La conquista della differenza. Trentanove paesaggi teatrali
 9788878706248

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BIBLIOTECA TEATRALE Diretta da: Ferruccio Marotti

MEMORIE DI TEATRO / 30 Diretta da: Ferdinando Taviani e Valentina Venturini

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EUGENIO BARBA

LA CONQUISTA DELLA DIFFERENZA Trentanove paesaggi teatrali Presentazione di Ferdinando Taviani

BULZONI EDITORE

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TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-624-8 © 2012 by Eugenio Barba © 2012 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

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INDICE

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Presentazione di Ferdinando Taviani .............................................................................. p.

I

INTRODUZIONE La conquista della differenza ................................................................................................. »

13

LA CONTRADA DEGLI ANTENATI ......................................................................

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35

............................................................................................................

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37

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55

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71



La deriva degli esercizi .................................................................................................... »

79



Un amuleto fatto di memoria. Il significato degli esercizi nella drammaturgia dell’attore ............................................................................................... »

85



La stanza fantasma .............................................................................................................. »

91



La danza dell’algebra e del fuoco ........................................................................... »

105



Drammaturgia: L’ordine profondo che è turbolenza

»

113



Tradizione e fondatori di tradizioni



L’essenza del teatro



Nonni e orfani



La casa delle origini e del ritorno

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TECNICHE E COSTUMI DEI PAESI DEL TEATRO

............................

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INCONTRI CON GLI SPETTATORI E CON ME STESSO p. 127



Testo delle origini



Quel che è organico per l’attore e quel che è organico per lo spettatore ..................................................................................................................................... »

129



Eftermæle. Quello che si dirà dopo



La geografia delle illusioni



................................................................................................................

......................................................................

»

131

.........................................................................................

»

135

Angelanimal. Tecniche perdute per lo spettatore ...................................... »

147

LETTERE DALLA MIA TERRA NOMADE 1. Voi date, noi diamo in risposta .................................................................................. »

159

2. L’uomo del vento e dei fulmini 3. Inseguire se stessi

................................................................................

»

161

...............................................................................................................

»

163

4. Gli orecchini di Pirandello

..........................................................................................

»

165

5. Qui non si può fare niente

............................................................................................

»

167

»

173

7. Graffiare i muri ....................................................................................................................... »

179

8. Vivere con imprudenza .................................................................................................... »

181

9. Separare il teatro dalla sua separatezza

6. Cavalieri con spade d’acqua

......................................................................................

.............................................................

»

183

.........................................................................................

»

185

.....................................................................................................................

»

195

»

199

.....................................................

»

203

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»

205

..................................................................................................................

»

207

»

215

17. Figli dello stesso paradosso ......................................................................................... »

223

18. Ricordando il re Frederik V ......................................................................................... »

225

10. Il giuramento di Atahualpa 11. Nera allegrezza

12. Come brucia il teatro di carta

....................................................................................

13. Non appartenere al mondo in cui viviamo 14. Lettera da Port-Bou 15. Llaneza y vaivén

16. Fabbricanti di ombre

........................................................................................................

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PAESAGGI PRIMA DELLA BATTAGLIA •

Lo spazio paradossale del teatro .............................................................................. p. 229



I cento violini del guerrigliero ................................................................................... »

233



Il paradosso del mare

»

243



Dentro le viscere del mostro

.......................................................................................

»

253



Elogio dell’incendio

..........................................................................................................

»

265

L’epilogo è una domanda ......................................................................................................... »

273

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EPILOGO

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PRESENTAZIONE

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di Ferdinando Taviani

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Questo libro l’ho visto nascere. Permettetemi di presentarlo. La prima volta, quando l’ho letto in una sua forma ancora primitiva, mi è parso una gran bella testa su di un corpo ancora gracilino. Il titolo faceva intravedere un pensiero inatteso, che però era seguito da una compilazione di scritti già tutti pubblicati, alcuni di diversi anni fa, impilati come in un manuale. Nell’insieme, mi faceva pensare all’impronta d’un passo interrotto. Anche ad Eugenio Barba quel primitivo ordinamento dei materiali non faceva una buona impressione. Sarebbe stato bastantemente interessante se quel titolo non fosse stato lì a far pensare qualcosa di più. Dato che non c’è niente, almeno fra i libri, che faccia un così cattivo effetto come una promessa non mantenuta, la soluzione ovvia era sfumare la promessa – il titolo – adattandolo alle più modeste fattezze della raccolta. Barba ha fatto esattamente il contrario: ha distrutto l’ordinata compilazione degli scritti e ha costretto l’insieme ad inseguire il titolo. Con i pezzi staccati ha composto un mosaico. Ne è venuto fuori uno dei suoi libri più belli ed enigmatici. All’incirca nello stesso tempo, in condizioni per più versi proibitive, Barba lavorava alla concezione ed alla regia d’un nuovo spettacolo. Anche in quel caso, il titolo ha rischiato a lungo di pesare troppo. Ed anche allora il lavoro è partito zigzagando, ma guidato dalla necessità d’inseguire il suo strano titolo. Alla fine, La vita cronica è uscito come uno degli spettacoli più intensi e misteriosi di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret. Questo modo di procedere contromano, lungo strade che di regola sarebbero “sbagliatissime”, ma che sono come quelle che imbroccano certi bambini perduti nelle favole, contrassegna la produzione dei “racconti d’inverno” (così fra me e me li chiamo) di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret (75 anni l’uno, 50 l’altro). Una strada fatta apposta per disorientare la perizia accumulata con gli anni, in modo che il saperci fare non smarrisca gli stupori del debutto. La conquista della differenza e La vita cronica sono arrivati a compimento più o meno insieme, verso la fine del 2011. Non proprio gemelli, si trovano

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IV

Ferdinando Taviani

però gemellati dalla cronologia. Sicché nel presentare il libro non potrò evitare qualche riferimento anche allo spettacolo. Che inizia con una figura un po’ sacra un po’ buffa ed un poco selvaggia: una Madonna nera che sembra appena scesa dagli altari, madre misericordiosa e feroce con la spada nel cuore. Entra nello spazio vuoto, scavalca un cadavere rimasto sul terreno, getta in aria delle carte da gioco come una fattucchiera. S’accuccia, borbotta un suo latinaccio gutturale che confina con i mugolii di chi è troppo vecchio per parlare e con i ciangottii infantili. Qualcuno canta in falsetto: entra una persona alta, elegantemente vestita di nero, una collana di perle al collo, e un cammeo. Porta una scodella, posate e tovagliolo. L’attenzione si sposta al centro, dove c’è una tovaglia bianca apparecchiata per la minestra. La tovaglia diventa un lenzuolo. Il lenzuolo un sudario. Inizia una storia che riguarda un padre militare che muore, un orfano e una vedova. La Madonna nera, in fondo, al limitare del buio, quasi inosservata, si accoccola sul pavimento – e poi, come se niente fosse, invece di rialzarsi mette le gambe per aria, fa la verticale con i piedi al posto della testa. Qualcuno, fra gli spettatori, guarda da quella parte e vede una Madonna a rovescio che mostra le gambe. Registica ironia: dice figurando di non dire. Perché questo, lo si voglia o no, è il segnale che da qui in poi tutto lo spettacolo si rovescia. Il tempo potrà camminare all’incontrario, e la storia traboccherà dal futuro prossimo al passato remoto, abolendo ogni ragionevole intreccio col presente. Con mezzi ed astuzie diverse ma equivalenti, anche il variegato mosaico di questo libro squaderna un mondo alla rovescia, una geografia che sulle carte non c’è. Un teatro-mondo descritto per la prima volta minutamente nella sua verità e vastità da uno dei suoi più coscienti abitanti. Cosciente, pedagogico e meticoloso. Assai diverso da come ce lo lasciano immaginare le sue opere sceniche. La vastità di questo teatro-mondo è verticale, simile a quella di certi piccoli laghi vulcanici. Crateri navigabili, alcuni pescosi, altri solfurei; alcuni esposti al turismo altri solitari e dediti al ghiaccio. Molto circoscritti, sono non di rado sterminati perché in contatto con un remoto sottosuolo. Possono essere arcigni o ridenti. Tutti, per una ragione o per l’altra, sono pericolosi. Il titolo rovescia la nozione di differenza, che in genere è pensata come una condizione di partenza e qui indica invece un traguardo. Così come “differenza” nasconde non solo il senso della solitudine ma anche quello della liberazione, in “conquista” si nasconde anche il dolore. Il montaggio trasforma le pagine che l’autore ha pescate nella sua vasta produzione letteraria in un patchwork cucito per il dritto e per il rovescio: dà

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Presentazione

V

l’impressione d’una carta geografica, d’un microcosmo senza territorio, misto d’avvenire e passato. Una storia-geografia che potrebbe essere immaginaria se l’autore non ce ne presentasse le cronache. L’autore è lo scrittore più prolifico, fra gli artisti e capitani teatrali contemporanei. Qui scrive tramite la rinuncia a scrivere cose nuove. Depone l’abito del riconosciuto Maestro, e si comporta da maestro elementare: racconta, scorpora, ricapitola, ripete le cose che ripetute giovano, indica alcune scorciatoie per sfuggire ai trabocchetti. Attento ai dettagli, preferisce l’eccesso di informazioni alle parole scorciate delle parabole. Cura l’apparente disordine del mosaico e l’architettura che gli dà un ordine apparente. L’architettura si sviluppa come un ampio ventaglio istoriato retto agli estremi da due domande in funzione di pilastri, diviso in cinque sezioni che ordinano i 39 paesaggi teatrali che il sottotitolo promette. Le cinque sezioni sono altrettante regioni o scomparti della storia-e-geografia del microcosmo teatrale che il libro ricostruisce. La prima sezione: qui vediamo la “contrada degli antenati”, le loro solitudini che attirano e sviano i seguaci, abbacinati da un’immaginaria promessa d’eredità. Vediamo anche alcuni di coloro che si ingegnano a rendere vive le parole dei “maestri folli”, che parlano solo per il silenzio sul quale riposano – come il vuoto che suona nel tamburo quand’è nascosto dalla ben tesa pelle dell’asino.. La seconda sezione presenta colpi d’occhio nelle stanze in cui gli artigiani e i poeti del teatro preparano le proprie armi o i propri ami – che in realtà sono strumenti adatti non a ferire, ma a legare sorprendere scuotere e spaesare gli spettatori. Strumenti che servono a contagiarli con filtri d’amore e di repulsione, d’indignazione e chiaroveggenza. Terza sezione: ci aggiriamo fra le immaginazioni a specchio; il buon uso dei fraintendimenti che legano attori e spettatori. Anche chi agisce nello spettacolo è suo spettatore. Ed anche chi è lì solo per guardare, nella propria immobilità agisce a tutto spiano. Pencola a volte fra monotonia e sorpresa, indifferenza e commozione, passività e spasso. Uno forse sonnecchia fra riconoscibili ovvietà (o verità), e magari, per un istante, quel che vede gli apre gli occhi. La quarta sezione è la più strana. Esibisce un fascio di lettere, auguri consigli gratitudini ed esortazioni, ognuna con un piccolo ritratto dei destinatari. Segna l’intrico d’una rete di relazioni che lega esigue minoranze, sparse nei punti più lontani del pianeta. Persone lontane che si parlano, a volte senza neppure conoscersi, come si parlano i compaesani. Può darsi che per i gusti di qualcuno questa sezione grondi un po’ troppo affetto, un po’ troppa amichevolezza e solidarietà. Vi abbondano però i ritratti e i panorami. Possiamo inoltre

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VI

Ferdinando Taviani

osservare la quantità e l’eterogeneità dei destinatari, le microstorie che rivelano; oppure valutare la totale assenza di quelle sottintese gerarchie che altrove distinguono le persone sulla base della fama, del successo e delle bravure, distorcendo le reali fattezze del teatro-mondo. A volte, quasi per ristoro, c’è anche del peperoncino. Quasi sempre, sotto la coltre della benevolenza, lo sguardo è spietato: sguardo che il mittente indirizza di rimbalzo a se stesso parlando ad altri. Alla fine, c’è come uno sberleffo, la letterina che chiude la sezione, indirizzata ad un’alta autorità francese parigina e ministeriale – un Ministro per la Cultura. L’autore lo redarguisce in poche righe, trattandolo dall’alto in basso col sorriso che un ufficiale potrebbe rivolgere ad una recluta sventata. Lo redarguisce del tutto inutilmente: quella gente lì non è neppure in grado di ascoltarle le parole non intonate al bon ton del potere. Mi fermerò un momento davanti a questa letterina. A tutta prima m’è parsa di dubbio gusto. “Che dici, la lascio?”, m’ha chiesto Eugenio Barba. “Sì, lasciala, lasciala”, gli ho sùbito consigliato, perché mi dava allegria: come una ben assestata pernacchia. Poi mi sono reso conto che additava un microscopico esempio del mondo come potremmo vederlo se non fossimo divorati dalle apparenze. È un serio rimprovero per una trascurabile omissione di carattere burocratico ai danni d’un piccolo gruppo teatrale – che per trascurabili disattenzioni del genere rischia come teatro di sparire. Il buon senso fa spesso ridere per il semplice allontanarsi dal senso comune, soprattutto nei casi del tipo “re nudo”. Sarebbe fantastico riuscire a vedere come normale il caso d’un artista, un aristocratico scalzo, che fa un’educata lavata di capo ad un gallonato servitore (dello Stato). Alla fin fine, è di noi che ridiamo, addestrati al rispetto di fronte alla volgarità con parlantina raffinata, benissimo vestita, ben pagata e con solenni distintivi all’occhiello. Quinta sezione: chiusa la galleria delle lettere e spenta l’eco della pernacchia, sbocchiamo in uno di quei giardini mostruosi o contorti che piacevano tanto a certi aristocratici di qualche secolo fa, che tentavano di materializzare il sonno della Ragione (erano i giardini di fronte ai quali Goethe irreparabilmente si conturbava fin quasi a venir meno). “Paesaggi prima della battaglia” li chiama l’autore. Ma perché dice “battaglia”?, e perché dice “prima”? Non sarà mica un semplice gioco di parole a partire dal titolo del film di Andrzej Wajda Paesaggio dopo la battaglia, basato sui racconti di Tadeusz Borowski? Con queste cose Eugenio Barba non gioca (non giocherebbe mai con Borowski). La “battaglia” a cui si intitola questa sezione ha probabilmente a che vedere con la seconda delle due domande cui abbiamo accennato.

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Presentazione

VII

Le due domande agli estremi del ventaglio non contribuiscono certo a dare stabilità a tutta l’architettura. Sono, come in certi emblemi d’un tempo, le ali che il pittore metteva ai due lati d’una chiesa d’un palazzo o d’un panorama per significare che potevano volare nella memoria. Qui al posto delle ali, ai due estremi del libro ci sono due punti interrogativi. La prima domanda, nella pagina d’inizio, viene posta all’autore e riguarda il senso della longevità del suo teatro, longevità proverbiale (l’abbiamo già detto: l’Odin Teatret sta per compiere cinquant’anni d’attività). L’altra, nell’ultima riga dell’ultima pagina, è l’autore stesso a porsela: “Come lottare contro la dittatura della storia a lieto fine?”. Il libro si chiude così. La domanda resta sospesa. Che significa esattamente “lieto fine”, in questo contesto? E soprattutto: da dove esce, all’improvviso, quella parola: “dittatura”? *** Fra gli artisti che hanno profondamente segnato il teatro del secondo Novecento e d’inizio Duemila, Eugenio Barba è il solo ad aver tenacemente lavorato in tutti i campi della cultura teatrale. Ha mostrato come possa essere unificata, sia in teoria che in pratica. Il che concretamente vuol dire che ha saputo riunire, come in un comune villaggio, persone che aderiscono al teatro ma che di per sé vivrebbero separate dalla diversità delle provenienze, dei linguaggi, degli stili, delle tradizioni, specialità e mansioni. Non solo con i suoi libri e i suoi saggi, tradotti in molte lingue, ma anche con l’azione. Ha infatti inventato periodi di comune lavoro teorico-pratico soprattutto nell’ISTA, l’International school of Theatre Anthropology; e poi in atelier, seminari, spettacoli, convegni, feste e iniziative culturali. Ha contribuito a trasformare il modo di pensare e raccontare la storia del teatro. Ha posto le fondamenta d’una scienza del teatro capace di comparare le diverse pratiche e le più lontane tradizioni. Ha curato i ponti fra la ricerca teatrale contemporanea e la Grande Riforma d’inizio Novecento. Ha eliminato le distanze fra i teatri classici asiatici e i teatri indipendenti europei; fra questi ed i teatri dell’America Latina. Ha inoltre individuato e messo in pratica le strategie per le quali la presenza del teatro può trasformarsi in strumento per riattivare le relazioni fra gruppi, etnie e culture diverse, vincendo le inerzie della pacifica indifferenza reciproca e sfuggendo all’egida di preordinate ideologie organizzatrici. Il giusto prezzo pagato per quest’opera di unificazione teorica e pratica è stato la rinuncia al consolidamento istituzionale. La salvaguardia, cioè, della propria dissidenza.

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VIII

Ferdinando Taviani

Nel lontano 1964, Eugenio Barba ha cominciato andandosi semplicemente e letteralmente a sedere fuori dal cerchio teatrale riconosciuto. Non c’era altro posto. Lì è rimasto anche quando lui e il suo ensemble sono stati apprezzati, ammirati, e son diventati famosi. A questo punto non ha cambiato strada. Mentre il raggio della sua azione si allargava, l’Odin Teatret è sempre rimasto un piccolo gruppo d’una decina d’attori che svolgono tutti i còmpiti inerenti la vita e l’organizzazione del teatro, senza alcuna divisione del lavoro. L’Odin Teatret, cioè, è sostanzialmente rimasto così com’era all’inizio, quando con spettacoli come Ferai, Min Fars Hus e Ceneri di Brecht, fra il 1964 e l’82, scalarono le vette della celebrità internazionale. Attraversata la “curva degli applausi”, Eugenio Barba e l’Odin Teatret hanno proseguito per le loro strade torte, a volte scomparendo addirittura dai notiziari delle novità e dei festival. Entravano, intanto, nei libri di storia e fra le voci delle enciclopedie. Sempre più spesso, accanto alle cerimonie per le lauree honoris causa ad Eugenio Barba, nelle più diverse e prestigiose università, fiorivano liberi incontri delle differenze teatrali. Fedeltà e dissidenza non sono virtù, ma investimenti che mirano a sopravvincere il mutare delle circostanze. Comportano un costo: non capitalizzare il successo che si raccoglie nelle “curve degli applausi”. L’Odin, benché a volte sembri accantonato o dimenticato, in realtà non ha mai perso il suo pubblico. Piccole folle, sparse qua e là per il mondo, tornano a gremire i suoi spettacoli, a vederli e rivederli, anno dopo anno – e in essi, nel loro succedersi e scandirsi, leggono alcuni segni su se stessi e sui tempi. A volte si passano naturalmente la voce: sono figli e figlie che corrono a vedere quel teatro della cui importanza i loro genitori hanno parlato. Importanza, il più delle volte, per la loro vita, non solo per la storia astratta dell’arte. L’Odin è certamente un teatro di successo. Ma il suo è soprattutto un successo differente. Abbiamo parlato della riunificazione della cultura teatrale operata da Eugenio Barba. Va detto sùbito che i suoi spettacoli non la rappresentano. Di essa sono forse il controcanto o i contrafforti. Non celebrano appartenenze o comunanza di idee. Di esse lacerano semmai l’illusione. Molto teatro serve per sottoporre al giudizio del consenso o dei fischi i manufatti di un’arte avvalorata dal comune cultural sentire. Altri teatri servono a “star bene assieme” (sia pure solo ogni tanto e per poco). O per tentare di star bene con se stessi (ammesso che quest’espressione indichi qualcosa di sensato). A volte celebrano valori comuni. Altre volte, nei casi migliori, provocano condivisi o condivisibili giudizi politici o morali. Gli spettacoli inventati da Eugenio Barba, no. Dividono. Spesso lo spettatore si scopre scosso fuori

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Presentazione

IX

dai suoi consolidati pensieri, dalla sua usuale abitudine a far camminare di pari passo comprensione, giudizio ed emozione. Quasi sempre in pratica ti viene negato il piacere, tanto forte quando si fa parte del “pubblico” d’uno stesso spettacolo, di sentire il tuo pensiero marciare di pari passo col pensiero degli altri. Il piacere per cui puoi presumere che il tuo vicino veda le stesse cose che tu stesso stai vedendo, la stessa storia, la stessa trama: la potente e bella illusione di sentire capire e vedere allo stesso modo degli altri. L’epilogo della Vita cronica regala la strana esperienza di sedere spalla a spalla con un tuo simile da cui sei nello stesso tempo distantissimo. È forse la sensazione che vivono gli strumenti d’una stessa orchestra (non i suonatori, ma gli strumenti, nei limiti in cui anch’essi vivono e a modo loro pensano) quando suonano assieme temi in contrasto o indipendenti. C’è un morto che non è morto, un giovane che riemerge dal feretro dove l’hanno infilato, o a cui s’è rassegnato in cerca di pace. Fuoriesce, smette di cercare e soffrire – finalmente sorride. Gli compare accanto un gemello cieco. Quest’ultimo suona il violino in maniera tanto giusta che tutti noi non possiamo fare a meno d’esserne commossi, dopo esser stati mossi da canti e fanfare piene di vitalità. Commossi – ma ciascuno sulla sua via divergente. I gemelli a lungo reclusi ed isolati trovano ora porte aperte. Ridono come bambini che scendono di casa per giocare. Si portano dietro una pistola. Che ha un proiettile in canna. Escono. Lo spazio scenico, rimasto solo, comincia allora a gocciolare, come quando fra le assi d’una baracca ghiacciata la neve si disgela e imita la pioggia trapelando. O come quando un edificio s’abbandona con tutte le sue vene e le sue tubature al proprio naturale desiderio di crollare. È così, tanto per fare un esempio, che il lieto fine sfugge alla dittatura che lo nutre? *** Consiglierei al lettore di introdursi in questo libro anche partendo dalle ultime pagine, dall’Epilogo. È bene sapere fin dall’inizio che qui vi sono due geografie: quella dei 39 paesaggi e una geografia del cuore che resta dissimulata. Forse non soltanto per il lettore. L’autore sembra a volte che lotti con se stesso anche per interposta persona, lottando con coloro a cui piace, che lo amano ed amano le sue opere. Quasi che l’Angelo Custode fosse un avversario. E viceversa. Forse è per questo che l’autore evita la scrittura che mima l’introspezione. Nel pezzo intitolato Eftermæle, si riconosce in un botta-e-risposta brechtiano: “I giovani vi aspettano, signor Brecht! Voi siete un mito per noi in Germania!”. “Troverò un rimedio a tutto questo”.

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X

Ferdinando Taviani

Per molta gente amante delle arti e del teatro, Eugenio Barba è poco più d’un nome oscuro o intrasentito. Ma per molti altri è invece da tempo un personaggio leggendario. Il che, per la persona chiamata ad essere un tale personaggio non è mai salutare né facile da sopportare. Saldamente al comando del suo teatro che naviga ormai dal tempo d’una vita, bersagliato dalla venerazione, esposto persino ai veleni d’un certo culto della personalità, spinto dalla fama e dall’età verso il recinto dell’autobiografia, Barba in questo libro si smarca: apre il ventaglio dei suoi 39 paesaggi, e prende il vento. Da quando lo conosco e collaboro con lui, ho spesso dovuto combattere con uno spettro professionale: perché non pensare a scrivere una sua biografia? Ma come si fa? Come si sentirebbe uno che si costringesse a pensare come scrivere la vita di qualcuno con cui scambia le idee e le burle, le paure e la corsa? Un fastidio profondo mi ha condotto a scoprire la profonda menzogna che fa il bello e il brutto delle biografie non completamente inventate. E che nelle autobiografie non inventate può sfociare in qualcosa di letterariamente affascinante, ma che comunque non può non essere un’ingiuria alla vita. Detto ciò, questo libro può anche essere visto come l’impronta di un’autobiografia scampata. La voce che sale da queste pagine è più unica che rara nella cultura contemporanea. È stato detto che Eugenio Barba è fra i condottieri di teatro “il meno segreto – e il più misterioso”. Mezza riga, per niente altisonante, semplice, elegante, stringata e – se possibile – perfetta. Sarebbe bastata a presentare La conquista della differenza. L’ha scritta il mio amico e collega JeanMarie Pradier. Non l’ho scritta io. E me ne dispiace. Vànvera, 29 ottobre 2011

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Eugenio Barba

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La conquista della differenza

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A Franco, Mirella, Nando e Nicola

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INTRODUZIONE

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LA CONQUISTA DELLA DIFFERENZA*

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Cara Mirella, mi chiedevi recentemente cosa si senta stabilendo un record di longevità. Nell’ottobre del 2004, l’Odin Teatret ha compito quaranta anni. È tentante fermarsi un momento e guardare in quale contrada ci hanno portato tanti anni di teatro. E riflettere sulla propria storia. Ma le riflessioni condotte sulla propria pelle seguono sempre linee contorte, e procedono per divagazioni e sovrapposizioni, ripercorrendo vecchie idee e storie conosciute. Possono eludere la determinatezza, ovvero la tentazione di un assennato bilancio, solo sotto forma di reazione istintiva alle domande di qualcun altro. Anche le considerazioni personali – come i sentimenti di cui parlava Stanislavskij quando metteva in guardia gli attori dal rappresentarli direttamente – sboccano in pensieri addomesticati, se ci illudiamo che la nostra memoria possa dar loro forma. Le riflessioni che ci raccontano sono reazioni. Dipendono dall’azione di un partner reale o immaginario che ci decida a reagire.

Una reazione e molte domande Un partner, in questo caso, l’ho avuto, ed era reale. Una serie di domande circostanziate e stringenti da parte di un amico mi ha obbligato ad osservare la vicenda mia e dell’Odin Teatret in una luce straniata. L’amico, Ian Watson, mi intervistava un paio di anni fa per un suo libro su multiculturalismo e teatro. Secondo lui, la storia dell’Odin avrebbe potuto sintetizzarsi nella formula dell’esperienza e della pratica multiculturale. Lo dimostrava elencando una serie di elementi concreti. * Lettera alla studiosa di teatro Mirella Schino sull’indeterminatezza della memoria autobiografica. Pubblicato la prima volta in “Teatro e Storia” n. 25, Roma 2005.

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Eugenio Barba

Diceva: “Siete un teatro fatto di persone provenienti da differenti paesi, lingue e continenti. La vostra storia è il risultato di una serie di emigrazioni. Per lunghi periodi vi radicate in paesi lontani dalla Danimarca. I vostri spettacoli sono spesso poliglotti. Oltre al normale commercio di opere e progetti teatrali, praticate anche il baratto, scambiate cioè i vostri spettacoli con i prodotti culturali dei gruppi che vi ospitano, feste, danze, musiche, canti, attività artistiche e performative, in villaggi lontani o scuole, ospedali, carceri, associazioni di quartiere. Avete coniato il termine bizzarro transformances per indicare quei progetti che non si limitano alle performances, ma mirano a trasformare, per un breve periodo, il volto di una città, fanno affiorare e rendono visibili, in forma di rappresentazioni, le sue diverse componenti, le differenti culture che la abitano, intrecciandole e mettendole in relazione”. Aggiungeva la prova del nove di questa nostra vocazione al multiculturalismo: il fatto che accanto all’Odin fosse sorta l’ISTA, l’International School of Theatre Anthropology, che dal 1979 raduna nelle sue sessioni attori, registi, maestri di teatro e studiosi dei diversi continenti, e teatri d’Oriente e d’Occidente. Quando Ian Watson sosteneva che la definizione di “teatro multiculturale” sarebbe stata calzante non potevo dargli torto. Eppure, non riuscivo a dargli ragione. Qual è il senso della longevità del nostro teatro? Che sia fatto da persone e per persone di origini differenti, o persino di svariate tradizioni culturali e teatrali, non mi sembra rilevante. Mi interessa altro: la possibilità che il contatto con mondi diversi diventi una via per prendere le distanze da se stessi, dalle proprie origini e dal proprio mondo di appartenenza per dare origine a qualcosa d’altro. A me, della storia dell’Odin Teatret, delle persone che abbiamo incontrato, delle relazioni che abbiamo instaurato, delle nostre strategie di sopravvivenza, interessa soprattutto l’aspetto del rifiuto e dell’evasione. Un modo lungo e testardo di perseguire una nostra differenza. Differenza da chi? E da che cosa? L’amico Ian Watson era più sorpreso che deluso dalla mia riluttanza. Cominciò a chiedersi come mai io fossi così renitente ad impostare la questione da un punto di vista generale e tendessi continuamente a rispondere alla luce della mia autobiografia. È vero, l’atteggiamento autobiografico è spesso un modo per disimpegnarsi. Sfuggivo alle esigenze del lavoro intellettuale? Mi rifiutavo di allargare l’angolo della mia visuale? Mi sentivo forse assediato dalle esigenze di tracciare un bilancio oggettivo? Oppure miravo ad un altro bersaglio?

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Se guardo la storia dell’Odin Teatret, specie ora, quando essa è in gran parte alle nostre spalle, vedo qualcosa di completamente diverso da un intreccio e dialogo di culture. Vedo il teatro come luogo paradossale, in cui la creazione di un’opera comune presuppone non solo personalità diverse, ma ferocemente ed egoisticamente distanti tra loro, non solo con culture differenti, ma persino con fini, ideologie e sensibilità contrastanti. Le domande di Ian Watson mi costringevano a chiedermi: se le mie scelte non erano il desiderio ed il tentativo di allargare i confini del mio territorio culturale, da cosa derivavano? Cosa ho cercato per tanti anni, con tanta ostinazione? Così, mi sono ritrovato e ripercorrere mentalmente vicende che conosco bene cercandone i perché, e trovandomi di nuovo disorientato. Mi servivano modi inusuali per orientarmi, nuove parole. Le parole, però, non sono mai nuove. Quel che cambia è la luce che le illumina e le ombre che le accompagnano. Luci ed ombre complementari ora battagliano in maniera inconsueta intorno ad un termine logoro: differenza. La differenza può essere sperimentata come una circostanza data, che genera sofferenza, oppure orgoglio. Ma credo che la differenza possa essere anche un punto d’arrivo, una difficile conquista. Quando si è giovani, ci si sente come un punto nero in un mondo cui non si appartiene. Invecchiando, è questa non-appartenenza che, a volte, ci consente di vivere nel mondo. Abbiamo imparato quanto vale una differenza che incuta rispetto.

La propria terra Quando ero adolescente, nel profondo Sud dell’Italia, bastava che mi spostassi di pochi chilometri verso Nord per sentirmi straniero ed essere “diverso”. A Gallipoli, dove crescevo come figlio d’una famiglia borghese, ignoravo completamente le manifestazioni della cultura “popolare”. Molti anni dopo, ho appreso con stupore dai libri di Ernesto De Martino, che avevo vissuto nella culla del tarantismo: trance, musica e danze strutturate in una cerimonia terapeutica e performativa della cui esistenza non avevo avuto il minimo sospetto. Per tre anni, ho studiato in una scuola militare. A diciott’anni, disgustato dalla disciplina, sono fuggito il più lontano possibile. In Norvegia, come emigrante, ho dovuto far fronte al problema vitale di integrarmi in un contesto dove i costumi, la mentalità, le relazioni fra i sessi e le gerarchie di lavoro diventavano per me veri e propri traumi culturali. Ho dovuto riadattare il mio modo di comportarmi, a partire dalle radici. Persino la mia coscienza storica veniva profondamente rimodellata. Mi avevano insegnato che nel 1936 l’Italia

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aveva occupato l’Etiopia per portare la civiltà a una popolazione barbarica. Quante volte mia madre m’aveva ripetuto che, quand’io nascevo, mio padre era un coraggioso capo militare in quelle terre. Ed ora, i norvegesi e i loro libri mi parlavano d’una guerra di sterminio. Lo choc culturale colpiva la mia stessa identità familiare. Vi furono molti altri choc. Abbandonai il mio ambiente borghese e la calda, cattolica Italia meridionale, perché non riuscivo ad identificarmi nella storia, nelle nostalgie e negli ideali del mio paese e del mio ambiente. Assunsi l’identità sociale d’un emigrante, un lavoratore meridionale in un universo completamente opposto: la fredda, luterana Norvegia. In questo mondo proletario, scoprii la lotta di classe, l’efficacia dello sciopero e della solidarietà, ma anche la xenofobia ed il razzismo. Ero un dago, un wop. Sono termini intraducibili, perché individuano preconcetti ricorrenti in situazioni lontane. In Italia, gli emigrati che dal Sud si recavano a lavorare al Nord erano detti “terroni”. Ma io, anche se fossi andato da Gallipoli a lavorare a Milano o Torino, pur essendo un “terrone”, mi sarei portato dietro i segni della mia provenienza borghese. In Norvegia, invece, l’emigrazione era completa: dal mio paese, dalla mia lingua, dal mio passato e dalla mia classe sociale. Dovetti imparare a parlare e pensare in norvegese, tendendo sempre l’orecchio per decifrare il sottotesto delle parole e dei comportamenti attorno a me. La mia condizione esistenziale mi rese “differente”, e questa posizione non era mai neutra. Per alcuni norvegesi era un elemento negativo, per altri rappresentava, invece, una qualità. A quel tempo non fu certo un atto pieno di consapevolezza, ma ora non posso confondermi: lasciare l’Italia comportava la scelta di abbandonare le mie più profonde radici, italiane e borghesi, quelle che mi avrebbero dovuto e potuto proteggermi. Il mio fortissimo desiderio di fuoriuscire dal background italiano non si tramutava nella voglia di diventare norvegese. Mi rendevo oscuramente conto che le “radici culturali” sono sinonimo di confinamento, d’orizzonte ristretto. Volevo rompere i legami che limitavano la mia libertà mentale e avvicinarmi alla “alterità” oscura e senza definizioni che era dentro di me, nei cui confronti la cultura che mi circondava frapponeva ostacoli. Non volevo esser radicato in una nazione, in una cultura o in una classe. Lottavo per qualcosa di ben preciso, per affondare le mie radici in cielo, in un paese dai valori senza frontiere, dove le verità fossero il frutto di un conflitto e d’una conquista personale. Sento ancora l’eco, dentro di me, di questa sensazione di illuminazione, come se io avessi ereditato la terra intera, tutti i suoi paesaggi e le sue culture, il suo molteplice passato e il suo futuro confuso. Avevo diciott’anni. Ancora

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non sapevo che ricevere un’eredità significa sottoporla ad una metamorfosi, che l’erede è sempre un infedele. L’età m’ha fatto capire che se il teatro è una scoperta, questa è basata sulla resurrezione del passato grazie alla irripetibile temperatura personale di ciascuno di noi. Ma questo passato non era incrostato d’una sola cultura e d’una sola nazione. Era la simultanea e contigua presenza di tutti i passati. Non era il crocevia delle culture ad affascinarmi. Non ho mai desiderato coscientemente di situarmi ad un tale crocevia. Volevo essere un “viaggiatore della velocità”. Ci sono persone che vivono in una nazione ed in una cultura. E ci sono persone per le quali il territorio in cui vivere è il proprio corpo. Sono i viaggiatori che attraversano il Paese della Velocità, uno spazio e un tempo che non ha nulla a che vedere con il paesaggio e le stagioni del luogo che si trovano ad attraversare. Ho accennato a tutto questo nel mio libro Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta. Si può restare fermi nello stesso posto per mesi ed anni ed essere un “viaggiatore della Velocità”, che va lontano migliaia di anni e di chilometri, all’unisono con i pensieri e le reazioni di uomini e donne distanti da lui per il colore della loro pelle e della loro storia. Scrivendo La canoa di carta, Trattato di Antropologia Teatrale ero cosciente che l’analisi pre-espressiva di tecniche d’attore non-europee avrebbe comportato facilmente un’interpretazione “interculturale” meccanica e dualistica, secondo lo schema Oriente-Occidente, con tutti i suoi ricorrenti cliché politici. In quel libro mi identificavo nella “cultura della transizione”. Credo che i Riformatori europei – i ribelli e gli eretici come Stanislavskij, Mejerchol’d, Craig, Copeau, Artaud e Brecht – siano stati i creatori di un teatro della transizione. Le loro vite e le loro opere hanno demolito i modi di vedere e di fare spettacolo, stabilito nuove relazioni con lo spettatore, stimolato una nuova consapevolezza della loro arte come agente politico, etico o spirituale. Hanno iniettato un valore e significato nel guscio d’intrattenimento del nostro mestiere. È un atteggiamento che ha le sue radici in uno stato di transizione, nel rifiuto dello spirito del tempo. Non può esser passivamente trasmesso alla generazione futura. Bisogna scegliere d’essere i loro eredi e conquistarsi la loro eredità con uno sforzo solitario che la trasformi e personalizzi. Lentamente, rispondendo a Ian Watson, cominciavo ad intravedere non solo la mia scelta della differenza, ma anche altro. Quanto sia faticoso scegliere di essere sempre diversi. Nomadi con radici, ma con radici in cielo. I protagonisti della Grande Riforma delle scene, nel Novecento, i morti che restano sempre giovani, hanno frantumato il secolare modello di teatro

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esistente in Europa, dando forma ad un ecosistema teatrale con varie nicchie e “piccole tradizioni nomadi”. Queste “piccole tradizioni nomadi”, dalle tecniche fuggevoli, ma dalle motivazioni individuali forti, hanno vita breve. Eppure viaggiano e si evolvono quando i loro specifici valori vengono incorporati da altri artisti indipendentemente dal luogo e dal contesto originario. L’eredità conquistata è sempre incorporata e presuppone uno strappo rispetto alle proprie origini. Non è di per sé rilevante il fatto che persone di differenti tradizioni e provenienze si riuniscano. Interessante è chiedersi perché questo avvenga. Mi sembra che i motivi possano essere due, e completamente opposti: o perché le loro differenti identità culturali si combinano in una sorta di complementarità, sotto forma di varie specializzazioni, in una sorta di divisione e organizzazione del lavoro. Oppure per il bisogno di allontanarsi ciascuno dalla propria prospettiva originaria, di evadere dalla propria terra e dalle proprie radici, per creare una nuova Heimat, una casa d’arte, un mondo diverso. Mondo minuscolo: microcosmo o microsocietà. In quest’ultimo caso, insistere sulla dimensione multiculturale crea più confusione che chiarezza. In fondo non è pertinente. Concentra l’attenzione sulla veste esterna, non sulla sostanza. Benché il mio teatro indossi un abito multiculturale. Tu invece, nei tuoi scritti, ami insistere sull’importanza della separazione. Dici che nei secoli passati il popolo del teatro era separato dalla società per discriminazione e sostanziale disprezzo. Sostieni che quando quest’ingiusta emarginazione venne risarcita, si rischiò di perdere anche ciò che essa produceva di utile: una mentalità che induceva i professionisti del teatro ad assumere un modo di pensare separato dal senso comune. Era questa visione paradossale che permetteva loro di distaccarsi dalle logiche rettilinee nell’interpretazione dei personaggi e delle storie rappresentate. Ed il susseguente atteggiamento costituiva la base di interpretazioni complesse basate su logiche parallele e a volte contrastanti. Ti chiedi quale sia l’equivalente di quell’antica separazione – capace di allenare ad un modo diverso di pensare – nelle moderne microculture teatrali. Proponi di individuarlo nelle norme che le regolano dall’interno, in certi sogni di creare comunità utopiche ed autonome, persino in quelle pratiche professionali e personali che chiamiamo training. Tutto questo, che nel suo aspetto più evidente o di superficie sembra riguardare l’ideale da una parte, e dall’altra la quotidianità dell’artigianato, avrebbe il compito profondo di permettere una via diversa al pensiero. Questo equivalente dell’antica separazione cambierebbe, oggi, il comportamento mentale e non solo il fisico di chi fa teatro.

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Da qui dipende la longevità d’una microcultura come la nostra dell’Odin? D’accordo. Tu però ti servi sempre di espressioni come separarsi, distaccarsi. A me questi termini non paiono esatti. Credo che la parola appropriata sia distinguersi, cioè marcare un confine, una linea di diversità, ma senza perdere affatto il contatto con il mondo circostante. È il fatto d’esser distinti, ma non separati, a far nascere l’illusione che la chiave adeguata per la comprensione sia quella sociologica e antropologica della multiculturalità. Per questo la via più veloce, per rispondere alle tue domande, m’è parsa rispondere alle domande non tue, ma di Ian.

Viaggi verso la differenza È sempre possibile utilizzare la prospettiva multiculturale per osservare i fenomeni teatrali, ma la pertinenza d’una tale prospettiva deve essere prima dimostrata. Niente impedisce di dire che l’Odin Teatret è multiculturale. È stato creato in Norvegia da sedicenti attori il cui regista d’origine italiana aveva ricevuto la sua iniziazione professionale in Polonia. Oggi, il nostro teatro, a Holstebro, è un caravanserraglio con persone d’ogni parte del mondo: scandinavi, italiani, francesi, inglesi, spagnoli, tedeschi, nordamericani e sudamericani, persone venute dal Giappone o dallo Sri Lanka. Viaggiamo e soggiorniamo per lunghi periodi in molti paesi ed abbiamo stabilito una stretta rete di iniziative e di collaborazioni con attori e studiosi di differenti nazionalità. Ma tutte queste persone, culture, tradizioni, tutte le immagini che abbiamo visto, gli spettacoli e le storie che abbiamo incontrato non le abbiamo cercate per arricchirci, ma per altro: perché ci aiutassero ad evadere. Da dove? Dalla nostra cultura d’origine, dalle tradizioni del teatro in mezzo al quale eravamo nati. Dalle piccole tradizioni e sicurezze che noi stessi avevamo fondato. Se si osserva da vicino il nostro lavoro e le piccole abitudini, i valori verso cui sentiamo di dover essere fedeli, i morti vivi nella nostra memoria, allora si può scoprire una affinità indefinibile, una mentalità, che riguarda solo il lavoro, e che fa di noi una microcultura, un piccolo mondo differente. Tutto questo, però, è stata una lenta conquista, e non deriva certo dalla mescolanza e dall’integrazione di culture e tradizioni. Avere radici in cielo può sembrare una bella immagine, utile per la retorica. Ma nasconde la realtà di una vita turbolenta, la scelta d’un continuo mutare che non è fine a se stesso, ma tenta di contrastare la nostra tendenza al radicamento. Nasconde una scelta, mai facile, di instabilità. Forse tutte le nostre

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relazioni o incontri o decisioni più importanti possono essere ri-raccontate alla luce di questo spirito di avventura senza requie. Spesso, quando si guarda al proprio passato, si tende a dimenticare gli innumerevoli zig-zag del caso, le lunghe deviazioni, gli innumerevoli détours senza senso a cui le circostanze ci hanno costretto. Non erano “ricerche” di qualcosa, solo sintomi di irrequietezza, di desiderio di avventura, l’impressione che la fortuna ci attendeva da qualche parte. Molte delle mie più improvvise e azzardate decisioni sono state frutto del caso: l’incontro con una donna, l’antipatia o la simpatia per un uomo. Ora lo so: non si trattava del semplice desiderio di imparare né dell’amore del rischio. Un filo rosso mi ha guidato alla mia condizione di emigrante, di straniero perenne, e mi ha spinto in questo labirinto di incontri-confronti e di aspirazioni: il bisogno di difendere la mia dignità e la mia non-appartenenza. Se guardo indietro lo vedo con chiarezza: mi ha guidato a scoprire il teatro come isola di dissidenza. Incomprensibile. Non sempre giustificabile. Essenziale. Anche il teatro asiatico ha avuto in primo luogo, per me, la forza potente di un miraggio da rincorrere, di un filo da seguire per uscire dai miei confini. All’inizio era un modo per scavalcare l’orizzonte della mia cultura italiana. Mi immersi nei libri sull’induismo e sul buddismo. Divenni marinaio per poter andare a toccare i luoghi in cui aveva vissuto Ramakrishna. La mia “Asia” erano nomi di luoghi abitati da eremiti e da filosofi. Era una regione del Paese della Velocità. Quando cominciai a lavorare nel teatro, quest’Asia sognata mi è stata una guida fondamentale. Un esempio metà riscoperto, metà reinventato: una’idea dinamica che mi aiutò ad uscire dalle pastoie dell’autodidattismo. I primi anni come autodidatti, la necessità di giustificare la scelta del mestiere teatrale e la ricerca delle fonti per apprenderlo in un ambiente che era indifferente nei nostri confronti sono stati, secondo me, i fattori determinanti della storia dell’Odin Teatret. Più delle idee e delle teorie, sono state le costrizioni e la necessità di evadere a condurci verso soluzioni inaspettate. Una di queste costrizioni – fondamentale per l’identità tecnica ed emozionale dell’Odin – è stata l’emigrazione dalla Norvegia alla Danimarca. I nostri attori norvegesi avevano difficoltà a farsi intendere dagli spettatori danesi nella nuova sede di Holstebro. Era per noi una questione di sopravvivenza riuscire a creare degli spettacoli la cui drammaturgia non fosse tutta basata sull’interpretazione di un testo e sulla comprensione delle parole, ma sulla prossimità e l’intimità, su azioni o “attrazioni” – come le avrebbe chiamate Ejzenštejn – capaci di irretire la percezione dello spettatore a livello sensuale, sensoriale, vocale e dinamico.

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Nessuno si serviva del termine “multiculturalismo”, alla fine degli anni Cinquanta, quando cominciai ad interessarmi al teatro. Nessuno si occupava dell’importanza di un incontro tra la cultura teatrale europea e quella asiatica. Non vi era una conoscenza di prima mano degli spettacoli di altri continenti. Quello che creava fermento in Europa, allora, erano gli impressionanti spettacoli del Berliner Ensemble di Bertolt Brecht; il mimo di Marcel Marceau che riusciva ad affascinare un grande pubblico senza usare testi, solo con mezzi fisici; i testi d’avanguardia di scrittori come Ionesco, Beckett, Adamov e Mrozek. Ma i libri registravano anche altro. Per esempio l’interesse di Mejerchol’d, di Ejzenštejn, di Dullin, Artaud, Claudel o Brecht per le forme classiche dello spettacolo asiatico. Era una indicazione. Neppure loro avevano un’esperienza pratica del teatro asiatico. Con l’eccezione di Claudel che aveva vissuto in Cina e Giappone, tutti gli altri artisti che ho nominato non avevano visto gli attori asiatici a casa loro, ma solo in tournée, nel contesto di un teatro e di un pubblico europeo. Eppure la visione dell’Asia era stata fondamentale, per tutti loro. In quanto autodidatta, ero ossessionato dal problema della competenza professionale. Malgrado la mia mancanza d’esperienza, dovevo insegnare qualcosa a coloro che volevo diventassero i miei attori. Ho cominciato con il nocciolo degli esercizi che avevo visto fare agli attori di Grotowski nel periodo in cui ero stato a Opole. Alcuni dei miei giovani aspiranti attori avevano seguito corsi di mimo o balletto, così divennero “istruttori” dei compagni. Ma anche in quei campi non erano maestri. Vi si erano affacciati da principianti. Più che ad una cultura teatrale mista o sincretica, la nostra assomigliava ad un bric-à-brac. Come far crescere un genuino sapere dal bric-à-brac? Facevo ricorso ai libri che potevano fornirmi esempi e consigli concreti. Stanislavskij, Dullin e Vachtangov erano estremamente utili. Studiavamo le foto del lavoro pedagogico e degli spettacoli dei Riformatori europei e creavamo degli esercizi in cui cercavamo di ricostruire le posture degli attori. E poi facemmo un passo successivo: utilizzammo anche immagini del Kabuki e dell’Opera di Pechino. Animando la staticità delle immagini, gli attori ed io costruivamo una struttura dinamica, un “esercizio” che immettevamo nel nostro training. Non pensavamo certo che quegli esercizi, che chiamavamo cinesi o giapponesi, avessero qualcosa a che fare con il modo in cui realmente recitavano gli attori giapponesi o cinesi, ma questo procedimento ci stimolava, produceva conseguenze. E le conseguenze erano nostre. Lo stesso accadeva quando ci occupavamo delle voci dei differenti artisti del canto, dall’Opera italiana ad Armstrong, dai canti gregoriani ad Yma Sumac, dalle improvvisazioni sui raga indiani ai canti di caccia dei pigmei,

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dallo joruri – il canto del Bunraku – alla recitazione dei contastorie siciliani. Ripetavamo le loro intonazioni, le asperità e le modulazioni della voce nello sforzo di mettere allo scoperto e rivitalizzare le potenzialità e sfumature della voce umana, che possediamo al momento della nascita, e che poi abbandoniamo quando selezioniamo quel che serve alla lingua in cui cresciamo. Per fortuna non eravamo imitatori molto dotati. Così scoprimmo le nostre voci. Durante questi primi anni, i diversi teatri asiatici erano ai miei occhi una sorta di Arcadia teatrale, con eroine piene di forza e guerrieri dotati di grazia, con fantastici animali ruggenti, vibranti barche all’ancora, mari d’azzurro smalto, cime silenziose di montagne… e tutto questo incarnato dall’arte d’uno stesso attore. Il modello che gli autodidatti dell’Odin Teatret volevano emulare era l’eccellenza professionale. Non cercavamo l’“autenticità” di un Oriente mitico, con le sue filosofie, le sue tecniche codificate, i suoi suggestivi costumi. Il teatro per noi era impegno nei confronti della polis, la possibilità di prendere posizione e seguire la via del rifiuto. In questa prospettiva, i teatri asiatici non erano certo modelli particolarmente significativi. Solo nel 1973, una decina d’anni dopo il consolidamento dell’Odin Teatret, facemmo esperienza del teatro giapponese, oltre i suoi diversi stili e spettacoli, anche ciò che stava loro dietro. Vedemmo le dimostrazioni di lavoro di artisti come Sawamura Sojuro, Hisao e Hideo Kanze. L’aiuto prezioso di Frank Hoff ci permise di organizzare un seminario ad Holstebro che a quei tempi sembrava impossibile, riunendo sotto lo stesso tetto il Kabuki, il Nô e gli attori del teatro contemporaneo di Shuji Terayama. Due anni dopo, l’Odin Teatret organizzò un seminario sul teatro e la danza di Giava e di Bali. Così incontrai I Made Pasek Tempo, il maestro balinese che nel 1980 fu tra i cofondatori dell’ISTA e collaborò con me fino all’anno della sua morte, nel 1991. E ancora, nel 1977, durante un altro seminario dell’Odin sulla danza e il teatro indiano, ho incontrato una giovane danzatrice Odissi, Sanjukta Panigrahi e suo marito Ragunath. Fu l’incontro con una sorella: intelligente, bella, forte, sensibile, coraggiosa e generosa. L’ho ammirata ed amata profondamente. Mi tornano in mente le molte domande che ci facevamo a vicenda, le nostre lunghe conversazioni, la notte, quando già tutti gli altri erano andati a dormire, le sue dettagliate eppure suggestive dimostrazioni e le sue personalissime spiegazioni. Sanjukta non è stata soltanto fra i fondatori dell’ISTA, è stata indiscutibilmente la sua regina. Raccogliere i fondi per una sessione dell’ISTA implica uno sforzo enorme, scrivere e riscrivere infinite richieste, fare e rifare preventivi, stringere i denti, imprecare e non darsi per vinto. Fatica e pena erano compensate dal

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sapere che avrei incontrato ancora una volta Tempo, Katsuko Azuma, Kanichi Hanayagi, Ragunath. E sopra tutti, Sanjukta. Non riuscirò mai ad accettare l’ingiustizia della sua morte prematura. L’India, il Giappone, Bali, le loro culture e le loro tradizioni sono paesi lontani. Ma le persone divenute con gli anni compagni di lavoro fanno parte del mio stesso paese. Vi hanno portato le loro conoscenze, ma anche le loro esigenze. Hanno fatto nascere in me nuove curiosità. Hanno rotto gli schemi fragili e preziosi che noi dell’Odin ci eravamo costruiti. Ci hanno spinti via più di una volta, fuori dal nostro ordine. Mi rendo conto che, osservata dall’esterno, la vicenda dell’Odin Teatret può sembrare segnata dal progetto di unificare differenti culture teatrali, confrontarle, mettere a frutto le loro complementarità. Ma se penso ai miei sogni giovanili sul teatro asiatico, se penso ai miei rapporti con Sanjukta o con altri maestri, mi sembra che l’essenziale fosse altro. Il mondo magico del teatro asiatico è stato per me come una fune, seguendo la quale potevo arrampicarmi fuori dalle ovvietà, non solo quelle di un mondo teatrale a cui non volevo aderire, ma anche quelle delle nostre regole, di ciò che avevamo inventato e che eravamo troppo poveri o troppo timorosi per abbandonare senza una spinta. Cominciammo da “differenti” perché eravamo giovani teatralmente poveri, nati fuori dalle grandi tradizioni occidentali. Poi diventammo “differenti” per scelta e vocazione. È per questo che, per me, il teatro non può limitarsi allo spettacolo: perché deve trovare modi sempre nuovi di nutrire la propria sovversione. Un particolare tipo di sovversione per impedire che non solo le idee, le convinzioni e le abitudini altrui, ma anche le nostre proprie ricchezze, credenze, piccole comodità, la routine e il sapere si sedimentino in una prigione. Fin dai primissimi giorni della mia attività di regista e di pedagogo, per esempio, due sono state le questioni che mi hanno ossessionato – e ancora mi ossessionano. La prima domanda è: perché Stanislavskij o Mejerchol’d hanno inventato i loro “esercizi” per preparare gli attori? L’esperienza mi dice che un attore può essere bravissimo negli esercizi senza riuscire a conservare la stessa qualità durante le prove di uno spettacolo. Non ci sono connessioni tra i risultati nel training e i risultati creativi. Allora perché fare gli esercizi? Anche la seconda domanda è arrivata presto, quando per la prima volta vidi, in India, uno spettacolo di Kathakali. Era il 1963. L’ho già raccontato tante volte: non sapevo niente di quel tipo di teatro, perché allora non c’erano libri, né informazioni, sul Kathakali. Non capivo la lingua, e non mi era familiare il codice delle azioni degli attori-danzatori. Conoscevo solo qualcosa delle storie che si andavano presentando, ed ero confuso dal contesto di queste

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rappresentazioni, rumoroso e popolare. Eppure, in certi momenti, un attore era capace di catturare la mia attenzione, di sollecitare i miei sensi, di incatenarmi alle sue azioni, una per una. Come ci riusciva, come poteva accadere? Quali erano le forze attive nella nostra interazione? Era una questione solo di talento, di grazia, di temperatura individuale? Oppure aveva qualcosa a che fare anche con la tecnica? E se sì, in che modo? Queste due domande, questi due irrisolvibili enigmi, divennero ossessioni, e ancora adesso mi perseguitano. Hanno determinato i due poli principali di interesse della mia vita professionale: quello per i processi di apprendimento, e quello per l’Antropologia Teatrale (i fondamenti pre-espressivi dell’efficacia e della forza di un attore e di un danzatore). Hanno determinato, quindi, anche gran parte delle mie scelte pratiche e dei miei cambiamenti successivi. Per esempio, hanno determinato la nascita dell’ISTA, dell’International School of Theatre Anthropology. La scelta delle persone di cui mi circondo. Le ricerche che hanno condizionato il mio lavoro.

Terra di nessuno Per me ed i miei compagni dell’Odin, costruire il nostro teatro non è stato diverso dal costruire uno spettacolo. Il nostro primo atto creativo non ha origine dall’ordine e dal metodo, da ciò che conosciamo, da una immagine di noi che ci convinca e ci rassicuri, ma da una irregolarità iniziale, perseguita con testardaggine, continuamente riconfermata. Se guardo al nostro passato, mi sembra che così abbiamo costruito anche la nostra biografia artistica: attraverso strappi dall’ordine, anche dal nostro ordine. Quando eravamo un gruppo teatrale ancora molto giovane, e passavamo molto tempo chiusi nella nostra sede, arroccati nel nostro lavoro solitario, ci è capitato che ci chiedessero: come mai, se vivete sempre così chiusi in voi, ogni volta che vi si incontra apparite con un volto profondamente diverso? C’è una fotografia dell’Odin Teatret che amo particolarmente. Mostra un grande paesaggio aperto e vuoto. In un angolo, c’è un piccolo cerchio di persone. Stanno guardando qualcuno e si sono disposte in una cerchio quasi perfetto con al centro un piccolo evento, una quasi invisibile azione spettacolare. È più che un documento, è un vero ideogramma creato da un giovane danese, Peter Bysted, che ora è un grafico molto noto. Mostra le difficili circostanze di un baratto in un villaggio peruviano sulle Ande. Nel villaggio non c’era il tipo di spazio necessario, così scegliemmo un campo fuori dall’abitato. Il momento dell’incontro e dello scambio prese il valore di una tregua, di una pausa del tempo, e lo spazio si trasformò in una terra di nessuno. Questo è quello che

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mostra la fotografia: la forma del cerchio fa sì che i locali e gli stranieri siano indistinguibili gli uni dagli altri. Tutti siamo attori e non attori, partecipanti e osservatori, allo stesso modo. L’immagine dà un senso di comunione e di integrazione, ma anche di solitudine, una cerimonia spersa nell’immensità della natura. C’è una figura un po’ solitaria, da una parte, sullo sfondo, e mi fa pensare a me stesso in situazioni simili: sono nel cerchio e ne sono anche fuori. La foto non mi commuove solo per questo, ma per altre ragioni irrazionali, che si rifiutano di essere tradotte in parole. Parla al dragone che protegge l’oro dentro di me. Un po’ lo stesso accade per quell’insieme di pratiche, di strategie, di convenienze e di superstizioni che chiamiamo “baratto”. Il baratto non è il risultato di una idea, o di una ricerca di originalità da parte mia o dei miei colleghi. Ho descritto le sue origini del tutto fortuite, in circostanze in cui l’Odin non aveva una produzione da mostrare e non era quindi in grado di presentarsi attraverso un risultato artistico alla popolazione di un villaggio italiano dove risiedevamo per qualche mese. Non potevamo dire: presenteremo uno spettacolo. Dicemmo: ci incontreremo. Noi porteremo qualcosa, e voi, naturalmente, farete altrettanto. Così scoprimmo la via del “baratto” di teatro. Dopo, altri hanno ripreso l’idea e l’hanno applicata in modo diverso a seconda dei loro bisogni, dei loro contesti o dei loro scopi. È stato riproposto da gruppi teatrali e di danza, da psicologi e studiosi, dall’antropologa danese Mette Bovin nel suo lavoro sul campo in Africa. Così è, e dovrebbe essere sempre, con quelle idee o quelle pratiche il cui valore va al di là del progetto di chi le ha ideate. L’Odin Teatret non è il proprietario dell’idea di baratto, anche se il baratto è certamente una espressione che viene dalla nostra storia e dalla nostra visione del mondo. Ma non ci sentiamo certo più poveri o esclusi se qualche gruppo in India o in Bolivia ne fa uso. Per noi, un baratto non è un momento di spontanea fraternizzazione. Richiede una preparazione di molti giorni, in certi casi persino di settimane. Non è affatto un incontro espansivo, il risultato di un impeto di simpatia, ma una ben ponderata politica di relazioni, di interazione, con finalità ben precise. I contatti che l’Odin stabilisce con i diversi individui o le associazioni che vi collaborano sono i motori nascosti dell’evento, ma anche di eventi futuri. Sono la sottopartitura, il suo fine, il suo scopo segreto. I contatti nascono sempre da un misurabile “interesse”, non solo nostro: i contatti locali devono sempre percepire chiaramente i vantaggi concreti che possono trarre dal baratto, come può diventare proficuo per i loro scopi.

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Queste situazioni possono rivitalizzare le relazioni esistenti, stabilirne di nuove, creare dinamiche impreviste, portare alla luce potenzialità, incrementare possibilità, aiutare i locali a coagulare una momentanea identità rispetto agli stranieri. E mostrare come questi stranieri, attraverso l’efficacia del loro intrattenimento, possano momentaneamente far sospendere i pregiudizi dei loro ospiti. C’è dunque il piacere di creare un momento fuori dal tempo, una festa, un tempo diverso. E c’è il tornaconto personale degli organizzatori, la loro voglia di mettere in moto qualcosa nel loro territorio. C’è il nostro bisogno di dar vita a nuove soluzioni e relazioni, per non stagnare. C’è il piacere, in fondo comune anche alle settimane in cui si svolgono le sessioni dell’ISTA, di creare una costosa festa utopica, un banchetto-potlach a cui partecipano, come ospiti, maestri di tradizioni antichissime e i più giovani e i più anonimi tra i gruppi di Terzo Teatro, studiosi pieni di curiosità e vecchi amici che amo. Una sessione dell’ISTA è un villaggio teatrale che dura almeno quattordici giorni, la metà dei quali in rigoroso isolamento. Mi piace soprattutto per questo, perché è uno spazio ed un incontro paradossale. Poi c’è qualcosa d’altro, di più sottile, di non traducibile a parole. Potrei raccontarlo così: tu metti in moto gruppi ospiti che ti interessano, che devono farti da guide nelle diverse situazioni, che devono trovare le grosse cifre necessarie a sovvenzionare una sessione dell’ISTA, oppure devono portarti in contatto con realtà marginali, che ci tocchino o ci colpiscano. Raccogli intorno a te ancora una volta i tuoi attori, i grandi maestri, coloro per cui l’Odin è un punto di riferimento e coloro che amano vedere l’Odin al lavoro. Ma anche coloro che devi, almeno momentaneamente, indurre ad accettarti, e magari non sono molto propensi a farlo. Raduni in uno spazio neutro, in una terra di nessuno, gli amici, gli scettici e gli avversari, coloro da cui devi apprendere e coloro che si aspettano di portar via qualcosa per sé. E poi aspetti. Prima o poi, da qualche parte, dall’interno o dall’esterno, dai tuoi attori, dai tuoi amici, da un passante sconosciuto, dal più estraneo dei giovani, dal più ostile dei vecchi, verrà un commento, un gesto, una reazione. È il segnale che annuncia il momento in cui stiamo abbandonando le piccole convinzioni e le sicurezze in cui cerchiamo di accomodarci.

Per una storia ermafrodita del teatro Nel mio lavoro con gli attori reagisco, come molti altri registi, a ciò che “funziona”, che mi sembra “vivo”, “organico”, che contiene vibrazioni che mi appaiono ambivalenti, ermafrodite. Raddoppiamenti che intuisco possano

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espandere i possibili significati di una sequenza di azioni o di una scena. Il particolare processo di lavoro che unisce attore e regista non è basato su teorie, ma su molti fattori, e tra gli altri sulle doti di suggestione del regista, sul suo pragmatismo, sulla sua inventiva, sulla sua capacità di reagire a stimoli materiali, alle azioni degli attori, anche ai loro errori, alle incomprensioni, agli eventi fortuiti, al caso. All’inizio la maggior parte della mia conoscenza, del mio sapere teatrale, proveniva dai libri. Hanno avuto un’importanza grandissima, perché mi hanno aiutato ad intuire come coltivare l’ambivalenza. Non me lo hanno raccontato: ma, leggendoli, talvolta vedevo balenare qualcosa che mi apparteneva. Vi erano le biografie, affascinantissime, di alcuni artisti che sono diventati la mia stella polare. Ma i libri erano anche utili strumenti di lavoro con le loro descrizioni tecniche che, una volta metabolizzate, si sono personalizzate in capacità di azione. La lettura mi permetteva di assorbire quel sapere che si lascia formulare a livello verbale e concettuale, e che è complementare a quel sapere attivo che si incorpora attraverso la pratica. Potrei dividere i libri in due categorie: alcuni che contengono delle informazioni addirittura schematiche, scarne nel loro stile, ma che colpiscono in maniera profonda. È il caso di molte pagine di Mejerchol’d, che hanno avuto su di me un effetto duraturo. Altri invece sono dei libri costruiti secondo una raffinata e consapevole drammaturgia scenica e, attraverso le parole, fanno esperire “la realtà della realtà”, la simultaneità e sensorialità che caratterizza uno spettacolo. Questo valeva anche per alcuni libri di storia del teatro. Il trucco e l’anima di Angelo Ripellino, per esempio: la sua forza evocativa trascina come “poesia nello spazio” e ti schiude le porte dell’esperienza. Anche il mio stretto legame con alcuni studiosi di teatro è una reazione contro quell’ambiente accademico o giornalistico che si sofferma solo sull’epidermide del nostro artigianato, e ne trascura la sostanza: il sudore, il sangue mestruale, lo sperma di individui concreti, immersi in circostanze nebbiose, ilari, sconsolate. La visione accademica ha una tendenza all’astrazione, riduce tutto a correnti, a idee, a influenze, a cause ed effetti limpidi e commensurabili, e trascura la storia sotterranea, torbida e materiale, del teatro. Quanto a me, all’inizio non sentivo il bisogno di scrivere. Ho cominciato presto, ma solo perché volevo oppormi a un’ingiustizia: il silenzio, le accuse o la disinformazione riguardo al lavoro di Grotowski. La scrittura era una maniera di lottare contro i padroni dell’informazione, quelli che compongono la cronaca del tempo o documentano la storia del teatro. Con il passare degli anni, la scrittura è diventata un modo di lasciare tracce che scompiglino gli schemi ordinati della storia. Lo sento come un obbligo: ritrarre i tortuosi ma

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ben concreti intrichi elaborati dalle forze oscure che ci guidano nel nostro mestiere. A volte ho la sensazione che scrivo per un mio alter ego, totalmente diverso da me, che nascerà fra cento anni e che, attraverso il teatro, si accanirà ad esacerbare non solo il suo individualismo, ma anche a realizzare il processo della sua individuazione. Anche questo è oggi per me il teatro: la possibilità di salvaguardare la mia identità in un contesto sociale, politico ed economico, cioè un mio individualismo, e allo stesso tempo un processo di crescita personale, di individuazione, attraverso un lavoro con altri individui che si prolunga negli anni. Questa trasformazione dell’esperienza in consapevolezza ed in riflessione mi sembra che sia iniziato con i grandi riformatori europei del teatro, fino a Grotowski. Era qualcosa di più di una semplice trasformazione di pratiche in teoria. Era una trasmissione tacita di qualcosa di essenziale. Molti dei protagonisti della grande mutazione dell’inizio del Novecento non venivano dal professionismo, erano outsider o dilettanti, come Antoine e Stanislavskij; o venivano da un ambiente musicale, come Appia o JaquesDalcroze. O erano poeti come Mallarmé, Paul Fort, Strindberg. Non erano condizionati dalle norme e consuetudini, dalle regole e modi di vivere, dagli schemi mentali e dalle consolidate routine del mondo teatrale. Crearono le loro proprie piccole tradizioni nomadi: nuovi modi di pensare e di procedere, con tecniche ed obiettivi mai immaginati in precedenza. Modi di pensare non condivisi dalla maggioranza, ed in continuo mutamento. Modi di pensare che non potevano essere trasmessi, eppure bisognava trovare dei canali perché continuassero a contagiare. Anche per questo i grandi registi dell’inizio del Novecento hanno “inventato” la scrittura teatrale. Gli artisti muoiono senza figli. È impossibile trasmettere quel codice muto ed intimo che aiuta a decifrare e a ricostruire le ragioni e le modalità di una eccellenza artistica. Ma ognuno di noi registi lo sa bene quel che deve a Stanislavskij e a Mejerchol’d, a Brecht o ad Artaud. Sa quanto incarniamo nostro malgrado la loro eredità, condizionando la nostra stessa vita, la nostra fragilità, le nostre passioni e i nostri ciechi timori col seguire o rifiutare questi cammini di vento e di nuvole che chiamiamo i loro “metodi”. Sono diventati parte di noi perché le loro vite sono esempi di coerenza, di resistenza, di perpetuo ricominciare. Sono un ideale da emulare. Qualche volta mi succede di parlare in termini di “eredità”. Ma quel che ho in mente sono piuttosto forme di contaminazione, di contagio di malattie e dubbi. Una disseminazione di virus. Come tenere in vita virus che, sotto forma di leggende, di libri, di immagini e di scelte, possano propagarsi a un altro tra

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una, due o tre generazioni. Io stesso sono stato contagiato da virus che provenivano da un passato distante e incomprensibile, che mi trascinavano lontano dal mio presente: con smarrimento, uno strato dopo l’altro del mio cervello si è infiammato, e poi la febbre ha preso l’organismo intero. È così che i morti si introducono in noi, come microbi invisibili. Provocano allucinazioni, e ci fanno credere alle possibilità di un ordine diverso, sotto la forma suggestiva di un “metodo”. Di metodi in continuo movimento e cambiamento. Ci abitano come fantasmi divoratori, infervorati da una coerenza assoluta e paradossale. I riformatori del teatro novecentesco, a cui continuamente ritorno, determinarono un big bang del teatro, una esplosione della tradizione, la creazione delle piccole tradizioni nomadi, con i loro specifici ideali, approcci pedagogici, principi di recitazione, scopi sociali ed estetici, con i loro pubblici particolari. Il teatro, dopo di loro, non fu più un continente, ma un arcipelago. I loro sforzi convergevano verso uno scopo che andava al di là della presenza fisica dei loro spettacoli: una dimensione artistica, didattica, interiore, politica, etica, rivoluzionaria, nichilista, spirituale. Ma avvenne qualcosa di ancora più importante: in una società piena di differenze il teatro divenne uno spazio paradossale. Un paradosso non è una opinione bizzarra. È un pensiero coerente originato da principi differenti rispetto a quelli su cui si basano le opinioni diffuse e le teorie prevalenti. Il paradosso, anche quando non lo si può semplicemente rifiutare, non prevale: non conquista, ma non è conquistato. A questo penso quando parlo del teatro come di uno spazio paradossale situato nel cuore della propria epoca, ma che non le appartiene. È uno spazio “sacro” nel senso di “distinto”, al centro di lacerazioni e tensioni prive di soluzione, una microcultura di individualisti ostinati dal bisogno di creare una coerenza tra il proprio vulcano interiore, la vita privata ed il comportamento scenico. Questo bisogno spinge continuamente a fare e a disfare, nell’illusione consapevole di un ininterrotto apprendimento che sia una iniziazione a quel rituale vuoto – lo spettacolo – che aspetta di essere saturato dalle disuguali motivazioni di ciascuno di coloro che lo vedono e che lo eseguiscono. È uno spazio che esiste solo fino a quando la necessità di resistere continua a bruciare dentro di noi. Resistere a cosa? Non viviamo in tempi di dittatura. Resistere vuol dire opporre resistenza a quella voce seducente che dal fondo di ciascuno di noi sussurra : questa è la tua terra. Qui ti puoi fermare. Penso alle biografie dei grandi maestri del teatro e vedo una luminosa meteora che esplode – un turbinoso fuoco d’artificio. Una delle sconcertanti mistificazioni della storia del teatro è di presentarsi come esposizione di

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un’unica tradizione quando in realtà si confronta a un sistema solare con pianeti e satelliti dalle distinte rivoluzioni e rotazioni, temperature, faune, flore e metafisiche. Per ciò diventa importantissimo individuarsi, scegliere a quale tradizione si appartenga. Una tradizione che tu hai creato in prima persona, distillandola dalla pletora degli stimoli circostanti. Una “piccola tradizione-invita” che è solo tua, costituita da incontri, biografie, libri, avvenimenti, aneddoti, dettagli che acquistano un valore emblematico, o piuttosto, un senso alla volta evidente ed ermetico, per te e il tuo agire. Questa tradizione te la devi costruire con i tuoi propri rifiuti, è la mappa di un territorio ideale verso il quale vuoi rimanere fedele, affondare le tue radici professionali, portarne alla luce i multipli strati geologici. È la tua strada, quella che ti porterà in luoghi senza la costrizione di portare tutto a visibilità, che ti conduce a trovare pratiche che modificano il tuo tempo e l’epoca che ti circonda. È la ricerca dei tuoi antenati, dei morti dai quali si succhia l’esserein-vita di un lavoro che è prolungamento organico di una genealogia in cerca di nipoti non ancora nati.

Lo spazio paradossale del teatro Insieme al mio gruppo, l’Odin Teatret, viaggio per il mondo per metà dell’anno. Solo per una minima frazione di questo tempo siamo ospiti dei teatri ricchi e rispettati. La maggior parte del tempo la passiamo negli spazi del Terzo Teatro. Dovunque io vada, trovo ambienti formati da minoranze motivate, persone alla ricerca di una trascendenza attraverso il teatro. Oggi vi è una pluralità di forme spettacolari, e molte di esse vivono in quelle regioni in cui le ferite sociali sono profonde e le forme di emarginazione una realtà quotidiana. Sono particolarmente attratto da questo spazio opaco del teatro, lontano dalle luci e dall’attenzione degli esperti e di coloro che fanno opinione. Questa contraddizione nutre la mia riflessione: i teatri negletti, marginali e maldestri sono quelli che cercano valori e significati nuovi per una pratica che è un relitto glorioso di un modello di società in rapida sparizione. Ho sperimentato il teatro come emigrazione. Mi ha permesso di muovermi all’interno delle molte classi e culture di società diverse. E all’interno delle molte classi e culture che abitano nel mio interno. Il valore del teatro sta nella qualità delle relazioni che crea tra gli individui e tra le differenti voci all’interno di un singolo individuo. Non credo in una comprensione reciproca. Credo nell’insuperabile incomunicabilità di coloro che agiscono insieme. Il frutto della loro azione, quello sì, può essere comune e unitario. Credo nel teatro come in un rituale vuoto, non nel senso di qualcosa di futile e di privo di

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senso, ma perché non si lascia usurpare da dottrine. Qui chiunque può cavalcare la propria “differenza”, può scoprirla e rafforzarla, senza soffocare quella degli altri. Cara Mirella, come storica tutto questo ti è noto, benché sotto altre vesti. Anche questo è stato per secoli la vita teatrale: un modo ambiguo e periglioso di preservare e coltivare differenze. Distinzioni, non separazioni o distacchi. Prima prevaleva l’imposizione. Oggi, la scelta.

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LA CONTRADA DEGLI ANTENATI

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TRADIZIONE E FONDATORI DI TRADIZIONI*

Le tradizioni preservano e tramandano una forma, non il senso che la anima. Il senso ciascuno deve definirlo e reinventarlo per sé. Questa reinvenzione realizza l’identità personale culturale e professionale. Le tradizioni stratificano e raffinano nelle loro forme il sapere di successive generazioni di fondatori e permettono ad ogni nuovo artista di cominciare senza essere costretto a ricominciare da capo. Le tradizioni sono eredità preziosa, nutrimento spirituale, radici. Sono anche costrizioni. Non vi è identità senza lotta contro la costrizione delle forme ereditate della tradizione. Se manca questa lotta, la vita artistica collassa. La scintilla della vita, nell’arte, è la tensione fra il rigore della forma e il dettaglio ribelle che dall’interno la scuote e le fa assumere un valore nuovo, un aspetto irriconoscibile. L’attore che non appartiene ad una tradizione scenica codificata spesso rischia di sentirsi diseredato, d’essere privo di radici, senza punti di riferimento concreti a cui disobbedire. Chi non ha una tradizione spesso la idealizza e si rivolge ad essa con atteggiamento superstizio come se essa potesse dar senso. La nostalgia della forma ha percorso il teatro del nostro secolo, da Stanislavskij a Grotowski, da Mejerchol’d a Brecht, da Artaud al grande misconosciuto Decroux, da Gordon Craig a Isadora Duncan, Jacques Copeau, Martha Graham, Kazuo Ohno. Una genealogia di fondatori di tradizione si snoda attraverso le regioni artificialmente separate del teatro, del mimo e della danza. Ognuno di noi è figlio del lavoro di qualcuno. Ogni fondatore di tradizioni possiede un passato che si è scelto. Dobbiamo noi decidere, professionalmente, a quale storia apparteniamo, chi sono i nostri antenati nei cui valori ci riconosciamo. Possono essere epoche e culture lontane, ma il senso del loro lavoro ci è vicino. * Pubblicato per la prima volta in inglese e portoghese nel programma della 8a sessione dell’International School of Theatre Anthropology (ISTA) di Londrina, Brasile, 1994,

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Ad uno sguardo frettoloso, la distinzione fra tradizioni e fondatori di tradizione equivale a quella fra scuole classiche e innovatori, fra ortodossi e ribelli, fra l’attore-danzatore classico asiatico nascosto nel suo costume d’oro e la ricerca inquieta ed eclettica d’un artista di teatro contemporaneo. Non è cosí. Anche la tradizione più rigida non vive che attraverso reinvenzioni dei suoi interpreti, tanto più profonde quanto più sembrano sottili e impercettibili in superficie. Nella pratica del lavoro, tradizione equivale a conoscenza, ovvero a tecnica, una parola molto più umile ed efficace. Non è la tecnica a definirci, ma essa è lo strumento necessario per superare le frontiere in cui siamo racchiusi. Il sapere tecnico ci permette di incontrare altre forme e ci introduce alla tradizione delle tradizioni, a quei principi che ricorrono costanti sotto le differenze degli stili, delle culture, delle diverse personalità. La meta da raggiungere non è identificarsi in una tradizione, ma costruirsi un nucleo di valori, un’identità personale, ribelle o leale verso le proprie radici biografiche. La strada per raggiungerla è sempre una pratica minuziosa che manifesta la nostra identità professionale.

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L’ESSENZA DEL TEATRO*

“Cosa resta di un ebreo se non è religioso, sionista e neppure conosce la lingua della Torah, del libro sacro?” Agli inizi del XX secolo Sigmund Freud si è posto questa domanda ed ha risposto: “Probabilmente l’essenziale”. Guardandosi bene dal definirlo. Cosa resta del teatro se non è religioso, nazionalista, se non crede ai libri, alle teorie e alle ideologie che vogliono seminare certezze nel mondo? L’interrogativo di Freud contiene in sé i germi del malessere che nello stesso periodo spingeva i riformatori del teatro a far implodere in Europa una cultura teatrale centenaria e a generare nuove identità e orientamenti inaspettati per la loro arte. Questi visionari avevano scelto di confrontarsi con i quattro problemi basilari del teatro: non solo come essere un attore efficace, ma anche perché esserlo, dove esserlo e per chi. I riformatori sono i nostri antenati, coloro che hanno fondato la tradizione del XX secolo. La parola tradizione è ambigua. Fa pensare a qualcosa che ci è dato, che abbiamo ricevuto in modo inerte dal passato. Ma la tradizione è l’esercizio del rifiuto, è il nostro sguardo retrospettivo sugli esseri umani, sulla professione, su tutta la Storia che ci ha preceduto e dalla quale noi scegliamo di allontanarci attraverso la continuità del nostro lavoro.

L’invenzione di una tradizione Sono solamente un epigono che abita la vecchia casa degli antenati. Ma ho fatto un lungo viaggio per arrivarci. * Pubblicato per la prima volta in Les chemins de l’acteur, a cura di Josette Feral, Éditions Québec Amérique, Québec, 2001.

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Dopo quattro anni in Polonia di cui trenta mesi di lavoro con Grotowski a Opole, sono ritornato in Norvegia nel 1964. Ho bussato invano alla porta di tutti i teatri di Oslo alla ricerca di lavoro. Ho raccolto altri rifiutati, giovani che non erano stati ammessi alla Scuola Nazionale di teatro. A quell’epoca, la parola teatro evocava un edificio o un testo. Un gruppo di giovani che decidevano di essere attori partendo da zero e senza un locale erano considerati alla stregua di sordi pronti a eseguire una sinfonia di Beethoven senza strumenti. È così che abbiamo fondato l’Odin Teatret. Una perdita, una privazione, una mancanza – ecco le ferite che circoscrivono l’essenziale. Per l’Odin, l’esclusione dal mondo che doveva iniziarci alla professione ed aiutarci a consolidare le basi del mestiere, rappresentava un giudizio senza appello: non possedevamo le qualità per diventare artisti di teatro. A quel tempo non esistevano gruppi o culture teatrali alternative alle quali integrarci o a cui poterci ispirare. Eravamo degli esclusi. Nessuno aveva bussato alla nostra porta supplicandoci di arricchire l’arte teatrale. Il teatro era la nostra malaria personale, la nostra necessità endemica. Il mondo non aveva bisogno di noi come attori. Noi avevamo bisogno del teatro. Era giusto che lo pagassimo di tasca nostra. Ogni lavoro teatrale, anche nelle condizioni più favorevoli, è sottoposto a costrizioni: di tempo, di denaro, di spazio, di quantità o qualità di collaboratori. Queste costrizioni fissano le regole del gioco e segnano i limiti del possibile. Anche se possono essere previste, soprattutto quando non sei nessuno e non hai niente, devi piegarti ad esse per sopravvivere. Oppure puoi sforzarti di aggirarle, cosa che dà talvolta soluzioni insperate e originali. Puoi anche distruggerle con un martello, frantumandole in mille pezzi con i quali costruire il tuo habitat, il mondo ideale e materiale del lavoro e dei risultati che ne derivano. Così ricordo i nostri inizi in una capitale che sembrava il deserto. Ecco l’origine dell’Odin Teatret in Norvegia: uno sparuto nucleo di dilettanti che sognavano di diventare professionisti, cinque giovani che si prendevano terribilmente sul serio: esecuzione perfetta degli esercizi e pulizia assoluta del pavimento su cui li eseguivano; successione ininterrotta di grida, bisbigli, risonanze e vibrazioni sonore durante l’allenamento vocale, e silenzio per proteggere il lavoro. Eravamo un piccolo gruppo che si appoggiava sulla propria “superstizione” e che immaginava, per mancanza di esperienza, che il teatro era un artigianato dal viso umano. Soli, in solitudine, fuori dalla geografia dei teatri riconosciuti e riconoscibili. In un deserto in cui la sola presenza era quella invisibile dei morti e la distanza di un maestro amato, Grotowski.

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Bisogna cavalcare le circostanze. È così che si determina il corso degli avvenimenti, che si costruisce il martello che infrange le costrizioni. Nel 1966, l’Odin Teatret abbandonava le esili certezze con le quali giustificava la sua esistenza precaria e si spostava in una piccola città di 16 mila abitanti, nello Jutland occidentale, la regione sottosviluppata e pietista della Danimarca. Là il teatro non era né un divertimento né una tradizione. Non c’erano spettatori interessati e comunque l’Odin non avrebbe potuto condividere con essi la lingua, il mezzo di comunicazione essenziale nel teatro di quell’epoca. I danesi avevano difficoltà a comprendere gli attori norvegesi dell’Odin ai quali ben presto si unirono giovani di altri paesi e continenti. Alle costrizioni esistenti, avevamo scelto di aggiungerne un’altra: l’esilio della lingua, la balbuzie. Ogni forma di esilio è un veleno: se non ti uccide, ti rende più forte. È impossibile comprendere la storia dell’Odin Teatret, la nostra maniera di pensare e di comportarci nel corso di più di trentasette anni, se non si prendono in considerazione queste due esclusioni: il rigetto del mondo teatrale e la mutilazione della lingua. Questa situazione di inferiorità e quest’amputazione, queste costrizioni, noi le abbiamo frantumate e abbiamo fatto crescere dalla loro polvere un atteggiamento di orgoglio e di rifiuto: le nostre sorgenti di forza. La storia del teatro era la mia consolazione, il mio tappeto volante, il mio Eldorado. Scoprivo l’essenziale: la solitudine di Stanislavskij e l’isolamento di Artaud, l’esilio e la perdita della lingua di Mikhael Chekhov, Reinhardt, Piscator, Helene Weigel; l’importanza dei teatri amatoriali per Vaktangov, Brecht, Lorca; la testarda ricerca della “vita” dell’attore ad opera di Stanislavskij e Mejerchol’d, il laboratorio di vita in comune di Suleržickij e il primo Studio del Teatro d’Arte. La storia del teatro era il mio Talmud, la mia Bibbia, il mio Corano, bisognava solo leggere con cautela e decifrare aneddoti, episodi e dettagli trascurati dagli storici. Un Atlantide d’informazioni emergeva, chiariva le mie esitazioni e i miei dubbi, rivelava gli esempi disperati e le soluzioni astute di coloro che mi avevano preceduto, il modo in cui avevano brandito il martello. Non eravamo soli. Il teatro divenne il luogo in cui i vivi incontrano i non viventi, i morti, gli antenati riformatori che avevano attraversato il deserto. Le loro vite, i loro spettacoli e i loro libri hanno illuminato il cammino dell’Odin guidandoci verso un sapere tecnico che è il nostro modo di respirare. Essi hanno ispirato la nostra conoscenza tacita assimilata nel corso di tanti anni e hanno protetto l’essenziale nei nostri spettacoli: i mille dettagli della partitura dell’attore, quella flora d’impulsi e di micro-azioni, quella struttura di tensioni, sats e in-

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tenzioni che generano un effetto di vita potente ed una risonanza intima nello spettatore. I vivi sono incapaci di notare tutti i dettagli, ma i non viventi li accettano e assaporano la temperatura personale con la quale sono stati creati e posti in strati alternati di luce e oscurità.

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Gli spettatori non viventi Mai, per me, la parola “spettatore” ha evocato unicamente coloro che si sono riuniti attorno allo spettacolo. I miei veri spettatori sono stati delle assenze fortemente presenti, la maggior parte non viventi. I non viventi non sono solo i morti, ma anche coloro che non sono ancora nati. Era ed è a costoro che gli attori dell’Odin si rivolgono ogni volta che agiscono, a coloro che si scontreranno con gli stessi limiti che noi abbiamo vissuto tante volte, beffeggiati dallo spirito del tempo, soli di fronte all’indifferenza della società e alla freddezza del mestiere. Possiamo raggiungere coloro che non sono ancora nati attraverso il contagio. Entriamo in contatto con loro attraverso i vivi, attraverso gli spettatori che ci rendono visita. È lo spettacolo e la sua puntura di scorpione che decidono. Bisogna dare il massimo del massimo agli spettatori che vengono con un regalo straordinario: offrono due, tre ore della loro vita abbandonandosi con totale fiducia nelle nostre mani. Dobbiamo ricambiare la loro generosità con l’eccellenza, ma anche con un obbligo: bisogna metterli al lavoro. Gli spettatori devono essere messi alla prova, devono affrontare con i loro sensi, il loro scetticismo, la loro ingenuità e crudeltà una tempesta di reazioni contrastanti, di allusioni, di controsensi, di grappoli di significati che si graffiano tra loro. Devono risolvere in prima persona l’enigma di uno spettacolo-sfinge pronto a divorarli. Lo spettacolo è una carezza che brucia, tocca la loro sensibilità, illumina ferite intime, li spinge verso il panorama muto di quella parte che vive in esilio in essi stessi. Bisogna aprire gli occhi dello spettatore con la stessa dolcezza con cui si chiudono quelli di una persona cara che si è appena spenta. Lo spettatore deve essere cullato dai mille sotterfugi del divertimento, del piacere sensoriale, della qualità artistica, dell’immediatezza emozionale, della raffinatezza estetica. Ma l’essenziale consiste nella trasfigurazione della durata effimera dello spettacolo in una scheggia di vita che si radica nella sua carne e l’accompagna lungo gli anni. Lo spettacolo è la puntura di uno scorpione che fa danzare. La danza non si arresta all’uscita del teatro. La linfa del veleno viaggia all’interno, penetra nel metabolismo psichico, mentale, intel-

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lettuale, si trasforma in memoria. Questa memoria è il messaggio inimmaginabile e improgrammabile che si trasmette a coloro che non sono ancora nati. È un’operazione che può riuscire solo se si costruisce la propria autonomia che, a sua volta, è possibile solo a due condizioni: se si riesce a creare un gruppo la cui “superstizione” impregna il comportamento di ogni membro del gruppo come una seconda natura. E se i nostri spettacoli diventano scorpioni che stregano un gruppo ristretto di spettatori disposti a lasciarsi pungere da essi. L’Odin è rimasto in vita ben quattro decenni anche perché viviamo come beduini. Fin dalla nostra origine, siamo stati abituati a non avere che un pugno di datteri ed una tenda. Un po’ come i primi califfi nomadi d’Arabia che hanno conquistato Damasco, Bagdad e Basra, ma sono ritornati nel deserto senza fermarsi nei palazzi di marmo o lasciarsi addomesticare dalle città-sirena, con i loro templi e bazar. Holstebro è la nostra tenda, là c’è l’essenziale: l’anonimato di un lavoro quotidiano il cui compito è estrarre il difficile dal difficile. Ma il gruppo non basta, esso è soltanto la sistole del cuore che lo tiene in vita nel precario processo d’autonomia sempre minacciato. La diastole è lo spettatore che ha bisogno di noi. Dopo 37 anni riempiono appena il centinaio di posti di ognuno dei nostri spettacoli. È il nostro limite e la nostra forza. Sono là ad aspettarci ovunque noi portiamo uno spettacolo, a New York o in un paesino delle Ande, in una capitale europea o in una cittadina della Patagonia. A Roma, recentemente, abbiamo dato spettacoli per cinque settimane. Cento spettatori a sera, tremila cinquecento persone in 35 giorni. Tra esse, forse, la puntura dello scorpione ne farà danzare una che incontrerà il nostro vero spettatore non ancora nato.

La via del rifiuto Quando visito gli edifici di teatro, ho la sensazione di salire su immobili vascelli di pietra che si sforzano di rappresentare il movimento. A volte al loro interno ho vissuto la sconfinata avventura del viaggio, in fondo alla notte o al centro di me stesso. Paragono i vascelli di pietra alle isole galleggianti, a ciò che Stanislavskij chiamava ensemble, a ciò che io chiamo gruppo di teatro: un pugno di uomini e donne che, grazie alla disciplina di un artigianato artistico, oltrepassano il loro individualismo e si inseriscono nella storia. Attraverso un processo d’osmosi creativa, essi trasformano le loro ferite e necessità personali in azione politica, in presa di posizione riguardo alle norme e circostanze della loro polis, della loro comunità.

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L’essenziale del teatro non risiede nella sua qualità estetica o nella sua capacità di rappresentare, criticare e intervenire nella vita. Esso consiste piuttosto nell’irradiare materialmente, attraverso il rigore della tecnica scenica, una forma d’essere individuale e collettiva: una cellula sociale che incarna un ethos, dei valori che guidano i rifiuti di ogni individuo che la costituisce. La forma è fondamentale per il teatro. Attraverso la forma, cioè la disciplina e la precisione che essa esige, l’attore assorbe ed espone un nucleo di informazioni che sfuggono alle parole e che contengono lo spirito dell’ethos del rifiuto. E questo sin dal primo esercizio, dal primo giorno d’apprendistato. Una forma d’essere nasce dall’azione reale in dissidenza con i luoghi comuni del pensiero e della pratica professionale, le opinioni evidenti e la facilità delle scelte. Essa suppone l’invenzione della propria tradizione. È così che vedo i miei attori: allo stesso tempo come il campo e come il contadino che lo lavora. Lo spettatore vede maturare frutti sconcertanti il cui sapore dovrebbe acuire la sete.

Teatro come trascendenza Tutti i fondatori di tradizione del XX secolo hanno seguito la via del rifiuto. Questo manipolo di antenati che hanno segnato la nostra tradizione personale e ne sono divenuti punto cardinale, si sono opposti al loro tempo e hanno forgiato l’idea di un teatro che non si limita allo spettacolo, non si rivolge semplicemente ad un pubblico e non si preoccupa solamente di riempire le sale. Per essi, si ergeva un altro imperativo: oltrepassare lo spettacolo come manifestazione fisica ed effimera e raggiungere una dimensione metafisica: politica, sociale, didattica, terapeutica, etica, spirituale. Il teatro è insopportabile se si limita solo allo spettacolo. Il rigore del mestiere o l’ebbrezza dell’invenzione non bastano, non più che la coscienza del piacere o della conoscenza che possiamo indurre nello spettatore. Il nostro lavoro deve nutrirsi di una sovversione che ci proietta aldilà della nostra identità professionale divenuta muro che ci protegge e che, allo stesso tempo, rappresenta una prigione. Lo spettacolo pianta un seme che cresce nella memoria d’ogni spettatore ed ogni spettatore cresce con questo seme. Quando ho cominciato a fare teatro, avevo quattro attori con me. Eravamo cinque. Tre di noi sono ancora oggi all’Odin Teatret. Trentasette anni sono molti e noi conosciamo tutte le crisi, la stanchezza, la routine e il disorientamento. Perché allora continuiamo? Siamo forse interessati al presente? Credo che ci sostengano due tensioni: il ricordo del passato e una nostalgia del futuro. Da un lato, il desiderio di rimanere fedeli ai sogni della nostra giovinezza,

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dall’altro, la responsabilità verso generazioni anonime che non sono ancora nate. Sono parole altisonanti. Eppure sono la voce di quella parte di noi che vive in esilio, quel nucleo segreto e così vulnerabile che, molto spesso in questa professione, non siamo in grado di salvaguardare. Così finiamo col perderci. Tutti i teatri sono arcaici. Ma dentro quest’arte nobile e vetusta, la passione più anacronistica è la ricerca di una permanenza che vada oltre la durata dello spettacolo. Una sete ci obbliga a tenderci aldilà del muro della professione, a restare sulla punta dei piedi, tesi verso l’alto, verso l’oltre. Non è questione di trascendenza orizzontale o verticale, ma di un modo di proteggerci, per non essere vittime o complici muti in questa marea efferata che è la Storia. Restare sulla punta dei piedi per affondare le nostre radici nel cielo, mentre attorno a noi gli altri avanzano a velocità ragionevole verso obiettivi sensati. Immaginiamo di resistere in una zolla di terra ideale che non è costituita da una nazione, un’etnia o un’ideologia, ma da pochi esseri umani sparsi su tutto il pianeta e che incarnano ogni giorno anonimamente il rifiuto che è anche il nostro.

L’essenziale non può che essere muto Allora cosa resta del teatro? L’essenziale non può che essere muto. È azione, ma non il suo senso profondo non si può comunicare. Il gruppo di teatro è l’organizzazione di questa incomunicabilità e di questa rete di necessità personali – o d’egoismi – in organismo sociale. Lavorare con i propri fantasmi, con le proprie ossessioni e chimere, significa prestare orecchio a voci senza corpo che ci dirigono. È ascoltare un frastuono. La tradizione personale è un’eco che viene da lontano. A volte siamo capaci di distinguere una voce e ci diciamo che un antenato ci sta aiutando a trovare la nostra strada. A volte l’eco è diffusa, confusa: non si sa da dove venga, chi sia a parlarci. Eppure dobbiamo lo stesso decifrare la direzione che ci indica. L’Odin Teatret è un gruppo di emigranti, di persone che per necessità individuale o a causa delle contingenze hanno lasciato il loro luogo d’origine per finire nella cittadina danese di Holstebro. Fa parte del mestiere dell’emigrante la fatica di inventare ogni giorno la terra sulla quale poggia i piedi. Questa terra non è una regione geografica, un popolo o una fede. Essa è la nostra ragion d’essere, la nostra giustificazione verso noi stessi, l’asse che ridefinisce costantemente il nostro equilibrio, la nostra presenza in relazione agli altri. Questa condizione comune di sradicati contribuisce a tenere assieme

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l’Odin, anche se siamo profondamente diversi e se le nostre aspirazioni a volte divergono. Spesso, l’origine di un cammino creatore è una ferita. Segna la separazione da qualcosa che era vitale per noi e marca una parte di noi che rimane in esilio nel più profondo di noi stessi. Il tempo, a volte, trasforma la nostra ferita in una cicatrice che non fa più male. Nell’esercizio del nostro mestiere ritorniamo continuamente verso questa lesione intima, per rifiutarla o restarle fedeli. Tutto ciò non ha niente a che vedere con l’estetica, le teorie né con il bisogno di comunicare con l’altro. Si tratta piuttosto del desiderio di ritrovare una sensazione di interezza, di incontrare se stessi e di misurarsi con l’altro, l’altro in noi stessi o l’altro al di fuori di noi. Procedo all’interno di un paesaggio più antico di me. Come Shakespeare lo ha descritto, non è più grande di una piccola “o”. Al suo interno intravedo alcuni esseri che sembrano alberi millenari: tronchi come uomini immobili e uomini come alberi che si spostano. Da una parte c’è un vecchio e una ragazza. Di là due uomini camminano un po’ alla cieca, come se si fossero perduti. Li riconosco, sono Edipo e Antigone, Vladimir ed Estragon. Attorno ad essi, invisibili, i dannati della terra danzano e cantano. Da qualche parte sento il pianto di un bambino appena nato. So che è arrivato per me il tempo di raccogliere quello che ho ricevuto e seminato e di consegnarlo all’erede sconosciuto che resusciterà la tradizione della rivolta e della nascita, la tradizione del significato decifrabile e del senso segreto del mio fare teatro.

La tradizione europea e il big bang Non è dal rituale greco che è nato il teatro europeo, ma nei mercati, attorno al 1545, in Italia, quando fu firmato il primo contratto da persone intenzionate a vivere del mestiere dello spettacolo. Gli attori erano degli esclusi, gente avida d’avventura o che sfuggiva la propria condizione sociale: vagabondi, prostitute, soldati disertori, libertini – i liberi pensatori dell’epoca –, contadini in fuga dalla miseria, cadetti aristocratici la cui fortuna e blasone familiare erano destinati ai primogeniti. Il teatro professionale era un’impresa economica che produceva spettacoli. La possibilità di guadagnare il pane quotidiano dipendeva dalla capacità di riempire la sala, di abbreviare le prove e di moltiplicare le offerte di spettacoli adattandoli rapidamente da un posto all’altro. Gli attori non immaginavano di creare cultura né si autodefinivano artisti. Le compagnie teatrali erano caratterizzate dalle leggi del commercio, dall’esigenza di intrattenere e divertire, e dall’erotismo. Agli occhi di coloro che vivevano secondo le norme della

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morale dominante, gli attori erano persone che si esibivano e perfino si vendevano per denaro: la corruzione e la prostituzione delle attrici ne era una prova. Da ciò la mancanza di rispetto e la discriminazione nei loro riguardi da parte della società. Con le sue eccezioni e variazioni, tale era l’universo del teatro fino alla fine del XIX secolo, quando Nietzsche e Ivan Karamazov scoprono che Dio è morto. Mentre la scienza sembra avere una spiegazione per ogni domanda, nuovi dubbi sorgono a proposito della condizione umana, dell’organizzazione della società, del ruolo degli artisti. Alcuni attori si gettano nel vortice che travolge tutte le arti e che segna l’inizio della modernità: le avanguardie, gli “ismi”, le rotture con i canoni e i criteri di una tradizione accettata e condivisa. I modelli riconosciuti e praticati esplodono. È il big bang, la liberazione di energie e intenzioni varie e divergenti, la creazione di nuovi paradigmi, lo sbocciare di un’ecologia teatrale mai vista, o semplicemente l’inebriante presa di coscienza che questo mestiere disprezzato può essere un’arte, con una dignità, uno scopo ed una identità specifica. Il teatro si teatralizza, si emancipa dalla letteratura, vuole diventare una pratica tesa verso una ragion d’essere che si realizza oltrepassando la finzione della scena. Come può la recitazione di un attore trasformarsi in azione reale, in esperienza autentica, in strumento di presa di coscienza sociale, in processo di formazione di un “uomo nuovo”, in operazione magica che ricrei la realtà che è il doppio della vita? Mai, nel corso della storia, gli attori si erano posti domande simili.

Piccole tradizioni nomadi Non a caso fu un outsider il primo a porsi questo tipo di domande. Stanislavskij era un dilettante, figlio di un ricco proprietario di una fabbrica di tessuti, che disponeva di un edificio teatrale costruito appositamente per lui dove preparava a suo agio uno spettacolo durante mesi. Anche se altri lo hanno preceduto su questa strada, è con lui che sboccia una cultura teatrale originale che rompe con i modelli del passato. Il big bang del teatro del XX secolo è segnato dalla sua opera instancabile di regista innovativo, d’attore straordinario che si interroga senza sosta, d’inventore di una pedagogia, di stimolatore di ribelli, di fondatore di laboratori, di protettore di altri riformatori – Gordon Craig, a cui egli dà la possibilità di realizzare Amleto, o Mejerchol’d che accoglie nel suo Studio d’opera. Non è solo. Altri attori e registi adeguano la loro arte alle loro visioni personali e ad un’epoca scossa dall’industrializzazione,

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dai cambiamenti tecnologici, dalla prima guerra mondiale e dalle devastazioni dell’ideologia fascista e dell’utopia sociale comunista. Non esiste più una sola tradizione teatrale, un modello centrale sul quale orientarsi. Il big bang genera piccole tradizioni nomadi la cui genesi è l’opera di un totem, di un artista riformatore che incarna una coerenza e coniuga una visione densa di significati con soluzioni tecniche che la realizzino. Le piccole tradizioni non sono radicate in una cultura o un genere spettacolare specifico, ma sono metodi di lavoro e valori incorporati da artisti che si spostano creando nuovi contesti. Tutti i riformatori hanno rivitalizzato il loro mestiere dopo aver presentito che il teatro era un “rituale vuoto” alla ricerca di un senso perduto. Questa cerimonia in letargo o divertimento formalizzato doveva essere svegliato, assumere rischi e responsabilità, mettere a repentaglio la sua condizione ambigua in una società lacerata. Di fronte ad altri generi spettacolari che nascono – sport agonistici o cinema – il teatro si scopre anacronistico, rispondente ai bisogni di altre epoche, in dissonanza con il flusso stesso della civilizzazione e delle sue forme di comunicazione. L’obiettivo di questa civilizzazione “moderna” è quello di raggiungere il maggior numero di persone, il più velocemente possibile e nel modo più economico. Il teatro opera esattamente al contrario: esige una spesa ingente, uno spreco di risorse umane e materiali, oltre che di tempo, per preparare uno spettacolo che sarà visto da un numero limitato di spettatori. Se studiamo i riformatori teatrali in modo spassionato, scopriamo che le radici della loro forza erano extra-teatrali. Hanno attraversato il teatro come un paese ideale, guidati da una nostalgia personale e diversa per ciascuno di essi: etica, religione, tempo dell’“uomo nuovo”, rivoluzione, rivolta individuale, disciplina iniziatica. Tutti avevano dei bisogni che andavano contro lo spirito del loro tempo. Tutti abbandonarono o furono obbligati ad abbandonare le garanzie e i criteri che rendevano comprensibile e accettabile l’atto teatrale. Si avventurarono su un terreno sconosciuto, solitari e vulnerabili, lasciando le pratiche correnti prima di sostituirle con nuove pratiche. A volte il valore dei loro tentativi è stato riconosciuto solo dopo la loro morte. E anche se sono stati accettati dai contemporanei, la loro opera è stata accompagnata dal sarcasmo evidente o nascosto dei critici, l’indifferenza degli altri artisti di teatro, la diserzione degli spettatori. Basta pensare a Brecht, anche quando era presentato come una gloria nazionale a Berlino est; o a Stanislavskij, le cui convinzioni circa il proprio “sistema” erano giudicate bizzarre, perfino morbose, a tal punto che i suoi attori e il suo compagno Nemirovitch Dantchenko finirono col voltargli le spalle.

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La mutazione antropologica Le forze che nel XX secolo fanno esplodere il modello unitario del teatro e che tracciano una molteplicità di cammini, si nutrono di tensioni contraddittorie. C’è il disgusto che una minoranza di attori prova verso la miseria e la servitù della loro professione. È il caso di Eleonora Duse che inveisce: “per salvare il teatro, il teatro deve essere distrutto. Gli attori e le attrici devono morire di peste….Essi rendono impossibile l’arte”. Gordon Craig mette le parole apocalittiche della grande attrice italiana come epigrafe al suo saggio, L’attore e la Supermarionetta, e propone di chiudere i teatri e di dedicarsi a preparare una nuova “razza di lavoratori atletici” della scena. C’è l’ossessione di legittimare il teatro non solo come disciplina artistica ma anche attraverso una finalità che oltrepassi il dominio estetico, di dargli una funzione sociale, una vocazione educativa, di massa o politica. Più forte di tutto è l’urgenza di lottare contro una sensazione di perdita di esistenza. La parola “esistenza” deve essere compresa letteralmente: una capacità d’essere, di sentirsi in vita e di trasmettere questa qualità essenziale agli spettatori. Come se il teatro fosse stato attaccato da una forma di AIDS, un declino di vigore. Da lì l’accanimento a cercare rimedi contro la sua perdita di presenza artistica e sociale, a elaborare dei metodi che sviluppino un sistema immunitario, una condizione vitale che si manifesti a tutti i livelli, a partire da quello ontologico di base – l’arte dell’attore. “Bisogna ridare vita al teatro” esclama Artaud nel suo primo articolo dopo aver lasciato il suo maestro Charles Dullin. Parla di “vita” tout court. Stanislavskij, prima di lui, aveva parlato di organicità, Meyerhold di biomeccanica. Il rinnovamento dei riformatori manifesta il desiderio di distruggere quelle abilità che li definivano come attori agli occhi degli altri. Essi vogliono annientare in sé stessi ciò che possiedono, una tradizione secolare, un sapere. Come i cavalieri dell’apocalisse essi cavalcano un’idea estrema: la creatività assoluta. Ogni nuovo spettacolo deve cominciare da zero, deve essere generato a partire dal nulla, una cosmogonia simile a quella del Dio dei cristiani che crea ex nihilo, contrariamente ai demiurghi delle altre religioni che modellano qualcosa di preesistente. Si ponevano domande corrosive. Come dare vita a un attore che non si lasci condizionare da conoscenze prestabilite, ma scopra ogni volta un nuovo cammino in profondità? Come far scaturire dalle proprie fonti individuali un’improvvisazione – intesa fino allora come intreccio e variazione di elementi conosciuti – e trasformarla in invenzione originale? Come liberare un’autenticità, una dinamis, una forza personale che materializzi l’essenza

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poetica dei testi di Ibsen, Strindberg, Cechov, e farla vivere allo spettatore? A quale processo dovrebbe sottomettersi l’attore per provocare nello spettatore quest’esperienza di vita, quest’effetto di organicità? È in questa prospettiva che bisogna vedere l’introduzione di un allenamento basato sugli esercizi, una pratica fino a questo momento assente nell’apprendistato dell’attore europeo. Una vera mutazione antropologica scuote l’universo degli attori europei nel corso dei primi trent’anni del XX secolo. Il teatro non è più un continente, ma diventa un arcipelago composto da isole, ognuna impegnata a costruire o abbattere una tradizione, a forgiare nuovi costumi e credenze, a scoprire il proprio dialetto. Non c’è più una storia e una cultura, e numerosi sono i fantasmi che rivelano la molteplicità del passato. L’interesse vorace nei riguardi di tradizioni trascurate (la commedia dell’arte, il circo, il cabaret, le forme popolari di spettacolo) da un lato e, dall’altro, nei confronti di tradizioni più lontane (gli spettacoli classici d’Asia, le danze africane, le cerimonie e i rituali di altre culture), si mescola a un’effervescenza di sperimentazione temeraria, un fervore di spezzare le catene, le consuetudini, le strutture irrigidite. Da qui l’importanza di fondare scuole teatrali in cui potesse fiorire il talento individuale e svilupparsi la coscienza di una dignità artistica. Alcuni attori diventano registi e aprono degli Studi, luoghi privilegiati di un apprendimento incessante. È l’utopia dell’“eterno inizio”. Ecco l’origine dei laboratori di Stanislavskij e di Mejerchol’d dove la pratica degli esercizi fu inventata e applicata.

Esercizi per dimenticare la luna e il dito Askeo, in greco, significa esercitarsi. L’asceta è colui che fa esercizi e l’ascetismo, la maniera in cui si eseguono. Di solito si associa questo termine a rigore, sottomissione, sacrificio, penitenza, perfino dolore, e si pensa ai santi nei deserti e ai mistici perduti nel loro dialogo con il Sé. Io penso immediatamente a giovani ballerine. Alla ricerca dei principi dell’Antropologia Teatrale, ho seguito durante un periodo l’insegnamento della scuola di balletto del Teatro Reale di Copenaghen. Le allieve vi iniziano a danzare all’età di sette, otto anni, e ciò che colpisce di più è lo stereotipo fisico: ragazzine graziose, magre, slanciate, bionde, con il sorriso incollato alle labbra durante le lezioni. Nella pausa, tolgono le delicate scarpette rosa e, con una smorfia, mettono i piedi sotto l’acqua fredda

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dei rubinetti nei bagni. Una delle insegnanti, anch’essa ballerina, mi ha mostrato le proprie dita dei piedi deformate: “è duro danzare sulle punte. È la capacità di resistere alla sofferenza che decide della carriera di una ballerina”. L’ascetismo caratterizza sempre l’apprendistato all’eccellenza, artistica o sportiva, spirituale o agonistica. L’autodisciplina accompagna gli sforzi di ogni individuo teso ad oltrepassare i propri limiti. L’allenamento di un attore è l’iniziazione ad una professione in cui la resistenza, nei suoi multipli significati, è una condizione fondamentale: controllo fisico e psichico; persistenza nell’avversità, nell’insuccesso, nei periodi d’inverno senza frutti; rifiuto all’auto-indulgenza e alle soluzioni ovvie; caparbietà di fronte agli ostacoli; accanimento a estrarre il difficile dal difficile; tenacità per non adattarsi alle costrizioni delle circostanze. Ogni vocazione artistica, ogni pulsione a negare un destino che si rifiuta, ogni necessità di liberarsi dalle catene di una tradizione spenta o di una routine, sono accompagnate da un ascetismo inteso come azione rigorosa e approfondimento del sapere artigianale. L’attività teatrale ha un doppio effetto: sulla persona che la esegue e sulla persona a cui questo lavoro è rivolto, lo spettatore. L’introduzione degli esercizi ha permesso di definire e di approfondire la zona di “lavoro dell’attore su se stesso”. Gli esercizi non mirano ad uno sviluppo muscolare, ma ad una concentrazione – mentale e somatica – su un compito umile ma complicato, a volte paradossale. L’obbligo alla precisione e alla ripetizione determina una maniera specificamente personale di pensare con il corpo intero attraverso una concatenazione ed una simultaneità di tensioni, contrasti e immobilità dinamiche. È l’apprendimento ad essere come attore, a radicarsi attraverso una presenza scenica, ma è anche un processo d’individuazione, di crescita personale. Non è un caso che il termine “esercizio” si ritrovi nei cammini di perfezionamento psichico, mentale o spirituale che utilizzano tutti dei procedimenti somatici: una maniera particolare di respirare, di fissare lo sguardo, di muoversi o danzare, di fermare il flusso dei pensieri. Si possono allora apprezzare le prospettive sconosciute, indicate da alcuni riformatori e le nicchie sorprendenti che hanno fatto spuntare al centro stesso dell’ecosistema del teatro. E riflettere, allo stesso tempo, sul paradosso che sembra guidare il loro cammino: più s’allontanano dalla rappresentazione, più si concentrano sulla pratica degli esercizi. È il caso di Copeau che sceglie la scuola al teatro fuggendo da Parigi, la città-spettacolo. I suoi studenti recitavano in Borgogna, ma il loro lavoro poggiava soprattutto su un processo ininterrotto di apprendimento, sull’aspetto nascosto del mestiere che distilla l’ethos dell’attore.

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Grotowski lascia il teatro nel 1970. Ma dalla metà degli anni 80, fino alla sua morte nel 1999, nel suo rifugio italiano di Pontedera, applica alla sua “arte come veicolo” tutta la “gnosi” acquisita attraverso gli esercizi. Definisce Performer la persona che lavora con azioni fisiche che non rappresentano, e con azioni vocali che sottolineano la qualità vibratoria della voce. Questo paziente e minuzioso processo non è definito in funzione dello spettatore ma dell’”attuante”. Il termine è di Grotowski che ormai rifiuta quello di attore. Talvolta, eccezionalmente, alcuni testimoni scelti possono assistere. È alla scuola del Vieux Colombier di Copeau che si è formato Etienne Decroux. Il suo cammino è costellato dall’invenzione continua di esercizi alla ricerca di una efficacia scenica dell’attore. La sua modesta casa di un sobborgo di Parigi, era una vera fortezza di libertà, indipendente dalle tendenze, dalle mode e dai mercati, dove ha forgiato generazioni di ribelli, testardi, leali e con uno spiccato senso dell’humour. L’esperienza più sorprendente – la prima del genere – è quella del primo Studio di Stanislavskij, diretto dalla singolare personalità di Suleržickij. I membri dello Studio, che annovera i giovani Vachtangov, Mikhail Cekhov e Boleslawski, erano immersi nella creazione ed esecuzione di centinaia di esercizi, senza preoccuparsi della produzione immediata di uno spettacolo. I giovani dello studio lasciarono Mosca per stabilire nel Caucaso un falansterio teatrale, concentrandosi sugli esercizi, coltivando la terra e organizzando serate per i contadini. Una motivazione oscura, che non si lascia spiegare solamente in termini di originalità artistica, spinge queste personalità a prendere posizione di fronte alla società e al teatro del loro tempo. Forse è stato Artaud a formulare questa motivazione nel modo più esplicito: il teatro non deve imitare la vita, ma ricrearla. Allora il mestiere, questa tecnica attraversata da una necessità intima, diviene un fascio d’energie da scoprire, da mettere a nudo per ri-formare l’essere umano, la sua dimensione sociale e spirituale. La quantità e la varietà di esercizi inventati dai riformatori sono una “finzione pedagogica”. Non insegnano né spiegano le regole della recitazione dell’attore. Essi immergono l’allievo in un flusso di ostruzioni e costrizioni fisiche e mentali per affrancarlo dalle categorie funzionali e utilitariste della vita quotidiana. un lungo apprendistato consente di incorporare la coerenza di un ethos professionale e diventare presenza che incarna i valori assorbiti nel corso di anni di lavoro. Gli esercizi dissimulano un cuore in un lavoro che sembra auto-annullamento ma che porta all’autonomia. L’allenamento e gli esercizi sono stati riscoperti e si sono diffusi nella seconda metà del XX secolo, soprattutto nel mondo del terzo teatro, delle isole

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galleggianti, dei gruppi autodidatti, degli esclusi dall’eredità della Grande Tradizione del Teatro. Però racchiudono un’ambiguità per ciò che riguarda la loro utilità. Quest’ambiguità può essere riassunta nella storia del maestro che indica la luna, e dell’allievo che fissa lo sguardo sul dito che indica, cieco nei confronti dell’astro lontano. Gli esercizi colpiscono per la loro suggestività, per la gratificazione che danno a chi li esegue, per le impressionanti capacità corporee che sviluppano, per la sensazione di oltrepassare i limiti, per il valore che si attribuisce alla persona che li insegna, perché sono stati inventati e praticati da maestri i cui spettacoli ispirano. Tutto ciò non è nocivo ma assomiglia all’atteggiamento che spinge a ingurgitare pillole credendo al loro effetto dimagrante. Gli esercizi elaborati dai riformatori contenevano un nucleo di informazioni essenziali in simbiosi con la visione e gli scopi dell’unica forma di teatro alla quale essi volevano dare vita. I loro attori hanno trasformato e animato il disegno stereotipato di questi esercizi con un’energia personale, senza lasciarsi divorare dal loro lato ginnico. Al contrario ne hanno estratto una leggerezza, una radiazione capace di suscitare, loro malgrado, risonanze e associazioni negli osservatori. Quando si ripetono gli esercizi fuori dal contesto nel quale sono sorti, si rischia di svuotarli del loro cuore nascosto e di riprodurre solamente la conchiglia esterna. Senza una guida rigorosa e competente, senza un ambiente consapevole di uno scopo lontano – la luna che brilla e che nasconde un lato oscuro e inaccessibile – gli esercizi non insegnano che a guardare un dito puntato. Il cuore segreto aiuta a vedere il dito vicino del maestro, ad essere cosciente della luna distante che il dito indica, e a dimenticarli entrambi lungo il cammino che deve condurre all’incontro con se stessi.

La tradizione non esiste Per me il teatro è esperienza diretta, per gli storici il teatro è una questione di fatti. Amo percorrere “la storia sotterranea” del teatro dove ogni riformatore mi viene incontro come un eretico scorticato che urla la sua solitudine e la sua rivolta, espone la sua ferita e i cui balbettii mi spalancano un abisso di domande. Sono ipnotizzato dalle loro biografie, studio sbalordito i loro spettacoli, mi lascio impressionare dalle loro scelte. È insieme ricerca di identità professionale e viaggio all’interno di me stesso. Scopro la mia cultura, i miei antenati, l’eredità che mi hanno consegnato: le mie radici e le mie ali. Provo una sensazione molto forte che chiamo “superstizione”: una presenza che “si

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trova al di sopra” di me, forse accanto a me. È un viso vulnerabile e pensoso che non riesco a riconoscere, depositario di un plusvalore che va aldilà di tutti i valori, i significati, gli alibi e le nostalgie che proietto sulla mia professione. La “superstizione” è il contrario del feticismo, della credenza nei sistemi tecnici, nelle giustificazioni politiche, nelle categorie estetiche. Mi invento una tradizione per scoprire la mia eredità e confrontarmi con essa, per battermi e appropriarmi di qualcosa che è una parte della mia integrità, a cui appartengo e che mi appartiene. Sento l’obbligo di darle corpo, di tenerla in vita, di decidere come e dove investirla, perché e a chi trasmetterla. Gli antenati – i loro destini, la loro coerenza e le loro illusioni, le parole e le forme che mi fanno pervenire dal passato – sussurrano un segreto a me personalmente. Attraverso l’azione decifro questo segreto. Più o meno coscientemente le mie azioni danno fuoco alle loro forme e alle loro parole. Ne vedo le ceneri spazzate dai venti dell’oblio, dalla derisione e dall’indifferenza dell’epoca. Nel fumo dell’incendio da me appiccato, intravedo il senso misterioso che è soltanto mio e che mi spinge attraverso il teatro, come un cavallo cieco che galoppa sul bordo di un precipizio ghiacciato. La tradizione non esiste. Io sono la tradizione, la tradizione-in-vita. Essa materializza e va oltre la mia esperienza e quella degli antenati che ho incenerito. Condensa gli incontri, le illuminazioni e i lati scuri, le ferite ed i cammini invisibili sui quali non smetto di perdermi e ritrovarmi. È una tradizione che lascia delle tracce come un trickster astuto ed ebbro, i cui tranelli mescolano strumenti preziosi di orientamento e un ammasso di conoscenze inapplicabili. Quando sparirò, questa tradizione-in-vita si dissolverà. Un giorno, qualcuno, spinto da una necessità che appartiene soltanto a lui o a lei, si confronterà con questa eredità in letargo, la scuoterà, se ne approprierà bruciandola con la temperatura delle sue azioni. Con un atto che presuppone amore, l’erede involontario estirperà il segreto della mia eredità confrontandosi al suo senso personale. Appropriarsi significa sapersi nutrire, scegliere le fonti della propria conoscenza. Il poeta brasiliano Osvaldo De Andrade pretendeva che ogni artista fosse antropofago. Un antropofago non è un cannibale, diceva. Il cannibale divora per voracità, mentre l’antropofago si alimenta delle parti scelte dell’altro, lembi impregnati di qualità, virtù e doti con cui nutre la sua forza. Bisogna essere antropofago – concludeva De Andrade – non cannibale allorché ci avviciniamo ad un’altra cultura. Dobbiamo esserlo anche verso il passato, verso gli antenati. Sembra un incontro inoffensivo che non presuppone un impegno assoluto. In realtà è un’operazione rischiosa, piena di incognite poiché in quel preciso

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momento ci relazioniamo con le fonti stesse della nostra esistenza, della nostra essenza. Le relazioni tra gli esseri umani e coloro che li circondano – i vivi, coloro che li hanno preceduti e coloro che seguiranno – sono cosparse di segni e messaggi occulti, decifrabili nella misura in cui si va aldilà del transitorio. Porsi la questione della tradizione, vuol dire riflettere sull’istinto di rivolta che ha guidato i nostri passi verso un orizzonte che oggi ci rinchiude, capace di incitarci a marciare man mano che esso si allontana. È domandarsi come sfuggire alla voracità del presente che impedisce di abbracciare questa scheggia di passato di cui solo noi rappresentiamo l’avvenire.

La fortezza dalle mura di vento Gli antenati hanno dato l’esempio. Sono andati verso il teatro come si va nel deserto: per incontrare sé stessi, ma anche per fondare un luogo diverso da tutti gli altri, una fortezza dalle mura di vento in cui instaurare nuove regole di vita. Un’isola di libertà. Dietro queste metafore si nasconde la realtà: devi entrare ogni giorno nella sala di lavoro, confrontarti con un nucleo di persone, essere capace di stimolarle al fine di essere stimolato in cambio, procedere a tentoni sperando che il lavoro mostri la strada. È questa atteggiamento che permette alla tua isola galleggiante di non sprofondare. Quando nel 1994 l’Odin Teatret ha festeggiato i trent’anni, mi sono detto che dovevo prendere una decisione radicale, agitare ancora una volta il martello e frantumare le sicurezze che erano i miei limiti. Ho pensato di dire ai miei attori che era tempo di ritirarmi, avevo svolto il mio compito. Ma io non mi appartengo più. Appartengo ad una piccola tradizione nomade i cui antenati restano in vita attraverso la coerenza e la continuità della mia azione. Una piccola tradizione che ha dimostrato che il teatro è un ensemble, un gruppo di individualisti che possono costruire una fortezza, esserne contadini e califfi, coltivare una terra che, dopo Stanislavskij, è abitata dalla nostalgia di una disciplina artigianale che è isola di libertà, rifugio dallo spirito del tempo e ricerca dell’essenziale. Nel museo di Antropologia di Città del Messico, nella sala della cultura Olmeca, sono esposte delle statue gigantesche orribilmente sfregiate, a tal punto che è impossibile riconoscere se rappresentino un essere umano o un animale. Furono trovate sepolte sotto diversi metri di terra rossa, circondate di offerte. Gli archeologi pensano che un cambiamento di mentalità religiosa spinse gli Olmechi a sfigurare quelle statue e a nasconderle. Si rendevano

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conto di commettere un atto rischioso, allora seppellirono anche dei doni per placare la collera dei vinti. È come se il teatro abbia perduto la sua effigie, come se l’usura e la frenesia del tempo, o gli stessi esseri umani, gli abbiano mutilato il viso. Non ha più profilo. Si fanno offerte a questo teatro sfigurato, lo si adorna di teorie e significati. Ma i soli tratti che possono restituirgli la vita e la sua interezza provengono da quella parte di noi in cui una voce canta e sanguina: la nostra vulnerabilità di lupo e bambino.

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NONNI E ORFANI*

Una saga di famiglia Vsevolod Mejerchol’d era mio nonno. Potrà apparire bizzarro, ma è un fatto oggettivamente appropriato, perché rispetta le proporzioni storiche. Le grandi trasformazioni del teatro europeo del secolo Ventesimo, viste dall’alto, assomigliano ad una saga familiare. Una piccola tribù di qualche centinaia di persone che vive rivoluzioni, vittorie, sconfitte, rischi e tragedie, che difende, dissipa o recupera l’identità del proprio ethos. Ha anch’essa i suoi traditori, i suoi eroi e i suoi giganti. È all’interno di questa ”famiglia” – vasta se paragonata alle cerchie d’una vita individuale, minuscola se paragonata ai paesaggi della storia circostante – che mi sento in diritto di parlare di Vsevolod Mejerchol’d come d’un nonno. Conosciamo la famiglia naturale dal di dentro, senza neppure accorgercene. La famiglia dell’ethos, della nostra identità professionale, la conquistiamo attraverso scoperte successive, prese di coscienza ed improvvise illuminazioni. Nella mia famiglia dell’ethos professionale, non ci sono genitori. C’è un fratello maggiore, Jurek – Jerzy Grotowski. Molti zii e parenti: Vachtangov e Copeau, Brecht e Decroux, Suleržickij e Artaud. E sopra a tutti i due nonni: Stanislavskij e Mejerchol’d. Il legame affettivo che ci lega ai nonni, mano a mano che gli anni passano, si intreccia con la consapevolezza della distanza e insieme dei segreti artigianali che da loro si possono dedurre. Diventa conoscenza e tenerezza. Impariamo, così, che i nonni sono molto diversi dai maestri. Sono due e rappresentano due rami della tradizione o due diverse “piccole tradizioni”. * Pubblicato per la prima volta in “Conjunto” n. 129, La Avana 2003.

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Non sono come i maestri che diventano un punto di riferimento unico e assoluto. La pluralità dei nonni fa capire che il problema del capostipite è un falso problema e una fonte di inganni. Nella famiglia professionale che costituisce la mia storia non ci furono gli equivalenti dei genitori. Sono un autodidatta. Questo termine necessita però una chiarificazione. C’è una differenza fra colui che apprende qualcosa senza l’ausilio d’una scuola regolare, ma impadronendosi d’un sapere preciso, lo stesso che le scuole impartiscono; e colui che invece è costretto non solo a ritagliarsi un campo del sapere, ma anche a individuare i fondamenti di una professione alla quale gli è stato rifiutato l’accesso. C’è differenza fra colui che deve orientarsi da solo in un territorio che lo riconosce e in cui si riconosce; e colui che deve circoscrivere il proprio territorio, scovare i propri sistemi di orientamento, scoprire un’appartenenza. Quest’ultima è la condizione di coloro che professionalmente sono orfani. Un’intera regione del teatro del Novecento, soprattutto nella seconda metà del secolo, è abitata da orfani, persone che hanno costruito il loro teatro da diseredati, non riconosciuti dal teatro “legittimo”. Provengo da questa regione del teatro. Gli orfani non possono inventarsi dei genitori. Ma dei nonni, sì.

La nascita di un nonno La scoperta d’uno dei miei due nonni ha coinciso con i miei primi passi in cerca di teatro intorno al 1960. Era Stanislavskij. Di lui mi parlavano tutti, alla scuola di Varsavia, che abbandonai. Di lui parlava continuamente, nei primi anni Sessanta, colui che divenne il mio fratello maggiore, Grotowski. Era uno di quei nonni che partoriscono leggende. Mejerchol’d, invece, era un nome sempre avvolto da mantelli di nebbia. Su di lui ascoltavo storie frammentarie, laconiche ed amare. Anche su di lui circolavano leggende, ma dichiaratamente tali, ambigue e a volte grottesche. Era una grande ombra fugace all’orizzonte, un fantasma. Furono i libri a farmi scoprire, pezzo per pezzo, la storia di cui quell’Ombra era la proiezione ingigantita e sfumata. Innanzi tutto, tre libri dei primi anni Sessanta. Stalin era morto nel 1953. Tre anni dopo, cominciò la cosiddetta ”destalinizzazione” e di Mejerchol’d si cominciò di nuovo a scrivere. Ancora qualche anno, e vennero le prime importanti traduzioni. In Italia, alla fine del 1962, Editori Riuniti, la casa editrice legata al Partito Comunista, aveva pubblicato La Rivoluzione teatrale, una raccolta di scritti di Mejerchol’d. Fra la gente di teatro cominciò a crearsi un nuovo cliché, aggiungendo un terzo elemento allo

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schematismo corrente che opponeva Stanislavskij a Brecht. Si diceva: “Stanislavskij è il teatro borghese, Mejerchol’d è il rivoluzionario”. Ogni volta che i testimoni parlavano, quei cliché si sbriciolavano alla pari di quelli basati sull’opposizione Stanislavskij-Brecht. Sia dal punto di vista dell’artigianato che dell’ethos, una “rivoluzione” teatrale implica delle pratiche che non si rispecchiano sempre nelle prese di posizione politiche. Eppure possono essere altrettanto radicali, rischiose e intransigenti dell’intransigenza politica. In Francia, all’inizio del 1963, l’editore Gallimard pubblicò un’altra raccolta degli scritti di Mejerchol’d, Le théâtre théâtral curata da Nina Gourfinkel. Non era molto diverso dal libro italiano. Ma l’aria che vi si respirava mi parve di tutt’altra qualità. I due libri erano usciti contemporaneamente, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro. Mentre il primo metteva l’accento sulla parola “rivoluzione”, il secondo sottolineava il concetto della “teatralizzazione del teatro”. Visti assieme, i due titoli suggerivano l’idea che “rivoluzione” e “teatralizzazione” fossero concetti interdipendenti. “Teatralizzazione” indicava l’aspetto convenzionale del teatro, la ricerca sulla “forma”. Ambedue i libri derivavano da una prima scelta dei materiali di Mejerchol’d pubblicata in Urss. La maggior parte degli scritti raccolti coincidevano. Sia l’uno che l’altro si chiudevano rievocando l’immediatezza del dialogo personale, le lettere a Cechov e i colloqui con gli allievi, trasmessi da Gladkov: Mejerchol’d parla. Che cosa era, allora, a rendere tanto diversa l’atmosfera che sembrava distinguere quelle due edizioni degli stessi testi? Nel libro italiano prevaleva l’esigenza di documentare correttamente il passato, rivolgendosi a coloro che studiavano il teatro. Il libro francese aveva il sapore di un racconto fatto per le persone che invece il teatro lo facevano. Conservava il senso dell’avventura, della scoperta, delle peripezie di un artista perennemente inquieto, battagliero, un temperamento mercuriale col destino d’un martire. Questa differenza derivava da minuscoli dettagli, era appena un sapore. Forse ero io a mettercelo, mentre nelle intenzioni di chi aveva composto il libro non c’era. L’edizione italiana, per esempio, si chiudeva con un saggio di Aleksandr Fevralski, che veniva presentato come “uno dei maggiori studiosi del teatro sovietico degli anni Venti”. Fevralski stesso, nel suo scritto, si introduceva come uno di quei giovani entusiasti di Mejerchol’d, che nel suo lavoro e nel suo insegnamento avevano scoperto una ragione di vita. Il suo “Ricordo” restituiva Mejerchol’d visto attraverso uno sguardo innamorato. Ma di quello sguardo innamorato chi aveva curato il libro sembrava non accorgersene. Era come se fosse un sovrappiù. Era proprio quel sovrappiù o quell’eccesso che per me dava senso alla storia di Mejerchol’d.

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Fevralski nelle prime righe diceva: “L’intima amicizia che legava Mejerchol’d alla gioventù dipendeva dal fatto che lo stesso ‘vecchio’ era un eterno giovane. Giovane di corpo e di spirito, nonostante i capelli grigi, la tubercolosi e le disfunzioni epatiche. Quando dirigeva gli esercizi di biomeccanica, li eseguiva con maggior precisione, facilità ed eleganza del più giovane, forte ed agile dei suoi allievi. Nel corso delle prove capitava di veder ballare Mejerchol’d in una parte di donna. E ballava in modo tale da sembrare effettivamente una giovane donna, invece dell’uomo anziano che in realtà era”. Ero stregato da questo anziano maestro che si trasformava sotto gli occhi dei suoi allievi in una ragazza, un padre severo che passava il tempo giocando. Credevo di comprendere il sottotesto appassionato delle frasi cerimoniali che concludevano il “Ricordo” di Fevralski: “Per tutti noi, mejercholdiani, egli era un secondo padre, esigente, ma pronto a impartirci nell’arte le grandi lezioni che sono divenute la base dell’attività di quanti l’hanno seguito. Noi tutti saremo grati per sempre al nostro maestro”. Assomigliavano alle frasi di circostanza che si leggono a proposito degli uomini straordinari. Eppure, dietro l’enfasi convenzionale, sentivo tremare quel particolare sentimento che lega il discepolo al maestro e che fa della vera pedagogia non un metodo, ma una storia d’amore. In quel testo di Fevralski trovai negata per la prima volta, per iscritto, lo schematica contrapposizione fra Mejerchol’d e Stanislavskij. Fevralski raccontava d’aver assistito, nel 1938, alla comparsa di Mejerchol’d nel corso di una delle prove che si tenevano a casa di Stanislavskij, gravemente cardiopatico. Parlava della tenerezza, del rispetto e della stima che Stanislavskij dimostrava per il suo più giovane collega, bersagliato dai portavoce del regime. Quell’aria di famiglia, con le sue tensioni e i suoi litigi, ma impregnata del senso di un’appartenenza e di un’idealità comune, era più importante, per me, orfano in cerca d’un sistema di orientamento, dei discorsi sulle differenze dei metodi e delle estetiche. Il nonno nebuloso cominciava ad avere un profilo preciso. Dal fantasma nasceva la persona. Prendeva forma un tratto per volta, in maniera non sistematica ed imprevedibile, così come lui diceva che nasceva il personaggio per l’attore: a volte compare prima una scarpa, o un cappello, o un modo di inclinare la testa mentre si ascolta. Poi, lentamente dal primo germe emerge la figura.

La doppia vita del teatro Ancora libri. Ora leggevo i testi degli antenati come se fossero scritti apposta per me, per l’erede orfano che abitava l’oscura provincia del teatro e non

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sapeva nulla. Era un’illusione infantile e megalomane. La nutrivo segretamente, perché mi rendevo conto che era un’illusione vitale. Ritrovai, qualche anno dopo, in tutt’altro contesto, la stessa miscela di megalomania e modestia. Nel 1965 comparve in Italia Il trucco e l’anima di Angelo Maria Ripellino. Il libro era il racconto dell’avventura artistica dei principali registi russi nei primi trent’anni del Novecento. L’autore parlava di ciò che non aveva visto come se ne fosse stato testimone diretto. Preciso nell’uso dei documenti, faceva ciò che uno storico dovrebbe saper fare: cercare e ritrovare il tempo perduto con la tecnica del poeta. Al centro dei suoi interessi, e della sua fascinazione, c’era Mejerchol’d. Ripellino era un prestigioso studioso di letteratura slava, ma anche un noto e apprezzato poeta. Incideva sulla pagina la silhouette suggestiva dei protagonisti con parole decise e necessarie. Fu lui a rivelarmi che il teatro ha una doppia vita: nel presente degli spettacoli e nel passato che torna tramite i libri. Questa doppia vita non era un’astrazione. Per me si manifestava concretamente e quotidianamente. In quanto orfano innamorato dei fantasmi dei nonni, cercavo di decifrare, nel lavoro pratico con i miei attori inesperti, ciò che i loro scritti mi trasmettevano in maniera difficile. Nell’enigmatica chiarezza delle loro parole riconoscevo a posteriori le soluzioni che avevo indovinato nel lavoro pratico. Cominciò un fitto dialogo che comprendeva i miei giovani compagni e le vecchie sempre-giovani ombre che mi parlavano dal passato. La doppia vita si manifestava a tutti i livelli. Sia nella mia esperienza pratica che in quella trasmessa dagli scritti, si trattava di distinguere la formulazione dalla sostanza operativa formulata. In molti casi avrei potuto sostituire la terminologia di Stanislavskij o di Mejerchol’d alle parole-chiave che gli attori ed io usavamo fra di noi nel corso del lavoro per indicare dei procedimenti tecnici di cui avevamo tutti una precisa esperienza. Mi resi conto che qualcosa di simile succedeva anche con la terminologia dei nonni. Quelle che sembravano estetiche e teorie divergenti erano, a volte, solo differenti metafore. Mi apparve chiaro, per esempio, che dietro le tre parole-emblema con cui Mejerchol’d aveva indicato, in tre diverse tappe del lavoro, la propria visione dell’attore – grottesco, danza, biomeccanica – si celava sempre uno stesso principio. O meglio, un ricerca coerente e accanita sempre nella stessa direzione. Personalmente, la conseguenza di tutto ciò non fu l’ovvia consapevolezza della relatività delle diverse formulazioni, ma lo stimolo a decifrare le singole lingue di lavoro così personalizzate e sempre varianti. Questo gergo pragmatico non si preoccupa degli equivoci che le metafore usate possono determinare in coloro che non condividono la stessa esperienza. Una raffinata trappola

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scatta per il lettore: determinate parole sembrano descrivere processi ripetibili che conducono a risultati certi, creando così l’illusione che i termini usati, invece di essere un semplice cartello indicatore, siano una definizione, una ricetta o addirittura un’utopia. Il fitto dialogo con il lavoro, con le parole che venivano dal passato e con coloro che scrivevano la storia mi trasse fuori dalla mia condizione di orfano. Mi aiutò a trovare la mia famiglia teatrale e a non appartenere completamente al panorama del teatro del presente. Era la scoperta di una “tradizione familiare” molto particolare, un ambiente verticale, piantato in parte nell’attualità e in larga parte affondato nelle generazioni precedenti. Le storture, gli entusiasmi e le mode del teatro che mi circondava perdevano molto del loro assillante peso e soprattutto non erano la sola realtà inevitabile. Erano possibili altri modi d’essere del teatro perché c’era un altrove con cui identificarmi e misurarmi. Oggi sono grato alla sorte che mi ha immesso nella professione come orfano dotato di nonni. Sono potuto crescere in un ambiente verticale, un teatro che non sta tutto nel presente e che rende la dissidenza – prendere posizione a parte – un riflesso condizionato altrettanto caro d’una casa ancestrale.

Teatro perspicace Il teatro della nostra epoca è necessario soprattutto per chi lo fa. All’inizio degli anni 1960, furono Peter Brook e Jerzy Grotowski a indicare questo mutamento nella ragione sociale e culturale del teatro. Affermarono l’esigenza di non soffrire il mutamento come una perdita di senso, ma come punto di partenza per individuare un valore. Se il teatro diviene superfluo, nella nostra società, la sua forza può derivare solo dalla sua differenza. In altre parole, dalla capacità di raccogliere attorno a sé quegli spettatori le cui domande trovano un’eco nei bisogni che spingono alcune persone a fare teatro. Nell’età dei nonni, di Stanislavskij e Mejerchol’d, il teatro era ancora considerato un bene necessario. La sua ragione sociale non era messa in questione. Ma Stanislavskij e Mejerchol’d dettero un fondamento anche al valore del teatro dal punto di vista di chi lo fa. Crearono una vita parallela accanto alla normale produzione di spettacoli. Si dedicarono ad attività anomale, concentrandosi sulla qualità della vita di gruppo, sull’esistenza e sulla difesa d’una microcultura, sul teatro come laboratorio in continua ricerca, o nucleo di esperienza spirituale e politica. Usarono la pratica teatrale anche come via per il lavoro dell’essere umano su di sé, come strumento per esplorare la qualità delle relazioni fra individui, e nutrire la forza d’animo per opporsi.

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Stanislavskij sentì con particolare forza le potenzialità del teatro aldilà del mettere in scena testi. Il lavoro dell’attore su di sé e sul personaggio poteva diventare un valore autonomo, indipendentemente dalla realizzazione dello spettacolo. Lui che era considerato un geniale regista-demiurgo cominciò a privilegiare la fase delle prove, come se lì fosse possibile sperimentare l’essenza stessa del fare teatro. Stanislavskij trasformò un paradosso in scienza. Il paradosso era cercare la verità o l’autenticità attraverso la finzione scenica. Traeva una conseguenza inaspettata dal luogo comune secondo cui la vita quotidiana è una recita, e il mondo intero non è altro che teatro. Se questo è vero, se ne deduce che fare teatro significa interrompere il nostro continuo recitare. Non è una boutade. Fu una linea d’azione conseguente, metodica, scientifica. Fu Mejerchol’d, però, ad individuare praticamente, la via per creare una sorta di fissione della pratica teatrale, sprigionandone le energie potenziali, sia per chi il teatro lo fa, sia per chi lo vede. Il primo passo ebbe il carattere di un’umile invenzione artigianale. Mejerchol’d spiegò come e perché l’“azione plastica” dell’attore potesse non armonizzarsi con le parole del personaggio. Indicò nella vita quotidiana le radici di questa complementarità o indipendenza fra il piano delle parole e quello dei gesti. Le parole rappresentano le intenzioni esplicite nelle relazioni fra gli individui, sincere, convenzionali o menzognere. I gesti, gli atteggiamenti, le distanze, gli sguardi ed i silenzi spesso non accompagnano le parole, non si limitano a sottolineare le relazioni che queste enunciano, ma rivelano quali siano in realtà tali relazioni, sia dal punto di vista emotivo che sociale. Mostrò come l’attore potesse modellare coscientemente questi due livelli di comportamento, disegnando i propri movimenti secondo una logica che intesseva nuovi rapporti con le parole, senza limitarsi ad illustrarle. Era un procedimento tecnico i cui effetti mettevano lo spettatore in grado di non fermarsi alla superficie, e di guardare contemporaneamente le molteplici dinamiche che operano nelle diverse realtà dell’individuo e dei suoi rapporti con la società. La sfasatura fra i due livelli della recitazione – quello del comportamento fisico e quello del testo – dava profondità alla visione dello spettatore, rendendolo perspicace. La ricerca della perspicacia riguarda sia lo spettatore che l’attore. Il che non vuol dire che sia l’uno che l’altro vedano e intendano allo stesso modo. Non vuol dire che sia l’attore che lo spettatore percepiscano la stessa esperienza di un’esperienza assistendo all’azione teatrale o compiendola. Un attore può compiere una propria esplorazione e cercare un senso, nel e col microcosmo del suo corpo-mente, che rimane indipendente rispetto al senso ed

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all’esplorazione che compie lo spettatore assistendo allo spettacolo. Uno stesso spettacolo può divenire una vera e propria spedizione antropologica sia per l’attore che per lo spettatore, ma non è necessario che per l’uno e per l’altro sia proprio la stessa spedizione. Non so se su quest’ultimo punto Mejerchol’d la pensasse veramente così. Certamente è questo quel che da lui ho imparato. Molte volte, in Europa come in Asia, ho assistito a spettacoli di cui non comprendevo le parole e di cui ignoravo la trama e che hanno inciso profondamente la mia memoria. Mejerchol’d m’ha aiutato a spiegarmi le ragioni di questa mia constatazione. Per lo spettatore, l’efficacia dell’attore non dipende soltanto dalla comprensione intellettuale ma soprattutto dalla sua destrezza a creare un “effetto di organicità”, a incarnare le leggi del movimento della vita, cioè della biomeccanica. Questa qualità di comprensione passa attraverso i sensi e le reazioni cinestetiche dello spettatore, mette in moto – non meno delle parole – i suoi pensieri e li rende perspicaci. Lo spettatore diventa, allora, una persona che sa vedere come se vedesse per la prima volta. Lo spettacolo acquista la consistenza non solo di un’interpretazione di un testo o di un nodo di avvenimenti, non si risolve soltanto in un coinvolgimento emotivo, ma diventa esperienza di un’esperienza. La fissione operata da Mejerchol’d nel nucleo della pratica teatrale è la premessa per affrontare la drammaturgia in termini di complessità. Uno spettacolo è un organismo composto di differenti livelli di organizzazione drammaturgici, ognuno dei quali deve vivere di per sé, interagendo con gli altri, come le linee dei diversi strumenti in una composizione musicale. Vi è il livello d’organizzazione narrativo, con i suoi intrecci e le sue peripezie – quello che la tradizione teatrale ha meglio indagato. Vi è il livello d’organizzazione della drammaturgia organica, che compone la dinamica delle azioni e il flusso degli impulsi che si dirigono ai sensi dello spettatore. Questa natura di “teatro che danza” dà alle azioni una coerenza che non dipende dal significato, ma dalla capacità di convincere, tenere desti e stimolare i sensi dello spettatore. La drammaturgia organica agisce come una musica che non si rivolge all’udito, ma al sistema nervoso dell’attore e dello spettatore. Vi è, infine, quella che in mancanza di un’espressione migliore chiamo la drammaturgia dei mutamenti di stato. Potrei definirla come l’insieme dei nodi o dei cortocircuiti drammaturgici che alterano radicalmente il senso della narrazione e fanno precipitare i sensi degli spettatori in un vuoto imprevisto, condensando o disorientando le loro attese. Mejerchol’d ha continuamente sottolineato l’importanza di questo terzo livello d’organizzazione drammatur-

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gica, utilizzando e commentando il concetto di grottesco. Il suo allievo Ejzenštejn, ne applicò i principi al montaggio cinematografico. Parlò dell’estasi intesa in senso letterale, come ex-stasis, un saltar fuori dalla dimensione ordinaria della realtà. La densità che risulta dall’intreccio dei tre livelli di organizzazione drammaturgica non ha come solo obiettivo l’impatto sulla percezione dello spettatore. Serve anche all’attore nel suo lavoro su se stesso. In questo caso, la drammaturgia non genera uno spettacolo, ma una partitura chiamata “esercizio”. Gli esercizi di biomeccanica ideati da Mejerchol’d sono organismi teatrali composti per chi il teatro lo fa, non per chi lo vede. Non sono solo addestramento fisico, ma forme incorporate di un modo di pensare. La storia ha salvato uno spezzone di film che presenta alcuni esercizi biomeccanici composti da Mejerchol’d, eseguiti dai suoi attori. Questo documento ci trasmette, in un linguaggio cifrato, il pensiero-in-azione di Mejerchol’d. È come se lo si vedesse vivo, faccia a faccia. Mejerchol’d affermava che l’attore deve saper “vivere nella precisione d’un disegno”. Il documento ci permette, a distanza di tempo, di constatarlo con i nostri occhi. Si vede chiaramente come gli attori vivano, e non si limitino ad eseguire, gli esercizi. Tutto accade come se il disegno fosse un codice che prende vita e fiorisce nell’organicità di un determinato individuo. L’organicità è dell’attore. Ma il disegno è di Mejerchol’d. È la traccia di un pensiero che vive di contrimpulsi e poggia sui contrasti; che dilata alcuni dettagli e li monta in simultaneità con altri appartenenti, normalmente, a fasi successive dell’azione; che inventa la peripezia come una serie di scarti rispetto alla linea di condotta prevedibile. La peripezia non riguarda soltanto lo sviluppo di una storia, diventa comportamento fisico, disegno dinamico, danza dell’equilibrio e delle tensioni contrastanti. Ogni esercizio dura pochi secondi, sufficienti però a condensare la visione e la realizzazione del teatro come scoperta e messa a nudo dell’ossatura nascosta sotto le apparenze del visibile. Gli esercizi di biomeccanica non sono modelli per esercitarsi, ma metafore sensoriali che mostrano come si muova il pensiero. Esercitano il pensiero. Sono azioni che distillano il modo in cui si manifesta ciò che chiamiamo “vita” ai diversi livelli d’organizzazione, da quello della presenza pre-espressiva e del bios scenico, a quello espressivo e drammaturgico, sociale e politico. Mostrano Mejerchol’d come visionario creatore di un teatro storico. Non riproduce i colori dei luoghi e delle epoche, non si dedica all’interpretazione di avvenimenti storici, ma affonda lo sguardo nelle remote radici del divenire. Il disegno degli esercizi ci restituisce Mejerchol’d più d’ogni fotografia o d’ogni ritratto.

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A lungo ho pensato agli esercizi, alle loro partiture di movimenti, come ad uno strumento per la formazione degli attori. Poi mi sono reso conto che il loro valore più profondo consiste nell’essere canali di un’eredità che non si può affidare alle parole. È un modo di pensare e un ethos che il maestro incide nel corpo-mente dei suoi attori e che da loro può disseminarsi.

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Il microscopio e la storia Nella piazza del mio cuore di teatrante orfano c’erano le due statue dei nonni. Stanislavskij teneva in una mano un microscopio e nell’altra un libro di poesie; Mejerchol’d con una mano brandiva un manifesto di agitazione e propaganda e con l’altra sfogliava libri di storia, alla ricerca di punti di riferimento e termini di confronto. Ambedue i nonni, infatti, erano scienziati – oltre che artisti e pescatori d’uomini. Stanislavskij praticava la scienza sperimentale del teatro e dell’attore, amava la ricerca in profondità, partiva dall’esperienza per risalire alle fonti della vita scenica, ai principi di base e condivisibili. Procedeva dal complesso al semplice, dall’organismo alla cellula. Mejerchol’d, invece, pensava la natura del teatro in termini di lotta. Ricercava nel microcosmo dell’individuo – sia nell’attore che nello spettatore – gli stessi schemi d’azione che caratterizzano i mutamenti sociali. Conflitti, tensioni, polarità erano per lui sinonimo di “vita”. L’essenziale non era per lui la ricerca delle fonti della verità o dell’autenticità, ma l’indagine sul modo in cui la dinamica della storia può irrompere e miniaturizzarsi nello spettacolo ed in ogni frammento dell’azione dell’attore, nel suo corpo-mente. Una delle cose che mi faceva sentire vicino a Mejerchol’d era la sua voracità per la storia dei teatri. Quando sfogliamo i molti volumi che Stanislavskij ci ha lasciato, ci troviamo in un panorama di testimonianze dirette, una folla di attori e attrici che ha conosciuto, che ha visto sui palcoscenici più diversi e lontani. Anche dei più mediocri ricorda un gesto o un’inflessione di voce che dopo anni può portare ad esempio e sviscerare con il suo bisturi di scienza e di poesia. Spazia fra la Russia e il resto d’Europa, fra il teatro, l’Opera e la danza. Però è raro che Stanislavskij senta il bisogno di cercare nei libri le tracce di un teatro sparito. Sembra fidarsi soltanto di quel che ha sperimentato con i propri occhi e i propri sensi. Mejerchol’d amava viaggiare nel regno dei morti, nella storia. Interrogava il teatro-che-non-c’è-più per inventare il teatro che-non-c’è-ancora. Tutti i suoi scritti sono fitti di interpretazioni e casi ispiranti del passato. Alla luce

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La conquista della differenza

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delle sue esperienze interpreta i documenti antichi, li libera dalla polvere del tempo, li trasforma in voci con cui dialogare. Nella piccola famiglia di riformatori e profeti che cambiarono la storia del teatro novecentesco, Appia, Stanislavskij, Decroux e persino Brecht furono simili a scienziati puri. La loro ricerca ebbe il rigore di un procedimento deduttivo. Esplorarono il territorio scenico con la volontà di individuare le fonti della vita e delle nuove finalità del teatro. Altri – Craig, Copeau, Mejerchol’d – preferirono ampie ricognizioni nella storia, raccolsero materiali ed esempi praticabili, misero in moto nuove ricerche, contribuirono a rinnovare la storia del teatro. Crearono ambienti in cui gli artisti di teatro dialogavano con gli storici. Non sono distinzioni rigide. È evidente che nessuno può fare a meno della storia, così come non c’è indagine del passato che non sia nutrita da ricerche sperimentali. Si tratta d’una differenza di propensioni, non di metodi contrapposti. In base a queste propensioni, se dovessi scegliere in quale dei due gruppi inserire il mio fratello maggiore, Grotowski, lo immaginerei tra gli scienziati puri, insieme ad Appia e Stanislavskij. Per quanto mi riguarda, mi collocherei piuttosto nella schiera capeggiata da Craig e Mejerchol’d. Coloro che entrano nel teatro come “orfani” hanno un particolare bisogno del passato. La nostra stessa condizione ci spinge a costruirci un passato, ad inventarci una tradizione. Invenzione della tradizione è diventata un’espressione comune dopo la brillante raccolta di saggi storici di E.J. Hobsbawm a metà degli anni 1980. Può indicare due prospettive molto diverse: la composizione artificiale, a scopo politico e nazionalistico, d’una origine inesistente, un mito fabbricato come un’arma (questa è la prospettiva di Hobsbawm). Oppure può significare un sentiero tracciato nella sfera buia del passato collegando punti lontani, da usare come sistema di riferimento. Nel primo caso l’invenzione della tradizione è un falso storico. Nel secondo, è come una costellazione. Nel primo caso nutre il fanatismo. Nel secondo, è un orientamento per la conquista della propria differenza, cioè della propria identità. Esiste allora un’obiettiva o inventata tradizione di Mejerchol’d? Non credo. Vuol dire, allora, che l’essenziale del suo insegnamento è sprofondato nell’oblio? Non esistono soltanto le tradizioni, con la loro continuità basata sull’ininterrotta tensione fra innovamento e conservazione. Esistono anche tradizioni sconnesse che si trasmettono attraverso la discontinuità e la contraddizione, eludendo le vie rette. Passano dall’uno all’altro elemento, diventando irriconoscibili, come è irriconoscibile, nella nuvola, l’acqua di un torrente secco.

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Eugenio Barba

L’insegnamento dei maestri – e dei nonni – non si estingue né si trasmette. Evapora. E va a piovere dove meno ce lo aspettiamo. Di questa ironia della storia, mi sono reso conto quasi fisicamente quando nella mia vecchiaia ho visitato la casa del nonno.

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La casa del nonno A Mosca, nel maggio del 2001, ho incontrato la nipote di Vsevolod Mejerchol’d, nella casa che fu di suo nonno. Lei è riuscita a ricostruirla nei suoi più minuti dettagli salvaguardandola, ufficialmente, come museo e istituzione culturale. Ne ha fatto un piccolo porto dove artisti e storici di diverse generazioni possono incontrarsi. Su quella casa soffiò, alla fine degli anni 1930, il vento della storia, seminando distruzione. Persino la memoria rischiò d’essere cancellata. Ora, la casa del nonno raccoglie e conserva alcuni dei più importanti documenti della storia dell’“età d’oro” del teatro. Marija Aleksejevna Valentej, è il nume tutelare della casa del nonno. Sembra fragile, ma ha combattuto caparbiamente tutta la sua vita contro la dissipazione della memoria. È carica d’anni e i suoi occhi sono pieni di luce. Avevo gli occhi appannati, a Mosca, quel mattino del 15 maggio 2001, nel “salotto giallo” dove Mejerchol’d e sua moglie Zinaida Raikh accoglievano i loro amici intorno al pianoforte dove Shostakovich e Prokofiev suonavano e Mejerchol’d immaginava partiture invisibili per i suoi spettacoli. La casa del nonno, quel crocicchio di cultura voluto e difeso dalla nipote Marija, è un trionfo di colori. Vi ritrovo i vividi schizzi scenografici che ho visto infinite volte nel bianco e nero delle foto nei libri. Tra di loro campeggia il grande ritratto di Mejerchol’d steso sul divano, la pipa in bocca, un cagnolino accucciato sulla gamba sinistra. Lo sfondo, un grande arazzo floreale, è una deflagrazione variopinta. Pëtr Konchalovskij ha ritratto Mejerchol’d un po’ alla maniera di Matisse, comodo, raffinato, pensoso e rilassato. Di lì a poco avrebbe subìto l’arresto, la tortura, un processo infame, la morte per fucilazione. Siamo seduti al grande tavolo ovale, beviamo champagne e tè, gustiamo pasticcini, Béatrice Picon-Vallin traduce con la sua voce trepida il pacato mormorio di Marija Aleksejevna. Intorno a questo tavolo si riunivano, discutendo e sghignazzando, Belyi e Pasternak, Erdman e Olesha, Erenburg, Ejzenštejn e Majakovskij. Più raramente gli antichi colleghi del Teatro d’Arte, Katjalov e Olga Knipper. Gli occhi di Marija Aleksejevna si riempiono di lacrime quando ringrazia Béatrice per quel che ha fatto e continua a fare per diffondere l’opera di suo nonno. Ringrazia anche tutti noi, che attraverso il nostro lavoro rendiamo onore alla sua opera.

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Sento una gioia che zampilla dal pessimismo. Non è vero che nulla resiste alla barbarie della storia. Tutto era stato ben congegnato perché di Mejerchol’d sparisse ogni memoria. Così sarebbe stato, se il padre e i giovanissimi figli di Zinaida Raikh, ed Ejzenštejn con loro, non avessero nascosto i suoi documenti fra le pagine di libri e quaderni innocui, a rischio della libertà e forse della vita, occultandoli in archivi e luoghi lontani da perquisizioni e razzie. Ben poco sarebbe rimasto del nonno senza la lunga accanita lotta di sua nipote Marija Aleksejevna. Grazie a queste persone dalla fedeltà segreta e coraggiosa, Mejerchol’d non è stato sopraffatto dalla storia. Accanto alle storie di resistenza, ci sono le storie sotterranee, che raccontano il diffondersi della tradizione sconnessa di Mejerchol’d. Quell’uomo anziano e longilineo, con la sua pipa in bocca, disteso fra colori accesi, è evaporato. La sua nuvola è arrivata lontano, così lontano che persino Maria Aleksejevna non ne ha sentito parlare. Seki Sano discendeva da una casata aristocratica giapponese ed aveva conosciuto la galera, perché diffondeva le idee della rivoluzione socialista nei suoi spettacoli. Diceva che l’URSS era “il paradiso del teatro”. Da quel paradiso venne espulso nel 1937. Vi era approdato nel 1932. Frequentò Stanislavskij e divenne un profondo conoscitore del suo “metodo”. Entrò anche nella cerchia di Mejerchol’d e dal 1936 ne seguì il lavoro. Il teatro era per lui un’arte politica. Non si lasciava distrarre dalle diatribe puramente estetiche. Sapeva per esperienza che le scoperte di Stanislavskij e quelle di Mejerchol’d facevano parte di un unico bagaglio. Con quel bagaglio arrivò in Messico, nel 1939, dopo essersene dovuto andare anche dagli Stati Uniti a causa delle sue idee. Intanto, nel «paradiso del teatro», Mejerchol’d veniva fatto sparire. Seki Sano, il giapponese che aveva avuto il privilegio di abitare per qualche anno in “paradiso”, formò in Messico un’intera generazione del più pugnace teatro latinamericano. Tradusse il termine-chiave di Stanislavskij, perizhivanie, nello spagnolo vivencia. Accanto a lui, maestro di teatro e uomo libero, si formarono, fra gli altri, Adolfo de Louis, cubano, il nicaraguense Alfredo Valessi e il messicano Jesus Gómez Obregón, che ebbe tanta importanza per la vita teatrale del Venezuela. Di Seki Sano mi parlò a lungo Santiago García, uno dei maestri del teatro colombiano, fondatore del teatro La Candelaria. Nel 1954, Rojas Pinilla, che capeggiava la dittatura militare al potere in Colombia dal 1952, decise di fondare una televisione nazionale. Sguinzagliò i suoi uomini alla ricerca del miglior regista per dirigere una scuola che formasse artisti televisivi. Naturalmente, doveva parlare correntemente lo spagnolo. Gli indicarono un

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giapponese. Era il migliore, famoso in Messico e parlava spagnolo. Seki Sano aprì una scuola per attori a Bogotà nel 1956. Santiago García era un giovane architetto che sognava di dedicarsi all’arte della pittura. Si era formato in Europa e negli Stati Uniti. Aveva un buon lavoro, ma se ne sentiva prigioniero. Incuriosito da un annuncio su un giornale, si presentò da Seki Sano. Questi, dopo un lungo colloquio, lo accettò fra i suoi allievi. Gli fece conoscere un modo d’essere del teatro, una sua dimensione individuale e collettiva che sorprese il giovane architetto scontento e gli cambiò la vita. Abbandonò il suo lavoro per divenire attore e regista. Oggi Santiago García è una figura centrale per la storia del teatro latinoamericano. Ben presto il dittatore venne a sapere la “spaventosa notizia” che quel regista giapponese che aveva formato tanti nuovi talenti era un comunista. Tanto pericoloso che quand’era entrato in Messico, sedici anni prima, un giornale aveva dovuto avvertire: “Es directór teatral, no dinamitero”, è un regista non un dinamitardo. Quanti modi indiretti e non-violenti ci sono d’esser dinamitardi? E quanti ne permette il teatro? Seki Sano, espulso dalla Colombia, tornò in Messico, dove continuò ad essere attivo fino alla sua morte, nel 1966. Era stato il terremoto del Kanto, in Giappone, nel 1923, a decidere della vocazione politica ed artistica di Seki Sano. Era uno studente, destinato ad appartenere all’élite del suo paese. Il terremoto gli fece scoprire che sotto una vita ben ordinata covavano violenza e ingiustizia. Approfittando della situazione di emergenza, molti di coloro che amministravano il potere del moderno stato giapponese eliminarono i propri nemici, perseguitando i lavoratori coreani immigrati e i comunisti, angariando la casta discriminata dei burakumin, malmenando e minacciando alcuni leaders politici progressisti. La propaganda governativa seminò il fanatismo fra la popolazione. Il terremoto insegnò a Seki Sano che la terra su cui poggiava i piedi è stabile solo in apparenza. Una catastrofe naturale gli rivelò le violente dinamiche della storia sotto la maschera d’una società civile. Questa, per sommi capi, è un frammento di tradizione sconnessa, la storia del giapponese che portò Mejerchol’d in Messico e in Colombia, e che attraverso il rigore del mestiere trasmise il senso di un teatro che vive nella disappartenenza e nel sentimento della rivolta. Ho parlato di orfani. Forse avrei dovuto parlare di “figli dei terremoti”, di coloro che fanno teatro sapendo che la terra può sempre cominciare a tremare e sconvolgersi sotto i loro passi. Sappiamo che i nostri spettacoli, arte effimera curata come se volesse prolungarsi nell’eternità, possono da un momento

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all’altro inabissarsi con tutta l’isola che li contiene e li sorregge. Ma, allo stesso tempo, divenire nuvole di una terra che non c’è più. Una nuvola grande come la vela di un galeone, mutevole pur restando sempre se stessa, attraversa il “salotto giallo” nella casa di Mejerchol’d. I nostri nonni, cara Marija Aleksejevna, non spariscono. Evaporano.

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LA CASA DELLE ORIGINI E DEL RITORNO*

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Rettore Magnifico, professori, autorità, studenti, signore e signori, permettetemi, come segno di gratitudine, in questa cerimonia che onora i miei compagni dell’Odin Teatret e me, di ricordare gli inizi – le prime parole di un noto testo teatrale: – Merdre! Il più conosciuto fra gli incipit del dramma europeo forse andrebbe evitato in questo solenne consesso. Ma non si può, perché questa sorprendente esclamazione è senza dubbio la più significativa. La provocazione con cui Jarry aprì Ubu Roi, quando fu scritta e detta la prima volta, dovette essere deformata (Merdre!) per risultare accettabile. Oggi, se non fosse deformata e contraffatta, sarebbe talmente banale da passare inosservata. Questa parola distorta dovrebbe essere scritta sulle bandiere dei nostri teatri, se i teatri alzassero ancora bandiere in cima ai loro tetti, come a Londra ai tempi di Shakespeare. Quella parola sulla bandiera non è un insulto. È un rifiuto. È questo che il teatro, lo sappia o no, dice al mondo che lo circonda. E, per dirlo con efficacia e coerenza, deve allontanarsi dal linguaggio quotidiano, rielaborarlo e situarlo in uno spazio paradossale. Lo spazio paradossale è l’unica patria del teatro. Per questa patria Jarry ha creato un’immagine sarcastica e antitetica, degna di figurare come emblema su una bandiera: Quant à l’action, qui va commencer, elle ce passe en Pologne, c’est à dire Nulle Part. Era il 10 dicembre 1896, quando alla ribalta del Théâtre de L’Oeuvre di Parigi Jarry pronunciò queste parole, che possono risultare amare, ironiche, * Discorso in occasione del conferimento del Dottorato honoris causa dall’Università di Varsavia il 28 maggio 2003. Pubblicato per la prima volta in “Culture Teatrali” n. 7/8, Bologna, 2003.

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persino disperate – tutto tranne che tristi o provocatorie. Sono allegre e piene di vitalità, come l’humour noir che ho imparato a conoscere ed ad apprezzare qui in Polonia. Dovremmo però riflettere su un fatto: quando Jarry mise sulla carta quelle parole gioiose e nichiliste, Nulle Parte lo scrisse con le iniziali maiuscole. Non come un’assenza, ma come un’identità. La Polonia è la mia patria professionale. L’ho sempre pensato, perché qui ho vissuto gli anni fondamentali del mio apprendistato. Qui assimilai la lingua di lavoro, l’atteggiamento critico verso la storiografia, le basi del sapere e le tensioni ideali dell’artigianato teatrale. La Polonia fu l’ambiente che guidò i miei primi passi verso il mio destino. Oggi, nel momento del ritorno alla casa delle mie origini, dopo quasi mezzo secolo, mi chiedo se la Polonia non sia rimasta la mia patria professionale soprattutto per la sua forte vocazione a rappresentare per me il reame di Nulle Part. Che cosa voleva dire Jarry con quell’espressione, nel lontano 1896? Accennava soltanto allo smembramento politico della nazione polacca? E a che cosa accennava scrivendo le parole maiuscole? Il greco l’aveva studiato seriamente a scuola. E in greco nulle part diventa oû-tópos, Utopia. Era anche a questo che alludeva nel suo gaio e vitale humour noir? Noi lo sappiamo fin troppo bene, attraverso le nostre esperienze e la Storia che ha accompagnato le nostre vite, quanto l’Utopia abbia a che vedere con l’humour noir. Parlo di Jarry, pensando alla mia Polonia di più di quarant’anni fa, ed ecco emergere Witold Gombrowicz e il suo Ferdydurke. Lo sapevamo a memoria. Il libro di Gombrowicz, come un grande mito beffardo, forniva le parole, i paradigmi e le tipologie attraverso cui Grotowski ed io ci parlavamo. Ed immediatamente, nel teatro interiore della mia mente, Gombrowicz e Jarry si accostano ad un artista che ha popolato di immagini indelebili il teatro del secondo Novecento, e del quale vorrei evocare la presenza: Tadeusz Kantor. Di nascita e scuola sono italiano. D’educazione politica, norvegese. Professionalmente, polacco. Nel 1963, quando nel teatro-laboratorio 13 Rzedów di Jerzy Grotowski e Ludwik Flaszen dovevo mettere in scena un testo per il mio saggio di regia, pensai alle mie radici, alla Divina Commedia di Dante Alighieri. Progettavo uno spazio teatrale doppio, due palcoscenici ai due estremi della sala, e il viaggio di Dante in mezzo, fra gli spettatori, nello spazio del Disordine – una parola anche questa da scrivere con la maiuscola, come Nulle Part. Cercavo uno scenografo e mi rivolsi a Kantor. Ci incontrammo e parlammo a lungo. Era curioso e gentile. Non mostrò affatto il caratteraccio che si diceva. A Opole? E in quale teatro, al Ziemi Opolskiej? Gli risposi che lavoravo con Grotowski. Ricordo il lampo del suo sguardo. Kantor si alzò senza una parola e mi piantò in asso. Non l’ho più rivisto.

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Questa è aneddotica, non è storia. Le rivalità, le gelosie, le glorie e le paure sono schiuma effimera e non vanno confuse con le potenti onde del mare che si accaniscono contro la stabilità della terra ferma. Se richiamo alla memoria le onde apparentemente scomparse, non faccio l’appello d’una umarła klasa, di “una classe morta”: Tadeusz Kantor, Heiner Müller, Julian Beck, Carmelo Bene, Jerzy Grotowski. Queste onde sono diventate correnti profonde, temperano il clima in cui noi agiamo professionalmente, sono il nostro mondo. Se questo mondo, questo potente reame di Nulle Part, tentiamo di rinchiuderlo nei confini che chiamiamo “passato”, siamo noi, in realtà, a morire. Quelle persone apparentemente scomparse non sono i nostri ricordi. Sono il nostro sangue, sono lo spirito vitale che ci mantiene in vita. Chi mi conosce lo sa: più d’ogni altra esperienza, per me la Polonia fu Grotowski. Non serve ripetere ciò che ho detto già tante volte. Questa cerimonia del 2003 è la scena più recente di un intreccio che cominciò nel 1961, con l’incontro a Opole d’un italiano di 25 anni, emigrato in Norvegia e che aveva molto viaggiato, e un regista polacco di 28 anni che aveva girato poco per il mondo, ma aveva cominciato a esplorare la geografia verticale, conosceva l’arte della politica e della dissidenza e sapeva metterle al servizio della sola libertà spirituale. Riconosco in Jerzy Grotowski il mio Maestro. Eppure non mi sento né un suo allievo, né un suo seguace. Le sue domande sono divenute le mie. Le mie risposte sono sempre più diverse dalle sue. Jerzy Grotowski aveva buon senso, per questo era distruttore del senso comune e delle illusioni. Era l’uomo del paradosso e trasformò il paradosso in un concreto paese. Conquistò la propria autorevolezza nei territori del teatro. Era un profeta, nel senso originario della parola, perché non parlava in nome proprio, ma in nome di un’oggettività poco evidente. Pose la domanda fondamentale per il teatro del nostro tempo, la più dolorosa e decisiva per il suo avvenire. Il teatro come arte lo interessava solo come punto di partenza, né si illudeva che dall’estetica e dall’originalità dipendesse il suo potenziale futuro. Chiese semplicemente: che cosa vogliamo farne del teatro? Le domande profetiche non coniano parole nuove. Sovvertono le espressioni comuni. Quante volte l’abbiamo sentita ripetere questa domanda: “A che serve il teatro?”. Le vere risposte non ci raggiungono attraverso le parole, sono fatti. Che cosa vogliamo farne, del teatro? Dobbiamo rassegnarci ad essere custodi delle sue forme, governati dai turisti, dai funzionari del mecenatismo, dai

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regolamenti del solenne museo dello “spettacolo vivente”? O vogliamo decidere con le nostre azioni perché questo artigianato sia così necessario ad ognuno di noi, che cosa vada estratto da questo prestigioso reperto d’una società che non c’è più, con chi lottare per riconoscere i segreti e le potenzialità del nostro artigianato, come e dove rifondere ed utilizzare i suoi materiali e le sue sostanze? Grotowski ha trasformato un modo di dire, un disagio diffuso e la scontentezza della gente di teatro, in una vera domanda. E ha risposto con l’evidenza dei fatti compiuti. Ha preso dalla professione teatrale ciò che serviva per creare una rigorosa disciplina di libertà sganciata da legami con qualsiasi metafisica o dottrina. Ha circoscritto una regione molto particolare del reame di Nulle Part: uno yoga senza una mitologia condivisa. Ha tracciato la rotta di un viaggio verticale a partire dal teatro. Alla radice della domanda fondamentale, Grotowski piantò un totem: la tecnica. Non si riferiva alla manipolazione degli oggetti e delle macchine, ma all’indagine empirica dell’azione umana, dell’essere umano nella sua interezza e integrità. La tecnica era la premessa per un’unione difficile, a volte precaria, di quel che nella vita quotidiana è diviso: il corpo e la mente, la parola e il pensiero, l’intenzione e l’azione. Il totem era la tecnica dell’attore, cioè della relazione fra un essere umano e l’altro. “Attore” si dice al singolare, ma sottintende sempre due persone: senza spettatore non c’è attore – e neppure Performer, anche se scritto con lettera maiuscola. Qualunque sia poi il modo in cui la nozione di “spettatore” venga da noi interpretata, definita, incarnata o immaginata. Domande identiche – risposte divergenti. Non è l’ortodossia fedele, ma l’incontro attraverso le differenze che permette al passato di circolare in noi come in un sistema sanguigno. Il reame di Nulle Part promette accettazione, ispira senso di isolamento, esala chimere e, in alcuni rari casi, spinge verso la profondità. È questo che la tecnica regala, quando si avanza lungo la sua strada: la consapevolezza che la costrizione diventa strumento di libertà. Nel reame di Nulle Part, sentieri che partono da luoghi distanti, si incontrano e si fondono. Altri, che hanno la stessa origine e sembrano indissolubili, si biforcano. Possiamo scoprirvi le scale che esplorano, verso l’alto e verso il basso, la geografia verticale. E possiamo trovare fortezze “dalle mura di vento” in cui tecnica e tensioni ideali inventano strategie che ci permettono di vivere nel nostro tempo senza essere del nostro tempo. Nello spazio paradossale del teatro si possono costruire storie parallele a quella della Storia che ci

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ingloba e ci trascina, e trasformare in solide relazioni umane valori che paiono solo sogni e ingenuità. Parlo di fatti compiuti. Basta avere uno sguardo sufficientemente acuto e sperimentato per distinguere la storia sotterranea del teatro nel mondo moderno. Cosa farne del teatro? La mia risposta, se debbo tradurla in parole, è: un’isola galleggiante, un’isola di libertà. Derisoria, perché è un granello di sabbia nel vortice della storia e non cambia il mondo. Sacra, perché cambia noi. Sperimento il reame di Nulle Part come un regno abbandonato dai suoi re e della sue regine. La sua vita è regolata da molte discipline e nessuna Legge. È il luogo in cui si può dire “no” senza sprofondare nella negazione degli obblighi e dei legami. È il luogo del Rifiuto che non si separa dalla realtà circostante, anzi, dove l’atto di rifiutare può essere cesellato come un gioiello, come una favola attraente, che poi ci sorprende, quando ci sembra che parli di oggi e proprio a noi. Oggi io sono commosso, perché sono dentro una favola, e questa favola è a Varsavia che mi viene raccontata. Quale luogo può rappresentare il castello delle favole meglio dell’università delle origini del mio percorso professionale alla quale ritorno come doctor honoris causa nel quinto atto della mia vita? Eppure, in questo stesso momento, rivedo le ossa che i bulldozer scavavano alla luce fra le macerie di Varsavia ancora all’inizio degli anni 1960. Appartengo a quella generazione di giovani affamati di libri, che quando alzavamo gli occhi rischiavamo di vedere ossa fra la terra e le macerie portate vie dai camion che ricostruivano l’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Scoprivamo un’altra fame, oltre quella per il sapere e i libri. Come se senza leggere non si potesse respirare, ma tutti i libri, poi, fossero lì per nascondere la verità. Per alcuni di noi che hanno goduto l’eloquenza e la poesia dei libri accanto all’orrido mutismo della ossa degli anonimi assassinati, il teatro è stato un ponte fra la fame di sapere e la fame di quel che si rivela quando si abbandona il sapere. Un ponte che si può costruire con metodo, secondo le migliori regole dell’architettura, ma che non è fatto perché ci si fermi su di esso, come se fosse un traguardo. Sì, il teatro è un’arte. Ma la sua bellezza non basta a rapirci. Quest’arte è stata a lungo svalutata. Poi finalmente apprezzata e premiata come merita. Degli apprezzamenti e dei premi, i miei compagni dell’Odin ed io vi ringraziamo, commossi. Ma abbiamo visto le ossa. Non si può pretendere che la pompa delle cerimonie teatrali e la loro solennità appaghi la nostra fame. I vasti palazzi delle favole sono fatti per essere visitati e lasciati. Se ci attac-

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chiamo ad essi, ci trasformiamo in figure illusorie nelle mani delle streghe e degli orchi che siamo diventati. Amo il teatro perché mi ripugnano le illusioni. Non credo che lo scontento – questo spirito di ribellione che mi cavalca – possa alla fine acquietarsi. Quando sembra ridotto al silenzio, sento l’odore della menzogna salire alle nari. Se lo scontento si acquietasse, del teatro non saprei più che farmene. Ripetere, ripetere, ripetere. L’azione, in teatro, è fatta per essere ripetuta, non per raggiungere uno scopo. Ripetere significa ritrovare lo spirito originale, resistere, opporre resistenza allo spirito del tempo, alle sue promesse e minacce. Solo dopo essere stata ripetuta e fissata, una partitura comincia a vivere. Cadrà ancora molta neve, il gelo tornerà. Dall’interno di questo laborioso scontento fatto di azioni, applicando questo artigianato della dissidenza che chiamo teatro, i miei compagni dell’Odin ed io ci sforziamo di non cedere alle tentazioni del progresso e all’impeto del tempo. Senza turbamento, con accanto i nostri morti amati e per noi sempre in vita, guardiamo quel che di noi giorno per giorno se ne va. Ancora una volta i miei compagni dell’Odin Teatret ed io vi ringraziamo. A coloro che hanno oggi venti o venticinque anni, da questa cattedra, non abbiamo altra lezione da trasmettere a parole.

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TECNICHE E COSTUMI DEL PAESE DEL TEATRO

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LA DERIVA DEGLI ESERCIZI*

Fra i molti avvenimenti singolari nella storia del teatro del Novecento va annoverato il fenomeno della deriva degli esercizi teatrali. Una deriva lenta, ma in cui è possibile riconoscere la tendenza ad allontanarsi progressivamente dal continente delle prove e degli spettacoli. Da Stanislavskij in poi, gli esercizi cominciarono ad essere considerati un complesso di pratiche che servivano a trasformare il corpo-mente quotidiano dell’attore in un corpo-mente scenico. Fino a quel momento, si usavano esercizi solo per l’abbiccì della professione o per apprendere scherma, balletto, acrobazia, prestidigitazione, abilità necessarie ad alcuni personaggi. Da Stanislavskij in poi, nuovi esercizi cominciarono a rappresentare, per alcuni attori, la quintessenza del fare teatro. Senza volerlo, in alcuni casi gli esercizi si trasformavano da un mezzo in un fine. Benché questo non fosse mai detto esplicitamente, è quanto possiamo dedurre osservando i fatti. Gli Studi di Stanislavskij, nati come laboratori di sperimentazione accanto al Teatro d’Arte di Mosca, divennero un modello che si diffuse anche fra i giovani, a metà fra professionismo ed autodidattismo. Suleržickij e lo stesso Stanislavskij cominciarono a dedicarvi sempre più tempo, quasi che in essi potessero assaporare un senso che nel teatro principale sembrava loro negato. Gli Studi erano nati dal bisogno di cercare soluzioni a contingenti problemi professionali. Per esempio, come recitare i testi dei simbolisti. Ma una nuova visione di teatro non ancora ben definita, evocata tuttavia da molteplici domande artistiche e spirituali, cominciava a manifestarsi in forma di “scuola”, di “studio”, di “laboratorio”, e non soltanto in forma di spettacoli. La stessa cosa accadde a Jacques Copeau. Gli esercizi di Stanislavskij, Suleržickij, Michael Cechov, Vachtangov, Mejerchol’d e Copeau non servivano a preparare il repertorio, ma a formare il * La canoa di carta. Trattato di Antropologia Teatrale, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 164-170.

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corpo-mente scenico. Si comprende allora perché non restarono solo un’introduzione al mestiere, ma divennero, dal punto di vista dell’attore, il cuore stesso del teatro, una sintesi dei suoi valori. Questo spiega, nella Russia d’inizio Novecento, il fenomeno della studijnost, dei numerosi Studi costituiti da studenti e giovani intellettuali che vedevano nel teatro una didattica artistica e spirituale per sviluppare la propria personalità. Dopo la seconda metà del Novecento, si sviluppò una rete di “seminari”, “laboratori”, “stages”, “talleres”, “ateliers”, “workshops”. Per certi aspetti assomigliavano all’uso – diffuso presso i ceti colti sia dell’Asia che dei paesi occidentali – di apprendere a fini non professionali musica, canto o danza. Ma a differenza di ciò che accade in tali casi, dove il cultore fa esercizi per eseguire opere di cui è appassionato, il centro di quel nuovo modo d’essere della pedagogia teatrale non è l’esecuzione futura di pezzi teatrali in sé conclusi (spettacoli, o scene di spettacoli), ma l’insegnamento stesso degli esercizi come esperienza attiva del teatro. È un esempio – sul piano sociologico – della paradossale tendenza degli esercizi a vivere di vita propria. Questa tendenza non fu mai affermata in termini teorici, anzi fu spesso osteggiata come una forma di spreco culturale e di inefficienza professionale. Un caso sintomatico è costituito dalla vicenda di Etienne Decroux. Il mimo, che egli definì come arte pura a sé stante, era all’inizio una costellazione di esercizi nella scuola del Vieux Colombier di Jacques Copeau. Decroux ha scorporato gli esercizi dal contesto laboratoriale e, sviluppandoli, ha dato loro indipendenza come autonomo genere artistico. In altri casi – il più rilevante storicamente è quello di Mysteries and Smaller Pieces (1964) del Living Theatre – vi furono, veri e propri spettacoli ottenuti eccezionalmente attraverso il montaggio di esercizi degli attori. Qualcosa di simile fecero – con stili e propositi diversi – anche l’Open Theatre e l’Odin Teatret. In queste occasioni d’eccezione che non divennero mai regola, il lavoro dell’attore sul livello pre-espressivo veniva reso autonomo e trasformato in uno “spettacolo in cerca d’un genere”: né teatro in senso normale, né danza, né mimo. All’inizio della carriera, il training serve a un attore per immetterlo nell’ambiente teatrale che ha scelto. Se l’attore è sufficientemente cocciuto, non autoindulgente, se continua, se abbandona gli esercizi che già domina e ne cerca o ne inventa altri, se non si lascia imprigionare dal suo training divenendo un virtuoso, e se d’altra parte non dice “non mi serve più”, con il tempo il training lo trasporta verso l’indipendenza individuale. La funzione del trai-

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ning si rovescia; all’inizio serviva ad integrare il principiante in un ambiente, ora serve per salvaguardare la sua indipendenza dallo stesso ambiente, dal regista, dal pubblico. Diventa, come diceva Patrice Pavis, il “diario fisico” dell’attore1. Un diario non è un semplice resoconto. Può essere uno scrigno di ricchezze tecniche, etiche o spirituali a cui ispirarsi e da cui attingere durante un processo creativo. Potremmo usare il termine “training” in modo simile a come i balinesi usano il termine agem: atteggiamento. Parlano di due agem: agem del corpo e agem della mente. Il maestro I Made Pasek Tempo dice agem mati (agem morto), quando vuole indicare un attore che non è riuscito a mettere insieme, accordandoli, i due agem. Deriva da agama, legge, religione, la Via, quel che lega. Agem ha infatti il doppio senso che nelle lingue europee ha l’espressione «prendere posizione», sia dal punto di vista morale che fisico. Brecht usava il termine Haltung (atteggiamento, portamento) quando esigeva dall’attore un simile intersecarsi di tecnica ed etica, di impegno fisico e di presa di posizione ideologica. Il training insegna a prendere posizione, sia come comportamento extra-quotidiano sulla scena, sia nei confronti della professione, del gruppo in cui si lavora, del contesto sociale in cui si è immersi: nei confronti di ciò che si accetta e di ciò che si rifiuta. Ecco perché il training può assumere un senso autonomo per l’attore che lo pratica e può divenire la sua scena, un teatro tutto per sé in cui egli può sviluppare i valori della sua professione senza ancora comporre nulla per gli occhi e la mente dello spettatore. Il training è, in altre parole, uno dei modi in cui si concretizza la metafora di Craig: un teatro prima del dramma, un’architettura in movimento. La deriva degli esercizi; il loro progressivo e mai definitivo distacco dal continente delle prove e dello spettacolo; il training come partitura di azioni in sé conclusa e provvisoria, in relazione con un particolare momento della ricerca e dell’esperienza dell’attore; il suo personalizzarsi: tutto questo, e non il teatro asiatico, costituisce il contesto storico della genesi dell’Antropologia Teatrale. Guardiamo cosa accade negli esercizi. Ogni esercizio è un pattern in sé concluso, un disegno di movimenti. Lo si esegue, poi se ne esegue un altro, e così via. Ma una volta appresi, gli esercizi vanno ripetuti di seguito, in un flusso continuo. Ora cosa sta facendo l’attore? Sta danzando? Sta rappresentando 1 Intervento sul training di Patrice Pavis al simposio “Tecniche della rappresentazione e storiografia” all’Università di Bologna, 13-14 luglio 1990, 6a sessione dell’ISTA, International School of Theatre Anthropology.

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qualcosa? Il suo “diario fisico” si sta trasformando in un “diario intimo”, in una sorta di confessione personale senza parole? No, sta semplicemente eseguendo una catena di esercizi. Ma chi l’osserva non può fare a meno di interpretare, proiettare immagini, storie, scene, sprazzi di supposte rivelazioni interiori in un’azione che per l’attore è forse solo esercitazione, simile a quella d’un pianista o d’un cantante quando esegue le scale musicali per esercitare le dieci dita o la voce. Solo che le scale che l’attore sale e scende sono scale viventi. Assumono una forza emotiva, un significato agli occhi di chi le osserva indipendentemente dalla volontà di chi le esegue. Ciò accade perché l’azione è reale2. Ricordo una ventina d’anni fa, nell’aula di un’università italiana: un’attrice dell’Odin Teatret stava mostrando per la prima volta il suo training personale a studenti e professori di teatro. Salì e scese le sue “scale”, senza mai interrompersi nel passare dall’uno all’altro dei suoi esercizi. Si trattava dimostrare in che cosa consistesse il lavoro tecnico di un attore dell’Odin, che cosa fosse il training. Fallimmo. Gli osservatori si trasformarono subito in spettatori. Credettero che l’attrice invece di esercizi stesse mostrando scene d’uno spettacolo. Alcuni parlavano di tragicità. Altri d’una sorta di impudicizia, come se l’attrice avesse rivelato in pubblico qualcosa di intimo. Alla fine di quella che voleva essere una lezione universitaria, mentre l’attrice faceva la doccia, alcuni studenti e professori, divenuti spettatori nostro malgrado, riversarono su di me, con discrezione, le loro reazioni. Ascoltavo e intanto mi rimuginava in testa la frase di Diderot: “Alla fine dello spettacolo, l’attore è stanco e lo spettatore è commosso”. Non era certo uno spettacolo che volevamo fare in quell’aula d’università. Riferii all’attrice e ci guardammo scuotendo la testa: “Sono loro che hanno delle allucinazioni, o siamo noi che non sappiamo quel che facciamo?”. Non ci eravamo ancora familiarizzati con gli scherzi del pre-espressivo. L’attrice aveva mostrato il suo training personale. Ma personale, in questo caso, non vuol dire intimo. Vuol dire: elaborato autonomamente, non seguendo il comportamento dettato da una tradizione o da un genere. Ma le cose non vanno diversamente quando un danzatore classico, o un mimo della scuola di Decroux o un attore di una delle tradizioni asiatiche, esegue senza interrompersi un flusso di esercizi elementari, quel disegno di movimenti che, sorta di lessico e di frasario fisico, viene insegnato all’allievo nei primi mesi del suo addestramento. Come mai l’abbicci degli esercizi può trasformarsi sotto i nostri occhi in azione reale, in una rete che cattura immagini e riflessioni del2

Per l’azione reale cfr. Franco Ruffini: L’attore che vola, Bulzoni, Roma 2010

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l’osservatore, benché la sostanza delle azioni altro non sia che un sillabario di movimenti? La risposta è: perché si è trasformato in un processo organico. In queste azioni ogni punto di arrivo coincide con un punto di partenza. Non ci sono pause, ma solo transizioni; ogni stop è un sats, un impulso di arrivo-partenza. La scansione dei sats, le tensioni dell’equilibrio precario, il gioco delle opposizioni modellano l’energia. L’energia, il pensiero-azione, salta, scivola, guizza dall’una all’altra delle sue possibili temperature, fra il vigoroso Animus e la morbida Anima, impegna l’intero corpo anche quando il movimento è minuscolo, sfrutta la possibilità di non svilupparsi completamente nello spazio, d’essere trattenuta e assorbita. Il suo ritmo esterno può essere accordato con il rimo interno in maniera consonante, oppure per sfasature e contrasti. Ci troviamo di fronte ad una embrionale partitura in cui è già all’opera il principio aureo della segmentazione che Stanislavskij formulò esplicitamente: ogni disegno d’azioni deve essere suddivisibile (per l’attore, non agli occhi dello spettatore) in sottoinsiemi più piccoli. Questi non debbono essere semplici pezzi (se un’azione è fatta a pezzi essa è letteralmente messa a morte). Ogni sottoinsieme è anch’esso un disegno di movimenti, con un suo inizio, un suo culmine ed una sua fine. Gli inizi e le fini debbono essere precisi e fondersi attraverso salti di energia in una partitura che si sperimenta come uno sviluppo organico. Quando un attore comincia a comportarsi in questo modo, a costruire un ritmo con le sue azioni e lasciarsi trasportare da esso, in genere sperimenta un significativo mutamento nel modo di percepire e pensare quel che fa. Alcuni attori dicono che a quel punto alla loro mente cominciano ad arrivare immagini. Altri affermano che quando il lavoro funziona viene abolita la distanza fra la testa che comanda ed il corpo che esegue. Altri aggiungono: Il corpo conduce, la mente gli va dietro. Ed altri ancora: È il corpo che pensa: le spalle, i gomiti, i piedi, la schiena. Anche nella mente dell’eventuale osservatore si verifica un mutamento percettivo; non vede più un corpo che si esercita, ma un essere umano che agisce e interviene nello spazio. Gli osservatori si sentono spinti a decifrare. La baldanza di alcuni li induce a credere che quel che loro decifrano nella rete d’azioni dell’attore sia proprio il contenuto di quella rete, qualcosa di obiettivo. Altri restano in bilico: sono io che proietto le mie immagini su ciò che lattore sta facendo? Oppure è l’attore che le proietta? Non sono molti gli attori che hanno la faticata fortuna di possedere un training personale. L’esempio ha quindi il difetto di riferirsi ad una situazione di lavoro di cui pochi hanno esperienza, anche fra quelli che praticano profes-

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sionalmente il teatro. Ma l’utilità dell’esempio deriva dal suo indicare una zona intermedia, una sorta di limbo o di albore fra il puro esercizio tecnico e la vita di un’azione reale. Sia detto per inciso: l’attore può muoversi a lungo in questo territorio delle potenzialità. Non altrettanto a lungo può restarvi la tensione-attenzione dello spettatore. Se non appare un’intenzione che permetta all’immaginazione ed alle domande dello spettatore di incanalarsi in una direzione precisa, voluta e obiettiva, la relazione osservatore-attore si affloscia e si perde. L’attenzione si dissocia e subentra la noia.

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UN AMULETO FATTO DI MEMORIA IL SIGNIFICATO DEGLI ESERCIZI NELLA DRAMMATURGIA DELL’ATTORE*

La rivoluzione dell’invisibile Nel Novecento è avvenuta una rivoluzione dell’invisibile. L’importanza delle strutture occulte si è imposta nella fisica come nella sociologia, nella psicologia come nell’arte e nel mito. Anche nel teatro si è verificata una simile rivoluzione, con la particolarità che in questo caso le strutture invisibili non erano qualcosa da scoprire per comprendere il funzionamento della realtà, ma qualcosa da ricreare sulla scena per dare alla finzione del teatro un’efficace qualità di vita. L’invisibile che dà vita a ciò che lo spettatore vede è la sottopartitura dell’attore. La sottopartitura non va intesa come un’impalcatura nascosta, ma come una risonanza, un moto, un livello d’organizzazione cellulare, sul quale si reggono gli ulteriori livelli d’organizzazione (dall’efficacia della presenza dei singoli attori, all’intreccio delle loro relazioni; dall’organizzazione dello spazio, alle scelte drammaturgiche). L’organica interazione dei diversi livelli d’organizzazione provoca il senso che lo spettacolo assume per lo spettatore. Il sottotesto – come lo chiamava Stanislavskij – è una forma particolare di sottopartitura. La sottopartitura, infatti, non consiste necessariamente nelle intenzioni o nei pensieri inespressi d’un personaggio, nell’interpretazione dei suoi “perché”. La sottopartitura può essere costituita da un ritmo, da un canto, da un particolare modo di respirare, da un’azione che non va eseguita nelle sue dimensioni originarie, ma viene assorbita e miniaturizzata dall’attore, il quale non la mostra, ma dal cui dinamismo si lascia guidare anche nella quasi-immobilità. * Queste considerazioni provengono dalla 9a sessione dell’ISTA, Umeå, Svezia, maggio 1995, il cui tema era “Forma e informazione: l’apprendistato dell’attore in una dimensione multiculturale”. Pubblicate per la prima volta in “Teatro siglo XXI”, n. 4, Buenos Aires 1997.

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Un’azione fisica: la più piccola azione percettibile Stanislavskij, che sembrò a molti un maestro di interpretazione psicologica, analizzava caratteri e motivazioni con la raffinatezza d’un romanziere. Lo scopo era di dedurre dalla fitta rete del sottotesto una serie di punti d’appoggio per la vita delle “azioni fisiche”. Quando parlava di “azioni fisiche” intendeva innanzi tutto una successione di atteggiamenti o movimenti dotati di una loro interiorità. Se debbo definire a me stesso che cosa sia un’ azione fisica penso ad un sottile alito di vento su una spiga. La spiga è l’attenzione dello spettatore: non viene scossa come sotto una raffica di temporale. Ma quell’alito basta per spostare appena la sua perpendicolarità. Se l’azione fisica debbo indicarla ad un attore, allora suggerisco di riconoscerla per esclusione, distinguendola del semplice movimento o dal semplice gesto. Gli dico: “un’’azione fisica è la più piccola azione percettibile e si riconosce dal fatto che anche se compi un movimento microscopico (un leggerissimo tendersi d’una mano, per esempio), l’intera tonicità del corpo cambia. Un’azione reale produce un cambiamento delle tensioni in tutto il tuo corpo, e di conseguenza, un cambiamento nella percezione dello spettatore. In altre parole: ha origine nel tronco, nella spina dorsale. Non è il gomito che muove la mano, non è la spalla che muove il braccio, ma è nel torso che affondano le radici d’ogni impulso dinamico. È questa una delle condizioni per l’esistenza d’una azione organica”. È evidente che l’azione organica non basta. Se alla fine essa non viene abitata da una dimensione interiore, l’azione resta vuota e l’attore appare prestabilito dalla forma della sua partitura. Non credo che ci sia un unico metodo per far germogliare l’interiorità. Credo che il metodo sia in negativo: non impedire che l’interiorità si sviluppi. Questo lo si può apprendere, purché si agisca come se non si potesse apprenderlo.

L’età degli esercizi La rivoluzione dell’invisibile segnò, nel teatro, l’età degli esercizi. Un buon esercizio è un paradigma di drammaturgia, cioè un modello per l’attore. L’espressione “drammaturgia dell’attore” si riferisce ad uno dei livelli d’organizzazione dello spettacolo, oppure ad una delle facce della tessitura drammaturgica. In ogni spettacolo, infatti, vi sono numerosi livelli dramma-

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turgici, alcuni più evidenti degli altri, tutti necessari alla ri-creazione della vita sulla scena. Ma che cosa differenzia essenzialmente un esercizio (che prima ho definito “un paradigma di drammaturgia”) dalla drammaturgia in senso tradizionale, dalle commedie, dalle tragedie o dalle farse? Nell’un caso come negli altri si tratta di un intreccio ben congegnato di azioni. Ma mentre commedie, tragedie e farse hanno una forma ed un contenuto, gli esercizi sono pura forma, intrecci di sviluppi dinamici senza trama, senza storia. Gli esercizi sono piccoli labirinti che il corpo-mente dell’attore può percorrere e ripercorrere per incorporare un paradossale modo di pensare, per distanziarsi dal proprio agire quotidiano e spostarsi nel campo dell’agire extra-quotidiano della scena. Gli esercizi sono simili ad amuleti che l’attore porta con sé, non per esibirli, ma per trarne determinate qualità di energia da cui lentamente si sviluppa un secondo sistema nervoso. Un esercizio è fatto di memoria – memoria del corpo. Un esercizio diventa memoria che agisce attraverso l’intero corpo. Quando all’inizio del Novecento Stanislavskij, Mejerchol’d e i loro collaboratori inventarono gli “esercizi” per la formazione degli attori, dettero vita a un paradosso. Quei loro “esercizi” erano qualcosa di molto diverso dalle esercitazioni che si facevano nelle scuole di teatro. Tradizionalmente gli attori si esercitavano nella scherma, nel balletto, nel canto, e soprattutto nella recitazione di frammenti esemplari del repertorio teatrale. Gli “esercizi” invece erano delle elaborate partiture codificate fin nei minimi dettagli, e fine a se stesse. È quanto riscontriamo nei più antichi esercizi che ci siano giunti, quelli che Mejerchol’d ideò chiamandoli “bio-meccanica”, e il cui scopo era insegnare “l’essenza del movimento scenico”.

Interiorità e interpretazione Sono almeno dieci le caratteristiche di un esercizio e che spiegano la sua efficacia come drammaturgia riservata all’attività non pubblica degli attori, cioè al lavoro su se stessi: •

Gli esercizi sono innanzi tutto una finzione pedagogica. L’attore apprende a non apprendere ad esser attore, cioè a non apprendere a recitare. L’esercizio insegna a pensare con l’intero corpo- mente.



Gli esercizi insegnano a compiere un’azione reale (non realistica, ma reale).

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Gli esercizi insegnano che la precisione della forma è essenziale in un’azione reale. L’esercizio ha un inizio e una fine, ed il percorso tra questi due punti non è lineare ma ricco di peripezie, cambi, salti, svolte e contrasti.



La forma dinamica di un esercizio è un continuum costituito da una serie di fasi. Per apprenderlo con precisione va segmentato. Questo processo insegna a pensare un continuum come una successione di fasi minuscole ben definite (azioni percettibili). L’esercizio è come un ideogramma e, come ogni ideogramma, è costituito da tratti da eseguire sempre secondo la stessa successione. Può variare lo spessore, l’intensità, l’impeto del singolo tratto.



Ogni fase dell’esercizio impegna l’intero corpo. La transizione da una fase all’altra è un sats.



Ogni fase dell’esercizio dilata, raffina o miniaturizza alcuni dinamismi del comportamento quotidiano. Questi dinamismi vengono così isolati e montati, sottolineando il gioco delle tensioni, dei contrasti, delle opposizioni, e cioè gli elementi di una drammaticità di base che trasforma il comportamento quotidiano in quello extra-quotidiano della scena.



Le diverse fasi dell’esercizio fanno sperimentare il proprio corpo come qualcosa che non è unitario, ma che in cambio diventa sede di azioni simultanee. Quest’esperienza coincide in un primo tempo con un senso di dolorosa espropriazione della propria spontaneità. Si trasforma in seguito nella dote basilare dell’attore, nella sua presenza pronta a proiettarsi in divergenti direzioni e capace di calamitare l’attenzione dello spettatore.



L’esercizio insegna a ripetere. Imparare a ripetere non è difficile finché il problema è saper eseguire con sempre maggior precisione una partitura. Diventa difficile nello stadio successivo: quando la difficoltà consiste nel continuare a ripetere senza ingrigire, scoprendo e motivando nuovi dettagli, nuovi punti di partenza all’interno della partitura nota.



L’esercizio è la via del rifiuto: insegna la rinuncia attraverso l’impegno e la fatica per un compito umile.



L’esercizio non è un lavoro sul testo, ma su se stessi. Mette alla prova l’attore attraverso una serie di ostacoli. Permette all’individuo di conoscersi attraverso l’incontro con i propri limiti, non attraverso l’autoanalisi.

L’esercizio insegna a lavorare sul visibile attraverso forme ripetibili. Queste forme sono vuote. All’inizio le riempie la concentrazione necessaria ad eseguire bene la successione di ogni singola fase. Quando le si padroneggia, o muoiono oppure sono riempite dalla capacità d’improvvisazione, cioè di variare l’esecuzione della stessa successione di fasi variando le immagini (per

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esempio: muoversi come un astronauta sulla luna), i ritmi (seguendo una musica) o le catene di associazioni mentali. Dalla partitura dell’esercizio si sviluppa, così, una sottopartitura. Il valore del visibile e dell’invisibile, della partitura e della sottopartitura genera la possibilità di farle dialogare, crea uno spazio interiore al disegno dei movimenti ed alla sua precisione. Il dialogo fra il visibile e l’invisibile è appunto ciò che l’attore sente come interiorità e in qualche caso addirittura come meditazione. Ed è ciò che lo spettatore esperisce come interpretazione.

La complessità dell’emozione Quando si parla di drammaturgia si deve pensare al montaggio. Lo spettacolo è un vero e proprio sistema che integra diversi elementi – i quali obbediscono ciascuno ad una propria logica – in relazione tra di loro e con l’ambiente esterno. Drammaturgia dell’attore vuol dire innanzi tutto capacità di costruire l’equivalente della complessità che caratterizza l’azione nella vita. Questa costruzione, che viene percepita come personaggio, deve avere un impatto sensoriale e mentale sullo spettatore. L’obiettivo della drammaturgia dell’attore è la capacità di stimolare reazioni affettive. Sembrerebbe un paradosso, perché spesso, banalizzando Brecht, alcuni (specialmente coloro che non hanno visto gli spettacoli da lui messi in scena) hanno affermato che l’attore non dovrebbe toccare emotivamente lo spettatore, ma stimolarlo alla riflessione distaccata ed al giudizio. Bisogna intendersi: riflessione, comprensione e giudizio sono anch’esse reazioni affettive. Sono emozioni. C’è la concezione ingenua secondo cui l’emozione è una forza che prende e sopraffa una persona. In realtà, un’emozione è un complesso di reazioni ad uno stimolo. L’intreccio complesso di reazioni che viene racchiuso dal termine “emozione” è caratterizzato dall’attivazione di almeno cinque livelli di organizzazione, che a volte si inibiscono gli uni con gli altri, ma che sono sempre tutti simultaneamente presenti: •

un mutamento soggettivo, quel che comunemente si chiama “sentimento”, per esempio : paura (un cane mi si avvicina per strada);



una serie di valutazioni cognitive (considero: il cane sembra ben addomesticato);

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l’affiorare di reazioni autonome non dipendenti dalla mia volontà (l’accelerazione del battito cardiaco, del respiro, sudore);



impulso a reagire (accelerare il passo e allontanarsi);



decisione sul modo di comportarsi (mi sforzo di camminare tranquillamente).

È la complessità dell’emozione, non il risultato come sentimento, che l’attore deve ricostruire. Si dovrebbe quindi lavorare su tutti i diversi livelli che abbiamo individuato come caratterizzanti un’emozione, i quali – pur appartenendo al mondo dell’invisibile – sono, però, fisicamente concreti. Ciascuno di questi livelli, inoltre, è guidato da una sua propria coerenza. La complessità si raggiunge intrecciando elementi semplici in contrapposizione o in consonanza, ma sempre simultaneamente. Tutto questo offre infinite possibilità, teatralmente parlando. La mia reazione davanti al cane la posso costruire lavorando separatamente con le diverse parti del corpo: le gambe, per esempio, si comportano coraggiosamente; il tronco e le braccia, leggermente introversi, rivelano valutazione e riflessione; la testa mostra la reazione ad allontanarsi; mentre il ritmo del battito delle ciglia cerca di ricostruire l’equivalente delle reazioni autonome. Questa complessità del risultato è raggiunta lavorando su elementi semplici, fra loro separati, montati livello dopo livello, intrecciati, ripetuti, fino a fondersi in un’unità organica che rivela l’essenza della complessità che caratterizza ogni forma vivente. È questo passaggio dal semplice al “molteplice simultaneo” che l’esercizio insegna: lo sviluppo di minuscole azioni percettibili, non lineari, disponibili a peripezie, mutamenti, svolte e contrasti attraverso l’interazione di fasi ben definite. In una parola: l’esercizio ricostruendo artificialmente la complessità incontra la vita del dramma.

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LA STANZA FANTASMA*

Un continuo mutare Da quando sono entrato nella professione teatrale, il training è stato un punto di riferimento costante. Ne ho parlato e ne ho scritto molte volte. Ho attraversato campi minati da illusioni, ma non direi mai d’essere un disilluso. La presenza costante del training, per me, è un continuo mutare. È sempre stato accanto a me perché non è cresciuto da una dottrina, ma dai miei dubbi e dalle domande che essi mi ponevano. Eppure, ogni volta che debbo parlare del training, mi sento a disagio. Mi rendo conto che farne un dogma del teatro sarebbe irresponsabile. Altrettanto avventato sarebbe sminuirne l’importanza, considerandolo un miraggio tecnico o una pratica di una minoranza con limitate conseguenze. Come sempre mi accade, quando cerco di spostare il mio punto di vista, inizio col muovermi a ritroso, ripartendo dai miei primi passi. Siamo all’inizio degli anni Sessanta del Novecento. Non avevo ancora trent’anni. Jerzy Grotowski già si comportava da anziano maestro anche se anagraficamente i trent’anni stava appena per compierli. Nella riflessione e nella pratica del teatro contemporaneo il training e gli esercizi erano inesistenti. Apparivano nei libri di storia del teatro come pratiche singolari e d’eccezione degli Studi di Stanislavskij e Mejerchol’d o della scuola del Vieux Colombier di Jacques Copeau. Nel piccolo Teatro delle 13 file, a Opole, in Polonia, gli attori di Grotowski, dal 1962 in poi, oltre a provare e presentare spettacoli, si misero ad

* Pubblicato per la prima volta in “Teatro e Storia” n. 28, Roma 2007.

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eseguire esercizi. Non erano sperimentazioni, né frammenti da immettere nello spettacolo. Era un programma quotidiano di lavoro fisso. Originariamente Grotowski aveva selezionato gli esercizi in vista dello spettacolo, per esempio, delle posizioni di hatha yoga, ma cambiandone il dinamismo. Questi esercizi continuarono ad essere eseguiti anche quando lo spettacolo andò in scena. Col tempo si trasformarono in sequenze basiche del training, catene d’esercizi fisici e plastici. A quell’epoca, i professionisti del teatro europeo parlavano di drammaturghi: Sofocle, Shakespeare, Brecht; Cechov o i nuovissimi: Dürrenmat, Ionesco, Beckett. I grandi nomi su cui insistevano i miei maestri della scuola di teatro di Varsavia, e più tardi Grotowski, erano di tutt’altra razza. Appartenevano alla sfera del fare, non dello scrivere: Stanislavskij, Vachtangov, Mejerchol’d, Osterwa, Tairov – gli esponenti della Grande Riforma del primo ventennio del Novecento. E anche il contemporaneo re-inventore di un teatro senza parole, il mimo Marcel Marceau. La prima volta che ho scritto del training nel 1962 è stato per elencare e descrivere gli esercizi che si svolgevano nel teatro di Grotowski. Miravo alla semplicità e l’esattezza: una scrittura simile a quella delle “istruzioni per l’uso”. Ho faticato per scegliere le parole che consentissero al lettore di praticare quegli esercizi che non aveva mai visto e sui quali si poteva abbandonare a molte fantasie. Negli anni seguenti, mi è capitato di incontrare registi ed attori che, sorridendo, m’hanno confessato gli abbagli che avevano preso cercando di seguire le istruzioni per l’uso che avevano letto nel mio libro su Grotowski, Alla ricerca del teatro perduto (1965), riportate tre anni dopo in Per un teatro povero di Grotowski. Alcuni di coloro che avevano ammesso gli equivoci indotti dagli esercizi grotowskiani mi raccontarono anche che s’erano intestarditi e avevano così inventato, esercizi nuovi: il loro training. Ne trassi questa conclusione: più importante della forma dell’esercizio è la motivazione di eseguirlo fino ai suoi limiti estremi, concorrendo così alla sua mutazione.

Le differenti nature degli esercizi Nei libri dei riformatori del teatro leggevo di vaste visioni, di messinscene e, solo raramente, di esercizi. Con la pratica mi sono reso conto che gli esercizi erano di differenti nature. In alcuni casi, erano amuleti fatti di memoria fisica: schemi di forme prestabilite, che si potevano ripetere come mantra o preghiere. Di questo tipo erano gli esercizi di biomeccanica coniati da Mejerchol’d, gioielli del sapere teatrale, talmente annodati da divenire difficilmente sonda-

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bili. Ne rimangono alcuni frammenti filmati a cura del loro autore. Basta provare ad imitarli e ci si rende conto della difficoltà a decidere quali siano i dettagli essenziali e quali invece siano modificabili senza danno. Sono forme fisse, ma non servono a trasmettere una forma, uno stile Mejerchol’d. Trasmettono, attraverso un percepibile schema fisso, il pensiero-in-azione dell’attore: contrasti, contrappunti, compresenza di diverse variazioni e direzioni dinamiche in una stessa azione. Sono una sorta di cubismo dell’agire. A tutta prima, paiono bizzarri e astratti ma, a forza di esaminarli, si rivelano come la personale scrittura in codice d’un artigiano e scienziato del teatro. Questi esercizi condensano un vero e proprio straniamento fisico e mentale. Decompongono l’agire quotidiano, e lo ricompongono alterato ma altrettanto organico, cioè sensorialmente persuasivo per chi osserva. Chi esegue, invece, è come un viaggiatore del détour, che torni ai suoi paesaggi familiari dopo esser passato per gli antipodi. Anche nella più semplice delle azioni: battere le mani, per esempio. Nel comportamento quotidiano, prima apriamo le braccia, poi battiamo. Negli esercizi di Mejerchol’d, le mani sono vicine, battono, poi le braccia si allargano. È uno straniamento elementare, ma da questo esempio facile si intende la logica che guida la complessa e annodata partitura di quegli esercizi rigorosamente formalizzati che rompono i riflessi condizionati. D’altro tipo sono gli esercizi che servono ad addestrare particolari abilità degli attori, nell’uso della voce e nell’azione fisica. Allargano il ventaglio delle sue possibilità, e quindi non lo ancorano ad uno stile, ad un comportamento scenico prestabilito, ad una serie sperimentata di clichés che rischiano di limitare la sua libertà. Libertà, infatti, significa scelta. E non si può scegliere se non fra numerose alternative possibili e padroneggiabili. D’un genere ancora diverso sono gli esercizi basati sulla variazione del ritmo, sulla costruzione delle interrelazioni fra attori, sulla costruzione del dialogo e del contatto fisico e vocale. Sono micro-situazioni che ampliano l’elasticità di adattarsi subito agli stimoli dei colleghi e del contesto, rafforzando l’immediatezza dell’azione/reazione. Vi sono esercizi che paiono giochi di società per mettere in moto la fantasia (scegliersi un personaggio ed essere in grado di rispondere a tutte le domande che i compagni pongono sulla sua vita e il suo modo di pensare). Altri esercitano la reattività (correre tutti in una sala, bloccarsi ad un segnale nella posizione in cui ciascuno si trova, trasformandosi in statua, pronti, ad un nuovo segnale, a riprendere la corsa, mutando direzione). In genere, questi sono esercizi piacevoli da eseguire. Si è tentati di indugiare a lungo in loro compagnia, come se fossero già azione teatrale.

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Altri sono invece esercizi difficili da apprendere e capaci di far male. Gli esercizi acrobatici sono di questo tipo. Sembra che insegnino all’attore le abilità stupefacenti del corpo giovane, per questo sono sempre seducenti. Instillano in chi li pratica il riflesso condizionato della precisione e della decisione per spingersi oltre i limiti che crede naturali per sé. Dopo esser stati a lungo padroneggiati, possono essere tranquillamente abbandonati. Precisione e decisione, infatti, dovrebbero caratterizzare anche l’azione più semplice dell’attore: come muovere un passo, come alzare una mano, come sedersi e alzarsi. Vi sono esercizi basati su vere e proprie dottrine del corpo, del respiro e del movimento, gratificanti quando sembrano confinare con la meditazione e la spiritualità. Altri, appagano invece l’inventiva e la spontaneità, con le mille varianti dell’improvvisazione e con il suo paradosso fondamentale: impadronirsi delle regole dell’improvvisare. Un’enumerazione senza fine di diversi tipi di esercizi. Si può passare la vita a fare esercizi e training, a improvvisare improvvisazioni, a sperimentare un metodo dopo l’altro, ad esplorare i mezzi come se fossero un fine, rimandando continuamente il momento dello spettacolo e dell’incontro con gli spettatori. È nata, per queste vie, una nuova dimensione dell’amatorismo teatrale (con tutta la superficialità e la dedizione che lo distinguono) che sostituisce agli spettacoli seminari e corsi. Questi seminari e corsi istituiscono un tempo e uno spazio virtuale ritagliato all’interno della vita quotidiana, e consentono di vivere alcuni giorni nel teatro senza la volontà o la possibilità reale di farlo nel futuro. È un fenomeno che si diffuse fin dai primi anni del Novecento, sorto dal riverbero delle ricerche condotte dai protagonisti della Grande Riforma. Per alcuni di loro, il training aveva assunto un valore così centrale da trasfigurarsi da processo in finalità assoluta. Questa “deriva degli esercizi” ha creato situazioni di attività che sono isolotti a se stanti: né teatro professionistico né amatoriale; né prove né spettacolo. Una delle tante stanze fantasma del teatro. I rischi non sono minori quando il training non fa dimenticare l’esigenza dello spettacolo e del confronto con gli spettatori. Può inconsapevolmente crescere una sorta di piccolo dogma: che il training favorisca la palingenesi artistica ed etica dell’attore. E quindi – dogma ancor più pernicioso – che il training la possa garantire. “A che serve? io non so neppure cosa sia!”, esclama la maggior parte degli attori se qualcuno chiede loro che cosa pensino del training. È così facile deridere i “teatri del training” che, per contrasto, nasce con altrettanta facilità l’enfasi nel difenderlo. Il training diventa una bandiera e un feticcio che ac-

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compagna i primi anni dell’esperienza teatrale fuori delle scuole e del teatro legittimo. Poi, se si continua, il training evapora dalla routine professionale. Crea disillusioni altrettanto forti delle illusioni che l’avevano nutrito. Non c’è niente di male a coltivarsi delle illusioni. Le illusioni sono vitali, quando nascono e crescono fino a trasformarsi in qualcosa d’altro. Sono il solo nutrimento spirituale che ci è dato, i sogni di cui siamo fatti. Le illusioni diventano distruttive quando le lasciamo cristallizzare in idoli e dogmi.

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Viaggi in una stanza Ho sentito spesso affermare: “il training dell’attore è una parte del suo lavoro, come è l’allenamento per il musicista, per l’alpinista, per il soldato o l’atleta”. In realtà è d’un genere sostanzialmente diverso. Il termine “training”, a ben guardare, viene usato in maniera metaforica. Coincide solo in piccola parte con il periodo di apprendistato, o con le attività che servono a tenersi in forma. Non addestra a ben precise prestazioni. Non insegna qualcosa. Prepara, piuttosto, ad allontanarsi dal comportamento abituale, la cosiddetta spontaneità o la teatralità di convenzione. Quando i maestri della Grande Riforma novecentesca, da Stanislavskij a Copeau, da Mejerchol’d a Dullin o Decroux dettero tanta importanza agli esercizi non intendevano affatto impadronirsi d’una tradizione ma, al contrario, rifiutarla. Si trattava d’un paradossale apprendistato, non per un’arte dalle forme note, ma per un’arte a venire. Da questo punto di vista il training teatrale assomiglia a ciò che nel linguaggio scientifico distingue la ricerca pura da quella ‘applicata’. Era basato su simili motivazioni anche il training nel teatro di Grotowski o del Living Theatre. Nei loro casi, si trattava di fuoriuscire da un teatro che veniva sentito come una prigione, inadatto a realizzare le loro aspirazioni ed esigenze. Ben diverse le radici del training degli autodidatti, quello che ho sperimentato in prima persona con l’Odin Teatret. Dagli anni intorno al 1970 in poi ha caratterizzato i giovani che si raccolsero in piccoli gruppi indipendenti e sotterranei, obbligati all’autodidattismo. Eravamo i figli illegittimi del teatro riconosciuto, non una sua avanguardia. Eravamo incapaci di esservi ammessi o competere con esso, costretti a lottare per la nostra sopravvivenza fin dall’apprendistato, fuori dall’autorevolezza delle scuole teatrali, o delle compagnie rispettate in cui fare la gavetta. Ci identificavamo, come degli orfani che si riconoscono nei nonni, nell’ethos artigianale e nelle parole dei maestri della Grande Riforma, e poi, più

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vicine a noi, nelle esperienze del Living Theatre o di Grotowski. Il Living Theatre e Grotowski potevano apparire marginali o reietti, ma erano degli “aristocratici”che avevano rifiutato la legittimità della cultura teatrale dalla quale provenivano e nella quale avevano smesso di credere. Il nostro rifiuto di autodidatti era diverso: era un rigetto dovuto all’inferiorità. Mi sforzo di distinguere, con il rischio della schematizzazione, anche per mostrare come sotto l’ombrello della parola “training”si radunino fenomeni diversi, motivazioni contrastanti, ribellioni e speranze dissimili. Sia il rifiuto degli aristocratici come quello degli orfani hanno, però, campi d’azione complementari. Il primo campo d’azione ha le vaste dimensioni della società, del posto che in essa occupa il teatro, gli spazi chiusi o aperti, recintati o itineranti degli spettacoli, le città con il loro pubblico abituale, o i territori “senza teatro” In questa geografia, uomini e donne di teatro mettono alla prova la loro capacità di creare rapporti e compiere veri viaggi, rompendo il cerchio dei loro giri, delle tourné, dei flussi delle mode e del mercato. L’altro campo d’azione è ristretto. Ha il panorama spoglio d’un viaggio attorno ad una stanza apparentemente isolata, dove gli attori lavorano su di sé, fra quattro pareti, senza spettatori. È diverso da quel che accade nelle prove, dove si può prevedere il momento in cui dall’altra parte ci saranno gli spettatori. Benché lo spazio sia esiguo, i viaggi possono essere lunghi e combattivi. Visti dall’esterno, appaiono spesso bizzarri, addirittura insensati. Vissuti dall’interno, si chiamino esercizi o training, implicano un modo di pensare e un atteggiamento emotivo che si esprimono in un modo di fare.

Un’identità professionale altra Non ero cieco. Ero consapevole che vi erano attori straordinari che non avevano mai praticato il minimo training. D’altra parte, attori eccellenti nel training si rivelavano poco interessanti nello spettacolo. Eppure, nei primi anni, a me queste obiezioni non passavano neanche per la testa nel momento dell’impegno e della scoperta del valore del teatro che il training dava al lavoro dei miei attori. Mi giustificavo – e lo credo ancora oggi – la necessità del training come espressione di un’identità professionale altra. Era la conferma quotidiana, umile e tangibile, della decisione di dedicarsi al teatro, attraverso la ricerca di un rigore e di un’autodisciplina. Il training era la conquista personale di ogni attore del come e del perché facesse teatro. Forgiava gli strumenti

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della sua indipendenza, della sua crescita individuale e della sua resistenza in condizioni avverse. Incoraggiava a praticare e difendere la propria dissidenza. Una piccola sala contiene lo spazio d’una vasta geografia. È una solitudine senza isolamento, una solitudine in compagnia. All’Odin Teatret, il training è perdurato fino ad oggi – per 43 anni. All’inizio, era compreso in uno spazio-tempo geloso, senza presenze estranee. Dopo una decina d’anni divenne una stanza mutante. Alcuni degli attori smisero di entrarci. Altri persistettero trasformando questa stanza in un tappeto volante, in un giardino tutto per loro o in un’isola di cui erano i Prospero. Anche quando alcuni dei miei attori smisero di praticare il training, anche quando io smisi di guidarlo giorno dopo giorno, anche quando la mancanza di connessione fra la qualità del training d’un attore e la qualità della sua presenza nello spettacolo divenne per noi tutti una semplice evidenza, il training è continuato a restare al centro delle mie riflessioni. Alcuni dei miei attori ed io, ognuno per sue necessità personali, ci siamo comportati come bambini testardi. Così abbiamo scoperto che perdurare vuol dire trasformarsi. E le trasformazioni sono così evidenti che, a volte, sono la pura e semplice negazione dei punti di partenza. Un punto di partenza era molto chiaro, nel teatro di Grotowski, all’inizio dei 1960: non si fa spettacolo del training. Era anche tassativo all’Odin: mai confondere il training con le prove. Eppure, proprio in quegli anni, nel 1964, il Living Theatre compose uno dei suoi più rivoluzionari spettacoli – Mysteries and Smaller Pieces – attraverso un montaggio dei propri esercizi. Dieci anni dopo, anche l’Odin Teatret, nel villaggio di Carpignano, nel Sud Italia, compose Il libro delle danze spettacolarizzando il training dei suoi attori. Che cosa era successo, nel frattempo? Come Mysteries and Smaller Pieces, anche Il libro delle danze nacque per la stretta delle circostanze: dovevamo presentarci in pubblico, e non avevamo nessuno spettacolo. Imbastimmo uno spettacolo basato sul training, con musiche, costumi e qualche testo. Restò a lungo in repertorio. Quando smettemmo di rappresentarlo, lo sostituimmo con altri spettacoli dello stesso genere. Lo spettacolo del Living Theatre era divenuto, intanto, uno dei classici del teatro del secondo Novecento. L’origine di questi spettacoli composti montando parti del training, e il fatto che siano nati quasi per caso, come prodotti estemporanei, è un aneddoto vero che non spiega, però, le profonde ragioni della loro nascita. Vi era stata una trasformazione nel training, apparentemente un minuscolo fattore che provocò una vera e propria mutazione: gli esercizi vennero

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saldati l’uno con l’altro. Fin dai primi anni dell’Odin Teatret ci accorgemmo che la forza del training si moltiplicava se, invece di eseguire prima un esercizio e poi l’altro, li si legava in un prolungato flusso continuo. In questo modo, importante non era più l’esercizio in sé, ma la sua fine, che doveva diventare l’inizio dell’esercizio seguente. Sembra un particolare da niente, ma nella pratica esplose come una vera rivoluzione. Usavamo il termine “catena” per indicare la serie di esercizi montati in un flusso unico. Ma non si trattava d’una catena, perché i singoli anelli non erano fissati. Si cominciava con una decina di esercizi in una sequenza prestabilita. Il resto era improvvisazione: variazione incessante dell’ordine degli esercizi, accelerando e rallentando il ritmo, giocando a sorprendere se stesso e cambiando repentinamente direzione nello spazio. Chi eseguiva la catena, quanto più la padroneggiava, tanto più poteva reagire nello stesso tempo in cui creava gli impulsi. Le sue azioni erano reazioni. Possedevano una consistenza dinamica di leggerezza e vigore che le apparentava alla danza, e se la catena era accompagnata da musica, dava l’impressione di un balletto in costante evoluzione. La catena di esercizi era un repertorio di un numero limitato di forme definite nei più piccoli dettagli, che però potevano dar vita a sequenze sempre diverse, così come un numero ben delimitato di carte può dar vita a infinite e imprevedibili partite. Il training, imboccata questa strada, smise d’essere una pratica separata dal lavoro creativo. Ma la creatività segue sempre cammini personali. Dopo alcuni anni, non esisteva più un training dell’Odin, ma ‘i training’ elaborati dai singoli attori con esercizi, giustificazioni e terminologie che sembrano avere ben poco in comune. All’Odin Teatret il tempo dedicato al training continuò ad essere distinto da quello destinato alle prove dello spettacolo. Mi resi conto che il mio apporto non poteva più essere quello del maestro che spiega e insegna un metodo comune. Non erano più le mie parole che potevano stimolare, ma la mia presenza di altro, che non mostra più di sapere a che serva quel che stanno facendo. E si interroga anche lui, sul senso e la direzione di quelle strade solitarie lungo le quali ogni attore si incammina, tutte le mattine, nel tempo del training. La parola training si adattava sempre meno a quel che in pratica succedeva. Lo chiamammo “vivaio”: ogni attore lavorava per suo conto, ma nello stesso spazio. Non elaborava la solita catena di esercizi, ma materiali scenici non fissati, frammenti di scene per spettacoli potenziali, la maggioranza dei quali non sarebbero mai nati. Un pullulare di immagini allo stato magmatico riempiva la sala, ciascuna figura con accessori, strumenti musicali, i costumi

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più insoliti, modi particolari di usare la voce e di comportarsi. Uno stesso attore poteva passare dall’una all’altra delle figure da lui elaborate e messe in azione. In un vivaio nuotano pesci dai molti colori, alcuni effimeri, altri capaci di crescere e saltare nel mare. Tutti in possesso d’un proprio embrione di vita e nessuno dotato ancora d’un destino. La distinzione netta fra il training e lo spettacolo era evidentemente caduta. Oggi è facile per me spiegarlo con poche parole: questa situazione era sorta proprio perché avevamo continuato ad insistere sulla sua strada, senza lasciarci bloccare dalla sensazione che essa non fosse più utile. Ma sarei insincero se affermassi che non fu problematico e laborioso percorrere questa strada per anni ed anni. Parallelamente a questo processo se ne sviluppava un altro, complementare. Nasceva dall’esigenza della pedagogia: alcuni attori dell’Odin distillarono alcuni principi di base del training. Erano inseriti in esercizi semplici da apprendere, non fissati in forme elaborate, che funzionavano come terra di coltura dalla quale ciascun allievo poteva far crescere i propri materiali, lavorando in autonomia. Anch’io, quando dirigevo un seminario, avevo smesso di insegnare esercizi, e cercavo dei procedimenti che consentissero di individuare e sperimentare i principi e non le forme. Usavo ancora la parola training per quello spazio-tempo in cui ero libero di seguire tracce che si perdevano nel nulla, attardandomi su equivoci e congetture, questionando infantilmente le verità ovvie della mia pratica. Principi ricorrenti in forme diverse: su questo si baserà, a partire dall’ISTA (International School of Theatre Antropology) la mia ricerca, insieme teorica e pratica, comparativa e pedagogica, sul comportamento dell’essere umano in situazione di rappresentazione organizzata. E non è un caso, che in ogni sessione dell’ISTA le prime ore della giornata siano dedicate a quello che un osservatore chiamerebbe training ed esercizi.

Una stanza di nessuno? L’impossibilità di ridurre il training ad una risposta unica, la sua mutevolezza e contraddittorietà, i suoi rischi e il suo fascino – a quale realtà del mestiere appartengono? Le origini storiche del training, le sue ricchezze, l’illusione della sua virtù palingenetica e dell’illusione speculare di poterne fare a meno – di quale necessità sono le metamorfosi?

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È il training, forse, il caso particolare di un problema più generale? E di quale? Dopo quasi cinquant’anni di pratica e di studio del training, queste domande mi si sono presentate imperiose durante la sessione 2005 dell’Università del Teatro Eurasiano, un’attività periodica dell’ISTA. “Testo e scena”: questo tema, proprio perché ovvio, era l’argomento di indagine. Immaginavo che avremmo discusso soprattutto del modo in cui un testo si trasforma divenendo parte di una rappresentazione. Ma fin dal primo giorno, uno degli studiosi presenti aprì un altro fronte. Spiegò che, oltre all’interpretazione, alla regia, alla relazione con lo spettatore o allo spazio scenico, esisteva un problema preliminare: l’esigenza di creare una regione intermedia fra lo spazio del testo e quello dello spettacolo. Che cosa era quella regione? Non si trattava, evidentemente del tempo delle prove. Franco Ruffini, lo studioso che aveva scompigliato i nostri programmi, aveva portato l’esempio di Stanislavskij. Sosteneva che tutti gli stratagemmi che Stanislavskij indicava per vivificare il testo o il personaggio da porre in scena non erano proposte interpretative. Erano un accumulo di dettagli che si frapponevano, come un vasto e ipertrofico muro cinese, o come una terra di nessuno, fra la lettura del testo e la sua messinscena. Questa sequela di particolari appariva ingombrante e fuori misura, ma risultava appropriata non appena la si pensava come un modo per popolare lo spazio intermedio fra l’una e l’altra stanza del teatro: quella del testo e quella dello spettacolo. I cospicui dettagli non servivano a sondare il testo, ma a fuoriuscirne attraversando uno spazio denso che aveva a che vedere con il testo senza appartenergli. D’accordo per Stanislavskij. Ma si riscontrava questa situazione anche in altri casi? Cominciammo a discutere di questa regione intermedia e senza nome. La sua presenza poteva essere generalizzata? E di che si trattava, concretamente? Che cosa avviene, in quella stanza, e che posto occupa nell’edificio mentale/pratico che chiamiamo teatro? Non sono le prove. Non è neppure l’equivalente del tavolino in cui si analizza il testo per fornirne un’interpretazione adeguata, fedele alle intenzioni dell’autore o a quelle complementari o divergenti dei suoi interpreti. Non ha nulla a che vedere con la stanza del training o degli esercizi. Quest’ultima ci sembrava la constatazione più ovvia. E invece, nel corso della discussione, proprio questa ovvietà veniva sempre più chiaramente messa in dubbio. Cominciò a materializzarsi, nei nostri discorsi, l’immagine d’una stanza fantasma. O d’una nobody’s room. Cercammo di definirla. Non sapevamo che

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cosa fosse, ma l’avevamo riconosciuta. O meglio: era lì, in attesa d’essere riconosciuta. Il modo di denominarla e l’idea stessa che di essa potevamo farci sembrava avere ben poco a che vedere con il teatro. Proveniva dalle regioni di un certo tipo di letteratura in cui era una presenza ricorrente. L’incubo della “stanza fantasma” o della “stanza di nessuno” fornisce il plot di molte storie fantastiche e dell’orrore. L’hanno evocato scrittori come Howard Phillips Lovecraft e John Dickson Carr, dal quale viene il titolo The Nobody’s Room. Può sembrare strano pensare a storie di questo genere per parlare di training, anche perché la stanza di nessuno è in genere quella del crimine. E il training con il crimine non ha niente a che vedere. La stanza fantasma dei racconti e dei romanzi è chiamata così perché a volte c’è e a volte no. Si sposta. Il protagonista l’ha vista, per esempio, in una casa di amici o in un castello, e quando ritorna non la trova più. Si domanda se è lui che ha sognato, o se invece sono gli altri che mentono, nascondendo qualche mistero, qualche tesoro o misfatto. Coloro che abitano in quel posto affermano che la stanza che lui cerca non c’è mai stata. Lo prendono per un pazzo o un visionario. Nel lavoro teatrale, ti dicono: ci sono i testi da interpretare, le prove, gli spettacoli. Non c’è posto per altro. C’è sempre stato dell’altro: una continuità di mestiere e di commercio, per esempio. Finché fu un vero e proprio commercio, gli attori, per vivere, dovevano avere molto d’interessante da vendere. Cambiavano spettacoli quasi tutti i giorni, tenendo fresco un ampio repertorio, sprecando il meno possibile e componendo in velocità. Attorno ai loro spettacoli si accumulava un magazzino di materiali scenici inutilizzati ma pronti per essere sfruttati e riciclati. Potevano essere frammenti scenici pronti per l’uso, sempre efficaci, oppure vecchi, fuori moda, dimenticati, ma adatti ad esser ripescati dal dimenticatoio per essere rimessi in forma e presentati come una novità. Era il deposito dei clichés, il ripostiglio delle più viete convenzioni. Era la fonte delle miserie estetiche della professione – secondo il giudizio dei riformatori teatrali che aspiravano al rinnovamento. Il deposito dei clichés è sempre stato occultato, nella lunga storia del teatro europeo. Gli attori non ne parlavano né lo mostravano. Negavano persino che ci fosse. Gli intenditori e i riformatori ne intravedevano la presenza e proponevano di gettare via tutto lasciando entrare l’aria nuova e fresca del Novecento. Il deposito dei clichés serviva sempre meno in un teatro che non era più un mestiere in cui gli attori preparavano innumerevoli spettacoli alla loro ma-

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niera, e divenne l’opera dei nuovi artefici della regia che curavano ogni singola messinscena come un’opera d’arte a se stante. Il deposito dei clichés era inutile e dannoso, quando il teatro cominciava ad essere accettato come un’arte da proteggere, e non più come un commercio più o meno dignitoso. Il deposito dei clichés divenne una stanza vuota, poi sparì: una stanza fantasma. Allora cominciò a farsi sentire la sua mancanza. Mancava niente, perché tutto quel che si era perso era proprio quel che si voleva perdere. Ma non c’era più equilibrio. Perché il deposito dei clichés assolveva ad un compito poco esplicito, non voluto né programmato, ma essenziale: materializzava la consapevolezza del teatro come paese d’appartenenza – o ethos professionale. Anche se ingombro di residui disistimati, era però uno spazio non materiale eppure concreto. Era la terra di nessuno che si frapponeva fra la vita quotidiana e il palcoscenico delle prove e degli spettacoli. Come il giardino o la cantina che sta fra la strada e la casa. Gli attori vi potevano passeggiare, aprire i ripostigli dove si conservavano i pezzi delle esperienze d’un tempo. Per i più ricchi d’esperienza e di talento era come la camera dei giochi che alcuni aristocratici conservavano intatta. Per i più poveri, era il ripostiglio da cui attingere magri guadagni. Per tutti, era il loro teatro-casa, il loro teatro-paese. Nomadi per le continue tournées, quella stanza fantasma se la portavano dietro come il loro teatro, simile alla casa in cui abitano le chiocciole e le tartarughe. Era un peso che, però, consentiva di camminare. Tutto il lavoro abnorme e “sprecato” che i riformatori del teatro novecentesco si inventarono, escogitando accanto alle prove il tempo-spazio degli esercizi, mirava anche alla ricostruzione di quella stanza separata. La svuotarono dei cliché, e la riempirono di novità. A differenza del vecchio magazzino, questo nuovo era presentabile. Aveva il crisma della buona cultura e s’ammantava con i valori dell’etica e della ricerca. Mentre prima correva poteva apparire incolto e volgare, ora correva il rischio opposto, d’esser troppo colto e troppo raffinato. Prima il magazzino dei clichés era la stanza di cui vergognarsi o di cui parlare ridendo. Ora era sempre sul punto di trasformarsi nel santuario della palingenesi del teatro. Cambiano i rischi ed i contenuti, ma la stanza fantasma continua ad esistere. È la stanza di nessuno, e insieme la più personale ed intima. Nell’artigianato teatrale, il training abita lì con le sue forme fisse, le motivazioni individuali e il suo valore emotivo. Il training – mi chiedo – è dunque il caso particolare della più generale esigenza d’una stanza fantasma? Di quel luogo dove già abita la necessità di teatro prima di farsi prodotto e manufatto teatrale?

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Voglio dire, con questo, che quel che chiamiamo training nel teatro, è solo illusione e fonte di illusioni? Credo esattamente il contrario. Voglio allora sostenere che nasconde un tesoro oggettivo, o la soluzione dei nodi tecnici e artistici? Ancora una volta, penso esattamente il contrario. Molte domande rimangono in sospeso sul training, sulla sua opportunità, sulla sua qualità, su ciò che in esso vi è di essenziale e ciò che invece è mutevole, sulla sua utilità e la sua esagerazione. Ma una domanda in particolare si distacca e sembra osservare tutto questo dall’esterno, quasi guardandolo dalle nuvole, senza più l’ansia autodidatta di apprendere e la tensione del riconoscimento artistico. È una delle mie domande infantili. Guardo a me stesso e gli altri che fanno teatro. Osservo il peso che li tiene in cammino. Apprezzo i loro spettacoli. A volte scuoto la testa, altre volte mi commuovo, spalancando gli occhi su quel tremolio dell’aria tra cui sembra che l’invisibile per un momento faccia capolino. Guardo il gruppo, la difficile e fraterna compagnia. E mi domando: quale teatro, ciascuno di loro si porterà dietro, quando non avrà più attorno il peso del teatro in cui è cresciuto e si è formato? Il teatro del nostro tempo non ha più nulla di simile a quello dei professionisti d’un tempo. Né noi siamo più i principianti diseredati bisognosi d’inventarsi un mestiere. Ma continuiamo ad aver bisogno d’un teatro portatile le cui forme e il cui senso segreto appartengano solo a chi lo faccia,. Training o stanza fantasma sono parole, l’una vale l’altra, a seconda dei casi e delle età. Possiamo riempire il teatro che ci portiamo dietro, il suo peso, di materiali di volta in volta diversi. È l’esistenza di quello spazio, di quella stanza che è solo nostra, ad essere essenziale. Non ciò che la arreda.

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LA DANZA DELL’ALGEBRA E DEL FUOCO*

Quando penso alle dimostrazioni di lavoro degli attori dell’Odin Teatret, ricordo innanzi tutto la loro origine casuale, dovuta nel 1978 alla pressione d’una difficoltà imprevista. Non bisogna però, confondere la cronologia con la logica degli avvenimenti. Quando lavoravo presso il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, a Opole, in Polonia, all’inizio del 1960, mi capitava a volte di dover spiegare a coloro che non lo conoscevano, il carattere del suo training e dei suoi spettacoli. Ogni volta che cercavo di descriverne il calore, mi ritrovavo costretto a parlare del lavoro di composizione “a freddo”. Ed ogni volta che rispondevo a domande sulla tecnica di composizione e sul training, finivo col parlare dei risultati, quando agli occhi degli spettatori la tecnica diventa invisibile e compare il caldo fluire dell’organicità scenica. “Freddo” e “caldo” potevano essere mentalmente separati, anche se nella realtà danzavano intrecciati, tanto da apparire invisibili l’uno senza l’altro. Esattamente come gli opposti concetti di Premeditazione ed Improvvisazione. Oggi penso che stia qui l’imprinting da cui nacquero le dimostrazioni di lavoro che costituiscono oggi un aspetto della tradizione dell’Odin Teatret. Era già presente il desiderio di mettere materialmente insieme le due nature del lavoro, separarle per indicare la tendenza ad essere inseparabili. Avevo letto come gli attori e le attrici del passato dessero spesso dei “Concerti”. A volte erano semplici recital, antologie del loro repertorio. Altre volte erano una sorta di conferenze in cui gli attori raccontavano le tappe della loro carriera, la maniera di interpretare l’uno o l’altro personaggio, e poi intercalavano la loro esposizioni con esempi. Senza costumi scenici, parrucche e

* Pubblicato per la prima volta in “Culture Teatrali” n. 13, Bologna, 2005.

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trucco, facevano affiorare frammenti di spettacoli sommersi. A volte non erano neppure conferenze, ma semplici conversazioni. Così aveva fatto Mei-Lanfang, a Mosca, nel 1935, quando improvvisò una dimostrazione di lavoro nel corso d’un ricevimento nella sede dell’Associazione dei Lavoratori dell’Arte. Davanti a un piccolo gruppo di colleghi, tra cui Stanislavskij, Ejzenštejn, Taìrov, Piscator, Brecht, Tretjakov, interpretò in frac alcuni ruoli femminili dell’Opera di Pechino. Comparvero fantasmi di grandi, disperate ed eroiche donne, che però non nascondevano il piccolo cinese in abiti europei da cui erano emanati. Fu una dimostrazioneepifania che permise a Brecht di affilare la propria visione dello straniamento. Un aneddoto simile veniva raccontato, nella storia di poco meno di due secoli prima, a proposito di David Garrick, durante un suo viaggio a Parigi. Il grande attore inglese, sempre al bivio fra comico e tragico, uomo colto e apparentemente dotato d‘un prodigioso talento naturale, si era incontrato con i filosofi materialisti che studiavano la “macchina” – non l’anima – dell’uomo. Costruivano la rivoluzionaria architettura dell’Enciclopédie ed erano presi dalla domanda sulla relazione fra sentimenti e passioni da una parte, e dall’altra l’ingranaggio dei muscoli, dei nervi, del cuore e delle vene. La relazione, insomma, fra l’uomo-macchina e l’uomo-spirito. Alcuni di questi filosofi visitavano regolarmente quegli inferni in terra che erano gli ospizi dei pazzi. Cercavano di capire quali fossero e dove si localizzassero i guasti di quelle “macchine” impazzite. A volte, con pensieri scandalosi e pericolosi, si avventuravano a considerare gli elementi in comune fra pazzia, criminalità e santità. Come se l’estasi e la Grazia appartenessero alla stessa famiglia delle azioni dei folli e dei criminali incorreggibili. Nel corso d’una discussione, Garrick aveva asserito d’essere in grado di percorrere a tutta velocità la gamma delle passioni, senza che né lui né tanto meno i suoi spettatori fossero in grado di distinguere il “naturale” dall’ “artificiale” nelle sue azioni. Colse alcune espressioni scettiche fra i suoi interlocutori. Costoro pensavano, giustamente, che l’artificialità d’una azione scenica era sempre evidente. Garrick uscì dalla stanza, chiuse la porta e la riaprì. Il suo volto era squassato dal dolore. Chiuse. Istantaneamente ricomparve come un individuo lubrico nel pieno d’un approccio sessuale. Scomparve. Riapparve istantaneamente un sant’uomo in preghiera. Poi un volto sconvolto dall’ira. Poi al culmine della gioia. Della tenerezza. Nel parossismo della gelosia. E così via. Ogni volta, i presenti credevano alla verità di quelle passioni e di quei sentimenti. Non vi era alcuna differenza fra i sintomi che mostrava loro l’attore inglese e i sintomi che avevano osservato sul volto di certi pazienti. Solo

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la rapidità con cui le diverse espressioni si alternavano dimostrava l’artificialità d’una tecnica fredda sottostante l’incandescente “verità” dei risultati. Diderot fece tesoro di quella dimostrazione di lavoro quando spiegò la sua “paradossale” opinione secondo cui l’attore sublime non sente affatto le passioni che rappresenta, ma le muove dal di fuori, a freddo, come un burattinaio col suo burattino. Erano episodi che avevo letto nei libri e che combaciavano con i miei tentativi di spiegare tecnicamente l’incandescenza degli spettacoli di Grotowski. Una vaga idea cominciò a crescere in un angolo della mia testa: che fosse possibile rendere evidente la doppia faccia del lavoro teatrale. La complementarità dell’esercizio “a freddo” e del processo organico “caldo” poteva forse trovare una sua forma a metà fra pedagogia e spettacolo. Rafforzavano tale idea alcuni malintesi. Nei primi anni di vita dell’Odin Teatret ci era capitato, a volte, di mostrare in pubblico il nostro training, che in genere era rigorosamente vietato a sguardi estranei. Nell’aprile del 1967, la televisione danese trasmise un reportage d’una ventina di minuti sul nostro lavoro. Riprese i nostri esercizi dato che non avevamo uno spettacolo. La gente di Holstebro vide per la prima volta al lavoro il teatro ospite nella loro città da poco meno d’un anno. Apparimmo loro come un gruppo di isterici. Debbo dire che anch’io e i miei compagni abbiamo una simile impressione quando oggi rivediamo quel filmato, dove il training è presentato senza la sua faccia complementare: i risultati artistici. Qualche mese dopo, andai con Torgeir Wethal ed Else Marie Laukvik al convegno “Per un Nuovo teatro” che si tenne ad Ivrea, in Italia. Vi era l’aristocrazia dell’avanguardia italiana, da Carmelo Bene a Dario Fo. Presentammo anche lì il training. I pochi che assistettero a quella dimostrazione di lavoro risposero in maniera opposta ma equivalente a quella dei danesi che ci avevano visto in televisione: ci considerarono un teatro dedito al virtuosismo tecnico. Potei constatare un malinteso di segno opposto, quando nel 1973 presentammo La casa del padre all’Università di Lecce in Italia. Durante una mia conferenza, Iben Nagel Rasmussen mostrò il suo training quotidiano. Venne visto come uno spettacolo drammatico, una rappresentazione di dolore e passione. Alcuni degli studenti ne furono profondamente colpiti. Eppure era solo lavoro tecnico. La pratica del training, in quegli anni cominciava a diffondersi e divenne spesso una bandiera che definiva la “differenza” di alcuni gruppi teatrali indipendenti. A volte rischiava d’essere una bandiera soffocante. Fare training rischiava in qualche caso d’assorbire tutto il senso del lavoro. Cominciammo a vedere training che non venivano accompagnati da nessun spettacolo. Lo stru-

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mento si trasformava in fine. Gli esercizi rischiavano di diventare un’ennesima illusione, di segno opposto all’illusione, altrettanto perniciosa, che si potesse fare a meno della tecnica. Vi erano insomma molte esperienze, molte domande e riflessioni che covavano negli angoli della testa mia e dei miei attori quando nel 1978 l’Odin Teatret fu ingombrato da regali di cui non sapevamo che cosa fare. Tutti gli attori erano stati per tre mesi fuori del teatro, in diverse parti del mondo, per compiere “viaggi di studio”. Ci saremmo tutti reincontrati ad Holstebro, e ciascuno avrebbe raccontato agli altri i risultati del proprio lavoro fuori casa. Alcuni mostrarono tecniche per noi del tutto sconosciute e altri addirittura spettacoli con costumi, maschere e canti appresi da maestri di Bali o dell’India. Non potevo gettarli via. Ma non potevo neppure immetterli nel nostro repertorio. Erano corpi estranei. Erano piccoli spettacoli appresi ed eseguiti con grande precisione, ma pur sempre in pochi mesi. Ed ero convinto che in così poco tempo non ci si appropria di uno stile classico e non lo si metabolizza. Ero diviso tra l’ammirazione per il lavoro dei miei compagni e l’impossibilità di utilizzarlo. Escogitai uno stratagemma: qualcosa a metà fra spettacolo e conferenza, e l’intitolai “Stanze del Museo del teatro”. Due attori, Toni Cots e Tom Fjordefalk, uno spagnolo, l’altro svedese, mostravano gli elementi di base della danza balinese e del kathakali indiano, le loro codificazioni e convenzioni, il loro lessico fisico. Poi, alla fine della dimostrazione, assumevano gli abiti e il maquillage di quelle forme classiche di teatro e presentavano due piccoli spettacoli. E così, “per disperazione” si tradusse per la prima volta in pratica quell’idea che aveva a lungo covato, di unire dimostrazioni tecniche e brani di spettacolo, le due facce della luna teatrale, la calda e la fredda. La prima vera e propria dimostrazione-spettacolo non assomigliò ad una “stanza del museo”. Fu Luna e buio di Iben Nagel Rasmussen. Era sempre più scontenta del lavoro pedagogico di breve durata, dei seminari d’una o due settimane. Le sembrava di diffondere formule e ricette che trovavano il loro senso solo nella continuità del lavoro. Allora restrinse i tempi. Per sfuggire il rischio delle formule trovò una forma. Quando me lo fece vedere per la prima volta, era il 1980, Luna e buio non si chiamava ancora così ma era già pronto. Mostrava i principi elementari del training, eseguiva e spiegava alcuni esercizi, ne discuteva l’utilità, indicava dove si annidassero le trappole e i rischi di fraintendimento. Poi ripercorreva le tappe della propria vita d’attrice e mostrava come gli elementi tecnici diventavano spettacolo, canto, azione e parola.

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Senza volerlo, inventò un genere teatrale che oggi sembra ci sia sempre stato, nel nostro e in altri teatri: un’opera-ponte fra lo spettacolo e il seminario pedagogico, fra anatomia, autobiografia e drammaturgia. Nel 1988, Roberta Carreri condensò in una dimostrazione-spettacolo di due ore ciò che aveva presentato e detto in tre giornate di lezione in un’università (all’Aquila, in Italia), dove aveva ricapitolato la propria autobiografia professionale. Il risultato fu un’opera scenica strutturata in tutti i dettagli, senza nulla lasciato al caso, ma che assume l’aspetto e le convenzioni d’una conferenza intramezzata da esempi: Orme sulla neve. Con i necessari aggiornamenti, resta, dopo quasi vent’anni, nel repertorio suo e del nostro teatro. Anche L’eco del silenzio di Julia Varley nacque da alcune giornate di lezioni all’università (L’Aquila, 1991), solo che l’attrice rovesciò la drammaturgia delle precedenti dimostrazioni. Invece di partire dai principi tecnici, partì dagli ostacoli. Presentò la gamma della propria tecnica vocale come risposta ai problemi posti da una voce di per sé poco dotata, giudicata inadatta alla scena. Approdava a soluzioni molto lontane da quelle che per anni avevano caratterizzato le scelte stilistiche dell’Odin Teatret. Non le negava, ma ad esse non si adeguava. Metteva così in primo piano la faccia che in genere resta nascosta della tecnica: il suo essere una lotta contro una situazione di minorità. La sorella gemella ed opposta del cosiddetto “talento naturale”. La tecnica, il lavoro “freddo” è spesso descritto come una scelta di stile. È in molti casi un rifiuto. La storia di Stanislavskij testimonia come la sua radicale ricerca scientifica sulle basi tecniche dell’attore abbia alle sue radici il temerario e lucido tentativo di compensare la mancanza d’un talento naturale. L’Odin Teatret aveva vissuto questo in prima persona: sembravamo affascinati dal virtuosismo perché eravamo costretti ad essere autodidatti. I sentieri del pensiero di Torgeir Wethal presentò, nel 1992, una faccia ancora diversa. Una dimostrazione di lavoro condotta da un attore seduto a tavolino sembra una contraddizione in termini. Ancor più lo è se il suo autore e protagonista è l’attore che ha fondato con me l’Odin Teatret nel 1964, che ha partecipato a tutti gli spettacoli di cui io sono stato il regista. Siamo considerati un teatro “del corpo”, della fisicità, un teatro acrobatico nemico della centralità della parola. Torgeir Wethal, si siede e parla. Si alza in piedi solo di tanto in tanto e non muove più d’uno o due passi. Mostra come la mente e l’immaginazione dell’attore che improvvisa, possano essere esercitate, regolate e variate con dinamiche paragonabili a quelle che sovrintendono al dinamismo fisico. Lo “spettacolo” di questa dimostrazione è una successione di miniature. Non c’è una tecnica dell’Odin Teatret. Non c’è uno degli attori di cui sono regista che possa essere considerato interprete ortodosso delle mie vi-

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sioni e delle mie teorie. Siamo un’accolita di miscredenti, al nostro interno prima ancora che nei confronti del mondo che ci circonda. Di questo sono particolarmente orgoglioso. Dopo tanti anni di lavoro assieme, dopo tante esperienze condotte nell’ISTA, l’International School of Theatre Anthropology, fondata da me fra il 1979 e l’80, immaginavo che su un punto, almeno, l’accordo fosse quasi totale: nel considerare la danza come base del bios scenico. Per la sessione dell’ISTA che si tenne a Copenaghen nel 1996, dedicata al tema dei rapporti fra ciò che intendiamo con il termine “danza” e ciò che intendiamo con “teatro”, chiesi a Roberta Carreri, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley e Torgeir Wethal di presentare attraverso azioni e parole, le nostre visioni. Proposi che ciascuno di loro preparasse una mini-dimostrazione di lavoro di circa 20 minuti. Immaginavo un coro. Mi trovai davanti ad un pamphlet beffardo e generoso: quattro “numeri” che andavano nelle divergenti direzioni della rosa dei venti. Che si rispondevano a distanza, che sembravano prendersi in giro proprio nei punti in cui dicevano cose simili ciascuno con le sue parole. Come venti anni prima, quando gli attori che se ne erano andati in viaggio ed erano tornati carichi di regali ingombranti, mi trovai ancora una volta proiettato nel ruolo di spettatore stupito e perplesso, divertito e persino commosso, di quello che consideravo il “mio” teatro. Quella dimostrazione di lavoro, che chiamammo I venti che sussurrano nel teatro e nella danza, entrata anch’essa nel nostro repertorio, venne definita da alcuni degli studiosi nostri compagni viaggio, come un cabaret sui fondamenti del sapere teatrale. Altri, soprattutto attori e registi, la videro come un dialogo filosofico fatto alla maniera degli attori. Che cosa realmente sia, non lo so. Ma so che è viva. E mi dice, soprattutto, che un regista fortunato non è colui che può dar forma al teatro che sogna, ma colui che malgrado la famigliarità e le esperienze comuni, dopo anni, può ancora trovarsi nella condizione di aver voglia di conoscere, con il fuoco dei sogni e il gelo della scienza, il teatro che gli è cresciuto intorno. Oggi, le dimostrazioni di lavoro dell’Odin Teatret sono una parte importante del nostro repertorio. Oltre quelle che ho ricordato, ve ne sono alcune che riguardano la relazione fra attore e regista (l fratello morto di Julia Varley, 1994), o il confronto con scene e personaggi classici (Casa di bambola, di Roberta Carreri e Torgeir Wethal, 1997; Testo, azioni, relazioni di Tage Larsen e Julia Varley, 1998). Costeggiano i nostri spettacoli, li accompagnano come piccole radiografie colorate. Possiamo parlare delle dimostrazioni di lavoro, oggi presenti in molti teatri, come d’un genere o sottogenere teatrale? Non è questa, per me, la domanda più interessante.

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Ciò che più m’interessa è vivere e far vivere l’esperienza di due serpenti che s’accoppiano e si allontanano: “freddo” e “caldo”, meccanicità ed organicità, convenzione e creazione, composizione premeditata e improvvisazione. Un poeta che aveva perso il dono della vista, o che si era liberato dal suo impaccio, come Borges soleva dire, descrisse questo artigianale mistero come una danza che nessuno, pur sgranando gli occhi, riuscirebbe a vedere: la danza dell’algebra con il fuoco. Nell’artigianato teatrale, l’accoppiamento fra elementi fatti per non incontrarsi diventa visibile e tangibile, ma non può essere programmato. È ciò che sfugge alla pedagogia. È sapere tacito che può trasmettersi solo per contagio. È artigianato, mestiere, ma anche mistero.

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DRAMMATURGIA: L’ORDINE PROFONDO CHE È TURBOLENZA*

C’è una rivolta invisibile, apparentemente indolore, che impregna il lavoro e nutre la tecnica. La disciplina artistica è la via del rifiuto. La tecnica teatrale e l’atteggiamento che essa presuppone sono un esercizio continuo della rivolta, innanzi tutto contro di sé, contro le proprie idee, i propri programmi, contro l’agiatezza della propria intelligenza, del proprio sapere, della propria sensibilità. Sono la pratica di un disorientamento volontario e lucido alla scoperta di nuovi punti di orientamento. La rivolta, oltre a nutrire il lavoro, ne è anche nutrita. Faccio teatro perché voglio preservare la mia libertà di rifiutare alcune delle regole e dei valori del mondo che mi circonda. Ma è vero anche il contrario che, poiché faccio teatro, sono spinto e aiutato a rifiutarli.

Tempesta e meticolosità Spesso la scelta di fare teatro è la risposta difficile ad una situazione difficile. È un modo di vivere una libertà che è libera solo se i risultati del proprio lavoro riescono ad influenzare altre persone ed a trarle dalla nostra parte. È un modo di inventarsi un’identità, che si rivela a noi attraverso un mestiere meticoloso e insieme tempestoso. Alcuni credono che tempesta e meticolosità appartengano a due diversi compartimenti stagno, che i problemi tecnici, la professionalità e la precisione artigianale non abbiano a che vedere con la turbolenza, con gli impulsi alla libertà, alla distruzione, alla rivolta, al rifiuto. Non è vero. * Pubblicato per la prima volta in “TDR - The Drama Review” n. 168, New York, 2000.

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Estrarre il difficile dal difficile

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Estrarre il difficile dal difficile è l’atteggiamento che definisce la pratica artistica. Ne dipendono sia l’incisività, la complessità, la densità del risultato, che i momenti di difficoltà, di pena e illuminazione di disorientamento e di nuovi orientamenti che caratterizzano il processo. Tale atteggiamento fa la differenza fra l’organicità dell’arte e l’organizzazione delle opere quotidiane, che sono tanto migliori quanto più estraggono il facile dal difficile.

Scilla e Cariddi Ordine e disordine non sono due opzioni contrapposte, ma due poli che coesistono e si rafforzano a vicenda. La qualità della tensione che riesce a crearsi fra di loro fornisce la misura della fertilità del processo creativo. Quando però si cerca di descrivere questa tensione, i discorsi cominciano a zoppicare. Più aderiscono a ciò che concretamente si è sperimentato nel corso del lavoro, più risultano fantastici ed esotici a chi li ascolta. E mentre cercano di trasmettere esperienze, rischiano l’equivoco. Per sfuggire a questi pericoli, la soluzione più semplice è tacere. Altrimenti si è costretti a navigare tra Scilla e Cariddi. Da una parte Scilla: il rischio di rettificare il percorso, trasformando l’intrico dei sentieri in una linea che corre dritta nella giusta direzione. Tutto allora appare chiaro, ma non ha riscontro nella nostra esperienza. Nella realtà del lavoro, la creatività si manifesta come un cielo tempestoso. Viene vissuta come disorientamento, dubbio, frustrazione, disagio. Essere padroni del proprio mestiere significa innanzi tutto saper preparare la tempesta che ci sgomenterà. Significa sapere come resistere senza fuggire verso soluzioni facili o previe. Tempesta significa anche che i problemi non si presentano uno dopo l’altro – come quando ne parliamo – ma tutti o più d’uno contemporaneamente. Quando il mare e le onde sono solo il disegno della rotta, ogni tratto diventa comprensibile. Tutto risulta vero, ma d’una verità così astratta da sbeffeggiare l’esperienza. Dall’altra parte Cariddi: il rischio di parlare solo di tempeste, dimenticando la geometria del compasso, della bussola, del sestante che permettono la rotta. È il rischio di cadere nella cronaca, nell’aneddotica, nella confessione: il processo è mostrato come un percorso buio, confuso e casuale, come un

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magma che sbocca ad un risultato quasi senza volerlo, non sapendo come e perché. Anche questo è un aspetto della verità, uno dei suoi profili. Per guardare in faccia la realtà del processo artistico occorre mettere a fuoco, alternativamente, ora l’uno ora l’altro profilo.

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La segreta complessità del bios Malgrado la scomoda oscillazione fra Scilla e Cariddi, con tutti gli equivoci che comporta, vale la pena di tentare di parlare del modo in cui cresce, prende forma e si trasforma uno spettacolo. Significa interrogarsi su qualcosa che ha a che vedere con la vita. Si ha la sensazione che siano domande analoghe a quelle che si pongono coloro che indagano la segreta complessità del bios. In fondo, è questo che giustifica l’interesse e la curiosità per ciò che accade nel processo artistico, per i suoi paradossi ed i suoi blocchi. E spiega l’accanimento di alcuni a parlarne, pur sapendo che le parole saranno opache, e le domande quasi sempre prive di risposta.

Arte e materia vivente Nel linguaggio artistico la contrapposizione organico-disorganico distingue l’opera che a noi pare viva, credibile e in sé coerente, da quella che invece pare forzata, meccanica e suscita in noi un moto di rifiuto o di fastidio. Nelle scienze della natura, invece, la contrapposizione organico-disorganico serve a distinguere il regno del bios dal regno minerale. C’è un’importante differenza fra i discorsi sull’arte e quelli sulla natura: nei primi la differenza fra organico ed inorganico è oggettiva, mentre nei secondi ha basi esclusivamente soggettive, e acquista una parvenza di oggettività solo quando è un giudizio condiviso da molti. Oppure, per dirla in maniera che piaccia anche agli scettici ed ai relativisti: i discorsi sulla natura hanno la presunzione d’essere oggettivi, quelli sull’arte presumono che l’oggettività non esista. Un’altra differenza è che mentre la complessità dei processi che in natura determinano la vita appare per lo più come un mirabile ordine, le vie per le quali si raggiunge la vita dell’opera d’arte appaiono invece come dominate dal disordine e spesso casuali.

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Essere fabbri della propria casualità

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Molte delle soluzioni che impressionano lo spettatore e contribuiscono a determinare il significato dello spettacolo sembrano suggerite dal caso. Ma ciò che chiamiamo “caso” è in realtà un ordine complesso, dove agiscono simultaneamente più forze, un sistema di relazioni che non si lascia esplorare con un solo colpo d’occhio. Potremmo dire che nel processo creativo bisogna essere fabbri della propria casualità, come i latini dicevano che ciascuno era fabbro della sua fortuna. Senza dimenticare quello che diceva Pasteur: “Il caso favorisce solo le menti preparate”.

Catastrofe e densità Che cosa significa, tecnicamente, disorientare il percorso di lavoro? Vuol dire non tener conto solo di un obiettivo, ed orientarsi contemporaneamente in due, tre, quattro direzioni diverse. Come un veliero che vuol dirigersi ad Occidente, mentre il vento soffia da Sud e le correnti sottomarine spingono verso Est. L’equilibrio fra queste tensioni è la rotta creativa. La tensione fra forze divergenti, contrapposte o semplicemente contigue può anche determinare la catastrofe. Ma se si riesce a domare queste forze, a scoprire il tipo di relazioni che esistono fra di loro, se si riesce, cioè, a farle convivere, intrecciarle e comporle, invece della catastrofe si raggiunge la densità. La densità disorienta lo spettatore, lo spinge ad estrarre il difficile dal difficile, lo scuote fuori dagli schemi di pensiero che gli sono noti e costituiscono l’accampamento sicuro delle sue idee.

Tecnica del disorientamento Durante le prove, la tecnica del disorientamento consiste nel dar spazio ad una molteplicità di linee, di storie, di direzioni, senza piegarle fin da subito sotto il giogo delle nostre scelte e delle nostre intenzioni. Significa seguire contemporaneamente tracce diverse, temi divergenti, associazioni sconnesse e permettere che le storie che ogni singolo attore segue ed insegue non corrispondano a quelle del regista e degli altri compagni. È un atteggiamento che stimola e genera una contiguità di materiali e proposte. È la possibilità di sperimentare un percorso labirintico tra caos e cosmos, con svolte improvvise, arresti paralizzanti, soluzioni repentine. È la

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crescita di una profusione che sembra a lungo oscurare, nel corso del processo, la chiarezza espositiva e narrativa. Si crea così un’apparente confusione, un campo magnetico dove le forze sono diverse per ogni singolo attore e per il regista, ma dove ognuno può trovare appigli, legami, giustificazioni, interessi, ostacoli, sfide e risonanze con il tema principale o con quel nucleo di domande che costituiscono il punto di partenza. È la creazione di un panorama caotico con tanti fiumi sotterranei, lungo i quali ciascuno è libero di seguire la propria rotta. Questa libertà è già il seme di una drammaturgia, perché, se ognuno naviga dove vuole, l’esigenza di scegliere la rotta d’insieme obbliga a trovare delle relazioni fra i diversi motivi personali. Tale ricerca di relazioni coerenti è già ricerca di un intreccio narrativo, di una drammaturgia coerente.

Le tre drammaturgie Il lavoro sulla drammaturgia non è soltanto quello sui testi o sulla storia che si vuole raccontare o mettere in visione per gli spettatori. Esistono tre diverse drammaturgie che dovrebbero agire contemporaneamente, ma che possono essere lavorate ognuna per suo conto: • la drammaturgia organica o dinamica: la composizione dei ritmi e dei dinamismi che coinvolgono lo spettatore a livello nervoso, sensoriale e sensuale; •

la drammaturgia narrativa, che intreccia gli avvenimenti, i personaggi, e orienta gli spettatori sul senso di ciò che stanno vedendo;



e infine la drammaturgia che ho chiamato drammaturgia dei mutamenti di stato, quando l’insieme che mostriamo riesce ad evocare qualcosa di diverso, come quando dal canto o dalla musica si sviluppa, tramite gli armonici, un’altra linea sonora.

Questa drammaturgia dei mutamenti di stato è quella che distilla o cattura un significato recondito dello spettacolo, spesso involontario per gli attori e il regista e diverso da spettatore a spettatore. Dà allo spettacolo, che deve avere una sua coerenza, anche un suo mistero. La drammaturgia dei mutamenti di stato è la più elusiva. Non ci sono regole tecniche. Ed è persino difficile spiegare di che si tratta aldilà degli effetti che si possono constatare: salti da una dimensione ad un’altra. Per lo spetta-

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tore, l’attore, e il regista è un salto da uno stato di coscienza all’altro, con imprevedibili, personalissime conseguenze sensoriali e mentali. Questo slittamento da un contesto all’altro è uno scuotimento, un cambiamento della qualità dell’energia che provoca un doppio effetto: vortice improvviso nella sicurezza della comprensione e illuminazione che si vive come turbolenza.

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Turbolenza La turbolenza sembra infrazione dell’ordine ed è invece ordine in moto. È il crearsi di vortici che rompono la corrente dell’azione narrativa. In assenza di questi vortici, la continuità, il ritmo e la narrazione rischiano di cadere nell’ovvietà e nell’illustrazione. Sarebbe come un susseguirsi di note che creano una linea melodica ma cantate senza la profusione di armonici che rendono viva la voce e le permettono di commuovere e di incantare. La drammaturgia dei mutamenti di stato riguarda lo spettacolo come avvenimento fisico e sensoriale, come organismo-in-vita. Non ha a che vedere con la scrittura, con la drammaturgia di parole, così come le qualità vibratorie del canto non hanno a che vedere con gli spartiti. Tutto ciò non è possibile senza la disponibilità di molti elementi e molti semi, senza la volontà di favorire contiguità e di muoversi contemporaneamente in più direzioni. Questa profusione di elementi e materiali crea confusione, ma deve tendere alla semplicità e alla coerenza.

Coerenza “Uno scrittore può certamente costruire castelli in aria, ma debbono poggiare su fondamenta di granito”. Questa affermazione di Ibsen si riferisce alla drammaturgia letteraria, ma indica la dialettica di indipendenza e dipendenza, di anarchia e disciplina, di rivolta da un lato e dall’altro imperio di un principio unificatore che caratterizza ogni aspetto delle tre drammaturgie. Occorre che le azioni degli attori abbiano una coerenza indipendentemente dal loro contesto e dal loro significato. Occorre che appaiano credibili a livello sensoriale, che siano presenti a livello pre-espressivo. Le fondamenta di granito sono il loro carattere di credibilità, la loro capacità di stimolare l’attenzione dello spettatore, di avere una radice nel corpo-mente dell’attore. Debbono rispondere ad una loro particolare e indipendente logica. Esistono e sono esistiti attori ed attrici di portentosa efficacia che non hanno mai fissato il disegno della loro azione scenica, che non pensavano in

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categorie di partitura, che non hanno mai lavorato coscientemente ad un livello che potessero chiamare pre-espressivo, che evitavano ogni precisione visibile e controllabile dall’esterno. Perché, allora, insisto tanto sul lavoro dell’attore a livello pre-espressivo? Sull’importanza della precisione nel fissare e saper ripetere il preciso disegno della sua azione? Sul valore della sua indipendenza dalle intenzioni del regista e del drammaturgo? Sulla coerenza della sua partitura e sottopartitura? Insisto non solo perché constato ciò che rende efficace l’attore, ma perché l’autonoma coerenza dell’azione dell’attore, indipendentemente dal significato che essa assume nel contesto dello spettacolo, dà una dote particolare e preziosa ai materiali che l’attore costruisce: li rende anfibi, capaci di passare senza morire da un contesto all’altro, abili a mutare senza perdere le radici che li tengono in vita.

Confusione e con-fusione Nella fase delle prove in cui gli attori seguono solamente il filo personale e coerente delle loro partiture, il lavoro sulla drammaturgia dell’insieme può rimanere a lungo confuso, addirittura caotico. La confusione, quando è cercata e praticata come fine, è l’arte dell’inganno. Ciò non vuol dire che essa sia di per sé qualcosa di negativo, uno stato da evitare. Usata come mezzo, la confusione è una delle componenti di un processo creativo organico. È il momento in cui materiali, progetti, storie contigue e intenzioni diverse si con-fondono, si fondono insieme, amalgamandosi le une con le altre, divenendo l’una l’altra faccia dell’altra. Le linee intricate della rotta non vogliono dire che la rotta punti all’intrico. La profusione e la confusione dei materiali e degli indirizzi è la sola via per arrivare all’azione spoglia ed essenziale.

Artigianato e genio Quando il lavoro è quasi terminato, il pittore si ferma e dice che ora può davvero cominciarlo. Coloro che lo circondano mostrano stupore e incomprensione. Ma lui intanto lentamente sconvolge e distrugge quel che ha fatto fino a quel momento. Disegna altre scene e figure che si intrecciano o si sovrappongono alle precedenti e le cancellano. Prende una nuova tela e vi dipinge il quadro che ha mentalmente estratto dalle difficoltà in cui si era gettato nel dipingere la tela precedente.

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Era partito da una divisione dinamica ed asimmetrica del rettangolo bianco, con linee che indicavano le sei direzioni dello spazio solido. Poi l’aveva popolato, aveva steso i colori, aveva cancellato, colorato di nuovo, inventato nuove figure, ne aveva trasformate altre. Aveva dipinto velocemente, s’era fermato a riflettere, aveva ricominciato, aveva intravisto una soluzione e poi s’era ricreduto. Sulla tela, il sole brillava in un mare azzurro. Poi aveva fatto scendere la notte e l’intera tela si era oscurata gradualmente. In questo momento si è accorto della strada giusta: “ora posso cominciare. Tutti gli errori commessi fino a questo punto mi hanno insegnato il quadro che debbo fare”. Nell’estate del 1955, Pablo Picasso aveva accettato, contro tutte le previsioni, di girare un film. Era stato il regista francese Gorges Clouzot a convincerlo. Il film avrebbe dovuto mostrare il pittore al lavoro. Contraddicendo il normale schema delle sue giornate, per un mese Picasso si alzò presto la mattina per recarsi negli studi cinematografici di Nizza. Accettò di sottomettersi alle esigenze tecniche delle riprese cinematografiche. Lavorò davanti a tanti “spettatori”, tecnici della luce e del suono, elettricisti, fotografi, addetti alla produzione, regista, i numerosi componenti di una normale troupe cinematografica. Il film, Le mystère Picasso, è oggi un classico nel suo genere. Viene presentato come il documento che permette di osservare ciò che avviene nella testa di un genio. Fu indubbiamente un genio. Ma il film rivela soprattutto il Picasso artigiano.

Procedimenti umili Negli anni 1970 vennero trovati gli scarti delle pellicole di Charlie Chaplin, materiali che avrebbero dovuto essere distrutti e che conservarono per errore. Con essi Kevin Brownlow e David Gill composero un programma televisivo che divenne famoso, Unknown Chaplin. Vi si vedeva Chaplin improvvisare, cercare un tema per una delle sue comiche, partire dal nulla, costruire scene complesse e poi gettarle via, fino a che gli si apriva davanti la strada giusta. Intanto la cinepresa girava impressionando pellicola, che ora ci rivela quel che avveniva nella testa di quel genio. Ancora una volta: artigianato. Se osserviamo Le mystère Picasso o Unknown Chaplin per dedurne qualcosa che possa interessarci dal punto di vista professionale, non dobbiamo lasciarci abbagliare dagli aspetti straordinari della loro creatività. Le loro doti eccezionali rendono particolarmente evidenti i procedimenti umili su cui il lavoro artistico si basa sempre, quale che sia il livello dei risultati.

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Spreco Non c’è lavoro creativo senza spreco. La proporzione fra ciò che viene prodotto e ciò che alla fine sarà utilizzato deve ispirarsi alla sproporzione fra il seme che, in natura, viene disperso perché una sola cellula fecondatrice riesca a generare un individuo del regno animale o vegetale. Non c’è lavoro creativo senza spreco senza la buona qualità di ciò che si spreca. Kipling diceva che non si impara a scrivere se non si impara a tagliare. E che per tagliare in maniera fruttuosa, occorre che i pezzi eliminati siano d’una qualità altrettanto buona degli altri. Non servirebbe a niente, cioè, scrivere pensando che quel che si scrive può anche venir buttato via. Estrarre il difficile dal difficile significa questo: creare una complessità il cui compito non è di conservarsi, ma di guidarci verso scelte ulteriori e rivelarci strade alle quali non pensavamo. Se si ragiona secondo i criteri dell’economia e del risparmio, è un modo di procedere paradossale. Ma è semplice buon senso se i criteri sono quelli dei mestieri artistici. Nel teatro, questo paradosso si verifica principalmente a due diversi livelli di organizzazione: quello dell’attore e quello della drammaturgia narrativa.

Estrarre l’errore dalla confusione Picasso ad un certo punto del film di Clouzot appare confuso. Non è sicuro di avere sufficienti forze per dominare le difficoltà che lui stesso ha creato. Poi la confusione si trasforma ai suoi occhi in una chiara ragnatela di errori. Allora riprende fiato: può finalmente cominciare. “La verità affiora più presto dall’errore che dalla confusione”, ha detto Francis Bacon (non il pittore nostro contemporaneo, ma il filosofo inglese del XVII secolo). Estrarre l’errore dalla confusione, e poi la nostra verità dall’errore potrebbe essere un modo un po’ filosofico per dire estrarre il difficile dal difficile.

La costruzione della confusione La costruzione della confusione è un problema centrale dell’artigianato teatrale. A livello drammaturgico significa non accontentarsi di ciò che già sappiamo dello spettacolo che vogliamo comporre, della sua storia o non-storia, del significato che l’autore ha dato al testo o di ciò che noi vorremmo dire e

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rappresentare. Significa far di tutto per sfuggire alla tentazione di realizzare un’interpretazione, un piano, un programma definito preliminarmente. Se lavoriamo su un testo, è importante sapere come allontanarcene. Ma questo distacco, vagabondaggio o pellegrinaggio non ha l’obiettivo di usare il testo come pretesto. Deve essere un percorso che ci porta in direzioni impensate, affinché tutto ciò che abbiamo scoperto esplorando i territori e i temi che ci portavano lontano o che contraddicevano i punti di partenza, costruisca una rete di difficoltà al momento di tornare ad affrontare la drammaturgia dell’autore, confrontandoci con nuove domande e prospettive inaspettate. Questa regola di comportamento nei confronti del testo o del tema di partenza, del significato che essi avevano preliminarmente assunto ai nostri occhi, corrisponde alla legge del movimento del corpo, per cui l’impulso per andare in una direzione è preceduto da un impulso in direzione opposta, un sats. È una legge del movimento dell’organismo vivente che il livello d’organizzazione pre-espressivo dell’attore amplifica per trasformarla in uno di quegli stimoli, scatti di energia o micro-vortici che tengono desta e guidano l’attenzione dello spettatore a livello sensuale e cinestetico.

Errori-muri ed errori-porte Se è vero che è essenziale estrarre l’errore dalla confusione, dobbiamo chiederci, da un punto di vista tecnico, che cosa sia l’errore. Ci sono errori sterili, che ciascun artigiano del teatro deve imparare a riconoscere e correggere. Sono errori che bloccano il processo, come muri ciechi. C’è però tutto un altro tipo di “errori” che sono già un punto di arrivo, provvisorio ma fecondo. Li chiamerò “errori-porte”. Se abbiamo saputo lavorare ai diversi livelli di organizzazione dello spettacolo, ciascuno di questi funziona per suo conto. Messi insieme, però, non realizzano armonia, ma confusione. Ogni livello di organizzazione è errabondo, si limita ad andare per la sua strada, ha una sua tendenza centrifuga, è geloso della propria autonomia. Ciò che ad un determinato livello di organizzazione ha una sua coerenza efficace – per esempio al livello di organizzazione del dinamo-ritmo – la perde invece all’altro livello, quello della drammaturgia narrativa. O viceversa: alcune azioni, un passaggio o un’intera scena essenziale per la storia che stiamo rappresentando, diventano di impaccio e controproducente per il ritmo dello spettacolo. Quel che in base ad una delle logiche di lavoro è giusto, diventa “errore” da un altro punto di vista. Sono questi gli errori che ci guidano, che ci obbligano ad estrarre una nuova complessità da quelli che costituivano gli stadi precedenti del lavoro.

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È cercando di rispondere a queste nuove difficoltà, di sfondare queste “porte” che possiamo scoprire i salti di percezione in noi o nello spettatore: la drammaturgia dei mutamenti di stato. A questo punto accade un fenomeno che quando se ne parla sembra strano, ed è invece il segno che il lavoro sta trovando una sua giusta via: è come se l’opera non fosse più nostra, e cominciasse a parlarci con una voce ed una lingua autonoma, che noi dobbiamo sforzarci di decifrare. Qualcosa di simile accade nel lavoro di ciascun attore, quando la sua partitura fisica, raffinata dal punto di vista del bios scenico, deve intrecciarsi con le partiture dei compagni, con le parole del testo, con le esigenze della drammaturgia.

Lavorare stanca e a volte fa male È facile leggere tempesta e meticolosità, disorientamento e confusione, turbolenza e non casuale casualità, enunciate come formule per estrarre il difficile dal difficile. È altrettanto facile immaginare come questo processo sia vissuto come dubbio, disagio, a volte sofferenza nella realtà del lavoro. Durante le prove, quando ciò che pareva già un difficile risultato viene trattato come un nuovo punto di partenza, alcuni attori si perdono d’animo. Per l’ensemble è sempre un momento critico. A volte l’irritazione di tutti contro tutti prevale e distrugge. Eppure, anche questo è artigianato. Lavorare non solo stanca, ma a volte fa male. Sadismo e masochismo non servono nel processo artistico. Se poi affiorano nel sistema di relazioni che costituisce un gruppo, un teatro, ne consegue una distruzione immediata ed amara.

La goccia d’acqua Perché dunque lavorare in un modo che può farci star male, che può mettere a disagio o ferire me ed i compagni? Per creare un’opera-in-vita, che stia di per sé, che mi appartiene e in cui mi riconosco, ma che non abbia bisogno della mia presenza per continuare ad esistere nei sensi, nella memoria e nelle azioni degli altri. Per dare allo spettatore qualcosa che ricordi anche dopo che lo ha dimenticato. Per la nostalgia dell’azione spoglia ed essenziale: la goccia d’acqua che fa traboccare il vaso.

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INCONTRI CON GLI SPETTATORI E CON ME STESSO

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TESTO DELLE ORIGINI*

Un teatro non può giustificare la sua esistenza se non è cosciente della sua missione sociale. L’aggettivo “sociale” evoca per noi una presa di posizione etica ed emotiva nei confronti degli altri. In effetti, il risultato artistico è sempre influenzato da questa presa di posizione. Il nome del nostro teatro non è fortuito. Ci sembra naturale che sia quello della forza che ha lasciato la sua impronta nel nostro secolo: il dio della guerra Odino, il berserk dalla furia incontrollata. Allo stesso modo in cui i nostri antenati evocavano e combattevano i demoni dando loro libero corso in cerimonie collettive, siamo qui riuniti – attori e spettatori – per far emergere e combattere in piena luce, il lato Odin in agguato nella nostra oscurità. Questa lotta contro l’altro nascosto in noi diviene lo strumento d’una più profonda conoscenza delle forze segrete che sorgono inattese e ci investono quando le circostanze sono loro favorevoli. Il nostro teatro non vuole né divertire, né sostenere tesi. Pone solo domande alle quali ciascuno di noi deve trovare la sua risposta; l’arte impegnata non fornisce buone risposte, s’accontenta di porre buone domande. La veemenza della lotta interiore ci guida verso una nuova nascita. Così Odin, anche sciamano che conquistò il sapere delle rune, ci guida ad estendere il campo della nostra coscienza.

*

Dal programma di Ornitofilene, primo spettacolo dell’Odin Teatret, Oslo, 1965.

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QUEL CHE È ORGANICO PER L’ATTORE E QUEL CHE È ORGANICO PER LO SPETTATORE*

Nel teatro e nella danza, il termine organico è usato come sinonimo di vivo e di credibile. Accade però che l’attore viva come organiche delle azioni, che invece non vengono sentite come tali dal regista e/o dagli spettatori. D’altra parte, accade anche che il regista e/o gli spettatori percepiscano come organiche azioni che l’attore vive invece come inorganiche, dure o artificiali da eseguire. Questa disparità di giudizio, o di sensazione, va contro l’ingenuità teatrale e la fede nella sintonia fra attore e spettatore. In realtà non c’è sintonia, ma può esserci incontro. L’efficacia dell’incontro decide il senso ed il valore del teatro. L’efficacia dipende dall’effetto di organicità che l’attore ottiene nei confronti dello spettatore. Effetto di organicità vuol dire capacità di far sperimentare allo spettatore un corpo-in-vita. Il compito principale d’un attore non è essere organico, ma creare la percezione dell’organicità agli occhi e nei sensi dello spettatore. Questo vuol dire che il suo lavoro sta tutto nell’apparenza e nella simulazione? Crederlo sarebbe un’ingenuità altrettanto forte dell’ottimismo teatrale, che crede ad una relazione immediata e obbligata fra organicità dell’attore ed effetto d’organicità per lo spettatore. Il problema reale riguarda l’orientamento dell’attore nel corso del suo lavoro, il modo in cui si sceglie un metodo e si apre una strada verso la costruzione della propria presenza efficace. Se l’attore usa come metro di giudizio la propria sensazione dell’azione organica, se cioè perde il punto di riferimento costituito dalla percezione di un altro che lo vede dal di fuori, probabilmente sperimenterà assai presto come illusoria anche per sé stesso la propria organicità. Le vie più brevi, checché ne dicano le nostre illusioni, sono sempre vie * Pubblicato nel programma della 11a sessione della International School of Teatre Anthropology (ISTA) a Montemor-o-Novo, Portogallo, 1998, il cui tema era “Effetto di organicità. Quel che è organico per l’attore e quel che è organico per lo spettatore”.

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curve. Sono cammini che per raggiungere la meta debbono procedere cominciando con l’allontanarsi, al solo scopo di raggiungerla efficacemente. Per l’attore, la ricerca dell’effetto di organicità è spesso accompagnata dall’esperienza del disagio, da un senso inorganico del proprio corpo e della propria azione. Solo alla fine di questa lunga tecnica di “allontanamento”, e solo a volte, è possibile un incontro fra la nuova organicità delle azioni dell’attore e la percezione dello spettatore. La nuova organicità che nasce dal lungo apprendistato è la conseguenza e la metamorfosi del disagio. È l’esercizio d’una fisica, d’una fisiologia e d’una logica che rendono paradossale lo spazio-tempo in cui attori e spettatori si incontrano. Questo paradossale modo di agire e di pensare, che s’allontana dai criteri quotidiani, è il presupposto dell’efficacia e delle ragioni del teatro.

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EFTERMÆLE: QUELLO CHE SI DIRÀ DOPO*

Il lavoro è radicato nel presente, attento a quel che accade nelle distese della storia e nell’arena del teatro. Tenta una risposta ai problemi professionali e personali che sorgono giorno per giorno. Cerca di realizzare sogni e desideri, rispondendo agli obblighi del momento. Ma ciò che veramente conta è quello che si dirà dopo, quando noi che lavorammo al compito saremo scomparsi. * Eftermæle: quello che si dirà dopo. L’uomo di teatro è responsabile anche di fronte a quegli spettatori che non l’hanno mai veduto. La sua identità professionale, così come egli la inventa e la vive, è una parte dell’eredità che trasmette al tempo. Eftermæle: questo termine della cultura norvegese andrebbe tradotto con la somma di due parole: nomea e onore. Vuol dire: il tempo deciderà il senso e il valore delle tue azioni. Ma il tempo sono gli altri, coloro che verranno dopo di noi. Tutto questo è paradossale: il teatro è arte del presente. * Onore è una parola che sembra appartenere alle epoche passate. Sembra indicare arcaiche costrizioni sociali. Ma denota anche l’esistenza di un valore superiore. Implica un obbligo non verso noi stessi e ciò che ci circonda, ma verso ciò che ci trascende. Molière – testimoniano i contemporanei – pur essendo gentiluomo di corte, pur essendo considerato uno dei più grandi filosofi di Francia, trovava il proprio punto d’onore nell’imbrattarsi la faccia ogni sera e presentarsi al pubblico come uno zanni. È un’immagine esagerata e romantica? Ognuno, allora, trovi la sua. * *

Pubblicato per la prima volta in “Linea d’ombra” no. 52, Milano, 1990.

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Le costrizioni possono essere trampolini di lancio. Kierkegaard, a proposito d’una grande attrice, parla del peso che la fa volare. “Arte del presente” vuol dire un’arte chiamata a battersi contro il suo destino e la sua specificità di creare opere effimere. Nell’età della memoria elettronica, del film, della riproducibilità, lo spettacolo teatrale si definisce anche attraverso il lavoro a cui obbliga la memoria viva, che non è museo, ma metamorfosi.

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* Possiamo lasciare in eredità agli altri solo ciò che noi stessi non abbiamo del tutto consumato. Un testamento non trasmette a tutti. È inutile domandarsi: chi saranno i miei eredi? Ma è essenziale non dimenticare che ci saranno degli eredi. * Si può parlare agli eredi sconosciuti solo facendo passare la propria voce attraverso coloro che oggi ci circondano. Ancora un paradosso: gli eredi si raggiungono per linee curve, parlando a coloro che eredi non sono. Questo implica una visione del teatro, la capacità d’inventarsi un’identità e una tecnica minuziosa della relazione attore-spettatore. Come trasmettere il messaggio? Un’istantanea della vita di Brecht, nell’immediato dopoguerra, quando aveva appena rimesso piede in Europa: - I giovani vi aspettano, signor Brecht! Voi siete un mito per noi in Germania! - Troverò un rimedio a tutto questo. * Alcuni immaginano il messaggio come una verità che la nostra storia, la nostra tradizione, la nostra esperienza e scienza personale ci ha fatto scoprire e che per ciò comunichiamo agli altri. Io lo immagino come un quadro dipinto da un pittore esperto ma cieco. Attraverso le tecniche che padroneggiamo, le storie che ci attraggono, le ferite e le illuminazioni intimamente nostre, dobbiamo raggiungere qualcosa che non è più nostro e non si lascia possedere né da chi lo fa, né da chi lo vede. Il vero messaggio è il risultato non previsto e non programmato, d’un viaggio verso una cecità cosciente: l’anonimato. *

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Vi è un anonimato frutto d’acquiescenza allo spirito dei tempi. È l’anonimato del pieno: la nostra voce è soffocata da tutto ciò che in noi è stato versato dagli altri, dalla cultura, dalla società e dalla tradizione che ci circonda. In questo caso, si è anonimi perché colmi di idee ricevute. Ma vi è anche un anonimato del vuoto, ottenuto per il cammino inverso, in prima persona: non ciò che si sa, ma ciò che io so. È il risultato della rivolta personale, della nostalgia, del rifiuto, della voglia di trovare se stessi e di perdersi: scavare così a fondo, da trovare le caverne sotterranee, coperte dalla roccia e da centinaia di metri di terra compatta. C’è una tecnica per realizzare tutte queste intenzioni? Sì: la tecnica del varo e del naufragio. Bisogna progettare il proprio spettacolo, saperlo costruire e pilotarlo verso il gorgo, dove esso o si sfascia oppure è obbligato ad assumere una nuova natura: significati non prima pensati, che i suoi stessi autori osserveranno come enigmi. Senza tecnica, senza perfezionismo e senza attenzione ai dettagli, tutte queste restano metafore prive di senso. Ma senza metafore o ossessioni di questo tipo, la tecnica, il perfezionismo e l’estrema precisione dei dettagli sono teatro privo di senso. * Senso come senso di marcia: la direzione. Il Nord sono gli eredi. * Nessuno degli spettacoli dell’Odin è spettacolo-testamento. Ma ogni volta ho pensato allo spettacolo che i miei compagni e io stavamo elaborando come al nostro ultimo spettacolo. Non è possibile rimandare. Quel che aspiriamo a fare, va fatto adesso. * Zeami, Stanislavskij, Appia, Mejerchol’d, Copeau, Craig, Artaud, Brecht, Ejzenstejn: possiamo considerare i loro scritti come la loro esperienza lasciataci in eredità? Accade come quando uno risiede a lungo in un paese straniero, di cui ignora completamente la lingua. Migliaia di suoni sconosciuti penetrano nelle sue orecchie e vi si depositano. In poco tempo possiede il grammelot di quella lingua, potrebbe farne l’imitazione, la riconosce, ma non la intende. È una confusa massa di suoni punteggiata qua e là qualche parola decifrabile. Poi riceve una grammatica e un vocabolario. Attraverso i segni scritti riconosce i suoni familiari e confusi. Essi trovano lentamente un ordine, una clas-

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sificazione, una ragione. Ora è in grado di imparare da sé, sa come farsi aiutare, a che cosa deve stare attento per imparare. I libri dei grandi uomini di teatro del passato, ribelli, riformatori, visionari, possono essere capiti solo se si arriva a loro carichi di esperienze a cui non abbiamo ancora saputo dare un nome. Le loro parole scuotono il nostro grammelot opaco e lo portano alla chiarezza d’una conoscenza articolata. Sono tutti buoni libri, capaci di interessare i lettori. Ma la loro segreta efficacia sta sotto la superficie letteraria e tecnica, nella rete nascosta capace di catturare le nostre esperienze che ancora ci sfuggono. L’eredità pesca i suoi eredi. Documento acquistato da () il 2023/11/13.

* “Esiste un’eredità di noi a noi stessi”. Questa frase di Jouvet evoca la coerenza del nostro operare nell’alternarsi del tempo. Ma rammenta anche la domanda spietata che uno si deve porre dopo anni e anni di lavoro: ho ancora tra le mie mani l’eredità o l’ho sperperata? È ancora intatto il suo valore? Oppure è stato intaccato dal commercio con il mondo, dal contatto con la professione? Ha conservato questa eredità il suo significato personale, intimo e incomunicabile? Nostro è solo quello che è segreto. Il visibile appartiene agli altri. * Mi domando: – Come mai lavori spesso a spettacoli direttamente legati alla storia del nostro tempo? Vuoi testimoniare di ciò che hai visto? Dei fantasmi con cui hai dialogato? I tuoi spettatori ti paiono smemorati? Mi rispondo: – No, non siamo smemorati. Bisogna avere il senso della storia, perché lei non ce l’ha.

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LA GEOGRAFIA DELLE ILLUSIONI*

Contemplo l’andirivieni delle dozzine di etnie nell’infrenabile Hong Kong. Cinese? Asiatica? Cosmopolita? Eurasiana? In questa metropoli una normale tournée di teatro si trasforma in una riflessione sulla transculturalità, sul sincretismo e sul valore delle tradizioni. Cosa vuol dire che uno spettacolo teatrale sia “cinese”? Sono molte le lingue, le culture, le storie che si unificano nel singolare “Cina”. Quando mi sono messo a scrivere, la prima immagine che mi è lampeggiata negli occhi è stato un vecchio film, un melodramma cullato da una canzone che ho ancora nelle orecchie. La città reale è qui davanti e intorno a me. Eppure una favola sentimentale pesa fra i miei pensieri quanto la città concreta che mi circonda, con i suoi interrogativi e i suoi richiami. C’era una volta, ad Hong Kong, la giovane e attraente vedova di un generale cinese. Era eurasiana, figlia di un inglese e di una cinese. Aveva studiato medicina in Cina e in Europa. Finita da poco la seconda guerra mondiale, la giovane vedova pensava solo a guarire i suoi malati. Non voleva aver più nulla a che fare con la passione amorosa. Si sa cosa succede quando un simile personaggio compare in una nostra favola, antica o moderna, occidentale o orientale, classica o popolare. La dottoressa di Hong Kong incontra un giornalista americano. Al primo appuntamento vanno a cenare su una giunca nella baia di Aberdeen, nel plenilunio in cui finisce l’anno. Traggono auspici guardando le nuvole e il cielo stellato. Il film va avanti, vediamo l’ospedale della dottoressa su una collina con in cima un albero solitario in un vasto prato. Lì la dottoressa ed il giornalista si abbracciano. In camere lussuose d’alberghi convivono e fanno l’amore. È un amore senza dubbi e senza ombre, tanto felice che non finisce neppure quando l’amato giornalista parte e giunge notizia della sua morte nella guerra di *

Pubblicato per la prima volta in “Dramatic Arts” n.19, Hong Kong, 2006.

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Corea. L’amore della dottoressa somiglia a quell’albero in cima alla collina, illuminato dalla solitudine e dal dolore. Un buio solare, un lutto luminoso: a many-splendoured thing. Niente lacrime. Una farfalla dai colori cangianti vola come i ricordi felici quando si introducono nel nostro dolore. L’attrice è Jennifer Jones, l’attore William Holden, il film è del 1955. Vidi Love is a many-splendoured thing in Norvegia, nei miei primi tempi di emigrante. Quando alcuni mesi più tardi ebbi la possibilità di imbarcarmi come marinaio e girare il mondo, volevo andare anch’io a cena su quella giunca nella baia incantata. Aberdeen era uno dei posti che avevo il desiderio di toccare, assieme al tempio indiano di Ramakrishna alla periferia di Calcutta. “Toccare” vuol dire non illudersi che possa divenire un’abitudine, un appuntamento che si ripeta ad ogni ritorno. I viaggi furono tanti a Hong Kong, anche dopo aver smesso d’esser marinaio. Visitai spesso mio fratello che vi abitò per molti anni. Avevo cominciato a far teatro e i teatri asiatici mi erano famigliari, presso di loro mi sentivo a casa più che in molti teatri d’Europa. Ma nella baia di Aberdeen non misi più piede. Fino a quando, durante la tournée dell’Odin Teatret a Hong Kong, nel novembre del 2004, decisi di rivederla. La prima volta m’era apparsa incantata come nella favola del film. La seconda volta, quasi quarant’anni dopo, il mondo era cambiato. Anch’io lo ero. Ma la perdita dell’incanto non mi fece male. Avevo imparato a spezzare la bacchetta magica che suscita intorno a noi una geografia di illusioni. Ai luoghi attribuiamo a volte spiriti e respiri che sono nostri. Ci aiutano a definirci. La bellezza e la forza dei luoghi sono illusioni vitali. Hanno il fascino del centro. Se non siamo pronti ad uscirne, prima o poi ci disilludono. Non c’è contesto migliore di Hong Kong per accorgersene. Oggi, nel 2004, mi aggiro in questa folla di differenze, in questo accattivante e angoscioso labirinto di case e di quartieri, d’autostrade, tunnel e grattacieli, di modernità e sopravvivenze, non per cercare di capirla, di coglierne l’indole o l’anima, ma per rintracciarvi i fili che mi legano a quel pugno di persone che, anche senza volerlo o in modo anonimo, hanno suggerito il cammino che è mio. * Amo essere uno spettatore anonimo nei paesi che visito. Il piccolo Cattle Depot Theater accoglieva I perform, un progetto del Theatre Training and Research Program, l’originale istituto creato a Singapore da Kuo Pao Kun e T. Sasitharan. Il TTRP presentava cinque atti unici. Un indiano del Kerala, figlio di un imam, raccontava la sua doppia paradossale condizione: musulmano tra

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induisti, e attore in totale rottura con la propria cultura. Un giovane attore di opera tradizionale cinese di Shangai esponeva in una raffinata e grottesca formalizzazione la storia di una madre che, nel periodo della politica di un solo figlio, cerca di storpiare il feto del primogenito per poterne avere legalmente un secondo. Gli altri tre atti unici erano scritti e interpretati da attori di Macao, Hong Kong e Taiwan. Comune a loro tutti era un interrogativo: Qual è il nostro centro? In altre parole: che vuol dire essere cinese di Hong Kong, di Taiwan o di Macao dove fino a un paio di anni prima la lingua ufficiale era il portoghese, la religione cattolica e l’edificio più importante la cattedrale? Precluso dal seguire i lunghi monologhi per ovvi motivi linguistici, lo spettacolo mi trascinò indietro nel tempo. Rievocavo le mie esplorazioni, l’allontanamento dai modelli della mia cultura, il mio bisogno di scoprire o creare un ambiente in cui riconoscere e cesellare la mia identità professionale. Un luogo in sui si incontrassero artisti di culture teatrali diverse: esperti attori/ danzatori e giovani alle prime armi, musicisti, gente della pratica e gente del libro, storici e teorici, neuro-psicologi e biologi. Mi tornavano in mente le origini dell’ISTA, The International School of Theatre Anthropology. Anche gli artisti dell’Opera di Pechino dovevano abitare in questo villaggio di attori. Era la fine degli anni 1970. Nella Cina comunista, ancora sotto i postumi della rivoluzione culturale, le diverse forme di opera tradizionale erano al bando. Andai a Taiwan. A Taipei, quattro teatri presentavano regolarmente opere del repertorio classico, ed ogni domenica la televisione ne trasmetteva una per intero. Le quattro compagnie erano finanziate dai militari, dall’esercito, la marina e l’aviazione. Per alcune settimane, dall’alba, seguii la formazione degli attori alla scuola di Foo Hsing. La serietà e l’impegno degli allievi – bambini e bambine di una decina d’anni – e l’atteggiamento gentile e rigoroso dei maestri riportavano alla memoria la scuola di balletto del Teatro Reale di Copenaghen: la stessa relazione tra maestri e allievi, la stessa dedizione, pazienza e attenzione ai particolari. Molti delle considerazioni che ispirarono l’Antropologia Teatrale – queste riflessioni pragmatiche sui principi basilari della tecnica dell’attore – sorsero qui, osservando questi bambini ripetere estenuanti esercizi fisici e acrobatiche sequenze di azioni. Il lontano obiettivo era catturare l’attenzione degli spettatori senza aiuto di scenografie e testi comprensibili. Gli insegnanti si sforzavano di rispondere alle mie domande bizzarre: Perché stringevano una fascia intorno alla vita dei giovani allievi? A che cosa pensavano quando improvvisamente gelavano i loro movimenti in una posizione di immobilità? Su cosa concentravano lo sguardo o il respiro? Perché

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sceglievano sempre un equilibrio difficile? Quali erano i criteri e i termini per giudicare la prestazione di un attore? Che significa essere taiwanese? Di quei giorni a Taipei nel 1979 ricordo soprattutto questa domanda. Non ero io a porla. Sbucava improvvisa e immotivata nelle mie conversazioni con giovani attori e registi che, disinteressati al loro teatro tradizionale, avevano studiato negli Stati Uniti. Oltre alle abituali insicurezze e difficoltà del mestiere, loro ne aggiungevano un’altra: come ripristinare il contatto perduto con l’intimità del loro centro, come evidenziare la loro particolare identità di Taiwan, emancipandosi dai modelli appresi all’estero. Rimasticavo tra me e me la loro domanda, filtrandola attraverso le mie esperienze e costrizioni. Quante illusioni, e che strana la geografia dei nostri destini personali. Ero un italiano del Sud Italia, avevo studiato in Polonia, facevo teatro in Danimarca, ero venuto in Cina per cercare un sapere professionale che mi aiutasse a individuare il mio cammino. I miei interlocutori di Taiwan erano indifferenti al mio interesse per il loro teatro classico, esso non saziava la loro fame, per questo erano partiti per gli Stati Uniti. Alcuni erano figli di cinesi, immigrati dal continente alla vittoria dei comunisti, altri taiwanesi da diverse generazioni. Come me, avevano attraversato il mare e in un universo straniero alla loro cultura erano andati in cerca di una conoscenza tecnica che potesse appagare le domande dell’anima. Che significa essere taiwanese? E come fare un teatro che esprima questa essenza? La domanda era identica a quella che avevo sentito ripetere tra la gente di teatro latino americano negli anni 1970, quando l’Odin Teatret prese a viaggiare regolarmente nel loro continente. Che significa essere peruviano? Quali sono le qualità specifiche del teatro colombiano? Come si manifesta l’identità culturale di un paraguayano? L’ossessione di un centro, un idem, un’identità culturale simile a un invariabile nocciolo sempre identico che sottolinea la nostra diversità, si sarebbe sparsa anche in Europa una decina di anni dopo come reazione ai cambi prodotti dall’Unione Europea e all’immigrazione di minoranze etniche e religiose. Quando nel 2002 visitai Taipei con l’Odin Teatret, non esisteva più neanche un teatro di opera tradizionale. Anche lo spettacolo domenicale alla televisione era stato cancellato. I vecchi che l’amavano erano morti o in procinto di farlo, e ai giovani non interessava. Gli spettatori reagivano con scoppi di risa alle battute dei giovani artisti del TTRP di Singapore. Sedevo muto e immobile, apparentemente disinteressato. Eppure lo spettacolo mi aveva scosso e gettato in un labirinto di ricordi e interrogativi. I labirinti, con i loro muri e le loro complicate geometrie, con la

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loro apparente intelligenza e malignità, ci insegnano a far attenzione ai nostri passi, a dipanare fili per orientarci. I fili sono sempre relazioni, esseri umani, valori trasmessi da una persona cara. Perché ero attratto dal teatro tradizionale cinese? Senza dubbio a causa di Mei Lanfang, di quello che avevo letto su di lui, dell’effetto emotivo che la sua arte, la sua opera di riforma artistica, la coerenza della sua vita producevano su di me. Mei Lanfang era uno dei totem del clan teatrale al quale sentivo di appartenere. Lo consideravo un antenato nella genealogia che ero riuscito rabbiosamente a conquistare con tanti sforzi, pellegrinaggi, libri e incontri. Però anche i giovani che si domandavano “chi siamo?” appartenevano al mio clan, anche loro avevano lasciato la loro casa, quella fisica e quella delle loro credenze e tradizioni, e si erano messi in cammino. La terra è rotonda e sempre siamo l’Oriente per qualcun altro. Ancora un filo, ancora un volto e una voce: Kuo Pao Kun. * Nel 1999, il drammaturgo e regista Kuo Pao Kun ci visitò a Holstebro per due settimane. Voleva seguire il ritmo e le attività dell’Odin Teatret. Aveva in mente un progetto che gli stava a cuore da anni: una sorta di teatro laboratorio, il Theatre Training and Research Program, che avrebbe creato l’anno seguente con T. Sasitharan. Il TTRP avrebbe accolto a Singapore giovani artisti dall’intera Asia, qui si sarebbero scambiati esperienze, imparando le loro reciproche tecniche tradizionali, venendo in contatto non solo con i metodi occidentali, ma anche con la varietà di stili del proprio continente. Un paio di anni dopo aver realizzato il suo sogno, Kuo Pao Kun morì. All’Odin Teatret, nel corso della giornata, Kuo Pao Kun ed io ci incontravamo, spesso per caso, in biblioteca, in cucina o in un corridoio. Dopo alcune garbate frasi di convenienza, scambiavamo commenti, riflessioni, informazioni biografiche, perplessità e certezze. Mi colpiva la sua vorace curiosità, appena velata da una patina di cortesia, e l’attinenza delle domande. Lo intrigava il mistero della durata dell’Odin Teatret e della mia collaborazione di tutta una vita con lo stesso nucleo di attori. La sua vita, così simile a quella di tanti miei amici latino-americani e europei, ricordava il destino di Bertolt Brecht, uno dei feticci delle nostre comuni credenze teatrali. Bambino, Kuo Pao Kun aveva lasciato la sua Hebei natale, in Cina, per stabilirsi con la famiglia a Singapore. Aveva studiato in Australia, viaggiato in Asia, arrestato per le sue idee politiche di sinistra, gli avevano sequestrato il passaporto, lo avevano spogliato della sua cittadinanza. Non aveva tralasciato di scrivere, di mettere

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in scena, di educare una generazione dopo l’altra di attori e registi, scoprendo luoghi non tradizionali da trasformare in teatro. Così una centrale elettrica abbandonata diventò Home for the Arts: The Substation. Alla fine della sua vita premi e riconoscimenti lo sommersero. Gli avversari si piegavano di fronte alla sua azione duratura e coerente. Adolescente, il padre l’aveva mandato a Hong Kong per tenerlo lontano dalla politica. Era il 1957, appena un anno dopo la mia visita a questa città e alla sua baia incantata. Ci saremmo potuti incrociare, tutti e due così sicuri delle nostre idee e con la nostra fame di vita e di mutamenti. Adesso, ci ritrovavamo abbastanza vecchi per apprezzare le virtù del dubbio e ancora più la certezza che non sia necessario di sperare per intraprendere. Il teatro può scuotere la coscienza di alcuni individui e le abitudini della professione e della società se non rispettiamo le regole, ma creiamo le nostre proprie regole decisi ad imporle nel corso di una intera vita. * Guardare di lontano e mantenere le distanze consente di generalizzare proficuamente e di metter ordine nei nostri schemi mentali. Ma l’innocuo procedimento “obiettivo” che dovrebbe servire a mettere ordine diventa strumento del caos se ci illudiamo che queste generalizzazioni abbiano fondamento nella realtà, se ci chiediamo quale sia la nostra identità d’europeo, o d’asiatico, o d’africano, come dobbiamo fare per incarnarla e svilupparla o che cosa rischi di inquinarla. Queste sono le mie riflessioni mentre mi muovo fra le vie ed i quartieri di Hong Kong, una città che ignoro profondamente quanto più immagino di conoscerla. Riguardano quella speciale geografia che ignora i confini, fatta solo di movimento e legami. Ciò che nella geografia statica sembra certo – le appartenenze, le nazioni, le etnie e le identità culturali – nella geografia della mente diventa mobile e passionale. La geografia della mente non è irrazionale, parla una lingua che solo una fame interiore è in grado di decifrare. I nostri spettatori, ovunque dispersi, sono una parte tangibile di questa geografia. I nostri colleghi, la nostra professione, sono il paese in cui affondiamo le radici. Vedere il modo in cui cambia una città dà una speciale emozione. Mi dico: “Hong Kong non è più la stessa”. È di me, in realtà, che parlo, del mio sgomento nel sentirmi mutato col mutare dei giorni. Penso: “questa città aveva un’anima e l’ha persa”. Non è vero. È della mia “anima” che parlo, qualunque cosa questa parola significhi. Accenno, volgendo lo sguardo altrove, alla mia inconfessata paura che il tempo, come la sabbia che cola nella clessidra, tra-

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scini via con sé anche quel qualcosa di prezioso che dà un senso a quello che fra me e me chiamo “l’ essenziale”: il centro della geografia della mia mente.

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* Quante volte ho visitato questa città nel corso di quasi cinquant’anni? Quindici, venti, forse più. Ma è la prima volta che vi faccio tappa con l’Odin Teatret. Da dove sbucano queste centinaia di spettatori che nello smisurato foyer del Cultural Centre aspettano pazientemente di essere introdotti nel particolare spazio scenico del nostro spettacolo? Giovani, anziani, uomini e donne soli, coppie, piccoli gruppi, abbigliati formalmente o un po’ trasandati. Chi sono, cosa fanno, come sono venuti a conoscenza della nostra presenza qui, cosa sanno dell’Odin Teatret, perché vogliono vedere questo gruppo danese? Cos’è il teatro per loro? Un passatempo? Un tunnel dal quale evadere dalla loro isola? Una necessità vitale o uno dei tanti interessi, come il golf o la nuova gastronomia fusion? Pochissime sono le persone che alla fine dallo spettacolo mi si avvicinano. In Europa, in America Latina, in Canada o negli Stati Uniti è diverso. Gli spettatori mi riconoscono, non come il regista dello spettacolo, ma come la persona che li ha accolti e accompagnati al loro posto. Uscendo, ritornano verso di me e spesso ne so prevedere le reazioni. Alcuni sussurrano solo: grazie per lo spettacolo. Altri si perdono in una marea di parole, immaginano che le loro frasi sconnesse spieghino il tumulto che lo spettacolo ha innescato in loro. Pochi, in silenzio, mi stringono la mano e si allontanano furtivi, gli occhi lucidi. Qui, ad Hong Kong, il comportamento degli spettatori è diverso. Nessuno mi si accosta, e le poche persone che ho conosciuto mi fanno un piccolo cenno di saluto, ma restano schive. Solo la silenziosa figura di Gloria Lam è eloquente. Immobile nel suo elegante abbigliamento cinese, un’espressione impenetrabile nel volto, i suoi lunghi capelli neri riflettono le luci del soffitto. Sembra l’immagine dello spettatore più distante dalle inquietudini del mio teatro. Eppure è la sua immobilità e il suo silenzio di spettatrice che ha assistito ogni sera al nostro spettacolo a toccarmi e a parlarmi, non la sua presenza di funzionaria del Leisure and Cultural Services Department. Credo di intuire quello che avviene dentro di lei. Le diversità etniche e culturali sono vuote e ben tornite conchiglie nelle quali la nostra intima diversità personale fa risuonare le sue voci e i suoi fragori. Uno spettacolo compone musiche d’echi, affreschi di sensazioni che si comprimono all’interno di queste conchiglie e si sciolgono nel centro dello spettatore. Alcuni fili, alcune

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linee di vita si sono incrociate per un momento e forse annodate. Lì, nella memoria unica dello spettatore, il teatro scopre uno dei suoi centri.

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* Lo spettacolo dell’Odin Teatret era intitolato Dentro lo scheletro della balena. A Holstebro, subito dopo averlo composto, mi dissi: è ermetico. Invece si è dimostrato particolarmente adatto a viaggiare lontano dal contesto in cui è nato. Non perché si faccia capire da tutti gli spettatori, ma perché ovunque sembra non pretendere di farsi capire. Manifesta esplicitamente la sua vocazione a conservarsi “straniero”. Non racconta storie e non lancia messaggi. Ha una sua logica interna, come ogni organismo vivente, che pulsa, agisce e muta anche quando non pretende di farsi conoscere. Quando questo nostro spettacolo riesce ad essere pienamente vivo, la qualità della sua differenza diventa così allusiva ed elusiva da spingere gli spettatori a reagire ciascuno con la propria testa, cioè con il peso e la forza della propria differenza. Ho scoperto che lo spettacolo è straniero ad Hong Kong non più di quanto lo sia a Holstebro. Quando arrivai a Holstebro dalla Norvegia con i miei compagni di allora, nel 1966, ci introducemmo in una terra straniera. Siamo ancora assieme, noi che veniamo da una dozzina di paesi diversi, dopo una vita passata in sale di lavoro e viaggi, profondamente radicati nelle nostre case danesi, ma consapevoli della semplice verità così facile da dimenticare: si sta in un posto, non si è di quel posto. Basta aggiungere alla parola “posto” quella di “tempo” e si materializza il teatro. Il teatro è per sua natura straniero, che lo voglia o no, che lo sappia o si rifiuti di saperlo. Questa sua natura diventa evidente nei viaggi. Le tournée che ho fatto assieme all’Odin Teatret, spesso molto lontano dal nostro paese e dal nostro continente, mi hanno fatto scoprire che siamo stranieri non perché veniamo da differenti parti del mondo e abbiamo diverse madrelingue, ma perché siamo in preda alla geografia della mente. I confini delle patrie sbiadiscono. Prendono il sopravvento i mutevoli intrecci delle relazioni e delle passioni. Sembrano fantasie, astrazioni, invece sono fatti pratici. Quando uno spettacolo è in tournée, per esempio, i ruoli si invertono. Noi stranieri, nella piccola sala in cui facciamo teatro, diventiamo padroni di casa. Accogliamo gli spettatori, i quali, per un’ora o poco più, diventano essi gli “stranieri” in visita. Si trovano di fronte a qualcosa che in maniera più o meno accentuata proviene da un’altra storia, da un’altra geografia. Entrano, prendono posto, osservano, a volte come semplici turisti, curiosi, comprensivi, o animati da un arrogante complesso di superiorità; ammirati, o indifferenti. Questo accade, in misura

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più o meno accentuata, anche quando la maggioranza degli spettatori considera il teatro che li ospita un teatro concittadino. Molto più esplicito e più visibile, è il senso dell’intima distanza quando il teatro proviene da paesi lontani. Ma è sempre la stessa relazione fra “stranieri” che entra in gioco, qui dissimulata, là svelata.

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* Nell’insieme, fili tenui, illusori, temprati dagli anni o dall’intensità d’un incontro, costruiscono una rete. Questa rete è un paese. Nessuna carta geografica può rappresentarlo e descriverlo. Abitiamo una geografia fatta di fili, legami, nodi: persone, incontri, relazioni, passioni. Alcuni fili sono libri, figure, spettatori, luoghi perduti nel tempo: Cao Xueqin e il suo romanzo Il sogno della camera rossa, la scuola di Liyuan, il mitico Giardino dei Peri, l’esile Mei Lanfang, così come vive nella mia fantasia insieme a Qi Rushan, suo fratello intellettuale morto in esilio. Altri fili sono collaborazioni più o meno lunghe, circostanze fugaci, incontri folgoranti o appuntamenti ricorrenti nel tempo: Tsao Chunlin e Lin Chunhui che mi accompagnarono nella fondazione dell’ISTA; Mei Baoju, il figlio di Mei Lanfang che riempì il nostro teatro a Holstebro dell’aura di suo padre; l’indimenticabile guerriero di Pei Yanling; i commoventi spettacoli di Ushan Shii di Peng Yaling; l’impegno solitario di Verena Tay; Ong Ken Sen con la sua rivolta esistenziale; Taimu Mingder Chung e i suoi studenti che attraversarono il mare per vedere l’Odin Teatret; Wu Hsing-kuo e Li Hsio-wei con il loro possente Contemporary Legend Theatre. Quando incontrai Huang Zuolin in Germania nel 1988, davanti ai miei occhi si mise a scorrere la vita di questo pioniere, gli inizi da dilettante, gli studi con Michel Saint-Denis a Londra, la scoperta di Brecht, il ritorno verso il centro in cui convivevano, rafforzandosi reciprocamente, Shakespeare e le tradizioni del kunju e huaju. La presenza di Huang Zuolin si materializzava a Hong Kong dalle pagine di Shashibiya, il libro di Li Ruru sulle vicissitudini artistiche di Shakespeare in Cina. Soprattutto, in questo libro, era la sensibilità e le vicissitudini biografiche dell’autrice a colpirmi in un’epoca dolente. Esiste l’opportunità di vivere l’Odin Teatret come uno spettatore attivo, osservare o seguirne praticamente il training, vedere tutti i suoi spettacoli, venire a conoscenza della sua dinamica di gruppo e dell’organizzazione delle sue attività locali e internazionali. È un’esperienza antropologica e professionale che dura dieci giorni, di studio dall’interno e allo stesso tempo di partecipazione nella nostra enclave teatrale. La chiamiamo, Odin Week. Qualche anno fa vi partecipò un regista di Shangai. Prima di ripartire disse: la gente di

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Hong Kong, dove adesso lavoro, deve conoscere i vostri spettacoli. Voglio che siano vostri spettatori. Per tre anni non ricevemmo nessuna notizia. Poi giunse un invito dal Leisure and Cultural Services Department. David Jiang è il filo che ha guidato il nostro teatro attraverso un labirinto di difficoltà fino a questo imponente edificio teatrale di Kowloon che si specchia nel mare e che ospita Dentro lo scheletro della balena. Pura coincidenza? Questo filo si estende e si moltiplica. Ricordo un attore cinese di notte, nel nostro teatro silenzioso, decorando le lettere di saluto da offrire all’alba ai panettieri della nostra cittadina, insieme a caffè bollente e dolci di diverse culture nel corso di una “visita teatrale”. Era uno dei quattro attori di Hong Kong che insieme a una trentina di colleghi da tutto il mondo collaboravano con l’Odin Teatret durante la Festuge, La Settimana di Festa di Holstebro. L’azione ci appartiene, non il suo frutto. Quello che dobbiamo fare, dobbiamo farlo, senza porci domande. Fa parte della quest verso il nostro centro. Anche a questo può servire il teatro che sa d’essere finto, e non finge di sapere. * Uno spettatore che amo mi chiede sorridendo: Qual è il centro del tuo teatro? Vorrei rispondere mostrandogli il vento. Invece vado indietro, ad una scena di cui ho letto, e che posso immaginarmi nei dettagli. Dico allo spettatore amato: “Spiega tutto”. Al centro c’è l’Imperatore. Siamo nella Città Proibita, una mattina di marzo del 1601. Li Madou s’è svegliato prima dell’alba. Deve prepararsi all’incontro con colui che sta al centro del Celeste Impero, aldilà di tutti quei mari che un europeo deve solcare per raggiungerlo. Una preparazione lunga e meticolosa precede l’udienza imperiale. Da essa dipenderà l’esito della sua missione. Deve imparare ad inchinarsi, a pronunciare le formule di rito. Stamattina il lungo viaggio troverà il suo senso. Li Madou equivale in cinese a Ricci Matteo, il gesuita grande matematico venuto dall’Italia. Il missionario che sognava di convertire l’Imperatore cinese e tutti i suoi sudditi ha vissuto anni e anni in piccole città di provincia, ne ha appreso i dialetti, ha studiato il confucianesimo per discutere con mandarini e gente semplice, sempre in attesa di varcare le porte di Pechino, città totalmente preclusa agli stranieri. Per quasi vent’anni ha atteso questo momento. L’immensa piazza antistante il Palazzo dell’Imperatore è gremita di militari, eunuchi, dignitari. Diecimila persone, forse il doppio, forse tre volte tanto.

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Li Madou si rende conto che non avrebbe potuto parlare con l’Imperatore, ma almeno l’avrebbe visto, avrebbe potuto farsene un’idea, su di lui si sarebbe potuto orientare, come i marinai che guardano in cielo la stella polare. Le azioni e le formule del rituale cominciano ad essere eseguite dagli astanti. Ecco il turno di Li Madou. Avanza verso il trono, si inginocchia, si china fino a toccare la terra con la fronte. Alza gli occhi: il trono é ancora vuoto. È stato sfortunato. L’Imperatore sarebbe apparso di fronte agli inchini degli altri. Ma nessuna delle dieci, venti, trentamila persone che a gruppi vengono condotte al trono, è più fortunata di lui. In perfetto ordine, tutti vengono guidati verso l’uscita. La piazza torna ad essere una solitudine d’enormi proporzioni. Un rituale preciso come una formula matematica. Al centro un trono vuoto. Per lo spettatore.

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ANGELANIMAL TECNICHE PERDUTE PER LO SPETTATORE*

Di quante sensazioni è composta l’angoscia? Per darmi coraggio, la mia ragione si compiace a individuarle e descriverle mentre il camioncino avanza con un estenuante inghiozzo di scossoni e frenate. Le strade sono un tappeto di buche, pozzanghere, un fetore di fogne aperte e soprattutto tenebre. La città sembra sconfinata, senza illuminazione, senza lampioni, vetrine rischiarate e insegne sfavillanti. L’ansia mi afferra: insicurezza, voglia di essere altrove, riconoscere qualcosa che mi tranquillizzi. Una fitta nebbia nera: così è Port-auPrince, la capitale di Haiti, quando il sole scompare. Fioche luci consentono di immaginare finestre e caseggiati. Intravedo i passanti come ombre minacciose, pronte ad aggredirmi. Uno sprazzo luminoso fuoriesce da una baracca, un gruppo di persone si muove tra candele e consolanti lampadine elettriche. “Una casa di santi” mi informa l’autista, un luogo di venerazione dei loa del Voodou. Di che tipo di dettagli abbiamo bisogno per identificarci con una situazione del passato? L’oscurità di Port au Prince mi lascia immaginare sensorialmente cosa fosse un teatro ai tempi della commedia dell’arte. Un eccesso di luci, come una chiesa o un salone aristocratico in un mondo caliginoso. Lo spettatore si inoltrava per strade buie, nella polvere, l’acqua stagnante, il fango, il lezzo degli escrementi e dei rifiuti e la paura dei tagliaborse in agguato. Ed arrivava alla tremolante luminosità di innumerevoli candele che amalgamava ricchi e poveri in un elementare piacere sensuale, strappandolo al grigiore e sancendo la rottura delle norme.

* Discorso in occasione del conferimento del Dottorato honoris causa conferito dall’Hong Kong Academy for Performing Arts, 7 luglio 2006. Pubblicato per la prima volta in “Teatro e Storia” n. 27, Roma 2006.

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Anch’io ho vissuto a volte situazioni del genere come spettatore: una sensazione di benessere, vitalità, salute. Osservo in silenzio una fotografia che mi mostra Stan Lai, il regista di Taiwan: la sala stracolma del Teatro Nazionale di Taipei, più di mille spettatori, tutti con il viso protetto da una mascherina bianca. Siamo nel 2002, in piena epidemia di SARS, l’intera vita sociale di Taipei è tarpata, la gente evita di prendere i mezzi pubblici, i cinema sono chiusi e i ristoranti deserti. Eppure lo spettacolo del suo Performance Workshop vince il terrore del contagio e la gente si ammassa per assistervi. Qual è il fascino o la perentorietà di questo spettacolo che induce lo spettatore a dimenticare l’istinto di conservazione? È impossibile non pensare alla peste endemica e alle sue vittime quotidiane al tempo della nascita del commercio del teatro. Nella Londra elisabettiana, quando il numero dei morti della pestilenza superava venticinque a settimana, le autorità chiudevano i teatri per settimane e mesi. Le epidemie, insieme ai bigotti, erano gli avversari del teatro. Fu la peste, che chiuse il suo teatro nel 1593, a spingere Shakespeare a guadagnarsi il pane scrivendo poemetti su Venus and Adonis e The Rape of Lucrece dedicati al Duca di Southampton. Una volta, ho creduto veramente di essere spettatore di uno spettacolo del Seicento. Ero tra un pubblico che sembrava godersi l’interminabile attesa dell’inizio della recita. Chiacchieravano, si lanciavano motti a distanza, andavano a trovarsi da una parte all’altra della sala. Uomini e donne di tutte le età e provenienze sociali, schiere di giovani e famiglie con bambini e infanti che dormivano o frignavano in braccio alle madri e le sorelle. Frotte di ragazzini offrivano a gara gelati, bibite, semi e noccioline, fotografie d’attori e soprattutto d’attrici. Un’atmosfera di instancabile vociferare. Mentre la musica invadeva la sala, un mezza dozzina di ragazze bionde, abbigliate in attillati e succinti costumi sfavillanti di paillette iniziavano una danza provocante. (Vengono dalle ex repubbliche sovietiche – mi dice l’amica egiziana che mi accompagna – hanno studiato balletto classico in Russia, Ucraina, Bielorussia, sono intrattenute da chi se lo può permettere). Il balletto, sempre più provocante, era interrotto dall’entrata dei protagonisti. Seguiva una successione di scene farcite di allusioni ad avvenimenti politici e di cronica, intramezzate regolarmente dal balletto delle biondine in costumi sempre più titillanti. Erano situazioni di attualità, presentate per accenni, in maniera elusiva: satira e critica indiretta (un funzionario della polizia corrotto che alla fine veniva punito), una buona dose di nazionalismo (proveniamo dai Faraoni e ritorneremo alla loro grandezza, dichiarava un personaggio dalla cima di una piramide), solidarietà con i fra-

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telli arabi (un attore sventolava una bandiera palestinese tra il trasporto del pubblico), gran finale con le ballerine che sgambettavano tra gli eroi. Gli attori erano interrotti con frequenza dai commenti della sala, uno spettatore lanciava una battuta, l’attore replicava, il dialogo improvvisato veniva ripreso nello spettacolo tra schiamazzi e risate. Ero in un teatro popolare del Cairo, ben lontano dagli esperimenti artistici dei gruppi indipendenti teatrali egiziani. Sull’intero paese vigilava l’Università islamica di El Azar, la somma autorità religiosa che, nel mondo musulmano, valuta le minime deviazioni dall’ortodossia con giudizi inflessibili. Qui la censura di stato ha un nome ufficiale – “protezione degli artisti” – per salvaguardarli dai fulmini teologici. Intravedo in queste situazioni una componente del DNA del teatro del passato, oggi irrimediabilmente perduta. Rarissime volte, quando uno spettacolo ci fa cadere il cielo addosso, sembra risorgere. Vorrei evidenziare questa componente, ricrearla, descriverla obiettivamente senza rifarmi ad aneddoti personali. So in anticipo che la mia descrizione sembrerà enfatica o romanzata. Eppure voglio tentare. * All’inizio era la fame e la paura. Coloro che vendevano spettacoli nei primi cent’anni del teatro moderno europeo – l’epoca di Shakespeare, Calderón, di Lope de Vega e Marlowe, di Molière e della Commedia dell’Arte – rischiavano letteralmente di morire di fame, se i loro prodotti non erano attraenti abbastanza da legare a sé gli spettatori paganti. L’indigenza era in agguato se non suscitavano un attaccamento ed una dipendenza capace di contrastare il marchio d’infamia che le rigide convenzioni dell’epoca, le leggi contro il vagabondaggio e i cleri delle diverse sette cristiane imprimevano sul commercio delle scene. Era un epoca di violenza e sospetto, intolleranza e scarsità di risorse. Le autorità indagavano i cittadini ritenuti immorali, i servi fuggiti dai loro padroni erano imprigionati, le mogli accusate di infedeltà punite pubblicamente. L’insicurezza materiale, l’incertezza del futuro e la durezza dei rapporti tra gentiluomini e servi erano impresse nei corpi spesso deformati dalle malattie e in anime storpiate dai vizi. Nobili e plebei erano decimati dalle pestilenze e dalle guerre, atterriti dal peccato e dalla minaccia della giustizia celeste. Il peso della vita li schiacciava a terra come una forza di gravità. Solo i loro sogni rimanevano in alto. Fame e paura, ma anche fede, la ragione che va aldilà della pura sopravvivenza. Le fedi davano conforto e incutevano terrore. Erano armate e acco-

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glienti, rispondevano all’oltraggio con la tortura che per la vittima rappresentava spesso la gloria del martirio. Le guerre erano ammantate di religione. Quelle intestine, fra i cristiani e i loro intransigenti estremismi, riproducevano in Europa lo scontro che nella geografia planetaria si svolgeva fra cristianesimo, musulmanesimo e paganesimo. Nell’interiorità dei singoli individui, guerre equivalenti opponevano la speranza della Salvezza al terrore della Dannazione. A quel tempo il teatro era la celebrazione del turbamento e dell’eccitazione. Gli attori parlavano all’animale e all’angelo negli spettatori, pungolavano quella parte del cervello rettiliano in cui si annidano le pulsioni elementari della fame, della paura, della sessualità e della fede. Chi faceva un teatro che andava venduto sfruttava il brivido del raccapriccio intrecciato al fremito del godimento trasgressivo alternando scene di comicità e orrore, d’esaltazione religiosa e amore sregolato, volgarità e onore, tradimento e follia, apparizioni infernali e epifanie dell’Aldilà. I palcoscenici erano pieni di botole e i loro cieli finti erano dotati di macchine. Dal basso salivano i demoni, i morti, i fantasmi; dall’alto scendevano angeli e dèi. Sprofondavano i dannati, volavano via i salvati. La dimensione verticale, che in scena diveniva un’attrazione, era incarnata nell’esperienza quotidiana: preghiera e blasfemia, la rigida ortodossia della fede e l’accanimento dell’eresia. Simulazione e dissimulazione stavano in egual misura nelle cronache e nei teatri: machiavellismi, amori colpevoli e assassinati, ebrei in veste di cristiani, eretici nascosti nel conformismo, viziosi pii, eroiche e sante fedeltà. L’ascesa e la caduta di re e regine infiammavano la fantasia della piccola gente sia nel teatro della storia che nelle storie dei teatri. Erano spettacolo popolare i roghi delle streghe e le esecuzioni. Il teatro, nella sua maggior parte, intratteneva le passioni e gli impulsi istintivi degli spettatori stuzzicando desideri repressi, illusioni, ansie e superstizioni. Da quei tempi e da quei teatri lontani restano incagliate sulle nostre spiagge alcune imponenti rovine. Tre figure di persone, soprattutto, capaci di viaggiare nel tempo: il principe Hamlet, l’aristocratico Don Giovanni e il dottor Faust. Ed Arlecchino, che è soltanto una maschera. Visitiamo queste e altre rovine rispettosi e ammirati. Le rimettiamo in piedi sui nostri palcoscenici. Restituiamo loro il dono della parola e dell’azione. Storici, artisti e scienziati dedicano loro larga parte della propria vita e dei propri sogni. Scandagliano queste rovine, le dissezionano, le interpretano, le spaesano attualizzandole o si spaesano essi stessi tentando di penetrare nel loro passato. Ma di fronte a loro, i nervi dell’animale

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e il fervore dell’angelo non si tendono più per l’allarme o il piacere. L’anima dello spettatore non vola né si sgomenta. Angelanimal dorme. Angelanimal è il nome d’uno spettatore. O meglio: il mio modo di nominare una sfaccettatura dell’insieme complesso di reazioni intellettuali, emotive, critiche, razionali e istintive che compongono il singolare collettivo chiamato “spettatore”. È il nome che do all’animale che si nasconde nel fondo del mio cervello, e all’angelo indissolubile che come un’ombra si libra negli spazi vuoti sopra o sotto di lui. Gli uomini di scienza gli attribuirebbero forse una dimora precisa, nel macrocosmo del nostro cranio, fra il cervello rettiliano e il limbico. Non sono, però, un uomo di scienza, e Angelanimal m’interessa in quanto artigiano. Il suo nome potrà apparire strano, ma ci basta poco per riconoscerlo nella sua semplicità. Si mette in azione nostro malgrado, per esempio, quando ci capita d’affacciarci nel vuoto da una postazione sicura, ma da una grande altezza. Qualcosa si annoda nella nostra pancia. Non pensieri, ma nervi. Non coscienza, ma istinto. Contemporaneamente ali di corvi neri squassano la testa, sogni-lampo che non riconosciamo nostri, fantasie di suicidio, irragionevoli ansie e terrificanti impulsi: basterebbe un piccolo salto, una corta interminabile apnea, e non saremmo più. Sono attimi fuggitivi, in genere non permettiamo loro di affiorare alla coscienza. Ma il nostro Angelanimal, in quegli attimi, si è svegliato. A teatro, quasi mai. Li chiamiamo “stati d’animo”. Potremmo anche dire “stati di corpo”. Tali stati primordiali d’anima-e-corpo sono essenziali per dare al teatro l’esperienza d’una esperienza. Senza di essi, lo spettacolo rimane per me un ricamo d’intelligenza disincarnata. Questi stati primordiali non costituiscono i più alti valori del teatro, sono il terreno da cui essi crescono e dal quale si distinguono. Se Angelanimal non si risveglia, lo spettacolo più sopraffino a me dà l’impressione di essere un bambino bello e intelligente dai piedi di sabbia. Può anche darsi che gli spettatori, nei loro apprezzamenti e nei loro ricordi, possano trascurare questi stati primordiali d’anima-e-corpo. Ma come artigiano non voglio ignorarli, quando penso non solo alla densità estetica ed alla finalità culturale dello spettacolo, ma anche alle fondamenta della sua natura organica. Riso, erotismo, spavento sono stati per secoli gli ingredienti elementari degli spettacoli teatrali, dei molti grossolani e beceri, ma anche dei pochi spiritualmente sottili. Oggi sembra che d’ingredienti elementari il teatro possa fare a meno, come un corpo idealizzato privo delle sue pudende. Come un corpo censurato dall’intelligenza o dall’intellighentsia. Sembra che il compito di risvegliare Angelanimal, la nostra ombra alata e la nostra ombra a quattro

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zampe, sia stato delegato ad altri spettacoli. Il teatro si è purificato. È diventato una nicchia disinfettata, intelligente e colta, anche quando mostra corpi nudi e simulazioni di coito. Mi domando: perché il teatro è ora solo intelligente? Perché solo colto? Un cervello di solo cortex è ancora un cervello o una pura mostruosità? La nostra ombra ha delle ali. Non sono molto presentabili, né decorose: hanno a che fare con l’animale. Mejerchol’d affermava che l’attore è un uccello che con un’ala sfiora il cielo e con l’altra la terra. A me il compito di ritrovare nel mio lavoro quello che voleva dire, e coniare le mie parole per spiegarmelo. L’artigianato del regista affonda per me le sue radici nella voglia di dare un sistema nervoso e un corpo-in-vita a una realtà impercettibile. Una delle funzioni di questo artigianato consiste anche nella capacità di individuare le differenti nature dello spettatore, nel saperle far dialogare, difendendole anche quando paiono di basso rango, garantendo la loro autonomia e la loro dignità. È facile reagire contro uno spettacolo che privilegia la volgarità. Più difficile ammettere che altrettanto inerte è uno spettacolo che vive soltanto per le alte quote dell’intelligenza e del piacere intellettuale. Diciamo “spettatore”e pensiamo ad una personalità unitaria. Non è così, lo spettatore è sempre plurale. Quando penso a me stesso come spettatore, debbo riconoscere la compresenza di molte voci parlanti all’unisono, alcune prevaricanti, altre per lo più tacitate, perché sepolte sotto i miei preconcetti culturali. Sono le più rozze, ma hanno anch’esse una loro saggezza. Uno spettacolo parla alla fantasia e all’intelligenza. Di qui il suo valore. È vero e non è vero. Dovrebbe parlare anche alla stupidità, allo stupore infantile, alla sensualità elementare che alletta l’istinto ed all’altrettanto elementare impulso ad affondare un’ala nel cielo, mentre l’altra, con le sue piume, disegna ignobili graffiti nella terra polverosa. È come se idealmente vi fossero quattro spettatori per ogni mio spettacolo. Devo convincere e sfamare ciascuno di essi. E li ho messi per iscritto tentando di distinguerli. Sono quattro personificazioni di diverse tendenze dei sensi e della coscienza: 1. il bambino che vede le azioni dell’attore alla lettera, e non si lascia sedurre dalle astrazioni, dai significati reconditi, dalle metafore e dalle innovazioni interpretative.;

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2. lo spettatore che capisce di non capire, che non condivide né la nostra lingua né i nostri codici, ma che a sua insaputa danza, se è contagiato dall’organicità delle azioni dell’attore, dalla sua presenza scenica, ovvero dal livello pre-espressivo dello spettacolo. Anche se non sa di che storia si tratti, si rende conto quando il lavoro “è fatto bene”, curato nei dettagli, e intuisce che vuol dire qualcosa, anche se lui non capisce che cosa dica; 3. lo spettatore alter ego del regista-drammaturgo e di ciascuno degli attori: capace di riconoscere in ogni particolare un frammento di storia richiamata in vita, e minuziosamente informato di tutti i contenuti dello spettacolo, del significato e delle associazioni suscitate dalle parole. Ritornando ogni sera, vede lo stesso spettacolo come se fosse nuovo, come se le situazioni ben note gli fossero ignote, gravide di domande impreviste ed enigmi inaspettati; 4. un quarto spettatore, muto, invisibile e onnisciente. Osserva quel che nessun occhio può vedere. Giudica l’impegno dell’attore nascosto nelle pieghe dello spettacolo. Ne penetra i segreti, come se ogni corpo fosse vetro limpido. Potrei aggiungere altri spettatori: lo spettatore cieco, al quale dovrei far vedere l’intero spettacolo tramite le orecchie. O lo spettatore sordo che deve poter udire con gli occhi. O uno dei cosiddetti “selvaggi” della tribù scoperta una cinquantina d’anni fa nella Nuova Guinea. Se assistesse a un mio spettacolo, dovrebbe essere convinto che quel che vede corrisponde alle azioni che anche lui compie con la sua gente, quando si raccolgono in una di quelle cerimonie incastonate in un tempo/spazio extra-quotidiano. Tutti questi spettatori popolano la mia fantasia artigianale, la guidano e la tengono d’occhio. Ma Angelanimal è diverso. A lui m’hanno obbligato a pensare le tre figure antiche e però ancora familiari ai nostri teatri: Hamlet, Faust e Don Giovanni. Negli ultimi anni, i casi mai casuali della professione m’hanno portato a confrontarmi con esse. Le avevo sempre evitate. Ora si vendicano e sorridono. Ma non mi dicono nulla. C’è stato un tempo in cui Angelanimal si svegliava davanti alle loro vicende, quando vedeva, fra le vaste ombre delle tombe, un monumento funebre annuire, parlare e accettar un invito a cena che s’affacciava sul pozzo dell’inferno. O quando sugli spalti d’un castello, contro un cielo gelido, immaginava sorgere un fantasma dalle acque del mare, un’anima senza pace, morta

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senza il tempo di pentirsi e ricevere l’assoluzione per i suoi peccati. O quando contemplava il modo in cui un vegliardo sapiente, chiusi i suoi libri sterminati, si pungeva le vene dei polsi per far sprizzare qualche goccia di sangue in cui intingere la penna e firmare il contratto per vendere l’anima ad un giovane diavolo garbato ed untuoso. L’inferno, la statua che si muove, il demonio e il fantasma, che accompagnano Don Giovanni, Faust e Hamlet, mettono in moto il nostro intelletto e si prestano a interpretazioni intelligenti e a fantasiose attualizzazioni. La modernità ha lasciato intatta la loro grandezza. L’ha solo castrata. Non fanno più paura. Parlo della paura primordiale, inintelligente, che sbatte contro un buio che non si lascia sfondare. Non atterriscono più l’animale che si nasconde nel fondo del mio cervello, né l’angelo che come un’ombra si libra negli spazi vuoti sopra o sotto di lui. C’è stato un tempo in cui le nozioni di peccato, di giudizio post mortem, di pene dell’inferno, di anime senza pace risvegliavano Angelanimal, e lasciavano che si agitasse nel fondo del cuore e dello stomaco degli spettatori, suscitandovi la trepidazione del pericolo, dell’oltraggio e della blasfemia. Oggi a tutto questo, fisicamente, non crede più nessuno, neppure coloro che spiritualmente vi credono. Non è un problema ideologico, filosofico o d’antropologia culturale. Per me è un dilemma artigianale. Immagino che Jean Genet pensasse a questi elementi primordiali dell’artigianato, quando disse, con parole che riassumo: Cominciate a costruire i teatri nei vostri cimiteri. Pensate a che cosa sarebbe uscire di notte da una rappresentazione del Don Giovanni di Mozart, fra i lumini e i silenzi delle tombe. C’è stato un tempo in cui Don Giovanni suscitava il riso e la ripugnanza, eccitava fantasie perverse e incuteva tremore quando un uomo di sasso lo spingeva nell’abisso riducendolo a un grumo di lercio dolore, dopo tanta ansia di gioia. L’Uomo di Sasso, poteva essere una statua grossolana o un attore ricoperto di biacca, ma in esso il potere giusto e onnisciente dell’intera cupola del Cielo sembrava implodere. Finto fuoco, finti tuoni, finta disperazione: ma Angelanimal riconosceva a che cosa accennasse quel cumulo di finzioni. Qualcosa si raggrinzava nei nervi. Un’ala nera scompigliava la sicurezza dei pensieri. Oggi quelle finzioni si sono rovesciate in preziose forme estetiche ed enunciazioni concettuali. Non credo al mistero della statua e neppure al diavolo. L’inferno è nel mondo che conosco, non nell’Aldilà. Non è affatto un mistero, è storia. I fantasmi non mi fanno paura, ne parlo spesso e sono utilissimi attrezzi metaforici.

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Mi piace immaginarli e non temo di incontrarli sulla mia strada.Non ci credo io e so che non ci credono i miei spettatori. Siamo troppo avveduti per lasciarci spaventare da questi ruderi suntuosi del passato. Il teatro del nostro tempo è diventato tanto intelligente e colto da impedire ad Angelanimal di risvegliarsi. Ma se faccio teatro, è per sfamare anche lui, Angelanimal, e lasciare libero passo al Disordine, all’irruzione di un’energia scompigliante nell’ordinato banchetto culturale. Forse, se per qualche breve momento, tutto lo spettacolo si incrinasse, perdesse l’equilibrio, le staffe e i lumi, allora Angelanimal troverebbe lo spazio per alzarsi sulle sue zampe e sgranchirsi le ali. Non faccio teatro per provocare gli spettatori. Desidero essere io provocato dal mio stesso lavoro, come il falegname Geppetto, il “padre” di Pinocchio, che sente il legno rispondergli e si sente scrutato da occhi che lui stesso ha intagliato. Per anni mi sono confrontato con storie e figure che mi ponevano domande per me essenziali e per le quali non avevo risposte. Potevo solo addentrarmi fra di esse, cercando di aprirmi un sentiero. Da qualche tempo vengo sospinto verso classici monumenti che ammiro ma che non mi minacciano. Pongo loro ossessivamente la domanda infantile, per me sostanziale, che mi ha accompagnato lungo tutta la mia esperienza teatrale: che cosa volete dirmi? Non vogliono dirmi proprio niente. Solo belle e intelligenti interpretazioni. Null’altro. Mi chiedo se Hamlet, Don Giovanni e Faust che ritrovo continuamente sul mio cammino professionale – e tante volte evitati – siano casi-limite, grandi letterarie rovine del teatro defunto, invulnerabili e incapaci di ferire. O se non siano invece l’incarnazione della conquista dell’inutile che è il teatro. La loro monumentale stabilità suggerisce un crollo. So che debbo costruire architetture, convenzioni e muri intorno a loro. Ed attendere con pazienza l’irruzione del Disordine, di una forza improvvisa che con una provvida scossa farà crollare le tre grandi figure, distorcendo le loro storie così spesso viste e previste, travisando la geografia in cui io e gli spettatori sappiamo orientarci. Ciò che crolla non pone domande. Siamo noi a porre domande su di noi, risvegliati alla nostra stupefatta paura. Angelanimal tace. È in attesa del Disordine.

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LETTERE DALLA MIA TERRA NOMADE

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VOI DATE, NOI DIAMO IN RISPOSTA*

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Holstebro, 4 febbraio 1973. Ai miei compagni attori de La casa del padre in tourné a Copenaghen In questi ultimi giorni ho pensato spesso a voi. Quando qualcosa di interessante sorgeva dal lavoro con i nuovi allievi, dicevo a me stesso: ah se voi foste qui per condividerlo con me. Quando il materiale grezzo rimaneva materiale grezzo, senza che nessun minerale prezioso luccicasse, allora sentivo la mancanza della vostra presenza – per appoggio e consiglio. Queste due reazioni non fanno giustizia né ai nuovi né a voi. Uno non deve rimanere fuori, vedere gli altri lavorare e limitarsi a colonna d’appoggio. Giustizia: voi date, noi diamo in risposta. Potreste pensare di venire a Holstebro e dire: questo è il mio lavoro quotidiano come attore. Io lo faccio perché… E dirlo come un attore: con tutto il suo corpo, agendo. I nuovi allievi che lavorano con me risponderanno: questo abbiamo pensato di fare, perché... e lo realizziamo in questo modo. Il vostro incontro vi porrebbe sullo stesso piano nel lavoro e attraverso il lavoro, dove tutti danno e nessuno è al difuori, perché non ci sono veterani e principianti. Se nuovo sangue deve scorrere nelle vene del nostro teatro, non deve essere qualcosa di indifferente che ancora non vi riguarda. Già in questo momento dovete sentirlo come qualcosa che dà nuova vita al nostro futuro e al lavoro comune.

* La prima lettera fu inviata da Eugenio Barba ai tutti i suoi attori, la seconda all’attrice Iben Nagel Rasmussen. Pubblicate per la prima volta in Il libro dell’Odin da Ferdinando Taviani, Feltrinelli, Milano, 1975.

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Eugenio Barba

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Quelli di voi che vogliono, che vengano quando possono. Noi lavoriamo dalle 7 di mattina alle 9 di sera, anche sabato e domenica. Venite per essere presenti, con tutti voi stessi: così mi alleno io, queste sono le mie esperienze, è con questo che mi batto adesso. E mostratelo attraverso quella che è la vostra lotta quotidiana che noi chiamiamo training. I nuovi risponderanno allo stesso modo. Forse la loro risposta già adesso vi darà qualcosa. Un saluto affettuoso a voi tutti Eugenio Barba

Holstebro, 22 febbraio 1973 Dal regista all’attrice Ho visto il tuo lavoro e quello di Jens sabato e domenica scorsi. Qualcosa di caldo è entrato nella sala nera. Il vostro lavoro incarnava qualcosa di vivo. Ho visto cosa significhi non rinunziare, andare avanti a tentoni senza trarsi indietro, battersi contro il muro compatto dell’inerzia, contro le obiettive difficoltà di tempo e di spazio durante la tournée, la sensazione di essere soli, la tentazione di lasciarsi andare alla tranquilla corrente del giorno fino alla cascata prestabilita – lo spettacolo serale – e dopo riprendere a scorrere dolcemente. Negli ultimi mesi ho visto come hai maturato artisticamente nei tuoi bisogni, nelle tue forze e nella tua generosità. Ascolto quando fai dei commenti, quando pensi ad alta voce il lavoro del futuro, e sono contento: sei diventata così indipendente che immagino che sia opera mia. Eugenio Barba

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L’UOMO DEL VENTO E DEI FULMINI*

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Ayacucho, 25 maggio 1998 Caro Jurek, tutti i posti possono essere una casa. Ora, la tua casa la immagino come un muro bianco su cui fissi lo sguardo, rintracciando i segni che alcune persone vi hanno lasciato, quelli che ti furono a lungo vicini e ti offrirono tutta la loro generosità, la loro capacità di agire e di darsi. Può anche darsi che il tuo sguardo miope e penetrante non si soffermi più su questi segni e scruti aldilà del muro bianco, aldilà della tua vita che, come un ruscello gelato, noi cerchiamo di fendere con una scure per bere ancora. Da quando ti conosco non ti ho mai visto in una casa. Sempre in stanzette grigie come quelle per i commessi viaggiatori, o simili a celle di rivoluzionari clandestini. Lì ti hanno raggiunto i riconoscimenti. Anche oggi, questo premio straordinario del Pegaso d’oro. E mentre molti di noi che ti amiamo siamo chiamati a parlare di te, tu ancora una volta non ci sei. Anche in questo momento sei solo, nella solitudine che sempre ti ha accompagnato. Un premio fa soprattutto bene a chi lo dà. È giusto e importante dare un segno di gratitudine e di ammirazione, Ma non mi illudo: adesso, per te, che pur apprezzi i riconoscimenti, tutto questo è meno che paglia. I tuoi pensieri e le tue energie sono dedicati a lasciare la tua casa in ordine, in modo che i tuoi eredi, quelli rinomati e quelli senza nome, seguano la tua eredità: la strada invisibile su cui non smettiamo mai di perderci e di essere condotti. La tua solitudine è sempre stata attiva, ha saputo scuotere un pugno di persone, le ha guidate e spinte a incidere il mondo che ti circondava e le circon-

* Lettera a Jerzy Grotowski in occasione del Premio Internazionale “Pegaso d’oro” conferitogli dalla Regione Toscana il 30 maggio 1998, otto mesi prima del suo decesso.

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dava. Molte volte, per quasi quarant’anni, da quando ci siamo incontrati ancora ventenni, mi sono chiesto che cosa tu mi stessi indicando. Spesso le tue orme diventavano confuse e si perdevano, ma era un perdersi che suggeriva oscuramente una direzione. La direzione è sempre stata la mia. Le orme sono tue. Lo sappiamo bene: hai agito, nel teatro, come quei cavalieri nomadi che trafiggevano con una sola freccia due cicogne nere. Sei stato l’uomo del vento e dei fulmini ed hai spalancato altre porte alla nostra professione. Attraversando quelle porte, il mestiere dell’attore veniva risucchiato violentemente in altre dimensioni, sradicato perfino dalla rappresentazione e dall’arte e proiettato in una nuova provincia di un paese spirituale perduto. Il rigore e la tenacia, tutto il sapere sottile che serve all’attore per essere efficace ai sensi e allo spirito dello spettatore, tu li hai trasmutati nella solitaria disciplina di lavoro dell’individuo su di sé, per scalarsi, montagna ed alpinista, vetta e baratro insieme. Adesso, dalle contrade del teatro che abito, la tua prossimità lontana mi appare come un airone bianco che vola in una notte di plenilunio. La superstizione dei numeri ci cattura. Ci sembra che il 2000 sia una soglia. Oltre quella soglia, forse, una parte del teatro sarà quel che tu, nella tua solitudine mai solitaria, ci hai indicato. Ha forse nome quel che sta oltre il teatro? Lo leggi, quel nome, accanto agli altri, sul muro bianco che è ora la tua casa? Se anche lo leggi, non l’hai nominato. Lasci che ne scopriamo il senso e il valore attraverso la necessità e l’azione che appartengono solo e irrevocabilmente ad ognuno di noi. E di questo ancora una volta, con amore, ti ringrazio Eugenio

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INSEGUIRE SE STESSI*

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Carpignano 20 luglio 2010 Cari fratellini Yuyachkani ormai anche voi avete costatato che il rigore, l’intelligenza e l’elasticità necessarie a un gruppo di teatro che non vuole morire giovane cambiano impercettibilmente il panorama che ci ingloba. Alcuni pensano che “impercettibilmente” voglia dire “insignificante”. Ma la storia indica il contrario: in maniera profonda, imprevedibile e sostanziale – come una radiazione. Dopo decadi di lavoro a contro corrente e dopo aver superato mille difficoltà e contraddizioni, dobbiamo ammettere che guardiamo la nostra società non da estranei ma da stranieri, anche quando è la terra in cui siamo nati. Questo atteggiamento da straniero, questo sguardo distante e impegnato è la libertà che ci siamo conquistati, la sfida con cui si manifesta il nostro modo d’essere politici. Alziamo allora le bandierine dei nostri compleanni e diamo la giusta visibilità al nostro modo di vivere il teatro come lunga elaborazione della Differenza. L’abbiamo capito, col tempo, ognuno a suo modo: essere differenti, cioè rifiutare il mondo che ci circonda, le sue norme e abitudini, non può essere solo un’idea. Se resta tale, diventa una routine fra le altre. Elaborare la propria differenza vuol dire trasformarla in una lunga marcia all’inseguimento di sé stessi. Inseguire sé stessi? Questa frase non dice niente. A meno che non la si prenda sul serio, traducendola nella lingua delle azioni fisiche. Evoca, allora, una lotta impossibile contro la consistenza delle biografie. Le biografie ci fanno credere che il nostro passato stia alle nostre spalle. Invece il nostro pas-

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Lettera al gruppo teatrale Yuyachkani, Lima, Perù, in occasione dei suoi 40 anni.

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sato è quel poco che abbiamo davanti e che riusciamo a vedere. Alle nostre spalle c’è quel che chiamiamo “futuro”, “fortuna” o “destino”: il tempo ignoto che ognuno chiama “me stesso”. Inseguire noi stessi vuol dire camminare all’indietro guardando avanti, tentando d’orientarci interpretando non le strade e i bivi che ci aspettano, ma la via che abbiamo già percorso. Non possiamo vedere gli inciampi che ci minacciano, né la meta – quale che sia. Sembra la descrizione d’una sapiente gag da clown. Ma è la materializzazione di quel pozzo senza fondo che si nasconde dietro il misterioso concetto di coerenza. Ripetiamo spesso questa parola, specialmente nei momenti di crisi. A volte la sbandieriamo davanti agli occhi nostri e degli altri, con enfasi da moralisti. Ma non possiamo padroneggiarla. Speriamo che sia lei a padroneggiarci. Così, mentre la vita del teatro si misura tradizionalmente per stagioni, noi misuriamo il nostro teatro per epoche: i primi dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta anni. Fermiamoci un momento a considerare la nostra stupefazione. Quando cominciammo non avremmo mai immaginato di festeggiare i diversi decennali dei nostri gruppi. Ma la nostra ostinazione ha costruito una base per resistere. Non l’abbiamo costruita col ferro e la pietra delle teorie e delle fedi. La nostra base è stata una passione insensata e la conoscenza conquistata e protetta da ognuno di noi per poter scavare un’arte effimera. Forse per caso, forse per amore o per forza. Dicono che il teatro sia l’arte dell’effimero. Ma il teatro per noi è la pratica del però. Arte che però si oppone all’effimero. Effimero che però si oppone all’arte. Senza requie, senza punti fermi: un continuo combattere le illusioni con le armi dell’illusione. Vi porgo i miei auguri, cari fratellini Yuyachkani, per i vostri quarant’anni. Attendo i vostri per gli imminenti cinquanta dell’Odin. Con un abbraccio Eugenio Barba

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GLI ORECCHINI DI PIRANDELLO*

Mi trovo qui per caso, di passaggio. Vi starò quanto men vi potrò stare. Non che m’annoi, tutt’altro! Anzi il viaggio m’ha divertito. Ma è pur forza andare. Dove andrò? Non lo so... Ahi, neppure questo! Ma poco importa: andrò dove che sia. Quel che più val è decidere presto; guardarsi attorno, e scegliersi una via. Facile a dire, scegliersi una via!

Sono alcuni versi della poesia di Pirandello La via. L’esergo che Pirandello ha messo prima dei suoi versi è: “Provar per ogni via come la nostra vita a caso sia”. La vita non ha altro scopo che mantenere se stessa e riprodursi. È compito nostro darle un senso. In questa capacità di dare un valore alla casualità risiede la grandezza dell’essere umano. Non credo che sia un caso se ora sono qui a ricevere questo premio, in una regione del Sud Italia, dove ritrovo i colori, gli odori, i sapori e i pregiudizi che costituiscono la mia identità. Né considero un caso la scelta operata dalla Commissione, che premia non solo me, ma Else Marie Laukvik, Torgeir Wethal, Iben Nagel Rasmussen, Tage Larsen, Ulrik Skeel, Roberta Carreri, Julia Varley, attori ed attrici che hanno fondato l’Odin Teatret assieme a me, e che vi lavorano da 30, 20 anni.

* Discorso di ringraziamento per il Premio Internazionale Pirandello, che consisteva in una statuetta d’oro dello scrittore italiano dal peso di 600 grammi ad opera dello scultore Emilio Greco. La cerimonia ebbe luogo a Palermo, Italia nel settembre 1997. Pubblicato in “Máscara”, n.. 23-25, Città del Messico1998.

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Immagino che la scelta di dare all’Odin Teatret questo premio abbia richiesto un certo coraggio alla giuria. Siamo un gruppo di uomini e di donne che non ha rinunciato alla sua stranezza ed ha realizzato una diversità culturale attraverso il teatro nella periferica cittadina di Holstebro. Rappresentiamo il teatro del margine. È a tutti i teatri del margine che avete dato il vostro segno di riconoscimento nel momento in cui l’avete dato all’Odin. I teatri del margine non sono teatri marginali. Tentano di difendere un margine, un vuoto che si lascia riempire da nostalgie e necessità personali. Lottano affinché le estetiche, le ideologie, le tecniche, le poetiche, le mode non lo invadano. Vogliono un rituale vuoto, non usurpato dalle dottrine. Il margine può essere scabroso, ma può anche essere una riserva d’aria per chi si sente soffocare; una riserva dove possano vivere valori minacciati e difficili da condividere; pulsioni di rivolta; animali che nessuna arca ha voluto salvare: centauri, basilischi, unicorni, dragoni, sirene. O quell’altro animale in via di estinzione nei nostri cuori, Dio. I teatri del margine hanno una lunga tradizione, nomi celebri come Stanislavskij, Mejerchol’d, Copeau, Brecht, Decroux, Beck e Malina, Grotowski e alcuni altri. A volte, il senso del margine si riverbera in testi drammatici; innanzi tutto i testi di Pirandello e di Beckett, di Genet, di Cechov, di Ibsen e Strindberg, e fors’anche dell’antipatico Claudel. Ma questi nomi sono solo la parte emersa dell’iceberg teatrale. La parte sommersa, il suo corpo più consistente, determina la presenza ed il modo di navigare di quest’isola del teatro separata dalle regioni centrali e ben riconosciute. La parte sommersa è composta di mille e mille volti anonimi, nelle mille regioni anonime del nostro pianeta. Sono loro che costituiscono la tradizione profonda dei teatri che tengono in vita il margine. Ai teatri del margine ed ai teatri anonimi e sommersi, e non solo all’Odin e me, va questo Pirandello dal volto d’oro. Lo voglio fondere. Lui, Luigi Pirandello, volle essere cremato, diventare cenere da mischiare alla terra di Caos, il suo villaggio. Non volle divenire una tomba. Ora, a distanza di sessant’anni, credo che sia appropriato fondere questa piccola e preziosa opera d’arte che lo pietrifica. Con questo oro farò fare tanti orecchini. Desidero regalarli a coloro che in Australia, in Africa, in Asia, in Europa e nelle Americhe, difendono il margine. Non è un caso: decine e decine di orecchini, affinché Pirandello bisbigli in nuove orecchie lontane i suggerimenti per perdere e trovare la propria via, fatta di azioni e di rifiuti.

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QUI NON SI PUÒ FARE NIENTE*

Holstebro, settembre 1994 Cara Nitis, tu sai quanto forte sia l’influsso dell’America Latina sul mio lavoro, quanto sia ispirante per definire a me stesso il senso del fare teatro. Quindi non c’è bisogno che ti dica le ragioni profonde che hanno reso per me cosí importante l’ISTA di Londrina. Già nelle precedenti sessioni, da quella iniziale a Bonn, nel 1980, alla settima di Brecon e Cardiff, in Gran Bretagna, nel 1992, la presenza di artisti e studiosi dell’America Latina è sempre stata forte. Ora è l’ISTA stessa che attraversa il mare. Sai anche che mi piacciono i contrasti. Immagino e in parte conosco quali siano state le difficoltà tue e dell’èquipe del Festival che tu guidi per realizzare un’ospitalità difficile come quella dell’ISTA. Ma quando visitai il luogo in cui saremmo rimasti a lavorare per una settimana, prima di venire a Londrina per il Simposio e lo spettacolo Theatrum Mundi, la mia sola obiezione – ricordi? – fu che il luogo era troppo bello e troppo comodo, la vostra accoglienza quasi troppo generosa. Per gli organizzatori che ospitano una sessione dell’ISTA è sempre un’impresa ardua trovare i denari necessari a radunare tanta gente, a pagare i viaggi ed i giusti compensi ai maestri che provengono dalle più lontane parti del

* Lettera a Nitis Jacon, regista del teatro Nucleo e direttrice del FILO, Festival Internazionale di Londrina, Brasile, organizzatrice dell’8a sessione dell’ISTA, International School of Theatre Anthropology, nel 1994. Pubblicata per la prima volta in “Máscara” n. 19-20, Città del Messico 1995.

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mondo. Alcuni, nei paesi “ricchi” come in quelli considerati “poveri”, ripetono sempre la stessa lamentela: non sarà possibile!”. Tu hai dimostrato che il problema principale non sta nelle circostanze economiche che permettono o agevolano la realizzazione di una propria necessità, ma nella motivazione e nella testardaggine con cui la si vuole, riuscendo a contagiare altri con il proprio sogno o delirio d’azione. Alcuni dei vecchi collaboratori europei, quelli che erano stati presenti all’ISTA fin dai primi anni, quando arrivarono alle colline vicino a Aguativa, dove lavorammo la prima settimana, mi guardarono meravigliati: abituati alla vita spartana che avevano condotto alle sessioni dell’ISTA di Bonn o di Volterra in Italia, venendo in Brasile si preparavano a chissà quali disagi. Si trovavano invece accolti in maniera che definirono “principesca”. Il solo argomento di discussione fra me ed i responsabili dell’ospitalità fu di sospendere alcune delle comodità del luogo, davvero eccessive per un lavoro come il nostro, che per nutrirsi ha bisogno di frugalità. Tu che sei anche regista sai che la frugalità non riguarda il contorno o il colore, ma l’essenziale. Occorre una regola di vita dura per giustificare il lusso di far teatro, che è innanzi tutto il lusso d’una forma particolarissima di libertà. Nelle sue prime sessioni, l’ISTA ha avuto un forte colore pedagogico, attori e registi lavoravano molto sulle tecniche di base insegnate dai diversi maestri di teatro asiatici ed occidentali; componevano “studi”; si esercitavano praticamente. Col tempo, questo aspetto direttamente pedagogico è entrato in ombra, sia perché le sessioni dell’ISTA non erano più lunghe come le prime (a Volterra, nel 1981, restammo due mesi); sia perché le esperienze acquisite attiravano l’interesse soprattutto verso una forma di pedagogia indiretta. Si costituivano le condizioni per una osservazione quasi al microscopio del lavoro di alcuni maestri, attraverso una sorta di vivisezione dei loro capolavori, e attraverso la partecipazione ad un processo creativo collettivo, per rendersi conto non delle tecniche, ma della “tecnica delle tecniche”. Ci concentrammo a reperire i criteri del processo creativo, quei principi che ricorrono sostanzialmente eguali nelle diverse tradizioni e nelle diverse scelte estetiche, e che studiamo nell’Antropologia Teatrale. Tu hai partecipato alla sessione dell’ISTA di Bologna, in Italia, nel luglio del 1990, e ricordi che lavoravamo tutti insieme per fare uno spettacolo collettivo, il Crossing, dedicavamo molto tempo alle analisi del lavoro dei maestri occidentali ed orientali, ma non vi era un tempo per l’apprendimento pratico, condiviso fra gente di teatro e gente intellettuale. L’ISTA di Londrina era l’ottava tappa di una tradizione di quasi 15 anni. Ed essendo la prima non europea mi costringeva a riflettere su come cambiare

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strada. Mi sono detto che occorreva conservare le posizioni raggiunte dall’ISTA, ma che, nello stesso tempo, sarebbe stato opportuno ricongiungerci con l’inizio, con l’idea dei primi anni. È possibile attraversare, in una sola settimana, una significativa esperienza di apprendimento pratico? Abbiamo visto che è possibile, purché si lavori nella prospettiva d’una scuola-laboratorio. Per scuola-laboratorio intendo un tempo/spazio privilegiato dove non si va per imparare, ma per imparare ad imparare. Dove ognuno è responsabile del modo in cui trasforma nella propria lingua e nella propria visione personale gli impulsi che riceve, le informazioni intellettuali e gli stimoli emotivi, la comprensione e soprattutto la sorpresa e la difficoltà a comprendere. L’ISTA è un’antiscuola, è soprattutto un contesto in cui c’è tutto il tempo necessario per non capire. Spesso le acquisizioni più importanti per il nostro mestiere e per il nostro sapere non sono quelle che abbiamo abbracciato con entusiasmo fin dall’inizio, ma quelle alle quali abbiamo a lungo resistito, che ci sono sembrate ostiche e oscure. Così abbiamo organizzato una parte della giornata come una serie di visite alle “case” di alcuni maestri. Ma visite dove non si andava solo per osservare con gli occhi e col cervello, ma per sperimentare con i propri sensi e la propria fatica, lavorando praticamente. Tutti i partecipanti hanno potuto assaggiare, nel giro di una settimana, le fondamenta del lavoro di Sanjukta Panigrahi, di Swasti Bandem, di Roberta Carreri, di Augusto Omolú, di Kanichi Hanayagi. Certo non hanno appreso nulla delle loro tecniche. Sarebbe deleterio se si illudessero, su basi così esigue, di poterle eseguire e ripetere. Nessuno con un bagaglio di lavoro di soli pochi giorni sarebbe così sciocco. Ma hanno certo sperimentato l’elasticità di altrettanti trampolini, da cui poter partire per compiere le proprie scelte, sviluppare il proprio autodidattismo. Si erano inoltre costituiti piccoli gruppi dedicati a ricerche pratiche e discussioni su alcune delle più significative antinomie dell’arte dello spettacolo (teatro/danza; improvvisazione/ripetizione; canto/parola). A queste esperienze per gruppi si alternavano momenti del lavoro un cui erano tutti riuniti, impegnati praticamente – come nel lavoro di prima mattina attorno alla voce con Julia Varley – o impegnati ad osservare la composizione dello spettacolo del Theatrum Mundi, che poi abbiamo rappresentato l’ultima sera, il 21 agosto, sul lago di Londrina. Si viene all’ISTA per scontrarsi con domande, con visioni che lentamente dovranno poi sedimentarsi e trasformarsi in scelte personali di lavoro. L’alternarsi dei lavori, i momenti di pausa, gli apici che richiedono fatica e quelli che ripagano con la contemplazione di alcune delle meraviglie del teatro del no-

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stro pianeta (questo sono i teatri classici asiatici: non solo serbatoi di preziosi segreti del mestiere), il modo, insomma, in cui è organizzata la giornata non è un semplice problema di organizzazione. Si tratta di realizzare, con le ore di un giorno e con i giorni di una settimana, una vera architettura del tempo, che impregni di domande e di stimoli i corpi-mente dei partecipanti. Vi sono immagini, suoni e sensazioni che sembrano racchiudere l’essenza stessa di questa situazione privilegiata che è l’ISTA. Quando penso alla nostra risento l’emozione condivisa con tutti i partecipanti quando nel grande campo di calcio vedevamo il sole sorgere da dietro le montagne accompagnato dai canti indiani di Raghunath o dalle invocazioni di Ory agli Orixá. I mille e mille ricordi illuminano la mia mente come i fuochi d’artificio che diventarono la cornice finale dell’indimenticabile Theatrum Mundi che Fernando Jacon fece possibile sul lago di Londrina. Tutto questo, Nitis, l’abbiamo realizzato assieme nell’agosto del 1994 con uno sparuto gruppo di collaboratori generosi e nei molti mesi (quasi tre anni) di preparazione. Quando ti dico che l’abbiamo realizzato assieme non intendo ripetere uno di quei brindisi di maniera che si fanno spesso dopo la buona conclusione di un’iniziativa. Ci siamo spesso scontrati. Tu difendevi le esigenze del tuo ambiente di lavoro, quelle che conoscevi come le attese e le necessità degli artisti di teatro brasiliani e latinamericani. Volevi per esempio che fra le tradizioni a cui l’ISTA era dedicata fosse presente anche una delle tradizioni performative vive in Brasile. Io difendevo la tradizione dell’ISTA, le sue esigenze, la sua continuità piena di svolte, il suo rifiuto di venire a patti con le esigenze esterne. Collaborare è aver voglia di lottare con lealtà e testardaggine: credo che questa sia una perifrasi della grave parola “amore”. Trent’anni di teatro me l’hanno insegnato e l’hanno insegnato ai miei compagni, soprattutto a coloro che sono con me da molto tempo, alcuni fin dall’inizio. La tua lealtà e la tua fierezza m’hanno costretto a guardarmi intorno, ed è così che ho incontrato Augusto Omolú, che con i suoi musicisti Ory Sacramento, Bira Monteiro e Jorge “Funk” Paim, è entrato a far parte della rete internazionale dell’ISTA, e con il quale spero di poter collaborare a lungo, non diversamente da come è avvenuto con Sanjukta Panigrahi o con Kanichi Hanayagi. Quando sono tornato in Europa, dopo Londrina, alcuni a cui raccontavo quel che avevamo fatto e il modo in cui s’era realizzato, mi dicevano: “Sì, laggiù è più facile di quanto sia qui da noi. Laggiù ci sono maggiori disponibilità per la cultura!”. Li osservavo ridendo. Non valeva la pena smentirli. In

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fondo tu ed io, a Londrina, abbiamo contribuito a sfatare un mito, il mito del “qui non si può fare niente”, che infetta tutti i paesi, di qua e di là dal mare. Nell’ascoltare coloro che credono scioccamente che le cose che si sono realizzate lo siano state perché erano più facili, provavo fierezza e – benché non sia brasiliano e latinamericano – quasi un sentimento d’orgoglio patriottico, che spesso è una pericolosa sciocchezza, ma che a volte, preso in piccole dosi, è un vero piacere. Un abbraccio ed un arrivederci. Ai tuoi compagni del Nucleo e a te auguro buon lavoro.

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CAVALIERI CON SPADE D’ACQUA

Hay cuatro caballeros con espadas de agua y está la noche oscura. Los cuatros espadas hieren el mundo de las rosas y os herirán el corazón. No bajèis al jardín! 1 Federico Garcia Lorca

“Se la storia degli altri diventa la tua storia, hai cominciato a comprendere il mondo”. Questa frase dell’anarchico italiano Enrico Malatesta condensa il senso del mio debito verso una minuscola schiera di uomini e donne che, all’inizio del Ventesimo secolo, cambiarono il corpo e l’anima del teatro del mio continente. I riformatori europei, con le loro parole di fuoco, le loro ferite e ossessioni, e con i loro spettacoli, diventarono i cavalieri di un’Apocalisse innovatrice che fece crollare paradigmi culturali ed estetici, modelli tecnici secolari, tutta la struttura estetica, pratica e culturale di un lavoro artistico che era tutt’uno con un’attività economica. Quest’ Apocalisse generò una nuova nascita, una pluralità di visioni, metodi, processi pedagogici e obiettivi artistici. Così, mentre la “tradizione” del teatro europeo finiva, la modernità si insediava con i fondatori di “piccole tradizioni”, intenti a scoprire, attraverso il teatro, le proprie necessità individuali e sociali. Un’ossessione comune unisce questi cavalieri tanto individualisti: trascendere il teatro e, negandolo, estrarre dalla propria pratica un valore inesplo-

* Discorso di ringraziamento per il titolo di Dottore honoris causa conferito dall’Università Nazionale di San Cristóbal de Huamanga, Ayacucho, (Perù), il 29 maggio 1998. Pubblicato per la prima volta in Arar el cielo a cura di Lluís Masgrau, Fondo Editorial Casa de las Américas, L’Avana 2002. 1 “Ci sono quattro cavalieri / con le spade d’acqua / e c’è la notte oscura. / Le quattro spade feriscono / il mondo delle rose / e vi feriranno il cuore. / Non scendete in giardino!” Federico Garcia Lorca dalla suite Surtidores (Zampilli).

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rato e ineludibile. Edward Gordon Craig, Konstantin Sergievič Stanislavskij, Vsevolod Emilevič Mejerchol’d, Jacques Copeau, Antonin Artaud e Bertolt Brecht erano cavalieri che brandivano spade d’acqua per ferire i cuori. Dettero un nuovo valore alla parte sommersa dell’iceberg teatrale, a ciò che nella loro cultura europea restava nascosto. Integrarono nel loro lavoro la memoria delle rappresentazioni popolari e delle cerimonie religiose. Questa scoperta non fu soltanto infraculturale, non fece leva, cioè, unicamente sulla zona dimenticata della propria cultura. Fu anche interculturale: un atteggiamento di curiosità e rispetto professionale verso altre tradizioni che fino a quel momento erano state viste come fenomeni esotici o di interesse etnologico. Ho ricordato alcune delle ragioni che mi fanno considerare i riformatori come miei antenati. Voglio mantenere in vita la loro eredità di rivolta, dissidenza e ostinazione solitaria, e sono cosciente che intorno a me altri sono spinti da simili impulsi, che realizzano in modi differenti nei loro diversi campi d’azione. Come per i miei antenati, anche per me il contatto con altre culture è stato fonte di nuove energie. Quando osservo il mio lungo cammino professionale, devo riconoscere quanto sia stato importante condividere progetti, nostalgie, controversie e vincoli affettivi con uomini e donne dei teatri dell’America Latina. Ho visitato per la prima volta l’America Latina nel 1973, in maniera anonima, in un viaggio di due mesi che mi ha condotto dalla Bolivia al Messico. Negli autobus e nei treni, nelle capitali e nei paesini dimenticati, il mio stato d’animo oscillava tra lo stupore e la paura, tra lo smarrimento e una forma di commiserazione di cui mi vergognavo. Le mille facce di una realtà folgorante di contrasti mi confondevano come un mistero straordinario e affascinante. Tuttavia avevo la sensazione di seguire orme in parte conosciute. Forse perché sono cresciuto in un umile e povero paese del Sud Italia, pregno di cattolicesimo barocco e vestigia della dominazione spagnola. Nelle esperienze di quel viaggio solitario e insicuro, piantò le sue radici lo spettacolo Vieni! E il giorno sarà nostro che intreccia l’incertezza e l’intransigenza degli emigranti europei, indigenti o perseguitati, all’incertezza e all’intransigenza delle popolazioni indigene del continente americano. Fu con questo spettacolo che l’Odin Teatret venne per la prima volta in America Latina, al Festival di Caracas nel 1976. Vissi ancora una volta l’esperienza dello stupore e del disorientamento dinanzi alla varietà e alla profusione dei gruppi teatrali latino-americani. La mia geografia professionale fu scossa da un terremoto. Non era una conoscenza astratta, ma il calore e il piacere di nuove amicizie, voci e temperamenti da me lontani, eppure animati da tensioni vicine alle mie. Erano i miei primi e leali amici di questo continente, il Libre

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Teatro Libre di Córdoba, il Cleta del Messico, la Candelaria di Bogotá, Contradanza di Caracas, il Teatro Libre di Salvador. L’apice di questa sensazione fraterna lo vissi con Mario Delgado e i suoi attori Lucho Ramírez, Ricardo Santillana, Malco Oliveros e Carlos Cuevas. Costituivano il teatro Cuatrotablas di Lima, un gruppo che ha significato molto nella vita dell’Odin Teatret e nella mia relazione con l’America Latina. Passarono pochi mesi, e alcuni dei miei nuovi amici condivisero con me un incontro che organizzai per conto dell’UNESCO al Festival BITEF di Belgrado, nel quale presentai la visione di un Terzo Teatro. Usai questa formulazione lasciandomi guidare da precise associazioni di pensiero: il Terzo Stato della rivoluzione francese; la discriminazione verso il Terzo Sesso – e ovviamente il Terzo Mondo. Ma l’impatto decisivo proveniva dalla conoscenza della realtà latino-americana. Là avevo incontrato un teatro agitato da passioni equivalenti alle mie, e a quelle dei riformatori europei, fondatori solitari di piccole tradizioni. Mi ero confrontato con un mestiere in cui il senso di responsibilità sociale era anche ricerca individuale, una pratica artistica che si allontanava tanto dalla cultura teatrale in auge nella parte ricca del pianeta, come dalle sue manifestazioni sperimentali. Il Terzo Teatro era la manifestazione concreta, in varie parti del mondo, di una sete di dignità e valori. I gruppi teatrali continuarono a riunirsi, prima a Bergamo (Italia) nel 1977 e poi a Ayacucho (Perú), nel 1978. Mario Delgado e i suoi compagni del teatro Cuatrotablas furono gli organizzatori temerari del Primo Incontro del teatro di gruppo in America Latina. Invitato da loro, l’Odin Teatret arrivò a Ayacucho, in questa città che col tempo è divenuta parte della nostra patria ideale. L’incontro fu una pietra miliare, scosso da sorprese, dispute, passioni, rifiuti e amicizie. Si era allora in una fase particolare nella storia del vostro continente. La politica repressiva, le dittature, la guerriglia erano parte della vostra vita quotidiana. Esattamente nelle stesse date, in questa università di Ayacucho, vedeva la luce il Sendero Luminoso, un movimento armato contro lo Stato. L’orrore della realtà e della storia intorno a noi sbalordirono molta gente di teatro, facendoli dubitare che l’attore fosse un cavaliere che ferisce i cuori con una spada di acqua. Pensarono a forgiare queste spade con frasi rivoluzionarie e slogan politici, non con la fiamma di una motivazione intima, con azioni coerenti a un mestiere che è una forma d’arte e di vita, continuità ed esempio. Una passione che si immerge nella monotonia del lavoro e che, perdurando negli anni, si trasfigura divenendo tradizione ed eredità. L’incontro del Terzo Teatro a Ayacucho mi obbligò a riflettere. La lunga esperienza dell’Odin Teatret, un gruppo di esclusi autodidatti che avevano conquistato un’autonomia artistica e tecnica fuori dal sistema teatrale europeo,

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era bollata da alcuni teatranti latino-americani come “formalismo” o “imperialismo culturale”. Io parlavo di apprendimento, di precisione tecnica, dell’ethos dell’attore, e mi rispondevano con discorsi politici rivoluzionari. Tutta la biografia dell’ Odin veniva allora schiacciata in una categoria a due dimensioni: un’ estetica di “gringos”, di europei ricchi. L’impegno professionale del nostro gruppo di emigranti senza radici nazionali, la nostra “dissidenza” che avevamo definito “laboratorio”, era interpretato come il privilegio di chi vive in una nazione che può permettersi il lusso di finanziare laboratori teatrali. Ad Ayacucho ho intuito l’esigenza di un’altra lingua che trascendesse il modo di esprimere la mia esperienza per entrare professionalmente in contatto con gli altri. Sentii la necessità di un altro linguaggio per avvicinarmi ai gruppi latino-americani, per dialogare con i loro attori e registi senza insabbiarci nelle estetiche personali e negli alibi e pregiudizi che chiamiamo identità culturale. È qui, tra le montagne storiche che circondano questa vostra città, che le mie prime riflessioni sull’antropologia teatrale affondarono le loro radici. Tutti abbiamo bisogno di radici. Soprattutto noi dell’ Odin, che non abbiamo una patria comune e visitiamo senza sosta luoghi e situazioni differenti. È importante non essere schiavi di questo “mestiere del viaggio”, è necessario negarlo trasformandolo nel paradosso di un transito che pone radici. Ayacucho è una di queste radici. Perché quando parlo di radici, mi riferisco a persone ben precise, a relazioni che si prolungano nel tempo e s’intrecciano con nuove relazioni, a incontri recenti. Alcuni hanno radici in una terra, altri in cielo, in valori incarnati nella coerenza di individui che ciascuno di noi ha scelto come i suoi totem, i suoi penati, i suoi fratelli maggiori. Non parlo di categorie astratte, bensì di esempi concreti. Quello di Jerzy Grotowski, quello di Atahualpa del Cioppo. La mia biografia e gli eventi della Storia si mescolano e interagiscono, forgiano una bussola emotiva, un nucleo di valori vitali per me, le mie radici. Ogni teatro è radicato in molti contesti, e sono questi a decidere della loro carica sovversiva, dell’incisività o della frivolezza dei suoi risultati. Il luogo dove lavora un gruppo assume connotazioni politiche. Il senso è differente se la sua attività si svilupppa in uno storico teatro di una capitale opure nel capannone di un paesino isolato. La stessa rappresentazione acquista meriti opposti se si presenta qui, nella piazza del quartiere di San Juan Bautista o nell’edificio moderno del Festival di Berlino. Mi ha sempre accompagnato il ricordo di una rappresentazione di Aspettando Godot nel 1968 in Bolivia, un anno dopo l’uccisione di Che Guevara. Questo testo “assurdo”, visto sullo sfondo degli eventi circostanti, ravvivava un’attesa tanto esplosiva che la rappresentazione fu subito proibita.

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Però, oltre ai contesti sociali e oltre a una biografia personale, tutti gli attori hanno qualcosa in comune: un corpo e una voce animati da processi mentali. L’attore disciplina la propria presenza somatica e i propri processi psichici, crea azioni dinamiche e le modella in forme dense di informazioni per trascinare gli spettatori in un percorso sensoriale e narrativo. L’attore dirige un flusso di energie che fanno vibrare i nessi che legano ogni spettatore alla propria comunità, e che evocano ugualmente esperienze individuali, ferite, umiliazioni. Lo spettacolo-in-vita irradia la capacità di parlare alla memoria e ai sensi di ogni spettatore e sussurrargli qualcosa di intimo. Questa capacità è uno dei compiti dell’attore, da essa dipende l’efficacia delle sue azioni. Presuppone una competenza tecnica. Come essere efficace nei confronti degli spettatori è un problema che accomuna tutti gli attori aldilà delle differenze politiche e estetiche o di genere spettacolare. L’antropologia teatrale studia i principi che permettono di sviluppare individualmente quest’efficacia. Studia il livello primario dell’arte dell’attore, quello della presenza scenica. È il grado tecnico elementare, che può essere analizzato in maniera sperimentale e oggettiva. Permette un dialogo stimolante e fecondo a prescindere dalle diverse inclinazioni personali e dai differenti contesti degli interlocutori. Oggi, dopo vent’anni, l’antropologia teatrale ha dimostrato di poter essere uno strumento utile sia per il principiante che per l’esperto di teatro. Essa è oggetto di sessioni d’incontro e di indagine attraverso l’ISTA, l’International School of Theatre Anthropology, ed è una disciplina accettata e applicata nei teatri e nelle università. Vorrei sottolineare ancora una volta che fu ad Ayacucho che cominciò il lungo percorso che mi ha condotto fino ad essa. Sono orgoglioso del riconoscimento che l’Università Nazionale di San Cristobal di Huamanga mi conferisce e che, in realtà, premia tutti i membri dell’Odin Teatret che voi vedete seduti intorno a me. Insieme siamo riusciti a superare la nostra inferiorità d’autodidatti e d’emigranti. Insieme abbiamo trasformato questa esclusione in un artigianato nutrito dalla caparbietà. Insieme abbiamo tutelato la nostra piccola tradizione che ha antenati ed eredi ribelli. Non abbiamo mai nutrito la speranza di cambiare l’intera società. Ma non ci siamo mai disperati. Siamo stati sempre coscienti del fatto che un buono spettacolo non migliora il mondo e che uno cattivo lo peggiora. Il nostro lavoro si dirige al popolo innumerevole dei morti che ci guardano con accettazione o con rifiuto. Sappiamo che i nostri spettatori più preziosi non sono ancora nati. Ringrazio questa Università soprattutto perché il tributo di oggi ricompensa tutta una cultura teatrale, quella dei teatri di gruppo: la nostra cultura, cari amici latino-americani qui presenti e che mi avete accompagnato lungo il

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mio cammino. Sento una profonda emozione. In occasione di festeggiamenti e celebrazioni, sembra che non restino più nemici. È bello non avere avversari. Però ogni giorno, quando mi guardo allo specchio, vedo il mio peggior nemico. Io vorrei che tutti noi pensassimo a Ayacucho quando ci assaliranno lo sconforto, l’indifferenza e l’uniformità del quotidiano, quando una voce in noi sussurrerà “non ha più senso”. Che questo momento di prossimità fraterna e orgoglio delle nostre differenze riviva nei nostri sensi quando i conflitti e le tensioni logorano l’amicizia, la lealtà, la fiducia e devastano quello che un gruppo ha costruito con anni di sacrifici. L’Odin conosce bene queste crisi. Senza dubbio il ricordo di voi ci ha sempre sostenuto, amici latino-americani, il ricordo della vostra allegria e tenacità nelle dure condizioni nelle quali agite, il ricordo del vostro impegno che salvaguardate tra le vostre braccia come un bambino vulnerabile. Vorrei che Iben Nagel Rasmussen, attrice dell’Odin sin dalle sue origini, terminasse con una canzone. Proviene da uno spettacolo che lei ha creato assieme a César Brie, un attore argentino che ha lavorato nell’Odin. È una canzone sul dolore dell’esilio e il sogno di ritornare in patria. Ma noi sappiamo che la nostra vera patria ha radici nel cielo e che le uniche stelle a guidarci nell’oscurità di questo mondo sono i nostri valori. Il canto di Iben: Cuando te veo entre flores con tus campos y tus montañas son tan grandes tus llanuras y tan nevadas tus montañas. Eres un ramo de flores que mi corazón perfuma. Oye mi voz, oye mi voz tierra mía, que en sueños vengo a verte porque no puedo de veras. Eres un ramo de flores, tierra mia*.

* Quando ti vedo trai fiori / con i tuoi campi e le tue montagne / son così grandi le tue pianure / e così innevate le tue montagne. / Sei un ramo in fiore / che profuma il mio cuore. / Ascolta la mia voce / ascolta la mia voce / terra mia, perché in sogno vengo a vederti, / perché nella realtà non posso. /Sei un ramo in fiore / terra mia.

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GRAFFIARE I MURI*

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Holstebro, 20 novembre 2009 Cari amici di Koreja, all’ombra di un ulivo, un vecchia signora racconta del valore, della fama e del futuro: “In riva la mare, un anello e il suo brillante cadono nella sabbia. Più ci affanniamo a frugare per trovarli, più li perdiamo. Bastano pochi minuti e spariscono per sempre nella notte dei tempi. Nessuno ne saprà più niente nei secoli dei secoli”. Scuote il capo e prosegue: “Invece un foglietto di carta invecchiata e macchiata d’inchiostro o il francobollo da pochi centesimi, rimasto incollato per anni ad una cartolina dimenticata, col tempo restano unici e soli, diventano una rarità. Venduti agli amatori, solo perché si sono conservati a lungo, oggi valgono un tesoro. Chi può predire quel che varrà e quel che no?”. Ascoltiamo ridacchiando. Predica contro i prezzi, l’insicurezza e la paura di restar piccini? Oppure vuole spiegare che il valore delle nostre azioni non appartiene al presente, ma è solo un’incrostazione lasciata dal tempo? Nessuno di noi, malgrado i giusti sforzi e le savie precauzioni, sa quale graffio di sé incida l’attualità. Ne resterà un’infima cicatrice nell’Arte e nella Memoria? Dipende. E neppure da che cosa dipenda sappiamo. Dalla bellezza? Da ciò che gli artigiani chiamano la “buona qualità”? Dall’impegno civile? Dal rifiuto dello spirito del tempo? Po Chu-i scrisse versi bellissimi. Ne scrisse anche di sciatti. Una sua canzonaccia venne spesso cantata nelle osterie. Un ubriaco, andandosene la mattina, graffiò gli ideogrammi della canzone sul muro all’entrata d’una locanda, perché i compagni bevitori prima d’entrare potessero rinfrescarsi la memoria. Presto nessuno lesse più la goffa canzone. Fu ricoperta dal muschio e dalle cacche degli uccelli. Finché passò di lì Yuan Che e riconobbe gli indizi dei *

Lettera al Teatro Koreja di Lecce, Italia, in occasione dei suoi vent’anni di attività.

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Eugenio Barba

versi. Si sporcò il mantello ricamato per pulire la parete. Ma dopo tanta fatica e tanta abnegazione i versi non li ricopiò. Raccontò il caso in una lettera a Po Chu-i. E il poeta scrisse altri versi per raccontarlo. Cari amici di Koreja, continuate a darvi da fare, a imbrattare i muri invisibili del teatro con scritte sublimi e goffe e a ripulire quelle semiscomparse. L’essenziale è che la vostra opera di nettezza e i vostri graffi scaturiscano da una necessità che è solo vostra. Graffi? Quali resteranno? Quali no? Che cosa serve per farli restare? La fortuna? E di che cosa è fatta, la fortuna? Da un ubriaco. Da un muro. Dai ricami e dal mantello. Dai versi casualmente spariti. E da quelli casualmente sopravissuti. Da un’epoca futura che non osiamo immaginare. Con grande affetto Eugenio Barba

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VIVERE CON IMPRUDENZA*

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Holstebro, novembre 2009 Congratulazioni per le vostre due decadi, Roxana y Joel, cari fratelli dell’Estudio Teatral de Santa Clara. Ormai non siete più dei giovani che promettono, ingenui e sognatori. Con orgoglio vedo le vostre ali robuste e quanto alto sia il vostro volo. Però non dimenticate, come non lo facciamo mai noi dell’Odin Teatret, che appena poggiate i piedi a terra le trappole stanno lì ad aspettarvi. Mi sento vicino a voi perché ho l’impressione – benché non ne abbiamo mai parlato – che condividiamo la stessa fede: che il teatro non può fare a meno di essere politico. Questo non vuol dire parlare di politica, ma avere una politica, una visione di come sia il mondo e di come, invece, lo vorremmo. Due mondi. E tra di loro una grande distanza che immagino come un deserto nel quale fioriscono i teschi e le ossa che la Storia ci ha lasciato. Più grande è la distanza fra i due diversi mondi, più essa rischia di degenerare, per ciascuno di noi, in un senso d’impotenza che col tempo si esprime in un’indignazione inerme e finisce col tradire – non i compagni e noi stessi – ma la nostra giovinezza. Avviene nel momento in cui ci diciamo: “Erano tutte chimere. Abbiamo diritto a essere stanchi”. Invece si può cavalcare chimere tutta la vita senza mai vincere, ma senza essere sconfitti. La posta in gioco, infatti, non è cambiare il mondo, ma vivervi degnamente. Quel che decide, più ancora delle circostanze, è se siamo in grado di usare strumenti appropriati. Il contravveleno per combattere la tendenza ad accontentarsi ha molti nomi. Oggi userò quello più generico di “poesia”. Può sembrare un termine patetico e abusato. Ma ho in mente alcune frasi di García Lorca quando spiegò * Lettera a Roxana Pineda y Joel Saéz in occasione dei vent’anni di attività del loro Estudio Teatral de Santa Clara, Cuba.

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Eugenio Barba

con parole semplici che cosa fosse la poesia di Neruda – o meglio: che cosa non fosse. Disse che a Pablo Neruda mancavano i due elementi dei quali molti “falsi poeti” si sono nutriti. Nominò l’odio e l’ironia. Poi rappresentò Neruda come uno di quegli artisti che sui palcoscenici o nell’angolo d’una piazza ci incantano con i loro prodigi, e lo ammantò con un simbolo potente. Disse: “Quando Neruda intende colpire e solleva la spada, si ritrova subito una colomba ferita fra le dita”. Era l’ottobre del 1934, all’Università di Madrid. Non passeranno due anni, e García Lorca sarà lui stesso una colomba assassinata. Fin dal primo giorno, il vostro gruppo ha agito secondo un’economia politica che non si basa sul risparmio e la cautela, ma sull’eccesso di un’attività che travalica il limiti del teatro come genere estetico. Anche questa credenza condividiamo: che il teatro può essere usato come cultura attiva, come moneta di scambio per dar risalto alla diversità. Tutti gli impegni che leggo nel vostro programma di lavoro sembrano un eccesso di delirio visionario e furore operativo, e forse sono imprudenti. Non posso fare a meno di chiamarli “poesia”. Quando García Lorca terminò la sua breve presentazione di Pablo Neruda, si rivolse direttamente ai propri ascoltatori ricordando che c’è una luce nascosta nei poeti. È importante percepirla per nutrire quel grano di follia che ognuno porta dentro di sé, e senza il quale è imprudente vivere. Disse proprio così: imprudente. Cari Roxana e Joel, vi auguro molti anni di volo, ringraziandovi per ogni volta che avete generosamente accolto nel vostro Estudio Teatral a me e ai ai miei compagni dell’Odin Teatret. Insieme, ognuno dalla sua riva, spero che i nostri gruppi continueranno a bagnarsi nel fiume della Storia, con imprudenza. Un abbraccio Eugenio Barba

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SEPARARE IL TEATRO DALLA SUA SEPARATEZZA*

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Holstebro, 7 ottobre 2009 Cara Annet, sono i problemi da risolvere che ti attraggono, più ancora delle storie da raccontare. Permettimi di ricordarti un episodio del Libro delle svolte di Bertolt Brecht. Ai suoi allievi più esperti, un giorno il maestro sottopose un problema geometrico praticamente insolubile: dovevano calcolare l’area di una superficie dai contorni irregolari, tutti punte, spigoli e insenature. Gli allievi adottarono la strategia giusta: suddivisero la figura irregolare in tante piccole figure geometriche semplici. Di ognuna di esse – triangoli, rettangoli, trapezi – misurarono l’area, poi sommarono i risultati. Ma il maestro aveva delineato la figura di partenza in maniera furba: sempre rimaneva un angolino che non si lasciava ridurre alla regolarità. “Sembra una figura viva, che si ribella sotto le nostre dita”, dicevano gli allievi affaticati. Effettivamente aveva il disordine e l’imprevedibilità della vita. Uno degli allievi, un outsider fra quegli studenti esperti, non si sgomentò. Invece di regoli, matite e compassi, prese con sé un paio di forbici ed un bilancino da orefice. Ritagliò la figura frastagliata disegnata dal maestro. Su carta dello stesso tipo tracciò un triangolo regolare. Ritagliò anche quello. Posò sui due piatti del bilancino i due pezzetti di carta, e ridusse le dimensioni del triangolo regolare fino a che questo non pesò quanto la carta della figura di partenza. Allora calcolò l’area del triangolo e trovò la soluzione. I compagni protestarono che aveva barato: pesare pezzettini di carta non è geometria. Ma il maestro lo elogiò: “Lui solo – disse – ha affrontato il problema come un vero problema. Voi avete pensato solo alla geometria”. *

Lettera ad Annet Henneman del Teatro di Nascosto, Volterra

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Eugenio Barba

Tu, Annet, attrice e regista olandese che lavori in Italia, hai incontrato e scelto vittime di ingiustizie, di diritti umani violati, di paesi in guerra. Hai deciso di farci vedere di che si tratta. Come lo studente outsider che ha pesato le misure, tu hai separato il teatro dalla sua separatezza. Hai tracciato confini irregolari senza preoccuparti delle proteste dell’arte. Molti non hanno riconosciuto quel che facevi. Hai saputo resistere e continui a farlo per non essere sopraffatta dall’indifferenza e dall’irriconoscibilità. L’intelligenza nell’arte del resistere è stata la tua dote principale, più ancora della tua tecnica artistica. Per questo ti sono grato. Con un forte abbraccio

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Eugenio Barba

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IL GIURAMENTO DI ATAHUALPA LETTERA A UN FRATELLO PERUVIANO*

Carpignano, luglio 1998 Caro Mario, per molti anni, nei miei pensieri, è risuonata la parola “etica”: etica dell’attore, un teatro con una sua etica. Negli ultimi tempi, però, ho difficoltà a pronunciarla e mi domando cosa si nasconda dietro questa parola. Indica ció che sognamo di essere o ciò che siamo? È un comodo alibi? Un pretenzioso complesso di superiorità? Due fratelli si incontrano in prigione. L’uno, Dmitrij, è accusato di parricidio. L’altro, Aleksej, lo va a visitare il giorno prima del processo. È pomeriggio avanzato, quasi sera. Il romanzo di Karamazov sta per finire. L’etica. Cos’è l’etica? – domanda Dmitrij al fratello. Alekseij, resta interdetto. Dmitrij l’incalza: È una scienza? Alekseij tenta una risposta: Sì, è una scienza... senonché... io, ti confesso, non son capace di spiegarti che scienza sia. Non siamo capaci di spiegarlo. Eppure è come una scienza. Ma personale, muta, con principi che per ognuno dovrebbero essere certi come due e due fan quattro e che ci sono chiari solo nel momento dell’azione, quando si tratta di prendere posizione nei confronti delle persone e delle circostanze. Principi che non si coagulano in comandamenti astratti, e che solo l’esempio rende evidenti. Allora, non sarebbe meglio parlare, invece di etica, di valori personali, di dignità?

* Lettera aperta a Mario Delgado, regista del gruppo Cuatrotablas di Lima e organizzatore di un incontro di teatri di gruppo ogni dieci anni ad Ayacucho, sulle Ande peruviane. Pubblicata per la prima volta in “Conjunto” n. 111, L’Avana 1998.

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Eugenio Barba

Domande e pensieri simili mi si agitavano in capo quando pensavo di scriverti dopo il Reencuentro Ayacucho ’98, con l’amaro in bocca e con le unghie e i denti di un ozelòt nella pancia. Per me e per i miei compagni dell’Odin, Ayacucho è diventato uno dei pezzi di quella patria spirituale che ci portiamo dietro e che a volte chiamiamo la nostra storia, ed a volte la nostra identità. Siamo stati per la prima volta ad Ayacucho nel 1978. Tu ci portasti lassù, su quelle Ande, per il primo incontro dei teatri di gruppo latinoamericani. Dieci anni dopo, abbiamo celebrato insieme quella data, ma Ayacucho non potette ospitarci. Stava al centro d’una guerra civile in cui trionfava da ogni parte la ferocia e l’ingiustizia. Sfidando il rischio, l’Odin vi ritornò da solo per una breve incursione teatrale. Ora vi siamo ritornati in forze: molti gruppi, molti osservatori affluiti da ogni parte del mondo, migliaia di spettatori. Verrebbe voglia di essere allegri e ottimisti. Eppure questa sarà una lettera sgradevole. Come sono sempre sgradevoli e puntigliosi i discorsi che abbandonano i grandi temi e le grandi speranze per chinarsi sulla inesorabile concretezza dei dettagli. * Nulla di più bello che ritornare ad Ayacucho vent’anni dopo, riuniti nello spirito di Atahualpa del Cioppo, non in nome della nostalgia e delle imprese passate, ma per osservare che cosa siano divenuti quei semi lanciati in un terreno che pareva roccioso e battuto dalle intemperie della storia. Sono fioriti. Si sono sviluppati in uomini e donne diversi da ciò che immaginavamo, che non sembrano appartenerci. Nei quali ci identifichiamo, scoprendo in loro le voci diverse e contrastanti del nostro futuro. Quando ci incontrammo per la prima volta, a Caracas, nel 1976, da una parte noi dell’Odin Teatret, dall’altra te e i tuoi attori del Cuatrotablas, appena arrivati da Lima, fu l’inizio di una di quelle storie d’amore che caratterizzano la storia sotterranea dei teatri del nostro secolo. Storie d’amore che si svolgono a distanza, come è stata quella fra me e Grotowski, alimentate da intensi incontri e da indissolubili passioni e interessi. È stato bello averti accanto nelle grandi battaglie del teatro di gruppo, a Belgrado nel 1976, a Bergamo nel ’77, quando lo slogan del Terzo Teatro era ancora, per me, un tentativo di riconoscermi. Evocava un terzo mondo con tradizioni proprie, reali o sognate, schernito dal lusso mediocre del primo e secondo mondo del teatro, eppure col segno della dignità e del valore, con la consapevolezza dell’umile sacralità del lavoro, che caratterizza il destino di ogni artista, indipendentemente dall’apprezzamento circostante. Questo era ed è per me il Terzo Teatro: l’essere povero di mezzi materiali, ma consapevole della ricchezza degli esempi del pas-

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sato, teso alla ricerca dei propri valori, libero da quelli imposti dall’esterno. Soprattutto ammiravo, nel Terzo Teatro, nei gruppi degli anni Settanta, la vitalitá selvaggia, ostinata e anonima, che vedevo come una fonte di nuove piccole tradizioni. Quando nel ’78 tu e i tuoi compagni del Cuatrotablas, letteralmente un pugno di persone, organizzaste l’incontro di Ayacucho, non so cosa ammirassi di più, se la vostra temerarietà o la vostra generosità. Invitaste l’Odin nel 1978, in un tempo in cui in America Latina molti teatri si alimentavano di contenuti politici che sembravano giustificare la facilitá delle soluzioni del mestiere. Con la tua tenacia, ripetesti quest’incontro nel 1988, a Huampaní, dedicandolo a Jerzy Grotowski. I Cuatrotablas non erano piú soli a dirigere l’impresa, che ora era capitanata da voi e da altri gruppi teatrali peruviani. Questi facevano un teatro molto diverso dal tuo; le vostre visioni estetiche e la vostra concorrenza avrebbero dovuto allontanarvi, eppure vi uniste in un’alleanza solidale. Rinnovasti la sfida che sembra impraticabile nel nostro mestiere: creare una transizione che dura, i segni tangibili d’una coerenza e d’una pratica che non sono solo biografia professionale, ma giá l’inizio d’una tradizione. Il Reencuentro Ayacucho ’98 mi ha mostrato le conseguenza di questo tuo operare, di questa tua visione che hai quotidianamente incarnato nei confronti delle differenti generazioni dei Cuatrotablas, in una vivace e fertile polemica complementare con Miguel Rubio e gli Yuyachkani e gli altri gruppi peruviani. Sei diventanto cosí la dimostrazione – non solo in America Latina, ma anche per noi europei – di una imprevedibile costanza da contadini, capace di coltivare il campo del teatro lasciandoti guidare da valori come l’amicizia e l’onore. Mai, come durante il Reencuentro Ayacucho ’98, ho provato la sensazione di dissolvermi nei miei attori dell’Odin, nelle centinaia di altri attori e registi che si erano radunati nell’Aula Magna dell’Università di San Cristobál de Huamanga, dove il Rettore Enrique Gonzales Carré mi conferiva una laurea honoris causa. In realtà la conferiva a noi tutti, alla nostra cieca e incomprensibile ostinazione che ci ha spinto o obbligato a persistere, senza fallire, negli ideali della nostra giovinezza, in un alternarsi di epoche e vicende storiche caratterizzate da terremoti ideologici e da stragi di innocenti. Era a questa galassia di teatri di gruppo, di individualisti, di anarchici che non vogliono sottomettersi, di sognatori e di ingenui, segnati da vanità infantili e ferite personali, che quel diploma dorato di una delle più antiche università latinoamericane era rivolto. Avrei voluto farlo a pezzi, centinaia di brandelli da distribuire a tutti i presenti, come una bussola fragile e inconsistente per orientarci negli anni bui che ci aspettano.

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Eugenio Barba

Tutto questo è stato il Reencuentro Ayacucho ’98: l’orgoglio di vedere quanto fossero cresciute le nuove generazioni del teatro latinoamericano; la loro autonomia nei nostri confronti, gruppi già in cammino da due o tre decenni; l’eccezionale qualità e il rigore del progetto di teatro negro di Millenium; l’ironia e la crudeltá dello spettacolo di Maria Teresa Zuñiga e César Escuza; l’indimenticabile ricamo della solitaria voce mapuche di Luisa Calcumil, che nella pampa di Quinhua cantava davanti a 15.000 persone silenziose e commosse; il vigore inesauribile del Teatro Taller di Colombia; la sardonica tenerezza di Graciela Ferrari; la radicale scelta del cileno Teatro Luna; il coraggio di rivelare la propria intimità di Cristina Castrillo; i giovani gruppi argentini della rete del Septimo, che nel maggio 1999, a Humahuaca, continueranno la tradizione degli encuentros di teatro di gruppo. Tutto questo ti appartiene. Tutto questo è conseguenza del tuo sognare attivo. Di tutto questo puoi essere fiero. Tutto questo puoi dissiparlo. Può svanire in pochi momenti dalle tue mani, diventare un pugno di sabbia. C’è infatti una dialettica ferrea e ineludibile, ingrata, nel lavorare – come spesso ci accade – in una situazione caratterizzata dalla povertà di mezzi, dalla temerarietá, dall’intelligente decisione di agire oltre i propri limiti, di fare – cioè – il passo piú lungo della gamba. Fisicamente, se un attore vuole fare passi più lunghi della gamba deve allenarsi, deve controllare la precisione d’ogni suo atto, deve reinventare il proprio equilibrio con impulsi opposti a quelli che lo lanciano in avanti. Lo stesso vale quando i passi più lunghi della gamba si applicano ad un’azione a vasto raggio. Occorre un controimpulso, altrimenti si cade nel velleitarismo e nella sciatteria. La guerriglia culturale esige una meticolosità dell’organizzazione e un’attenzione ai minuscoli dettagli di gran lunga superiori a quelle che si esigono dalle situazioni privilegiate, abituate a vaste e ben foraggiate strategie culturali. Quanta gente sarebbe stata necessaria, ad una grande istituzione, per organizzare un incontro teatrale come quello di Ayacucho? Vi avrebbero lavorato forse 30 o 40 persone fra dirigenti e semplice manovalanza. Si sarebbero divisi i compiti e le responsabilità. Tu invece potevi contare su pochissime persone e su pochissimi denari. Eri costretto a lavorare improvvisando. Per la dialettica integrata del nostro mestiere e della nostra condizione avresti perciò dovuto essere mille volte più attento e perspicace, nell’organizzare, d’un ben pagato competente funzionario. È questo che distingue la nostra differenza dalla marginalità.

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* Cosí come t’appartiene il valore di ciò che hai compiuto di importante e che ha segnato la storia recente del teatro peruviano, così come t’appartiene la temerarietà, t’appartiene anche il disvalore della disorganizzazione, del disordine che minacciano sempre di sfociare nella mancanza di rispetto per il lavoro degli altri. Alcuni dei gruppi invitati, avevano viaggiato 30, 40, 50 ore in bus attraverso il continente latinoamericano per raggiungere Ayacucho. Già mentre eravamo lì ti parlai a lungo: come potevi permetterti di non offrire loro il massimo dell’ospitalità possibile? Non conta la penuria di mezzi. Conta l’impegno sui minimi dettagli. Si possono accettare le condizioni più scomode e difficili, ma solo se si vedrà che chi ti ha invitato si dedica a te, si rende conto dei tuoi problemi, della tua stanchezza e della tua insicurezza, e mai ti abbandona a te stesso. Nel mio modo di pensare ti dicevo che bisogna comportarsi da beduini. L’ospite deve rendersi conto d’essere prezioso. Che proprio per lui o per lei, individualmente, ci si prodiga per dare il massimo. Mi interrompi: “L’abbiamo fatto, il massimo! Tu ignori la sproporzione fra le nostre risorse, il numero delle persone disponibili, le nostre competenze, e la complessità del compito che ci eravamo assunto. Dimentichi che senza accettare questa sproporzione non sarebbe mai stato possibile realizzare il Reencuentro”. Non lo ignoro. Non lo dimentico. Le mie reazioni non sono ingiuste. Non si concentrano sui piccoli, episodici difetti di un grande evento. Sottolineano ciò che ne dissipa la grandezza. Ad Ayacucho, l’organizzazione caotica, senza punti certi di riferimento, senza neppure le necessarie informazioni, minacciava la dignità stessa dei colleghi lì convenuti. E raggiungeva punte di sadismo. Chi puó aver immaginato, per esempio, un viaggio di ritorno, in aereo, da Ayacucho a Lima, in cui un gruppo teatrale poteva esser diviso, metà su un aereo, metà su quello successivo, senza che gli interessati ne fossero informati, facendoli arrivare all’aeroporto due ore prima della partenza, e senza che poi, al momento dell’imbarco, venissero caricate le casse dello spettacolo che doveva essere rappresentato la sera stessa a Lima? Eppure tu sai che se di qualcosa ciascuno di noi va fiero è del proprio impegno a dare il massimo nel momento dello spettacolo. Nonostante le condizioni avverse in cui si opera, l’intera giornata è orientata e dedicata all’incontro con gli spettatori. Mettere in forse la possibilità di quell’impegno, e farlo con la noncuranza simile a quella dei burocrati disinteressati alla vita che passa

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loro fra le mani, non è un semplice disguido organizzativo, è una ferita all’intimità più preziosa di un artigiano del teatro. Quella che ho chiamato noncuranza era una reazione di difesa in una situazione che ha preso la mano a te ed ai tuoi collaboratori. Come uno che si copre il capo sotto una pioggia di pietre ed evita di guardarsi intorno. Ma le vittime delle pietre sono in primo luogo coloro di cui dovresti sentirti responsabile. Fra le decine e decine di esempi che potrei farti, te ne faccio un altro, che davvero mi ha scandalizzato. Mentre i giornalisti affluiti ad Ayacucho per seguire il Reencuentro erano ospitati nel miglior hotel della città, Victoria Santa Cruz, la grande artista di piú di settant’anni, era alloggiata in un alberghetto, in una camera doppia, da dividere con una delle partecipanti all’incontro. Questo fatto mi ha ferito profondamente. Se facciamo teatro è anche per lottare contro le minuscole ingiustizie e le gerarchie che lo spirito dei tempi vorrebbe imporci. Cosí, pieno di sentimenti contrastanti, di rabbia, di sconforto, di profonda commozione e d’orgoglio per ciò che avevo visto nel corso del Reencuentro Ayacucho ’98, sono arrivato a Lima, dove l’Odin e gli altri gruppi invitati, dovevano dare il loro spettacolo. Due dei miei collaboratori erano restati a Lima un’intera settimana per risolvere tutti i problemi tecnici. Eppure, le condizioni che avevano fissato per iscritto, di cui voi ci avevate ripetutamente garantito il rispetto al momento del nostro arrivo, venivano sistematicamente ignorate. Non solo non era presente nessuno della tua organizzazione, ma nessuno sembrava curarsi del fatto che in questo modo diventava impossibile presentare il nostro spettacolo agli spettatori. Quando vi abbiamo comunicato che avremmo dovuto annullare la prima, i tuoi collaboratori hanno mostrato nient’altro che indifferenza. Immaginavano, forse, che tutto si sarebbe risolto all’ultimo momento, o che noi, per vecchia amicizia, avremmo accettato di lavorare in condizioni che non rendevano giustizia né al nostro spettacolo né agli spettatori peruviani. Mi sono sentito sfruttato, manipolato da un modo di fare e di pensare contro il quale sono in lotta dal primo giorno che ho fatto teatro. Tutti gli altri gruppi che avevano partecipato al Reencuentro e dovevano dare spettacolo a Lima si sono trovati nelle stesse condizioni. Ho sentito come un’offesa personale sapere che Santiago García doveva procurarsi personalmente, cercandole all’università, le sedie e il tavolo che gli avevate promesso fin dal giorno del suo arrivo. Un tavolino e delle sedie non sono gran cosa. Proprio per questo la trascuratezza m’impressiona.

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Altri gruppi hanno dovuto cambiare locale due o tre volte. Alcuni seminari, previsti da tempo, sono stati annullati per mancanza di iscrizioni. Nessuno s’era iscritto per mancanza di informazioni. Così è andato sprecato anche il seminario di Victoria Santa Cruz, il cui ricavo lei aveva generosamente destinato al gruppo organizzatore del Reencuentro. Queste situazioni le conosco bene. Fu proprio in una situazione del genere che ci riconoscemmo fratelli, a Caracas, nel 1976, quando il direttore del Festival, voleva costringermi a presentare lo spettacolo in condizioni ingiuste per gli spettatori, e reagì alle proteste dei miei collaboratori con la distaccata indifferenza di un burocrate autoritario. Noi dell’Odin rinunciammo alla prima, occupammo la sala. Gli spettatori altolocati protestarono, ci chiamarono gringos, imperialisti culturali. Ma voi dei Cuatrotablas, assieme agli attori della Candelaria, dell’argentino esiliato Libre Teatro Libre e di altri gruppi presenti al Festival vi uniste a noi nella sala occupata. Era solidarietà per l’Odin, e soprattutto un modo per sottolineare la dignità e il valore del nostro comune lavoro. Ora tu, a Lima, hai ricreato una situazione simile a quella contro cui noi, uniti, protestavamo. Non serve a niente dire che tu non sei il direttore di un Festival internazionale, che non hai i mezzi né lo staff né la solenne ufficialità. La tua diversità – tua e del tuo gruppo – non può giustificare la somiglianza dei comportamenti. Non sono le intenzioni che contano. La cosiddetta buona volontà o la buona fede non cambiano lo stato delle cose. Tu e gli allievi della tua scuola lavoravate dalla mattina alle 5 fino a notte fonda per organizzare il Reencuentro, sia ad Ayacucho che a Lima. La vostra penuria di mezzi faceva sì che anche le cose più semplici si trasformassero in un problema, cercare un riflettore, persino comprare dei chiodi. Tutto questo lo so. Non mi permetterei mai di giudicarvi come giudicherei lo staff che organizza un festival superfinanziato. Tutti coloro che hanno accettato il vostro invito sapevano quali erano le condizioni materiali che ci attendevano. Ma quando queste si sono fatte troppo gravi, quando farsi in quattro non bastava più, quando le vostre mani non potevano più reggere le fila dell’organizzazione, avete cominciato a promettere quel che sapevate di non poter mantenere. E poi vi siete dileguati. Così, da poveri, vi siete trasformati in irresponsabili. A  questo punto persino la vostra diversità spariva o veniva dilapidata. Non eravate diversi da coloro che vivono al polo opposto al vostro, i burocrati ben pagati e indifferenti che lavorano con il teatro semplicemente per sfruttarlo. Quando sono arrivato a Lima, ed ho visto come andavano le cose, il mio primo impulso è stato di riunire tutti i partecipanti per occupare i luoghi in cui si sarebbero dovuti tenere gli spettacoli. O di andarmi ad incatenare ai cancelli

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del Palazzo Presidenziale, per protestare contro la discriminazione congenita, l’indifferenza e la mancanza di responsabilità che caratterizza certi ambienti della nostra professione, nel primo, nel secondo, nel terzo, nel quarto e nel quinto teatro. Credi che non abbia il senso del ridicolo? Credi che non sappia che la stragrande maggioranza considererebbe ridicola una protesta tanto magniloquente per alcuni problemi tecnici che ritardano uno spettacolo? Eppure noi affermiamo che il teatro non è qualcosa di marginale, ci ribelliamo alla noncuranza e all’indifferenza che ci circonda. Andiamo ripetendo che il teatro può essere un’isola di libertà. Ma poi, quando siamo al dunque, siamo i primi a trattarci come gli altri ci trattano. Se non siamo noi a difenderla, chi mai difenderà la dignità del nostro lavoro? Ti voglio bene come a un fratello e non ho mai voluto guerre fratricide. Per questo ho scelto di non attaccare, di scomparire, di andarmene silenziosamente dal Reencuentro, da Lima e dal Perù, lasciando che i membri dell’Odin difendessero il senso della nostra amicizia per te e lottassero fino alla fine per Mythos, lo spettacolo che ci eravamo affrettati a terminare per poterlo presentare da te. * Ho lasciato il tuo paese con l’amaro nella bocca e nei sensi. Dolore, tristezza e rabbia si sono trasformati in un piccolo ozelòt che mi rode lo stomaco. Per farlo uscire ti scrivo, sperando di esorcizzarne zanne e artigli. Ci vogliono trent’anni per farci credere che esista un’amicizia, una fratellanza. E pochi giorni bastano a farci comprendere che il tuo amico fraterno può comportarsi come uno struzzo, giusto accanto a te, abbandonando te e il tuo lavoro. Quel lavoro attraverso il quale si era creato il legame. Etica? Si tratta di ben altro. Ci sono medici che lavorano in situazioni disperate, senza strumenti, senza sangue per le trasfusioni, senza apparecchiature o senza corrente elettrica per farle funzionare. Ma questo non giustifica la loro indifferenza per il malato, per la dignità e il valore della sua vita. Nel peggiore dei casi, quando proprio non c’è nulla da fare, gli restano accanto. Non l’abbandonano. È etica tutto questo? No. È l’evidenza del comportamento necessario. Nei secoli scorsi c’era, per i medici, il “giuramento di Ippocrate”. E i medici di oggi non l’hanno dimenticato, non foss’altro che per rimpiangerne la chiarezza e la semplicità di fronte alle ambiguità morali che l’attualità impone alla loro professione.

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Il giuramento di Ippocrate era nel nome di Apollo e di Esculapio, ma le grandi parole finivano presto in quel testo. Il resto erano impegni concreti riguardanti l’atteggiamento del medico, ciò che si impegnava a non fare. Mi chiedo se coloro che lavorano con il teatro non dovrebbero fare un giuramento paragonabile a quello di Ippocrate. Nel campo del teatro, più che in altri mestieri e professioni, è forte il rischio di manipolare le persone con la giustificazione di un’arte della libertà, della solidarietà e dell’uguaglianza. Come potremmo inventarlo? Come chiamarlo? Il giuramento di Tespi? Di Bharata? Di Zeami? Di Stanislavskij? Quali azioni umili, ma concrete, prescriveremmo?

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NERA ALLEGREZZA*

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Holstebro 19 settembre 2004 Cari amici dell’Osmego Dnia, Nel 1964, alle radici, eravate un teatro studentesco. Oggi siete un punto di riferimento nella storia del teatro polacco ed europeo del secondo Novecento. Per me voi costituite una delle “piccole tradizioni” del teatro del nostro tempo. Le chiamo “piccole” per distinguerle dalle grandi tradizioni occidentali ed asiatiche, dal Teatro d’Opera al Kabuki, dal balletto classico al Kathakali. In maniera paradossale, i nostri piccoli teatri sono vere e proprie “tradizioni”. Benché siano costituiti da poche persone e non siano fatti per trasmettere dall’una all’altra generazione il proprio sapere, le proprie tecniche e il proprio repertorio, si comportano, però, incarnando un ethos ben riconoscibile nel mare magnum del teatro. Le “piccole tradizioni” sono segnali di differenza, per la loro identità sia professionale che etica: le due facce dell’ethos. L’ethos è qualcosa di molto più radicale della coerenza estetica, dello stile, delle vesti artistiche che un teatro assume nel passare dall’uno all’altro dei suoi spettacoli. Se in poche parole dovessi spiegare l’identità dell’Osmego Dnia ad un giovane che non ha mai visto un vostro spettacolo, direi: guarda, erano un teatro dissidente nella Polonia degli anni Sessanta e Settanta, un teatro a cui le autorità negavano spesso il passaporto per recarsi all’estero. Furono un teatro perseguitato nella Polonia dopo il colpo di stato del generale Jaruzelski, persero le risorse economiche e il luogo in cui lavorare, ma continuarono, trovando ricovero presso le chiese. Poi furono un teatro espatriato, loro così profondamente radicati nella cultura del proprio paese, gravati dall’amarezza e *

Lettera al gruppo Osmego Dnia di Poznan, Polonia, in occasione dei suoi 40 anni.

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Eugenio Barba

dalla precarietà dell’esilio. Ora, quando sono tornati a casa e l’Europa non ha più il Muro, loro sono ancora dissidenti. Basta ricordare quest’episodio della fine del 2002: si rifiutarono di partecipare ai festeggiamenti per San Pietroburgo, dove erano stati invitati, perché non volevano accettare il dono e il riconoscimento d’un potere politico che massacra i ceceni. Probabilmente, il giovane che non ha mai visto un vostro spettacolo capirebbe che siete intransigenti. Ma quando vi vedo nella mia mente, non penso all’intransigenza, ma al coraggio ed alla nera allegrezza. Il coraggio non è intransigente. Occorre saper transigere, per navigare contro le onde del proprio tempo senza cedere alla tentazione di rinunciare e lasciarsi ridurre all’inazione. Il coraggio è la volontà di non divenire vittima. Per una “piccola tradizione” è duro, spesso doloroso, continuare ad esistere. Sembra una virtù o un’arte, in realtà è un artigianato spossante. Bisogna saper difendere il proprio sogno ad occhi aperti dietro le raffinate ragnatele di un orefice, inventare le difficili soluzioni per restar fedeli al proprio urlo iniziale, esplorando entro quali limiti esso può essere modulato come un canto, un’incantazione o una canzonatura. È la rotta che rivela l’intransigenza, non i singoli approdi. A volte gli approdi sono pause, tappe, compromessi, persino errori. Forse il coraggio più difficile è quello di non farsi vittima dei propri errori e non rinunciare all’allegrezza. “Nera allegrezza” è la definizione precisa del vostro modo di lavorare. Ricordo una notte a Jelenia Góra, in Polonia, nel giugno del 1980. Fu un incontro quasi clandestino fra piccole tradizioni. Voi mostraste le vostre raffinate tecniche di improvvisazione. La gioia del teatro scoppiò nella sala: arte del contrasto, del riso e dell’ironia, squarci d’amarezza e di denuncia. Una visione pessimista della realtà trasmessa agli spettatori come un dono di festa. Noi dell’Odin Teatret – non apolidi, ma extraterritoriali, stranieri emigranti divenuti scandinavi, e scandinavi divenuti emigranti in patria – noi che facciamo spettacoli diversissimi dai vostri, riconoscemmo in voi un’aria di famiglia. Se davvero, dopo il settimo giorno di riposo, nell’ottavo venne creato il teatro, in questo giorno che in base al senso comune non c’è, sta la nostra patria comune. La bizzarra fantasia di Konstanty Ildefons Galczynski sulla creazione del teatro, la leggenda da cui avete tratto il vostro nome, rivela una verità semplice: la patria del teatro non è uno spazio, ma un tempo con una speciale qualità, un tempo di confine scandito da un viavai di relazioni. Ricordate? Avevamo un progetto. Doveva svolgersi a Palermo, in Sicilia, per un intero anno, nel 2001. Era basato sull’intreccio di meticciato, ritualità e resistenza, con voci e presenze diverse. Avevate accettato di parteciparvi per

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La conquista della differenza

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un mese. L’idea si chiamava “Isole di libertà” e restò sulla carta per ragioni economiche e burocratiche. Era un progetto. Diventi un augurio.

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COME BRUCIA IL TEATRO DI CARTA*

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Holstebro, luglio 1999 Caro Edgar, hai organizzato una cerimonia per i dieci anni della tua rivista: hai raccolto gli amici, bevete insieme, poi tu prendi alcune copie di “Máscara” e le bruci. Alcuni vedono il tuo gesto come una provocazione. Altri come un segno d’abbandono. Altri ancora lo intendono come un eccesso di sicurezza. Così ti ho visto in una mia fantasia. Mi chiedo che cosa voglia significare quell’immagine che m’è venuta in mente, come un sogno o come un augurio. Vuol dire che distruggi la tua rivista? O è un segno di vitalità, di rinnovamento e continuità? Il teatro di carta, infatti, è fatto per bruciare. Con “Máscara” hai creato un grande “teatro di carta”, un teatro fatto di racconti e di parole, di storie e di indagini, di documenti pescati dal mare del passato e dai laghi della contemporaneità. Ma questo “teatro di carta” tu non l’hai creato per metterlo fra altre carte, nelle biblioteche, fra i libri che servono solo agli studenti delle università. Hai forgiato uno strumento per coloro che il teatro lo praticano e che spesso non godono dell’eredità d’una tradizione. È facile dire che la pratica artistica consiste di azioni concrete, materiali, che è esperienza in prima persona, e che quindi le teorie, le storie, le visioni astratte e intellettuali servono a poco. È facile constatare che le parole scritte non possono dar conto della completezza e della complessità dell’esperienza. E che quando l’esperienza viene trasferita sulla pagina genera equivoci.

* Lettera a Edgar Ceballos, editore di Escenologia, in occasione dei dieci anni della sua rivista “Máscara”. Pubblicata per la prima voce in “Máscara”, n. 31-32. Città del Mexico, 2000.

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È facile affermare che l’essenziale non si può né insegnare né trasmettere, e che la qualità artistica non dipende dalle conoscenze, ma da un temperamento personale. Queste verità troppo vere tu hai cercato di contrastarle. “Máscara” è una lotta contro le verità facili. Per chi esercita la professione teatrale esistono due ingiustizie poco appariscenti ma gravi. La prima potremmo chiamarla “amputazione della scelta”. La seconda, “amputazione della continuità”. Non tutti hanno realmente la libertà di scegliere. C’è una costrizione più dura dell’indigenza e della censura – sia la censura sulle idee, che quella economica – che alla fine decide cosa è interessante e cosa no, cosa è bello e cosa è brutto, cosa è teatro e cosa invece non lo è. C’è un’altra costrizione, che è intima. Basta un solo verbo a definirla: ignorare. È vero che quando si tratta di agire, di creare un proprio spettacolo, di definire il proprio gruppo nella realtà circostante, ciascuno deve trovare la sua strada e non può seguire le orme degli altri. È vero che ciascuno deve scegliere da solo. Ma per scegliere deve avere a disposizione un ventaglio di alternative. Deve poter mentalmente scartare decine e decine di possibilità. Non si può scegliere, non si può inventare, quando, dal punto di vista professionale, non si conosce quel che non si vuole fare. L’invenzione è un’arte del rifiuto nel contesto d’una continuità. Chi ha ricevuto l’eredità d’un sapere, d’una tradizione, ha molte cose da rifiutare, molte cose sulle quali fare attrito per saltare altrove e trovare il proprio sentiero. Chi fa teatro partendo da una situazione che lo costringe all’autodidattismo ha davanti a sé un paesaggio ristretto. Non avendo ricevuto quasi nulla, ha ben poco da rifiutare. In genere è costretto a seguire e ripetere i pochi principi, i pochi modelli di cui è riuscito ad impadronirsi. Il “teatro di carta” serve a dargli la percezione della vastità e della varietà d’un mondo, d’una cultura, d’un orizzonte, di una storia ai quali non appartiene ma con i quali può confrontarsi e dialogare. È il territorio ideale nel quale affondano le radici della propria identità professionale. Può usare il “teatro di carta” come una bibbia alla quale obbedire in maniera cieca ed ortodossa. Sarà soltanto un pedante e un imitatore. Oppure può trovare il modo di bruciarlo. Quando pensiamo a libri che bruciano abbiamo un riflesso condizionato negativo. L’immagine evoca epoche di oscurantismo e di violenza: i roghi di libri organizzati dagli inquisitori, dai missionari che pretendevano di imporre a tutti la propria verità, dai nazisti. Ma i libri possono bruciare anche in altro modo: ardendo. Allora le fiamme non indicano una distruzione, ma un mutamento, uno scambio di

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La conquista della differenza

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energia che serve alla vita, un processo di metabolismo. Per questo, Artaud pose l’immagine di libri che si consumavano ardendo nel preambolo al Teatro e il suo doppio. Parlava di pagine che si distruggevano mentre le loro parole essenziali si libravano fuori di loro e al di sopra di loro, nutrendo liberamente lo spirito. Penso alle pagine che “Máscara” ha pubblicato in questi dieci anni, al sapere professionale che ha trasmesso, ai maestri dei quali ha riconosciuto l’esperienza, all’alternarsi di immagini suggestive e meticolose indicazioni tecniche. La mia mente vola via, dal tuo Messico alla Norvegia dove fondai l’Odin Teatret 35 anni fa, il tempo d’una vita. La prima cosa che feci, fu creare, accanto al lavoro pratico, una rivista che fin dal titolo diceva il suo interesse non per le notizie d’attualità, ma per quella continuità del sapere teatrale, anche quello più lontano nel tempo e nello spazio, per “le teorie e le tecniche del teatro”. Nella tua lingua, quest’unione di teoria e tecnica potrebbe tradursi con la parola “Escenologia” che sta nel sottotitolo di “Máscara”. Noi, 35 anni fa, eravamo un gruppetto invisibile e marginale nel contesto dei teatri. Per noi la Storia, la presenza del passato, il dialogo o il rifiuto d’una tradizione non era un lusso, ma un’esigenza vitale di cui avevamo bisogno come dell’atmosfera in cui respirare. Per te e per il contesto nel quale lavori la condizione non è molto diversa. Abbiamo scelto una professione che vive d’opere effimere, che mutano col mutare dei giorni, e presto svaniscono. Per noi è essenziale batterci contro questa condizione obbligata. È necessario trovare la dimensione della continuità che leghi in una lunga durata lavori fatti per vivere poco. Senza questa continuità non c’è cultura, non c’è identità, né ethos né etica. Esiste la continuità delle grandi tradizioni, che si trasmettono da una generazione all’altra attraverso un rapporto pedagogico personalizzato, lungo, basato sulla scelta reciproca, capace di preservare, nella dialettica di conservazione e mutamento, un patrimonio di forme raffinate attraverso i secoli e i decenni. Ma i nostri teatri, i nostri gruppi, le nostre isole di libertà sono “piccole tradizioni” che con il tempo possono acquisire una densità e una complessità equivalente a quella delle grandi tradizioni, anche se appartengono a un pugno di individui e spariranno con loro. Accanto all’azione che ci definisce, che è presenza, e che tanto meno ha bisogno di parole quanto più è evidente ed intera, abbiamo bisogno della scrittura, che è solo l’ombra dell’esperienza, un insieme di orme senza corpo, ma che ci permette di proiettarci nel passato e verso il futuro. L’intera civiltà teatrale occidentale ha garantito al teatro una lunga durata, tramite la scrittura. Tanto che il teatro, la sua storia, si è a lungo identificato

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con l’insieme dei testi drammatici. Attraverso il ponte dei testi drammatici tramandatici dalle biblioteche, il teatro d’oggi poteva spingere all’indietro lo sguardo fino all’Atene del V secolo, alla Londra di Shakespeare, alla Castiglia di Lope, alla Parigi di Molière, alla Venezia di Goldoni, di Gozzi e della Commedia dell’Arte, alla Germania di Faust e di Brecht, alla Scandinavia di Ibsen, alla Russia di Cechov. Gli scrittori scrivevano per gli attori. Solo quando era incarnata dagli attori la letteratura dei testi saltava dalla pagina alla vita. Ma poi erano i testi scritti a sopravvivere ed a saldarsi in una tradizione. Oggi, ci piaccia o no, la letteratura drammatica non è più la spina dorsale della pratica teatrale. Questo vuol dire che la vita teatrale non dispone più del respiro della lunga durata? Vuol dire che la sua memoria è divenuta breve? Alcuni anni fa, Richard Schechner valutò proprio questo rischio. Parlò della nuova civiltà teatrale, dove lo spettacolo si scrive sulla scena e non sulla pagina, come d’una civiltà che rischia la perdita di memoria. Senza un “teatro di carta”, il teatro vivo è minacciato, non solo perché gli manca la memoria del passato, ma perché è il senso d’una comunità nel futuro che viene meno. Il “teatro di carta” non può più essere fatto esclusivamente di drammi, esso consiste di storie. Queste storie da un lato tramandano un repertorio del sapere, ma dall’altro hanno una funzione profonda non dissimile da quella dei drammi che gli autori proponevano agli attori: forniscono modelli, esempi, semi e nodi per l’invenzione d’una presenza efficace del teatro nella società e nella vita degli individui. Modelli che diventano vivi solo se qualcuno sa come, secondo quali tecniche, quando, dove e perché farli bruciare. E “Máscara” ce lo ricorda.

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NON APPARTENERE AL MONDO IN CUI VIVIAMO*

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Holstebro, 19 aprile 2000 Cari amici della rivista “Conjunto”, L’ Università di Copenaghen mi ha sorpreso conferendomi il Premio Sonning la cui risuonanza in Scandinavia è prestigiosa anche perché è accompagnato da 500.000 corone, circa 70.000 Euro. Per convenzione e comodità i premi sono ad personam. Ma noi tutti sappiamo che dietro ogni nome si cela una rete di relazioni, una storia di vincoli artistici, culturali e umani che nel suo insieme costituiscono un organismo unitario e complesso che vive e si definisce a traverso le differenze. Il vero creatore, a teatro, è la trama delle relazioni. Non esistono azioni che siano esclusivamente mie. Solo gli errori ci appartengono completamente. L’Università di Copenaghen assegna il Premio Sonning a una personalità che ha dato un impulso significativo alla cultura europea. Lo considero un riconoscimento a una carriera i cui risultati sono sorti dal rifiuto, dai sogni, dagli sforzi, dalla tenacità e disciplina di quel gruppetto di individui di diversi paesi che sono l’Odin Teatret. Il Premio Sonning è la conferma del valore del lavoro dell’Odin Teatret e di tutti quei teatri di gruppo che nella nostra epoca hanno saputo incarnare un nuovo senso della nostra professione, inventando un sapere tecnico e un’identità artigianale che è impegno contro ogni limite alla libertà e alla dignità dell’essere umano. Questo teatro di gruppo non è composto solo di attori, registi, scrittori, tecnici, scenografi. Anche gli intellettuali ne sono una parte vitale. Su loro ricade la responsabilità di descrivere, diffondere e spargere i semi della conoscenza di un teatro che vuole essere un mestiere di ribellione.

* Pubblicato per la prima volta in Arar el cielo a cura di Lluís Masgrau, Fondo Editorial Casa de las Américas, L’Avana 2002.

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Anche se il Premio Sonning sembra tener presente solo la cultura europea, al conferirlo l’Università di Copenaghen ha ricordato un contesto culturale più vasto. Ha segnalato i ponti che l’Odin Teatret ha costruido verso i teatri asiatici, e indicato il nostro permanente contatto con l’America Latina. Senza di loro, l’Odin Teatret non esisterebbe: le sue fonti spirituali si sarebbero esaurite. L’Odin Teatret ringrazia per il premio che ci da onore e denaro. Però è nostro desiderio accettare solo l’onore. Desideriamo che le 500.000 corone vengano divise tra Holstebro, la cittadina dove viviamo, Cuba, un’isola tanto amata da noi, e il pastore protestante danese Leif Borch Hansen. Un terzo della somma andrà a un’associazione di cittadini che raccoglie fondi per costruire un club per giovani a Tirana in Albania. Un altro terzo l’Odin Teatret si compiace di offrirlo alla rivista “Conjunto” come segno della nostra gratitudine per aver documentato la lotta e il coraggio del teatro latinoamericano che tanto ha significato nella mia vita e nel destino dell’Odin Teatret. L’ultima parte della somma va a un individuo che, vera Antigone contemporanea, non ha seguito la legge dello stato, ma quella della propria coscienza ed è stato processato per nascondere immigranti illegali che dovevano essere espulsi. Il teatro è spesso una diaspora. A volte alcune delle nostre opere sono baciate e accarezzate dalle nuvole, sembrano belle e vengono acclamate. Però quello che le rende vive e le da valore e senso è la loro capacità di opporsi a un’epoca di indifferenza e costrizioni, nutrendo il paradosso che ci permette di non appartenere al mondo in cui viviamo. Per questo il premio è anche per voi, amici e compagni del teatro di Cuba. Il vostro lavoro e la vostra presenza dimostrano che il nostro mestiere può essere più che un lusso. Rallegriamoci, festeggiamo insieme e continuiamo. Il cammino ci aspetta. Con affetto Eugenio Barba

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LETTERA DA PORT-BOU*

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Holstebro, 15 settiembre 1996 Caro Fabrizio, Port-Bou è quel paesetto spagnolo alla frontiera con la Francia dove Walter Benjamin, in fuga dal nazismo, si suicidò. Vi sono passato di recente per visitare la sua tomba al cimitero. In un lampo, mi sono ricordato che non poteva essere lì: era ebreo e per di più suicida. Il cimitero è collocato stupendamente, in alto, su una costa rocciosa che si sporge su un cielo e su un mare di azzurro. A una cinquantina di metri, degli spessi e corrosi lastroni di ferro conficcati verticalmente nella terra si ergevano come entrata di un buco– galleria. Era un tunnel totalmente laminato di lastre di ferro, quelle che rivestono le corazzate e i carri armati, squamosi di ruggine per la salsedine e il tempo. Degli scalini, anche essi di ferro, portavano giù fino al mare. Ho cominciato a scenderli e la mia immagine mi è venuta incontro. Vedevo chiaramente l’acqua verde-blu e insieme vedevo me stesso che si avvicinava. I miei sandali risuonavano sui gradini metallici. La sensazione di solennità e mistero rimaneva imperturbata anche se consapevole dell’artifizio che rimandava il mio riflesso: una parete trasparente tra me e il mare. L’ammirazione per il monumento di Dora Keverian al cabalista marxista non interferiva con la mia emozione. Alla fine, la mia immagine su un vetro leggermente opaco ha fermato la mia discesa. Sul vetro, in tedesco, spagnolo, francese e inglese era inciso a caratteri maiuscoli:

* Lettera a Fabrizio Cruciani, storico del teatro e redattore della rivista “Teatro e Storia”, Roma. Pubblicato in “Teatro e Storia” n. 18, 1996.

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Eugenio Barba

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È COMPITO BEN PIÙ ARDUO ONORARE LA MEMORIA DELLE PERSONE SENZA NOME CHE NON DELLE PERSONE CELEBRI. LA COSTRUZIONE STORICA È CONSACRATA ALLA MEMORIA DI COLORO CHE NON HANNO NOME. WALTER BENJAMIN

Caro Fabrizio, allora ti ho pensato fortemente e insieme al tuo volto ho rivisto quello di tutti i tuoi compagni di “Teatro e Storia” e ho ricordato l’allegria e la competenza di voi tutti quanto vi accanite a questo compito. Mi piacerebbe che “Teatro e Storia” incidesse, orgogliosamente, la frase di Benjamin con lettere maiuscole e di fuoco sul suo frontespizio. Mi piacerebbe anche incontrarvi a Port- Bou. Lì la Morte ha il nostro volto e ci segnala dal mare mentre noi con ammirazione ed emozione sprofondiamo nei meandri metallici del nostro tempo. Un caro abbraccio Eugenio

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LLANEZA Y VAIVÉN*

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Holstebro, luglio 2001 Fu l’amore a farci incontrare, nel 1971, quando arrivasti a Holstebro dal Festival di Nancy e il tuo gruppo presentò tre diversi spettacoli. A quel tempo si chiamava Casa del Teatro e ribolliva di fervore politico e ardore grotowskiano. Era il primo gruppo latino-americano che l’Odin Teatret accoglieva grazie all’incontrollabile passione di un giovane critico danese per una delle tue attrici. Mi telefonò da Nancy e la foga dei suoi argomenti, che io scambiai per giudizio oggettivo, mi travolse. Ci rivedemmo nel 1976 al Festival di Caracas, in quella turbolenta situazione quando, per protesta contro l’organizzatore, l’Odin Teatret occupò la sala senza presentare il suo spettacolo, e voi della Candelaria, insieme ad altri gruppi latino-americani, vi uniste a noi in segno di solidarietà. Nel 1983 durante i due mesi di soggiorno che il Teatro Taller de Colombia aveva preparato per noi, accoglieste il nostro Ceneri di Brecht nel vostro teatro nel barrio della Candelaria. Con gli anni gli incontri si sono fatti più frequenti, le conversazioni più disarmate ed ironiche, i legami più profondi ed emotivi. Nelle nostre isole di libertà – nei nostri teatri – le azioni aspirano a essere limpide, ma la storia che vince attorno a noi è triste o tremenda. Allora viene voglia di gridare. E la voce si fa confusa. Ci concentriamo sul piccolo pezzo di terra che possiamo coltivare. L’indifferenza, i malintesi, la banalizzazione circostanti sono talmente forti che a volte, per reazione, la nostra voce si fa solenne e si alza, se encumbra. La tua figura, caro Santiago, è un monito vivente contro la solennità e contro le grida, sia pure giuste e giustificabili. È una questione di gusto e di

* Lettera a Santiago García, direttore e regista del Teatro della Candelaria di Bogotà, per i suoi 70 anni. Pubblicato per la prima volta in Arar el cielo, a cura di Lluís Masgrau, Fondo Editorial Casa de las Américas, L’Avana 2002.

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giudizio: la voce che grida o che si fa solenne perde la luce della llaneza, della semplicità. Ti vedo ad un banchetto in tuo onore, mentre l’oratore parla di te, snocciola le lodi che ti sei meritato, definisce il tuo ruolo storico nella storia del teatro, si commuove e diventa enfatico. Tu, allora, lanci da sotto i baffi, a bassa voce, l’esortazione che Cervantes mette in bocca a maese Pedro, burattinaio ed ex-galeotto: Llaneza, muchacho: no te encumbres. Ho spesso immaginato di sentirtela pronunciare, questa frase, anche ora, quando con commozione, assieme ad altri amici e compaesani del “paese del teatro”, ti scrivo per celebrare i 35 anni della Candelaria. Ti ricordi quando, par una simile occasione, ci visitasti a Holstebro, all’inizio d’ottobre del 1994? L’Odin Teatret festeggiava i suoi trent’anni di lavoro – spettacoli, dimostrazioni tecniche, improvvisazioni e discorsi. Non c’era solennità, ma una regola: non entrare con le scarpe nella zona del pavimento riservata alle azioni degli attori, un’umile pratica seguita in particolare dai nostri ospiti asiatici. Assumeva fatalmente anche un valore simbolico, indicando che lì, da quella linea in poi, lo spazio diventava speciale. Tu, entrando in quello spazio, le scarpe non te le sei tolte. Ti sembrava un gesto eccessivo, che trasformava il teatro in una moschea? Oppure volevi dare un semplice esempio di come, nella pratica d’un artista, le regole funzionino sia per il dritto che per il rovescio? Julian Beck spesso sottolineava il valore del teatro come pratica di costruire rituali che poi si possono distruggere con un gesto leggero. Abbiamo bisogno di rituali, ma come strumenti. Essi, invece, rischiano di trasformarsi velocemente in comandamenti che ci fanno servi. Il teatro è un buon antidoto, sia contro l’assenza di rituali che contro il loro abuso. La razionalità del teatro consiste proprio in questa pratica dei contrari, nel mostrare una faccia e il suo rovescio. È una razionalità drammatica. La llaneza è la sua condizione. Tu non vivi nel mondo del welfare e non hai bisogno di sottolineare la drammaticità. Sei entrato nello spazio speciale con le tue scarpe leggere e hai cominciato a parlare. Ti avevo chiesto di rispondere pubblicamente alla domanda “Perché faccio teatro?”. Parlasti del modo in cui Don Quijote spiega a Sancho le ragioni del suo amore per Dulcinea. Indicasti il passo preciso, il capitolo 25 della prima parte del romanzo. Cominciasti facendoci ridere. Poi hai tirato la lenza della riflessione. Precisione, ironia, llaneza. E profondità. Le parole encumbradas sono la negazione della profondità. Avevo dato a quell’incontro per i trent’anni dell’Odin Teatret il titolo “Tradizione e fondatori di tradizioni”. Era, forse, un titolo “encumbrado” se

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applicato a coloro, fra noi, che sono riusciti a far navigare i loro teatri per trent’anni e più? Tu affermasti che toglieva solennità al concetto di “tradizione”. Ti sei rivolto a Sanjukta Panigrahi spiegandole quanto fosse confortante, per te che venivi da un paese dove il teatro sembrava “senza tradizioni”, sentire che lei era stata definita fondatrice della tradizione della danza Odissi, proprio lei che veniva dall’India, dove tutto sembra spesso muoversi – dicesti – “non sul terreno, ma sotto il controllo della tradizione”. L’Odin Teatret aveva invitato a Holstebro le persone incontrate nel corso degli anni qua le là per il mondo, e che sentivamo nostri “compaesani”. Persone fra loro molto diverse, accomunate dal fatto di annettere al teatro un valore che trascende l’intrattenimento e persino l’estetica. Il miglior modo di celebrare il compleanno era di offrire agli amici, ai miei compagni ed a me stesso la possibilità di riflettere sul valore delle nostre scelte, sul senso della perseveranza, assieme a maestri come Kazuo Ohno, Judith Malina, Sanjukta Panigrahi e te. Jerzy Grotowski era presente con il suo giovane collaboratore Thomas Richards, come rappresentante d’una tradizione coerentemente capace di saltare dove nessuno se l’aspettava. Dario Fo, che a Holstebro è di casa, questa volta non era potuto venire ed aveva inviato un messaggio. Ma se Dario Fo avesse parlato, che cosa avrebbe detto della “tradizione” e della sua “invenzione”? Probabilmente avrebbe spiegato come a lui non interessino le tradizioni sotterranee, ma quelle sotterrate dai vincitori che scrivono la storia. Fra noi, partigiani dell’ostinazione, si sarebbe trovato bene. Abbiamo molti anni di lavoro e molti disincanti alle spalle, ma ci siamo mantenuti ostinati, malgrado il mutare dello spirito del tempo. C’è un’ostinazione sorda, che si affida alle corazze delle proprie convinzioni, e finisce col fracassarsi contro i mulini a vento. E c’è l’ostinazione della corsa e del dribbling, che si denuda, getta via le parole più care, coltiva dubbi su di sè per mantenere il contatto con le proprie radici. L’ostinazione che si nutre del suo contrario è il vero baluardo contro il fanatismo. Il cinismo, lo scetticismo e la rinuncia a prendere posizione sono antidoti apparenti. Anche loro finiscono per raggiungere il fanatismo per la via inversa, circumnavigando la responsabilità e il rischio della libertà. Mentre parlavi, mi sorprendevo a pensare che avevi quasi settant’anni, e che l’esperienza, con il suo intreccio di soddisfazioni e delusioni, invece di stancarti, o di irrigidirti, aveva acuminato la tua capacità di non accontentarti mai di quel che appare certo. Eppure sei intransigente. Una vocina, nell’angolo sinistro del mio cervello, continuava a ripetermi: “Così doveva essere Brecht”. Un Brecht che il karma aveva fatto reincarnare in Colombia e che invece di utilizzare la maschera del saggio cinese, si era posta quella del contadino co-

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lombiano. Però queste maschere ragionevoli e scettiche servivano per proteggere il fuoco del non conformismo. Le doti che servono a guidare un teatro ed a conservarlo indipendente, l’intransigenza, la coerenza e la continuità nel tempo, debbono nutrirsi del proprio contrario. Lo stesso vale anche per la quarta delle doti necessarie, il senso di humour. Il tuo gusto per l’ironia e per l’allusione, così lontano dagli stereotipi attribuiti ai latino-americani, erano segni della tua arte dell’ostinazione come dribbling. Perché continuavi a fare teatro? Non affrontavi la domanda direttamente. Ci raccontavi di un contadino di 108 anni, che avevi visto alla televisione in Colombia, poco prima di partire. Gli avevano messo un microfono davanti alla bocca e gli avevano chiesto qual era il segreto per raggiungere la sua venerabile età. Lui era restato tranquillo, con gli occhi vivaci aveva scrutato la camera che lo riprendeva, e aveva a lungo taciuto. Mi chiedo perché insista a ricordare quell’incontro dell’ottobre ’94. Forse perché anche in quel caso, come ora, si trattava di un compleanno. Oppure perché fu in quell’occasione che diversi fili si annodarono, come quando in uno spettacolo la logica drammaturgica comincia a parlare da sé, liberandosi dalle nostre briglie e dettando lei la strada. Ci siamo incontrati molte volte. Ogni volta era un filo che si tendeva fra noi. Ma in quel giorno d’ottobre i fili si annodarono. Kazuo Ohno ci mostrò alcuni sprazzi della sua danza più famosa, che rievoca la danzatrice “Argentina”, un mito per il teatro e la danza novecentesca. Questo personaggio femminile con il passar degli anni era ringiovanito, mentre il maestro che l’aveva creata e continuava a danzarla, invecchiava e si faceva sempre più trasparente. Lei, il personaggio, era cresciuta secondo una logica paradossale, invertendo il vettore tempo. Da giovane donna si era fatta adolescente, da adolescente era cresciuta fino a diventare una bambina che senza neppure guardarsi allo specchio, sogna il suo futuro. Poi Sanjukta Panigrahi e il vegliardo Kazuo Ohno improvvisarono assieme una danza. Sembrò che l’idea stessa della vecchiaia volasse via dalla sala, sostituita da qualcosa di simile alla luce o alla resistenza dei cristalli. Kazuo Ohno aveva allora 88 anni. Oggi si avvicina ai 100. Sanjukta Panigrahi, quarant’anni più giovane del maestro giapponese, dalla presenza impetuosa e fulminante, morì poco meno di due anni dopo. Nelle ultime settimane di vita, aveva perso la sua lunga treccia nera a causa della chemioterapia. Il suo corpo fu bruciato su un catafalco fra i fiori, in mezzo alla folla, nella città dov’era considerata principessa e regina. I suoi capelli e le sue ceneri furono dispersi

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in mare. Provo dolore, ma non nostalgia, quando penso a Sanjukta. È presente, è una parte della mia patria. Mi vedo seduto fra Kazuo Ohno e Sanjukta, mentre ascolto le tue parole, avvolto nel continuo parlottio dell’interprete che le traduce in giapponese all’orecchio di Kazuo, traducendole dall’inglese in cui Julia Varley, l’attrice dell’Odin, traduce il tuo spagnolo. Eppure non è una Torre di Babele. Mi sento nella mia patria, dove la diversità delle lingue unisce, invece che allontanare. Le traduzioni si intrecciano, si intersecano, a volte sembrano persino dialogare, formano un andirivieni, un vaivèn di pensieri. Dopo un poco, nessuno si rende più conto che stiamo parlando lingue diverse. Una Torre di Babele a rovescio: ecco una buona definizione del teatro. La contrada che il paese del teatro abita e coltiva non è costituito da terra, è un andirivieni di relazioni. Una patria che non consiste in nient’altro che in una costellazione di persone, differenze che si cercano, che spesso si intendono non malgrado, ma tramite l’intendersi a rovescio, specchiandosi l’una nell’altra. Questa non-terra può svanire in un momento come nebbia al sole, come un miraggio. Eppure è solida. E soprattutto, nessuno la può calpestare. La possibilità di creare un’intesa attraverso visioni discordanti o rovesciate all’inizio era per me una necessità da emigrante. Con il tempo è divenuta una scelta che ho cercato di tradurre in tecnica e drammaturgia. Il teatro, che in gioventù era una professione difficile da conoscere e conquistare, continua ad affascinarmi come artigianato dei legami paradossali e liberi fra gli attori e il regista, fra l’ensemble che fa lo spettacolo e gli spettatori che lo osservano. Intuisco che sta qui, aldilà delle metafore, il seme del teatro come isola di libertà. Questa libertà ci sgomenta e può persino farci paura, perché è anche libertà dalle certezze, come un vuoto d’aria durante il volo. Il vuoto di certezze, quando si riesce a renderlo evidente ai sensi, ci obbliga a reagire con l’intero organismo e ci spinge ad una presa di posizione e ad una scelta personale. Un mio amico, commentando uno dei nostri spettacoli, una volta mi ha scritto “Tu privi lo spettatore di uno dei piaceri che ciascuno di noi, anche senza rendersene conto, cerca a teatro. Parlo del piacere di sapere che quel che lui vede e capisce, coincide con ciò che vede e capisce colui che gli siede accanto”. Credo che avesse ragione. La mancanza di libertà a volte è un piacere. È un riposo. A cominciare dalle catene invisibili che abbiamo in testa, che ci vincolano ad una visione e ad un metro di giudizio unilaterale, e opprimono le azioni col peso del loro acclamato significato. Amo il teatro che sottrae lo spettatore dal suo riposo, che gli toglie la terra di sotto i piedi. Il mio teatro è molto diverso dal tuo. Ma non credo che sia profondamente diverso.

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Tu intanto continuavi a parlare del capitolo 25 della prima parte del Quijote. È il momento in cui il caballero andante spiega al suo scudiero che le azioni fingidas e contrahechas che s’è deciso a compiere “no son de burla, sino de vera”, che non sono semplici menzogne. È Quijote che parla. Ma eri anche tu, Santiago. Avrebbero potuto essere Stanislavskij, Brecht, Mejerchol’d, Decroux o Grotowski. Non è questa la quintessenza del sapere teatrale? E non è ciò che permette alla pratica teatrale d’essere rivolta senza divenire violenza? Eversione che si nutre del suo contrario. Il Quijote non è mai stato fra i miei libri-guida. Il mio Cervantes è Witold Gombrowicz. Ma in quel momento, l’intrecciarsi delle traduzioni, e l’andirivieni dei pensieri mi davano l’illusione che diverse voci, provenienti da tempi e uomini diversi, parlassero, con parole dissimili, di questioni simili. La tua voce fisicamente presente, e le presenze dei maestri assenti si mischiavano a quella di Don Quijote che spiegava a Sancho come l’apparente quotidianità delle cose e delle azioni umane sia solo una crosta, un maligno incantesimo, che soffoca la vita che le pervade sotto la certezza del loro significato. Tutto questo è anche scienza e tecnica. Nella mia lingua di lavoro lo traduco: estrarre il comportamento extra-quotidiano dell’attore dal comportamento quotidiano. È di questo che mi occupo da anni, cercando il bios, il flusso di vita pre-espressivo al fondo delle azioni degli attori. È a questo che abbiamo a lungo lavorato, Sanjukta ed io, cercando di liberare questo bios incapsulato nelle forme trasmesse dalla tradizione. Ma cosa cerco attraverso questa scienza e questa tecnica? Forse la libertà di vivere contemporaneamente in due mondi. Mi rendo conto che questa lettera rischia di assomigliare ad un soliloquio. Invece è un dialogo. Perché guardandoci l’un l’altro come in uno specchio, osservandoci come se fossimo l’uno il rovescio dell’altro, arriviamo a conclusioni che nessuno dei due, forse, avrebbe osato considerare come proprie. Il mondo comincia ad oscillare negli occhi di chi intuisce scintille di vita sotto le croste delle cose e delle azioni umane. Vedere il mondo secondo due visioni differenti e contemporanee, significa vivere in due mondi, come Crazy Horse, che era un capo visionario e sapeva essere un astuto e freddo stratega, o come il caballero andante, che però fu una vittima. I valori per i quali ci consumiamo sono per la maggioranza che ci circonda parole vuote, sciocchezze. Fino a che punto dobbiamo spiegare, spiegarci? Dobbiamo tenere gli occhi ben aperti, per non divenire vittime della nostra differenza. Ma – e questo è il più difficile – dobbiamo sognare per non essere vittime della nostra chiaroveggenza.

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Mi guardo attorno, vedo te, il teatro della Candelaria, ma anche i compagni peruviani degli Yuyachkani, l’Osmego Dnia polacco, il Teatro Tascabile di Bergamo e il Teatro Potlach, il Teatro Nucleo, argentino e italiano, Ariane Mnouchkine ed il Théâtre du Soleil, tutti quei gruppi che in Europa e in America Latina continuano a fare teatro insieme da 20, 25, 30, 35, 40 anni. Penso all’Odin Teatret, con il quale sono in questo momento in tourné, otto mesi in giro, quattro mesi a casa. Ci chiamavano teatro “giovane” quando abbiamo raggiunto per la prima volta una certa fama. Ora alcuni di noi sono nonni, i più “giovani” sono quarantenni. Alcuni critici, stanchi, dicono che facciamo un teatro “già visto”. Ma quel che un tempo videro era già il nostro teatro. Continua ad essere nostro. Intanto i nostri nomi e quelli dei nostri teatri, caro Santiago, sono entrati nei libri e nelle enciclopedie. Siamo personaggi di cui si legge, e persone del “teatro andante”. Ancora una volta, mio malgrado, mi trovo accanto l’ombra di Don Quijote che persisteva ad arrancare su Rocinante mentre la gente leggeva le sue avventure trasformate in romanzo. Sono giochi di specchi che rallegrano lo scorrere del tempo. È impossibile non provare fierezza, pensando alla resistenza dei nostri gruppi. Non ci siamo lasciati chiudere nell’età “giovane”. Né ci siamo accontentati del ruolo di utopisti. L’utopia abbiamo dimostrato che si poteva realizzare. “Llaneza, no te encumbres”… Non ti lascerò il tempo di ripeterla, la frase di Cervantes e del titerero maese Pedro. Non penso affatto alla solennità dei nomi e delle teorie. Penso proprio al suo contrario. Vorrei raccontare la storia dei teatri che sono diventati isole viaggianti come una storia anonima, a metà fra pícaros e caballeros. Mi piacerebbe raccontarla lasciando cadere le parole che ci hanno definito e caratterizzato, abbandonando le nostre teorie come le lucertole lasciano la coda fra le unghie del gatto cacciatore. Immagino che questa storia anonima, finendo nelle mani di giovani che ancora non conosciamo, parlerebbe con la voce profonda dei racconti che sfuggono al controllo di chi li ha composti. Il che vuol dire che la morale della favola sta lì davanti ai nostri occhi, ma non la sappiamo decifrare. La domanda che avevo rivolto a te, è a me stesso che ora si rivolge. Perché faccio teatro, perché continuo? E soprattutto: che cosa cerco? Non so più di chi sia la voce, la tua o la mia, che, non rispondendo, risponde. Quasi settantenne, in quell’inizio d’ottobre del ’94, ben piantato sulle tue scarpe leggere, con le mani raccolte l’una nell’altra, raccontavi il valore del teatro, e non ne parlavi. Giravi in tondo, a spirale. Al centro si cominciava ad intravedere qualcosa di trasparente, di muto e insieme di eloquente. Noi della Candelaria, dicesti, se facessimo teatro per ragioni politiche, avremmo smesso

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di farlo. Se lo facessimo per risolvere i nostri problemi di sussistenza, non lo faremmo più. Perché dunque lo facciamo? Dicesti: “por la razón de la sinrazón”. E qui entra in scena il caballero andante. Sa che non ha ragioni per spiegare perché ami Dulcinea. Sa che non è vero che la ama perché è una principessa. Lui rovescia il paradigma, e tu spiegasti con la chiarezza d’un rabbino il meccanismo del rovesciamento. Non è la ragione a spiegare il fatto, ma il fatto a costituire la ragione: “por lo que yo quiero a Dulcinea del Toboso, tanto val como la más alta princesa de la tierra”. Il teatro non “lo faccio perché lo amo”, ma “lo amo perché lo faccio”. E soprattutto “lo amo per il modo di come lo faccio”. “Faccio” è un verbo che nel pronunciarlo assomiglia a un respiro. La llaneza può divenire limpida e labirintica come un koan. Ci sembrò di vederlo quel contadino colombiano di 108 anni di cui ci avevi parlato. Come aveva fatto a conquistare una tale longevità? Tacque a lungo. Dieci, venti secondi sono lunghissimi in televisione. Poi rivelò il segreto: “Respirando, respirando, respirando”. Parole sue. Parole tue. Parole nostre. Per i 30 anni della Candelaria, un abbraccio fraterno. Eugenio Barba

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FABBRICANTI DI OMBRE

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CONVERSAZIONE NOTTURNA CON ATAHUALPA DEL CIOPPO*

Si chiamava Capitain Matamore, era un antico attore talmente magro, racconta Théophile Gautier, che la sua figura sembrava composta dall’unione di due profili. Era l’ombra di se stesso. Morì in piedi per il gelo, appoggiato a un albero. All’alba, sul paesaggio coperto di ghiaccio e di neve, sembrava un’ombra nera, il monumento a tutti quei fabbricanti d’ombre che sono gli artigiani del teatro. Americo Atahualpa del Cioppo era alto, magro, dinoccolato, non faceva l’attore (“troppo timido, troppo impacciato”, diceva), ma se l’avesse fatto sarebbe stato un perfetto Capitano dell’antica Commedia dell’Arte. Un Quijote nato in Uruguay? Non credo. Contro i mulini a vento non combatteva. Si oppose a nemici molto più pericolosi per lui e per il mondo. Non fu un vincitore. Non fu neppure uno sconfitto. Non era così esageratamente magro da sembrare l’unione di due profili. Ma fu un buon fabbricante di ombre. Anche di se stesso ha fatto un’ombra. Parlo di ombre molto particolari: ombre indelebili. * Ho incontrato Atahualpa varie volte, e ogni volta ero colpito dalla luminosità del suo viso che da ad alcuni anziani l’aspetto dell’innocenza, di una sorta di infanzia saggia. Anche Julian Beck era così nei suoi ultimi anni. Mi chiedo cos’è che determina questa luce sul viso di persone che hanno sperato e lottato per un mondo più giusto – e che non l’hanno visto.

* Pubblicato per la prima volta in Arar el cielo, a cura di Lluís Masgrau, Fondo Editorial Casa de las Américas, L’Avana 2002.

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Come è possibile che non tengano una smorfia di sarcasmo sulla bocca? Sono degli illusi? Per loro la fede è più forte della verità? L’ingenuità più consistente dell’esperienza? O sanno che in ultima istanza l’illusione più pericolosa è la disillusione? Il coraggio, l’intelligenza, l’allegria imperterrita, la fedeltà alle proprie idee e ai propri sogni, il senso di giustizia, la volontà di rivolta, il disgusto per la mediocrità del male e il piacere per i lumi della ragione, l’acutezza analitica e il fervore della speranza non bastano. Sono doni effímeri. Quando con gli anni la nostra vita comincia a declinare, anche il mondo che ci circonda corre il rischio di decadere e di svelarci il suo volto arido. Atahualpa non si piegò alla tentazione della vecchiaia, non si arrese a quello che sembra evidente e non perse la fiducia nell’azione. Eludere l’illusione della disillusione sembra un gioco di parole, Invece è il paradosso dell’azione: il mondo più giusto perisce proprio nel momento in cui perdiamo l’ostinazione di pensarlo attivamente. In poche parole: è questa ostinazione. Ma che cosa vuol dire un mundo più giusto? Non è forse un ossimoro, una contraddizione in termini altrettanto forte dell’idea di un’ombra indelebile? E non è forse vero che un mondo più giusto è l’ombra di un mondo che non c’è, che non c’è mai stato e non ci sarà? * Nel 1984, Atahualpa Del Cioppo compiva 80 anni. La rivista “Escénica” dell’Univesidad Nacional Autonoma di Messico, gli dedicò gran parte del suo numero di luglio. L’articolo di apertura era del noto regista messicano Lluis de Tavira. Tre punti mi colpirono particolarmente. Mi irritavano e nello stesso tempo facevano risuonare qualcosa che sentivo appartenere ai miei valori. Eppure mi parevano eccessivamente ingenui, e risvegliavano il mio lato scettico e irridente, quella parte di me che era divenuta adulta negli anni trascorsi in Polonia, dove gli ideali e l’ottimismo sul futuro d’un mondo più giusto erano messi a dura prova. L’articolo cominciava così: “El viejo de nombre legendario, que nació con el siglo, nos describe el paciente itinerario del retorno del sueño a la realidad, por virtud del teatro”. Aggiungeva: “A diferencia de la ruta de Calderón, al revés, el trabajo teatral de Atahualpa nos testimonia el esforzado arribo entre naufragios de una América de ficción al puerto de la historia”. Erano davvero facilmente ottimistiche e ingenue le parole di Lluis de Tavira? Oppure la loro semplicità era enigmatica? Sintetizzava un’idea di

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Atahualpa, secondo il quale il teatro poteva materializzare le immagini dell’America sognata da Artigas, Bolivar, Morelos e Martí. Ma è davvero questo il modo di trasportare il sogno alla realtà? Oppure è un sogno ancor più illusorio, perché oggettivato e reso collettivo? Lluis de Tavira ci faceva ascoltare il suono di un campanello d’allarme, e subito dopo lasciava che fosse sovrastato dalla musica per la festa di compleanno. Quel compleanno ottuagenario, il 1984, era anche l’anno scelto da George Orwell per ambientare e intitolare uno dei romanzi più chiaroveggenti, disillusi e profetici del XX secolo: “Hoy, 1984, de funestos presagios orwellianos, el viejo Atahualpa parece más optimista que nunca porque presiente y siente tener a la historia de su lado”. E su che cosa si fondava questa strana certezza che i fatti della storia contemporanea, in realtà, contraddicevano? Perché mai Atahualpa avrebbe dovuto presentire e sentire di tener a la historia de su lado? La risposta era oltremodo banale: “Quizá casi por la simple razón de saberse sobreviviente de tanta persecución, asesinato y masacre”. Qui – ricordo – mi venne voglia di gettar via quell’articolo e l’intera rivista. Com’era possibile ridurre un tema tanto grande e terribile alla piccola soddisfazione individuale di raggiungere gli ottant’anni di vita? Com’è possibile mettere su un piatto della bilancia la ferocia del XX secolo e sull’altro piatto la gioia d’uno che da quella ferocia è scampato indenne? Qual è la proporzione? È vero che Atahualpa non si piegò alla tentazione della vecchiaia. Avrebbe per questo dovuto piegarsi all’ottimismo sulla storia, cioè alla più penosa delle bugie? Avrebbe dovuto spruzzare la sua soddisfazione per una vita coraggiosa sull’intero panorama circostante, quasi benedicendola con lo champagne dei suoi ottant’anni? Avrebbe dovuto, cioè, perdere il senso della storia? L’affermazione di Lluis de Tavira mi parve tanto incredibilmente superficiale da instillarmi persino il dubbio che nascondesse qualcosa di profondo. Nonostante tutto, proseguii la lettura. L’articolo era sintetico e interessante. L’autore metteva in rilievo la connessione fra la piccola storia di Atahualpa, la sua biografia, ed alcuni punti di svolta tragici e drammatici della Grande Storia. Mostrava Americo del Cioppo giovinetto a Canelones, il suo paese natale, a circa 40 km da Montevideo, il giorno in cui assistette al passaggio del treno presidenziale di Baltazar Brun. Nel quadro seguente mostrava lo stesso Americo all’inizio del 1933, quando aveva già assunto il nome di Atahualpa, era un ex-campione di calcio, impiegato di banca, ma soprattutto poeta e intellettuale impegnato nella lotta politica. Siamo nei giorni del colpo di stato di Gabriel Terra. Baltazar Brun, costretto a dimettersi, scende in

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piazza, grida “Viva la República!”, “Viva la Democrazia!” e si spara un colpo di pistola. Atahualpa dirà: “Ese tiro me lo dieron en la conciencia”. In poche pagine, Lluis de Tavira creava molti nodi. Poneva il teatro di Atahualpa a diretto contatto con il mondo. Dal contrasto fioriva una gioia allarmata. “Facevamo Brecht prima di conoscerlo”, ha detto una volta Atahualpa parlando dei suoi primi anni come regista, quando metteva in scena Miller, Odet, Ibsen, Hochwalder ed Usigli. La somiglianza con Brecht non si fondava sulle scelte di stile, sull’estetica e neppure sull’ideologia, ma su un atteggiamento preliminare, una fratellanza di spirito: la volontà di non lasciarsi oscurare dai tempi bui. Gli spettacoli di Atahualpa non sono mai stati demoralizzati, erano divertenti, vitali, pieni di denunce e di speranze. Una gioia dei sensi e della mente: “come per un vino vecchio ed una nuova idea”, diceva Brecht tramite Galileo Galilei. Quella gioia dei sensi e della mente, quella vitalità mai disperata aveva però una coscienza, e nel fondo di quella coscienza c’era un colpo di pistola, l’immagine di un uomo giusto che si uccide al centro d’una piazza in tumulto. Un mito. Il modo in cui Lluis de Tavira annodava il teatro di Atahualpa alle tragedie del proprio tempo e del proprio paese lo sentivo vero. Ma poi c’erano quegli scoppi di ottimismo che non comprendevo, che mi parevano illogici e mi spingevano a prendere le distanze. Ma sembrava anche che volessero dirmi qualcosa. Mi resi conto che in realtà parlavano del modo di rendere indelebili le ombre. Atahualpa compiva ottant’anni, io ero alla soglia dei cinquanta. In quegli anni ero spesso visitato dall’immagine di Antigone. Antigone era stata a lungo, per il mio adulto scetticismo “polacco”, quasi il contrario di un mito: un’apologo sull’inefficacia. Quel suo simbolico pugno di terra sul cadavere del fratello era un inutile modo di opporsi al tiranno. Perché non pugnalarlo, quel tiranno? Era come se Antigone, l’eroina del rifiuto che però non tenta la rivoluzione, fosse continuamente processata dal primo e dal secondo Bruto, l’uccisore del re etrusco di Roma e l’uccisore di Giulio Cesare. Opporsi alla legge ingiusta divrebbe essere un atto di lotta politica. Antigone era invece il simbolo d’un rifiuto praticato con mezzi volutamente inefficaci: una contraddizione in termini, un’ingenuità, il sentimento al posto della lotta. Antigone m’appariva come l’emblema dell’eroina sentimentale, solo in parte riscattata dalla sua cieca testardaggine e, suo malgrado, da una morte feroce. Pensavo persino di metterla in scena, questa visione sferzante della mitica eroina. Ma a questo punto sentivo il monito dell’altra voce, che fra me e me chiamo la voce non-adulta. Questa voce mi diceva di no. Antigone era molto più della sua ap-

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parente inefficacia. Cominciai a rendermi conto che lei, con l’insieme delle sue azioni e delle sue disobbedienze, non aveva lottato, ma aveva fabbricato un’ombra. Era un’ombra, non un esempio. Ma un’ombra che non passa, che non svanisce come i fantasmi ogni volta che canta il gallo. Un’ombra che si proiettava aldilà della cultura che aveva tramandato la sua storia e il suo mito, e che nessuno riusciva a raschiare via dai muri delle nostre coscienze. Alla fine dell’articolo, Lluis de Tavira collegava il tradizionale nomadismo dei teatri ai viaggi ed all’esilio di Atahualpa, elencava le 18 città latinoamericane in cui aveva seminato lavoro e regie. Gli attori ambulanti, diceva l’autore, erano “portadores de cultura de un sitio a otro. Inquietantes mensajeros de la diferencia”. Ho sottolineato mentalmente inquietantes, non diferencia. La differenza, in sè, non è un valore. È una condizione. Può essere una condizione di inferiorità, o una fase che prelude all’integrazione, oppure una segregazione scelta o patita. Diventa feconda diventando inquietante. Normalmente, i corpi estranei, coloro che qualifichiamo come “differenti”, generano indifferenza, vengono rimossi ai margine della nostra mente e delle nostre società. Oppure vengono sentiti come minacciosi, generano ostilità. In seguito, quando non fanno più paura, quando sono non solo stranieri ed estranei, ma vinti, diventano museo e spettacolo, acquistano il fascino dell’esotico. Il teatro è fuori da questa logica. Può essere una differenza vezzeggiata, sovvenzionata, o anche soltanto tollerata. Può essere una differenza che si accontenta di sé. Oppure può divenire la pratica di una dissidenza che riesce insieme ad affascinare, a farsi rispettare, ed a mostrarsi irriducibile. È inquietante perché non si adegua alle regole della lotta. Lottare con essa sarebbe come lottare con un’ombra, che più l’afferri più ti sfugge di mano. Anzi: diventa la tua mano. La lotta prevede che vi sia un vincitore e un vinto, oppure – come terza pericolante possibilità – un armistizio, una tregua. Ma alla fin fine la lotta tende ad eliminare il problema, la contraddizione, tende al trionfo dell’omogeneità e dell’integrazione. Completamente diverso è il trasmettersi di un’ombra indelebile, la scintilla di un punto di domanda che buca la compattezza dello spirito del tempo. In questo caso non si tratta di essere vinti o vincitori. Si tratta di preservare una presenza che non si adegua e che non finisce nelle sabbie mobili dell’indifferenza circostante. La differenza inquietante vince non quando riesce a prevalere, ma quanto più riesce a preservare la propria presenza e la capacità di trasmettere al futuro il segno della propria disappartenenza. Non è possibile non stare in questo mondo. Ma è possibile non

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appartenergli. Ed è importante preservare la testimonianza e la trasmissione che la dissidenza in pratica è possibile ed operosa. Era questo che in realtà voleva dirmi quella frase tanto apparentemente ingenua. Sì, poteva davvero essere giusto e sensato che Atahualpa si sentisse conciliato con il mondo, con il futuro, “casi por la simple razón de saberse sobreviviente de tanta persecución, asesinato y masacre”.

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* La prima regia per il teatro El Galpón – il gruppo di teatro più longevo del mondo – Atahualpa la fece compiendo i cinquant’anni a Montevideo, nel 1954. Mise in scena un dramma storico di Fritz Hochwalder, un testo contemporaneo che si ricollegava alla tradizione di Schiller. Hochwalder era un operaio austriaco educato attraverso i corsi di teatro popolare, e aveva abbandonato la terra natale quando la Storia vi fece irruzione e l’Austria divenne nazista. Da quel momento visse in Svizzera. Il titolo spagnolo del dramma – Así en la tierra como en el cielo – attinto da versetto della più importante preghiera cristiana, riproduceva il titolo francese del dramma di Hochwälder. Il titolo originale, però, era Das heilige Experiment – l’esperimento santo. Veniva rappresentata la notte che precedette la decisione di porre fine a quelle missioni, un vero e proprio Stato, che i gesuiti avevano creato in Paraguay e che portoghesi e spagnoli distrussero a metà del Settecento, con il permesso del Papa. Uno Stato fondato sull’eguaglianza, sulla difesa contro la schiavitù e sugli ideali cristiani. O meglio: sulla teocrazia. Non credo, infatti, che le reducciónes del Paraguay fossero quel mondo giusto che è poi divenuto leggenda. Certo, però, furono una difesa contro l’orrore circostante. Voltaire diceva che i gesuiti amministravano un territorio più vasto della Francia con le regole con cui si organizza un convento. Potremmo chiederci che cosa sarebbe successo se quel santo esperimento non fosse stato soffocato nel sangue dai suoi nemici. L’esperienza purtroppo insegna che quando si cerca di realizzare in terra un regno che incarni un ideale celeste tutto alla fine si rovescia e dalla libertà cresce la tirannia, dall’indipendenza il fanatismo e dalla ricerca della felicità l’orrore. Questi pensieri e queste domande si agitavano nel fondo del dramma di Hochwalder. Fu rappresentato per la prima volta nel marzo del 1943, nell’oasi svizzera, mentre tutt’intorno imperversava la guerra, i tedeschi occupavano la Francia, le città erano bombardate, e a Stalingrado l’invasore era appena stato fermato. Nel dopoguerra fu un dramma rappresentato in tutto il mondo. Quella che in seguito è stata chiamata “guerra fredda” non era soltanto l’ostilità fra

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due blocchi, ma la contrapposizione fra due diversi modi di sognare il mondo e il suo futuro. Il primo pensava che il progresso potesse risultare dalla complementarità degli interessi e dei mercati, dall’energia e dalla razionalità dell’espansione capitalistica, attraverso la pratica delle democrazie. Il secondo pensava che fosse possibile materializzare in maniera scientifica l’utopia e che fosse persino giusto, per prepararne le condizioni, rinunciare pro tempore alla libertà. Il primo condannava la distruzione e la violenza. In realtà le occultava, le disseminava in una rete di vasi capillari grande quanto il pianeta, o in atti di forza che presentava come necessarie rimedi in situazioni estreme. Il secondo predicava il mito della Rivoluzione. Atahualpa mise in scena Así en la tierra como en el cielo nell’anno in cui a Caracas si tiene la Conferenza interamericana contro l’espansione del comunismo, l’anno in cui Getulio Vargas a Rio sarà costretto al suicidio dai militari brasiliani, e in Paraguay un colpo di Stato porterà alla dittatura Alfredo Stroessner. Ognuno di questi colpi rafforzava, dalla parte opposta, la speranza d’un riscatto, ogni notte faceva pensare ad un’alba più giusta, come se la Storia avesse una sua moralità. La domanda fondamentale che si muoveva sullo sfondo di Así en la tierra como en el cielo avrebbe potuto formularsi in questo modo: un mondo più giusto è davvero dalla storia che possiamo aspettarcelo? È la domanda che Atahualpa non smise di porsi lungo tutta la sua vita, cercando di evitare che le risposte potessero trasformarsi in un veleno deprimente per le coscienze. È la domanda che non possiamo non porci noi, che ci inoltriamo perplessi verso il Duemila. * Il prestigio di certi colori e di certe parole è caduto – i colori delle bandiere; il rosso; gli slogan; parole come Popolo, Patria, Progresso, Storia. Molti simboli sono ormai tarlati e nella soffitta del Novecento vi sono alcuni sacchi di speranze andate a male. Non accade lo stesso con i miti. I miti sono ombre indelebili. Nutrono i piccoli mondi. Dal grande mondo sono usciti una volta per tutte. Viviamo in due mondi. Il Piccolo mondo è l’ambiente in cui stiamo, il tessuto delle nostre relazioni, il paesaggio che ci appartiene e che noi possiamo adattare ai nostri bisogni. Ci sono valli, isole, montagne, oasi, nel Grande mondo, che effettivamente riescono a resistere agli alisei di sopraffazioni e distruzioni che chiamiamo Storia. I Piccoli mondi possono essere, a volte, luoghi in cui coltivare l’eccezione, ma la regola del Grande mondo non è mai stata degna della parola “giustizia”. Alcuni pensarono che il Grande mondo

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potesse essere rovesciato e riorganizzato sul modello dei più giusti fra i Piccoli mondi. Altri pensano, al contrario, che fra il Piccolo mondo e il Grande mondo ci sia un salto di dimensione, il passaggio da un piano logico ad un altro. Cosicché quel che nel Piccolo mondo è fecondo, quel che può vivere e trasmettersi, non appena passa nelle dimensioni del Grande mondo rischia di trasformarsi nel suo contrario, fallimento o violenza. Nel Grande mondo, è appena finito un millennio. È stato il millennio delle rivoluzioni. Dal Cristianesimo al Comunismo, il programma di rovesciare le regole del Grande mondo ha illuminato la terra e l’ha incendiata,. La luce è spesso tornata a risplendere, e altrettanto spesso si è trasformata in tenebra profonda. Il mondo più giusto è stato spesso intravisto, perché nessuno l’ha visto realizzato. Esistono, allora, soltanto due vie, l’illusione o il cinismo? Che cosa indica l’espressione mondo più giusto, una linea d’orizzonte che si allontana ad ogni passo che ci avvicina ad essa? A tutte queste domande non so rispondere. Né so credere alle risposte che gli altri tentano di darmi. In questo mare ciascuno naviga da solo, con la sua intelligenza ed il suo cuore – e non esistono bussole. So che certe piccole valli possono essere difese e che al loro interno si possono creare piccoli mondi in cui vivere sembri più giusto. So che il teatro ha permesso e permette di abitare, fortificare e difendere alcune di queste valli. Ma se uno mi chiedesse: “dunque, a che cosa credi?”, gli risponderei che credo nell’ostinazione. Credo che l’ostinazione rappresenti il mondo più giusto in noi, non un sogno, ma qualcosa di concreto, di corporeo, che appartiene a quel corpo del pensiero che sono le nostre azioni. L’ostinazione è il restare in piedi. Il restare contro. È l’ombra che riesce a restare indelebile, a non annegare fra la penombra del mondo-così-com’è, e la luce abbacinante delle illusioni. È il sorriso di animale inquieto, volpe e bambino, del vecchio Atahualpa.

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FIGLI DELLO STESSO PARADOSSO*

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Holstebro, 11 agosto 2004 Caro José Luis, certe amicizie sono la scoperta improvvisa di un’affinità preesistente e oggettiva. Ce ne siamo resi conto a Valladolid quando nel 1995 ci incontrammo in occasione della tournée di Kaosmos, lo spettacolo dell’Odin Teatret. Si rese evidente una consanguineità fra le nostre storie, segnate dal bisogno di staccarci dalle terre natali e di ritornarvi da stranieri; dall’essere disadattati al teatro così come esso si configura nello spirito del nostro tempo; dall’incontro con Grotowski, maestro di paradossi che non erano giochi di idee, ma diventavano sfide personali che trasformavano i nostri destini. Il paradosso fondamentale di Grotowski potrebbe definirsi così: fare del teatro un luogo per la ricerca dell’identità, ma passando attraverso la pratica dello sradicamento. Un luogo e un tempo per l’incontro attraverso l’esercizio della differenza e della solitudine. Un’esperienza collettiva fondata sulla demistificazione dei miti della collettività, dell’unanimità, dell’unione comune. Lui lo materializzò a suo modo. Io, facendo rotta verso gli antipodi. Tu, con una rotta ancora diversa. Ma siamo tutti figli dello stesso paradosso. Erigiamo case, dedichiamo tempo, intelligenza e denaro per renderle corrispondenti ai nostri valori, per renderle solide contro gli urti delle circostanze. Ma le erigiamo e le rafforziamo perché in esse non vogliamo rinchiuderci. Vogliamo case che ci servano a viaggiare all’incontro degli altri. Che siano tende di un oasi. Le amiamo. Le consideriamo essenziali per la sopravvi-

* Lettera a José Luís Gómez, attore, regista e direttore del Teatro La Abadía a Madrid. Pubblicata in Nada es cómo es, sino cómo se recuerda. Teatro de la Abadía 1995-2005, Madrid 2004.

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venza del nostro lavoro e delle relazioni umane che attraverso di esse intrecciamo. Ma il deserto resta il nostro territorio. La casa che tu hai creato a Madrid, il Teatro dell’Abadía, la considero uno dei luoghi che sono miei, che sono stati approntati anche per me. Quando l’Odin Teatret viaggia, tu lo sai, porta con sé non solo spettacoli e bagagli. È accompagnato dall’ingombrante e rinfrescante presenza dei suoi fantasmi, dei suoi morti, dei suoi ideali taciti, difficili da tradurre in parole, impossibili da dimenticare. Così, se non incontriamo fratelli nel paradosso, diventiamo spesso ospiti ingombranti. La tua Abadía ha saputo accogliere la carovana dell’Odin, l’ha sostenuta e protetta. Quel che ci lega, non sono le parentele dei fantasmi, le concordanze delle teorie, ma un eguale bisogno di mantenere in vita sogni apparentemente impossibili. Sogni ad occhi aperti, che ci impediscano di addormentarci nell’acquiescenza e il compiacimento. Fai bene a raccogliere pagine per celebrare i primi 10 anni di vita della tua Abadía, a coltivarne la storia e la memoria. I libri spesso sonnecchiano nelle biblioteche, in paziente attesa della polvere e del fuoco. Ma le loro pagine possono divenire stelle di carta per orientare altri viaggi, itinerari diversi dai nostri, ma sotto lo stesso cielo. Così – come facevamo da bambini, quando ci sentivamo prigionieri dei banchi e della scuola, e qualcuno scriveva una pagina, e poi la piegava e ripiegava per farne una piccola freccia di carta con cui fendere la disciplina dell’aula verso un amico o ad un’amica lontana – anch’io ora ti mando questa lettera, assieme ai miei compagni. Non siamo affatto bambini. Siamo viaggiatori stanchi. Anche tu, immagino, spesso ti senti stanco. Eppure duriamo. Ciò che veramente dura non sono le nostre forze. È la testardaggine con cui rifiutiamo a noi stessi il diritto di giustificare la nostra giustificata stanchezza. Viaggia ancora a lungo con la tua Abadía, caro amico José Luis. Eugenio

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RICORDANDO IL RE FREDERIK V*

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Holstebro, 11 giugno 2010

Gentile Signor Ministro Frédéric Mitterand, ci vogliono secoli per costruire una reputazione e pochi giorni per ridurla in cenere. In tutto il mondo, nell’immaginazione e nella realtà della gente, la Francia è un paese che ha ispirato innumerevoli artisti, offerto loro asilo e incoraggiato le loro visioni, permettendo di scoprire imprevedibili cammini artistici e di tutelare l’essenza delle loro tradizioni. Da molti anni il Théâtre du Lierre di Parigi, diretto da Farid Paya, è riconosciuto per la sua coerenza artistica e per l’accoglienza ad artisti e compagnie straniere, dando loro l’opportunità di condividere gli spettacoli con gli spettatori francesi. Il mio Odin Teatret danese è stato uno degli ospiti del Théâtre du Lierre e ha una conoscenza di prima mano del suo livello artistico e delle sua efficacia. Per questo, il mio sbalordimento e dispiacere sono grandi venendo a sapere che il Théâtre du Lierre non è più sovvenzionato dal suo Ministero. I problemi che il suo paese sta affrontando sono giganteschi e quindi la mia petizione per il Théâtre du Lierre può apparire ridicola. Benché io sia un fervente repubblicano come immagino sia anche lei, vorrei però ricordare il re Frederik VI di Danimarca. Nel 1806 durante il suo regno, a causa delle guerre napoleoniche la Danimarca ebbe un tracollo finanziario e la popolazione dovette sottomettersi a restrizioni economiche oppressive. Quando il primo ministro chiese al re se lo Stato dovesse sospendere l’appoggio agli artisti, Frederik VI rispose: “Siamo diventati poveri, ma questo non vuol dire che dobbiamo diventare stupidi”. * Lettera a Frédéric Mitterand, Ministro della Cultura di Francia: nella primavera 2010 aveva tolto ogni sovvenzione al Théâtre du Lierre di Parigi.

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La storia e la cultura della Francia sono motivo di orgoglio per noi gente di teatro che lottiamo contro i nazionalismi e i pregiudizi del nostro tempo. Un leader, Monarca, Presidente della Repubblica o semplicemente Ministro, deve avere la libertà e il coraggio di prendere decisioni dolorose. Tuttavia vale la pena ricordare l’esempio di quel re danese oggi dimenticato. Invio a lei e ai collaboratori del Suo Ministero i miei fervidi auguri per il suo paese i cui artisti sono stati fonte di ispirazione per me e i miei attori. Sinceri saluti

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PAESAGGI PRIMA DELLA BATTAGLIA

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LO SPAZIO PARADOSSALE DEL TEATRO NELLE SOCIETÀ MULTICULTURALI*

Diciamo che una società è multiculturale e abbiamo l’impressione di non esprimere un giudizio, ma di sottolineare solo la pluralità delle sue componenti. In realtà indichiamo una ambivalenza. La condizione multiculturale non è mai sentita come neutra, ma come una minaccia o un valore. È una minaccia quand’è imposta da circostanze economiche e sociali che sfuggono al controllo dei singoli individui. È considerata, al contrario, un valore quando è il risultato d’una scelta. Un gruppo, un festival, un teatro o un’associazione “multiculturali” o “multietnici” appaiono positivi già per il modo in cui sono composti, prima ancora di sapere che cosa producano e come lo producano. Questo valore fortemente positivo attribuito alla multiculturalità è l’altra faccia del suo aspetto minaccioso. Dato che la società ci pare divisa e gravida di lotte intestine, le oasi di pacifica convivenza fra gruppi ed individui di culture differenti ci paiono isole fortunate ed esemplari. Il termine multiculturale, oggi, non definisce tanto una società con gruppi differenti, ma una realtà dove le differenze sono difficili. Le differenze diventano difficili quando tendono verso due modi speculari di distruzione: per omogeneizzazione o per reciproco rigetto. Omogeneizzazione e rigetto non sono due opposte alternative. Riguardano piuttosto due differenti livelli della cultura. Ad un’omogeneizzazione superficiale (le stesse fogge del vestire, gli stessi divi e dive, gli stessi standard di informazione, gli stessi spettacoli, gli stessi cibi) corrisponde un profondo bisogno di scendere verso i fondamenti della propria specificità e della propria etnia, per non lasciarsi sopraffare dalla confusione multiculturale circostante. *

Pubblicato per la prima volta in “Politiken”, Copenaghen 1996.

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Il nostro secolo finisce rassegnato fra squilibri economici che sradicano multitudini di individui dai loro contesti poveri, spingendoli verso le economie floride e legalizzando il sopruso. La fine delle rigide contrapposizioni ideologiche è accompagnata da sommovimenti che fino a pochi anni fa avremmo giudicato arcaici, da guerre etniche e di religione, da catene di massacri. Il fatto che (quasi) nessuno parli più di socialismo o di ideali comunisti non vuol dire che sia diminuita la miseria e l’ingiustizia. Vuol dire solo che è diminuita la speranza. In questo panorama, si può forse sperare che il teatro continui ad avere un suo spazio? * In una società dalle differenze difficili, il teatro diventa uno spazio paradossale. In senso stretto, un paradosso non è un’opinione bizzarra, ma un pensiero coerente che parte da principi diversi da quelli su cui si basano l’opinione comune o le teorie prevalenti. Il paradosso, pur non essendo confutabile, non prevale: non vince, ma non viene sconfitto. Penso a tutto questo, quando parlo d’uno spazio paradossale del teatro. I luoghi comuni del teatro, nella cultura europea, sono stati per secoli al centro delle città. I teatri erano il luogo, il simbolo ed il monumento dell’unità della cultura nazionale, cittadina o di classe. Nel XIX secolo le loro facciate assomigliavano a quelle degli altri templi della civiltà borghese, il Museo e la Borsa. Fuori da questi luoghi comuni riconosciuti e rispettati, sorsero altri spazi teatrali, divergenti o in opposizione: teatri d’arte, teatri liberi, d’avanguardia, studi, piccoli teatri, théâtres de poche, ateliers, workshops, talleres, laboratori, teatri off e off-off. Il loro dialogo polemico con i luoghi comuni del teatro fu la fertilità della cultura teatrale del XX secolo. A1 di fuori di questi due spazi complementari, sorse poi un “terzo teatro”. Con il mio gruppo, l’Odin Teatret, sono in giro per il mondo otto mesi all’anno. Solo una piccolissima porzione di questo tempo la passiamo ospiti di teatri ricchi e rispettati. La maggior parte del tempo viaggiamo negli spazi del terzo teatro. Dappertutto trovo degli ambienti composti da minoranze motivate: persone assetate che cercano azione e trascendenza attraverso il teatro. La parola trascendenza sembra filosofica o religiosa. Per me indica qualcosa senza dottrina, che ha a che fare con i valori che guidano l’operato modesto e preciso dell’artigiano. Penso all’apparente solitudine degli artigiani anarchici che avevano combattuto per la libertà della Catalogna incontrati da

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La conquista della differenza

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Hans Magnus Enzeneberger nei paesi dell’esilio, capaci di conservare la dignità e il senso della propria rivolta attraverso anonimi mestieri. C’è molto teatro trascendente, oggi, nella nostra società multiculturale. Rispetto ai periodi in cui il teatro rinomato sembrava il solo punto di riferimento, c’è oggi una moltitudinè di teatri attivi nelle regioni dove sono profonde le ferite sociali: nelle carceri, negli ospedali, nelle comunità degli emigranti, tra gli emarginati. Cioè quasi sempre fuori dai territori di quella cultura particolare frequentata dal pubblico-di-teatro. È teatro anonimo e trascendente quel che Susan Sontag è andata a fare a Sarajevo. È teatro anonimo e trascendente quel che faceva, prima della celebrità, Mbongeni Ngema nell’apartheid sudafricano. È teatro anonimo e trascendente quello fondato dal gesuita americano Jack Warner in Honduras, dove i Vangeli, Scapino e il Popol Vuh diventano emblema di resistenza culturale da parte dei sottomessi. Lo spazio paradossale del teatro è uno spazio di turbolenza lontano dalle luci e dall’attenzione degli esperti e dei facitori d’opinione. Bisogna riflettere su questa contraddizione: i teatri marginali e trascurati tentano di fondare un nuovo senso e un nuovo valore per una pratica che sembra destinata a permanere come gloriosa reliquia d’un modello di società in via di sparizione. * Ho vissuto il teatro come emigrazione. Mi ha permesso di spostarmi all’interno di società multiculturali senza che la difesa della mia identità mi trasformasse in qualcuno di identificabile. Il valore del teatro è nella qualità delle relazioni che crea fra gli individui e fra le diverse voci all’interno di uno stesso individuo. Non credo alla comprensione reciproca. Credo nell’interesse degli scambi, nell’immotivata solidarietà fra esseri diversi che non pretendono di capirsi. Credo nell’insuperabile separatezza di coloro che agiscono insieme. Unitario e comune può essere, però, il frutto della loro azione. Credo nel teatro come rituale vuoto, non perché futile e insensato, ma perché non usurpato da una dottrina. Qui ciascuno può cavalcare la propria differenza, può scoprirla, rafforzarla, senza soffocare quella degli altri. I griots di tutti i paesi e delle diverse epoche, gli attori professionali, artisti del viaggio e della transizione, sono gli emblemi dei teatri alla soglia del nuovo millennio. Fino all’inizio del nostro secolo, lo spazio naturale della

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gente di teatro è stato quello fluido e derisorio del viaggio, una dimensione in cui l’identità culturale non era stabilita né dai confini geografici né da quelli storici, ma dal valore d’un mestiere. Per secoli, finché il teatro è stato soggetto alla tirannia del dover piacere, del successo, della censura e del disprezzo sociale, gli attori e le attrici vissero una vita esiliata, tagliata fuori dai valori più preziosi e rispettati della società circostante. Oggi molti scelgono il teatro per salvaguardare quella parte di ciascuno di noi che vive in esilio. Questo esilio non è un’amputazione o un’umiliazione. È la conquista della nostra differenza. O, con altre parole, è azione politica. Diventa una presa di posizione non sempre dichiarata o consapevole, ma concreta e attiva, contro una società che ha paura delle sue molte anime.

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I CENTO VIOLINI DEL GUERRIGLIERO*

Il contastorie Amo le moschee del grande architetto turco Kozda Mimar Sinan. Quella di Damasco la si riconosce dai minareti affusolati che caratterizzano il suo stile. Non è monumentale, piuttosto graziosa e intima, con una serie di cupole sul tetto. La Siria è oggi una repubblica laica, così la moschea di Sinan è chiusa, e il giardino adiacente, trasformato in museo militare, sfoggia differenti aerei da caccia e cannoni di varie epoche tra alberi, arbusti e fiori. Imperturbabile, il venerdì a mezzogiorno, una piccola folla fa le sue genuflessioni davanti alle porte sgangherate della moschea di Sinan, mentre i visitatori del museo passano attraverso i fedeli in preghiera ed ammirano la potenza delle armi. Non siamo lontani dal bazar dove troneggia la spettacolare moschea del califfo omayad Walid, la prima nel mondo arabo. Dietro l’angolo si trova il caffé al Bazir. È l’unico ritrovo oggi a Damasco dove si possa far conoscenza dell’antichissima arte dei contastorie, un tempo così numerosi e popolari. Al modesto costo di una tazza di tè si può ascoltare Rashed Al-Hallak, ogni giorno – ad eccezione del venerdì – dalle sette alle otto di sera. All’interno, a ridosso del muro di fondo, si nota una poltrona sopraelevata, una sedia-trono di legno dalla pittura scolorita, ma ancora imponente. Rashed Al-Hallak avrà una sessantina di anni, è grassoccio, veste ampi calzoni alla turca (quelli cuciti in modo speciale per accogliere il Profeta quando alla sua prossima rinascita sarà un uomo a partorirlo), camicia bianca, un lungo gilè a strisce rosse e grigie. In testa porta un fez, come il personaggio del teatro d’ombra Karagöz. Si arrampica sul suo podio, si accomoda sul suo trono, ha in * Conferenza all’Incontro “Teatro tra macerie e barricate”, organizzato dal Teatro Proskenion nell’ambito dell’Università del Teatro Eurasiano, Caulonia, Italia, 24 giugno 2003.

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mano una spada. Da un colpo per terra ed inizia. Durante il racconto, la spada riposa di traverso sulle sue gambe, la usa raramente e con parsimonia: la punta in aria per indicare il cielo, addita degli oggetti o dei cadaveri al suolo, la fa roteare, la prende a metà della lama. A me personalmente, questo modo incongruo di tenerla e di scuoterla delicatamente evoca il volo di un uccello ad ali spiegate. È seduto confortevolmente, il braccio destro riposa sul bracciolo del trono. Di tanto in tanto lo solleva, vi appoggia di più il peso, si piega leggermente in avanti, si sporge verso uno spettatore afferrando con la mano il bracciolo per evitare di cadere. La mano sinistra tiene uno spesso quaderno con le pagine coperte di una scrittura calligrafata a mano. Rashed Al-Hallak legge una frase per se, in silenzio. Quindi la ripete ad alta voce interpretandola. A volte dopo la lettura silenziosa di una frase, fa una piccola pausa, come se non avesse capito o non sappia come dirla. A volte legge e racconta senza la minima esitazione, come se sapesse il testo a memoria. Avviene che Rashed Al-Hallak ripeta l’ultima parola, come se l’assaporasse o fosse in dubbio se sia quella giusta. Il ritmo dell’eloquio è trattenuto, pacato, non vi sono accelerazioni ostentate, non eleva o contraffa la voce, gli effetti vocali sono minuti, le variazioni quasi inesistenti, appena una melodiosità che forse appartiene all’intonazione locale che ignoro. I gesti che accompagnano il testo sono a volte incongrui: un guerriero muore e il contastorie fa il gesto di scacciare una mosca. Chi è là, grida, e la mano punta verso il libro che sta leggendo. Però il flusso, cioè l’intreccio di diversi ritmi e la loro manipolazione simultanea, è raffinatissimo: brevi pause per concentrarsi sul testo, lo sguardo verso il basso sul quaderno, quindi gli occhi guardano con decisione una parte precisa del caffè, come se il testo fosse diretto ad uno spettatore specifico. Il più delle volte espone la prima metà della frase guardando a sinistra e la seconda metà guardando a destra. È una cadenza dinamica con una traiettoria triangolare: da un punto verso il basso (il quaderno), davanti a sé a sinistra e quindi a destra, per poi ritornare al punto inferiore. In questa traiettoria regolare inserisce minuscole variazioni: lo sguardo si fissa nel vuoto, o su un punto sopra la sua testa o negli occhi di uno spettatore vicino. Non vi è nulla di esagerato o vivace in questo modo di agire. Sembra un nonno bonario che racconta una favola al nipotino con l’intenzione condivisa di sorprendere e farsi sorprendere. Eppure il contastorie seduto esegue una sapiente danza miniaturizzata variando senza cessa l’atteggiamento, la direzione nello spazio, la tensione della spina dorsale e il tono muscolare del torso. Improvvisamente Rashed Al-Hallak

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impugna la spada e dà un colpo vigoroso sul podio. Roberta, seduta accanto a me, trasale. Rashed Al-Hallak continua imperterrito. Alcuni minuti più tardi, nel mezzo della corrente moderata e tranquilla del racconto, riafferra repentinamente la spada e prende il sats, l’impulso, per fendere un nemico. Roberta, sulla sua sedia, fa un salto. Rashed Al-Hallak si ferma e ammicca con una smorfia ironica. Roberta sorride confusa. Gli altri avventori ridono divertiti. All’inizio sembravano assorti a bere il loro tè, come se il racconto non li interessasse. Lentamente viene allo scoperto una stretta relazione di complicità. Rashed Al-Hallak fa una pausa davanti all’ultima parola della frase, come se stesse per svelare un segreto al pubblico. E uno degli avventori grida la parola trattenuta. Il contastorie lo guarda come a un bambino sfrontato. Spasso generale. Altre volte un uomo lo interrompe, inizia un dialogo che ben presto coinvolge molti altri. In mezzo a una frase Rashed Al-Hallak si ferma e fa un cenno al cameriere. Lungo silenzio rotto improvvisamente dal ventilatore che si mette in moto sopra la sua testa. Il racconto riprende. Gli avventori sono tutti uomini. Entrano due donne ed un bambino. Si siedono ad un tavolo ed ordinano del tè. Il contastorie si interrompe e le guarda fissamente. Dice qualcosa e il bambino gli si avvicina intimorito. Rashed Al-Hallak tira fuori dalla tasca del suo gilé una caramella e gliela offre. Nessuno mostra la minima reazione, tutti sembrano immersi nei loro pensieri. La narrazione riprende. Il cameriere ritorna con il tè per le due donne, ma continua e fa finta di versarlo nel bicchiere d’acqua accanto al contastorie. Battibecco scherzoso tra i due. Il racconto presenta un episodio della vita del re Bihar ricca di battaglie, duelli all’ultimo sangue, tradimenti ignobili e morti eroiche. Il finale è dedicato alla bellezza di una schiava. Rashed Al-Hallak descrive ogni parte del corpo della giovane: le fattezze del viso, il colore della carnagione, la forma degli occhi, l’esilità della vita, la curva dei fianchi, la finezza dei piedi, la morbidezza della mani. Ad ogni aggettivo che accompagna la parte anatomica in questione, l’intero caffè fa coro con un’esclamazione di apprezzamento. La frase finale, che elogia la magnificenza della folta chioma corvina, si spande in una prolungata coda sonora, un sospiro di bambini golosi davanti a una torta di cioccolata. Alla fine, mi avvicino a Rashed Al-Hallak e chiedo se posso fargli quattro domande. Perché prende la spada per la lama? Qual è il segreto di un contastorie? A quanti anni ha cominciato? Chi era il suo maestro? Aveva iniziato nel 1990, a quasi cinquant’anni, da solo, senza nessun maestro. Lavora in un supermercato e ogni sera prende libero due ore per venire in questo caffè e fare il suo spettacolo. Aveva preso alcune lezioni di di-

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zione da un’attrice libanese. Ignora se esista un segreto per un contastorie. Ha cominciato perché ne aveva voglia e continua perché gli piace. Non sa spiegarmi bene perché impugna la spada per la lama. Mi osserva affabilmente, lo ringrazio, lascio scivolare una banconota nella sua mano. Mi giro per andarmene, mi richiama. “Hai dimenticato la domanda più importante: perché non ho un allievo? Perché sono povero e debbo guadagnarmi la vita. Tutto va in rovina, anche la nostra arte.”

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Macerie e barricate Eppure in Siria si trova il teatro meglio preservato, nel deserto, a Bosra, l’ultima capitale dei Nabatei, alla frontiera con la Giordania. I Romani la conquistarono nel primo secolo dopo Cristo e vi costruirono un foro, dei bagni e anche un teatro di 16.000 posti che diventano il doppio facendo sedere gli spettatori su ogni gradino. È costruito con pietre basaltiche vulcaniche della regione, le numerose colonne di marmo furono portate da Atene. Al Adil, fratello di Saladino, trasformò il semidistrutto edificio in deposito militare e lo protesse costruendo intorno delle mura fortificate con 11 torri. Il teatro divenne un castello che seppe difendersi dal tempo, dagli avversari e dai miserabili della terra che trafugano le macerie dei teatri, le loro pietre e colonne, per costruire le proprie casupole.

I cento violini del guerrigliero È il nostro mare verde, dice Carlos Arroyo che è venuto a prenderci all’aeroporto e ci porta a Guanare, a più di un’ora di auto. Siamo nello stato di Portuguesa, nel Venezuela occidentale, la zona dei latifondi e dell’allevamento del bestiame, con i suoi vaqueros e rodei. L’ondeggiante superficie di verzura spinge l’orizzonte sempre più lontano. Nel mezzo, una striscia brilla al sole: l’immenso spiazzo e le autostrade di accesso alla cattedrale di Cocotoco, un laido edificio di cemento a più piani che accoglie centinaia di migliaia di pellegrini da ogni angolo del paese. Prima che gli indigeni sparissero del tutto, la Vergine apparve a una bambina chiedendole una chiesa. Come a Lourdes o a Loreto, anche qui avvengono miracoli. Carlos è tracagnotto e riservato. Figlio di un proprietario terriero, si innamorò del teatro. Fu contagiato da questa passione da un maestro, Alberto Ravára, un argentino arrivato in Venezuela nel 1978 in fuga dalla dittatura militare del suo paese. Alberto iniziò un festival di teatro a Guanare, lo guidò per

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tre anni, poi cedette la direzione al giovanissimo Carlos che ne è stato alla sua testa per venticinque anni. Per celebrare quest’anniversario, ha anche organizzato una tavola rotonda “Elogio dell’incessanza: l’influenza di Eugenio Barba in America Latina”. Ha invitato critici ed artisti messicani, argentini, cubani, peruviani e venezuelani che conoscono l’Odin e l’ISTA. Incontro vecchi amici: Beto Ramirez, attore di Yuyachkani, ora attivo in Venezuela, Bruno Bert, argentino della leggendaria Comuna Baires, ora regista e critico a Città del Messico, la coreografa Hersilia Lopez e Eduardo Gil, pioniere del teatro di gruppo in Venezuela che aveva partecipato alla prima ISTA di Bonn. Per tre giorni dibatteranno, disquisiranno, commenteranno. Così mi ritrovo due giorni tutti per me. Non andrò certo ad imbarazzarli con la mia presenza. Guanare è tranquilla, avvolta da un’atmosfera polverosa di provincia. Nulla qui ricorda il vasto sciopero generale ad oltranza dichiarato dall’opposizione contro il presidente Hugo Chavez, e già in atto da tre giorni. A Caracas, durante il nostro scalo, avevamo dovuto lasciare la macchina ed andare a piedi alla conferenza stampa al ministero della cultura. Il ministro era assente, bloccato dai dimostranti che invadevano le strade. Anche per raggiungere l’aeroporto e continuare per Guanare, avevamo seguito un percorso labirintico per evitare cortei e assembramenti. Ma a Guanare il traffico è tranquillo, i negozi sono tutti aperti, solo alcuni giovani in piazza, dopo il tramonto, agitano cartelli e gridano slogan contro il presidente Chavez, chiamandolo populista e antidemocratico. Mi alzo tardi e mi domando se mi daranno ancora la colazione. Il ristorante è vuoto, i partecipanti sono tutti a lavoro, i camerieri guardano la televisione che ripete le stesse immagini: un cameraman viene allontanato da alcuni poliziotti, un’intervista con una donna che vomita oltraggi contro il presidente, una famiglia intera, padre, madre e una mezza dozzina di bambini, bandiere venezuelane in pugno, esprime il suo entusiasmo per lo sciopero e per la democrazia. Queste tre sequenze, come dei leit motiv, ritornano in continuazione, inframmezzati dai reportage dai diversi quartieri della capitale e dalle altre città. Mi guardo intorno, solo un’altra persona è seduta nella penombra e segue attento quello che avviene sullo schermo. Ci rivolgiamo un sorriso da complici. Ci ritroviamo a parlare. È Alberto Ravára. Si era gettato nel teatro giovanissimo, alla fine degli anni sessanta. A Buenos Aires aveva fondato un gruppo e un’organizzazione culturale, naturalmente di sinistra. Nel 1974, all’inizio della dittatura militare, si era posto una domanda difficile: a che serve il teatro? Non certo per abbattere la dittatura. Passò allora all’illegalità unendosi a un gruppetto armato. Quattro anni dopo,

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la maggior parte dei suoi compagni erano stati uccisi, presi, torturati o scomparsi. Erano rimasti quattro gatti, incalzati dai militari. Era tempo di lasciare il paese: prima tappa, il Brasile, poi il Venezuela. A Caracas ritornò alla sua vecchia passione: regista e scrittore di testi teatrali. Fondò il festival di Guanare e si dedicò ad introdurre molti giovani ad un teatro che non fosse solo spettacolo. Appoggia il presidente Chavez, lo sciopero è opera della borghesia frustrata, si domanda se il presidente cederà (ma sarà l’opposizione a cedere dopo quasi due mesi di sciopero che mette a terra l’economia del Venezuela costretta perfino ad importare petrolio dal Brasile). “Sei diventato pessimista?” gli chiedo. “Certe illusioni – mi risponde – non te le possono togliere neanche gli orrori che vedi con i tuoi propri occhi”. Lo dice a voce bassa, come se stesse confessando una debolezza o una colpa. Nel 1987, al ritorno della democrazia in Argentina, aveva ricevuto l’offerta di ritornare e dirigere il teatro Cervantes a Buenos Aires. Non aveva esitato, aveva venduto tutto, liquidato la sua posizione in Venezuela, ed era rientrato in autobus attraverso mezzo continente latino-americano. Tre mesi dopo, al suo arrivo a Buenos Aires, il partito politico che gli aveva offerto la direzione del teatro, non era più al potere. Si era ritrovato senza lavoro, senza ambiente, senza via di ritorno. Suo padre, costruttore di violini, gli aveva suggerito di restare e di aiutarlo. Alberto aveva obiettato giudiziosamente: “Ho quarant’anni e non so farlo”. Il padre aveva scosso la testa: “Sai già qualcosa – che non sai”. Alberto apprese dal padre un artigianato che gli assicurò la vita per alcuni anni. Poi ritornò in Venezuela, a Caracas, ed alla vecchia passione del teatro. Continua a fare violini, per sé, ne ha più di cento a casa, alcuni comprati, ma molti li ha costruiti con le proprie mani. Tutto passa, anche i due giorni della tavola rotonda trascorsi a vedere la Storia che si dimenava alla televisione e che mi parlava attraverso le parole di Alberto. Anche per me venne il momento di guadagnarmi il pane con un seminario per registi dalla durata di tre giorni. Al momento di iniziarlo, la porta si apre ed entra un giovane di 16-17 anni. Ha una cassa di violino in mano e mi chiede il permesso di partecipare. Glielo concedo, non so se per generosità, pigrizia, indifferenza, o per quel riflesso che involontariamente attira i vecchi verso la gioventù. Si chiama Daniel, è russo, è venuto a sette anni, nel 1992, con il padre Pavel che ha chiesto asilo in Venezuela. Il padre insegnava acrobazia alla scuola di circo a Mosca, a Caracas cerca di vivere come pedagogo teatrale, esperto in biomeccanica e azioni fisiche. Non ha molti studenti ed insieme all’amico Pedro, un attore-pedagogo-regista venezuelano che sa suonare il quatro, arrotonda i guadagni nelle strade: Pavel con la balalajka, il gio-

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vanissimo Daniel con il violino e Pedro con il quatro. Alla fine del seminario, chiedono di poter realizzare un baratto: vogliono ringraziare Julia e me eseguendo un piccolo concerto di musica russa. Il mio ultimo giorno di lavoro era un’esposizione sui principi dell’antropologia teatrale. Li presentavo insieme a Julia Varley, Augusto Omolú e i suoi tre suonatori di tamburo brasiliani. Pregai Daniel di suonare il violino Così, mi divertii a sorprendere gli spettatori. Durante un’improvvisazione di Julia e Augusto accompagnata dal ritmo possente dei tamburi, si elevò il violino di Daniel che li fece gradualmente ammutolire e trasformò materialmente la qualità dell’energia e il flusso delle azioni dei due attori. La sera prima della partenza eravamo un piccolo gruppo di amici a cenare in un ristorante fuori città. Progettavamo di fondare un’associazione per sostenere la pubblicazione di testi letterari e teatrali a Cuba. Le demmo il nome di Osvaldo Dragún, lo scrittore argentino appena deceduto e caro amico di noi tutti seduti intorno al tavolo. Accanto a me, Alberto Ravára mi raccontò che aveva assistito alla dimostrazione del giorno prima e che aveva parlato con Daniel: “Sai, suonava così bene. L’ho invitato a visitarmi a Caracas e vedere i miei violini. Penso che gliene regalerò uno migliore del suo, un violino cinese da quattro soldi”. Cronica invernale, un testo teatrale di Alberto Ravára, racconta di un ex guerrigliero che vive solitario tra le macerie dei suoi ideali. Vuole restare ancora sulla barricata: rapisce una ragazza della ricca borghesia. Non lo fa per vendicarsi o per chiedere un riscatto in denaro per una causa che non esiste più, ma solo per risentire l’effetto dell’adrenalina quando agisce nell’illegalità contro l’ordine costituito. L’ex guerrigliero vizia la ragazza rapita, le prepara manicaretti prelibati, le compra vestiti alla moda, è rispettoso, gentile, educato. La ragazza si innamora del suo rapitore, vuole abbracciare la sua causa, lottare per le sue idee. Ancora una volta l’ex guerrigliero si dà alla fuga. Ad un certo momento, Alberto fa dire al suo protagonista: “Costruisci un sogno e inseguilo in corsa folle fino a raggiungerlo. Ghermiscilo, e sfascialo senza fretta. Poi disegna un altro sogno e ancora un altro. Può darsi che questo non sia la vita reale, però è divertente”.

Piombo Ho l’impressione di parlare solo di quello che sta alle mie spalle, come se, da vecchio animale umano, fossi solo passato che cammina su due zampe. Vorrei finire evocando il futuro, un viaggio che, paziente, aspetta di essere compiuto. Voglio imbarcarmi su un transatlantico comodo e moderno, in una

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cabina di prima classe e godermi la traversata dell’oceano fino al Nuovo Mondo. Sbarcherò in un grande porto, non mi fermerò, prenderò subito il treno per Boston. Andrò in un albergo di buona categoria, un’ampia stanza, bagno con vasca, e finestre verso l’interno per evitare il rumore del traffico. Quindi mi metterò in cerca di una collinetta fuori città. Sarà difficile trovarla, perché esisteva esattamente 103 anni fa, e da allora Boston è cambiata e quel pacifico angolo della natura sarà oggi edifici e asfalto. Ricco di tempo, bighellonerò cercando le strade in salita. Lì sotto, dove il cammino dà l’illusione di avvicinarsi al cielo, sono sepolti due giapponesi. Kurando Maruyama aveva 22 anni e Shigeru Mikami, 27 anni. Il 30 aprile 1899 erano salpati da Kobe su una nave diretta a San Francisco. Erano due onnagata, impersonificatori di ruoli femminili del Kabuki, e facevano parte di una troupe di 16 attori, tra cui due bambini. Non erano mai stati fuori del loro paese, anche se i primi permessi per uscire dal Giappone nel 1866, alla fine dello shogunato, furono dati proprio ad attori che si recavano in America e in Inghilterra: ben 29 permessi su 33. A San Francisco, dopo quattro spettacoli, il loro impresario scompare. L’albergo dove alloggiano li mette alla porta, mentre i debitori si impossessano dei loro costumi e bagagli. Trovano rifugio, tutti e sedici, nella baracca di un connazionale, mangiano quello che i compatrioti offrono loro per carità. Fanno adottare i due bambini da famiglie giapponesi senza figli. Riescono a dare una settimana di spettacoli e racimolare abbastanza denaro per riscattare i loro costumi dai creditori. Si imbarcano per Seattle, affittano un teatrino e danno spettacoli soprattutto per la colonia giapponese. Poi, sempre recitando e guadagnando di che raggiungere la città o il villaggio seguente, si inoltrano nell’hinterland americana, allontanandosi da luoghi dove vi sono dei compatrioti, loro potenziali spettatori. A volte in treno, più spesso a piedi con i loro bagagli e i sandali di paglia giapponesi si spostano da città in villaggio dando spettacoli. Dopo aver attraversato per 89 ore in treno le Montagne Rocciose arrivano a Chicago, 1.600.000 abitanti, una metropoli dove 13 teatri giganteschi presentano spettacoli con più di 300 attori e comparse, cavalli e carrozze, effetti di luce e di meteorologia con grandinate e piogge scroscianti. Tutti i teatri sono affittati mesi in avanti, e i 14 giapponesi sono costretti a dormire nella stanza di una pensioncina, a turno, per non destare l’attenzione del proprietario. Riducono sempre di più la loro porzione di riso, solo una fetta di pane al giorno. La fame li attanaglia, hanno difficoltà a muoversi, diventano sempre più fiacchi. La figlia del direttore del Lyric Theatre, James S. Hutton, è una fanatica del Giappone, kimono, ninnoli, ceramiche, ventagli e stampe che inondano

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l’Europa e Gli Stati Uniti. Davanti a sé si trova dei veri giapponesi in più attori e obbliga il padre a farglieli vedere, in una matinée domenicale. I giapponesi hanno appena cinque giorni per inventare lo spettacolo. Indossano i loro vestiti esotici, si truccano da samurai e geisha, un cartello che annuncia lo spettacolo e sfilano nel freddo delle strade, tra lo stupore dei passanti. Ma quella domenica, il teatro si riempie. Per la prima volta, da settimane, mangiano a sazietà. Trovano persino un impresario, Alexander Comstock, che li assume, e li esibisce da città in città. Viaggiano di notte, arrivano all’alba, si precipitano al teatro, si preparano, danno spettacolo e ripartono. Dopo alcune settimane di questo programma, all’arrivo a Boston, all’inizio di dicembre 1899, Kurando Maruyama, il più giovane degli onnagata, stramazza per i dolori allo stomaco. All’ospedale i dottori diagnosticano uno degli effetti collaterali del lavoro d’onnagata: avvelenamento per piombo, Per anni aveva coperto il suo viso, collo, schiena, e mani, giorno dopo giorno, con una pasta bianca ricavata dal piombo. Per mesi aveva eseguito il suo lavoro senza rivelare le sofferenze, i crampi allo stomaco e la nausea continua. Usava morfina per lenire il dolore, cicatrici e piaghe coprivano le sue braccia e l’intero corpo dove aveva iniettato morfina. La troupe debuttò senza di lui. Una settimana dopo, riuniti intorno al suo capezzale, i suoi compagni lo videro morire tra le convulsioni. Lo seppellirono sulla cima di una collina fuori della città, recitando familiari preghiere buddiste e domandandosi, inquieti, dove si sarebbe aggirata la sua anima in questa terra incomprensibile e sconosciuta. Neanche un mese dopo, Shigeru Mikami, l’altro onnagata ricevette dalla moglie la notizia che sarebbe diventato padre. Pazzo di gioia, comprò vestitini, cappellini, cappottini e scarpette, tutte azzurre, il bambino non poteva essere che un maschietto. Ma anche Mikami era diventato pallido, aveva capogiri, perdeva l’equilibrio, soffriva di dolori alla testa e crampi allo stomaco: un’emorragia cerebrale dovuta ad avvelenamento per piombo. Ricoverato in una corsía d’ospedale, con il letto e il guanciale cosparso di vestitini azzurri, Mikami sussurrava: “Chi si prenderà cura di mia madre e del mio fratellino? Voglio vedere il mio bambino coi vestitini stranieri che gli ho comprato, con questo cappello, con queste scarpette. Non voglio morire senza vedere il mio bambino”. Era passata la mezzanotte quando i compagni, alla fine dello spettacolo, arrivarono all’ospedale e sentirono il suo delirio attenuarsi fino al silenzio. Lo seppellirono accanto a Murayama, in cima alla collina. La stessa sera, erano tutti in scena: the show must go on. Passerà una settimana, due settimane, a Boston io continuerò a cercare la collinetta. Sicuramente avrò trovato un buon ristorante italiano ed ogni sera mi consolerò con sapori della mia infanzia. I camerieri americani, loquaci e alla

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mano, mi chiederanno se sono turista. No, risponderò, cerco barricate e trovo solo macerie. Non mi capiranno, anche a causa del mio forte accento. Rideremo insieme, hanno capito che sono o una persona importante o una nullità, per questo voglio rimanere anonimo. A volte, tra le macerie, si aggirano i fantasmi. Ma di queste compagnie girovaghe e di questa cultura di attori dell’inizio del 1900, oggi non rimane più niente, neanche le macerie. Una mutazione antropologica ha prodotto altre razze di attori. Sono razze così diverse che non hanno niente in comune tra di loro. A Boston, gli esotici giapponesi recitavano in un teatro a venti metri da quello in cui si presentavano i famosi Henry Irving e Ellen Terry. Oggi le differenti razze di attori vivono in habitat distinti: alcune nelle macerie di tradizioni e abbagli, altre, con queste macerie, costruiscono barricate, anche se non vi sono nemici che vogliano assaltarle. L’indifferenza, non il piombo, avvelena. L’indifferenza degli altri, e l’indifferenza in noi stessi verso quello che eravamo, verso quello da cui veniamo, verso quello a cui tendevamo. Un giorno anche noi sentiremo nausea. Che faremo?

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IL PARADOSSO DEL MARE*

Siglos, armas y el mar que une y separa Così pensava Ludovico Ariosto secondo Luis Borges: per fare un vero libro servono l’Aurora e l’Occidente, secoli, tradizioni, culture – e il paradosso del mare, abisso invalicabile e via di comunicazione. Ma perché, fra loro, le armi? Tutto questo non vale solo per i grandi libri dei quali Borges, il moderno Tiresia, parlava. Vale anche per le culture, purché non vengano considerate come universi chiusi da muri metaforici o reali, come monadi che si accostano l’una all’altra o cozzano drammaticamente. Dietro il sostantivo cultura si nasconde un flusso di azioni, diffusioni, travasi e intrecci che convergono o si ostacolano. L’unità di una cultura è paradossale: mantiene una propria identità a patto che viva nelle tensioni e nelle metamorfosi. Torno a domandarmi, perché le armi? Quando avevo trenta o quarant’anni, quelle armi che nel verso del moderno Tiresia stanno fra i secoli e il mare mi facevano pensare agli eroi dell’Orlando furioso o della Chanson de Roland, o a Baldovino, quarto re di Gerusalemme, crociato e lebbroso. E invece, ora che sto per compiere settant’anni, quello stesso verso non evoca antiche leggende, ma la cronaca quotidiana dei tempi in cui vivo, ciò di cui scrivono i giornali e che compare nell’eccitata indifferenza delle televisioni, fra un talk-show e la cronaca d’una partita.

* Discorso in occasione del titolo di Dottore honoris causa conferito dall’Università di Plymouth, Inghilterra, il 27 ottobre 2005. Pubblicato per la prima volta in “International de l’imaginaire” n. 20, Parigi, 2005.

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Un paese chiamato esilio Questi tempi non li riconosco come miei. Voglio e posso godere il vento d’un altro modo di vivere il tempo. Forse è un’illusione. Ma il paese in cui abito mi permette questa illusione. Spesso mi sono chiesto se il mio paese possa essere raccontato come un esempio. O se invece sia solo un’eccezione. Eccezione fa pensare a qualcosa di eccezionale. Ma è una parola amara, perché sappiamo che l’eccezione, alla fin fine, conferma la regola a cui si oppone. Per sfuggire alla retorica e all’amarezza, mi dico: il mio paese può essere definito un volontario esilio. Il paese in cui abito è il teatro. Ma anche intorno a questa parola bisogna intendersi. Vi sono teatri che rimangono in piedi come case, sopravvivono ai loro abitanti, e mantengono una propria identità passando di mano in mano. Vi è poi un’altra identità del teatro, che non si cura di pietre e mattoni. È il teatro la cui architettura consiste solo di relazioni fra le persone che li compongono. Spariranno con quelle persone. Non possono essere né ereditati né riempiti di nuovi contenuti. Per me, ad esempio, pensare ad un Odin Teatret che continui dopo di noi che l’abbiamo fondato e che ora continuiamo a farlo esistere sarebbe un controsenso come pensare alla persistenza di un pugno mentre si apre la mano. Sono teatri che consistono nell’intreccio dei sentieri che aprono i suoi abitanti. Quando questi smettono di andare, anche il loro teatro cessa d’avere un riconoscibile profilo, un perimetro, una casa. Abito un paese di questo tipo. È piccolissimo. È vasto. Siamo in tanti, sparsi sui diversi continenti, lontani, profondamente diversi, stretti da legami solidi, elastici e fragili, come i fili d’una tela di ragno. A volte, siamo in pochi, tre, quattro, quindici persone. Altre volte spendiamo tempo, lavoro e denaro, e allora per due giorni, una settimana, un mese ci raduniamo. Poi torniamo a separarci, e ognuno torna alla non isolata solitudine che lo definisce. Il mio paese ha uno spazio paradossale. Vivere l’esilio come una patria è infatti una contraddizione-in-vita. È un triste segno dei tempi il fatto che questo tipo di esilio possa assomigliare all’utopia. Ma è un segno dei tempi che si ripete spesso. La professione teatrale, in tutti i paesi e in tutte le epoche, prima ancora di caratterizzarsi per il mestiere di produrre immagini e spettacoli, si è caratterizzata come professione in esilio – o professione dell’esilio.

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L’atto di nascita multiculturale Dall’interno di questa contraddizione-in-vita è molto difficile sentire come un problema, come una possibile minaccia o come un’urgenza alla quale far fronte ciò che agita oggi il mondo che ci circonda, l’intreccio e lo scontro fra culture, il loro disputarsi uno stesso territorio, il continuo mutare dei confini. Il multiculturalismo per il paese del teatro non è un’emergenza attuale. È qualcosa di ovvio. Fa parte del suo atto di nascita. Una lunga storia basta a dimostrarlo. Chi praticava il teatro per mestiere, in Europa come in Asia, ha sempre vissuto in una condizione straniera, come se fosse di passaggio, e le truppe degli attori erano formate da persone provenienti da diverse regioni e da differenti ceti sociali. Il teatro era straniero nel mondo in cui viveva, fra gli spettatori che gli davano da vivere, innanzi tutto perché contraddiceva i confini e le gerarchie che mettevano ordine nel mondo circostante. Per questo è stato a volte una microsocietà separata, discriminata e disprezzata. E per questo è stato, a volte, un’isola di libertà. Quando nel Novecento il teatro sembrava destinato a sparire perché inadeguato ai tempi ed alle dimensioni della modernità, delle sue metropoli, della sua nuova economia e dei suoi nuovi spettacoli, la gente del teatro ha praticato – più per la forza dei fatti che per progetto – una doppia strategia. Da una parte ha indotto la società circostante a riconoscere la professione scenica come un bene culturale da proteggere, sganciandola dalle catene del commercio. E mentre questo avveniva, alcuni hanno fondato arcipelaghi di piccole isole teatrali autonome. Ognuna di queste isole vive nel proprio ambiente culturale come una trascurabile minoranza, in grado però di aprirsi la via in territori nuovi, uscendo dai recinti tradizionali del teatro. La marginalizzazione nel proprio ambiente viene risarcita da un allungarsi del raggio d’azione. Un equivalente processo di compensazione riguarda anche le grandi tradizioni teatrali. Quanto più ciascuna tradizione classica, di matrice europea o asiatica, diventa inattuale nell’orizzonte del proprio contesto d’origine e perde localmente vigore, tanto più acquista prestigio al di là dei propri confini tradizionali superando le barriere culturali ed allargando il raggio della propria presenza, in un fitto intreccio di scambi e travasi. In altre parole, trova un nuovo equilibrio in un orizzonte multiculturale. La professione del teatro non è più separata dalle diverse barriere linguistiche. Malgrado le differenze si salda in maniera sempre più evidente in un unico grande paese professionale planetario. Diventa possibile parlare di una cultura teatrale unitaria che comprende esperienze radicate nel lontano pas-

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sato, in tradizioni classiche, un tempo rispettate o perseguitate, in piccole isole autonome che vivono esperienze di frontiera. La diversità è la materia base del teatro. Il fatto che oggi sia vissuta come una drammatica condizione storica, che il suo tema inquieti i governi e i singoli individui, non deve farci dimenticare che essa è ciò su cui il teatro ha sempre lavorato. Chi fa del teatro la propria professione deve saper lavorare sulla propria diversità. La deve esplorare, tesserla, trasformando la cortina che ci divide dagli altri in un velo ricamato, seducente, attraverso il quale gli altri possono guardare, e ciascuno possa scoprire le proprie visioni. Quali sono le mie visioni? Non le conosco fino a che un velo o una ragnatela d’oro non le cattura. Fino a che qualcosa di strano smette d’essere estraneo e comincia a parlarmi con una voce che non è mia e non è non-mia. Per un emigrato come me, che afferma che le sue radici sono nel cielo, il teatro è divenuto lo strumento per creare l’incontro e lo scambio, per superare l’indifferenza reciproca. È una tecnica che costruisce relazioni, aiuta a resistere all’omologazione e costruisce ponti.

La tecnica dei ponti È interessante osservare quali siano le nervature interne di questi ponti. Nei rapporti con gli spettatori, derivano da una capacità di presenza che permette di cementare un rapporto di attenzione indipendentemente dalle parole. Come accade all’attore che sa dare forma al suo corpo-in-vita; come accade al cantante che sa farsi ascoltare anche quando il suo idioma è sconosciuto. Nei rapporti fra gli attori di diverse tradizioni e culture, i ponti consistono nel paradosso delle tecniche, simile al paradosso del mare che unisce e separa. Le tecniche sono doppiamente paradossali, perché si cerca di impadronirsene al solo scopo di gettarle via, di farne a meno. E perché, a seconda del modo in cui si decide di considerarle, sono ciò che più separa chi pratica una stessa professione e ciò che più è in grado di unire. Possiamo decidere di guardare le tecniche come ciò in cui si distilla il contesto, l’ideologia, la religione o il sogno che sta alla base di una tradizione o di un gruppo teatrale. Così, nel momento stesso in cui le magnifichiamo le rendiamo inservibili, le trasformiamo in un muro o le imbalsamiamo in un museo. Oppure possiamo decidere di guardarle come terreno di incontro, luogo delle traduzioni fisiche, corporee, che accomuna e permette a professionisti di provenienza lontana di dialogare fra loro. Siamo noi a decidere se le tecniche debbono servire a separarci o a unirci. Di per sé non sono nulla. Nelle loro origini non si nasconde il loro significato.

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Ci dicono qualcosa di importante nel momento in cui cominciamo a scoprire come usarle. Ciascuna cultura, ciascuna tradizione ha messo in forma la propria eloquenza spettacolare, i propri stili. Per farlo, ha dovuto creare un teatro sotterraneo, delle fondamenta, delle tecniche di base. Lavorando alla superficie degli stili ci si può ammirare a vicenda, si possono anche creare sincretismi a volte molto efficaci ed a volte inclinati al degrado, più confusi che complessi. Lo spazio sotterraneo delle fondamenta, invece, diventa, per la sua stessa natura, il territorio degli scambi, dove il paese del teatro sperimenta la sua multiculturale unità, la sua complessità organica. Le fondamenta non sono cantine né catacombe. Sono paradossali ponti sotterranei, che permettono il passaggio da una parte all’altra del paese del teatro, unito benché materialmente disperso in luoghi geograficamente lontani. A differenza del teatro, nella vita di ogni giorno non sempre i ponti mettono in comunicazione una regione con l’altra, l’una e l’altra sponda, due tribù, le acque e il cielo.

I ponti e la semplicità Ronda è una cittadina sulle montagne dell’Andalusia. È conosciuta per il ponte costruito al tempo degli arabi, a strapiombo su una gola dove un fiume si precipita furioso. Durante la guerra civile spagnola, le truppe franchiste lo usarono come comodo luogo di esecuzione per i prigionieri. Li legavano l’uno all’altro, in piedi sul parapetto, poi una pallottola alla nuca al primo della fila, e tutti giù a sfracellarsi sui sassi del fiume, trascinati via dalla corrente impetuosa. In Per chi suona la campana Ernest Hemingway ce ne ha lasciato il ricordo. Ma è di un altro ponte che voglio parlare. Kozda Mimar Sinan è il Bramante o il Michelangelo dell’impero ottomano. Architetto della moschea di Edirne e di quella del sultano Suleyman il Magnifico a Istanbul, progettò l’impressionante ponte sul fiume Drina a Visegrad, in Serbia, alla fine del XVI secolo. A lui viene attribuito anche uno dei ponti più ammirati d’Europa. Capolavoro architettonico, è stato descritto come l’arco di un arcobaleno che si innalza al di sopra della via lattea, balzando da una dirupo ad un altro. In realtà non fu il geniale Sinan l’ideatore e il realizzatore di quest’altro ponte, fu Harudjin, uno dei suoi allievi. Su richiesta dei cittadini leali, il sultano Suleyman il Magnifico ordinò nel 1666 la costruzione del ponte di Mostar. Per secoli, il ponte di Mostar dette gloria alla sua città e fu l’orgoglio della sua popolazione di croati cattolici, serbi ortodossi e croati e serbi musulmani.

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Anche l’attore Slobodan Praljak, ogni volta che lo attraversava per andare al suo Teatro della Gioventù, non poteva fare a meno di ammirare i blocchi di pietra levigati dalla carezza del tempo. Slobodan aveva iniziato la sua carriera quando il suo paese si chiamava ancora repubblica socialista della Jugoslavia. Col tempo non si limitava ad esercitare la sua attività artistica come attore, ma metteva anche in scena testi come Un uomo è un uomo di Bertolt Brecht e Il drago di Evgenij Schwartz. Cominciò lo smembramento della federazione jugoslava. Prima si staccò la Slovenia, poi la Croazia, quindi croati e serbi si scontrarono per annettersi il più possibile del territorio della Bosnia, la cui maggioranza era musulmana. L’attore e regista Slobodan Praljak aveva lasciato il teatro e si dedicava a questa missione di crescita nazionale. In quanto croato, aveva il comando della postazione militare che dalle colline circostanti, martoriava regolarmente la città musulmana. I suoi chetnik erano abili e ingegnosi. Ferivano alla gamba un passante che si spostava tra le barricate, aspettavano quindi che accorressero dei soccorritori, e liquidavano con precisione sia il ferito che i suoi soccoritori. Fu Slobodan Praljak, attore e regista apprezzato nell’ambiente di Mostar, a dare ordine ai cannoni della sua postazione di bombardare il ponte di Harudjin che aveva sfidato i secoli. Come un arco d’arcobaleno, il ponte si volatilizzò in una pioggia di frantumi variopinti e si congiunse all’acqua del fiume. Il giorno dopo, all’alba, a chi lanciavano il loro saluto i galli allegri, ostinati, lontani? Contro chi abbaiavano i cani? Siglos, armas y el mar que une y separa. Le guerre ci sono sempre state. Le violenze per intolleranza, anche. Razzismo e xenofobia ci sono sempre stati. Ma oggi vediamo che xenofobia, razzismo, violenze e guerra non sbandierano interessi contrapposti, o contrapposte idee sul futuro del mondo. Sbandierano radici, l’urto fra “civiltà”. Culture e civiltà sembrano opporsi come un tempo le contrapposte ideologie. Questo, nel XXI secolo, non l’avremmo mai immaginato. È una situazione che sembra appartenere alle storie leggendarie, le leggende di Roncisvalle o del sacro sepolcro vuoto per cui la Cristianità attraversò il mare e portò le armi a Gerusalemme. Persino il razzismo che infestò la storia del XX secolo sembra meno arcaico e primitivo. I secoli distillano e individualizzano le culture. Il mare le unisce e insieme le separa. I processi organici che le caratterizzano e le tengono in moto sono lunghi, sottili e complessi, a volte incomprensibili. Ma quando le armi entrano in azione, tutto diventa semplice. Quando la storia parla in termini semplici, le arti e la cultura cadono nella desolazione. I mondi che prospettano paiono iridescenti bolle di sapone che al primo fiato scoppiano per tornare al nulla di cui sono piene.

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Noi ci riuniamo per parlare dell’incontro fra culture diverse. Cerchiamo di riflettere sull’arte di marcare i confini per meglio bucarli e attraversarli. Ci interroghiamo sui rischi del sincretismo. Diciamo che la “diversità” non è solo una condizione di partenza, ma un traguardo da raggiungere. E mentre disputiamo sulla complessità, il mondo quotidiano che ci circonda si semplifica. La semplicità è spietata. Dice: “O noi, o loro”. Ma noi – replica il buon senso pratico – abbiamo bisogno di loro: del loro lavoro. Così, anche la Legge torna a mostrare il suo aspetto semplice e armato. Qualcuno dichiara: d’accordo, si deve convivere, ma non fino ad accettare che sia messa in discussione l’assolutezza dei valori della nostra civiltà e della nostra tradizione. Accettiamo una società multietnica, purché però non sia multiculturale. In parole semplici: loro stiano fra noi, purché si assimilino. Cioè: purché sottomessi. Purché sfruttati. Col tempo, lungo un secolo e più, erano stati elaborati compromessi efficaci per mitigare la durezza del mercato in cui si compra e si vende lavoro. Ma questi compromessi possono essere aggirati dalle leggi dell’ immigrazione. Il nudo sfruttamento ritrova, così, un colore legittimo: legittima difesa in una guerra fra civiltà. Una bandiera apparentemente più umana e decente copre la prepotenza di chi sa o si illude d’essere il più forte. Le armi e le leggi fingono di non difendere il nostro interesse a prevalere, ma il legittimo desiderio di preservare la nostra integrità. I secoli, il mare sono grandi e immensi pensieri. O forse minuscoli, come i sogni ad occhi aperti che crediamo e speriamo capaci di proteggerci.

Nel castello C’è una luce cristallina qui ad Elsinore, in questo pomeriggio d’agosto. Il mondo che ci circonda è l’immagine dell’ordine, della pace, del buon gusto. Sul mare, davanti alla costa della Svezia, si stagliano alcune imbarcazioni che sembrano navigare in diversi nastri del tempo. Motori rombanti e canotti a remi; barche a vela adatte alle moderne regate e un veliero dalla foggia antica, che ancora mostra di poter dominare silenziosamente il mare. Il palazzo regale, il castello di Elsinore, si protende verso il mare con le sue grandi vetrate e le sue torri che paiono tutte eguali ed a guardarle bene sono ciascuna differente dall’altra.

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Attorno al castello, il commercio turistico non è mai sfacciato. Dalle parti del porto, la birra danese viene servita da gentili camerieri emigrati dal Marocco. Siamo nel cuore stesso della civiltà. Sediamo comodamente sulle nostre speranze. – Lo faresti, qui, uno spettacolo? – Nel castello? – Nelle sale interne, oppure – meglio ancora – nel cortile. – Mi piacerebbe fare lo spettacolo come una festa di corte, con i suoi lussi e i suoi veleni. Mentre fuori dalle mura ci sono i venditori ambulanti, il popolo curioso, i saltimbanchi, i fuochi d’artificio e i cannoni che sparano a salve. – E lo spettacolo, dentro, sarà… – … sarà Amleto, certo. Il mio amico Trevor Davis mi propone di creare uno spettacolo per il castello di Elsinore, dove di spettri veri e propri non ne compaiono più da secoli, e vi sono solo spettri teatrali. Appena si entra, tutta l’architettura del castello conduce lo sguardo verso l’alto. Penso di popolare i tetti e l’aria che sta in mezzo fra i quattro lati del castello. Penso ad Ofelia che si annega lassù in alto, in un torrente che scorre fra le nuvole. Penso ad un Vescovo antico che esce dalla porta della chiesa che affaccia nel cortile del castello, e comincia una predica moderna, invece dell’ “essere…”. Penso soprattutto ad Amleto, un figlio braccato da un Padre-Fantasma. Il cuore della nostra civiltà: del grande teatro e della piccola Danimarca. Poi sento i cani abbaiare. Sono tanti. Paiono feroci. L’incantesimo del mare su cui si affaccia il castello sparisce, lampi bui solcano la luce cristallina d’agosto. Basta un banale abbaiare di cani, bastano dei latrati incarogniti per farmi cambiare idea? Sì. L’attualità della storia ha molte voci. Niente saltimbanchi attorno alle mura del castello. E niente festa aristocratica all’interno. Niente Shakespeare. Ma le nude lotte di potere così come le raccontò il medioevale Saxo, nel suo elegante latino che pochissimi erano in grado di comprendere. Immagino l’illusoria sicurezza della gente che popola il castello, la perfidia del fratello che ha ucciso il fratello, l’odio represso di Amleto e la sua scaltra trama di vendetta. Immagino le loro leggi sfrondate dalla retorica della giustizia, ridotte al puro rapporto di forza, come quella che Machiavelli detterà al suo Principe, talmente semplici e prive di alibi morali, che il loro autore parve ai suoi contemporanei un emissario dell’inferno.

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Non è Fortinbras a minacciare il castello, ma topi e stranieri. La gente del posto dà la caccia ai topi, per paura della peste. E dà la caccia agli stranieri con spietata freddezza. Vede in quei miseri bisognosi di un ricovero dei futuri nemici interni, pericolosi nell’assedio che si sente venire. Lì immagino che si aggiri Saxo, fra la legge delle Armi e le armi della Legge, solitario come un cieco. Lui che un tempo descrisse il suo paese come un ricamo di acque, mari e fiumi, fra i quali emergono, incastonate come gioielli, le terre danesi. Ora, in Elsinore, contempla e descrive, sarcastico e inutile, il risorgere di arcaiche barbarie nel cuore stesso d’uno degli storici castelli della nostra cultura.

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DENTRO LE VISCERE DEL MOSTRO*

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Cari amici dell’ISA**, nel ringraziarvi con affetto, voi già sapete che questo riconoscimento non è concesso solo a me, ma all’intero Odin Teatret, ai suoi attori e collaboratori di 38 anni di lavoro, e a tutti i componenti della cultura di teatro di gruppo, dovunque nel mondo – questo Terzo Teatro di cui l’Odin si sente orgoglioso di appartenere. Confesso di essere un po’ emozionato e molto soddisfatto. Qui culmina un legame con la vostra isola. Cominciò nel 1946 a Buenos Aires, nel caffè Rex dove lo scrittore polacco Witold Gombrowicz soleva riunirsi con i suoi amici e tradurre con loro Ferdydurke, un romanzo che tanto ha significato nella mia vita. Nelle sue memorie Gombrowicz ricorda soprattutto due di questi amici, la loro fantasia ed empatia creativa nel riportare allo spagnolo le eccentricità e i paradossi linguistici del suo libro. Erano cubani e si chiamavano Virgilio Piñera e Humberto Rodriguez Torneu. Così Cuba entrò nella mia vita, attraverso la solidarietà di artisti in esilio.

* Discorso in occasione del titolo di Dottore honoris causa conferito dall’ISA, Instituto Superior de Artes, dell’Avana il 6 febbraio 2002. Pubblicato per la prima volta in “Conjunto” n. 124, L’Avana 2002. ** Alcune considerazioni sono necessarie per chiarire certi echi di questo discorso, evidenti solo a un orecchio cubano. L’immagine Dentro le viscere del mostro, riprende una famosa espressione dell’intellettuale e poeta cubano José Martí, figura capitale nella lotta per l’indipendenza di Cuba dalla Spagna, morto in battaglia nel 1896. José Martí diceva di scrivere “dalle viscere del mostro” quando, durante il suo lungo esilio a New York, inviava articoli ai giornali dei paesi latino-americani. Utilizzare questa espressione in riferimento ad un contesto diverso da quello degli Stati Uniti, è – per l’ascoltatore cubano – un forte effetto di straniamento. Ancora più chiaro l’effetto di straniamento implicito nel termine “dissidenza”. Nel linguaggio ufficiale cubano, i “dissidenti” sono coloro che nella lingua corrente vengono chiamati anche gusános, cioè “vermi”: i cubani che hanno abbandonato Cuba per motivi politici, per conflitti con il regime o in cerca del benessere economico. (Nota di Lluís Masgrau).

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Fu nel 1963 che incontrai il mio primo cubano. Lo ascoltai, in un congresso a Varsavia, esprimere la sua emozione per uno spettacolo, Akropolis di Grotowski, a quel tempo ostracizzato dal regime socialista. Ricordo ancora lo scompiglio che il trascinante intervento di Eduardo Manet, giovanissimo direttore del Teatro Nazionale di una Cuba socialista, tropicale e spavalda, creò nell’ambiente ortodosso del partito e del teatro polacco. Il suo discorso contribuì a legittimare il lavoro di Grotowski permettendogli di estendersi anche fuori dalla Polonia in una provocazione e uno stimolo incessanti per noi tutti. Più di vent’anni dopo, nella piccola cittadina di Holstebro, bussò alle porte dell’Odin Teatret un attore svedese di un gruppo di teatro politico. Accompagnava un giovane cubano, che aveva voluto visitarci. Era Helmo Hernandez, ancora oggi molto attivo nella vostra vita culturale. A quel tempo i venti del teatro politico soffiavano con vigore in Europa. L’Odin era sotto costante accusa per il suo modo di prendere posizione, per il suo “formalismo”, per la sua determinazione “elitaria” di limitare il numero degli spettatori. Anche a Cuba, quando il nome dell’Odin appariva nei dibattiti e nelle pubblicazioni, lo scetticismo e la diffidenza erano più che palesi. La visita di Helmo Hernandez mi fece ritrovare la curiosità intellettuale e il desiderio di dialogo professionale dei pochi cubani che avevo incontrato. Così lo invitai alla quarta sessione dell’ISTA, la International School of Theatre Anthropology, nel maggio del 1986 a Holstebro. Alcuni mesi dopo, andando in Uruguay per una tournée dell’Odin, decisi di atterrare all’Avana e visitarlo. Rimasi solo pochi giorni e nonostante la mia visita non fosse ufficiale, Helmo aveva organizzato incontri e conferenze. Qui nacquero amicizie profonde con artisti e studiosi: con Flora Lauten, Marianela Boán, Victor Varela, Magaly Muguercia, Rosa Ileana Boudet, Vivian Martinez Tabares. Helmo mi portó al Teatro Escambray, che conoscevo solo attraverso le letture e che ammiravo. Ci accompagnò Vicente Revuelta. Rimane incancellabile nella mia memoria il lago della Hanabanilla, la sua acqua cobalto e smeraldo, le montagne intorno coperte di palme, una piccola barca con Helmo ai remi, e Vicente Revuelta ed io che discutevamo, come due bambini creduli, di fantasmi e di sirene, di draghi, di orchi e di angeli, cioè di teatro e di politica. L’accettazione dell’eretico Odin Teatret ebbe luogo nel 1989. Incoraggiata dal regista peruviano Miguel Rubio del gruppo Yuayachkani, fu Raquel Carrió il sagace cavallo di Troia che seppe introdurre ufficialmente l’Odin a Cuba con Judith, lo spettacolo d’una sola attrice, Roberta Carreri; e con un mio corso qui, nel vostro ISA. Partecipammo anche alla prima sessione dell’EITALC, la scuola latinoamericana appena fondata a Machurrucutu. Qui ebbe origine il forte legame con il suo direttore, lo scrittore argentino Osvaldo

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Dragún, uno degli artisti più puri e impegnati che abbia conosciuto, uno degli abitanti da me più amati nella mia patria professionale. Poi già non ricordo più quante volte l’Odin sia venuto a Cuba, a volte io solo, altre volte solo Julia Varley. La grande tournée di tutto l’Odin Teatret nel 1994, in pieno marasma economico del “periodo speciale”, fu merito di Lecsy Tejeda ed Eberto Garcia Abreu. Ed eccomi di nuovo qui, circondato dai miei compagni dell’Odin Teatret, tra alcune delle persone che danno senso e valore al mio agire teatrale, e la cui perseveranza e impegno sono per me uno stimolo a non desistere nei momenti di sconforto. Anche quest’ultima visita di sei settimane in diverse città di provincia ed all’Avana, ha la sua origine in quello che ai miei occhi è l’essenza della cubanità: prendere posizione spinti da una motivazione inderogabile. L’Odin è oggi a Cuba grazie alla motivazione di Omar Valiño secondato da Maité Hernández-Lorenzo e da un pugno di amici leali dell’Odin, e grazie agli interventi taumaturgici di Julian González Toledo. A voi va la gratitudine di tutti noi dell’Odin con la gioia di una certezza: che per anni e anni ci ritroveremo insieme resistendo allo spirito del tempo.

La danza del grande e del piccolo Questa sequela di nomi e di fatti sono aneddoti privati, ma anche fatti storici. Cosa vedo quando penso alla storia? Vedo la danza tra il Grande e il Piccolo. Il suo ritmo grottesco, tenero, alla fine sempre tragico, impedisce al tempo di fluire in maniera uniforme, e invece lo scalfisce, lo sfaccetta riempendo le nostre vite di essenza e sostanza, di profumi e passioni. In questa danza, vi sono momenti in cui siamo trascinati, e momenti in cui siamo noi a influire sul corso del tempo. Allora sembra che il nostro destino sia guidato dalle nostre mani. Molti pensano che questa possibilità di modellare il proprio destino sia una pura illusione. In realtà, ci illudiamo di illuderci Esiste La Grande Storia che ci trascina e ci sommerge, sulla quale spesso sentiamo di non poter intervenire. Non la possiamo neppure conoscere, non possiamo capire in che direzioni si muova, mentre si sta muovendo, e noi con lei. Solo osservandola a ritroso, dopo che il tempo è passato, le sue svolte e i suoi capovolgimenti ci appaiono chiari. La Grande Storia non ci concede libertà alcuna. Procede inesorabilmente e va non sappiamo dove, o perché. Spesso ci raccontiamo favole di Speranza o di Disperazione. Tutte ugualmente insensate, anche se a volte la loro insensatezza accende una fievole luce nel buio che ci circonda.

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Eppure nella Grande Storia è possibile ritagliare piccole isole, minuscoli giardini dove la nostra mano può essere efficace e dove possiamo vivere la nostra Piccola Storia. La Piccola Storia, intessuta di rifiuti e “superstizioni”, è quella della nostra vita, della nostra casa, della nostra famiglia, dei malintesi, degli incontri e delle coincidenze che ci hanno guidato al mestiere e all’ambiente ai quali abbiamo deciso di appartenere. È evidente che la Grande Storia e le Piccole Storie non sono indipendenti. Ma le Piccole Storie non sono delle semplici porzioni della Grande. I bambini che costruiscono una piccola diga ai margini della corrente di un grande fiume, che ricavano una minuscola piscina in cui bagnarsi e sguazzare, non giocano nella corrente impetuosa, ma non sono neppure in un’acqua separata da quella che scorre al centro del fiume. Creano, lungo i suoi margini, delle cavità e degli habitat imprevisti trasmettendo al futuro le tracce della loro differenza. Tutto questo l’ha descritto Voltaire nel suo Candide. Sotto un diluvio di ironia e d’avventure, crolla l’illusione che il mondo in cui viviamo sia vivibile o sia il “migliore dei mondi possibili”. Dopo aver a lungo partecipato al gioco meccanico della lotta tra pessimismo e ottimismo, il protagonista di Voltaire approda, nell’ultima pagina, alla coscienza che bisogna lavorare senza pensare al destino del proprio lavoro, impegnandosi a “coltivare il proprio giardino”. Questo atteggiamento non significa arrendersi, cedere, non è un richiamo all’egoismo o a una visione ristretta ed egocentrica della vita. È l’affermazione della necessità di contraddire la Grande Storia con una Piccola Storia che possa appartenerci. E provare a farle danzare. Il teatro è il tentativo di stare nell’acqua del fiume senza lasciarsi trascinare dalla corrente. Questa è la storia del teatro: piccoli giardini, pozze d’acqua riparate, a volte spazzate via, dall’impeto della corrente.

L’altra faccia della continuità Soffermiamoci un momento sull’espressione “storia del teatro”. Perché qualcosa abbia una storia occorre che vi sia una certa continuità fra il suo passato e il suo presente. In che cosa consiste la continuità del teatro? Vi è una categoria di teatri che sono come case che sopravvivono ai loro abitanti e mantengono una propria identità passando di mano in mano. Vi è poi un’altra categoria di teatri che non sono fatti di pietre e mattoni, la cui sola consistenza è il gruppo vulnerabile di persone che lo compongono. Spariscono

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e spariranno con quelle persone. Non possono essere né ereditati né riempiti di nuovi contenuti. La vita del teatro è una danza tra continuità e discontinuità. Le storie dei teatri “vulnerabili” spesso interferiscono con le storie delle case del teatro, ma si muovono in base a disegni indipendenti. La loro forma, il loro modo di organizzarsi e di entrare in contatto con gli spettatori e con la realtà sociale circostante, non si adegua ai modelli dei teatri duraturi. Deriva da necessità personali e dal grado della loro estraneità ai valori delle pratiche riconosciute e consolidate. È la storia sotterranea di teatri senza fama e senza nome. È un terreno fecondo e turbolento dove sorgono e scompaiono valori imprevisti ed esperienze imprevedibili. Qui il teatro si rinnova e si trascende. È una trascendenza tangibile che consiste nel superamento dei limiti che tradizionalmente distinguono ciò che è teatro da ciò che non lo è, che infrange le frontiere tra il lavoro sul personaggio e il lavoro dell’individuo su se stesso, tra la pratica artistica e l’intervento politico e sociale. L’energia della vita teatrale all’inizio del nuovo millennio scaturisce dalla tensione fra le luci fisse del firmamento teatrale e la turbolenza dei teatri “vulnerabili”, fra le case dei teatri e i teatri che esplorano i deserti, fra la stabilità e l’irrequietezza. Questa tensione è qualcosa di nuovo. Per secoli, a partire dal Cinquecento, la fonte di energia per il teatro europeo fu la tensione tra tradizione e sperimentalismo. Nel ventesimo secolo, sede dello sperimentalismo furono i teatri amateurs e, a volte, i teatri di professione, quando si trattò di inventare nuove formule per salvaguardare la propria esistenza e la propria dignità. Focolai di sperimentalismo furono gli ambienti dei futuristi, dadaisti e surrealisti fino alle correnti più recenti delle avanguardie artistiche che hanno inciso nella cultura contemporanea. Furono nicchie dello sperimentalismo teatrale i “Teatri Liberi” e i “Teatri d’Arte” a cominciare da Antoine e da Stanislavskij. Anche nei teatri asiatici, la tensione che è fonte di energia fu a lungo quella tra la fedeltà alle forme della tradizione e la pulsione all’innovazione. Per ragioni culturali e politiche, questa tensione si intrecciò a quella fra influsso straniero e rispetto delle forme autoctone. Da un lato era un impulso ad appropriarsi delle forme nuove approdate in Asia dai paesi più potenti e colonialisti. Dall’altro era una reazione a rifiutare gli stili stranieri e a riscoprire il valore del proprio sapere teatrale. È una dialettica di fagocitazione e rifiuto che in numerose varianti caratterizza la creatività di molti artisti dei teatri africani e sudamericani.

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Anche nel teatro di matrice europea la tensione fra tradizione e sperimentalismo ha avuto un colore politico. Sperimentalismo ed avanguardia furono spesso l’espressione del rifiuto nei confronti dell’arretratezza conservatrice, o della ribellione contro le istituzioni dei ceti privilegiati e dominanti della cultura e dei loro raffinati strumenti di potere. Oggi, all’inizio del nuovo millennio, il panorama è ancora cambiato. La ribellione del teatro è soprattutto creazione di una condizione di insularità, di esilio interno, una forma materiale, spesso non detta, di dissidenza. L’intera orbita del teatro è marginale rispetto ai centri in cui pulsa la vita e la cultura del nostro tempo. Il teatro sembra un relitto archeologico di epoche trascorse. Eppure si rinnova incessantemente. Continua a portare il segno di una diversità che può avere la debolezza di un limite o la forza e la dignità di chi si riconosce minoranza. Il teatro può aiutarci a far rispettare la nostra differenza. Allora si converte nella pratica di una dissidenza.

Un modo particolare di muoversi Gli anni mi hanno insegnato quanto sia importante ridefinire a me stesso i termini abituali del mestiere per distillare nuove immagini, sapori e fragranze. È come se il mestiere teatrale mi soffocasse. L’unico modo per respirare è spiegare in continuazione a me stesso cosa sia il teatro; perché continuo a farlo; come raggiungere una conoscenza che contiene il suo opposto, cioè come sfuggire all’accumularsi dell’esperienza che cristallizza un’identità e si muta involontariamente in un limite; dove far deflagrare con i miei compagni dell’Odin questi decenni di prestigio, di solitudine e di fierezza. In quale prigione, castello, ghetto o isola lontana operare ancora un baratto, un momento passeggero ed illusorio di reciprocità e parità. Se oggi, cari amici cubani, mi domandaste: Cosa è il teatro? risponderei: è un modo particolare di muoversi. Questo “modo particolare” è un ethos, un comportamento che manifesta un sapere artigianale incorporato, e allo stesso tempo un nodo convulso di “superstizioni” e fantasmi personali, quel che chiamiamo valori – la nostra bussola della vita. Muoversi, per un attore e un regista, significa sottomettersi con disciplina e coerenza, per anni, a una pratica mentale e somatica che ci sradica dai luoghi comuni e dai pregiudizi della nostra cultura di origine, e ci spinge verso i territori scabrosi dell’alterità. Questa alterità ha due visi. È l’altro in noi stessi, quella parte di noi che vive in esilio nella profondità più profonda del nostro essere. Ed è l’altro essere umano, separato e distante da noi per geografia,

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cultura o sesso. Il teatro non può essere un incontro filantropico in cui si cerca di comprendere, spiegare o accettare il differente. Il teatro è una lotta fiorita, è la nostra necessità di appropriarci dell’altro – gli autori, i colleghi di lavoro, gli spettatori, i morti – di fondersi con lui, di divorarlo, impegnando tutto il nostro metabolismo per assorbire l’essenziale ed espellere il superfluo. Il confronto con l’altro è un rito di passaggio che rinnova il riconoscimento di forze e qualità reciproche ed inspiegabili. Il teatro ci muove dalla realtà inferiore alla realtà dell’esistenza profonda. Ci proietta dalla superficie nella corrente opaca delle energie che operano occulte. Basta ricordare Marx, Freud, Niels Bohr, e le fondamenta su cui ci muoviamo, l’universo subatomico che nega le evidenze della fisica di Newton e irride le relazioni di causa ed effetto, di tempo e spazio, di passato e futuro. Il teatro muove il nostro universo interiore verso il mondo degli eventi tangibili e spinge la nostra Piccola Storia a ballare con la Grande Storia. La nostra rabbia, le nostre esaltazioni, i nostri smarrimenti e rifiuti si scontrano con la disciplina dell’artigianato teatrale. Emozioni, sensibilità ed impulsi sono sottomessi a un processo di finzione e si trasformano in azione percettibile che accarezza o graffia i sensi e la memoria dello spettatore. Il teatro ci alza o abbassa socialmente, ci fa essere accettati, riconosciuti e riconoscibili, oppure rifiutati, a volte perseguitati. Il teatro europeo è la storia di un mestiere discriminato, con innumerevoli esempi di attori che abbatterono le barriere sociali grazie a un consenso di ammirazione. Rachel, Adelaide Ristori, Jenny Lind, Eleonora Duse, Johanne Louise Heiberg, e molti altri modelli di eccellenza artistica provenivano da ambienti disprezzati e rifiutati, ebree, zingare, figlie naturali o figlie d’arte. Il teatro ci muove, alla lettera, ci fa viaggiare, è la materializzazione di una geografia che attraversiamo per visitare fisicamente e mentalmente luoghi e ambienti lontani, per incontrare temperamenti e temperature che sorprendono. Il teatro è un viavai di relazioni, è un nomadismo radicato in un ethos, in un artigianato incorporato. Affermo che il teatro è un modo particolare di muoversi. Questa definizione vale dal punto di vista di chi pratica attivamente il mestiere. Muoversi, però, è un verbo riflessivo che si dirige al soggetto, un serpente che si morde la coda. Qualsiasi definizione del teatro deve partire dalla consapevolezza che lo spettacolo crea un fascio di relazioni con realtà diverse e si immette in uno spazio/tempo sociale. Il teatro è un modo particolare di muovere lo spettatore. Questo è in fondo l’obiettivo del lungo apprendistato e degli sforzi continui di ogni attore: muovere lo spettatore, creare una finzione, un’illusione

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che allucini lo spettatore e gli faccia esperire la trasparenza. Nel corso dello spettacolo, le caratteristiche personali e la perizia degli attori, i comportamenti e i destini dei personaggi, le tensioni e le peripezie del racconto devono perdere la loro consistenza per i sensi dello spettatore, devono trasformarsi in un vuoto, un ponte trasparente che avvicina ogni spettatore alle sue ferite nascoste, alle sue cicatrici interiori, alle tracce delle sue lotte e dei suoi compromessi. Questo dialogo con se stesso può avvenire solo se l’attore riesce a destare le energie sopite di ogni singolo spettatore provocando risonanze, sensazioni e memorie che permettono di riflettere in termini di intimità, di Piccola Storia. Solo se l’attore riesce a muoversi crea le premesse per muovere lo spettatore, per sedurlo e spiazzarlo provvisoriamente dalla trincea delle sue convinzioni. Muovere lo spettatore, tecnicamente parlando, presuppone l’assimilazione di modi paradossali di pensare e comportarsi sulla scena. Il “se magico” di Stanislavskij, i procedimenti per straniare il comportamento del personaggio tanto apprezzati da Brecht, i principi pre-espressivi della presenza scenica evidenziati dall’Antropologia Teatrale, sono alcuni dei cammini che l’attore può seguire per essere convincente in ogni sua più piccola azione. L’attore genera una qualità di presenza diversa, provoca un’osmosi con le energie dello spettatore, realizza un atto sociale che si converte in un processo di meditazione individuale. È il trionfo della presenza assoluta nell’istante che fugge, l’impegno totale dell’individuo-attore che compie le sue azioni qui ed ora di fronte agli spettatori, al centro stesso della sua epoca e della sua società. Ma l’attore crea la realtà della finzione per poter essere altrove. Il teatro è l’arte dell’ubiquità: prende posizione di fronte alle circostanze in cui il nostro destino personale e la Grande Storia ci hanno sbattuto, e nello stesso tempo ci trasporta nell’utopia, in una quotidianità ideale. Il teatro permette di vivere dentro le viscere del mostro e allo steso tempo in un’isola di libertà. Dov’è questo “altrove”? In quale luogo fisico, geografico, affettivo, mentale si trova?

Dissidenza e utopia: un tempo dentro un altro tempo In un mattino sereno, in una villa di Roma, un uomo sessantenne corre e salta sui prati come un bambino. Ha passato gran parte della sua vita in prigione in celle sotterranee e isolate, torturato. Ora è finalmente libero. È nato nel 68, 1568, in Calabria, nell’estrema punta dell’Italia meridionale. Si chiama

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Tommaso Campanella, l’autore della Città del sole, un’opera su una società giusta e utopica. L’aveva scritta in carcere nel 1602, ispirandosi all’Utopia di Thomas More, l’intellettuale decapitato per aver rifiutato di firmare il documento che riconosceva Enrico VIII come capo della chiesa d’Inghilterra. Campanella, di origini contadine, era un frate domenicano, teologo, filosofo, astrologo, aveva delle visioni e faceva profezie. I suoi nemici lo chiamavano mago e stregone. Scandalizzato dalla ristrettezza della mentalità ecclesiastica aveva abbandonato l’ordine monastico – un reato per quel tempo. Campanella viene incarcerato. Tornato provvisoriamente libero, diventa uno dei capi di una congiura contro il governo spagnolo che dominava l’Italia del Sud. La congiura è scoperta e i 140 congiurati, tra cui 14 monaci, vengono incatenati e portati a Napoli. Alcuni dei prigionieri sono squartati sotto gli occhi della folla, trasformando la loro morte in spettacolo. Altri vengono impiccati agli alberi delle navi della flotta spagnola. I rimanenti vengono torturati affinché confessino i nomi dei complici della rivolta armata. Campanella subisce la tortura del “puledro”, steso su una trave di legno e stretto con corde che schiacciano le sue carni sulle ossa. Viene sospeso alla fune con le braccia all’indietro e le spalle slogate. Alla fine è sottoposto alla tortura della “veglia”, l’invenzione recente del giudice Ippolito de Marsilis. Al prigioniero si dava cibo e vino in abbondanza. La difficile digestione favoriva il sonno, ma gli si impediva di dormire. Per 20, 30, 40 ore di seguito era costretto a sedere su uno sgabello alto che non permetteva di poggiare i piedi a terra, con le braccia legate dietro la schiena e tirate da una fune. Ogni volta che la testa si chinava nel sonno, i suoi guardiani lo battevano. Campanella si rende conto che alla fine della tortura lo condanneranno. Sa anche che è proibito mettere a morte un peccatore, un delinquente o un eretico se costui è pazzo. Un demente non ha la coscienza per pentirsi dei suoi misfatti. E le condanne e i tormenti vengono inflitti per permettere al condannato di redimersi agli occhi di Dio. Occorre quindi che il torturato soffra e muoia in piena coscienza, in modo da accettare la condanna e pentirsi. Campanella, allora, si finge pazzo. La finzione dura giorni, settimane, mesi, senza tregua, senza distrazioni. Negli intervalli fra una seduta di tortura e un’altra, Campanella fa smorfie, mormora frasi senza senso, è scosso da convulsioni, dà fuoco al pagliericcio della sua cella. Durante l’ultima tortura della veglia, alla quale dovrebbe seguire la condanna a morte, ad ogni domanda risponde sempre con le stesse ossessive parole: “dieci cavalli bianchi”. – Sei cosciente che i tuoi peccati ti condanneranno all’inferno? – Dieci cavalli bianchi. – Hai mai fatto pratiche di magia?

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– Dieci cavalli bianchi. – Hai mai evocato Satana? – Dieci cavalli bianchi. – Non hai forse dichiarato che esistono altri mondi abitati, oltre alla nostra terra? – Dieci cavalli bianchi. – Sostieni che il papa sia un usurpatore? – Dieci cavalli bianchi. – Hai scritto tu l’infame opuscolo anonimo intitolato I tre impostori dove anche Cristo è dichiarato impostore, accanto a Mosè e Maometto? - Dieci cavalli bianchi. Finalmente, la mattina del 6 giugno 1601, alla fine dell’ultima e lunghissima “veglia”, viene dichiarato legalmente pazzo e condannato al carcere a vita. Lui stesso firma il documento con una croce, come fanno quelli che non sanno né leggere né scrivere. Resta in carcere fino al 1626, compone La città del sole, la sua visione utopica di una società umana e giusta, scrive numerosi libri e poesie. È la sua altra libertà. 27 anni di “altra libertà”, il suo “altrove”. L’utopia è il salto in un “altrove”, quando questo mondo mostra il suo volto repellente. Thomas More e Tommaso Campanella sono tra i primi intellettuali a mostrare il legame tra utopia e dissidenza. O meglio, indicano come la dissidenza sia la capacità di vivere in un tempo dentro un altro tempo, la pratica di un’ubiquità che permette di vivere simultaneamente nel tempo-prigione e in un’isola di libertà, la piscina che ci permette a volte di stare nell’acqua della Grande Storia senza lasciarci trascinare dalle sue correnti.

La differenza inquietante È importante preservare la testimonianza che la dissidenza sia praticamente possibile. Come si può essere dissidenti in maniera efficace? Secondo la storia e l’etimologia della parola, “dissidenza” viene dal latino dissidere, sedere (sedere) separatamente (dis). Fu usata per designare i protestanti polacchi nella Pax Dissidentium firmata a Varsavia nel 1573 quando il re Henry de Valois si impegnò a rispettare la libertà di culto e di opinione politica. Il dissidente, quindi, non è lo scismatico, uno che se ne va, che abbandona o che si separa. È uno che crea una distanza senza distaccarsi per evidenziare le sue “superstizioni” e la sua differenza. La differenza, in sé, non è un valore, è una condizione. Può essere una condizione di inferiorità una fase che prelude all’integrazione, oppure una segregazione scelta o patita. Diventa feconda quando diventa inquietante. Nor-

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malmente i corpi estranei, coloro che qualifichiamo come “differenti”, generano indifferenza, vengono rimossi ai margini della nostra mente e della nostra società. Oppure vengono sentiti come minacciosi e generano ostilità. In seguito, quando non fanno più paura, quando sono non solo stranieri ed estranei, ma vinti, diventano museo e spettacolo ed acquistano il fascino dell’esotico. Il teatro è fuori da questa logica. Può essere una differenza vezzeggiata, sovvenzionata o anche soltanto tollerata. Può essere una differenza che si accontenta di sé. Oppure può divenire la pratica di una dissidenza che riesce ad affascinare, a farsi rispettare, ed a mostrarsi irriducibile. È inquietante perché non si adegua alle regole della lotta. Lottare con essa sarebbe come lottare con un’ombra che più l’afferri più ti sfugge di mano. La lotta prevede che vi sia un vincitore e un vinto, oppure – come terza precaria possibilità – una tregua. Ma alla fine, la lotta tende ad eliminare il problema e la contraddizione, punta al trionfo dell’omogeneità e dell’integrazione. Completamente diverso è il trasmettersi di un’ombra indelebile, la pratica di una “superstizione” che buca la compattezza dello spirito del tempo. In questo caso non si tratta di essere vinti o vincitori. Si tratta di preservare una presenza che non si adegua e che non finisce nelle sabbie mobili dell’indifferenza circostante. La differenza inquietante vince non quando riesce a prevalere, ma se riesce a resistere con la propria presenza e a salvaguardare la capacità di trasmettere al futuro il segno della propria disappartenenza. Non è possibile non stare in questo mondo. Ma è possibile non appartenergli. Il teatro è l’esperienza di una diaspora volontaria da quello che conosciamo, dalle certezze e dagli alibi della nostra cultura. A volte, alcune delle nostre opere sono accarezzate dalle nuvole, appaiono belle e vengono applaudite. Ma la loro incandescenza e durata nella memoria delle Piccole Storie e della Grande Storia, sono indissolubilmente legate all’azione anonima, rigorosa e quotidiana di uomini e donne che incarnano il paradossale mestiere dell’ubiquità: prendere posizione in dissidenza verso il mondo che ci circonda per vivere nell’utopia.

Un granello di sabbia Il concetto di utopia è strettamente connesso a quello di isola. L’isola non è isolata, sta a sé nel mare, che è il mezzo di comunicazione per eccellenza. L’isola è connessa al mondo circostante, è distante, ma non distaccata. Ricordiamo i grandi racconti che ci giungono dal passato, i miti dei Giardini. Ogni giardino sereno ha la sua insidia, c’è sempre il veleno di un serpente che si nasconde nell’erba del Paradiso.

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Eugenio Barba

Quale serpente si nasconde nell’isola di libertà del teatro? Quando cominciamo, il nostro sogno più grande è di poter approdare alla terra del mestiere, coltivarne gli alberi della Conoscenza, incontrare in una lotta-abbraccio i suoi spiriti familiari e gli spiriti che la invadono dagli angoli remoti della terra. Quando cominciamo, teniamo una fiamma tra le mani per illuminare una voce lontana: la nostra vocazione. Con gli anni, le nostre mani stringono cenere, e tutta la nostra energia e il nostro sapere sono tesi nello sforzo di mantenere in vita la poca brace che ancora arde. Non siamo sbarcati sull’isola della libertà, siamo inghiottiti nelle viscere del mostro. Il teatro è un mostro che soffoca subdolamente la nostra necessità originaria con la consuetudine, la ripetitività, gli alibi e la grigia fatica. Il teatro diventa semplicemente un lavoro, una dimestichezza con un mestiere che ha perso la sua magia, il suo ethos, i suoi ideali. All’ora di cena ci sediamo a tavola. All’ora di andare a letto, sbadigliamo. Vediamo un albero, e raccogliamo la sua frutta. Il teatro sopravvive e ci fa sopravvivere avvolti in un sano fatalismo di indifferenza e tiepidezza. Solo la rivolta ci può proteggere, una rivolta contro noi stessi, contro le nostre tentazioni, i nostri piccoli cedimenti e compromessi, contro l’impulso naturale a scegliere le soluzioni conosciute e seguire il cammino meno arduo. Quel che trasforma il mostro in un’isola di libertà è la via del rifiuto, del lavoro anonimo e incorruttibile, ogni giorno, per anni, anni e anni. Non dobbiamo nutrire aspirazioni ambiziose. Dobbiamo essere consapevoli che dentro le viscere del mostro siamo solo un granello di sabbia. Dobbiamo essere sabbia, non olio, nella macchina del mondo.

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ELOGIO DELL’INCENDIO*

My speech is like smoke and my body is the burning: le mie parole sono come fumo, e a bruciare è il mio corpo. Scelgo questa immagine, anche per evitare che il titolo del mio discorso – Elogio dell’incendio – sembri un panegirico della distruzione. Vuol essere, invece, celebrazione della metamorfosi, e quindi della resistenza. L’immagine iniziale è il titolo di un’opera di Deb Margolin, attrice e drammaturga americana, un’artista pugnace che recita spesso da sola. Il suo corpo, allora, è tutto il suo spazio scenico, e bruciare si rivela sinonimo di essere-in-vita. Per secoli gli spettatori hanno visto gli attori e le attrici in una luce-invita, mobile, piena d’ombre impreviste e mutevoli, ben diversa dalla nostra luce elettrica, docile ed addomesticata. Ognuno di noi ha almeno una volta vissuto l’esperienza di uno spettacolo che ci ha ustionati riducendo in cenere quello che pensavamo fosse il teatro, l’arte dell’attore e il nostro ruolo di spettatore. Ci sono bambini e vecchi, innamorati e dementi che hanno visto indimenticabili e fuggitivi spettacoli nella danza delle fiamme nel camino o del falò in un campo. Vi sono le fiaccole che artisti visionari hanno gettato nella pratica e nell’idea stessa del nostro mestiere, creando roghi che hanno alimentato con la coerenza del loro agire. Il teatro è “la terra del fuoco”.

* Discorso di ringraziamento per il titolo di Dottore honoris causa conferito dall’Instituto Universitario Nacional del Arte (IUNA) di Buenos Aires, il 5 dicembre 2008. Pubblicato per la prima volta in “Memoria de teatro” n.5, Cali, Colombia, maggio 2009.

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Eugenio Barba

Parlando di teatro, soprattutto fra i professionisti e gli intenditori, la realtà del fuoco ritorna come un leitmotiv: il fuoco della recitazione, il pubblico che s’accende, l’ardore delle passioni e degli applausi. Quando una commedia è davvero brillante e fa scintille, quando l’attore tragico arde di passione e ribellione o l’attrice si infiamma di sdegno o voglia di vendetta, lo spettatore, atterrito e felice, viene sfiorato da un dubbio: è solo una sua impressione, o in qualche parte sta covando un incendio? Per secoli i teatri non poterono sottrarsi al loro appuntamento con le fiamme, improvviso e imprevisto, ma obbligato. Bruciavano in media una volta ogni cinquant’anni. Andarono a fuoco tutti i teatri di San Francisco nel rogo che scoppiò subito dopo il terremoto del 18 aprile 1906 e che durò tre giorni: gli imponenti Grand Opera House, Tivoli Opera House, Alcazar, Fischer’s & Alcazar, California, Columbia, Majestic, Central, Orpheum, senza contare le sale minori e il teatro cinese di Chinatown. Arsero il Théâtre de la Porte Saint-Martin, lo Châtelet e il Théâtre Lyrique durante la Comune di Parigi nel 1871, quando i comunardi appiccano fuoco agli edifici pubblici. José Posada immortalò l’incendio e la distruzione del teatro di Puebla in una stampa che andò a ruba in Messico, mentre l’incendio del Bolshoi Teatro di Mosca nel 1942, causato dalle bombe tedesche, ispirò a Stalin un discorso che infiammò lo spirito patriottico del suo popolo. Un’intera generazione teatrale perì tra le fiamme, il 5 settembre del 2005, nel teatro di Beni Sweif, nella regione meridionale d’Egitto. Il fuoco carbonizzò più di quaranta artisti, registi, critici e studiosi che assistevano a Grab your Dreams di Mohamed Shawky. Erano il nucleo del movimento teatrale della generazione tra gli anni ’70 e ’80. A volte il teatro che brucia sembra spingere i suoi abitanti, gli attori, verso altre città, esili o nuove avventure, come accadde a Wilhelm Meister nel romanzo di Goethe. O come si immaginò il pittore che rappresentò la maschera di Jodelet fuggire dall’incendio del Théâtre du Marais a Parigi nel 1634. Però, se furono catastrofi, come considerarle metafore? L’intero Padiglione Olandese dell’Esposizione Coloniale del 1931 andò in cenere, si salvò solo il teatro. Era la sonnolenta estate del 1931 a Parigi, e i giornali seppero commuovere i loro lettori descrivendo gli attori balinesi in fuga, stringendo al petto i loro dorati costumi. Molti parigini accorsero a vedere gli spettacoli di questi bizzarri danzatori pronti a rischiare la vita per salvare i loro orpelli. Tra loro, Antonin Artaud.

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Chiudendo l’introduzione a Il teatro e il suo doppio, Artaud parla di fuoco. Sembra alludere al martirio e si tratta invece di vita. Spiega quel che la cultura dovrebbe essere e non è. Il fumo delle sue parole si sprigiona davvero da un corpo. Per questo conviene tradurre le sue parole alla lettera, come un mantra contro lo spirito del suo secolo e di quello in cui viviamo: Quando usiamo la parola vita dobbiamo renderci conto che non si tratta della vita riconosciuta dalla superficie dei fatti, ma di questa sorta di fragile e mobile focolare al quale le forme non appartengono. E se qualcosa è ancora infernale e maledetta, in questo tempo, è l’attardarsi artisticamente su delle forme, invece d’essere come suppliziati che vengono arsi e fanno dei segni sui loro roghi. Artaud non parla esplicitamente di attori. Eppure quei segni, quel suppliziato e quel rogo sono stati immediatamente intesi come un’immagine estrema ed ideale dell’attore. Julian Beck e Judith Malina ne fecero la pietra angolare del loro Living Theatre, il teatro vivo. Antonin Artaud fu forse il più povero, il più sofferente, certo il meno professionalmente autorevole fra i protagonisti della Grande Riforma del teatro nella prima metà del secolo scorso. Dal punto di vista del mestiere, ha ben poco da insegnare. Oggi lo annoveriamo fra i maestri, ma non fu mai un maestro. Però fu l’allievo della propria anima divisa. Da essa imparò moltissimo. Legò indissolubilmente il nocciolo dell’arte teatrale alle sofferenze dell’anima malata. Artaud non depose le armi, continuò tutta la vita a soccombere rialzarsi e combattere. Fino alla notte in cui si sedette sul letto e capì che l’ora era arrivata. Si levò una scarpa, e tenendosela in mano come un amuleto, iniziò l’ultimo viaggio. Artaud indicò a noi, popolo del teatro, non i segreti del mestiere, ma quel che attraverso il mestiere dobbiamo soffrire e, forse, sperare: l’esilio. È appena un’infima parte della nostra professione. Ma senza quell’infima parte, arte e mestiere sono solo un fuoco di paglia. Sappiamo perché i teatri brucino e siano bruciati: per incuria, per la crudeltà del cielo, per speculazione, per malavita, per fascismo, per vendetta e minaccia, per vecchiaia. Nel teatro, in questa “terra del fuoco”, appaiono due diverse nature. L’una è catastrofe, l’altra trasformazione. L’una distrugge, l’altra raffina, rafforza il ferro e separa l’oro dalla fanghiglia a cui è incorporato. Di questo secondo fuoco faccio l’elogio. Da questo secondo fuoco la nostra professione trae la vita e il suo valore. La sua danza. Danziamo? Sì, danziamo. Oppure no, non danziamo: facciamo teatro. Ma chi saprebbe dire dove sta la differenza, dove passa il confine?

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Eugenio Barba

Danziamo sempre, ma non sempre per adeguarci ad un genere estetico. Danziamo come su dei carboni ardenti, perché questa danza è essenzialmente un rifiuto non distruttivo, una guerra non violenta alla natura che ci assoggetta. E quindi, più o meno consapevolmente, un rifiuto della storia cui apparteniamo. Come se avessimo le ali; come se pesantissime radici affondassero nella terra sotto i nostri piedi; come se il nostro “io” fosse un altro. Come se davvero fossimo liberi. Ma umilmente, perché questa danza ha l’umiltà d’un mestiere, poco più dell’esercizio del come se. E per gli spettatori è innanzi tutto un passatempo. Se qualcosa sembra non si possa associare all’elogio dell’incendio, è proprio l’idea di un passatempo. Eppure… La nostra arte non è fatta per essere arte. Non corre per raggiungere una forma definitiva. Corre per sparire. È un’arte arcaica, non solo perché oggi è esclusa o si esclude dallo spettacolo principale del nostro tempo, lo spettacolo dell’immagine riprodotta e riproducibile. Ma soprattutto perché sotto le apparenze d’un passatempo può nascondere una ricerca spirituale, qualcosa che scuote, fortifica e a volte modifica la nostra coscienza e ci immette in una condizione governata da altri valori. Dobbiamo rimanere con i piedi ben piantati per terra e gli occhi fissi sulla cassetta degli incassi. Ma non dobbiamo dimenticare che il teatro è finzione in transito verso un’altra realtà, verso il rifiuto della realtà che crediamo di conoscere. Il teatro è finzione che può cambiare sia coloro che recitano che coloro che osservano. Niente di altisonante, di minaccioso, di eretico o di folle. Solo passatempo. Essere passatempo è il livello elementare della nostra arte, così come il pane lo è per la cucina mediterranea. Non si mangia senza pane. Ma il solo pane alla lunga non basta. A volte il passatempo è un valore in sé. Quando il tempo sembra non passare mai, per chi è privato della libertà, per chi si tiene in piedi di fronte alla propria sofferenza, all’amputazione della propria identità, o alla morte, il passatempo può essere la formula della vita, la resistenza all’orrore. Dostojevskij racconta come il vaudeville recitato con costumi signorili e le catene ai piedi, nella katorga siberiana, fosse per i condannati un modo per rifarsi una vita. Fare modestamente teatro, da amateur, negli anni della guerra fra l’esercito e Sendero Luminoso, ad Ayacucho in Perù, era un’azione vicina all’eroismo, per un gruppo di giovani che ho conosciuto. Erano attori perché desideravano anche avere una zattera fuori dall’orrore. In Europa, nel corso del Rinascimento, uno dei modi di far festa non erano semplicemente i fuochi artificiali, era l’incendio. Il potente che organizzava i

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festeggiamenti comprava una o due case popolari, cacciava via gli abitanti, le svuotava, le riempiva di fuochi d’artificio e polvere da sparo, poi la faceva incendiare ed esplodere. Lo spettacolo era molto applaudito. Per chi non vi è direttamente implicato, l’incendio può essere uno spettacolo. E per chi lo racconta può essere una metafora della forza dirompente del teatro nel cuore d’una città, della sua natura di focolaio di infezione morale. Oppure una immagine della vocazione degli attori ad essere dei “senza casa”, sempre pronti ad essere sfrattati: dal fuoco, dagli integralisti, dalle autorità, dallo sfruttamento economico. Nel paese in cui nel 1981 bruciò il teatro Picadero, forse non dovrei usare l’incendio come una metafora. Quando leggo che in Argentina regnava la pace dei cimiteri, che vi furono trentamila desaparecidos, migliaia di prigionieri politici e un milione di esiliati, che il popolo era senza dirigenti – morti, incarcerati o fuori dal paese – e che qualsiasi forma di organizzazione sembrava impossibile, Il Teatro Abierto mi appare come la danza sopra questi carboni ardenti di un pugno di attori e autori, scenografi e tecnici, appena duecento, di fronte alla violenza della Storia. Il comando della dittatura che incendiò la sala del Picadero nell’agosto 1981 non aveva previsto che il suo atto criminale avrebbe scatenato una danza ben più grande. Numerosi direttori di teatri commerciali si offrirono di continuare il Teatro Abierto, decine di pittori donarono quadri per raccogliere fondi e le personalità più note dei diritti umani e della cultura espressero la loro adesione. Così lo scrittore Carlos Somigliana descrisse questa danza: “l’obiettivo profondo del Teatro Abierto fu quello di tornare a guardare la nostra faccia senza vergognarci”. Vi è un fuoco che non cessa di ardere nelle coscienze e nelle memorie dei teatranti, come anche negli edifici dei teatri. La sera del 7 maggio 1772, ad Amsterdam, durante la rappresentazione del Déserteur di Monsigny, opera comica in tre atti, scoppiò un incendio che distrusse completamente il teatro Schouwburg, facendo diciotto vittime. In appena tre anni, fu costruito un nuovo edificio, più imponente e sfarzoso. Fino al 1941, lo Schouwburg fu il teatro principale della città, situato nel Plantagebuurt, il cuore del vecchio quartiere ebraico di Amsterdam. Nell’ottobre 1941, i nazisti che avevano occupato l’Olanda cambiarono il suo nome in Joodsche Schouwburg (Teatro Ebreo) per soli attori, musicisti e spettatori israeliti. Nel settembre del 1942 il teatro fu chiuso e trasformato in un luogo per raggruppare gli ebrei. 104.000 uomini, donne e bambini vi vennero ammassati, e da lì avviati ai campi di sterminio della Germania e della Polonia.

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Il teatro Schouwburg, da centro di cultura e divertimento, divenne un cupo luogo di angoscia e dolore. Dopo la guerra quello spazio non poteva riprendere la sua funzione originale e restò chiuso per anni. Fu scelto per diventare un luogo della memoria. Oggi, entrando nell’ex teatro, vediamo bruciare una fiamma eterna. Con questa immagine d’una fiamma di pura memoria, che brucia senza fumo di parole e senza corpo, potrei chiudere questo discorso. Concluderò, invece, con un brindisi immaginario. Come si usa a teatro, quando si ricorre al mimo al posto degli oggetti materiali. Immaginate che qui, su questo tavolo accademico, ci sia una bottiglia di birra. E torniamo sulle rive del Tamigi, in una delle nostre antiche patrie teatrali. Troviamo la notizia del primo incendio nella storia del teatro europeo in una lettera del nobile inglese Sir Henry Watton, datata 2 luglio 1613 e inviata a Sir Henry Bacon. Comincia così: “Ed ora lasciamo riposare i discorsi politici e dello Stato. Mettiamoli a dormire. Ora vi voglio raccontare qualcosa che in questa settimana è accaduta nella zona del Tamigi”. Sir Watton riferisce che gli “Attori del Re”, la compagnia di Shakespeare, hanno messo in scena un suo dramma intitolato All Is True. L’allestimento era suntuoso, con stuoie e tappeti sul palcoscenico, una festa più ricca e maestosa delle vere cerimonie di corte. Durante lo spettacolo vennero sparate vere salve di cannone e alcune scintille, volate fra la paglia del tetto, consumarono l’intero teatro in meno di un’ora. Così spari il Globe: senza morti e senza feriti. Il teatro, immediatamente riedificato con un tetto di tegole, fu riaperto un anno più tardi. Nel 1642 i Puritani, nel loro ardore religioso, chiusero tutti i teatri incluso il Globe che fu dimenticato anche come forma di edificio teatrale: gli inglesi, alla riapertura dei teatri adottarono il teatro all’italiana. Passarono più di tre secoli e il Globe Theatre, uno dei nostri miti, risuscitò. Resti del suo edificio furono scoperti nel 1989 sulle rive del Tamigi e, su ispirazione di un attore e regista americano, Sam Wanamaker, un nuovo Globe fu ricostruito nel 1997 uguale all’antico modello elisabettiano e vicino al luogo in cui sorgeva l’originale. Sapeva bene, Sir Watton, che ogni dramma deve chiudersi con il respiro leggero d’una farsa, e concluse così la sua lettera a Sir Henry Bacon: “Soltanto uno degli spettatori rischiò la morte. Gli si incendiarono le braghe e sarebbe forse finito arrostito se un allegrone mezzo ubriaco non l’avesse spento versandogli addosso una bottiglia di birra”. Fra tanti incendi, non sarebbe opportuno augurare anche a noi una buona birra?

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EPILOGO

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L’EPILOGO È UNA DOMANDA

L’Odin Teatret è oggi un teatro quasi cinquantenne. Per noi, “piccola tradizione nomade”, cinquant’anni anni sono un tempo molto lungo. La nave su cui abbiamo navigato ha scricchiolato a lungo. Non vogliamo essere dei sopravvissuti. E quando leggiamo il nostro nome nei libri di storia, più che dall’orgoglio ci sentiamo scossi dalla voglia di recalcitrare. All’orizzonte si profilano le sagome dei nostri spettatori futuri, quelli che non hanno mai assistito alle nostre opere. Gli spettatori della memoria sono molto più difficili degli spettatori della presenza. Meno indifferenti, meno ostili, meno entusiasti. Molto più inclini all’involontario tradimento. La storia rischia di dissiparsi in una dolciastra leggenda. La spina del coraggio rischia di fiorire in artificiali immagini d’agiografia teatrale. La messa in scena della memoria è anch’esso uno dei nostri compiti. Il più difficile. Altrettanto difficile del nostro primo spettacolo, quando non avevamo un mestiere sicuro, né esperienza. Per quest’ultima messa in scena, che non vedremo, pur essendone responsabili, torniamo ad essere autodidatti. Le nostre conoscenze tecniche non servono a nulla. Non serve il sapere. Serve forse solo la nostra ribellione iniziale contro lo spirito dei tempi e la sua cecità, fatta di illusioni e ottimismi a buon mercato. Il tempo torna a prenderci a calci e ci obbliga di nuovo a debuttare. Come trasmettere una memoria viva, fatta di tensioni e contraddizioni, non edulcorata e patinata dal passare del tempo? Come lottare contro la dittatura della storia a lieto fine?

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BIBLIOTECA TEATRALE MEMORIE DI TEATRO

1. Sergio Tofano, Il teatro all’antica italiana e altri scritti di teatro (a cura di Alessandro Tinterri). 2. Francesco Augusto Bon, Scene comiche e non comiche della mia vita (a cura di Teresa Viziano). 3. Luigi Rasi, La Duse (Postfazione: La Duse contro il teatro del suo tempo, di Mirella Schino). 4. Claudio Meldolesi, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano. 5. Guido Lopez, Marco Praga e Silvio D’Amico. Lettere e documenti (19191929). 6. Maria Ines Aliverti, Poesia fuggitiva sugli attori nell’età di Voltaire. 7. Mirella Schino, Il crocevia del Ponte d’Era. Storie e voci da una generazione teatrale (1974-1995). 8. Clive Barker, Giochi di Teatro. Strumenti per l’attore (a cura di Paolo Asso). 9. Tra psicoanalisi e Teatro. Identificazione e creatività (a cura di Elisabetta Zanzi e Sara Spadoni). 10. La letteratura in scena. Gadda e il teatro (a cura di Alba Andreini e Roberto Tessari). 11. Erland Josephson, Memorie di un attore (a cura di Vanda Monaco Westerståhl). 12. Franco Ruffini, Per piacere. Itinerari intorno al valore del teatro. 13. Paola Daniela Giovanelli, Sabatino Lopez. Critico di garbo (Prefazione di Guido Lopez). 14. Vsevolod Emil’eviĆ mejerchol’d, Un ballo in maschera (a cura e con un saggio di Anna Tellini). 15. Anton Bierl, L’Orestea di Eschilo sulla scena moderna. Concezioni teoriche e realizzazioni sceniche (Traduzione di Luca Zenobi, Premessa di Massimo Fusillo, Postfazione dell’autore alla nuova edizione italiana). 16. Alessandra Orsini, Città e conflitto. Mario Martone regista della tragedia greca (Premessa di Massimo Fusillo). 17. Iben Nagel Rasmussen, Il cavallo cieco. Dialoghi con Eugenio Barba e altri scritti (a cura di Mirella Schino e Ferdinando Taviani). 18. Renzo Vescovi, Scritti dal Teatro Tascabile (a cura di Mirella Schino). 19. Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano.

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20. Bernadette Majorana, Pupi e attori ovvero l’opera dei Pupi a Catania. Storia e documenti. 21. Mirella Schino, Il teatro di Eleonora Duse. 22. Valentina Venturini, Raffaele Viviani. La Compagnia, Napoli e l’Europa. 23. Goldoni a Bologna (a cura di Paola Daniela Giovanelli). 24. Voci e anime, corpi e scritture (a cura di Maria Ida Biggi e Paolo Puppa). 25. Franco Ruffini, L'attore che vola. Boxe, acrobazia, scienza della scena. 26. Francesca Romana Rietti, Jean-Louis Barrault. Artigianato teatrale. 27. Stefano Geraci, Destini e retrobotteghe. Teatro italiano nel primo Ottocento. 28. Carla Arduini, Teatro sinistro. Storia del Grand Guignol in Italia. 29. Zbigniew Osin´ski, Jerzy Grotowski e il suo laboratorio. Dagli spettacoli a L’arte come veicolo.

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