlia, Berta, di salute delicatissima, alla quale essa dedicò tali cure e con tanto devota abnegazione, da compromettere anche, e assai seriamente, la salute propria. Il 23 luglio 1853 scriveva al Liszt da Eaux-Bonnes (Pirenei); vi era stata man­ data per la figlia, ed era invece essa medesima obbligata al letto: ove è alloggiata non hanno voluto Berta e la tremenda ragione del rifiuto non le sfugge. « Perchè mi manca il coraggio di scrivervi? Non lo so dire, ma vi amo con tutta la mia forza e vi desidero la speranza, felicità che io non conosco più! Anelo vostre notizie, e non oso chiederle. Ringraziate la principessa delle sue lettere, raccomandatemi alla sua indulgenza illimitata, sostenetemi in nome delle mie pene schiaccianti e non vi stancate del mio triste ricordo ». Il 15 settembre lo ringraziava di una buona lettera da lei ricevuta a Pau; spera di incontrarsi con lui a Parigi: « La principessa di Wittgenstein vi sarà contemporaneamente a voi? Posso sperare di conoscerla alfine e di ottenere il suo perdono per tutte le mie apparenti mancanze? Chie­ deteglielo per me, e amatemi tutti e due in contrac­ cambio del profondo e appassionato sentimento di rico­ ♦ 93 ♦

noscenza e di tenerezza che vi serberò Ano all’ultimo mio giorno ». La principessa amava i tre figli di Francesco Liszt, come questi, anche con maggiore profondità, amava la principessa Maria di Wittgenstein. Una lettera di Caro­ lina d’Artigaux alla principessa (6 dicembre 1854), di­ mostra come fosse da lei compreso tale sereno ricambio di affetto: essa è riconoscente delle espressioni di sim­ patia rivoltele dalla Wittgenstein: si compiace di al­ cuni articoli di Franz Liszt: è afflitta perchè non trova la forza necessaria per esprimerle tutto quello che ri­ colma il suo cuore: « Permettetemi di assicurarvi della mia affezione di sorella, e indovinate i voti incessanti che dirigo al cielo per voi e per chi amate ». V’è un po­ scritto: « Concedetemi la grazia d'inviare le mie più sincere carezze ai tre cari figliuoli, che ero felice di ve­ dere talvolta a Parigi »: si tratta di Blandina, Cosima e Daniele, i figli di Francesco Liszt e della d’Agoult, allora a Weimar. Per i quali continua poi a interessarsi: l’affetto e l’abitudine alla sofferenza le permettono di vedere molto da lontano, e anche nell’avvenire: il 13 no­ vembre del 1855 (un mese e mezzo dopo la nota let­ tera entusiastica di Hans von Biilow per le signorine Liszt, che erano andate a stare con la madre del futuro primo marito di Cosima) essa scrive alla principessa: « Abbiamo avuto ora notizie di Cosima, che mi sembra molto triste, sebbene in mezzo ad un gran movimento. Daniele è venuto una volta a vedermi, e, quantunque sia con me poco espansivo, sento per intuizione che il vostro giudizio a suo riguardò deve essere giustissimo». Il 22 febbraio del 1856, dopo aver chiesto quali siano i progetti di viaggio di tutti e tre (la principessa, la ♦ 94 ♦

figlia Maria e Liszt) per procurare di trovarsi insieme (« Sarebbe per me una immensa consolazione stringere la mano dèli'amico mio prima che Dio mi riprenda: la­ sciatemi dunque sperare, cara signora, che mi aiute­ rete a conseguire questo scopo agognato e che proverete un po’ della gioia che avrò nel rivedervi »); domanda: «Eie care figliuole di Berlino, che cosa fanno? L’ul­ tima lettera di Gosima era gaia, ma piena soltanto di notizie esterne: credete alla utilità del loro soggiorno in Germania? ». Ma poi, si lascia trascinare dalla soddisfazione dei suoi amici, e si rallegra per le nozze delle figlie del Liszt; quindi il suo dolore per la immatura morte di Daniele si effonde in espressioni di profonda commozione. Ma rentusiasmo per Franz Liszt forma sempre la nota più vibrante, e giunge al sommo nella occasione delle trion­ fali feste fatte al Liszt a Pesth, nel 1856, per la grande esecuzione della Messa di Gran e di altre delle sue più importanti composizioni. Quando essa morì, nel 1872, scrisse il Liszt alla principessa: « Era una delle più pure manifestazioni della benedizione di Dio sulla terra... Che Dio sia benedetto per averla richiamata dall’esilio terrestre, e che essa ci ottenga, per sua intercessione, la grazia di restarle uniti ». V’è tutta una serie di lettere del Liszt « ad una ami­ ca », che vanno dall’aprile del 1855 al 7 luglio 1886: nelle prime (quando essa lasciò Weimar) vibra un sentimento passionale; abbondano accenni discreti, ma eloquenti, a momenti insieme trascorsi, a spunti musicali signifi­ cativi; poi, man mano, la intonazione cambia: il tu, che sgorga da principio frequente e spontaneo, va scom­ parendo, ed è finalmente debellato completamente dal ♦ 95 ♦

voi; la confidenza in lei è però sempre piena e intera; forse anche va crescendo col modificarsi del sentimento. A lei dichiara di aver fatto venire le figlie in Germania perchè crede vi potranno più facilmente trovare un buon marito; le è grato della amicizia di cui dà prova alla principessa di Wittgenstein, che essa va a trovare al­ lorché torna a Weimar; a lei rivela ogni sua gioia, ogni sua pena. Una volta sembra che essa tema qualche in­ discrezione e ritenga forse troppo espansive le proprie lettere: « Donde vi può venire uno scrupolo •— le scrive il 7 agosto i860 — riguardo a quello che mi dite? Tutte le vostre lettere sono di un estremo incanto. Io mi vi abbandono completamente e vi domando soltanto in­ dulgenza per la asciuttezza e la insipidità delle mie. Del resto voi mi comprendete e indovinate tanto bene che io non ho che da tacermi... ». A lei dichiara di essere rimasto dodici anni a Weimar, non soltanto per dare sviluppo e forza all’arte dei suoni, rinnovandola me­ diante una più stretta alleanza con la poesia, ma anche « sostenuto da un sentimento che non mancava di nobil ­ tà: l’onore, la dignità, il grande carattere di una donna da salvaguardare contro persecuzioni infami »; a lei dà subito la notizia di essere entrato nello stato ecclesiastico. Per qualche tempo si ignorò il nome della fedele amica: poi si seppe essere Agnese Street-Klindworth, pianista e maestra di pianoforte, che non figura però nell’elenco delle allieve del Liszt redatto dal Gòllerich.

* ❖ * Molto si è scritto circa il mancato matrimonio tra la principessa di Sayn-Wittgenstein e Francesco Liszt: si è discusso circa il valore della affermazione che fosse

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stato ammesso dalla Sacra Rota F annullamento del ma­ trimonio tra la principessa medesima e il marito, a con­ ferma deir annullamento già pronunziato in Russia; e si sono dimenticati non pochi notevoli annullamenti che ebbero piena attuazione, finché la legge sul divorzio, votata in Francia, convinse le autorità ecclesiastiche della opportunità di stringere i freni. Ma, senza tornare sulla questione, è pur sempre da ricordare il fatto che, dopo il veto del pontefice alla vigilia delle nozze (le quali dovevano aver luogo il 22 ottobre 1861), la morte del principe di Sayn-Wittgenstein, avvenuta il io marzo 1864, eliminava ogni ostacolo, materiale e morale, al matrimonio, per giungere al quale tanto aveva combat­ tuto la principessa: eppure, la cerimonia che avrebbe consacrato il loro amore con una unione legale, non ebbe luogo; non solo, ma il 25 aprile del 1865 Franz Liszt riceveva gli ordini minori, diventando così F Abate Liszt: e ciò di pieno accordo con la principessa di Witt­ genstein. A me pare non molto difficile spiegare la riluttanza di entrambi ad un atto che li avrebbe uniti troppo stret­ tamente dopo che la vita comune da prima e la stretta consuetudine in seguito, avevano offerto loro il mezzo di conoscersi a fondo a vicenda: la principessa, pur sen­ tendo quanto forte fosse la influenza che essa aveva esercitato ed esercitava sulla orientazione delle idee estetiche e sui sentimenti del musicista, vedeva come questi tuttavia non fosse uomo da piegarsi sempre do cilmente e accettare ad occhi chiusi e a ginocchia pie­ gate le norme dettategli dalla autoritaria donna: spesso le sfuggiva e faceva a modo proprio, seguendo gl’impulsi che la fantasia e la inspirazione imprimevano alla sua ♦ 97 ♦

attività artistica; inoltre essa' ben comprendeva che, data la indifferenza e la facilità con cui egli accettava e presto scioglieva legami amorosi (non sempre plato­ nici, sebbene non da lui cercati, pur non cessando dalla verbosa adorazione perpetua per lei), la vita coniugale non sarebbe riuscita con lui troppo serena. D'altra parte il Liszt sentiva di possedere quella forza che la principessa esaltava con tanto fervore: ma appunto perchè conscio della sua potenzialità, non sempre era disposto a gettare il metallo incandescente della propria inspirazione nel rigido stampo allestito dalla intransingente donna: se talvolta cedette, la sua arte ne ebbe danno. Quel metallo egli voleva foggiare a suo modo, ricavandone, ad esempio, una spada ricca e flessibile anziché una nuda e rigida croce; la religiosità esasperata della principessa avrebbe rinunziato volen­ tieri alle opere profane del Liszt, nelle quali si incontrano le più forti e originali manifestazioni artistiche di lui, pur di ottenere qualche pagina di più di musica sacra, anche se meno efficace e consistente come opera d'arte. E poi, vivendo sempre (da che era giunta a Roma) chiusa in casa a meditare e a scrivere, scrivere senza tregua, senza misura, attaccando di fronte, sicura e senza esitazioni, i più ardui problemi religiosi ed eccle­ siastici, agguerrita nelle esercitazioni teologiche ma senza veri e prolungati contatti con la vita; la princi­ pessa si era formato un complesso organico di convin­ zioni rigide come sbarre temprate, che avevano, per lei, la assolutezza indiscutibile dei dogmi. Ora Fran­ cesco Liszt, da buon abate, che teneva a dimostrare di aver preso la veste talare con sicura fede, non accettava le teorie e le affermazioni contrastanti con le leggi, per ♦ 98 ♦

lui indiscutibili, della chiesa cattolica; inoltre, se tal­ volta si lascia prender la mano dalla prolissità nelle sue opere musicali, tuttavia non gusta eccessivamente le prolissità incommensurabili della instancabile scrit­ trice, sebbene sostenute da così alta e ben coltivata in­ telligenza; per di più, egli viveva con le genti di questo mondo, comprendeva bene uomini e azioni e, all’oc­ casione, sapeva anche godere la vita. Se per tali differenze profonde sorgevano tra loro notevoli dissensi nello stato di libertà in cui si trovavano l’uno di fronte all’altra, quali urti dolorosi si sarebbero verificati tra quei due spiriti alteri, ove si fossero tro­ vati avvinti da una catena infrangibile? Perchè i dis­ sensi appaiono sensibili quando si scorrano le lettere del Liszt alla principessa, sebbene sia da ammirarsi l’abilità e la dolcezza con cui egli riesce a smussare ogni angolo; talvolta però ha uno scatto violento; talvolta, invece, non sa trattenere la osservazione, o, meglio, la presa in giro che traspare al di sotto delle espressioni tutte umiltà e ammirazione. Dalla corrispondenza voluminosissima (pensare che Liszt avrebbe voluto « una cassetta d’un solo diamante » per chiudervi le lettere della principessa!) è facile rica­ varne prove caratteristiche ed eloquenti: egli ammira la stupefacente sagacità di lei, che veramente ha della divinazione (ottobre 1857); essalo paragona a Michelan­ gelo (luglio i860); per lui essa è per eccellenza « la donna forte» della Bibbia (luglio 1867). La lode per Franz Liszt, dalle lettere private della principessa, passa alla espressione al pubblico, nella dedica del libro: La mathière dans la dogmatiqiie chrétienne (1871); vi è però qualche lieve ombra di sarcasmo nella ammirazione del ♦ 99 ♦

Liszt per la enorme e incessante produzione della prin­ cipessa, cui contrappone la propria lentezza, da lei di continuo rimproveratagli; per l’opera capitale di lei, Le cause interne della debolezza esterna della Chiesa, egli è ammirato... ma dichiara (agosto 1873) di non capire gran che alla lettura dei primi volumi, e poi non tralascia qualche scherzoso accenno a contrasti tra interno ed esterno, in altre occasioni; quando, nel gen­ naio del 1874, riceve per posta il terzo tomo, scrive alla autrice: « Che volume — 1149 pagine! È tutta una nuo­ va costituzione della Chiesa. A quindici anni, mi pare, avevate scritto una costituzione per la Polonia; possa la vostra recente opera fruttificare più prontamente! Frattanto io dico tutti i giorni il Veni, Creator per i bisogni interni della Chiesa »; la principessa è soffe­ rente: « Spero — le scrive — che il bravo Bertholdy (il medico) compirà felicemente l’opera sua e riuscirà a neutralizzare, se non a distruggere completamente le cause interne della vostra debolezza esterna » (25 ot­ tobre 1874). «A che punto sono le Cause? — scrive il 26 marzo 1875. — Vi limiterete a quattro volumi? »: infatti arrivarono a ventiquattro! La principessa se n’ebbe a male: « Non obbedisco se non con tristezza alla vostra ingiunzione di non parlarvi più delle Cause. Se sapessi qualche cosetta di teologia e di politica mi ribellerei, ma la mia ignoranza mi con­ danna alla rassegnazione » (2 giugno 1876). V’è un po’ della intonazione malignetta di Enrico Maréchal, nel suo curioso scritto sulla Wittgenstein (1), e che ritro­ si Henri Maréchal — Rome - Souvenirs d’un musicien, — Paris, Hachette, 1904.

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viamo altrove: « La cassa dei libri scritti da voi sola doveva sorprendere il cardinale Schwarzenberg. Sua Eminenza non ha il tempo di leggere, ma comprenderà principescamente i vasti orizzonti che dominate. Sic­ come mi avete escluso dai vostri lavori quasi sovrumani da una diecina d’anni, a causa della mia ignoranza e indegnità, non oso più parlarvene » (14 luglio 1877). Le Cause furono colpite dalla censura pontifìcia; il Liszt, che lo aveva preveduto, non manca di dire' parole di conforto assai nobili; ma, qualche anno dopo, torna alla carica: « A Friburgo i vostri antichi studi architettu­ rali mi erano di costante memoria. Potevo allora seguirli felicemente fino alFultima guglia della cupola: ora le vostre altezze teologiche e politiche mi restano inac­ cessibili! » (io luglio 1882); il cardinale Haynald «mi disse di avere ricevuto ultimamente due o tre nuovi volumi delle vostre Cause, e in pari tempo mi confidò che non trovava più il tempo di leggere altra cosa che il suo breviario» (io aprile 1884): ciò spiacque alla principessa. Non molto dopo il Liszt le scrive riferen­ dole quale alto concetto abbia di lei il cardinale; e ag­ giunge, con la solita bonomia, alquanto sarcastica: « Hay­ nald mi parlò anche di una lettera di 15 a 20 pagine che gli scriveste tempo fa. Ha tentato di farsene il rias­ sunto, che era: La principessa mi tiene per un grande asino! Gli osservai che indegnamente avevo dovuto, con mia confusione, trarre uguale conclusione da molte lettere vostre dirette al vostro umilissimo servo» (2 feb­ braio 1885). Le lettere della principessa erano di una frequenza e di una lunghezza incredibili: « le 18 pagine della vostra lettera sono superbe e sublimi! » (5 feb­ braio 1874). ♦ 101 ♦

Nè sono meno caratteristici gli accenni al carattere autoritario della principessa; da Grottammare narra della sua visita a Loreto, ove invitò a pranzo, con altri, l'abate La Trèche che da più di venti anni lavorava ad una sua grande opera teologica e preparava proposte di radicali riforme per il papato; a un certo punto parla­ rono della principessa di Wittgenstein: « Io supponevo che la sua visita a via del Babuino (ove dimorava la principessa) non gli avesse lasciato un ricordo troppo lusinghiero. Mi raccontò che in un quarto d'ora gli ave­ vate fatto sostenere un esame sul Budda e Napoleone, i misteri della teologia e le partite del bilancio. Questa strana maniera di trattarlo da scolaretto, riservando esclusivamente per voi la decisione suprema su tutte le questioni, l'offuscò grandemente! Non ostante la sua perentoria assolutezza, sostenni la causa della princi­ pessa di Wittgenstein; e mi riuscì così bene che il mio antagonista finì per divertirsene — un po' a spese sue» (n luglio 1868). Dopo lo scherzo, la inquietudine: « Le vostre abi­ tudini romane vi hanno fatto prendere una intonazione di assolutismo che non permette nessuna discussione. Le più discrete e rispettose osservazioni vi paiono man­ canze di riguardo e perfino oltraggi! Voi non fate più nessun conto dell'onore logico della mia vita. Non sono i salotti che causano la divergenza dei nostri punti di vista, bensì vostra figlia ed anche un po' lamia! Quando sarò morto vi accorgerete che la mia anima era e resta sempre unita alla vostra » (23 dicembre 1878). Da qual­ che tempo si andava infatti accentuando lo strano dis­ sidio tra la principessa, convinta che la propria figlia Maria, andata sposa al principe Costantino Hohenlohe, ♦ 102 ♦

le fosse diventata nemica, e Franz Liszt il quale, sempre affezionato profondamente alla principessa Maria, fa­ ceva di tutto pei' convincere del contrario la madre di lei: uguale dissenso tra loro per Patteggiamento di Co­ sima Liszt-Bulow-Wagner. La disputa divenne sempre più aspra; il momento più grave è da porsi nel 1876: infatti il 6 settembre di quell’anno così scriveva da Weimar il Liszt alla principessa: « Con la più dolorosa sincerità, mantengo quello che vi ho detto a Roma: vi ingannate gravemente su vostra figlia, sulla mia, e su me. Dio sa che alleviare le vostre sofferenze è stato il solo mio scopo per molti anni! Ci sono riuscito male, pare! Per parte mia non voglio ricordarmi che delle ore in cui abbiamo pianto e pregato insieme, di un sol cuore! Dopo la vostra lettera d’oggi, rinunzio a tornare a Roma ». E restò fermo in tale determinazione, quel­ l’anno, sebbene la principessa gli scrivesse con molta bontà. Altro screzio qualche anno dopo: Franz Liszt le aveva dedicato trés humblement la sua piccola Missa prò organo, edita in pochi esemplari, autograficamente, dal Manganelli di Roma alla fine del 1879: è quella stessa che sembrò così vuota al Maréchal; la principessa se l’ebbe a male: « Non capisco — le scrive il Liszt il 3 gennaio 1880 da Villa d’Este — che cosa vi sia di scorretto nella mia dedica... Inoltre, a malgrado della protesta della penultima vostra lettera, mantengo e manterrò i miei antichissimi sentimenti di alta stima, di profondo rispetto, di sincera e viva ammirazione. Voi dite che la vostra stima vi basta e che non avete nessun bisogno di quella degli altri; che avete abbastanza ri­ spetto per voi medesima per dispensare il prossimo di ♦ 103 ♦

aumentarlo. Simili affermazioni passano, mi pare, la giusta misura ». E un anno dopo, il 6 gennaio 1881, pure da Villa d’Este, le scriveva: « Come non sarei mortalmente triste? Il vostro immenso e accanito la­ voro intellettuale da più di un trentennio, sovrapposto a sofferenze fisiche e morali quasi continue, vi ha fatto contrarre abitudini di spirito. altezzoso ed anche di violenta durezza verso il prossimo ».

*** Le lettere alla principessa gettano anche una cu­ riosa luce sopra la scandalosa avventura della Cosacca; la serie indegna dei libelli contro Francesco Liszt, redatti o ispirati dalla pseudo-contessa Olga Janina, riboccanti di gravi, volgari, offensive insinuazioni, trovano tut­ tavia inattesa conferma nelle parole del Liszt in ciò che si riferisce a molti dati di fatto: non solo, ma nel loro accanimento denigratorio, quei volumi danno strane e talvolta vive lumeggiature ad alcune persone che ebbero gran peso nella vita del Liszt. I Souvenirs d’une cosaque, par Robert Franz (Paris, A. Lacroix et C., 1874) sopratutto presentano il massimo interesse; i Souvenirs d’un pianiste, réponse aux Souvenirs d* une cosaque (Paris, Lachaud et Burdin, s. d.) e Le roman du pianiste et de la cosaque par Sylvia Zorelli (Paris, chez tous les libraires, s. d., ma 1875), non sono altro che peggiorativi del precedente: principalmente i Sou­ venirs d'un pianiste, i quali simulano una difesa del Liszt in una forma tale da mostrarlo addirittura uno scellerato della peggiore specie. Non sono riuscito a tro­ vare il quarto volume della serie, Les amours d’une co­ saque par un ami de l'abbé X... (Paris, Degorce-Cadot, ♦ 104 ♦

1875) che sarebbe, a quanto afferma Jean Chantavoine, una semplice intervista del Liszt, nella forma di un romanzo per confidenze: ma non credo apporti altri elementi alla storia della incresciosa avventura. La principessa cosacca, ossia la contessa Janina dopo aver descritto la sua avventurosa infanzia e le sue avventure fino al matrimonio e alla nascita di una figlia, ai suoi primi studi musicali, narra come fu pro­ fondamente impressionata dalla audizione di un «ora­ torio » del Liszt (designato con una semplice X nel vo­ lume) . Gli scrisse per chiedergli di farla sua allieva: egli rispose promettendo darle consigli se il suo talento gli fosse sembrato di natura tale da essere incoraggiato: essa partì senz'altro per Roma. Ed eccola in Italia, combattuta tra ripugnanza e attrazione, agitata, violenta; Liszt, quando la sentì suonare la prima volta, le disse che non sapeva nulla, che sonava senza rilievo; ma aveva grandi qualità di suono e Faccento dello Chopin. Essa assisteva alle se­ dute pianistiche del venerdì a Santa Francesca Romana, ove il Liszt dimorava, e studiava con accanimento, per riuscire a soddisfare le esigenze del maestro. Ma non le bastavano i brevi incontri nei giorni di lezione: lo seguiva di nascosto; e la notte, vestita da uomo, lo spiava celata sotto i portoni dei palazzi. Egli si lagnava della mancanza di buoni copisti di musica per i suoi manoscritti; alcuni allievi li copiavano, ma egli era costretto a rivedere minuziosamente il loro lavoro: la cosacca, che non aveva mai copiato, volle rendersi utile, e in poco tempo giunse a portargli copie perfette. Il Liszt si recò a Tivoli: « Andai a trovarlo due volte la settimana — essa scrive. — Gli portavo dei mazzi ♦ 105 ♦

giganteschi che facevo venire dal giardino di Alfonso Karr a Nizza »; a Tivoli la caccia amorosa della cosacca avrebbe avuto finalmente l'esito cui da tempo essa tendeva. Ed ora sentiamo un po’ Franz Liszt, il quale, in quel tempo, lavorava alla Cantata per il centenario beethoveniano: «La signora Janina (scrive alla prin­ cipessa di Wittgenstein, dalla Villa d'Este, nel gennaio del 1870) è venuta a trovarmi, per domandarmi se ap­ provavo che essa eseguisse Les preludes o un altro pezzo del medesimo genere, nel prossimo concerto di Leitert, con lui. Le ho risposto che non approvavo Leitert di dare così presto un terzo concerto e F ho pregata di non contribuirvi in nessun modo. Essa prevedeva questa risposta e vi si confermerà ». Il 27 del successivo feb­ braio, egli scrive che spera di finire in settimana la Can­ tata: « Frattanto la signora Janina ha fatto una copia modello del pezzo principale: Faria di Milde (uno dei cantanti prediletti dal Liszt). Questa copia figurerebbe onorevolmente in una esposizione calligrafica. L'autrice me Fha portata ieri, scortata da un mazzo enorme, pro­ veniente da Nizza, a proposito di cui l’ho sgridata forte per le sue pazze dissipazioni. Per penitenza, le impongo la copia completa della Cantata, perchè quella di Lei­ tert è piena di sbagli »... Intanto si apprestava a stru­ mentare F adagio del Trio in si bem. del Beethoven « chiave di volta della cantata ». Infatti il 7 marzo Gio­ vanni Sgambati scriveva al suo venerato maestro: « Mi venne consegnato ieri sera dalla signora Janina il suo manoscritto (F«andante» suddetto), alla copiatura del quale darò compimento il meglio che saprò per l'epoca del suo ritorno ». ♦ 106 ♦

Ai primi d'aprile del 1870 Liszt lascia Roma: la cosacca lo segue. La descrizione della vita borghese della piccola capitale sassone è un amore nella sua ma­ lignità: e qualche particolare che può racimolarsi nel grosso volume di Adelheid von Schorn su Franz Liszt, già ricordato, vale a confermare tale descrizione, ri­ dotta, s'intende, a giuste proporzioni. Così pure, con­ siderata, come di dovere, quale caricatura eccessivamente esagerata, non manca di brio la macchietta di una « ra­ gazza invecchiata, un osso di seppia, che abitava in una casa di faccia al Gardenhaus (dimora di Liszt), e che si appellava la Provvidenza di X... Era una seria Provvidenza, perchè aveva impiantato un cannocchiale alla finestra che dava sul Gardenhaus; e, un occhio appiccicato al prezioso strumento, mentre l'altro era fissato sul lavoro a maglia, spiava tutti i movimenti del suo protetto... Quando qualche visita si prolungava, si sentiva il rumore secco di una canna che batteva sul pavimento, con ineguaglianze di ritmo pieno di irri­ tazione, e la zitellona faceva irruzione nel salotto, non lasciando il posto se non quando il nemico — e chiun­ que andava da X... le era nemico —, nauseato delle sue grazie pesanti, la lasciava padrona del campo ». Si tratta proprio della fida Adelheid von Schorn, la quale, nel suo libro curioso e interessante su Franz Liszt e la principessa di Wittgenstein, dichiara espressamente che da sè erasi dato il nome di Damelige Providence (Madamigella Provvidenza): e che, nello stesso libro, apporta i documenti da cui rilevasi che la vigilanza da lei esercitata sulla vita del Liszt, era per conto della principessa, la quale aveva mille timori per l'adorato artista... di cui evidentemente non si fidava troppo. E ♦ 107 ♦

non sembra che il Liszt, pur volendole molto bene, le fosse troppo riconoscente per tale invadente interessa­ mento: infatti alcuni anni dopo scriveva alla princi­ pessa da Weimar: « Sono costretto a lasciar vagare e vogare Adelheid a modo suo, senza per questo miscono­ scere le sue qualità nè mancare ai miei sentimenti di affezione per lei ». Figurarsi, che essa considerava una fortuna le malattie delle persone care, cui poteva così dedicare cure incessanti, alle quali non potevano sot­ trarsi se non con la guarigione o con la morte; nel suo libro essa ingenuamente dichiara che le più belle ore di sua vita furono quelle passate ai capezzali della madre e di Liszt mentre erano malati! E bisogna vedere come si arrabattò nel 1870 per curare i feriti nella guerra franco-germanica, senza poterci riuscire; con suo gran dispiacere li trovava tutti guariti! Aveva però sulle proprie attrattive idee alquanto diverse da quelle espresse dalla cosacca: ad esempio, ricordando una visita di Daniele Liszt, osserva che egli si trovava bene presso la madre di lei: « forse anche — aggiunge — i miei se­ dici anni attiravano i suoi diciotto anni! Danzavo con lui, pattinavo con lui, gli insegnavo tutto quello che potevo ». Sedici anni, e già aspirante-Provvidenza! Un'altra figura muliebre imperante in Weimar, la quale aveva un sottile filo di voce che sapeva adoperare con molto garbo e cantava i Lieder del Liszt, e dalla cosacca detta ex-corista del teatro di Weimar, potrebbe forse identificarsi con Emilia Merian-Genast; di essa il Liszt, in una delle sue lettere al barone Augusz, ri­ corda che canta ammirabilmente i suoi Lieder: « Biso­ gnerebbe che la sentiste per comprendere, condividen­ dola, la mia ammirazione » (9 ottobre 1867). Finalmente ♦ 108 ♦

giunge a Weimar e occupa subito il primo posto, madame M.***, di cui già la cosacca ha fatto parola, ricordandone gli incontri con Liszt a Monaco e a Berlino, e dicendone di tutti i colori a carico di lei: « Che grazie false, che idee false, che sentimenti falsi, che capelli falsi, che falsi posteri! Non aveva di vero se non un cauterio a una gamba e l’alito. Questa invalida del sentimento si ser­ viva abitualmente della sua stampella, ma a Weimar, X... il più gentile degli uomini, si offrì a sostituire la stampella. Attaccata al suo braccio, vestita di un accap­ patoio bianco foderato di rosa, questa rovina traversava i sentieri ombrosi del parco, tubando tutto il suo reper­ torio di recitativi, di notturni é di cantilene... A Wei­ mar la adorarono ». Le grucce, l’interessamento del Liszt, l’affetto che la circondava, l’iniziale stessa del cognome, tutto (ec­ cezion fatta per le insinuazioni perfide) sta a designare Maria di Moukhanoff-Kalergis, nata contessa Nessel­ rode, amica e protettrice efficacissima del Wagner, per aiutare il quale non esitò a sacrificare i propri averi, giungendo a impegnare e vendere le sue gioie; eletta anima d’artista, per cui Franz Liszt aveva somma ve­ nerazione. Nelle lettere di lui ritroviamo le notizie ri­ guardanti attese e incontri con essa, rispondenti esat­ tamente alle indicazioni della cosacca. Costei riferisce al tempo in cui fu col Liszt a Weimar queste parole del musicista: « Queste donne sono buone. Una cosa col­ pisce e tu non hai l’aria di avvedertene: tutti coloro che mi conoscono simpatizzano tra loro. Si amano in me ». Ora, come il Liszt scriveva all’amica Street-Klindwort, era proprio la ravissante Moukhanoff che aveva inventato la espressione « amarsi in Liszt ». Allorché ♦ 109 ♦

essa morì, -grande fu il dispiacere del musicista, il quale organizzò una solenne commemorazione della defunta, per cui scrisse appositamente una bella Elegia, Anche Cosima Liszt aveva qualche astio con la Moukhanoff che non avrebbe creduto di interessarsi presso il Liszt perchè le facilitasse il modo di regolare la sua unione con Riccardo Wagner. Da Weimar Liszt andò in Ungheria ove, per 1’ in­ tervento del suo fido amico il Barone Antonio Augusz, lo attendevano feste ed onori, e una condizione che lo poneva a capo della vita musicale della sua patria: la cosacca, la quale si era allontanata da Weimar, lo raggiunse a Gemenoz, sul Danubio, e di là andò con lui a Sz., ove era il barone d’O. con la famiglia; ed è vero: si trattava appunto di Szexàrd, dimora della fa­ miglia del barone Augusz; la composizione della fami­ glia, con la baronessa, le tre figlie, Anna, Elena e Clara, e i due ragazzi, Antonio ed Emerich; l’impiego del tempo, con la indicazione precisa delle ore e delle oc­ cupazioni; tutto coincide esattamente col romanzo-li­ bello, eccezione fatta per le solite viperesche insinua­ zioni. Una cosa però non si può negare: un’altra (e ben altra) donna aveva avuto qualche gelosia per la forte amicizia del Liszt coi suoi ospiti ungheresi; diversi anni prima egli rispondeva alla principessa di Wittgenstein: « La vostra fantasia sulla signora Augusz è una pura fantasia...». L’arrivo del celebre violinista Remenyi, i suoi atteggiamenti di adorazione per Liszt, la gita a Kalocza, tutto coincide; non solo, ma il musicista si trova proprio in quei giorni costretto a dare affidamenti e assicurazioni alla principessa di Wittgenstein sulla propria vita e sui propri sentimenti. ♦ no ♦

La notizia data alla cosacca dal suo banchiere, essere esaurita tutta la sua fortuna; il ritorno a Roma presso una amica, sono fatti che si rispecchiano in una lettera del Liszt alla principessa: « La signora Janina è a Roma da 15 giorni, dalla sua amica Szeméré (è da notare che le due prime lettere di questo cognome coin­ cidono con le iniziali dell’autrice del terzo libro sulla cosacca, Silvia Zorelli, che di costei si dice amica)... L’anno passato speravo che l’assiduità dei suoi studi musicali e il suo raro talento artistico, non privo di fan­ tasticheria e di fascino, 1’ avrebbero ricondotta a poco a poco sopra una via, se non perfetta, almeno più ragio­ nevole. Era una illusione... La rovina della sua fortuna e vari tentativi di suicidio non sono precedenti felici per il suo avvenire ». Alla fine di novembre del 1871 Franz Liszt accenna alla catastrofe : ma soltanto il 3 febbraio narra estesamente il fatto; dal telegramma minaccioso indirizzatogli dall’America, ove era andata nella speranza di rifare la sua fortuna; dagli avverti­ menti dello Schuberth (S. della cosacca) e di Hébert, all’arrivo a Pesth, alle minacce di assassinio e di sui­ cidio, all’intervento dell’Augusz e del Mihalovich, e, finalmente, alla partenza della Janina per Parigi. Le lettere al barone Augusz e la minuziosa introdu­ zione di Wilhelm von Csapó completano le notizie sul­ l’avventura dolorosa; Franz Liszt ne è afflitto e sopra tutto gli spiace che il suo buon amico ne sia stato tur­ bato: ripete le lodi per le qualità che la Janina possedeva e si indigna per le pubblicazioni scandalose che ne sono conseguite. A proposto: il volume dei Souvenirs d’un pianiste ha una curiosa copertina in cui è raffigurato l’abate X... in atteggiamento assai movimentato, che ♦ ni ♦

stende sopra una tastiera, da cui sgorgano infinite note musicali, le lunghe braccia, terminate da mani enormi, con una straordinaria quantità di dita, così da ricordare le statuette-caricature del Liszt, descritte nei Souvenirs di Léon Escudier, modellate dal Dantan, e provviste di dieci dita per ogni mano.

*** Nella corrispondenza con la Wittgenstein ricorre di frequente un altro nome di donna, ripetuto con espres­ sione di affetto costante e sincero: quello di Jessie Laus­ sot, eroina di un episodio della vita amorosa del Waggner (1850), amica e poi moglie di Carlo Hildebrand, lo scrittore ben noto all’Italia, di cui era amico sincero. La signora Laussot erasi stabilita a Firenze ove, con attività instancabile, iniziò un’azione efficacissima per la diffusione della musica classica e moderna: fondò e diresse la Società Cherubini, promosse la costituzione del famoso Quartetto fiorentino guidato dal Becker, chiamò nella sua patria di adozione artisti preclari, tra cui Hans von Bulow, Giovanni Sgambati, Walter Bach e altri molti. Franz Liszt, ogni volta che passava da Firenze, non mancava di fermarsi a far visita alla buona signora; ed essa e Carlo Hildebrand non di rado veni­ vano a Roma dai loro amici musicisti, i quali, con la si­ gnora Laussot, formavano una sola famiglia, regolar­ mente organizzata: essa aveva assunto la qualità di nonna: Liszt era il padre, Hans Bulow lo zio, Walter Bach un nipote; e così di seguito, fino ai più giovani che esauriti i possibili gradi di parentela, erano designati come i gatti di casa. Uno di questi era Ettore Tinelli, il forte violinista romano, il quale conservava un curioso ♦ 112 ♦

documento relativo a tale organamento musico-fami­ liare: un biglietto da visita di Hans von Biilow che questi lasciò a casa del Tinelli, non avendolo trovato, scrivendoci, sotto il proprio nome e cognome,Via sua qualità di zio di tutti li gatti. Fu la signora Laussot che, non contenta di secon­ dare i nobili sforzi del Liszt per la diffusione della buona musica, riuscì a procurargli una gioia profonda. Da due anni erano troncate le sue relazioni col Btìlow, da lui amato come figlio; e ne era addoloratissimo: il Biilow venne in Italia, e la signora riuscì a riunire i due cuori. Era il 22 ottobre del 1871, giorno natalizio del Liszt; la principezza di Wittgenstein, con la figlia Maria di Hohenlohe, il conte Kàlnoky, il principe di Teano, Giovanni Sgambati, Ettore Tinelli, Carlo Lippi ed altri, amici e scolari, erano riuniti in casa del maestro, a Santa Francesca Romana: al momento annunziato dalla signora Laussot, ecco uno squillo di campanello. Entra Hans von Biilow, con aspetto esitante e com­ mosso; Franz Liszt, non meno commosso, gli va incon­ tro, lo prende sotto il braccio e lo conduce, in silenzio, al pianoforte, ove insieme suonarono il poema sinfo­ nico Orfeo del Liszt, e la riconciliazione avvenne come non poteva meglio, per due musicisti: per mezzo della musica, nel nome del mistico simboleggiatore dell'arte dei suoni. Non credo che VOrfeo sia mai stato eseguito e ascoltato con più intensa emozione.

** Se il primo amore del Liszt, Carolina di Saint-Cricq, svegliò e afforzò in lui il sentimento religioso che lo accompagnò per tutta la vita; se la relazione con la ♦ 113 ♦

contessa Adele Laprunarède intensificò in lui la sim­ patia per la lingua francese, che sempre egli preferì; se la passione tumultuosa per la contessa d’Agoult ne affinò ed elevò il gusto estetico, nobilitando il suo indi­ rizzo d’arte; la lunga amicizia amorosa con la princi­ pessa di Wittgenstein diè ai suoi intenti artistici mag­ giore austerità: e se il cattolicismo invadente e autori­ tario della eletta donna influì sopra di lui nel senso di spingerlo alla conquista della semplicità, fino al punto da farla talvolta degenerare in un semplicismo eccessivo; se, d’altra parte, la innata tendenza alla esuberanza ver­ bale e verbosa della Wittgenstein si riflette nella eccssiva diffusione di talune composizioni del Liszt; la in­ fluenza che essa esercitò sopra di lui non giunse però a soffocare le altre tendenze estetiche del genio lisztiano. Le altre donne, gli altri amori, non lo turbarono: soltanto le pubblicazioni della Cosacca lo irritarono, lo distrassero, rallentando assai la sua attività artistica; prova ne sia la fatica che gli costava allora la composi­ zione dell’oratorio San Stanislao, lasciato incompiuto: mentre in seguito riprese a lavorare con maggiore slan­ ciò. Ma l’influsso femminile non manca di farsi sentire in non poche sue creazioni di ogni tempo. Certamente, non si può pretendere di trovare forza inventiva e carattere nell’operetta Don Sancio da lui composta a undici anni: la accurata analisi fattane dallo Ghantavoine, accompagnata da molte citazioni musi­ cali e dalla riproduzione della ouverture e di una ro­ manza; ci permettono di renderci conto del libretto e della musica; puerilmente insignificante il primo, rica­ vato da una novella del Florian; melodicamente scor­ revole e, data l’età dell’autore, ammirabile per forma, ♦ 114 ♦

la seconda, con sensibili ricordi beethoveniani e, sopra­ tutto, mozartiani. Del resto, nè l’arioso di Elzira: Non, non, aux volontés desDieux, nè l’adagio, Roi de ces bords, e tanto meno il terzetto e il duo d’amore presentano elementi significativi della femminilità del personag­ gio. Ciò però non manca nelle composizioni di età più matura. Mi limito a citare quelle in cui la figura o il simbolo muliebre hanno più importante espressione. Dei poemi sinfonici, primo ci si presenta Les préludes, in cui uno degli episodi è volutamente amoroso: il tipo stesso della composizione, che è tutta una grande variazione, limita la fantasia dell’autore alle possibili modificazioni del tema fondamentale, che non può sostanzialmente tra­ sformarsi anche se sottoposto alle più sensibili elabora­ zioni: tuttavia una espressione teneramente erotica vi è ottenuta con mezzi semplici, ma ha qualche cosa in sè di generico, direi quasi di astrattamente simbolico, che non consente determinazione più esatta di un ele­ mento propriamente femminile. Ben diverso è il caso dell’Amleto: un disegno ritmico affannoso, singhiozzante, opprimente nella sua insi­ stenza, vuol descrivere il turbamento angoscioso che agita il giovane principe: il tema d’Ofelia appare ad un tratto, tenue e chiaro nelle sonorità dolci dei flauti, dei clarinetti, degli oboi, cui si unisce discretamente il violino solo; la pura parvenza della fanciulla si pre­ senta luminosa nei timbri, ma insistenti cromatismi vi si aggirano e la turbano, quasi a dimostrare il concetto che, per definire l’amore di Ofelia, suggeriva al Liszt la interpretazione data dall’attore Dawison alla parte di Amleto: Ofelia ama; ma è vinta dalla sua impossibi­ ♦ 115 ♦

lità di amare Amleto come a lui è necessario di essere amato; e la follia di lei non è che il decrescendo di un sentimento la cui inconsistenza non le permette di man­ tenersi nella regione di Amleto. Infatti le figurazioni musicali di Amleto presto riappaiono e si impongono, nè permettono più al tema di Ofelia di riaffermarsi. La Faust-Symphonie è concepita secondo uno schema assai interessante; è divisa in tre parti: Faust è rap­ presentato nella prima per mezzo di temi caratteri­ stici, i quali esprimono il divagare della mente incerta nelle speculazioni filosofiche; l’aspirazione all’amore; il dubbio tormentoso; Fattività efficace e feconda: i temi si svolgono, si annodano, si alternano nei lunghi (forse troppo lunghi) contrasti, finché ogni agitazione si calma per lasciar libero il campo al tema amoroso, che chiude, con tenue e profondo mormorio, il primo tempo. Al quale segue subito la apparizione di Gretchen, che occupa la seconda parte: una specie di breve preludio, ricamato dai flauti e dai clarinetti, cede il passo ad una melodia dolce, semplice, limpida,cantata dtilF oboe, soste­ nuta da una viola, afforzata poi nelle riprese, ma sempre serena, come l’animo della fanciulla, non ancora offu­ scato dalla passione; un secondo tema esprime le fanta­ sticherie amorose di Gretchen; ma un ritmo più vibrante turba la serenità della mente e del cuore di lei: è il pre­ sagio della passione trascinante, che fa luogo al riap­ parire del tema amoroso di Faust: e mentre le espres­ sioni musicali della fanciulla subiscono qualche offu­ scamento per Famore di Faust, quelle di lui per Finfluenza benefica della fanciulla si addolciscono e si ri­ schiarano. La terza parte rappresenta Mefistofele, per cui sono adoprati i temi stessi di Faust, alterati e con­ ♦ n6 ♦

torti, come i pensieri e gli affetti di lui sono alterati e contorti dalla ironia, dallo scherno dello « spirito che nega »; infine, le manifestazioni demoniache sono vinte dalla forza rigeneratrice e salvatrice dell'eterno-femminino che si afferma trionfale, con la ripresa del tema di Gretchen, che si va ripetendo in progressione ascen­ dente, ampliandosi e diffondendosi largamente con una perorazione risonante, in cui interviene il coro. Alla prima esecuzione, Gretchen fu salutata da fischi: ma è in questa nobile incarnazione dell'eterno-femminino che l'arte del Liszt ha raggiùnto una delle sue più belle e pure e significative espressioni. Il rimanente della sin­ fonia presenta anche esso lungaggini che stancano e diminuiscono il valore della ideazione elettissima. La Dante-Symphonic ha pure essa, nel tumulto della bufera infernale, su cui grava il ritmo fatale: Per me si va nella città dolente,

un episodio tutto dolcezza: l'episodio di Francesca; ma è meno puro e sincero dell'episodio femmineo goethiano. Forse l'autore ha voluto egli stesso che il tetro sfondo della paurosa scena sembri gravare sugli spiriti dolenti; e che la tragedia di cui furono vittima incomba su loro con sanguigni riflessi: certo è che nella diffusa sinfonia, abbondante di pagine magnifiche, par di sentire un certo sforzo. Nella fine, le mistiche note del Magnificat sol­ levano in più luminosa sfera l'animo dell'uditorio, seb­ bene turbate da inopportune ricerche effettistiche. Ed è proprio in queste due Sinfonie, cioè nelle più ampie e forti creazioni di Francesco Liszt, che mag­ giormente si afferma l'influenza femminile nel bene e nel male: nel bene, perchè in esse (sopratutto nella ♦ 117 ♦

prima) il sentimento dell' amore inspira all’artista le più belle e sentite espressioni; nel male, perchè l’inter­ vento della donna gli impose modalità che turbarono la purezza e la nobiltà della creazione estetica. Riccardo Wagner, nelle sue memorie autobiografiche, ricordando la visita fattagli dal Liszt a Zurigo nell’ottobre del 1856, ci rivela in qual modo l’autoritaria principessa di Witt­ genstein era intervenuta nella elaborazione di quelle due opere. « Aveva terminato — scrive il Wagner — le sue Sinfonie di Faust e di Dante, ed era cosa meravigliosa sentirle da lui eseguire al pianoforte, dalla partitura. Sicuro che Liszt conosceva la grande impressione che mi producevano le sue opere, osai fargli osservare l’er­ rore che aveva commesso nella sua sinfonia Dante (come non ricordare a questo punto quella curiosa e lunga let­ tera-lezione che Riccardo Wagner scaraventò sulla testa al povero Liszt per esporgli il significato della Divina Commedia e dimostrargli che non ne aveva ca­ pito nulla?). Se una cosa mi aveva convinto della magi­ strale potenza di concezione poetica del musicista, era il primitivo finale della sua Fausi-Symphonic: il ricordo straziante di Margherita vi fluttuava puro e lieve, senza che l’attenzione fosse forzata con mezzi violenti. Mi sembrava dunque che la Dante-Symponie dovesse ter­ minare in modo identico, non essendovi rievocato il Paradiso se non con la dolce intonazione del Magnifi­ cat librantesi in delicata armonia. « Quale non fu dunque il mio spavento sentendo si bella intenzione troncata bruscamente da un motivo enfatico e plagiato, che, a quanto mi si disse, doveva rappresentare S. Domenico! Esclamai: — No, no! Non ♦ 118 ♦

così! Cancella questo! Non il Dio Signore maestoso! Manteniamo l'ondeggiamento vago e delicato! — Hai ragione, rispose Liszt, era anche la mia idea: la prin­ cipessa è stata d'altro avviso. Ma sarà fatto secondo il tuo consiglio. « Ero contento. Per ciò, in seguito, fu vivissimo il mio dispiacere apprendendo che non soltanto la fine del Dante è rimasta immutata, ma anche quella del Faust, di cui apprezzavo tanto la delicatezza, era stata sosti­ tuita con un finale a grande effetto, afforzato da cori. Questo semplice incidente determina bene la natura delle relazioni che avevo col Liszt, in confronto con quelle che egli aveva con l’amica sua Carolina di Witt­ genstein! ». Nella Santa Elisabetta, l'oratorio prediletto dal Liszt, la figura della regina d'Ungheria, è basata per intero su due temi: uno, dolcemente liturgico, Quasi stella matutina, che fa parte dei cantici per la festa della Santa; l’altro, vibrante e brillante canto nazionale ungherese: i due temi si alternano e si fondono e pervadono tutto l'oratorio, disegnando nettamente il duplice carattere della nobile figura della santa regina: duro e fiero è in­ vece il tema designante la malvagia langravia Sofia. Il miracolo delle rose, la morte e l'apoteosi di Santa Elisabetta hanno una vera dolcezza femminile, raffinata da un sentimentalismo mistico, che cingono la leggen­ daria figura di una vasta, luminosa aureola. Qui l'eterno femminino impera, accompagnato dalle preci della chiesa cattolica. Proprio come nella vita di Francesco Liszt.

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RICCARDO WAGNER La vita di Riccardo Wagner, sotto ogni aspetto considerata, ha formato oggetto di cosi minuziosi, va­ riati, infiniti studi, di così acute indagini, da dover con­ cludere che nulla di nuovo può dirsi sul suo conto, nulla può esporsi che non sia noto a chiunque siasi interes­ sato per un artista che ha segnato così profonda orma nella storia dell"arte. Il musicista creatore e il teorico del dramma musicale non hanno destato minore at­ tenzione dell’uomo: discusso il primo con ardore giunto alla violenza, e dalla opposizione più fiera giunto gra­ datamente alla più convinta e consenziente ammira­ zione per il suo genio, in una apoteosi trionfale; ana­ lizzato, anatomizzato il secondo, messo a nudo il suo cuore, definita la sua mentalità in ogni manifestazione, destando sempre maggiore perplessità nel giudizio di chi non sa staccare l’opera d'arte dall’artista che l’ha estrinsecata. Ma che monta se l’uomo urta i nostri sentimenti, quando il creatore ci offre una serie di espressioni este­ tiche monumentali, come un Lohengrin, un Tristano, I maestri cantori, L'anello del Nib'elungo, Parsifal? Po­ ♦ I2i ♦

tremo indagare se e fino a qual punto l’intima vita del suo spirito e del suo cuore si rifletta nell’opera d’arte; fino a qual punto il sentimento abbia suscitato e nib trito l’idea; fino a qual punto l’organicità mentale abbia costretto l’inspirazione a plasmarsi entro linee predi­ sposte dal teorico: e poi? L’opera d’arte è quella, nè muta aspetto nè si intorbida o si purifica a traverso una ricerca psicologica. L’uomo-Wagner, sarebbe inutile negarlo, non è simpatico: ma dobbiamo riconoscere che se egli avesse avuto altro carattere, altro tenore di vita, probabil­ mente il suo genio non si sarebbe affermato così pode­ rosamente, estrinsecandosi nella sua poliedrica lumi­ nosità in modo così completo come ha potuto, mercè le condizioni di vita conquistate con ogni mezzo, mercè il concorso di aiuti materiali e morali chiesti e offerti, e accolti come dovuti, passando sopra a più d’un cuore ferito, dimenticato, trascurato. Molto si è scrìtto e discusso sul caso Wagner-Nietzsche: l’atto dell’apostolo osannante d’un tempo, che aveva levato al cielo il rin­ novamento estetico ideato dal musicista-poeta-filosofo, glorificandolo nel suo vibrante volume Le origini della Tragedia; e poi, ricredutosi, attacca aspramente il suo idolo d’un tempo; ha destato profonda curiosità e ha dato luogo a induzioni e deduzioni non uniformi: la minuziosa biografia del Nietzsche redatta dalla sorella di lui, Elisabetta Forster, ha tutt’altro che facilitato le indagini. Infatti troppi elementi, variati e complessi, sono stati apportati per la soluzione del quesito, e la diffe­ renza del punto di vista da cui questo è stato conside­ rato non ha davvero contribuito ad ottenere conclu­ ♦ 122 ♦

sioni unanimi: forse Teodoro de Wyzewa più di ogni altro si è avvicinato al vero. Però io non sono mai riu­ scito a togliermi dalla mente una impressione di altri tempi: se esaminiamo spassionatamente le azioni del Wagner, dobbiamo ricavarne la convinzione che egli, conscio dell'alto valore del suo genio, dell’importanza enorme delle sue concezioni innovatrici, della potenza mirabile delle sue creazioni, non aveva scrupoli per cercare e procurarsi i mezzi per l’attuazione dei suoi ideali estetici: mezzi materiali, invocati e accettati; mez­ zi morali o intellettuali, presi con audace assalto a cuori assoggettati e poi abbandonati, dopo averne spremuto il sangue più vivo. Federico Nietzsche, nella cui mente si formava il tipo del Superuomo, cui attribuiva il di­ ritto di conquistare con ogni mezzo il posto che gli è dovuto nel mondo e di procedere a tale scopo piegando e spezzando qualunque ostacolo gli si opponga, sfrut­ tando e calpestando poi chiunque possa offrirgli un’arma o un appoggio, senza esitazioni, senza rimpianti; trovò nel Wagner la teoria fatta realtà: la realtà lo ferì, e ingigantì ai suoi occhi ogni elemento del pensiero e del­ l’arte del Wagner che menomamente contrastasse o non coincidesse esattamente con i concetti informatori della sua filosofia. Da qui la tendenza alla interpreta­ zione ostile di ogni idea che in altri momenti aveva cer­ cato di lumeggiare favorevolmente. Non si creda, intendiamoci, che io voglia ridurre a questo unico principio ogni ragione del dissenso: ma ritengo che molto abbia influito sull’animo del Nietzsche questa sensazione, per cui si trovava a disagio, mentre non voleva nè sconfessare la sua propria ideazione, nè svalutare uno dei capisaldi della sua visione del mondo. ♦ 123 ♦

* ❖$ Fiumi d'inchiostro sono corsi per illustrare la por­ tata dell'amore nella formazione delle opere più impor­ tanti del Wagner; sopratutto la pubblicazione della corrispondenza dì Matilde Wesendonk e Riccardo Wag­ ner, dei diari e delle notizie autobiografiche, hanno offerto un materiale assai ampio a chi ha voluto definire l’influenza esercitata dalla eletta donna sull'arte del Maestro; essa è stata considerata come la inspiratrice delle più forti affermazioni musicali di lui. Eppure Houston-Stewart Chamberlain, colui che è stato defi­ nito « il più competente degli scrittori wagneriani » da uno dei più autorevoli fra questi, Teodoro de Wyzewa, si è opposto recisamente al riconoscimento di tale in­ fluenza; non solo, ma ha negato ogni legame tra la vita affettiva e la creazione estetica del Wagner, con argo­ menti che non mancano di efficacia. Egli infatti osserva che le opere della seconda metà della vita del Wagner {L'anello del Nibelungo, Tristano e Isotta, I Maestri Cantori e Parsifal), non possono di­ sporsi in relazione alla cronologia wagneriana: queste opere sono sorte ad un punto stesso e miste insieme. Prima che una fosse terminata, tutte prendevano già consistenza nell'immaginazione dell'autore. L'ordine in cui i diversi progetti si attuarono sembra esser dipeso piuttosto dal caso, che da qualche intima necessità. Era L'anello che, originariamente, doveva iniziare la serie. Se il lavoro fu interrotto per molto tempo, dal 1857, la causa fu non soltanto e in primo luogo la stan­ chezza, ma anche la scoraggiante convinzione che l’opera non sarebbe mai giunta ad essere rappresentata. Senza dubbio editori e impresari erano d’accordo per chiedere ♦ 124 ♦

qualche nuovo lavoro del Wagner; ma volevano « qual­ che cosa di più corto e più facile » dell’Anello. E il Mae­ stro scriveva al Liszt: « Tu lo sai bene, non avevo un centesimo, e quando Rienzi, a Weimar, non andò, non vidi altra risorsa che fare con gli Hàrtel un affare; per questo scelsi il mio Tristano, appena cominciato... mi offrivano di darmi cento luigi d’oro, ossia la metà degli onorari... appena ricevuta la partitura del primo atto: ed io cominciai a lavorarvi senza interruzione per ve­ nirne a capo. Ed ecco la ragione della fretta — tutta commerciale — che apportai a questo povero lavoro». Altrove il Wagner narra come un messaggio dell’im­ peratore del Brasile, che lo invitava a scrivere un’opera per la Compagnia italiana di Rio de Janeiro, aveva avuto una influenza piuttosto notevole sulla conce­ zione del Tristano. « E si parla ancora — esclama Cham­ berlain — d’un amore appassionato che si pretenderebbe essere la profonda fonte del poema e della musica del Tristano, ciò che lascia senza riposta la questione di sapere perchè un uomo che, in ogni caso, avrà amato appassionatamente più d’una volta nella sua vita, non ha tuttavia scritto che un solo ed unico Tristano... I Maestri cantori furono cominciati a elaborare verso il 1861, in un momento in cui si sarebbe atteso tutt’altra cosa che un’opera gaia, semplicemente perchè... perchè si era trovato un editore per pubblicarli! Parsifal nel 1865, perchè il Re Luigi di Baviera ne aveva espresso il desiderio; L’anello del Nibelungo fu terminato quando la costruzione del Teatro di festa di Bayreuth fu abba­ stanza avanzata da permettere di sperarne prossima la rappresentazione; avvenne presso a poco il medesimo riguardo al compimento del Parsifal. Insomma, gli

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eventi dell'esistenza non hanno con le opere del genio rapporto di causa ad effetto, e nemmeno una qualsiasi stretta relazione ». Però, troppo rigido e assoluto è il principio cui si informa il concetto esposto dal biografo insigne: e se è vero che i molti amori che infiammarono successiva­ mente il cuore del Wagner non poterono aver la forza di imprimere orme sensibili nelle sue inspirazioni musicali, è innegabile un influsso potente del suo^amore più puro, forte e sincero, sulle espressioni sgorgate dalla sua anima nel periodo in cui in queir amore era tutto assorto. D’altronde, è forse cosa certa che l’idea musicale sia sorta nella fantasia del Maestro nell’atto stesso in cui egli ideava la vicenda drammatica? Non credo. Non si può dimenticare la tendenza del Wagner per il dram­ ma in sè, e i suoi non pochi progetti di opere sceniche non musicali; la sua continua evoluzione musicale è chiara ed evidente: il discorso melodico, le espressioni sonore seguono una via senza ritorni, si svolgono con lo svolgersi dei suoi ideali estetici: un soggetto immagi­ nato in un determinato momento della sua vita, ha estrinsecazione musicale rispondente al momento della composizione e non già a quello della ideazione. Non è possibile immaginare i temi del Tristano creati nel tempo in cui il Wagner componeva il Lohengrin; non una battuta del Parsifal anteriore al Tristano, se pure le linee del dramma fossero da tempo ben disegnate nella sua mente.

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Lo studio diligente, acuto, animato, di Julius Kapp, Richard Wagner et les femmes (Paris, Perrin, 1914), offre un quadro completo della vita amorosa del Mae♦ 126 ♦

stro, desunto da documenti autentici, bene vagliati e interpretati, dalle prime impressioni di adolescente, in cui si affacciano le figure di Amelia Hoffmann, delle so­ relle Jenny e Augusta Pachta, di Lea David: amori senza serie conseguenze per l’artista. Ma poi, a 17 anni, una impressione profonda: la celeberrima Guglielmina Schroeder-Devrient eseguisce a Lipsia il Fidelio del Beethoven. « Gettando uno sguardo al passato — scrive il Wagner nella sua autobiografia — non trovo in tutta la mia vita un avvenimento che abbia avuto su di me una influenza tanto forte quanto questa rappresenta­ zione. Chi ha visto l’ammirabile artista in quel periodo della sua carriera, non ha potuto dimenticare la sua azione, così umana insieme e soprannaturale, che faceva veramente passare in noi la sacra fiamma del suo genio. Dopo la rappresentazione mi precipitai da un amico per scrivere una breve lettera nella quale dichiaravo alla grande cantatrice che da quel giorno la mia vita aveva uno scopo, e che se il mio nome sarebbe stato pronunciato con lode nel mondo dell’arte, avrebbe ricordato che essa sola aveva fatto di me quel che io giuravo di diventare... « Debbo ora riconoscere che il disordine che, dopo quella sera, si manifestò per lungo tempo nella mia vita e sopratutto nei miei lavori, risultò dalla eccessiva somma d’impressioni che ricevetti da tale avvenimento. Non sapevo che cosa fare, che cosa cominciare, che cosa produrre, da potersi riportare a quel che avevo provato, e tutto quel che non vi si adattava mi sembrava così insipido e insignificante che mi era impossibile occu­ parmene. Avrei voluto scrivere un’opera degna di Gu­ glielmina Schroeder-Devrient, ma, siccome non ne ero ♦ 127 ♦

assolutamente capace, abbandonai nella mia dispera­ zione esaltata, tutte le mie aspirazioni artistiche... mi lasciai andare... al capriccio del momento e mi abban­ donai... ad ogni sorta di stravizi». Nel 1834, nominato direttore d'orchestra del teatro di Magdeburgo, Riccardo; Wagner vi conobbe Minna Planer, la « prima amorosa » della Compagnia: si ama­ rono. « Il mio amore — scrive il Wagner all'amico Apel — mi dà forza più di quel che potrebbero tutte le no­ zioni morali. Un amore elevato, sentimentale rischie­ rebbe ora di snervarmi: così com'è, il mio amore mi rende gaio e tranquilllo... Minna... mi ama, ed il suo amore ha ora per me gran , valore. Attualmente è il mio punto centrale, dandomi il calore e la consistenza di cui ho bisogno. Mi sarebbe impossibile rinunziarvi. Mi dispiace molto, caro Teodoro, che tu non conosca la dolcezza di relazioni come queste. Nulla v’è di comune, di indegno, di deprimente. Il nostro epicureismo è puro e vigoroso. Ci amiamo e crediamo l'uno nell'altra: ab­ bandoniamo alla sorte ogni altra cosa. È una vita che non si può vivere se non con una donna di teatro: in nessun'altra parte si potrebbe trovare questa indiffe­ renza assoluta per le convenienze borghesi, ma soltanto là dove il suolo tutto non è altro che capriccio fanta­ sista e poetica libertà ». Ma proprio la vita teatrale, che poneva a contatto con una schiera di ammiratori e vagheggini la più gra­ ziosa e festeggiata attrice di tutto il teatro, destando in Riccardo Wagner viva gelosia mentre ei non poteva vantare sulla giovane diritti che gli permettessero legal­ mente di intervenire, fu questa vita che lo indusse ad unirsi a Minna coi legami di un regolare matrimonio, ♦ 128 ♦

(( per assicurarci reciproco diritto alla gelosia », come poi doveva scrivere. Il matrimonio tra il Wagner, allora diret­ tore della musica al teatro di Koenigsberg, e Minna Planer ebbe luogo il 24 novembre 1836. Ma non fu ma­ trimonio felice: le difficoltà, le strettezze in cui si dibat­ teva la giovane coppia, il cattivo andamento del teatro, spingevano Minna a far valere il suo fascino personale per tenersi cari protettori influenti, dando occasione a così violente scene di gelosia da parte di Riccardo, che la moglie lo abbandonò per rifugiarsi presso un ricco commerciante, tal Dietrich. Pentita, Minna supplicò, ottenne perdono e si riunì col marito, il quale, intanto, aveva ottenuto il posto di direttore della musica al teatro di Riga. Insieme i due coniugi si sottrassero al giogo insoppor­ tabile delle piccole scene di provincia e nel giugno del 1839 fuggirono da Riga alla volta di Parigi, ove Riccardo Wagner sperava poter fare eseguire la sua opera Rienzi, La traversata per mare fu turbata da così fiero mal­ tempo da costringere il battello ad approdare in Inghil­ terra: la tempesta e i paurosi racconti di bordo dovevano suggerirgli il soggetto di un nuovo spartito: L'olandese volante, ossia II Vascello Fantasma, Le speranze del Wagner furono completamente deluse: senza risorse, senza appoggi, la vita dei due co­ niugi a Parigi fu una serie ininterrotta di sofferenze: e il dissidio tra quelle due anime, mentre affettuosamente si sostenevano a vicenda, si andava delineando. Minna, donna di casa, non comprendeva che il marito, invece di dedicarsi ad occupazioni che il suo genio musicale avrebbe reso largamente redditizie, si perdesse dietro a vaghi sogni, a fantasie non realizzabili: non sopportava ♦ 129 ♦

che egli facesse appello, senza esitare, ad amici e cono­ scenti per aver sovvenzioni tali da permettergli di lottare per raggiungere i suoi ideali e soffriva e si ribellava contro quel sistema di « chieder l'elemo­ sina», come essa lo definiva, che la umiliava profon­ damente. Ma ecco ad un tratto l'orizzonte si rischiara, le nubi si dissolvono; il teatro di Dresda metteva in scena il Rienzi, che ebbe successo trionfale: l'esito dello spar­ tito portò come conseguenze immediate l'accoglimento, da parte del medesimo teatro, del Vascello Fantasma e la nomina del Wagner, divenuto subitamente cele­ bre, a maestro della Cappella reale di Dresda per tutta la vita. Minna era ai sette cieli: ormai le sue preoccupa­ zioni per le esigenze della esistenza materiale non ave­ vano più ragione d'essere; non c’era più bisogno di ri­ correre alla beneficenza altrui. Che importava se il nuovo astro attraeva a sè d'intorno stelle e pianeti? Se la Schroeder-Devrient, che raggiungeva allora la più alta curva della sua parabola amorosa, si era a lui affezionata? Se la moglie del regio intendente dell'Opera di Dresda, von Luttichau, la moglie del ciambellano von Konneritz, gli esprimevano in tutti i toni la loro ammirazione? Se II Vascello fantasma gli procurava l’entusiastico affetto di Alwina Frommann, che doveva riuscirgli tanto utile quale amica della moglie del prin­ cipe Guglielmo di Prussia? « La mia patria — le dichia­ rava il marito — è costituita da te e dalla nostra casetta, e nulla conosco quaggiù che possa tenermi luogo di questo... No, in verità, la mia ambizione non va oltre: una bella patria in un cuore amato, ecco quel che vedo al di sopra di tutto! ». ♦ 130 ♦

* Mt Felicità di breve durata: il genio spiegava le sue ali, e le meschine mentalità che lo circondavano non lo comprendevano e non sapevano nè potevano se­ guirlo: Riccardo Wagner vedeva e sentiva che il rin­ novamento artistico da lui vagheggiato non* avrebbe potuto effettuarsi se non con un rinnovamento politico: si avvicinavano tempi nuovi: fermenti rivoluzionari si diffondevano, penetravano le menti di chi aspirava a nuova vita, a nuova luce. La povera Minna vedeva con vero spavento le tendenze rivoluzionarie del ma­ rito; convinta di comprenderne lo sviluppo spirituale, non giungeva a rendersi conto delle sue agitazioni po­ litiche: « Col mio semplice buon senso — scriveva essa in seguito — vedevo che non c'era nessun utile da rica­ vare dalla sua politica; e siccome in pari tempo consta­ tavo che di giorno in giorno egli si allontanava dalle vie dell'arte sua, questa constatazione si accompagnava per me con una impressione dolorosa, come se queste nuove tendenze, separando mio marito dalla sua vera carriera, l'avessero separato da me ». Essa non poteva ammettere il volontario abbandono di un benessere conquistato alfine dopo tante prove difficili e sacrifizi enormi, per seguire immaginazioni che a lei sembravano folli e pericolose chimere, mentre il Maestro non poteva rinunziare alla sua alta missione per meschine considerazioni utilitarie. « Allorché, dopo una nuova umiliazione, dopo un nuovo scacco, pro­ fondamente triste tornavo a casa, che cosa ricevevo da mia moglie, invece della simpatia e delle consola­ zioni che mi sarebbero state necessarie? Rimproveri, rimproveri, nuli'altro che rimproveri! E ciò non ostante, ♦ 131 ♦

col mio bisogno d'intimità, restavo a casa, ma non era per sfogarmi e per avere consolazioni; ormai, era per tacere, per lasciarmi divorare dall’affanno; in una pa­ rola, per esser solo! ». Gli eventi precipitano: il moto rivoluzionario fal­ lisce: contro il Maestro di cappella della corte, grave­ mente compromesso, è spiccato mandato d’arresto. Il Wagner è costretto a fuggire da Dresda: per consi­ glio e con l’aiuto di Francesco Liszt va a Parigi per tentare di ottener l’incarico di uno spartito per l’Opéra. Minna rifiuta di raggiungerlo finché non si trovi in condizioni di provvedere al mantenimento della fami­ glia mediante un’entrata regolare. Non riuscendo a su­ perare gli ostacoli incontrati a Parigi, il Maestro si reca a Zurigo, ove, mercè il denaro che riceve dal Liszt, in­ tende stabilirsi per comporre tranquillamente lo spar­ tito che spera sempre poter dare all’Opera: ma ha bi­ sogno di una vita di famiglia come quella in cui ha composto le precedenti opere. E si rivolge ancora al buon Liszt: « Oh, amico mio carissimo! Da te dipende quel che ho di meglio, il bene dell’anima mia, l’avvenire della mia arte! Te ne supplico, riconsacrami per l’arte mia! Vedi, io non aspiro ad una patria materiale: ma aspiro con tutto l’entusiasmo a questa povera, buona e fida donna, alla quale ancora non ho dato che affanno, e che, con tutta la sua serietà e la mancanza di esalta­ zione, si sente tuttavia legata eternamente a questo diavolo sfortunato e incorreggibile che sono io. Te ne supplico, rendimela! Mi darai in una sola volta tutto quello che. per me puoi desiderare, e di questo, vedi, saprò esserti tanto riconoscente! sì, in verità, ricono­ scente! Vedrai allora come tutto scorrerà facilmente ♦ 132

dalle mie mani: i miei lavori per Parigi, i miei opuscoli, i miei articoli. Potrò anche inviarti, il mese venturo, due abbozzi di libretti d’opera. E d’ora innanzi t’assi­ curo che ti obbedirò docilmente: ma rendimi la mia povera moglie. Fa’ in modo che presto, prestissimo, essa venga a me gaia e fidente. Mandale quanto danaro potrai mettere insieme. Si, ecco come sono: posso men­ dicare, potrei rubare, semplicemente per offrire un po’ di gioia a mia moglie! Mio caro Liszt, soccorrimi, soc­ corrimi! ». L’ottimo Liszt, come sempre, rispose all’appello: Minna, mercè l’aiuto pecuniario di lui, potè disimpe­ gnare parte dei mobili e con essi lasciar Dresda per rag­ giungere in Svizzera il marito, ma non per apportargli quella tranquillità cui egli anelava. Essa attendeva che egli fosse per scrivere un’opera pei’ Parigi: egli in­ vece si occupava dei suoi scritti teorici e critici, com­ prendendo che gli spartiti da lui ideati erano inesegui­ bili allora, nella capitale francese, ove imperava la « musica dei banchieri ebrei » (leggi Meyerbeer). Eppure, stimolato anche dai suoi sovventori, tra cui Liszt, si indusse a tentar la prova e tornare a Parigi: ove ben presto si convinse dovere abbandonare ogni speranza di riuscita. Ma un nuovo aiuto gli giunse in buon punto: la madre di Carlo Ritter, giovane musicista suo amico, interessò alla sorte del maestro una inglese ammira­ trice di lui, Miss Taylor, la quale aveva sposato un francese e si era stabilita a Bordeaux: era quella signora Jessie Laussot, il cui nome è già apparso in queste pagine presso quelli del Liszt e del Bulow: le due si­ gnore stabilirono di porre annualmente a disposizione ♦ 133 ♦

del Wagner una somma sufficiente pel suo mantelli^ mento. A grande stento Minna si adattava a subire questa nuova elemosina: ma si ribellò quando seppe che il marito contava rinunziare a Parigi, ed ancor più quando si convinse che egli si tratteneva a Bordeaux presso la Laussot non per sole ragioni artistiche. Infatti Jessie, stretta nei legami di un matrimonio non rispon­ dente alle sue aspirazioni, vide nel Wagner il suo libera’ tore, e vide in sè la compagna che occorreva all’artista. L’episodio passionale finì dolorosamente: calunnie e verità si intrecciarono per desolare gli animi: al faL lito progetto di liberazione si sostituì la separazione e con essa svanì l’aiuto pecunario: e il maestro si riunì con Minna, la quale, intanto, aveva preparato un nuovo nido a Zurigo, in riva al lago, come una volta il Wagner aveva desiderato. « Ho avuto dal cielo una nuova moglie — scriveva il Wagner — o, piuttosto, mia moglie è rimasta, in tutto, ciò che era prima: sono però io che ho adesso appreso per sempre che, qualunque cosa debba accadermi, fino all'ora della mia morte sarò sicuro di averla, fedelmente, presso di me. Certamente, io non ho mai avuto il pensiero di sottoporla a qualche cosa come una prova: ma, accogliendo gli avvenimenti come ha fatto, essa ha veramente traversato una specie di prova del fuoco, quale doveva subire una donna la quale desideri attestare che sarebbe sempre pronta a restare la fedele compagna d’un uomo che vive sol­ tanto per l’avvenire, e non intende navigare se non verso questo solo porto ». Nuove strettezze, nuovi dissapori: nuovo appello al Liszt, il quale procura al Wagner l’incarico uffi­ ♦ 134 ♦

ciale di comporre per il teatro della corte di Weimar La morte di Sigfrido, un dramma da tempo ideato: ma il soggetto si era trasformato nella mente del Maestro, e ampliato fino alla colossale concezione della tetra­ logia dell’Anello del Nibelungo, che non avrebbe cer­ tamente potuto essere accolta in quel piccolo teatro di Weimar, ove poco prima, sempre in virtù della instancabile attività del Liszt, erasi trionfalmente affermato il Lohengrin. Due avvenimenti giunsero in buon punto a liberare il Wagner dalla difficoltà di risolvere una questione assai ardua: la signora Ritter aveva fatto una rile­ vante eredità e poteva essa stessa assicurare un con­ gruo assegno annuo al musicista: questi si legò di stretta amicizia coi coniugi Otto e Matilde Wesendonk. Ecco la solenne manifestazione dell'amore più profondo ed alto che sia divampato nel cuore di Riccardo Wagner; ecco finalmente la donna dalla mente eletta, dal cuore ardente, tali da comprendere e sentire completamente l’artista e l’uomo; da inspi­ rargli le più eloquenti e significative espressioni del­ l’arte sua, scaldata dalla gran fiamma che tutto lo incendia e lo fa vibrare. L’amore di Matilde Wesendonk domina e protegge la creazione della monumen­ tale Trilogia, e del miracoloso inno d’amore: Tristano e Isotta. Rievocare e ancora narrare la grande passione, nei suoi episodi di dolcezza, di entusiasmo, di esal­ tazione, di dolore, dopo le pagine eloquenti dello Schuré, dopo le acute indagini di Giulio Kapp, dopo la infinita massa di pubblicazioni intese ad illustrarla e divulgarla, dopo le compilazioni d’ogni genere de­ ♦ ^35 *

sunte dal carteggio e dalle memorie dei due grandi innamorati, sarebbe ripetizione oziosa. Il fecondo periodo di vita del cuore del Wagner, scosso e turbato dalla violenta reazione di Minna, doveva dopo non molto tempo cedere il passo all’ultimo e ben diverso legame amoroso, mentre il Maestro finalmente con­ quistava la realtà del suo gran sogno d’arte, per giun­ gere al riposo nella serenità delle mistiche luci del Parsifal,

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Francesco Liszt, l’artista sereno, l’uomo tutto bontà e disinteresse, il vero angelo tutelare del Wagner, doveva dare a lui (sebbene non con animo lieto) la forte compagna degli anni buoni: e perfino il ca­ priccio transitorio. In un primo periodo della re­ sidenza del Wagner a Parigi, fu Blandina LisztOllivier che apparve con lui più intimamente legata, tanto da destare non ingiustificata gelosia in Minna; ma fu poi la minor sorella, Cosima Liszt-Bulow, che doveva impadronirsi completamente e definitivamente di lui, per sempre. Appaiono presso il Maestro e poi scompaiono altre figure muliebri, come Serafina Mauro, Matilde Maier, Federica Meyer; la piccola Marietta, la damigella di compagnia dalle mutandine rosa: ma non lasciano traccia di sè. Cosima predomina: Hans von Biilow, dopo essersi battuto per conservare la donna che ama, si rassegna e cede: il divorzio libera Cosima; la morte di Minna, libera Riccardo: il loro amore è con­ sacrato dal matrimonio. Né, in seguito, potè esplicare qualsiasi influenza su di lui la intellettuale attività e la bellezza di Giuditta Gautier, la coltissima e fervida figlia di Teofilo. ♦ 136 ♦

Strana figura, quella di Cosima. Donna di alta in­ telligenza, di forte volontà; tempra di organizzatrice e amministratrice efficacissima, ella prese con mano ferma e sicura le redini della vita di Riccardo Wagner, per guidarla senza deviare nella via trionfale che ormai le era segnata, per mantener viva Parte e Fanima di lui, oltre la tomba, così come egli aveva ideato. Senza scrupoli per la conquista assoluta dell’uomo, non esita a coltivare quegli istinti di superuomo in lui esistenti, fino a durezze imperdonabili. Se era stato il Wagner stesso a rivolgersi al munifico We­ sendonk (il quale non aveva esitato a sborsare una forte somma per acquistare gli spartiti dell’Anello, sol per dargli modo di attendere senza preoccupazioni alla loro composizione) per chiedergli in pari tempo di disporre di quelli spartiti, avendone combinato la cessione all’editore Schott, e di versare un’ultima quota, per la parte non ancora composta; fu invece Cosima a scrivere a Matilde Wesendonk una letterina complimentosa per richiederle un portafoglio un tempo donatole da Riccardo, contenente antichi articoli e scritti. La Wesendonk, giustamente stupita e offesa, si li volse allo stesso Wagner, per chiarire la cosa: ed egli rispose con una lettera impacciata e tortuosa, in cui, ìnentre sembra voglia dire essere stata fatta a sua insaputa la richiesta, trova che la cosa non presenta nulla di strano, visto essere il re Luigi di Baviera che voleva possedere tutti i vecchi manoscritti di lui. « Matilde Wesendonk comprese e tacque — scrive lo Schuré — Tristano era ridiventato Sigfrido. Aveva bevuto un nuovo filtro... e mostrava una volta di più la sua incommensurabile facoltà d’oblio ». Allorché ♦ 137 ♦

Riccardo Wagner la invitò a recarsi a Monaco per la prima rappresentazione di Tristano e Isotta, Matilde non andò: non poteva assistervi, insieme alla novella Isotta. Quando Riccardo Wagner morì, Francesco Liszt, dimenticando il dolore procuratogli dalla figlia col divorzio dal Biilow per sposare il Wagner, volle recarsi a consolarla: volle poi visitarla; ma Cosima dichiarò non poter ricevere nessuno, nemmeno il padre, per non essere distratta nel suo dolore: però vedeva il direttore di scena del teatro di Bayreuth per di­ scutere l’allestimento degli spettacoli !

*** Di fronte a questa rapida rievocazione della vita amorosa del Wagner, ripensando alla sua attività ar­ tistica, è possibile controllare la recisa affermazione del Chamberlain, da me già ricordata, che esclude ogni legame tra la vita affettiva e la creazione estetica del Maestro. Nel tempo dei primi amori, fino al matrimonio con Minna Planer e durante il primo periodo della vita coniugale, Riccardo Wagner, dopo Le fate e II divieto d'amare, in cui nessuna figura muliebre assume rilievo degno di nota, compose Rienzi, Il Vascello Fantasma, Tannhànser, Lohengrin. Nessun interesse desta, sopra tutto musicalmente, «Irene» la sorella del tribuno: i suoi migliori momenti musicali hanno prevalentemente un valore sonoro più che espressivo. « Senta », la allu­ cinata fanciulla, animata da una passione sopran­ naturale per il navigante dannato, ha accenti energici, ma non profondi. Tutta dolcezza è «Elsa»; il suo amore 138 ♦

per Lohengrin è amore di sogno, che si esprime con purezza mirabile; Elsa è un essere etereo, che si spegné ai contatto del dolore: ben diversa plasticità musicale ha invece, nel medesimo spartito, la fiera « Ortruda », tutta livore e odio. Idealmente serena, ma non troppo consistente, la pura immagine di « Elisabetta », il cui amore per Tannha­ user è piuttosto narrato che espresso: e nello spartito è quasi esclusivamente, in Wolframo che un palpito di vita freme sotto la mistica parvenza del poeta inspirato. Ecco però alfine l’inno d’amore, ardente, immenso, inestinguibile: ecco l’amore di «Isotta» che prorompe trascinante, fiammeggiante: il filtro suscitatore della veemente passione è nel cuore dell’artista: Tristano e Isotta giungono ad esprimere le più grandi parole che amore abbia mai pronunziato, perchè l’amore di Riccardo e di Matilde è veramente gigantesca pas­ sione, penetrata nel più profondo dei loro cuori, che li trascina invincibilmente. Unico vero e grande amore; unica donna inspiratrice della passione amorosa è Matilde Wesendonk al genio di Riccardo Wagner. Sotto l’influsso di tale pasione sgorgano dall’anima musicale del Wagner canti alati, come nella scena d’amore tra Sigmondo e Siglinda nella Walkiria, come l’inno di Brunilde, quando il bacio d’amore di Sigfrido la sveglia dal lungo sonno magico: v’è in queste espressioni un’eco sonante delle dolci ispirazioni sug­ gerite dalle stesse parole della Wesendonk; i Cinque canti composti da Riccardo Wagner su poesie di Matilde, sono fiori sbocciati direttamente dal suo cuore: e nell’ultimo, l’inno d’amore del Tristano si svolge in tutta la sua miracolosa intensità suggestiva. ♦ *39 ♦

I Maestri Cantori presentano una delicata figura muliebre, «Èva», dolcemente amorosa, senza fremiti di passione; la selvaggia «Kundry» del Parsifal non avvince per sincero slancio amoroso; i suoi accenti più profondi e commoventi sono dettati da impres­ sione d'amor materno, nel ricordo mirabile del bimbo; non da un amore — passione, forte, sublime. La figura di Cosima resta a fianco del Maestro mentre nella sua mente si maturano queste ultime creazioni; nobili e grandi opere, in cui il genio del Musicista raggiunge cime eccelse; ma non vi si ripercuotono i fremiti squas­ santi della passione vissuta, che pervadono Tristano e Isotta. He H< Hi

In Riccardo Wagner due aspetti predominano: l'artista di genio e il teorista filosofante. Nei suoi scritti egli ha voluto affermare un sistema: ha voluto definire le ragioni, l'essenza, le forme del dramma musicale ideale; ha poi voluto tradurre in pratica le sue teorie. Ma la fantasia creatrice lo ha preso tutto allorché si è accinto all’opera: e, di volta in volta, nuove espressioni, nuovi atteggiamenti, nuove rivelazioni si manifestano irre­ sistibilmente allorché egli dà vita sonora alle imma­ gini sceniche e drammatiche, alle figure poeticamente ideate. Ed ecco poi, nel riflettere sull'opera d'arte sgorgata dalla fantasia eccitata, quel lavoro ingegnoso, ma faticoso, in cui egli cerca farla rientrare nel quadro teorico da prima tracciato; ecco quelle contradizioni, quelle forzature del pensiero, che tanto hanno dato da fare a chi ha voluto delineare il sistema unico del Wagner, cercando di accordare le diverse affermazioni, con un lavoro analogo al faticoso studio dei romanisti ♦ 140 ♦

tedeschi, inteso a porre d'accordo i testi discordi del Corpus iuris, per poterli applicare praticamente. In Riccardo Wagner compositore, il genio musicale imperava assoluto signore e padrone: le sue ideazioni poetiche trovavano spontanea interpretazione musi­ cale: e quando un sentimento più forte lo invase, ne fu trascinato irresistibilmente. Aveva pensato di scri­ vere uno spartito di modeste dimensioni, di facile esecuzione, all* italiana: si accingeva all'opera per raggiungere un tale scopo: ma tutto l'essere suo, ine­ briato e acceso dell'amore di Matilde, si levò, e gli dettò il Tristano, l'inno trionfale della imperante passione sentita. Compiuto lo spartito, egli dichiarava d'aver conoscenza di « non potere ormai scoprir più nulla di nuovo ». Fu in quel periodo che si compì in lui la evo­ luzione per cui egli divenne il «musicista dell'avvenire»; quando cioè conobbe colei di cui disse: « Essa è e rimane il mio primo ed unico amore. Questo amore è stato l'apice della mia vita: e gli anni dolorosi e meraviglio­ samente belli che ho passato sotto l'incanto, crescente senza posa, della sua presenza, contengono anche tutta la dolcezza della mia vita». A Matilde Wesendonk scriveva Riccardo Wagner: « D'aver creato Tristano, lo debbo a te, per tutta l'e­ ternità ».

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LUDWIG VAN BEETHOVEN Nella storia della musica il sommo Beethoven si erge, saldo, forte, dominatore, al disopra delle più alte figure dei musicisti che l’umanità onora e ammira: è come un faro possente, che getta luce sopra un ampio orizzonte, rivelando mondi ignorati. Il segreto dell’arte sua è nella sua intima tragedia: segregato dal mondo dei suoni dalla più terribile sventura che possa piom­ bare su di un musicista, la sordità, egli attinge nell’in­ timo suo essere gli elementi dell’arte sua: nel suo iso­ lamento fonico non sente altri suoni che non siano i palpiti del suo cuore, le vibrazioni della sua anima: le visioni esterne, paurosamente mute per lui, raggiun­ gono estrinsecazioni musicali a traverso l’ardente cro­ giuolo del suo pensiero, del suo sentimento, e vivono di una vita nuova. La musica del Beethoven, materiata della sua anima, ha in sè un elemento che dà all’arte dei suoni un nuovo orientamento: è musica nuova, perchè tutta pervasa da un’onda animatrice di passione vibrante, che fino allora l’arte musicale ignorava; o, se taluno aveva già fatto parlare il cuore nelle proprie creazioni musicali, ♦ 143 ♦

ciò era avvenuto per eccezione, sporadicamente: basti pensare alle poche pagine passionali in quella ricchis­ sima, inesauribile miniera di pure, preziose gemme che è l’opera musicale del Mozart. Il piccolo libro in cui Romain Rolland ha riassunto, in una sintesi eloquente, l’eroica vita del Beethoven; l’ampio volume in cui un illustre etologo, il prof. Gu­ glielmo Bilancioni, ha analizzato l’anima estetica del Beethoven a traverso l’indagine profonda della sua malattia, definiscono nitidamente le fonti dell’arte del grande musicista. Un instancabile raccoglitore, tra­ duttore, divulgatore di scritti riguardanti la musica e i musicisti, Gualtiero Petrucci, ha stralciato dalle let­ tere del Beethoven quelle indirizzate alle amiche, rife­ rendosi, nell’illustrarle, sopratutto al sintetico studio del Rolland, ai saggi critici di Teodoro de Wyzewa. Da questi elementi può desumersi la vera essenza dell’arte del Beethoven, l’importanza che potè avere sulla sua creazionel’eterno-femminino, così fondamentalmente diversa da quella influenza che la donna esercitò sull’arte dei mu­ sicisti romantici, eredi più o meno legittimi del tesoro ac­ cumulato e largito dal gran Padre della musica moderna. E non senza uno scopo ho creduto ricordare breve­ mente il Beethoven dopo quei suoi eredi, per attingere a tale inesauribile fonte di vita una forza ideale illu­ minatrice, tutta purezza, anche nei fremiti della tem­ pesta. ❖ # sfc

Diceva il Wegeler, suo fido amico, non aver mai visto il Beethoven non agitato da una passione spinta fino al parossismo; e, di vero, più di una donna esaltò fieramente il suo cuore; più volte egli aspirò al matri♦ 144

monìo; ma rimase sempre deluso e solo. Egli non cercava il piacere, non la soddisfazione dei sensi: aborriva in modo assoluto dalla volgare avventura. In amore, aveva una visione di una virtuosità altissima, intransigente: tanto che è stato ripetutamente affermato aver egli biasimato severamente il Mozart perchè aveva scelto e posto in musica un soggetto riboccante di particolari immorali, come Don Giovanni; nè può dimenticarsi l'affermazione del suo fido Schindler, che il Beethoven « traversò la vita con un pudore verginale, senza aver mai avuto da rimproverarsi una debolezza ». « Oh, Dio — esclamava il Maestro in una lettera ad un amico d'infanzia —, fammi finalmente incontrare colei che mi è destinata e che mi confermerà nella virtù ». È noto l'aneddoto riferito da Ferdinando Hiller, cui l'avrebbe narrato Ferdinando Paer, circa la scelta del soggetto dell'opera Fidelio, fatta dal Beethoven. Fidelio è tratto da un libretto di Gian-Nicola Bouilly, Leonora o l'amor coniugale, scritto per il tenore-compo­ sitore Pietro Gaveaux, eseguito al teatro Feydeau a Parigi il i° ventoso dell'anno VI (19 febbraio 1798), e nuovamente posto in musica, su un adattamento ita­ liano, dal Paer, e rappresentato la prima volta a Dresda il 3 ottobre 1804. Narrava il Paer che una sera a Vienna, al teatro An der Wien, ove si eseguiva la sua Leonora, il Beethoven, che era seduto al suo fianco, seguiva col più vivo interesse la rappresentazione; e dopo aver più volte esclamato: « Oh, com'è bello, com'è interessante! », avrebbe finalmente detto allo stesso Paer: « Bisogna che lo metta in musica ». Però è da ritenersi che il vecchio maestro parmense siasi divertito a mistificare Ferdinando Hiller: infatti, ♦ 145

la prima rappresentazione dell’opera del Paer a Vienna ebbe luogo 1’8 febbraio 1809, quattro anni dopo che Fidelio era stato composto, e il Paer aveva lasciato l’Austria fin dal 1802, per recarsi a Dresda quale diret­ tore d’orchestra di quel teatro di corte; mentre fu nella seconda metà del 1803 (prima che la Leonora del. Paer venisse alla luce) che Beethoven aveva ricevuto la com­ missione di scrivere lo spartito ed era in possesso del libretto: certamente quello stesso già posto in musica dal Gaveaux, la cui partitura era stata stampata a Parigi nel 1798, e un esemplare n’è stato ritrovato tra i libri del Beethoven. Devesi ritenere sia stato lo Schikaneder, richiamato alla Direzione del teatro An der Wien, a se­ gnalare il soggetto al Beethoven, trasmettendogli un libretto che egli sapeva rispondente ai sentimenti del Maestro. Infatti Fidelio è nobilissima affermazione dèli’amor coniugale, che spinge Leonora (travestitasi da uomo col nome simbolicamente significativo di « Fidelio ») ad af­ frontare con vero eroismo ogni pericolo per amore del proprio marito, ingiustamente perseguitato, incarcerato, destinato a morire, e che essa riesce a salvare e liberare, mentre il persecutore ha giusta punizione. La predilezione del Beethoven per questo soggetto, che ripetutamente ritoccò e rielaborò per migliorarlo e assicurarne la vitalità, vale a definire quale fosse l’ideale amoroso del grande artista, fin dalla prima giovinezza. A 17 anni perse la madre adorata, colei che col profondo suo affetto aveva sostenuto la triste gioventù dell’ar­ tista, costretto dal padre ad una faticosa applicazione, senza riposo, senza sollievo, intesa a sfruttare le atti­ tudini ammirevoli del figlio per la musica; e fu proprio ♦ 146 ♦

perchè alla musica era destinato, se il giovane Beetho­ ven non prese in odio quel?arte, a causa di una simile costrizione. Una gentile figura di donna addolcì la sua triste gio­ vinezza: Leonora di Breuning, sua compagna d’infan­ zia, cui egli insegnava la musica e che lo iniziò alla poe­ sia. Un affetto sincero e profondo, una tenera amicizia legò per tutta la vita il Beethoven a Leonora: essa sposò il dottor Wegeler, che fu uno dei migliori amici dell’ar­ tista, e l’affetto di quei tre nobili cuori si mantenne se­ reno e forte per tutta la vita. Le sue impressioni gio­ vanili, il padre Reno, così bello nel tratto in cui bagna Bonn, la sua città natale; le immagini della madre e di Leonora, sane e luminose impressioni, rimasero sempre vive in lui e gli dettarono le più dolci sue inspirazioni. Aspirò sefnpre al ritorno al suo paese, ma non riuscì a veder fatto realtà il sogno, nè rivide più la patria, « la bella contrada ove ho visto la luce del giorno, sempre così bella, così chiara ai miei occhi, come quando la lasciai ». Nel 1801 gli inspirava una viva passione quella Giulietta Guicciardi alla quale dedicò la meravigliosa Sonata in do diesis minore (op. 27) che una tradizionale designazione intitola: Al chiaro di luna; nel 1806, sembra certo, indirizzava ardenti pagine alla « amata immortale », resa veramente immortale dall’amore del grande musi­ cista. Mentre più laceranti erano le sue sofferenze, per­ chè colpito dalla terribile sordità, un raggio di luce scen­ deva a illuminarlo con la gioia di un amore ricambiato: e ne scriveva al fido Wegeler: «Vivo più dolcemente e mi unisco di più agli uomini... Questo cambiamento è opera di una cara fanciulla; essa mi ama ed io l’amo. Sono i



primi momenti felici che ho, da due anni in qua ». Molto si è discusso per determinare chi fosse questa « amata immortale »: sembra debba escludersi Tipotesi che la identificava nella Guicciardi, forse nemmeno è da accet­ tarsi fosse Teresa Malfatti; ed è più probabile si tratti della contessa Teresa di Brunswick. Il Maestro era amico del fratello di lei, Francesco; fu ospite della famiglia, nel 1806, a Mortonvasar in Ungheria; là si amarono: « Una domenica sera — scri­ veva Teresa di Brunswick — dopo desinare, al chiaro di luna, Beethoven si assise al pianoforte... Suonò alcuni accordi nelle note basse; e, lentamente, con una solennità misteriosa, eseguì un canto di Sebastiano Bach: Se vuoi darmi il tuo cuore, che sia anzitutto in segreto; e che nessuno possa indovinare il nostro comune pensiero. Mia madre e il curato sperano addormentati; mio fra­ tello guardava davanti a sè, gravemente; ed io, che il suo canto e il suo sguardo penetravano, sentii la vita nella sua pienezza. La mattina seguente ci incontrammo nel parco. Mi disse: — Sto scrivendo un’opera. La figura principale è in me, davanti a me, ovunque, ove vado; ovunque, ove resto. Non sono mai stato a tale altezza. Tutto è luce, purezza, chiarezza. Finora somigliavo a quel bambino delle novelle delle fate, che raccatta i ciot­ toli e non vede il fiore splendido sbocciato sul suo cam­ mino... — Fu nel maggio del 1806 che divenni sua fidanzata, col solo consenso del mio caro fratello Francesco ». II Nohl — uno dei più accurati biografi del Maestro — rilevava « la preoccupazione del Beethoven, in quel tempo, di conciliare fin che possibile il suo genio con quel che era generalmente conosciuto e amato nelle forme

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trasmesse dai suoi predecessori ». Uguale cura, suscitata dall’amore, si rilevava nei suoi modi: Ignazio von Seyfried e il Grillparzer lo dipingono tutto animazione, vivo, gaio, spiritoso, vestito ricercatamente; tale lo riproduce un ritratto di una eleganza romantica, dipinto allora dal Maehler. ìn quel periodo, sotto l’impero di un tale amore, compose la possente Sinfonia in do minore (la Quinta), la stupenda Sinfonia Pastorale (la Sesta); la Sonata appassionata per pianoforte, inspirata da La tempesta dello Shakespeare, la più poderosa delle sue Sonate, dedicata a Francesco di Brunswick; la poetica Sonata (op. 78) dedicata a Teresa. Alla Sonata appassionata, corrisponde quella che a ragione è stata definita la più ammirabile lettera d'amore che sia stata mai scritta; quella lettera sublime, che con­ tiene in germe il notturno dialogo amoroso del secondo atto del Tristano wagneriano: « Mio angelo, mio tutto, mio io... Il mio petto è ricolmo di cose che ho da dirti. Vi sono dei momenti in cui trovo che la parola non è ancora nulla: divagati, restami fedele, unico mio tesoro, mio tutto, come io a te... Per quanto fortemente tu mi ami, più forte è il mio amore per te. Dio! Così vi­ cino! Così lontano! Non è un vero edificio celeste l’amor nostro, solido come il firmamento?... I miei pensieri volano a te, mia immortale amata, d’ogni parte, lieti e poi tristi, attendendo dal destino se ci esaudirà: io non posso che vivere interamente con te, o non vivere... tu conosci la mia fedeltà per te, giammai un'altra potrà possedere il mio cuore, giammai, giammai. Dio, perchè dovere star lontano da chi si ama così? E tuttavia lamiavita a V., com’è ora, è una vita disgraziata — il tuo amore mi ha fatto insieme l’uomo più felice e più infelice... Sii ♦ 149 ♦

calma; soltanto considerando con calma la nostra esi­ stenza potremo raggiungere il nostro scopo: vivere insieme; — sii calma, — amami — oggi — ieri, quale aspirazione e che lacrime per te — te, te, mia vita — mio tutto. — Addio. Oh, continua ad amarmi, non disconoscere il .cuore fedelissimo del tuo amato L. — Eternamente tuo — eternamente mia — eternamente a noi ». Quale fu la ragione che impedì le nozze? Non si sa: ma fino alla morte quell’amore visse nel cuore dell’ar­ tista. Nel 1816 Beethoven diceva: « Pensando a lei, il mio cuore batte forte come il giorno in cui la vidi la prima volta ». E in quell’anno medesimo componeva i sei canti Air amata lontana (op. 98), riboccanti di pro­ fonda tenerezza. Nè l’affetto per Amalia di Sebald, nè l’ammirata amicizia di Bettina Brentano, nè le altre aspirazioni del suo caldo cuore poterono cancellare rimmagine della « immortale amata »: e nessuna di quelle donne seppe degnamente ricambiare il tesoro inesauribile d’affetto che quel gran cuore accoglieva in sè e anelava riversare in altro cuore. « Mille complimenti a vostra moglie — scriveva al Ries, suo allievo; — io, ahimè, non ho moglie! Non ho mai trovata una che avrei desiderato avere, e non l’avrò mai ». — « Come è bella la vita! — scrive altrove — ma per me è avvelenata per sempre. La speranza sola mi nutrisce: senza essa, che sarei diventato? ». Sul fine della vita, scriveva nel suo taccuino: « Ormai bisogna che tu cessi di essere un uomo, che tu cessi di vivere per te stesso, e che tu viva soltanto per gli altri: per te non v’è più felicità possibile. Dio, dammi la forza di vincermi!... Signore, getta uno sguardo sullo sventu­ ♦ 150 ♦

rato Beethoven; non permettere che soffra più a lungo così... Soltanto l'amore può dare una vita felice! Dio, fammelo finalmente trovare! Fammi trovare finalmente quella che mi afforzerà nel bene e che sarà tutta mia! »... « Ahimè! è soltanto nel mondo ideale che troverò gioia. L'amore e l'amicizia non hanno fatto altro che indolorirmi ». Anche il suo grande affetto per il nipote Carlo, cui dedicò nell'ultimo periodo della sua vita le cure più intense, non gli diede che amarezza infinita. Eppure fino all'ultimo egli anelò alla gioia, con tutta la forza del suo pensiero possente, del suo cuore gene­ roso: e un fervore dionisiaco stupendo agita molte delle sue opere più significative, come la focosa Settima Sin­ fonia, da taluno definita « l’apoteosi della danza ». E se, come fu giustamente detto, i suoi ultimi Quartetti, le sue opere più profonde, sembrano scritti col suo san­ gue, tuttavia alla fiamma vivida della gioia egli fissava lo sguardo bramoso; per l'intera sua vita artistica cercò la forma e l'idea per esprimerla trionfalmente: e con Y Inno alla gioia di Federico Schiller §i chiude l'ultima Sinfonia del Beethoven, la monumentale Nona Sin­ fonia. La genesi, il valore, il significato, la forma di questa pagina colossale, tanto discussa e variamente giudicata, debbono essere oggetto di esame profondo e completo: dal finale della Nona, in cui le voci umane si uniscono alla falange strumentale, nasce la musica moderna; e tenteremo altrove di illustrarne degnamente la potenza fecondatrice. L’amore-passione ha scaldato e fatto viva l’opera intera del Beethoven; la gioia pura l’ha coronata lumi­ nosamente. E quell'amore-passione che ha conferito ♦ 151 ♦

così eloquente anima alle sue creazioni, ha potuto con­ durre la sua inspirazione ai più alti fastigi della bellezza e della potenza, perchè tutto intessuto di purezza e affinato dal dolore: l’ideale femminile del Beethoven, Tuomo candido, casto, virtuoso, è così nobilmente pro­ fondo ed eletto, che, riflettendosi nelle sue manifesta­ zioni d’arte, le pervade tutte di immortale fremente bellezza: e in ultimo una gioia sovrumana trae in alto la sua grande anima, liberandola finalmente dalle strette angosciose della triste vita terrena.

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CLAUDIO MONTEVERDI Dopo gli stranieri, ecco un gruppo di italiani: la nobile e breve schiera di artisti nostri è preceduta dalTimmagine di colui che diede alla musica un'anima il­ luminata dalla luce viva del suo pensiero, che la fece palpitare col sangue puro del suo cuore ardente, che a lei largì accenti vibranti di un dolore inconsolabile, suscitato nel suo robusto petto dalla dipartita della donna amata: « Egli compì l'opera sua nella tempesta, amando, soffrendo, combattendo, solo con la sua fede, con la sua passione e col suo genio — disse la Foscarina lentamente, come assorta nella visione di quella vita dolorosa e coraggiosa che aveva nutrito del più caldo suo sangue le creature della sua arte ». Così Gabriele D'Annunzio evoca e riplasma la figura immortale di Claudio Monteverdi (i). La morte della diletta moglie, Claudia Cattaneo, dopo dodici anni di serena vita coniugale, inspirò al musicista (che pure aveva saputo dare accenti così vivi e veri al racconto della morte di Euridice nell’Or/eo) (i) Il Fuoco - Milano, Treves, 1919, pag. 161-2.

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la più forte e commovente espressione del dolore incon­ solabile, che la musica abbia mai saputo estrinsecare: il Lamento di Arianna:

Lasciatemi morire! E chi volete voi che mi conforte in così dura sorte, in così gran martire ? Lasciatemi morire!

Lamento sublime, al quale si unisce il superbo reci­ tativo: « O Teseci, o Teseo mio!... » in cui si espande la sua disperazione, con ampiezza e potenza insuperate: e queste pagine — le sole rimaste del suo spartito Arianna — dettate da un sincero amore, immatura­ mente spezzato, segnano una data di eccezionale impor­ tanza nella storia della musica: è la verità tragica rive­ lata all’umanità, ammirata e commossa, dal magico potere dell’arte dei suoni. Claudio Monteverdi sentì la eccezionale importanza di questa altissima poesia, tanto che volle arricchirla, rielaborarla, trasformandola: l’intero lamento riappare in forma di madrigale nel Sesto libro dei Madrigali a cinque voci (1614), nel quale è anche ripetuto l’ampio recitativo «0 Teseo mio», diminuito delle venti battu­ te del « Lamento»; e nella Selva morale e spirituale (1640) il « Pianto della Madonna», sulle parole «Jam moriar, fili mi », per una voce sola col basso continuo, si svolge con la musica del Lamento d’Arianna. Maturato e temprato dall’amore e dal dolore, il genio di Claudio Monteverdi poteva staccarsi e solle­ varsi molto al di sopra degli incerti tentativi dei suoi predecessori; e lasciati i tradizionali motivi mitologici, ♦ 154 ♦

creare il dramma musicale umano, con la storica vicenda neroniana della Incoronazione di Poppea, che, afferma­ tasi poderosamente come la più robusta e vitale mani­ festazione della scuola musicale veneta, doveva aprire la via feconda e animosa a quella scuola napoletana, che rapidamente si diffuse trionfante, signora assoluta dei teatri lirici di tutto il mondo civile. Amore e dolore, suscitati da una semplice e buona figura muliebre, rivelarono la potenzialità creatrice del Monteverdi, manifestando a lui stesso e segnando la via per cui doveva indirizzarsi e procedere il suo fervido genio.

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GIOVANNI BATTISTA PERGOLESI Nato il 3 gennaio 1710 a Jesi: molto il 26 marzo 1736 a Pozzuoli; ventisei anni, due mesi, dodici giorni di vita; cinque anni di lavoro, nei quali compose dodici opere tre oratori, quattro messe, quattro Salve Regina, uno Stabat Mater, un infinito numero di salmi, antifone, responsori, ecc., diverse cantate ed arie da camera, sinfonie, sonate, trii ed altre composizioni per stru­ menti ad arco, una sonata per cembalo, due fascicoli di solfeggi per voci, due di esercizi per cembalo; e non una pagina insignificante o trascurabile: non solo, ma raffermazione di un'arte materiata di vita e di foiza espressiva, che apre nuove vie alla musica esercitando benefica influenza sui maestri contemporanei e poste­ riori: questo il valore, il significato della attività feconda di Giambattista Pergolesi (1). Non v’è nella sua opera quella superficialità facilona che impera nell'arte dei suoi predecessori: verità d'espres­ sione e di sentimento vi imperano, invece, in modo assofi) Giuseppe Radiciotti - G. B. Pergolesi - Roma, ed. «Mu­ sica >, 1910: studio completo ed esauriente, da cui la vita e l’opera del maestro jesino è lumeggiata e indagata in modo ammirevole e definitivo.

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luto; e al contenuto risponde la forma. Il recitativo è da lui curato in modo che il pensiero poetico ne sia lumeg­ giato e afforzato; l'aria si snoda trasformandosi nelle riprese con libertà nuova, mantenendosi inquadrata bensì, ma aborrente da convenzionalismo sistematico, seguendo e commentando i sentimenti che si svolgono nel testo: canto e declamazione si integrano e si fondono: i vocalizzi meccanicamente barocchi sono banditi, e soltan­ to si incontrano melismi, non arbitrari, condotti con gu­ sto, ridotti allo stretto necessario per dare soddisfazione al virtuosismo dei cantori; il dialogo si svolge vario, e pur nelle riprese i motivi si adattano alla diversità delle idee. Così nel genere serio come nel comico, così nel sacro come nel profano; sempre eletto ed eloquente, squisito, ed anche vigoroso ove occorra: la sua musica riflette il suo animo delicato e gentile; il suo temperamento pas­ sionale e romantico. Il maestro, morto giovane dopo una vita minata da un morbo inesorabile, senza avere avuto nella breve carriera artistica la soddisfazione di vedere compreso e apprezzato in giusta misura il suo genio, l’originalità e l'efficacia della sua arte, appare riflesso tutto nella propria opera e nella freschezza pia­ cevole della gioventù gaia, di una gaiezza schietta ma non mai volgarmente esuberante, e nelle espressioni dolorosamente passionali. Ed era fatale che si cercasse nella sua esistenza la forza dominatrice e inspiratrice di un amore contrastato, che scuotesse e fecondasse la ricca fantasia del musicista; e se i contemporanei e i primi suoi biografi nulla seppero in proposito, soltanto in tempi assai recenti spuntò fuori una storia d’amore, che commosse infiniti cuori, e diè vita a numerosi drammi e racconti e, naturalmente, a ♦ 158 ♦

melodrammi (se ne conoscono sette), in cui P avventura rivelata da Francesco Fiorimo nella sua voluminosa opera su La scuola musicale di Napoli fu cucinata in tutte le salse; fu il Fiorimo a diffondere la notizia che il Pergolesi fu vittima di un amore infelice, e a prova riprodusse un frammento di una Cronaca che disse aver trovato fra le carte del principe di Colubrano. « Nella prima metà del decorso secolo si presenta­ rono un giorno in questa città a Maria Spinelli i tre fra­ telli di lei, e con le spade sguainate le dissero: come se fra tre giorni ella non iscegliesse a sposo un uomo pari a lei per l'altezza del nascimento, con quelle tre spade avrebbero trafitto a morte il maestro di musica Giovan Battista Pergolesi di lei amante riamato; e sì dicendo si partirono. Fra i tre giorni ritornarono alla sirocchia; costei loro disse di aver prescelto a sposo un Essere su­ blime, poiché il suo sposo era Iddio, domandando an­ dare monaca in S. Chiara, sì veramente che la messa di monacazione si avesse a dirigere da quel maestro di mu­ sica che ella aveva cotanto amato, e che ora mandava in oblio, rivolgendo tutta l'anima sua solo ai celesti af­ fetti. E così fu fatto. L’anno appresso il dì n marzo 1735 funebri rintocchi della campana di S. Chiara an­ nunziavano mestamente funerali. In quel tempio celebravasi la messa di requie di Maria Spinelli, e dirige­ vate Giovan Battista Pergolesi ». Ho ricordato già te data di morte del maestro, il 26 marzo 1736: un anno tra te monacazione e te morte della giovane; un anno tra te morte di lei e quella dell'innamorato Pergolesi. Peccato che a questo mondo ci siano dei curiosi eruditi i quali hanno te fissazione di volere andare a ♦ 159 ♦

fondo delle cose e indagare la verità sempre, à costo di dare dispiaceri alle anime romantiche, ai cuori sensi­ bili: infatti è avvenuto che Benedetto Croce, convinto che il racconto riportato dal Fiorimo non rispondesse a verità, non solo, ma che fosse evidente la inesistenza del fatto narrato nella citata Cronaca (della quale non si trova traccia nelle carte del principe di Colubrano, e nul­ la ne sapeva il duca di Maddaloni, erede del Colubrano), abbia cercato di scoprire se intorno al 1735 v'era una Maria Spinelli, monaca in Santa Chiara, e se in quel tempo v'era in Napoli una Maria Spinelli che avesse potuto essere amata dal Pergolesi. Ma, vista la compo­ sizione delle famiglie Spinelli in quel torno, non vi si incontra una Maria con fratelli, che possa neppur lon­ tanamente identificarsi con F eroina del romanzetto creato dall1 anonimo scomparso cronista. Proprio è un peccato, perchè in questo caso Finfiuenza della donna e delFamore sulla fantasia e sulla inspira­ zione di un vero grande artista avrebbe assunto una importanza eccezionale. Ma non è così; il più attendi­ bile biografo del Pergolesi, il marchese di Villarosa (1), così descrive i sentimenti e il carattere di lui: « Fu il Pergolesi di aspetto gioviale e dimesso, ed al riso inchi­ nevole anzi che no... Dotato di non infinto spirito reli­ gioso, si diportò nel conservatorio con somma costu­ matezza e modestia, non mai associandosi con giovani suoi compagni, che non fossero adorni di retti costumi... Ma una delle maggiori lodi la meritò per aver sempre di (1) Villarosa, Lettera biografica intorno alla patria ed alla vita di Giov'an Battista Pergolesi, Napoli, 1831. Una seconda edizione vide la luce pure a Napoli nel 1843.

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sè bassamente opinato, non mai invanendosi dei tanti encomi che, essendo ancor giovane, gli venivano prof­ feriti, specialmente da vecchi maestri dell'arte armonica. Con rassegnazione accettò l’immatura morte ». La voce che il Pergolesi dovesse alla vita sregolata la tisi che lo trasse così giovane a morte, originata pro­ babilmente dalla tradizionale cattiva fama dei cantanti e musicisti d’allora, in fatto di moralità e di costumi, sembra si formasse verso la metà del Settecento arresterò, per propagarsi poi in Italia: ma appare assolutamente priva di ogni fondamento di verità. Il Pergolesi, minato dal male, difettoso nella gamba sinistra, al­ quanto più corta ed esile dell’altra, per cui andava zoppo, in conseguenza di quella affezione tubercolare, detta volgarmente « spina ventosa », di cui sembra soffrisse nell’infanzia,’ non bello di volto, come lo dimostra il più attendibile suo ritratto esistente nella biblioteca del Con­ servatorio di S. Pietro a Majella in Napoli, in cui si ritrovano i tratti essenziali della caricatura fatta dal vero, a Roma, da Leone Ghezzi, nella quale il musicista assume apparenza di vera bruttezza deforme; se poteva inspirare interessamento e affetto per il fascino dell’arte sua, per la bontà dell’animo, difficilmente avrebbe po­ tuto destare amori ardenti, sensuali: vi avrà aspirato egli, e il sentimento che avviva le sue espressive melo­ die è prova certa del tesoro d’affetto che il suo cuore racchiudeva e che, non potendo espandersi nè trovare adeguata rispondenza in un cuore di donna, si riversava tutto nelle manifestazioni dell’arte sua, tutte animate da dolce fiamma amorosa, di una gentile soavità rive­ latrice di aspirazioni insoddisfatte, soffuse di un velo di rassegnata malinconia. ♦ 161 ♦

GIOVANNI PAISIELLO Ho accennato, nel Preludio di questo libro, alla ragione per cui la parte che si riferisce ai musicisti ita­ liani è molto meno estesa di quella riguardante gli stra­ nieri; bisogna anche aggiungere ora, nei riguardi del Paisiello, un aspetto del suo carattere, che trova nella sua musica una eloquente conferma: su oltre cento spar­ titi da lui composti, poco pili di una trentina (e tra questi conto anche diverse cantate d’occasione) appartengono al genere serio. Tutte le altre sue opere sono giocose: commedie piacevoli alcune; le più, vere farse, in cui Telemento dialettale napoletano prepondera con la sua instancabile gaiezza. E in queste opere la fantasia del Paisiello si afferma con una vivacità e una ricchezza veramente felici e inesauribili: è la spontanea espres­ sione del suo animo che appare in quelle pagine, tutte illuminate dalla variopinta e tumultuante folla parte­ nopea; è la vivacità del popolo di Napoli (la patria di elezione del musicista tarantino) che rivive nella sua musica a traverso il suo carattere: spontaneo, cordiale assai, ma non troppo profondo. Forse non fu alieno da qualche divagazione amorosa, non molto sentimen­ ♦ 163 ♦

tale; ma sopratutto fu ben lieto di una vita familiare serena e riposante, presso una moglie affezionata che lo sapeva comprendere e bene secondare. In verità, c’era da temere che il matrimonio del Paisiello, nato sotto auspici non bene promettenti, potesse riuscire non soddisfacente: e si è anche pensato che egli non dovesse essere troppo attaccato alla mo­ glie (i): abbiamo una serie di curiosi documenti che ci rivelano le circostanze che precedettero e accompagna­ rono il matrimonio, e meritano di esser riprodotti o riassunti, offrendo caratteristici quadri di costume (2). Fu nel 1768 che Giovanni Paisiello, il quale aveva in quell’anno prodotto una ricca serie di lavori interes­ santi, sposò quella Cecilia Pallini, nata in Napoli di padre toscano, che gli fu indivisibile compagna per tutta la vita: matrimonio forzato, come rileviamo dai documenti. V’è prima un ricorso al Ministro Tanucci, inoltrato dalla signora Cecilia, la quale esponeva essere stata corteggiata dal Paisiello; che, per le conseguenze del loro amore, il musicista doveva sposarla, ma il padre di lui vi si opponeva; e, temendo che questi obbligasse il figlio a lasciar Napoli per evitare le nozze, pregava il Ministro « di dare con ogni cautela le opportune prov­ videnze per la effettuazione del matrimonio ». E il Ta(1) F. Barberio, Disavventure di Paisiello. In Rivista musi­ cale italiana, Tomo XXIII, Torino, 1916. (2) Vincenzo d’Auria, Don Giovanni s'oblia. Articolo pub­ blicato nel giornale La lega del bene, anno V, n. 39, Napoli, settembre 1890. Benedetto Croce, I teatri di Napoli: secolo xv-xvni. Prima edizione. Napoli, Pierro, 1891. ♦ 164 ♦

nucci appose al ricorso la seguente annotazione: « 3 set­ tembre 1768. L'Uditore faccia giustizia, carceri il reo e ne dia conto ». Don Francesco Paisiello, il padre, avuto sentore di tale istanza, obbligava il figlio ad andar seco dal notaro Gennaro Gioia per sottoscrivere il seguente ri­ corso al re, da opporre a quello della Pallini: « Giovanni Paisiello con umili suppliche rappresenta a V. M. come fu introdotto in casa di Cecilia Pallini per darle lezioni di musica, siccome le ha dato per lo spazio di più mesi; ella, essendo sola in sua casa, ove solevano venire molte persone e forestiere e napoletane, si diceva esser vidua del fu Felice Mazzinga, maestro di cappella di Livorno, e, come tale, avea ereditata molta roba che intendeva dare per dote ascendente a ducati 1800, com’ella di­ ceva. Su questo piede condiscese prenderla per moglie, al quale oggetto diede anche le parole avanti il Parroco e con questa condiscese Francesco Paisiello, padre del supplicante, sotto la cui potestà vive tuttora. Ma si è scoperto che la detta Pallini non fu affatto moglie del detto Mazzinga, n'è stata mai vidua, ma libera a segno che dalla Curia Vescovile si è denegato il decreto del di lei stato vedovile, e che sieno false le esposizioni di al­ cuni testimoni da lei procurati; in oltre non è stata nè vi è quella dote di ducati 1800 da lei promessa e che prometteva di giorno in giorno far venire da Livorno. Attente le quali cose, il genitore del supplicante non ha inteso nè intende assentire al detto matrimonio, ed è ricorso nel S. C., ove ha ottenuto l’inibizione di quello contrarsi; e, poiché, secondo gli ordini di V. M. fondati sulle leggi, non può il figlio di famiglia contrarre ma­ trimonio senza il permesso paterno, nè il supplicante ♦ 165 ♦

può ottenere dal suo genitore un tal contratto, non es­ sendo vidua, nè avendo dote. Pertanto supplica la M. V. ordinare che il S. C. faccia al supplicante la dovuta giustizia, avendo presente tutto F esposto, e Pavera a somma grazia ut Deus ». Don Nicola Pirelli (FUditore incaricato dal Tanucci di far giustizia) riferiva al Ministro: « Per la pronta ese­ cuzione del Sovrano Ordine mi diedi da far subito, con mandare un mio subalterno da Mon. Vicario di questa Curia Metropolitana, per sapere quali atti si erano fatti nella medesima, ed egli mi fece sentire di essersi in detta Curia formato il Processo per lo matri­ monio, che si dovea contrarre tra d.a Pallini, e Paesiello, e che non si era ancora spedito il decreto per alcune difficultà ivi insorte, ma sopratutto perchè in nome di Francesco Paesiello Padre del detto Giovanni si è pro­ posto un formale impedimento, che si dovea discutere. « Passai subito a vedere le qualità della Pallini, e per mezzo di qualche testimonio probo estragiudizialmente sentito, fui assicurato che ella sta in questa Città da un anno, in cui non aveva dato motivo di scandalo, e volli veder le parole date alla medesima dal Paesiello di matrimonio, e trovasi, che a 23 del passato luglio si erano contratti i sponsali colle dette parole avanti il Coadjutore del Parroco di S. Anna di Palazzo, D.n Gennaro Cappa, che Fattesta, « Dopo ciò feci venire in mia casa la d * Cecilia, la quale mi disse che era figlia di Fiorentino, che stiede in questa Città, che è stata due volte maritata, la prima fu qui con un Turinese, che morì a Livorno, e la se­ conda con Felice Mazzini Maestro di Cappella in Li­ vorno, che ella era da un anno venuta in questa Città, ♦ 166 ♦

e che abitando in un appartamento sotto di quello del Paesiello, si era costui introdotto sul pretesto di darle lezzione di canto, nel corso della quale Faveva spiegato il suo amore e Faveva sedotta...; che si era da pochi giorni in qua abortita di cinque mesi; e che avendo sempre insistito al Paesiello per essere sposata, si erano date finalmente tra di loro le parole avanti del Paroco nel passato mese di Luglio: che si erano fatti gli atti nella Curia Vescovile quali erano remasti sospesi per lo ricorso del Padre del detto Paesiello; che Faveva prima trattata da figlia, sollecitando egli il matrimonio, e poi per fini da lei non saputi lo voleva impedire con suo dissonore. Per non perder tempo, nè dar motivo al Paesiello di porsi, in fuga, se avesse sapute le mie ri­ cerche, lo feci venire da me, ed in mia presenza fu con­ fesso delle parole date, e degli atti fatti nella Curia dell'Arcivescovato per isposare d.a Cecilia; e che Fimpedimento Favea prodotto il di lui Padre, perchè avea saputo, che non teneva ella la dote, che a voce Favea promesso, e non avea giustificata la morte del primo suo marito avvenuta in Livorno ; ed avendoli io fatto presente la sua obbligazione e gl' imbarazzi, in cui si sarebbe trovato per l'inganno fatto alla d a Cecilia, mi riuscì di sentire da lui, che egli era pronto a sposare, sempre che la Curia Arcivescovile avesse dato il decreto, e ne feci formare un atto dal mio subalterno. « Dopo di questo consenso, stimai di farlo trattenere fino a che il matrimonio fosse eseguito, su'l dubbio, che ebbi, che egli potea o porsi in Chiesa, o uscir sollecita­ mente dal Regno, avendo per le mani un'arte, che l'a­ vrebbe dato da vivere in qualunque luogo; e lo mandai

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in S, Giacomo (i) nella Camera del?Udienza, ben trat­ tato, da cui uscirà subito ch’avrà egli sposato. « Ho mandato intanto questa mattina nuovamente da Monsignor Vicario, per far spedire il decreto, tanto pili che il di lui padre ha dato parimenti il consenso di togliersi il mal apposto impedimento nella Curia in suo nome: ed avendo il d.° Vicario mandato a me gli atti ivi formati; comecché ho visto che le difficultà promosse erano di poco rilievo, o anzi insussistenti, l’ho mandato per un suo Prete dicendo, che potea dar fuori il decreto per la contrazione del matrimonio, come infatti, reso egli capace: ha promesso che nel prossimo lunedì lo avrebbe egli spedito, il che fatto farò io sposare il Paesiello con d.a Cecilia, e ciò adempito lo porrò in libertà, e rimarranno così interamente eseguiti i venerati ordini di V. E.; a cui mi darò l’onore di dire il restante, quandocchè sia la cosa finita ». Il Ministro approvò l’operato dell’uditore, con un conciso «bene sta»: e il 15 settembre 1768 (cinque giorni dopo) il Pirelli riferiva ancora: « A dieci del cor­ rente diedi conto a V. E. minutamente di quanto io aveva fatto per la pendenza tra Giov. Paesiello e D.a Ce­ cilia Pallini: ora conviene di farle presente che ieri mi riuscì di farli sposare, tanto che fu egli posto in libertà col mandato che gli feci ingiungere di non offendere la detta sua moglie, ed immediatamente si unirono in una casa con la maggior quiete e piacere d’ambedue ». Come ho già accennato, il sig. F. Barberio, nel ci­ tato suo articolo della Rivista musicale italiana, non crede alla sincerità dell’affetto che legò per tanti anni (1) Carcere dell’Udienza generale dell’esercito.

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i coniugi Paisiello, nè alla serenità della loro vita coniu­ gale: e, a dire il vero, i prodromi del loro matrimonio appaiono tali da far ritenere fondate siffatte supposi­ zioni. Ma non appaiono basati su attendibili elementi di fatto gli argomenti che vorrebbe desumere dal Saggio sulla vita del cavalier Don Giovanni Paesiello di Giovanni De Dominicis, che fu allievo del Paisiello (Mosca,Stam­ peria d’Augusti Semen, 1818), e dagli Aneddoti piace­ voli e interessanti occorsi nella vita di Giacomo Gotifredo Ferrari (Londra, 1830; ora ristampati nella « Col­ lezione settecentesca» diretta dal Di Giacomo). . Pur prescindendo dal rilevare la superficialità e gli errori solenni di quel misero Saggio, è da osservare come il De Dominicis narri bensì che il Paisiello « in gioventù fu amante del sesso leggiadro, perchè distratto sempre e allettato da continue occasioni d'incontri galanti, fra le donne e le ninfe del teatro, non lasciava infruttuose le occasioni degli intrighi amorosi, quando si presen­ tavano opportuni »; ma egli afferma altresì che con la. moglie Cecilia Pallini il Paisiello visse « senza prole, ma sempre in perfetta armonia fino a morte ». Il Ferrari, alla sua volta, dichiara esplicitamente che il Paisiello « fu buon marito » e che « visse sempre in perfetta ar­ monia colla moglie ». D’altronde, non si può fare astra­ zione dairimmancabile premuroso ricordo che di Donna Cecilia si incontra in tutte le lettere dirette al Paisiello e che sta a testimoniare chiaramente come chiunque conosceva il musicista, ben sapesse di fargli cosa grata mostrando di far gran conto della moglie sua. Quando, nel luglio del 1776, Giovanni Paisiello lasciò l'Italia per recarsi alla corte di Caterina II di Russia, Donna Cecilia partì con lui, sobbarcandosi ♦ 169 ♦

ai disagi e alle fatiche del viaggio da Napoli a Pietro­ burgo (i), che durò due buoni mesi, comprendendovi una breve fermata a Vienna; il Grimm, scrivendo da Pietroburgo all'Abate Galiani il 3 decembre, gli annun­ ziava che « il divino Paisiello » trovavasi nella capitale russa da circa due mesi. Più di sette anni rimase il Pai­ siello alla corte russa; i suoi biografi narravano che lasciò la Russia perchè, trascinato dall’amor di patria, voleva ad ogni costo tornare in Italia e a Napoli. I più recenti biografi hanno però ristabilito la verità: il Barberio, nell’articolo, ripetutamente citato: « Di­ savventure di Paisiello », ha pubblicato documenti che chiariscono e completano gli spunti già offerti dalle lettere del Galiani e dalla corrispondenza del Grimm. Per un violento dissidio col Comitato della Direzione dei teatri imperiali, cui avrebbe mancato di rispetto, fu disposto il suo arresto: riuscì a sfuggire ai soldati i quali avevano circondato la sua carrozza, che lo attendeva all’uscita dall’Eremitaggio (il palazzo imperiale ove era il teatro di corte): ma quando seppe che anche in casa sua si erano insediati soldati, e non volevano muo­ versi finché egli non fosse in arresto, il Paisiello, per li­ berare la moglie da tale sgradevole compagnia, si co­ stituì: passò la notte al corpo di guardia; il giorno dopo gli fu concesso tornare a casa. Disgustato, il maestro chiese subito il suo congedo all’imperatrice, allegando che la salute della moglie esi(1) Scrivo Pietroburgo e non, modernamente, Pietrograclo o Leningrado, perchè quello era il nome della città allora, e così necessariamente scritto nei documenti e negli scritti di quel tempo, che debbo citare. ♦ 170 ♦

geva assolutamente un clima più mite e non le consen­ tiva ulteriore soggiorno in Russia. L'imperatrice gli concesse, invece, di assentarsi fino al i° gennaio 1785; ma il Paisiello, lasciata la Russia, non vi ritornò: e, scaduto il congedo, fu considerato non più al servizio della corte. Tornato a Napoli, dopo una sosta a Vienna, ove, su libretto dell'abate Casti, aveva composto II re Teodoro a Venezia, uno dei più gustosi suoi spartiti, il Paisiello accolse come allievo quel Giacomo Gottifredo Ferrari di cui ho già ricordato gli interessanti Aneddoti. Il Ferrari era giunto a Napoli il 20 novembre 1784, era andato ad alloggiare all'Albergo di Venezia, di fronte alla casa abitata dal maestro, in prossimità di quel teatro dei Fiorentini ove videro la luce alcuni tra i più interessanti suoi spartiti; il giorno dopo si presentò al Paisiello, che descrive così: «Era allora... in età di 52 anni, avvenente, grande di statura e con una fisonomia dolce come la sua musica; liberale, anzi sfarzoso; buon amico come buon marito; visse sempre in perfetta amicizia colla moglie; ma non ebbe mai la felicità di avere un sol figlio. Era pure elegante nel vestire; por­ tava un frontino, e passava, almeno due ore il giorno alla sua toeletta per farsi radere ed acconciar la testa ». Negli Aneddoti del Ferrari, la vita di famiglia del Paisiello è tratteggiata piacevolmente: il Maestro ac­ colse il giovane scolaro con somma cordialità: e fin dal primo giorno gli aprì ospitalmente la propria casa: «... Viene a casa mia alle due, troverai un buon piatto di maccheroni col zuchillo, uno stufato alla genovese, e dopo pranzo ti darò da lavorare ». Intanto il Vesuvio d'improvviso emetteva gran quantità di fumo, minac­ ♦ 171 ♦

ciando eruzione: il Ferrari, nuovo a tale spettacolo, ne rimase impressionato. Andò alle due dal Paisiello, che lo presentò alla moglie e allo zio Don Ciccio: durante il pranzo Donna Cecilia gli offrì di condurlo la sera con Don Ciccio e un altro amico al teatro del Fondo per sentire un'opera di suo marito, Il mondo della luna, « Accettai l'offerta con trasporto, ma mi presi la libertà di chiederle se non aveva paura dell'eruzione che minacciava scoppiare da un momento all'altro. — Tu che dici? Che eruzione, che eruzione! È no poco de fumo che esce dallo bacino; e quando anche ci fosse un'eruzione, lo viento è scirocco, nè v'è timor pe'Napoli. — Ma non sentite il Terremoto? — Che Terremoto! È lo foco del Volcano che bolle un poco e fa chisto rumore, ma non è terremoto; hai tu forse paura? — Io no, io non ho paura — no — no — da vero. — Poveriello « sorridendo » : sei accostumato a veder le montagne del Tirolo (il Ferrari era di Rove­ reto) coperte di ghiaccio, or ti fa specie di vedere le nostre fumanti: sarà meglio che tu non venga al teatro. — Io! Per sentire un'opera di Paisiello ci verrei quando anche fossi sicuro di trovar la lava infocata nel­ l'entrare in teatro. — Bravo, bravissimo; se' no buono figliuolo: dunque alle sette tornerai cà, e andremo tutti assieme... « ...Alle sette ritornai da Donna Cecilia, e con essa, e co' suoi amici me ne andai al teatro, dove mi dilettai moltissimo nel sentire un'opera vecchia, ma graziosis­ sima, messa in scena dal compositore stesso. « Ritornando dal teatro a casa Paisiello, il rumor del Vesuvio era molto più sensibile, e di tratto in tratto ♦ 172 ♦

si sentivan dei colpi che pàrevan piccioli tuoni: io tre­ mava come una foglia, e cercava di fare il bravo: ma donna Cecilia, maliziosetta, come son tutte le femmine, se ne accorse e mi fece restare a cena ». Nell'attesa, salirono sulla terrazza: lo spettacolo dell'eruzione era meraviglioso e orribile. « Un quarto d’ora dopo di noi salì Donna Cecilia per chiamarci a cena: nell'affacciarsi sul tetto gridò immantinente: — Mamma mia, San Gennaro, che orrore è mai chisto! Venite a cena, venite a cena. « Quell’eroina che poc'anzi si burlava di me, scappò giù come un fulmine. Scendemmo alfine e trovammo una cena preparata alla Siciliana, cioè una grande ed unica scodella ovale nel mezzo della tavola piena d'insalata condita con olio, aceto, pepe, sale, aglio, ova dure, alici, locusta, polpe di pollo, di fagiano, insomma di cose so­ stanziose, e abbastanza per venti persone. Dopo l'in­ salata rinfreschi d'ogni sorta. Pasticcetti, mandorlato, mostacciuoli, frutta squisite, e gelati in quantità. E che Lacrima, che vin di Malaga, e che Punch all'in­ glese, che fu bevuto alla salute di San Gennaro e di Paisiello! ». Ma le lezioni del Paisiello erano un problema in­ solubile: aveva tanti impegni, il Maestro, che nelle prime cinque settimane il Ferrari non ebbe quattr'ore di lezione; prese per maestro il Latilla d'accordo col Paisiello, il quale gli offrì la sua assistenza quando avesse cominciato a comporre cose da camera o da teatro, e la libertà di esaminare tutti i suoi spartiti Fece il Ferrari Un viaggio a Roma per assistere alle funzioni della settimana santa e delle feste di Pasqua e udire le musiche dei più celebrati autori classici: tornò ♦ 173 *

a Napoli con un giovane inglese, Albert, che volle da lui lezioni di musica. Le Coltellini (una era la celebre Celeste, insigne cantatrice) gli consigliarono di chiedere dieci carlini per lezione: « Osservai loro ch’io non pagava che tre carlini al primo maestro di contrappunto di Napoli, e che non ardiva chieder tanto: m’osservarono esse ch’io era professore, il signor Albert dilettante inglese, e per conseguenza ricco. « La stessa sera andai da Donna Cecilia... e le chiesi se le Coltellini m’avean ben consigliato riguardo al mio scolaro: mi disse di sì, e ch’io dovevo essere informato che gl’inglesi sono particolari su questo punto, e che s’io non facessi pagare un prezzo onorevole al mio scolaro, ei non mi considererebbe affatto; pigliai un tal consiglio, e mi trovai bene, poiché ei non fé’ alcuna difficoltà alla mia domanda, e all’ultimo pagamento mi diede alcuni ducati più che non mi doveva». Un caratteristico episodio, narrato dal Ferrari, getta molta luce sul carattere del Paisiello e, per riflesso, sul contegno e sui sentimenti di Donna Cecilia verso il marito: « Nel principio di quell’anno (1789) giunse a Napoli colla sua famìglia un nuovo ambasciator di Francia, il Barone Talleyrand, la cui sposa sonava il pianoforte molto bene (1); sedotta già dalla musica di Paisiello, (1) Lady Craven nelle sue interessanti Memorie, ricorda che il Re, « la vigilia di Natale del 1789, fece dare un concerto a cui, sole donne invitate, fummo l'ambasciatrice di Francia ed io. Ricordo ancora che il Re accompagnò al clavicembalo il Pai­ siello, ve lo fece sedere davanti e poi s’allontanò un momento per andare egli stesso a cercare, in una stanzetta ov’era riposta tutta la sua preferita musica, un finale d'opera nel quale ricorrevano le parole: « o bella ambasciatrice! ». ♦ 174 ♦

se ne invaghì ancor più sentendola eseguita da lui stesso, o sotto la sua direzione; gli fece mille onori e finezze, a segno che lo indusse a darle lezione di canto, il che quel compositore detestava di fare: non passò molto tempo ch’ei divenne l’idolo di quella famiglia, nè si trovava più ch’all’ambascìata di Francia: andava la mattina a dar lezione alla baronessa, la quale gli aveva fatto preparare un appartamento per istudiare e scrivervi la sua musica; pranzava seco lei e colla sua famiglia, nè ritornava a casa che per cenare con donna Cecilia. Aveva Madama Talleyrand una cameriera, Made­ moiselle Julie, che sebben non giovine, nè bella, era però tanto allegra e buffoncella che facea il trastullo di Pai­ siello. Era essa incaricata, quand’egli studiava, di portar­ gli ora una tazza di cioccolatte, or delle frutta, con vino di Francia, ecc.: e il buon maestro, all’esempio di Molière colla sua serva, le facea sentire i pezzi che aveva compo­ sto, ed ella impudentemente, ma sempre scherzando lo lodava o lo criticava, secondo la sua opinione». E talvol­ ta, «mi disse Paisiello stesso, che l’aveva indovinata». « Ogni dopo pranzo soleva l’ambasciatrice fare un giro in carrozza per la città; Paisiello la seguiva nella carrozzetta sua a solo a solo con Mademoiselle Julie. E quell’intrigo platonico faceva rider tutti quelli che li conoscevano: ma ciò che faceva rider ancor più, era il veder Guglielmi geloso che il suo rivale in musica se­ guisse il cocchio di un’ambasciatrice di Francia, si mise a seguir Paisiello colla sua calessetta scoperta, guidando i cavalli egli stesso, ed accanto alla sua bella un mezzo secolo più giovane del patito maestro. « Nell’autunno susseguente la baronessa Talleyrand affittò una gran casa di campagna nell’isola d’Ischia, ♦ 175 ♦

...e v’invitò il suo maestro di canto, e vi fece preparare un appartamento per lui... Partì egli per Ischia, e pochi giorni dopo arrivò da Vienna il tenente Gamerra di Mantova, col suo famoso poema il Pirro,,,\ mi disse che partiva tosto per Ischia, colla speranza di sedurre il gran Maestro a mettere il suo poema in musica; e che se volessi dargli una lettera, o altra cosa, ei se ne incari­ cherebbe con piacere. Colsi l’occasione di far come si suol dire un viaggio e due servizj, raccomandai il poeta e il suo libretto, e chiesi il permesso di fare una visita al mio maestro... Fu accolto collo stesso favore il poeta, come fu accolto il suo Pirro, ed ebbi in risposta verbale dal tenente, che sarei il ben venuto ad Ischia ogni qual volta vi volessi andare ». Andò il Ferrari; approdò ad Ischia: « Mi portai la stessa mattina dal mio caro maestro, il qual mi dimostrò il più gran piacere di vedermi e mi dette una lezione che valse dieci: mi presentò poscia a Mademoiselle Julie, ed essa mi condusse nella sua camera, e mi dette dei rinfreschi in profusione con del vino di Francia da ambasciatore: mi accompagnò poscia a passeggiar nel giardino e nei boschetti: e così continuai tutti i giorni, tanto che rimasi in quell’isola deliziosa ».

* * *• Ecco il moto rivoluzionario e la repubblica del 1799: il Paisiello, che non seguì i Sovrani allorché lasciarono Napoli, che scrisse col Cimarosa la musica degl’inni cantati il 19 maggio per la festa repubblicana delle Bandiere, che fu nominato maestro di cappella del nuovo governo, ecc., presentò, tornati i Reali, al Mar­ chese del Vasto, maggiordomo di Corte, una lettera ♦ 176 ♦

ed una relazione intesa a provare essere egli puro come un agnellino (i). Volle dimostrare che non era partito da Napoli con la famiglia reale mentre ne aveva rice­ vuto Favviso alle due dopo mezzanotte: « ...obbligato di sistemare tutte le robbe delle tre case che si trovava di avere in Caserta, in Portici, in Napoli, trascorse l’ora assegnatagli, mentre per sistemare tutto, vi volse ben più di tre ore. « Sistemato ch’ebbe il tutto tornò alla Maggior­ domi a, in dove gli disse S. E. il Maggiordomo di tornare, ma non solo non trovò il Maggiordomo, il quale si era già imbarcato, ma essendo andato il Paisiello sino al Monisiglio (luogo d’imbarco sul Molo) per sapere in dove gli era stato assegnato l’imbarco, non potè saper niente. « Ritornò dunque il Paisiello in sua casa, coll’idea di poter eseguire la di lui partenza il giorno appresso; ma all’arrivare nella di lui casa, trovò la di lui moglie in uno stato deplorabile cagionatogli dallo spavento avuto la notte antecedente dalla chiamata inaspettata in un’ora incompatta, che il Paisiello ebbe da S. E. il Maggiordomo, per cui si ammalò gravemente, che al Paisiello non gli fu permesso per allora di eseguire li Reali Ordini, e per ciò ne scrisse lettera a S. E. il Mag­ giordomo col narrargli l’accidente accadutogli, affinchè ne facesse inteso le MM. LL. ». E a prova della verità circa l’allegata infermità della moglie, allegava il suo bravo attestato medico: (i) G. Be Blasis, Un autografo di Giovanni Paisiello, in Archivio storico per le Provincie Napoletane, anno TX, fase. II, Napoli, 1884.

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« La sig.a D.a Cecilia Paisiello (i) per cui fu richiesto di consultarla nel giorno 22 decembre, e trovai la sudetta Signora che per cagione di suppressa traspira­ zione, e per motivo di spaventi fu attaccata da puntura suppurativa con Febbre di qualche grado, e come questo Corpo era stato più volte offeso nel Petto parte debole della di lei Machina, la Malattia fece del peso, e si chiamò un Consulto, e si disperò della vita della sudetta Signora; ma alla pur fine, dopo molti spedienti e me­ dicine si ottenne un ripurgo copioso, per espettorazione con frequenti e copiosi sudori, e l’inferma si vide tolta dal Criminale; ma dietro a tali Malattie resta quella labe nel Petto che fa temere di Male cronico di conse­ guenza, locche di unanime consenso si consultò che la Sig.a D.a Cecilia non dovesse assolutamente passare il Mare, come nocivo per tale Malattia, anzi soggiacere alla cura del Kermes Minerale, ed alla stretta Dieta Lattea, come in effetto si fece con vantaggio: ch’era quello che in fede del vero, ecc. Napoli 31 luglio 1799. D.r Filippo (2) Carlo Stasi - D.r Fisico Francesco Greco. Le sudette firme sono di proprie mani delli sud. D.ri Fi­ sici D. Callo Stasi e D. Francesco Greco, ed in fede Io D.r Notar Gius.e Vercillo di Napoli richiesto ho se­ gnato. Luogo del segno (autenticazione ed estratto... Napoli 28 agosto 1799)». Non si limitò il Paisiello ad accumulare faticosa­ mente e curialescamente una lunga serie di giustifi­ cazioni, tra comiche e bislacche; ma si votò a S. Antonio, taumaturgo dei Sanfedisti, e volle eseguire in onore di (1) Cecilia Pallini, moglie di Paisiello, non ostante i pronostici paurosi, visse sino al 1815. (2) O «Fisico» ?.

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esso un suo Te Deum in San Lorenzo: ma a stento gli fu concesso di dirigerlo. Riuscì finalmente a tornare in grazia ed a riavere le sue cariche presso la Corte; non solo, ma, stabilito un nuovo simulacro di pace, Napoleone, che s’era pro­ clamato primo console, fece richiedere al Paisiello di recarsi a Parigi, e al pauroso Maestro, che voleva scher­ mirsi, lo stesso Re impose di partire, nè parve s’adom­ brasse delle festose accoglienze e della dimora d’oltre due anni in Francia (i). Ecco dunque il Paisiello, 'accompagnato sempre da donna Cecilia, in viaggio alla volta di Parigi, ove la sua musica aveva già ottenuto lieto successo. E quando volle tornare a Napoli, non mancò ancora una volta Pargomento della salute di Donna Cecilia, per ottenere il consenso di Napoleone alla partenza da Parigi, ove il Paisiello si trovava a disagio, e sentiva diminuito il suo prestigio artistico. Il Barberio, nello scritto già ricordato, osserva che in quegli anni Donna Cecilia era veramente sofferente, però non in modo tale da obbli­ gare il Paisiello al ritorno: ma egli dimostrava in ogni modo come a lui stesse a cuore il benessere della con­ sorte. E quando, il 23 gennaio 1815, la morte gli strappò la fida compagna della sua vita, al vecchio maestro, che aveva servito il Re Giuseppe Bonaparte e quindi Giovacchino Murat, e, infine, per la caduta di Napoleone e il nuovo ritorno dei Borboni tutto aveva perduto, eccetto il posto di maestro della Cappella Reale, par­ ve fosse venuto a mancare il suo genio tutelare. In(1) De Blasis, op. cit. ♦ 179 ♦

fatti quella donna, che non aveva mai turbato la vita e l’attività del maestro, che gli era sempre stata al fianco, premurosa e abile, per evitargli noie e facili­ targli quel regime di vita che al temperamento di lui era necessario; e non era intervenuta con inutili gelosie in quelle più o meno sentimentali divagazioni, che però non diminuivano in nessun modo l’affetto sincero e saldo del marito; quella donna aveva saputo mantener viva e feconda fino a tarda età la genialità facile e inesauribile del musicista brillante e intelligente. La serena tranquillità della vita si rispecchia nelle sue opere; in esse non incontriamo affermazioni pas­ sionali, non manifestazioni di amoroso entusiasmo: gli amori musicali nell’opera del Paisiello sono pia­ cevoli e gentili, con qualche punta di malizia, e tal­ volta con atteggiamenti sentimentali. Nelle dolci me­ lodie della Nina pazza per amore non a torto si sono visti i germi delle meravigliose espressioni della musa di Vincenzo Bellini; si è potuto rilevare una certa supe­ riorità delle espressioni di dolcezza nel suo Barbiere di Siviglia, in confronto con quelle giocose, sicché lo spartito del Rossini, di così meravigliosa esuberanza di giocondità, lo ha fatto dimenticare. Ma l’esame dei numerosi, spartiti del Paisiello dimostra come siano generalmente più fresche e vitali le sue pagine giocose che non le elegiache, pur rilevando non di rado anche in queste innegabile alto valore estetico. Ma nello spon­ taneo e frequente alternarsi di pagine sentimentali con pagine umoristiche e parodistiche, la gioconda musa paiselliana trionfa. Fu il Paisiello un novatore; egli introdusse nel me­ lodramma espressioni drammatiche significative, ori­ ♦ 180 ♦

ginali, che divennero ben presto patrimonio comune dei compositori teatrali: in questo egli fu intelligente, in­ gegnoso, abile realizzatore dei concetti estetici di un Calsabigi e di un Gamerra: ma la sua efficacia è, in questo campo, essenzialmente frutto di riflessione, da parte di un musicista che sa rendersi ben conto del va­ lore di teorie, di ideazioni feconde, e trova gli accenti, le forme, i mezzi pratici per la loro attuazione. Più la mente aperta e la forza del pensiero che non l'ardore fremente di un cuore acceso da potente passione, sug­ geriscono al Paisiello accenti espressivi, amorosi: nelle opere sue la vita del cuore è generalmente dolce e buona, con qualche argutezza frequente e qualche rara la­ crima, come nella sua vita. La serenità affettuosa di Donna Cecilia *vigila, previdente, sul cuore e sulla fan­ tasia del maestro, e gli suscita intorno un buon tepore che mantiene intatte, sane, feconde, inesauribili le ricche facoltà inventive ed espressive dell'arte sua, arte bene allietata dal sorriso animatore della modesta borghesuccia che, dalla ambigua parvenza di avventu­ riera a caccia di un marito, giunse a trasformarsi nel più saldo, fido, intelligente sostegno dell'artista ge­ niale. Quel buon sorriso muliebre vive ancora nelle pagine di Giovanni Paisiello, e ci rallegra il cuore con la sua serena freschezza.

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GIOACCHINO ROSSINI Ecco balzar fuori, esuberante di forza, di gaiezza gioviale, la figura di Gioacchino Rossini: egli appare di slancio sulla scena lirica, animatore, trionfatore, riboccante di sana ed eterna gioventù, come, nell’opera sua più ardente di vita, prorompe la indiavolata vivacità di Figaro. Dominatore assoluto della vita mu­ sicale del tempo suo, egli vide le proprie creazioni imporsi in ogni parte del mondo civile, anche turbando e ritardando affermazioni di altri musicisti cui l’arte rossiniana si sovrapponeva, sollevando l’entusiasmo delle folle; arte giovane e fresca, spontanea e scorrevole, limpida e luminosa. Nè meno sensibile era il fascino che esercitava l’uomo: giovane, bello, brillante, spi­ ritoso, vero epicureo, sapeva attrarre simpatie pro­ fonde e destare vere passioni, traverso le quali egli passava, sicuro di sè, non turbato nella sua attività creativa: non turbato, ma neppur secondato. Egli aveva in sè la fonte inesauribile dell’inspirazione mu­ sicale, e l’onda melodica che ne sgorgava, non deviava, non si inaridiva, non si ampliava per influenze amorose; egli era come impastato di suoni e la musica era il suo naturale linguaggio. ♦ 183 ♦

Due figure di donna, staccandosi dalla variopinta e impallidita schiera delle immagini fluttuanti attorno alla gioventù del maestro, si impongono e si legano alla sua vita, in modo che appare esclusivo: Isabella Golbran, Olimpia Pélissier. Celeberrima cantatrice la prima, spagnuola di nascita, italiana d'arte, allieva del grande Crescentini: donna di grande bellezza, ar­ tista di alto valore, essa, dopo aver mietuto allori sulle scene liriche d'Europa, dominava a Napoli le sorti del teatro S. Carlo, padrona dell'anima del famoso Dome­ nico Barbaj a, che aveva ricostruito quel teatro, già distrutto da un incendio, e ne era impresario avveduto e valente. Il Rossini, di cui la Golbran aveva interpretato mirabilmente le opere, che si era adoperato perchè essa fosse ancora scritturata a Napoli, vide in lei il mezzo migliore per esercitare influenza sul Barbaja; non solo, ma, entusiasta della donna e dell'artista, si affezionò a lei sempre più vivamente e il suo affetto fu ricambiato. Il 14 dicembre 1821, il Rossini scriveva da Napoli ad uno zio: « Un favore vi domando e in tutta segretezza. Mi abbisognano le mie fedi di nascita e quelle di stato libero. Quando avrete dette carte, le spedirete subito a mia madre ben suggellate, onde nep­ pure lei le possa aprire prima del mio arrivo a Bologna. Vi rinnovo che questo non lo sappia che io e voi. Spero abbracciarvi presto. Date mille baci alla Nonna e a tutti di casa. Vi abbraccia il vostro aff.mo nepote ». Questi documenti dovevano servire per il matri­ monio del Rossini con la Colbran: la grande segre­ tezza, tanto raccomandata dal maestro, sarebbe stata necessaria per evitare possibili sorprese, sopra tutto ♦ 184

da parte del Barbaja, tanto potente a Napoli, che avrebbe fatto di tutto per impedire la partenza della bella cantatrice, alla quale teneva molto; vuole la tra­ dizione che fosse stata vera fuga quella dei due fidan­ zati, e fiero colpo per il Barba] a la notizia che ne avrebbe avuto il mattino dell’8 marzo 1822. Il 16 marzo av­ venne il matrimonio, a Castenaso (terra a una diecina di chilometri da Bologna), nel piccolo santuario della Vergine del Pilar, detto anche la Madonna di Gastenaso, prossimo ad una grande e bella villa, che Isabella aveva ereditato dal padre; il giorno successivo gli sposi novelli, con altri artisti del teatro S. Carlo, partivano alla volta di Vienna, ove già si trovava il Barba] a, che aveva scritturato il Rossini e gli altri per quel Teatro Italiano, di cui dal dicembre 1821 aveva assunto l’impresa: e ciò (come giustamente rileva il Radiciotti), dimostra essere vera fiaba la fuga clandestina dei due innamo­ rati. Per Isabella il Rossini compose Y Otello, La donna dal lago, Semiramide; e, sapendo di poter contare su così eletta interprete ed esecutrice, volle e seppe trovare forme ed espressioni di grande efficacia; perchè è mal fondato giudizio quello dello Stendhal circa la male­ fica inflenza della Golbran sul genio del marito; basta scorrere l’elenco degli spartiti da lui composti mentre visse con lei, per esser convinti del contrario. Però è certo che i caratteri dei due coniugi erano ben differenti, e non poteva regnare fra essi un buon accordo: la tensione continua che tra di loro si mante­ neva, rendeva sempre più insopportabile la vita comune. Quando il Rossini nel 1830 andò a Parigi, volle che la moglie restasse a Bologna. Già, a Parigi, Isabella si ♦ 185 ♦

era lasciata trascinare dalla passione per il giuoco e, avendo speso eccessivamente, aveva fatto debiti e si era messa a dar lezioni di canto di nascosto del marito. Questi, risaputolo, aveva ricondotto a Bologna Isa­ bella vietandole di riaccompagnarlo in Francia. Ma non era un uomo da poter viver solo, e anelava a tornare in Italia, a ritrovare la felicità domestica di altri tempi. Però nel frattempo conobbe Olimpia Pélissier, cultrice della musica, entusiasta dell’arte rossiniana, la quale riuscì a guadagnare, con mille attenzioni, il cuore di lui. Quando, nel 1832, il Rossini si ammalò, Olimpia Pélissier fu sua instancabile in­ fermiera: e seppe, con assidue cure, condurlo a seguire un regime di vita tranquilla e regolata, cosi da evi­ targli, il più possibile, i contrattempi e gli squilibri che lo facevano star male. Ma i contrattempi conti­ nuarono, ed il Rossini, sdegnato del modo con cui erano maltrattate le sue produzioni, lasciò d'improv­ viso Parigi nel novembre del 1836, assicurando Olim­ pia che ben presto si sarebbero nuovamente riuniti: non intendeva condurla Bologna senza averne prima prevenuto il padre e Isabella, in modo da evitarle inquietudini ed urti. Giuseppe Rossini accoglieva con piacere ogni vo­ lontà del figliuolo, e non avrebbe nemmeno pensato a contrariarlo. «Isabella (così nella sua importante biogra­ fia rossiniana scrisse Antonio Zanolini, — Bologna, Za­ nichelli, 1875—) fu avvisata dell'arrivo del Rossini e della prossima venuta di Olimpia ed assicurata ad un tempo che non prenderebbero dimora in Bologna qualora ella avesse a sentirne dispiacere. Dalla villa di Castenaso... Isabella rispose che non farebbe doglianze e molto le sa­ ♦ 186 ♦

rebbe grato rivederlo e conoscere personalmente quella che aveva saputo meritare la sua affezione». E il Rossini da Bologna, scriveva a Parigi all’amico Severini il 28 no­ vembre 1836: « Ho qui ritrovato mio padre in buona salute, e, relativamente alla sua età di 74 anni, allegro e beato, come facilmente crederete. Mia moglie sta bene ed è molto ragionevole: entrambi vi dicono un milione di cose tenere... Io vi ringrazio per la vostra amabilità con Olimpia: essa mi scrive molte cose in proposito, ed io sono e sarò sempre tenuto a voi per quanto vor­ rete fare per lei ». E il 23 decembre: « Se vedete Olim­ pia, abbracciatela per me, e, se ha bisogno di consiglio o assistenza, vi prego accordargliele ». Intanto il Rossini aveva veduto Isabella; « dopo amichevole colloquio — narra lo Zanolini — concorde­ mente convennero di separarsi e... fu fermata e pattuita la separazione legale... Giuseppe, che aveva diligente­ mente amministrato gli averi del figlio e della nuora, fu pago che, ridotto il suo incarico al pagamento delle mesate ad Isabella, di rado fosse tenuto di praticare con lei, che seco non si era mostrata cortese, come soleva cogli altri; ed era assai curioso di conoscere Olimpia della quale Gioachino tanto si lodava ». Fu allora chiamata a Bologna la Pélissier; e il 4 gen­ naio 1837 scriveva Gioacchino al Severini: «Vi ringrazio di quanto avete fatto per Olimpia; spero sarà contenta del domestico e del legno, cose importanti in un sì lungo viaggio. Se non ha voluto danari, è segno che era più ricca di quello che la credevo, oppure che per fierezza non volle profittare di un nobile e disinteressato im­ prestito: io però vi ringrazio dell’offerta fattale ». E il 5 febbraio: « Ho tardato a riscontrare l'ultima, vostra ♦ 187 ♦

perchè volevo dirvi avere io definitivamente fatti patti di famiglia con Mad. Rossini (e colla mediazione degli avvocati Regoli e ...?) a modo che essa fa famiglia se­ parata da me; ho fatto le cose nobilmente a modo che ora sono tutti contro lei per le infinite sue pazzie ». Olimpia intanto aveva saputo cattivarsi Fanimo di Giuseppe Rossini; e Isabella insistè per conoscerla di persona. Il 12 marzo scriveva Gioacchino al Severini: « Olimpia è invitata da Mad. Rossini a pranzo domani »; e il 29 scrivevagli ancora: « Isabella, il papà e Olimpia vi dicon mille cose; quest’ultima è benissimo ricevuta per tutto, e Isabella si conduce benissimo in questa de­ licata circostanza ». Alla Pélissier il Rossini era grato perchè, mentre egli aveva conservato l’abitudine di far buona tavola, Olimpia era riuscita a fargli abbandonare ogni eccesso di cibo e di bevande ed egli se ne trovava assai bene. Nel novembre e nel decembre del ’37 fino al marzo del ’38 il Rossini era a Milano « godendo una vita piut­ tosto brillante — come scriveva al Severini —; do accademie, ossia esercizi musicali, tutti i venerdì in casa mia. Ho un bell’appartamento e tutti vorrebbero assistere a queste riunioni: si passa il tempo, si mangia bene e si parla spesso di voi... ». « Quante volte parliamo qui di voi! Milano è città di molte risorse e si passa una vita alquanto beata. Le mie serate musicali fanno sen­ sazione qui in Milano... Le persone più distinte sono ammesse alle mie serate; Olimpia fa gli onori con suc­ cesso e ce la passiamo bene ». Tornati a Bologna, dovette accadero un urto fra la Colbran e la Pélissier: il Rossini, che all’atto della separazione aveva lasciato a Isabella l’intero uso della ♦ 188 ♦

villa di Castenaso, prese in affitto la villa Come ti, oggi dei conti Salina, fuori di porta Castiglione. Intanto il padre del musicista infermò: Olimpia gli prestò affet­ tuosa assistenza e, dopo la morte di lui, seppe confor­ tare il Maestro, profondamente afflitto per la dolorosa perdita. E Gioacchino, nelle sue lettere da Bologna, spesso unisce ai suoi i saluti di Olimpia agli amici lontani. Narra lo Zanolini che il 7 settembre del 1845 il Rossini fu chiamato d'urgenza a Castenaso: « Isabella era malata e desiderava vederlo, di parlargli, di seco riconciliarsi. Rossini non potè nascondere l'interno turbamento, ma punto non titubò e dispose di andarvi tosto: Olimpia era presente e non fece motto; se fu punta da affetto penoso seppe celarlo. Giunto alla villa di Castenaso col suo agente che al solito lo accompa­ gnava, Rossini entrò nella camera d'isabella, e con lei da solo a solo intrattenutosi circa mezz'ora, ne uscì colle guance bagnate di lagrime, e con lena affannata raccomandò che della inferma si avessero cure assidue e cordiali, si spiasse ogni pensiero, ei voleva che i desi­ deri della moglie sua fossero soddisfatti. Di giorno in giorno riceveva notizie da Castenaso infi.no a che il 7 ottobre gli giunse l'annunzio che Isabella, dopo di avere più volte ripetuto il nome di lui, aveva finito di vivere. Egli ne fu profondamento accorato e, pur facendo buon viso ai conforti di Olimpia, rimase lungo tempo triste e malinconoso ».- Dieci mesi dopo, e precisamente il 16 agosto 1846, in una Cappelletta (che ora è abi­ tazione del custode) in un angolo della villa Banzi, a due chilometri da Bologna, fuori della barriera di Santo Stefano, Gioacchino Rossini sposava Olimpia Pélissier.

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Nell'aprile del 1848 il Rossini, irritato per una inat­ tesa e ingiustificata dimostrazione contro di lui, e per tranquillare la moglie che se n'era spaventata, lasciò Bologna per Firenze, ove rimase per più di due anni; tornò a Bologna nell'ottobre 1850; ma nel giugno del 1851 trovavasi di nuovo a Firenze: e infine fissò la sua dimora nuovamente a Parigi, che lasciava per soggiornare nella sua villa di Passy nei mesi caldi: e a Parigi si spense il 13 novembre 1868, pronunciando il nome di Olimpia, che, in lagrime, gli stringeva la mano.

*** Di Isabella Colbran (come ho ricordato) fu detto avere esercitato malefica inflenza sul genio e sull'arte del Rossini: e già ho accennato che il solo ricordo degli spartiti da lui composti mentre visse con lei, basta a distruggere tale voce; di Olimpia Pélissier fu detto in­ vece essere stata preziosa compagna del « cigno di Pesaro ». L'ultimo testamento del Maestro dimostra come egli le fosse riconoscente delle cure per lui avute: la disse « affettuosa e fedele, di cui ogni elogio sarebbe inferiore al merito »: le donò gli autografi e le compo­ sizioni musicali inedite; le diè facoltà di scegliere, fra i beni ereditari mobili ed immobili, quelli che più le con­ venissero in restituzione della dote a lui data nell'atto matrimoniale; le cedè ogni sua ragione sulla villa di Passy; le lasciò la proprietà di tutti i mobili, masse­ rizie e suppellettili, tranne alcuni oggetti preziosi che ordinò si vendessero e si aumentasse del prezzo l'ere­ dità; degli altri beni le lasciò l'usufrutto. Mario Foresi, in uno scritto pubblicato nella Ras­ segna nazionale (Firenze, i° febbraio 1918) descrisse,

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come la vide nel 1853, colei che, con l'indole premurosa e previdente, corrispose [meglio alle -placide esigenze borghesi del Maestro: « Apparisce finalmente con in­ cesso di dea la Signora Olimpia... io me la figuravo presso a poco come l'avevo vista tante volte al museo del Lussemburgo nel quadro di Orazio Vernet rappre­ sentante Giuditta che taglia il collo a Oloferne. Ma qual mai differenza! Giovane, bella, bruna come la pece su quella tela; passata invece, crespa nel viso, imbel­ lettata e brizzolata, adesso! Lo spirito però, quello spirito borghese e talvolta fuor dei righi che aveva as­ sorbito nello studio del Vernet, quando ella era sua modella, lo sciorinava in modo tale davanti a' suoi conoscenti moderni, che qualche volta diventava un po' stucchevole e urtante. Quella donna però fu l’an­ gelo tutelare del gran Maestro. Le previdenze, le cure che essa gli prodigava da mattina a sera erano come una devozione per lei. Dal chiamarlo mon gèni e, fino a porgergli certi oggetti che avrebbe dovuto porgergli un pappino, ella tutto faceva per lui. E se il Rossini godè vecchiaia sopportabile, lo dovè a lei più che agli amici ed ai servitori buoni ». Fu la Pélissier che lo sostenne e lo curò nella non breve crisi di nevrastenia da cui egli fu tormentato, sopratutto quando dimorò a Firenze, e nelle sue let­ tere di quel periodo ve ne sono tante traccie: fu la Pélissier che vigilò attenta sulla sua vita negli ultimi anni, da lui trascorsi in Parigi, mentre la salute sua era rifiorita ed erano risorti in lui lo spirito vivo e mordace, il buon umore, la cordialità, che lo rendevano così at­ traente. Olimpia, forse nel timore che 1'avvicinar troppa gente potesse affaticarlo e provocare il riappa♦ 191 ♦

rive di disturbi nervosi, mal sopportava i numerosi visitatori del Maestro, e dimostrava di non ricever vo­ lentieri persone estranee: e cercava di abbreviar le visite, quando non poteva evitarle. Non a torto il Dauriac concluse che essa non seppe essere la moglie di Rossini, e non fu se non una infermiera. Eppure, può dirsi che. il lungo silenzio del Rossini, dopo meravigliosa fecondità, coincide proprio con l'acquisto della tranquillità di vita, da che, staccatosi dalla Colbran, ebbe a fianco la Pélissier. Dopo la Se­ miramide e alcune cantate d'occasione nel 1823, Il viaggio a Reims nel 1825, Il conte Ory nel 1828, il ca­ polavoro, Guglielmo Teli, nel 1829: poi, per quasi qua­ rantanni, silenzio, interrotto soltanto dallo Stabat Mater (1841), dalla Messa solenne (1864), da brevi pagine pianistiche. Quale dramma, soffocato nel mistero, agitò la mente dell'artista in quei quarantanni, in cui sopravvisse ai suoi trionfi? Non una parola rivelatrice, non un cenno che permetta sollevare il velo. Sentì forse che non avrebbe potuto più dare degni fratelli ad un Barbiere, ad un Guglielmo Telll Sentì di avere con quest'ultimo spartito raggiunto una sommità che non avrebbe più potuto toccare e tanto meno superare? Eppure la fantasia non era esaurita, e il vecchio leone aveva buoni artigli: bastano poche pagine dello Stabat e della Messa a darne prova stupenda. E Olimpia gli procurava la tranquillità necessaria e cercava renderlo felice, sicché potesse tutto se stesso dare all'arte sua. « Felice, sì, con lei — osserva Corrado Ricci —; ma il ricordo della Colbran lo faceva sempre serio sì che non voleva ridestarlo ». ♦ 192 ♦

L'ho già accennato: Gioacchino, Rossini era la mu­ sica fatta uomo; sgorgavano dall'alta fantasia le idee musicali, con spontaneità inesauribile: l'amante focosa, la massaia previdente non potevano alterare il germo­ gliar delle idee, la loro affermazione geniale; con la Colbran, Il barbiere di Siviglia} con la Pélissier, Gu­ glielmo Teli: non un momento passionale nella giocon­ dità esuberante del primo, nella potenza insuperata del secondo spartito: e neppure, bisogna riconoscerlo, in altri spartiti della prima e della seconda fase della sua vita artistica. Il genio procede e si afferma, pro­ nunziando parole sue proprie, sfavillando di luce tutta sua, nè vi si riflettono raggi derivati da altre fonti. La donna, se fu sempre a fianco di Gioacchino Rossini, non si immedesimò con lui, non con la sua arte: era troppo povera cosa al suo confronto.

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GAETANO DONIZETTI Se nulla permette un ravvicinamento o un con­ fronto, neppur vago e superficiale, tra Parte di Roberto Schumann e quella di Gaetano Donizetti, e neppure tra gli eventi della loro vita, tuttavia nella esistenza di entrambi v’è un dramma tremendo, che li ravvicina: la alterazione delle facoltà mentali, che appare talvolta come oscura minaccia, e in fine si afferma, e distrugge la fantasia creatrice dell’artista, il quale sopravvive, se pur non a lungo, al naufragio della sua mente. Musicista nato, precoce, cresciuto alla scuola di Simone Mayr da prima, del padre Mattei dopo, se nei primi saggi non manifestò una individualità netta e originale, tuttavia seppe in brevissimo tempo acqui­ stare rinomanza: il Barba]a, che aveva sicuro intuito, lo scritturò per il San Carlo di Napoli, ove si eseguì la sua Elvida: è di quei giorni una sua lettera al Mayr, di cui non deve essere dimenticata una parte: «Questa sera (30 maggio 1826) va in scena, al S. Carlo, Bianca e Gernando (Fernando no, perchè è peccato!) del nostro Bellini, prima sua produzione: bella, bella, bella, e specialmente per la prima volta che scrive. È pur­ ♦ 195 ♦

troppo bella, che me ne accorgerò io colla mia da qui a quindici giorni! » A Roma, ove la prima volta, con la Zoraide di Gra­ nata, aveva ottenuto accoglienze tanto liete, da aprir­ gli le porte dei maggiori teatri; a Roma frequentò la famiglia Vasselli, di cui faceva parte quella Virginia (tredicenne allorché la vide la prima volta) che doveva divenire l’adorata e adorabile sua sposa; a Roma, ove nel 1824 aveva fatto rappresentare L'ajo nell'imba­ razzo, nel 1827 Olivo e Pasquale, si fermò nel 1828 dopo il trionfo della Regina di Golconda al Carlo Felice di Genova; e allora ebbero luogo le nozze di Gaetano Do­ nizetti con la sua diciannovenne Virginia. Nove anni ebbe a fianco la donna gentile, cara, bella, intelligente, buona, innamorata: ventisei spartiti egli compose mentre ella fu al suo fianco; e tra questi molti dei suoi più inspirati e fortunati: Anna Bolena, in cui il genio di lui si rivelò in tutta la sua pienezza; L'elisir d'amore, perfetta commedia musicale; Il Furioso, Torquato Tasso, Parisina, Lucrezia Borgia, il capo­ lavoro drammatico; Lucia di Lammermoor, l’opera più ricca di inspirazione. Una lettera di Virginia al suocero ci mostra tutto il suo cuore affettuoso, pal­ pitante nell’attesa dell’esito dellMwna Bolena, di cui chiedeva notizie sicure, temendo che Gaetano, per non affliggerla, potesse nasconderle un eventuale insuccesso: « Appena il mio Gaetano sarà andato in scena, li prego a volermi dare le nuove dell’esito preciso, perchè, a dirgli la verità, di lui non mi fido; per ciò mi rivolgo a Lei, e così sì accerti mi leverà da pene, giacché può immaginare in che agitazione vivo, tanto più che co­ nosco la sensibilità del suo carattere; per ciò a Lei mi ♦ 196 ♦

raccomando acciò nei giorni che deve andare in scena gli vada a fare compagnia ». Tre volte, in quei nove anni, Gaetano Donizetti fu per diventar padre; il primo figlio nacque non ben formato e morì convulsionario dopo pochi giorni; gli altri due non giunsero nemmeno a veder la luce: «...in tre mesi — scriveva il 5 marzo del 1836 all'amico Dolci — perdetti padre, madre e bambina; oltre la moglie ancora ammalata per causa di aborto in 7 mesi e mezzo ». Poco più di un anno dopo, il 30 luglio 1837, Virginia si spengeva, rapita da una maligna febbre scarlattina, mentre in lei palpitava una nuova vita: lo strazio del Donizetti per la perdita di quella mite, cara creatura fu immenso. Scriveva al cognato Antonio Vasselli il 5 agosto: « Oh! Toto mio, Toto mio, Toto mio, fa' che il mio dolore trovi un eco nel tuo, perchè ho bisogno di chi mi comprenda. Io sarò infelice eter­ namente. Non scacciarmi, pensa che siamo soli sulla terra. Oh, Toto, Toto, scrivimi per carità, per amore del tuo Gaetano ». E il 12 successivo: « Il come e il quando io abbia perduto tanto bene, scusa, Toto mio, ma non sono ancora in grado di dirtelo; ancora credo sognare, ancora la porta fatale è chiusa ed ancora non mi fido di restar solo... Non oso dirti di venire in ot­ tobre, che conosco la pena che ti faccio, ma forse uno sfogo farà bene ad entrambi... Senza padre, senza madre, senza moglie, senza figli... per chi lavoro io dunque? perchè?... ». Il 31 agosto scriveva ancora al cognato: « Non posso ancora assuefarmi a credere la mia disgrazia... non posso ancora dirigerti una lettera senza che le lagrime non mi impediscano proseguire lo scritto... Ma la porta ♦ 197 ♦

è chiusa, ma io non posso aprirla, ma io fuggo ancora da quella. Il mio temperamento non era tale da per­ dersi in parole di attaccamento; esso si era fatto un bisogno, un’esistenza di quell’oggetto! » E il 21 set­ tembre: «Lessi la morte della principessa Massimi... ma, credilo, Toto mio, niente mi scuote... Alla tua venuta avrei forse aperta, ma ora, fino al ritorno, ri­ marrà così... Mi raccomando che tutto sia tenuto in buono stato... Farmi aspettarla... panni che debba tornare... che sia a Roma... Io la piango ancora come al primo giorno... Ho fatto una canzone più triste di me... » Trattasi della romanza E* motta! riboccante di espressione dolorosa profonda, agitata, passionata, di cui forse sono sue anche le parole: è veramente una pagina sgorgata da un cuore sanguinante; ed ebbe subito diffusione grande e commosse e commuove an­ cora chi l’ascolta, perchè animata da vero dolore. Nell’ottobre del 1838 scriveva da Parigi al Mayr: « Voi crederete che io ami, adori Parigi; ebbene vi sbagliate, io non mi ci trovo, ardo di voglia di tornare in Napoli: là vi ho una casa mia, in quella avvi una camera nella quale da venti mesi non entro, ma che mi è dolorosamente cara; e là spero morire: » E ancora quattro anni dopo la perdita, scriveva al cognato da Parigi, il 31 luglio 1841: « Nel dì 29 piansi come se fosse stato il primo giorno della sventura... Non posso farne a meno; in mezzo alle mie gioie, se un pensiero di lei s’af­ faccia, le lagrime lo seguono. A chi dirlo? Chi lo cre­ derebbe in me? in me, che ognuno crede astratto, gaio... ». E il 3 agosto 1842, sempre al cognato: « Sono ancora sotto l’impressione di un giorno tristissimo tuttora per me, e la tua ultima mi accresce la tristezza... Fammi '♦ 198 ♦

coraggio, chè mi si divide il core a lasciar Napoli, e ciò non per Napoli, ma per... Che mi parli tu d’altre donne? Oh, ridi pure, e credi a me che piango ancora come il primo giorno... Oh, potessi distrarmi! credilo... cerco stordirmi... Basta...! ». Un particolare di secondaria importanza, ma non privo d’interesse, è l’evidente cura di ricordare espres­ samente il nome della figlia del caro Toto, Virginia, in cui si rianimava l’immagine dell’amata perduta: la buona signora Gabrielli-Vasselli, madre dell’egregio Annibaie Gabrielli, autore di una succosa biografia del Donizetti; perfino in quella lettera dell’ii agosto 1845, in cui riferiva al cognato l’esito del consulto che a suo riguardo avevano tenuto i medici, nella sfilata dei nomi delle persone di famiglia cui invia i saluti, quello di Vir­ ginia è scritto con caratteri più grandi, più densi, ed è il vocabolo più evidente e appariscente di tutta la lettera. Con la- perdita della donna gentile e amorosa, che lo aveva così ben compreso e che aveva saputo per­ donarlo tanto, mancava al Donizetti anche quella ra­ gione di vita sana e serena, in una casa sua, con un cuore tutto suo, fido e ardente, cui egli aspirava. Una frase di una lettera al cognato, del 13 settembre 1837, è sintomatica: « Vi sono dei momenti che io mi darei in mano a cento donne, se potessero distrarmi solo per mezz’ora e pagherei quanto posso... Tento, rido, spero, e ricado di più ». Si disse di poi che egli si abbandonasse a vita dissipata, mentre continuava a comporre con in­ stancabile attività: e la sua malattia mentale si ritenne prodotta o affrettata da eccessi, che sarebbero stati precisamente originati dal desiderio di attenuare il ri­ cordo straziante della perdita irrimediabile, di rinsal­ ♦ 199 ♦

dare la ferita sempre aperta. Quella frase può afforzare tali supposizioni; devesi anche ricordare che la serena indagine di un frenologo, il dott. G. Antonini, mentre rileva le contradizioni della psiche del maestro, in cui si alternano espressioni tutte impregnate di vera ango­ scia, scatti di giocondità quasi sfrenata, manifestazioni di grande bontà e generosità e di profondo egoismo, pone in luce la esistenza in lui di una impura infezione, acquistata appunto per qualche sregolatezza giovanile. L’inaridirsi delle facoltà, lo sfacelo intellettuale di Gaetano Donizetti, non può dunque attribuirsi se non a forma morbosa in cui una cagione femminile può sol­ tanto supporsi in un istante d’oblio giovanile, deplore­ vole sì, ma non di carattere passionale, schiettamente e seriamente amoroso: l’amore in lui ha acceso una fiamma sola, fiamma rimasta ardente per tutta la vita, di un ardore gioioso da prima, di un ardore tormentoso poi; una sola immagine di donna ha sorriso al suo cuore, al suo pensiero: la sua Virginia. Lei viva, egli dettò le più forti e vitali opere; morta, gli sorrise dal cielo, e gl’inspirò le migliori pagine della Favorita e della Linda, le scorrevoli e gentili piacevolezze musicali della Figlia del reggimento e del Don Pasquale, sole opere sopravvissute delle sedici da lui composte dopo la perdita della moglie. Virginia Vasselli fu veramente l’angelo tutelare di Gaetano Donizetti; fu il solo grande e profondo amore del musicista, fu la sua sola Musa inspiratrice; pensando a lei, perduta, levò al cielo il dolcissimo lamento; Spirto gentil de’ sogni miei, brillasti un dì, ma ti perdei.., ♦ $00 ♦

VINCENZO BELLINI Nicolò Tommaseo, ingegno acuto e penetrante, lingua non di rado velenosa, scriveva da Parigi a Gino Capponi nel 1835: « Il Bellini, gentil giovanetto, ma stupido come un sonatore, è morto in casa d’un inglese, della cui moglie od amica era amico. La calunnia, sempre stupida, lo dice avvelenato; dice che sessantamila franchi ei doveva avere, e non gliene trovarono se non trentamila ». Quest'ultimo « si dice » non era calunnia (annota il Papini dopo aver riferito le parole del Tommaseo), nè il fatto che morisse del troppo corri­ sposto amore della signora Lewis. Così malamente finiva, a trentaquattr’anni soli, il divino musico della Norma, Punico italiano, nel patetico, che pareggi Bee­ thoven ». Siamo tanto avvezzi a sentir dare dell’angelico al Cigno di Catania, e un tale epiteto trova così giusto riscontro nella espressione delle più celebrate melodie da lui donate al mondo per la nostra gioia, che le parole del Tommaseo suggeriscono subito un moto di protesta: però, non mi pare sia il caso di protestare e di aversi a male se c’è chi, cercando la verità, giunga a modifi­ ♦ 201 ♦

care il profilo morale di un artista, mentre in nulla può riuscire alterato il valore estetico dell'opera d'arte. Le creazioni belliniane sono preziose gemme di cui noi italiani abbiamo ragione di andare orgogliosi; chi legga le acute pagine, vibranti di adorante simpatia, in cui Ildebrando Pizzetti si è addentrato nelle espressioni musicali del Bellini, non può non essersi sentito ancor più avvinto da ammirazione per la pura bellezza di quell'arte limpida ed espressiva; e questa ammirazione non è turbata da qualche espressione dell'uomo, in cui egli dimostri cinismo o malvolere di fronte a chi non soltanto non gli fece nè cercò fargli del male, ma lo amò e lo ammirò. Come è ben noto, Francesco Fiorimo, amico di gioventù, compagno di studi, appassionato per l'arte del Bellini, ebbe per lui tale adorazione, per cui non voleva neppure ammettere si potesse gettare un'ombra sulla figura dell’amico tanto caro: con amorosa cura raccolse le lettere e i documenti che a quello si riferi­ vano; ma nel darne pubblicazione, non esitò ad eliminare tutto ciò che avrebbe diminuito il valore morale di colui nel quale egli quasi vedeva il modello di ogni perfezione. Mi narrava un giorno Rocco Pagliara, che era stato da prima suo aiutante e poi successore nella direzione della biblioteca del Conservatorio musicale di S. Pietro a a Maj ella, a Napoli, che quando vide la luce, a cura di Michele Schedilo, certa lettera del Bellini allo zio Vin­ cenzo Fedito, alquanto astiosa nei riguardi del Doni­ zetti, il Fiorimo, che ne aveva cognizione, mentre essa non figura nella raccolta delle lettere da lui edita, ne ebbe tanto dispiacere da sentirsi male d’improvviso. Il buon ♦ 202 ♦

Fiorimo; quando non poteva fare a meno di pubblicare qualche lettera che presentava per lui difficoltà, non esitava a sopprimere vocaboli e nomi, facendo un vero sforzo quando lasciava sussistere le iniziali; o ad addol­ cire qualche espressione. Tuttavia lo stesso Fiorimo offre sufficenti elementi perchè sia possibile un giudizio abbastanza esatto sul Bellini uomo, a traverso le rosee lenti dell’amico: ma le pubblicazioni diligenti e minu­ ziose di Antonino Amore e di Michele Scherillo ben altra messe di notizie presentano, e possiamo ora vedere più a fondo nell’anima del musicista illustre. Giovane, bello, acclamato, destava interesse vivis­ simo: il mondo pettegolo, e non sempre scrupoloso, del teatro lirico, circondava, con le sue indiscrezioni, la figura del Bellini di quella aureola dongiovannesca, che tanto attrae la curiosità e un mal celato desiderio di con­ quista in molte donne; la nota sentimentale dell’amore avversato, intensificava curiosità e desideri. Perchè il ■primo amore documentato del Bellini, era di tal natura da non dover essere necessariamente celato: è l’amore per Maddalena Fumaroli, gentile e cara figura muliebre. Vincenzo, da poco giunto a Napoli, allo scopo di perfezionarsi nello studio della musica, iniziato nella natia Catania, vide dalla casa di un amico al vico Bagnara, una graziosa fanciulla su di una terrazza verso Porta Alba. Riuscì a farsi ricevere nella ospitale casa di lei; essa era figlia di un apprezzato magistrato, il quale volentieri accoglieva ogni settimana in piacevole conversazione amici e conoscenti: il Bellini fu bene accetto ed offrì di dar lezioni di canto alla fanciulla, intelligente e colta ben più di quel che fosse la gran maggioranza delle sue coetanee. ♦ 203 ♦

Fu la musica esca d'amore vivo per entranbi: ma i genitori, quando se ne accorsero, si opposero in modo reciso a tale amore; e il dolore del Bellini si manifestò nella musica dolcemente malinconica della nota sua romanza: «Dolente immagine di Fille mia», su poesia che la stessa Maddalena soleva declamare: romanza che si diffuse subito per tutta Napoli. Una scena, complessa, egli scrisse anche, su versi scritti, o per lo meno ria­ dattati dalla Fumaroli: « Questa è la valle », che pure divenne popolare. Quando il giovane musicista ottenne il primo suo successo con l'opera Adelson e Salvini, eseguita dagli stessi allievi del Collegio musicale di S. Sebastiano, ove il Bellini studiava, e che fu dovuta ripetere ogni domenica per tutta la stagione invernale, egli chiese, per mezzo del pittore Marsigli, la mano di Maddalena al presidente Fumaroli: il quale rispose con un rifiuto. Ottenuto, subito dopo, l'incarico di scrivere per il teatro San Carlo un’opera, per ecce­ zionale favore, in conseguenza dell’esito felice del primo spartito; ed avute accoglienze festosissime con Bianca e Gernando, il Bellini fece rinnovare la richie­ sta, per mezzo dello stesso Marsigli: ma ebbe uguale rifiuto. Partì il Bellini per Milano, ove doveva scrivere un’opera nuova per il teatro della Scala: fu II pirata, su libretto di Felice Romani: Maddalena si sentì sola, e sfogò il suo dolore in poesie che mandava all’amico Fiorimo:

Che grato duol mi opprime, qual dolce pena io provo, l’oggetto in non ritrovo di tanta gioia e duoh ♦ 204 ♦

e par che in ogni istante mi balzi in petto il core: non so se sia dolore quello ch’io sento in sen.

In me più-non ritrovo la pace, o Dio, dell’alma, e senza quiete e calma il cor mi sento in sen.

Mi sembra in ogni istante mancar nel petto il core; e il mio crudel dolore mi dice ognor così: Tu non avrai più pace, sarai sempre infelice, e finché a me non lice, non proverai piacer.

Il trionfale successo del Pirata pose il Bellini in tale posizione artistica, da non poter essere più consi­ derato come quel « povero sonatore di cembalo » al quale il presidente Fumaroli aveva negato la mano della figlia: e il Marsigli per la terza volta (però senza interpellare il maestro) rinnovò la richiesta e scrisse al Bellini che ormai era ottenuto il consenso della fami­ glia alle nozze. Ma il Bellini rispose che oramai era deciso di non avere altra sposa che l’arte, a cui aveva ♦ 205 ♦

dedicata tutta la vita, tutto se stesso. A Maddalena mandò una lettera di scuse... E la fanciulla sfogava il suo dolore in versi di altra tempra che non le prime strofette: È una vera ideale chimera quel che l'uomo chiamò fedeltà; e nel mondo non basta beltà, ne virtù per poterla trovar. Nella bocca di tutti risuona, e la giurano in ogni momento; ma tradiscono il lor sentimento, che dai labbri non passa nel cor.

*** Dopo tante lunghe pene in cui passo i giorni miei, almen fossero gli Dei più pietosi a’ miei martir. O ritorni a me la calma, o si appresti a me la morte; che .saria per me. più . sorte di finirla col, morir..

c *** A che invan per me pietoso fugge il tempo e affretta il passo; cede agli anni il tronco, il sasso, non invecchia il mio martir. Non è vita una tal sorte; ma sì lunga è questa morte, ch'io son stanca di morir.

Non sembra di sentire in questi versi il germe delle più belle ispirazioni d'amore nelle opere del Bellini? 206 ♦

Ricordate, nella Sonnambula, le dolorose espressioni di Amina: « D’un pensiero, d’un accento », e la mira­ colosa frase: « Ah, non credea mirarti »; e nei Puritani lo strazio di Elvira: « Ah, rendetemi la speme - o lascia­ temi morir ». Che cosa era accaduto, per trasformare così radi­ calmente i sentimenti del Bellini? Nei primi tempi del suo soggiorno a Milano si annoiava assai, per la vita monotona che conduceva; anche il teatro lo seccava. Si fecero maligne insinuazioni circa la sua intimità con la celebre Adelaide Tosi, che aveva interpretato la Bianca a Napoli e doveva eseguire la stessa parte al Carlo Felice di Genova: in proposito egli fece vive proteste, scrivendo al Fiorimo. Recatosi a Genova per la inaugurazione di quel teatro, per cui era stato scelto lo spartito belliniano Bianca e Fernando, vi conobbe la signora Giuditta Turina, di cui a Milano gli aveva parlato la signora Pollini. Bella, intelligente, colta, ricca, erasi maritato giovanissima; però non era felice, trascurata da un marito volubile. Al Fiorimo, che aveva avuto sentore dello stato d’animo del Bellini, questi scriveva il 30 giugno 1828, da Milano: «Mi dai sempre delle punture sui miei novelli e non novelli amori, e non so se è una tua immaginazione di scherzare o qualcuno che ti dice delle fole, perchè quelle che può vedere il pubblico tali sono. Da più di un anno, che sono in Milano, hanno detto e ridetto e passato in fila tutte le donne che io vedea, dicendo che ci facessi alfamore, e poi si sono ricreduti in contrario. Non dico che io non abbia fatto qualche scappatella, ma cose leggiere e. di poca durata, e che posso dire già dimenticate,

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poiché non atte pel mio cuore. Adesso però mi piace una bella donnina, e non so come finirà. Ella pare che mi ami; ma io mi guardo prima di dare un passo. Già è maritata e in età di venticinque anni... Di questo intrighetto te ne dirò qualche cosa, se progredirà così veloce, come in pochi giorni è cresciuto. Tu dimmi il tuo parere, sebbene questo mio amore non è fissato, essendo in principio, e chi sa se potrà svanire prima che questa ti arrivi. Ella per adesso è fuor di Milano, e forse mancherà un mese; ma per lo più sta in cam­ pagna. In altra ti dirò ciò che di nuovo succede, e così sarai a giorno di tutte le mie piccole scorrerie, e forse di qualcuna grande in seguito ». Frattanto non debbonsi dimenticare poche e signi­ ficative parole scritte non molto prima al Fiorimo, al suo ritorno a Milano, dopo la inaugurazione del Carlo Felice: « Ho ricevuto due lettere della Fumaroli in data attrassata per essermi trovato in Genova all'epoca, che sono giunte qui. Io penso di non rispondere, o di mandare e te la lettera di risposta ». Il 20 settembre 1828, scriveva: « Mi rammento appena che in certe mie lettere ti parlai d’un certo amore nascente, in risposta ad una tua che me ne mostravi curiosità, ossia come delle mie avventure amorose non te ne mettessi a parte e per ciò ti lamentavi. Io ti dissi che certi accidenti passeggeri eranomi suc­ cessi, e che ve ne era uno che poteano farsi serii (sic); tu a tutto ciò non mi hai risposto, ed io credendo di non nascondere nulla al mio caro amico, ti dico che da giorni la signorina è qui, e che siamo in perfetta armonia su di tutto quanto potrà desiderarsi da un amante. In altra mia ti parlerò più a lungo di quest'avventura, ♦ 208 ♦

die spero esser durevole per questa volta, essendo d’un cuore non guasto ». E il 24 aggiungeva: « La mia signo­ rina sta ammalata ...mi ha pregato che le volessi mos rare il tuo ritratto, perchè vuol conoscere il mio amico che tanto mi ama ed amo ». Il 27 settembre ecco la narrazione: « Senti adesso riguardo ai miei amori, poiché credo che questi t'allar­ meranno; ma non dubitare, perchè quando non sono con delle zitelle non possono far perdere la testa. Io, nel giungere a Milano l'anno passato, dopo aver cono­ sciuto parecchie persone, incominciai ad essere bene accolto, e feci delle amorose conoscenze, ma di pochis­ sima durata, perchè tu, che conosci il mio naturale, sai che io cerco sentimento unito al senso, ed in parec­ chie io scorgeva che il solo ultimo carattere le dominava, e bastò questo per farmele tutte abbandonare, ma sempre restando amico. Questa vita di lasciarne una e prenderne un'altra durò fino a che andai a Genova, dove conobbi la mia presente amica, della quale la Pollini mi aveva sempre parlato, perchè ne conosceva la cognata e l'educatrice de’ figli di questa, che la stessa Pollini aveva loro procurata. L'amica mia era molto più buona della cognata; e perciò ogni volta che si parlava della famiglia di lei, la Pollini diceva che la più buona fra esse era la Giuditta. La maggior parte dell’anno essa la passa in campagna, 45 miglia lontano di qui. È la stessa, a cui ho dedicato il rondò della Bianca. «Dunque, conobbi questa giovine appena di ventotto anni, bella, amabile e d'una dolcezza di carattere da innamorare. In Genova le fui presentato dalla Mar­ chesa Lomellini Tulot, ed ella mi accolse con tanta bontà che d'allora mi piacque molto; e come là io me ♦ 209 ♦

la facevo sempre coi molti milanesi eh’erano venuti per l'apertura del teatro, così nei tempo che fui a Ge­ nova fino al giorno che andai in scena, quasi tutti i giorni andavo a visitarla; ma il motivo per cui io m'inte­ ressai di lei fu che, dopo due giorni che Fera stato pre­ sentato, andai a farle la prima visita in casa, dov'era col fratello, sola persona che l'accompagna nei suoi viaggi, essendo il marito sempre occupato negli affari. Dunque nell’entrare e vedermi, essa diventò come uno scar­ latto, ed io quasi fui sorpreso ed incantato da questo fenomeno inaspettato, e perciò posi pensiero di amarla. Nei giorni consecutivi seguitai a visitarla, quando dei forti dolori l'obbligarono a guardare il letto, ed io pro­ fittai di questo suo incomodo per dimostrarle la mia amorosa premura, facendole compagnia in tutta la giornata; e così ebbi delle ore che fui solo con lei, e sai come cadono i discorsi senza avvedérsene in quei primi pensieri che sono fissi in testa. Così noi ci dichiarammo innamorati, ma ella faceva dei gran dubbi per la mia costanza, e perchè io ero obbligato di passare di paese in paese, e perchè ella non poteva stare sempre a Mi­ lano. Si battéa sempre su questi punti... ed in lei non cessavano mai i dubbi sul mio amore... Così ella si partì da Genova per Casalbuttano, di dove mi promise di scrivermi, subito che io giungessi a Milano, che rividi dopo otto giorni del suo abbandono di Genova. Io scrissi subito al mio arrivo, e non ebbi risposta; scrissi la seconda lettera con una tale freddezza da far di­ spetto, e solo perchè obbligato a farle sapere delle com­ missioni eseguite, che alcuni miei amici mi avevano incombenzato collo scrivermi da Genova. Ella allora rispose con una lettera come lagnandosi del mio quasi ♦ aio ♦

insultante silenzio. Io le risposi ancora, ma non più con smania amorosa come nella prima perchè incominciavo ad accertarmi ne’ miei sospetti. Ella infatti mi rispose, ma dopo qualche tempo, e mi avvisava che il merco­ ledì vegnente sarebbe stata a Milano, e sperava di ve­ dermi in teatro; io che aveva risoluto di non pensarci più, e non voleva fare la figura di andare appresso a donne, quando venne la sera di mercoledì, ed andai al solito in teatro, nel suo palco non ci guardai nemmeno. Intesi però da alcuni amici che aveva domandato di me, ed io dissi a questi che nella sera sarei andato a vederla. Ma fermo nel mio proposito, sapendo ch’essa ripartiva l’indomani al mezzogiorno, andai appena alla fine dello spettacolo, e all’impiedi la salutai, augurandole un felice viaggio, e la trovai in un estremo dispetto. L’in­ domani alle otto della mattina mi vedo arrivare il ser­ vitore, che mi disse esser io desiderato dalla padrona, ed io andai. Lamentandosi ella del mio freddo proce­ dere, le risposi che in amore non si scherza, e che io ringraziava Dio che ancora stava in me per non perdere la mia pace. Ella si scusò che non aveva risposto subito per non dar sospetto a suo marito e tante altre cose, che finalmente mi persuasi, ma non cessai di stare at­ tento sempre. Parti, e nella settimana seguente fu di nuovo a Milano, dove, per star con me, non andava a teatro che di rado... Quindi tutti i dati sono ch’ella mi ami davvero; il mio spirito è quieto, l’affare pare che sia serio, e perciò adesso te lo comunico e l’affido alla nostra segretezza. Ella non vuole che te lo scrivessi... ma come con niuna persona non posso fare a meno di parlai' di te, ella ti stima molto, ed è quasi gelosa del mio affetto per te. Vuole vedere il tuo ritratto, e ♦ 211 ♦

mi dice sempre: Bellini andiamo a Napoli, per vedere il vostro amico; ed io le dico: Andiamo; e ciò si replica sempre sempre. Ella vorrebbe leggere le tue lettere, ed io le dico che non per tutte lo posso, perchè degli affari tuoi non me lo permettono, ed ella crede che mi parli di qualche mia amante, e che perciò glielo nego. Infine siamo in una perfetta armonia, ed io sono un amante felice. Alla Pollini, che è una donna piena di mondo, le ho confidato tutto. In tanto non prima d’ora ti ho posto a giorno di ciò, perchè temeva di allarmarti inutilmente, potendo svanire la cosa nel nascere; adesso che sembra fissata, eccotene il sincero ragguaglio. Mio caro Fiorimo, tu lo sai che io ho la debolezza d’innamorarmi alla follia... » . Il signor Cantù, padre di Giuditta Turina, prese in affitto, per l’autunno, il villino Galloni a Moltrasio, sul lago di Como, perchè in quel clima balsamico essa potesse bene rimettersi in salute: il Bellini fu invitato a soggiornarvi; e a Moltrasio egli compose La straniera, soggetto che, al dire del Cicconetti, gli sarebbe stato suggerito dalla Turina. Essa però non potè assistere al trionfo del nuovo spartito, quando, nel febbraio del 1829, fu eseguito alla Scala di Milano. Il io dicembre 1828 aveva scritto il Bellini all’amico Fiorimo: « Godo molto che non hai trovato male alcuno nella mia amo­ rosa relazione, sebbene tu sei stato sempre (e credo che, non potendo cambiar natura, lo sei ancora) con­ trarissimo a qualche mia passioncella, e ciò te lo dico perchè è patente e chiaro che nella tua dici di stimare più la mia amica, perchè s’ingelosisce della tua ami­ cizia, vedendo, com’è in effetto, che per me questa ha dello straordinario. Anche ciò è di mio sommo gra­ ♦ 212 ♦

dimento. Non credere che tutte le tue lettere le fo leg­ gere a lei, ma qualcuna, dove in certi capitoli vi sono delle novità o qualche, altra cosa di curiosità. Quest'ultima tua ho stimato di fargliela leggerre, perchè, sebbene ella non volesse, io le aveva detto che ti confidava il segreto. Basta, godo che l'affare è con te pure in armonia e non ti mette in nessuna perplessità, Ella presentemente è ammalata e vedo che non presto potrà ristabi­ lirsi ». È il 14 marzo 1829 da Milano: « La signora Giuditta mi dice che soffre anch'ella le pene di Tantalo, perchè la sua convalescenza e il cattivo tempo non le hanno permesso ancora di sentire La straniera. Ella stessa qui presente ha voluto che ciò ti dicessi. Ricevi i suoi complimenti, e ti ringrazia della memoria che conservi di lei ». Mentre Giuditta Turina tornava a Casalbuttano, sempre sofferente, andava il Bellini a Parma, ove doveva comporre la Zaira, su libretto del Romani ricavato dalla tragedia del Voltaire. E a Casalbuttano essa ri­ mase, mentre il pubblico parmense accoglieva ostil­ mente la nuova opera; colà andò a raggiungerla il Bel­ lini per sollevar l'animo contristato dall’insucesso. Ancora dimorò Giuditta a Casalbuttano quando l'anno successivo egli andò a Venezia per comporre e rappresen­ tare I Caputeti e i Montecchi, Da Venezia il Maestro le scriyeva il 5 febbraio 1830: « La mia salute va così così, perchè qui la neve ed il freddo non vogliono ces­ sare per ora, ma sto meglio assai. Spero frattanto siate rimessa dall'ultima ricaduta, e abbiate ripigliato la vostra solita vita... Ieri ho ricevuto lettera da Gaetanino (fratello di Giuditta).., Nella sua, trovai una letterina della contessa Samoyloff, in cui mi ringrazia 213 ♦

dell’opinione da me manifestata a Gaetanino sulla diceria degli amori di Pacini con lei, opinione affatto contraria alla diceria pubblica, che parla senza fonda­ mento. Come ancora fa con me, sebbene ora le chiac­ chiere siano in parte finite, sui creduti miei amori con la Grisi e la Lorenzoni; cose che mai ho voluto scriverti, perchè sciocche, mentre tanto Tuna che l’altra poco mi vedono, e il pubblico è quasi convinto della falsità della sentenza pronunciata troppo presto, appoggiata solo alle grandi gentilezze che le suddette mi prodi­ gavano... sono le solite cose del mondo, che poco mi fanno impressione », L’Amore osserva che le non chieste scuse del Bel­ lini riguardo a quei suoi supposti amori, fanno l’effetto contrario. Intanto I Caputeti erano lietamente accolti dai Veneziani, e il favorevole esito del nuovo spartito attenuò il dolore procuratogli a Parma dall’insuccesso della Zaira. Si recò allora a Casalbuttano, a trovare Giuditta, e vi rimase l’aprile e il maggio, per riposare e ritemprarsi: ma, tornato a Milano nel giugno, fu col­ pito da malattia intestinale, assai grave: ed ecco nuo­ vamente il Bellini ospite della famiglia Cantò, a fianco della sua Giuditta, a Moltrasio, nella villa Lucini-Passalacqua, l’autunno del 1830. In quella deliziosa resi­ denza, allietato dalla compagnia dell’amata, fiorì dalla mente e dal cuore di Vincenzo Bellini quell’idillio, capolavoro di grazia, di sentimento, tutto freschezza e inspirazione genialissima, che è La sonnambula. Un anno dopo, ospite dei fratelli Turina, nel ma­ gnifico loro palazzo a Casalbuttano, presso Cremona, ancora a fianco della bella Giuditta, Vincenzo Bellini creava il suo capolavoro drammatico, la Norma, che ♦ 214 ♦

doveva andare in scena alla Scala di Milano il 26 di­ cembre 1831, con l’esito negativo ben noto, cui doveva far seguito infinita serie di trionfi superbi: è tradizione che fossero dettati dalla Turina i versi della cabaletta « Ah! bello a me ritorna — Del fido amor primiero », che Antonino Amore pone a riscontro con una lette­ rina alla Giuditta indirizzatale dal Bellini da Milano, in cui si intuisce un certo senso di geloso dispetto: « Vi figuro assai contenta per avere riveduto in perfetta salute il vostro Ferdinando (il marito, che tutto seppe e non se ne diè pensiero), e perciò spero che il vostro dolore di testa abbia cessato dell’intutto di tormen­ tarvi ». La cabaletta della Norma potrebbe significare la pace dopo una tempesta. Dopo gli entusiasmi destati dalla Norma, volle il Bellini riveder la patria, rivedere i parenti: desiderava tornare fra i suoi cinto dell’aureola della gloria: gli sembrava fosse la maggior consacrazione del suo genio quella che partisse dalla sua terra natia. Nella famosa lettera del 26 decembre 1831 al Fiorimo, subito dopo la prima rappresentazione della Norma, si leggono due espressioni contrastanti, che rivelano il pensiero intimo del Bellini; dopo aver annunziato, con lo spasimo nel­ l’anima, il fiasco di quella sera, aggiunge: « Ad onta di tutto ciò, a te solo lo dico col cuore sulle labbra... (e qui enumera le più belle pagine dello spartito) sono tali pezzi di musica, ed a me piacciono tanto (modestia), che, te lo confesso, sarei felice poterne fare di simili in tutta la mia vita artistica ». E poco dopo quell’# te solo, scrive: « Leggi la presente a tutti i nostri amici ». La immediata resurrezione della Norma lo spinse al viaggio trionfale, nel marzo e neH’aprile 1832. ♦ 215

Giuditta Turina volle accompagnarlo: aveva più volte affermato che avrebbe voluto andar con lui a Napoli, e conoscere di persona l’amico Fiorimo: forse nel suo animo v’era un intimo senso di gelosia per quella figurina giovanile che sapeva o intuiva non interamente cancellata dal cuore volubile del suo Vincenzo: e partì con lui, orgogliosa del suo amore, noncurante dell’opi­ nione pubblica, delle convenienze sociali. Un mese e mezzo si trattenne il Bellini a Napoli, festeggiatissimo: poi partì col Fiorimo per la Sicilia: e la Turina, con cui nel frattempo erano sorte questioni, tornò a Milano. Ho sempre pensato che il Bellini, ben conoscendo la tradizionale rigidezza dei siciliani nella osservanza di riguardose forme in ogni manifestazione di vita familiare, convinto che il presentarsi insieme ad una donna la quale per lui aveva notoriamente abbando­ nato il tetto coniugale avrebbe sinistramente influito sull’animo dei suoi compatriotti, cercò e trovò il modo di evitarne la compagnia nella entusiastica escursione. Nel giugno il Bellini, dopo le commoventi accoglienze avute a Napoli e in Sicilia, tornava anch’esso a Milano, per ripartir subito alla volta di Como, in villeggiatura, presso i Cantù e la Turina. Andò nel decembre a Ve­ nezia, per comporvi e far rappresentare la Beatrice di Tenda: la Giuditta non sopportò a lungo la lontananza e andò a raggiungerlo. Sono conosciute le vicendé di quello spartito: il ritardo nella consegna del libretto da parte del Romani; l’avvertenza da questi premessa al testo stampato, tale da riversare sul Bellini la colpa dei difetti del la­ voro; l’esito negativo dell’opera, andata in scena il 16 marzo 1833 alla Fenice; le polemiche vive, aspre, a♦ 316 ♦

stiose, in cui il Romani giunse a pubblicare che gli amori del Bellini per le tre Giuditte (la Turina, la Pasta la Grisi) lo avevano distratto dal puro amore per l’arte sua: e la Turina non faceva mistero di riconoscersi nella maggiore, anzi nell’^mca Giuditta. Lo scandalo fu tale, che Ferdinando Turina si divise dalla moglie, più per le insistenze del fratello Bortolo che per propria iniziativa: e il Bellini profittò dell’occasione offertagli dall’invito di andare a Londra per la preparazione delle esecuzioni di Norma e Sonnambula, per lasciar Milano: il 25 marzo 1833 scriveva al Santocanale, che da Milano sarebbe partito per Londra verso il io aprile: aveva premura di allontanarsi è sottrarsi ai pettego­ lezzi insistenti. Partendo lasciò alla Turina (come si rileva da una lettera di Francesco Pasta al Bellini) una somma di danaro in prestito, col frutto del 5%; il Bellini precisa: « Ella ha di mio denaro circa a seimila franchi, più tutti i miei mobili che alla prima asta pubblica venderà ». Con lei mantenne corrispondenza d’affari sopra tutto: ma, o perchè turbato dallo scandalo e dalle malignità suscitate dalle deplorevoli polemiche col Romani; o perchè l’aspetto che aveva assunto il suo legame con la Turina fosse d’ostacolo alla sua vita d’arte: o perchè anche riguardo a lei fosse sorta l’impres­ sione che essa aveva da prima cancellato dal suo animo in confronto ad altri amori (ricordate? « ...io cerco sentimento unito al senso, ed in parecchie io scorgeva che il solo ultimo carattere lo dominava, e bastò questo per farmele tutte abbandonare, ma sempre restando amico»); certo si è che l’amore per la Giuditta si spengeva nell’animo di Vincenzo Bellini, ♦ 217 ♦

E Londra presentava tante attrattive: « Se non fosse sì lontana dall'Italia — scriveva il 26 giugno 1833 al Santocanale — ci tornerei spesso..., e poi le donne possiedono un bello ideale che incanta, in una parola, si passa una vita beata ». Meno rapido fu il cessar dell’amore nella Turina: perdere il suo Bellini non voleva; forse vi contribuiva l'orgoglio ferito, dopo così solenni e significative ma­ nifestazioni della sua passione, a Napoli, a Venezia, a Milano. Scriveva da Parigi Vincenzo addì 11 marzo 1834 al Fiorimo: « Mi si minaccia sempre da Milano che la Giuditta venga a Parigi: ma ancora non ha nulla risposto alle mie lettere scritte alla contessa Martini, che credo faranno il loro effetto; in contrario io lascierò Parigi, perchè non voglio più mettermi nel caso di ri­ cominciare una relazione che mi ha fatto provare, dei grandi, ma grandi dispiaceri ». E il 4 agosto: « Della Giuditta non ho più nuove; ti giuro che me la ricordo con rammarico, e vedo che non l'ho dimenticata af­ fatto; ma mi spaventa l'idea sola di attaccarmi ancora una volta... ». Il 4 ottobre, da Puteaux: «Il duca Vi­ sconti di Milano pare che mi desideri; io ho scritto alla Giuditta che, se egli mi volesse dare 50.000 franchi per tre opere da scrivere per la Malibran o la Pasta, andrei ». E, nella stessa lettera: « La Giuditta mi scrive sempre da Milano e posso dirti che sta bene. Ella si vede sempre che pensa a riavermi; ma io, mio caro, ora che sono uscito dal fuoco non voglio più ricaderci. Io non sarei più felice con lei, lo sento e lo sento profondamente ». Seguitava a scriverle, ma per affari; così ancora il io ottobre: « Ho scritto alla Giuditta per dare una risposta al duca Visconti, ed è che se per tre opere mi

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pagherà 50.000 franchi effettivi accetterò: tutte tre da scriversi per la Malibran o per la Pasta, ecc. ». E il 30 novembre: « Non ho più novelle della Giuditta da due mesi. Essa forse è restata piccata da qualche mia espressione nelle lettere che le scrissi; ma che vuoi?, io non voglio ritornare nelle sue relazioni, ove ho sof­ ferto moltissimo, e tu in Napoli ne avresti una prova ». Il ripetuto accenno alla Malibran fa ricordare il primo incontro del Bellini con la celeberrima artista, quando a Londra interpretava divinamente La son­ nambula: al Maestro, accorso sul palcoscenico, la Ma­ libran gettò le braccia al collo, ripetendo la frase che lo aveva entusiasmato: « Ah! m’abbraccia... slancio spontaneo della esuberante artista, che il Bellini, av­ vezzo alle rapide conquiste, evidentemente prese per una manifestazione passionale; e, di certo, come per il subito rossore della Turina, « pose pensiero d'amarla » Ma la Malibran, nobilissima creatura, ebbe un solo amore, per Carlo de Bériot, che sposò appena sciolta dal malaugurato primo vincolo coniugale. Il Bellini se la prendeva col violinista e con la donna che a lui lo preferiva; l'insuccesso lo inquietava e infocava : ma fu questo pure un fuoco pesseggero. Nel 1835 la corrispondenza, anche d'affari, con la Turina non esiste più: scriveva il Pasta al Bellini da Milano il 2 maggio di quell'anno: « La signora Giuditta Turina si compiacque incaricarmi, perchè io ti scri­ vessi intorno agli oggetti di tuo interesse che tiene presso di se... I malaugurati affari dell' anzidetta signora con casa Turina, non essendo interamente ri­ soluti, sarebbe d'uopo che ella serbasse ancora per qualche tempo la somma di danaro che, prima della ♦ 219 ♦.

tua partenza per Londra, le desti ad imprestito col frutto del 5% ». Seguono notizie sulla vendita del cem­ balo e di altri mobili e suppellettili che il Bellini aveva lasciato a lei in consegna. E anche la Turina, messo Fanimo in pace, sembra cercasse conforti; e se il Florimo il 18 luglio 1835 scriveva al Bellini: « La Giuditta non mi scrisse più; ma so che sta male assai in finanze, così mi scrivono da Milano, ma non mi assicurano se veramente faccia Famore con quel tedesco che tu dici. Può essere anche che non sia vero. Io lo spero di cuore»; Vincenzo, il 12 agosto, ribatteva: « Tutta Milano si accorda a dire che la Giuditta abbia un amante tedesco, se non lo è meglio per essa, perchè tale sua condotta le ha fatto il più gran torto nelFopinione pubblica. Essa non mi scrive più e qualche cosa sui miei affari me l’ha fatta scrivere dal marito della Pasta ». Infatti la Tu­ rina aveva contratto intima amicizia col capitano conte Gustavo Neipperg, figlio di Adamo Adalberto e delFarciduchessa Maria Luisa di Parma: per lui, rice­ veva ufficiali austriaci nella sua casa, in cui la società milanese non volle più porre piede.

* * Però il Bellini per conto suo non si distraeva: mentre si occupava molto di progetti di matrimonio (voleva una moglie graziosa, tranquilla, che non gli recasse noie, ma avesse una buona dote) e ne parlava come di un futuro assestamento della sua vita materiale, con una calma e una serenità che quasi giungono al cinismo, ove si pensi essere un grande artista che ra­ gionava in tal guisa; d'altra parte era sempre attratto dalFeterno femminino: alla poetica evocazione della ♦ 220 ♦

Fumaroli, nella lettera, già ricordata, del 4 agosto 1834, segue immediatamente la prosa amorosa del momento: « Oh idee care! ed innocente età d'illusione come sei sparita! Pure non sono ora infelice. Il non avere nessuna passione amorosa mi tiene tranquillo, ma è una vegetazione... Conosco una bella donna qui che mi ama estremamente; io non posso dir lo stesso, ma la trovo bella ed amabile e molto docile, tanto che non mi incomoda in niente; qualche volta la vedo, e poi penso alla mia opera ». E la lunga esposizione al Fiorimo dei suoi progetti matrimoniali, conclude così: « Io sono cosi anche: amo la donna che non ho in pro­ getto di sposare e mi annoia quando questo progetto si affaccia; se tale impressione sarà costante, vedi bene che mai prenderò moglie. Amen». Appare in fine una di quelle inglesi, la cui bellezza lo aveva tanto colpito: per vivere e lavorare tranquil­ lamente allo spartito, che doveva esser Vultimo suo, dei Puritani, accettò l'ospitalità del suo amico M. Lewys, che abitava a Puteaux, sobborgo di Parigi, solo con la moglie; era questa già conosciuta dal barone Ayme d'Aquino, ministro plenipotenziario di Francia, quale M.lle Olivier: « Io mi trovo in campagna — scriveva il Bellini al duca Visconti — con Lewys, ove ci diver­ tiamo estremamente. Vicino a Parigi, se vogliamo fra­ cassi nei piaceri accorriamo: in campagna poi ci ab­ biamo i tranquilli nella vita monotona ». Grande era la sua familiarità coi coniugi Lewys: il marito aveva qualche decina di migliaia di lire del Bellini, che traf­ ficava a suo talento: in quanto alla signora (non dimen­ tichiamo le parole del Tommaseo che ho riportato in principio), è probabile sia la persona stessa di cui Vin­ ♦ 221 ♦

cenzo scriveva al Fiorimo il 4 agosto 1834, dopo il ri­ cordo della Maddalena: sarebbe quello che ebbe con lei, il solo legame dell’ultimo periodo di sua vita. A lei certamente si riferisce quel che scriveva il Bellini il 30 novembre 1834: « Io non penso a nessuno; conosco, come ti dissi, una signora cui voglio bene piuttosto d’amicizia che d’amore. Essa mi ama alla follia, e, come comprende che io son freddo, fa tutto il possibile con sacrificare il più minimo divertimento e trattenermi presso di sè. Dunque, sono esente di ge­ losie, perchè basta desiderare qualche cosa che essa subito e senza quistione alcuna l’eseguisce; tale stato tranquillo mi è piacevole ». Il 5 giugno 1835: « Una vera bubbola, mio caro Fiorimo, il mio duello. Io vedo qualche donna, ma certi mariti sono per sistema con­ trari ai duelli. Io, tu il sai, evito le persone di cattivo genere, quindi non mi espongo mai, nè mi piace fare il Don Giovanni o il Don Chisciotte ». Alla fine del 1834 (non come il Fiorimo e l’Amore ritengono, nell’estate del 1835) deve riportarsi una lettera nella quale il Bel­ lini dichiarava al Romani, di non aver più relazione amorosa con alcuna donna. In casa Lewys, abbandonato dai coniugi che erano partiti per Parigi, morì Vincenzo Bellini il 23 settem­ bre 1835, alle 5 di sera: il contegno dei suoi ospiti nei giorni in cui fu malato, il rapido decorso dell’infermità, fece sorgere commenti e sospetti di avvelenamento, cosicché il re Luigi Filippo ordinò si procedesse all’au­ topsia del cadavere: ne risultò esser morto il Bellini per infiammazione acuta dell’intestino complicata d’ascesso al fegato; e di disturbi intestinali, spesso non lievi e prolungati, da più anni aveva sofferto il Mae♦ 222 ♦

stro. L'essersi strapazzato per comporre I Piwitani durante Pestate del 1834, in una stagione nella quale sempre erasi astenuto, appunto per le condizioni degli intestini, dall1 applicarsi e lavorare intensamente; Paver sostenuto allora notevoli disagi e grave priva­ zione di riposo; tutto ciò aveva profondamente dan­ neggiato la delicata salute del Bellini, diminuendo la possibile resistenza del suo non robusto organismo. I bollettini compilati da un tal dottor Montallegri, negli ultimi giorni di malattia, offrono dati che concordano con le risultanze delPautopsia; escludendo quei so­ spetti di avvelenamento ai quali accennava il Tom­ maseo. $ * * Strano contrasto fra Puomo e Partista! Il creatore delle più dólci, pure, spontanee, appassionate melodie che mai abbiamo carezzato umane orecchie e fatto palpitare cuori umani, ci si rivela, nelle sue lettere, egoista, calcolatore, invidioso; il suo modo di intendere Pamore, di intendere la donna, ci stupisce, quando ripensiamo alle divine espressioni amorose dei suoi spartiti; le sue diatribe contro il Donizetti ed altri musicisti del suo tempo (quanto diverso il buon Doni­ zetti nel giudicare e apprezzare il suo emulo, anche se questi gli aveva recato danno!), ci appaiono assolutamente ingiuste e ingiustificate. Nè minor contrasto si rileva nei suoi procedimenti musicali. Chi esamini i suoi manoscritti facilmente può ri­ levare le minuziose cure del Bellini per ottenere verità e forza significativa di espressione nei recitativi, veri declamati drammatico-musicali, in cui il pensiero poe­ tico è plasmato con ammirevole modellatura e rilievo: ♦ 223 ♦

e può seguire, a traverso le cancellature, i pentimenti, le sovrapposizioni, com’ei sia giunto man mano a per­ fezionare il discorso musicale intensificandone la giu­ stezza e l’efficacia. Nelle melodie, invece, gemme pre­ ziose, rutilanti, miracolosamente limpide, si rivela immediatezza e spontaneità assoluta. Il Bellini era uno di quei privilegiati artisti, da cui emana, come per ne­ cessità ineluttabile, un’onda inesauribile di musica: le idee sgorgavano dalla sua mente ampie, flessuose, sno­ date; egli pensava cantando. E (cosa veramente degna di nota in chi aveva tanta cura nel cercare di ripro­ durre l’espressione drammatica) fermava a volo l’in­ spirazione melodica, la fissava sulla carta, per trovarle poi opportuno collocamento. Dopo il Pirata, mentre ancora non era scelto il sog­ getto del seguente spartito (fu La straniera) lo vediamo all’opera: « Io ho cominciato i miei studi giornalieri — scriveva al Fiorimo il 12 maggio 1828 — e paiche non vadano male, perchè ho composto qualche bella frase, che diventerà grandiosa, secondo il pezzo che le toccherà ». Il 21 giugno: « Giornalmente sto fa­ cendo dei motivi: ma ancora non ho potuto fare delle cabalette, e speriamo che verranno ». Il 6 agosto: « Io sto studiando e mettendo già delle idee che mi servi­ ranno per l’opera ». Il 20 settembre: « Finora ho pre­ parato delle tante idee, che, se potranno ben cadere nelle situazioni, dovrebbero fare dell’effetto ». Questo suo modo di predisporre le melodie per adattarle poi al dramma, trova riscontro nel reimpiego di musica composta per un dramma, abbandonato o non ben riuscito, e poi adoperata per ben differente soggetto. ♦ 224 ♦

Una melodia del primo spartito, Adelson e Salvini: « Ecco, Signor, la sposa », si trasfonde nella Straniera: « Meco tu vieni, o misera »; l'andante di un duetto delYErnani (di cui interruppe e abbandonò la composi­ zione) passa nel terzetto della Norma: « Oh, di qual sei tu vittima »; l'andante di altro duetto dell'Emani si trasforma nella proposizione dell'aria di Oroveso, sempre della Norma: « Oh, del Tebro al giogo indegno ». Molti pezzi della Zaira, passarono in altri spartiti: nei Caputeti, nella Beatrice di Tenda,neìl& Norma; tra questi, più notevoli, il terzettino della Beatrice'. « Angiol di pace »; e quella frase del concerto dei Caputeti: «Se ogni speme è a noi rapita », che tanto entusiasmò il Berlioz, accanito detrattore di quello spartito, frase tolta di sana pianta da un terzetto della Zaira. Da tutto questo si può concludere che la musica era il naturai modo di esprimersi dell'anima ' canora del Bellini, come il magico gorgheggiare per l'usignuolo: e se in qualche scorcio musicale può trovarsi un ri­ flesso del dolce cuore dolente di Maddalena o dell'im­ peto amoroso di Giuditta, è nella femminilità del suo temperamento che Vincenzo Bellini ha trovato i tesori di sentimento amoroso, gentile e vibrante, con cui ha potuto adornare le immortali figure di Amina, di Norma, di Elvira; « Il suo modo di camminare era tanto signo­ rina, così elegiaco, tanto etereo! Tutta la sua persona aveva l'aria di un sospiro in scarpini ». Queste maligne espressioni di un maligno ritratto disegnato da Arrigo Heine, determinano, con esagerazione è vero, ma non senza un fondo di giustezza, l'intima essenza del ca­ rattere del Bellini, e la recondita inesauribile sorgente del suo squisito, originale, inspirato linguaggio musicale. ♦ 225 ♦

GIUSEPPE VERDI Ecco la poderosa, rude, dominatrice figura di Giu­ seppe Verdi; figura granitica tutta d’un pezzo, che ma­ gnificamente si riflette nell’opera sua multiforme: perchè l’arte di Verdi presenta in misura eccezionale un carat­ tere di singolare importanza. Ciascuno dei suoi spartiti ha fisonomia, coloratura, unità di concezione e di espres­ sione ben definite e organiche, in mirabile rispondenza col soggetto del dramma; e con questo così intimamente legate e fuse, da risultarne assolutamente impossibile che una sola pagina, una frase sola passino da una ad altra opera. Non si può immaginare una melodia del Rigoletto innestata nelle pagine della Traviata; un canto del Trovatore nella Luisa Miller; uno della Forza del destino nel Ballo in maschera; una idea del Don Carlo trasportata nell’Aida, nell’Otello. Eppure non v’è un solo degli spartiti di Giuseppe Verdi che non riveli in modo evidente, indiscutibile, la mano e la mente dell’artista che lo creò; la personalità dell’autore vi si afferma net­ tamente, sicuramente: sono tutti figli legittimi dello stesso padre, mentre si distinguono e si differenziano ♦ 227 ♦

in modo assoluto uno dall'altro, vivendo ciascuno di vita sua propria. Carattere predominante nell'opera verdiana è una costante manifestazione di energia, di slancio irresisti­ bile, di foga potente e prepotente: se esaminiamo un dopo l'altro i suoi spartiti, mentre restiamo ammirati dalla inesauribile vena melodica zampillante fresca, limpida, impetuosa, dall'intimo suo cuore, dobbiamo in pari tempo rilevare una singolarità interessante nei suoi canti d'amore: dobbiamo cioè riconoscere che, in ultima analisi, una espressione efficace, ardente vibrante, della passione amorosa, si incontra assoluta, completa, in ampia misura, quasi esclusivamente nella Traviata; negli altri spartiti l'amore inspira al Verdi pagine che non sempre possono paragonarsi a quelle dettate da altri sentimenti; come, ad esempio, il culto, nutrito di speranze, per la patria oppressa. Senza trattenerci su Oberto conte di San Bonifacio e Un giorno di regno, v'ha più bella e commovente melo­ dia di quella celeberrima del coro «Va, pensiero su l'ali dorate », nel Nabucco, che piange la patria lontana? E, nei Lombardi, che cosa ci dice il canto d'amore rapido e quasi brutale: «Sarà talamo l'arena — del deserto in­ terminato; — sarà l'urlo della jena — la canzone dell'amor »; ed anche il lamento nel celebre terzetto, in confronto col canto immortale: « Oh, Signore, dal tetto natio », riboccante di insuperabile sentimento nostal­ gico? Di fronte all'inipeto animatore del coro dell'ornani: « Si ridesti il leon di Castiglia », e la solennità dell'appello: « A Carlo Magno sia gloria ed onor », po­ vera cosa sono le espansioni modeste, sebbene non prive di freschezza, dell'amore di Elvira e di Emani. Non è ♦ 228 ♦

il caso di cercare espressioni di amore vive nei Due Foscuri e in Giovanna d* Arco, in cui v’è pure qualche buon accento guerresco; e neppure in Alzira: nell"Attila, spartito battagliero per eccellenza, soltanto Famor di patria lia scatti ardenti; il canto di Ezio: « Avrai tu F universo — resti F Italia a me »; e la cabaletta squil­ lante di Odabella; « Ma noi, noi donne italiche — cinto di ferro il seno — sul fulgido terreno — sempre vedrai pugnar », sollevarono deliranti entusiasmi. E nel Mac­ beth forte dramma privo d’amore, la sola espressione veramente commovente è nel coro dei profughi: « Lapatria tradita — piangendo c’invita. — Fratelli, gli oppressi — corriamo a salvar ». Dopo I Masnadieri, ecco La battaglia di Legnano, di cui visse soltanto il primo coro: « Viva Italia! un sacro patto — tutti stringe i figli suoi ». Non può dirsi profonda e sentita la melodia amorosa della Luisa Miller: « T’amo d’amor che esprimere... », mentre è così espressivo il canto del dolore « Quando le sere al placido — chiaror d’un ciel stellato»; nel Rigoletto l’amore ha canti inspirati come « È il sol dell’anima »; e, anche se il movente è banale, la frase dongiovan­ nesca del duca; « Bella figlia dell’amore ». Turbolento talvolta, talvolta gentile è Famore nel Trovatore: « Tacea la notte placida » — « D’amor sull’ali rosee » informino; ma è nella Traviata che diviene passione viva e trasci­ nante, e prorompe in canti splendenti, come: « Di quell’amor ch’è palpito — dell’universo intero »; come « Amami, Alfredo! », di insuperata potenza;. come « Al­ fredo, Alfredo, di questo core », tanto soave e accorato. Nei Vespri siciliani riassurge l’elemento patrio, nella grande frase: « Addio, mia patria amata », mentre ♦ 229 ♦

ramore si muove a disagio con poco felici espres­ sioni; dopo Simon Boccanegra e Aroldo. riappare nel Ballo in maschera un bel sentimento amoroso nella romanza: « La rivedrò nell’estasi », e nel grande duo del terzo atto. Nella Forza del Destino è il rimpian­ to amoroso che detta al Verdi la bella melodia: « Oh, tu che in seno agli angeli », e il canto doloroso: « Pace, mio Dio! ». Nel Don Carlo l’amicizia (nel duo famoso fra Rodrigo e Don Carlo), la patria (nel canto dei deputati fiam­ minghi), la ragione di stato (nella grande scena tra Fi­ lippo Il e il Grande Inquisitore), il dolore (nel mirabile monologo di Filippo); hanno il sopravvento sull’amore. NellMirf# risorge l’amore, nel canto di Radamès: « Ce­ leste Aida »; col tema di Aida, fondamentale: « Amore, amore, —gaudio, tormento... »: ma il canto di morte tutto supera e vince: « O terra, addio! ». Serenamente bella è la scena d’amore che chiude e corona il primo atto di Otello: poi altre passioni sovrastano e imperano: nel Falstaff l’amore è una pennellata gentile e delicata, rag­ gio di dolcezza nel turbinio giocondo: « Bocca baciata non perde ventura... ». Nell’opera monumentale di Giuseppe Verdi, non sono dunque preponderanti le espressioni amorose: e nella sua vita, lunga, attiva, sana, forti passioni amo­ rose non lo dominarono: la donna non ebbe sul suo cuore impero assoluto. Forse il primo amore, che gli diede troppo breve periodo di vera felicità, troncata tragica­ mente, assorbì la più gran parte della sua forza affet­ tiva: e i successivi sentimenti non poterono turbare e agitare con ugual forza il suo equilibrio intellettuale, così saldo e sicuro. ♦ 230 ♦

❖ * Figlia di queir Antonio Barezzi, il quale, più che un protettore, fu per Giuseppe Verdi secondo padre, Mar­ gherita Barezzi, giovinetta tutta grazia squisita e pro­ fonda bontà, destò nel cuore dell’artista un amore sin­ cero: il padre di lei, fidente nell’avvenire artistico del gio­ vane Maestro, gliela concesse in moglie. Si sposarono il 4 maggio 1836; e in due anni di matrimonio due bam­ bini, Virginia e Icilio, vennero a cementare l’unione amorosa dei coniugi innamorati. Al principio del 1839 Giuseppe Verdi, con la fami­ glinola e col primo suo spartito, si stabiliva a Milano: e la dolcezza dell’adorabile donna lo sostenne e inco­ raggiò, mentre si frapponevano ostacoli alla esecuzione dell’opera sua. Finalmente il 17 novembre 1839 Oberto conte di San Bonifacio era la prima volta eseguito al Teatro della Scala, con esito lieto; cosicché fu ben presto riprodotto al Regio di Torino, al Carlo Felice di Genova, al San Carlo di Napoli; e apparve sicura promessa di futura potenza di artista. Mentre si accingeva a porre in musica II Proscritto, il Verdi fu invece invitato dal Merelli, impresario della Scala, ad allestire un’opera buffa; era il Finto Stanislao o Un giorno di Regno: la composizione di questo spartito si svolse fra così dolorose vicende, da spiegare ben chia­ ramente che a ragione il Maestro si astenne poi dall’affrontare soggetti giocosi e attese fino al 1893 a dare al­ l’arte il miracoloso Falstaff. Appena iniziata la composizione, fu colpito da grave angina, che l’obbligò ad allettarsi, mentre il lavoro ur­ geva; difficoltà finanziarie lo colsero alla sprovvista; ma sono trascurabili contrarietà di fronte a quanto av­ ♦ 231 ♦

venne poi. In breve spazio di tempo egli perdè il piccolo Icilio e l'adorata Virginietta; la madre, la cara Marghe­ rita, li segue.... Ma lasciamo parlare il Verdi stesso: «Il mio bambino si ammala al principio di aprile, i medici non riescono a capire quale sia il suo male, ed il poverino languendo si spegne nelle braccia della madre disperatissima. Nè basta: dopo pochi giorni la bambina cade a sua volta malata!... e la malattia ha pure un fine letale!... ma non basta an­ cora: ai primi di giugno la giovane mia compagna è colpita da violenta encefalite e il 19 giugno 1840 una terza bara esce da casa mia!... Ero solo!... Solo!... Nel volgere di circa due mesi tre persone a me care erano sparite per sempre: la mia famiglia era distrutta!... In mezzo a queste angoscie terribili, per non mancare all'impegno assunto, dovetti scrivere e condurre a ter­ mine un'opera buffa!... Un giorno di regno non piac­ que: ...Coll'animo straziato dalle sventure domestiche, esacerbato dall'insuccesso del mio lavoro, mi persuasi che dall’arte invano avrei aspettato consolazioni, e de­ cisi di non comporre mai più!..* ». Come il Merelli seppe abilmente riacquistare il Maestro all'arte, è ben noto: il 9 marzo 1842 il Nabucco fu rappresentato al teatro della Scala: al trionfo memo­ rabile dello spartito contribuì la valentia degli inter­ preti: il Ronconi, il Miraglia, e sopra tutti Giuseppina Strepponi, superba « Abigaille ». A Giuseppe Verdi sor­ rideva la gloria, sorrideva l'amore: la Strepponi la quale avrebbe dovuto cantare rvAYOberto e, conosciuto e ap­ prezzato quello spartito, ne aveva raccomandato viva­ mente al Merelli la esecuzione; la Strepponi, intelligente, affettuosa consigliatrice del Maestro, fu colei che risanò ♦ 232

e conquise il cuore ferito di Giuseppe Verdi, che gli fu sposa affettuosa. Una completa armonia regnò tra i coniugi nei lunghi anni in cui vissero insieme, insepara­ bili fino all'ultimo giorno di esistenza della Strepponi (il 14 novembre 1897), rimasta poi sempre viva nel cuore del Maestro. Edmondo De Amicis così ne parlava: « La sua giusta alterezza non scese mai fino alla vanità, non si alzò mai fino all'orgoglio, e solo un osservatore senza acume avreb­ be potuto chiamare idolatria la riverenza visibilissima con cui si manifestava il suo grande amore per il marito. Pareva che fosse suo pensiero costante il mettere la se­ renità e il sorriso su quel volto, al quale la passione so­ vrana deir arte faceva come un velo d'austerità, e quasi di tristezza, che non si sollevava al soffio d'alcuna lode umana ». Giulio Ricordi narrava la profonda impressione avuta il giorno in cui il Verdi gli fece udire il quarto atto delVOtello: « Ecco la dolce preghiera di Desdemona: un leggero scricchiolio mi fa alzare gli occhi e m'accorgo che la porta di comunicazione fra le due stanze erasi socchiusa; dal breve spiraglio vidi la dolce fisonomia della signora Strepponi, pallidamente bella, esprimere un sentimento di estasi quasi celeste!... La porta si chiuse subito, ed il Maestro, che di nulla erasi accorto, continuò sino alla fine dell'atto, poi rimase pensoso col capo fra le mani, appoggiato al leggio del pianoforte. Ben si comprende come nessuna parola potesse pronunciare in quel momento solenne, e rispettando l'emozione del sommo artista, mi recai nella camera della signora Verdi. Essa era seduta, come al solito, nella sua piccola pol­ trona e serbava... o tentava serbare l'aspetto di coni333 ♦

pietà calma, immersa nella lettura di un libro che te­ neva fra le mani: ma d’un tratto alzò gli occhi e fissan­ doli su di me, esclamò: eh?.., l’è ancamò bravo el Me Verdi!... — Dagli occhi, dal sorriso, dalla persona si sprigionò come un raggio folgorante che tutta l'avvolse, che tutta la trasformò, quasi che le note uscite dal genio verdiano avessero avuto la soprannaturale virtù di ri­ condurla negli anni primaverili di giovinezza bella e rigogliosa ». Egli è che il suo Verdi era sempre agli occhi di lei quale erale apparso nella prima gioventù: narra il Monaldi: « Ricordo che un giorno (a Montecatini), mentre il Verdi passava davanti a un gruppo di signore, queste non seppero esprimere la propria ammirazione meglio che con queste parole: — Che bel vecchio! — Giusep­ pina, che lo precedeva di poco, udì... e, voltasi indietro, in un impeto rapido e spontaneo esclamò: — Vecchio!... vecchio!... Sempre con questo vecchio!... È più giovane di loro!.., ». Siffatta adorazione non poteva e non doveva far sorgere nell'animo di lei sensi di gelosia per una amicizia nobile, leale, fraterna, quale quella che unì il Verdi con la contessa Clara Maffei, per oltre quarantanni: la donna gentile e delicata cui egli confidava i più segreti pensieri, con assoluta schiettezza e fiducia. Fu adorazione tale da giungere perfino a farle accettare una familiarità protrattasi per molti anni con Teresa Stolz, la grande interprete del Don Carlo, alla cui resurrezione del 1870 a Bologna, essa cooperò stupendamente: deH’AtWa; della Messa da requiem, di cui il Verdi le donò la parti­ tura autografa: colei che Angelo Mariani, il principe dei direttori d’orchestra, adorava alla follia, e gli fu tolta dal­ ♦ 234

l’amore sorto potente in lei per il Verdi, amore che ri­ mase immutato finché entrambi ebbero vita, e spezzò la lunga amicizia che da più anni aveva stretto i due uomini: Angelo Mariani ne fu colpito fieramente: tre anni dopo, nel 1873, moriva quasi d’improvviso; pochi mesi prima della morte pose in musica una poesia di G. C. Casanuova, L'abbandono, con una melodia vi­ brante * di dolore; la più bella inspirazione del Ma­ riani: l’abbandono di Teresa Stolz. Le tre figure di Giuseppe Verdi, Giuseppina Strep­ poni, Teresa Stolz, appaiono indivisibili: i frequenta­ tori di Montecatini vedevano ogni anno le due donne al fianco del grande Maestro, unite serenamente, schiet­ tamente, in un solo sentimento: adorazione, assoluta, forte, per l’uomo e per l’artista, adorazione che gli anni non soltanto non intepidivano, ma intensificavano senza posa. Le due più grandi interpreti del suo pensiero vigi­ larono con appassionata dolcezza sul cuore sempre giovane del grande vegliardo.

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EPILOGO Ed ora che ho terminato di rievocare le amorose vi­ cende di questi musicisti, fra loro cosi diversi come uomini, come artisti, cercando più che possibile di farli parlare con le loro proprie parole, perchè ci rivelino i segreti del loro cuore; cercandone i palpiti nelle manifestazioni più eloquenti della loro inspirazione; debbo richiamarmi a quel che accennavo da principio, mentre mi accingevo ad af­ frontare la paziente opera di indagine. E l’immagine della Sirena, del mitico immortale simbolo dell’eterno-femmi­ nino, che ci trae in alto, giusta la grande parola di Volfango Goethe; quella immagine si presenta ancora ai miei occhi, e vedo ancora, sì, che la donna al di sopra formosa può terminare in viscida, mostruosa coda di pesce: che la datrice di gioie sublimi può anche apportare tormenti dilanianti: che la inspiratrice può eziandio recar danno al­ l’artista, diminuendone il valore morale, rendendolo altrui inviso; non giovare alla vita dell’arte sua, non mante­ nendone intatto l’ideale estetico: questo fece, dopo la morte di Riccardo Wagner, la sua vedova, sotto la. cui guida di­ minuirono, degenerarono perfino le manifestazioni del teatro di festa a Bayreuth, dal punto di vista artistico. ♦ 237 ♦

Ma la potenzialità attiva dell'artista creatore, se or­ ganicamente spontanea, si afferma con trionfale vigoria, a malgrado di tutto; l’amorosa passione può intensificare qualche inspirazione erotica: il disinganno amoroso, il tradimento, la perdita della donna amata, possono affinare le espressioni di dolore: ma l’arte pura e sincera sfolgora splendente e tra le rose e tra le spine. Le miserie della vita non valgono ad appannare la fantasia del vero artista: la coda della sirena può dare col suo contatto sensazioni sgradevoli, ripugnanti: ma non può inaridire la vivida fiamma del genio.

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NOTA BIBLIOGRAFICA Come ho già accennato, e la lettura di queste pagine di­ mostra, ho cercato più che possibile di far parlare gli artisti con le loro proprie parole: perciò mi sono valso di memorie autobiografiche e di lettere degli artisti medesimi, finché mi è stato possibile. Più di una volta ho citato alcune delle opere da me compulsate: altre ne ricordo qui, per chi volesse con­ trollare una affermazione o ampliare per suo conto Findagine. Oltre le solite opere di ordinaria consultazione, basterà ri­ cordarne alcune, di carattere collettivo, che mi hanno of­ ferto elemento utile, quali: Musiciens contemporains (Paris, M. Lévy, 1856) e Musiciens du passe, du present et de V avenir (Paris, Calmann-Lévy, 1881) di Henri Blaze de Bury; Baron Ernouf, Compositeurs célèbres (Paris, Perrin, 1888); Romain Rolland, Musiciens d'aujourd’hui (Paris, Hachette, 1908); Camille Mauclair, Histoire de la Musique Européenne 1850-1914 (Paris, Fischbacher, 1914) e Les héros de l'orchestre (Paris, Fischbacher, 1919). Degno di particolare ^ricordo è il gustoso volume di Raffaello De Renzis, Anime musicali (Roma, Maglione e Strini, 1925). Per Ettore Berlioz, si veda la ricca bibliografìa che chiude il volume del Prod’homme, Hector Berlioz (Paris, Delagrave, 1904) e il recentissimo volume di Paul-Marie Masson Ber­ lioz (Paris, Alcan, 1923): oltre i noti lavori del Jullien, Hip-

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peau, Tiersot, Coquard, e i tre minuziosi, esaurienti volumi di Adolphe Boschot, L’histoire d’un romantique (Paris, Plon, 1906,1908, 1912); ho sopra tutto compulsato le Memorie e la corrispondenza, compresa nelle suddette opere e nelle varie raccolte: Correspondance inedite (Paris, Calmann-Lévy, 1896), Lettres intimes (ibid., 1882), Les années romantiques (ibid.), Le musicien errant (ibid.), Lettres d’amour à Mad. Estelle F. (Paris, Revue bleuet 1903), le lettere alla princi­ pessa di Wittgenstein (Lipsia, Breitkopf, 1903). Per Roberto e Clara Schumann, sopra tutto le note mono­ grafie di Calvocoressi, M. d'Albert, L. Schneider e Marcel Mareschal, Ernest David, Jean Chantavoine, Camille Mauclair e le lettere dello Schumann contenute nelle due raccolte tra­ dotte da Mathilde P. Crémieux (Paris, Fischbacher, 1909 e 1912). Per Federico Chopin le biografie di Francesco Liszt (Paris, Escudier, 1852), Louis Ènault (Paris, Thunot et C., 1856), H. Barbedette (Paris, Heugel, 1869), A. Audley (Paris, Plon, 1880), Charles Willeby (London, Samspon Low, Marston and C., 1892), Fr. Niecks (London, 1902), Elie Poirée (Paris, Laurens, s. d.), Hugo Leichtentritt (Berlin, Harmonie, 1905) Michel Delines (nelle Lezioni di Raoul Pugno, Paris, 1909), Ippolito Vailetta (Torino, Bocca, 1910), I. J. Paderewski (Paris, 1911) e la più completa, di Edouard Ganche (Paris, « Mercure de France », 1913): e, principalmente, le lettere e i documenti editi da Mieczyslaw Karlowicz, Pamiatki po Chopinie (Warszawa, 1904), che adoprai molto in un mio studio su Federico Chopin e Giorgio Sand, pubblicato nella Rivista d’Italia del marzo 1905, in parte qui riprodotto. Per Franz Liszt, oltre i libri citati nel testo, ho adoperato i quindici volumi della corrispondenza Lisztiana raccolta dalla La Mara e pubblicata a Lipsia (Breitkopf u. Hartel), aumentata da un importantissimo volume di lèttere al Barone Augusz (Budapest, Fr. Kilian, 1911); il volume della stessa La Mara Liszt und die Frauen (Leipzig, Breitkof und Hartel, 1911); ♦ 240 ♦

le biografìe di Lina Ramami, Janka Wohl, Nohl e Gòllerich, Calvocoressi, Chantavoine, Maréchal, Cosima Liszt-Wagner, Bruno Schrader, Guy de Pourtalès; il volume di Costanza Bache sui fratelli Edward e Walter, Le troisième rang du collier della Gautier, R. Wagner und Fr, Liszt di Julius Kapp (Berlin u. Leipzig, 1908). la minuziosa e interessante mono­ grafìa di A. De Angelis F. Lizst a Roma («Rivista musi­ cale italiana», 1911, fase. 2), il primo scritto del ricco volume di Raffaello Barriera Nella gloria e nell'ombra (Milano, Mondadori, 1926), intitolato « Glorie e tempeste del Liszt a Milano», ecc. Una gran parte del capitolo dedicato al Liszt è riproduzione di alcune pagine di un mio studio dal titolo La donna nella vita e nell'arte di Francesco Liszt pubblicato nella Nuova Antologia del novembre 1911: confrontando con minuziosa cura i dati offerti dalle lettere del Liszt (principalmente al Barone Augusz) e tenendo ben conto delle testimonianze di chi visse a lungo presso il Liszt, cioè di Giovanni Sgambati e di Ettore Pinelli, potei chiarire quali elementi, ad arte sfigurati e tendenziosa­ mente interpretati, avesse adoperato la Janina nei suoi igno­ bili libelli contro il grande musicista: poco dopo vi fu chi, non avendo compulsato se non il libro di Adelheid von Schorn, che avevo così attentamente studiato in confronto col ricco materiale da me riunito, credette rivolgermi osservazioni che non meriterebbero essere raccolte se non partissero da chi ha pure in molti scritti dimostrato di sapere esercitare acuta critica sui documenti adoprati nei suoi studi: in questioni di non facile indagine, come quelle che riguardano i sentimenti intimi, non è utile sistema attenersi ad un sol libro, ad un solo autore, sopra tutto quando chi sia oggetto dello studio abbia lasciato tanti elementi rivelatori del? intimo animo, come ha fatto Francesco Liszt con la enorme massa delle sue lettere. Per Riccardo Wagner, ci sarebbe da citare una biblioteca: mi limito a ricordare, quali opere che mi hanno offerto i maggiori elementi, i tre volumi della autobiografìa del Mae­ ❖ 241 ♦

stro, le numerose raccolte epistolari, i volumi di Edouard Schuré, Femmes inspiratrices et poètes annonciateurs (Paris, Perrin, 1909), Houston-Stewart Chamberlain, Richard Wagner (Paris, Perrin, 1899), Teodor de Wyzewa, Beethoven et Wagner (Paris, Perrin, 1914), le biografie del Lichtenberger e dell'Adler, e, sopra tutto, lo studio di Julius Kapp, Richard Wagner et les femmes (Paris, Perrin, 1914). Ottimo il recen­ tissimo succoso studio di Louis Barthou, La vie amoureuse de Richard Wagner (Paris, Flammarion, 1925) completato da

Emile Henriot, Des leltres de Richard Wagner à Juditte

Gautier,

« Le Temps », Paris 30 juin 1925. Del Diario e delle lettere alla Wesendonk, abbiamo ora una buona traduzione dall'originale, con prefazione e note di Antonio Pescarzoli: R. W. a M. W, (Milano, Bottega di poesia, 1925). Per il Beethoven, gli scritti di Romain Rolland, Vincent d’Indy, Jean Chantavoine e sopratutto la sua corrispondenza. Da ricordare in particolar modo i due recenti volumi di A. Albertini, Beethoven - L'uomo - Epistolario (Torino, Bocca, 1924-1925); ed anche l'utile compilazione di Otto Hellinghaus, Bheetoven, Memorie di contemporanei, Lettere, Diari, di cui è ora apparsa una versione italiana (Milano, Modernissima, 1925): molto importante per documentazione e acume di critica il recentissimo libro di André de Hevesy, Beethoven, vie intime (Paris, Emile Paul, 1926). Di capitale importanza il magistrale studio di Guglielmi Bilancioni, La sordità di Beethoven (Roma, Formiggini, 1921). Per Claudio Monteverdi, gli scritti del Davari, del SommiPicenardi, del Solerti, del Vogel, di Gaetano Cesari e la recente opera di Louis Schneider, Claudio Monteverdi, Vhomme et son temps (Paris, Perrin, 1921). Per Giovanni Battista Pergolesi, gli scritti del Fiorimo, del Colini, del Faustini-Fasini, del Croce, e sopra tutto la completa monografìa di Giuseppe Radiciotti (Roma, ed. Musica, 1910). Per Giovanni Paisiello, Andrea della Corte, Paisiello (Torino, Bocca, 1922) e mie indagini personali. Per Gioacchino Rossini, le note biografie di

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Stendhal, Carpani, Azevedo, Escudier, Zanolini,] Pougin, Sittard, Gandolfi, Checchi, Dauriac, le Lettere, pubblicate da Mazzatinti e Manis (Firenze, Barbera, 1902), lo studio di Corrado Ricci « Le mogli e le case di Rossini », in Fihgure e figuri del mondo teatrale (Milano, Treves, 1920), il volumetto di Giuseppe Radiciotti, Il Barbiere di Siviglia, Guida a traverso la commedia e la musica (Milano, Bottega di poesia, 1923). Per Gaetano Donizetti, le sue Lettere inedite con note di Filippo Marchetti e Alessandro Parisotti e prefazione di Eu­ genio Checchi (Roma, 1892); Annibale Gabrielli, G. D. (Torino-Roma, Roux e Viarengo, 1904); Alberto Cametti, G. D. a Roma (in « Rivista musicale italiana », Torino, Bocca, 1907). Per Vincenzo Bellini, i noti volumi di Antonino Amore; dello Scherillo, del Fiorimo, contenenti gran parte delle let­ tere. Il recentissimo volume di Antonio Aniante, Vita amorosa di Bellini (Edizioni Pervinca, Milano, 1926), rielaborazione di una sua pur recente Vita di Bellini, volume vibrantee appassionato, non mi ha indotto a modificare il mio pensiero sul Bellini-Uomo, così diverso dal meraviglioso BelliniCantore,'*? Musicista-Creatore insuperato. Per Giuseppe Verdi, le monografie di E. Checchi, Monaldi Roncaglia, Bragagnolo e Bottazzi, Pougin, Bellaigue, Barbiera, Bonaventura, Luzio, I copialettere di G. V. pubblicati da Gaetano Cesari e Alessandro Luzio, con prefazione di Mi­ chele Scherillo; L'Italico (Primo Levi), La moglie di Verdi (Roma, L. Perelli, 1897): si veda inoltre il Saggio di biblio­ grafia verdiana di Carlo Vanbianchi (Milano, Ricordi, 1913). Ringrazio l'egregio libraio antiquario sig. Pio Luzzietti, il quale mi ha cortesemente concesso di riprodurre alcuni rarissimi ritratti dalla sua preziosa raccolta iconografica teatrale; l’aw. Annibaie Gabrielli, che mi ha permesso di riprodurre l'interessante ritratto di Virginia VasseUi Donizetti.

INDICE Preludio...................................

Pag.

3

Ettore Berlioz................................. 9 Roberto e Clara Schumann....................... 21 Federico Chopin............................... 35 Francesco Liszt................................. 65 Riccardo Wagner................................. 121 Ludwig van Beethoven............................143

Claudio Monteverdi............................... 153 Giovanni Battista Pergolesi . .......................157 Giovanni Paisiello............................... 163 Gioacchino Rossini............................... 183 Gaetano Donizetti............... 195 Vincenzo Bellini................................. 201 Giuseppe Verdi................................... 227 Epilogo......................................... 237

Nota bibliografica................................ 239

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TAVOLE

Fig. I — Ettore Berlioz nel 1845, Litogr. di Kriehuber. (Pag. 9).

Fig. 2 — Harriet Smithson. Litogr. di Desmarais. (Pag. n).

Fig. 3 — Maria Martin-Recio. (Pag. 16).

Fig. 4 — Roberto Schumann nel 1839 Litogr. di Krichubcr. (Pag. 21).

Fig. 5 — Clara Wieck. Litogr. di A. Kneisel. (Pag. 21).

Fig. 6 — Federico Chopin. Dis. di Stattlcr dal quadro distrutto di Ary Scheffer. (Pag. 35).

Fig. 7 — A. Besnard: Federico Chopin al pianoforte. (Pag- 35).

Fig. 8 — Federico Chopin. Dis. di G. Sand (Pag. 39).

Kig. 9 — Giorgio Sand nel 1833. Dis, di A. De Musset, (Pag. 39),

Fig. io — Francesco Liszt nel 1839. Dis. di Ingres. (Pag 65).

Fig. ii — Contessa Maria d’Agoult. Quadro di Enrico Lehmann. (Pag. 76).

V. Hugo N. Paganini G. Rossini A. Dumas G. Sand Liszt Maria d’Agoult Fig. 12 — J. Dan mauser: Francesco Liszt al pianoforte. (Pag. 80).

Fig. 13^— La Principessa Carolina Sayn-Wittgenstein in Roma. [(Pag. 98).

Fig. 14 — Maria von Mouchanofì-Kalergis-Nesselrode. Quadro di Franz v. Lenbach. (Pag. 109).

Fig. 15 — Jessie LaussoFHillebrand. (Pag. 112).

Fig. 16 — Riccardo Wagner. (Pag. 121).

Fig. 18 — Alatilde Wesendonk nel i860. Quadro di C. Dorner (Pag. 135).

Fig. 19 — Cosima Liszt nel 1889. (Pag. 136).

Fig. 20 — Ludwig v. Beethoven nel 1819. Quadro di Ferdinando Schimon. (Pag, 143).

Fig. 2i — Giulietta Guicciaidi. Busto di Schweickle. (Pag. 147).

Fig. 22 — Claudio Monteverdi. Dal Laconismo del Cabcrloti. (Pag. 153).

Fig. 23 — Gio. Batta Pergolesi. Ritratto, nel Conservatorio di S. Pietro a Majella. Napoli. (Pag. 161).

Fig. 24 — Gio. Batta Pergolesi. Caricatura di Leone Ghezzi, Roma. (Pag. 161).

Uji. -Pig* 25 — Giovanni Paisiello nel 1790. Quadro di Elisabetta Vigée-Lebrun. (Pag. 163).

Fig. 26 — Gioacchino Rossini nel 1820. (Pag. 183).

Fig. 27 — Isabella Colbran. Incis. Cauacci. Collez. Luzzietti. (Pag. 184).

Fig. 28 — Olimpia Pélissier. (Pag. 186).

Fig. 29 — Gioacchino Rossini nei i86t. (Pag. 190).

Fig. 3° — Gaetano Donizetti. Quadro di Francesco Goghetti. Roma. (Pag/ 195).

Fig. 31 — Virginia Vasselli-Donizetti. Dis. presso l’avv. A. Gabrielli, Roma. (Pag. 196).

Fig. 32 — Vincenzo Bellini. Ritratto inedito, presso la R. Accad. di S. Cecilia. (Pag. 201).

Fig, 33 — Maddalena Fumaroli. (Pag. 203).

36 — Maria Felicia Malibran. Litogr. Lemeicier. Coll. Luzzietti. (Pag. 219).

Fig. 37 — Giuseppe Verdi nel 1863. Da fotografìa. (Pag. 227).

Fig. 38 — Margherita Barezzi. (Pag. 231).

Fig. 39 — Giuseppina Strepponi. Dis. Bello - Litogr. Barozzi. Coll. Luzzietti. (Pag. 232)

Fig. 40 — Teresa Stolz nel 1867. Gollez. Luzzietti. (Pag. 234).

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Prezzo L. 18.