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© 1981, Eugenio Barba
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© 2019, Pagina soc. coop., Bari Nuova edizione, 2019
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Eugenio Barba
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la corsa dei contrari antropologia teatrale
introduzione di Francesco Cappa
edizioni di pagina
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978-88-7470-666-2
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indice
Introduzione Il gesto formativo dell’esperienza teatrale di Francesco Cappa
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Teatro-Cultura
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Paura del ghetto Immagini antistoriche Le isole galleggianti Pueblos, Cimarrones Un teatro asociale?
48 53 61 70 74
La corsa dei contrari
81
Premessa sul silenzio scritto 1. Sul significato sociale dell’attore 2. Sulla formazione dell’attore
81 82 85
2.1. Spontaneità, p. 91 - 2.2. Comunicazione, p. 97 2.3. Creatività, p. 109 5
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Dal diario di Iben Nagel Rasmussen
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3 maggio 1974, p. 112 - 6 maggio 1974, p. 117
3. Sul teatro come arte del far vedere
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Antropologia teatrale
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Princìpi simili e spettacoli diversi Lokadharmi e Natyadharmi L’equilibrio in azione La danza delle opposizioni La virtù dell’omissione Intermezzo Un corpo deciso Un milione di candele
138 141 145 152 157 162 168 174
Ringraziamenti
181
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A Jerzy
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introduzione
il gesto formativo dell’esperienza teatrale Documento acquistato da () il 2023/11/13.
di Francesco Cappa Allora, cosa cerco? Cerco di protrarre una presenza arcaica, ormai non congeniale all’epoca in cui vivo. E. Barba Siamo noi l’eco di cui i secoli non hanno potuto soffocare la voce? E. Jabès
La corsa dei contrari è un testo aurorale. In esso i temi si presentano allo stato nascente, con la chiarezza e l’impeto di ciò che vede la luce, prende forma e origina, nello slancio di ciò che genera altro nel tempo che viene. Tale impeto si manifesta nella forma dell’interrogazione. Le tre parti che compongono La corsa dei contrari si aprono con interrogativi che non solo fondano il discorso, ma segnano immediatamente, insieme al punto di enunciazione dell’autore, anche il luogo di distinzione della risposta e, forse, ancor più lo spazio possibile creato per chi potrà rispondere. 9
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Questo testo vive e interroga da un margine, da un «ghetto», come scrive Barba nelle pagine iniziali del libro, uno spazio e un luogo che come i margini della filosofia, evocati da Jacques Derrida, riescono a gettare una luce che attraversa lateralmente gli elementi e le zone che credevamo di conoscere e che davamo forse per scontate e assodate. In questo margine troviamo, ancora oggi, una voce e un discorso che non hanno perso efficacia e attualità. Una voce e un discorso ancora necessari per comprendere qualcosa di essenziale dell’esperienza teatrale e non solo di questa. La necessità di rileggere e rendere di nuovo disponibile questo testo nasce dal desiderio di offrirlo non solo a chi è appassionato e interessato al teatro, ai suoi protagonisti, alle sue forme o, in modo più specifico, all’opera di Eugenio Barba, ma soprattutto dal desiderio di riproporlo ad un pubblico più ampio e meno esperto, nella convinzione che, anche se pubblicato molti anni fa, agiti e renda vivi materiali e pensieri che non riguardano solo il teatro e la sua storia. Un modo di leggere questo testo, pubblicato dall’editore Feltrinelli nel 1981, potrebbe, per esempio, essere guidato da una vena che lo percorre quasi interamente che riguarda l’esperienza formativa. Se ci si lascia condurre e in parte incantare dalla voce che sorregge il testo, si comprende ben presto che la formazione, in modo esplicito la formazione dell’attore, travalica ogni tecnicismo, senza perdere di precisone e rigore, e supera ogni angusta definizione o teoria legata a saperi “disciplinati”, fissati, istituzionalizzati. Il lettore, di qualunque estrazione sociale e culturale, è messo a contatto con questioni e domande talmente essen10
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ziali e non retoriche da essere interrogato come un essere umano che cerca di incontrarne un altro attraverso un’esperienza autentica. «Avventura e incontro: non quale che sia; ma che accada quello che vorremmo accadesse e poi accada anche ad altri tra noi»1. Un incontro in cui l’esperienza formativa diviene allo stesso tempo una chance etica e un’occasione per mobilitare problemi che riguardano tutti. Per questi motivi mi limiterò a indicare alcuni luoghi del libro, per generare riflessioni, digressioni e commenti, per mostrare risonanze e genealogie tematiche. A partire da alcune frasi riprese dal testo, poste in corsivo al principio dei paragrafi che seguono, proverò a stimolare alcune connessioni, prossime, a volte meno prossime, al discorso originale, e, inoltre, modi di leggere e interpretare le numerose tracce disseminate da Eugenio Barba sul suo cammino e sul nostro. 1. Rivelare relazioni La ricerca personale, non privata, lascia tracce. In diversi paesi del mondo, specialmente nelle nuove generazioni, un senso imprevisto viene dato all’incontro con il teatro: non il bisogno di ricevere teatro, ma il bisogno di fare teatro, di creare nuove relazioni, come attore e come spettatore. Il teatro diventa, così, il mezzo per non restare soli, per gettare un ponte, per creare legami senza rinunciare ai propri sogni. Il teatro 1 J. Grotowski, Holiday: il giorno che è santo, in Id., Holiday e Teatro delle fonti, La Casa Usher, Firenze 2006, p. 59.
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diventa anche l’astuzia, la trincea per proteggere e nascondere quel che riteniamo essenziale.
Nella prima parte di questo libro, nel capitolo intitolato Teatro e cultura, Eugenio Barba afferma che quel che conta nel teatro è «rivelare relazioni». Tale affermazione, solo apparentemente banale, crea oggi un interessante corto circuito rispetto al continuo ritornello contemporaneo che ripete ossessivamente che le relazioni sono il cuore dell’essere sociale, ma solo se si è “connessi”. In un mondo in cui tutto sembra essere – spesso in modo coatto – connesso, il significato che Barba costruisce intorno all’idea del Terzo teatro e della qualità delle relazioni assume un valore speciale che sembra indicare, a distanza di quasi quarant’anni, un antidoto alle perversioni della società e della socialità della “connessione”. Bisogna in qualche modo adattarsi e fare i conti con quella che si chiama realtà. Tale realtà ha i tratti facilmente individuabili, perché la loro violenza è quella di una mortuaria vitalità che dilaga su tutto: perdita di antichi valori (comunque li si voglia giudicare); borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di una ostentata ed enfatica ansia democratica; correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza.
Così scriveva Pasolini nel 1975 sul «Corriere della Sera» del 18 luglio. Queste considerazioni, rivolte all’innesto tra 12
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politica e società dei consumi, sono del tutto anacronistiche? Lasciamo, per ora, la domanda sospesa. Quello che è interessante notare è che l’esperienza contemporanea, sul piano formativo, ripropone con uno scarto la questione che Pasolini denunciava senza tregua: se, a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, l’avere aveva spudoratamente impoverito l’essere, potremmo dire che oggi l’avere – informazioni, conoscenze, esperienze – genera la necessità di essere connessi. Ma l’essere connessi non determina necessariamente l’essere in relazione. La connessione, l’essere o – più sottilmente, dal punto di vista del marketing dell’esperienza – il sentirsi connessi sono diventati valori assoluti. Ciò risulta evidente e immediatamente percepibile sul piano commerciale: non essere in grado di entrare nella rete del mercato globalizzato determina con ottime probabilità il fallimento. Se si osserva il fenomeno della connessione da una prospettiva pedagogica, le conseguenze sulle strutture dell’esperienza, sui modelli formativi, sulle relazioni educative, sui processi di insegnamento e apprendimento, sugli strumenti di valutazione ci costringono a riflettere con più attenzione sulle parole di Pasolini. La questione, ovviamente, non sta nell’essere entusiasti delle possibilità dei social networks o considerarle una forma deteriore di esperienza della socialità, che determina un nuovo “isolazionismo”, come viene descritto, depressivamente ma in modo illuminante, ne La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq. Piuttosto si tratta di osservare il fenomeno della connessione come una 13
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grande metafora dell’esserci e quindi anche del modo di formarsi e di formare il Sé. Se l’accesso all’informazione non si annoda, in ogni soggetto, al campo di esperienza che i processi formativi mettono in movimento, l’eccesso di connessioni può generare una crisi della presenza anziché un potenziamento delle opportunità di formazione del Sé. Il potere pulviscolare espresso dall’apertura estrema che la network society ci offre, in ogni istante, può generare un effetto di passivizzazione a fronte, a volte, di un’ostentata ed enfatica attività di ricerca. Un’attività che spesso più che aver di mira qualcosa, qualcosa che desideriamo, che ci interessa, che ci serve, che ci apre al mondo, ha in realtà di mira la ricerca di un rilancio della nostra debole sommersa presenza, nel rimbalzo che la risposta dell’altro sembra offrirci, anche solo per un attimo. La scena allestita dal web diviene così la manifestazione perfetta dell’opposto della scena teatrale del Terzo teatro2. Una scena che, nelle parole di Barba che aprono il testo, «L’Odin rifiuta sia il teatro convenzionale dominante che il teatro d’avanguardia ortodosso. L’Odin è stato il pioniere di quel movimento denominato Terzo teatro. [...] Il modo in cui costruisce un’opera è tale da costruire una sfida per gli spettatori come solo i migliori teatri d’avanguardia sanno fare. Ma invece di girare nel circuito dei festival, l’Odin va in villaggi dove rimane per lunghi periodi o va nei quartieri abitati dalle minoranze o dalla classe operaia. Oppure lavora con gruppi locali attivi in ambito artistico. L’Odin non è un gruppo elitario» (J. Grotowski, Intervista con Jerzy Grotowski su Eugenio Barba. A cura di Richard Schechner [1984], in Id., Testi 1954-1998. Oltre il teatro, vol. III, La casa Usher, Firenze 2016, pp. 254-255). 2
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descriveva una nuova esperienza teatrale che già rispondeva ai primi sintomi della perdita di presenza dei soggetti nella dimensione relazionale, sociale e politica. Oltre a sottolineare una possibilità di distinzione del Terzo teatro nel rapporto con le istituzioni culturali e teatrali dell’epoca in cui Barba scriveva. La connessione oggi induce anche un ritmo, spesso compulsivo, segnato dalla logica dell’adempimento costretto dai software che, a dispetto del nome, pesantemente e in modo subliminale ci suggeriscono e molto spesso costringono ad “aggiornarci” di continuo, pena l’esclusione da una piena e soddisfacente operatività. Un’operatività che non riguarda più solo i nostri devices, ma la nostra stessa identità, professionale e relazionale. Ci sarebbe quindi un paradossale effetto di passivizzazione della formazione che interviene nel momento in cui l’essere connessi, spesso guidato dal desiderio di dimostrare agli altri di esserlo, diventa formativo in sé, come ostensione di una condizione che è “in formazione permanente” perché eternamente connessa a tutto lo scibile. Un analista e interprete dei rapporti tra saperi e poteri nella società contemporanea come Manuel Castells sperava, concludendo una sua lezione alla Bocconi di Milano nel 2008, che lo spazio pubblico potesse diventare «la costruzione di un network di connessione tra le menti» e la diversità di vedute potesse rendere le reti di comunicazione più aperte. Credo che si sottovaluti, a volte, in questi discorsi, il fatto che la formazione, l’educazione si occupa di una qualità della connessione che sta a monte di quella evocata da Castells. 15
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Qualcosa che Karl Marx scrisse in una lettera al suo amico Engels alla fine dell’estate del 1867: «Mi è costato tanta fatica trovare le cose stesse, vale a dire la loro connessione». Tale connessione esprime la tensione del soggetto, anche corporea espressa in quella fatica, a scoprire la struttura, l’articolazione, la legge del mutamento che governa le forme della storia, della società, dei fenomeni che ci attraversano e ci formano. Quello che Marx chiamava scienza della forma reale dei fenomeni al di là della loro forma apparente. Ogni gesto dovrebbe mirare a questa connessione, e il gesto teatrale diventa un paradigma di questa possibilità. 2. Il gesto formativo Quello che conta è comprendere ciò che sta dietro i risultati e che permette di non fermarsi ad essi. [...] Sapere non è comprendere. Il modo di controllare un processo di lavoro è qualcosa che si assorbe in un lunghissimo arco di tempo, in determinate relazioni e condizioni di lavoro. Solo quando lo si è assorbito, lo si è compreso, si comprende anche che cosa si sa. Influenzare l’allievo sarebbe – secondo un’opinione comune – negativo. I segni dell’influenza rivelerebbero un rapporto malsano. Ma con questo modo di ragionare non si approda a nulla: tutti siamo influenzati da qualcuno. Il problema è la carica di energia che viene messa in gioco nel rapporto: se l’influenza è così forte che permette di andare lontano, o se è così debole che non produce, in cambio, che un piccolo spostamento, o una marcia sul posto. [...] Ma dove il rapporto è libero, se nasce da una scelta reciproca, 16
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garantirà tanto più una forma di giustizia quanto più obbligherà reciprocamente le sue parti. Questa scelta reciproca racchiude l’esigenza di un rapporto pedagogico diverso, basato su uno scambio e una influenza profonda fino a giungere ad una relazione in cui non si sa più chi è maestro e chi è allievo. È questo che permette che una rigorosa disciplina non sia costrizione. Ciò implica una tradizione vivente, una vivente trasmissione delle esperienze, qualcosa che va al di là dei princìpi, delle teorie, delle generalizzazioni tecniche, dei professori con i loro libri e i loro programmi. Implica un rapporto intero fra le persone.
In ogni gesto c’è sempre la relazione che il soggetto intrattiene con il mondo. In ogni gesto si manifesta il modo in cui il soggetto vede il mondo, lo sente. In ogni gesto il soggetto presenta la sua eredità, il suo ambiente, la sua provenienza, anche geografica, geopolitica, la sua costituzione psicologica, la sua educazione. Attraversando da parte a parte esistenza e carne, la gestualità crea quell’unità che noi chiamiamo corpo, perché non è il corpo che dispone di gesti, ma sono i gesti che fanno nascere un corpo dall’immobilità della carne. I gesti sono le parole carnali del desiderio perché, appunto, carichi di ambivalenza e portatori di passione per l’altro e per l’essere-con-l’altro: l’intenzione del mio gesto che “tocca” l’altro – non necessariamente nel contatto fisico – è sempre ambivalente perché viene preso, catturato dall’altro e ogni volta trasformato, reso insicuro per l’intenzione iniziale e sempre prossimo all’abbandono, perché l’incontro con l’altro ristruttura il gesto come “azione in sé”. 17
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In un’occasione pubblica è stata posta a Jerzy Grotowski una domanda sul significato del gesto come segno. Questa domanda per Grotowski ne conteneva una implicita: Si deve avere l’idea di qualcosa e poi cercare di metterla in pratica? [...] Se si prende questa via, sin dall’inizio si è divisi tra pensiero e azione, intenzione e vita; si ha a che fare con certe “idee” che si prendono per vere a priori e poi si cerca il modo per illustrarle. Naturalmente, si può costruire in questo modo e sarà logico: si possono spiegare le idee, ma questo prodotto non includerà mai pienamente colui che lo ha fatto, o colui che lo incontra, perché non è possibile raggiungere la pienezza se si prende il cammino delle divisioni3.
La questione del gesto-segno apre una prospettiva che va oltre l’arte dell’attore, oltre il “recitare, il far finta”. Ciò che viene in questione è la pienezza dell’esperienza del soggetto e di quello che si “sa”. Il gesto-segno, per l’attore così come per il formatore, non deve cercare l’approvazione dello spettatore, del formando. Non si deve cercare l’accettazione dello spettatore, ma accettarsi. [...] Non è sufficiente compiere ciò che ci rivela, si deve fare di più: compierlo, per quanto sia possibile, in piena luce, non furtivamente, ma apertamente. Allora, forse, questo è un “segno”, o lo diventa?4
La formazione mette al lavoro proprio questa possibilità 3 4
J. Grotowski, Holiday e Teatro delle Fonti, cit., pp. 69-70. Ivi, p. 71. 18
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che il gesto-segno porta con sé. Il teatro, ha scritto Jean-Luc Nancy, nella sua forza di duplicazione della presenza permette al segno di divenire la rappresentazione di un “corpoteatro”. La teatralità procede dalla dichiarazione di esistenza – e l’esistenza stessa è l’essere che è dichiarato, presentato, non trattenuto in sé. È l’essere che dà segno di se stesso, che si dà a sentire non in una semplice percezione ma come densità e come tensione5.
La formazione cerca di mettere in luce in che modo i gestisegni che il corpo-teatro del formatore compie e sostiene possano essere percepiti, elaborati, comunicati, «presentati e non trattenuti», come scrive Nancy. Come questi segni possano essere letti come “spie”, per esempio, delle latenze proprie del processo formativo. Tali segni mostrano una volta di più che ogni esperienza formativa va intesa sempre anche come una performance: intendere la formazione come performance significa comprendere la qualità della perfomance pedagogica. La conoscenza del performer viene dall’incontro con le proprie resistenze. Il tema della resistenza ad apprendere è centrale sia nella relazione pedagogica sia nella formazione dell’attore, così come sia Grotowski sia Barba l’hanno affrontata. Solo nel momento in cui attraverso il training l’attore incontra e riconosce le proprie resistenze, i propri blocchi psichici – così a 5
J.-L. Nancy, Corpo-teatro, Cronopio, Napoli 2008, p. 32. 19
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volte li nominava Grotowski – può accedere non solo a un’energia che non sospettava di avere, ma può relamente “comunicare” qualcosa che può contattare il pubblico, il soggetto che si sta formando, l’altro. Barba sottolinea spesso il fatto che una delle esperienze fondamentali per la formazione dell’attore riguarda l’apprendere ad apprendere, in linea con la filosofia dell’educazione di Dewey, che mirava ad «accendere il desiderio di apprendere» più che ad apprendere conoscenze, e con le teorie della psicologia culturale bruneriana6. Il performer-formatore, così come il performer-formando può capire solo se fa, dal suo fare o non fare: quindi apprende dalla retroflessione dei suoi gesti, consapevoli e inconsapevoli, accedendo ad un piano, quello gestuale appunto, che è soggettivo e intersoggettivo, o meglio transindividuale. Un piano ben presente alla prospettiva dell’antropologia teatrale di Barba. È ancora Grotowski che, in un passaggio di un suo intervento del 1987 intitolato Performer, indica l’importanza 6 Roberta Secchi, che si è formata come attrice con Barba, mi ha fatto notare che la densità e la tensione come qualità tecniche, sceniche, formative e performative sono da mettere in relazione con la resistenza che l’attore, il performatore, ma anche il formando e lo spettatore mettono in gioco nella relazione. Resistenza ad apprendere perché apprendere significa cedere le armi, essere disponibile a trasformarsi a cambiare, a evolversi. Resistenza dello spettatore davanti agli spettacoli dell’Odin, che non sono sempre di facile fruizione, non sono prodotti commercialmente confezionati, non inducono la passivizzazione dello spettatore.
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dell’intreccio essenziale tra perfomance e processo formativo: La domanda chiave è: qual è il tuo processo? Gli sei fedele oppure lotti contro il tuo processo? Il processo è come il destino di ciascuno, il proprio destino che si sviluppa nel tempo (che semplicemente si svolge, e questo è tutto). Allora: qual è la qualità della tua sottomissione al tuo proprio destino? Si può captare il processo se ciò che si fa è in rapporto con noi stessi, se non si odia ciò che si fa. Il processo è legato all’essenza e virtualmente porta al corpo dell’essenza. [...] Nel Performer il performing può diventare molto prossimo al processo7.
Proviamo a volgere ora lo sguardo verso un esempio “storico” di cosa possa essere questo “processo” se inteso nel rapporto fra teoria e prassi dalla prospettiva del gesto pedagogico. In pieno contrasto con un tipo d’insegnamento libresco e catechetico, Walter Benjamin proponeva, molti anni fa, un’educazione politecnica, che risentiva delle indicazioni marxiane e che puntava a sfaldare la scissione borghese tra prassi e teoria. Quello che Benjamin invocava come universalismo attivo e pratico, opposto alla settorializzazione delle competenze e delle capacità, ricordava molto da vicino la propensione goethiana per l’antiparcellizzazione del sapere e dei saperi trasmessi, specialmente nei primissimi anni dello sviluppo del soggetto. 7 J. Grotowski, Testi 1954-1998. L’arte come veicolo, vol. IV, La casa Usher, Firenze 2016, p. 55.
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Fino a quattro anni, riteneva Benjamin, il bambino vive il suo periodo di massima indipendenza “ideologica” ed è durante questo periodo che bisogna fornirgli gli strumenti per la formazione di una capacità e libertà critica che gli permetterà in futuro non solo di comprendere, ma di riconoscere le forme più sottili e nascoste dell’ideologia. In questo senso l’articolo intitolato Pestalozzi a Yverdun è qualcosa di più di uno scritto occasionale in cui Benjamin affrontava questioni pedagogiche: «La mentalità di Yverdun era la mentalità spartiate della classe borghese che si stava liberando»8. Nell’ambiente creato da Pestalozzi, il grande pedagogo, il rapporto con la durezza, spiega Benjamin, non rimandava a quella della società degli uomini adulti, ma passava sempre attraverso il legno, la pietra, il ferro e gli altri materiali che i bambini avrebbero imparato a maneggiare e trasformare. Con un tono accorato, abbastanza atipico per Benjamin, sempre nello stesso articolo egli scriveva che il vero insegnamento di Pestalozzi era l’esempio, che non trae la sua forza dalla teoria: «Quello che egli dava ai bambini, senza i quali non poteva vivere, non era il suo esempio, ma la mano: l’offerta della mano, per usare una delle sue espressioni preferite»9. La pratica della mano aperta o chiusa, che ammonisce, incoraggia, spiega o zittisce ma che sempre si 8 W. Benjamin, Figure dell’infanzia. Letteratura, educazione, immaginario, a cura di F. Cappa e M. Negri, Raffaello Cortina, Milano 2014, p. 116. 9 Ivi, p. 118.
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offre di insegnare, ogni volta si tende verso chi impara perché sa che solo questo è il modo per imparare a insegnare sempre meglio e più profondamente. Non la mano che indica e insegna, ma la mano che incontra. La forza del gesto pedagogico, scevra da ogni pietismo educativo, viene ridotta alla sua essenza di punto di presa di un discorso e di una pratica che investono l’essenziale di ciò che si compie come azione. Tale azione è sorretta dalla forza del gesto di chi forma, nella sua relazione profonda con un’ipotesi formativa più radicata nella pratica che in un quadro di valori che rimane lontano o “diviso” – come diceva Grotowski – dalla materialità dell’atto formativo. Giorgio Agamben, glossando i Commentari a La società dello spettacolo di Guy Debord, nel suo testo intitolato Mezzi senza fine, offre una prospettiva interessante sulla natura del gesto. Il gesto, secondo Agamben, rimette in questione il rapporto tra potenza e atto. C’è un passaggio della sua argomentazione che evoca questioni traducibili nel campo descritto dalle tensioni tra gesto e formazione, che stiamo cercando di esplorare. Scrive Agamben: fra il testo e l’esecuzione si insinua la maschera, come misto indistinguibile di potenza e atto. E ciò che avviene – sulla scena, come nella situazione costruita – non è l’attuazione di una potenza, ma la liberazione di una potenza ulteriore. Gesto è il nome di questo punto di incrocio della vita e dell’arte, dell’atto e della potenza, del generale e del particolare, del testo e dell’esecuzione. Esso è un pezzo di vita sottratto al contesto della biografia individuale e un pezzo di arte sottrat23
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ta alle neutralità dell’estetica: prassi pura. Né valore d’uso né valore di scambio, né esperienza biografica né evento impersonale, il gesto è il rovescio della merce10.
Due aspetti in questo discorso colpiscono, correlati fra loro. Il primo riguarda il fatto che il gesto non sia la mera attuazione di qualcosa che era in potenza e trova forma, espressione, manifestazione. Piuttosto il gesto corrisponde o indica la possibilità di liberare qualcosa di ulteriore, un effetto non prevedibile o predicibile, che però è tutt’uno con il campo di esperienza che il gesto produce fra soggetti e fra soggetto e mondo. Il secondo aspetto sostiene che il gesto, così inteso, può divenire «il rovescio della merce»: quindi se si intende il gesto come la possibilità di un’ulteriorità – obiettivo proprio di ogni formazione che non sia mera attuazione di intenti o, peggio, riproduzione – il gesto può divenire la via perché la formazione stessa non divenga merce in un’epoca in cui quasi tutto tende a trasformarsi in qualcosa che si vende e si compra, seguendo le giustificazioni e gli obiettivi più coerenti con la strumentalizzazione generalizzata delle relazioni, anche nei contesti educativi, formativi, di insegnamento e di cura. Il gesto formativo implica sempre un rischio. Spesso questo rischio viene legato semplicemente alla prassi che, nella sua distanza o vicinanza con la teoria, dovrebbe garantirci la 10 G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 65.
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buona riuscita delle nostre azioni, dovrebbe mostrarci che i nostri gesti, coordinati in un’azione, vanno a buon fine, tralasciando non di rado quali siano i criteri e i parametri che giudicano utile, efficace, giusta un’azione. Le parole di Agamben ci segnalano che il rischio di ogni gesto dovrebbe invece porre attenzione a un effetto di liberazione, per il soggetto, per la comunità, di una potenza ulteriore. Questo tipo di gesto, questa qualità del gesto, che dovrebbe caratterizzare il gesto formativo, presente in molte pagine de La corsa dei contrari, non ha tanto a che fare con l’imparare un modo di fare o con un metodo, quanto con l’ipotesi etica e politica che vede nel gesto il campo aperto di un incontro non mancato con se stessi. Così nell’esperienza i corpi non si ridurranno a funzioni e i gesti testimonieranno ancora di una qualità della presenza non servile rispetto al principio naturalizzato della prestazione. 3. Tradurre l’esperienza È questa dialettica che caratterizza il rapporto regista-attori, attori-regista, spettacolo-spettatori. È un rapporto di traduzioni e tradimenti continui in cui parte dal punto in cui l’altro è arrivato. Non è importante “capirsi” né trasmettere qualcosa di identico per tutti. È importante costruire il ponte, scoprire le relazioni, crearne d’altre: mettere in azione, permettere una reazione.
La traduzione è – come la formazione – sempre una mediazione etico-pratica: si tratta di rinunciare al sogno della tra25
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duzione perfetta anche nel senso di purificare il desiderio di dominazione e assimilazione che vede l’altro, l’estraneo, chi deve essere “comunicato” come qualcosa che deve essere tradotto nel “proprio” sogno-desiderio di riproduzione, di ripetizione. Si tratta invece di prendersi la responsabilità di questa traduzione, con le ombre che porta in seno; di dare corpo a questa traduzione, e quindi di assumere come tratto propositivo la sua infedeltà. Nella traduzione si rende evidente il problema della fedeltà e del tradimento. Dare corpo al desiderio di tradurre significa anche tradursi nella relazione formativa attraverso un lavoro di ri-traduzione, che mentre presuppone il carattere finito e imperfetto del nostro tradurre, del nostro formare, ne mette alla prova grazie all’altro la fedeltà, l’adeguatezza e la possibilità del nuovo, dell’inaspettato. Poiché il solo rimedio a una cattiva traduzione è una nuova traduzione. Ogni traduzione è già sempre quindi una ritraduzione. Anche per questo nel passaggio dall’orale allo scritto, come ci ha insegnato Platone, la questione è che lo scritto non dà la versione di ciò che si pensa, ma semplicemente fornisce una forma di stabilizzazione del pensiero, una sua possibile e transitoria traduzione appunto. In questo senso la traduzione è vicina all’ordine dell’esperienza della testimonianza perché per tradurre bisogna avere fiducia in qualcosa: fiducia nel testo di partenza, fiducia nel lettore futuro, che in qualche modo deve abbeverarsi a questa traduzione. Diceva Walter Benjamin che senza traduzione non c’è sopravvivenza. Se i testi sacri non fossero stati 26
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tradotti e quindi desacralizzati non sarebbe sopravvissuto quasi nulla della nostra cultura. La traduzione formativa è una figura dell’incontro. È la figura dell’incontro con lo straniero, con l’altro che non capisce la mia lingua, con chi deve imparare quello che io so. E ogni traduzione non può che generare un sapere aperto, perché ogni traduzione costruisce una variazione, ricerca il significato, non parte da un significato già istituito. È in questo senso che trovo forte l’analogia tra traduzione e formazione, perché la traduzione è squisitamente una mediazione etico pratica. Chi forma è un mediatore e l’eredità non può che passare attraverso questa mediazione. La trasmissione è consentita da questo tradimento del testo iniziale, del sapere di partenza e di ciò che io credo di sapere. Perché solo se io sono disposto, come avviene nella traduzione, a scoprire mentre traduco qualcosa che non conoscevo anche della mia lingua di provenienza, se sono capace di tollerare l’estraneo che c’è nel mio sapere, ossia se tollero un modo differente di relazionarmi con ciò che credo di sapere, passa qualcosa, perché lì si crea lo spazio per l’altro, lo spazio dell’ospite, diceva Paul Ricœur. La traduzione formativa in questo senso è anche un’etica dell’ospitalità radicata nella materialità storica della propria esperienza, esistenziale e formativa. Se l’esperienza e la pratica della traduzione diviene un modo per comprendere a fondo la sfida formativa della cultura contemporanea, chi vuole accostarsi a questa pratica deve tener presente quale istanza metodologica porta con sé la traduzione. Sul piano del metodo il lavoro di traduzione può 27
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essere accostato al lavoro del ricordo e al lavoro del lutto. Il nodo tra memoria e lutto è per certi versi il nodo essenziale dell’esperienza formativa, nella misura in cui – perché si dia soggettivazione, perché si incontri la singolarità con il suo impegno alla verità, perché ci sia eredità e trasmissione – un lutto va attraversato, affinché il ricordo dell’altro non muoia, è necessario trasformare e tradurre il nostro desiderio – anche il nostro desiderio di formare – in qualcosa che esprima la nostra esperienza singolare come un dono e non come una proprietà. È necessario vivere fino in fondo il nostro compito di traduzione, affrontare la prova che la trasmissione ci impone poiché la funzione di mediazione da una parte desacralizzi l’eredità per renderla viva, dall’altra accetti la resistenza, propria e dell’altro, interiore ed esteriore, che la trasmissione determina ogni volta che si accetta l’impossibilità di rimanere “lo stesso”, l’impossibilità di non “divenire altro” nei processi formativi e di consapevolezza di sé. 4. La crudeltà e la “fisica” di Artaud come antidoti allo psicologismo teatrale Il teatro è un vuoto di verità. L’elemento personale non può mai essere in primo piano, neppure quando l’attore improvvisa. Ciò che sfaccetta l’azione dell’attore, dà forma alla sua arte – o alla sua ambiguità –, è la dialettica fra il “personale” e il “pubblico”. Ma è l’obiettività della sua azione che innanzi tutto conta. [...] Non si insiste28
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rà mai abbastanza sui rischi della personalizzazione nel lavoro dell’attore, sui rischi di una concezione psicologistica che non fa che ripercorrere i vecchi preconcetti e le vecchie mitologie sull’attore.
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Quel che conta è il risultato obiettivo: le azioni, non le intenzioni. Artaud aveva in mente un teatro puro e una scena governata dalla “poesia dello spazio”. Sono famose le pagine de La messa in scena e la metafisica in cui viene affrontata la questione e il valore del gesto nel Teatro della crudeltà. Sostengo che la scena è un luogo fisico e concreto che esige di essere riempito e di poter parlare il suo linguaggio concreto. [...] Mi sembra più urgente determinare prima in che cosa consista il linguaggio fisico, il linguaggio materiale e solido, grazie al quale il teatro può differenziarsi dalla parola [...] quell’aspetto del linguaggio teatrale puro, che sfugge alla parola, del linguaggio fatto di segni, di gesti, di atteggiamenti dotati di valore ideografico, tipico delle pantomime non pervertite. Per “pantomima non pervertita” intendo la Pantomima diretta, in cui i gesti – anziché rappresentare parole, gruppi di frasi, come nella nostra pantomima europea, vecchia di soli cinquant’anni, e nata dalla deformazione delle parti mute della Commedia dell’Arte – rappresentano idee, atteggiamenti dello spirito, aspetti della natura, e ciò in modo effettivo, concreto [...]. Questi segni costituiscono, come si vede, autentici geroglifici, entro i quali l’uomo, nella misura in cui contribuisce a formarli, è semplicemente un elemento come gli altri, cui tuttavia, grazie alla sua doppia natura, aggiunge particolare prestigio. 29
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Tale linguaggio, che evoca nello spirito immagini di un’intensa poesia naturale (o spirituale), dà bene l’idea di ciò che potrebbe essere a teatro una poesia dello spazio indipendente dal linguaggio articolato11.
Malgrado queste considerazione siano ascrivibili alla prima fase del pensiero di Artaud, alcune indicazioni sul valore dei gesti e la loro funzione di “segni” permangono fino alle ultime rappresentazioni del suo teatro. Artaud non oppone ingenuamente la parola al gesto, anzi sulla scena che aveva in mente stanno dalla stessa parte, entrambi possono esprimere il soffio della vita. Come ha scritto Artioli, se il teatro a differenza del cinema può esibire il corpo vivente, questo “a priori” non basta a garantirne la potenza dell’illusione che trasforma l’uomo e la sua cultura. Esistono gesti/segni vivi-vivificanti e gesti/ segni inerti e mortificanti, occludenti. I gesti/segni devono essere come i gesti degli attori del teatro balinese che «anziché servire da ornamento, da accompagnamento a un pensiero, lo fanno evolvere, lo dirigono, lo distruggono o lo mutano radicalmente»12. Non è il gesto in sé a costituire il punto di forza di una messa in scena, ma la sua «incorporazione in una tessitura di segni attivi»13, l’utilizzazione del linguaggio secondo gli schemi del cerimoniale, il trapasso da A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, pp. 155157. 12 Ivi, p. 157. 13 A. Artaud, Le théâtre que je vais a fonder, in Œvres Complètes, Gallimard, Paris, vol. V, p. 37. 11
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una fisicità fine a se stessa a un dispositivo capace di innescare il flusso della profondità. La profondità però non va intesa come essenza originaria e nascosta, ma come intervento nel “fare” della dynamis14. Il segno è un elemento magico, nel senso junghiano in cui magico e psichico vengono a significare la stessa cosa: il segno è un mezzo cifrato, enigmatico (geroglifico) per ritrovare un vuoto senza il quale non esiste realtà e senso. Il dispositivo teatrale attraversando il campo dei gesti indica qualcosa e, per Artaud, sarà efficace se risucchierà lo spettatore nel gorgo della Forza eraclitea della vita, oppure inefficace se lo manterrà nel perimetro della sua individualità. La duplicità della nozione di segno, che può essere vivificante o nullificante, indica l’emblema doppio in cui la vita prende forma, in cui il vivente perde la sua relazione divina con l’Essere. Il gesto puro dovrebbe riassorbire in sé la doppiezza del segno e in qualche modo, sperimentando i suoi «avvolgimenti carnali», riattivarne una potenza non pervertita dalla divaricazione, dalla separazione. Se la parola deve farsi gesto, essa va assoggettata ad una scena che disgreghi i codici del teatro estetico, della forma compiuta e rassicurante, una scena in cui la presenza della gestualità assuma un valore nuovo. Essere segno attivo incorporato in un dispositivo rigoroso vuol dire appunto questo: essere capace di non ripetere la parola “nel corpo”, piuttosto dar voce alla carne, imprimersi nei nervi, rivelare il non 14 Vedi U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso. Saggio su Antonin Artaud, Feltrinelli, Milano 1977, p. 115.
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detto, costruire una grammatica che fondata sullo scacco del significante metta in luce nuovi significati. Si tratta di produrre sulla scena nuova realtà e non imitazione. L’attore diviene quasi inessenziale, Artaud preconizza quella “macchina attoriale” che Carmelo Bene, a suo modo e con un’altra idea di teatro, ha realizzato. L’attore è inessenziale e insieme fondamentale, perché quello che conta è creare lo spazio del sacro con un teatro che riesca a manifestarsi anche senza mediatore umano, ma nella trama dei suoi segni. «L’idea di una natura che si auto-purifica, esteriorizzando in segni visibili il dramma che la lavora, ci sembra eloquente»15. Questa scena vive grazie ad una nuova cultura del corpo, intesa come riappropriazione della materia non pervertita, resa gloriosa dalla carne che attraversa l’opera dell’attore, quasi deflagrandola ogni volta che si compie un gesto sulla ribalta: la carne permette al vuoto di emergere dal corpo, crea lo spazio per l’Essere, per essere. “Fisico”, “concreto”, “oggettivo”, “materiale”, il dispositivo linguistico della “crudeltà” rifiuta la dominante dialogica per divenire arte dello spazio e del movimento. Nella drammaturgia artaudiana della maturità, dove il lirismo del gesto ha soppiantato il lirismo della parola, la scrittura è indice degradato teso a fissare, nella precarietà frettolosa dell’appunto, ciò che sulla scena diverrà iscrizione16. Si può sostenere che l’eredità di questa “iscrizione” arriva a Grotowski, a Brook, ma anche, ad un suo grado massimo 15 16
A. Artaud, Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 1996, p. 72. U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, cit., p. 165. 32
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di pienezza e concretezza dell’astrazione, al teatro di Robert Wilson, se quest’ultimo, in una conferenza tenuta alla triennale di Milano di qualche anno fa, diceva: la croce fra spazio e tempo è la struttura di tutto, dagli edifici alle opere d’arte d’ogni genere, il modo di stare in palcoscenico, il nostro fondamento. Attenzione e rilassamento è il modo in cui vediamo, in cui siamo coscienti di essere. All’inizio c’è l’unità dello spazio vuoto che è bellissimo. L’attore deve essere quel nulla che è tutto. Lo spazio intorno ad un oggetto ne determina la grandezza. Lo spazio vuoto è già completamente vuoto, è pieno, completo. Un solo gesto diventa così potente perché c’è tanto spazio intorno.
Forse le parole di Wilson non solo rievocano la “poesia dello spazio” di cui parla Artaud, ma ne arricchiscono il valore, dato il potenziale conoscitivo che assume lo spazio, la luce e il tempo del gesto nelle creazioni del regista americano. L’attore deve provare a portare se stesso ad essere quel nulla che è tutto sulla scena. Nel linguaggio dell’ultimo Artaud, ne è prova il limite raggiunto in Per finirla con il giudizio di dio, si cerca di rintracciare e ritracciare uno spazio della passione, che è lo spazio anche metaforico proprio della tradizione della carne. Questa passione però non investe il corpo nel suo esserci particolare, ma, nell’intenzione di Artaud, dovrebbe misurarsi con la scena metafisica che egli stesso prospettava. La relazione tra significante e significato deve essere superata dall’ingresso in un nuovo linguaggio, dall’accesso ad una nuova lingua pura. Artaud non ha in mente una lingua edenica, piuttosto, come ha visto Gilles 33
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Deleuze, un gesto espressivo e comunicativo (poiché Artaud non rinunciò mai, neppure abitando il suo limite, al compito della comunicazione, per quanto profonda potesse risultare) che violenta la lingua-madre, ne detronizza le forme e i codici tentando di farsi pienamente abitare dal “soffio continuo e pieno” di una scienza che trasgredisce ogni sua intrinseco tentativo di darsi come è e non come potrebbe essere “ulteriormente”. L’atto mitico della “ricreazione del corpo” che approda alla sua non organicità, alla sua gloria deve, però, passare attraverso il corpo per farsi carne. Solo questo passaggio può consentire all’uomo di sfiorare in un momento essenziale, nel soffio di una lingua sconosciuta, non tanto il senso, che sempre si dà nello scarto e nel suo scacco, ma una pienezza che non tradisce la vita. L’agglomerato frusciante d’una lingua sconosciuta costituisce una deliziosa protezione, avviluppa lo straniero (per poco che il paese non gli sia ostile) in una pellicola sonora che trattiene alle soglie delle sue orecchie tutte le alienazioni della lingua materna [...]. La lingua sconosciuta, di cui colgo purtuttavia la respirazione, l’areazione emotiva, in una parola la pura significanza, forma attorno a me, via via ch’io mi muovo, una leggera vertigine, mi trascina nel suo vuoto artificiale, che non si realizza che per me, vivo nell’interstizio, alleggerito d’ogni senso pieno. Come ve la siete cavata laggiù con la lingua? Sottointeso: come vi siete assicurato il bisogno vitale della comunicazione? O più esattamente, asserzione ideologica che nasconde l’interrogativo pratico: non c’è comunicazione che nella parola. Capita invece, in questo paese (il Giappone), che l’impero dei 34
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significanti sia così vasto, ecceda a tal punto la parola, che lo scambio dei segni rimane di una ricchezza, d’una motilità, d’una sottigliezza affascinanti, a dispetto dell’opacità della lingua, anzi, talvolta grazie a questa stessa opacità. La ragione di ciò è che laggiù il corpo esiste, si dispiega, agisce, si dà senza isteria, senza narcisismo ma secondo un puro progetto erotico, sia pura sottilmente discreto. [...] è tutto il corpo dell’altro che si è fatto conoscere, gustare, accogliere e che ha dispiegato (senza fine reale) il suo racconto, il suo testo17.
5. La concretezza come via per l’essenziale In quali direzioni può orientarsi un attore occidentale per costruirsi le basi materiali della sua arte? È questa la domanda cui l’antropologia teatrale tenta di rispondere. L’esempio dell’ikebana ci mostra come significati astratti nascano da un preciso lavoro di analisi e trasposizione di un fenomeno fisico. Partendo da quei significati mai si raggiungerebbe la concretezza e la precisione dell’ikebana, mentre partendo da questa si raggiungono quelli. Nei confronti dell’attore spesso si tenta di procedere dall’astratto al concreto, si crede che il punto di partenza possa essere costituito dalle cose da esprimere, le quali poi implicherebbero le tecniche adatte ad esprimerle. Un sintomo di questa assurda credenza è fornito dalla diffidenza verso le forme di teatro codificato, e verso i princìpi per la vita dell’attore che essi racchiudono. 17
R. Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1984, pp. 14-15. 35
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Quei princìpi, infatti, non sono suggerimenti estetici fatti per aggiungere bellezza al corpo dell’attore. Sono mezzi per togliere al corpo gli automatismi quotidiani, per impedirgli, cioè, di essere solo un corpo umano condannato a rassomigliare a se stesso, a presentare e rappresentare solo se stesso. Il teatro della crudeltà cerca di organizzare gli elementi “espansi” di un linguaggio, insieme acustico e visivo, trattandoli come “geroglifici”, come segni di una lingua che conserva in sé un potere magico oltre che deittico. Al fondo di questo linguaggio, quindi, devono esserci forze metafisiche che toccano la sensibilità del pubblico attraverso gli oggetti – grazie alla loro “fisica” – e vanno intese proprio in questo senso le parole di Artaud che sottolineano il fatto che quel che conta è «la crudeltà che le cose possono esercitare su di noi». Il linguaggio del teatro della crudeltà di Antonin Artaud è concreto e serve a «captare i sensi», genera con i gesti e i segni un nuovo lirismo che sta oltre le parole, una «nuova e più profonda intellettualità» che oltrepassa il giogo del senso, della spiegazione di ciò che accade. Esso, non rifacendo mai due volte lo stesso gesto ma creando «una nuova realtà», dà al pubblico la possibilità di sperimentare una creazione che non pretende di essere un’opera chiusa; si genera così una creazione di cui conosciamo soltanto un aspetto, ma che si completa su altri piani. Quello che conta non è riportare questi altri piani sotto l’occhio dell’intelligenza, ciò equivarrebbe a diminuirli, quel che davvero conta è usare con rigore – con crudeltà – la partitura dei segni concreti come un 36
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metodo, una via per rendere possibile alla sensibilità la percezione dell’apertura verso questi altri piani di esistenza. La partitura dei segni concreti viene a contrapporsi ad un sistema di simboli che sul palco guida il pubblico dal significante al significato, non solo psicologico, dell’azione drammatica che avviene sul palcoscenico. Il segno conta in funzione del suo «dinamismo», espressione che per Artaud è un sinonimo di creazione pura18. Il segno concreto (il gesto) non si oppone alla realtà come qualcosa di autonomo; il segno è concreto perché è sempre l’espressione di una forza che ha la stessa necessità della vita. Nel segno/gesto si esprime qualcosa di integralmente vissuto che però ogni volta (mai due volte allo stesso modo) organizza in modo disciplinato e rigoroso19 la ristrutturazione dell’esperienza che si trasforma in rappresentazione della vita, in messa in scena dei suoi contenuti essenziali. Il segno concreto rende disponibile un’azione reale, che è allo stesso tempo più che reale, Cfr. U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, cit., p. 124. In una modalità “ritmica”, come vuole la definizione stessa di partitura: «Negli spettacoli del teatro Balinese, lo spirito ha la sensazione che l’idea abbia in un primo tempo cozzato contro i gesti, e abbia poi preso piede in mezzo ad una intensa fermentazione di immagini visive o sonore, pensate come allo stato puro. Per dirla più brevemente e con maggior chiarezza, qualcosa di simile allo stato musicale deve aver presieduto a questa regia, nella quale tutto ciò che è concezione dello spirito è semplicemente un pretesto, una virtualità il cui doppio ha prodotto un’intensa poesia scenica, un linguaggio spaziale» (A. Artaud, Sul teatro Balinese, in Id., Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, p. 179). 18 19
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poiché produce l’esperienza praticabile di un piano in cui il soggetto può sperimentare un’eccedenza rispetto al senso offerto dalla mera cosalità: un piano che rende conto del doppio della vita proprio in quella dimensione “più che reale”, potenzialmente implicata nella pura azione della fisicità, della materialità del gesto. In questa prospettiva va inteso il riferimento al potere dei geroglifici, non tanto quindi come esempio della forza dei simboli, quanto del potere eccedente dei segni che diventano materia viva e magica grazie al teatro. I segni concreti, che stanno al centro dell’azione del teatro, agiscono precisamente nello spazio denso teso fra significante e significato, nell’azione che produce questo doppio, questa divaricazione. Nello stesso spazio in cui Artaud installa l’azione del corpo che opera la comunicazione crudele, come scriverà più tardi pensando al corpo senz’organi, «l’idea nozione corporea deve andarsene per essere sostituita da quella di movimento infigurato del corpo [mouvement infiguré du corp]»20. Questa qualità del movimento, quella dei geroglifici del teatro balinese, che avevano confermato le intuizioni di Artaud sulla necessità di un teatro rigoroso e perciò crudele, mette in figura l’infinito materiale. Così scriveva lo stesso Artaud, sotto l’effetto della visione come spettatore di quel prodigioso teatro orientale: Prescindendo dal prodigioso rigore dello spettacolo, ciò che mi sembra per noi più sorprendente e più stupefacente è l’a20 A. Artaud, in Œuvres Complètes, vol. XXIII, Gallimard, Paris, 1965, p. 349.
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spetto rivelatore della materia, che pare improvvisamente disperdersi in segni per insegnarci l’identità metafisica fra concreto e astratto, e insegnarcela in gesti fatti per durare21.
Per Artaud il gusto per la crudeltà che il teatro deve risvegliare è direttamente legato al risveglio del «mondo interiore» – insieme a quello “oggettuale”. L’uomo interiore non è quello definito dal sapere psicologico, ma «l’uomo metafisicamente considerato». Il teatro è crudele se riesce a ristabilire il contatto fra l’uomo e i princìpi essenziali, una relazione che non narra però di conciliazione, di riconoscimento reciproco, attraverso i grandi miti o l’opera dell’immaginazione collettiva, intesa come fonte antropologica di fissazione del senso dell’esperienza primitiva. Questo contatto non scioglie ma crea. In questa prospettiva i sogni, scrive Artaud, diventano parte della «tecnica» del teatro della crudeltà solo se non sono ridotti a una «funzione sostitutiva», di spiegazione del segno verso la quiete del senso. La violenza, pertanto, nel teatro della crudeltà ha un significato tecnico e mira a negare la natura vicaria dei «sogni reali» che produce il teatro tradizionale. Esso vuole creare una nuova «concretezza», una realtà che nasce dai nervi scoperti nell’uomo dalla messa in scena della metafisica: il teatro deve manifestare, nel suo linguaggio, l’idea di un perpetuo conflitto e di un continuo spasimo in cui la vita viene troncata ogni minuto, in cui ogni elemento 21
A. Artaud, Sul teatro Balinese, cit., p. 176. 39
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della creazione si erge e si contrappone alla nostra condizione di esseri finiti22.
Questa necessità di un movimento “troncato”, di una interruzione che mostra in che modo la dialettica dei contrari sia la via di accesso privilegiata alla finzione, all’esperienza teatrale che crea, è la stessa messa in luce da Eugenio Barba alla fine de La corsa dei contrari. Nel luogo in cui si svela che dopo aver parlato della danza delle opposizioni su cui si fonda la vita dell’attore e dopo essersi occupati dei contrasti che egli volontariamente amplifica, dell’equilibrio che egli volontariamente rende precario e mette in gioco, l’immagine dello Shakti [l’energia creatrice] può divenire un simbolo di tutto ciò di cui qui non si parla, della domanda fondamentale: come si diventa un buon attore?
L’ultima parte del testo sviluppa, in modo originale, una delle eredità più poderose della poetica e della pratica del teatro che da Artaud passa a Grotowski fino al lavoro di Barba. La corsa dei contrari che Barba ci invita a intercettare e seguire, per quanto ci sia possibile, proviene anche da quella passione per la dottrina del Sunyata che influenzò in modo decisivo il modo in cui Grotowski trasformò il suo metodo, la sua visione del mondo e il suo teatro. Il Sunyata è la congiunzione del sì e del no, dell’esistere e del non esistere – spiega Barba in una pagina del suo La 22
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, cit., p. 207. 40
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terra di cenere e diamanti 23 –, è il momento in cui riconoscimento e rigetto, asserzione e rifiuto si fondono. Nella tradizione buddista il Sunyata è la negazione assoluta di questo mondo mediante una tecnica di Saggezza basata non sul pensiero razionale, ma sull’esperienza. È una pratica che sta esattamente tra l’affermare e il rifiutare, tra l’agire e la rinuncia all’azione. Finché si vuole conseguire l’Illuminazione non la si raggiunge perché, finché si desidera qualcosa, esiste dualità: un Sé che tende al fine desiderato e un Non-Sé verso cui si tende. Il vero conseguimento si ottiene solo quando non si vuole più conseguire qualche cosa. In Per un teatro povero Grotowski applicò questa visione all’attore: «l’atteggiamento mentale necessario è una disponibilità passiva ad attuare una partitura attiva, non un atteggiamento per cui una persona vuole fare una determinata cosa, ma per cui fa a meno di non farla»24.
Questa de-presa della disponibilità è una presa, una presa addirittura più abile, poiché fluida, non rigida, non trattenuta: la nozione è etica e, allo stesso tempo, strategica. Presa tanto più efficace per il fatto che non si localizza più, non si specifica più, non si impone più; tanto più adeguata perché non mirando più a nulla, non resta mai delusa né mancante; non è né sviata né frammentata25. E. Barba, La terra di cenere e diamanti. Il mio apprendistato in Polonia, Ubulibri, Milano 2004. 24 Ivi, p. 48. 25 F. Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 28-29. 23
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Solo in questo modo, accedendo a questa disponibilità, l’energia può animare l’atto teatrale, può rendere fertile il risuonare del gesto dell’attore oltre il tempo e oltre lo spazio, proprio perché vive nello spazio e nel tempo del teatro: ecco perché la finzione è il modo proprio in cui l’attore può modellare la sua energia. Modellare l’energia significa creare e dare forma: stare nell’apertura di un processo che dà forma non perché dipende da un atto di volontà, ma perché rischia l’abbandono, si addentra nello spazio-tempo dell’espressione. «L’espressione è il momento in cui ti apri la strada attraverso l’ignoto e conosci. [...] L’espressione è il premio, il dono della natura per la fatica del conoscere»26. L’attore incontra questa avventura, questo rischio dell’abbandono, questo svelarsi che si presenta, a noi stessi e agli altri, quando prendiamo la via del disarmo: lì possiamo forse accedere alla “spontaneità” della quale scrive Eugenio Barba in questo libro, all’organicità dell’esperienza teatrale. Un processo che, se non tradito, può realizzare atti d’amore. La passione amorosa, nel nostro tempo, è vista sempre a una sola dimensione, erotica. Per questo risulta pressoché impossibile comprendere in tutta la sua densità il termine “Maestro”. E risulta difficile andare aldilà dell’ovvio, di concetti come influenza, metodi, fedeltà o infedeltà. Come se il Maestro non fosse colui che si rivela per sparire. Come se la sua azione consistesse tutta nell’insegnare e nel sedurre. E non 26
J. Grotowski, Holiday e Teatro delle Fonti, cit., p. 53. 42
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fosse invece faticosa premessa alla scoperta della propria solitudine, creativa e senza lutto27.
Nella corsa non è possibile a priori sapere cosa e come accadrà. Così come la passione amorosa, anche quella del Maestro, non è possibile senza dispendio, senza dono. C’è nella corsa un sapere che non si può dire a parole e che viene dai nostri atti concreti, dal modo in cui ci abbandoniamo al ritmo dei nostri passi, dei nostri errori, delle nostre incerte scoperte. Il primo passo però, se muove dal desiderio di non nascondersi, di svelarsi, perché più urgente di ogni altra cosa è la ricerca di ciò che è essenziale nella propria vita, spingerà la corsa ad «attraversare le frontiere tra te e me». Il teatro è questa corsa. Una via in cui grazie alla scoperta della propria solitudine creativa si apre l’orizzonte possibile della vera vita. Quella che può trasformarci e trasformare la realtà.
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E. Barba, La terra di cenere e diamanti, cit., p. 12. 43
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la corsa dei contrari antropologia teatrale
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teatro-cultura
A volte domandano: qual è la tua utilità, l’utilità del tuo teatro? Rispondere significherebbe accettare la ragione per cui solo chi produce ha diritto di esistere, e chi non produce non ha più funzione, va isolato, eliminato perché socialmente defunto, alla lettera: morto. Chi fa questa domanda – «Qual è la vostra utilità» – deve stare attento a se stesso, al suo atteggiamento che lo porta a negare il valore degli alberi che non danno frutti. L’albero che non dà frutto – proverbialmente inutile – diventa essenziale nelle città senza ossigeno. La produzione non produce soltanto merci, ma anche relazioni tra gli uomini. Questo vale anche per il teatro: non produce soltanto spettacoli, prodotti culturali. Chi giudica dal punto di vista estetico è alla “merce” teatrale che guarda. Per comprendere il valore sociale del teatro non bisogna guardare soltanto alle merci, agli spettacoli prodotti, 47
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ma anche alle relazioni che gli uomini stabiliscono producendo spettacoli.
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Paura del ghetto Il primo incontro di un Terzo teatro avvenne a Belgrado nel 1976. Una modesta sovvenzione destinata ad organizzare conferenze, tavole rotonde, dibattiti con critici, studiosi e registi mi permise di riunire alcuni gruppi teatrali che avevo incontrato in diversi paesi d’Europa e dell’America Latina. Erano questi uomini di teatro – quasi sempre isolati ed anonimi – che dovevano avere una possibilità di riunirsi, di scambiarsi esperienze, lavorare insieme. Ciò che, disseminato in diversi luoghi lontani, sembrava un fenomeno trascurabile mostrò un suo profilo. Ma un profilo inatteso, che non sembrava adeguarsi alla nostra Cultura teatrale: né al teatro cosiddetto tradizionale, né a quello d’avanguardia. I tratti comuni risultavano attraverso una serie di negazioni. Perciò: Terzo teatro. La difficoltà di definire a livello concettuale non era importante. Più importante era riconoscere tutta una serie di caratteristiche che, al di là delle differenze, riunivano gruppi che vivevano in una situazione di discriminazione. Si sono espressi, naturalmente, dubbi e riserve sul termine Terzo teatro. Alcuni hanno sentito troppa ambiguità nella definizione in negativo che creava una falsa unità tra fenomeni differenti e contraddittori. 48
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Altri lo hanno rifiutato come pericoloso e mistificante. Hanno visto dietro di esso la proposta di un teatro contento dei suoi limiti, volutamente seduto al suo umile posto in fondo alla fila. Un teatro che chiede per sé solo le briciole del prestigio della Cultura e del pubblico denaro che, in certi paesi, viene destinato alla conservazione e allo sviluppo dell’Arte teatrale. Mi hanno detto: «Se Terzo teatro indica il ghetto in cui lasciarsi rinchiudere per garantirsi una precaria sopravvivenza, allora non ci riconosciamo come parte dell’arcipelago del Terzo teatro». Terzo teatro è una definizione che si limita a riconoscere solo la realtà in cui vivono moltissimi gruppi di teatro. Ma è anche il punto di arrivo di una serie di domande che ponevo a me stesso per giustificare alcune mie scelte, e per rispondere alle domande che altri mi ponevano sul mio lavoro teatrale, sulla direzione che esso stava prendendo, sul senso che stava assumendo. Era come se notassi su altri, attorno a me, i sintomi di una malattia che riconoscevo perché anche mia. Continuare a parlare di Terzo teatro, cercare di rispondere alle domande e ai dubbi che intorno a questa espressione sono sorti, vuol dire lasciarsi trascinare verso la muta domanda sul senso del teatro per le nostre vite. L’unico modo di prendere posizione di fronte ai dubbi e alle domande sarebbe di rispondere in prima persona. Questo si nasconde dietro la mia parola “teatro”; gli in49
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contri, le esperienze, i momenti di illuminazione, le ferite che costituiscono le insicure radici personali. D’abitudine esse non debbono essere portate allo scoperto. Devono restare teatro. Nei mesi seguenti all’Atelier di Belgrado del ’76, il termine Terzo teatro si è velocemente diffuso. Non solo polemiche e discussioni, ma anche la moda. Nella provincia del teatro la moda spesso coincide con l’attenzione al problema. Sia pure attraverso un itinerario del tutto particolare, era stato individuato un problema urgente per molti, un nodo di interrogativi ancora nebulosi. Ma questo nodo di interrogativi rischia di essere banalizzato in un genere, in un’immagine ottimistica, dove la luce prevale sull’ombra. Come se il Terzo teatro costituisse di per sé il seme di un rinnovamento, non una zona ambigua dove sintomi di mutismo e di impotenza vogliono ergersi a parlare, come per dimostrare di essere in grado di svilupparsi in radici, in germogli. Non c’è da illudersi: il Terzo teatro indica innanzi tutto una zona distruttiva. È come se la faccia nera del teatro si traducesse in situazioni che ci strappano di mano la possibilità di usare giudizi conosciuti. Esiste, allora, una presenza sociale di questa faccia nera del teatro, fatta di negazioni, che nonostante le mode dei mercanti e l’ottimismo degli ideologi conserva la sua vocazione al rifiuto? «Se Terzo teatro indica il ghetto in cui lasciarsi rinchiude50
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re per garantirsi una precaria esistenza, allora non ci riconosciamo nell’arcipelago del Terzo teatro.» Rifiutare il ghetto? Le juderias spagnole, le judengasse tedesche, i ghetti italiani sorsero dalla discriminazione, dalla violenza dei goym, della maggioranza verso la minoranza ebrea. Sono il segno fisico di un’intolleranza che ancora non giungeva fino all’annientamento sistematico, alla soluzione finale. Erano i luoghi dove si assembravano gli ebrei, a volte su ordine perentorio, a volte per usufruire più facilmente della protezione di un vescovo o di un principe benevolmente disposto, a volte per spontaneo bisogno degli ebrei stessi di vivere vicini. Ecco le origini del ghetto. Un luogo che implicava la limitazione di alcune libertà elementari, ma che permetteva di conservarne altre: la libertà di poter seguire le leggi del proprio dio, di poter celebrare il proprio culto, di poter parlare la propria lingua, di poter vivere secondo le proprie norme. Il ghetto era il luogo dove si poteva salvare la propria identità, dove si poteva difendere e tramandare i valori essenziali di una cultura a cui si sentiva di appartenere. Rifiutare il ghetto? Ma a quali condizioni? Si può uscire dal ghetto. Basta convertirsi, coprire le proprie radici, condannarsi all’isolamento invece che alla separazione. Basta accettare una situazione di spaccatura cronica, anche se consolata dalla consapevolezza di una massa ecumenica che a parole divide la tua nuova fede. 51
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Accettare le norme e i modi di vivere che non senti come tuoi: si diventa, allora, marrani. Si è accettati. Esteriormente nulla distingue il marrano dalle persone del nuovo ambiente, anche se dentro di lui può nascondere altre aspirazioni, altre nostalgie, altre “fedi”. Forse il rifiuto a lasciarsi chiudere, di vivere nel ghetto riflette il rifiuto di una scelta di vita che è oggetto di scandalo per i goym del nostro tempo. Si adduce come argomento che non ci si vuol lasciar rinchiudere in un ghetto, perché non si vuole la chiusura, l’isolamento, il soffocamento in una realtà separata da ciò che di vivo e importante si muove nella nostra società. E si dimentica consapevolmente o per ignoranza che mai il ghetto fu separato da ciò che di vivo e importante si muoveva nella società, nella città che lo circondava. L’intera economia cittadina passava per le finanze del ghetto. Nel ghetto abitavano i filosofi che vivevano in continuo confronto con i filosofi e i teologi cristiani e islamici. Nel ghetto lavoravano i medici ricercati da papi e imperatori, e le cui scuole erano segretamente frequentate da studenti cristiani. Nel ghetto si traducevano Aristotele e Ippocrate, venivano alla luce le scienze della linguistica e dell’astronomia, si disegnavano le carte marine, si costruivano gli strumenti nautici usati da Bartolomeo Dias, Cristoforo Colombo, Vasco de Gama. Nei ghetti, nelle juderias, nelle judengasse visse Maimonide, gioielliere e filosofo, il più grande medico del suo tempo. Si faceva pagare a peso d’oro dai califfi e dai ministri, e curava gra52
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tis i pazienti poveri, senza chieder loro a quale religione appartenessero. Il ghetto era il quartiere dove qualsiasi ebreo, da qualsiasi regione venisse, dall’Oriente, dalle terre slave, dalle isole o dall’Africa, sapeva di essere accolto. La separazione del ghetto era separazione dai suoi vicini. Non era isolamento dalla società, dalla storia, dalle più profonde trasformazioni del proprio tempo. Oggi, la parola ghetto risveglia solo l’associazione con la parola pogrom. Il ghetto è anche il luogo su cui affilare le armi della condanna sommaria e dell’offesa, della rapina e della distruzione di un inerme supposto nemico. E dietro la buona intenzione di abolire ogni forma di ghetto sorride sornione il bisogno di abolire ogni diversità, ogni minoranza. Esistono o no, oggi, i ghetti di cui in via figurata parlo? E se esistono, se continuano ad esistere, cosa fare? Essere nel ghetto, con chi ci si sente solidali? O fuori? Immagini antistoriche Ci sono due domande che sembrano eguali, ma non lo sono. La prima: qual è il valore sociale di un teatro? La seconda: quali relazioni un teatro stabilisce con il pubblico? Come influisce su di esso? Come sa esserne influenzato? 53
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Per valutare il teatro, come fenomeno sociale e culturale, ci si orienta automaticamente sul pubblico. Ma le relazioni fra gli attori e il pubblico diventano importanti solo in un secondo momento. Innanzi tutto contano le relazioni che si instaurano fra coloro che fanno teatro. La prima fase sociale del teatro avviene al suo interno: è il modo come differenti individui regolano le loro relazioni di lavoro e socializzano i propri bisogni. Il carattere di questa prima socializzazione decide il posto e l’influenza del gruppo teatrale nella società. Il pubblico è spesso un raduno di fantasmi, senza volto, la Grande Bestia con la faccia nera, come lo chiamavano gli attori d’altri tempi. Gli spettatori assistono, poi scompaiono. Non necessariamente lo spettacolo lascia tracce su chi lo vede, o chi lo vede lascia tracce su chi lo fa. A registrare le conseguenze dell’incontro fra un gruppo di attori e un certo numero di spettatori sono in genere gli scritti degli spettatori di professione: i critici. Le parole scritte sono l’unica traccia durevole, e fanno nascere il preconcetto che il valore sociale del teatro si misuri da ciò che esse misurano: le reazioni e i giudizi del pubblico allo spettacolo. Ciò che dura sembra distinguere ciò che è più importante, rovesciando il luogo comune secondo cui ciò che è importante dura. Ma la testimonianza scritta spesso non costituisce una testimonianza della cosa guardata, una sua comprensione. Testimonia solo un modo di guardare e le sue convenzio54
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ni. Essa, però, dura, e per questo stesso fatto si prolunga imponendo la sua visione. Gli attori, ovviamente, non scrivono “recensioni” dei loro pubblici, né – in genere – lasciano testimonianze scritte sulle relazioni che intercorrono all’interno del gruppo, sulla dimensione sociale del loro gruppo. Uno dei fenomeni più importanti della storia del teatro moderno, la Commedia dell’Arte, è sorto dall’esigenza di alcuni uomini di mettersi insieme. Erano persone che avevano sempre fatto mestieri giudicati infamanti o “bassi”: buffoni, ciarlatani, saltimbanchi, acrobati e prestigiatori di piazza. Oppure uomini e donne dalla vita sregolata, che cioè infrangevano apertamente le regole dominanti. Questi individui – i primi attori di professione del tempo moderno – hanno trasformato la loro devianza, la loro “asocialità” riunendosi in gruppo. Hanno socializzato la loro differenza. Hanno “inventato” una nuova forma di teatro per difendersi. O meglio: il loro modo di difendersi, di conquistare un più dignitoso livello di vita, di imporre all’esterno il diritto di essere rispettati moralmente e culturalmente ha dato come risultato una forma di teatro che gli spettatori del tempo, colti ed incolti, e poi gli storici hanno considerato nuova e originale dal punto di vista artistico. Ma non era una nuova arte. Era una nuova micro-cultura che nasceva dal lavoro collettivo di uomini che fino ad allora erano vissuti dandosi isolatamente in spettacolo. 55
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Ma gli storici del teatro – a cominciare dal Settecento, mentre la Commedia dell’Arte era ancora viva – travisarono questo processo storico dietro l’immagine di un teatro che aveva fatto una scelta estetica o di “linguaggio”: quella dell’improvvisazione o quella del gesto al posto della parola. Dal punto di vista degli spettatori colti, che scrivevano, la funzione della Commedia dell’Arte fu di rappresentare, nella cultura del tempo, i diritti della fantasia, il piacere di un gioco teatrale svincolato dai legami della verosimiglianza. Dal punto di vista degli attori, la sua funzione fu di forzare il recinto dell’emarginazione, di coprire, al di là della discriminazione sociale, una forma di socialità senza per questo dover accettare le norme della morale riconosciuta. Un precetto del vecchio teatro imponeva all’attore di non voltare mai le spalle al pubblico. Per gli spettatori, l’attore non doveva possedere una schiena. Anche nei libri, per coloro che scrivono, leggono e discutono sulla storia del teatro, il teatro non ha una spina dorsale. È qualcosa di piatto, a due dimensioni. Sembra normale, ma in realtà è strano continuare a pensare che il teatro agisca solo attraverso la sua superficie, che gli spettacoli costituiscano la sua storia reale. È strano perché il pensiero moderno ci ha costretti a considerare la realtà sociale, economica, psicologica e fisica come mossa da profonde leggi nascoste dietro la maschera di 56
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cause e motivazioni tanto più ingannatrici quanto più sembrano chiare e inoppugnabili al senso comune. La “scienza” del teatro non ha ancora avuto neppure la sua rivoluzione copernicana. Sembra che gli uomini ruotino intorno alle terre immobili delle estetiche e delle ideologie teatrali, e non queste intorno agli uomini dalla cui storia concreta sono state generate. Intorno a chi orbiti? Intorno al teatro psicologico o alla biomeccanica? Intorno al Teatro della Crudeltà o al Teatro Epico? Brecht, Stanislavskij, Mejerchol’d, Artaud: in base a questi uomini dissolti in categorie si giudica l’operato di chi viene dopo di loro. Questo processo nasconde proprio quel che loro furono: uomini che vennero isolati o dovettero isolarsi per realizzare il teatro corrispondente ai propri bisogni, e che era diverso, irriconoscibile per tutti coloro che ragionavano in base alle teorie e alle ideologie dell’epoca. Brecht, nella Germania degli anni Trenta, era accusato d’essere uno scrittore decadente e borghese. Il suo marxismo era visto da molti militanti marxisti come un’infatuazione filosofica e intellettuale, che non comportava, sul piano pratico, una concreta partecipazione ai movimenti rivoluzionari. Che Brecht rivoluzionasse il teatro lo si cominciò a predicare in coro dopo la sua morte. Ma la storia della contraddizione che Brecht riuscì ad essere, fino al suo ultimo giorno di vita, malgrado gli onori che rischiavano di im57
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bavagliarlo quasi quanto l’esilio, nel paese in cui viveva, è una storia quasi tutta da fare. Così come è una storia da fare quella del significato reale del Berliner Ensemble a Berlino. Ma i teorici del brechtismo, quelli che l’hanno trasformato in una teologia negli anni Cinquanta e Sessanta in Francia e in Italia, negli Usa e in Scandinavia, oggi vanno a Berlino, nel teatro che Brecht ha creato, vedono i suoi spettacoli e quelli dei suoi collaboratori, e di fronte al rigore, alla fredda ferocia con cui l’impossibilità di parlare e la disobbedienza furba – intellettuale e animalesca insieme – si stampano nei gesti di Galileo, di fronte a questo i teologi del brechtismo storcono la bocca: tutto questo è già visto, dicono. Ormai il Berliner è puro museo, pura tecnica asettica. Ma cosa cercavano, in Brecht? La novità dell’artista? O la capacità dell’uomo di sopravvivere in tempeste storiche in cui molti tradivano e molti erano costretti a perire? La capacità di sopravvivere salvaguardando la propria identità, riuscendo malgrado tutto a parlare quando le bocche si chiudevano o cantavano in coro, attraversando diversi paesi senza essere l’uomo di ogni paese, conservando la forza di reagire in maniera razionalmente adeguata alle situazioni? Se era questo, e non la futile “novità dell’artista” che amavano in Brecht, perché non capiscono che tutto quello che i suoi collaboratori, a Berlino Orientale, nel 1978, ci mostrano attraverso questo Galileo, non è “già visto”, ma qualcosa che bisogna tornare a scrutare? 58
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Stanislavskij da una parte è stato elevato a modello per l’attore del realismo socialista, dall’altra viene ridotto all’immagine dell’attore dell’individualismo borghese. Con la pretesa di stare attenti ai valori sociali, si creano, invece, enti soprasensibili che vengono fatti entrare in conflitto. I veri conflitti storici si perdono e si nascondono dietro puri conflitti di idee. La biomeccanica mejercholdiana è una forma di opposizione alla “reviviscenza” stanislavskijana: così raccontano i manuali. Mejerchol’d non si opponeva a Stanislavskij. Si opponeva ai suoi seguaci che lo elevavano a sistema. Nella stessa maniera si opponeva a quel che lui stesso chiamava il “mejercholdismo”. Non i numerosi “seguaci”, ma Mejerchol’d fu vero allievo di Stanislavskij: essere formato da lui per poi sviluppare questa esperienza secondo i propri bisogni. E influenzare, a sua volta, il maestro, ispirandogli il “metodo di azioni fisiche”. Quando Mejerchol’d cadde in disgrazia e gli tolsero il lavoro – il primo passo verso il suo destino di artista formalista, la fucilazione – l’unico che gli offrì un teatro fu Stanislavskij, un moralista mai contento di sé, che, in forma teatrale, condusse tutta la vita una ricerca personale, non privata. La ricerca personale, non privata, lascia tracce. Copeau sceglieva i suoi collaboratori in base alle loro doti umane. Poco gli importava che fossero mediocri o pessimi attori. 59
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Di qui iniziò l’avventura del Vieux Colombier e del gruppo dei Copiaus. Fra l’altro divennero anche ottimi attori, e quando quell’avventura si esaurì – quasi come un suo risultato secondario, quasi appiattendo i bisogni che li avevano spinti a riunirsi in gruppo – mutarono il volto del teatro francese. I greci usavano una stessa parola, sèma, per indicare la “tomba” ed il “segno”. Anche nel linguaggio d’altri popoli si trova una simile identificazione. Le dottrine, i metodi, le poetiche sono le tombe e i segni degli uomini che, nel passato, si sono avventurati su strade nuove. Possiamo guardarle come monumenti che si fanno ammirare, commentare e imitare. Oppure possiamo guardarle per scoprire, al di là di quel segno, il senso di una vita che ha scoperto la sua strada e l’ha percorsa. Sono i becchini, non gli allievi, sono gli sfruttatori, non gli ammiratori, che trasformano quelle strade, quei sentieri personali, in comode autostrade – monumenti al progresso – su cui tutti possono o debbono passare. Per non lasciarsi pietrificare ancora in vita in un monumento teatrale, Stanislavskij, vecchio, si ritira in casa sua, raduna un gruppo di giovani con i quali inizia una ricerca nuova. Sgretola il suo “sistema” dando vita al metodo di azioni fisiche. Per far questo, per sfuggire al controllo politico e cultu60
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rale, si finge malato e disinteressato al lavoro: non si può essere “morali” in una società immorale. Quest’ultima è una frase di Brecht. Cosa significa essere stanislavskijani o brechtiani? Essere custodi e sacerdoti delle loro tombe o viaggiatori animati dal loro segno? Significa seguire Brecht quando parla della sua tecnica di straniamento, o orientarsi su di lui quando parla della necessità di conservare la propria identità, di mantenersi “straniero” nelle società attraversate, della difficile arte di scrivere la verità senza lasciarsi spezzare la schiena? Le isole galleggianti I critici, gli ideologi e gli uomini di teatro hanno tentato per anni di ignorare questa constatazione: che il teatro ha perso il suo carattere di uso profondamente funzionale ad un determinato ceto sociale, ad una determinata collettività. In diversi paesi del mondo, specialmente nelle nuove generazioni, un senso imprevisto viene dato all’incontro con il teatro: non il bisogno di ricevere teatro, ma il bisogno di fare teatro, di creare nuove relazioni, come attore e come spettatore. Nasce un teatro come espressione di piccoli gruppi di persone che forse presentano necessità e contraddizioni che riguardano un numero limitato di individui. Essi, però, esistono, si manifestano e agiscono fra di noi. 61
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Sono gruppi che non si sognano come veicolo di grandi parole, di grandi messaggi, di grandi dibattiti, ma che cercano la strada perché il singolo entri in contatto con il singolo, il diverso con il diverso. Non contenuti nuovi, ma rapporti nuovi, spesso difficilmente decifrabili, vengono a prendere il posto lasciato vuoto dagli abituali contenuti del teatro. Non è un “altro teatro” che nasce. Altre situazioni cominciano ad essere chiamate teatro. Per ragioni particolari, l’Odin si è trovato a vivere alcune di queste situazioni anni fa. Quando un gruppo arriva a far discutere di sé, viene attaccato, viene accusato d’essere inutile o controproducente, spesso ha già vinto per metà la sua battaglia. La discriminazione più forte non è quella che ti lancia contro le accuse formulate sulla base dei precetti. Molti gruppi, molte persone vengono ridotti al silenzio ancora prima che qualcuno cominci a discutere se abbiano o no il diritto di parlare. L’esperienza più dura non si svolge sotto gli occhi di nessuno. Se ne può parlare solo in termini personali. La lotta per sopravvivere determina le scelte successive. Per gli spettatori – che giudicano a cose fatte – i risultati di questa lotta appaiono come una nuova “corrente” del teatro. Tutti i tratti fondamentali dell’Odin – dalla tecnica dell’attore alla organizzazione interna, dalla sua etica al modo di risolvere i problemi economici, fino ai 62
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suoi spettacoli per pochi spettatori e non basati sulla comprensibilità di un testo fatto di parole – sono la risposta ad una situazione che sembrava condannarci all’impotenza. Siamo stati costretti ad essere autodidatti. Eravamo stati rifiutati dalle scuole teatrali e dai teatri professionali dove alcuni dei miei compagni volevano, all’inizio, essere normali attori interpreti di testi. E dove io desideravo, all’inizio, mettere normalmente in scena testi con attori professionisti. La situazione ci ha costretto a cominciare da soli e senza nessuna esperienza. Alla discriminazione del mondo teatrale si aggiunse presto anche quella geografica e della lingua: per sopravvivere avevamo dovuto emigrare dalla capitale della Norvegia in una cittadina della Danimarca, lontana dalle grandi città, dai critici e dal pubblico degli affezionati al teatro. Dovevamo riuscire a non vivere tutto questo come una menomazione, trovare una strada per non sottometterci ai due handicap che ci vietavano irrimediabilmente di fare un teatro che, in quegli anni, fosse riconoscibile e accettato: l’handicap della lingua, che ci impediva di esprimerci teatralmente tramite i testi, e l’handicap della nostra mancanza di educazione teatrale. Ci siamo dovuti inventare sia una “funzione sociale” che sembravamo non avere, sia un nostro sapere teatrale. Io stesso non ho una formazione professionale: i miei tre anni con Grotowski li ho passati seduto, osservando il 63
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suo lavoro e scrivendo, interessato solo ad una interpretazione concettuale, senza nessun momento di verifica pratica. Per molto tempo l’Odin non è stato riconosciuto come un teatro, ma come un gruppo che riusciva a sopravvivere attraverso altre attività culturali, la pubblicazione di libri e riviste, l’organizzazione di tournées di spettacoli stranieri. In base a quel che, di norma, ci si aspetta da un teatro, ci siamo sentiti ripetere, un anno dopo l’altro, che eravamo inutili, gente ossessionata da bisogni privati, che vivevamo “fuori dalla storia”. Le stesse accuse vengono oggi ripetute ad altri che, anche giustificando la loro scelta con un impegno politico e sociale, di fatto si staccano dalle grandi riunioni e dalle grandi assemblee, e si riuniscono in piccoli gruppi, fanno del teatro. I gruppi che chiamo del Terzo teatro non appartengono ad una linea, ad un’unica tendenza teatrale. Però vivono tutti in una situazione di discriminazione: personale o culturale, professionale, economica o politica. Sono i padroni della scrittura a decidere della validità di quel che fanno. Sono quindi gruppi costretti a verificare quotidianamente la necessità di una “antistorica” testardaggine: la necessità di perseverare, anche nell’isolamento, alla ricerca di una risposta ai propri bisogni individuali. Sono uo64
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mini che, tramite il teatro, seguono il sogno di costruirsi la propria vita. Un teatro dei diversi, quindi, di sognatori? Quale può essere l’immagine di un sognatore? Una persona che si allontana dalla terra e va sull’acqua. Ma non lo fa per scoprire o raggiungere altre regioni. Alcuni, che sembrano isolarsi in mezzo all’acqua, vogliono restare uniti fra di loro. E provano a costruire sul lago dei frammenti di terra. Sono le isole galleggianti. Le isole galleggianti non sono un progetto per rendere utili e fertili le distese d’acqua del Texcoco e del Titicaca. Sono un mezzo per sopravvivere. Il possesso delle terre galleggianti non si può tramandare ai propri figli: appena smetti di costruirtelo, il tuo campo non c’è più. È un piccolo orto malfermo che dà frutti, ma la cui dimensione e la cui esistenza stessa è condizionata dalle correnti. Esso nasce dall’esigenza di mettere radici. Ma in una realtà sradicata. Quando i Toltechi videro arrivare gli Aztechi, poco numerosi e affamati, li chiamarono “figli di nessuno”, “coloro di cui nessuno conosce la faccia”. I Toltechi concessero ai nuovi venuti, perché ci vivessero, alcuni isolotti sul lago Texcoco: lì i serpenti velenosi, numerosissimi, li avrebbero sterminati. Furono gli Aztechi, invece, a mangiarsi i serpenti, come 65
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aveva fatto l’aquila sul cactus, la loro visione e il loro presagio. Gli Aztechi costruirono anche delle zattere di giunchi sulle quali stesero della terra in cui deposero dei semi. Da quegli orti galleggianti sorse lentamente un villaggio, il cui nome avrà un lungo destino: México-Tenochtitlan. México significa: “la città che è al centro del lago della luna”. Ma questa è una storia ottimistica. Molto più a sud, sulle distese andine dell’Alto Perù, un’altra tribù, gli Uro, costruisce isole galleggianti sul lago Titicaca. I cronisti dell’epoca della Conquista avevano parlato degli Uro come di uomini dalla vita poco diversa da quella degli animali, vita indegna d’essere vissuta. Alcuni antropologi, anni fa, dissero che gli Uro erano scomparsi dalla faccia della terra. Ma gli Uro sopravvivono ancora, coltivando i loro minuscoli orti dalla vita effimera. Non c’è nessun diritto ad essere diversi. È moraleggiante e ingenuo appellarsi ad un tale diritto che sta solo nelle costituzioni o nel mondo delle idee, e che a volte non sta neppure lì. Un diritto conquistato da chi? Imposto da chi? Con quale forza? Se la forza controllata o violenta dell’autorità o delle diverse maggioranze non può concedere a lungo questo diritto, allora è suicida mostrarsi con tutte le nostre aspirazioni, con tutti i nostri bisogni. Rischiamo d’es66
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sere definiti “peccatori”, “malati”, “socialmente disadattati”, “asociali”. E d’essere trattati come tali. Bisogna scavarsi una trincea. Quando era il tempo di seminare, molti schernivano ciò che l’Odin seminava, il modo come lo facevamo. Volevano che seminassimo, coltivassimo altro. I consigli erano espliciti: seguici dove ti indichiamo e sarai salvo, nelle braccia dell’accettazione di noi tutti. Ci siamo dovuti tappare le orecchie, quasi isolarci per trovare la rotta che era nostra, per evitare di essere divisi, o trascinati altrove. Molte stagioni sono passate. Ora che è il tempo del raccolto e che molti riconoscono che c’è veramente qualcosa da raccogliere, ci guardiamo intorno. Ed è come se, dopo il lungo inverno, la solitudine facesse ormai parte della nostra vita. Dalle lettere che ricevo, dalle visite, dagli incontri che mi capita di avere, mi rendo conto che il senso dell’Odin sta solo in parte nei suoi risultati teatrali. Sta nel suo esistere, nel suo sopravvivere come segno tangibile che un gruppo di persone escluse, di differenti paesi, di differenti religioni, di differenti lingue, in realtà un gruppo di disadattati, ha avuto il coraggio di ritirarsi dalla terraferma, dove gli uomini sembrano lavorare utilmente la terra. Su una zattera ha portato il proprio sacco di terra e lo ha lavorato ostinatamente, senza seguire la cultura della terraferma, adattandosi alle correnti che lo spingevano lontano. È questo il valore dell’Odin, di altri gruppi, di altre persone 67
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che ormai hanno speso quasi un’intera vita a seminare sull’acqua. Ma se malgrado tutto uno riesce a sopravvivere, allora paradossalmente la sua “asocialità” si trasforma in qualcosa di sociale. Il teatro diventa, così, il mezzo per non restare soli, per gettare un ponte, per creare legami senza rinunciare ai propri sogni. Il teatro diventa anche l’astuzia, la trincea per proteggere e nascondere quel che riteniamo essenziale. Negli ultimi anni di lotta, negli anni di intense attività svolte per salvaguardare l’essenziale, obbligati a spendere energie e fantasia semplicemente per sopravvivere, il coraggio di continuare ci veniva anche dal sapere che un’altra persona, un altro gruppo si trovava nelle nostre stesse condizioni. Eppure continuava a non cedere e usava tutta la sua forza, tutta la sua furbizia per proteggere una ricerca che non era solo di teatro. Se, guardandomi intorno, cerco di capire cosa è diventata la ricerca teatrale negli anni Sessanta, mi appare chiaro come essa si sia lentamente rivolta in una direzione che, all’inizio, nessuno di noi prevedeva. Un profondo legame con una storia precisa, i cui antenati potevano essere Stanislavskij, Mejerchol’d o Brecht, faceva tradurre i nostri bisogni in termini di teatro, di “riforma del linguaggio teatrale”, dei suoi mezzi espressivi. Col tempo e l’esperienza, questo legame è andato al di là della professione, è diventato atteggiamento etico, con un suo distinto modo di per68
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cepire, di agire. Se questo atteggiamento per molti rappresenta un allargamento dei confini del teatro, spesso a noi stessi sembra un rifiuto di tutto ciò che nella nostra cultura ha senso chiamare teatro. Penso a Grotowski, alla gente del Living, a noi dell’Odin. Più d’uno di noi, dopo aver per anni lavorato a ridefinire il ruolo e la figura dell’attore, ha poi cercato di cancellare l’attore nel suo compagno di lavoro, di annullare la rappresentazione. E di conseguenza annullare lo spettatore. È stato detto che “spettatore” è qualcosa meno di “uomo”. Ma parlo di uomo. Del bisogno di trasformare il teatro in una ben delimitata situazione che permetta di andare al di là dei rapporti e delle percezioni che debbono caratterizzare la vita di ogni giorno. Per alcuni ciò significa orientarsi su un territorio pericoloso, sospetto, denunciabile come “romantico”, “mistico”, “irrazionale”. Questa ricerca cosciente di colui che sceglie il teatro non per esserne “spettatore”, ma come situazione per raggiungere un diverso stato di esperienza, questo è già superare i limiti definiti da una convenzione vecchia di pochi secoli: il Teatro. Cosa vediamo se guardiamo con stupore attraverso questa parola usuale? Quando Leeuwenhoek mise una goccia d’acqua sotto un microscopio, osservò con stupore tutto un nugolo di es69
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seri invisibili ad occhio nudo. Fino ad allora la “vita” era stata qualcosa di visibile: il cavallo, il cigno, il delfino, il verme. Questa nuova forma di vita sollevò molte domande: quale era la funzione di questi piccoli esseri, i “microbi”? Quale la loro relazione con il “Regno della Natura”? Molti scienziati importanti del tempo – Buffon, per esempio, che pure aveva fatto compiere un grande progresso alle scienze naturali, studiando la storia della natura – chiamarono questa forma di vita “un’offesa alla natura”. Per anni sì parlò dei microbi nei salotti, nelle chiacchiere, come d’una curiosità, la cui esistenza era senza peso. Ma poi si seppe qualcosa di più sui microbi, sul loro significato nel processo della vita. E come siano più pericolosi della tigre. Pueblos, Cimarrones Le tristi verità sono anche solidi alibi. Una triste verità dice che in pochi non si può far nulla. Sempre, alla fine, si verrà ridotti a strumenti di chi ha il controllo delle grandi istituzioni, il potere di aprire e chiudere le nostre stesse fonti di sussistenza. Che sarà fatale integrarsi, cambiarsi, oppure essere ridotti all’inattività e all’inefficacia. Quanto questo sia vero è facile sperimentarlo. È così evidente che non serve parlarne. 70
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Quanto questo sia falso è qualcosa che bisogna – e che si può – sperimentare. La seconda verità è che anche in pochi si può riuscire a condizionare la situazione che ci sovrasta e che sembra condizionarci senza vie di uscita. Non basta essere differenti, orientarsi su norme e valori di vita più giusti, resistere accanto a se stessi, alle proprie aspirazioni, anche se ingenue e utopistiche. Occorre attraversare e superare la situazione che in genere marchia un gruppo marginale: l’essere subcultura. Un teatro che risponde alle “nuove culture” dei giovani, un “teatro giovane”, non è un valore in se stesso. È il teatro di una delle subculture che caratterizzano la nostra società. Occorre trasformarsi da subcultura in cultura. Cultura come abilità di adeguarsi e modificare l’ambiente, come modo di organizzare e scambiare le numerose attività individuali e collettive, come capacità di trasmettere la “saggezza” collettiva, frutto delle diverse esperienze, dei diversi saperi tecnici. Solo la capacità di riorganizzare al suo interno tutti gli aspetti fondamentali che regolano la convivenza permette a un gruppo di adattarsi all’esterno senza dipenderne totalmente. È necessario orientarsi verso una sorta di completezza, verso un microcosmo culturale. La completezza culturale non è autismo, è il suo opposto: capacità di rispondere continuamente, di reagire in maniera adeguata e appropriata ai mutamenti di situazione, senza che il gruppo si 71
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degradi a materia morta, rigida fino a spezzarsi, o malleabile come cera che riceve l’impronta. Il passaggio dalla subcultura alla cultura di gruppo è il passaggio dallo stato di minore età allo stato di minoranza. Sono queste minoranze, che si aprono come tanti piccoli trabocchetti nel centro stesso della nostra società, a costituire quel che è forse il più importante mutamento culturale dei nostri anni, e non soltanto nel teatro. È illusorio credere che siano solo grandi organismi a provocare grandi mutamenti. La discriminazione stessa obbliga i gruppi ad una sola prospettiva, oltre quella di sparire o di tradire: trasformarsi in pueblos, nei due sensi della parola: la tua gente e il luogo fisico dove vivi. Ma la discriminazione, la costrizione ai margini non è in sé cultura. La maggior parte dei gruppi vive solo una condizione di inferiorità. Una cultura in senso proprio, adulta, anche se di un numero limitato di persone, esiste quando un gruppo è in grado di confrontarsi con la cultura circostante a tutti i livelli: da quello dell’organizzazione economica a quello dell’uso dei prodotti del proprio lavoro, da quello delle relazioni interpersonali a quello della riflessione critica sul proprio operato. Come socializzare i propri bisogni, servirsi di essi, lavorare con essi per raggiungere gli altri, senza nascondersi dietro le pretese risposte ai pretesi bisogni della società? 72
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Discutere di problemi che non si possono risolvere discutendo è un’abitudine che bisogna perdere. Spesso aggrapparsi a un Teatro Politico significa sfuggire al problema di fare, col teatro, una politica. Di quale teatro ha oggi bisogno la società? Chi non accetta una società e una cultura che gli viene imposta, ma cerca una diversa società e la propria cultura deve invertire la domanda. Si deve chiedere cosa lui voglia, con il teatro, dalla società. La nostalgia dei pueblos, di una cultura popolare radicata in un passato comune di generazioni e generazioni, è la malattia del ritorno impossibile. La cultura dei gruppi teatrali è una cultura senza radici. È la cultura dei cimarrones, gli schiavi negri che in Brasile, nella Giamaica, a Surinam, a Cuba, fuggivano sulle montagne e nella Selva, dando vita a minuscole comunità che a volte resistevano molti anni, spesso con contatti regolari anche con i piantatori bianchi, che non erano abbastanza forti da abbatterle. I cimarrones avevano perso quasi completamente la loro cultura africana. Avevano assimilato molti dei caratteri culturali dei bianchi, da cui erano fuggiti, e il cui mondo rifiutavano. Non avevano una cultura, erano privi di radici, l’unica radice era la loro stessa fuga. Dovevano ricostruirsi una società. E dai frammenti di passati non omogenei, di lingue dimenticate o mal apprese, di disparati mestieri, attraverso 73
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la soluzione di problemi concreti, nasceva una nuova identità. Il teatro-cultura non può essere un teatro indifeso. Sarebbe suicida trattare il lavoro teatrale e i suoi risultati, lo spettacolo, come problemi di second’ordine, come strumenti svalutati che non debbano tendere alla perfezione. Chi costruiva un nuovo villaggio cercava il luogo che meglio permetteva la vita in comune, e contemporaneamente il luogo che le montagne, l’acqua o le foreste difendevano meglio. Lo spettacolo sono le nostre montagne, la nostra acqua, le nostre foreste. La sua capacità di colpire, di imporre rispetto, di affascinare anche coloro che non dovrebbero o non vorrebbero accettarci non solo permette di vivere, ma ci mette fuori tiro. Un teatro asociale? Asociali non lo si è. Lo si diventa. Un’altra emigrazione, parallela a quella per il pane, attraversa la geografia e la coscienza stessa della nostra società. È composta dagli sterrati, volontari o no, da un paese, da una religione, da un’ideologia, da una classe. Ben poco ci unisce nel nostro passato, nella nostra storia, oltre il fatto che necessità diverse e distanti ci hanno spinto ad unirci. 74
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Quando i teatri di gruppo si incontrano, sono i dialoghi degli emigranti che si intrecciano. Questo è accaduto ogni volta che abbiamo potuto incontrarci. Una volta dopo l’altra abbiamo ritrovato lo stesso senso d’essere duramente al lavoro e insieme d’essere sospesi; la stessa contraddittoria consapevolezza d’aver preso in mano il nostro destino, e di essere, per ciò, in balia di forze che non potremo dominare, quando il mare non sarà più adatto alle piccole navi. La stessa necessità, ogni volta, di darci reciprocamente qualcosa per accrescere le nostre difese, quando ogni gruppo si troverà di nuovo solo. La stessa vena profonda, quasi nascosta di solidarietà, con tutte le sue increspature, divisioni, rivalità. Spesso anche con gli stessi sogni che si esalano nell’emigrazione, grandiosi e fallaci. Quale emigrante non sogna, per un momento, più o meno a lungo, di allontanarsi dai suoi compagni? Di divenire, per una volta, concittadino del paese che attraversa senza appartenervi? Chi non presta orecchio alla voce che lo invita alla triste pace del tradimento di se stessi? Chi rinuncia a questi sogni, quante volte si è sentito lanciare contro la stessa accusa: asociale. Un’accusa che è un concetto vuoto. Non è mai possibile essere “fuori dalla società”. Si può solo divergere dalle sue norme. 75
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Il voler essere “asociale” è a volte il segno del più profondo impegno a cambiare. È il voltar la testa in un’altra direzione, cercare cosa può esserci di diverso da questa società che vuoi rifiutare. Ciò che rifiuti diventa ciò su cui ti orienti, il tuo Nord cui tener fisso lo sguardo per allontanarti. È la marcia di emigrazioni parallele, sempre minacciate, spesso sconfitte. Ogni volta che ti sei troppo fidato nei sogni, la “realtà” ti assorbe. Ma se riesci ad allontanarti, giorno per giorno, passo dopo passo, con lo sguardo fisso a quel che vuoi non essere, appoggiandoti e appoggiando i compagni, un giorno ti capita di scoprire con meraviglia che il “sociale” da cui ti sei allontanato si interessa a te. Scopre in te un’immagine di vita diversa. Ti studia come l’esempio di un piccolo gruppo che, pur vivendo al centro della società, non sganciandosi da essa, costruisce una sua propria cultura: un organismo microscopico non distruttivo, ma portatore d’altre forme di convivenza. Perché aver paura delle parole? Divenire “asociale” è il tentativo di costruire la tua microscopica “asocietà” dove tentare concretamente la vita cui aspiri, non un’informe emotività, la vaga sentimentalità dei “tutti fratelli”, dei “tutti simili gli uni agli altri”. Non è per una grande famiglia, ma per una piccola società che ha senso mettersi a parte, scegliere un lavoro “inutile”, che nel tempo si distilla in risultati obiettivi che co76
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lorano i rapporti fra le persone, la loro visione del mondo, il loro comportamento anche privato. Non si possono scegliere delle idee, sperando che queste ti cambino. Bisogna scegliere delle condizioni di vita e di lavoro. Devi essere “asociale” se vuoi creare l’esempio contrario alla socialità dell’ingiustizia. Devi essere “asociale” se non vuoi accettare le regole del gioco in cui tu resterai perso e impigliato. Devi diventarlo se vuoi cercare di rompere almeno una maglia nella rete, e trovare un altro spazio all’esterno, altre relazioni. Devi essere “asociale” se vuoi trasmettere la tua presenza e la tua azione anche a coloro che domani potranno confrontarsi sulle tue esperienze, partendo dalle tue tracce. Non devi ridurre la tua presenza a questo momento, a questo posto, ai tuoi legami d’oggi, alle sole domande che oggi ti pongono. Sei forse per questo apolitico? Cosa è la politica? Non è l’arte del possibile? Devi essere “asociale” per realizzare il tuo possibile. Sarebbe falso idealismo trasformare la realtà dei gruppi teatrali in un ideale di vita comunitaria. Essi sono, piuttosto, il risultato di tensioni, di disadattamenti, di una devianza che ha provocato a lungo angoscia, senso di soffocamento. Non sono le isole di Utopia. Sono i frammenti di una 77
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società di frontiera, i bordi sfrangiati fra qualcosa che è Società e qualcosa che non lo è più. Molti si sentono, ci sentiamo o ci siamo sentiti lentamente scivolare verso una forma di apatia, di impotenza. Il teatro è stato lo scoglio al quale ci siamo afferrati e che ci rende, malgrado tutto, sociali. Dal punto di vista di coloro che posseggono la maestria della parola possiamo assomigliare a muti che si esprimono attraverso strani segni, una lingua di immagini quasi privata. Dal punto di vista dei muti, siamo muti che riusciamo a parlare. Constatando l’impossibilità o il disagio a integrarsi in una vita non umana, alcuni parlano di emarginazione in senso positivo. Parlano della propria “follia” e la esaltano come qualcosa da difendere. Ma emarginazione e follia è proprio ciò che combattiamo per restar fedeli alle nostre necessità fondamentali, rifiutando d’essere ridotti all’impotenza e al silenzio. Non lasciarsi addomesticare non è rifugiarsi nell’emarginazione e nella follia. È non lasciarsi addomesticare all’emarginazione e alla follia. Il teatro è spreco, ma è anche un’attività socialmente accettata. È apparentemente improduttivo, ma giustifica un lavoro di gruppo. Puoi proiettarvi i tuoi sogni e le tue 78
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ossessioni, ma dando loro un corpo, raggiungendo gli altri senza affiorare all’idioma che avete in comune. È un mezzo per sfuggire alla ragione dei domatori, per infrangere il cerchio della solitudine.
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Rispondere così sarebbe rispondere il vero. Ma solo una faccia della verità. (ottobre-novembre 1978)
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Documento acquistato da () il 2023/11/13. Ornitofilene, 1965-66; foto Terje Lund.
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Kaspariana, 1966-68; foto Roald Pay. Ferai, 1969-70; foto Torgeir Wethal.
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La casa del padre, 1972-74; foto Roald Pay. Il libro delle danze, 1974-80; foto Tony D’Urso.
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(a fronte, in alto) Johann Sebastian Bach, 1976-80, foto Torgeir Wethal. (a fronte, in basso) Vieni! E il giorno sarà nostro, 1976-80; foto Tony D’Urso.
(in alto) Anabasis, 1977-84; foto Tony D’Urso. (a destra) Judith, 1984; foto Torben Huss.
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Matrimonio con Dio, 1984-90; foto Jan Rüsz. Le stanze del palazzo dell’Imperatore, 1988-2000; foto Tony D’Urso.
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Documento acquistato da () il 2023/11/13. Il Castello di Holstebro, 1990; foto Jan Rüsz.
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Documento acquistato da () il 2023/11/13. Itsi Bitsi, 1991; foto Tony D’Urso.
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Kaosmos, 1993-96; foto Rossella Viti. Orô de Otelo, 1994-2013; foto Giovanna Talà.
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(a fronte, in alto) Dentro lo sheletro della balena, 1996; foto Mihaela Marin. (a fronte, in basso) Le farfalle di Doña Musica, 1997; foto Rossella Viti.
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(in alto) Mithos, 1998-2005; foto Jan Rüsz. (in basso) Il sogno di Andersen, 2004-10; foto Jan Rüsz.
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la corsa dei contrari
Premessa sul silenzio scritto Ho avuto l’illusione che la sapienza teatrale fosse qualcosa che poteva essere carpita e posseduta. Prima andai da un vivo. Per tre anni rimasi seduto ad osservare il lavoro di Jerzy Grotowski. Poi andai in India. In seguito mi rivolsi ai morti, ai livressources della “scienza” del teatro. Sul mio tavolo ci sono Stanislavskij, Mejerchol’d, Brecht, gli antichi scritti di Zeami, il Natyashastra. C’è Ejsenstein. Questa è stata la mia preparazione fino al giorno in cui ho cominciato a lavorare con i miei compagni dell’Odin. È per quella sapienza di cui sono stato spettatore o ho letto, che oggi alcuni vogliono lavorare con me o mi fanno delle domande sul lavoro dell’attore? O a causa dei risultati raggiunti dai miei compagni attori? Può il libro trasmettere il senso delle esperienze di anni ed anni di lavoro? Perché, in alcune culture, la sapienza teatrale non è mai 81
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stata “pubblicata”, o – al limite, come nel caso di Zeami e degli scritti tecnici degli attori della Commedia dell’Arte – è rimasta a lungo affidata ad una tradizione di mano in mano? Una sera, in India, ascoltai un cantore la cui voce raggiungeva effetti che non immaginavo possibili. Ebbi la sensazione di essere sulle tracce di un segreto. Gli chiesi come allenasse la sua voce. Rispose: «Ho impiegato trent’anni per cantare come canto, e tu mi chiedi come ho fatto?». La richiesta del Cnrs, che è all’origine di questo articolo, contiene in particolare due domande: 1. Che significa essere attore nella nostra epoca e nella nostra società? 2. Che significa, per me, formare degli attori? 1. Sul significato sociale dell’attore Non so quale significato abbiamo, nella nostra epoca e nella nostra società, i miei compagni ed io. Siamo forse noi a stabilire che significato abbiamo o avremo? È il contesto che decide del significato delle parole. Una parola può solo essere precisa. L’origine di questo termine indica qualcosa di ben distinto, così ben stagliato da non poter essere sostituito da nient’altro. Si potrebbe dire che il significato di essere attore è affrancarsi. Sono molti gli esempi storici in cui è possibile constatare che, tramite la sua professione, l’attore si af82
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francava, in un senso molto concreto, sociale ed economico. Un affrancamento non in senso vagamente psicologico, ma nel senso di: zone franche, en franchise de port, e forse anche nel senso di langue franque. Forse un filosofo potrebbe dire che gli attori (o certi attori) significano in maniera fisica, attraverso un lavoro quotidiano, il disagio e persino la ripugnanza ad accettare la realtà della propria epoca: la loro scelta, prima dei loro spettacoli, dice la loro incapacità a soddisfare i propri bisogni nella “vita reale”, o il loro desiderio di non immettersi nelle “utilità del proprio tempo”. Soltanto in futuro qualcuno potrà decifrare quale era il significato, quali tracce ha lasciato la zone franche dell’attore, che ha scelto l’esercizio di un lavoro che scompare con lui. I miei compagni ed io, dopo anni di isolamento, di “laboratorio”, abbiamo scoperto quasi all’improvviso di significare qualcosa che per molti era importante. Chi sono questi “molti”? Qualche migliaio di persone sparse qua e là in diversi paesi. Intorno ad essi c’è una nebulosa più diffusa: un’attenzione per il nostro lavoro e per la nostra storia, un vago interesse, un po’ di curiosità. I confini di questa nebulosa sono segnati da coloro che, quando sentono il nostro nome, mostrano di riconoscerlo. Ci è impossibile fare il salto da questi piccoli cerchi di cui abbiamo esperienza a quel cerchio tanto vasto da poter essere chiamato “epoca” e “società”. Per fare questo salto, bisognerebbe abbandonare il terreno della esperienza e parlare dell’Attore in generale, di una astrazione che indica 83
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tutti e nessuno, qualcosa di impersonale. Questo non sarebbe dedurre dall’esperienza una teoria, ma far violenza alla esperienza. Dopo quindici anni di lavoro teatrale, a volte sono sorpreso ancora dei miei compagni. Mi meraviglia la loro continua ricerca, la loro testardaggine, il loro coraggio nel lavorare tutti i giorni, dalla mattina alla sera, senza che, a volte, sembri esserci un frutto della fatica. Altre volte, quando uno di noi sembra lavorare meno, accontentarsi o indietreggiare di fronte a quel che lui ritiene impossibile, gli altri scuotono la testa, si irritano. Come se fosse semplicemente normale, o fosse diventata una nostra seconda natura accanirsi per ore ed ore intorno a un gesto, a un frammento, passare la maggior parte del nostro tempo, per anni, in un ambiente non più grande di un teatro, in una “società” fatta di una quindicina di persone. Il filosofo potrebbe dire che tutto questo non significa nulla di buono e di utile. Potrebbe dimostrare che c’è qui un eccesso e ripetere – come diceva un grande politico – «pas trop de zèle». Potrebbe dire: «È vero, questi attori non lavorano quel tanto che basta al mercato degli spettacoli, essi costituiscono una minuscola società di un numero esiguo di persone strette da legami profondi e intricati che impegnano quasi la loro intera vita. Ma in questo risiede il pericolo, perché tagliano i collegamenti con l’esterno, con il proprio tempo e la propria società». Ma è anche possibile che il filosofo dica cose diverse: «Quel che questo gruppo di persone fa non è, in fondo, 84
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diverso da quel che nessuno rimprovera all’artista, che sembra isolarsi, e che proprio per questo, con la forza dei suoi risultati, successivamente agisce nel mondo che lo circonda». Ricorderebbe che Brecht, per esempio, qui in Danimarca, si estraniò, per passare ore ed ore a casa sua, al suo tavolino, a scrivere poesie che – a causa dell’esilio – pochi potevano leggere, e pièces che nessuno per anni avrebbe rappresentato, cosciente che «ogni volta che Hitler annuncia una nuova vittoria, la mia importanza come scrittore diminuisce». Eppure restava inchiodato allo scrittoio. Un’azione che si svolge in un ambito ristretto – direbbe il filosofo – ha veramente un senso se va tanto in profondità da giustificare la sua piccola estensione. 2. Sulla formazione dell’attore Che significa per me formare degli attori? La domanda è stata posta non ad un attore, ma a qualcuno che “forma” attori. Colui che forma l’attore sembra in grado di riempire la zona di silenzio che copre per lo spettatore il “segreto” dell’attore. La zona di silenzio non può essere eliminata. È l’ostacolo necessario per passare la soglia. A questo, e non a trasmettere tecniche ed esperienze, servono gli scritti sull’attore: rendono ruvido il silenzio, lo solidificano in un muro di regole, di teorie su cui appoggiarsi per saltare 85
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dall’altra parte con le proprie forze. Non credo che sia giusto dire che io “formo” degli attori. Con gli anni mi è stata riconosciuta una competenza a formare degli spettacoli, e ho acquisito l’esperienza che mi permette di lavorare assieme a dei compagni, affinché si “formino”, appaiano, agli occhi degli altri, attori. Se le esigenze del mestiere mi obbligano a dare una forma ad un attore, allora so che con lui, per il momento, ho fallito il mio compito. Teatro indica qualcosa di così esteso e vago, nella nostra società, che sotto questo nome vengono accettate le cose più diverse. A volte, basta che qualcuno dica qualcosa muovendosi. Sappiamo cosa, in genere, debba aspettarsi un giovane che desideri divenire attore: entrare in una scuola dove la pratica teatrale gli viene insegnata divisa per materie. Difficilmente gli capiterà di lavorare a lungo con qualcuno che gli trasmetta la sua esperienza personale, che sia in grado o abbia il tempo non di insegnargli una tecnica, un savoir faire, ma di stimolarlo ad uno sviluppo personale che possa approfondirsi attraverso tutta la sua vita artistica. L’aspirante attore sarà ammesso alla scuola in base alle così dette “doti naturali”. Queste “doti” anche in seguito continueranno ad essere sfruttate come la principale miniera di lavoro. È una educazione a “vivere di rendita”. Uscirà dalla scuola con un piccolissimo bagaglio a sua disposizione. Riuscirà, se è bravo, a progredire, ma in un 86
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campo d’azione molto ristretto. Si troverà super-specializzato, termine che evoca, in genere, una grande competenza. Ma un attore super-specializzato è un attore che dipende dal pubblico di un determinato tipo di teatro, incapace di essere vivente, come attore, in situazioni diverse da quelle per le quali è stato addestrato. Ha un dressage non una disciplina. La sua specializzazione gli apre solo due strade: essere un proletario o diventare un privilegiato dell’industria dello spettacolo. Oggi la sterilità della tradizione teatrale obbliga ognuno a ricominciare sempre daccapo. Ci si nasconde dietro l’alibi che così si lascia ad ognuno la libertà di uno sviluppo personale. È come tarpare le ali ad un uccello affinché, in cambio, esso sia libero di camminare nella direzione che vuole. È essenziale trasmettere le proprie esperienze agli altri, anche se c’è il rischio di creare degli epigoni che per eccessivo rispetto ripeteranno solo quel che hanno appreso. È naturale che uno cominci dal ripetere qualcosa che non è suo, che non appartiene alla sua storia e non deriva dalla sua ricerca. Questo è per lui il punto di partenza, che gli permetterà di allontanarsi. Boulez ha scritto una volta che ciò che permette la crescita culturale e artistica sono i rapporti tra un cattivo padre e un cattivo figlio. Essere un buon padre da una parte, e un buon figlio rispettoso dall’altra, è un rischio da correre. Quello che è peggio è la mancanza di rapporti tra “pa87
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dre” e “figlio”. Influenzare l’allievo sarebbe – secondo un’opinione comune – negativo. I segni dell’influenza rivelerebbero un rapporto malsano. Ma con questo modo di ragionare non si approda a nulla: tutti siamo influenzati da qualcuno. Il problema è la carica d’energia che viene messa in gioco nel rapporto: se l’influenza è così forte che permette di andare lontano, o se è così debole che non produce, in cambio, che un piccolo spostamento, o una marcia sul posto. Un riflesso condizionato ci fa giudicare sempre come sintomi negativi i segni dell’influenza. Questo riflesso deriva dal preconcetto che sia possibile un solo modello pedagogico: quello delle nostre scuole. Nelle scuole i bambini e i ragazzi, fino a una certa età, sono obbligati ad andare. Anche in seguito, non sono loro a scegliere i loro insegnanti, né gli insegnanti scelgono i propri allievi. Da questa iniziale mancanza di libertà reciproca, deriva che il rapporto apparirà tanto più giusto quanto più sarà neutro, libero, blando. Se permetterà ad ognuno di fare il più possibile quello che vuole, e se la trasmissione delle conoscenze sarà impersonale ed uguale per tutti in qualunque posto. È questo che, in qualche modo, garantisce che il rapporto – obbligato – non si trasformi in una vera e propria violenza. Ma dove il rapporto è libero, se nasce da una scelta reciproca, garantirà tanto più una forma di giustizia quanto più obbligherà reciprocamente le sue parti. Questa scelta reciproca racchiude l’esigenza di un rap88
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porto pedagogico diverso, basato su uno scambio e una influenza profonda fino a giungere ad una relazione in cui non si sa più chi è maestro e chi è allievo. È questo che permette una rigorosa disciplina che non sia costrizione. Ciò implica una tradizione vivente, una vivente trasmissione delle esperienze, qualcosa che va al di là dei princìpi, delle teorie, delle generalizzazioni tecniche, dei professori con i loro libri e i loro programmi. Implica un rapporto intero fra le persone. Viene un momento in cui le circostanze, l’età, le domande che provengono dall’esterno chiedono di allargare il cerchio di questa trasmissione, di passare dalla presenza cercata ad un rapporto anonimo, attraverso la parola scritta. Le esperienze si trasformano, allora, in proposte e affermazioni generali, si spersonalizzano, non sanno più a chi precisamente si indirizzino. Un processo di sviluppo legato a storie e persone concrete rischia di trasformarsi in un altro manuale. Naturalmente, ho fatto delle constatazioni che mi vengono confermate dall’esperienza. Ma il modo di formulare queste constatazioni non può che essere personale e rischia di essere vago per chi legge. Deriva in gran parte dalla lingua di lavoro che i miei compagni ed io ci siamo formati col tempo, un gergo interno. A volte mi è capitato, quando una nuova prospettiva si apriva nel corso del lavoro, di pensare: «Ah! Allora è di questo che si trattava quando Mejerchol’d (o Stanislavskij, o Zeami) diceva...». 89
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Il modo in cui formuliamo i risultati delle nostre ricerche è più una rete che cattura quasi casualmente la comprensione di chi legge, che una precisa indicazione di lavoro. Quello che conta è comprendere ciò che sta dietro i risultati e che permette di non fermarsi ad essi. L’attore che sa perfettamente eseguire un certo numero di esercizi, che sa fornire un certo numero di ottime prestazioni, può essere un attore senza prospettive: è come chi conosce a memoria una ventina o un centinaio di frasi di una lingua che, per il resto, gli è sconosciuta. Sapere non è comprendere. Il modo di controllare un processo di lavoro è qualcosa che si assorbe in un lunghissimo arco di tempo, in determinate relazioni e condizioni di lavoro. Solo quando lo si è assorbito, lo si è compreso, si comprende anche che cosa si sa. Per l’aspirante attore che scegliesse di venire all’Odin Teatret, e chiedesse di dargli un’idea di quel che si potrà aspettare da questo rapporto, credo che fisserei alcuni punti di riferimento. A volte mi capiterà di fare delle affermazioni recise. Il lettore sa già che non sono delle definizioni estetiche sull’arte dell’attore, dei precetti che ritengo validi per tutti, che vorrei veder applicati dovunque, da tutti gli attori di tutti i teatri. Sono l’enunciazione delle scelte mie e dei miei compagni. Ciò che a me – e a noi – risulta. Ad un aspirante attore chiedo sempre quali siano le ragio90
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ni che lo spingono ad intraprendere questa professione. Ottengo, in genere, risposte formulate in maniera vaga. Esse fanno trapelare dei bisogni essenziali e nascondono delle trappole. Possono essere una bussola, ma così rudimentale da trasformarsi facilmente in una bussola impazzita che sabota il viaggio. Spesso dicono: voglio essere attore per esprimermi, per rivelare me stesso, per essere spontaneo, per comunicare, per essere creativo. 2.1. Spontaneità
Pinocchio, il burattino di legno che parlava e camminava da solo, decise di cercare se stesso: tutte le parti dell’albero da cui proveniva. In altre parole: ciò che lui era quando era “naturale”. Si mise alla ricerca, ed effettivamente trovò qualcosa. Le altre parti della sua natura erano un calcio di fucile, la porticina di un tabernacolo, il tavolo della cucina di un bordello, una parte di una scialuppa di salvataggio... Ritrovare se stessi non ha un senso. Pinocchio – come ognuno di noi – aveva una sola vera possibilità: accettare quello che era – cioè quel che era diventato; non tentare di ritornare indietro per la nostalgia di una “unità” perduta, non tentare di soffocare quelli che lui considerava i suoi lati negativi, ma cercare di padroneggiarli, trasformandoli in una forma di energia. È come se le nostre energie fossero amorfe: noi possia91
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mo dominarle o lasciarcene dominare. È il contesto che decide del loro valore. Quel che nel nostro secolo illuminato è soltanto una crisi di isteria, in altri contesti sociali e culturali è il segno di una capacità eccezionale per cui una persona riesce ad entrare in contatto con un’altra realtà. Il mito della spontaneità deriva dal non accettare se stessi. Così mitizziamo un’immagine diversa di noi stessi, un’immagine che, nella realtà, ci è difficile concretizzare. Ne deriva una violenza contro quel che siamo e non vogliamo essere. Alla ricerca di questa immagine ci lasciamo guidare da quel che caratterizza la nostra cultura e la nostra società: la violenza come condizione per ottenere dei risultati. Questa mentalità – che ci porta a concepire il mutamento come una rottura, una lacerazione, e non come un processo naturale ed organico – spinge l’attore ad uno scatenamento caotico, a tendere e forzare artificialmente il suo corpo. Spesso, ai nostri occhi, l’immagine della spontaneità si concretizza nelle persone di altre culture che sembrano muoversi o danzare, più liberi, più leggeri di noi, più presenti con tutti se stessi. In realtà sono anch’essi imbrigliati dalle norme della cultura che li ha plasmati, dai condizionamenti che li hanno formati. Ciò che crediamo spontaneità e su cui ci orientiamo è solo qualcosa che ci colpisce per la sua differenza, che, addirittura, ci appare all’opposto di quel che noi siamo. Il nostro comportamento quotidiano è “ragionevole”, guidato dalla funzio92
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nalità, limitato sin dall’infanzia a un rendimento che mai esige e ci fa conoscere il massimo delle nostre capacità fisiche, psichiche e mentali: un’aurea mediocritas mai percorsa da grandi scariche fisiche, emotive. Allora pensiamo che l’esplosione sia spontaneità e cerchiamo di mandare in frantumi la campana di vetro delle norme quotidiane di comportamento. Il risultato sono, appunto, null’altro che frantumi di vetro. Ma nella radice del termine “spontaneità” è implicito il concetto di libera scelta. Il problema della spontaneità riguarda la libertà e la sicurezza: la libertà di scegliere di fronte a diverse alternative senza essere obbligati ad una scelta imposta dall’esterno; la sicurezza di essere in grado di realizzare quel che si è scelto, senza incappare in blocchi materiali o psichici, senza trovarsi impediti da una mancanza di conoscenze tecniche o dalla paura, per esempio, di quel che diranno gli altri su di noi. La spontaneità non può essere qualcosa che si oppone al “virtuosismo”, è qualcosa che viene dopo. Solo se un pianista è qualcosa di più di un “virtuoso” riesce a far passare attraverso il modo in cui suona qualcosa di personale. Cioè può esprimersi – gettarsi fuori – attraverso la resistenza che il campo musicale ben delimitato dallo strumento e dalle regole che si è scelto gli impone. La situazione della spontaneità – che può essere ricollegata a quella del “rivelare se stessi” – non è fine a se stessa. È l’ombra di un processo ben determinato, chiaro, control93
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lato da regole precise, durante il quale uno si sente in sicurezza. Come quando uno parla o scrive: non può usare qualsiasi segno o qualsiasi suono, deve passare attraverso le regole e le parole di una lingua. Può inventare dei neologismi, ma seguendo la logica imposta da preesistenti radici linguistiche. Questa resistenza permette l’esercizio della libertà. È una constatazione ovvia, ma l’attore rischia spesso di agire come se se la dimenticasse. Per lui, nella nostra cultura, sembra non esistano regole. L’appassisce. La situazione dell’attore è simile a quella della colomba di cui parlava Kant in un suo esempio famoso: la resistenza dell’aria affatica il suo volo, ma senz’aria cadrebbe a terra con la pesantezza di un corpo morto. Così l’attore lavora come spingendo un muro, per abbatterlo ed eliminare le barriere e i condizionamenti che lo separano dagli altri e dall’immagine che di sé vorrebbe avere. Ma è il modo in cui spinge il muro a “rivelare” l’attore, il modo in cui utilizza tutte le sue energie reagendo all’ostacolo che gli sta davanti. Ma se abbatte il muro, si trova solo nel vuoto, non trova più resistenza e ammutolisce. Il tentativo di abbattere le resistenze deve essere affrontato in altri termini: un tentativo di appropriarsene, di immetterle in un altro contesto, dar loro un nuovo senso determinato dal nostro modo di vedere la vita. L’attore raggiunge il bios, la vita, come professionista e come essere sociale, attraverso azioni e reazioni che se94
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guono una logica precisa, non agendo ogni volta arbitrariamente, ma forgiandosi delle regole altrettanto precise di quelle che nel linguaggio parlato permettono il discorso personale. È l’attore stesso che può decidere quale sarà la logica delle proprie regole. Ma quando, di volta in volta, le ha decise, deve accettarle fino in fondo. Per esempio: un attore decide di iniziare a lavorare sul volo. È evidente che non può volare. Allora cerca di andare il più in alto possibile, di acquisire una particolare leggerezza. Partendo da qui, da una sua scelta personale, individua una situazione di lavoro che poi gli impone regole precise per le sue azioni: per esempio deciderà di camminare sulle punte dei piedi e di non poggiare il tallone per terra. Non lo poggerà mai, e non per l’effetto che farebbe sullo spettatore, ma innanzi tutto per sé, perché questa diventa una regola con la quale egli si batte. In altre parole: si esprime. Quando l’attore arriva a possedere tutte le regole che si è imposto e riesce a passare attraverso di esse quasi senza più pensarci, componendole e variandole nel ritmo del suo lavoro, raggiunge una forma di sicurezza e di libertà che per chi vede: appare “spontaneità”. Cosa c’è, però, dietro questa parola? Un condizionamento liberamente scelto e assorbito dall’attore, e che lo spettatore non percepisce come artificiale, forzato. Il comportamento dell’uomo segue sempre una logica fisica, emotiva o intellettuale. Solo nel teatro ci sono uomini che mostrano gesti e frammenti di azioni in maniera scon95
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clusionata, illudendosi che un comportamento caotico e inespressivo possa rappresentare la libertà. A volte l’attore così facendo si sente libero (sente qualcosa che fra sé e sé chiama “libertà”). Ma lo spettatore rimane imprigionato in una frana di gesti in cui non riesce a vedere una logica. La logica dell’attore, quando invece c’è, è qualcosa di ben visibile. Con questo termine non intendo soltanto la logica di un discorso. Lo spettatore può benissimo non riconoscere un discorso, una storia, una re-presentation dietro le azioni dell’attore. Ma conosce, in esse, la dinamica di azioni e reazioni, qualcosa che vive, si sviluppa e si distingue in un processo dialettico che regola la presenza fisica dell’attore, e che non ha nulla a che vedere con l’inerte colata di un magma emotivo. C’è un’altra immagine che ci può guidare nella nostra ricerca della spontaneità: spontaneo è il comportamento di un uomo o di una donna quando è insieme a qualcuno che ama, e con il quale si sente sicuro e accettato. Allora tutte le sue azioni modellano l’incandescenza della sua energia in modo preciso, per alzare la mano per accarezzare, oppure per tirare i capelli, ma sapendo esattamente fino a dove può andare e dove deve fermarsi, quale è il punto oltre il quale comincia a far male, perde il contatto con l’altro e si chiude in una forma di autosoddisfazione. Nulla, nel suo comportamento, è casuale. Un ritmo “logico” regola il succedersi di momenti di tenerezza e di grandi onde di vitalità che all’esterno possono anche apparire azioni violente e reazioni di dolore. 96
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Allora è facile vedere che un attore sta mentendo: «È così che si comporta quando è libero, spontaneo, quando è insieme a qualcuno che ama, che lo accetta?». Nella realtà non accade quasi mai di sentirsi in una situazione di simile sicurezza fra più persone. È per questo – si potrebbe dire – che il teatro è finzione. Ma finzione non equivale a menzogna. Mentire, per un attore, è il trapiantare senza mediazioni, in maniera non dialettica, qualcosa che egli ritiene “autentico” in un contesto artificiale: il cerchio di finzione del teatro. 2.2. Comunicazione
Alla radice della parola “finzione” c’è il senso di “fare”, “dar forma”. Probabilmente all’origine indicava l’azione del vasaio che modellava la creta. Alla stessa maniera la bocca e la laringe modellano i suoni quando l’uomo vuole comunicare qualcosa e parlare (in latino: fari). L’attore si dà forma, e dà forma alla sua comunicazione attraverso la finzione, modellando la sua energia. In caso contrario è solo il supporto, l’attaccapanni per le comunicazioni d’altri. È nel momento in cui viene modellata, che l’energia dell’attore diviene qualcosa che può comunicarsi, qualcosa di pubblico. Similmente la creta può trasformarsi in un oggetto di scambio e di comunicazione quando è stata modellata e diventa vaso. L’energia – letteralmente: “entrare in lavoro” – è la mo97
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bilitazione delle nostre forze fisiche, psichiche, intellettuali, quando affrontano un compito, un problema, un ostacolo. È la capacità dell’individuo di intervenire nell’ambiente circostante, adattandosi ed adattandolo. È solo in rapporto a qualcosa di preciso che l’energia individuale si modella in un’azione precisa. Le numerose e complesse regole che sembrano bloccare in una corazza di segni prestabiliti gli attori e i danzatori dell’India e di Bali, della Cina e del Giappone, sono in realtà mezzi per modellare l’energia, trasformarla in comunicazione. È come se alcune regole generali, mai enunciate nella loro semplicità, venissero nascoste dietro una fitta rete di norme stilistiche. Qualcosa di simile è accaduto, a giudicare dalle immagini giunte fino a noi, anche per gli attori della Commedia dell’Arte, per i giullari, i jongleurs, i joglars medioevali, per gli attori greci. Esiste una logica che permette di modellare le energie. Per comprenderla, per utilizzarla come attore, non avrebbe senso, però, sottoporci ad un training fisico che proviene da forme teatrali di altre culture e che riplasma il corpo dell’attore fino a farlo coincidere con dei modelli che una società si è creata attraverso un lungo processo culturale. Noi possiamo partire dall’opposizione basilare che regola la nostra presenza biologica: l’opposizione tra il nostro peso che ci porta in basso e la spina dorsale che ci spinge in alto e ci tiene eretti. In questa opposizione c’è il primo seme drammatico. 98
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Quando un attore cerca la posizione “sicura” che gli permetta di conservare tranquillamente l’equilibrio, di “essere naturale”, in realtà fa scadere questa drammaticità e questa energia in forza d’inerzia, in entropia. Ma non appena comincia a spostare il suo equilibrio, a renderlo precario, tutta una serie di altre opposizioni scaturisce dall’opposizione tra peso e spina dorsale: diverse opposizioni fra diverse parti del corpo trasformano la sua massa in energia, rendono il corpo vivente. Dove c’è opposizione c’è vita, una dialettica fisica che lo spettatore percepisce, anche quando non sa scoprire delle intenzioni dietro le tensioni che modellano le energie dell’attore. C’è infatti, un primo livello della drammaticità dell’attore che non ha nulla a che vedere con categorie intellettuali e che riguarda solo il modo in cui egli manipola la sua energia. Attraverso il modo in cui sfrutta e compone il rapporto peso-equilibrio, l’opposizione dei movimenti, la composizione delle velocità e dei ritmi, l’attore permette allo spettatore non soltanto una diversa percezione del corpo, ma anche una diversa percezione del tempo e dello spazio. Non un “tempo nello spazio”, ma uno “spazio-tempo”. È solo padroneggiando l’opposizione materiale fra peso e spina dorsale, che l’attore padroneggia un metro, nel proprio lavoro, con il quale affrontare tutte le altre opposizioni fisiche, psicologiche, sociali che caratterizzano le situazioni che egli analizza e articola nel suo processo creativo. Il processo del padroneggiamento delle proprie energie 99
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è un processo estremamente lungo, un vero e proprio nuovo condizionamento. All’inizio l’attore è come un bambino che impara a camminare, a muoversi, che deve ripetere infinite volte i gesti più semplici per trasformarli da inerti movimenti in azioni. L’uso sociale del nostro corpo è necessariamente il risultato di una cultura. Esso è stato acculturato e colonizzato. Conosce solo gli usi e le prospettive per i quali è stato educato. Per trovarne altri deve distaccarsi dai suoi modelli. Deve fatalmente indirizzarsi verso una nuova forma di “cultura” dalla quale essere “colonizzato”. Ma questo passaggio fa scoprire all’attore la propria vita, la propria indipendenza e la propria eloquenza fisica. Gli esercizi del training rappresentano questa “seconda colonizzazione”. Non sostituiscono le ali dell’attore, ma le sbarre a cui egli può aggrapparsi e attraverso cui si esercita a passare per divenire padrone della propria forza. Così si impone, apparentemente, sempre nuove forme di “prigionia”. Per esempio: impedirsi di muovere le mani “ritrovandone” l’impulso nelle spalle, nel busto, nei fianchi; usare le gambe e i piedi come si usano le braccia e le mani per sottolineare e dar forza al discorso; concentrare un’azione che si svolgeva in un largo spazio, ma conservando la stessa carica d’energia, in pochi centimetri quadrati, o in una posizione seduta. Queste forme apparenti e volontarie di “prigionia” assomigliano alla apparente prigionia in cui è serrato il bambino quando inizia a muovere i primi passi sorretto da un girello. 100
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Spesso questo regresso all’impotenza infantile umilia l’attore. Esso si ritrova improvvisamente impacciato e impreciso alle prese con il proprio corpo, improvvisamente goffo e ridicolo, malgrado la sua età adulta, la sua intelligenza, e la fatica con cui si è costruito – come ognuno si costruisce – la sua apprezzabile persona pubblica. Questo momento di umiliazione è necessario e dura molto più a lungo dei momenti simili che è necessario attraversare se si vuole imparare una lingua, o, per esempio, imparare a sciare. Inoltre costituisce un ostacolo particolarmente grave per l’attore occidentale, che non lo attraversa – come l’attore orientale – nella sua prima adolescenza. Molti preferiscono, così, ritirarsi al sicuro, sotto la protezione delle doti che credono di possedere naturalmente. Dietro una reale o immaginaria piacevolezza o verosimiglianza nel modo di porgere il gesto e la parola, essi accarezzano lo spettatore senza fargli scoprire nulla di nuovo. Altri, che pure non si accontentano di questo, rifiutano la “banalità” del compito: semplicemente reimparare a muoversi. Vogliono, allora, scoprire gli “arcani” del corpo, le zone della potenza o dei centri di energia, così come sono stati individuati o raccontati da filosofie e dottrine occidentali o orientali. Così si seguono dei princìpi, delle teorie o delle mitologie invece che tenersi all’esperienza. Credono di poter attingere la propria vita di attore dai preziosi serbatoi dello yoga o di elaborati sistemi, e non dal proprio tempo e dalla propria fatica del proprio personale, monotono e banale lavoro. 101
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Gli esercizi del training non sono tesori di sapienza, segreti per essere espressivi o rivelare se stessi. Sono lavoro. Un esercizio è un’azione che uno apprende e che ripete dopo averla scelta, con degli obiettivi ben precisi. Ad esempio: se uno vuole inginocchiarsi con tutte e due le gambe contemporaneamente, ad un certo punto, scendendo verso terra, perde il controllo, il peso prende il sopravvento, e batte le ginocchia per terra. Il problema è allora trovare un controimpulso che permetta di andare per terra anche velocemente senza urtare con le ginocchia in modo da farsi male. Per risolvere questo problema, uno trova un esercizio che poi ripete. Un altro esercizio può nascere dal problema di come spostare l’equilibrio in avanti, fino al momento in cui non controlla più il peso del proprio corpo che, guidato soltanto dalla legge di gravità, cade come un corpo morto. In piena caduta, allora, occorre trovare un controimpulso che permetta di non cadere a faccia in giù, ma di planare di lato, in modo che il colpo sia preso, progressivamente, dalla parte laterale del corpo. Il senso di un esercizio sta, in fondo, nel compiere un’azione precisa che proietta tutte le energie in una determinata direzione, e – in pieno processo – dare un altro impulso, un’altra scarica di energia che costringe il movimento a deviare dalla sua traiettoria, e a concludersi in maniera altrettanto precisa. Così si costruiscono tutta una serie di esercizi che uno 102
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può imparare e ripetere come si ripetono i vocaboli di una lingua. All’inizio saranno ripetuti in maniera meccanica, come i vocaboli di una lingua straniera che si voglia apprendere. Poi saranno assorbiti, cominceranno a “venire da soli”; allora l’attore può scegliere. Anche con pochissimi esercizi può fare un lungo training. Non solo, infatti, gli esercizi possono essere ripetuti in un ordine differente, ma possono anche essere eseguiti con un ritmo differente, in differenti direzioni, in chiave estroversa o introversa, ponendo l’accento sull’una o sull’altra fase dell’esercizio. Ancora una volta: esattamente come nel linguaggio parlato, il significato di una frase non deriva solo dalla sua costruzione sintattica, ma anche dalle accentuazioni, dal tono che, in una frase, sottolinea determinate parole. Anche nel training sono gli accenti a determinare le diverse logiche di una stessa catena di esercizi, a far sì che si possa ripetere lo stesso esercizio in molti modi diversi. Quale è, allora, il valore dell’esercizio, una volta che l’attore lo padroneggia? Non serve più ripeterlo, perché ormai non è più una resistenza da superare. Entra in gioco, allora, l’altro senso della parola “esercizio”: mettere alla prova. Si mettono alla prova le proprie energie. Durante il training, l’attore può modellare, misurare, fare scoppiare e controllare le proprie energie, lasciarle andare e giocare con esse, come qualcosa di incandescente che, però, sa maneggiare con fredda precisione. Attraverso gli esercizi del training l’attore mette alla 103
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prova la sua capacità di raggiungere una condizione di presenza fisica totale, la condizione che poi dovrà ritrovare nel momento creativo dell’improvvisazione e dello spettacolo. Questa “presenza fisica totale” non ha nulla a che vedere con la violenza, con la pressione, con la ricerca della velocità a tutti i costi. L’attore può essere estremamente concentrato, quasi immobile, ma in questa immobilità tenere in mano tutte le sue energie, come un arco teso pronto a scattare. Noi chiamiamo con una parola scandinava – sats – l’energia raccolta su se stessa che è il punto di partenza per l’azione, il momento in cui concentriamo tutte le nostre forze prima di indirizzarle in un’azione. In qualsiasi azione il sats corrisponde, in dimensioni microscopiche, alla posizione di partenza del velocista. Il sats è caratterizzato da una carica di energia che va in direzione opposta al movimento da compiere, come quando si porta il peso in giù, prima di saltare, o si raccolgono le forze portando leggermente indietro il braccio, prima di dare un colpo in avanti. A ben vedere, le particolari posizioni di equilibrio nel teatro orientale sottolineano il sats, lo rendono più difficile e drammatico, accentuando la carica di energia che è in qualsiasi movimento. L’essenziale, per l’attore, non è eseguire un esercizio, ma – tramite l’esigenza di eseguire l’esercizio – trovare il momento del sats, l’opposizione 104
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base che, di azione in azione, caratterizza la dialettica del bios, dell’organismo vivente. Un esercizio vale l’altro, se rispetta le leggi, la dialettica della vita. In questo caso un esercizio è funzionale a tutti i livelli: rende fisicamente abile l’attore; gli permette di mettere alla prova e di padroneggiare le proprie energie; e – soprattutto – gli permette di comprendere, con una specie di intelligenza fisica, quale sia la logica per determinare le sue azioni. Questa comprensione sarà la stessa che lo guiderà nel lavoro creativo, nell’improvvisazione. Preso isolatamente, in sé, un esercizio non ha nessun valore, è come un vocabolo che non dice nulla e non serve a nulla, se non entra in una frase. Spesso il nostro modo di pensare la vita del nostro corpo si lascia guidare dall’immagine più banale della medicina: per ogni risultato che si voglia raggiungere, per ogni malanno che si voglia guarire o per ogni azione di difesa e di potenziamento per un organo bisognoso di aiuto, c’è un farmaco adatto allo scopo. Il legame farmaco-risultato sembra essere immediato e deterministicamente fissato, indipendentemente dall’intera vita del soggetto. Anche gli esercizi del training vengono a volte pensati così, come farmaci o come diete, come ricette che determinano questo o quel risultato. In realtà, quel che è veramente importante è il ritmo, la concatenazione di un esercizio con un altro, il modo organico in cui l’attore dirige questa concatenazione. Così 105
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come quando si parla non si pronunciano le parole staccate, ma la fine dell’una coincide con l’inizio dell’altra, in una serie di onde che rispecchiano il nostro ritmo emotivo, razionale, i momenti di rallentamento e di sospensione e i momenti di forza e di incisività. L’attore che esegue in maniera staccata, o con un ritmo sempre ripetuto, i diversi esercizi del training è come uno che ingurgita una dopo l’altra diverse medicine che in realtà non gli serviranno a nulla. L’uso “medicinale” del training è un controsenso: allontana l’attore dalla scoperta del proprio ritmo organico, da quella specie di danza in cui il corpo reagisce secondo la propria logica “emotiva, così come la voce nel canto. Il training non ha uno scopo utilitario. È l’amplificazione della vita del nostro corpo. Ciò che caratterizza questa vita è che essa segue onde ben precise. La precisione è il segno di un’energia organicamente finalizzata: se le nostre azioni potessero essere messe sotto un microscopio, si dovrebbe poter distinguere nettamente qual è l’inizio e qual è la fine di ognuna di esse, così come nel flusso del discorso chi parla conosce esattamente i confini netti e precisi tra una parola e l’altra. In fondo è quel che Mejerchol’d affermava: in ogni suo movimento l’attore deve conoscere esattamente il momento di preparazione, quello dell’azione e la fine. Il carattere pretestuoso degli esercizi, il loro essere dei puri mezzi, inefficaci se isolati, appare particolarmente evidente negli esercizi di acrobatica. 106
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Gli esercizi di acrobatica sono, all’Odin, l’esempio di un qualcosa necessario per il lavoro dell’attore, e nello stesso tempo privo, in sé, di valore. Innanzi tutto, sono per lui la prova lampante che si possono raggiungere dei risultati che solo poco prima gli sembravano lontani e quasi irraggiungibili. Sono come un’assicurazione. Perché, anche se gli è stato detto che non sono i risultati che contano, ma il processo, anche se sa tutto questo teoricamente, è sempre difficile, in pratica, lavorare in un campo dove si vedranno i primi risultati solo dopo due o tre anni. Con gli esercizi di acrobatica, invece, si ottengono dei risultati molto spettacolari in breve tempo. Questo dà la sensazione di “poter riuscire”. Sono un po’ come una stampella psicologica. Gli esercizi di acrobatica, inoltre, permettono di spiegare in forma tangibile cosa significhi prendere in mano le proprie energie, farle esplodere, e poi riprenderle di nuovo in mano. All’inizio il problema sembra essere solo quello di superare, a livello psicologico, la paura, la sensazione di non essere capace. Poi uno riesce ad eseguire l’esercizio, concentrandosi per superare la difficoltà “acrobatica”, non preoccupandosi però di come arriva a terra. Allora proprio questo deve diventare importante: finire un esercizio in modo che la sua fine sia già il sats, l’inizio dell’esercizio seguente. Il segreto dell’esercizio acrobatico, a questo punto, sta nel concentrarsi sulla sua fine. È evidente che la caduta non può essere trattenuta, il 107
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corpo ad un certo punto precipita. Allora, occorre un’altra carica di energia, un controimpulso che permette di contrastare la forza di gravità, così che il momento della caduta contenga già l’impulso per riprendere il volo. Tutto questo fa conoscere e sperimentare quel che è forse la cosa più difficile: trovare il momento di nuovi sats durante il percorso, quando si è in aria, senza appoggi per terra. L’acrobatica, come in genere il training, non è un accumulo di materiali per lo spettacolo: è il passaggio da una cultura fisica ad un’altra. Anche se questa nuova cultura fisica è stata elaborata da altri, uno può impadronirsene, assorbendola fino a trasformarla in energia propria. In realtà, tutti gli esercizi fisici sono esercizi spirituali, riguardano lo sviluppo della totalità dell’uomo, il modo in cui far scaturire e controllare tutte le proprie energie psichiche e mentali, quelle di cui ci rendiamo conto, che possiamo formulare a parole, e quelle di cui non sappiamo dire nulla. Così, ancora una volta, il training è l’esercizio del comunicare, del mettersi in grado di allacciare rapporti con l’esterno, lavorando in libertà, in una situazione in cui non ci si sente più divisi fra l’intenzione e l’azione. È un processo che scava canali di comunicazione, un gioco di pazienza per inventarsi la propria lingua, per scoprire la propria logica. Questa “intelligenza fisica” permette all’attore di con108
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quistare un’autonomia personale, una libertà d’azione che, attraverso il processo creativo su uno spettacolo, diventa azione sociale, pubblica.
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2.3. Creatività
Il processo creativo dell’attore può essere un processo condotto a freddo. Egli può scomporre il suo corpo in diverse parti e ricomporlo ottenendo degli effetti drammatici, una situazione di conflitto, oppure introversione ed estroversione, facendo dialogare fra loro diverse parti del corpo. Attraverso una dialettica fisica costruisce un’immagine spettacolare che rende visibile le tensioni emotive, concettuali, psicologiche. In questi casi l’attore compone la sua “persona”, sfrutta la sua capacità di modellare le proprie energie, e – come un burattinaio nascosto – muove una immagine più suggestiva e rivelatrice delle immagini della realtà quotidiana. In questo caso l’arte dell’attore, il suo processo creativo è simile a quello che un tempo caratterizzava il processo creativo del letterato e del pittore, la cui arte consisteva nel saper manipolare la tensione fra disciplina tecnica (le regole della composizione) e varietà e innovazione (la creatività in senso stretto). Ma quando oggi un attore parla di “creatività” intende qualcosa di diverso. Egli immagina una sorta di creazione diretta, in prima persona, a cui spesso dà il nome di improvvisazione. Un “fare qualsiasi 109
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cosa” per “rivelare i lati nascosti”, “liberare se stesso” in un processo che obiettivamente (cioè visto dal di fuori) fa trapelare inerti energie in movimenti fortuiti, suoni inarticolati, modi di comportarsi fossilizzati. Non ha nulla a che vedere con l’improvvisazione che caratterizzava la recitazione degli attori del passato, specialmente nella Commedia dell’Arte, che era piuttosto simile a ciò che noi oggi chiamiamo composizione. Il mettere insieme lunghe citazioni di testi classici e giochi di parole, situazioni e soluzioni sceniche, poesie e lazzi che venivano appresi e provati prima per essere inseriti nello spettacolo secondo i bisogni e le circostanze. C’è poi un terzo senso che si può dare al termine “improvvisazione”. Non il montaggio improvvisato di materiali precostituiti, non una sorta di creazione diretta, in prima persona, ma un processo attraverso cui vengono fatti affiorare dei materiali grezzi, da cui verranno tagliati i blocchi di pietra con cui costruire lo spettacolo. L’improvvisazione in questo senso è un processo creativo allo stato grezzo in cui l’attore abbandona la sua tecnica – il territorio del training – prima di saltare in ciò che costituisce il campo vero e proprio della sua arte, della sua azione sociale. Ciò che caratterizza il lavoro di improvvisazione è una situazione etica, una certa qualità nei rapporti di gruppo, determinate condizioni di lavoro (lungo tempo a disposizione, concentrazione, sicurezza, riservatezza) di cui è difficile parlare. È impossibile descrivere a parole come – date certe condizioni – la fantasia di un 110
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gruppo di persone può mettersi in moto secondo un suo ritmo organico, salendo e scendendo, passando attraverso lunghi periodi di monotonia, improvvise accensioni, nell’accanimento intorno ad un particolare, all’invenzione di qualcosa di nuovo. Tutto ciò che accade, accade entro quel numero limitato di persone, in una situazione di temporaneo isolamento. L’esterno sembra non aver accesso. È la stessa percezione del tempo e della nostra presenza che cambia, e ci si sente come i membri di una spedizione alpinistica chiusi nella vita quotidiana rarefatta di un minuscolo campo-base. In fondo la traccia migliore o più fedele di questa situazione la si trova non quando si cerca di raccontarla, ma quando si vede come essa incida direttamente sulla comunicazione sul lavoro. Quando, cioè, il materiale dell’improvvisazione non è un materiale fisico, ma verbale. In genere è il “regista” ad agire con le parole. Quel che egli fa non è sostanzialmente diverso da ciò che fa l’attore. Non racconta quel che l’attore deve fare, costituisce piuttosto un analogo verbale alle improvvisazioni dell’attore. Riporterò qui due frammenti di diario, due relitti quasi, che si riferiscono a due nostre sedute di lavoro di alcuni anni fa. I rapporti si invertono: non sono più io a registrare quel che gli attori fanno, ma sono gli attori che registrano ciò che io dico. In questo caso, il punto di vista si sposta dal regista all’attrice, Iben Nagel Rasmussen, una compagna di molti anni di lavoro. 111
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Dal diario di Iben Nagel Rasmussen
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3 maggio 1974
Iniziamo il lavoro per il nuovo spettacolo. Fra pochi giorni partiamo per l’Italia del Sud, andremo a vivere a Carpignano. Facciamo le prime improvvisazioni per il nuovo spettacolo qui ad Holstebro, nella sala bianca. Eugenio ci dà il tema per l’improvvisazione. Ma questa volta non è, come al solito, una frase di poche parole. Eugenio fa un lungo racconto. Ogni tanto si ferma, cerca con gli occhi nella sala, è come se vedesse qualcosa, e allora il racconto cambia direzione. A volte sembra procedere a caso. Improvvisamente è come se trovasse dove andare. Eugenio: Ho sognato che mi ero vestito molto elegante, e avevo vestito molto eleganti i miei figli. Ed ero tornato al mio paese. Era da molto che non vi ritornavo, ed era la prima volta che vi portavo i miei bambini. Avevo anche tagliato i loro capelli lunghi. Allora andai in strada. Sulla via principale del paese incontravo molte persone che, nonostante il tempo trascorso, potevo riconoscere. Ma loro sembravano non riconoscermi. Mi passavano oltre, l’uno dopo l’altro. Fermai uno di loro, ero sicuro che mi aveva riconosciuto, anche se non mi aveva salutato. Gli domandai: – Perché non mi salutate? Perché non salutate i miei figli? 112
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– Non sono i tuoi figli – rispose. – Come non sono i miei figli? Sono sì i miei figli. – No – rispose. – Qui abbiamo visto le foto dei tuoi bambini. Sono molto differenti. I tuoi veri bambini hanno i capelli lunghi. Si allontanò. E anch’io mi allontanai, passeggiando via dall’uomo che avevo incontrato nel sogno, e vidi che piangevo. L’uomo, allora, mi si è riavvicinato e mi ha chiesto: – Perché piangi? Gli ho indicato i miei bambini e gli ho detto: – Vedi, neanche io so se questi sono i miei figli. (Lunga pausa) Venti anni possono essere lunghi. Quaranta sono quasi la vita di un uomo. L’uomo o la donna ritorna al suo paese natale. Forse ha indossato i suoi vestiti migliori. Forse ha tagliato i capelli alle persone che lo accompagnano. Si addentra, e vi sono due, no, tre cose che rivede chiaramente. Una è un minuscolo lago, come uno di quei laghetti finlandesi, pressappoco così (Indica una parte del pavimento) questo è un laghetto. Lui-o-lei veniva spesso sulle rive di questo lago, oppure vi faceva il bagno. Quando lui-o-lei ritorna a questo posto i suoi sensi rievocano l’immagine netta di come quel lago mai aveva accettato la sua volontà. Quale era la sua volontà? Quando lui-o-lei si immergeva in quel lago era come se lui-o-lei desiderasse di tenere tut113
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to intero il laghetto dentro di sé per conservarlo, rinchiuderlo, catturare l’acqua e i colori nell’acqua, e la donna e l’uomo che...
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(Ride) e soprattutto l’istante. Quando ritorna a quel lago è come se questo riflettesse la sua vana lotta per fermare, fermarsi. Si specchia nel lago e lui-o-lei vede qualcuno che è invecchiato, incanutito, il cui viso è pieno di rughe grigie. E che fa? Che fa quest’uomo o questa donna? (Lunga pausa) Arriva ad una casa. In realtà quest’uomo o questa donna proviene da Cana, una volta ci viveva, ma col tempo non vi è più ricordo. Lui-o-lei non è in grado di sapere se è di Cana oppure di un altro paese. Ma lui-o-lei accetta questo, sa che non è la cosa più importante. La cosa più importante si trova in un altro posto. Entra in questa casa. No, non entra in questa casa, sente una melodia. Non gli è chiaro se sente questa melodia perché qualcuno la canta oppure perché il posto involontariamente gli fa ritrovare questa melodia; la canzone è “La giovane Aaslau”, sapete, la ballata norvegese. No: scopre qualcosa di strano, al centro della piazza – un tavolo. Questo tavolo deve essere lì da molto tempo. Lui-o-lei domanda: – Cos’è questo tavolo? Rispondono che si racconta che è successo molto tempo fa, ma la gente è tuttavia in forte dubbio. Secondo qualcu114
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no, si tenne lì un grande sposalizio. C’erano tanti invitati che non fu possibile averli tutti a casa. Allora si dovette porre il tavolo fuori, sulla strada o sulla piazza, e allora – capisci? – ad un certo punto qualcosa accadde in questo sposalizio. – Che accadde? – chiede. – Sì, proprio questo è il problema, perché la maggior parte della gente ha provato a dimenticare. È stato qualcosa di talmente penoso per l’onore del paese che il meglio da fare era dimenticarselo. Ma alla fine ci si è dimenticati solo di portar via il tavolo. Allora... si siede al tavolo. E su quel tavolo (Mostra la cassa di legno in mezzo alla sala) ci sono molti oggetti, anche le vostre maschere. Si siede a quel tavolo e, naturalmente, stanco com’è, piomba nel sonno. Sogna? Da vecchio, da vecchia ritorna al suo paese. Va dove c’è l’acqua. Una cosa è sicura, sente che l’acqua viene sul suo corpo. È perché la vecchiaia lo possiede? Perché la gente non lo conosce e, secondo l’antica usanza, accoglie lo straniero lavandogli i piedi? È per questo? Arriva e una ragazza, un ragazzo, guarda questo vecchio straniero e dice: – Benvenuto straniero. E gli dà il segno del benvenuto, che può trovare riposo. Forse lava i suoi piedi. Ma questo cos’è? Un pozzo dove si attinge acqua da bere? Cos’è esattamente? Ha qualcosa a che fare con l’acqua. È chiaro, il ritorno lo lava, la lava, e quando si è purificato con l’acqua va e si siede a tavola. 115
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Nel momento in cui tocca questo tavolo, quel che è successo durante quello sposalizio ritorna. Anche lui-o-lei c’è. Era seduto a questo tavolo, allo stesso posto, e mentre è seduto lì (sogna?) è come se qualcuno lo tiri per la manica e dica: – Nonna, zio cosa successe esattamente? E lui-o-lei risponde: – Vedi, qui sedeva un grassone ed era così – e lo descrive –, si muoveva così, agitava il bicchiere in questo modo, gesticolava, cantava così. E l’uomo o la donna fa tutto questo mentre racconta, diventa il grassone, si mette la maschera che è sulla tavola e agisce dietro di essa. Poi il prossimo. Il prossimo era una donna tubercolotica, pallida, che tossiva tutto il tempo e sputava sangue, e avrebbe voluto nasconderlo, avrebbe voluto divertirsi, così beveva tutto il tempo per nascondere gli attacchi di tosse. In realtà, invece di bere, sputava sangue nel bicchiere. Così lui-o-lei diventa la donna tubercolotica, si mette la maschera, agisce. E il terzo era... E il quarto... Tutte le persone. Quanti ce n’erano seduti a quel tavolo? Probabilmente molti. E qualcosa avviene intorno a questo tavolo, e lui-o-lei cerca con cura, trova. Questo è il tema. È chiaro? (Lo ripete in maniera più concentrata) C’è una cosa che ho dimenticato: quando lui-o-lei si siede a tavola sente innalzarsi la canzone “La giovane Aaslau”. 116
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6 maggio 1974
Eugenio: Tutto questo rassomiglia, anzi è, una guerra di posizione, dove uno si trova al riparo e sa che passerà molto tempo, prima che abbia luogo la battaglia decisiva. Ma ogni volta che uno esce allo scoperto, deve credere che questa battaglia è quella finale. Cioè, ogni improvvisazione deve avere il carattere di: battaglia finale. Non lasciate che l’improvvisazione si trasformi in una routine, su cui incidano la stanchezza, l’abitudine o altri fattori. È evidente che questi fattori incidono. Ma non permettete che vi inducano in un errore di calcolo, impedendovi di agire al momento giusto. (Iben: Ognuno di noi sceglie un personaggio come compagno di viaggio. Ne parliamo un po’. Torgeir sceglie il nano del romanzo di Lagerkvist, Reidar sceglie Ulisse, Odd sceglie Peer Gynt, Ragnar Giobbe, non mi ricordo cosa abbia scelto Elsa, Jens sceglie Don Juan, io scelgo il folle Nijinskij. Facciamo alcune improvvisazioni. Poi Eugenio commenta:) Eugenio: Ultimamente ho detto più volte: lasciarsi andare, e nello stesso tempo avere il controllo di sé. Lo ripeto, perché è molto importante comprendere la vita interna di un’improvvisazione, le sue forze e le sue linee di sviluppo. Per esempio, se prima di un’improvvisazione faccio un lungo discorso, malgrado la quantità di parole, ci sono delle informazioni ben precise. Potrei racchiuderle in tre frasi, quel che potremmo chiamare il tema da cui partire per l’im117
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provvisazione. Ma queste tre frasi sono come una delle poesie di Harry Martinson, quando era marinaio, dove lui cita una serie di nomi: Jokohama, Palenbang, Sidney, Singapoor, e altri porti lontani. È il viaggio di una nave, con le sue tappe precise, è l’indicazione di una rotta ben definita. Ma come si svolge il viaggio, le bonacce e le tempeste, gli avvenimenti fra un porto e l’altro, tutto questo non lo sappiamo. Siete voi stessi a riempire i vuoti, a deciderlo. Ma la rotta deve essere seguita. Ancora una volta: se il tema, se la rotta non viene seguita, non esiste possibilità di intervento da parte vostra, non potete rendervi conto se siete o no arrivati in porto. Cosa vuol dire arrivare in porto? Durante l’ultima improvvisazione ho potuto vedere come alcuni di voi si lasciassero guidare dal tema. Potevo immediatamente percepire a che stadio del tema si trovassero. Non che comprendessi quel che facevano – la cosa non mi interessa – ma potevo seguire il loro processo. Se io non posso seguire questo processo, mi sento perduto, perduto nel senso che non posso aiutarvi. In questo caso, infatti, che cosa succede? C’è una serie di avvenimenti fortuiti che io non posso mettere in rapporto con nulla. Facciamo un esempio: qualcuno deve rappresentare Ofelia. Il personaggio di Ofelia, allora, offre come punto di riferimento una certa sensibilità, un certo comportamento: la dolcezza di sorella, la sottomissione di figlia, la follia per amore. Ma se la passione di Ofelia, portata al suo eccesso, incontra l’eccesso di un’altra passione di un’altra donna 118
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shakespeariana – Lady Macbeth – allora la figlia di Polonia può presentare le sue reazioni con l’ombra di altre reazioni, quelle di una donna forte, risoluta, decisa. Ma queste nuances ci sorprendono perché deviano, rendono come estraneo, nuovo, il punto di riferimento prestabilito e riconoscibile. Se non esiste un punto di riferimento, allora tutto è possibile. Cioè niente è possibile. Come quando si dice: la vita è teatro, il teatro è vita. Quando lo abbiamo detto non abbiamo fatto nessun passo avanti. Bisogna comprendere bene cosa significhi seguire il tema. Non significa illustrare, rappresentare il tema. Significa averlo sempre presente come punto di riferimento. È il Nord che ci permette di orientarci in tutte le direzioni, di “fare il punto”. Se uno non lo ha, rischia di restare prigioniero di una forma di recitazione che scimmiotta la realtà, o che diventa una pessima forma di psicodramma. Quando dico pessima forma di psicodramma, è perché non è neanche estrema, eccessiva. Nell’improvvisazione si verificano sempre alcuni automatismi. Quando si improvvisa regolarmente, subentrano sempre degli automatismi che si impadroniscono dell’attore. Quali sono le conseguenze di questi automatismi? Innanzitutto una “maniera” particolare di muoversi che si ripete di continuo. Per esempio, qualunque sia il tema, si può no119
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tare che il vostro ritmo, le posizioni dei piedi e delle gambe tendono a ripetersi, che uno ha tendenza a piegarsi in un determinato modo, a girarsi, a tirarsi indietro in un determinato modo. Si ripete sempre lo stesso modello, un automatismo che non controllate e che vi controlla. Da che cosa dipende? Dal di fuori lo si sente come una chiara differenza tra l’immagine che voi avete, e il modo in cui essa si manifesta. Sono come due binari che vanno nella stessa direzione ma non si incontrano. Durante l’ultima improvvisazione ho avuto la sensazione netta di che cosa sia il teatro. Il teatro non è quel che un tempo dicevo, cioè dire la verità. Il teatro è un vuoto di verità, è il massimo grado di finzione. Se uno non parte da qui, penso che rimanga bloccato in un territorio molto sterile. Cos’è questo vuoto di verità? Anche se voi scegliete le esperienze più intime, le più dolorose, le più gioiose, non sono esperienze vive, che si svolgono in questo momento, non è la vostra situazione attuale. Possono essere ricordi, ceneri di qualcosa che fu fuoco, oppure qualcosa che corrisponde ai sogni ad occhi aperti o alle immagini di un ragazzo o di una ragazza nell’età della pubertà. Ma tutto questo che è effimero, che non è reale, può trasformarsi, deve trasformarsi in qualcos’altro. Se non si trasforma in qualcosa d’altro, allora si ferma allo stadio della finzione che è solo menzogna. Concretamente: se un attore si limita a camminare non 120
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mi dice nulla oltre il fatto che sta camminando. Ci deve essere qualcosa nel suo modo di camminare (di questo l’attore può essere cosciente o incosciente) che mi fa fermare lo sguardo su di lui, che mi fa dedurre determinate immagini, determinati pensieri. L’attore manipola in maniera fredda questa situazione. Ma se la porta alle sue estreme conseguenze non può evitare di far intravedere, dietro questa finzione, qualcosa d’altro. Se uno di noi comincia a mentire, più mente più si avvicina ad una verità su di sé, che lo rivela. Quel che qui sperimentiamo è la legge dei contrari. Qualcuno di voi vuole dire, in tutti i modi, qualcosa di decisivo, di importante. E forse lo dice. Però dall’esterno non lo si percepisce. Perché non lo si percepisce? Perché manca qualcosa, una logica che si rivela attraverso la precisione: non c’è percezione perché non c’è precisione. Perché cadete in quegli automatismi? Come li si può combattere? Come può l’improvvisazione essere qualcosa che conosciamo molto bene, con la quale siamo quotidianamente in contatto, e che tuttavia agisce ogni volta come un forte stimolo? Spesso le vostre improvvisazioni sono soffocate. Non tutte. In alcuni casi più, in altri meno. Si intuisce che c’è qualcosa, ma non viene fuori, oppure trabocca in maniera informe. C’è qualcosa dietro le vostre improvvisazioni, so che esiste un senso per voi, ma questo senso non viene tagliato in pietre precise che, l’una in relazione all’altra, siano in grado 121
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di creare l’arco del ponte, il passaggio dalla vostra riva all’altra: lo spettatore. Nell’improvvisazione informe l’una e l’altra riva restano nascoste dietro la polvere del ponte che crolla. La forza di certe vostre improvvisazioni è di tutto un altro tipo di quella del training. Anche se il training ha anch’esso la tendenza a cadere in forme di automatismo, a volte viene fuori una specie di fiammata. Nelle improvvisazioni, invece, spesso è come se voi vi muoveste in un mondo alla Werther – il giovane Werther, gotico, romantico che soffre...: tutta un’atmosfera opprimente. D’accordo il mondo è opprimente, con tutto quel che ne consegue. Ma c’è una cosa che manca in questa oppressione: la sua forza vitale. Le vostre improvvisazioni hanno perduto la forza di attrazione che affascina e nello stesso tempo spaventa. Trattate l’improvvisazione come una forma di quotidianità. Ed è quotidianità. Ma dobbiamo essere furbi perché se trasformiamo l’improvvisazione in una forma di quotidianità, il risultato è solo quotidianità. Credo che in un modo o nell’altro uno si debba preparare all’improvvisazione, non solo quando entriamo nella sala, ma anche prima, durante il giorno, in maniera molto consapevole. Ci troviamo in uno stadio dove cerchiamo di conoscere il terreno prima di entrarci: cosa posso fare su questo terreno? È possibile percepire se stessi in un altro modo? È possibile incontrare una persona che sia noi stessi, eppure sconosciuta? Il proprio corpo di diamante, il terzo occhio, l’androgino, l’homunculus, il nano? Ma con una tale chiarezza di 122
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realtà che uno è spaventato. Naturalmente è ridicolo tutto questo, perché uno non è spaventato. Ma se uno non trova la chiave per la porta da aprire per chiudersi nel buio qualsiasi incontro è possibile, allora, se non troviamo questa chiave, rimarremo sempre alla luce del giorno, dove riconosciamo tutto, sappiamo già tutto. È inutile che, alla luce del giorno, facciamo finta di essere spaventati. In realtà non lo siamo. Naturalmente, non è necessario che dietro questa porta, nel buio, ci sia qualche cosa di orribile. Spaventoso può essere quando uno è così felice che non può più reggere, come una corda di violino che sta per spezzarsi. Questo è spaventoso. Spaventosa è l’esperienza schiacciante di Dio, della donna che i mistici e gli amanti vivono come un momento di terrore, come un fiume che riceve l’oceano dentro di sé, qualcosa che dà le vertigini, un’ebbrezza, un senso di realizzazione e annichilimento. Bisogna essere furbi. Non si può venire qui facendo affidamento in forze che non siamo in grado di tirare fuori completamente. Fidando sulla capacità di acuire le nostre forze nervose, quel che si potrebbe chiamare un fecondo stato di coscienza. Non siamo capaci di questo nel nostro mondo, nella nostra cultura. Dobbiamo trovare altri sentieri, attaccare da un altro lato. La nostra fonte fertile è qualcosa di differente dalla realtà: chiamiamola fantasia. Quel che noi chiamiamo fantasia è come un polmone che inspira alcuni elementi oggettivi: un cavallo che viene frustato sulla strada, una ragazza di quattordici anni che ha degli occhi che sembrano delle noci che uno ha voglia di schiacciare... 123
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non importa che cosa. Questo polmone è esattamente come i nostri polmoni che inalano sostanze chimiche, ossigeno, azoto e le trasformano in qualcosa che è difficile da definire, la vita, che nessuno scienziato ha saputo spiegare esattamente. Questo è la fantasia, questo polmone che si imbeve di tutti questi fenomeni obiettivi e li trasforma in qualcosa d’altro, che è la nostra vita interiore. Ed è questo che si tratta di saper “sfruttare”, ciò che possiamo chiamare la nostra mitologia, le nostre rappresentazioni, le nostre immagini. Fate attenzione, tutto questo può benissimo essere finzione. Io posso benissimo stare qui a raccontarvi una storia, e generalmente, quando racconto una storia, la racconto ben cosciente che attraverso questa storia io rivelo qualcosa di me stesso, anche se questa storia è completamente inventata. Quando lascio fluire il mio discorso, so che anche se cerco di nascondermi dietro le parole, e cerco di dar loro un significato intellettuale ben preciso, tuttavia, dietro ogni parola c’è una testa che fa capolino. L’arte è fingere. E questo vuol dire: l’arte è, attraverso la finzione, saper costruire una verità. Cercate, con le improvvisazioni, di chiarificare a voi stessi questo processo. Cercate di combattere gli automatismi che fanno che voi camminiate sempre allo stesso modo, vi muoviate sempre allo stesso modo, semplicemente perché camminare è soltanto camminare, bere un bicchier d’acqua è soltanto bere un bicchier d’acqua. Voi attraversate la soglia dell’improvvisazione. Come ci si 124
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può lasciar andare, attraverso la finzione, e rimanere sempre al timone, attenti ai dettagli, alla logica di una rotta che vi appartiene? I due frammenti di diario, le parole registrate, sono abbastanza lontani perché oggi possa commentarli come oggetti che non mi appartengono più. Essi possono far intendere, meglio di una descrizione, cosa sia il processo creativo dell’attore nell’improvvisazione. È un processo assai simile a quello che si vede testimoniato dalle parole registrate che, proprio perché parole, possono essere conservate e trasmesse senza perdere il loro valore di documento. I due brani mostrano due momenti che sono presenti anche nel lavoro dell’attore: da una parte un lasciarsi andare, un sentirsi libero e sicuro di dire (fare) anche le cose più strane, ingiustificate, personali; dall’altra un’analisi meticolosa, uno sguardo da sergente che sottopone tutto ad un esame freddo, senza sentimento, spietato nel senso di non tener conto di nulla se non dei dati obiettivi. È nell’equilibrio fra calore e freddezza, fra ingenuità e disincanto, fra “religione” e “ateismo” che il lavoro creativo dell’attore (del regista, del gruppo) si sviluppa. All’interno di ognuno dei singoli brani si può ritrovare la compresenza di questi due momenti. Il primo – una vera e propria improvvisazione verbale – mostra, però, una certa cura e una certa tecnica del 125
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racconto, una specie di cautela, avvertibile qua e là, per cui chi racconta sorveglia le sue parole, maschera – con immagini che depistino l’ascoltatore – i bivii e i nodi che sarebbero troppo rivelatori, in cui il racconto diventerebbe troppo esplicito ed autobiografico. Se il racconto è “sincero”, lo è perché si batte continuamente contro la tentazione d’essere spontaneo, non sorvegliato, di crollare in una confessione personale che isola, che non permette di raggiungere l’altra riva. Il secondo brano, malgrado il suo tono freddo, raziocinante, spesso sembra nutrirsi di un mondo di immagini personali, alogico, arbitrario. Ma questa apparente alogicità, questa arbitrarietà non è altro che la nostra logica individuale. Possiamo chiaramente motivarla a noi stessi anche se sappiamo che sarebbe ridicolo cercare di motivarla agli altri. Questa apparente alogicità, però, deve trasformarsi subito in qualcosa di oggettivo, in ragioni obiettive. Così il lavoro dell’attore può essere eseguito a freddo, può tendere a risultati molto ben definiti e programmati, ma non deve esaurirsi tutto in questa superficie di esecuzione, sia pure altamente professionistica; deve lasciare intravedere dietro, come un’ombra, l’universo emotivo, personale e irripetibile di un individuo presente in prima persona. L’elemento personale non può mai essere in primo piano, neppure quando l’attore improvvisa. Ciò che sfaccetta l’azione dell’attore, dà forma alla sua arte – o alla sua ambiguità – è la dialettica fra il “personale” e il 126
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“pubblico”. Ma è l’obiettività della sua azione che innanzi tutto conta. La sua presenza in prima persona è l’ombra, l’eco che dà vita al corpo, alla voce, ma che non è nulla se non ombra o eco, appunto, di un corpo e di una voce sperimentabili, dall’esterno, in tutta la loro oggettività. Gli spettatori hanno spesso la tendenza ad identificare l’individualità dell’attore attraverso le sue azioni teatrali. Quanto più queste sono efficaci e appaiono “spontanee” allo spettatore, tanto più questi è portato ad interpretare il teatro come una sorta di psicodramma particolarmente ben riuscito. È un errore di ottica che a volte passa dallo spettatore all’attore stesso, il quale crede che la sua forza di attore, la sua efficacia dipenda da quanto di personale, di importante, di incandescente riuscirà a dire (a “liberare”) nelle improvvisazioni. Quel che decide della forza di un’improvvisazione non è il suo grado di drammaticità, ma la sua precisione. L’attore può reagire ad un mondo immaginario estremamente semplice, persino quotidiano e banale, un mondo che può al limite non interessargli affatto, ma che ricostruisce per le esigenze del suo lavoro. Se però egli lo costruisce con precisione, se si muove in esso con precisione, allora ciò che fa assume senso per chi lo guarda. Non si insisterà mai abbastanza sui rischi della personalizzazione nel lavoro dell’attore, sui rischi di una concezione psicologistica che non fa che ripercorrere i vecchi preconcetti e le vecchie mitologie sull’attore. Rischi che 127
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diventano addirittura deleteri, capaci di distruggere ogni possibilità di creazione, quando il regista si lascia attrarre dalla tentazione luciferina di lavorare sul livello personale degli attori. Questa, in fondo, può essere l’unica “regola” che deve guidare il lavoro dell’attore e del regista nelle improvvisazioni: “quel che conta è il risultato obiettivo: le azioni, non le intenzioni”. Per il resto non esistono regole, né tabù. L’attore – come il regista – deve nutrire un’atteggiamento assolutamente spregiudicato nei confronti della sua arte, una specie di amoralismo che gli permetta di indirizzarsi verso l’essenziale. Alcuni attori lavorano in uno stato di tensione e coinvolgimento emotivo, altri lavorano a freddo, in una situazione di cosciente e voluta menzogna. Alcuni si costruiscono una precisa linea d’azione, altri procedono a caso, lasciando, quasi, che siano le circostanze a decidere. Tutto questo non è importante. Importante è che nel processo ci sia una logica, che la logica abbia un preciso punto di partenza e si traduca in precise azioni fisiche. Nell’“improvvisazione verbale” riportata più sopra tutto ciò era chiaro. Non si trattava di un “racconto”, ma di un “raccontare” attraverso una serie di andirivieni, dubbi, cambiamenti di strada, mutamenti di tono, contraddizioni che partivano da un punto “non importa quale”, che forse aveva senso solo per chi parlava, ma era qualcosa di preciso, di netto, una stazione ben costruita da cui può iniziare un viaggio. Ma il viaggio, nel suo percorso, non 128
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riproduce l’immagine né ritrova l’atmosfera della stazione di partenza. L’importante è partire, e finire molto lontani dal punto in cui si era iniziato. Finire in qualcosa, però, che abbia senso per gli altri e da cui gli altri, a loro volta, possano partire. È questa dialettica che caratterizza il rapporto registaattori, attori-regista, spettacolo-spettatori. È un rapporto di traduzioni e tradimenti continui in cui l’uno parte dal punto in cui l’altro è arrivato. Non è importante “capirsi” né trasmettere qualcosa di identico per tutti. È importante costruire il ponte, scoprire le relazioni, crearne d’altre: mettere in azione, permettere una reazione. Lo spettatore “tradisce” lo spettacolo (attori e regista) quando ne traduce le immagini nel proprio modo di immaginare, di pensare, di giudicare e di vedere. L’attore “tradisce” il regista quando colora in maniera personale la struttura dello spettacolo, quando si batte contro la partitura di azioni e reazioni rigidamente fissate come contro una rete da far crollare, con un’energia che fa mutare di senso ad ogni segno, che lo rende ambiguo, e che appare allo spettatore esattamente il contrario di quello che è: l’energia di un’azione improvvisata, che nasce sul momento. Così, per un errore ottico identico, quanto più un arco spinge verso il basso, tanto più sembra percorso da forze che lo spingono in alto. Il regista “tradisce” le intenzioni degli attori quando “oggettivizza” e monta le loro azioni o frammenti di esse nello spettacolo. Una mitologia delle improvvisazioni fa 129
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spesso credere che in esse si racchiudano dei “significati” con i quali lavori il regista. In realtà le improvvisazioni costituiscono solo la materia prima dello spettacolo, le pietre e i mattoni che, a seconda delle esigenze del montaggio, e non della loro interna essenza, verranno tagliati in questo o quest’altro modo, usati per questa o quest’altra parte dell’edificio. Ciò non significa svalutare il lavoro delle improvvisazioni. È dalla qualità dei materiali improvvisati che dipende, in gran parte, la qualità dello spettacolo. È dalla logica e dal rigore con cui l’attore lavora sui suoi materiali che dipende, per lui, la possibilità di prolungare il proprio processo creativo nello spettacolo definitivamente fissato, ogni sera. Solo se il mattone, la pietra dell’improvvisazione è carica di energia, essa può continuare ad appartenere all’attore anche dopo che è stata utilizzata dal regista. Questa carica di vita, di autonomia, si scontra, percorre e trasforma a sua volta la logica e il montaggio del regista. Ancora una volta è la tensione che decide della vita dell’organismo teatrale. L’espropriazione, qui, non paga. Se l’attore lascia che i suoi materiali gli vengano completamente espropriati dal regista, quel che attori e regista si troveranno in mano sarà solo un pugno di sabbia. Ma non paga neppure il pacifismo, l’umanitarismo: se il regista non cerca di appropriarsi in modo personale del lavoro creativo dell’attore, questo rimane allo stato molecolare, la sabbia di un’aiuola privata. 130
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Uno spettacolo è, in realtà, il risultato di uno scontro che si svolge in una situazione di accettazione e di fiducia reciproche. Da questa dialettica dipende la profondità e l’ampiezza in cui può svilupparsi il lavoro creativo di un gruppo di persone. È inutile pensare che si possa imparare un modo di agire (o di parlare) libero e sicuro, creativo. Si possono solo cercare e trovare le persone di fronte alle quali ci si senta liberi, sicuri quando si agisce, quando si parla – quando si “crea”. 3. Sul teatro come arte del far vedere Vedere non è una situazione passiva. È un agire, un lavoro. Al lavoro dell’attore è connesso il lavoro dello spettatore. C’è, effettivamente uno spettatore passivo, il cui sguardo è come abbandonato ad una corrente uniforme, come davanti a un film di cui si sa già tutto e che si lascia scorrere pigramente davanti agli occhi. È uno sguardo amorfo e senza energia che risponde al gesto amorfo – senza forma, non modellato – dell’attore. È lo sguardo del teatro della ridondanza o del movimento al posto dell’azione. Il vedere comincia ad essere un agire quando è sforzo per comprendere, per distinguere qualcosa che si sa e non si sa riconoscere, per discernere che cosa sia essenziale, quale sia la relazione fra i vari movimenti che ci capitano sotto gli occhi. 131
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Il teatro non deve generare un vedere facile, né lo spettatore dovrebbe accettarlo. In fondo significa, per lui, abdicare alla sua prerogativa di individuo creatore di storia e di coscienza. È accettare di accontentarsi della superficie della realtà, senza penetrare sotto la crosta, senza capire. Saper far vedere e saper vedere presuppongono, in fondo, un addestramento alla dialettica. All’unica disciplina che non impariamo a scuola, la base per comprendere le forze che regolano la vita fisica, biologica, sociale. Come riportare, nel teatro, in una situazione artificiale, la complessità e la forza che caratterizzano la vita di un individuo, di una società? È possibile restituire quel che nella realtà è così forte, che quando si tenta di riprodurlo si trasforma in una parodia, in un muto fantasma? È possibile riportare in teatro tutti gli orrori, la grandezza, la profondità e la simultaneità dell’esistenza dell’uomo, della sua storia individuale e sociale, senza appiattirli, senza ridurli ad un’immagine a due dimensioni? Ma al contrario: potenziandoli come sotto le lenti di un microscopio, come portando in primo piano la dinamica di forze che percorre – spesso non percepita – ogni frammento di realtà? È come se uno dovesse dimenticare le categorie estetiche e riportarsi alla scienza del bios, della vita. Fra il lavoro dell’attore per dominare e modellare le proprie energie fisiche e il momento in cui tutto il suo 132
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processo creativo sbocca in qualcosa di obiettivo, di sociale, in uno spettacolo, fra questi diversi momenti non c’è frattura. Le opposizioni che regolano il processo vivente non caratterizzano solo l’organismo dell’attore, non riguardano solo la tensione fra il suo peso e la sua spina dorsale, fra impulso e controimpulso. Ritroviamo opposizioni fondamentali da cui partire anche a tutti i livelli superiori, a livello individuale, a livello sociale. Così come il training può rivelare le tensioni nascoste sotto i movimenti, lo spettacolo può essere la rappresentazione non della “realtà” della superficie e dei colori della storia, ma dei suoi muscoli e dei suoi nervi, del suo scheletro, di ciò che si vede soltanto in una storia scarnificata: i rapporti di forza, le spinte socialmente centrifughe e centripete, la tensione fra libertà e organizzazione, fra intenzioni e azioni, fra uguaglianza e potere. Quel che il teatro dice a parole non è, in fondo, molto importante. Quel che conta nel teatro è rivelare relazioni, è mostrare la superficie dell’azione e insieme il suo interno, gli organi che sono al lavoro, le forze opposte, il modo in cui l’azione si divide e si suddivide in segmenti fra loro correlati, il modo in cui è agita e il modo in cui è patita. In questo senso, il teatro è come le tavole anatomiche degli antichi trattati sul corpo umano. Per gli amanti dell’arte e per i mercanti esse sono opere d’arte; per il medico sono preziosi strumenti di conoscenza; per il filo133
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sofo sono spesso chiare ed efficaci allegorie dell’opposizione fra apparenza e realtà, spiritualità e materialità dell’uomo, fra la vita e la morte. L’immagine della morte, infatti, sembra affiorare dall’interno stesso dell’organismo vivente. Ma per l’incisore che le componeva, le tavole anatomiche erano opera di precisione, di scomposizione e di ricomposizione della realtà così come a lui risultava sotto la copertura dei vestiti e la liscia superficie della pelle: percorsa da onde e da avvallamenti, da scissioni e da fasci di legamenti, da leve, contrappesi e giunture. Nei secoli passati, esistevano i “teatri anatomici”. Anche allora si mischiavano, sulle gradinate, spettatori affamati e assetati e spettatori curiosi e fatui, filosofi accigliati e giovani religiosi attratti dal mistero fascinante e tremendo dell’uomo aperto. In basso, il chirurgo e l’uomo aperto nascondevano, dietro il palesamento degli organi e la meticolosità delle proprie indicazioni, il proprio mistero: come è arrivato qui? – ci si domandava dell’uno – Perché lo fa? – ci si domandava dell’altro. Simile all’uno e all’altro insieme – al corpo aperto, e al chirurgo sapiente ed eretico che lo apre – è la presenza dell’attore, e quel che malgrado tutto è il suo mistero. Il nostro teatro anatomico non riguarda soltanto il corpo dell’uomo. Riguarda le sue azioni, e le sue relazioni negli avvenimenti sociali, nei conflitti storici: le tensioni e le 134
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opposizioni che costituiscono le regole profonde delle diverse realtà. Significa: visione di ciò che si nasconde sotto l’epidermide. Simile al teatro anatomico è il teatro a cui noi pensiamo, a metà fra spettacolo e scienza, fra didattica e trasgressione, fra orrore e ammirazione.
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antropologia teatrale
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A Iben, Katsuko, Sanjukta
In quali direzioni può orientarsi un attore occidentale per costruirsi le basi materiali della sua arte? È questa la domanda cui l’antropologia teatrale tenta di rispondere. Essa non risponderà, pertanto, né al bisogno di analizzare scientificamente in che consista il “linguaggio dell’attore”, né alla domanda fondamentale per chi fa teatro: come si diventa un buon attore? L’antropologia teatrale non cerca princìpi universalmente veri, ma indicazioni utili. Non ha l’umiltà di una scienza, ma l’ambizione di individuare le conoscenze utili all’azione dell’attore. Non vuole scoprire “leggi”, ma studiare regole di comportamento. Originariamente, il termine “antropologia” veniva compreso come lo studio del comportamento dell’uomo non solo a livello socio-culturale, ma anche a livello fisiologico. L’antropologia teatrale, di conseguenza, studia il comportamento fisiologico e socio-culturale dell’uomo in una situazione di rappresentazione. 137
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Princìpi simili e spettacoli diversi Diversi attori, in luoghi ed epoche diverse, fra i molti princìpi propri di ciascuna tradizione, in ciascun paese, si sono serviti anche di alcuni princìpi simili. Rintracciare questi “princìpi-che-ritornano” è il primo compito dell’antropologia teatrale. I “princìpi-che-ritornano” non sono prove dell’esistenza di una “scienza del teatro” o di alcune leggi universali; sono consigli particolarmente buoni, indicazioni che hanno una forte probabilità di risultare utili alla prassi teatrale. I “buoni consigli” hanno questa particolarità: possono essere seguiti o ignorati. Non sono tassativi come le leggi: o addirittura possono essere rispettati proprio per poterli infrangere e superare. L’attore contemporaneo occidentale non ha un repertorio organico di consigli su cui appoggiarsi e orientarsi. Ha come punti di partenza, in genere, un testo o le indicazioni di un regista. Ma gli mancano quelle regole di azione che, pur non restringendo la sua libertà artistica, lo aiutino nel suo compito. L’attore tradizionale d’Oriente, al contrario, si basa su un corpo organico e ben sperimentato di “consigli assoluti”, cioè delle regole d’arte che assomigliano alle leggi di un codice: codificano uno stile d’azione chiuso in se stesso e a cui tutti gli attori di quel genere debbono adeguarsi. 138
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Naturalmente, l’attore che si muove all’interno di una rete di regole codificate ha una maggiore libertà artistica di colui che – come l’attore occidentale – è prigioniero dell’arbitrio e della mancanza di regole. Ma l’attore orientale paga la sua maggiore libertà con una specializzazione che gli offre minori possibilità di uscir fuori dai territori che conosce. Un complesso di precise e utili regole pratiche per l’attore sembra che possa esistere solo a condizione di essere regole assolute, chiuse alle influenze di esperienze e tradizioni esterne. Quasi tutti i maestri teatrali orientali impediscono ai loro allievi di occuparsi di forme di spettacolo diverse da quella da loro praticata. A volte chiedono loro di non recarsi neppure a vedere altre forme di teatro o di danza. Sostengono che è così che si preserva la purezza dello stile dell’attore, e che si dimostra la sua totale dedizione verso la propria arte. Tutto accade come se le regole di comportamento teatrale si sentissero minacciate dalla loro stessa evidente relatività, quasi soffrissero di non essere vere e proprie leggi. Questo processo di difesa ha almeno il pregio di evitare la tendenza patologica che spesso la consapevolezza della relatività delle regole comporta: la totale mancanza di regole e l’arbitrio. Così, come un attore Kabuki può ignorare i migliori “segreti” del No¯, è sintomatico che Étienne Decroux – forse l’unico maestro europeo che abbia elaborato un complesso di regole paragonabile a quello di una tradizione orientale – cerchi di trasmettere ai propri allievi la stessa rigorosa chiusura nei confronti del139
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le forme di teatro diverse dalle proprie. Nel caso di Decroux, come nel caso dei maestri orientali, non si tratta di ristrettezza mentale, né tanto meno di intolleranza. Si tratta della consapevolezza che le basi e i princìpi di partenza di un attore vanno difesi come il suo bene più prezioso, un bene che sarebbe irrimediabilmente inquinato e distrutto dal sincretismo, e che va salvaguardato anche a rischio dell’isolamento. Il rischio dell’isolamento consiste nel pagare la purezza con la sterilità. I maestri che chiudono i propri allievi nella riserva di un corpo di regole che per avere forza finge di ignorare la propria relatività, e quindi l’utilità del confronto, preservano certamente la qualità della propria arte, ma ne minacciano il futuro. Un teatro, però, può aprirsi alle esperienze degli altri teatri non per intrecciare maniere diverse di far spettacoli, ma per rintracciare princìpi simili in base ai quali trasmettere le proprie esperienze. In questo caso l’apertura al diverso non significherebbe necessariamente una caduta nel sincretismo e nella confusione delle lingue. Da una parte si eviterebbe il rischio dell’isolamento sterile, dall’altra quello di un’apertura a tutti i costi, che degenererebbe nella promiscuità. Pensare, sia pure in via teorica e astratta, ad una base pedagogica comune non significa, infatti, pensare ad un modo comune di fare teatro. «Le arti – ha scritto Decroux – si assomigliano nei loro princìpi, non nelle loro opere». Potremmo aggiungere: anche 140
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i teatri non si assomigliano nei loro spettacoli, ma nei loro princìpi. L’antropologia teatrale vuole studiare quei princìpi: non le profonde e ipotetiche ragioni di quelle somiglianze, ma i loro possibili usi. Facendolo, sa di rendere un servizio sia all’uomo di teatro occidentale che a quello orientale, sia a chi ha una tradizione sia a chi ne soffre la mancanza, sia a chi è colpito dalla degenerazione, sia a chi è minacciato dalla purezza. Lokadharmi e Natyadharmi «Noi abbiamo due parole – mi dice Sanjukta Panigrahi – per indicare il comportamento dell’uomo: l’una, lokadharmi, indica il comportamento (dharmi) della gente comune (loka); l’altra, natyadharmi, indica il comportamento dell’uomo nella danza (natya)». Nel corso degli ultimi anni ho visitato numerosi maestri di teatri diversi. Con alcuni di loro ho collaborato a lungo. Lo scopo della mia ricerca non era lo studio di ciò che caratterizzava le diverse tradizioni, non ciò che rendeva uniche le loro arti, ma ciò che le accomunava ad altre forme d’arte d’Oriente e d’Occidente. Quella che all’inizio era una mia ricerca quasi isolata, lentamente è divenuta la ricerca di un gruppo di persone che comprende uomini di scienza, studiosi di teatro europei ed asiatici, artisti appartenenti a diverse tradizioni. A questi ultimi va, in modo particolare, la mia gratitudine: la loro 141
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collaborazione si è caratterizzata per una forma particolare di generosità che ha abbattuto le barriere della riservatezza per rivelare i “segreti” e quasi le intimità del loro mestiere. Una generosità che a volte è arrivata ad una forma di calcolata temerarietà nel porsi in situazioni di lavoro che obbligavano alla ricerca del nuovo e che rivelavano una curiosità per l’esperimento insospettabile in artisti che sembravano i fedeli sacerdoti d’una tradizione immutabile1. Gli attori orientali, anche quando fanno una dimostrazione tecnica, fredda, posseggono una qualità di presenza che colpisce lo spettatore e lo obbliga a guardarli. In tale situazione non esprimono niente, eppure vi è in essi come un nocciolo di energia, come un’irradiazione suggestiva e sapiente, ma non premeditata, che capta i nostri sensi. Ho pensato a lungo che si trattasse di una particolare “forza” dell’attore, acquisita con anni ed anni di esperienze e di lavoro, di una particolare dote tecnica. Ma ciò che noi chiamiamo “tecnica” è un’utilizzazione particolare del nostro corpo. Noi utilizziamo il nostro corpo in maniera sostanzialmente differente nella vita quotidiana e nelle situazioni di “rappresentazione”. A livello quotidiano abbiamo una tecnica del corpo condizionata dalla nostra cultura, dal nostro stato sociale, dal nostro mestiere. Ma in una situazione di “rappresentazione” esiste un’utilizzazione del 1
Cfr. Ringraziamenti, infra, pp. 181 sgg.. 142
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corpo, una tecnica del corpo che è totalmente differente. Si può quindi distinguere una tecnica quotidiana da una tecnica extra-quotidiana. Le tecniche quotidiane non sono consapevoli: ci muoviamo, ci sediamo, portiamo i pesi, baciamo, indichiamo, annuiamo e neghiamo con gesti che crediamo “naturali” e che sono, invece, culturalmente determinati. Le differenti culture insegnano diverse tecniche del corpo secondo se si cammini o no con le scarpe, se si portino i pesi sulla testa o in mano, se si baci con la bocca o con il naso. Il primo passo per scoprire quali possono essere i princìpi del bios teatrale dell’attore, la “vita dell’attore”, consiste, allora, nel comprendere che alle tecniche quotidiane del corpo si contrappongono delle tecniche extra-quotidiane, cioè delle tecniche che non rispettano gli abituali condizionamenti dell’uso del corpo. A queste tecniche extra-quotidiane fanno ricorso coloro che si pongono in una situazione di rappresentazione. Spesso in Occidente non è evidente e consapevole la distanza che separa le tecniche quotidiane del corpo da quelle extra-quotidiane che caratterizzano il comportamento dell’uomo nel teatro. In India, invece, è una differenza ovvia, sancita dalla nomenclatura: lokadharmi e natyadharmi. Le tecniche quotidiane del corpo sono in genere caratterizzate dal principio del minimo sforzo: cioè il conseguimento della massima resa con il minimo impiego di energia. Le tecniche extra-quotidiane si basano, al con143
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trario, sullo spreco dell’energia. A volte sembrano addirittura suggerire un principio speculare rispetto a quello che caratterizza le tecniche quotidiane del corpo: il principio del massimo impiego di energia per un minimo risultato. Quando ero in Giappone con l’Odin Teatret, mi chiedevo cosa significasse l’espressione con cui gli spettatori ringraziavano gli attori alla fine dello spettacolo: otsukaràsama. Il significato esatto di questa espressione – una delle tante formule che l’etichetta giapponese permette, e che è particolarmente indicata per gli attori – è: “tu sei stanco”. L’attore che ha interessato o colpito lo spettatore è stanco perché non ha risparmiato le sue energie, e di questo viene ringraziato. Ma lo spreco, l’eccesso nell’uso dell’energia non basta a spiegare la forza che caratterizza la vita dell’attore. È evidente la differenza fra questa “vita” e la vitalità di un acrobata e persino di certi momenti di maggior virtuosismo dell’Opera di Pechino e di altre forme di teatro o danza. In questi casi, gli acrobati, i danzatori, gli attori ci mostrano un “altro corpo”, un corpo che segue tecniche assai diverse da quelle quotidiane, ma così diverse da perdere apparentemente ogni contatto con queste. Non si tratta più di tecniche extra-quotidiane, ma semplicemente di “altre tecniche”. In questo caso non c’è più la tensione dell’allontanarsi, non c’è più quella sorta di “energia elastica” che caratterizza le tecniche extra-quotidiane quando si contrappongono alle tecniche quotidiane. In altre 144
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parole non c’è più relazione dialettica, ma solo distanza: l’inaccessibilità, insomma, di un corpo di virtuoso. Le tecniche quotidiane del corpo tendono alla comunicazione, quelle del virtuosismo tendono alla meraviglia e alla trasformazione del corpo. Le tecniche extra-quotidiane, invece, tendono all’informazione: esse, alla lettera, mettono-in-forma il corpo. In ciò consiste la differenza essenziale che le divide da quelle tecniche che invece lo trans-formano. L’equilibrio in azione La constatazione di una particolare qualità di presenza che gli attori orientali spesso posseggono ci ha portato alla distinzione tra tecniche quotidiane, tecniche del virtuosismo e tecniche extra-quotidiane del corpo. Sono queste ultime che riguardano la vita dell’attore. Esse la caratterizzano prima ancora che questa vita cominci a rappresentare qualcosa o ad esprimersi. L’affermazione precedente non è facile da accettarsi per un occidentale: esiste forse un livello dell’arte dell’attore in cui egli è vivo, presente, ma senza rappresentare né significare nulla? Forse solo chi conosce bene il teatro giapponese può accogliere come normale l’affermazione in questione. È giusto, quindi, che sia un giapponese a fornirci un esempio estremo ma lampante di come la vita dell’attore possa essere priva di ogni carattere di rappresentazione, e 145
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limitarsi ad essere fortemente presente. “Essere fortemente presente” pur senza nulla rappresentare è, per un attore, un ossimoro, una contraddizione in termini: l’attore, infatti, per il suo stesso stare davanti agli spettatori, sembra dover per forza rappresentare qualcosa o qualcuno. Moriaki Watanabe definisce così l’ossimoro dell’attore della pura presenza: si tratta di un attore che rappresenta la propria assenza. Sembra un gioco del pensiero, ed è, invece, una figura del teatro giapponese. Nel No¯, nel Kabuki e nel Kyogen, Watanabe individua una figura intermedia fra le due, che in Europa, come nel teatro moderno giapponese, sembrano esaurire la figura dell’attore: la sua identità reale e la sua identità finta. Per esempio, nel teatro No¯, il secondo attore, il waki, spesso rappresenta il proprio non-esserci, cioè il suo assentarsi dall’azione. Egli mette in opera una complessa tecnica extra-quotidiana del corpo che non deve servire a esprimere, ma a “far notare la sua capacità di non esprimere”. Questa negazione artisticamente elaborata si ritrova inoltre in quel passaggio del No¯ quando il personaggio principale – lo shite – deve scomparire. L’attore, ormai spogliato del suo personaggio, ma non per questo ridotto alla sua identità quotidiana, si allontana dagli spettatori senza voler esprimere niente, ma con la stessa energia che caratterizza i momenti espressivi. Anche i kokken, gli uomini vestiti di nero che assistono l’attore in scena, sono chiamati a “recitare l’assenza”. La loro presenza, che non esprime né rappresenta, attinge 146
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così direttamente alle fonti della vita e dell’energia dell’attore, che gli intenditori dicono che è più difficile essere kokken che attore. I casi che Watanabe ha analizzato (un suo studio sul kyoko shantai, il corpo della finzione, è stato pubblicato in Giappone) mostrano che esiste un livello in cui le tecniche extra-quotidiane del corpo riguardano l’energia dell’attore per così dire allo stato puro, cioè al livello preespressivo. Nel teatro classico giapponese, questo livello appare, a volte, allo scoperto. Esso, però, è sempre presente nell’attore: è la base stessa della sua vita. Parlare di “energia” dell’attore significa utilizzare un’immagine che si presta a mille equivoci. La parola “energia” deve essere, invece, subito riempita di significati molto concreti. Etimologicamente essa significa “essere in opera, in lavoro”. Come avviene, allora, che il corpo dell’attore entri in lavoro – come attore – ad un livello pre-espressivo? Con quali altre parole potremmo sostituire la nostra parola “energia”? Chi traducesse in una lingua europea i princìpi degli attori orientali, userebbe parole come “energia”, “vita”, “forza”, “spirito” per tradurre termini come i giapponesi ki-ai, kokoro, io-in, ko-shi; i balinesi taksù, virasa, chikara; il cinese shun toeng; gli indiani prana, shakti. L’imprecisione delle traduzioni nasconde sotto grandi parole le indicazioni pratiche dei princìpi della vita dell’attore. Ho provato a percorrere la strada in senso inverso. Ho chiesto ad alcuni maestri di teatri orientali se nella loro 147
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lingua di lavoro esistessero parole che potevano tradurre il nostro termine “energia”. «Noi diciamo che un attore ha o non ha ko-shi per indicare che ha o non ha la giusta energia nel lavoro», mi risponde l’attore Kabuki Sawamura Sojuro¯. Ma ko-shi, in giapponese, non indica un concetto astratto, ma una ben precisa parte del corpo: le anche. Dire “hai ko-shi, non hai ko-shi” significa dire “hai le anche, non hai le anche”. Ma cosa significa, per un attore, non avere le anche? Quando camminiamo secondo le tecniche quotidiane del corpo, le anche assecondano il movimento delle gambe. Nelle tecniche extra-quotidiane dell’attore Kabuki e dell’attore No¯ le anche, invece, debbono restare fisse. Per bloccare le anche mentre si cammina, occorre piegare leggermente le ginocchia e usare il tronco come un solo blocco, impiegando la colonna vertebrale, che si trova, così, a premere verso il basso. Si creano, in tal modo, due diverse tensioni nella parte inferiore e nella parte superiore del corpo, che obbligano a trovare un nuovo equilibrio. Non si tratta di una scelta stilistica, ma di un mezzo per innescare la vita dell’attore, che solo in un secondo momento diventa una particolare caratteristica di stile. La vita dell’attore, infatti, si basa su un’alterazione dell’equilibrio. Quando siamo in posizione eretta, non possiamo mai restare immobili. Anche quando sembriamo immobili, ci serviamo di minuscoli movimenti con i quali spostiamo il nostro peso. Si tratta di una serie continua di aggiustamenti con cui il peso passa incessante148
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mente a premere ora sulla parte anteriore, ora su quella posteriore, ora sul margine destro, ora sul sinistro dei piedi. Perfino nell’immobilità più assoluta questi micromovimenti sono presenti, a volte più ristretti, altre volte più ampi, a volte più controllati, altre meno, a seconda delle nostre condizioni fisiche, dell’età, del mestiere. Ci sono laboratori scientifici specializzati nella misurazione dell’equilibrio attraverso la misurazione dei diversi tipi di pressione operata dai piedi sul terreno: ne risultano diagrammi nei quali ognuno può leggere quanti complicati e laboriosi movimenti faccia per restare fermo. Sono stati fatti esperimenti con attori professionisti. Risulta che se si chiede loro di immaginare di portare un peso, di correre, di camminare, di cadere, di saltare, già questa immaginazione produce immediatamente una modificazione del loro equilibrio, mentre invece non lascia quasi traccia nell’equilibrio di una persona normale, per cui l’immaginazione resta un fatto quasi esclusivamente mentale. Tutto questo può dir molto sull’equilibrio e sul rapporto fra processi mentali e tensioni muscolari; non dice niente di nuovo, però, sull’attore. Dire, infatti, che un attore è abituato a controllare la propria presenza fisica e a tradurre in impulsi fisici le immagini mentali vuol dire semplicemente che un attore è un attore. Ma le matasse di micromovimenti rivelate dai laboratori scientifici in cui si misura l’equilibrio ci mettono su un’altra traccia: esse costituiscono come il nocciolo che, nascosto nel fondo delle tecniche quotidiane del corpo, può essere modellato 149
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e amplificato per potenziare la presenza dell’attore, per trasformarsi, cioè, nella base delle sue tecniche extraquotidiane. Chi ha visto uno spettacolo di Marcel Marceau si è certo soffermato almeno un attimo a considerare lo strano destino di quel mimo che compare sul palcoscenico solo per pochi secondi, fra un numero e l’altro, reggendo un cartello su cui è annunciato il titolo del numero che Marceau sta per eseguire. D’accordo – uno si dice – il mimo vuole essere uno spettacolo muto, e anche gli annunci, per non rompere il silenzio, debbono essere muti. Ma perché impiegare un mimo, un attore come portacartelli? Non significa bloccarlo in una situazione disperante in cui, alla lettera, non può far nulla? Uno di quei mimi, Pierre Verry, che è stato a lungo il mimo la cui azione consisteva nel presentare i cartelli dei numeri di Marceau, un giorno ha raccontato come cercasse di raggiungere il massimo dell’esistenza scenica nel breve istante in cui compariva sul palcoscenico senza dovere – e senza potere – fare nulla. Ha detto che la sua unica possibilità era rendere più forte possibile, più viva possibile la posizione nella quale teneva alzato il cartello. Per ottenere questo risultato nei pochi secondi della sua comparsa, doveva concentrarsi a lungo per raggiungere un “equilibrio labile”. Così la sua immobilità diventava un’immobilità non statica ma dinamica. In mancanza d’altro, Pierre Verry era obbligato a ridur150
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si all’essenziale, e scopriva l’essenziale nell’alterazione dell’equilibrio. Le posizioni base delle forme di teatro-danza orientale sono altrettanti esempi di una distorsione cosciente e controllata dell’equilibrio. Lo stesso può dirsi per le posizioni base della danza classica europea e per il sistema del mimo di Decroux: abbandonare la tecnica quotidiana dell’equilibrio e cercare un “equilibrio di lusso” che dilata le tensioni su cui il corpo si regge. Per ottenere questo risultato, gli attori delle diverse tradizioni orientali deformano la posizione delle gambe, delle ginocchia, il modo di poggiare i piedi per terra, o riducono la distanza fra un piede e l’altro, riducendo la base e rendendo precario l’equilibrio. «Tutta la tecnica della danza – dice Sanjukta Panigrahi parlando della danza Orissi, ma indicando un principio generale per la vita dell’attore – è basato sulla divisione del corpo in due metà uguali, secondo una linea che lo attraversa verticalmente, e sulla suddivisione ineguale del peso ora su una parte ora sull’altra». La danza, cioè, amplifica, come mettendole sotto un microscopio, quei minuscoli e continui spostamenti di peso con cui ci reggiamo fermi in piedi e che i laboratori specializzati nella misura dell’equilibrio rivelano tramite complicati diagrammi. È questa danza dell’equilibrio che gli attori e i danzatori rivelano nei princìpi fondamentali di tutte le forme di teatro. 151
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La danza delle opposizioni Il lettore non si meraviglierà se parlo indifferentemente di attore o danzatore così come passo con una certa indifferenza dall’Oriente all’Occidente e viceversa. I princìpi di vita di cui andiamo in cerca non tengono in alcun conto le nostre distinzioni fra ciò che definiamo “teatro” o “mimo” o “danza”. Queste distinzioni sono, d’altra parte, labili anche per noi. Gordon Craig, dopo aver ironizzato sulle immagini arzigogolate usate dai critici per descrivere il particolare modo di camminare del grande attore inglese Henry Irving, aggiunge con semplicità: «Irving non camminava sul palcoscenico, vi danzava». Lo stesso spostamento dal teatro alla danza venne usato, ma questa volta in senso negativo, per svalutare le ricerche di Mejerchol’d. Di fronte al suo Don Juan, alcuni scrissero che non si trattava di vero teatro, ma di balletto. La rigida distinzione fra il teatro e la danza, caratteristica della nostra cultura, rivela una ferita profonda, un vuoto di tradizione che rischia continuamente di attrarre l’attore verso il mutismo del corpo, e il danzatore verso il virtuosismo. Questa distinzione apparirebbe assurda ad un artista orientale, così come sarebbe apparsa assurda ad artisti europei di altre epoche storiche: ad un giullare o ad un comico del Cinquecento. Possiamo chiedere ad un attore No¯ o ad un attore Kabuki come tradurrebbe, nella sua lingua di lavoro, la parola “energia”, ma egli scuoterebbe la testa se gli 152
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chiedessimo di tradurre la rigida distinzione fra danza e teatro. «Energia – diceva l’attore Kabuki Sawamura Sojuro – potrebbe essere tradotta con ko-shi». E l’attore No¯ Hideo Kanze: «Mio padre non diceva mai: usa più ko-shi. Ma mi insegnava di che si trattasse facendomi camminare, mentre lui mi tratteneva per le anche». Per vincere la resistenza, il torso è costretto a piegarsi leggermente in avanti, le ginocchia si flettono, i piedi premono sul terreno e strisciano piuttosto che alzarsi in un passo normale: ciò che risulta è la camminata di base del No¯. L’energia come ko-shi si rivela non come il risultato di una semplice e meccanica alterazione dell’equilibrio, ma come il risultato di una tensione tra forze contrapposte. L’attore di Kyogen Mannojo¯ Namura ricordava ciò che dicevano gli attori della scuola Kita di No¯: l’attore deve immaginare che al di sopra di lui vi sia un cerchio di ferro che tira verso l’alto, e contro cui bisogna opporre resistenza per tenersi con i piedi al suolo. Il termine giapponese per designare queste forze contrapposte è hippari hai, che significa: tirare a sé qualuno che ti tira a sua volta. Nel corpo dell’attore hippari hai avviene fra l’alto e il basso e fra l’avanti e il dietro. Ma v’è hippari hai anche fra l’attore e l’orchestra: essi, infatti, procedono non all’unisono, ma cercando di allontanarsi l’uno dall’altra, sorprendendosi vicendevolmente, rompendo l’uno il tempo dell’altra, pur 153
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senza allontanarsi fino al punto di perdere il contatto e il particolare legame che li oppone. In questo senso, potremmo dire, allargando il concetto, che le tecniche extra-quotidiane del corpo sono in un rapporto hippari hai, di trazione antagonista, con le tecniche dell’uso quotidiano. Abbiamo visto, infatti, che si allontanano da questa, ma mantenendo la tensione, senza cioè distaccarsene e divenire estranee ad esse. Uno dei princìpi attraverso cui il corpo dell’attore rivela la sua vita allo spettatore, dunque, in una tensione di forze contrapposte, è il principio dell’opposizione. Attorno a questo principio, che ovviamente appartiene anche all’esperienza dell’attore occidentale, le tradizioni codificate dell’Oriente hanno edificato diversi sistemi di composizione. Nell’Opera di Pekino, tutto il sistema codificato dei movimenti dell’attore è retto sul principio per cui ogni movimento deve iniziare dalla direzione opposta a quella in cui si dirige. Tutte le forme di danza balinese sono costruite componendo una serie di opposizioni fra kras e manis. Kras significa forte, duro, vigoroso; manis significa delicato, soffice, tenero. I termini manis e kras possono essere applicati a diversi movimenti, alle posizioni delle diverse parti del corpo in una danza, ai momenti successivi di una stessa danza. Se si esamina una posizione di base della danza balinese, si osserva come essa, che ad uno sguardo occidentale può apparire bizzarra e fortemente stilizzata, sia il risultato di un conseguente alternar154
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si di parti del corpo in posizione kras e parti del corpo in posizione manis. La danza delle opposizioni caratterizza la vita dell’attore a differenti livelli. Ma, in generale, nella ricerca di questa danza l’attore ha una bussola per orientarsi: il disagio. Le mime est à l’aise dans le mal-aise, il mimo è a suo agio nel disagio, dice Decroux, e questa sua massima trova una serie di echi presso i maestri di teatro di tutte le tradizioni. La maestra di Katzuko Azuma le diceva che per verificare se una posizione era assunta nel modo giusto doveva badare al dolore: se non duole è sbagliato. E sorridendo aggiungeva: «Ma se duole non vuol necessariamente dire che sia giusta». La stessa cosa ripetono Sanjukta Panigrahi, i maestri dell’Opera di Pekino, quelli di danza classica o di danze balinesi. Il disagio diventa, allora, un sistema di controllo, una specie di radar interno che permette all’attore di osservarsi mentre agisce. Non si osserva tramite gli occhi, ma tramite una serie di percezioni fisiche che gli confermano che tensioni non abituali, extra-quotidiane, abitano il suo corpo. Quando chiedo a I Made Pasek Tempo quale sia, secondo lui, la dote principale per un attore e danzatore, egli risponde che è il tahan, la capacità di resistenza. La stessa consapevolezza si ritrova nella lingua di lavoro dell’attore cinese. Per dire che un attore ha maestria, si dice che ha kun-fu, che letteralmente significa “capacità di tener duro, di resistere”. Tutto ciò ci riporta a quel che in una lingua occidentale potremmo indicare con la pa155
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rola “energia”; capacità di perdurare nel lavoro. E ancora una volta questa parola rischia di trasformarsi in una trappola. Quando un attore occidentale vuole essere energico, quando vuole usare tutte le sue energie, comincia a muoversi con grande vitalità nello spazio, sviluppa grandi movimenti, molta velocità e forza muscolare. Tutto ciò viene associato alle immagini di “fatica”, di “lavoro duro”. Un attore orientale (o un grande attore occidentale) può faticare molto di più quasi senza muoversi. La sua fatica non è determinata da un eccesso di vitalità, dall’uso di grandi movimenti, ma dal gioco delle opposizioni. Il suo corpo diventa carico di energie perché in esso si stabilisce tutta una serie di differenze potenziali che lo rendono vivo, fortemente presente anche nei movimenti lenti o nell’apparente immobilità. La danza delle opposizioni si danza nel corpo prima che con il corpo. È essenziale comprendere questo principio della vita dell’attore: l’energia non corrisponde necessariamente a dei movimenti nello spazio. Nelle diverse tecniche quotidiane del corpo, nel lokadharmi, le forze che mettono in vita le azioni di distendere o ritrarre un braccio o le gambe, o le dita di una mano agiscono una alla volta. Nel natyadharmi, nelle tecniche extra-quotidiane, le due forze contrapposte (distendere e ritrarre) sono in azione simultaneamente: o meglio, le braccia, le gambe, le dita, la schiena, il collo si stendono 156
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come resistendo a una forza che li obbliga a piegarsi e viceversa. Katzuko Azuma spiega, ad esempio, quali forze siano al lavoro nel movimento – tipico tanto della danza Buyo quanto del No¯ – in cui il torso si inclina leggermente e le braccia si distendono in avanti restando appena arcuate. Lo spiega parlando di forze che agiscono in senso contrario a ciò che si vede: le braccia – dice – non si distendono, ma è come se stringessero verso il petto una grande scatola. Per questo, andando verso l’esterno premono verso l’interno, così come il torso, che è come spinto all’indietro, oppone resistenza e si piega in avanti. Le virtù dell’omissione Il principio che si rivela attraverso la danza delle opposizioni nel corpo è – contro tutte le apparenze – un principio che procede per eliminazione. Esso è lavoro isolato dal proprio contesto, e perciò rivelato. Le danze, che paiono un intreccio di movimenti assai più complessi di quelli quotidiani, sono – in realtà – il risultato di una semplificazione: compongono momenti in cui le opposizioni che reggono la vita del corpo appaiono allo stato semplice. Ciò avviene perché un numero ben delimitato di forze – di opposizioni – vengono isolate, eventualmente amplificate, e montate insieme o in successione. Ancora una volta: si tratta di un uso antieconomico del corpo perché nelle tecniche quotidiane 157
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tutto tende a sovrapporsi, con risparmi di tempo e di energia. Quando Decroux scrive che il mimo è un “ritratto del lavoro” compiuto dal corpo, ciò che dice può essere assunto anche dalle altre tradizioni. Questo “ritratto del lavoro” del corpo è uno dei princìpi che presiede alla vita anche di coloro che poi lo nascondono, come per esempio i danzatori del balletto classico, che dissimulano il peso e la fatica dietro un’immagine di leggerezza e di facilità. Il principio delle opposizioni, proprio perché le opposizioni sono l’essenza dell’energia, si collega al principio della semplificazione. Semplificazione significa in questo caso: omissione di alcuni elementi per metterne in rilievo altri, che così appaiono essenziali. Gli stessi princìpi che sottostanno alla vita del danzatore – con i suoi movimenti evidentemente lontani dai movimenti quotidiani – possono sottostare anche alla vita dell’attore, i cui movimenti sembrano più prossimi all’uso quotidiano. Non solo, infatti, si può omettere la complessità dell’uso quotidiano del corpo per lasciare emergere l’essenza del suo lavoro, il suo bios che si manifesta attraverso opposizioni fondamentali, ma si può anche omettere di distendere l’azione nello spazio. Dario Fo spiega come la forza del movimento dell’attore risulti dalla sintesi: cioè sia dalla concentrazione in un piccolo spazio di un’azione che impiega grande energia, sia dalla riproduzione dei soli elementi essenziali di un’azione, eliminando quelli ritenuti accessori. 158
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Decroux – come gli attori indiani – considera il corpo come limitato essenzialmente al tronco, e considera i movimenti delle braccia e delle gambe come movimenti accessori (o “aneddotici”) appartenenti realmente al corpo solo se trovano origine nel tronco. Ciò significa, allora, che possono percorrere la strada inversa: essere assorbiti nei soli movimenti del tronco. Si può parlare di questo processo – secondo cui si restringe lo spazio dell’azione – come di un processo di assorbimento dell’energia. Il processo di assorbimento dell’energia si sviluppa da quello dell’amplificazione delle opposizioni, ma rivela una nuova e diversa strada per individuare uno di quei “princìpi-che-ritornano” che possono dimostrarsi utili alla prassi teatrale. L’opposizione fra una forza che spinge verso l’azione e una forza che trattiene si traduce in una serie di regole che contrappongono – per usare la lingua di lavoro dell’attore No¯ e dell’attore Kabuki – un’energia usata nello spazio ad un’energia usata nel tempo. Secondo queste regole, i sette decimi dell’energia dell’attore debbono essere usati nel tempo e solo i tre decimi nello spazio. Gli attori dicono anche che è come se l’azione non terminasse lì dove il gesto si arresta nello spazio, ma continuasse molto più avanti. Sia nel No¯ che nel Kabuki esiste l’espressione tameru che può essere rappresentata da un ideogramma cinese che significa “accumulare”, o da un ideogramma giappo159
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nese che significa “piegare” nel senso di piegare qualcosa che è nello stesso tempo flessibile e resistente come per esempio una canna di bambù. Tameru indica il trattenere, il conservare. Da qui il tamé, la capacità di trattenere le energie, di assorbire in un’azione limitata nello spazio le energie necessarie per un’azione più ampia. Questa capacità diventa, per antonomasia, un modo per indicare il talento dell’attore in generale. Per dire che l’allievo ha o non ha sufficiente presenza scenica, sufficiente forza, il maestro gli dice che ha o non ha tamé. Tutto questo può apparire il risultato di una codificazione complicata ed eccessiva dell’arte dell’attore. In realtà si tratta di un’esperienza comune agli attori di diverse tradizioni: comprimere in movimenti ristretti le stesse energie fisiche messe in moto per compiere un’azione più ampia e pesante. Ad esempio: accendere una sigaretta mobilizzando l’intero corpo, così come si mobilizza quando dobbiamo sollevare non un cerino ma un grosso pacco; accennare col mento e socchiudere appena la bocca impiegando le stesse forze usate per avventarsi su qualcosa e per morderla. Questo processo fa scoprire una qualità d’energia che rende teatralmente vivo l’intero corpo dell’attore anche nell’immobilità. È per questo, probabilmente, che le cosiddette “controscene” divennero le grandi scene di molti celebri attori: obbligati a non agire, a restare di lato, mentre altri svolgevano l’azione principale, essi erano capaci di assorbire in movimenti quasi impercettibili le forze di azioni che, per così dire, 160
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erano loro negate. E proprio in quei casi il loro bios risaltava con forza particolare e impressionava la mente dello spettatore. Le “controscene” non appartengono solo alla tradizione dell’attore occidentale. Fra il XVII e il XVIII secolo, l’attore Kabuki Kameko Kichizaemon compilò un trattato sull’arte dell’attore dal titolo Polvere nelle orecchie. Egli dice che in certi spettacoli, quando uno solo degli attori sta danzando e gli altri volgono le spalle al pubblico e siedono di fronte ai musicisti, gli attori che stanno così in disparte usano rilassarsi. «Io non mi rilasso – scrive Kameko Kichizaemon – ma eseguo l’intera danza nella mia mente. Se non lo facessi, la vista della mia schiena sarebbe così poco interessante da infastidire lo sguardo dello spettatore». Le virtù teatrali dell’omissione non consistono nel “lasciar perdere”, nell’indefinito, nella non-azione. In teatro e per l’attore, omissione significa piuttosto “trattenere”, non gettar via, in un accesso di espressività e di vitalità ciò che caratterizza la propria vita scenica. La bellezza dell’omissione, infatti, è la bellezza dell’azione indiretta, della vita che si rivela con il massimo di intensità nel minimo di attività. Ancora una volta, è di un gioco di opposizioni che si tratta, ma ad un livello, ormai, che conduce oltre il livello pre-espressivo dell’arte dell’attore, e che quindi esula dai limiti che all’inizio ci eravamo proposti. 161
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Intermezzo Ci si potrebbe chiedere se i princìpi per la vita dell’attore che abbiamo fino a qui incontrato non ci portino troppo lontano dal teatro che noi conosciamo e pratichiamo in Europa. Ci si potrebbe chiedere se essi siano davvero dei buoni consigli utili alla pratica teatrale o se non siano, invece, solo un miraggio. Ci si potrebbe chiedere se individuare il livello pre-espressivo dell’arte dell’attore non ci distacchi dai veri problemi dell’attore europeo. Il livello pre-espressivo non è forse verificabile solo in una cultura teatrale altamente codificata? La tradizione europea non è forse caratterizzata dalla mancanza di codificazione e dalla ricerca di un’espressività individuale? Sono delle domande impegnative e invece che a delle risposte immediate ci provocano ad una pausa di riposo. Parleremo, quindi, di fiori. Se disponiamo dei fiori in un vaso lo facciamo perché mostrino la loro bellezza, rallegrino la vista e l’olfatto. Possiamo anche far loro assumere significati ulteriori: pietà filiale o religione, amore, riconoscenza, rispetto. Ma per belli che siano, i fiori hanno un difetto: strappati dal loro contesto, continuano, però, a rappresentare se stessi. Sono come l’attore di cui parla Decroux: un uomo condannato a rassomigliare ad un uomo, un corpo che imita un corpo. Il che può essere piacevole, ma non è sufficiente per l’arte. Perché ci sia arte, Decroux aggiunge, bisogna che l’idea della cosa sia rappresentata da un’altra 162
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cosa. I fiori in un vaso, invece, sono irrimediabilmente fiori in un vaso, soggetti d’opere d’arte a volte, ma mai opere d’arte essi stessi. Ma immaginiamo di usare i fiori recisi per rappresentare qualche altra cosa: la lotta della pianta per crescere, per allontanarsi dal terreno in cui affonda tanto più le radici quanto più si alza verso il cielo. Immaginiamo di voler rappresentare il passaggio del tempo, come la pianta sbocci, cresca, si chini e muoia. Se riusciremo nel nostro intento, i fiori rappresenteranno qualcosa d’altro dai fiori e comporranno un’opera d’arte. Avremmo fatto, cioè, un ikebana. Ikebana significa – se si segue il valore dell’ideogramma – “far vivere i fiori”. La vita dei fiori, proprio perché è stata recisa, bloccata, può essere rappresentata. Il procedimento è chiaro: qualcosa è stato strappato alle sue normali regole di vita (a questo stadio si fermano i nostri normali fiori disposti in un vaso) e quelle regole sono state sostituite e ricostruite analogicamente con altre regole. I fiori, per esempio, non possono agire nel tempo, non si può rappresentare in termini temporali il loro sbocciare e appassire. Ma il passaggio del tempo può essere suggerito con un parallelo nello spazio: si può accostare – cioè paragonare – un fiore in boccio ad un altro già sbocciato; si possono sottolineare le direzioni in cui si sviluppa la pianta, la forza che la lega a terra e quella che la spinge ad allontanarsi, con due rami che si spingono l’uno verso l’alto, l’altro verso il basso. Un terzo ramo che si innalza lungo 163
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una linea obliqua può evidenziare la forza composta che risulta dalle due opposte tensioni. Una composizione che sembra derivare da un raffinato gusto estetico è il risultato dell’analisi e della dissezione di un fenomeno e della trasposizione di energia che agiscono nel tempo in linee che si tendono nello spazio. Questa trasposizione apre la composizione a nuovi significati, diversi da quelli originari: ecco che il ramo che tende verso l’alto viene associato al Cielo, il ramo che tende verso il basso alla Terra, e il ramo di centro alla mediazione fra questi due opposti princìpi, l’Uomo. Il risultato di un’analisi schematica della realtà e della trasposizione secondo princìpi che la rappresentano senza riprodurla diventa l’oggetto di una contemplazione filosofica. «Il pensiero ha difficoltà a fissare il concetto di bocciolo, perché la cosa così designata è in preda a un impetuoso sviluppo, e mostra, scappando di sotto al pensiero, un grande impulso a non essere bocciolo, bensì un fiore.» Sono parole che Brecht attribuisce a Hü-jeh, che aggiunge: «Così, per chi pensa, il concetto di bocciolo è già il concetto di qualcosa che aspira a non essere quel che è». Questo pensiero “difficile” è precisamente ciò che l’ikebana si propone di essere: indicare il passato e suggerire il futuro, rappresentare attraverso l’immobilità il moto continuo per cui ciò che è positivo si rovescia in negativo e viceversa. L’esempio dell’ikebana ci mostra come significati astratti nascano da un preciso lavoro di analisi e di trasposizio164
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ne di un fenomeno fisico. Partendo da quei significati mai si raggiungerebbe la concretezza e la precisione dell’ikebana, mentre partendo da questa si raggiungono quelli. Nei confronti dell’attore spesso si tenta di procedere dall’astratto al concreto, si crede che il punto di partenza possa essere costituito dalle cose da esprimere, le quali poi implicherebbero le tecniche adatte ad esprimerle. Un sintomo di questa assurda credenza è fornito dalla diffidenza verso le forme di teatro codificato, e verso i princìpi per la vita dell’attore che essi racchiudono. Quei princìpi, infatti, non sono suggerimenti estetici fatti per aggiungere bellezza al corpo dell’attore. Sono mezzi per togliere al corpo gli automatismi quotidiani, per impedirgli, cioè, di essere solo un corpo umano condannato a rassomigliare a se stesso, a presentare e rappresentare solo se stesso. Quando certi princìpi tornano con frequenza, in diverse latitudini e tradizioni, si può presumere che “funzionino” praticamente anche nel nostro caso. L’esempio dell’ikebana mostra come certe forze che si sviluppano nel tempo possano trovare un’analogia in termini di spazio. Questo sostituire con forze analoghe quel che caratterizza le tecniche quotidiane del corpo è alla base del sistema del mimo di Decroux. Spesso Decroux rende l’idea di un’azione reale agendo esattamente al contrario. Rivela, per esempio, l’azione di spingere qualcosa non proiettandosi con il busto in avanti e facendo forza sul piede che sta dietro – come accade nell’azione reale – ma arcuando la schiena all’indietro, come se invece di 165
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spingere fosse spinta, flettendo le braccia verso il petto e facendo forza sul piede e la gamba che sta avanti. Questa inversione radicale delle forze rispetto a quelle che caratterizzano l’azione reale restituisce il lavoro – o lo sforzo – che entra in gioco nell’azione reale. Accade, in questi casi, come se il corpo dell’attore venisse scomposto e ricomposto secondo regole che non seguono più quelle della vita quotidiana. Alla fine di quest’opera di ricomposizione, il corpo non assomiglia più a se stesso. Come i fiori dei nostri vasi o degli ikebana giapponesi, anche l’attore ed il danzatore sono recisi dal contesto “naturale” in cui si agisce, recisi dalle regioni in cui dominano le tecniche quotidiane del corpo. Come i fiori e i rami dell’ikebana anche l’attore, per vivere teatralmente, non può presentare o rappresentare ciò che è. Detto con altre parole: deve abbandonare i propri automatismi. Le diverse codificazioni dell’arte dell’attore sono, innanzi tutto, metodi per rompere gli automatismi della vita quotidiana. Naturalmente, la rottura degli automatismi non è espressione. Ma senza rottura degli automatismi non c’è espressione. «Uccidi il respiro! Uccidi il ritmo!», ripeteva a Katzuko Azuma la sua maestra. Uccidere il respiro ed uccidere il ritmo significa rendersi conto della tendenza a legare automaticamente il gesto al ritmo del respiro e della musica, e infrangerla. 166
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I giapponesi sono forse coloro nella cui cultura teatrale il problema della natura degli automatismi della vita quotidiana è stato più coscientemente e radicalmente affrontato. I precetti che nella lingua di lavoro usata dalla maestra di Katzuko Azuma impongono di uccidere il ritmo (otoò korosò) e di uccidere il respiro mostrano come la ricerca delle opposizioni possa essere finalizzata alla rottura degli automatismi delle tecniche quotidiane del corpo. Uccidere il ritmo, infatti, significa creare una serie di tensioni per non fare coincidere i movimenti della danza con le cadenze della musica. Uccidere il respiro significa, fra l’altro, trattenere il respiro anche nel momento dell’espirazione – che è rilassamento – opponendole una forza contraria. Katzuko Azuma diceva che era per lei una vera e propria sofferenza vedere un danzatore che – come accade in tutte le culture tranne la giapponese – va a tempo. Ed è facile capire come per lei, in base alle particolari soluzioni della sua cultura, una danza che segue il ritmo della musica sia qualcosa che mette a disagio, perché mostra un’azione che viene decisa dall’esterno, dalla musica, o dagli automatismi del comportamento quotidiano. La soluzione che la cultura giapponese ha trovato per questo problema appartiene a lei sola. Ma il problema, che essa illumina con un’evidenza tutta particolare, riguarda in generale l’attore e la sua capacità di infrangere automatismi, d’essere in vita. 167
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Un corpo deciso In molte lingue europee esiste un’espressione che potrebbe essere scelta per condensare ciò che è essenziale per la vita dell’attore. È un’espressione grammaticalmente paradossale, in cui una forma passiva viene ad assumere un significato attivo e in cui l’indicazione di una energica disponibilità all’azione si mostra come velata da una forma di passività. Non è un’espressione ambigua, ma ermafrodita, somma in sé azione e passione, e malgrado la sua stranezza è un’espressione del linguaggio comune. Si dice, infatti, “essere deciso”, “être decidé”, “to be decided”. E non si intende dire che qualcosa o qualcuno ci decide, che subiamo una decisione o siamo oggetto di essa. Ma neppure si intende dire che stiamo decidendo, che siamo noi a condurre l’azione di decidere. Fra queste due opposte condizioni, scorre una vena di vita che la lingua sembra non poter indicare e su cui volteggia con delle immagini. Nessuna spiegazione, ma solo l’esperienza diretta, mostra cosa voglia dire “essere decisi”. Per spiegare a qualcuno cosa significhi “essere decisi” dovremmo ricorrere a innumerevoli associazioni di idee, a innumerevoli esempi, alla costruzione di situazioni artificiali. Eppure ognuno di noi crede di sapere molto bene cosa questa espressione indichi. Tutte le complesse immagini, le collane di regole astruse che si intrecciano attorno all’attore, l’elaborazione di precetti artistici che sembrano – e sono – il risultato di estetiche sofisticate sono i vol168
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teggi e le acrobazie della volontà di trasmettere un’esperienza che in senso proprio non si può trasmettere, ma soltanto fare. Cercare di spiegare l’esperienza dell’attore in realtà significa creare artificialmente, con una complicata strategia, le condizioni in cui questa esperienza può riprodursi. Immaginiamo di penetrare ancora una volta nell’intimità del lavoro che si svolge fra Katzuko Azuma e la sua maestra. Anche la maestra si chiama Azuma. Quando riterrà di averle trasmesso la sua esperienza, trasmetterà anche il suo nome all’allieva. Azuma, dunque, dice alla futura Azuma: «Trova il tuo Ma» (Ma significa qualcosa di simile a “dimensione” nel significato di spazio, ma anche di tempo come durata). «Per trovare il tuo Ma devi uccidere il ritmo, trovare, cioè, il tuo jo-ha-kyu.» L’espressione jo-ha-kyu designa le tre fasi in cui viene suddivisa ogni azione dell’attore. La prima fase è determinata dall’opposizione fra una forza che tende a svilupparsi e un’altra che la trattiene (jo = trattenere); la seconda fase (ha = rompere, spezzare) è costituita dal momento in cui ci si libera di questa forza, fino ad arrivare alla terza fase (kyu = rapidità) in cui l’azione raggiunge il suo culmine, dispiega tutte le sue forze per poi arrestarsi improvvisamente come davanti ad un ostacolo, ad una nuova resistenza. Per insegnare ad Azuma a muoversi secondo lo jo-hakyu la sua maestra la trattiene per la cintura ed improvvisamente la lascia. Azuma fatica a compiere i primi passi, 169
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piega le ginocchia, preme le piante dei piedi sul terreno, inclina leggermente il busto, poi, abbandonata a se stessa, scatta via, avanza velocemente fino al limite prefissato, davanti al quale si arresta come sull’orlo di un burrone che improvvisamente si apra a pochi centimetri dai suoi piedi. Ciò che fa, in altre parole, è il movimento che chiunque abbia visto delle danze giapponesi si è abituato a riconoscere come caratteristico. Quando un attore ha appreso, come una seconda natura, questo modo artificiale di muoversi, appare tagliato fuori dallo spazio-tempo quotidiani e appare vivo: è, cioè, deciso. “Decidere” vuol dire, etimologicamente, “tagliar via”. L’espressione “essere deciso” assume, così, ancora un’altra faccia: è come se indicasse che la disponibilità alla creazione è anche il tagliarsi fuori dalle pratiche quotidiane. Le tre fasi dello jo-ha-kyu impregnano gli atomi, le cellule e l’intero organismo di uno spettacolo giapponese. Si applicano a ogni azione dell’attore, ad ogni suo gesto, alla respirazione, alla musica, ad ogni scena teatrale, ad ogni singolo dramma, alla composizione di una giornata di drammi No¯. È una sorta di codice della vita che percorre tutti i livelli di organizzazione del teatro. René Sieffert sostiene che la regola dello jo-ha-kyu è una «costante del senso estetico dell’umanità». In un certo senso è vero, anche se una regola si dissolve in qualcosa di insignificante se finisce per essere applicabile a tutto. Dal nostro punto di vista è più importante un’altra constatazione di Sieffert: che lo jo-ha-kyu permette all’atto170
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re – come spiega Zeami – di infrangere apparentemente le regole per ristabilire il contatto con il pubblico. Qui risiede forse una costante della vita dell’attore: il legame tra l’edificazione di regole artificiali e la loro infrazione. Un attore che ha solo regole è un attore che non ha più teatro, ma solo liturgia. Un attore che non ha regole è anch’egli privo di teatro, ha solo il lokadharmi, il comportamento quotidiano, con la sua noia e la sua necessità di provocazione diretta per tener desta l’attenzione. Tutti gli insegnamenti che Azuma impartisce ad Azuma sono diretti alla scoperta del centro della propria energia. I metodi della ricerca sono codificati meticolosamente, frutto di generazioni e generazioni di esperienza. Il risultato è incerto, impossibile da definire con precisione, diverso da persona a persona. Oggi, Azuma dice che il principio della sua vita, della sua energia di attrice e danzatrice può essere definito come un centro di gravità che sta al centro di una linea che va dall’ombelico al coccige. Ogni volta che danza, Azuma cerca di trovare l’equilibrio attorno a questo centro. Ancora oggi, malgrado tutta la sua esperienza, malgrado il fatto che sia stata allieva di una delle più grandi maestre, e sia lei stessa, oggi, maestra, non sempre lo trova. Lei immagina (o forse sono le immagini con cui le si cercò di trasmettere l’esperienza) che il centro della sua energia sia una palla di acciaio che sta in un punto della linea che va dall’ombelico al coccige, o dal triangolo formato congiungendo le due estremità delle anche al coccige, e che la pal171
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la di acciaio sia ricoperta di molti strati di cotone. Il balinese I Made Pasek Tempo fa un cenno di assenso: «Tutto quel che fa Azuma è davvero così, dice, kras ricoperto di manis». Nella tradizione occidentale, il lavoro dell’attore è stato orientato da una rete di finzioni, di “se magici” che riguardano la psicologia, il carattere, la storia della sua persona e del suo personaggio. Anche i princìpi pre-espressivi della vita dell’attore non sono qualcosa di freddo, che riguarda la fisiologia e la meccanica del corpo. Anch’essi sono basati su una rete di finzioni, ma finzioni, “se magici” che riguardano le forze fisiche che muovono il corpo. Ciò che l’attore cerca, in questo caso, è un corpo finto, non una personalità finta. Nelle tradizioni orientali, nel balletto, nel sistema del mimo di Decroux ogni gesto del corpo, per rompere gli automatismi del comportamento quotidiano, è drammatizzato, è compiuto immaginando di spingere qualcosa, di sollevare, di toccare oggetti di una determinata forma e dimensione, di un determinato peso e di una determinata consistenza. Si tratta di una vera e propria psicotecnica che non ha, però, lo scopo di influenzare la psiche dell’attore, ma il suo fisico. Appartiene, quindi, alla lingua che l’attore parla con se stesso, o tutt’al più a quella che il maestro parla con l’allievo, ma che non ha alcuna pretesa di significare qualcosa per lo spettatore che vede. Per trovare la tecnica extra-quotidiana del corpo, l’attore non studia fisiologia, ma crea una rete di stimoli esterni a cui reagisce con azioni fisiche. 172
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Nella tradizione indiana, fra le dieci qualità dell’attore c’è quella del saper guardare, di saper dirigere lo sguardo nello spazio. È questo il segno che l’attore reagisce a qualcosa di preciso. Possiamo vedere un attore che esegue in maniera straordinaria gli esercizi del suo allenamento, ma se il suo sguardo non è precisamente direzionato, le sue azioni non hanno forza. Il corpo può essere, al contrario, rilassato, ma gli occhi essere in azione, cioè guardare per vedere, e l’intero corpo, allora, diventa vivo. In questo senso si può dire che gli occhi sono come una seconda spina dorsale dell’attore. Tutte le tradizioni orientali codificano i movimenti degli occhi, le direzioni che debbono seguire. Ciò non riguarda soltanto lo spettatore, ciò che egli vede, ma anche l’attore, il modo in cui popola lo spazio vuoto con linee di forza, con stimoli a cui reagisce. Alla fine del suo diario, l’attore Kabuki Sadoshima Dempachi, morto nel 1712, scrive che esiste un’espressione secondo cui “si danza con gli occhi” e che ciò significa che la danza può essere paragonata al corpo e gli occhi all’anima. Aggiunge che la danza a cui gli occhi non prendono parte è una danza morta, mentre è viva la danza cui partecipano insieme i movimenti del corpo e quelli degli occhi. Anche nelle tradizioni europee gli occhi sono “specchio dell’anima”, e gli occhi dell’attore possono essere visti come il punto intermedio fra le tecniche extra-quotidiane del suo comportamento fisico ed una sua psicotecnica extra-quotidiana. Sono gli occhi che mostrano che egli è deciso e che lo fanno essere deciso. 173
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Appassionato di film western, il grande fisico danese Niels Bohr si chiedeva perché, in tutti i duelli finali, il protagonista sia più veloce a sparare anche se è il suo avversario a metter per primo mano alla pistola. Bohr si chiedeva se dietro questa convenzione non ci fosse una qualche verosimiglianza fisica. Risolse di sì: il primo è più lento perché decide di sparare, e muore. Il secondo vive perché è più veloce, ed è più veloce perché non deve decidere, è deciso. Un milione di candele «La vera espressione – ha detto Grotowski in una recente intervista – è quella dell’albero». E spiegava: «Se un attore vuole esprimere, allora è diviso, c’è una parte che vuole ed una che esprime, una parte che ordina ed una che esegue gli ordini». Inseguendo la traccia dell’energia dell’attore, siamo giunti a intravederne il nocciolo: a) nell’amplificazione e nella messa in gioco delle forze che sono in opera nell’equilibrio; b) nelle opposizioni che reggono la dinamica dei movimenti; c) in un’opera di riduzione e di sostituzione che fa sempre emergere l’essenziale delle azioni e allontana il corpo dell’attore dalle tecniche quotidiane del corpo, creando una tensione, una differenza di potenziale attraverso cui passa energia. 174
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Le tecniche extra-quotidiane del corpo consistono in procedimenti fisici che appaiono fondati sulla realtà che si conosce, ma secondo una logica che non è immediatamente riconoscibile. Ora siamo in grado, se non di comprendere, per lo meno di intuire cosa si dissimuli dietro altre parole con cui la nostra parola “energia” può essere tradotta: sono le parole che rimandano ad un’unità, al risarcimento di una divisione, ad un attore che dopo essersi dissezionato si ritrova intero. Nella lingua di lavoro del No¯, “energia” può essere tradotta con ki-hai che significa “accordo profondo” (hai) dello spirito (ki, nel senso di spirito come pneuma e di spiritus, respiro) con il corpo. Anche in India ed a Bali è la parola prana (equivalente a ki-hai) a fornire una delle possibili traduzioni di “energia”. Ma tutte queste sono immagini che possono ispirare, non consigli capaci di guidare. Esse accennano, infatti, a qualcosa che sta al di là dell’intervento del maestro: ciò che noi chiamiamo espressione, o “fascino sottile”, o arte dell’attore. Quando Zeami scriveva dello yugen, il fascino sottile, citava come esempio la danza che prese il nome da Shirabioshi, una donna che danzava nel Giappone del XIII secolo vestita da uomo, con una spada in mano, e seduceva gli sguardi nelle strade. La ragione per cui, così spesso, specialmente in Oriente, ma anche in Occidente – il culmine dell’arte dell’attore sembra essere toccato da uomini che rappresentano personaggi femminili, o da donne che 175
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rappresentano personaggi maschili, è che in quei casi l’attore o l’attrice fa esattamente il contrario di ciò che fa oggi l’attore che si traveste in una persona dell’altro sesso: non si traveste, ma si sveste della maschera del suo sesso per lasciare trasparire un temperamento dolce o vigoroso, indipendentemente dagli schemi a cui un uomo o una donna debbono conformarsi in una determinata cultura. Nelle opere teatrali delle diverse civiltà, i personaggi maschili e quelli femminili sono rappresentati con quei temperamenti che le diverse culture identificano come “naturalmente” appropriati al sesso femminile o a quello maschile. La rappresentazione dei caratteri distintivi dei sessi è quindi, nelle opere teatrali, la più soggetta alle convenzioni: si tratta di un condizionamento così profondo da rendere quasi impossibile la distinzione tra sesso e temperamento. Quando un attore rappresenta un personaggio di sesso opposto al suo, l’identificazione tra determinati temperamenti e l’uno o l’altro dei due sessi si incrina. È forse il momento in cui l’opposizione fra lokadharmi e natyadharmi, fra il comportamento quotidiano e quello extra-quotidiano, scivola dal piano fisico a un altro piano non più immediatamente riconoscibile. Una nuova presenza fisica e una nuova presenza spirituale si rivelano attraverso la rottura – che nel teatro viene paradossalmente accettata – dei ruoli maschili e femminili. Parlando con Sanjukta Panigrahi, emerge la più giusta e la meno utilizzabile delle traduzioni del termine “ener176
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gia” applicato all’attore. La meno utilizzabile perché traduce l’esperienza di un punto di arrivo e di un grande risultato; non traduce l’esperienza della via per conseguirlo. Sanjukta Panigrahi ricorda che energia si dice Shakti: è l’energia creatrice, che non è né maschile né femminile, ma che viene rappresentata da un’immagine di donna. Per questo, solo alle donne in India viene attribuito il titolo Shakti amsha, parte della Shakti. Ma l’attore, indipendentemente dal suo sesso, dice Sanjukta Panigrahi, è sempre Shakti, energia che crea. Il punto di arrivo, quando l’attore crea, non è un momento di cui ci si possa occupare in queste pagine. Ma, giunti alla fine, dopo aver parlato della danza delle opposizioni su cui si fonda la vita dell’attore e dopo esserci occupati dei contrasti che egli volontariamente amplifica, dell’equilibrio che egli volontariamente rende precario e mette in gioco, l’immagine della Shakti può divenire un simbolo di tutto ciò di cui qui non si parla, della domanda fondamentale: come si diventa un buon attore? In una delle sue danze, Sanjukta Panigrahi mostra Ardhanarishwara, Shiva per metà femminile. Subito dopo di lei, Iben Nagel Rasmussen presenta Moon and Darkness: siamo a Bonn, alla fine della International School of Theatre Anthropology, dove per un mese pedagoghi ed allievi provenienti dai diversi continenti si sono accaniti attorno alle basi tecniche, pre-espressive, fredde, del lavoro dell’attore. Il canto che accompagna la danza di Sanjukta dice: 177
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A te mi inchino che sei forma di maschio e di femmina, due deità in una, che nella metà femmina ha il vivido colore del fiore di Champak e nella metà maschio ha il pallido colore del fiore di canfora. La metà femmina fa tintinnare bracciali d’oro, la metà maschio è adorna di bracciali di serpenti. La metà femmina ha occhi d’amore, la metà maschio ha occhi di meditazione. La metà femmina ha una ghirlanda di fiori di mandorlo, la metà maschio una ghirlanda di teschi. Di vesti abbaglianti è vestita la metà femmina, nuda è la metà maschio. La metà femmina è capace di tutte le creazioni, la metà maschio è capace di tutte le distruzioni. A lei mi rivolgo, congiunta al Dio Shiva, suo sposo. 178
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A Lui mi rivolgo congiunta alla Dea Shiva, sua sposa.
Iben Nagel Rasmussen, invece, canta il lamento dello shamano di un popolo distrutto. Subito dopo ricompare come un’adolescente che balbetta parole rapite, sulla soglia di un mondo in guerra. L’attrice orientale e l’attrice occidentale sembrano allontanarsi, ognuna nel fondo della propria cultura. Eppure, si raggiungono. Sembrano superare non solo la loro persona e il loro sesso, ma persino la loro perizia artistica, per mostrare qualcosa che sta dietro a tutto ciò. Il maestro d’attori sa quanti anni di lavoro stiano alla base di questi istanti, eppure gli sembra che qualcosa sbocci spontaneamente, né cercato né voluto. Non ha niente da dire. Può solo guardare come Virginia Woolf guardava Orlando: «Un milione di candele ardevano in Orlando, senza che egli si desse pensiero di accenderne neppure una sola»2. (marzo 1981)
2 Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in «Degrés», n. 25, 1980.
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ringraziamenti
Desidero ringraziare, ad uno ad uno: Katzuko Azuma, che ho incontrato in una minuscola sala al centro di Tokyo, mentre dava lezioni di danza Buyo, allieva della famosa danzatrice Azuma, da cui ha ricevuto il nome, ricercatrice sapiente e curiosa. Moriaki Watanabe, professore di letteratura francese all’Università di Tokyo, esperto di Racine e Claudel, regista moderno e guida sicura per penetrare i segreti del No¯. Hisao Kanze, il grandissimo attore No¯, scomparso nel 1978, e suo fratello, Hideo, anch’egli attore No¯ e sperimentatore: con cui collaborai ad Holstebro nel 1973 e quattro anni dopo nel corso dell’Incontro Internazionale del Teatro di Gruppo a Bergamo. Sawamura Sojuro¯ , attore Kabuki specialista nelle parti femminili, che è stato il primo ad introdurmi al teatro Kabuki. Tadashi Suzuki, di cui ho visto, nel 1979, la regia delle Troiane di Euripide, che mi ha ospitato nel villaggio di mon181
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tagna in cui lavorava, e mi ha spiegato le conseguenze che i mutamenti delle tecniche quotidiane del corpo hanno sulla tradizione teatrale in Giappone. Mannojo¯ Namura, grande maestro di Kyogen, incontrato nel ’73 ad Holstebro e nel ’79 a Tokyo. I Made Bandem, danzatore del Kokar di Bali, con cui ho collaborato nel corso dell’incontro di Bergamo, nel ’77. I Made Pasek Tempo, del villaggio di Tampaksiri, a Bali, considerato uno dei più grandi maestri di topeng, maestro da quattro anni di Toni Cots, attore dell’Odin. Shanta Rao, che continua a danzare, ed è già un mito che incarna la storia della danza tradizionale indiana nel nostro tempo. È venuta a Holstebro nel ’77, ha danzato, ha accettato – contrariamente al suo costume – di tenere un seminario, e soprattutto ha lasciato nel nostro teatro il segno della sua saggezza. Étienne Decroux e Dario Fo, autodidatti e per questo veri maestri, con cui ho collaborato nel campo della pedagogia teatrale, e da cui ho spesso imparato. Chang Chai Chin, del Tapon Opera, teatro finanziato dall’aeronautica militare della Repubblica di Cina, nominato sergente per meriti artistici. Tiao Chun-Lin, maestro al Foo Hsing Opera School di Taiwan. Victoria Santa Cruz, maestra di danza e di ritmo, incontrata a Lima e poi al Taller di Ayacucho sul teatro di gruppo. Peruviana di pelle nera, donna, ha sperimentato la discriminazione sul piano personale e professionale. Oggi incarna ciò che i peruviani idealizzano come la pro182
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pria tradizione culturale e dirige il Conjuncto Nacional de Folklore. Ragunath Panigrahi, maestro di canto tradizionale indiano. Sanjukta Panigrahi, danzatrice, ricreatrice della danza Orissi. Ne rivelò l’inaspettata bellezza ad Holstebro, nel ’77, ed è oggi fra coloro che con maggior esperienza, dedizione ed autorità collabora alle ricerche dell’antropologia teatrale. Coloro, però, che più debbo ringraziare sono forse i bambini della scuola di Kathakali del villaggio indiano di Cheruthuruti. Nel 1963, all’inizio del mio apprendistato teatrale, quando i loro maestri erano riluttanti, visto che non ero disposto a ripagarli con denaro, furono quei bambini che accettarono di rispondere alle mie domande e per primi mi permisero di introdurmi alla conoscenza del teatro e della danza indiana. Ma nulla avrei capito del teatro orientale, dei suoi princìpi, delle sue profonde esperienze, dei suoi “segreti”, senza il lavoro, giorno per giorno, con gli attori dell’Odin Teatret. È stata questa pratica costante che mi ha dato occhi per vedere realtà teatrali che in genere sembrano troppo diverse dalla nostra per poterci dialogare. Così, dopo aver ricordato tanti maestri, posso concludere questi ringraziamenti ricordando il mio maestro, Jerzy Grotowski: è con gioia che ancora una volta ho potuto misurarmi con il suo lavoro, trarre stimolo, conferme e interrogativi per l’antropologia teatrale delle sue ricerche sul “teatro delle fonti”.
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