La colomba pugnalata. Proust e la Recherche 8804450320, 9788804450320

Ne "La colomba pugnalata", Pietro Citati accetta una sfida temibile: avvicinarsi al mistero che fu Marcel Prou

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Italian Pages 418 [421] Year 1998

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La colomba pugnalata. Proust e la Recherche
 8804450320, 9788804450320

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Da giovane Marcel Proust conobbe la feticità.

La catturò

nella luce del sole e nel

profumo dei fiori. d'amore.

La colse negli sguardi

Ma nascosta nel suo cuore

ere-

sceva la pena dolorosa che doveva trovare sfogo nell'arte di scrivere.

Dall'esuberan-

za alla sofferenza, dagli affollati salotti parigini all'ovattato silenzio della stanza in cui si rinchiuse a scrivere, pie un misterioso tragitto.

Proust com-

Di questo mi-

stero ci parla Pietro Citati con un libro che più di qualunque altro ci avvicina all'umanità e al genio di Marcel Proust.

In copertino: Marcel Proust (Poris, Bibliotèque Notionole) Foto Collection Viollet, Poris

ISBN 88-04-45032-0

ART DIRECTOR· GIACOMO CALLO GAAPHIC DESIGNER- GIANNI CAMUSSO

Lire 14.000

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Ili� l

788804 450320

Bestsellers

Dello stesso autore in edizione Mondadori Alessandro Cinque teste tagliate La collina di Brusuglio La luce della notte Manzoni

PIETRO CITATI

LA COLOMBA PUGNALATA Proust e la Recherche

ARNOLDO MONDADORI EDITORE

© 1995 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione Scrittori italiani settembre 1995 I edizione Bestsellers Oscar Mondadori maggio l 998

ISBN 88-04-45032-0

Questo volume è stato stampato presso Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa- Cles (TN) Stampato in Italia. Printed in Italy

Il nostro indirizzo Internet è: http://www.mondadori.com/libri

LA COLOMBA PUGNALATA

a

Federico Fellini

Parte prima LA COLOMBA PUGNALATA

I

La felicità

Pochi esseri umani hanno desiderato la felicità con la vee­ menza, la dolcezza, l'ebbrezza febbrile di Marcel Proust adolescente. Forse solo il giovane Tolstoj, il quale gli era legato da singolari affinità e somiglianze, desiderò la feli­ cità con la stessa ansia dolorosa e incontenibile: egli pre­ tendeva che la vita restasse sé stessa, nient'altro che un attimo di tempo, - eppure balzasse oltre un limite, diven­ tando un misterioso al di là, un'epifania dell'invisibile e dell' oltretempo. Il giovane Proust fu felice, o almeno lo disse, lo raccontò e lo immaginò con sé stesso. Era felice perché un raggio di sole splendeva, perché odorava il profumo di un fiore, perché amava un ragazzo o una ra­ gazza, perché voleva bene a sua madre, perché leggeva un bel libro, perché scopriva le grandi leggi dell' esisten­ za, - e sopratutto perché «le cose sono così belle nell'esse­ re quello che sono e l'esistenza è una bellezza così calma diffusa intorno a loro». Cos'era la felicità? Nient'altro che questa ebbrezza, que­ sta gioia, questa euforia che facevano muovere le membra giovanili? Molti anni dopo, quando stava per cominciare la Recherche, scoprì che era sopratutto luce e musica: «La felicità non è che una certa sonorità delle corde che vibra­ no alla minima cosa e che un raggio fa cantare. L'uomo fe­ lice è come la statua di Memnone: un raggio di sole basta a farlo cantare». A quel tempo aveva già smesso di essere felice. Aveva scoperto che non aveva la forza necessaria 9

per far fronte al bonheur: se aveva il dono di sopportare tutta la massa di dolore che era sprofondata e sprofonda­ va su di lui, se egli non era, veramente, altro che questa ricchezza, - un baleno, un piccolo raggio di felicità basta­ va a farlo vacillare. Non aveva perduto lo sguardo capace di riconoscerla: ma ne ritrovava il volto impossibile e lon­ tanissimo solo attraverso lo specchio deformante della sventura. Qualche volta la felicità arrivava - era proprio lei, chi poteva confonderla? - : aveva il viso sorridente e radioso, ma avvolto da tremendi bagliori; era la stessa che visitava il principe Myskin un attimo prima di venire assalito da un attacco di epilessia. Talvolta era più mite e confiden­ ziale: ma non gli diceva più nulla; era giunta ironicamente troppo tardi, quando lui aveva finito di desiderarla. Così Proust diceva che non la sperava più per sé stesso: l' augu­ rava agli altri. Eppure non la dimenticò mai. Continuò a desiderarla per tutta la vita . Anche quando aveva cin­ quant'anni, viveva nella malattia, nel silenzio, nella tene­ bra, e ogni ricordo della statua di Memnone era stato di­ menticato, anche allora sperava che, non si sa come, imprevista ma lungamente attesa, la felicità sarebbe arri­ vata. Solo negli ultimissimi anni, rinunciò a lei; e per que­ sto si preparò a morire. Questa felicità nasceva da un immenso ed euforico senso di dilatazione. Quando scriveva sul «Figaro» ri­ cordò un'esperienza giovanile, che ci richiama un' espe­ rienza giovanile di Tolstoj. Era in treno, aveva bevuto qualche bicchiere di vino, e guardava dalla finestra del vagone i «seni bombati dei colli di Sèvres, il fiume, l'arco immenso del cielo». In quel momento gli parve che la sfe­ ra dell'orizzonte non riuscisse a riempire tutto il cerchio del suo sguardo; e la vita della natura e i soffi del vento e del cielo gli sembrarono un soffio breve e meschino, se li paragonava all'immensa aspirazione che gonfiava il suo petto. Non era perduto nell'universo: l'universo era per­ duto dentro il suo cuore infinito, «dove si divertiva sde10

gnosamente a gettarlo in un angolo». Sorridendo pensò che non avrebbe mai potuto morire. «Come potrei durare meno a lungo di quelle cose, e come potrebbero oppri­ mermi con la loro potenza, visto che stavano in me, e l'universo era prigioniero e perduto nel seno della mia coscienza, come quelle colline e il cielo assolato riposava­ no sul mio occhio?» Una sovrabbondanza d'amore, di tenerezza, di entusia­ smo e di adorazione gonfiava il suo cuore. Ogni sensazio­ ne irradiava un'eco. Ogni sentimento emanava musica e immagini. Gli sembrava di portare chiusa in sé stesso un'onda inconsumata e inconsumabile, un ardentissimo «flutto» d'amore. Quell'onda non sapeva dove andare: da principio non trovava meta né strada né correnti né fiumi; era un'immensa massa di liquido che lo prendeva alla gola. Nessun gesto riusciva a esprimerla: né la bontà d'animo, che lo costringeva a inventare i gesti più delicati e assurdi; né le gentilezze, le attenzioni, gli slanci di dedi­ zione, che gli facevano salire le lacrime agli occhi al primo pretesto di commozione. Avrebbe potuto inebriarsi di sé stesso: soltanto di sé stesso, come un febbrile Narci­ so romantico. La sorte di Narciso non fu la sua. Aveva bisogno di dare tutto sé stesso al mondo. Tutte le potenze d'immaginazio­ ne e di sentimento, che si agitavano in lui, «battevano a colpi reiterati alla parete del suo cuore come per aprirla e precipitarsi fuori di lui, nella vita», fino a perdersi sulle ri­ ve dell'infinito. Con un sorriso sul volto e un desiderio sempre più illimitato nell'animo, gli sembrava di amare tutti gli uomini, tutte le donne, tutte le cose, tutti gli albe­ ri, tutti i fiori: li abbracciava, li stringeva al cuore. Amava nelle donne gli alberi, negli alberi le donne: tutto era natu­ ra, tutto veniva antropomorfizzato; il fascino della natura diventava fascino erotico; e nessun desiderio era più indi­ stinto. Ma non si accontentava di amare. Voleva essere amato: dagli uomini, dalle donne, dagli alberi e dalle cose su cui aveva versato la sua onda inesausta d'amore. Prefe11

riva essere disprezzato piuttosto che non essere amato; e se veniva amato, ne restava commosso e quasi sconvolto, come un dono o una grazia che non gli spettava. In quegli anni frequentava le ultime classi del Lycée Condorcet. Tra le pagine del fean San teuil, ci è restato, pro­ babilmente, il suo autoritratto. «Era uno scolaro disordi­ nato, sempre mal vestito, spettinato, coperto di macchie, dall'atteggiamento febbrile o abbattuto, il gesto più espressivo che nobile, lo sguardo esaltato se era solo, timi­ do e vergognoso se si trovava davanti alla gente, sempre pallido, con gli occhi tirati, cerchiati dall'agitazione, l'in­ sonnia o la febbre, il naso troppo robusto nelle guance in­ cavate»; «e soltanto i grandi occhi pensosi versavano qualche bellezza, con la loro luce e il loro tormento, sulla sua figura irregolare e malaticcia. » I n quel tempo, a Montmartre, a rue Fontaine-Saint­ Georges, c'era una piccola latteria, dove serviva una lat­ taia circondata da una leggenda nelle fantasie dei liceali del Condorcet. Si chiamava Madame Chirade, e aveva una bellezza «graziosa e fiera». Un giorno Daniel Halévy ne parlò a Proust, e condusse l'amico, che aveva un anno più di lui, fino a Montmartre. Mentre erano immobili da­ vanti alla gelateria guardando verso l'interno, Madame Chirade andava e veniva, occupata a servire i clienti: le braccia erano nascoste nella guaina bianca che allora por­ tavano le lattaie, e il vestito nero e i capelli neri, tenuti ben alti sulla fronte, davano splendore alla bellezza del viso. Proust mormorò all'orecchio di Halévy: «Com'è bella ! » . E aggiunse, col ricordo delle letture recenti: «Bella come Sa­ lammbò» . Poi, dopo un silenzio meditativo, ostentando una noncuranza che probabilmente non possedeva: «Cre­ di che ci si possa andare a letto?». Halévy ammirò l'auda­ cia dell'amico; e poi i due ragazzi se ne tornarono a casa, accompagnati dal desiderio. Fissarono un appuntamento. Quel giorno uscirono in­ sieme dal liceo, evitando gli amici. In fondo a rue Pigalle, comprarono da una fioraia un grande mazzo di rose. 12

Quando giunsero a rue Fontaine-Saint-Georges, Madame Chirade stava in piedi accanto al banco. Halévy rimase sul­ la strada, confuso e annebbiato dalla giovinezza. Proust osò. Mostrando il suo grande mazzo di rose, mosse verso la lattaia, che lo guardava sorpresa, con gli occhi immobili, e lo lasciò entrare. Dalla strada Halévy vedeva appena, e non sentiva le parole. Proust disse, forse balbettò qualcosa. Allora un sorriso passò sul bel volto della lattaia, dolce ma fermo: faceva no da destra a sinistra e da sinistra a destra. Proust insisteva. Allora Madame Chirade, sempre sorri­ dente, uscì dal banco e fece tre passi avanti, obbligando Proust a indietreggiare. Sulla strada, Halévy scorgeva soltanto la schiena di Proust e, sopra le spalle, la carta bianca che avvolgeva le rose. La bella lattaia vide da vicino i grandi occhi tristi di Proust, la sua cravatta svolazzante, il colletto bianco, il vi­ so desolato, le labbra semiaperte. Non aveva un volto se­ vero ma dolce e deciso; e sorrideva ancora e avanzava an­ cora a piccoli passi inesorabili. Alla fine era quasi sulla porta. Indietreggiando passo dopo passo, Proust fu co­ stretto a uscire nella vastità della strada, dove l'amico l' at­ tendeva. Si guardarono un istante e tornarono verso casa, mentre Proust portava tristemente tra le braccia quelle inutili rose. Fin da ragazzo, le inclinazioni sessuali di Proust erano segnate: se famose cortigiane o modeste prostitute lo ac­ colsero nel loro letto, la passione lo condusse sempre più profondamente nel regno di Sodoma, che allora gli pareva non il luogo della maledizione di Dio, ma un paradiso pieno di incanti. Tra la primavera e l'autunno del 1888 scrisse ai suoi amici del Condorcet una serie di lettere, tra le quali almeno un capolavoro. Scriveva in fretta, in furia, come se non potesse contenere il flutto della passione e dell'inchiostro: con l'apparenza della perfetta sincerità. Confessare la sua pederastia e le sue masturbazioni, rive­ lare i suoi sogni erotici per metà letterari non gli costava affatto. Era innamorato di Jacques Bizet: o credeva di es·

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serio: poi si innamorò di Daniel Halévy: forse era innamo­ rato di tutti i suoi amici; e scriveva loro parlando di que­ sto amore, cercando di contagiarli uno dopo l'altro e guar­ dando e spiando e guardandosi e spiandosi, attraverso i loro occhi. La superficie delle lettere ha un'aria «decadente» . «Se tu sei delizioso, se hai dei graziosi occhi chiari che rifletto­ no così puramente la grazia fine del tuo spirito, tanto che mi sembra di non amare completamente il tuo spirito se non bacio i tuoi occhi, se il tuo corpo e i tuoi occhi sono così gracili e agili come il tuo pensiero, che mi sembra che mi confonderei meglio con il tuo pensiero sedendomi sul­ le tue ginocchia, se infine mi sembra che il fascino del tuo tu, del tuo tu -, dove non posso separare il tuo spirito vi­ vo dal tuo corpo leggero, affinerebbe per me aumentan­ dola "la dolce gioia d'amore" . . . » Era lezioso, sentimentale, morbido e sapeva di esserlo: sapeva che il troppo pieno della tenerezza era la sua condanna, e a nessun costo avrebbe voluto rinunciare ad essa. Ma questa superficie letteraria può trarre in inganno. Dietro di essa, sorprende la sfrontatezza, la durezza, quasi la violenza con cui il ra­ gazzo timido, vergognoso e lacrimoso cercava di insegui­ re i propri piaceri. Non voleva imporsi: voleva essere do­ minato, percosso, torturato sia pure con le «verghe fiorite»: voleva essere schiavo; e questa passività arresa e inebriata era la sua nascosta arte di dominare. Proprio in quei giorni il professore del Condorcet, Alphonse Darlu, aveva deplorato in classe l'abitudine dei giovani moderni di sdoppiarsi: non potevano fare o pen­ sare nulla senza che la conoscenza analizzasse i loro atti e i loro pensieri. Proust gli scrisse lo stesso pomeriggio, confessando che anche lui condivideva la vertiginosa an­ goscia dello sdoppiamento. Chiedeva consiglio. Nelle let­ tere agli amici, si abbandonava senza remora a questo pia­ cere. «Conoscete M. P. » scriveva a Robert Dreyfus. «Quanto a me, vi confiderò che mi dispiace un poco coi suoi grandi slanci perpetui, la sua aria affaccendata, le sue 14

grandi passioni e i suoi aggettivi. Sopratutto mi pare mol­ to fatuo e molto falso. Giudicate. Lo chiamerei un uomo da dichiarazioni. Dopo otto giorni vi lascia intendere che ha per voi un'amicizia considerevole e con il pretesto di amare un compagno come un padre, l' ama come una donna. Va a vederlo, grida dovunque il suo grande affet­ to, non lo perde un istante di vista. Le conversazioni non bastano. Ha bisogno del mistero e della regolarità degli appuntamenti. Vi scrive delle lettere . . . febbrili. Sotto l'ap­ parenza di prendere in giro, di fare delle belle frasi e dei pastiches, vi lascia capire che i vostri occhi sono divini e che le vostre labbra lo tentano. Il guaio . . . è che lasciando B . che ha accarezzato corre a vezzeggiare D., che lascia presto per mettersi ai piedi di E. e subito dopo sui ginoc­ chi di F. È una p ... , è un pazzo, un fumista, è un imbecille? Penso che non ne sapremo mai nulla. » Quale strana lette­ ra. Non si capisce bene se il giovane Proust si confessasse, recitasse, si esibisse, si calunniasse, si stupisse di sé stesso, si parodiasse, abbandonandosi a quella che egli chiamava una «fumisteria trascendentale» : o fosse semplicemente perduto nel mistero della giovinezza. Non aveva bisogno di imparare da nessuno il piacere dello sdoppiamento: quel grande occhio fissato su te, che trasforma tutta la vita in una commedia o in un dramma, dove l'attore non cessa di cambiare velocemente la maschera che porta sul volto. Gli amici non lo sopportavano. Non sopportavano la sua sensibilità malaticcia, il suo perpetuo bisogno d' affet­ to, le vibrazioni amorose, le lacrime a fior di pelle, l'aria febbrile, le fumisterie, le carezze, le gentilezze troppo squisite, i grandi occhi orientali umidi di nostalgia e di desiderio, la felicità malinconica. Tutto, in lui, sembrava loro una posa: gli rispondevano con parole brusche e ur­ toni. Con la sensibilità crudele dell'adolescenza, avevano compreso quello che Proust non sapeva ancora: egli era uno straniero.

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II

Gli dèi mascherati

Passò qualche anno. Proust finì il liceo, fece il soldato a Orléans, frequentò svogliatamente la facoltà di Legge, fin­ se di far l' impiegato alla Bibliothèque Mazarine. Non c'era più traccia, in lui, dell'adolescente febbrile, isterico, follemente desideroso di felicità, che aveva scritto lettere d'amore ai suoi compagni di scuola. Quando, nel 1 892, Jacques É mile Bianche gli fece il ritratto, davanti a tutta Parigi sembrava posare «un giovane uomo brillante, sen­ za timidezza e senza ostentazione», che «guardava coi suoi begli occhi allungati e bianchi come una mandorla fresca», - occhi capaci di contenere un pensiero vasto e in­ determinato piuttosto che intenti a riflettere qualcosa di preciso. Le guance «erano piene e di un rosa bianco che arrossava appena le orecchie, carezzate dagli ultimi riccio­ li di una capigliatura nera e dolce, brillante e fluida, che sfuggiva in onde come all'uscire dall'acqua. Una rosa [in realtà una camelia] tagliata all'angolo della sua giacca di cheviot verde, una cravatta di una leggera stoffa di indiana che imitava gli ocelli del pavone» accompagnavano la sua espressione «luminosa e fresca come una mattina di pri­ mavera, la sua bellezza non pensante ma forse dolcemen­ te pensosa, la delicatezza felice della sua vita». Questo ritratto, che Proust trascrisse nelle pagine del ]ean Santeu il, era una delle immagini di sé, che egli amò tra tutte, come se contenesse la prima fioritura della sua persona. Portò il quadro di Bianche in tutte le sue migra16

zioni, da boulevard Haussmann a rue Hamelin, collocan­ dolo nel centro del salotto, perché attirasse l'attenzione di tutti. Il ritratto non era troppo penetrante: non più, certo, di tutte le altre immagini che ora sfoglieremo insieme, co­ me un album di vecchie fotografie, note e meno note, do­ vute a penne famose e modeste, girando attorno al miste­ ro di Proust. Quasi tutte queste immagini non lo colgono a casa, o lungo un viale, o al Bois de Boulogne, tra le luci e le velature di Parigi, ma in società, dove il giovane stra­ niero soggiornò per qualche tempo, come se fosse la sua vera patria. L'immagine più antica risale al 1890, l'anno del servizio militare. Quando la domenica tornava a Parigi, lo si trova­ va sempre nel salotto di Madame Arman de Caillavet, l'arnica di Anatole France. Era infagottato nella sua unifor­ me, la testa gettata indietro inclinata sulla spalla, disteso in una delle bergères, i cui immensi cuscini rendevano quasi assurda la tenuta guerriera. Stava sempre un po' rannic­ chiato, come schiacciato da una perpetua stanchezza. Seb­ bene il viso fosse grave e i grandi occhi malinconici, i denti bianchissimi rischiaravano il volto pallido, e il riso scintil­ lante e luminoso scaturiva al minimo pretesto. Era bello e gentile. Tutto, in lui, era gentile. Quale bontà, quale sensi­ bilità, quale riconoscenza aveva per il minimo piacere o la più piccola attenzione. E che dolori smisurati se qualcuno gli dava un dispiacere, o se scopriva un motivo di provar­ lo. Con quell'aria abbandonata, col viso pallido, con gli oc­ chi grandissimi, il riso malinconico, sembrava un Pierrot. Quando Gaston de Caillavet gli chiese di recitare la parte di Pierrot in un atto unico intitolato Colombine, disse di no: era la parte che recitava già nella vita reale. Nel salotto di Madame Straus, lo ritroviamo inclinato con esagerazione sullo schienale della seggiola dorata do­ ve stava seduta la padrona di casa. I capelli neri e mal pet­ tinati erano troppo abbondanti. Il volto era pallido e gra­ ve: il naso lungo e arcuato gli dava un'aria persiana, che diventava assira, quando si lasciava crescere la barba. Le 17

vaste pupille nere non rivelavano nessun sentimento per­ sonale, ma avevano l'aria di due vasi pronti a ricevere le onde visibili dello spazio: guardavano tutte le cose senza fissarne nessuna. Poi Proust si alzava e serviva il tè, rove­ sciando qualche tazza di Saxe. Sedeva sopra un pouf, e parlava, parlava, pieno di lusinghe, di trovate ingegnose, di galanterie abissali, nelle quali prodigava una fantasia da Mille e una notte; e di complimenti a cui l'esagerazione aggiungeva grazia. Aveva una voce ora puerile ora carez­ zevole ora quasi squillante ora spenta fino al mormorio, mentre gli occhi facevano splendere il viso: le mani lun­ ghe e fini disegnavano movimenti armoniosi nell'aria; ora una si piegava sotto il mento per sostenerlo, ora l'altra si posava davanti alla bocca per nascondere un sorriso. Poi, all' improvviso, scoppiava in una risata contagiosa, che nasceva dall'intelligenza, dal cuore e dall'appetito di vi­ vere. Qualche volta, sembrava una figurina uscita da una commedia di Marivaux. Provava piacere a essere amabi­ le: quella pura soddisfazione che dà a un uomo l'esercizio della cortesia, quando non è determinata né dalla buona educazione né dall'interesse. Faceva l'ingenuo, e si diver­ tiva prodigiosamente a farlo. Con il suo bel volto ovale, con le guance in fiore, con le palpebre abbassate sugli oc­ chi neri, che sembravano vedere da tutte le parti, era mol­ to grazioso. Aveva una bellezza italiana: sembrava un principe napoletano in un romanzo di Bourget. Si accor­ geva di questa bellezza e la ostentava. Le sere d'estate, si attardava a passeggiare voluttuosamente andando in so­ cietà, con un leggero cappottino semiaperto sullo sparato bianco, con un fiore alla bottoniera; e godeva della sua grazia adolescente riflessa negli occhi dei passanti e delle passanti. Amici più penetranti osservavano che la sua cortesia era un dono del cuore: una bontà senza sforzo, donata anche agli indifferenti. Quando parlava con una persona di condizioni mediocri, era così modesto che sembrava una specie di paria: poi si capiva che aveva vo18

luto diminuirsi e abbassarsi, per innalzare l' amico davan­ ti a sé stesso. La sera, con il collo del cappotto rialzato dietro le orec­ chie, arrivava molto tardi al caffè Weber. Domandava una grappa, un bicchiere d'acqua, e diceva che si era appena alzato, che aveva il raffreddore, che il rumore gli faceva male, che sarebbe rimasto solo un momentino. Poi rideva di un riso felice e il momento prendeva proporzioni sem­ pre più vaste. Presto dalle sue labbra, proferite con un to­ no esitante e affettato, uscivano affermazioni e osserva­ zioni di una finezza diabolica. «Le sue immagini impreviste svolazzavano sulla cima delle cose e delle per­ sone» scriveva Léon Daudet, «simili a una musica supe­ riore, come si racconta che accadesse alla taverna del Glo­ be, tra i compagni del divino Shakespeare. Aveva qualcosa di Mercutio e di Puck, seguiva molti pensieri in­ sieme, . . . : era naturalmente complesso, fremente e setoso.» Quando infine l'alba scivolava sui bordi della Senna, pro­ poneva a un amico di riaccompagnarlo in vettura fino a casa o in albergo. Appena la carrozza era arrivata a desti­ nazione, come stimolato dall'imminenza dell'abbandono, si lanciava in nuove improvvisazioni sempre più scintil­ lanti, e le ore passavano mentre il cocchiere si girava sul suo sedile, e guardava con stupore quei due giovani che discutevano e gesticolavano, senza che si sapesse perché, sotto il cielo stellato di Parigi. Abbiamo finito per il momento di sfogliare le nostre immagini, alle quali molte altre potrebbero aggiungersi. Chi era il giovane straniero vestito con tanta eleganza? Un Pierrot? o Mercutio? o Puck? Un angelo disceso in terra? O un giovane animale, pieno di slanci? O un bambino vi­ ziato? O un futile mondano? O un principe dei conversa­ tori? O il diavolo in persona - come diceva Alphonse Daudet? Qualcuno diceva che era una mosca, con lo sguardo dalle mille sfaccettature. Aveva l'occhio poligo­ nale: vedeva i mille lati di una questione o di un oggetto, e ne aggiungeva un milleunesimo, che era un prodigio di 19

ingegnosa invenzione. Qualcuno diceva che aveva l'oc­ chio dell'ape: vellutato, profondo, senza punto luminoso; a volte andava a bottinare sull'aconito e sulle piante vele­ nose, da cui lo difendevano i suoi antidoti segreti. Era fri­ volo e vanitoso? O sovrannaturalrnente buono e umile? E dove guardavano quegli occhi malinconici, che si perde­ vano chissà dove?

Il giovane Proust credeva negli dèi. Credeva che gli dèi avessero una volta abitato la terra, quando ogni fonte, ogni albero, ogni colle, ogni sponda marina avevano na­ scosto una presenza sacra: credeva che, ancor oggi, sopra le nuvole, gli dèi reggessero la sorte del mondo degli uo­ mini. Ma non volgeva volentieri il capo verso il cielo. Né voleva risuscitare gli dèi di una volta, trasformando Apol­ lo, Artemide, Zeus, Afrodite nei personaggi di un libro moderno, come facevano tanti scrittori del suo tempo, in­ namorati della classicità. Per lui gli dèi non erano morti. Vivevano ancora oggi, nascosti nella vita moderna, tra le banche e i treni, e i giornali e i salotti, come immaginava Emerson. Gli dèi avevano compiuto un gioco molto sottile, alle spalle dei loro ultimi adoratori. Si erano mascherati; e Proust doveva fissare il suo occhio da mosca per ritrovarli nei salotti che frequentava, nell'amico Reynaldo Hahn: o travestiti da ragazzi di bottega, fruttivendole, lattaie, sar­ tine, mercanti di vini, come tanti secoli prima Ovidio ave­ va trovato il segno dei loro passi nel mondo quotidiano. Qualche volta, ritrovarli era molto difficile, perché alcuni dèi erano decaduti: irreparabilmente decaduti; o erano pazzi o fingevano di esserlo, come diceva ancora il suo Emerson. Proust non ebbe paura di così poco. I travesti­ menti degli dèi lo affascinavano. Non c'era divertimento maggiore che smascherarli, e ritrovare il divino dove sem­ brava regnare soltanto l'umano. Tutta la Recherche non è 20

che una caccia agli dèi che abitano ancora il tempo moder­ no: caccia disseminata di delusioni, di illusioni, di ingan­ ni, di false strade, ma conclusa, malgrado tutto, da una paradossale vittoria. Allora, quando aveva quei begli occhi allungati e bian­ chi «come una mandorla fresca>> , - non aveva dubbi. Co­ me ripeteva di continuo, gli dèi attraversavano maschera­ ti la terra. Frequentava i salotti di Parigi: dapprima quelli borghesi di Madame Straus, di Madame Arman de Cailla­ vet, di Madame Lemaire; e poi, su su, quelli aristocratici, sebbene i più inattingibili rimanessero forse preclusi per sempre. N on lo faceva per snobismo: ma per assistere, in un angolo, al passaggio degli dèi sulla terra, che gettava­ no le loro maschere e si mostravano visibilmente. Ecco il lungo corteo. La contessa Greffulhe, con un vestito di seta lilla, seminato di orchidee, e il cappello fiorito di orchidee: la contessa de Fitz-James, popeline nero e bianco, ombrel­ lo blu, incrostato di turchesi: la contessa de Pourtalès, taf­ fetà grigio perla, disseminato di fiori cupi, il cappello con una aigrette gialla: la contessa Aimery de la Rochefou­ cauld, crespo di Cina eliotropio con ruche nera, cappello eliotropio: la marchesa d'Hervey de Saint-Denis, crespo bianco, cappello di paglia di riso bianco con penna bianca: la contessa Pierre de Brissac in vestito rigato di bianco e di giallo, cappello nero con rose: la principessa de Chimay, vestita di lana ricamata di violette e di mimose, cappello nero con nodi eliotropio; la viscontessa de Kergariou, cre­ spo di Cina grigio con nodi ortensia blu, cappello nero con nodi ortensia; e poi ancora la contessa Greffulhe, tutta vestita di bianco, cappello bianco, velo bianco attorno al viso; e ancora lei mascherata da cattleya, di «una grazia polinesiana» . . . Infine quella che era, forse, l'epifania su­ prema: Madame de Rezské, una principessa venuta da molto lontano, esiliata tra noi, con gli occhi azzurri ancora vergini di esperienza terrestre, dove si rispecchiava l'az­ zurro di Iseult e dei laghi bretoni. Come scrisse più tardi nella Recherche, Proust viveva 21

circondato «dai mostri e dagli dèi»; e non conosceva la calma. Quelle contesse forse sciocche, quei duchi arrogan­ ti erano, per lui, delle «epifanie», e raccoglievano dei valo­ ri incomparabili, che non avrebbe incontrato in nessun al­ tro luogo della terra. Stavano in alto, come arcangeli, come serafini e cherubini, con le grandi ali splendidamen­ te colorate: erano coloro che «sanno e che incantano>>; e qualcuno di loro era addirittura Salomone, con il suo tap­ peto volante. Lui stava in basso come l'ultimo dei servi: il suo luogo era l'abiezione. Era il piccolo angelo, il cui com­ pito era «amare, patire e soffrire»: la formica di Salomone; la valle commossa, oscura e vibrante dove risuonava lun­ gamente l'eco delle musiche celestiali. Certo, amava esse­ re accolto lassù, come accade penosamente nel Jean San­ teuil. Ma talvolta amava anche più profondamente essere umiliato, rifiutato, cacciato via perfino dai servi e dai gar­ zoni di strada. Come poteva meritare le grazie dei serafini e dei cherubini? Se lo accoglievano, non si sentiva innal­ zato ma umiliato, tanto era immeritevole di favore; e la di­ stanza, e perfino l'angoscia di essere indegno, crescevano ancora. Laggiù in basso, angelo o formica, egli ammirava, esal­ tava e adorava quelle possenti incarnazioni della realtà: si prosternava davanti a loro. In apparenza le sue erano enormi piaggerie, così dicevano i nemici, così dicono an­ cora i biografi. Ma Anna de Noailles lo comprese benissi­ mo: «l'alzare il tono, la trasposizione della gamma centra­ le in un canto elevato e celeste, era il vostro naturale vocalizzo» . Quando Proust scriveva a Montesquiou e alla Noailles, l'esagerazione del tono, la dilatazione delle di­ mensioni e dei particolari, diventavano una specie di ge­ nere letterario, che egli poteva variare all'infinito, come un oratore del gotico flamboyant o del barocco, come Paga­ nini che suonava con una corda sola; e noi siamo portati ad applaudire i suoi gesti di retore, di equilibrista, di fu­ nambolo. Era il suo modo di vivere nella «mitologia», co­ me se Minerva, Giove, Venere entrassero di tanto in tanto 22

a casa sua. Ma, al tempo stesso, accadeva una specie di ro­ vesciamento. Quella continua fioritura di elogi diventava comica e superbamente grottesca: nelle case dove era in­ vitato, nascosto dai cappotti degli spogliatoi, faceva mera­ vigliosamente il verso a Montesquiou e alle sue grida la­ ceranti. Se Montesquiou si offendeva, aveva ragione di difendersi: «Le mie Imitazioni. . . non furono mai che delle gamme, o per meglio dire dei vocalizzi, siccome non ave­ vo la pretesa di rendere nessuna melodia, nulla del genio originale, meglio, erano dei semplici esercizi e giochi dell'ammirazione». Creava dei miti, li portava all'esaspe­ razione e li parodiava, sciogliendoli in una portentosa fio­ ritura di bolle di sapone gongoriste, come nelle grandi scene mitologiche della Recherche. Tra questi dèi nascosti, improvvisamente divenuti visi­ bili davanti agli occhi di Proust, il primo fu, senza dubbio, Robert de Montesquiou-Fezensac. Come è triste la sorte dei «principi dei conversatori» ! Se oggi rileggiamo le noiosissime Memorie di Montesquiou, o i suoi moltissimi e coltissimi saggi d'arte, di letteratura e di vita mondana (tra i quali spicca il ritratto della regina Elisabetta) o le let­ tere inviate a Proust, la delusione è immensa. Negli scritti non è rimasto quasi niente di quella straordinaria perso­ na. Non c'è più che un megalomane arrogante, un mistifi­ catore senza ironia, un cialtrone solenne, un maestro in­ sopportabile, un vanitoso bizzarro, senza nulla della leggerezza o della grazia o del cinismo aristocratici. Allo­ ra, quando Proust era giovane, quanti rimasero affascinati da lui! Quanti ammirarono la sua casa, dove sulle scale gli arazzi imitavano una foresta, dove erano appesi liuti e mandole, ribeche e tiorbe: le stanze che tentavano di ripe­ tere le ombre della notte, gli effetti argentei e lattiginosi della luna sulle acque trasparenti del mare: il favoloso dragone cinese che fungeva da letto, stringendo il paglie­ riccio con i suoi tentacoli, e gli occhi che si illuminavano ogni volta che passava un visitatore privilegiato: le orten­ sie di ogni forma e colore dipinte dappertutto: l'immensa 23

conca persiana, dove il conte immergeva le membra deli­ cate; le cravatte e le calze, chiuse in una vetrina, piegate e disposte come elzeviri in una biblioteca di lusso. Nella ca­ sa, c'era tutto. L'uccelliera di Michelet, la chitarra della Desbordes-Valmore, una ciocca di capelli di Byron, gli oc­ chi di Jeanne disegnati da Baudelaire, gli occhiali di Henry Becque, il calco in gesso del piede della contessa Castiglione e del mento della contessa Greffulhe; e la foto­ grafia di Victor Hugo, che «ascoltava Dio». Era un grandissimo attore, con una vanità così immen­ sa da diventare immaginazione creatrice, con la buffone­ ria dispotica di un Rabelais e di un Arlecchino. Aveva «i baffi neri coperti di cosmetico, leggeri, filigranati, affilati, gli sparsi capelli calamistrati, forse un accorto tocco di belletto sulle guance alla Barbey d' Aurevilly, l'occhio bril­ lante, il labbro inesauribile>> diceva Albert Flament. Negli anni della giovinezza, mutava gli abiti secondo i luoghi: cravatta rutilante, guanti da sala d'arme e sombrero se an­ dava dall' «eroico>> Herédia, sfumature color piccione a ca­ sa di De Nittis, «ce nuanciste>>. Poi preferì le diverse sfu­ mature del grigio: redingote grigio ferro, ghette grigio topo, guanti grigio mauve, cravatta grigio tortora, gilet gri­ gio perla . . . Alto e sottile, «il suo corpo sempre slanciato e non è dire abbastanza, come rovesciato indietro» scrisse Proust in un famoso pastiche, «si inchinava in verità, quan­ do gliene prendeva il capriccio, in grande affabilità e reve­ renze d'ogni sorta, ma ritornava subito alla sua posizione naturale che era tutta di fierezza, di alterigia, di intransi­ genza a non piegare davanti a nessuno e a non cedere su nulla, fino a camminare dritto davanti a sé senza preoccu­ parsi del passaggio, urtando l'altro senza sembrare veder­ lo, o se voleva irritare, ostentando che lo vedeva». Come il re di una corte immaginaria, conversava per ore, circondato da una piccola folla di sudditi estasiati, folgorati e ridenti. Stimolato e ispirato dal desiderio di piacere, quasi sorpreso di ascoltare le parole che gli usci­ vano dalle labbra, versava intorno a sé i tesori della sua 24

intelligenza e della sua erudizione di stravagante bibliote­ cario flaubertiano. Parlava dei personaggi della Comédie humaine, come se fossero sue conoscenze personali. Attor­ no a un nulla, costruiva un racconto da Mille e una notte. Luigi II di Baviera, con Wagner, George Sand e Chopin in pantofole, Elisabetta d'Inghilterra, Beardsley, il gatto di Schwob, la contessa di Castiglione impazzita, Gallé, la te­ nera Marceline Desbordes-Valmore al mercato: tutto si trasformava in una moralità leggendaria, o in un'operetta. Parlava volentieri di gemme: lo smeraldo, di cui il verde è dolce agli occhi che hanno pianto; lo zaffiro, che si incupi­ sce alle luci; il rubino, vino di sole o di sangue . . . Poi, all'improvviso, senza nessuna ragione evidente, o mosso dalle ragioni più oscure, decretava le sue condanne. Fin­ gendo di credere che qualcuno lo aveva offeso, si diverti­ va a detestarlo con una «gioia selvaggia» : lo «inseguiva, lo perseguitava» con gli oltraggi più insolenti, spiritosi e crudeli, con le battute più fervide e ingiuste, che in poche ore avrebbero fatto il giro di tutta Parigi. Mentre le dita lunghe e nervose disegnavano arabeschi nell'aria, soste­ nendo, servendo, sottolineando il Verbo, dapprima la vo­ ce strisciava lentamente: poi non poteva attendere, rivela­ va il suo timbro acutissimo, si alzava alle gamme più elevate, si capovolgeva in una nota falsa: gettava una spe­ cie di latrato: prorompeva in un riso stridente; finché, in preda all'entusiasmo o alla collera, Montesquiou batteva i piedi per terra e urlava facendo tremare i lampadari, co­ me una grande orchestra verbale all'unisono. Qualcuno ricordò un personaggio di Hoffmann: Montesquiou era un violino con le corde troppo tese; schioccavano, si torce­ vano e si rompevano una dopo l'altra, sotto lo sforzo pro­ lungato del superlativo. Cosa si nascondesse dietro questa spettacolosa messin­ scena non lo sapeva nessuno: tanto meno Robert de Montesquiou. Qualcuno gli trovava, a tratti, «una soavità diocesana, in un giorno di gala». Qualcuno vedeva, in lui, l'ultima incarnazione del misantropo di Molière, o del tra25

ditore nei drammi di Shakespeare. Qualcuno gli trovava una straordinaria rassomiglianza con Mefistofele, col fiore tropicale all'occhiello, la cravatta prismatica e un gioiello da strega. Dallo sguardo inquieto e braccato, qualcuno più penetrante indovinava che la vanità, l'arroganza, l'in­ solenza celavano in lui «Un ferito della vita, uno scorticato vivo». Era così disperatamente fragile, coi suoi nervi di garza e di filo di ferro. Ma quale fosse questa ferita, per orgoglio o viltà, Montesquiou o non volle o non seppe mai rivelare; e solo qualche verso parla di un «palazzo su­ perbo e desolato», da dove si allontana lentamente «il passo del rimpianto che nessuno ha mai consolato» . Quando conobbe Montesquiou, Proust era ancora la tremante gazzella amorosa che conosciamo dal ritratto di Bianche. Anche lui fu folgòrato; e cominciò a scrivergli le sue lettere squisite, troppo piene di aggettivi e di immagi­ ni. Lo corteggiava, come si può corteggiare una signora di qualche anno più anziana. Insinuava il suo nome nelle prime righe di Les plaisirs et les jours: elogiava i suoi versi, le sue prose, il suo segretario, i suoi fiori, le sue invenzioni verbali: gli inviava in regalo iris di Francia, un uccello blu, un ciliegio giapponese dove l'uccello poteva posarsi, e un angelo del presepe. Aveva, per lui, inchini, baciamani a distanza, gesti da cortigiano orientale, adulazioni di un virtuosismo da togliere il fiato, come se Montesquiou fos­ se una divinità feroce e insaziabile che andava placata con incenso e sacrifici umani. Poi, come è giusto, ricorreva al linguaggio sacro. Lo esaltava come il sovrano dei cieli e della terra, che tuona e folgora ma poi fa risplendere il se­ reno: come Cristo che appare velato ai pellegrini di Em­ maus: come San Paolo: come Salomone il Magnifico, co­ me un venerabile re-sacerdote d'Oriente . . . Col tempo, i l rapporto d i Proust diventò più profondo. Per lui Montesquiou non era soltanto un dio divenuto vi­ sibile: a poco a poco lo portò dentro di sé, come un dop­ pio, come se quell'attore prodigioso fosse lui stesso, o un personaggio che cominciava a formarsi nelle sue viscere. 26

Montesquiou era un demone. Come le sibille e i veri poe­ ti, aveva avuto in sorte il rarissimo dono della «follia>> di­ vina, e una specie di «comunicazione diretta» lo legava con il cuore stesso del mondo. Quando egli parlava, gesti­ va o rideva, la realtà - che per spazi infiniti corre grigia e invisibile davanti a noi - si addensava, si ispessiva all'im­ provviso; e prendeva forma. Quel corpo lo ispirava. Ama­ va «la ricca musica» e gli «onnipossenti accordi» della sua voce: amava come Montesquiou afferrava una parola e la faceva fremere, gesticolare e impennarsi, e l'assaporava, la gustava, la cantava, la gridava, la salmodiava: amava quel corpo slanciato, inarcato, rovesciato indietro, e poi ri­ proiettato avanti; le sue insolenze, le sue feroci battute di spirito, il suo vocabolario erudito e frivolo, il suo strepito­ so funambolismo . . . Anche la scrittura dei suoi saggi era per lui (ciò che noi non comprendiamo più) un gesto fisi­ co: un'arte da picador o da schermitore. Bastava leggere; e subito si vedeva « con quale incomparabile e maestosa leggerezza, con quale vivace e nobile e crudele disinvoltu­ ra, con quale fremente, trepidante, scalpitante e caracol­ lante andatura» egli sviluppava e serrava intorno alla vit­ tima eletta « le sue evoluzioni sapienti, irritandola, punzecchiandola con mille colpi vari e sicuri». Molti anni più tardi, in una nota di diario, Proust si ac­ corse che Montesquiou parlava come Vautrin, o Vautrin parlava come Montesquiou: privilegio immenso. Di più: Montesquiou era come Balzac. Se mentre racconta, Balzac applaude i gesti e le parole dei suoi personaggi e non si sa mai se acclami i suoi personaggi o le meraviglie che lui, Balzac, scrive in questo momento, Montesquiou faceva esattamente lo stesso. «Ho un amico» Proust scrisse nel Contre Sainte-Beuve, «uno dei rarissimi uomini autentica­ mente geniali che abbia mai conosciuto, dotato di un ma­ gnifico orgoglio balzacchiano. Ripetendo per me una con­ ferenza che aveva tenuto in un teatro, e alla quale non avevo assistito, egli si interrompeva ogni tanto per battere le mani dove il pubblico aveva applaudito. Ma ci metteva 27

un tale furore, un tale brio, che sono convinto che piuttosto che dipingere realmente la scena, come Balzac egli applau­ diva sé stesso.» Non saprei se, in queste righe di Proust, ri­ saltino sopratutto l'ammirazione, o l'ironia, o il puro diver­ timento. Con un'immaginazione storica potentissima, Proust scorse in Montesquiou quello che nessuno sapeva intravedere: un frammento di Francia secentesca, degno del pennello di Saint-Simon; qualcosa di selvaggio e di maestoso, di cupo e di solenne. Dopo due secoli di silenzio, era come se un gentiluomo della Fronda comparisse di nuovo davanti a lui, macchinando fantastici intrighi contro il suo miserabile re, o come se Luigi XIV uscisse fuori dal ri­ tratto di Rigaud, scompigliando la parrucca barocca. La seconda divinità intravista da Proust fu Laure de Sa­ de, la quale aveva sposato il conte de Chevigné, gentiluo­ mo d'onore del pretendente al trono di Francia. Aveva le spalle larghe, le anche magre, il collo lungo, la fronte stret­ ta, i capelli d'oro rosso, come una ninfa cacciatrice del Ri­ nascimento; e liquidi occhi blu marino, «più belli dei più bei zaffirh>, si aprivano in un viso tagliato da un naso cur­ vo e autoritario. La voce era bassa, rauca e perentoria per le troppe sigarette e i troppi secoli di comando. Tutte le mattine passeggiava dalla parte del sole nell' avenue degli Champs- É lysées, stretta in un tailleur di sargia grigia o di covercoat beige, con una piccola veletta sul viso. La si in­ contrava nei negozi di rue de la Paix, dai sarti e dalle mo­ diste, sola o insieme alla granduchessa Vladimir di Russia e sua figlia. Malgrado mode e modiste parigine, Madame de Chevigné aveva conservato qualcosa di rude e di agre­ ste: portava con sé un profumo di foreste e di caccia: par­ lava un linguaggio pieno di espressioni contadine, che sulle sue labbra prendevano una vivacità e uno spicco straordinario; e nei modi e nei vestiti ricordava una caval­ lerizza e un' amazzone. Come osservò Reynaldo Hahn, sembrava un'aristocratica del Seicento. Autoritaria, fami­ liare, sbrigativa, abituata a parlare ai re e ai contadini, aveva uno sguardo crudele, capace di svelare tutte le de28

bolezze, e una natura metallica: una specie di «durezza brillante», che riceveva tutti i raggi del mondo e li trasfor­ mava in una sostanza fredda e adamantina . Ogni giorno, dalle due alle quattro del pomeriggio, Ma­ dame de Chevigné riceveva i suoi amici, tutti uomini. Sta­ va seduta molto rigida in una poltrona rigidissima, come una regina cacciatrice, fumando una dopo l'altra le sue si­ garette da proletario: aveva un bocchino d'ambra lunghis­ simo, che non lasciava mai le labbra, nemmeno quando parlava. Portava al collo innumerevoli fili di piccole perle regalatele - per ogni anniversario, per ogni Natale - dai suoi amici. Sapeva ascoltare meravigliosamente, e reggere con polso di ferro la conversazione. Appena arrivati, gli ospiti sedevano in poltrone altrettanto rigide poste in cer­ chio accanto a lei. Ognuno aveva la sua seggiola. Nessuno era giovane: non parlavano molto, e trovavano forza per la prossima battuta prendendo una pasticca di Vichy nella bomboniera lasciata aperta sul guéridon accanto alla con­ tessa. Tutti erano gelosi gli uni degli altri, e sopratutto dei «nuovi». Con la sua volgarità e crudeltà di vecchia aristo­ cratica, Madame de Chevigné rivelò a un'amica: «l miei vecchi amici ringhiano quando sentono la carne fresca». Un giorno dovette recarsi in campagna per un funerale, e non poté tornare a Parigi per le due né avvisare i domestici. Quando gli ospiti arrivarono a rue d' Anjou, il vecchio maggiordomo diede la notizia inaudita: «Madame la com­ tesse è uscita». Fu lo stupore, l'indignazione, lo smarri­ mento. Che fare? Andarsene? Ritornare? Tennero silenzio­ samente consiglio nell'anticamera, sotto gli occhi del maggiordomo. Poi entrarono nel salotto: ognuno occupò la sua poltrona; e rimasero in cerchio, senza dire una parola, attorno alla divinità assente. Madame de Chevigné li trovò così, in silenzio, quando rientrò due ore più tardi. li tempo, che conservò immobile Madame de Chevigné con i suoi tailleurs grigi e beige e la sua corazza di perle brillanti, cancellò ogni traccia del corteggiamento che il fi­ glio del borghese e dell'ebrea intraprese tra le avenues e le 29

piccole strade di Parigi. Non sappiamo quasi nulla. Mada­ me de Chevigné, che aveva undici anni più di Proust, di­ strusse tutte le lettere ricevute in quel tempo. Dalle rare lettere più tarde, sappiamo soltanto che lei gli disse sotto gli alberi dell' avenue Marigny: «Fitz-James mi aspetta)) : che dopo ogni appostamento, Proust aveva delle crisi car­ diache; e che la considerò sempre, anche vent'anni dopo, la sua Laura, conscio di averle innalzato un monumento come Petrarca lo aveva innalzato alla prima Laura de Sa­ de. Quei capelli biondi, quel grande naso, quegli occhi az­ zurri, quella voce bassa, quelle espressioni contadine, fu­ rono filtrate, e attribuite a Oriane de Guermantes. Ma il processo di mitologizzazione era già cristallizzato nel maggio 1 892, in una prosa del Banquet, poi ripresa nei Plaisirs et les jours, dove intravediamo la favolosa razza dei Guermantes. «Aggiungete che ha la pelle troppo fine, e il labbro superiore troppo sottile, ciò che le tira troppo la bocca verso l'alto quando ride, facendo un angolo molto. acuto. Eppure il suo riso mi impressiona infinitamente, e profili più puri mi lasciano freddo accanto alla linea del suo naso, che per voi è troppo arcuato, per me è così com­ movente e ricorda un uccello. Anche la sua testa è un po' da uccello, così lunga dalla fronte alla nuca bionda, e più ancora i suoi occhi penetranti e dolci . . . Non ho mai potuto incontrare i suoi figli e i suoi nipoti, che hanno tutti come lei il naso arcuato, le labbra sottili, gli occhi penetranti, la pelle troppo fine, senz' essere turbato riconoscendo la sua razza, nata senza dubbio da una dea e da un uccello. At­ traverso la metamorfosi che oggi incatena un desiderio alato a questa forma di donna, riconosco la piccola testa regale del pavone, dietro cui non fluisce più l'onda azzur­ ra del mare, verde mare, o la spuma del suo piumaggio mitologico.» La sera del 24 aprile 1 899, Proust invitò a un ricevimen­ to la terza divinità mascherata, Anna de Noailles, di qual­ che anno più giovane di lui; e un'attrice recitò i suoi primi versi, insieme a quelli di Montesquiou e di Anatole Fran30

c_e. Seguirono Le Creur innombrable, L'Ombre des jours, Les Eblouissements: libri che ebbero un successo grandissimo, mentre oggi sono ingiustamente dimenticati. Se Montes­ quiou era un demone delfico, Laure de Chevigné Diana cacciatrice, Anna de Noailles (come diceva Léon Daudet) era la regina Mab nel Romeo e Giulietta di Shakespeare: re­ gina dei sogni, levatrice delle fate, piccola nella sua car­ rozza piccola come una noce, con le ruote fatte di zampe di ragno, il mantice di ali di cavallette, le tirelle di fili di ragnatele e i pettorali tessuti coi raggi rugiadosi della lu­ na. Secondo alcuni, gli occhi immensi di Anna de Noailles erano scurissimi, con quella luce squillante che brilla nell'iride degli occhi mediterranei: secondo altri erano grigio-verde macchiettati d'oro. Aveva lunghe ciglie nere; e un'orbita profonda gettava sugli occhi un'ombra di ma­ linconia. La pelle aveva la trasparenza dell'avorio. I capel­ li neri formavano una frangia fino alle sopracciglia: con la mano infantile, di cui un grande zaffiro circondato di bril­ lanti esagerava la minutezza, Anna de Noailles ora li li­ sciava ora li disperdeva. Quando andava in visita, porta­ va un gigantesco cappello nero di paglia di Firenze, da cui ricadevano delle piume di struzzo: a mala penà la regina Mab poteva attraversare le porte. «Era regale, perentoria, sferzante, segretamente indolo­ rita» - scrisse Léon Paul Fargue. «Si diffondeva, scoppia­ va in trovate sorprendenti, in corti circuiti di idee che vi pizzicavano il cervello, in scorci vertiginosi, in formule crepitanti che come lampi solcavano il cielo dei salotti di Parigi . . . Era un meraviglioso bambino incendiato di doni, dispotico, insaziabile, capriccioso, a volte duro e autorita­ rio, suscettibile, impaziente e rivoltoso, ma illuminato da un sole di mezzanotte, doloroso, spesso intenerito.» Dava l'impressione di essere posseduta da una «febbre gioio­ sa», il cui fremito si comunicava a tutti: da un'esuberante gaiezza, da un'elettrica gioia di vivere, che squillavano all'improvviso nel suo riso d'argento chiaro; godeva della felicità e della sventura con un'intensità che faceva sem31

brare grigia l'esistenza degli altri. Era la baccante inebria­ ta, o ne faceva la parte. Amava tutti, e voleva essere amata da tutti. Quando qualcuno l'accusò di smarrire la sua ani­ ma nei fiori, rispose: «Come potete dire simili sciocchez­ ze? Io non voglio affatto perdermi nella natura, ma avvol­ gerla dentro di me, al punto di vedere il sole e i fiumi splendere e correre dentro il mio cuore>>. Animava la na­ tura. Era, lei stessa, la regina Natura; e proclamava questa identità con una vibrazione impetuosa e teatrale. Ogni uscita di Anna de Noailles nel mondo era una rappresentazione . Arrivava sempre in ritardo, come le grandi dive e le grandi dame, attenta al rumore caloroso che si levava al suo passaggio, e si lasciava cadere mori­ bonda su una poltrona. Appena era seduta, nasceva il si­ lenzio. Qualcuno si gettava ai suoi piedi, come ai piedi di una regina; e subito lei, con il suo piglio imperiale, si im­ padroniva della conversazione. Non importava di che si trattasse: letteratura, politica, vita mondana, ieri, oggi e domani. Cominciava a gettare le sue parole: le assaporava alzando la testa, chiudendo le palpebre belle e grandi, de­ scrivendo un mezzo cerchio con il capo, aprendo la bocca larga, scoprendo i denti. Se beveva, con la destra teneva il bicchiere, con la sinistra faceva cenno di non interromper­ la. Aveva il dono e l'arte generosa dell'eloquenza: le paro­ le fuggivano, precipitose, sfumate e distinte, dalle labbra fini e sinuose; e presto il ritmo diventava volubile e rapi­ dissimo. Parlava di tutto: le suffragette inglesi, Michelet (che adorava), il nuovo ministro della Guerra (che adora­ va), Léon Daudet (che amava), Charles Maurras (che am­ mirava), Danton, Robespierre, Luigi XVI, Maria Antoniet­ ta, George Sand, Shakespeare, Proust, il suo cameriere. Camminava sulla corda, cambiava trapezio, eseguiva gio­ chi di prestigio, faceva il verso a questo o a quello; e ogni tanto barava o cadeva dalla corda. Come resisterle? Gide era stordito. «Impossibile notare qualcosa della sua con­ versazione. Madame de Noailles parla con una volubilità prodigiosa: le frasi si affrettano sulle sue labbra, si schiac32

ciano, si confondono: è una saporosa composta di idee, di sensazioni, di immagini, un tutti-frutti accompagnato dai gesti delle mani, delle braccia e degli occhi che lancia al cielo. » Per tre ore parlava da sola: tutto era in rapporto con lei, tutto usciva da lei; e poi se ne andava, sfinita, mo­ ribonda come quando era arrivata, consumata da una fiamma che nessuno avrebbe potuto soffocare. Nemmeno a Montesquiou Proust inviò delle lettere di una esagerazione così folle, piene di gioia, di felicità e quasi di orgasmo, come quelle che mandò a Anna de Noailles. Avrebbe potuto ripetere ciò che scriveva nel Jean San teuil: il corpo, i lineamenti, gli occhi di Anna erano in­ cessantemente animati da un fascino così vivo, che nessu­ no si domandava mai se questo o quello era in lei più o meno buono, tanto «si era fanatizzati dalla sua persona­ lità » . Proust aveva adorato un proprio personaggio na­ scente in Montesquiou, un mito aristocratico in Madame de Chevigné: ma, nella Noailles, dietro quello spettacolo­ so teatro così remoto da lui, scopriva qualcosa di molto più vicino - uno specchio, un prolungamento di sé. Trova­ va in lei qualcosa che aveva espresso soltanto nelle pagine sconosciute del Jean San teuil: la dilatazione, l'ebbrezza, l'espansione dell'io, per cui l'universo diventava un pic­ colo pianeta roteante nel cuore: l'esaltazione che gli face­ va scoprire la verità; e la genialità fantastic a che dava una vita al mondo creato, riempiendolo di figure calorose e animate. Proust stava preparando da molto lontano i suoi effetti poetici: con lentissima fatica la Recherche covava dentro di lui, come un figlio di cui non era cosciente. Ora, specie nei versi della Noailles, rintracciava effetti che non aveva an­ cora realizzato, e forse non sapeva di voler realizzare. «Sovente i più piccoli versi degli É blouissements>> scriveva molti anni più tardi «mi avevano fatto pensare a quei ci­ pressi giganti, a quelle sofore rosa che l'arte del giardinie­ re giapponese riesce a contenere, alte qualche centimetro, in una ciotola di porcellana di Hizen. Ma l' immaginazio33

ne che le contempla insieme agli occhi, le vede, nel mon­ do delle proporzioni, come sono in realtà, cioè alberi im­ mensi. » Cosa c'è di più proustiano di questa coincidenza del minimo e del grandissimo: del microscopico e del tele­ scopico? Amava la ricchezza dell'orchestrazione wagne­ riana della Noailles, che lui avrebbe ancora ampliato, le vaste aperture, lo spessore delle sensazioni, l'ardire delle metafore, la vivacità delle personificazioni, le estatiche dolcezze. Sopratutto - e qui, forse, la sua immaginazione creatrice lo faceva travedere - amava nei versi della Noailles l'arte del fondu. «Quello che c'è di più straordina­ rio, di più bello in questo libro . . . è il fatto che non è com­ posto di parti, che è uno, bagnato in una stessa atmosfera, bagnato tutt'intero, dove i colori influiscono gli uni sugli altri, sono complementari come in una mattina di prima­ vera nel giardino vista da una sala da pranzo a vetri colo­ rati con una tenda a metà abbassata, e dove le "correnti d'aria" che corrono nel giardino entrano nel parlatorio co­ sparso di calce e di sole.» Sapeva che il fondu è l'arte su­ prema dei maestri; e sino alla fine, alla morte di Bergotte, l'avrebbe inseguito nella Recherche. Quanto alle rappresentazioni pubbliche della Noailles, forse esse erano, come diceva l'arido Gide, un tutti-frutti recitato da una teatrante infantile e volubile. Ma Proust si divertiva moltissimo ad ascoltarla, come Jean Santeuil, Léon Paul Fargue e Léon Daudet e quanti ammiratori noti e ignoti. «La sua conversazione era di una gaiezza conti­ nua, faceva ridere perpetuamente con dei raffronti comici, una maniera spiritosa di raccontare la minima cosa, tanto che non aveva nessun bisogno di raccontare delle storie buffe . . . , ma in ogni circostanza della vita scopriva qualco­ sa di buffo, in qualsiasi conversazione, in qualsiasi accen­ no; perché una persona fine, che la facoltà di simpatia mette al posto di ciascuno senza rimanere sempre dentro di sé, vede dappertutto il comico . . . Se noi crediamo che ci sono poche cose buffe, è che non sappiamo vederle, e la gaiezza è un elemento fondamentale di tutte le cose.» 34

III

Willie Heath, Reynaldo Hahn, Lucien Daudet

Debbo fare un passo indietro. Tra il 1 891 e il 1892, mentre Proust compiva i suoi studi universitari, frequentava un gruppo di giovani amici: Robert de Billy, Robert de Flers, Pierre Lavallée, Edgar Aubert, Willie Heath. Edgar Au­ bert, che veniva da Ginevra, aveva una «curiosità seria», ironia e tenerezza, una «tristezza graziosa», e un'incertez­ za diffidente e quasi inquieta verso tutto ciò che avrebbe fatto. Willie Heath, che Proust avrebbe conosciuto qual­ che mese dopo, era insieme il più grave e il più infantile di tutti, «non solo per la sua purezza di cuore, ma per una gaiezza candida e deliziosa». Proust rinnovò il pro­ getto, che la violenza dei compagni del Condorcet aveva spezzato, di creare una piccola e squisita cerchia di giova­ ni amici, legati fra loro da teneri e platonici rapporti omoerotici. «Penso a voi tutti i giorni andando a letto, tutte le mattine alzandomi - e sempre, sempre.» Avrebbe­ ro vissuto insieme, lontani dalla sciocchezza, dal vizio e dalla malvagità del mondo, parlando gli uni degli altri: sulle soglie della vita, in un attimo indefinito di sospen­ sione. Il cerchio di amici si spezzò presto. Edgar Aubert morì di appendicite, a Ginevra, il 1 8 settembre 1 892: Willie Heath morì di tifo, a Parigi, il 3 ottobre 1 893. La morte di Aubert suscitò in Proust un'onda di affetto che fino ad allora non si era reso conto di sentire per lui: scriveva a Robert de Billy che gli raccontasse della sua malattia, se aveva avuto co35

scienza della gravità del male, e tutti i particolari del loro ultimo viaggio. «Ahimè, lui non tornerà più, è partito per un tempo più lungo del vostro. Le giornate, che ritornano dolci e chiare, mi danno l'illusione esatta, fino all'allucina­ zione, di quei ritorni a casa con lui, quando era così delizio­ so, così spiritoso, così buono, e con la grande dolcezza di uno sguardo o di una stretta di mano correggeva ciò che aveva appena detto di un po' vivo e ironico. » Aveva cono­ sciuto Willie Heath per poco tempo. Spesso lo ritrovava al mattino al Bois de Boulogne: Heath lo aspettava sotto gli alberi, in piedi, ma riposato, simile agli aristocratici dipinti da Van Dyck: così fini, intessuti in ogni fibra di una squisita eleganza morale, come lui vicini a morire, come lui dipinti sotto un'ombra di foglie. Poi Willie Heath levava un dito discorrendo, con gli occhi impenetrabili e sorridenti, quasi ad accennare un enigma; e allora il duca di Richrnond di Van Dyck diventava per un momento il San Giovanni Bat­ tista di Leonardo, che annunciava agli uomini una rivela­ zione misteriosa e certissima. Come è dolorosa la vita ! Come ci stringe e ci serra da vicino ! Come ci fa male all' anima ! In quei momenti di rimpianto per gli amici morti, Proust pensava all'Arca, dove Noè aveva passato quaranta giorni, mentre si erano rotte tutte le fonti del grande abisso e aperte le cataratte dei cieli, e non si vedevano né montagne né animali né volatili né serpi, ma solo l' immenso, oscuro oceano sta­ gnante. Quando era bambino, compiangeva Noè. Ora gli sembrava che nessuno fosse più invidiabile. Noè viveva nella clausura, nell' esilio e nella concentrazione: fuori c'era la notte, come al principio, quando «la terra era de­ serta e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell' abis­ so»; eppure solo dalle Arche si può vedere il mondo, co­ me Proust avrebbe esperimentato molti anni più tardi. Oggi che la terra non è più coperta dalle acque, come si può vivere ancora nell'Arca? Proust pensava alle sue ma­ lattie, quando era completamente avvolto dall'amore del­ la madre: alla «dolcezza della sospensione di vivere», a 36

quella «tregua di Dio», a quella «grazia», che interrompe le fatiche e i desideri malvagi, e che avvicina alle realtà che stanno al di là della morte. Pensava alla convalescen­ za, che gli sorrideva con un viso simile a quello di sua ma­ dre. Pensava, sopratutto, a quelle morti giovanili, che lo avevano sfiorato; e si volgeva verso le tombe, provava no­ stalgia della morte, in un sogno sentimentale e melodico. Forse il suo posto era accanto a Edgar Aubert e a Willie Heath: non nei salotti di Parigi. Aveva letto da qualche parte che «la morte viene in aiuto ai destini che hanno dif­ ficoltà a compiersi»; e chissà che anche il suo destino fosse uno di questi, e che solo la morte potesse sigillarlo.

Il 22 maggio del 1 894, probabilmente, Proust conobbe Reynaldo Hahn, musicista e cantante, durante una festa a casa di Madame Lemaire, la «regina delle rose» . Aveva quattro anni meno di lui, ed era nato a Caracas, in Vene­ zuela, da una ricca famiglia ebraico-cattolica come quella di Proust, con ascendenze tedesche e spagnole. Dal 1 878 viveva a Parigi, 6 rue du Cirque, con il padre, la madre e le sorelle. Aveva occhi scuri, pelle olivastra, baffetti neri. Maurice Duplay diceva malignamente che sembrava un «mignon di Enrico III, e un compagno di Cesare Borgia»: secondo altri il viso tradiva a volte «rancori neri e vendet­ te tenebrose». Ma era difficile scoprire la crudeltà in que­ gli occhi pieni di lontananza, dove il sogno avvolgeva di un'ombra dolce e calda uno sguardo pieno di intelligenza e penetrazione. Hahn possedeva tutte le doti che Proust non conosceva, e qualche volta avrebbe voluto possedere. Amava la precisione, la sobrietà, la misura, la prudenza, la grazia discreta, l'accordo tra le parti. Nulla lo affascina­ va di più, in letteratura, che la «sottigliezza, l'equilibrio, la perfetta chiarezza intellettuale, il gusto». Con che calore parlava di Sainte-Beuve, della «Spontaneità preparata>>; e con c �e disprezzo dell'eccesso e dell'esagerazione! Come 37

un vero classicista, raccomandava: «Fuggite le tempeste»; «L'Himalaya, Michelangelo e Beethoven mi sono inacces­ sibili». Con queste qualità, l'ebreo tedesco-spagnolo ave­ va adottato la Francia come il vero luogo dell'anima: essa era, per lui, «il paese temperato», dove tutto portava alla chiarezza nell'espressione. Non posso dire se fosse un buon musicista: certo era uno scrittore finissimo; e un cantante pieno di fascino. Quante volte Proust l'ascoltò nei salotti di Parigi! «Con la testa leggermente rovesciata indietro, la bocca malinconi­ ca, un po' sdegnosa, lasciando sfuggire il fiotto ritmato della voce più bella, più triste e calda che sia mai esisti­ ta», Reynaldo Hahn - scriveva Proust qualche anno dopo - «stringeva tutti i cuori, inumidiva tutti i cuori, nel brivi­ do di ammirazione che propagava in lontananza e ci face­ va tremare, ci curvava tutti l'uno dopo l'altro, in un silen­ zioso e solenne ondeggiamento di messi, sotto il vento. » Oppure cantava e suonava, d a solo, un'operetta. Con la sigaretta all'angolo delle labbra, chinava la testa sul collo con un fremito a metà nervoso, mentre gli accompagna­ menti dolci ed echeggianti correvano sotto le dita. Si capi­ va distintamente ogni parola delle canzoni, e l ' a ria dell'operetta. Senza fermarsi, cantava le risposte femmi­ nili con una voce di testa, intonava il coro così forte che tutti erano trascinati, disegnava l'imitazione di un attore conosciutissimo: indicava che qui c'era un violino, là i tromboni, e conduceva tutte le sonorità con un'aria stan­ ca e distratta . Era un grande improvvisatore. Alla corte d'Inghilterra, davanti alla regina, rimase due ore a canta­ re le cose più diverse, dalle canzoni del XVI secolo a quel­ le del café-concert, passando per Lulli, Bach, Mozart, Gou­ nod, Schumann, Brahms, Saint-Saens. Non c'era nulla che Hahn amasse più della pura, nuda voce umana, che gli dava un'emozione più grande di una sinfonia di Beethoven e perfino di Mozart. A Murano, aveva ammirato il lavoro del vetraio. Amava la rapidità vertiginosa con cui il vetro prende forma tra le sue mani. 38

L' artigiano ha appena avuto il tempo di compiere il suo lavoro di modella tura, ed ecco, il vetro incomincia a indu­ rirsi, dei fuochi iridati brillano nelle sue vene trasparenti, gettando uno splendore superbo o formando una combi­ nazione indefinibile di toni delicati e leggeri: è un fiore, o una farfalla di cristallo, o una sfera infiammata, o una cor­ rente luminosa immobilizzata in un arabesco bizzarro, o un getto di luce. Quale varietà innumerevole di forme e colori, sbocciati in un istante! Il cantante è simile al vetraio di Murano. La forma del suo canto deve essere definitiva: non ha il tempo di modificarla e di trasformarla; come l'ha creata appare senza ritardo all'uditore. Non può per­ mettersi né esitazioni né pentimenti. Bisogna che, in un tempo inafferrabile e con un lavoro istintivo di una rapi­ dità prodigiosa, il cantante dia alla materia verbale una bellezza plastica e sonora: inoltre deve caricarla di emo­ zione, di poesia, di pensiero. Mentre fa nascere la voce nei meandri dei polmoni, della laringe, del palato e delle lab­ bra, il suo cervello e il suo cuore debbono prestare istanta­ neamente alla materia impalpabile che è il suono, quella forza psicologica e intellettuale che commuove, esalta, de­ prime, entusiasma o inebria. Il canto portava alla luce la tristezza soffocata del cuore troppo sobrio di Reynaldo Hahn. C'era, in lui, qualcosa di doloroso e di ferito: sosteneva che ogni uomo, dopo aver abbandonato l'azione coraggiosa al servizio della coscien­ za, deve adottare «una passività rassegnata e malinconi­ ca>> . Amava tutte le cose vinte, sopraffatte, tramontate, Versailles in autunno, Mademoiselle de La Vallière, tutte le cose dove si rivela la forza triste del tempo. In uno dei suoi molti viaggi a Venezia, fantasticò a lungo sui rappor­ ti tra Venezia e Mozart e credette di capire che la loro ani­ ma è la stessa: dietro la bellezza giovanile e multicolore, non possono nascondere la disperazione che li divora. Verso il tramonto, stava passando presso San Giorgio Maggiore, quando il ritmo del remo fece a poco a poco ri­ svegliare nella sua memoria le note delle Nozze di Figaro, 39

che sembrano rivelare lo sforzo del cuore per liberarsi e sfuggire, attraverso le labbra, verso il cielo. Si mise a can­ tare. Era il lamento discreto e rassegnato che la contessa d'Almaviva rivolge al tempo, alla vita, al destino, a nessu­ no: il rimpianto e la sofferenza del ricordo. Mentre Hahn cantava a bassa voce, gli sembrava che il disegno musica­ le si conformasse all'architettura di Venezia: era lo stesso «sorriso stoico e straziante». Il sole scompariva, stava per spegnersi, i suoi ultimi raggi erano raccolti da un' estre­ mità del mosaico del portico di San Marco, ma già le luci della Piazza si accendevano, pallide, tristi, quasi funebri. Gli sembrava di vedere la contessa mentre si metteva sul­ la fronte, alle orecchie, al collo, con un gesto abituale e di­ stratto, i gioielli per la festa della sera, scintillanti emblemi della sua schiavitù. «Dove sono i bei momenti di dolcezza e di piacer? Dove andaro i giuramenti di quel labbro menzogner? »

Sentì tutt'attorno quella dolcezza fluida, quel languore voluttuoso, quello strazio musicale. Anche lui era Rosina imprigionata, che sognava una felicità perduta, o che non aveva mai conosciuto. Reynaldo Hahn e Proust non avrebbero potuto essere più diversi; ed entrambi lo sapevano. Il primo amava la misura e l'equilibrio: il secondo era nutrito di eccesso e di esagerazione. Il primo fuggiva le tempeste: il secondo ve­ deva la sua vita devastata dalle tempeste e dagli abissi del cuore. Se Hahn considerava la musica come soggetta alle definite parole umane, Proust credeva che l'essenza della musica fosse di rivelare il fondo dell'anima, che sfugge a ogni forma determinata. Hahn amava Massenet e Saint­ Saens: Proust Wagner e Debussy; e se forse non odiava ancora quel Sainte-Beuve, in cui l'altro vedeva il cuore del gusto, presto l'avrebbe esecrato. Forse si attrassero proprio per questo: erano colori complementari. 40

Proust ricostruì subito la propria mitologia infantile e passiva . Sebbene avesse quattro anni più di Hahn, lo chiamava «my little Master»: lui era il suo piccolo poney, che stava buono nella «stalla e non faceva prendere raf­ freddori al suo padrone» . In una comune regressione all'infanzia, inventarono un codice puerile, con un gergo, dei nomignoli e uno stile artefatto, come Mozart che scri­ veva i nomi a rovescio; e continuarono a usarlo anche quando avevano cinquant'anni. Proust stringeva, odora­ va, baciava le piccole mani di Reynaldo. Come diceva Shakespeare, teneva sotto le labbra «la più pura, la più perfetta cosa del vasto mondo - e né il giglio, né la rosa, di cui Venere si inorgoglisce . . . » . Il Master e il poney vive­ vano il loro amore in società. Correvano a piedi e in car­ rozza da una casa all'altra, dalla marchesa de Casa-Fuerte a Madame Daudet, da Madame Stern agli Straus, alla Le­ maire ai Baignères: andavano all'Opéra-comique, al Théàtre français, ai concerti, dovunque si raccogliesse il «bel mondo)) di cui erano il fiore. In quest'amore ci fu sempre, fin dagli inizi, qualcosa di «dolce, di malinconico e di violento)), come nella voce cal­ da di Reynaldo Hahn. Ma Proust non conobbe mai un pe­ riodo più felice: gioia dell'anima, del corpo, dei pensieri, dei movimenti, che rifletté nelle pagine del Jean Santeuil, scritte mentre il loro amore si svolgeva. Con quale buon umore chiacchieravano, si scrivevano, facevano potins, at­ traversavano velocemente Parigi in carrozza! Per la prima volta nella sua vita Proust si sentì libero. Se negli anni scorsi si sentiva dominato dal destino, dalla necessità del tempo e del carattere, ora, il primo gennaio 1 895, s'accorse di cominciare l'anno «con un sentimento più vivo della grazia divina e della libertà umana, con la fiducia in una provvidenza almeno interiore)), Doveva certo questa li­ bertà ad Hahn. Sopra di lui c'era una Trinità, sia pure senza padre, che lo proteggeva. Sullo sfondo stava, a braccia aperte, la do­ lorosa e soavissima Madre edipica. Di lato una giovane 41

donna, «confidente dei pensieri, faro delle tristezze erran­ ti, protettrice dei deboli, guardiana dei malati, sorgente di bontà, profumo di amicizia, anima delle sere», accarezza­ va con le piccole mani da sorella la sua fronte bruciante e asciugava le sue lacrime: mentre un giovane uomo delica­ to, che la gelosia avrebbe già voluto imprigionare, occu­ pava il centro del quadro. Tutte le attenzioni, gli slanci e i desideri dovevano convergere, intensificati e moltiplicati, sulla figura oscura del «petit Marcel», inginocchiato ado­ rante ai piedi della sua Trinità. Nell'agosto del 1 894, Madame Lemaire invitò Proust e Reynaldo Hahn nel suo castello di Réveillon, sulla Marna. Il castello, costruito agli inizi del Seicento, circondato da fossati e fiancheggiato da torrette, si innalzava tutto rosa, tra i giardini e gli orti, mentre i boschi si stendevano lon­ tano in una linea curva. Madame Lemaire non aveva nul­ la della castellana aristocratica. Tutto era tenuto con una negligenza felice: frutti e legumi crescevano a caso, e l'edificio, più che ai suoi padroni, sembrava appartenere alle dalie, ai delphinium, alle rose e ai piccioni. Non ab­ biamo molte testimonianze dirette sulle vacanze a Réveil­ lon e poi a Beg-Meil. Ma, in queste parti, il Jean Santeuil è quasi un diario della vita trascorsa da Proust insieme a Hahn; e così, 111algrado le giuste riserve contro l'impossi­ bilità di usare un' opera letteraria come una cronaca, ag­ giungo ai miei pallidi colori i colori scintillanti che Proust disseminò nel suo primo romanzo. La mattina Proust si svegliava tardi, prendeva pigra­ mente la prima colazione a letto, sfogliando i giornali e leggendo la corrispondenza, che gli portava le ultime chiacchiere di Parigi: mentre Reynaldo stava seduto da­ vanti al tavolino, bevendo una tazza di cioccolato fuman­ te. Parlavano e ridevano senza posa. Poi Reynaldo si met­ teva al piano, cantava un'aria, e Proust lo ascoltava beato, in camicia, vicino al fuoco, scaldandosi le gambe, mentre il domestico bussava inutilmente alla porta, annunciando che il pranzo era servito. Marcel indossava una cravatta 42

rossa su un vestito blu, una cravatta bianca su un abito nero, una cravatta color paglia su una giacchetta color pa­ glia, come se ogni giorno volesse dipingere un diverso ri­ tratto di sé, in una tinta e in un'armonia differenti. Era tar­ di. I due amici correvano in basso, attraverso le lunghe gallerie e le scale di marmo. Sulla tavola della sala da pranzo i ciuffi blu di capelvenere, le zinnie rosa, gialle e violette e le bocche di leone «conservavano nella vivacità dei loro colori, bagnati dalla rugiada non ancora asciutta e rallegrati dal sole che dal fondo del parco veniva a inse­ guirli», la stessa dolcezza di tono della porcellana di Sas­ sonia. Le uova calde fumavano tra i fiori freschi: piccole impercettibili flottiglie di lardo trasparivano tra i flutti do­ rati delle uova sbattute; e Marcel e Reynaldo si sedevano, spiegando un tovagliolo «candido come la gioia di tutti». Nel pomeriggio i due amici passeggiavano nella cam­ pagna. Qualche volta un temporale li sorprendeva, e si ri­ paravano sotto un melo. Davanti a loro i campi colmi di trifoglio verde cupo, i meli innumerevoli che dichiarava­ no col porpora delle mele la maturità del proprio vigore, i leggeri biancospini che avevano cambiato il bianco abito di primavera con le piccole bacche rosse dell'estate, il pa­ pavero tremante al vento in cima al suo stelo verde, simile alla fiamma rossa in cima all'albero di una nave - «tutte le fantasie del colore, tutti i pensieri della natura, tutte le creature della primavera, tutte le opere dell'estate» - era­ no là per testimoniare che il sole e l'azzurro non erano partiti per sempre, e che tra un momento sarebbero riap­ parsi sulla terra. Marcel e Reynaldo tornavano a Réveil­ lon. Nel giardino, un rosaio dagli enormi e molli fiori bianchi, un altro dalle profonde rose color porpora, un al­ tro ancora di piccole rose simili a coppe appena incavate, si aprivano accanto a petali viola e semplici come quelli delle rose di maggio. I due amici si sedevano su una sedia a dondolo, o si distendevano sull'erba, accanto alla padro­ na di casa. Dei piccioni, grigi e preziosi come l'argento an­ tico, gravi nel loro silenzio, calpestavano l'erba con una 43

zampa lenta, come per un'investigazione prudente, men­ tre i passeri la percuotevano saltellando con un'ausculta­ zione più rapida. Ancora più belle dei piccioni erano le lo­ ro ombre: ombre splendenti a forza di essere nere; il grido profondo della giornata dove tutto era al suo estremo e nulla indeboliva la luce. Verso sera la felicità, che durante il giorno aveva sorret­ to Proust sopra le sue ali colorate e melodiche, toccava il culmine. Quando cambiava l'abito per la cena, la gioia riempiva la stanza, accarezzando la molle e bianca fila dei fazzoletti nel primo cassetto del comò. La gioia si esaltava quando egli chiudeva con forza la porta della camera, cre­ sceva attraverso i corridoi oscuri, si moltiplicava mentre percorreva con tacco impaziente le scale e faceva provare ai gradini, saltati a quattro a quattro, il peso della sua alle­ gria. Con gli occhi della mente, vedeva già la sala da pran­ zo raggiante alla luce della lampada, la cena servita, gli amici riuniti, una lettera chiusa sotto il suo tovagliolo. Pri­ ma di entrare nella sala, aveva bisogno di raccogliere le forze e di prepararsi: si fermava un istante dietro la porta, per non essere bruscamente abbagliato e soffocato da quell'inondazione di luce, di calore, di calma e di buoni odori. Dopo cena, raggiungeva di nuovo la camera. Non aveva voglia di andare a letto e scriveva un biglietto a Reynaldo, ricordando le parole dette da Horatio davanti al corpo di Amleto: «Buonanotte, amabile principe, e che degli sciami d'angeli cullino cantando il tuo sonno». L'anno successivo, Proust e Hahn trascorsero un mese e mezzo, tra l'inizio di settembre e la fine di ottobre, a Beg­ Meil, nella Bretagna meridionale, abitando in una fattoria trasformata in albergo, sotto i meli che crescevano quasi sopra le rocce e lasciavano intravedere il mare tra i rami. Quel soggiorno ebbe sempre per Proust un fortissimo va­ lore simbolico: si impossessò del mare, del vento, dell'aria marina, dell'intera natura con la mente e col corpo: risalì alle origini della sua vita; e conobbe, con Hahn, un perio­ do di quieta felicità contemplativa come non avrebbe mai 44

più conosciuto. L' autunno era avanzato. Sulle strade Proust sentiva soltanto il dolce riflusso del mare, calmo come la baia, e questo rumore faceva da piedistallo al si­ lenzio. Il fogliame degli alberi era arrossato dai tranquilli fuochi d' autunno, che ogni sera il sole al tramonto torna­ va a infiammare. Il vento era troppo debole per sospinge­ re le nubi e far fuggire il sole: il suo soffio era appena un lieve e rapido invito a gustare quest'ultimo resto di dol­ cezza, questi giorni supremi e ancora incantevoli, come quelli di una vita consumata nel suo fiore. Sulla deserta spiaggia bretone, Proust cominciò a scri­ vere il Jean Santeuil. Verso le undici della mattina, avvolto in una coperta, sedeva nel recinto di meli davanti all'al­ bergo. Aveva comprato nel villaggio vicino dei fogli qua­ drettati da scolaro, che ora tremavano al vento e si dora­ vano al sole; e con la mano nervosa, copriva quei fogli dove possiamo contemplare le idee che si succedevano, agitandosi e moltiplicandosi, nel suo pensiero. Raccontò il «bacio della madre», la scena che aveva segnato per sem­ pre la sua vita; e l'infanzia e gli anni di scuola di J ean. Do­ po pranzo, Marcel e Reynaldo andavano con dei libri sul­ la duna. Proust portava con sé le lettere di Madame de Sévigné o gli Eroi di Carlyle, o Splendeurs et misères des courtisanes di Balzac. Per non disturbarsi a vicenda, si di­ stendevano a qualche distanza l'uno dall'altro, nascosti dalle ondulazioni delle dune. Ciascuno poteva immagina­ re di essere isolato da qualsiasi essere umano, scorgendo sqpra la sabbia soltanto il cielo e il mare e il volo incessan­ te dei gabbiani. Talvolta si addormentavano all'aria aper­ ta, e il loro spirito vuoto, il loro corpo felice erano liberi da qualunque pensiero. Spesso un mozzo di Beg-Meil portava Proust in barca verso il mare aperto. «Sarebbe bello dormire» diceva Proust, cullato dal vento, dal rullio delle onde e abbaglia­ to dalla luce sparsa e mutevole del mare. Si stendeva sul fondo della barca, sopra delle coperte, e finiva per addor­ mentarsi. Quando si svegliava, era felice di trovarsi lonta45

no. Non si vedeva più la costa, e il sole stava per tramon­ tare. Il mare era rosso sangue, o madreperla, o bianco, o verde smeraldo, o tutto rosato. Allora si scuoteva, e il mozzo gettava le reti. Da un'altra barca, un pescatore gri­ dava: «Buonasera, buona pesca»; e Proust rispondeva: «Buonasera, buona pesca», cercando di mettere nelle stes­ se parole lo stesso accento, e nascondendo l'immensa te­ nerezza che quei suoni isolati nel silenzio avevano solle­ vato nella sua anima. Mentre la barca tornava a riva, le campane della chiesa di Concarneau suonavano l' Ange­ lus. Il mozzo posava i remi, non diceva più una parola, non faceva più un movimento: aspettava che le campane tacessero, e lasciava Proust ascoltare indefinitamente il si­ lenzio che seguiva il loro suono, guardando il cielo per­ dere a poco a poco i suoi colori, fino a quando la luna sa­ liva all'orizzonte. A Parigi, un giorno Reynaldo Hahn e Proust andarono al Jardin d' Acclimatation, dove c'era un gruppo di colom­ bes poignardées, - le colombe che portano sul petto una macchia rossa simile a una ferita insanguinata. Forse Ro­ bert de Montesquiou aveva parlato loro con entusiasmo di quegli uccelli privilegiati. Reynaldo osservò che «con la loro ferita rossa e come ancora calda» le colombes poi­ gnardées «sembrano ninfe che si sono suicidate per amore e che un dio ha mutato in uccello» . Quel giorno Proust le contemplò a lungo, e le amò sempre profondamente. Una primavera di molti anni dopo, quando vide Madame Scheikévitch con delle rose rosse su un vestito bianco, «fe­ rita al cuore da quel grande mazzo di rose», le disse che gli aveva fatto pensare a una colombe poignardée; e anche a una colomba messaggera e provvidenziale, alla colomba ispiratrice. Nel 1 9 1 3 pensò di intitolare Les colombes poi­ gnardées il secondo volume della Recherche (oppure À l' om­ bre des jeunes filles en fleurs oppure Les in termittences du creur oppure L'adoration perpétuelle). Poi rinunciò. La «co­ lomba pugnalata» non era nessuna delle jeunes filles e for­ se nemmeno Madame Scheikévitch, sebbene avesse tenta46

to di uccidersi. Era lui: che pugnalò il proprio cuore col suo acutissimo senso della colpa, e venne pugnalato da cento dolori, trasformati da lui stesso in tragedie senza ri­ medio. L' a more tra H a h n e Proust non fu senza ombre : l'ombra maggiore venne da Proust e dal suo doloroso senso del tempo. Già nelle prose dei Plaisirs et les jours era stato accompagnato da un tema ossessivo. «Sovente, quando cominciamo ad amare, avvertiti dalla nostra esperienza e dalla nostra sagacità - malgrado la protesta del nostro cuore che ha il sentimento o piuttosto l'illusio­ ne dell'eternità del nostro amore, - sappiamo che un gior­ no colei del cui pensiero ora viviamo, ci sarà indifferente come tutte le altre . . . Allora questa prescienza certa, mal­ grado il presentimento assurdo e così forte che ameremo sempre, ci farà piangere; l'amore . . . metterà davanti al no­ stro dolore . . . un po' della sua desolazione incantatrice.>> Poteva sopportare tutte le sofferenze dell'amore: non il terrore che esso non sarebbe stato immortale, ma si sareb­ be dissolto come la più esile delle nebbie. Così, probabil­ mente a Beg-Meil, nell' ottobre del 1 895, avvenne una scena che sembra derivata dai suoi libri. I due avevano fatto una passeggiata insieme: Proust era tristissimo pen­ sando alla fatale separazione tra loro, e Hahn lo aveva consolato parlando dell' «avvenire della loro amicizia». Poi gli aveva detto una parola triste: non sappiamo quale: tutte le consolazioni svanirono; Proust si avanzò con di­ sperazione sulla strada della memoria, dove ogni ricordo sarebbe scomparso, e su quella del futuro, spogliate da una «chiaroveggenza crudele». Non c'era più niente: né passato né futuro; solo desolazione. L'altra ombra era la gelosia. Proust voleva sapere tutto quello che Hahn faceva: le cose innocenti e quelle meno innocenti; lo torturava con la sua avidità di voyeur maso­ chista e la sua immaginazione visionaria. «Nei momenti di sforzo doloroso . . . spiando una figura o avvicinando dei nomi, ricostituendo una scena cerco di colmare le lacune 47

di una vita che mi è più cara di ogni cosa, ma che sarà per me la causa del turbamento più triste quando non la co­ noscerò persino nelle sue parti più innocenti. » Voleva sa­ pere tutto, non solo per placare la gelosia (come se la gelo­ sia potesse mai avere fine), ma per addossare sulle sue spalle le colpe dell'altro, e diventare egli stesso il peccato­ re che aveva compiuto il male, come in una scena di Do­ stoevskij. Il 20 giugno 1 896 Reynaldo aveva giurato solen­ nemente di confessargli tutto: poi si era rifiutato: «Non vi dirò mai più nulla». Proust aveva protestato, rivendican­ do la sua natura di malato e di vittima della gelosia: poi, due mesi dopo, con una triste rassegnazione, aveva ri­ nunciato a conoscere i segreti. «Non sono più geloso» ave­ va detto mentendo. La gelosia di Proust celava una scienza amara e dispe­ rata del cuore. Il primo giorno del 1 895, aveva affermato la sua fede nella libertà umana e nella grazia divina, che allontana da noi il peso del nostro carattere e del nostro passato. Ora non ci credeva più. Non esiste nulla tranne il destino, il quale non è altro che il nostro carattere: «In tutti i momenti della nostra vita siamo i discendenti di noi stessi e l'atavismo che pesa su di noi è il nostro passa­ to, confermato dall'abitudine» . Aveva citato una frase dell'Antico Testamento: «L'uva che i nostri padri hanno mangiato era verde e i nostri denti ne sono rimasti allega­ ti» avevano detto Geremia (31 , 29) ed Ezechiele ( 1 8, 2). La cosa singola.re è che sia Geremia sia Ezechiele citavano questo antico proverbio di Israele solo per rovesciarlo: per loro non esisteva più la vecchia responsabilità razzia­ le-familiare, per cui i figli erano responsabili delle colpe dei padri, ma la nuova alleanza, fondata sulla responsabi­ lità individuale. «Ognuno» continuava Geremia «morrà per la propria malvagità.» Invece Proust accettava il vec­ chio proverbio biblico, confutato da Geremia ed Ezechie­ le: ma lo spostava dalla responsabilità razziale all' atavi­ smo fatale del nostro temperamento, che diventava tre­ mendo come la più tremenda fatalità biblica. 48

L'amore finì e si trasformò nella più affettuosa, salda e tenace amicizia, che abbia accompagnato la vita di Proust sino agli ultimi anni. «Mio caro piccolo» scriveva a Hahn nell'ottobre 1 898, «avreste torto a credere che il mio silen­ zio sia quello che prepara l'oblio. È quello che come una ce­ nere fedele cova la tenerezza intatta e ardente. Il mio affetto per voi resta così e si ravviva senza fine e vedo meglio che è una stella fissa scorgendola nello stesso luogo mentre tanti fuochi sono passati.» Reynaldo era la stella fissa, il focola­ re, il paese, la madre, il Dioscuro, la «roccia di bontà» sulla quale poteva costruire e restare. Se pensava a lui, piangeva tutte le sue lacrime: se scriveva al suo Dioscuro, era come se stesse scrivendo a sé stesso. La tenerezza, le lacrime, l'espansione febbrile dei sentimenti e delle sensazioni, tipi­ ci della giovinezza di Proust, non debbono ingannarci. L'amicizia amorosa che nutriva per Hahn aveva un carat­ tere tragico: era una devozione totale, del corpo e dell'ani­ ma, come quella che il principe Myskin prova per gli altri. «Se sapessi che ha assassinato qualcuno» scriveva nel 1908 a un amico, «nasconderei il cadavere nella mia camera per far credere che il colpevole sono io.» Intanto Reynaldo Hahn aveva ripreso da solo la sua vita mondana e artistica. Era sempre in giro, in Inghilterra, in Germania, a Montecarlo, a Venezia, in Russia, insaziabil­ mente snob, tra duchesse, principesse e regine, a cantare e suonare il piano e dirigere musiche sue e di altri. Era inna­ morato di Sarah Bernhardt, che aveva trent'anni più di lui: nessuno avrebbe potuto parlare con più entusiasmo della sua recitazione, dei capelli opulenti e sparsi sul guanciale, della sua pelle dolce e giovane, delle mises, delle mani cari­ che di gioielli, dei suoi piedi nudi. Poi, sazio di gloria mon­ dana, tornava a casa, al suo focolare, al suo paese: in piedi davanti al letto dove Proust celava le sue malattie; e gli rac­ contava tutti i viaggi, i ricevimenti mondani, le notizie se­ grete, divertenti e paradossali della vita, del mondo.

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Lucien Daudet, figlio di Alphonse, fratello minore di Léon, era nato nel 1 878. Aveva la bellezza di un giovane capo arabo, altero e indolente: gli occhi neri, inquieti e glaciali, che diventavano fissi, quando la buona educazio­ ne lo costringeva a nascondere la noia; e i capelli troppo arricciati e impomatati. Dipingeva acquarelli: era stato al­ lievo di Whistler: il maestro gli ispirò un grandissimo di­ sprezzo per tutto ciò che non era di prim'ordine, e per quello che egli stesso dipingeva. La fama del padre, del fratello e della madre, la vicinanza di Whistler gli lasciaro­ no un costante complesso di inferiorità: si sentiva un pa­ ria, l'ultimo degli ultimi; e cercava di cancellarsi e di na­ scondersi all'ombra radiosa di un amico o di un' amica . Sognava la propria elegante e totale abolizione. Quando aveva diciassette anni, una sera il padre e la madre andarono a cena dai Baignères. Il padre si annoda­ va la cravatta bianca: la madre, con la sua veste di satin ro­ sa broccata di fiori rosa, fissava nei capelli un gioiello sor­ montato da un'aigrette nera; mentre Lucien, con le mani ancora sporche di inchiostro, sorvegliava con malinconia questi preparativi e li invidiava. Sapeva che doveva cena­ re con la sorella e la sua istitutrice; e dopo cena finire una versione latina, e andare a letto presto. Quella sera, non si addormentò prima del ritorno dei genitori. Attese che il portone si aprisse, che i genitori salissero le scale, che la madre venisse a salutarlo, e le chiese se la serata era stata divertente, quale era il menu, chi erano gli invitati. La ma­ dre rispose che c' erano solo cinque o sei persone, tra le quali Montesquiou, e un giovanotto grazioso, di una rara amabilità, estremamente colto, che si chiamava Marcel Proust. Era un amico di Reynaldo Hahn, e doveva venire a casa una delle prossime sere. Uno o due giovedì più tardi, in occasione di uno dei ri­ tuali inviti a cena, Lucien Daudet vide entrare un giova­ ne, dal viso di un pallore lunare, dai capelli nerissimi e la testa un po' grossa e le spalle strette. «l suoi occhi troppo 50

grandi avevano l'aria di guardare tutto insieme, senza fis­ sare nulla. » Il giovane salutò la madre e il padre, con una cortesia e una disinvoltura che Lucien invidiò, e gli rivol­ se delle parole gentili. Poi, mentre i grandi si attardavano in salotto, Lucien andò a letto con un groppo alla gola, ascoltando Reynaldo Hahn che suonava e cantava al pia­ noforte. Quando Proust ritornò a cena, la sua presenza rese Lucien ancora più goffo e timido: ma l'ospite fu gen­ tilissimo, e gli chiese di vedere uno dei suoi acquarelli: un iris stilizzato. Due giorni dopo gli mandò un bigliettino «per ringraziarlo di avergli mostrato dei fiori graziosi». Così cominciò il lungo corteggiamento di Proust: invitò Lucien a casa sua, gli offrì dei dolci, gli presentò la madre, e gli parlò con un'attenzione particolare, come se l'ospite fosse uno straniero di cui adottava la lingua - una lingua più modesta della sua -, per metterlo al suo livello e non umiliarlo. Mentre declinava l'amore per Hahn, l'amore tra Proust e Daudet ne ripeté puntualmente le fasi. Visitarono insie­ me il Louvre, si fermarono davanti ai due Filosofi di Rem­ brandt, ammirarono Paolo Uccello e il Ghirlandaio: anda­ rono al Thélitre français e parlarono, parlarono, parlarono, parlarono, parlarono, parlarono, parlarono, come se l'amore non fosse altro che chiacchiera; e ridevano e si la­ sciavano travolgere da accessi di fou rire davanti a cose o frasi assurde, che essi chiamavano louchonneries. Per il primo dell'anno, Proust regalò al giovane amico un cofa­ netto d'avorio del XVII secolo, con inciso: «All'amicizia>>. Conosciamo, per ora, pochissime tra le molte lettere che Proust e Daudet si scambiarono in questo periodo. Non sappiamo come il loro amore si dissolse. Molto te mpo , dopo, nel settembre 1 901, Proust scrisse a Lucien: «E cu­ rioso pensare che ci siamo amati». Negli stessi anni Lucien Daudet conobbe un amore molto più profondo di quello che lo legava a Proust. Se Hahn adorava Sarah Bernhardt, lui si innamorò dell'Im­ peratrice Eugenia, vedova di Napoleone III. Eugenia 51

aveva sessantanove anni: Lucien diciassette. Nell'infanzia aveva sempre pensato a lei: ne seguiva appassionatanten­ te la vita nei vecchi volumi dell'Riustmtima, e domandava agli unì e agli altri notizie sulla sua esistenza dì oggi. Un gìom.o, quando era ancora nella classe dì retorica, la vide

davanti alla vetrina dì un negozio, mentre mostrava un oggetto a un vecchio signore e diceva con una voce tenue: «È molto graziOSO». Poi venne introdotto nella villa Cyr­ nos·a Cap Martin, dove abitava l'Imperatrice. Fu la folgo­ razione, che fissò per sempre la sua vita. Rimase sconvol­ to. Non poteva !asciarla con gli occhi: la contemplava, «medusato, magnetizzato�, dallo sguardo dell' lnlperatri­ ce. L'occhio chiaro pieno dì pagliuzze nere rifletteva il cielo, la montagna, le palme e la luce: aveva una fosfore­ scenza d'acqua profonda e cangiante, sottomessa alle va­ riazioni dell'anima, che passava nel medesimo istante dal

blu più luminoso al nero più intenso. Lucien cercò dì sorridere, ma aveva voglia dì piangere. Guardava la lunga e leggera linea nera delle alte sopracci­ glia: il tratto dì matita nera che sottolineava l'a% oolo infe­ riore delle palpebre: la fronte alta, quadrata, a metà coperta dai riècioli bianchi e piatti: la bocca grande, le rughe profonde tra le narici e le labbra, le guance dal contorno fer­ mo; il viso solcato, il colorito sciupato, senza rosso né ro..c:;a né bianco né polvere; né altro artificio. Eugenia gli chiese notizie della madre, e gli faceva domande sui suoi esanù, sui suoi piaceri giovanili, sul suo amore per la bicicletta. Lucien cercava dì registrare il suono dì quella voce che for­ se non avrebbe mai più ascoltato: essa passava dal tìn1bro del soprano più acuto a quello del contralto più grave; e nell'accento si incrociavano appelli spagnoli, glissades in­ glesi, arguzie francesi Facendo forza su dì sé, osò dire che aveva sempre avuto un culto per lei. L'Imperatrice vide nel suo sguardo «l'adorazione, la devozione senza linùti», che erano nate in lui durante quella mezz'ora? ...

Lucien venne invitato in Inghilterra , a Farnborough Hill, nello Hampshire, durante l'estate. Come gli piaceva

brume, gli stagni, le querce, le case dove tutto era così preciso e piacevole: l'autunno piovoso e dolce, le erbe, il campanile che appariva nella nebbia come in un paesaggio di Tumer, gli ultimi clamori di una partita di football, le arie suonate da un gracile or­ gano . . . Restava mesi insieme all'Imperatrice, senza com­ piti nella piccola corte; e scriveva alla madre reale dei rapporti minuziosi e ossessivi su tutto ciò che faceva la madre romanzesca, e su tutto ciò che - menu, discorsi, decorazioni delle stanze, lavori nel giardino, gite in bici­ cletta, partite a tennis - avveniva per lei e attorno a lei. Amava l'Imperatrice profondamente: le sue vesti nere, i suoi veli neri, i suoi boa di penne nere, la scollatura rico­ perta di un tulle bianco e finissimo. Aveva per la sua vec­ chiaia una passione che diventava sempre più mostruosa. Quando Eugenia ebbe ottant'anni, la guardava a pranzo, col collo stretto da un lungo velluto nero, il viso pallido come il bianco dei capelli, il segno nero sulle sopracciglia e sull' angolo degli occhi, lo sguardo limpido e cangiante come l'acqua : guardava questa mescolanza di estrema vecchiaia e di grazia; e si diceva che nessuno sapeva come lei prolungare con tanta arte e semplicità un'antica bellezza. Era ancora giovanissimo, e amava le lunghe corse in bi­ cicletta, sotto la pioggia, nella campagna dell'Inghilterra meridionale. Ma viveva completamente immerso in quel polveroso e malinconico museo del passato, che era di­ ventato Farnborough Hill: felice di questa immersione, beato di fuggire un presente che intravedeva appena. Eu­ genia era la sacerdotessa e la custode di quel Museo; e da­ vanti alla sua memoria incomparabile, alla sua esperienza mondana e politica, Lucien pensava a quella città in rovi­ na, nel Libro della giungla di Kipling, da cui esce una voce ostinata: «Sono il Guardiano dei Tesori della città dei Re». Lei si era sequestrata, tra i tesori della tradizione napoleo­ nica che aveva raccolto. Qualche volta abbandonava gli altri ospiti: prendeva per mano il suo giovane adoratore, e il paese! Le brughiere, le

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lo portava al museo, tra le belle vetture, le carrozze, i fini­ menti, i cannoni, le uniformi appena sbiadite; e apriva le portiere, gli faceva osservare le cesellature, le livree di una volta, i ricami d'oro fino, tutti avvolti dall'odore melanco­ nico della naftalina. A volte l'angoscia era troppo forte: di tante glorie, splendori, ritratti, reliquie, associate a questi splendori, non era rimasto che polvere e ombra; e Lucien diceva: «Basta!», fuggendo tra i suoi libri, Cime tempestose, Splendeurs et misères des courtisanes, Séraphfta, Louis Lam­ bert, dove il passato lo confortava. Proust gli scriveva ancora. Avrebbe voluto che tutto il tesoro di squisitezze e di sottigliezze, che Lucien Daudet celava, non si disperdesse completamente. Ma Lucien ri­ fiutava di scrivere libri. Preferiva restare un amatore. Non poteva. Non aveva ambizioni e vanità. Era (diceva di esse­ re) «lo zero della famiglia, quello che non conta, di cui si parla con indulgenza quando si è di buon umore, con se­ verità quando si è di cattivo umore>> . Preferiva restare nell'ombra, nella sua innumerevole e foltissima ombra, di cui l'Imperatrice era sovrana. Malgrado tutto, Lucien Daudet finì per dedicare un li­ bro all'Imperatrice: un ritratto. Sera dopo sera, glielo les­ se. Alla fine, alzando la testa, vide Eugenia che lo guarda­ va, col bel viso rosso dove brillava qualche lacrima. Lei cominciò: «Mai nessuno . . . mai», poi tacque e gli tese le mani. Lucien le si inginocchiò davanti, e stringendogli le mani lei lo abbracciò, come una volta lo abbracciava la nonna, con la secchezza di coloro le cui labbra non hanno mai amato. Disse delle parole inintelligibili, in una specie di singhiozzo muto, poi si riprese, gli ridiede le mani da baciare e infine, come in un racconto del padre, gli fece se­ gno: «Andatevene».

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IV

Una telefonata da Fontainebleau

Spesso il giovane Proust si alzava tardi. Aveva attraversa­ to ancora una volta gli orrori della notte, quand o il mon­ do intero sembrava abbandonarlo e lui «avrebbe voluto afferrarsi alla luce, impedirle di morire o trascinarla con sé nella morte»: aveva percorso indenne il paese pauroso dei sogni; e ora i riflessi del sole si infiltravano nella came­ ra, sfiorando il letto e la poltrona, e finivano per perdersi nello specchio, che conteneva in sé - prigioniera - l'imma­ gine di sua madre. In quel momento, dopo aver bussato delicatamente alla porta, la signora Proust entrava nella stanza, a «fare una piccola visita». Apriva gli scuri e si se­ deva accanto al letto del figlio, mentre i raggi brillanti del sole primaverile disegnavano «le belle linee del suo volto ebreo, tutto impresso di dolcezza cristiana e di coraggio giansenista» . L a conversazione cominciava per caso: una lezione del professar Darlu, un viaggio del padre, qualcosa di toccan­ te e, insieme, di assurdo. Presto, era come se non avessero mai finito di parlare: come se la mano avida e terrificante della notte non avesse mai sospeso il loro profondissimo accordo, la loro complicità di ogni istante, il loro ininter­ rotto bisbiglio. Mentre la voce del figlio si lasciava trasci­ nare dall'entusiasmo, un'ironia continua avvolgeva le pa­ role della madre; e il figlio riconosceva in quei giochi di parole l'eco di una tradizione familiare. La signora Proust ricordava una sentenza di Molière, un verso di Racine o di 55

La Fontaine, un episodio di Madame de Sévigné, e li ap­ plicava giocosamente alle situazioni più umili, come i fe­ deli applicano i precetti della Bibbia a tutte le contingenze della vita. Non sappiamo molto di Jeanne Weil, la ricca ereditiera israelita che il 3 settembre 1 870 sposò il dottor Adrien Proust. Abbiamo qualche lettera sperduta nell'immenso epistolario del figlio: un taccuino di note e di citazioni ap­ parve qualche anno fa a un'esposizione, e poi si smarrì chissà dove; e quindi siamo costretti a guardarla con gli occhi del figlio, che le elevò nel cuore un tremendo monu­ mento amoroso, come nessun altro tra i monumenti che la fine del XIX secolo, generoso di monumenti alle madri, elevò a una madre di scrittore. Quando scriveva il Con tre Sainte-Beuve, il figlio la vedeva con il volto dell'Esther di Racine; e le faceva cantare timidamente l'aria di un coro, come una delle ragazze di Saint-Cyr davanti a Racine, ti­ morosa di far fuggire, con una voce troppo alta .e ardita, la melodia divina che sentiva vicino a lei. I ritratti e le testi­ monianze la spogliano di quest'aura secentesca e la fanno apparire quello che sembrava e che forse non era. «Vestita con una borghese e stretta semplicità, di statura media, il petto un po' grande, offriva un viso tranquillo di vergine di Flandrin israelita, con i bandeaux ondulati sulla fronte.» Da Racine al mediocre allievo di Ingres, la madre di Proust consuma la sua caduta borghese. Madame Proust aveva, diceva il figlio, «la celeste impo­ tenza dei pianeti». Riceveva tutta la luce dai suoi astri: il padre, la madre, il marito, i figli; e conosceva un piacere, una gioia, la felicità soltanto se prima esse avevano irra­ diato una delle persone care. Con tenerezza inesausta, amava i suoi cari: ma quale fosse l'amore che le riempiva il cuore, lo nascondeva dentro di sé. Non voleva essere vi­ sta intenerita . La sua religione, secentesca e borghese, era il pudore, la discrezione, il tatto, l'attenta cancellazione dell'io. Era molto intelligente: aveva una cultura vasta per una madre di famiglia del 1 895; ma celava questi doni 56

dietro i bandeaux ondulati Sl.llla fronte. Specie negli anni della giovinezza, era lieta: un'allegria di ragazza le impe­ diva di accettare la gravità decorosa della vita. Adorava i colori, gli spettacoli, la comicità dell'esistenza quotidiana. Nulla le era più caro dello scherzo. Il gioco delle citazioni, quell'intreccio continuo di versi di Corneille, di Molière, di Racine, che tesseva col figlio, era un modo di parodiare la realtà della vita e la solennità della cultura. Era un gio­ co complicato: perché la sua ironia non si poteva mai loca­ lizzare in una frase: come una specie di aura, che avvolge­ va tutte le cose e le impregnava di sé senza raccogliersi in un'espressione definita. Se dobbiamo credere al Jean Santeuil, la madre non ama­ va «la grazia degli animali e delle piante», a cui preferiva la pura grazia dei sentimenti umani, come per contrap­ porsi alla nonna, adoratrice del mare, degli alberi, dei venti e delle tempeste. Il suo mondo aveva, forse, qualco­ sa di chiuso. Ma, dietro la discrezione e la misura, si na­ scondeva qualcosa di immensamente dolce: il lento fiume russoviano e lamartiniano aveva abbandonato nel cuore di Madame Proust un limpido lago di tenerezza. La bontà, che le fluttuava negli occhi «come un fiore d' ac­ qua» senza radici nel corpo, la distaccava interamente da sé stessa e la spingeva a donarsi senza limite, senza misu­ ra, senza conservare nulla di suo. Sulla soglia della Recher­ che, basta ascoltarla mentre legge la prosa di George Sand (la voce della madre imita, senza il minimo dubbio, la vo­ ce di Madame Proust) : « diffondeva in quelle frasi che sembravano scritte per la sua voce e che rientravano per così dire tutte intere nel registro della sua sensibilità, tutta la tenerezza naturale, tutta l'ampia dolcezza che esse re­ clamavano . . . Smorzava al passaggio qualsiasi crudezza nei tempi dei verbi, dava all'imperfetto e al passato remo­ to la dolcezza che c'è nella bontà, la malinconia che c'è nella tenerezza, indirizzava la frase che finiva verso quel­ la che stava per cominciare, ora accelerando ora rallentan­ do la marcia delle sillabe per farle entrare, benché le loro 57

quantità fossero diverse, in un ritmo uniforme, insufflava in quella prosa così comune una sorta di vita sentimentale e ininterrotta>>. Qualche volta il figlio doveva avere l'im­ pressione che quel dono di dolcezza non riguardasse né lui né nessun'altra persona, ma scendesse sulla terra come una grazia continua, dolorosa e indifferente. Come il figlio la rappresenta, Madame Proust (e, alle sue spalle, la nonna) è l'incarnazione della civiltà borghe­ se francese, e della sua «ardente religione dell'intelligen­ za». Né la nonna né la madre avevano paura del male: il loro animo era troppo puro per temerlo. Senza preoccu­ parsi delle curiosità malsane o delle situazioni ardite, o delle parole crude, non sapevano cosa fosse la pudibon­ deria. Temevano una sola cosa: la volgarità, la frivolezza. Nella casa, questa religione impregnava tutta la vita. Sia il modo di cuocere certi piatti, sia quello di interpretare le sonate di Beethoven, o i notturni di Chopin, o di ricevere con amabilità gli ospiti, obbedivano alla stessa idea di perfezione. Nei tre casi questa idea era quasi la stessa: una specie di semplicità nei mezzi, di naturalezza, di sobrietà e di fascino. Le donne di casa Weil-Proust avrebbero rifiu­ tato con orrore di mettere delle spezie nei piatti che non le richiedevano, di suonare Beethoven e Chopin con abuso del pedale, di ricevere con affettazione e di parlare di sé con esagerazione. Così era nato un clima: un accento di distinzione morale, di generosità, di nobiltà d'anima che per Proust prolungava la vecchia Francia. Nella Recherche, Proust innalzò un tempio a questa «ar­ dente religione dell'intelligenz a che la civiltà borghese francese aveva coltivato. Non solo esaltava la madre e la nonna, ma ciò che esse avevano rappresentato: nulla egli venerava con pietà più intima. Ma Proust non appartene­ va al loro mondo. La madre non amava né Balzac né Bau­ delaire, né le esperienze troppo ardite dell'anima, in cui avrebbe visto ostentazione: non capiva «la natura»; e che avrebbe detto di Dostoevskij, di quei libri tutti enfasi, esa­ gerazione e isteria? Ora il figlio - anche nella giovinezza »,

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era tutto ciò che la madre negava: l'angoscia del male, la colpa, l'enfasi, l'esagerazione, la tragedia, la rivelazione di sé, Baudelaire, Balzac, Dostoevskij. Nella Recherche avreb­ be violato quello che la madre e la nonna avevano amato, - mentre ne recuperava il profumo più profondo, la gra­ zia più aerea, sottile e discreta. Non è necessario ricordare quali vittorie abbia cono­ sciuto il complesso di Edipo negli anni in cui Proust co­ minciava a scrivere: l'Europa era cosparsa di una compat­ ta vernice edipica, avvolta da quelle brume, corrosa da quei traumi che tra p o co sarebbero esplosi nell'In terp reta ­ zione dei sogni di Freud. Anche Proust sapeva che la sua era una malattia, e una colpa. Ma leggendo le lettere che madre e figlio si scambiavano, rileggendo i testi di Proust, si rimane ancora sconvolti dall'intensità strazian­ te e tragica del loro rapporto. Ciò che colpisce non è la so­ vrabbondanza degli affetti - ma l'assoluta confidenza, la strettissima intesa, la totale complicità tra due esseri che sembrano, e si sentono, unici al mondo. Non ci sono altri che loro. Proust aveva l'impressione che i suoi pensieri si prolungassero in quelli della madre, senza subire devia­ zioni, perché non cambiavano luogo: gli sembrava di guardare gli altri attraverso di lei; e i sentimenti di en­ trambi si riflettevano e rispecchiavano a vicenda. Non colpiscono le grandi cose: ma la complicità comica, per cui le battute, le allusioni, il riso venivano compresi al primo istante. Gli altri non esistevano. Per quanto Mada­ me Proust amasse il marito e l'altro figlio, senza renderse­ ne conto, essi erano, per lei, gli esclusi. Chissà perché Ro­ bert veniva chiamato Dick, come il folle e incantevole zio Dick del David Copperfield: o Proustowitch, o Robichon; certo il soprannome stabiliva una lievissima, ma invalica­ bile distanza. Poi venivano le separazioni - le terribili separazioni. La madre lasciava solo il figlio per due giorni all'Hòtel de Trouville: il figlio partiva per un viaggio; e subito, talvolta la sera prima, Proust veniva avvolto da una nube di tri59

stezza e di inquietudine. Ogni separazione ripeteva la se­ parazione archetipica: quella che era accaduta nella casa di Auteuil, quando la madre non aveva dato al figlio il ba­ cio della buonanotte; e anticipava la separazione definiti­ va, quando il figlio avrebbe rimpianto tutte le parole d'amore che avrebbe voluto dire, e non aveva detto, a sua madre. Non c' era che un rimedio: scriverle. Appena la carrozza o il treno erano partiti, appena la figura amata era scomparsa dietro l'angolo del viale, Proust si metteva al tavolino, e le scriveva una lettera lunga dodici o venti pagine. Così faceva ogni giorno, o più volte al giorno. La lettera non aveva nulla di scritto: non era che un fram­ mento di conversazione, che dal figlio andava alla madre; non era riflessa o ponderata, ma imitava il movimento vo­ lubile e incessante del cicaleccio. La madre leggeva appas­ sionatamente: «Tu osi dire che non leggo le tue lettere, mentre le leggo, le rileggo, le risgranocchio, tutti gli ango­ letti, e poi la sera assaggio se resta ancora qualcosa di buono da assaporare». Quando Madame Proust rispondeva, era piena d'ansia. Avvolgeva il figlio col suo affetto, lo carezzava con le pa­ role, lo compiangeva più del giusto ( «Cher peti t pauvre loup»), trattandolo come un bambino non cresciuto e che non avrebbe mai dovuto crescere. Vegliava da lontano su di lui. Voleva sapere tu tto: quello che faceva, quello che mangiava, se il mare lo eccitava, a che ora si alzava, a che ora andava a letto, come passava la notte, come andava l'asma, e se sopra tutto aveva potuto rompere il patto con l' «empio» sonnifero. Eppure non voleva sfibrarlo o inde­ bolirlo con l'eccesso del suo amore. Forse pensava a qual­ cuna delle più famose lettere di Madame de Sévigné, quando vedeva in ogni luogo la figlia lontana, sebbene la marchesa fosse molto più frivola ed esibizionista di lei. «Ma, mio Dio, dove non vi ho vista qui? E in che modo tutti questi pensieri mi attraversano il cuore! Non c'è po­ sto, non c'è luogo, né nella casa né nella chiesa, né nel paese, né nel giardino, dove io non vi abbia visto; non c'è 60

luogo che non mi faccia ricordare di qualche cosa; comun­ que sia, questo mi trafigge il cuore; vi vedo, mi siete pre­ sente ... » Appena ricevuta la lettera dalla madre - lettera che giungeva con velocità vertiginosa - il figlio risponde­ va, dando notizie meticolosissime: non aveva dormito be­ ne come l'altra notte, ma non aveva avuto l'asma, solo qualche infimo rantolo, al mattino: era andato a letto un po' tardi: si era fatto male al polso, ma il medico gli aveva imposto «una polverizzazione»; aveva preso freddo la notte, perché la finestra della sala da pranzo era rimasta aperta . . . Accettava la parte del bambino, che è appena uscito dal grembo, non ha ancora un corpo proprio, e di­ pende in tutto dalla madre. La sua vita doveva essere una confessione ininterrotta, davanti a quegli occhi benevoli e onniveggenti, che lo guardavano da lontano. Come tutti i grandi amori, anche quello di Proust e della madre celava dentro di sé il veleno dell'odio: «per­ ché talvolta l'odio serpeggia in mezzo all'amore più im­ menso, dove sembra come perduto» dice il Jean Santeuil. La madre muoveva molti rimproveri al figlio: prendeva sonniferi, dormiva al mattino, non faceva pranzi regolari, viveva una vita pigra e inutile, non aveva una carriera, non obbediva all' ordine borghese. Insieme al padre avrebbe voluto imporgli un ferreo metodo di vita, capace di vincere la sua nevrastenia. Un giorno, scoppiò una lite davanti ai domestici. Il figlio sbatté furibondo la porta di vetro della stanza da pranzo, mandandola in pezzi; e tor­ nato in camera, per caso o volontariamente, ruppe un vaso di vetro veneziano regalatogli dalla madre. Non erano mai andati così lontano. Proust le scrisse una lette­ ra di scuse. La madre gli rispose con un biglietto: «Non pensiamo e non riparliamo più di questo. Il vetro rotto non sarà più che ciò che è al Tempio - il simbolo dell'in­ dissolubile unione». Jeanne Weil alludeva alla cerimonia del matrimonio israelita, nella quale i nuovi sposi, dopo aver bevuto vino allo stesso bicchiere, lo spezzano; ed è l'unica volta, per quanto noi sappiamo, che la madre ri61

corda un rito della fede abbandonata, dimenticata, o chiusa per sempre in un angolo della memoria. Questo ri­ cordo è un sigillo, il sigillo dell'unione indissolubile, dell'unio mystica, che stringeva la madre e il figlio.

Nel pomeriggio del lunedì 1 9 ottobre 1 896, Marcel Proust lasciò la casa dei genitori, prese il treno, e scese a Fontainebleau, all'Hotel de France et d' Angleterre. Vi sa­ rebbe rimasto circa una settimana. Vi sono mesi nella vita di Proust, di cui non sappiamo quasi nulla: tutto è avvolto nelle tenebre più folte; abbiamo pochissimi documenti di­ retti, talvolta poco degni di fiducia, che ci permettono di avere una vaga idea di cosa è accaduto. Se vogliamo rac­ contare quei pochi giorni nell'hotel di Fontainebleau, sia­ mo nella situazione opposta . Proust e la madre hanno conservato quasi tutte le lettere che si erano scambiati; e vi sono pagine del Jean San teuil che hanno un carattere quasi documentario - e altre lettere che ricordano quegli eventi, un articolo del «Figaro», e un episodio della Re­ cherche che riproduce fedelmente la situazione originaria. Non c'è avvenimento, sensazione e sentimento di Proust e della madre che non conosciamo, e siamo nella condizio­ ne rarissima di poter ricordare un intero moment of being. Quest'abbondanza non è casuale. Come per il «bacio della madre», Proust si accorse che la telefona t a, e l' assalto d'angoscia, fissavano una situazione archetipica. Come sempre, Proust era arrivato a Fontainebleau un po' per caso. Prima aveva avuto intenzione di andare a Segrez, dal suo amico Pierre Lavallée; o di partire per il Mezzogiorno. Se invece partì per Fontainebleau, lo fece per una serie di motivi diversi. Vi trovava un amico, Jean Lazard: era probabile che due altri amici, Robert de Flers e Léon Daudet, l'avrebbero raggiunto: gli autunni di Fon­ tainebleau avevano una bellezza famosa; e l'aria buona avrebbe dovuto ristorare la sua malattia, a cui il soggiorno 62

estivo al Mont-Dore non aveva giovato. Ma forse c'era un'altra ragione, che non aveva confessato a nessuno. Vo­ leva provare a vivere qualche tempo fuori di casa, lontano dall'adorata e oppressiva protezione della madre, conti­ nuando a scrivere il suo romanzo. ll viaggio non cominciò bene. Aveva portato con sé il libro dei Goncourt sulla Du Barry: lo sfogliò, ma subito il libro si impregnò dell'odore del treno e dell'amarezza della partenza. Quando entrò nell' Hotel de France et d' Angleterre, vi trovò una «gaiezza sconosciuta» che lo ferì: i camerieri non avevano quell'intimità familiare che aveva conosciuto a Beg-Meil, e non parlavano con lui. Poi l'oppressione dell'asma non diminuiva, forse cresceva si sentiva lontano dalla madre, e voleva tornare a Parigi subito, da lei. Fu un desiderio acutissimo, che confidò a una lettera per Parigi. Il giorno dopo, scrivendo, fisicizzò in due modi diversi quel desiderio : gli diede corpo, alone, grandezza, come Baudelaire a un'immagine di Les Fleurs du Mal. Da principio gli sembrò che nel vuoto del suo petto si svegliasse «una palpitazione debole ma im­ mensa», come la lontana e incessante palpitazione del mare. Poi paragonò la folla di pensieri, di desideri, di paure, di inquietudini e di slanci, che fino allora erano cresciuti in lui sotto l'ala di sua madre, a una nidiata tu­ multuosa e debole, infantile e tenera di piccoli gabbiani, gettati in mare lontano dalla madre. Lui aveva portato via quella folla di pensieri, e ora essa di colpo si trovava abbandonata, e saltava in lui come per slanciarsi fuori, spaventata, disperata, pazza per non averne la forza. Proust passò la notte non sappiamo come: certo con una vaga inquietudine, se la stanza era così diversa dalla sua. Quando si alzò, la mattina del martedì, decise di te­ lefonare a Parigi. Intanto la catena di rapporti amorosi non si era spezzata, perché a Parigi la madre stava per scrivergli, così da inviargli un «piccolo sorriso dal focola­ re»: senza di lui, - gli diceva sorridendo - la casa era tri­ ste, solo le porte e i campanelli, che lui strapazzava, ave63

vano intonato «dei rumorosi alleluia)) . A Fontainebleau, Proust aveva chiesto la comunicazione con Parigi: nella casa davanti alla loro, al numero 9 del boulevard Males­ herbes, un fornaio, Monsieur Cerisier, aveva il telefono. Lo fece chiamare. «Avreste la bontà)) gli chiese «di dire a Madame Proust di venire al telefono a parlare con suo fi­ glio?» Il fornaio fece la commissione. Madame Proust sce­ se le scale, attraversò la strada, chiese la comunicazione con l'albergo di Fontainebleau, ma non poté telefonare perché dall'apparecchio del fornaio si poteva parlare sol­ tanto con Parigi. Implorò invano le signorine del telefono, offrendo un versamento extra, e dovette andare in un po­ sto pubblico. A Fontainebleau, Proust ignorava la ragione del ritardo. Languiva nell'attesa, acuiva crudelmente la sua delusione, assaporava l'amarezza di essere caduto nella solitudine, senza la madre, mentre avrebbero potuto essere a Parigi, l'uno accanto all'altra. Alla fine la comunicazione arrivò. Probabilmente, Proust non parlò alla madre dei dolori del giorno prima: né dei dolori molto più tremendi, che conobbe nel corso della telefonata, e che gli rivelarono un universo nuovo. Come un giovane, arrogante principe orientale, fece le sue richieste, diede i suoi ordini, ai quali la madre obbediva con troppa devozione. Aveva dimenticato la cravatta, la spilla e l'orologio: bisognava mandar li a Fontainebleau, da Jean Lazard. Aveva dimenticato il parapioggia: biso­ gnava darlo a Robert de Flers, che glielo portasse. Aveva dimenticato di inviare il cappello dal sarto - si chiamava Sandt e Laborde, ma la madre lo chiamava giocosamente Sandford e Merton, confondendolo col titolo di un roman­ zo -; e bisognava che la fedele Eugénie lo portasse, in mo­ do che il sarto ne studiasse i colori paragonandoli con quelli del cappotto, che aveva appena tagliato. Intanto, mentre parlava, e diceva queste cose così indif­ ferenti e abituali, Proust ascoltava la voce della madre contro l'orecchio - «così dolce, così fragile, così delicata, così chiara, così fusa>> . Il pomeriggio, scrivendo, gli soc64

corse un' altra delle grandi immagini fisiche, che aveva appreso da Baudelaire: la voce della madre era «un pez­ zetto di ghiaccio spezzato» - e quel ghiaccio era il suo cuore. Non l'aveva mai ascoltata: non ne aveva mai osser­ vato, nella rapidità della vita quotidiana, il timbro o l'in­ tonazione, ed era come se lei gli parlasse per la prima vol­ ta. Da quel piccolo frammento di ghiaccio spezzato - che era la voce, che era il suo cuore - sembravano colare delle lacrime, tutti i dolori sofferti da qualche anno, singhiozzi e gemiti che essa non aveva mai lasciato sfuggire per non affliggere i suoi e che erano nascosti là, vicinissimi, come i ricordi dei suoi morti che stavano rinchiusi nei cassetti della sua stanza. Proust non dimenticò mai più quest'im­ pressione. Sei anni dopo, scrivendo ad Antoine Bibesco, al quale era morta la madre, ricordò ancora una volta quella voce spezzata, straziata, piena di incrinature e di fessure; e adesso, raccogliendone i pezzi sanguinanti nel ricevito­ re, ebbe la sensazione atroce di quanto era accaduto in quel cuore distrutto. Aveva sempre sognato di conoscere la dolcezza, questa soave essenza divina: non aveva mai immaginato cos'era; per tutta la vita l'avrebbe inseguita cercando di rendeme l'eco - non importa se contaminato o violato - nel grande coro di voci della Recherche. Ora questa soave essenza di­ vina stava lì, allo stato puro, in una creatura umana, con la quale parlava ogni giorno. Stava nel suo orecchio, come i piccoli pezzi offerti di un cuore spezzato, come una scheggia di ghiaccio che si fonde. Sentì che quella era l'unica tenerezza che fosse tutta per lui, senza nemmeno una particella trattenuta per sé: una voce pura, dove non parlava la forza dell'orgoglio, dell'egoismo, dei desideri e dell'interesse, ma solo la dolcezza soprannaturale, che si scioglie soavemente all'orecchio e al cuore. Quando la madre lasciò il posto pubblico, senza sospet­ tare la tempesta di sentimenti che aveva destato nel cuore del figlio, era già l'una. Gli scrisse frettolosamente un bi­ glietto dalla posta, dicendo che attendeva con impazienza 65

le notizie di ogni notte - ma stava in piedi, e c'era un si­ gnore, che voleva avere la penna; e così tornò a casa. Poi scrisse una seconda lettera la sera alle sette, appena rice­ vuta la prima lettera del figlio: «Ho cominciato il Wilhelm Meister e ti prego di dirmi se le idee di Wilhelm Meister rappresentano quelle di Goethe» . Intanto, a Fontaine­ bleau, il figlio aveva pranzato: poi passeggiò, nella città che non gli piacque, e lungo il limitare ancora verde del bosco, mentre le impressioni della telefonata si affollava­ no nella sua mente. Alle quattro cominciò a piovere; e ri­ tornò in albergo, in quella che gli impiegati e i camerieri chiamavano la «sua» stanza. Lì, dalle quattro alle sei, sof­ frì due spaventose ore di angoscia: nelle quali la lontanan­ za dalla madre, il timore delle cose nuove, la claustrofo­ bia, e tutti i terrori indeterminati che gli gualcivano il cuore nelle notti insonni si coalizzarono a torturarlo. Scrivendo, poche ore dopo avrebbe innalzato il suo pri­ mo monumento all'abitudine: questa divinità dolce, acco­ gliente e amichevole, che nella Recherche avrebbe assunto un volto ambiguo. Era la chiave della sua vita: gli permet­ teva di interiorizzare completamente il mondo esterno, di personificare e umanizzare gli oggetti, di oggettivare e al­ legorizzare i sentimenti. Cosa accadeva a Parigi, nella sua stanza? L' abitudine lo aspettava sulla porta, aprendola gaiamente per lui. L'amicizia gli spalancava le sue braccia dalla poltrona, il cui legno, l'imbottitura e la seta avevano perduto da molto tempo la loro natura, saturati dalla sua fatica, riscaldati dalla sua cordialità, commossi dal suo dolore, accarezzati dal suo benessere. Come dei vecchi domestici, che a poco a poco meritano di conoscere i no­ stri segreti, diventando degli amici vibranti e sensibili, la poltrona, il letto, le tende della camera di Proust erano delle creature simili a lui. Lo specchio spiava il rumore dei passi della madre, quando veniva dal figlio, a fargli «una piccola visita». Gli asciugamani ogni settimana ritornava­ no un po' più deboli dalla pulitura, ma altrettanto miti, e asciugavano con velocità il suo corpo bagnato. Quando 66

Marcel entrava nella stanza, non faceva che rientrare in sé stesso, nella sua anima sparsa e diffusa intorno a lui: o, piuttosto, era la camera che penetrava in lui, con tutta la vivacità della simpatia e la dolcezza dell'abitudine. Abbandonato dall' abitudine, il mondo era l' orrore: la durezza, la crudeltà, la rigidezza, la violenza, la soffoca­ zione. Nella stanza d' albergo di Fontainebleau, Proust scoprì negli oggetti un'intenzione ostile, che cercava di fe­ rirlo. Nessuno gli veniva incontro, aprendogli le braccia. Nella durezza dello specchio, rideva ironicamente il mar­ mo crudele di un lavabo; ed egli cercò invano di penetrare nello specchio, intagliando una fessura in quella superfi­ cie che respingeva la sua immagine. Dovunque guardas­ se, incontrava un mondo compatto e ghiacciato, in cui non riusciva a farsi strada. Era una prigione, e gli sembra­ va di soffocarvi. Andò alla finestra e guardò fuori: faceva ancora chiaro, ma il giorno cominciava a cadere: una don­ na, seduta sul marciapiede, rientrò nel suo negozio; la città era straniera, e la sera l'avrebbe rinchiusa nel suo pa­ ralume nero. Allora voltò la schiena alla finestra, cam­ minò verso la porta, ma i suoi occhi incontrarono il letto, dove, la notte prima, - non si sa come - aveva dormito. Come avrebbe potuto salire un'altra volta in quel letto enorme, sotto quella trapunta rosa che sapeva di rinchiu­ s o, sotto i baldacchini abbassati da ogni lato, che minac­ ciavano di soffocarlo! E poi tutto stava a rovescio. Lui dor­ miva dalla parte sinistra, e da quella parte il letto era accostato al muro, mentre le cose di cui avrebbe avuto bi­ sogno - il caffè, la tisana, la candela, la penna, gli accendi­ ni - stavano sul comodino a destra, «la sua parte cattiva». Immaginò la notte che stava avanzando; e si vide incapa­ ce di dormire, «pensando a sua madre, mantenuto lonta­ no da lei da quelle coperte mute troppo ricamate, senten­ do la palpitazione infinita del suo cuore crescere nel silenzio della notte, e l'irrevocabilità dell'assenza, l'immo­ bilità del riposo, l'angoscia della solitudine e dell'inson­ nia. La camera era la prigione: ma il letto era la tomba». 67

Alle sei, chiuso in quell'odiosa prigione, sopraffatto e quasi prostrato dall'angoscia, trasse dalla valigia dei fogli di carta; e incominciò a scrivere. Colse l'aspetto simbolico della vicenda che l' aveva colpito : comprese che non avrebbe mai più potuto dimenticare la voce incrinata e fe­ rita della madre, e il terrore della camera ostile. Conser­ viamo le pagine che egli scrisse in quella sera d'ottobre. Una cosa ci colpisce. Sebbene Proust raccontasse quello che gli era accaduto pochi minuti prima, non compose una pagina di diario, come avrebbe fatto ognuno di noi. Con l'inverosimile ambiguità dei grandi scrittori, staccò quelle esperienze da sé stesso: fornì un'elaborazione arti­ stica della realtà, diventò Jean Santeuil, trasformò Fontai­ nebleau in Trouville, le telefoniste in garçons, capovolse l'ordine degli avvenimenti, così da raggiungere un effetto di tensione straziante. Credo che poche vicende ci condu­ cano più vicino al mistero della creazione artistica. Qual­ che anno dopo, Proust avrebbe teorizzato la necessità del tempo, che cancella, annulla e fa risorgere le nostre im­ pressioni. Ora lavorava sul vivo, con la stessa rapidità del pittore impressionista davanti alla veduta: ma il suo pote­ re di trasformazione creatrice era sovrumano come se de­ cenni lo avessero separato dall'esperienza vissuta. Sebbe­ ne fosse estremamente infelice, scrisse pagine meraviglio­ se: quasi volesse dimostrare che la felicità o anche la sere­ nità e la calma non hanno alcun rapporto con la perfezio­ ne dell'arte. La sera stessa del 20 ottobre Proust spedì il suo raccon­ to alla madre, pregandola di conservarglielo, perché l' avrebbe inserito nel romanzo. Era evidentemente un pretesto. Voleva che la madre capisse quello che desidera­ va dirle: lui l' amava, non poteva vivere senza di lei: aveva compreso, finalmente, fino a che punto la sua voce fosse spezzata, e il suo cuore sanguinasse per il dolore; e se lui cercava di fuggire da Parigi, subito l'angoscia lo fermava. Se fossimo più certi delle date, potremmo ag­ giungere che il «racconto della telefonata» era la risposta 68

di Proust alla lettera della madre sull' «indissolubile unio­ ne». Alle undici, per interrompere la minaccia del silen­ zio, andò a prendere Léon Daudet, che tornava da Parigi, e chiacchierò a lungo con lui. La notte, dormì bene, senza prendere sonniferi e senza la rituale crisi d'asma: giacché la letteratura, se ci offre indifesi agli assalti della nevrosi, qualche volta ci protegge ironicamente dalle sue torture. In tutto questo vorticoso intreccio di lettere e di contro­ lettere, di biglietti e di controbiglietti, che la puntualissi­ ma posta francese recapitava da Fontainebleau a Parigi, da Parigi a Fontainebleau, il racconto di Proust arrivò a 9 boulevard Malesherbes la mattina del mercoledì 21 otto­ bre. Per il momento la madre lo mise da parte. Voleva di nuovo telefonare al figlio, andando all'ufficio postale, tra le impassibili Demoiselles du téléphone. Più tardi lo lesse; e alle 14 scrisse al figlio. Secondo la sua abituale discrezio­ ne, non fece nessun commento: non disse di aver compre­ so l'amore e l'angoscia del figlio. Scherzò: fece un poco della sua abituale pedagogia, che avrebbe dovuto trasfor­ mare Marcel in un uomo più virile. «Le pagine . . . sono molto dolci ma molto tristi, mio povero lupo. Mi fanno soffrire pensando alla tristezza che hai provato. Ma il rac­ conto, da parte di un deportato, del suo arrivo all'isola del Diavolo, non deve essere più triste! Io che non amo gli ari­ di, eccomi ridotta ad augurarmi di vederti diventato uno di loro, piuttosto che !asciarti invadere così da una malin­ conia troppo tenera. » Poi, citando il Misanthrope: «hai bi­ sogno di farti un cuore "meno facile e meno tenero" ». Proust rimase ancora qualche giorno a Fontainebleau. Perse dei soldi da una tasca dei calzoni: o, più probabil­ mente, li spese; ciò comunque lo gettò nella più spaven­ tosa malinconia, come se avesse commesso un delitto verso i suoi. Aveva bisogno di libri: si fece mandare Le curé de village, Un ménage de garçons, La vieille fille, Les Chouans di Balzac, il Giulio Cesare e Antonio e Cleopatra di Shakespeare, il primo volume del Wilhelm Meis ter e Middlemarch di George Eliot, come se si preparasse a sver69

nare a Fontainebleau. Vide spesso Léon Daudet: insieme a lui la sera, sotto le stelle, faceva passeggiate in carrozza nella foresta; e Daudet rimase incantato dal «più grazio­ so, dal più fantasioso, dal più irreale dei compagni», que­ sta specie di «fuoco fatuo», che vedeva le cose che gli altri non vedono. Ma il progetto di fuga era fallito. Se il viag­ gio a Fontainebleau era stata la prova di un'esistenza lon­ tano dai suoi, non avrebbe mai più ritentato. Non gli re­ stava che la famiglia, la casa, l'abitudine, con le sue inef­ fabili e oscure gioie.

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Gli altri, il dolore

Quando ci avviciniamo verso il cuore di Proust, incontria­ mo sul nostro cammino una moltitudine di negazioni, o di definizioni negative, come quelle che il mistico frappo­ ne fra Dio e sé stesso. In una lettera a Albert Thibaudet, per scusarsi di un presunto difetto nel carattere del prota­ gonista della Recherche, egli scrisse: «Il fatto è che in tutta la mia vita ho sempre pensato pochissimo a me stesso» . La frase sembra strana, se ricordiamo che Proust estrasse un romanzo di tremila pagine dalla sua vita, come il più infaticabile baco da seta: ma è esatta. Proust non pensava a sé stesso, prestava poca attenzione al suo io, non badava alla propria persona; e se pensava a sé stesso credeva di non avere talento. Anche quando sembrava un giovane, aereo e scintillante Narciso, non si amava, mancava total­ mente di amor proprio, non aveva coscienza di sé, o addi­ rittura ripeteva la frase di Pascal: «il mio io mi è molto odioso» . Tutti, intorno a lui, a casa e nei libri, il padre, la madre, il nonno, Emerson ribadivano che «volere è pote­ re>> , che «si può ciò che si vuole», che bisogna «abituare un bambino a volere e a compiere ciò che ha voluto», che la volontà è la cosa capitale. Intanto il giovanissimo Proust, preso nelle sue fantasticherie, nei suoi desideri di amore e di felicità e nei suoi abbracci universali, scriveva che «il suo principale difetto» era quello di «non sapere, di non poter volere». Chi era dunque quest'uomo senza amor proprio, senza 71

amore per sé, senza volontà, senza io? Non amo le brillan­ ti sintesi, che cercano un elemento comune a scrittori vis­ suti nel medesimo tempo. Ma chi legga i libri composti tra la fine del secolo scorso e il principio del nostro, o guardi i quadri dipinti nel medesimo periodo, viene colpito da un fenomeno singolare. In tanta differenza di temperamenti, Monet e D'Annunzio, Debussy e Pascoli, Joyce e Rilke, Yeats e Pessoa avevano un dono in comune. Come loro, Proust non era un io, ma un luogo e questo luogo era un'immensa arnia ronzante, un profondo e scuro pozzo vuoto, un mostruoso apparato ricettivo, capace di racco­ gliere tutte le sensazioni. Nulla era tenuto lontano. Chi guardasse dentro questo vuoto, vi scopriva la presenza di un' «acqua sotterranea»: tutta l'anima di Proust era liqui­ da, perché l'universo era stato trasformato in acqua, e si rifletteva in sé stesso. Cosa poteva fare, allora, il giovane Proust? Allontanando da sé ogni volontario disegno intel­ lettuale, doveva vivere fino in fondo la propria condizio­ ne di arnia, o di pozzo, o di strumento, raccogliendo pas­ sivamente in sé tutte le sensazioni, i profumi, i gusti, le visioni, i suoni, le illuminazioni, i sentimenti, che percor­ rono l'universo. Non esiste una condizione più pericolo­ sa: perché chi è soltanto un luogo, rischia di dissolversi e di perdersi nella follia. Vi fu un giorno in cui Proust, o il suo alter ego Jean San­ teuil, capì di essere un luogo. Mentre errava per la campa­ gna, scoprì un vasto antro, che una piega della roccia na­ scondeva al resto della valle: vi fiorivano soltanto una digitale violetta e qualche bocca di leone. Era un luogo uni­ co, assoluto, dove forse nessuno era mai disceso: un antro che il pensiero della natura aveva arrestato nell'ignoranza di tutte le altre cose, che il silenzio aveva mantenuto nel se­ no della solitudine; esso non avrebbe mai visto nessun al­ tro fiore, nessun'altra roccia, nessun'altra ombra, nessuna creatura vivente, e sarebbe rimasto isolato per sempre dal resto del mondo. Guardando l'antro roccioso e la digitale, Proust comprese che anche nel pozzo del suo animo si an-

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nidava un luogo simile. Anche in lui esisteva una creatura diversa da tutte le altre, senza rapporto con nessuno, senza affinità con nessuno, senza conoscenza di nessuno: una specie di uomo-oggetto, senza occhi, senza udito e senza parole, più cieco di un frutto, più muto di un fiore, più sor­ do di una pietra. Nessuno era mai disceso nel suo antro, e nemmeno lui stesso. Col tempo, Proust comprese che do­ veva scavare in quell'antro di tenebra, che portava in sé stesso. Avrebbe scoperto che quel punto isolato era il cen­ tro della terra: si allargava, si estendeva, ampliava il pro­ prio orizzonte, entrava in rapporto con tutti gli altri punti del mondo, attraeva nel suo fascino i suoni e i colori, le luci e le ombre, le parole e i silenzi. Doveva portarlo alla luce, !asciandogli attorno tutta l'oscurità, il brivido, il terrore dei luoghi nascosti. Un luogo è muto. Questo spiega perché Proust, dotato di un dono naturale quasi esorbitante, provò tanta diffi­ coltà a esprimersi. Dapprima tentò la piccola prosa nei Plaisirs et les jours: non era ancora la sua voce. Era più vici­ no a sé stesso nelle lettere giovanili, che rendevano la sua conversazione quotidiana: scritte con nervosa velocità, correggendo, modificando via via il pensiero, con paren­ tesi incompiute, frasi non finite. Mai, né nel Jean Santeuil né nel Con tre Sainte-Beuve né nella Recherche, egli ebbe il dono della forma rapida e assoluta: non era Kafka che si poneva al tavolino dopo ore di lavoro di ufficio, senza schemi né abbozzi, e subito trovava l'espressione definiti­ va di un pensiero tremendamente complesso. Se gli scrit­ tori aridi soffrono di povertà di idee, Proust soffriva per sovrabbondanza di idee e di sensazioni e di sottosensa­ zioni e di sottosentimenti. C'era sempre un ingorgo, che lo faceva piombare nell'informe, e a volte gli faceva crede­ re di non avere talento. Così doveva lavorare come un pit­ tore: scriveva per approssimazioni e velature successive, aggiungendo sfumature a sfumature, colore a colore, rap­ porto a rapporto, trovando alla fine di questo lavoro ine73

sausto la perfezione pastosa e piena di echi del suo stile fondu. Proust non cessò mai di essere un luogo: se vi avesse ri­ nunciato, avrebbe abbandonato la sua capacità di assorbi­ mento e di assimilazione. Non smise mai di essere una spugna passiva, che si imbeveva di ogni sensazione. Ma nella giovinezza non sapeva ancora quali altre doti si na­ scondessero nel suo antro, dove fioriva la digitale purpu­ rea. Laggiù si celava anche un grandioso architetto, un su­ blime legislatore, un pensatore metafisico, capace di costruire una delle ultime cattedrali d'Occidente. E quan­ do concepì la sua cattedrale, conquistò proprio il dono che la madre, il padre, il nonno, Emerson gli imputavano di non avere: la volontà. Chiuso in casa, senza vedere nes­ suno, inflessibile, intangibile, si dedicò soltanto al suo li­ bro, come se nient'altro al mondo esistesse (e nient'altro esisteva) . Si ammalò. Per amore del suo libro, non volle curarsi. Morì per eccesso di volontà, mentre la sua catte­ drale restava incompiuta.

Se Proust non amava sé stesso, se addirittura non pos­ sedeva un io, esistevano gli altri: una folla innumerevole di individui, ognuno dei quali era una persona. Malgrado Du c6té de chez Swann sia apparso ottant'anni fa, forse non ci rendiamo conto di come Proust abbia trasformato la no­ stra visione del mondo. Siamo ritornati ai tempi della gre­ cità pagana, quando una moltitudine di dèi-persone, o di demoni, riempiva ogni angolo della terra. Dal momento in cui Proust ha posato la sua pupilla di mosca o di ape sulle cose, gli individui si sono moltiplicati prodigiosa­ mente. Gli uomini, le donne, i bambini nascondono in sé moltissime sotto-persone, individualità parziali, che spes­ so vivono a lungo. Ed è un individuo quella viola, quel biancospino, quella rosa, quel profumo, quel calabrone, che in nessun modo possono essere confusi con gli altri che, 74

secondo i vocabolari scientifici, appartengono alla stessa specie. Chi potrebbe credere che i luoghi siano soltanto degli ambienti naturali dove noi ci sediamo, passeggia­ mo, dipingiamo un quadro? Come noi, essi sono indivi­ dui: sono unici, situati in un solo punto della terra, hanno un nome, li raggiungiamo a fatica; e non c'è nessuna diffe­ renza tra un incrocio di strade, una piccola collina con de­ gli alberi di melo che confondono le loro ombre al tra­ monto, e questa ruga, questo ciuffo di capelli, questa linea del naso nel volto della persona amata. Se amiamo una donna o la piccola collina con gli alberi di melo, non è per­ ché la donna sia bella, colta, intelligente e la collina somi­ gli a un quadro di Corot. Li amiamo perché sono assoluta­ mente irripetibili, e non assomigliano a nessun' altra persona e a nessun altro luogo della terra. C'è qualcosa di abissale nell' amore che Proust consacra all'irripetibile unicità di una persona. Il primo sentimento di Proust verso un individuo era di provare uno slancio infinito di riconoscenza perché esiste­ va, e perché era proprio lui e nessun altro. Questa ricono­ scenza la provava profonda dentro il cuore: ma non basta­ va; essa non poteva restare celata dove gli altri non vedono. Allora il «demone della generosità» lo afferrava: doveva effondere il suo cuore e deporlo ai piedi dell'altro solidificato in un oggetto, metamorfosato in un regalo, o in una moltitudine di regali. Proust parlava di demone e non aveva torto: questo slancio di espansione e di auto­ dissoluzione, quasi di autodistruzione, che torturò Proust per tutta la vita, era un istinto intimamente demoniaco. Potrei portare molti esempi reali. Preferisco ricordare un passo più innocente del fean Santeuil, che con ogni pro­ babilità è tratto da un avvenimento reale. Verso la fine del romanzo, Jean pensa alla zia Henriette. Rivede i suoi oc­ chi, i suoi modi, le sue parole amichevoli, la sua familia­ rità rara e graziosa. All'improvviso ha una riconoscenza infinita per lei, e decide di farle un regalo. «Le manderò dei fiori. » Ha fretta. Ci vuole un quarto d'ora per arrivare 75

dalla fioraia, e vorrebbe già ricevere il ringraziamento del­ la zia. Prende una carrozza per arrivare prima. Intanto pensa che ha solo cinquanta franchi e, quando avrà com­ prato i fiori, non gli resterà più nulla per il resto del mese. Tanto peggio. Andrà a piedi. Quando è dalla fioraia, vede dietro il banco un arbusto sorridente che, come una bella e innocente prigioniera, leva verso il cielo le braccia cari­ che di fiori: ognuno è largo e brillante come una rosa e il suo color zafferano rivela l'infallibile ardimento di un co­ lorista delizioso, mentre il profumo carezzevole vola via dall' arbusto. Ma ecco, più oltre, c'è un lillà che tende i suoi fiori, leggeri e violetti, che pullulano dolci e numero­ si come i finissimi riccioli di una testa antica. I cinquanta franchi non bastano. J e an va da un gioielliere e vende il diamante che gli ferma la cravatta: col denaro che gli re­ sta, acquista una piccola pietra, fosca e azzurra, tremante e brillante, che sembra conservare un'ora del pomeriggio; e la manda dalla zia insieme alle due piante. La funzione del regalo non è finita. Emigrato dalla bottega del fioraio e del gioielliere, diventa il messaggio di Jean nella casa ami­ ca: lui stesso è diventato un oggetto, un ospite muto, un occhio che raccoglie i colori e le ombre dell'appartamento nella fedeltà silenziosa delle sue pupille. Il processo non era reversibile. Proust, il grande dona­ tore, l'uomo che avrebbe dissipato la sua sostanza in rega­ li, - non poteva, a nessun patto, accettare regali dagli altri. Verso la fine del febbraio 1 908, andò a trovare il pittore Paul Helleu nel suo studio di Parigi. Vide un quadro, Au­ tomne versa illais, che gli piacque moltissimo: «C' è tutto, tutto il cielo, tutti gli alberi, tutta la terra, tutta l' acqua, tutta l' ombra, tutta la luce . . L'indomani Helleu gli mandò il quadro: il regalo scatenò una tempesta quasi tra­ gica nell' anima di Proust. Sentiva con forza dolorosa qualsiasi, anche minimo, piacere che gli venisse fatto, qualsiasi gesto affettuoso che si posasse sul suo capo di paria. In quell' istante si sentiva amato in ciò che era e per ciò che era : la sua riconoscenza era immensa, provava .

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l'amore che rice­ viamo (qualunque amore) è un dono infinito che non po­ tremo mai ricambiare, per quanto grande sia la nostra gratitudine. Un altro avrebbe accettato con gioia il dono: cosa c'è di più bello che ricevere con cuore puro, liberan­ doci per un attimo dal terribile rapporto di dare e avere, che regna sulla terra? Proust non poteva accettare: si sen­ tiva in colpa per aver ricevuto senza aver dato, come se cl-ù è oggetto d'amore fosse un reietto; e doveva annullare la colpa, cancellare il debito insostenibile. Così cominciò una lunghissima e comicissima vicenda tra boulevard Haussmann e la casa di Helleu. Dapprima Proust disse che il quadro sarebbe stato prigioniero e infe­ lice in casa sua, dove non si aprivano nemmeno le fine­ stre; e affermò, citando dei versi di Sully-Prudhomme, che perfino piacere a esagerarla; capiva che

«Saremmo infelici insieme sebbene tutti e due innocenti».

Voleva rinviare il quadro a Helleu. Poi, mentre stava per !asciarlo, la sua bellezza lo trattenne: non poteva perdere una simile gioia, sentiva il quadro pronunciare due versi di Dante Gabriele Rossetti: «Mi chiamo quello che avrei potuto essere, se tu avessi voluto, quello che avrebbe po­ tuto essere, e non è stato» . Allora si offrì di acquistarlo. «Capitemi, capite che non posso prenderlo, ditevi che se me lo lasciaste comprare, sarebbe forse ancora più genero­ so da parte vostra perché appagando una gioia mi toglie­ reste il sentimento crudele di non poterlo tenere . . C ' è qualche volta una suprema delicatezza nel condiscendere agli scrupoli degli altri.» Helleu rifiutò. Obbedendo al suo destino, Proust gli rimandò il quadro. Helleu glielo rinviò di nuovo con una dedica. Disperato, senza risorse, ma in­ flessibile nella sua triste necessità interiore, Proust inca­ ricò la fedelissima Madame Catusse, sua messaggera nel mondo della realtà e dei doni, di acquistare una vecchia caravella olandese d'argento: oppure un paravento in oro, che si sarebbe adattato ancor meglio ai damaschi rossi, ai .

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mobili dorati, alle stoffe chiare dei salotti di Helleu. Così la vicenda si chiuse. Almeno questa volta, Proust si illuse di essere alla pari con la vita. Il regalo, o il rifiuto del regalo, ci lascia sulle soglie di quella tragedia che, per Proust, è l'esperienza dell'indivi­ duo. Forse nessuno scrittore sentì, come lui, l'assoluta al­ terità dell'altro, la brama di diventare altro, la totale meta­ morfosi nell'altro, il fallimento di questa metamorfosi e poi la capacità di rappresentare nell'arte sia questo suc­ cesso sia questo fallimento. Proprio perché l'altro era un abisso verso il quale non conduceva nessun ponte, cresce­ vano in lui il desiderio e l'ansia di raggiungerlo. Questo desiderio aveva moltissimi soccorsi: in primo luogo, il do­ no quasi sovrannaturale di capire i sentimenti e le idee più remote da lui: la tenerezza morbida e radiosa che si avvicinava agli esseri per condividerne ogni piega; e poi il dono di trasformarsi in una moltitudine; e infine quella specie di sottile, inebriato stato di trance, che gli amici specie nella giovinezza riconoscevano in lui, sia di fronte a un arbusto sia a una persona sia a una colom be poi­ gnardée. Alla fine il desiderio era comunione senza limiti, identificazione assoluta, identità di anime: Proust diven­ tava un estraneo appena intravisto, o un albero di melo. Non era l'incontro di due anime solide: le due anime per­ devano la loro scorza, diventando anime pure, cioè so­ stanze liquide che si versavano, si imbevevano, si bevevano, si assorbivano l'una nell'altra. Il rapporto con l'altro aveva un carattere così intenso e assoluto nell'animo di Proust, che doveva venire traspo­ sto nel linguaggio dell'esperienza religiosa. C'è un caso quasi sconvolgente. Alla fine del settembre 1 90 8 , un amico di Proust, Georges de Lauris, riportò la rottura del femore in un incidente automobilistico. Proust scrisse una lunghissima lettera al suo corpo ferito, nella quale la dolcezza insinuante e quasi perversa del desiderio omo­ sessuale, la tenerezza piena di miele, l'unzione devota, l' eloquenza amorosa, la forza di possesso culminano 78

(qualcuno dirà: empiamente) nell'adorazione e nel canni­ balismo religioso. « È sempre delizioso vedervi, ma ades­ so è ancora più dolce, e ciascuna delle vostre membra mi­ racolosamente protetta, le vostre belle mani, così dolci, che qualche volta, quando esprimo un dubbio sulla vo­ stra amicizia, cercano le mie in un movimento di elo­ quenza persuasiva, il vostro corpo intero, la cui andatura, oggi interrotta ma non modificata, è la sola che conosca interamente priva di attitudini convenzionali, rapida verso ciò che desidera o da cui si sente desiderata, e so­ pratutto i vostri occhi, nella parte inferiore dei quali fa così presto cupo se una tristezza è passata nel vostro cuore, ma al fondo dei quali si strappano e si azzurrano delle schiarite così magnifiche, - ora tutto il vostro corpo vorrei vederlo e toccarlo . . . Mi sembra di aver amato trop­ po esclusivamente fino a oggi il vostro spirito e il vostro cuore, e ora gustere� una gioia pura ed esultante, come il cristiano che mangia il pane e beve il vino e canta Venite adoremus, a dire accanto a voi la litania delle vostre cavi­ glie e le lodi dei vostri polsi.» Il linguaggio religioso rive­ la che l'identità è annullamento mistico, non importa se sia l'altro o l'io a venire assorbito. Se l'altro era lontano, come poteva stabilirsi l'identità amorosa? Per tutta la vita, dalle pagine dei Plaisirs et les jours fino alle ultime lettere, Proust ricorse ancora una vol­ ta al linguaggio religioso, come in una cifra stilizzata, che doveva evocare un turbine di memorie. Nella teologia cat­ tolica, si afferma che il corpo di Cristo ha una presenza reale nell'ostia, anche se gli occhi umani non possono scorgerlo. Proust usò la stessa formula. Un amico o una persona ama­ ta avevano una presenza reale accanto a lui e dentro di lui, sebbene fossero separati dalla distanza di una lettera o di una linea telefonica. Il loro corpo era lì, come l'ostia nel ci­ borio. «Più semplicemente, se la tua serata non permette che io ti ritrovi da qualche parte, non prenderti la pena di rispondermi, e mi contenterò è il pane quotidiano della mia solitudine - della tua presenza reale. >> Specie negli ulti-

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mi anni, la vita di Proust fu popolata quasi soltanto da que­ ste «presenze reali», suscitate dal ricordo, molto più inten­ se di quelle della vita quotidiana, dove crediamo di scorge­ re i corpi e i volti. L'assenza diventava presenza, in modo totale e quasi ossessivo; e il linguaggio sacro esprimeva, come nessun altro avrebbe potuto, questo paradosso di presenza-assenza, che è uno dei grandi temi di Proust. La felicità assumeva molte forme in Proust: felicità che danno le Idee, felicità luminosa dei ricordi involontari, fe­ licità della musica, dei quadri, della realtà visibile, perfino piccola felicità della conversazione. Ma nessuna felicità era così ardente come quella che gli dava l'altro indivi­ duo, quando si prolungava, si moltiplicava in lui, diven­ tava lui; e il liquido della sua anima si confondeva e si mescolava col liquido dell'altra anima. Proust conobbe questa felicità: non sappiamo quando e con chi; ma certo la conobbe, sia pure per pochi istanti, la ricordò e la rim­ pianse come uno dei beni essenziali della vita. Alla fine, la conclusione della Recherche fu terribile. Questa felicità non esiste. L'abisso, che aveva creduto di superare per sempre nel suo rapporto con l'altro, si riforma dentro questo rap­ porto, più alto, massiccio, impenetrabile della Grande Muraglia. Gli altri sono incomprensibili. Negli altri non si penetra mai. Il mistero che si estende tra due individui non è meno oscuro di quello che divide l'Idea e la Realtà.

Forse la felicità non aveva importanza. Ciò che impor­ tava veramente, nella vita e nell'opera di Proust, era il do­ lore. Egli sapeva (e lo ripeteva alla madre in una lettera del 1902) che il suo grande dono era quello della sofferen­ za. Tutto ciò che accadeva intorno a lui (fosse pure la cosa più indifferente, lontana, senza significato, senza rappor­ to con lui) veniva subito interiorizzato: cadeva, piombava nel suo cuore, lo colpiva, lo feriva e lo faceva sanguinare. Come era veloce la sofferenza! Perché - dice la Recherche 80

«la forza che fa più volte il giro della terra in un secondo, non è l'elettricità, ma il dolore». Come quello di Baudelai­ re, il suo cuore era un'immensa cassa di risonanza: il dolo­ re irradiava velocissimo, risuonava, e dal cuore investiva tutto il corpo, e poi si prolungava nel passato, e si esten­ deva, si estendeva, si estendeva ancora, fino a che tutto l'universo fosse una sola ferita, una sola irradiazione, una sola musica dolorosa. Il dolore era la vera arma per penetrare nel cuore degli altri: uno strumento al quale nessuno era pari. Aveva letto Schopenhauer, e come lui pensava che l'amore puro fosse «per essenza pietà)). E pietà, compassione era anche l'ami­ cizia. Lui non credeva che l'amicizia fosse una «voluttà tutta spirituale e casta )), come scrisse una volta a Vau­ doyer: l'amicizia dei filosofi e di Cicerone. Non era nulla di così limitato e misurato: ma sofferenza, rinuncia, sacri­ ficio, perdita di sé, immolazione dostoevskijana. Ebbe la rivelazione di cosa fosse per lui l'amicizia, quando ascoltò il Pa rs ifa l di Wagner. Giunse alla scena nella quale Kundry bacia Parsifal. In quel momento Parsifal ha un gesto di spavento: preme il cuore con le mani: baciando Kundry, ha rinnovato in sé il bacio di Amfortas, la sua passione, la sua colpa, la sua piaga, che ora sanguina terribilmente nel proprio cuore. Egli è diventato Amfortas, con un'identifi­ cazione assoluta, perché la sua sola scienza è: Durch Mit­ leid wissend, «sapere attraverso la compassione)). L'illumi­ nazione di Parsifal colpì profondamente Proust, tanto che la paragonò, in una nota della Recherche, all'illuminazione che rivelava al suo eroe, nella biblioteca dei Guermantes, l'essenza della memoria, del tempo e dell'eternità. Come per Parsifal, questa era dunque la sua scienza: Durch Mit­ leid wissend: una veggenza generata dal dolore, e che ge­ nerava dolore, e gli consentiva una coincidenza totale con l'anima degli altri, come quella che permetteva al principe Myskin, nell'Idiota, di comunicare con gli ultimi momenti di un condannato a morte. Così Proust provava una straziante compassione per i 81

dolori degli altri: li faceva propri: li esagerava con l'imma­ ginazione: capiva chi era il più colpito dalla sciagura; e la sua dedizione per gli ammalati, per i sofferenti, per gli sventurati, per i peccatori, non aveva limiti. Con il suo do­ no di simpatia, riusciva sempre a mettersi dal punto di vi­ sta del sofferente. Ogni morte - anche lontana, o di qual­ cuno che non conosceva o conosceva poco - diventava una tragedia. Non finiva di pensare al morto; e riversava sul sopravvissuto l'affetto che aveva portato al defunto. Se era morta una madre, la voce e la penna tremavano: perché questa morte anticipava quella di sua madre o la rinnovava nel cuore sanguinante. Non era una pietà ino­ perosa. Come il buon Samaritano, «fasciava le ferite ver­ sandovi sopra olio e vino». Faceva il medico, utilizzando l'esperienza che desumeva dal suo corpo, malato di tutte le malattie. Se non sapeva aiutare sé stesso né suscitare l'amore, consolava gli amici, riconciliava gli amanti e gli sposi, utilizzando la sua chiaroveggenza psicologica e il suo desiderio della felicità altrui. Davanti alla morte, ripe­ teva il gesto e le parole del sacerdote. Nelle lettere di con­ doglianza piangeva le sue lacrime sul morto, come il più intimo e prossimo dei parenti; e alla fine accennava una vaga, futura consolazione, quando il dolore si sarebbe dolcemente trasformato «in una luminosa e triste medita­ zione». Alla fine, tutta questa pietà, questa compassione, questa esperienza del dolore, che devastarono la vita di Proust, si trasformano, in poche pagine del Temps retrouvé, in un su­ blime mito platonico della sofferenza. Non è troppo presto per parlarne. In quelle pagine, da principio Proust non ci conforta. Il dolore è tremendo. Ci distrugge, ci rovina, ci conduce verso la morte: «A ogni nuova pena troppo forte, sentiamo un'altra vena che sporge, che sviluppa la sua si:­ nuosità mortale lungo le nostre tempie, sotto i nostri occhi. Ed è così che si formano a poco a poco i terribili volti deva­ stati del vecchio Rembrandt, del vecchio Beethoven, di cui tutti si facevano beffe». «l dolori sono dei servitori oscuri, 82

detestati, contro i quali si lotta, sotto il cui dominio si cade ogni giorno di più, dei servitori atroci, che non possiamo sostituire, e che per vie sotterranee ci portano alla verità e alla morte. » Noi non possiamo fare a meno d i questi servitori oscu­ ri, perché essi strappano la cattiva erba dell' abitudine, dello scetticismo, della leggerezza, dell'indifferenza. Ma i dolori non svolgono solo questa funzione negativa. Incar­ nano una forza più alta, che obbedisce al principio della metamorfosi universale. Siccome le forze dell'universo si trasformano in altre forze e l'ardore diventa luce e l' elet­ tricità del fulmine può fotografare, così anche il sordo mal di cuore che ci tortura diventa una forza, mette in moto l'immaginazione e il pensiero, genera la conoscenza spiri­ tuale, produce la luce di un'idea, come le grandi intuizio­ ni psicologiche di Proust sull'amore e la gelosia. Allora può accadere che la sofferenza così trasformata ci dia gioia. Forse questo processo psicologico si può rappresen­ tare nel modo opposto. Al principio non sta il dolore ma l'Idea, nata dall'attività analogica della mente, e il dolore è solo il modo che essa sceglie per manifestarsi e apparire nel nostro cuore. Ci avviciniamo al mondo platonico, al quale Proust è profondamente legato. Quando scorgiamo in terra un vol­ to dall'aspetto divino, noi rivediamo nel ricordo - dice Platone nel Fedro la bellezza sovraceleste, come l'abbia­ mo contemplata una volta, risplendente sul suo piedistal­ lo. Siamo storditi e sconvolti: non siamo più padroni di noi: un brivido di sacro orrore ci assale; e qualcosa dei no­ stri timori di allora si insinua nelle nostre anime. Guardia­ mo la bella immagine terrestre e la veneriamo profonda­ mente. L'anima ribolle, fermenta, palpita, e porta lo sguardo verso l'alto, dove stanno le Idee, come un uccello appena nato, impaziente di volare. Allo stesso modo, nel Temps retrouvé, le persone che ci fanno soffrire (cioè le per­ sone che amiamo, perché esse ci fanno sempre soffrire) so­ no un «riflesso frammentario», l' «ultimo gradino» di una -

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divinità o di un'Idea. Non dobbiamo dunque soffrire sor­ damente e oscuramente, senza percepire nient'altro che la ferita del cuore. Nelle persone che ci danno dolore, dob­ biamo percepire la divinità di cui esse sono il riflesso e l'ultimo gradino: ogni incontro terribile, ogni ferita san­ guinante ci fa conoscere l'Idea, di cui esse ci trasmettono l'apparenza terrena. Attraverso le creature, noi contem­ pliamo la divinità, e questa contemplazione dà luce e gioia. Popoliamo la nostra vita di miti creati dal grande Eros doloroso, signore dell'universo. Questo mito della sofferenza è un'interpretazione della vita di Proust. I suoi amori non furono che dolore: perfino quello con Hahn e forse con Lucien Daudet, e tanto più quelli per Bibesco, Fénelon, Agostinelli, e gli altri di cui non sappiamo nulla. Soffrì, oscuramente, sordamente. Al­ la fine, popolò la propria vita di emanazioni celesti, che vennero trasformate nelle divinità tenebrose dei suoi libri.

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VI

L' asma

Il dolore non era qualcosa che viveva lontano da lui, e ogni tanto gli faceva una visita desiderata o indesiderata, come uno straniero. Abitava stabilmente dentro di lui, co­ me una parte essenziale della sua natura. Se ne accorse per la prima volta quando era bambino. Soffriva di asma da fieno. Il dottor Martin gli disse che delle cauterizzazio­ ni nasali avrebbero impedito l'azione del polline. Il bam­ bino aveva una tale fiducia nella scienza degli adulti, che si lasciò fare centodieci cauterizzazioni: «Ora andate in campagna, non potrete più avere la febbre da fieno» gli disse il dottore. Tranquillo e sicuro, il bambino andò in campagna col padre e la madre. Quando incontrò il primo lillà in fiore, che avrebbe dovuto essere del tutto inoffensi­ vo, venne assalito da una tale crisi di asma, che i piedi e le mani gli divennero violacee come quelle degli annegati. Dopo quarant'anni, scrivendo a Léon Daudet, Proust ave­ va ancora terrore di quell'aggressione tremenda, causata insieme dal suo io e dalla natura, i quali avevano stretto fra loro una sinistra alleanza. Intorno al 1 895 l'asma di Proust diventò un sistema, ge­ nerando malattie secondarie, abitudini, rituali, che tra­ sformarono completamente la sua vita. Non si poteva mai p1;evedere quando giungesse: apparentemente era senza causa, non dipendeva da nulla, si manifestava quando voleva, in qualsiasi stagione o clima, - in qualsiasi condi­ zione fisica e morale, come «una personalità morbida, ca85

pricciosa e autocratica>>, così scriveva l'intelligente dottor Brissaud, nella sua L'hygiène des asthmatiques, che diventò una delle bibbie di Proust. Ecco, all'improvviso, giunge­ va. Il tempo favorito era la notte, quando il malato dormi­ va profondamente. Lo risvegliava all'improvviso e lo ter­ rorizzava. Per venti o trenta o quaranta ore, Proust subiva la crisi d' asfissia : non poteva respirare, né parlare, né mangiare, né scrivere: impallidiva, aveva sudori freddi, il corpo gelava; e la febbre saliva fino al delirio. Doveva re­ stare immobile come un cadavere, attendendo che l'atroce divinità se ne andasse, mentre la madre e la domestica lo ricoprivano di coperte e di borse di acqua calda. Questo era soltanto il principio. Non poteva dormire la notte, sia perché voleva restare, sveglio, a fronteggiare gli assalti imprevisti della sua nemica: sia perché l'asma cau­ sava una digestione lentissima; il cibo (perfino un bicchie­ re d'acqua di Vichy) dilatava lo stomaco, veniva assorbito penosamente, e gli impediva di dormire. Terribile compa­ gna dell'asma diventò l'insonnia, che lo lasciava per ore a occhi aperti, mentre lui avrebbe voluto addormentare l'in­ conscio, che si svegliava urlando. Così prendeva sonnife­ ri, che col tempo, ingeriti in dosi sempre più massicce, provocarono vertigini, afasie, turbamenti della coordina­ zione e dell'equilibrio. Non poteva salire le scale: oppure lentamente, gradino dopo gradino, senza dire una parola . Aveva terrore di ogni soffio d'aria, di ogni tenue respiro di vento che pene­ trasse nell'appartamento, portando con sé gli odiati polli­ ni: una finestra aperta, tanto più nella notte, era un evento tragico, da raccontare rabbrividendo alla madre; tutto do­ veva restare chiuso, come in una tomba. Aveva sviluppa­ to una sensibilità acutissima, per cui avvertiva uno spira­ glio nella lontana cucina, separata da lui da sette porte, o nell'appartamento di sopra. Aveva sempre freddo: la ca­ mera da letto era scaldata giorno e notte anche d'estate; e maglie sopra maglie, cappotti sopra cappotti, ciuffi di co­ tone idrofilo tra la pelle e la camicia dovevano impedire 86

che l'aria, il più perverso e ostile degli elementi, entrasse in contatto con il suo corpo malato. Così difeso, poteva co­ minciare la lunga, spossante, impotente battaglia contro l'asma, che lo riduceva vittima della sua nemica. Fumare sigarette antiasmatiche era nulla. Beveva decine di tazze di caffè, che tenevano lontane le crisi, ma rendevano più acuta l'insonnia. Faceva fumigazioni la mattina, o più vol­ te al giorno, bruciando vicino al letto delle polveri Legras, che trasformavano la stanza in un antro delle streghe, do­ ve si formavano e si dissolvevano delle pesanti nuvole oscure e bluastre, lasciando detriti su ogni lenzuolo, su ogni mobile, su ogni libro, su ogni quaderno. In certi periodi pensava soltanto al suo corpo infelice: lo spirito restava ostinatamente rivolto verso il corpo, «come un malato, nel suo letto, resta con la testa rivolta contro il muro». Aveva orrore della vita: aveva orrore di quella co­ sa spaventosa, respirare e ancora respirare, vivere; e insie­ me era del tutto indifferente alla vita. Forse era già uscito dalla sua cerchia. Certe crisi erano talmente spaventose, ventiquattro, quaranta ore di rantoli che assomigliavano già all'agonia: aveva letto nel suo Brissaud che ogni crisi distrugge qualcosa nell'organismo e affretta il momento finale. Seneca, scrisse una volta a Montesquiou, aveva detto che in tutte le altre malattie, si è malati: nell'asma si esala l'anima: per questo i medici la chiamano meditatio mortis, «preparazione alla morte», «esercizio della morte». Forse era addirittura di più, come raccontò nella Fin de la jalousie: l'asma era già la morte installata dentro di lui. Non ho alcun desiderio di interpretare l'asma di Proust. Non sono un neurologo, o uno psicanalista; e anche per un neurologo o uno psicanalista non è possibile diagnosti­ care la malattia di un uomo morto settant'anni fa, che ha lasciato testimonianze sparse e mascherate sul suo male. L'unica cosa significativa è capire cosa fosse l'asma per Proust. Non c'è una verità sola. Talvolta ricercava ipotesi organiche: aveva l'impressione che riguardasse in primo luogo il suo corpo; pensava che sia l'asma sia la sua inson87

nia di origine asmatica avessero cause intestinali. Tutto si sarebbe risolto con delle buone pillole lassative. Ma Proust era un appassionato lettore di libri di medicina e di neurologia. E nel suo Brissaud leggeva che, secondo certi studiosi, l'asma convulsiva è più frequente tra gli ipocon­ driaci; e che se un paziente fosse guarito da quella nevrosi che è l'asma, l'avrebbero rimpiazzata altre nevrosi, come l'epilessia, la follia, la nevralgia del trigemino, tanto che quasi sempre il malato avrebbe perso nel cambio. Su un fatto quasi tutti i medici che egli conosceva erano d' accor­ do: l'asma è una nevrosi. N o n era certo se fosse giusto guarire, come gli raccomandava il professor Merklen, che gli parlava di certi istituti tedeschi dove facevano «perde­ re l'abitudine» della malattia, come «si demorfinizzano i morfinomani». Invece il professor Albert Robin gli disse che non voleva guarirlo dall'asma: perché, data la forma che essa aveva preso nella sua esistenza, era divenuta per lui uno sfogo, e lo liberava da altre malattie. Come dimostra la Recherche, Proust aveva una cono­ scenza precisissima della nevrosi. Nel C6té de Guermantes, affidò la sua scienza neurologica al dottor du Boulbon, che è una controfigura parodizzata del dottor Brissaud. Gli fece dire: «La nevrosi è un pasticheur di genio. Non . Tuttavia, l'atteggiamento di Proust era più complicato. La fatalità del carattere era, per lui, un terribile peso: un macigno bi­ blico dal quale allontanare gli occhi; e a tratti sperava di affermare la libertà (che coincideva con la grazia divina) contro l'atavismo e le abitudini del suo passato. Se quella sera Jean non avesse obbedito al suo temperamento, non avesse temuto la notte, non avesse chiamato la madre: se per un aiuto della grazia divina, fosse stato libero dalla necessità, addormentandosi nel lettino, - forse il suo de­ stino futuro (e quello di Proust) sarebbe cambiato. Quella sera tutto mutò. Spossata dai dolori e dai pianti di Jean, la madre si sedette al suo capezzale. Accettò quel­ lo che non aveva mai accettato, dicendo tristemente al do­ mestico: «Non vedete, Augustin, Monsieur Jean non sa nemmeno lui quello che ha, quello che vuole. Soffre di nervi». Dunque il gesto di Jean non è una colpa, di cui do­ veva ravvedersi, ma nasceva da una malattia nervosa, di cui non era responsabile, e che avrebbe dovuto venire cu­ rata. Era un momento terribile. Ottenendo quella piccola vittoria, che gli faceva tanto piacere, Jean venne sconfitto, forse per sempre. La fatalità biblica del carattere lo do­ minò completamente. Non aveva più alcuna speranza di libertà, né di godere la grazia divina . Raccontando la sconfitta di Jean, Proust racconta quella che crede la pro­ pria sconfitta; e non sa ancora che, col tempo, egli avrebbe conosciuto, come pochi, la libertà, la volontà e la grazia. Ma chi resta condannato è Jean Santeuil, almeno per una parte del romanzo. Quella notte cominciarono le sue delu­ sioni e i suoi fallimenti, che dovranno condurlo, triste e invecchiato, «in una città da cui non usciva mai, . . . senza speranze per i giorni che seguiranno» .

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Solo una piccola parte del ]ean San teuil è coperta dall' ombra tenebrosa e fatale, che discende dalla scena primordiale del bacio negato. C'è Illiers, Beg-Meil, il ca­ stello di Réveillon: il passato remoto, il passato prossimo e poi quasi il presente, che Proust registra con una specie di gioia febbrile. Il passato remoto non è perduto, come nella Recherche; e non è necessaria nessuna difficile arte di ne­ gromante, nessuna coincidenza di oggetti, per rievocarlo. Non c'è frattura tra passato e presente. Nessuno, tanto meno chi scrive (Proust o il romanziere C.), ha tagliato la strada d'accesso che porta all'Eden dell'infanzia. L'infan­ zia è dietro la porta aperta: accanto a noi, dentro di noi. E quanto alla vita passata un anno o due prima insieme a Reynaldo Hahn a Beg-Meil e a Réveillon, ai sogni sulla spiaggia, alle gite sul mare, ai pranzi dove i flutti dorati delle uova brillavano gioiosamente - sembra un passato vivente. Esistono pochi libri, nella letteratura d'ogni tempo, do­ ve la felicità scoppi con un impeto così sovrabbondante e trionfale, come in queste parti del ]ean San teuil: felicità vissuta, che si moltiplica per cento volte mentre parla e racconta di sé. Non importa che sia euforica, come è sem­ pre quella di Proust giovane. È una felicità totale, che riempie il corpo, colma lo spirito, scende nelle profondità, accarezza le superfici col suo unguento miracoloso. È lieto il corpo che dorme, si sveglia e, la mattina, gode il calore che le fiamme del focolare diffondono nella stanza da let­ to: è lieto il corpo che mangia le meraviglie uscite dalla cucina, coscia di pollo arrosto, filet sauce béarnaise, uova al lardo, e digerisce, godendo con dolcezza «il sentimento della pienezza della vita»: è lieto l'occhio, davanti al quale passano i colori, ravvivati dal sole, del mare blu e verde, delle vele bianche, delle navi nere: è lieto l'orecchio, che ascolta la musica di Schumann o quella delle mosche, «musica da camera» dell'estate; è lieto il cervello dove si agitano raggiando, molteplici e velocissime, le idee che cambiano e si trasformano. Questa felicità non può restare 1 05

chiusa nell'io e nel corpo. Jean Santeuil (e Proust) non avrebbe alcuna gioia se non potesse espellerla fuori da sé, per abbracciare il mondo, - il mare e il sole dissolto nel mare, i meli e i papaveri tremanti al vento, la toilette e i fazzoletti imbevuti nel latte della luce, le rose color porpo­ ra e le ombre dei piccioni grigi che calpestano l'erba. Questa felicità ha un nome: è luce. Che orgia, che estasi di luce, come non la troviamo in nessun pittore impressio­ nista. Tutta questa parte del libro è intrisa di raggi e di ri­ flessi di sole, che splendono in ogni pagina. Il regno della luce trionfa nel giardino di llliers: il quale è insieme il re­ gno dei cieli nel giorno della Resurrezione, e l'Eden, inse­ diato sulla terra. Il sole è Dio-padre, che troneggia nell'az­ zurro del cielo aperto: mentre i fiori sembrano gli innumerevoli, grandi angeli nel Giorno Finale, rappresen­ tati dai pittori del Rinascimento, angeli dipinti di un rosa, di un blu, di un aranciato vivissimo; e le farfalle e gli uc­ celli paiono piccoli angeli alati. «Ecco il regno felice verso il quale i riflessi del sole, facendo una scala felice dal cielo al giardino, dal giardino alla nostra finestra, dalla nostra finestra al nostro letto, si offrivano di condurci. Ecco il re­ gno felice dove nulla aveva segreti per nulla, dove il cielo era in fondo ai fiumi, il sole lungo i muri, e le farfalle così belle battevano silenziosamente le loro ali blu o bianche o nere dagli occhi di fuoco, uscite non si sa dove tra i fiori.» La luce liquida, che bagna le foglie e i fiori «come donne che escono dall'acqua», è presente in qualsiasi luogo, in qualsiasi angolo e non finisce mai. Si insinua nella cupa im­ mensità delle chiese, dove attraversa le vetrate blu e azzur­ ro sangue che avrebbero dovuto intercettarla, e si riposa gaiamente sulla pietra grigia di un pilastro. La ritroviamo trasformata: eccola divenuta fuoco, cioè luce umana, limi­ tata, utile, senza poesia: o uno di quei grandi serbatoi caldi che si chiamano lampade; o focolare, rossa illuminazione imprevista nella cucina oscura. La ritroviamo perfino, co­ me un «dio nascosto», trasformata nel suo contrario: le om­ bre nerissime dei piccioni splendenti a forza di essere nere; 1 06

e un giorno, divenuto vecchio, Jean Santeuil preferirà ad­ dirittura il riflesso e l'ombra allo splendore pieno del sole. Alla fine il trionfo della luce è tale da volatilizzare i rami bruni e le foglie verdi degli alberi in un vago fogliame d'oro, annullando così la consistenza e la sostanza del mondo reale. Non ci sarà mai più tanta luce nel mondo di Proust: nella Recherche essa smorzerà la sua violenza, sia pure per splendere incontaminata nella rivelazione finale. La pittura di Chardin, con i bicchieri vuoti o a metà pie­ ni, con i grandi vasi, le fragili ostriche, la razza e il gatto, protegge tutto il Jean Santeuil. Non c'è alcuna gerarchia tra gli oggetti: tutte le cose hanno una loro poesia; la «musica da camera» delle mosche che Jean ascolta nelle giornate di gran caldo, quando le persiane sono tirate, le strade silen­ ziose, le finestre chiuse, e le membra sembrano sparse e sle­ gate attorno al corpo, non è meno incantevole di quella di Schumann. Quante «nature morte» ci sono nel fean San­ teuil: stanze da letto, stanze da pranzo, cucine! In realtà so­ no nature vive: se chiudiamo una stanza, la contrazione di una brace, l'eruzione delle scintille tra le silenziose convul­ sioni del fuoco, la caduta di un petalo di iris, l'orologio che suona, ci dimostrano che le cose vivono, lontane da noi, la loro sorda germinazione, le loro esistenze segrete. Se di colpo entriamo nella stanza, sembra che la nostra presenza faccia sbocciare la loro attività silenziosa e latente. In certi momenti calmi e quieti - l'ombra riempie il fon­ do della stanza, la luce imbianca il piede del letto, la pen­ dola fa tic tac, la cuoca chiacchiera, il fondo misterioso della cucina è illuminato dai rossi riflessi del braciere invi­ sibile - ci accorgiamo che le cose sono circondate dalla bellezza che c'è nel puro fatto di essere, e di essere nient'altro che quello che sono. Tutto ciò che esiste, per il solo fatto di esistere, è bello e sacro. Così Proust trasforma la rivelazione oggettiva di Chardin in una mistica della pura esistenza, come Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos o il primissimo Kafka. Passivo come una cera, at­ tento a ciò che vede e ascolta, sempre sulla soglia dove il 107

visibile incontra l'invisibile, il poeta raccoglie le forme e gli echi di tutte le cose, non lasciando perdere nemmeno il profumo di un fiore o il sapore di un arrosto. Fuori dalle stanze di Chardin, si estende l'immensa na­ tura: la natura vivente, con le spesse e brillanti corone di foglie degli alberi primaverili, che ondulano ridendo al vento nel sole, con le ombre delle foglie al suolo, fresche come l'acqua dei fiumi e le migliaia di piccole onde che si spingono sulla riva - le quali fanno provare a Jean San­ teuil «lo stesso rapimento di una vita innocente e amabile, svelta, gioiosa, infaticabile, ma anche dolce, leggera, pic­ cola come una fossetta o un ricciolo, e infinita, che non si stanca mai, si riprende senza posa» . Le foglie, le acque e i fiori gli mostrano quello che ci circonda come un mondo eternamente giovane, misterioso e pieno di promesse inaudite. Tutto si armonizza in questo mondo: i boschi, le vigne, le pietre, la luce del sole, le nuvole. Salvo in rari momenti, dove la natura sfugge al suo abbraccio, Jean Santeuil vive in corrispondenza perfetta con la natura. Se­ guendone le orme, Proust diventò totalmente natura: ne condivise la vitalità oscura e misteriosa, la mobilità, la leg­ gerezza, le metamorfosi, le brillanti apparenze, la luce che la imbeve, con un tocco che ricorda quello di Monet im­ pressionista. Ma, a Proust, la mirabile fedeltà oggettiva del primo Mo­ net non bastava. Con una felicità che si rinnova ogni istan­ te, egli tradusse le figure della natura in creature umane: antropomorfizzò il mondo. Non lo fece per sottrarre alla natura ciò che è suo, e annetterla all'uomo: ma, come Ovi­ dio, per riempire il mondo di figure mitiche, rintracciando dèi nascosti e visibili in ogni plaga dell'universo creato, moltiplicando gli dèi, e giocando insieme a loro con una fantasia amabile e sorridente, che qualche volta si prende gioco di ciò che ha inventato. Tutto fiorisce, e si muove, e si diverte, e scherza col mondo e con noi. Ecco i lillà arbore­ scenti, che qualche volta superano in una sola freccia, come un campanile colorato, il tetto basso delle case, altre volte 1 08

mescolano sul tetto i loro arazzi floreali con animazione gioiosa; oppure si chinano sulla strada, e vengono a cercare col loro profumo il passante che cammina sul marciapiede opposto, come una piccola folla silenziosa di domestici orientali, usciti dalle Mille e una notte. Ecco i biancospini, grandi come un melo o un ciliegio, che fanno cerchio attor­ no al lago, con le lunghe braccia orizzontali, le mani fini e tese, a cui sono annodate innumerevoli nappe di fiori rosa. Ecco l'albero di camelia, coperto di larghi fiori rossi e rosa, che sorride come una donna che ha appena partorito. Tutto l'universo genera, mai stanco, figure mitiche. Nella stanza dove Jean riposa, la fiamma della stufa si muove e si agita come una massaia attiva e gaia, che comincia le sue faccen­ de, prepara e lucida le cose attorno al suo giovane padrone: le stanze sono sfingi enormi e immobili, il sole è un vecchio amico che si sveglia prima di noi: i galli intonano le fanfare del reggimento; e fra poco i tre campanili normanni diven­ teranno le tre ragazze di una leggenda, timide, goffe e in­ certe, sino a disegnare una sola forma nera, deliziosa e ras­ segnata, sul cielo ancora rosa.

Cosa voleva ricordare Proust, al tempo del Jean Santeuil, mentre elaborava la propria teoria della memoria? La pro­ pria vita, la vita della società francese, quella dell'univer­ so o addirittura, come disse, le origini dell'universo? Nel­ la Recherche la doppia costruzione memoriale - quella involontaria e quella notturna - finisce per rievocare, at­ torno -all'esistenza di Marcel, un mondo intero, compatto come un edificio. Nel Jean San teuil Proust voleva ricordare soltanto l'unico. L'unico non era altro che la sua esperien­ za, la sua vita: «quello che aveva sentito, le ore stesse che aveva vissuto». Niente di generale: qualcosa di «irrepara­ bile», che nulla poteva sostituire o contenere o rimpiazza­ re, e che nemmeno l'arte poteva imitare o tradurre in pa­ role. Nessuna cosa era più irripetibile del suono di una 109

campana, che Proust aveva ascoltato in un preciso mo­ mento, o di una torta che aveva mangiato insieme a sua madre. La mistica della pura esistenza veniva messa al di sopra di tutte quelle esperienze che noi chiamiamo uniche: l'opera d'arte, la filosofia o la religione. Il divino stava nel­ la sua vita passata, non altrove. Così egli poteva dire, con una specie di ironia, che il nome di un pasticciere della sua infanzia conteneva per lui più sostanza divina di una reliquia con il sangue di Cristo; e gli artisti o i filosofi non avrebbero mai potuto riprodurla. Tra tutte le immagini della memoria che Proust ha rap­ presentato, nessuna è più grandiosa di quella che appare nelle prime pagine del Jean Santeuil. Qui essa è uno degli angeli giganteschi di Isaia, di Ezechiele e dell'Apocalisse, che il Medioevo ha riprodotto in tante chiese: angeli con volto di toro e di aquila o di leone, con sei ali spiegate, e tutti coperti d'occhi. Il genio della memoria è dovunque in volo attorno alla terra, o sta seduto contemporanea­ mente sui quattro angoli del mondo, «dove palpitano senza posa le sue ali gigantesche». Esso è ubiquo, onni­ presente, e velocissimo. Fa il giro della terra e del tempo più rapidamente dell'elettricità e del telefono che, in un istante, dopo il rumore leggero che ci rivela la soppressio­ ne della distanza, porta al nostro orecchio la voce delle persone amate. Siamo deposti nel passato con una rapi­ dità vertiginosa: dovunque, senza che ce ne accorgiamo, senza nemmeno che sia passato un secondo, e senza che la quiete sia stata turbata. Ma è poi vero che la distanza sia completamente abolita? Nel telefono ne resta una trac­ cia, in quel «rumore leggero». Resta una traccia della lon­ tananza del passato anche negli occhi di Monsieur San­ dre, il nonno di Jean Santeuil. I suoi occhi «guardavano istantaneamente quelle immagini lontane, ma il senti­ mento di quest'atmosfera così lunga di giorni istantanea­ mente attraversati restava comunque tra quelle cose e lui. E c'era nel suo sguardo, come nelle voci ascoltate al te­ lefono, qualcosa come la stanchezza dell'ombra attraver110

sata. Quello che si vedeva nei suoi occhi, era qualcosa di lontanissimo come le stelle}}. Proust voleva sopprimere completamente questa di­ stanza tra la mente che ricorda e la cosa ricordata, assimi­ lando le due immagini del presente e del passato, per ob­ bedire a quel possente appello all'Unità che attraversa il Jean Santeuil. Nascono qui le prime madeleines, le prime pietre «mal squadrate}} del cortile dell'Hotel de Guerman­ tes. Ce ne sono molte di più che nella Recherche, quasi Proust volesse disseminare la sua scoperta conoscitiva con una specie di generosa e leggera abbondanza. Ne ricorderò soltanto qualcuna. Ecco la prima. Quando era bambino, Jean Santeuil ascoltava i primi tintinnii lonta­ ni dell'Angelus, che lo richiamava a casa per la cena . Dieci anni più tardi, un giorno che si sentiva vagamente rattri­ stato dal rimpianto degli anni perduti della sua infanzia, sentì di colpo un suono spensierato e leggero battere alla parete dell'orecchio. Un altro seguì, poi un altro, e uno a uno i battiti dolci e profondi delle campane di una cappella lontana giunsero fino a lui, portati dal vento. Scorse attra­ verso le lacrime, al tramonto, la sua ombra di bambino. Spiava ogni tintinnio con un timore crescente che si inter­ rompessero, ma ne sentiva presto palpitare un altro, così vicino a lui e così lontano, che gli sembrava di sentire il suo cuore lontano di un tempo battergli melodiosamente nel petto. Ecco la seconda reminiscenza. Quando abitava a Il­ liers, nei pomeriggi d'estate, chiuso nella stanza con le fi­ nestre chiuse, ascoltava la «musica da camera}} delle mo­ sche, che erano la musica e la poesia di quei giorni. Molti anni dopo, in un tempo triste, obbligato a restare a Parigi l'estate, e credendo che la poesia di quei giorni fosse ormai perduta, Jean sentì all'improvviso la rivelazione sonora delle mosche vicino a lui. Cresceva. E rivedendo di colpo i bei giorni di Illiers, i meli in fiore nel prato, la pesca nello stagno, Jean «ringraziava quelle innocenti musiciste che venivano accanto a lui ad annunciargli ardentemente che doveva rallegrarsi, che non era né al di fuori della natura 111

né dell'estate perché era vicino a loro, e nella loro canzone monotona gli dicevano la gloria eterna dell'estate». Nei due casi la distanza viene abolita: l'identità è perfetta; due momenti di tempo si sovrappongono l'uno all'altro. Siamo appena agli inizi della ricerca memoriale di Proust, che egli continuò per tutta la vita, scorgendo in essa il pilastro che doveva attraversare e poi sorreggere la sua opera, come la più salda delle fondamenta. Nel fean San­ teuil, questa ricerca prende due forme: la prima è una meta­ fisica delle cose, la seconda una metafisica dell'Essere. Co­ me si fa a riprodurre quell' un ico, quell'irripetibile che è la nostra vita passata, fuggita così lontano da noi? Secondo Jean Santeuil, esistono le cose «così commoventi, che si so­ no fatte nel tempo stesso che la nostra giovinezza scorre­ va» . Ecco i toni verdi di cui si sono a poco a poco ricoperti i tronchi degli alberi, i toni verdi che hanno preso i tubi che conducono l'acqua in fondo al bacino: ecco l'acqua divenu­ ta verde; e la curvatura che i muschi invisibili hanno inflit­ to ai tubi. Queste cose, che sono cambiate mentre Jean San­ teuil cambiava, sono le reliquie oggettive del suo passato: lo riflettono come il più fedele degli specchi; e conservano l' unico, l'immateriale che egli credeva perduto. Mentre Jean passava l'estate tra le montagne, il pallido riflesso del sole sulle foglie delle vigne gli ricordò gli stessi trasparenti giochi del sole autunnale sulle foglie, dorate dall'autunno, delle vigne di Beg-Meil. Allora comprese che se i nostri affetti per gli uomini sono passeggeri e vani (tut­ to cambia, tutto si dissolve, ciò che abbiamo amato dobbia­ mo !asciarlo per amare altre persone), i nostri amori per le cose non sono né passeggeri né vani. Le cose restano. Le ri­ troviamo identiche quando noi siamo cambiati: rimarran­ no le stesse anche dopo la nostra morte; e consegnando lo­ ro il nostro cuore, noi coltiviamo qualcosa di profondo e durevole, che esiste fuori di noi, e creiamo in noi qualcosa di ugualmente durevole. Così Jean comprese che, se non avrebbe mai più desiderato Mademoiselle Kossichef, rico­ mincerebbe sempre con la stessa gioia ad andare sulla bar112

ca al tramonto nella baia di Beg-Meil, a scrivere al sole nel vento guardando il mare, sulla terrazza dove il sole illumi­ nava le foglie già rosse e ancora verdi delle vigne bretoni. Dobbiamo salire l'ultimo gradino di questa ricerca me­ moriale, dove non più le cose o la natura, ma lo spirito crea l'eterno. Mentre J ean Santeuil percorreva in carrozza la campagna, di colpo gli apparve il lago di Ginevra, nella pace delle quattro di pomeriggio, mentre i solchi tracciati dai battelli sull'acqua si estendevano e si anno­ davano come dei lunghi fili bianchi. Scorgendo il lago, ri­ cordò il mare in riposo, con i solchi immobili dei battelli, simili a corde abbandonate dietro di loro, come gli appa­ riva nelle sue passeggiate attorno al castello di Réveillon. Un'altra volta egli scorse un'identità: un' analogia, che non aveva cercato. E fu felice. In quel momento comprese che, per lui, la bellezza e la felicità consistevano in quella sostanza invisibile che si chiama immaginazione, la quale non può nascere dalla realtà presente, e nemmeno dalla realtà passata restituita dalla memoria. La bellezza e la fe­ licità nascevano, per lui, dalla realtà passata, quando essa si trovava «presa in tina realtà presente» : quando un pas­ sato risuscitava improvvisamente in un odore e in una veduta attuali, che faceva risplendere, e sopra i quali pal­ pitava l'immaginazione; quando il suono delle campane infantili si identificava coi battiti dolci e profondi delle campane della cappella lontana, il ronzio delle mosche di Illiers con le vibrazioni delle mosche di Parigi, e i solchi immobili lasciati dai battelli sul mare di Réveillon con i lunghi fili bianchi abbandonati sulle acque del lago di Gi­ nevra. Perché Jean Santeuil era così felice? Soltanto perché aveva abolito la dolorosa distanza tra le immagini velocis­ sime della memoria? O perché un'analogia vivente lo ave­ va colmato di gioia? In quel rapporto tra passato e presen­ te, l'immaginazione, la facoltà metafisica in noi, aveva creato qualcosa di generale, un'essenza, che non aveva più nulla di personale e di limitato. Alla fine del suo gioco col 1 13

passato, liberandosi da ogni rapporto col tempo, l'imma­ ginazione conosceva un «oggetto eterno»; e ora Jean San­ teuil era convinto che la nostra vera natura stesse «fuori del tempo», e fosse fatta «per gustare l'eterno» . Il lungo cammino della ricerca memoriale si era compiuto. Iniziato tra le cose, i tubi coperti di muschio, i suoni di campane e il ronzio delle mosche, esso aveva finalmente condotto Jean e Proust nel Regno dell'Essere. Non dobbiamo credere che questo Regno fosse un scrisse Marie Nord­ linger: «ogni momento lo riempiva di gioia. » Verso mez­ zogiorno, Proust tornava all'albergo, per pranzare con sua madre. Da lontano scorgeva, scrisse nel Contre Sainte-Beu­ ve, l'antica ogiva della finestra dell' albergo inviargli un sorriso discreto; e lo slancio degli archi spezzati aggiunge­ va al sorriso di benvenuto «la distinzione di uno sguardo quasi incompreso» . Vedeva da lontano lo scialle della ma­ dre posato sulla balaustra di marmo, con un libro che lo teneva fermo contro il vento. La madre leggeva, portando in capo un bel cappello di paglia, che le chiudeva il viso con una veletta bianca. Proust la chiamava, e da principio la madre non riconosceva la sua voce. Quando lo scorge1 36

va, gli inviava tutta la propria tenerezza . Il suo amore si fermava soltanto sull'ultima superficie che poteva soste­ nerlo: nel sorriso che avanzava dalle labbra verso di lui nello sguardo che sembrava sporgersi fuori dalle pupille per avvicinarsi fino al suo volto. Al tramonto gli amici si incontravano di nuovo, per una sgondolata. Reynaldo Hahn cantava Biondina bella o i versi di Musset musicati da Gounod: l

«Dans V enise la rouge pas un bateau qui bouge»

o «Au bord de l'eau»,

i versi di Sully Prudhomme, o «Clair de lune», le parole di Paul Verlaine, entrambe intonate da Gabriel Fauré. Se Proust aveva già conosciuto Amiens, la cattedrale­ libro, ora trovava a Venezia, nella basilica di San Marco, il capolavoro glorificato da Ruskin. San Marco era «un immenso messale colorato, rilegato in alabastro invece che in pergamena, ornato di pilastri di porfido invece che in pietre preziose e scritto in caratteri di smalti e d'oro». L'arte e i tesori d'Oriente ne avevano dorato ogni lettera, illuminato ogni pagina, fino a farlo brillare da lontano come la stella dei Magi. Da principio Proust fu deluso. Quel monumento basso, tutto in lunghezza, con le sue aste fiorite e la sua decorazione da festa, gli sem­ brava «un palazzo da esposizione». Ma poi si abituò a quella composita creazione dei secoli, dove tutte le figure dell'Antico e del Nuovo Testamento apparivano sul fon­ do di «una specie di oscurità splendida e di un bagliore cangiante)); e vi si installò come in uno studio freschissi­ mo, dove correggeva, insieme a Marie Nordlinger, la sua traduzione di Ruskin. Un giorno scoppiò un temporale. Il cielo diventò oscuro. I mosaici brillavano soltanto della propria luce e di un «oro interno, terrestre e antico, al quale il sole veneziano . . . non mescolava più nulla di sé stesso)). Tra quegli angeli che si illuminavano delle tene1 37

bre circostanti, Proust leggeva con Marie Nordlinger un brano eloquente e tenebroso delle Pietre di Venezia, sulla decadenza della Repubblica. Come ricordò Marie, Proust era «stranamente commosso e rapito in una specie di estasi». Il luogo di Venezia che forse lo impressionò più profon­ damente, fu la Piazzetta, dove le due colonne di granito grigio e rosa portavano sui loro capitelli greci, l'una il Leone di San Marco, l'altra San Teodoro che calpesta col piede il coccodrillo. Le due colonne, le «due belle stranie­ re)), erano venute molti secoli prima dall'Oriente, e inseri­ vano un frammento di passato, un po' di dodicesimo se­ colo, fuggito da così lungo tempo, nell' attimo presente. Almeno in un primo momento, Proust non ebbe la sensa­ zione che, come nel Jean Santeuil e nella Recherche, passato e presente si identificassero, e dall'incontro scendesse una goccia d'eterno. Era vero il contrario. Il passato era chiu­ so, segregato, inviolabile, nella sua sfera grigia e rosa; e al presente era proibito penetrarvi. Tutt'attorno, i giorni at­ tuali circolavano, si avvicinavano ronzando attorno alle colonne, ma lì bruscamente si arrestavano, fuggendo co­ me api respinte: mentre le due «belle straniere)> non capi­ vano i discorsi scambiati intorno a loro, in una lingua che non era quella del loro paese. La segregazione e la separa­ zione tra passato e presente era assoluta, e nessuna me­ moria, nessuna forza dello spirito avrebbe mai potuto abolirla. Quando scrisse Sur la lecture, Proust ebbe quasi spavento. Quel passato impenetrabile e inviolabile, inseri­ to così a forza nel presente, violando senza rispetto le leg­ gi della morte, lasciava un'impressione irreale, spettrale e sinistra. Non era solo. Goethe e Henry James dedicarono a questo tema, che in Proust resta isolato, alcuni dei loro li­ bri maggiori. «Guardarsi indietro significa imbattersi nel fantasma. )) Proust e sua madre furono a Parigi alla fine del mese di maggio. Proust ritornò a Venezia, da solo, nell'ottobre del­ lo stesso anno, per otto giorni. Non sappiamo nulla di 1 38

questo viaggio, se non che il 19 ottobre firmò il registro dei padri Mechitaristi, nell'isola di San Lazzaro. Forse es­ so si svolse sotto il segno della notte, come il primo si era svolto sotto il segno della luce. Qualche volta la sera usci­ va solo nella città incantata; e si trovava in quartieri igno­ ti. Era raro che non scoprisse qualche piazza sconosciuta e spaziosa, della quale nessuna guida o viaggiatore aveva parlato. Si inoltrava in una rete di calli. Di colpo in fondo a una di queste calli, un campo vasto e sontuoso, di cui altri­ menti non sarebbe mai riuscito a trovare il luogo, si sten­ deva davanti a lui, pallido al chiaro di luna. Era uno di quegli spazi architettonici verso i quali, in un'altra città, si dirigono tutte le strade. Qui, sembrava nascosto intenzio­ nalmente in un incrocio di stradine. L'indomani Proust partiva alla ricerca della sua bella piazza notturna, seguiva delle calli che si rassomigliavano tutte e si rifiutavano di dargli la minima informazione, salvo per fuorviarlo meglio. A volte un vago indizio gli faceva supporre che stava per apparire nella sua claustra­ zione, nella sua solitudine e nel suo silenzio, la bella piaz­ za esiliata. In quel momento un cattivo genio, che aveva preso l'aspetto di una nuova calle, lo faceva ritornare sui propri passi, e si ritrovava ricondotto bntscamente al Ca­ nal Grande.

La venerazione per Ruskin durò per qualche anno. Ave­ va visto in lui la colonna di fuoco, la porta, la vigna, la vite: l'aveva ammirato, vivendo a lungo in una condizione dol­ cemente passiva; e a poco a poco si liberò dalla sua servitù, cercando di riacquistare l'autonomia del suo spirito. Si ri­ bellò con una durezza, una crudeltà, un'ingiustizia che hanno meravigliato molti lettori. In realtà, nella sua vita Proust rinnovò spesso questo gesto distruttivo, quando proiettava su un altro, contro un altro, il profondo bisogno di mutamento e di movimento che lo agitava. Nell'ultima 1 39

parte dell'introduzione alla Bibbia d'Amiens, aveva già ac­ cusato Ruskin di idolatria, cioè di estetismo, e di menzo­ gna: poi Proust avvicinò quell'austero profeta a un dandy crudele come Robert de Montesquiou; e aggiunse che «del­ le dottrine immorali sinceramente professate» sarebbero state meno pericolose per l'integrità dello spirito. Nell'in­ troduzione e nelle note a Sesamo e i gigli (pubblicato nel 1906), giunse al massacro: fu continuamente preso dal de­ siderio di contraddire il suo maestro e di rovesciarne punto per punto, con cavillosità e rancore, tutte le affermazioni. Non c'era nulla che si salvasse. Ruskin non possedeva sen­ sazioni autentiche: non conosceva la bellezza «irrazionale» dello stile: le sue metafore erano vaghe; quella smaniosa e ansiosa ricerca di nobiltà gli dava fastidio. Alla fine Proust concluse che Ruskin era un «incorreggibile chiacchierone»; e che spesso i suoi libri erano «stupidi, maniaci, irritanti, falsi e ridicoli». La ribellione contro Ruskin fu una ribellione contro sé stesso, che Proust condusse fino in fondo, con una specie di feroce nichilismo. Aveva creduto nella bellezza del mondo esterno, sia nelle nature morte di Chardin, sia nell'incanto dei lillà, dei biancospini e delle rose, sia nelle grandi cattedrali-libri. Ora diceva a sé stesso, come Emer­ son, che le cose non sono belle se non per la parte di «bel­ lezza infinita», che il nostro spirito raccoglie intorno a lo­ ro. Aveva creduto nella lettura, pensando, come Cartesio, che fosse «una conversazione» con i grandi scrittori dei secoli passati e ne aveva sperimentato su sé stesso tutte le virtù curative, immaginando che i libri rispondessero a tutte le nostre domande. Ora si accorgeva che la lettura poteva far nascere soltanto dei desideri. La lettura «sta sulle soglie della vita spirituale: essa può introdurci in lei; ma non la costituisce» . Non c'è nulla di peggio della pas­ sività cui ci invita: questo vivere alla superficie in una per­ fetta dimenticanza del proprio io profondo; imma ginando che la verità sia una cosa materiale, «deposta tra i fogli dei libri come un miele preparato dagli altri». 1 40

Aveva creduto nell'amicizia, specie quando aveva co­ nosciuto Bibesco e Fénelon, e quell'esperienza aveva la­ sciato in lui sopratutto rancore e delusione. Ora parlava con ferocia «di tutte quelle gentilezze, di tutti quei saluti nel vestibolo che noi chiamiamo deferenza, gratitudine, devozione e dove mescoliamo tante menzogne» : calun­ niando sé stesso perché lui non si era mai arrestato nel ve­ stibolo di nessuna cosa. Aveva amato la conversazione, parlando per ore nei salotti e nei caffè di Parigi. Ora soste­ neva che «nella conversazione . . . , la comunicazione ha luo­ go per il tramite dei suoni, lo choc spirituale è indebolito, l'ispirazione, il pensiero profondo, impossibile». Così con un solo gesto, come quando Faust maledisse «il bel mon­ do», distrusse la bellezza della realtà, la lettura, l'amicizia, la conversazione. In tanta distruzione di idoli, non gli re­ stava più che una cosa: lo spirito creatore dell'uomo, che trova la verità, forma la bellezza, costruisce i libri-catte­ drali, che nascono da quelle «regioni profonde, segrete, quasi sconosciute a noi stessi», dove riceviamo le immagi­ ni, le idee, le parole. Proust doveva prepararsi alla prossi­ ma irruzione in lui di questo spirito; e nelle note a Sesamo e i gigli scrisse un bellissimo saggio sulla letteratura, che prescriveva le leggi della sua futura creazione. Senza questa ribellione contro ogni Maestro, senza que­ sto elogio entusiastico della creatività spirituale, compo­ sto in uno dei momenti più tragici della sua vita, Proust non avrebbe mai potuto scrivere né il Contre Sainte-Beuve né la Recherche, dove la creazione spirituale e artistica tro­ va cenni ancora più trionfali. Ma, come tutti i grandi si­ gnori della metamorfosi, Proust aveva il dono di recupe­ rare tutto ciò che aveva negato. Continuò ad ammirare gli avvolgimenti, le vibrazioni e le iridiscenze della sintassi di Ruskin; e le immagini dei Pittori moderni e delle Pietre di Venezia riapparvero, ora in piena luce, ora trasformate, in alcuni dei punti cruciali della Recherche. Continuò a legge­ re, e a concepire i propri temi personali come variazioni dei temi altrui. Nessuno rappresentò con colori e suoni 141

più radiosi la bellezza del mondo creato: così folta, così spessa, così intricata, così ricca di volume e di peso. Seb­ bene fosse «un ateo dell'amicizia)), conservò un «tenero cuore d'amico)). Continuò a conversare con gli amici, e le sue parole, piene di razzi colorati, di fantastiche invenzio­ ni e di tenerezze, non finirono di attraversare le notti di Cabourg e di Parigi.

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Vita e morte con la madre

Quando il padre morì, Proust realizzò il sogno, che aveva accarezzato nel Jean Santeuil, di vivere solo «con la sposa del padre». Era il 26 novembre 1 903. In apparenza, la ma­ dre non era cambiata. Già pochi giorni dopo la morte del marito, percorreva la casa, dava ordini ai domestici, si oc­ cupava del figlio, eseguiva le mille incombenze della vita casalinga con la calma energia di una volta. Aveva soltanto immaginato qualche piccolo rito. Lasciò la camera da letto dove dormiva da qualche tempo, per tornare nella camera del marito scomparso, insieme al quale aveva dormito per tanti anni. Celebrava come un sacro anniversario il 24 di ogni mese, il giorno in cui Adrien Proust era caduto a terra, paralizzato e senza conoscenza: ogni martedì, anniversario dello stesso giorno, pochissimi intimi varcavano le porte di casa. Ma il figlio, che aveva ascoltato la voce spezzata e sanguinante della madre nel telefono di Fontainebleau, sa­ peva cosa si nascondesse dietro quella calma: sapeva in quale profondità, e con quale violenza, il dolore avesse sconvolto la sua anima. Aveva paura di quella calma, e os­ servava la madre ogni istante. Lei non alzava più la voce, evitando qualsiasi inflessione brusca, come se qualcosa di duro potesse far male ai suoi morti. Aveva conservato qualcosa «del gesto di infinito rispetto, di timidezza infini­ ta, di infinita dolcezza col quale, al cimitero, aveva lasciato cadere, come spaventata» la leggera palata di terra sulla bara di sua madre. 143

Il figlio era pieno di rimpianti e di rimorsi verso quel padre bonario, gentile e indulgente, che non aveva com­ preso, e qualche volta odiato e disprezzato. Quel 24 no­ vembre, in cui il padre era caduto a terra perdendo «la dolcezza di vivere)) gli sembrava terribilmente vicino: la ' mente e il tempo non riuscivano ad allontanare quel gior­ no. La domenica prima della morte, aveva litigato con lui: l'eccessiva certezza delle sue affermazioni politiche lo aveva ferito; aveva detto «delle cose che non avrebbe do­ vuto dire)). «Non posso esprimervi quale pena ora mi fa questo. Mi sembra che è come se fossi stato duro con qual­ cuno che non poteva già più difendersi.)) E poi non pote­ va nasconderselo: con i suoi folli orari, le sue medicine, la sua inattività, le sue spese, era stato «il punto nero)), «la sola nuvola)) nella vita del padre. Così, ritornava indietro con la mente: idealizzava l'esistenza familiare che, chiuso in casa per la malattia, aveva condotto negli ultimi anni: cancellava · i contrasti; si diceva che aveva abolito certi aspetti del proprio carattere che dispiacevano al padre, e credeva che lui fosse «abbastanza soddisfatto di me)). La dolcezza di quella intimità familiare gli era rimasta, e la sentiva in ogni istante. Non gli restava altro. Non aveva ambizioni, che potessero consolarlo: viveva solo di quella vita, che adesso era desolata per sempre. Cercò di attuare un ultimo desiderio del morto. Aveva rinunciato all' edi­ zione della Bibbia d'Amiens: la madre gli disse che il padre non aveva desiderato altro, e ne attendeva la pubblicazio­ ne di giorno in giorno. Obbedì a questo desiderio: riprese il lavoro; e dedicò «teneramente)) il libro alla memoria del padre, «morto lavorando)). Questa morte non fu una rottura irrimediabile, come sarà quella della madre due anni più tardi. Con le sue abi­ tudini e consuetudini la vita familiare ricominciò. Proust avrebbe voluto perfezionare questa vita, ritornando ai tempi della prima giovinezza : alzandosi di nuovo alla stessa ora in cui la madre si alzava, prendendo il caffè e latte con lei, dividendo i sonni e le veglie nello stesso spa144

zio di tempo, nelle stesse stanze, nella stessa temperatura, secondo gli stessi principi. Fu l'illusione di pochi giorni. Qualche mese più tardi, Proust pranzava di nuovo alle undici di sera. Ma le tensioni, che avevano reso difficile la vita familiare negli ultimi anni, erano cadute. La madre ri­ nunciò a tutte le sue pretese e rivendicazioni. Accettò la sconfitta. Non cercava più di guarire il figlio dalla malat­ tia. Non nascondeva più la propria tenerezza per lui, co­ me aveva fatto per tanti anni, quando voleva contenere le manifestazioni della tenerezza del figlio, e prepararlo a diventare un adulto. Così Proust e la madre vissero ancora per quasi due an­ ni insieme, nel sogno reciproco di un'assoluta e quasi mo­ struosa identità edipica. Come diceva il figlio, erano dive­ nuti un solo cuore, una sola persona. Lei era la Vigilatrice, la regina del Silenzio e della Quiete, che allontanava ogni rumore dai sonni e dagli incubi del figlio: era la serva amorosa, che faceva tutte le commissioni richieste, anche le più faticose, nel caldo luglio di Parigi; e ogni mattina, quando il figlio si addormentava, veniva a dargli il bacio della buonanotte, perché compisse senza terrore il viaggio sotterraneo nei regni oscuri. Lui viveva «rannicchiato» nel cuore di lei. Le assicurava che non voleva vedere nessun altro: gli altri non gli piacevano; se li incontrava, era sol­ tanto per parlare di loro con lei. Non importava che, alle volte, fosse lontano. Cosa contavano i luoghi e gli spazi? Anche quando era distante, stava sempre vicino al suo pensiero, nell'immaginazione le rivolgeva la parola mille volte al minuto, ed era legato dalla più rapida «telegrafia senza fili» . Non sappiamo quando, m a certo durante quegli anni di vita comune, avvenne una conversazione che Proust rife­ risce due volte, nel Con tre Sainte-Beuve e nella Recherche. Anche questa è una di quelle scene che Proust non dimen­ ticò mai, perché contenevano l'essenza della sua vita. La madre e il figlio parlavano di partenze: «Ma» disse lei, 1 45

«bisogna avere un cuore più duro. Cosa avresti fatto se la tua mamma fosse stata in viaggio?». «I giorni mi sarebbero sembrati lunghi. » «Ma se fossi partita per dei mesi, per degli anni, per. . . » La madre non osò dire: per sempre. Tutti e due tacevano. Nessuno di loro - commentò Proust - aveva mai cer­ cato di provare che amava l'altro più di qualsiasi persona o qualsiasi cosa al mondo. Non ne avevano mai dubitato. Con la discrezione di cui la madre aveva segnato la vita familiare, fingevano di amarsi meno di quanto sembrasse, come se la vita potesse riuscire sopportabile a chi di loro fosse rimasto solo. Il figlio non tollerò che questo silenzio angoscioso durasse: volle consolare e confortare la madre; le prese la mano quasi con calma, l'abbracciò e le disse: «Sai, te lo puoi ricordare, come sono infelice i primi giorni in cui siamo separati. Poi, sai come la mia vita si organiz­ za diversamente. Senza dimenticare le persone che amo, non ho più bisogno di loro, sto benissimo senza di loro. Sono pazzo i primi otto giorni. Dopo resterò benissimo solo dei mesi, degli anni, sempre». Disse la parola terribile: «sempre», per assicurare alla madre che avrebbe potuto vivere felice anche senza di lei. Ma quella parola non poteva restare tra loro sola e defini­ tiva, come un sasso, come un segno dell'eterna separazio­ ne. Il figlio aveva bisogno di consolare la madre, dicendo­ le che non ci sarebbe stato nessun sempre, e che in qualche modo, in qualche luogo, qui o altrove, si sarebbero rivisti un'altra volta, e questa volta davvero per sempre. La sera, il figlio le disse che si era sbagliato. Al contrario di quello che aveva creduto, le ultime scoperte della scienza e le più estreme ricerche della filosofia distruggevano il materiali­ smo, e facevano della morte qualcosa di apparente. Le anime erano immortali e un giorno si sarebbero riunite . . . Il tempo era consumato. Il 26 settembre 1 905 la madre morì; e ancora negli ultimi istanti di vita, con la voce corro­ sa dall'afasia, cercò di rinnovare il vecchio gioco della cita­ zione dei classici (il gioco che incarnava lo spirito della fa1 46

miglia: cultura, discrezione, ironia), con due frasi di Moliè­ re e di Labiche. «E poi» scrisse il figlio tre anni dopo nel Contre Sainte-Beuve «non ha più potuto parlare. Una volta soltanto vide che mi trattenevo per non piangere e ag­ grottò le sopracciglia e fece il broncio e io distinsi nelle sue parole già così confuse: "Si vous n' etes Romain, soyez di­ gne de l' etre" »: il verso di Corneille che gli ripeteva sempre da piccolo, quando lei doveva partire. La salma della ma­ dre rimase ancora due giorni in casa: miracolosamente rin­ giovanita e dimagrita dalla morte, che cancellò tutti i dolo­ ri dal volto, senza un capello bianco, dimostrava trent'anni; e il figlio piangeva e le sorrideva tra le lacrime. Dopo il funerale, la casa, che per tanti anni era stata riempita dalla sua attività, rimase vuota. Il figlio sentiva la presenza della madre in tutto: persino nel silenzio che i domestici facevano attorno a lui, e che era soltanto l'eco vuoto e spettrale del silenzio e della quiete che lei gli ave­ va tessuto amorosamente attorno. n dolore era nascosto in ogni camera, in ogni parete, in ogni oggetto: se esplorava la casa, esplorava delle zone sconosciute del suo dolore, che diventava «sempre più infinito» man mano che vi avanzava. Un giorno, andò in certe stanze dell'apparta­ mento, dove non era stato da tempo. n parquet stridette vi­ cino alla camera della madre: strideva sempre, anche quando era viva; e appena sentiva quello scricchiolio, lei faceva un rumore con le labbra, gli mandava un piccolo bacio, che voleva dire: «Vieni ad abbracciarmi» . Non pote­ va restare in quella casa, «così triste perché era stata così felice». Aveva un'ossessione, che lo aveva già torturato negli ultimi giorni della malattia. Quando la madre era viva, distesa quasi senza parole n�l letto, certo pensava al fi­ glio: sapeva che lui era incapace di vivere senza di lei, che era completamente disarmato davanti alla vita : sapeva che prestissimo sarebbe morta, !asciandolo solo per sem­ pre; e questo pensiero doveva farle conoscere la tortura più atroce. Il figlio non faceva che immaginare e ripetere 1 47

dentro di sé quest'ultima angoscia della madre, che era per lui un supplizio. Non riusciva a dormire: aveva raris­ simi, fragilissimi brandelli di sonno. Allora subito piom­ bavano sopra di lui i sogni: l'intelligenza, che di giorno cercava di dominare e dosare i pensieri, mescolandoli con qualche dolcezza, lo abbandonava; era vittima senza dife­ sa delle impressioni più atroci, dei più terribili incubi. La sognava ancora viva: ma era sempre così triste, così soffe­ rente, che quando si svegliava era quasi un sollievo ricor­ darsi che era morta, e non poteva più soffrire. Scrisse a Montesquiou che la sua vita «aveva perduto il suo solo fiore, la sua sola dolcezza, il suo solo amore, la sua sola consolazione, il suo solo miele». Chi avrebbe placato le sue ansie, adesso che non c'era più lei che lo calmava con qualche parola detta al telefono, con un sorriso o un bacio? Si sentiva abbandonato, senza casa, senza rifugio, senza covile: un vagabondo cacciato dalle Furie; e ripete­ va le parole del Vangelo di Matteo ricordate da Ruskin: «Gli uccelli del cielo hanno dei nidi, le volpi hanno delle tane, ma il Figlio dell'Uomo non ha più un guanciale dove posare la testa». Un mese più tardi gli sembrava, a volte, di essersi abi­ tuato alla sventura: come aveva sempre saputo, l'abitudi­ ne aveva su di lui una forza grandissima; anche la madre apparteneva, come tanti, al regno dei morti. Il dolore pa­ reva meno vivo. L'intelligenza lo conosceva, e se ne era re­ sa padrona. Credeva di averne fatto il giro, e che questa angoscia non avesse più segreti per lui. Ritrovava il gusto di vivere. Se lo rimproverava : ma ecco che subito, nello stesso momento, provocato da un'impressione casuale, il dolore che non ha un solo, ma mille volti, prendeva un nuovo aspetto, diventando un male sconosciuto e terribi­ le. Tutto lo suscitava. Avrebbe voluto uscire finalmente di casa, ma come poteva rien trare, se la sua prima parola era sempre stata : «La signora è in casa?)) . Come le Danaidi, riempiva senza fine le sue urne di dolore. Anni più tardi, confidò a Maurice Duplay che aveva desiderato scompa1 48

rire. Non avrebbe voluto uccidersi, ma lasciarsi morire, ri­ nunciando al cibo e al sonno. Poi pensò che insieme a lui, sarebbe scomparso anche il ricordo che aveva di lei: l'avrebbe trascinata in una morte definitiva; e rinunciò al suo proposito. Sentiva rimorsi tremendi, che non gli lasciavano requie. Aveva torturato la madre con la propria malattia, l'assen­ za di volontà, l' incapacità di vivere. Non le aveva dato nulla: nemmeno un libro. E ora questi rimorsi gli guasta­ vano persino la dolcezza del ricordo di lei, e della vita feli­ ce condotta insieme. Non aveva saputo vedere il lento la­ voro di distruzione operato dalla dolorosa tensione che animava la madre, gli occhi appassiti, le arterie indurite, il cuore sforzato, il coraggio sopraffatto davanti alla vita, il passo allentato e appesantito, la gioia disseccata, lo spirito senza speranza: l'aveva uccisa «con le preoccupazioni e l'inquieta tenerezza» che le aveva ispirato, con l'odio a volte nutrito per lei. Ma si accusava di colpe ancora più gravi e assurde. Come Marcel, nella Recherche, finisce per rimproverarsi di aver «lasciato morire la nonna», così, for­ se, anche lui si rivolse un'accusa simile. Non le aveva im­ pedito di morire: non aveva ostacolato la vittoria della morte; mentre, se veramente l'avesse amata come lei ama­ va lui, avrebbe potuto sottrarla al tempo, alla decadenza, alla distruzione. Aveva dei momenti di remissione e di «silenzioso rac­ coglimento». Allora ritrovava il ricordo delle ore di tene­ rezza, che aveva vissuto con lei; e respirava, pensava, vi­ veva solo in questo ricordo. Nel «silenzioso raccoglimen­ to», tornava indietro con la mente: attirava la madre a sé stesso; e pensava alla sua tristezza di bambino, quando andava ad accompagnarla alla stazione, e lui restava solo e doveva tornarsene a casa. In quei momenti, ritornava vicino a lei. Quando ricevette una lettera di Madame Daudet, così leggera, sottile, misteriosa, poetica, intessuta di veri «fili della Vergine», gli sembrò di leggerla insieme alla madre, che gliene faceva osservare le delicatezze di 1 49

sentimento e di espressione. Dopo la morte della nonna, la madre aveva perduto per qualche tempo il ricordo del viso di lei: anche lui perse il ricordo della voce della madre : quella voce calma, che lo tranquillizzava; ma, all' improvviso, il primo giorno del 1 906, quella voce ri­ tornò, con un potere di evocazione terribile. Gli stava ac­ canto. Comprese che non poteva abbandonarsi all' ango­ scia: doveva vincerla; e guarire la propria malattia, per amor suo. Così, per obbedire alla volontà della madre, all'inizio del dicembre 1 905 entrò nella clinica per malattie nervose del dottor Paul Sollier, a Boulogne-sur-Seine, dove dove­ va trascorrere sei settimane. Da molto tempo meditava quella decisione. Negli ultimi anni aveva letto molti libri di psichiatria: aveva consultato medici; nel febbraio 1 905 aveva quasi deciso di farsi curare nella clinica del dottor Dubois a Berna, poi in quella del dottor Widmer, a Mon­ treux, infine in quella del dottor Jules Déjérine a Parigi. Non pretendeva di guarire. Sapeva di essere troppo profondamente legato alla malattia: sperava soltanto di poter condurre «una vita normale senza essere guarito», uscendo, viaggiando, rivedendo gli amici. Ma temeva la «solitudine e l'estraniamento» della casa di cura. Tutto lascia credere che la clinica del dottor Sollier pra­ ticasse gli stessi metodi raccomandati nei testi psichiatrici del tempo: isolamento assoluto, vita a letto, alimentazione esclusivamente lattea, nessuna lettura. Proust infranse su­ bito le leggi della psichiatria. Ricevette amici, scrisse lette­ re, anche molto lunghe, e dopo quindici giorni diceva già che la cura gli faceva «malissimo». Non aveva alcuna in­ tenzione di guarire, trasgredendo le leggi, che nessuno psichiatra conosceva, del suo «male sacro». Tornò a casa il 24 o 25 gennaio 1 906. Quelle sei o sette settimane gli la­ sciarono pochissimo: l'inizio abbandonato della Recherche, e forse lo smodato amore per il latte che negli anni della scrittura diventò, insieme al caffè, la sua alimentazione quasi esclusiva . 1 50

Quando tornò a casa, trovò il dolore ad attenderlo: tre­ mendo come prima. Per molti anni, continuò ad avere in­ cubi, che registrava nei suoi quaderni e che rielaborò nella Recherche. Sognò la madre negli ultimi giorni: respirava affannosamente e gemeva: «Tu che mi ami, non !asciarmi rioperare, perché credo di star per morire e non vale la pe­ na di prolungarmi» . Sognò il padre morto, che parlava, sorrideva, rispondeva, dando l'illusione assoluta della vi­ ta: «Vedi che quando si è morti, si è quasi in vita». Sognò infine un corteo di spettri lungo una falaise, al tramonto: lui li oltrepassò, senza poterli riconoscere con precisione: tra loro c'era la madre, che gli diceva buongiorno con in­ differenza: era morta ma avrebbe potuto morire di nuovo: non sapeva dove abitasse né con chi; e la sua massima an­ goscia era che forse non avrebbe capito il libro che stava scrivendo. A p òco a poco, scese l'abitudine: la lenta, soa­ vissima, terribile Abitudine, che governava la sua vita. E con l'abitudine venne la dolcezza. Sentiva la madre lenta­ mente rivivere, ritornare, prendere il suo posto, tutto il suo posto, presso di lui. Senza che egli intervenisse con la volontà, i ricordi rinascevano e rampollavano mitemente nella memoria. Si accorgeva che la «morte non dura» . Si diceva che era una dolcezza sapere «che non si amerà mai meno, che non ci si consolerà mai, che ci si ricorderà sem­ pre di più». Una cosa lo faceva ancora soffrire. Nel cupo re.gno sotterraneo dove abitava o nel cielo solcato dalle domande delle Signorine del Telefono, la madre era cieca: non poteva scorgere il figlio su questa terra, non sapeva che vivevano insieme, né che ormai lui non soffriva più per la sua morte. Quando la madre di Georges de Lauris si ammalò, Proust partecipò alle sue sofferenze con simpatia infinita: cqn quel dono che egli solo possedeva di identificarsi con l' a ltro. Quando morì, scorse nella sua morte la ripetizione della morte della madre; e si faceva raccontare ciò che era accaduto per rinnovare le proprie sofferenze. «Non potete dir nulla che io non ascolti non dico con interesse o sim151

patia ma con una vera avidità dolorosa. Sappiate, Geor­ ges, che non penso mai più a nessun'altra cosa . . . » Giunse a farsi prestare la fotografia della morta, per guardarla meglio, da solo. Quando vide quegli occhi vigilanti, quell'espressione del basso del viso così caparbia, «nella dolcezza inesorabilmente conservata, nella rassegnazione al dolore e nell'intera devozione», gli parve di ritrovare i lineamenti di chi lo aveva lasciato. Forte della sua scienza del dolore, fece una raccomandazione a Lauris. Doveva cercare di restare passivo, inerte, attendendo che la forza incomprensibile che lo aveva spezzato lo risollevasse, al­ meno un poco: «Dico un poco, perché conserverete sem­ pre qualcosa di spezzato». Non doveva commettere l'er­ rore che aveva commesso sua madre, quando aveva cercato di fissare il ricordo della nonna, e non c'era riusci­ ta, o aveva ritrovato solo immagini crudeli, in un lampo del sonno. «Gli occhi del ricordo finiscono per non vedere più niente, quando li si fissa troppo. » Doveva soltanto cercare di sopravvivere, lasciando che tutto avvenisse in lui senza collaborazione della volontà: allora le immagini della madre sarebbero rinate da sole, senza abbandonarlo mai più. Non si sentiva più solo, orfano, senza un nido, senza una tana, senza guanciale su cui posare la testa. Non era più un individuo, ma un figlio: prendeva il posto dei ge­ nitori nelle vicende quotidiane, facendo quello che essi avrebbero fatto, scrivendo lettere, felicitazioni e condo­ glianze a loro amici quasi sconosciuti. Poteva guardare in­ dietro, verso la madre, e rivolgerle appassionatamente il sorriso più tenero. Perché sorridiamo ai morti? « È per cer­ care di ingannarli, di rassicurarli, di dire loro che possono stare tranquilli, che avremo coraggio, per far credere loro che non saremo più infelici? O, piuttosto, questo sorriso non è altro che la forma dell'interminabile bacio che noi diamo loro nell'Invisibile?)) Quante volte Proust dovette pensare a quella conversa­ zione che aveva avuto con la madre, quando la rassicurò 1 52

che un giorno si sarebbero rivisti. Non aveva convinzioni filosofiche precise: non era certo dell'immortalità dell'ani­ ma, sebbene i nuovi filosofi l'affermassero; né della rein­ carnazione, sebbene pensasse che la spugna dell' oblio non cancella del tutto, nella nostra mente, i ricordi della vita precedente. L'immortalità dell' anima era per lui, in primo luogo, una religione della famiglia: una religione della madre. Era convinto che sua madre e lui fossero due persone speculari: nulla esisteva nell'uno che non trovas­ se nell'altro la sua ragione d'essere, il suo fine, la sua spie­ gazione, il suo tenero commento: ognuno di loro era la traduzione dell'altro; ed era convinto che dall'inizio del mondo fino alla consumazione dei secoli, nessuno dei mi­ liardi di esseri umani avrebbe mai potuto rimpiazzare lui per lei, lei per lui. Come era possibile che due esseri simili si incontrassero «soltanto un istante, per caso, nell'infinito dei tempi» ? e che non si ritrovassero più? La loro tenerez­ za aveva un carattere di eternità . Questi pensieri, che Proust si ripeté per tutta la vita, lo consolavano. Ma, d'al­ tra parte, in lui c'era un aspetto di ostinato materialismo: l'eternità era un fatto che si vedeva, si odorava, si ascolta­ va. Quando morirono Bertrand de Fénelon e Robert d'Hu­ mières, scrisse che «i morti vivono talmente in me che non poterli trovare sulla terra, mi sembra una specie di non­ senso, e che sono un po' nella condizione di spirito di un pazzo» . Tutti questi motivi confluirono nei due grandiosi miti quasi gnostici che Proust elaborò nella Recherche: la morte di Bergotte, il Septuor di Vinteuil. In un testo gnostico del I o del II secolo, il Canto della perla, un giovanissimo princi­ pe vive in un lontano regno d'Oriente. ll «re dei re» è suo padre, la regina sua madre; e una folla di principi e di di­ gnitari si affolla nelle sale dei grandi palazzi, colmi di ric­ chezza e di gioia. Il padre e la madre gli tessono una veste colorata e splendente, ornata d'oro e di berilli, di calcedo­ nii e di sardonii: questa veste è il suo doppio celeste, il suo io permanente ed essenziale, che sta al di là dei fenomeni 1 53

dell'apparenza, insieme diverso e identico a lui, come so­ no diverse e identiche una figura e la sua immagine rifles­ sa. Anche nei miti di Proust c'è un regno d'Oriente, sebbe­ ne non porti questo nome. La Recherche ricorda che, per qualcuno di noi, come i grandi artisti, esiste una patria sconosciuta: un mondo differente dal nostro, fondato sul­ la bontà, lo scrupolo, la delicatezza, il sacrificio, il genio artistico e artigiano. Lassù vivono le Leggi: qualcuno, non sappiamo chi, le ha tracciate dentro di noi; e verso di esse noi contraiamo delle obbligazioni. Poi, in entrambi i miti, avviene la caduta. Il giovanissi­ mo principe lascia il cielo: viene inviato in Egitto, il regno della materia, a liberare una perla prigioniera : l'animo umano. Quando giunge in terra, per nascondersi agli oc­ chi ostili degli Egiziani, il principe indossa il loro abito impuro, il corpo d'acqua e di terra. Appena mangia il loro cibo, cade in un sonno profondissimo, che gli fa dimenti­ care la sua origine regale, la veste luminosa, la perla che avrebbe dovuto liberare. Intorno a lui nessun segno gli ri­ corda il cielo: c'è solo la perla, ma nel mezzo del mare, cu­ stodita da un serpente. Anche in Proust noi dimentichia­ mo la nostra patria sconosciuta: cadiamo in questo mondo degradato, veniamo chiusi nel doppio carcere del­ la terra e del corpo. Ma, intorno a noi, quanti segni della vita anteriore! Ci sono gli alberi di ciliegio e di pero, fioriti a primavera, queste grandi creature bianche meraviglio­ samente chinate, questi angeli risplendenti, che custodi­ scono i ricordi dell'età d'oro, e garantiscono la Promessa. Ci sono le melodie di Vinteuil, con la loro speranza miste­ riosa, il colore scarlatto dell'Apocalisse, il mistico canto del gallo, le frasi interrogative sempre più pressanti e in­ quiete, la trionfale gioia sopraterrestre, accordata all'uni­ sono con la patria perduta. E anche gli uomini, perché so­ no buoni, delicati, educati, perché dipingono con tanta scienza e raffinatezza un piccolo muro giallo di Delft, se non perché hanno contratto un' obbligazione con la vita 1 54

anteriore? Mai un antico o moderno scrittore gnostico avrebbe trovato tanti segni nel nostro mondo degradato. La conclusione dei due miti non è identica. Nel mito gnostico, il giovane principe si risveglia dal sonno della dimenticanza, libera la perla, lascia il corpo di terra sulle rive d'Egitto; e torna nel suo regno dove ritrova il Padre, la Madre, e la veste luminosa, con la quale si identifica completamente, la comprende e ne viene compreso, la ama e ne viene amato, ricomponendo la scissione dell'io. Proust non era certo che il «regno d'Oriente» esistesse. Non sapeva se ognuno di noi possedesse un doppio cele­ ste. Sperava soltanto di tornare dove abitavano le Leggi e sua madre, mentre gli angeli della Resurrezione aprivano trionfalmente le ali.

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Parte seconda ATTORNO ALLA RECHERCHE

I

Cabourg e la fuga

Alla fine del luglio 1 906, Proust volle fuggire. Voleva la­ sciare la casa: il suo cimitero, il suo carcere, il suo passato. Aveva cento progetti: una villa presso Cabourg, insieme a un amico, un albergo o una villa a Trouville, uno yacht col quale costeggiare le rive della Normandia; o la Bretagna. Ma la fuga, sia per la malattia dello zio, sia per altre, più profonde ragioni, fallì. Fece solo un piccolissimo tentativo a due passi da casa. Il 6 agosto giunse all'Hotel des Réser­ voirs di Versailles: si installò in un appartamento immen­ so, triste, nero e ghiacciato, pieno di quadri, di arazzi e di specchi dove il sole non osava mai penetrare. Si ammalò subito. I primi giorni scorse dal letto gll ultimi raggi di so­ le illuminare gli alberi del parco; e forse immaginò di visi­ tare il castello e il Trianon e di osservare ogni giorno il len­ to ingiallire, trasformarsi e cadere delle foglie, così ben accordato con tutto quello che, in lui, appassiva, si disper­ deva e moriva. In quasi cinque mesi, non mise mai piede fuori dall'al­ bergo. Il giorno dormiva: dormiva profondamente, come i morti: gli sembrava di stare chiuso in una tomba o in una cabina telefonica; e, qualche volta, quando apriva gli oc­ chi alle otto di sera, si chiedeva se era a Versailles o se qualcuno, nel sonno, come in uno dei racconti orientali che amava, l'aveva trasportato all'altra estremità della ter­ ra. Non voleva vedere nessuno. Se gli amici insistevano per andare a trovarlo, ripeteva con una sorda e tenace vio159

lenza che era impossibile: faceva freddo, lui era malato e si alzava tardissimo. Una volta osò confessare: «Ho biso­ gno in questo momento di una morte momentanea, con la sensazione che i vivi mi hanno dimenticato». Durante la notte, durante quelle interminabili ore nelle quali aveva una confidenza così piena, durante quelle ore talvolta così misteriosamente luminose, talvolta ango­ sciose, talvolta piene di presentimenti, - cosa faceva? Ve­ deva sovente René Peter: una sera assisté a una partita di biliardo all'albergo: cenò con i vari amici che avevano osato violare la sua segregazione; e leggeva Dumas e il David Copperfield. Non scrisse una riga. Il resto di quelle migliaia di ore ci resta oscuro, e vorremmo penetrare nel grande appartamento triste, ghiacciato e nero dell'Hotel des Réservoirs, sotto lo sguardo abbrunato di quegli specchi che contemplavano la figura sempre più pallida di Proust. Sopra questi mesi aleggia un'aria tragica, gon­ fia di mistero e di preannunci. Certo vide, in quello sce­ nario sinistro, in quel luogo di nessuno, in quel nulla, in quel regno dell'eterna notte, il simbolo del suo fallimento e disastro definitivo. Era qualcuno che aveva «perduto tutto e non poteva più perdere nulla» . Ma, proprio in quei mesi di «morte momentanea», dimenticato e lontano dai vivi, dove aveva toccato il fondo, forse sperò nella ri­ generazione. Forse esplorava il suo passato, cercando di capire cosa gli era rimasto. Come una madre nutre il fi­ glio ancora ignoto dentro il suo corpo, forse preparava la propria esistenza futura, e migliaia di notti riempite dalla stesura della Recherche, le notti senza le quali non avrebbe saputo scrivere. Negli stessi mesi in cui abitava a Versailles, Proust di­ resse dal letto un trasloco: uno degli eventi epici della vita borghese. Con l' energia di un generale alle manovre, la passione di un grande attore, la pervicacia di una zitella isterica, mise in scena quella che oggi ci sembra una di­ vertentissima pochade tragica, degna di essere rappresen­ tata sulle tavole della Recherche, facendo trasportare i suoi 1 60

mobili dal numero 45 rue di Courcelles al numero 102 di boulevard Haussmann. Voleva abbandonare la casa della famiglia, troppo grande, costosa e piena di ricordi; e si ri­ volse a delle agenzie immobiliari. Pochi giorni dopo ave­ va molti indirizzi di appartamenti in affitto: a rue Wa­ shington, rue Chateaubriand, rue d'Artois, rue de Berri, rue de Prony, rue des Saussaies, rue de Ribot, rue du Cherche-Midi, piace Louvois, rue Margueritte. Malato co­ me era o come voleva o immaginava di essere, non poteva lasciare Versailles; e sguinzagliò uno stuolo di amici e di portieri perché guardassero quelle stanze con i suoi occhi. Desiderava una casa nuova, che lo liberasse completa­ mente dal proprio passato: silenziosa, senza alberi, senza polvere, in un luogo elevato. Inseguiva i suoi messaggeri con domande sempre più ansiose. L'appartamento aveva il soffitto alto o basso, dava sopra un giardino, aveva un cortile lastricato o in terra battuta, e il salone era grande? Nei primi giorni di ottobre, aveva deciso: avrebbe affit­ tato un appartamento a rue de Prony. Non dormiva per l'angoscia: desiderava e temeva di iniziare una vita nuova in un luogo sconosciuto, lasciandosi dietro le spalle la presenza silenziosa del padre e della madre. Alla fine rup­ pe le trattative, e risolse di subaffittare l'appartamento al numero 1 02 di boulevard Haussmann, dove un tempo aveva abitato il prozio Louis Weil. Questo appartamento non gli piaceva e non era adatto per lui: gli sembrava l'abitazione di un «Nucingen meno ricco e molto più tar­ divo». Era di cattivo gusto; e poi era pieno di polvere, un albero si affacciava contro i vetri della finestra, un tram sferragliava per il viale. Tutto minacciava la sua asma e i suoi sonni. Ma la madre aveva salito insieme a lui quelle scale, i suoi occhi avevano guardato quelle pareti, si erano affacciati a quelle finestre: gli sembrava che lì avrebbe vis­ suto nell'ombra di lei. Non era ancora pronto per la sepa­ razione definitiva. Più tardi, quando fosse riuscito a miti­ gare, a pacificare, ad allontanare i ricordi, avrebbe potuto abitare in case nuove, forse in un'altra città e in un altro 161

paese. Pieno di desiderio, figgeva gli sguardi in quel futu­ ro meraviglioso e impossibile. L'impresa era appena iniziata. Ora cominciò la seconda parte del trasloco: bisognava ammobiliare l' appartamen­ to, e Proust si rivolse sopratutto a Madame Catusse, una vecchia amica della madre, che sfruttava con innocente fe­ rocia ogni volta che doveva scendere sul terreno della realtà. Madame Catusse era - così l'aveva descritta da ra­ gazzo - «molto graziosa di volto, capelli neri, pelle liscia e vellutata, occhi chiarissimi, molto vivaci e dolci, vita mol­ to sottile, grassottella, piuttosto piccola che grande, molto spirito e grazia A letto, ammalato, immerso nella mor­ te e nel nulla, Proust cominciò a guidarla da Versailles con interminabili lettere quotidiane, meticolose come i catalo­ ghi di una biblioteca, e possedute da un mite delirio. Urtò subito contro una difficoltà fondamentale. L' appartamen­ to di boulevard Haussmann era (almeno per l'epoca) ab­ bastanza modesto: aveva un grande salone, un piccolo sa­ lone, una stanza da pranzo, una grande stanza da letto sul viale, una piccola sul cortile, l' anticamera, il servizio: mentre l'appartamento di rue de Courcelles era immenso e mostruosamente pieno di mobili. Ora, Proust non vole­ va rinunciare a niente: voleva riempire il nuovo apparta­ mento di tutti i mobili, letti, divani, arazzi, poltrone,· mo­ biletti, canapè, comò, quadri, ammennicoli di rue de Courcelles, anche a costo di trasformarlo, come obiettava l'amicissima Madame Catusse, in un magazzino. Specie la propria stanza, nella quale si concentravano gli affetti, do­ veva risultare gremitissima. Tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi se Proust avesse ceduto una parte dell'eredità a Robert, suo fratello, che si era sposato e aveva una figlia. Ma in realtà Proust non intendeva dargli assolutamente nulla, sebbene non si rendesse conto - cieco com'era, lui così perspicace - di quanto fosse grande la sua gelosia verso il fratello. Voleva spossessarlo col suo consenso. Così, nelle lettere dell' au­ tunno a Madame Catusse, assistiamo a un andirivieni ...».

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grottesco di concessioni e di rifiuti. Prima gli cedette due tappeti (che però erano troppo grandi per la casa di Ro­ bert) : poi qualche arazzo: poi nessun arazzo; poi di nuovo gli arazzi dello studio del padre, che evidentemente gli erano meno cari. Poi ci fu la magnanima concessione: «se sembra avere dei rimpianti, dategli tutto quello che vuo­ le» : concessione verbale, che non fu seguita da nessuna concessione reale, perché (a quanto pare) soltanto il ritrat­ to del padre, qualche quadro olandese e fiammingo e de­ gli arazzi incompleti andarono a decorare la casa del fra­ tello. Lo preoccupava sopratutto la sua stanza da letto. Pen­ sava di disporvi la «camera azzurra» della madre e di dormire nei mobili che avevano assistito al suo sonno, di guardarsi negli specchi che avevano riflesso il suo viso: ma, a volte, pensava che sarebbe stato troppo «crudele» per lui e, con un'improvvisa ferocia, destinava la «camera azzurra» alla polvere di un magazzino. Quanto ai quadri non aveva dubbi. Non avrebbe mai tollerato nella stanza da letto il ritratto della madre, perché assomigliava trop­ po alla sua immagine di defunta, quando era stata «così incredibilmente ringiovanita dalla morte»; e voleva esi­ liarlo in salotto, dove l'avrebbe visto solo quando voleva. Ma tutto, in quella stanza abbrunata di Versailles, poteva far nascere dei terribili drammi. Quali arazzi scegliere? Quelli dell'anticamera di rue de Courcelles? O del salotti­ no? O addirittura quelli usati come cortine nella stanza da pranzo? E dove metterli? Nell'anticamera? Nella stanza da pranzo? Nel salotto? E sarebbero state adatte delle car­ te da parati color rosso ciliegia, o piuttosto di un vago co­ lor Impero crema? In qualche raro accesso di estetismo, sognava di appen­ dere alle pareti un primitivo veneziano, o senese, o roma­ no: un Vivarini, o un pittore della Cappella degli Spagno­ li. Come Mario Praz, avrebbe voluto sopratutto uno di quei quadri che «conservano l'odore di una città o l'umi­ dità di una chiesa, e che come dei bibelots contengono al1 63

trettanto sogno sia per associazione di idee sia in sé stes­ si». Ma, in realtà, non aveva nulla del collezionista: i bei mobili o i bei quadri o i bei libri non gli interessavano. Quello che lo appassionava, negli oggetti, era il fatto che potessero diventare dei sentimenti solidificati: depositi di affetti, segni di persone scomparse, ricordi del loro e del proprio passato. Non voleva disfarsi di una scrivania per­ ché era, per lui, «un vecchio amico molto brutto, ma che aveva conosciuto benissimo tutto quanto aveva amato di più». Considerava preziose le fotografie di lontani paren­ ti, sebbene non li avesse mai visti, perché sapeva che sua madre li aveva amati. Non poteva rinunciare nemmeno a uno di quei mobili, di quei letti, di quelle fotografie, di quegli arazzi, di quei tappeti, ognuno dei quali era una parte dolorante del suo cuore. I rimproveri degli amici eleganti non lo toccavano: non gli importava di affastella­ re le stanze, di riempire intollerabilmente le pareti, di of­ fendere le divinità del «buon gusto». Una cosa lo preoccu­ pava, sopra ogni altra. Tutto doveva restare immobile, fisso, come nei sogni dei feticisti. Nel salotto di boulevard Haussmann, i mobili dovevano essere i mobili del salotto di rue de Courcelles. Il nuovo salottino doveva ripetere il vecchio. La stanza da pranzo doveva essere la medesima stanza da pranzo. La scrivania dello zio doveva occupare lo stesso posto lungo la finestra e presso il muro; e tutti i mobili, con la loro muta presenza, avrebbero ricreato al­ meno l'apparenza della «patria perduta>>. Niente, mai, a nessun costo, poteva mutare, come non mutava mai nien­ te nella sua immaginazione dei luoghi. Così Proust scon­ fisse sé stesso nel suo secondo tentativo di fuga. Il 27 dicembre 1906, con un improvviso sobbalzo di energia, lasciò l'Hòtel des Réservoirs, installandosi al pri­ mo piano di boulevard Haussmann. Come in tutti i periodi di trapasso della sua vita, fece il segreto attorno a sé. Nes­ suno doveva sapere nulla di lui. Stava malissimo. In quin­ dici giorni, ebbe quattro crisi d'asma, che durarono trenta­ sei, quaranta, cinquanta ore. «E per tutto quel tempo . . . la 164

morte! » Abbandonato il suo cimitero di Versailles, rientra­ to in questo nuovo cimitero, che era soltanto un'imitazione della «patria perduta», il cimitero di sempre, precipitò nel fondo della malattia. Mentre giaceva a letto esausto, attor­ no a lui la farsa del trasloco toccò il culmine. Per qualche mese parve che tutti i rumori di Parigi, il chiasso dell'Opé­ ra e della Madeleine, degli Invalides e di Montmartre, de­ gli Champs- É lysées e di Pigalle, frastuoni di tram, di mar­ telli, di seghe, canti di operai, voci di venditori, stridii delle prime automobili - risuonassero nelle sue stanze. Dapprima il dottor Gagey cominciò dei lavori nell' ap­ partamento del pianterreno, proprio sotto di lui: Proust ri­ corse alle sue armi consuete, preghiere, raccomandazioni, compensi straordinari; e ottenne che gli operai lavorasse­ ro soltanto dalle otto di sera a mezzanotte, rispettando i suoi sonni. Il primo pericolo era stato appena scongiurato, quando se ne annunciò un altro molto più grave. A metà marzo, Madame Katz (madre di Achille Katz, vicepresi­ dente del tribunale della Senna) aveva lasciato il suo ap­ partamento, dove invisibili muratori lavoravano sulla sua testa; e affittato un appartamento al numero 98 bis di bou­ levard Haussmann, limitrofo al 1 02. All'improvviso deci­ se di installare un gabinetto nuovissimo nella stanza vici­ na alla stanza da letto di Proust, a pochi centimetri dal suo cuscino. I muratori e gli idraulici arrivavano la mattina al­ le sette, quando Proust era addormentato da nemmeno un'ora. Appena arrivati, manifestavano la propria incon­ tenibile gioia di vivere e la propria energia mattutina, bat­ tendo dei violentissimi colpi di martello e grattando con seghe dietro il suo letto. Poi, chissà perché, si stancavano, smettevano, e quando le palpebre di Proust stavano per richiudersi, battiti ancora più orribili lo consegnavano in­ sonne ai terrori del giorno. Né lettere né preghiere né raccomandazioni né mance né trattative con il portiere riuscirono ad arrestare quell'allegra energia mattutina. Così Proust si rivolse an­ cora una volta ai suoi protettori, pregando, gemendo, im1 65

plorando di allontanare da lui quel flagello, chiedendo che anche questi lavori fossero fatti il pomeriggio o la se­ ra, offrendosi di pagare lui stesso le spese straordinarie di elettricità e di candele. Ci furono altri interventi. Madame Straus, grande amica di Proust, invitò a pranzo il vice­ presidente del tribunale, iniziando delle trattative laborio­ sissime, durante le quali venne edificato un water closet «maestoso come la piramide di Cheope» . Non era finito. A maggio crollò il camino del salotto di Proust; e altri operai con mattoni, gesso e polvere, arrivarono proprio nel cuore del carcere. Si ruppero due tubi dell'acqua. Mol­ to più in alto, al quarto piano dello stesso palazzo, un al­ tro inquilino sconosciuto avrebbe presto traslocato; e con un brivido d'orrore (e contro ogni verisimiglianza), Proust annunciava a Madame Straus che «di lassù si sen­ tiva tutto, come se si fosse nella mia stanza».

Quando giunse il tempo delle vacanze, Proust fu a lun­ go incerto. Avrebbe voluto andare in Bretagna, dove lo ri­ chiamavano i romanzi della Tavola Rotonda, il destino di Isotta, il colore dei laghi, la bellezza evocatrice dei nomi, il ricordo del soggiorno insieme a Reynaldo Hahn: oppure abitare qualche tempo in una vecchia città provinciale bal­ zacchiana, col suo mistero rimasto intatto. Poi ricordò i consigli della madre; e il 4 o 5 agosto scese al Grand Hotel di Cabourg, per lui «Un albergo atroce e sontuoso», per il «Figaro» «un vero palazzo da Mille e una notte» che ancora oggi affaccia le finestre grandissime della sala da pranzo sul mare di Normandia. Fece vita d' albergo, sebbene gli ospiti lo disgustassero: giocò a baccarà; e raccontava esta­ siato i pasticci della famiglia Edwards, un ricco giornali­ sta anglo-franco-turco, che aveva avuto cinque mogli, e che era lì con l'amante, un'attrice lesbica, mentre gli face­ vano da involontaria corona la quinta moglie, il primo marito della quinta moglie, e il dottor Charcot, primo ma1 66

rito della quarta moglie. Amava l'atmosfera dei grandi al­ berghi: li amava per ciò che avevano di lussuoso, di tea­ trale, di irreale e di falso; e per l'illusione, che suscitavano in lui, di poter comprare tutto con il denaro, come un Si­ gnore dell'Oriente o un Re d'operetta - proprio lui che sa­ peva che nulla si poteva comprare. Quell'estate scoprì l'automobile. Aveva sempre predi­ letto gli orari ferroviari; e sopratutto ciò che vi è di unico, diretto, inesorabile nel viaggio in treno, che sottolinea la differenza tra il luogo di partenza e quello di arrivo. Con l'automobile poteva palpare, esplorare tutta una regione: seguire le sue sinuosità, i vagabondaggi e gli andirivieni delle strade, senza essere mai sicuro della distanza; ascoltare il battito confuso del luogo fino a mettere all'improvviso la mano sul suo cuore. Era già stato in Normandia. Come gli piacevano le ville sulle colline, na­ scoste tra gli alberi, imbevute di un profumo di frasche, latte e sale marino, e le foreste incantate di rododendri, e i chiari di luna che trasformavano le valli in laghi! Ora i suoi autisti lo portavano attraverso la campagna - e nes­ suna campagna era «permeabile, porosa», femminile co­ me quella normanna. Vide (enumerava i luoghi agli ami­ ci come in u n bollettino d i vittorie) Caen, Bayeux, Balleroy, Houlgate, Trouville, Pont-Audemer, Lisieux, É vreux, Bénerville, Conches, Glisolles: i boschi, gli alti prati pieni di meli, le abbazie e le chiese normanne, che avevano una strana aria persiana. A Lisieux, voleva ve­ dere i fogliami sulla facciata della cattedrale, di cui parla­ va Ruskin: ma arrivò a notte oscura; e l'autista, l'inge­ gnoso Agostinelli, illuminò con la luce dei fari i pilastri del portico, che all'improvviso uscirono dalla notte, di­ staccando in piena luce, su un fondo d'ombra, il largo modellato delle loro foglie di pietra. Anche alla cattedra­ le di É vreux arrivò al crepuscolo, sotto un cielo grigio, opaco e chiuso: come ad Amiens, le vetrate rubavano al­ la sera dei «gioielli di luci, una porpora scintillante, degli zaffiri pieni di fuoco». Ma la Normandia non gli bastava. 167

Avrebbe voluto spingersi più lontano, verso quella Breta­ gna dove lo chiamavano gli occhi di Isotta. Era dunque guarito? Forse aveva applicato a sé stesso quanto disse di una sua conoscente, e compreso di essere divenuto tanto malato a forza di curarsi, che avrebbe fatto meglio a prendere la decisione di stare bene. Quell'estate infranse ogni abitudine. Invece di dormire durante il gior­ no, si svegliava la mattina, si vestiva, pranzava all' alber­ go, visitava gli amici che abitavano nei pressi di Cabourg, andava in giro insaziabilmente in automobile, giocava al baccarà tra la gente e la polvere del Casinò. Viveva, pro­ babilmente, come Marcel nel ristorante di Rivebelle: chiu­ so nel presente, come un ubriaco, incollato a ogni sensa­ zione, senza più passato né l'ombra dell'avvenire: vuoto, senza peso, consistenza e centro di gravità; non poteva smettere di muoversi e di parlare, e gli sembrava che avrebbe potuto continuare la sua corsa fino alla luna. Ma l'asma sembrava completamente scomparsa, anche se avrebbe dovuto travolger lo: forse comprese che l'asma non era figlia dei venti e dei profumi, ma del sinistro regi­ me che la nevrosi e la letteratura avevano inventato per dominarlo completamente. Specie nei primi tempi, Proust si lamentava. Se stava in piedi, era solo perché beveva diciassette caffè al gior­ no. Si sentiva agitato, sterile, impotente. Non aveva più spirito né cuore, o un cuore ogni giorno più palpitante e doloroso: non sapeva quello che pensava: non gioiva di quanto vedeva; non era mai stato così infelice. «La vita da pallone lanciato che faccio qui» scriveva a Georges de Lauris, «senza smettere un secondo di andare in giro e di prendere caffè, mi impedisce di scrivere una sola parola, una specie di tremito, simile a quello del motore, conti­ nua a ronzare in me, e a fremere quando sono disceso dalla vettura e impedisce alla mia mano di posarsi e di obbedirmi. » Viveva molto meglio nella calma malattia del suo letto, e non riusciva più a domare il dolore per la morte dei suoi. «Il dolore» ripeteva a Lauris «non è fatto 1 68

per essere smosso: ci vuole molta immobilità perché rica­ da e permetta di trovare un po' di serena limpidezza.» Non dobbiamo prendere alla lettera tutti questi lamen­ ti. In quell'estate all'aria aperta, agitata e in movimento, quando Alfred Agostinelli, nascosto da un vasto mantel­ lo e da un cappuccio, simile a un pellegrino o a una «suora della velocità», guidava l'automobile tenendo il volante tra le mani, come gli apostoli della Sainte-Cha­ pelle impugnano la croce di consacrazione, - Proust co­ nobbe il sussulto e la scossa improvvisa della felicità. Il suono gioioso, uniforme e quasi umano della tromba dell'automobile gli ricordava il Trista no e Isotta : nel se­ condo atto, la «ripetizione stridente, indefinita e sempre più rapida di due note», nel terzo l'intensità crescente, l'insaziabile monotonia della cennamella del pastore, a cui Wagner aveva affidato «l'espressione della più prodi­ giosa attesa di felicità che abbia mai riempito l' animo umano» . . . L'automobile realizzava l'istinto di fuga, tanto profondo nella sua anima quanto l'istinto di concentra­ zione e di clausura; e lo liberava dall'apprensione che la sera tante volte lo aveva colto, di chiudersi nella propria stanza, solo con la propria angoscia, per tutta la notte. Così possiamo immaginare che Proust abbia, qualche volta, pensato di cambiar vita. Avrebbe dato addio alla sua vita notturna, spezzando le mura del carcere: per far piacere alla madre, d'ora in poi si sarebbe alzato presto. Il mondo l'attendeva. Quando, al principio d'ottobre, ritornò a Parigi, queste gracili e forse inconsce risoluzioni si dissolsero. Tornò a stare chiuso al primo piano di boulevard Haussmann, sveglio ogni notte: non mise più piede fuori casa: ignorò di nuovo l'immensa natura; e l'asma, la nemica che aveva educato con attenzione, tornò ad assalirlo già sulla strada del ritorno. Si adattò presto alla sua sorte. La tromba uniforme, gioiosa e quasi umana della felicità, che Agosti­ nelli aveva suonato lungo le strade della Normandia, non era fatta per lui. Non poteva «senza sacrilegio parlare di 1 69

felicità quando erano nella tomba quelli che ne rappresen­ tavano» per lui «la possibilità» . Non poteva vivere nel presente ma solo nel passato, che annunciava il futuro: non era fatto per la leggerezza, questo dono degli dèi, ma solo per il peso del tempo, dei ricordi e della realtà. L'uni­ co modo di mostrarsi fedele alla madre era vivere nel do­ lore, come lei l'aveva conosciuto. Non doveva abbando­ nare le ore silenziose, desolate e lentissime della notte: perché insieme a loro, avrebbe abbandonato la letteratura, alla quale voleva aggrapparsi con tutta la propria dispera­ ta tenacia.

Tra il giugno 1 905 e il novembre 1 907, Proust scrisse di­ verse prose, tra le quali alcuni capolavori: le prime Journées de lecture, Sentiments filiaux d'un parricide, le se­ conde Journées de lecture, Les É blouissements par la comtesse de Noailles, Jou rnées en automobile. Queste prose vivono an­ cora all' ombra di Ruskin : lo scrittore, se non il critico d'arte. Proust notava con esattezza che i libri di Ruskin avevano una forma «quasi umoristica » . Mescolavano tutti i toni: la satira, il capriccio, il pamphlet, la descrizio­ ne d'arte, l'excursus storico, l'eloquenza, la profezia, l' os­ servazione morale, la pagina lirica. Senza probabilmente saperlo, Ruskin assomigliava a Sterne: appena partito cambiava strada, perdeva di vista il suo soggetto, percor­ reva dieci cammini contemporaneamente, saltava da un'idea all'altra, poi ritornava all'inizio, ma solo per per­ dersi e perderei meglio, o arrestarsi all' improvviso in mezzo a una piazza. Tutte queste prose di Proust obbedi­ scono allo spirito della divagazione, della digressione e della variazione. Persino la più tragica, come i Sentiments filiaux d'un parricide, comincia con la morte dei suoi geni­ tori, ricorda la morte del padre di van Blarenberghe, ri­ porta una lettera del figlio, fa il suo ritratto, parla della memoria, riporta una nuova lettera, parla del tempo, 1 70

delle crisi degli asmatici e dei pazzi, racconta la sua lettu­ ra dei giornali, rievoca alcuni miti greci, un fatto di crona­ ca, per poi foggiare un grandioso mito psicologico. Il Contre Sainte-Beuve è ancora, almeno in parte, un gioco di variazioni. Non lo sarà più la Recherche, dove lo sfrutta­ mento degli spunti digressivi viene sottoposto alla logica spietata del romanzo. Qualche anno prima, Proust aveva conosciuto Henri van Blarenberghe, un uomo piacevole e distinto. Quando, nel maggio 1 906, gli morì il padre, sentì verso di lui la simpatia, la solidarietà e complicità d'orfano, che prova­ va così sovente; e gli scrisse una lettera «in nome» dei suoi morti. Van Blarenberghe gli rispo::;e ringraziandolo con delicatezza di «quel messaggio d'oltretomba» : Proust gli scrisse di nuovo, sentendosi sempre più vicino a lui e parlandogli della propria malattia dopo la morte del padre e della madre; in una lettera del 12 gennaio 1 907, van Blarenberghe gli confessò che anche lui non riusciva a riprendersi dallo sconvolgimento che gli aveva causato la morte del padre . Pochi giorni dopo, il 25 gennaio, Proust leggeva il «Figaro», quando fu attratto da una no­ tizia: Un dramma della follia . Henri van Blarenberghe, il suo gentile e malinconico corrispondente, aveva ucciso la madre: i domestici avevano visto Madame van Blarenber­ ghe scendere le scale col viso coperto di sangue e gridan­ do: «Henri! Henri! Cosa hai fatto! »; subito dopo aveva le­ vato le braccia in alto e si era abbattuta a terra, con la fac­ cia in avanti. I poliziotti erano entrati nella casa. Avevano forzato la porta della camera dell'assassino, trovandolo moribondo: Henri van Blarenberghe aveva il viso coperto di ferite che si era fatto col pugnale, mentre la parte sini­ stra era dilaniata da un colpo di fucile. L'occhio pendeva sul guanciale. Il 30 gennaio Gaston Calmette, direttore del « Figaro», chiese a Proust un articolo sul delitto, e Proust lo scrisse febbrilmente in una notte, dalle tre alle otto di mattina. La sera, quando gli portarono le bozze, aggiunse la conclusione. ·

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Era soltanto un fatto di cronaca, «un dramma della fol­ lia», diceva il «Figaro)) : ma, per Proust, quel fatto di crona­ ca aveva il respiro del mito, la grandezza della tragedia greca. «In che pura, in che religiosa atmosfera di bellezza morale ebbe luogo)) scriveva «quest'esplosione di follia e di sangue. )) Citava Eschilo, Sofocle, Shakespeare, Dostoev­ skij, Tolstoj. Henri van Blarenberghe diventava, ai suoi oc­ chi, Aiace che massacrava i pastori e le greggi dei Greci: Edipo che uccideva il padre, induceva la madre-moglie al suicidio, e si accecava per non vedere «né il male che aveva subito né quello che aveva causato)) : Oreste che uccideva la madre e veniva inseguito dalle Furie; Re Lear che stringeva tra le braccia il cadavere di Cordelia . . . Sebbene in questo caso la sua cultura classica riposasse soltanto su un brano del Cours de Littérature dramatique di Saint-Mare Girardin, Proust comprese perfettamente la struttura del mito anti­ co. Quei delitti erano stati delitti sacri: Atena aveva velato gli occhi di Aiace: Edipo era stato perseguitato dall'oracolo di Apollo; Oreste aveva obbedito all'ordine di Apollo. Chi poteva accusarli, secondo la logica terrena del diritto, di es­ sere colpevoli? Avevano obbedito agli dèi, o erano stati ac­ cecati da loro. Eppure erano uomini macchiati, avvolti dal­ le tenebre, che avevano compiuto «il più terribile oltraggio all'ordine sacro che governa la vita umana)); e percorreva­ no la terra come «stranieri, miserabili, perpetui vagabondi, maledetti». Solo che, dopo aver espiato il delitto, essi di­ ventavano sacri e santi: sede della potenza soprannaturale, che si era concentrata in loro e li aveva distrutti. Se erano stati i più maledetti fra gli uomini, adesso erano i più bene­ detti; e le loro tombe proteggevano nella pace e nella guer­ ra le città che li avevano accolti. Dopo aver ricostruito quell' evento mitico, Proust si identificò completamente con la sorte di Henri van Bla­ renberghe. Anche lui era stato un assassino: anche lui ave­ va compiuto un matricidio; ed era macclziato come Edipo. «"Che hai fatto di me, che hai fatto di me!" Se volessimo pensarci, non c'è forse una madre veramente amorosa che 1 72

nel suo ultimo giorno, e spesso molto prima, non potreb­ be rivolgere questo rimprovero a suo figlio>> concludeva. «In fondo, noi invecchiamo, noi uccidiamo tutti coloro che ci amano con le preoccupazioni che diamo loro, con la stessa inquieta tenerezza che ispiriamo loro e che mettia­ mo di continuo in allarme. » Ma come poteva espiare? Henri van Blarenberghe si era fatto saltare l'occhio con un colpo di fucile: Edipo si era forato gli occhi con la spilla d'oro di Giocasta, per non vedere. Lui avrebbe fatto l' oppo­ sto, come annunciava la prima parte del suo articolo. An­ che lui era un «capro espiatorio» : ma il suo desiderio di espiazione si sarebbe capovolto in un'arte di vedere e di ri­ cordare, in una totale esplorazione del passato. Egli era Edipo veggente, che avrebbe fissato i «telescopi dell'invi­ sibile» nell'ombra dei giorni vissuti; e così, come per Edi­ po, la maledizione si sarebbe trasformata in benedizione per tutti. Senza che Proust lo sapesse, la Recherche, col suo immenso senso di colpa e di espiazione, e la sua mitologia della memoria, era già nata in questo articolo, dove, nel corso di poche ore febbrili, Proust trovò la prima giustifi­ cazione del suo peccato e della sua letteratura. Come faceva a rievocare il passato? Come poteva fissa­ re «i telescopi dell'invisibile» nell'ombra dei giorni vissu­ ti? Per gli archeologi, era facile: scavavano i monumenti e le tombe, e scoprivano che «niente è dimenticato, niente è distrutto» : le cacce di Assurbanipal, i diversi episodi delle battute, la morte della cacciagione, il lusso dei pranzi, il ri­ torno degli invitati, i nomi dei levrieri, il fiore di un rosaio di Tebe, il miele di un'arnia dell'Imetto - tutti i particolari, tutti i momenti di vita del passato, per quanto futili e fra­ gili, erano presenti alla memoria. Per lui, archeologo del proprio passato, era molto più difficile. Se voleva rievo­ carlo, il suo Edipo doveva diventare Odisseo, in una sce­ na di negromanzia che fu una delle rivelazioni capitali della sua vita. Nell'undicesimo canto dell' Odissea, Odisseo giunge nell'oltretomba. Scava una fossa, e versa un'offerta per 1 73

tutti i defunti, prima di latte e di miele, poi di vino, e infi­ ne d' acqua, cospargendola di farina d' orzo. Supplica i morti con preghiere: fa voto di immolare, giunto a Itaca, la migliore vacca sterile; e poi afferra e scanna sulla fossa un montone e una pecora nera, volgendo lo sguardo lontano verso le sorgenti del fiume. Subito arrivano dall'Erebo le anime dei defunti: donne, giovani, vecchi provati dal do­ lore, tenere spose con l'animo straziato, guerrieri uccisi in battaglia; tutti si aggirano in folla attorno alla fossa, senza più intelletto né memoria, emettendo uno strano gridio da pipistrelli. I morti cercano di bere il sangue: Odisseo li tiene lontani, con la spada lungo la coscia, fino a quando parla Tiresia. Appena l'indovino ha profetizzato il suo fu­ turo, Odisseo lascia accostare i morti, che bevono il «san­ gue fosco come nube»: riacquistano voce, intelletto e me­ moria; lo riconoscono e raccontano secondo verità il proprio passato. Proust non sapeva che questa pratica ne­ gromantica avveniva anche nel mondo reale. Ad Atene, negli Anthesteria, il secondo e il terzo giorno del triduo, si facevano libagioni d'acqua; e le anime dei morti, richia­ mate con le offerte, soggiornavano tra i vivi. Anche la Recherche sarebbe stata un'ininterrotta negro­ manzia: un'incessante rievocazione dei morti. Tutti coloro che Proust aveva conosciuto dovevano precipitare nella condizione di fantasmi, senza più voce né memoria, come le ombre dell' Odissea; e tendergli le braccia «tenere e im­ potenti», chiedendogli senza parole di risuscitarli e di portarli con sé. Proust non sapeva quali strade il suo Edi­ po avrebbe seguito. Con quale sangue avrebbe abbevera­ to le ombre, così da ridar loro voce e memoria? Con quale spada le avrebbe tenute lontane? Forse comprese che quel sangue sarebbe stato il suo sangue: la fosca fossa di dolore e di colpa, deposito di tutta la sua vita, che avrebbe ali­ mentato la Recherche. Mentre Odisseo obbediva a un ritua­ le consolidato, egli non conosceva e non avrebbe mai co­ nosciuto nessun rituale di negromanzia. Obbedì al caso, alla grazia, ai doni improvvisi della memoria. Ma non 1 74

avrebbe riportato alla luce un Ade come quello dell' Odis­ sea: ombre spettrali, senza forza, atrocemente tristi, senza luce. Il suo Ade sarebbe stato pieno di quella luce radiosa, che solo l'eternità sa conferire. In quei mesi, Proust visse immerso nei miti. Non solo vide Edipo e Oreste e Aiace in sé stesso e nelle persone che lo circondavano: non solo attualizzò i miti antichi; ma cercò di scoprire tutti i miti e le «forze sacre» che si na­ scondevano negli eventi e nei minimi oggetti della civiltà moderna. Noi - egli diceva - li disconosciamo: «siamo dei bambini che giocano con le forze sacre senza rabbrividire davanti al loro mistero». Uno di questi oggetti mitici era il telefono, di cui Proust conosceva la forza inquietante da quando aveva telefona­ to da Fontainebleau alla madre; e nella sua voce, così dol­ ce, così fragile, così piena di incrinature e fessure, aveva conosciuto tutte le lacrime che lei aveva sempre taciuto. Il primo aspetto del «mistero» del telefono era quello più lieto e fantastico: l'estrema distanza veniva avvicinata. Lo spazio veniva abolito. Era una féerie, come in uno dei rac­ conti più famosi delle Mille e una notte, dove due maghi trasportano l'amata accanto all'amato e la fanno dormire nel suo letto: oppure lasciano apparire in una luce magica l'amata all'amato, vicino a lui ma lontanissima, mentre sfoglia un libro, versa delle lacrime, o coglie dei fiori. Ba­ stava così poco: un rumore leggero, un rumore astratto ­ quello della distanza soppressa. Dopo pochi istanti, ac­ canto a Proust appariva l'amica a cui desiderava parlare, invisibile ma presente attraverso le tenebre vertiginose della lontananza. Essa restava nella propria città, sotto un cielo differente, in un tempo diverso, tra circostanze e preoccupazioni che egli ignorava, eppure si trovava di colpo trasportata contro l'orecchio di lui e gli parlava; e insieme a lei il telefono lasciava risuonare i rumori che en­ travano dalla sua finestra, tutto l'ambiente che la circon­ dava - la canzone di un passante, la tromba di un ciclista, la fanfara lontana di un reggimento in marcia. Proust ave1 75

va un simbolo religioso per esprimere questo: la Presenza Reale. Come l'invisibile corpo di Cristo era materialmente presente nell'ostia, così la voce remota, sebbene apparte­ nesse a un altro spazio, gli parlava affettuosamente all'orecchio. Questa vicinanza, orecchio contro orecchio, era un'illu­ sione tragica, come qualsiasi rapporto che Proust intratte­ neva con l'altro. Quanto era lontana la debole voce che aveva attraversato gli spazi! Il telefono gli faceva capire come la più dolce comunicazione amorosa fosse illusoria: mentre gli sembrava di dover soltanto stendere il braccio per stringere contro il petto la persona amata, urtava con­ tro l'insormontabile distanza del suono nella notte piena di apparizioni - distante da lui come i cuori di tutti gli al­ tri esseri umani. Questa distanza era il segno della separa­ zione assoluta che ci allontana dagli altri. L' angoscia cre­ sceva: ogni conversazione al telefono gli sembrava una conversazione con le ombre, con coloro che abitano, «lab­ bra per sempre in polvere», le profondità dalle quali non si risale. Ogni rapporto con gli altri, insieme vicino e lon­ tano, lontano e vicino, era un rapporto con la morte, che vive immersa in ogni attimo della nostra vita. Quella vo­ ce, che da poco più di due anni ritornava sola e senza un corpo, quella voce che mormorava al suo orecchio delle parole che avrebbe voluto abbracciare, - era la voce di sua madre, che gli appariva in sogno. Il gioco lieve e tragico con la vicinanza e la distanza, con la separazione e la morte, produceva una prodigiosa fioritura mitologica. Tra Proust e la voce degli amici e del­ le amiche lontane, si frapponeva, in quei tempi, la voce delle signorine del telefono, che mettevano in comunica­ zione gli utenti tra loro. Egli le trasformò completamente. Non erano più le modeste signorine, che aveva conosciu­ to tra Fontainebleau e Parigi. Erano delle possenti Sacer­ dotesse, delle grandiose Mediatrici, che vegliavano sui nostri rapporti con le tenebre, la distanza, il mistero, la morte, l' invisibile. Come tutte le divinità, avevano un vol1 76

to ambiguo, dolce e crudele. Esse erano le Vergini vigilan­ ti, gli Angeli custodi, le Onnipossenti, le Danaidi dell'In­ visibile, le Furie gelose, le serve irritate del Mistero, le Di­ vinità implacabili, le Figlie della Notte, le Messaggere della Parola, le Dee senza viso, le Capricciose Guardiane . . . Come non accorgersi che Proust stava giocando con que­ ste fastose enumerazioni barocche? Tutto è un incantevole e frivolo flatus vocis. Eppure, mentre giocava, dietro il velo dell'ironia egli creava una grandiosa famiglia mitologica, che gareggia con la Teogonia di Esiodo e con la religione cristiana, e le fonde in una sola mitologia sincretistica. Fi­ gure classiche, foggiate sul modello antico, angeli cristiani e figure cristiane formano insieme la stirpe delle grandi Divinità Sconosciute, che aleggiano negli spazi tra la terra e l'Ade, tra la terra e il cielo, tra l'io e l'altro.

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II

Ricordo di una mattina

Nei primi mesi del 1908, Proust si lamentava perché Pari­ gi era diventata «brumosa come Londra» . Non poteva sopportare quelle grandi nebbie, che imbevevano perfino i suoi fogli di carta, dove scriveva rapidamente le pa gine geniali e informi di un libro ancora sconosciuto. Nel corso dell' anno, nulla mutò . Come zia Léonie, non si muoveva più dal letto: preda di spaventose crisi d'asma, che lo assalivano per quarantotto ore di seguito, simili agli assalti - forse non lontani - dell'agonia. Scrivere una lettera gli dava l'emicrania o l'insonnia. Non poteva far più nulla - né alzarsi, né uscire, né vedere amici, né par­ lare, né mangiare, né respirare, né dormire. Mese dopo mese, il tempo cresceva sotto di lui: gli anni si accumula­ vano gli uni sugli altri come cenere di carbone, e lui, quasi vecchio, si trovava in piedi su una torre mobile così alta che toccava il cielo e che di momento in momento stava per cadere. Quando sarebbe precipitato da quell'al­ tezza vertiginosa? Quando sarebbe balzato fuori, incon­ trando il padre e la madre? La sua vita si era fatta silen­ ziosa. E, in quel silenzio funereo (avrebbe scritto), avver­ tiva sempre più acutamente i suoi singhiozzi di bambino - i tremendi, dolcissimi singhiozzi infantili, che già una volta aveva rappresentato, e che forse contenevano il se­ greto della sua vita. Aveva creduto di possedere una vocazione poetica ­ non perché fosse orgoglioso o ambizioso, ma perché la 1 78

sentiva abitare le profondità del suo corpo, come ci abita una malattia. Sapeva che, dentro di lui, esistevano delle belle cose indistinte, simili ai ricordi di un'aria che ci in­ canta senza che possiamo ritrovarne il contorno, cantic­ chiarla, e nemmeno dire se ha delle pause o delle rapide successioni di note. Era ossessionato dal ricordo di questa verità sconosciuta. Ma pensava che non sarebbe mai riu­ scito a esprimere quella musica confusa, notarla, ripro­ durla, cantarla; e nemmeno avrebbe ascoltato l'aria che lo aveva inseguito per tutta la vita «col suo ritmo inafferra­ bile e delizioso». Era posseduto da un senso atroce di falli­ mento. Aveva l'impressione che la sua sensibilità si fosse indebolita, il talento avesse fatto bancarotta, la memoria diventasse incerta; e i fantasmi del passato gli tendevano le loro braccia tenere e impotenti, come le ombre che Enea incontra agli Inferi. Temeva di morire: le sue ore erano contate; un nulla poteva spezzare il suo cervello: «Presto» lo avvertiva la morte «tu non potrai più dire tutto que­ sto». Non sapeva di essere giunto alla svolta decisiva del­ la sua esistenza. Proprio in quel cielo brumoso, in quelle crisi di asma, in quella malattia (che gli imponeva l'immo­ bilità e il silenzio), si nascondeva l'energia tenacissima, che gli avrebbe permesso di avvicinarsi al suo libro. Intan­ to, si stava preparando. Non più viaggi, non più visite, non più cene, non più (o quasi) incontri con gli amici, pre­ sto nemmeno più letture: con una volontà ferrea, masche­ rata dalle più gentili e ipocrite scuse, costruiva lo spazio vuoto, che l'opera avrebbe dovuto colmare. Al principio del 1 908, cominciò a scrivere delle pagine, che anticipano alcuni tra i principali temi della Recherche. A partire da questo momento, nelle lettere si rincorrono gli annunci, gli avvertimenti, i gridi di attesa e di allarme: «Vorrei cominciare un lavoro molto lungo . . . »: «Ti dico ad­ dio, sto per cominciare un lavoro molto importante» . Qualche mese più tardi, i n una lunga lettera a Georges de Lauris, alluse a una frase del Vangelo di Giovanni: «Anco­ ra per poco tempo la luce è tra voi. Camminate finché ave1 79

te la luce, perché le tenebre non vi sorprendano; chi cam­ mina nelle tenebre non sa dove va. Finché avrete la luce, credete nella luce, perché diventiate figli della luce» (12, 35-6). Erano le parole di Cristo, poco prima dell'Ultima Cena. E citò la chiosa di Ruskin: «Lavorate mentre avete ancora la luce)). Sentiva l'angoscia di affondare sempre più completamente nella notte: malgrado tutto cercava, scrivendo, di utilizzare gli ultimi barlumi di luce che lo raggiungevano, per diventare, anche lui, figlio della luce. Un mese dopo, in una lettera allo stesso amico, annuncia­ va che aveva perduto ogni luce; e che avrebbe scritto dalle profondità della notte. Il libro incombeva: la sua voce gridava che egli si dedi­ casse soltanto a lui, che la mano cominciasse a coprire di segni la carta, che la volontà abbandonasse ogni cosa esterna: mentre cresceva l' attesa di fronte a quella cosa senza nome e senza forma; e l'ispirazione stava per assa­ lirlo come un fiume che non sapeva di possedere in sé stesso. Gli sembrava di essere una madre. Da un lato, gli pareva che la gravidanza avesse atteso troppo, e che tutto si fosse raffreddato dentro di lui: dall'altro, non sapeva se avrebbe mai visto il figlio che si formava nei suoi fianchi, e raccolto le forze necessarie per generarlo. Diceva al suo libro, con un triste e dolce sorriso: «Ti vedrò mai?)) . Così il lavoro crebbe, fino a giungere al parossismo nel luglio 1909, quando per sessanta ore la luce non si spense nella stanza di boulevard Haussmann. Scrisse a Céline Cottin, la cuoca, un biglietto incantevole: «Vi mando dei vivi complimenti e ringraziamenti per il meraviglioso bceuf à la mode. Vorrei riuscire bene come voi in quello che farò que­ sta notte: vorrei che il mio stile fosse così brillanté , così chiaro, così solido come la vostra gelatina - che le mie idee fossero così saporose come le vostre carote e così nu­ trienti e fresche come la vostra carne)). Il lavoro che lo portò verso la Recherche fu lungo: pieno di soste, di interruzioni e di rinvii; sovente prese delle fal­ se strade, che poi rivelarono di essere la via maestra. 1 80

All'inizio del 1 908, aveva appena cominciato a comporre le pagine che anticipavano la Recherche, quando si inter­ ruppe di colpo. A Parigi si svolgeva il processo contro un certo Lemoine: un truffatore che aveva derubato la De Beers, una grande società di miniere di diamanti. Incanta­ to dall' astuzia del ladro e dall'inverosimile pasticcio lega­ le, Proust si mise a raccontare il processo in una serie di stupendi pastiches, dove faceva il verso a Balzac e a Flau­ bert, a Sainte-Beuve e a Renan, a Saint-Simon e ai Gon­ court, a Henri de Régnier, a Michelet, a Faguet, a Chateau­ briand, a Maeterlinck e a Ruskin. L'ispirazione lo assalì all'improvviso, con una furia, una rapidità e un'abbon­ danza di cui rimase sorpreso. Non si era mai divertito tan­ to. Dalle pagine dei pastiches, sgorgavano scoppi di risa, geyser di buonumore, zampilli di gioia, avvertibili forse fino nell'appartamento di Ma dame Katz: il riso cresceva su sé stesso e lo sopraffaceva, e lui non doveva far altro che seguire la mano, obbedendo allo slancio e all'impeto della felicità. C'era, in questo buonumore, uno straordina­ rio dono comico, la gioia dell'intelligenza che comprende; e una specie di candore e di purezza infantile davanti all'assurdo del mondo, che Proust conservò sempre, fino ai suoi ultimi anni . Sapeva che era un gioco importantissimo, che esprime­ va un aspetto fondamentale del suo talento: ma più tardi ne diede un'interpretazione riduttiva, come se avesse scritto i pas tiches per liberarsi e purgarsi dal rischio dell'imitazione di Flaubert o di Michelet o dei Goncourt, vincendo il suo naturale desiderio di idolatria. In realtà, componendo i pastiches, Proust aveva in mente un atto as­ soluto di conoscenza: la conoscenza dell'altro, di quell'es­ senza individuale che egli adorava e che, secondo la mas­ sima scolastica ripresa da Benedetto Croce, sarebbe «ineffabile». Proust non credeva che fosse ineffabile: pen­ sava che si potesse riprodurre ogni espressione, ogni into­ nazione, ogni timbro di un' altra persona o di un altro scrittore. Nessuno fu mai più vicino di lui al sogno di Bor181

ges: il rifacimento totale di un libro. In questo gioco non c'è nessuna ricerca, nessun calcolo sistematico, nessuna citazione precisa di elementi stilistici, come usano fare i parodisti critici. Proust aveva sempre avuto il talento di un clown e di un medium (il dono che Charlus prescrive­ va ai pianisti): era sempre stato un ventriloquo demonia­ co, capace di contraffare i gesti e le voci dei personaggi del bel mondo parigino; e possedeva un orecchio finissi­ mo nel cogliere la musica di un testo, «l'aria della canzo­ ne», che in ogni scrittore corre sotto le parole apparenti. Ora, appena accordò il suo «metronomo interiore» ai di­ versi modelli, il suo prodigioso istinto mimico lo invase. Non era mai esistita, probabilmente, una parodia così esatta, che diventava la chiave privilegiata per cogliere l'essenza della realtà. Gli effetti stilistici di uno scrittore, abitualmente sparsi in un volume, venivano condensati in pochissime pagine; e questa condensazione, e la ripeti­ zione delle forme, producevano un esilarante effetto grot­ tesco. La parodia assumeva degli aspetti diversi: degra­ dazione del testo considerato: autoparodia; e addirittura anticipo grottesco di tendenze proustiane che non si erano ancora sviluppate. Ma si avrebbe torto a parlare soltanto di parodia. In certi casi, specialmente in quelli di Flaubert e di Saint-Simon, Proust ha creato un'altra opera d'arte, un altro passo di Saint-Simon e di Flaubert, bello come i passi più belli dei Mémoires e dell' Éducation senti­ mentale. Nella pagina che riporto, ciascuno riconosce lo stesso r�spiro malinconico, dolce, infinito, pieno di ogget­ ti, dell' Education sentimentale: «Ma alcuni, pensando che la ricchezza avrebbe potuto giungere fino a loro, si senti­ vano sul punto di venir meno; perché l'avrebbero depo­ sta ai piedi di una donna dalla quale finora erano stati di­ sprezzati, e che finalmente avrebbe consegnato loro il se­ greto del suo bacio e la dolcezza del suo corpo. Si vede­ vano con lei, in campagna, sino alla fine dei loro giorni, in una casa tutta di legno bianco, sulla riva triste di un grande fiume. Avrebbero conosciuto il grido della procel1 82

laria, l'arrivo delle nebbie, l'oscillazione delle navi, la tra­ sformazione delle nubi, e sarebbero rimasti per ore con il corpo di lei sulle ginocchia, a guardare la marea che sali­ va con gli ormeggi che sbattevano, dalla loro terrazza, in una poltrona di vimini, sotto una tenda a righe blu, tra delle bocce di metallo ... ». Con i pastiches, Proust aveva creato un primo equiva­ lente dell'opera d'arte: quella che egli chiamava la recréa­ tion vivante; e pensava che sarebbe potuto divenire una forma indiretta, istintiva, «più discreta, breve ed elegan­ te» della critica letteraria. A un altro equivalente del libro, la claire analyse, la critica letteraria vera e propria, egli con­ sacrava la sua mirabile intuizione dei segreti di un testo, la sua fantasia oggettiva, il suo dono di rifrazione. Se ab­ biamo ascoltato la recréation viva n te dell' Éducation, eccone ora la claire analyse, in un saggio compreso nel Con tre Sain­ te-Beuve: «Nello stile di Flaubert. . . tutte le parti della realtà sono trasformate in una medesima sostanza, dalle vaste superfici, dallo scintillio monotono. Nessuna traccia di impurità. Le superfici sono diventate riflettenti. Tutte le cose vi si dipingono, ma per riflesso, senza alterarne la so­ stanza omogenea. Tutto ciò che era differente è stato tra­ sformato e assorbito» . Queste pochissime righe sono un perfetto equivalente oggettivo del mondo di Flaubert: contengono l'essenziale di ciò che può essere detto sopra di lui; il nucleo irradiante di ogni critica passata e futura. A un certo momento, Proust pensò di raccogliere in un so­ lo volume le due forme di critica: messe l'una · accanto all'altra, le recréations vivantes e le claires analyses avrebbe­ ro mostrato come lo spirito umano può avvicinarsi a quel mistero che è l'opera d'arte, e dominarla. Nel piccolo mondo letterario parigino, i pastiches ebbero successo. Jules Lemaitre ne rimase terrorizzato: gli sem­ brava che Proust riducesse l'opera d'arte a un meccani­ smo che poteva venire smontato e rimontato, come una gru o un'automobile. «Non si osa più scrivere» - diceva. Quanto a Proust, credo che anche lui avesse paura, come 1 83

ogni volta che si inoltrava così profondamente nel regno dell'altro. Certo era un gioco, una specie di truffa, come quella di Lemoine, che pretendeva di trasformare il carbo­ ne in diamante: nulla era più divertente; ma non provò anche una sensazione più vertiginosa, quasi il rischio di perdersi? Alla fine, rimase lievemente irritato. Che gli im­ portava, ora, di diventare Flaubert o Saint-Simon? Conti­ nuava a sostare indefinitamente nel vestibolo dell'opera: quello che gli premeva era di scoprire la sua musica, e di cantare finalmente a piena voce. Poi, al tempo della Re­ cherche, si sarebbe lasciato ispirare di nuovo dal suo istinto di ventriloquo, parodiando personaggi e scrittori e tra­ sformando il testo, come aveva fatto Goethe nel Faust II, in una specie di compendio della letteratura universale.

Dopo i Pastiches, Proust tentò una nuova fuga: rinunciò ancora una volta all' opera, fuggendo lontanissimo dal centro all'esterno del libro, e all'esterno di sé stesso. Forse immaginò che solo così si sarebbe avvicinato al proprio cuore. Cominciò a rileggere le Causeries du Lundi, Chateau­ briand et son groupe littéraire, i Nouveaux Lundis, i Portraits littéraires, Port-Royal, i Portraits con temporains e decise di scrivere contro Sainte-Beuve e il suo metodo. Proust ave­ va già distrutto Ruskin dopo averlo adorato: ma questa nuova distruzione non nasceva da nessuna venerazione anteriore. Fu uno spaventoso massacro: il più feroce atto di nichilismo a cui Proust si sia mai abbandonato, com­ piuto con ingiustizia, semplificazione, volgarità, come se egli avesse comunque bisogno di trovare qualcuno da fu­ cilare. Con gli anni, quest'odio divenne un'ossessione, un partito preso che lo indusse a paragonare la «depravazio­ ne di gusto» di Sainte-Beuve ai diminuendo di Madame de Cambremer. Conosciamo la bandiera che Proust oppone­ va a Sainte-Beuve: «Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella 1 84

società, nei nostri vizi. Questo secondo io, se vogliamo cercare di comprenderlo, è in fondo a noi stessi, cercando di ricrearlo in noi, che possiamo giungervi . . . Non dimenti­ care: i libri sono l'opera della solitudine e i figli del silenzio. l figli del silenzio non devono aver nulla in comune con i figli della parola . . . » . E poi: Sainte-Beuve era soltanto un «pasticciere»: un uomo perfido, invidioso, geloso, volga­ re; una vera, ipocrita canaglia. E non sapeva scrivere. Viene in mente la massima di un sociologo famoso: le più terribili guerre di religione, come quelle tra Cristiane­ simo e Islam, avvengono tra fedeli le cui religioni sono si­ milissime. Quante cose Proust aveva in comune con Sain­ te-Beuve! Il desiderio metafisica: la metamorfosi inces­ sante dello spirito: la molteplicità e la curiosità insaziabile dello sguardo: la mente fine, malleabile, plasmabile, po­ rosa, quasi liquida: il dono dell'empatia: la dolcezza me­ lodica: il velluto, la seta, il miele dell'anima; il rimpianto, che nulla poteva calmare ... E se pensiamo alla critica let­ teraria, quando ricordiamo la massima di Sainte-Beuve: «Quello che ho voluto in critica, è stato di introdurvi una specie di incanto, e allo stesso tempo più realtà di quella che ci si metteva prima; in una parola, della poesia e insie­ me un po' di fisiologia», ci viene alla mente, subito, che questa è la definizione della critica letteraria del Contre Sainte-Beuve. Come Proust, Sainte-Beuve traduceva un testo, o una complessa condizione spirituale, con l'equi­ valente di una sola immagine o di un impasto di immagi­ ni; e queste immagini erano spesso di natura fisico-chimi­ ca, così come gli aggettivi assomigliavano già ai terzetti o quintetti proustiani. Se oggi leggiamo tutti i Lundis e i Portraits, anche i minori, dedicati a scrittori che Proust detestava, ci rendiamo conto che formano un immenso salon, che annuncia già le più sterminate distese del C6té de Guermantes e di Sodome et Gomorrhe. Quanto al capola­ voro, il Port-Royal, quell'incantevole fluidità narrativa, che assorbe in sé stessa qualsiasi resistenza, non è già un'eco anticipata del fondu della Recherche? 1 85

Molto spesso, le qualità proustiane di Sainte-Beuve avevano preso un'altra strada, o si erano arrestate e in­ sabbia te. Così, ad esempio, il desiderio metafisica, che aveva spinto Sainte-Beuve a leggere Agostino, Pascal e i giansenisti, si mescolava con una delusione troppo uma­ na, con un pessimismo amaro, con uno scetticismo ma­ linconico, non importa se naturaliter cristiano: mentre, anche se possedeva una cultura religiosa molto più ri­ stretta, Proust conservò puro e ardente il desiderio meta­ fisico, fino a costruirvi attorno l'edificio della Recherche. Con coraggio e ferocia, amava la verità, a qualsiasi prez­ zo, anche di ferirsi nel modo più atroce: mentre Sainte­ Beuve alzava le braccia davanti alla limitatezza e all'im­ potenza delle forze umane. Quanto alla critica letteraria, Proust era un viaggiatore e un attore come Sainte-Beuve, «che mutava ogni sera il costume, il volto e le parti»: ma Sainte-Beuve era sempre in viaggio, mutava e si trasfor­ mava e ondeggiava girando voluttuosamente attorno al suo testo, e accontentandosi di una specie di semi-meta­ morfosi; Proust, invece, sia che praticasse la recréation vi­ vante o la claire analyse, voleva la metamorfosi assoluta, l'equivalente totale del testo, far rivivere lo scrittore qui, ora e in eterno, come se non esistesse nessun altro al mondo. «Nessuna conclusione» era il motto di Sainte­ Beuve, mentre Proust voleva la perentorietà dell' epigra­ fe. E poi Sainte-Beuve era così francese. Come molti fran­ cesi, amava il buon senso, il buon gusto, la discrezione, quella dote sovrana che è il tatto: qualche volta, in veste da carnera e in maniche di camicia, sembrava preparare la sua cucina letteraria serale, l'uovo al tegamino per i suoi lettori. Proust, invece, amava l'esagerazione, l' am­ mirazione, l' entusiasmo, la follia, come Saint-Sirnon e Dostoevskij. Come accade sovente, l'odio prese, a prima vista, la for­ ma dell'identificazione. Nelle pagine più antiche del Con­ tre Sainte-Beuve, Proust confessò che anche lui aveva abi­ tato (e in parte ancora abitava) l'autore dei Lundis. Come 1 86

Sainte-Beuve aveva bruciato le sue riserve e sprecato i suoi pensieri più preziosi nella fabbricazione di quei razzi che, per dieci anni, lanciò ogni lunedì nel cielo con uno splendore incomparabile, - anche lui, per molti anni, ave­ va sprecato il proprio genio nelle gioie della conversazio­ ne e nelle forme della letteratura minore. Aveva scritto ar­ ticoli; e cos'è un articolo, se non una forma peccaminosa di complicità, una specie di arco, che nasce nel nostro pensiero e finisce nell'ammirazione dei lettori? Ogni lu­ nedì mattina, all'ora in cui, d'inverno, il giorno è ancora livido sulle finestre chiuse, Sainte-Beuve apriva «Le Cons­ titutionnel» e pensava che nello stesso momento i suoi pensieri nuovi e brillanti penetravano in tante case di Pa­ rigi, con tutti i particolari «in piena luce, e ombre . . . amoro­ samente accarezzate>>. Anche Proust aveva conosciuto la medesima gioia, pubblicando i propri articoli sul «Figa­ ro». Quando il cielo era color della brace, migliaia di copie di giornale, umide di nebbia e di stampa, più nutrienti e saporose di una brioche calda, moltiplicavano il suo nome per migliaia di case; e se il sole si alzava, si gonfiava, si il­ luminava saltando al di sopra dell'orizzonte violaceo, le sue parole salivano in ogni spirito e lo tingevano con la vaga iridiscenza dei loro colori. Almeno in parte, il Contre Sainte-Beuve è una splendida «conversazione scritta», dove Proust ostentò la propria in­ telligenza, come se volesse dimostrarci che nessuno era più intelligente di lui. Ci accorgiamo che Proust è qui, da­ vanti a noi: proprio lui, l'uomo di trentasette anni, che vi­ veva al numero 1 02 di boulevard Haussmann e soffriva d'asma: non l'altro uomo, che abitava nelle sue misteriose profondità; e con quella foga che solo l'intelligenza feb­ brilmente eccitata conosce, difende sé stesso, divulga sé stesso, ironizza, schernisce, offende, dimostra, polemizza, gioca, dice eleganti perfidie. Alcune pagine critiche, su Baudelaire, Flaubert o Balzac, sono prodigiose: Proust tra­ duce il cuore di un'esperienza con delle sensazioni natu­ rali, penetra nell'ultimo segreto di uno stile, come forse 187

nessuno ha mai saputo. Ma il tono è quello del mondano dilettante di letteratura, che conversa in un salotto con amici non meno squisiti di lui. Gioca con i libri: li ama co­ me si può amare una donna, un vestito, un tramonto, un gioiello futile e prezioso; e si accalora, diventa acuto, sotti­ le e vivace per farsi amare dal piccolo pubblico dei suoi amici. Questo sfoggio d'intelligenza ha uno scopo paradossa­ le: dimostrare che l' intelligenza è una qualità inferiore, che «non crea, si accontenta di districare>>; così che essa uccide lietamente sé stessa davanti a noi, ostentando la propria grandezza e la propria miseria. E Sainte-Beuve che, come sostiene Proust (a torto), sarebbe stato uno scrittore solo intelligente, era molto inferiore a Balzac, Flaubert, Nerval, a tutti quegli altri su cui aveva lasciato cadere uno sguardo arrogante e annoiato. Questa squisita conversazione dilettantesca, che Proust guida da maestro, ci rivela che la letteratura non è quella «conversazione scritta» tra persone raffinate e civili con cui (secondo Proust) Sainte-Beuve amava confonderla: mentre il dilet­ tantismo letterario è il peggiore tra i peccati. «Non dimen­ ticare: i libri sono opera della solitudine e figli del silenzio.» Anche lui aveva parlato tanto : aveva scritto articoli di giornale . . . Così, per la prima volta nella sua vita, Proust si giustificava davanti a sé stesso e all'ombra onnipresente della madre. Quel severo io profondo, che tra poco si sa­ rebbe espresso nel suo libro, non aveva nulla a che fare con l'io quotidiano, incantevole e futile, che gli amici ave­ vano conosciuto.

Il Contre Sain te-Beuve che Proust compose tra il 1908 e il 1909, ha due forme. La prima è un saggio critico sul meto­ do di Sainte-Beuve, preceduto da un'ouverture teorica sul­ la memoria, che preannuncia, quasi alla lettera, alcuni te­ mi-chiave della Recherche. Anche in questo la Recherche è 1 88

un'opera unica. Se leggiamo il Wilhelm Meister, o Delitto e castigo, o Anna Karenina o I demoni o L'uomo senza qualità, ci accorgiamo che l'opera cresce da principio come un albe­ ro o una boscaglia, senza possedere ancora un' architettu­ ra o una teoria di sé stessa, che solo più tardi coronerà il li­ bro. Proust procede in modo esattamente opposto. Non ha ancora sulla carta nessun materiale narrativo: ma di­ spone già di una teoria intellettuale, o per meglio dire di un grande mito filosofico, che vorrei paragonare a un mi­ to di Platone. Tutta l'infinita massa narrativa si nasconde lì dentro, come un germe che diventerà albero, foresta, continente. Nel Jean San teuil aveva raccolto molte immagini di identità memoriale, con lo stesso proposito dell'ouverture del Contre Sainte-Beuve. Qui Proust non richiamò nessuna di esse, certo perché non avevano per lui il carattere ar­ chetipico che egli richiedeva alle sensazioni. Ricordò tre nuove immagini di identità, che ritornano tutte nella Re­ cherche. Una sera, la sua vecchia cuoca gli offre una tazza di tè, insieme a qualche fetta di pane tostato. Quando met­ te in bocca il pane inumidito, sente come un turbamento, odore di gerani, di aranci, una straordinaria sensazione di luce e di felicità. All'improvviso le pareti della memoria cedono, e ricorda che negli anni d'infanzia, quando anda­ va in una casa di campagna, ogni mattina scendeva nella stanza del nonno, che gli offriva un biscotto bagnato nel tè; e in quel momento tutto un passato risorge - un giardi­ no, con i suoi viali dimenticati, i suoi cesti di fiori, «come quei piccoli fiori giapponesi che riprendono vigore soltan­ to nell'acqua» . L a seconda sensazione riguarda il soggiorno a Venezia del 1 900. Attraversan d o un cortile insieme ad amici, Proust si ferma di colpo in mezzo ai pavés ineguali e bril­ lanti. Anche questa volta sente un'ondata di felicità inva­ derlo. Teme che il passato gli sfugga: fa un passo indietro; e ricorda che aveva provato la stessa sensazione sul lastri­ cato un po' ineguale della basilica di San Marco. Un fiotto 1 89

di luce l'inonda, assieme all'ombra sul canale, e tutto il te­ soro di quelle ore veneziane si precipita su di lui. La terza sensazione è quella di un cucchiaio che cade su un piatto: ha lo stesso suono del martello dei ferrovieri che batteva­ no le ruote del vagone, mentre lui, tempo prima, attraver­ sava la campagna in treno - e insieme al suono risorge «quell'ora bruciante e accecata». Intorno a queste tre sen­ sazioni, Proust abbozzò il suo mito della memoria, che poi si dispiegò nella Recherche. Vorrei per ora ricordare soltanto un fatto. Queste tre sensazioni sono tutte sensa­ zioni di luce e di felicità luminosa; e la luce non sta (o non sta soltanto) nel paesaggio evocato, ma costituisce la so­ stanza stessa della memoria. Qui viveva l'io profondo, che si era celato nelle parti di «conversazione» del Contre Sainte-Beuve. Quest'io profon­ do egli lo conosceva benissimo, sebbene affermasse il con­ trario. Aveva vissuto in lui, ispirando le pagine più belle del fean Santeuil e degli scritti successivi. Era l'io dell'ana­ logia - l'analogia, questa qualità suprema che l'uomo ha sempre conosciuto, ma che nei tempi moderni appartiene quasi esclusivamente ai poeti, i quali hanno ereditato le esperienze dei mistici. Il lieto, febbrile uomo dell'analogia era attivo in Proust, anche quando il corpo era malato e senza forze. Scopriva un legame profondo tra due idee, due sensazioni, due impressioni: tra un evento di oggi e un evento passato: tra due quadri di uno stesso pittore scorgeva una «stessa sinuosità di profili, una stessa stoffa, una stessa seggiola», che mostrava tra loro qualcosa di co­ mune: scorgeva affinità tra due libri di uno scrittore; o tra due o molti aspetti stilistici di un libro. Come ogni uomo dell'analogia, Proust moriva «istantaneamente nel parti­ colare e si rimetteva immediatamente a ondeggiare e a vi­ vere nel generale>>, simile a quei grani che smettono di germogliare in un'atmosfera troppo secca, ma che un po' di umidità e di calore basta a risuscitare. Erano i giochi dell'Uno, che da tempo aveva praticato; e che riempivano la sua vita di «grani di essenza», di «gocce di luce», im1 90

mensamente beatifiche. Prima di cominciare il Contre Sainte-Beuve, aveva passa­ to tempi di angoscia, che ancora segnano il libro: aveva pensato che la sua sensibilità fosse indebolita, la memoria incerta, il talento esaurito, le ore contate. Ora, scrivendo attorno all' analogia, si accorse che non era affatto quell'uomo casuale e frammentario che credeva di essere: dentro di lui si nascondeva un essere vivo, compatto, coe­ rente, robusto, capace di vincere la malattia e la morte; un essere straordinariamente unitario in tutte le sue manife­ stazioni ed espressioni. Nulla poteva renderlo più felice, perché mentre quell'essere viveva in lui, la sua esistenza non era che «un'estasi e una felicità»: conosceva gioie su­ periori a ogni piacere, sapeva che la morte non aveva al­ cuna importanza . . . Così lo colse un sogno: comporre un li­ bro con frasi ed episodi composti soltanto dalla sostanza trasparente dei suoi minuti migliori, quando viveva fuori dalla realtà e dal tempo; scrivere un libro con «gocce di lu­ ce», «essenze» e analogie. Ma era pieno di dubbi, perché sia l'uomo dell'analogia sia le «essenze» sono intermitten­ ti: come scrivere un romanzo solo con delle «gocce di lu­ ce»? Molto più tardi, nella Recherche, comprese che una re­ te di analogie governava tutto il suo libro. La seconda forma del Contre Sainte-Beuve è un roman­ zo-saggio, che avrebbe portato il titolo di Contre Sain te­ Beuve, Souvenir d'une matinée. Comprendeva una cornice, con il risveglio di Proust dal sonno, le sensazioni del mat­ tino, la pubblicazione di un articolo sul «Figaro», le prime conversazioni con la madre, l'apparizione di un raggio di sole, il ricordo di Venezia: un lungo flashback, dove affiora­ va per la prima volta molta parte del futuro materiale del­ la Recherche; e si chiudeva con una «lunga conversazione» insieme alla madre «su Sainte-Beuve e sull'estetica» . Ri­ spetto al Jean Santeuil e al saggio su Sainte-Beuve, questo romanzo-saggio è un capovolgimento assoluto. Là il pri­ mo termine era la luce, che si esaltava e si inebriava nelle estati di llliers, o costituiva la sostanza stessa della memo191

ria. Qui, invece, Proust iniziava il romanzo con la notte: il sonno e il sogno e le reveries notturne e l'inconscio e il se­ minconscio e il lento risveglio - quell'irrazionale che ac­ cusava Sainte-Beuve, e gli scrittori devoti all'intelligenza, di non voler prendere in considerazione. Era già l' ouvertu­ re della Recherche. Per la prima volta Proust comprese che ogni cosa ha inizio, come dice Esiodo, con «la nera Notte», da cui uscì la Luce del Giorno. Anche lui doveva comin­ ciare con la Tenebra . La Luce, che fino a quel momento poneva all' inizio, doveva rappresentare la conclusione della sua opera. I frammenti notturni del romanzo sono di una straordi­ naria bellezza. In nessun libro, forse, è così evidente la profondità e la pesantezza del sonno, quando ci identifi­ chiamo completamente con le cose, sprofondiamo nell' og­ gettività più assoluta, diventiamo simili, così uniti al no­ stro letto e alla nostra camera, a un vaso di marmellata o a una mela «chiamata per un istante a una vaga coscienza», e poi ripiombata nella sua insensibilità deliziosa. Ci sono i sogni, che portano sempre più indietro nel tempo. Quan­ do il risveglio si avvicina, scopriamo che non esiste sol­ tanto una memoria dei sogni, una memoria delle reveries a occhi aperti, come quella che apre la Recherche, una me­ moria involontaria: ma anche una memoria del corpo, for­ se la più sicura di tutte. Il risveglio ha un ardimento e una complicazione, a cui la Recherche, più lineare, ha rinuncia­ to. Se il sonno uccide lo spazio e il tempo, nel momento del risveglio il dormiente sprofonda nella vertigine: mol­ tissimi tempi e luoghi - non solo Combray e Tansonville come nella Recherche, ma Auteuil, la caserma di Orléans, il castello di Réveillon, l' hotel di Ostenda (o di Anversa), Beg-Meil, Trouville, Parigi, la casa della Villeparisis, Querqueville, Avranches, Aix-les-Bains, Dieppe - si confondono, si mescolano, si accavallano vorticosamente nell' istante di tempo, mentre attorno cambiano forma, si restringono, si allargano, turbinano muri invisibili. Il libro procede lentamente verso la luce. Nella prima 1 92

apparizione della luce, sul balcone di casa, Proust cerca di rendere tutto ciò che è minimo, impalpabile, aereo nel gio­ co dei raggi e delle ombre. Il raggio di sole diventa acqua, musica, quadro impressionistico, prodigioso pezzo per un virtuoso di violino e di piano. Prima palpita sul sostegno della finestra: non lo si vede ancora, ma si avverte la sua pulsazione, che sta per liberare quanto contiene di sole. Un istante dopo il sostegno della finestra diventa pallido come un' acqua mattutina, dove dondolano i riflessi del ferro del balcone. Un soffio li disperde, e poi ritornano. La luce quasi indiscernibile cresce all'improvviso in una pro­ gressione graduata e rapida, come i suoni che terminano un'ouverture d'orchestra cominciata pianissimo e che au­ mentano fino al supremo forte su una nota sola. Alla fine il sostegno del balcone è «dipinto tutto intero e come per sempre da quell'oro sostenuto, composto dagli splendori invariabili di uno smalto fisso e di un giorno d'estate»; e le ombre un po' fruste del graticcio di ferro del balcone vi si riflettono, mostrando i loro ultimi arabeschi. Il trionfo della luce avviene a Venezia. Qui, com'era ac­ caduto nella realtà nove anni prima, l'angelo d'oro del campanile di San Marco fiammeggia di un sole che lo ren­ de «quasi impossibile a fissare», come non possiamo fissa­ re Dio; e l'angelo porta a Proust sulle sue ali abbaglianti «una promessa di bellezza e di gioia, più grande di quella che portò mai ai cuori cristiani quando venne ad annun­ ciare "la gloria di Dio nel cielo e la pace sulla terra agli '! o­ mini di buona volontà" ». L'allusione è evidentissima. E il momento supremo della rivelazione cristiana. Quando nacque Gesù, l'angelo si presentò ai pastori, «e la gloria del Signore li avvolse di luce ed essi furono presi da gran­ de paura. Ma l'angelo disse loro: "Non temete, perché ec­ co io vi annuncio una grande gioia . . . Oggi, nella città di David, è stato dato alla luce un Salvatore, che è il Messia Signore" . E subito si unì all'angelo la moltitudine dell'esercito del cielo che lodava Dio e diceva: "Gloria a Dio negli altissimi e pace in terra agli uomini di buona vo193

lontà" » (Luca 2, 9-1 4). La rivelazione che, nel Con tre Sainte­ Beuve, corrisponde al trionfo celeste e terreno dei Vangeli, è la suprema rivelazione della luce, che redime tutto l'uni­ verso, che riscatta le cose umili e alte, Chardin e Veronese, che diventa ricordo, che si trasforma in ombra, e unifica tra loro la piazza e il mercato di Combray e la piazza di San Marco a Venezia. Negli stessi mesi, Proust si era domandato in sogno se la madre «avrebbe capito il suo libro». Quale potesse esse­ re la risposta, le edificò un ardente monumento funebre: la trasformò nel cuore e nell'interlocutrice del suo libro, la avvolse di luce: la rievocò con una dolcezza e uno strazio inesauribili: quella dolcezza che sgorga dalla fontana in­ cessante dell'amore, il quale «zampilla verso la vita eter­ na», come dice Giovanni. La rievocò in tutti gli atteggia­ menti: con la parola inceppata, la voce alterata dall'afasia, mentre sorridendo scherzava ancora con lui: o quando provava timidamente un'aria del coro di Esther, come una delle ragazze di Saint-Cyr, e sembrava Esther stessa: o quando, con un'aria di distrazione e d'indifferenza, posa­ va una copia del «Figaro» sopra il suo letto: o nella pro­ pria stanza, seduta davanti alla toilette, con un grande ac­ cappatoio bianco e i capelli neri sparsi sulle spalle: o mentre leggeva George Sand al suo capezzale, con la bella voce, piena di distinzione, di generosità, di nobiltà d'ani­ mo; o sopratutto il culmine della dolcezza - mentre gli sorrideva dalla finestra dell'albergo di Venezia e gli invia­ va dal fondo del cuore tutto il suo affetto. Nel Souvenir d'une matinée le edificò per l'ultima volta questo monu­ mento funebre. Poi, nella Recherche, la morte non l'avreb­ be più allontanato da lei, perché la rese immortale. Non è facile parlare della storia interna di Contre Sainte­ Beuve, Souvenir d'une matinée, perché ne possediamo due edizioni egualmente indecorose; e un lettore di buona vo­ lontà è costretto a ritagliarsi e costruirsi un libro, montan­ do come un puzzle gli abbozzi (parziali) che vengono pre­ sentati nell'edizione della Recherche diretta da Jean-Yves -

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Tadié. Una cosa è certa. Il libro esplose tra le mani di Proust. I ricordi dell'infanzia, i ricordi di ogni genere che abitavano la mente del protagonista insonne si accumula­ rono, si moltiplicarono, fecero massa, riempirono il graci­ le flashback originario, fino al punto in cui non era più pos­ sibile ritornare indietro, a quella matinée in cui madre e figlio discorrevano di estetica. Nel romanzo-saggio origi­ nario, tutto convergeva verso quel tempo passato, posto all'inizio della storia, verso quella matinée che Proust con­ servò disperatamente nei manoscritti e nei dattiloscritti, anche quando essa aveva perduto la propria funzione narrativa. La Recherche non mira a un passato, ma a una rivelazione futura, che provoca il movimento all'indietro della narrazione. Così la matinée andava abolita. Non ave­ va più significato, se vi appariva la madre morta, non la madre immortale. Il Contre Sainte-Beuve restò sempre per Proust, sino alla fine della sua vita, una miniera di materiale e di invenzio­ ni. Alcuni dei più grandi miti della Recherche - come la razza maledetta, la stirpe dei Guermantes, Venezia - sono nati qui, dal gioco di una penna che vagava alla ricerca di sé stessa. Proust componeva ad abbozzi, a tocchi successi­ vi, riprendendo sempre da capo, dieci, dodici, quindici volte, talvolta senza utilizzare la versione anteriore: come un pittore che dipinge, quasi contemporaneamente, su dieci tele diverse. Sviluppando il tentativo degli articoli sul «Figaro», era diventato il sovrano della variazione e della divagazione: scrivendo a onde, a riprese, a richiami, perdendo e ritrovando il filo, via via che una nuova asso­ ciazione di idee attraversava la sua mente. Come nelle conversazioni di Coleridge, che partivano dal nulla per abbracciare il mondo, una vegetazione lussureggiante fio­ riva sopra un tronco esile e lieve. ll libro non possedeva ancora l'architettura, la continuità, l'imme nsa fluidità del­ la Recherche. Non è il caso di rirnpiangerle. Possiamo so­ stare qualche giorno in questo libro delizioso, nato pro­ prio davanti alla Recherche come un padiglione rococò, 1 95

dove ci sofferrniarno a prendere il gelato e ad ascoltare musica, prima di intraprendere la visita interminabile alla cattedrale incompiuta. Vi sono pagine di una felicità, di una sapienza e di una grazia musicale, di un delirio estati­ co e di una brillantezza, che non dimenticheremo mai. Malgrado tutto, Proust era ancora come la statua di Mero­ none. Un raggio di sole bastava a farlo cantare. Intorno al l S agosto 1909, Proust era di nuovo al Grand Hòtel di Cabourg: dapprima in una carnera umida: poi in una stanzetta al quarto piano, vicino a un cortiletto, dove era tributario della superba stanza da bagno del domesti­ co; infine in una stanza troppo nuova, vicino a degli ame­ ricani, che lo inquietavano. Scriveva fino all'alba inoltrata, e faceva la prima apparizione nel ristorante tra le nove e le dieci di sera. Aveva ritrasforrnato l'albergo in un carce­ re. Stava sempre rinchiuso: raggiungeva il Casinò attra­ verso un passaggio interno; non gli importava più di ve­ dere il mare - le linee schiumanti che ora venivano verso terra avanzando, ora svelavano le loro prime ondulazioni dopo una pianura sabbiosa, in una lontananza vaporosa e bluastra come i ghiacciai in fondo ai quadri dei Primitivi toscani. Sapeva che il libro che scriveva non era suo. Tutta la storia della letteratura lo aveva creato, tutta la sensibi­ lità umana l'aveva foggiato: figlio di tutti gli scrittori di genio che, all'improvviso, in quella mattina di nebbia e di vetro azzurro, si erano risvegliati dentro di lui. Quando tornò a Parigi, il libro tornò a espandersi, come una piovra velocissima e gigantesca. Nel novembre comprendeva tre volumi; e Proust fece leggere le prime duecento pagine - la futura Cornbray - a Reynaldo Hahn e a Georges de Lauris. I due amici furono entusiasti. Come una di quelle scogliere di corallo del mare indiano a cui Ruskin aveva paragonato Venezia, un intero mondo si affacciò per loro sulle distese brumose dell'inverno: le notti insonni, la lanterna magica, Swann, il bacio della sera, zia Léonie, la chiesa logorata dai mantelli e dalle mani dei contadini, Françoise, la serva che assomigliava 1 96

alla Carità di Giotto, il fiume e i fiori d' acqua e tutti quei ricordi e quelle immagini che stavano nascoste nella tazza di tè, come i pezzi di carta giapponesi che, appena tuffati nell'acqua, diventano fiori, barche, personaggi. Lui si illudeva che avrebbe finito presto: qualche mese, forse un anno di reclusione. Quella reclusione gli pesava; e an­ dava col pensiero al momento in cui, consegnato il libro, ultimato il dovere che lo incatenava, avrebbe ripreso a vi­ vere, rivedendo i suoi amici, i loro cari visi, le loro care voci e si sarebbe sfamato di loro in «interminabili visite e mute contemplazioni» . Prima di lasciare la terra, voleva consacrarsi a incontrare, come diceva Ruskin, qualcuno « dei compagni che gli avevano dato la migliore gioia della sua vita sulla terra» (perché nell'altra temeva di «non scorgere più i loro occhi e stringere le loro mani»). Cosa avrebbe fatto, dopo? Jeunes filles? O i piaceri che si era negato? Non immaginava che non ci sarebbe stato nessun dopo. L'opera sarebbe rimasta una cattedrale in­ compiuta: un grandioso fallimento, come tutti i libri degli uomini moderni, perché «nel nostro mondo imperfetto i capolavori dell'arte non sono che i relitti del naufragio delle grandi intelligenze».

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III

Due visitatori

In un giorno del novembre o del dicembre 1913, Céleste Al­ baret varcò per la prima volta la porta della camera da letto di Marcel Proust. Il suo compito era semplicissimo. Come certi geni delle Mille e una notte, che offrono agli uomini una lampada, un fiore o un mantello, lei doveva offrire al suo misterioso signore il secondo croissant, che costituiva la metà del suo primo pasto. Alle due del pomeriggio, quan­ do il domestico prendeva le ore di libertà, giungeva al nu­ mero 1 02 di boulevard Haussmann. Aspettava in cucina. Era sola. Non poteva fare a meno di essere ansiosa, nel si­ lenzio del grande appartamento sconosciuto, dove non le era concesso di penetrare - e lui, laggiù, nella lontana came­ ra da letto, che dormiva o scriveva nei suoi quaderni. Ma, in quelle ore di attesa, non si annoiò mai: non leggeva, non parlava con nessuno, non faceva nulla, aspettava soltanto il suono del campanello, che doveva introdurla nella camera dei misteri. Per giorni e giorni, il campanello non suonò mai. Céleste pensava che non sarebbe mai stata chiamata. Poi un giorno, all'improvviso, il campanello squillò due volte. «Due volte per il croissant» le aveva detto il domestico. Céleste si alzò, afferrò il piattino con il croissant - che un ragazzo della pa­ sticceria-panetteria di rue de La Pépinière aveva appena portato, freschissimo e odoroso di marmellata. Prese un lungo corridoio, che attraversava l' ingresso e il salotto 198

grande. Quando arrivò davanti alla quarta porta, non bus­ sò: aprì e scostò la portiera, come le era stato raccomandato. Un fumo densissimo riempiva la grande stanza. Era ac­ cesa solo una piccola lampada da notte, che mandava una luce verde e fioca. Quel pomeriggio, Céleste non ebbe la forza di guardare la stanza, che per anni sarebbe· stato il cuore radioso della sua vita. Tutto, là dentro, era alto e si­ lenzioso: le lunghe tende blu chiuse contro la luce del gior­ no, i pannelli di sughero sulle pareti, il soffitto che pareva lontanissimo, il lampadario blu spento che si perdeva nella nebbia. Non vide le doppie finestre che soffocavano il ru­ more del tram, l'armadio a specchio, il pianoforte a coda, il massiccio tavolo-scrivania pieno di libri, il mobiletto cine­ se con la fotografia di Marcel bambino e del fratello, la sta­ tuina di Gesù bambino incoronato di grappoli d'uva, il pa­ ravento, il tavolino da lavoro della madre; e nemmeno i quaderni con la Recherche, la pila di fazzoletti, le borse dell'acqua calda, le penne, l'orologio. Guardò in basso, verso il letto di rame illuminato dalla luce verde, dove stava disteso l'uomo che non aveva mai visto. Lo scorse appena: distinse una camicia bianca co­ perta da un maglione di lana dei Pirenei; ma il viso si perdeva nell' ombra e nella nebbia dei suffumigi. Vide soltanto gli occhi, che la guardavano: più che vederli, li sentì. Era la prima volta: poi, come l'avrebbero affascina­ ta il suo modo di ascoltare, la guancia appoggiata sulla mano, e gli occhi ora pieni di dolcezza, ora scintillanti di divertimento, sempre attentissimi, come se stessero tra­ sformando in invisibili segni di scrittura quello che lei di­ ceva! Lì, su un tavolo, stava un vassoio d'argento, con la tazza, la caffettiera e la lattiera; e lei depose sul vassoio il piattino col secondo croissant. Soltanto in quel momento, l'uomo fece con la mano un cenno che doveva essere di ringraziamento. Non disse una parola. Céleste tornò in cucina. Aveva avuto l'impressione di essere entrata in un enorme tappo, o in una cava d i marmo, come quella dove, quando era piccola, l'avevano portata le suore. 199

La sera, o per meglio dire la notte, altri visitatori violava­ no il mortale silenzio di quella casa di marmo. Tra questi visitatori conosciamo sopratutto un giovane, Marcel Plan­ tevignes, che è stato per Proust quello che Gustav Janouch è stato per Kafka. Proust lo conobbe quando aveva dician­ nove anni, mentre Kafka incontrò Janouch quando ne ave­ va diciassette. Plantevignes faceva parte di quel piccolo gruppo di amiche e di amici, in parte omosessuali, che Proust frequentò a Cabourg, quando cercava le anime che dovevano ancora maturare, le «anime calorose e profonde, sempre vibranti e vivificate dai quattro venti dello spirito» . Proust ebbe simpatia e affetto per lui: lo invitava a l Grand Hotel di Cabourg e nella casa di Parigi. Poi i loro rapporti si allentarono. Vecchio, fallito (almeno nella letteratura), Plantevignes pubblicò un immenso libro di ricordi, Avec Marcel Proust. Come Gustav Janouch aveva mentito, così lui mentì, inventò, colorì, chiacchierò, attribuendosi una parte molto più importante di quella reale nella vita di Proust, che era stato l'unico faro della sua esistenza. Imma­ ginò di essere stato il suo confidente e il suo ispiratore. Ma, come Janouch, Plantevignes aveva l'occhio e l'orecchio precisi: una memoria quasi infallibile; e pochi testimoni ri­ producono con tale verità la voce di Proust. Quando voleva vedere Proust, Plantevignes sondava al telefono - mai prima delle dieci e un quarto di sera - Ni­ colas Cottin, il cameriere, domandando se il signore si era svegliato, se aveva dormito bene, se la giornata era stata buona, come aveva detto di sentirsi, se Nicolas era riusci­ to a farlo mangiare; e poi doveva chiedere consiglio a Ni­ colas se era o no il caso di venire a trovare Proust e a qua­ le ora . Quando Plantevignes arrivava, sorrideva al cameriere, ma non gli dava mai la mano: ciò che avrebbe diminuito agli occhi di lui l'importanza della fiducia che gli era stata testimoniata. Poi veniva introdotto in un sa200

lottino-scrittoio, dove faceva freddissimo. Ogni volta Ni­ colas si scusava cerimoniosamente, accendeva il fuoco nel caminetto, che riusciva appena a intiepidire quel gelo in­ contaminato. Il silenzio era assoluto: il cameriere si muo­ veva come un'ombra monastica tra i tappeti, gli arazzi e le opere complete di Montesquiou, ammucchiate a terra . Dopo qualche tempo Nicolas riappariva nel saloncino e mormorava solennemente: «Monsieur Marcel attende il signore». Apriva una piccola porta, che dava su due gran­ di saloni oscuri, gremiti di mobili, di poltrone ricoperte di fodere, di arazzi, di pile di libri a terra; e solo la luce che proveniva dal salottino, e il guizzare del modesto fuoco, permettevano di scorgere il ritratto di Bianche, dove Proust-camelia scompariva nella notte. Ogni volta Plante­ vignes incespicava, e Nicolas si scusava ogni volta, senza tuttavia accendere mai la luce. Alla fine apriva una porta, alzava le cortine, e si faceva da parte per !asciarlo entrare. Là, in fondo, accanto al muro, Proust stava disteso nel letto. Il viso mutava, secondo i periodi. Per molto tempo, indossò sul viso d'avorio una barba nerissima che lo face­ va assomigliare a un Cristo del Greco, o al poeta di una miniatura persiana: poi se la fece tagliare, come un attore, che cambia il ruolo e la parte. Gli occhi, mobili e profon­ dissimi, luminosi e onnivori, guardavano con intensità il visitatore: fuggivano, lo riafferravano, lo avvolgevano di letizia, di ironia, di malinconia - e poi si commuovevano, febbrilmente, se qualcosa aveva risvegliato la sua atten­ zione. La voce diafana aveva talvolta un timbro da melo­ pea orientale: si posava nel silenzio con la soffice autorità delle verità definitive; tutto era così ben detto, così sfuma­ to, così cesellato, che il visitatore restava in silenzio, per permettere alla melopea di continuare le sue modulazio­ ni. A volte la voce diventava più grave, come se si inchi­ nasse davanti all'inconoscibile: oppure si faceva più confi­ denziale, e si spegneva quasi in un mormorio. Ciò che colpiva l'ascoltatore era la mirabile, aerea sintas­ si della voce. In quelle modulazioni c'era la punteggiatura 201

della pagina scritta, perché il tono e le inflessioni tenevano luogo del punto, della virgola e del punto e virgola, - e pau­ se, distanze, avvicinamenti, che nessun segno tipografico avrebbe potuto riprodurre . Nessuna immagine, nessun ri­ cordo, nessuna idea giungeva mai da sola. Tutte erano ac­ compagnate e circondate da un corteo cantante, danzante e fantastico di imma gini. Proust aveva appena cominciato a esprimere un'idea, che un'altra le correva dietro e si legava con lei, e il tono della voce apriva una parentesi dentro la quale si apriva una seconda parentesi. Voleva esprimere nello stesso tempo queste idee sorelle, nate insieme, e non poteva separarle, perché teneva sopratutto ai > a proposito di Du coté de chez Swann. Ma era pieno di precauzioni. Voleva che Ago­ stinelli sigillasse con grande cura le proprie lettere, e poi 210

rinviasse le sue. Come sempre, temeva le voci, i pettego­ lezzi, i ricatti. Verso maggio, Proust tentò un'altra strada per sedurre Agostinelli. Vendette cinquantamila franchi di azioni: ne chiese una grossa parte in liquidi, per nascondere ciò che faceva: decise di spendere ventisettemila franchi per ac­ quistare un aeroplano, un'altra somma per comprare un altro dono; e offrì i due regali ad Agostinelli, senza chie­ dere nulla in cambio. Come sempre, era posseduto dalla vecchia passione di coprire l'amato di regali: dal nascosto desiderio di rovinarsi per lui; ma non era assente il pen­ siero di comprare il suo affetto. Il giovane aviatore, molto più delicato del padrone, rifiutò con un telegramma, e poi con una lettera. La lettera conteneva delle parole un poco simili a queste: «Credete che da parte mia non dimenti­ cherò quella passeggiata due volte crepuscolare (siccome la notte veniva e noi stavamo per !asciarci) e che si cancel­ lerà dal mio spirito soltanto con la notte completa» . Proust ammirò la grazia della frase; e rispose con una lettera amabilissima. Cosa poteva fare, adesso che era ri­ masto solo con l'aereoplano? Non poteva renderlo a Mon­ sieur Collin (cosa che probabilmente fece) : forse l'avrebbe custodito per sempre in un hangar. Allora avrebbe fatto incidere su un'ala, o sulla fusoliera, dei versi di Mallarmé che Alfred amava: «Un cygne d' autrefois se souvient que c'est lui Magnifique, mais sans espoir se délivre Pour n' avoir pas chanté la région où vivre Quand du stérile hiver a resplendi l'ennui

. . .

»

Il cigno bloccato nel ghiaccio, con le penne imm obilizzate nell'orrore del suolo, il cigno che non aveva cantato il luo­ go «dove vivere», - era anche lui, Marcel Proust, che ave­ va perduto un'altra volta i suoi oggi, che non erano più né «vergini» né «vivaci» né «belli)) . Mentre scriveva questa lettera, Proust non sapeva che Agostinelli era morto o stava morendo. Il giovane si era 211

iscritto a una scuola di volo presso Antibes, con il nome di Marcel Swann: il pomeriggio del 30 maggio 1914 prese il volo in uno di quei grandi esquifs dell'aria, che aveva tan­ to ammirato a Parigi. Sulla via del ritorno, l'aereo preci­ pitò. Dall'aerodromo, i meccanici e gli aviatori lo videro affondare nel mare lentamente, mentre Agostinelli, ag­ grappato alla fusoliera, chiamava aiuto con frenesia. Poi, all' improvviso, il giovane «pellegrino della velocità » scomparve nelle acque. Quando Proust apprese la notizia, i dolori che lo avevano torturato quell' anno - dolori d'amore, dolori d'infanzia, dolori per il libro, dolori inno­ minati, dolori di tutta una vita - si risvegliarono, si molti­ plicarono a vicenda, e toccarono il diapason. Tutto ciò che prima era fluido e sopportabile, si irrigidì e lo tenne in una morsa crudele. L'inverno era penetrato dentro di lui: come diceva Baudelaire, il suo cuore era «un blocco rosso e ghiacciato, come il sole nel suo inferno polare». Con in­ genuità, con abbandono, con immediatezza affettiva, che ci colpiscono tanto più da parte di chi come lui sapeva mascherare i propri sentimenti, Proust parlava a tutti del proprio dolore e del genio del morto. Nel settembre 1 914, andò a Cabourg; e gli pareva che il dolore avesse trovato una specie di quiete. C'erano delle ore, in cui Agostinelli scompariva dal suo pensiero. Forse - confessava nell'ottobre a Reynaldo Hahn - la colpa era di Agostinelli, che «aveva agito molto male)) verso di lui: nutriva ancora dei rancori, che la morte non aveva cancel­ lato. Ma la vera ragione era un' altra: quella parte di lui, l'io che aveva conosciuto Alfred, era morta: il suo erede, l'io della fine del 1 9 1 4, amava Alfred, ma l'aveva cono­ sciuto soltanto dai racconti del primo. La sua era una te­ nerezza di seconda mano. Concludeva : «È ormai molto tempo che la vita mi offre soltanto degli avvenimenti che ho già descritto. Quando leggerete il mio terzo volume, quello che si chiama in parte À l'ombre des jeunes filles en fleurs, vi riconoscerete l'a nticipo e la sicura profezia di ciò che ho provato dopo». Quando tornò a Parigi, l' angoscia 212

riprese ad assalirlo, cocente come prima; e provò una grande gioia ritrovando la propria sofferenza. Era lieto di non saper dimenticare. Soffriva e voleva soffrire: ogni vol­ ta che saliva su un taxi, sperava con tutto il cuore di essere schiacciato da un autobus. Col tempo, il rimpianto di­ ventò sempre più profondo. Sull'altare che ardeva insa­ ziabile dentro di lui, innalzò Agostinelli accanto al padre e alla madre: insieme a loro era la persona che aveva più amato.

Il 3 agosto 1914 la Germania dichiarò guerra alla Fran­ cia. Il giorno prima Robert era partito per Verdun, come ufficiale medico; e a mezzanotte Proust aveva accompa­ gnato il fratello alla Gare de l'Est. Non si faceva illusioni sulla guerra: pensava che sarebbe stata una Guerra dei mondi, come quella che aveva raccontato Herbert George Wells, e che milioni di uomini sarebbero stati massacrati. Sebbene i Tedeschi investissero Parigi, non lasciò la città, per non abbandonare la cognata e la nipote. Lui che aveva paura di tutte le correnti d'aria e degli spifferi e dei fiori e di una cosa così lieve come i profumi, non ebbe mai paura della guerra, e più tardi avrebbe passeggiato tra le bombe e le schegge di bombe come in un viale di Versailles. Al principio di settembre, quando si credeva imminente l' as­ sedio alla città, una sera si alzò e uscì per le strade, «sotto un chiaro di luna lucido, splendente, riprovatore, sereno, ironico e materno» . Vide l'immensa Parigi, che nella sua inutile bellezza attendeva l'assalto che sembrava inevita­ bile. Non credeva di amarla così profondamente - le case, il fiume, il cielo, i mercati, le grida dei venditori, gli alti ca­ mini sulle case, tutte le parole che essa aveva ispirato -; e scoppiò in singhiozzi. Notte e giorno, non faceva che pensare alla guerra. An­ che quando pensava ad altro, scriveva o dormiva, la soffe­ renza per la guerra non cessava dentro di lui, come le ne213

vralgie che penetrano nel sonno. Aveva assimilato così completamente la guerra, che non riusciva più a isolarla: per lui non era tanto un oggetto, «quanto una sostanza che si frapponeva tra lui e gli oggetti». Viveva dentro la guerra, come si nuota nell'acqua e si respira nell'aria, co­ me si ama in Dio. Leggeva sette giornali: seguiva le batta­ glie sulle cartine dello Stato Maggiore; apprezzava gli ar­ ticoli militari del «]ournal des Débats» e del «]ournal de Genève». Benediva la malattia che lo faceva soffrire: non serviva a nulla e a nessuno, ma gli evitava il dolore più grande che gli avrebbero dato la salute e il benessere; e desiderava soffrire ancora più profondamente. Con la sua ansia onniavvolgente, con la sua dolorosa tenerezza, con­ divideva tutti i dolori, tutte le angosce, tutte le pene, tutte le morti. Soffriva per coloro che conosceva e per coloro che non aveva mai visto. Piangeva sulla Francia offesa, sui villaggi presi, sulle cattedrali distrutte, sulle cattedrali di Amiens, di Reims, di Laon, che aveva visto nella giovi­ nezza: ma ancora di più sui soldati caduti. Scriveva lettere di condoglianze con una specie di voluttà, ricordando i suoi morti; e l'elenco dei parenti, degli amici e dei cono­ scenti uccisi ricorda già l'elenco dei morti, che, con gran­ dezza barocca, farà Charlus alla fine della Recherche. Al principio del 1915 si diffuse la voce che Bertrand de Fénelon era morto in battaglia. Proust non lo vedeva da molti anni: non si era pacificato con lui; ma quell'atroce dubbio fece rivivere i suoi ricordi. Rivide Ses yeux bleus, «quella sirena classica dagli occhi azzurro mare»: rivide quei movimenti alteri, rapidi, quel corpo inflessibilmente slanciato, quella testa alta, quello sguardo distante, il suo cuore, il suo demoniaco appetito di vivere. Sperava che Bertrand fosse vivo. «Penso talmente a lui che, essendomi addormentato un istante, l'ho visto, gli ho detto che l'ave­ vo creduto morto. È stato molto gentile.» «Credo che sia vivo . . . le mie ragioni di sperare non sono le vostre, ma in­ somma mi sembrano più forti delle mie ragioni di dispe­ rare... Credo ancora che vi sia reso, e che la vita non sarà 214

sottratta a colui che l'amava tanto e che più di ogni altro era degno di trarne delle gioie. » Come la guerra era una sostanza che si insinuava tra lui e il mondo, così il viso di Fénelon, anche se pensava o dormiva, restava frapposto tra lui e le cose. 11 1 3 marzo Proust lesse sul «Figaro�� una nota che dava la morte per certa. «Dopo una lotta accanita, il sottotenen­ te de Salignac-Fénelon . . . fu colpito mortalmente da una pallottola alla testa. Le fotografie di famiglia che portava su di sé non sembrano lasciare dubbi sulla sua identità» diceva il giornale. Come poteva ancora avere dei dubbi? Eppure, malgrado quella notizia, con una speranza cieca, disperata e quasi folle, Proust continuò, con la parte più profonda di sé stesso, a credere che Fénelon fosse vivo da qualche parte, come sussurrava una leggenda. Non vole­ va a mmettere che un uomo, che amava tanto la vita e la felicità di vivere ed era così degno di loro, potesse essere stato cacciato via con un gesto dalla terra; né che per lui non ci fosse più «nessuna dolcezza di pensiero né di senti­ mento». Non per sé, ma per Bertrand, credeva ancora a queste strane parole: «felicità», «felicità di vivere». Sapeva che la loro amicizia come il suo amore erano finiti per sempre: non l'avrebbe visto mai più: preferiva conservare il ricordo di un tempo in cui lo incontrava tutti i giorni e tutte le sere; ma voleva che quell'uomo tanto felice (o al­ meno così gli pareva) fosse conservato per l'amicizia e la gioia degli altri. Alla fine accettò l'evidenza. Bertrand era morto. Il primo gennaio 1916, fece gli auguri all'altro ami­ co, Antoine Bibesco, «in questi giorni così tristi che ci ri­ cordano che gli anni ritornano carichi delle stesse bellezze naturali, ma senza ricondurre con sé gli esseri umani. Ahimè nel 1 9 1 6 ci saranno delle viole, dei fiori di melo, e prima di loro dei fiori di brina, ma non ci sarà più Ber­ trand». Non c'era notte che non pensasse con inconsolabi­ le rimpianto alla sua morte; e doveva aumentare la dose di Veronal per affondare nel sonno e dimenticarlo per qualche ora. 215

Visse tutto il 1914 e il 1915 e parte del 1 9 1 6 sotto il segno di questi grandi dolori. Abbiamo l'impressione che pas­ sasse dei mesi di esistenza logorata, diminuita, impoveri­ ta. Viveva quasi solo, senza vedere nessuno: nel dicembre 1914, per chiudersi ancora di più in sé stesso, si fece to­ gliere il telefono, col pretesto che era «rovinato» . Lo ripre­ se la vecchia angoscia di morire, che tante volte l'aveva spinto, quasi disperato, verso il libro. Temeva che il suo cervello «fragile e ferito» non riuscisse a finire l'opera in cui aveva nascosto i suoi pensieri e i sentimenti più segre­ ti, e le intuizioni conoscitive di cui andava fiero. Era come un insetto, che sente i suoi giorni contati e si affretta a mettere al riparo le uova, che sono nate da lui e continue­ ranno la sua razza. Così si sentiva pieno di doveri verso il proprio libro: aveva per lui delle previdenze da ape; e del­ le attenzioni da vegliardo per il suo corpo, che lo portava ancora in sé stesso. Non voleva che il suo manoscritto fos­ se obbligato a errare dagli editori, senza trovare, come «il Figlio dell'Uomo», un guanciale dove posare il capo. Vo­ leva terminarlo, pubblicarlo, trovare i lettori che si sareb­ bero nutriti di lui come del cibo più nutriente. Non pre­ tendeva nulla d' altro: nemmeno di sopravvivergli qualche mese, come disse l'anno dopo. Quando avesse fi­ nito il suo libro, avrebbe fatto come il «vegliardo Simeo­ ne», che aveva visto Gesù e l'aveva preso in braccio nel Tempio, intonando il Nu nc dimittis serv um tuum, Domine (Luca 2, 25-32). In quegli anni, l'unico conforto di Proust fu Céleste Al­ baret, che nell'agosto 1914 aveva assunto definitivamente come domestica, in luogo di Céline Cottin. Non era più la timida ragazza provinciale, che attendeva per ore in cuci­ na il tirannico campanello del suo signore. All'improvviso Proust aveva scoperto in lei una nuova creatura. Era igno­ rantissima: credeva che Napoleone e Buonaparte fossero due persone diverse: ma era intelligente, spiritosa, capric­ ciosa, beffarda, fantastica, mitomane; e aveva un occhio acutissimo nel cogliere (anche al telefono o dopo un in216

contro fuggevole) le debolezze e il ridicolo degli altri. In più aveva il dono di Proust: quel dono di cui Proust era così fiero: la parodia e il pastiche. Se il padrone le faceva leggere ad alta voce le Nourritures terrestres di Gide, per qualche giorno Céleste parlava in gidiano. Imitava Mada­ me Soutzo, Madame Straus, Madame Scheikévitch: tutti i personaggi che incontrava per casa; e aveva invenzioni verbali che Proust avrebbe voluto mettere nella Recherche. Proust si divertiva moltissimo con lei. Faceva dei giochi aerei sul suo nome. La chiamava Clara d'Ellébeuse dal no­ me di un personaggio di Francis Jammes, verginale, otto­ centesco, insieme malinconico e malizioso. Diceva che aveva gli occhi «specchi del cielo»: che era una combina­ zione di Giovanna d'Arco, di Madame Récamier e delle madonne del Botticelli; che la sua voce era come una cele­ sta e conservava il ritmo dei ruscelli del suo paese. Se una mattina, quando arrivava col caffè e i croissants, era spe­ cialmente spiritosa e graziosa, le diceva che assomigliava a Lady Grey, una famosa bellezza che aveva conosciuto da giovane. Anche per lei, come per Agostinelli, Proust costruì un carcere: le impose i suoi orari impossibili, le sue esigenze maniache, il suo ordine meticoloso, le sue impazienze. Era geloso dei sentimenti che Céleste nutriva per gli altri. Ma, questa volta, il prigioniero non fuggì. Céleste si innamorò con tutto il cuore del suo padrone; e sebbene così bizzarra, leggera e capricciosa, si lasciò avvolgere completamente da quella tirannia da Mille e una notte, che sembrava tanto soave ed era la più insinuante, oppressiva e tremenda del­ le tirannie. Viveva solo per lui, in una specie di incantesi­ mo: non pensava che a lui: tutto in lui le sembrava affasci­ nante e meraviglioso, anche la bellezza, i vestiti e il portamento: non aveva mai visto un simile esempio di grazia; e lavorava in casa cantando (spesso aiutata da nu­ merose suivantes) con allegria continua, «come un uccello che vola da un ramo all'altro». Partecipava alla vita del padrone, accettando o rifiutando i suoi amici, e special217

mente le sue amiche, delle quali era invariabilmente gelo­ sa. Capiva al volo (o credeva di capire) i suoi sentimenti e i suoi umori. Controllava ogni segno di vita, ogni minimo movimento o rumore, che venisse dalla camera lontana: controllava le sue uscite notturne, le sue fughe; e, se era necessario, si difendeva con la menzogna. Proust la ri­ cambiava con le attenzioni più delicate; e, ciò che sopra­ tutto Céleste adorava, seduto sul letto, con gli occhi scin­ tillanti o commossi, le raccontava la propria vita e gli inviti a cena a cui partecipava, col ritratto delle persone e la descrizione dei vestiti. Per Céleste, nessun Opéra, nes­ sun Opéra comique, nessun Théàtre de vaudevilles avrebbe potuto sostituire quel teatro familiare. Così, a poco a poco, si stabilì tra loro l'unione più stretta. Lui la chiamava la sua «amica di sempre». Céleste commentava, con perfetta verità: «C'erano degli istanti in cui mi sentivo come sua madre, e degli altri, come sua figlia>>.

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Ringraziamenti di un convalescente

Nel corso del 1 9 1 6 e specialmente del 1 91 7, la vita di Proust cambiò tono e atmosfera. Probabilmente i grandi dolori degli anni passati vennero, se non dimenticati, assi­ milati: un nuovo io nacque in luogo di quello antico, che aveva conosciuto la morte di Alfred Agostinelli e di Ber­ trand de Fénelon: questo io aveva una conoscenza remota dei suoi dolori; e la sua vitalità straordinaria lo precipitò di nuovo verso il mondo. Nelle lettere di questo periodo non c'è più quella cupa chiusura, quell' oscurità senza speranza: le lettere brillano, scintillano come una volta, ri­ dono, fanno la corte, dicono galanterie, sono piene di ver­ ve, calore e desiderio di vivere. Aveva bisogno di divertir­ si, come se nessuna morte avesse spezzato il filo della sua esistenza. Lo riprese una vecchia passione: la musica. E senza badare alla sua «rovina» economica, fece venire il quartetto Poulet a suonare a casa sua gli ultimi quartetti di Beethoven, il quartetto in re minore di Franck, e Mo­ zart, Fauré, Ravel, Schumann. Nutriva una specie di ido­ latria per il quartetto in la minore, opera 1 32 di Beetho­ ven, e per il famoso terzo movimento, Heiliger Dankgesang eines Genesenden an die Gottheit, in cui vedeva un simbolo della sua morte e resurrezione. Aveva passato settimane, o mesi, senza alzarsi dal letto. Ora si levava spesso due volte la settimana e talvolta persi­ no un giorno su due. Come sempre, pensava alla madre, che sarebbe stata così felice di vederlo tornato a una vita quasi normale, e soffriva perché lei non poteva vederlo. 219

Usciva sovente. Andava a sentire concerti: andava fuori a cena con un ritmo preoccupante, dieci volte in un mese, o addirittura tutte le sere. Prendeva il taxi, che era diventato il prolungamento del suo corpo, e guizzava di notte secon­ do gli itinerari e i peripli più avventurosi o più loschi. Spes­ so, in cielo, c'era «un'ammirevole apocalisse» . Se stava al Ritz, si metteva per un'ora al balcone malgrado il freddo: le sirene lanciavano il loro appello straziante, i proiettori si spostavano fiutando gli aerei nemici e avvolgendoli con le loro luci, secondo un movimento lento e insidioso, mentre gli aerei tedeschi salivano e discendevano, formando e di­ sfacendo nuove e mobili costellazioni. Come nella Sepoltu­ ra del conte d'Orgaz del Greco, in basso si apriva un'altra scena: delle signore in camicia da notte o in accappatoio si aggiravano nella hall del Ritz stringendo sul vecchio petto sfiorito i collari di perle. C'era un'aria tra l'Apocalisse, la pioggia di lapilli e il fiume di lava su Pompei e Ercolano, Feydeau e il vaudeville. Tra gli aerei-costellazioni, gli Zep­ pelin, i colpi di cannone della «Grande Bertha», il suono delle sirene, i riflettori, lo scoppio delle bombe a due passi, Proust girava allegrissimo attraverso le strade di Parigi e i ponti sulla Senna, tornando a casa col cappello coperto di piccole schegge di proiettili. Come negli anni di Cabourg, la sua esistenza ruotava di nuovo attorno a un grande albergo: il Ritz, a piace Vendo­ me. Non amava affatto gli ospiti, uomini e donne, mentre il soffitto rococò, «orrendamente comico», non turbava le sue fantasticherie. Gli piaceva l'albergo perché era caldis­ simo, comodo e vuoto; e perché aveva un'aria così fine sta­ gione, come il Grand Hotel di Cabourg, quando gli ospiti partivano e lui restava solo nella hall o nel ristorante, do­ ve le attenzioni dei camerieri erano tutte per lui. Gli piace­ va persino perché, come diceva Baudelaire nel Voyage, era une oasis d'horreur dans un désert d' ennui. Vi si isolava be­ nissimo: se nel ristorante c' era troppa folla o insidiosi spifferi, si faceva servire in una camera, da solo. Con la sua facoltà di trasformare ogni luogo in sede odiosa e 220

amata dell'Abitudine, si era adattato a tutto: la tempera­ tura, l'ambiente, le correnti, i camerieri, persino gli ospiti; e si sentiva come a casa sua. L'Hotel Crillon aveva un solo vantaggio. Era illuminato fino alle due di notte, mentre il Ritz veniva oscurato alle ventuno e trenta; e così al Cril­ lon, malgrado i camerieri antipatici, poteva correggere in­ disturbato le bozze delle feunes filles en fleurs. Al Ritz cenava spesso da solo, e alle ore più tarde. Una volta arrivò alle ventitré e trenta. Non c'erano più cuochi in cucina: ma ottenne lo stesso una pollastra arrosto con patatine e legumi, un'insalata con vinaigrette, un gelato di vaniglia, e dodici o quindici tazze di caffè. Quando offriva il pranzo ai suoi nuovi e vecchi amici, nessuno poteva es­ sere più fastoso: mentre lui non mangiava quasi nulla, esi­ geva che i maftres scoprissero le «fragole più sproporzio­ nate, le pere più insensate, gli champagne più rovinosi». Con i camerieri era gentilissimo. Li chiamava tutti per no­ me, con più familiarità che se fossero stati da trent'anni nella sua famiglia. Conversava con loro: amava in loro una qualità per cui aveva una sensibilità straordinaria, la natura servile, tanto meglio se mescolata a quella losca. Attratti dalla gentilezza e dalle mance, i camerieri erano sempre attorno a lui: prevenivano i suoi desideri: qualcu­ no diventò il suo amante; il maftre, Olivier Dabescat, era per lui «una specie di capo della polizia segreta», che gli forniva le notizie e le chiacchiere più tenebrose. A volte Proust frequentava i camerieri anche a casa, o li invitava a casa sua. Una sera a mezzanotte, uno di essi, Camille Wix­ ler, che abitava a rue de Bourgogne, sentì qualcuno bussa­ re alla porta del piccolo appartamento dove dormiva con l'amica. Era Proust, che portava il suo grande cappotto nero foderato di pelliccia. Si scusò di disturbarlo e gli chiese se aveva qualcosa da mangiare. Il cameriere gli pre­ sentò l'amica, che era già a letto, e gli preparò la cena. La ragione della visita di Proust era sopratutto letteraria. Vo­ leva che Wixler frequentasse al mattino i mercati di frutta e verdura, specie quelli nelle strade, e annotasse con at221

tenzione tutti i cris de Paris e gli imbonimenti e le orazioni dei venditori ambulanti. Dopo venticinque anni, Proust aveva ripreso a vedere Laure de Chevigné, l'amore della sua giovinezza, che ave­ va ormai quasi sessant'anni. Non sappiamo se avesse sem­ pre continuato a incontrarla: perché anni prima Madame de Chevigné aveva bruciato molte decine di lettere di quell' «indiscreto»; ma in questi anni di rinnovata frivolez­ za mondana, la vide molto sovente, ai pranzi del Ritz e an­ che da sola. Ricordava quel lontanissimo 1 892, quando l'aveva seguita nell' avenue Gabriel, irritandola e tediando­ la col suo corteggiamento. Allora, quando la vedeva, pro­ vava una specie di «turbamento doloroso»: ora, purtroppo, non lo provava più, perché il turbamento era emigrato ver­ so altri esseri umani, molto meno degni di lei. Ma era rima­ sta, in lui, la fissazione, tenera, triste, quasi servile, di quell'amore fallito. Così continuava ad adorarla e a vene­ rada, con i toni più estatici: «Voi..., lo vogliate o no, abitate in me, nella "luce dell'eterno mattino" ». Le diceva che pen­ sava sempre a lei, con dolore: che la trovava bellissima co­ me una volta («non di più perché non era mutata»), con i suoi occhi blu e l'aria da Diana cacciatrice. Non l'avrebbe mai dimenticata. E aggiungeva con un complimento da col­ legiale: «E del resto i vostri occhi non dicono a tutti noi: "Non dimenticatemi", perché sono dei non ti scordar di me?». Stava per pubblicare il Còté de Guermantes, dove la testa da uccello di Madame de Chevigné e gli occhi blu, il naso arcuato, le labbra sottili, la stirpe discesa da una dea e da un pavone erano stati trasformati nella figura di Oriane de Guermantes. Proust le assicurava che era stata ed era la sua Laura: «L'eterna storia di Petrarca e di Laura pren­ de tutte le forme, ma resta vera»; e avrebbe voluto farle da guida nel grande libro, indicandole tutti i luoghi in cui uno sguardo, un' attitudine, una magia, un cappello coi fiordalisi appartenevano a lei. «Se soltanto vi piacerà la metà di quanto piace al narratore (che nel libro è pazzo di 222

lei), sarò ricompensato.» Il suo ricordo impregnava il ro­ manzo, come un profumo: o come in quella chiesa di Brou, dove Margherita d'Austria aveva fatto scolpire in tutti i pilastri le iniziali di Filiberto il Bello, mescolate alle sue. Ma Proust fu deluso. Madame de Chevigné non vole­ va essere considerata la sua Laura. Si offese. Non lesse il libro. «Non posso leggerlo» diceva, «mi impiglio i piedi nelle sue frasi.» Giudicava Proust uno snob noioso. Proust implorò Cocteau, che era amico della Chevigné, di leggerle almeno le pagine dei Guermantes, dove aveva rappresentato Oriane. Madame de Chevigné rifiutò di ascoltarlo. Allora Cocteau scrisse a Proust: «Dopo tutto, mio caro, Fabre non ha mai domandato agli insetti di leg­ gere i suoi libri». Proust rimase «ulcerato» di non ricevere nemmeno una lettera dalla sua vecchia Laura. «Succede» aggiunse amaramente, «che essere misconosciuto a venti anni di distanza, da una stessa persona, sotto forme egualmente incomprensibili, .. è uno dei soli grandi dolori che possa provare alla fine della vita un uomo che ha ri­ nunciato a tutto. » Per vendicarsi, definì Madame de Che­ vigné «una gallina coriacea, che una volta presi per un uc­ cello del Paradiso» . Questa volta non aveva torto . Madame de Chevigné era ormai davvero una «gallina co­ riacea» . Pochi anni dopo, Paul Morand la descriveva così: «La sua maschera scarnita da vecchio clown tragico, il suo naso da Pulcinella, la sua bocca da accento circonflesso e la sua voce da alcoolizzata, cupissima, che sembrava usci­ re dal fondo di un sotterraneo». Tanto più incantevole è che, nel 1 9 1 7, Proust l' avesse v.i sta nell'immaginazione com'era nella giovinezza: con gli occhi azzurrissimi e la fi­ gura da uccello mitologico, che camminava altezzosa nell' avenue Gabriel. .

Mentre Proust frequentava il Ritz, amava la principessa Hélène Soutzo, di famiglia greca e rumena, che abitava 223

nell'albergo. Secondo Lucien Daudet, assomigliava a una Pallade, che avesse inghiottito la civetta. La principessa invitava spesso Proust a cena nell'appartamento del Ritz, da solo o in compagnia di Paul Morand, il suo amante e futuro marito, o con molti ospiti; e quel salotto diventò per lui «il quadro e l'illuminazione variata della sua appa­ rizione sempre nuova». Andava così spesso che si stanca­ va, e ritornava a casa «quasi morto». Introdusse la princi­ pessa e le proprie visite persino nel nuovo pastiche che compose in quei tempi, scrivendo a nome di Saint-Simon: « È abbastanza conosciuto da tutti che è l'unica donna che, per mia disgrazia, abbia potuto farmi uscire dal ritiro in cui vivevo . . . Le sue grazie mi avevano incatenato, e mi muovevo dalla mia stanza di Versailles soltanto per anda­ re a vederla». Le molte lettere di Proust alla Soutzo sono piene di tenerezza, galanteria, malinconia, dolore e rim­ pianto, di quella dolce passività in cui l'amore - sia pure non profondo come questo - gettava sempre il suo spirito. Quando Paul Morand partì per l'Italia, Proust si occupò di una piccola operazione di appendicite, a cui la princi­ pessa doveva essere sottoposta, con l'immensa attenzio­ ne, l' energia ostinata e la dedizione di cui era capace. Prendeva notizie, inviava notizie, dava consigli e conforti, come se si fosse trattato di una questione di vita o di mor­ te. L'assicurò che l'intervento avrebbe accresciuto la sua bellezza. Il giorno dopo l'anestesia, il viso della prindpes­ sa avrebbe acquistato un «meraviglioso pallore», facendo di lei un «marmo momentaneo», e accolto quel non so che di «straziante e infinitamente attraente» che la sofferenza risveglia per sempre nei cuori. E quando l'operazione fu compiuta, raccolse gli echi entusiastici del mondo ancilla­ re: Antoinette, domestica della Soutzo, aveva detto a Cé­ leste, domestica di Proust, che non si poteva «immaginare come la principessa era graziosa dopo l'operazione». Poi, come un vecchio medico che conosceva tutte le trasforma­ zioni delle anime e dei corpi, le raccomandò di abbando­ narsi all'opera di metamorfosi, di morte-resurrezione, 224

operata dalla convalesce nza nella sua carne in fiore. «La natura si riposa, si raccoglie per il ristabilimento di ciò che è stato ferito. Non bisogna distogliere nulla delle forze se­ grete che collaborano a questa opera misteriosa. Sarete tanto prima e più completamente guarita se avrete saputo prolungare la convalescenza . }} In realtà, il malato era lui; e nessuno poteva operarlo e calmarlo e avviarlo verso la convalescenza. Come gli ac­ cadeva sempre, le minime cose lo colpivano e lo ferivano, diventando insopportabili e tragiche. La sera del 1 6 di­ cembre 1 9 1 7, a casa dei Polignac, aveva proposto alla principessa di riaccompagnarla a casa (tutta la sera aveva coltivato questa speranza): ma lei gli aveva risposto: «No, ritorno coi Beaumont» . Conservò il trauma, il battito al cuore di quella sera per quindici mesi. Quando, nell'estate del 1 9 1 8, la Soutzo partì per Biarritz, lui continuava a ce­ nare al Ritz, nel ricordo e nel culto di lei: come i gatti odo­ rano ogni giorno la seggiola a sdraio, dove la loro padro­ na assente aveva l'abitudine di distendersi. Il 28 agosto la Soutzo tornò a Parigi: si fece viva con Proust solo 1' 11 o 12 settembre; dopo due settimane, che avrebbero potuto es­ sere riempite di visite e discorsi, apprese che era tornata. Si sentì completamente escluso. Temette di non vederla mai più: fu assalito da una specie di fobia; e, per vincerla, quando andava al Ritz, si sforzava di guardare dalla parte dell'ascensore, dal quale lei poteva apparire. Si formò in lui una specie di «idea fissa» . Tutto era finito tra loro: an­ che se non era mai esistito nulla o quasi nulla, solo una fissazione amorosa da parte di Proust e qualche parola gentile della principessa. Non la vide quasi più. Non si af­ faticava più andando al Ritz: non aveva più gli occhi stan­ chi; era ingrassato e aveva l'aria un po' meno vecchia. Ma l'ultima lettera di addio, o di quasi addio, che le mandò, non la scrisse: la pianse. «Leggetela lacrima per lacrima, se siete contenta di essere stata amata.» Come gli era accaduto con Fénelon e Bibesco, l'amore di Proust fu doppio: se lasciava cadere le proprie lacrime 225

per la principessa Soutzo, amava un poco anche Paul Mo­ rand, il suo amante, che stava per pubblicare Tendres stocks. Sebbene egli fosse appena agli inizi della carriera, lo trovava un vero diplomatico. Adorava la sua nettezza, la sua lucidità, la sua prontezza, la sua velocità crudele, che sopravanzava i tempi già velocissimi. Stava li, e subi­ to era altrove. Lo trovava molto dandy, ma senza politesse. Come un vero Metternich, o un diplomatico del Seicento, spiava con gli occhi, ma anche con la bocca, perché «una certa apertura delle labbra era in lui più significativa delle occhiate». Lo affascinava perché gli sembrava diverso, cangiante, innumerevole. Univa la malizia alla gravità, la sensualità alla pia unzione. Era un fauno, e avrebbe dovu­ to danzare sulla scena, al posto di Nijinsky, l' Après-midi d'un faune. Era raffinato come Stendhal, sottile come il conte Mosca, ingenuo come un figlio di Maria o un bam­ bino del coro, amoroso e avventuroso come Fabrizio Del Dongo. Era duro e implacabile come un Rastignac dive­ nuto terrorista. Era secco, ma nascondeva una straordina­ ria gentilezza e nobiltà d'animo. Questo gioco ambiguo di volti, di maschere e di sfuma­ ture affascinava e inquietava Proust. Tra lui e Morand ci' furono da principio dei malintesi, che vennero in parte causati dall' elegante secchezza di Morand, così lontana dall' effusione di Proust. Quando Morand fu trasferito all'ambasciata di Roma, Proust provò le grandi angosce che gli causava qualsiasi separazione: non sopportava fi­ sicamente che partisse tra dieci giorni, e che l'indomani i giorni sarebbero stati soltanto nove, e aveva voglia di gi­ rare la testa contro il muro e di prendere una tale dose di Verona! da risvegliarsi quando Morand fosse già a Roma. Sopratutto temeva che il suo dolore non sarebbe durato, e che nel futuro si sarebbe dimenticato di Morand e non avrebbe sofferto per lui. Come sempre, cercava di ritrova­ re nella vita la conferma della filosofia della Recherche. Questa volta la conferma non venne. Ebbe ragione Céles­ te, che gli aveva detto: «Il signore non dimenticherà il si226

gnor Morand». Continuava a pensare a lui: il suo viso gli era sempre presente, ricordava le minime pieghe del suo sorriso, la semplicità del suo affetto. «La mia tenera amici­ zia non si indebolisce come un ricordo morto, ma si ap­ profondisce come una realtà viva e feconda. » Capì di amare Morand, e che Morand l'amava. Nell'ottobre 1919, Paul Morand pubblicò l Ode à Marcel Proust: '

«Ombra, nata dal fumo delle vostre fumigazioni,

il viso e la voce mangiati dall'uso della notte . . . - Forse non avete mai visto il sole? Ma l'avete ricostituito, come Lemoine, così veridico che i vostri alberi da frutto nella notte hanno dato dei fiori . . . . . . Proust, a quali feste andate nella notte, per ritornare con gli occhi così stanchi e così lucidi? Quali terrori a noi proibiti avete conosciuto per ritornare così indulgente e così buono? e conoscendo la fatica delle anime e quello che succede nelle case e che l'amore fa così male? »

Non so se Morand conoscesse, o subodorasse, le visite notturne di Proust nel bordello di Le Cauziat. Ma non ha alcuna importanza. Nessuno ha compreso con tale preci­ sione, prima e dopo Morand, come la Recherche nasca da una profonda conoscenza interiore del male: da una com­ plicità col male. E come il frutto di questa conoscenza sia­ no gli «occhi indulgenti e buoni>> di Proust, la virtù di Ma­ demoiselle Vinteuil, la bontà stanca e sentimentale, che si insinua in ogni pagina della Recherche. Proust rispose con una lunga lettera. Con la sua abitua­ le gentilezza, cominciò con l'approvare Morand : «Non posso biasimarvi di aver pubblicato la vostra Ode. Il sacri­ ficio di ogni preoccupazione estranea e in particolare dei doveri dell'amicizia alla letteratura è un dogma che non '227

pratico, ma al quale aderisco del tutto». Proprio lì era la prima riserva: questo dogma lui non lo praticava affatto: lui non avrebbe mai sacrificato l'amicizia alla letteratura, non avrebbe mai causato un dolore simile; mentre Mo­ rand aveva colpito al cuore «Un amico disarmato dalla sua stessa tenerezza)) . Quanto al cuore dell' Ode, finse di non capire: volle fraintendere il testo di Morand; perché sapeva benissimo di possedere la stessa conoscenza del male di Mademoiselle Vinteuil, e che proprio questa co­ noscenza lo rendeva così lucido e buono. Aveva paura. Si sentiva ferito, offeso, denunciato: non voleva essere offer­ to all'odio del pubblico, lo temeva, non voleva che qual­ cuno riconoscesse nei suoi tratti quelli di una lesbica e di una sadica. Concluse con uno scoppio d' odio: «Mi avete gettato in quell'Inferno che Dante riservava ai suoi nemi­ ci)) . Poi perdonò Morand . L' amicizia continuò, sebbene senza più quel fervore amoroso. L'anno dopo gli scrisse: «Voi, voi siete infinitamente gentile, ma non siete buono)). Morand non era disceso, come lui, negli abissi del male.

Molti anni prima, in uno dei suoi assalti intermittenti di malvagità, Robert de Montesquiou disse a Proust che, da­ ta l'energia naturale della sua razza, avrebbe fatto meglio a lasciare la letteratura e a darsi agli affari. Non aveva tor­ to. Proust era uno speculatore nato - ma uno speculatore che perdeva sempre, obbedendo a una propensione natu­ rale verso il disastro. Aveva ereditato dal padre, e sopra­ tutto dalla famiglia della madre, un ricco portafoglio di ti­ toli - titoli solidi, di ogni paese, posseduti dalle buone famiglie di Francia, che gli avrebbero assicurato una tran­ quilla vita di rentier. Ma lui non si accontentava di così po­ co. Leggeva con passione le «rubriche finanziarie)) dei giornali: con un vanto ingenuo, pretendeva di intendersi di cose pratiche, mentre i suoi «poveri genitori» non ave­ vano avuto nessuna fiducia in lui; e chiedeva consigli, 228

avanzava proposte, immaginava vendite e acquisti, gui­ dava l'inquieto fronte mobile delle sue azioni come il più esperto dei generali finanziari. Tutto quello che vi è di sor­ dido, losco, avventuroso, truffaldino nella realtà degli af­ fari risvegliava in lui un piacere infantile, come in Balzac: lo affascinava irresistibilmente; e sperava che immergen­ dosi nei colorati regni della Truffa, avrebbe guadagnato montagne d'oro. Non era soltanto una passione seconda­ ria. Come nella Comédie humaine e nell' Uomo senza qualità, vi è, nella Recherche, un lato di azzardo: uno scrittore sta seduto davanti alla roulette della letteratura, e punta som­ me sempre più alte, su un settantuno, su un ottantatré o un impair, fino a scoprire l'unico numero vincente. Non si muoveva mai da solo. Aveva molti consiglieri fi­ nanziari, tra gli amici, e specialmente alla banca Roth­ schild. Quelli che amava di più erano i consiglieri oscuri, amici «competenti» o piccoli agenti di cambio e commis­ sari di borsa, che avevano rapporti con il Losco, e ai quali non possiamo dare un nome. A partire dal 1 908, spesso scelse un consigliere privato, Lionel Hauser, che conosce­ va fin dall'infanzia e lavorava a Parigi per la banca War­ burg. Era un uomo intelligente, lucido, scrupoloso, one­ stissimo, precisissimo, gentilissimo: dotato in misura forse eccessiva di buon senso, che complicava con una piccola dose di megalomania. Qualche volta era spiritoso, sebbene fosse lo spirito di un banchiere: «Ti ringrazio dei tuoi auguri di buon anno che mi affretto a restituirti con degli interessi composti a un tasso considerevolmente su­ periore a quello dell'interesse legale}}. In più era teosofo: adorava Madame Blavatzky, scrisse un modesto libro teo­ sofico-educativo, Les trois leviers du monde nouveau, che Proust cercò invano di far recensire. Niente è più divertente, nel loro abbondantissimo epi­ stolario, che vedere le quotazioni dei titoli russi e america­ ni intrecciarsi con la trasmigrazione delle anime, con la scintilla divina dell'individualità e la persona transitoria, che varia a ogni incarnazione. Hauser aveva per Proust 229

un grande affetto, che nascondeva dietro i modi burberi del banchiere-teosofo: ma lo disprezzava per la sua in­ competenza pratica, per il suo sentimentalismo lacrimoso, i suoi lati di capriccioso enfant giité, e specialmente l'amici­ zia per i ricchi e gli aristocratici, che odiava come un rivo­ luzionario. Lo considerava un caso disperato: visti i suoi fallimenti in questa vita, non si attendeva nulla di buono per la prossima incarnazione, che lo avrebbe certo visto sotto le spoglie di una blatta o di un topo. Spesso fu duro con lui: gli disse delle verità amare che Proust non voleva e non poteva accogliere. Ma, nel corso di più di dieci anni, si comportò verso di lui con una pazienza e una gentilez­ za ammirevoli. Con il suo istinto di speculatore, Proust non sopportava che le sue azioni gli rendessero il 2,5 o il 3 per cento, come le oneste azioni europee. Voleva interessi altissimi: 6,5 o 7 per cento, che avrebbero dimostrato all'ombra del padre e della madre il suo genio di uomo di affari. Così, già nell'ottobre 1 908, scrivendo a Reynaldo Hahn, cominciò a fantasticare in linguaggio baudelairiano: «Adesso il mio spirito che il rollio accarezza viaggia tra le miniere d'oro dell'Australia e la ferrovia del Tanganika e si poserà su qualche miniera d'oro che spero meriterà veramente il suo nome» - e poi c'era El Banco espafiol del Rio de la P lata e le Un ited Railways dell'Avana e Tram, Light and Power di Rio de Janeiro, e un prestito della provincia di San Juan, e quante altre azioni africane e sudamericane, tutte pronte al suo desiderio. Il desiderio si precisò: voleva El Banco del Rio de la Plata e Tram, Light and Power. Lionel Hauser gliele sconsigliò. Qualche mese dopo Proust si innamorò delle azioni del Porto di Para; e sebbene Hauser gli spiegasse che erano una truffa, le comprò egualmente. Subito il ca­ pitale di ogni azione scese di cento franchi, senza che rice­ vesse mai dividendi. Nel marzo 1912, perse quarantamila franchi giocando a termine su delle azioni minerarie. Il grande disastro avvenne nel 1913, quando Proust (almeno secondo ciò che disse a Céleste) perse ottocentomila fran230

chi, pari a circa tre miliardi e mezzo di lire del nostro tem­ po. Nessun documento permette di ricostruire la vicenda. Con ogni probabilità, Proust ebbe delle informazioni se­ grete: qualcuno gli dipinse a caratteri d'oro gli affari che avrebbe potuto fare acquistando azioni russe e americane: Ural Kaspian, North Caucasia n Oil Fields, Orien ta[ Carpet, Spassky e sopratutto Doubawai"a Balka, oltre che Tramways de Mexico. Non aveva denaro liquido, e chiese un'apertura di credito alla sua banca. Le azioni caddero precipitosa­ mente, non diedero dividendi; e Proust fu costretto a pa­ gare ogni anno una grossa somma di interessi al Crédit In­ dustrie[. In questi anni Proust dichiarava di essere rovinato: ma ignorava fino a che punto lo fosse. Ormai i suoi titoli, de­ tratti gli interessi che pagava alla banca, gli rendevano diecimila franchi all'anno: mentre spendeva seimila fran­ chi in medicine e pagava settemila franchi di affitto. Inter­ pellato ancora una volta da Proust, Lionel Hauser prese in mano i suoi conti nell'ottobre 1915: riuscì a far luce in quel pauroso groviglio (a cui probabilmente contribuiva la cat­ tiva amministrazione della banca); e con bellissima luci­ dità riassunse la situazione. C' era una possibilità sola : Proust doveva vendere una parte dei suoi titoli, per an­ nullare il debito col Crédit Industriel; così le entrate annua­ li sarebbero risalite da diecimila a ventisettemila franchi. Dapprima Proust si spaventò. Non credeva di essere così povero: Comment en un plomb vil l'or pur s'est-il changé, di­ ceva parodiando l' Athalie di Racine. Poi accusò Hauser di obbedire alla morale della Chiesa: «Mi sembra che non sa­ resti lontano dal consigliarmi di vendere nelle peggiori condizioni, perché il castigo fosse più espiatoriamente pu­ rificatore». Infine, chinò il capo, ringraziò Hauser e ac­ cettò. Così cominciò uno di quei deliziosi vaudevilles, che ren­ dono divertente la conoscenza della vita di Proust. Lionel Hauser doveva vendere le Ural Kaspian, le North Cauca­ sian, le Spassky, le Doubawai"a Balka: ma erano azioni quasi 231

senza mercato, e poi l'esercito tedesco avanzava in territo­ rio russo e la Rivoluzione si avvicinava . Sopratutto le Doubawara Balka erano inafferrabili: durante le lettere de­ gli anni di guerra, assistiamo a un continuo balletto, in cui esse ora salivano ora discendevano, ora erano a 225, ora a 1 70 ora a 190 ora a 204 ora a 215 ora a 220 ora a 1 75: poi balzavano (per via di false notizie) a 235; e poi si eclissa­ vano per lunghi periodi, e non si sapeva ne mmeno se esi­ stessero o fossero scomparse dalla terra. Abilissimo e at­ tentissimo, Hauser le inseguiva : appena poteva, ne vendeva qualcuna, sebbene soffrisse di venderle a basso prezzo. Proust seguiva con emozione questi tentativi: da un lato amava un poco le sue azioni infedeli e fuggiasche, dall'altra commentava gli eventi con una giocosità goliar­ dica, incoronando Hauser «principe della Doubawai:a>>, come Napoleone aveva incoronato il maresciallo Ney «principe della Moscova». Non per questo rinunciava alle sue folli idee speculatrici: continuava a sognare affari me­ ravigliosi; e nel 1916 chiedeva a Maria de Madrazo se non c'era qualche colpo «stupefacente» da realizzare nei titoli delle miniere d'oro, mentre nel marzo 1919 avrebbe volu­ to consegnare i suoi denari alle banche rumene, che, a sentire lui, davano il 12 per cento di interesse. Stancamen­ te, pazientemente, Hauser sconsigliava, ma sempre nuovi squilli risuonavano, sempre nuovi fuochi si accendevano nella fantasia colorata e infantile di Proust. Alla fine, il contrasto tra Hauser e Proust venne clamo­ rosamente alla luce. Nell' ottobre 1 9 1 8, Proust confessò con candore a Hauser di aver speso trentamila franchi per «un amore nel popolo, e dei soccorsi filantropici al riguar­ do»: cioè, probabilmente, per comprare vestiti lussuosissi­ mi e chissà quali regali a Henri Rochat, un cameriere del Ritz, che viveva a casa sua, ripetendo più stancamente il destino di Agostinelli. Hauser si indignò: Proust colpiva alle spalle la sua disperata fatica per salvarlo dalla mise­ ria; nell' ultima incarnazione doveva essere stato un «hi­ dalgo spagnolo, un tipo come il duca di Osuna, che crede232

va, poiché aveva una grande ricchezza, che tutto gli fosse permesso» (e morì con quarantaquattro milioni di debiti). Così, alla fine delle risorse, ebbe una nuova idea: aprire una rendita vitalizia, che avrebbe impedito a Proust di di­ lapidare i suoi capitali e gli avrebbe consentito un mode­ sto benessere. Proust allontanò la proposta: detestava il modesto benessere borghese propostogli da Hauser, ave­ va la ferma intenzione di dilapidare il capitale e di morire rapidamente. Ci fu il tentativo di un invito a cena 'a casa di Hauser, che Proust lasciò cadere: contropropose di invitare Monsieur e Madame Hauser a cena al Ritz alle otto e tre quarti di sera, «purché tu ti liberi dalle restrizioni, beva dello champagne e per eccezione non predichi l'economia». Hauser si offese: perché mangiare alle nove invece che alle sette? E poi dete­ stava il Ritz - e tutti quei ristoranti costosissimi per «gente chic», dove si mangiavano solo cibi artificiali, mentre c'era­ no tanti onesti e modesti ristoranti «familiari». Così l'idea della cena comune si dissolse ed evaporò nell'aria, con grande gioia di Proust. Ma si dissolse anche l'amicizia tra Proust e Hauser: ci furono liti e dissidi, anche aspri; e il 26 novembre 1 9 1 9 Hauser rassegnò le sue dimissioni da «con­ sigliere finanziario» . «La mia missione è terminata.» Forse Proust non ne fu molto addolorato. Aveva ricevuto il pre­ mio Goncourt, e per la prima volta guadagnava con la pen­ na: ma non sopportava il tramonto delle amicizie. «Certo, materialmente è una grande sventura per me. Ma, anche se fosse una felicità, il dolore sarebbe lo stesso. Non mi abituo alle cose che finiscono. ))

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VI

1 8 novembre 1 922

Nelle lettere degli ultimissimi anni di vita, ci appare un al­ tro Proust. Abbiamo l'impressione che egli si fosse allon­ tanato: non era più qui, tra la folla dei viventi che cercava­ no di penetrare nella sua nuova casa, la stanza fumosa di rue Hamelin, dove solo una piccola lampada verde ricor­ dava che fuori esisteva la luce. Voleva ancora bene ai vec­ chi amici: ma non aveva più bisogno di vederli; come un egiziano del tempo di Cheope, si era fatto di loro dei «doppi>>, che popolavano la sua memoria e gli tenevano compagnia. Tutte le persone che aveva conosciuto - per molte di loro aveva spezzato il proprio cuore - si erano confuse con la massa di personaggi che popolavano la Re­ cherche. Questo congelamento non era totale: una parte dell'anima era rimasta tenera e feribile come una volta; e lì aveva ancora bisogno di affetto e di tenerezza. L'amici­ zia dei giovani gli dava piacere. Ma non aveva più forza per amare. Aveva appena capito che, almeno per lui, la parola felicità non possedeva più senso. Malgrado tanti segni e tanti errori, aveva creduto per molti anni di appar­ tenere al mondo. Ora si rese conto di come fosse irrime­ diabile la sua diversità. «Sono venuto da straniero, e me ne partirò da straniero» dichiarò a Pierre Lafue nell'aprile 1921 . «La vita di un artista non è che una lunga assenza: egli è altrove. Tutto, quaggiù, ci è ostile.» Viveva solo per il suo libro, che continuava a muoversi dentro di lui, a spostarsi, a esigere la costruzione di sem234

pre nuove ali, torri, archi, architravi, o particolari che for­ se nessuno avrebbe osservato, come nessuno osserva quell'angelo o quel mostro, scolpiti in cima alla cattedrale di Amiens e di Chartres. Non aveva tempo: la morte in­ calzava. Così usava tutti i minuti liberi: i giorni, le notti, tutto ciò che poteva strappare alla «conversazione>> . Se Jacques Rivière gli chiedeva un saggio su Dostoevskij, che d'altra parte avrebbe scritto così volentieri, rispondeva: Non possu m descendere, magnum opus facio, come il profeta Neemia, che aveva appena ricostruito le mura di Gerusa­ lemme e stava per fissare i battenti delle porte. E poi, sic­ come la morte era così vicina, doveva pensare al futuro dei suoi libri: edizioni esaurite, ristampe, edizioni popola­ ri. Mentre era ancora vivo, doveva occuparsi della loro vi­ ta e del loro nutrimento, come la vespa scavatrice, di cui parla Fabre, assicura ai suoi piccoli, dopo la propria mor­ te, della carne fresca da mangiare. Coltivava una specie di folle illusione: non solo quella di essere conosciuto e amato, - ma di essere compreso senza limiti, senza riserve, senza ombre, dai suoi lettori, come se un'opera d'arte, immensa e misteriosa quale la Recherche, possa venire mai compresa del tutto. Il 13 mag­ gio 1 922, quando la posta gli portò una lettera della sua cara, malinconica e spiritosa Madame Straus, fu felicissi­ mo. Appena riceveva un volume della Recherche, lei co­ minciava a leggerlo. Diceva: «Leggerò un quarto d'ora . . . » . Poi i l quarto d'ora passava, e lei leggeva sempre. Il dome­ stico bussava, ed entrava in camera per annunciarle che la cena era servita, e lei diceva: «Vengo . . . », e continuava a leggere. Il domestico diventava timido, restava in un an­ golo, e non se ne andava: solo allora lei, infastidita dalla sua presenza, scendeva a cena. Dopo cena, risaliva in ca­ mera, e piano piano, senza averne l'aria, attirava con pru­ denza il «libro prezioso», - ed eccola rituffata nella lettu­ ra, fino a quando il marito gridava con veemenza: «Ma è spaventosa, questa donna che legge sempre, il giorno, la sera, la notte, legge, legge, legge sempre ! » . Solo così 235

Proust voleva essere letto: senza smettere mai, con totale partecipazione dell'anima e del corpo, nelle case aristo­ cratiche, in quelle borghesi e popolari, e poi in métro, in carrozza, in treno, dove i lettori erano talmente presi dalla lettura che non vedevano i loro vicini, e dimenticavano di scendere alle stazioni. Dostoevskij aveva scritto che una delle sventure più spaventose della sua vita di detenuto fu quella, durante quattro anni, di non restare mai solo. Proust si meraviglia­ va. Ciascuno, e specialmente un uomo con un'immagina­ zione allucinante come quella di Dostoevskij, può soppri­ mere tutto quello che gli sta intorno, uomini e cose. Sosteneva che ci sono presenze molto più terribili: le pre­ senze interiori. Un uomo completamente dominato dalla propria malattia, che gli dà di continuo la febbre, che gli impedisce di dormire, di respirare, di alzarsi dal letto, era molto meno solo di Dostoevskij in mezzo ai detenuti. Pen­ sava a sé stesso. Visse· i suoi ultimi anni nel mondo della malattia e delle medicine. Prendeva troppi sonniferi, e si faceva fare iniezioni di adrenalina e di caffeina, per risol­ levarsi e uscire di casa. Spesso si avvelenò con dosi ecces­ sive di Veronal: una volta, per il furore di non poter dor­ mire, ne ingerì una scatola intera assieme a dial e a oppio. Un giorno prese per sbaglio una dose di adrenalina non diluita, e si bruciò la gola e lo stomaco, come se avesse in­ ghiottito del vetriolo. Se vogliamo credere a un racconto di Céleste, forse fece un tentativo per penetrare ancora più profondamente nell'inconscio; e per due giorni sog­ giornò dormendo sulle soglie della morte, a pochi centi­ metri dalla morte. Le droghe distrussero il suo organismo denutrito e de­ bilitato. Soffriva di afasia, di paralisi facciale, di vertigini. Talvolta non riusciva a comunicare nemmeno con Céleste: gli stordimenti erano così gravi, che non poteva mettere il piede a terra senza cadere. Aveva paure terribili: forse tut­ to dipendeva da una malattia del cervello, e avrebbe do­ vuto farsi trapanare il cranio. Oppure la mancanza di pa236

rola era l'indizio di un attacco di uremia, simile a quello che aveva ucciso la madre. Oppure la verità era ancora più atroce: presto sarebbe diventato completamente mu­ to. Niente più parole con Céleste, con i rari amici, e gli estranei che giungevano fino a rue Hamelin. Sperava di conservare la lucidità della mente. Allora, chiuso nella te­ nebra e nel silenzio, avrebbe continuato a scrivere la Re­ cherche, fino a lasciar cadere la parola fine. I medici lo ras­ sicuravano. Non aveva né l'uremia né una malattia cerebrale. L'afasia, le vertigini, gli stordimenti, dipende­ vano soltanto dal suo abuso di droghe. Ma lui, figlio e fra­ tello di medici, non credeva mai completamente alle loro parole: temeva che lo ingannassero. Così la morte - la Straniera, sorella di lui straniero scese ad avvolgere la vita di Proust. Nemmeno Kafka, che era immerso in lei in modo più irrimediabile, ne ri­ mase così contagiato. Nemmeno Tolstoj, che scriveva ogni sera sul suo diario: «Se domani sarò vivo», l'ebbe così presente. L'idea della morte era, per Proust, l'immi­ nenza: il giorno dell'avvento di Cristo per i primi cristia­ ni: «Questo giorno, nessuno lo conosce» dice Matteo (24, 36). Come scrive in una pagina della Recherche, la morte era già d.entro di lui, - il più assoluto presente. Aderiva «al più profondo strato del suo cervello» : non poteva ac­ corgersi di una cosa «senza che questa cosa attraversasse prima l'idea della morte», e anche se non si «occupava di nulla e restava in un riposo completo», l'idea della morte gli teneva compagnia, «incessante come l'idea dell'io». Proust aveva già conosciuto una sensazione così onniper­ vasiva, al tempo della guerra e della morte di Fénelon: ma mai in modo così intenso. Le lettere non fanno che ri­ petere: la morte ha preso possesso di tutto il mio essere: sono un morto vivo: muoio senza morire; ogni giorno di­ scendo «più rapidamente verso l'abisso una dura scala di ferro». Disse di più. Era già morto, anche se era risorto, forse per l'ultima volta. «Ma sono stato morto. E risalgo de p rofu ndis e ancora tutto fasciato come Lazzaro . » Poi 237

scherzava con gli amici, come se il suo rapporto con la Straniera fosse soltanto un gioco, uno scherzo amoroso, un marivaudage; e parlava della sua moribonderie, del suo moribondage. Era quella che Emerson chiamava «la frivo­ lezza dei moribondi». Poi - amata, odiata, desiderata, temuta - venne la mor­ te. Il 21 ottobre 1922, le analisi rivelarono una polmonite virale. Nella lunga malattia, ebbe crisi di delirio, di cui te­ stimonia qualche lettera: ma anche momenti straordinari di lucidità e frivolezza, in cui si intratteneva con Paul Mo­ rand sul secondo divorzio di Madame Scheikévitch, sulla guerra greco-turca, su una lettera a Giraudoux, su una stupenda lettera di Madame Straus («che mi manca tan­ to») a Madame de Chevigné. Qualche mese prima aveva scritto: «Le conversazioni serie sono fatte per le persone che non hanno vita spirituale. Le persone che hanno una vita spirituale . . . hanno invece bisogno, quando escono da sé stessi e dalla dura fatica interiore, di una vita frivola». Come la Berma moribonda, continuò a lavorare perfino gli ultimi giorni, torturato dalla febbre alta, dall'insonnia e da una terribile tosse: così raccomandava La mort du loup di Vigny, emblema del suo stoicismo: «Pregare, piangere, gemere è ugualmente vile. Fa' energicamente il tuo corto e pesante compito, e dopo, come me, soffri e muori senza parlare . »

Corresse La Prisonnière, di cui era scontento, per la quarta volta: corresse Albertine disparue: preparò degli estratti per la «Nouvelle Revue Française»; e ridusse La Prisonnière e (forse) Albertine disparue per le edizioni CEuvres Libres. Rifiutò tutte le cure dei medici, e quasi ogni nutrizione. Non volle uccidersi, come ha sospettato qualcuno. Volle vincere la morte da solo, con le sue deboli forze, con le forze immense del suo libro, e quelle che, da lontano, gli prestava la madre: senza pregare, senza piangere, senza gemere, senza parlare, senza chiedere aiuto. Fu una follia. Sarebbe bastata qualche cura medica per permettergli di 238

vivere e di concludere la Recherche: ancora così piena di vuoti, di discordanze, di archi aperti sull'abisso, di navate incompiute, di campanili lasciati a metà. Fu una follia: so­ lo l'ultima compiuta da un uomo che, per tutta la vita, fu divorato dal desiderio dell'impossibile, dell'immenso e dell'estremo. Il 1 8 settembre aveva scritto a Ernst Robert Curtius: «Non bisogna mai avere paura di andare troppo lontano, perché la verità sta al di là».

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Parte terza LA RECHERCHE

I

Il Pronao, p arte prima: la memoria, il sonno

Come tante opere del diciannovesimo secolo, la Recherche nasce dal «desiderio e dalla ricerca del Tutto». I testi che le assomigliano sono il Faust II, la Comédie humaine, Guer­ ra e Pace, i Fratelli Karamazov, La Tetralogia - fino all' Uomo senza qualità, dove questo desiderio tende all'estremo e manda in frantumi il libro, perché l'architettura non rie­ scè a esprimere la forza che la sostiene: un'analogia fatal­ mente incompiuta. La Recherche cerca di raccogliere in sé tutta la tradizio­ ne della letteratura, come aveva fatto Goethe nel Faust II: da Omero alla Bibbia a Sofocle a Virgilio a Ovidio a Dan­ te alle Mille e u na notte a Racine a Saint-Simon a Balzac a Nerval a Baudelaire a Dostoevskij e a Tolstoj. Ci sono tut­ ti i generi: dal romanzo simbolico alla lirica, dal saggio al romanzo psicologico, dal romanzo-conversazione al cata­ logo, dalle memorie alla pochade. C'è la pittura: Botticelli e Mantegna e Carpaccio, Rembrandt e Vermeer, Monet e Elstir, che comprende in sé la pittura dell'Ottocento. C'è la musica: Beethoven, Chopin, la Sonata e il Septuor di Vinteuil, dove si incontrano decine di musicisti. E c'è l'universo, con fiori, fiumi, città, marine, villaggi, case di campagna, alberi, la luna, il sole, Parigi, Venezia, salotti e moltitudini di esseri umani. Per scrivere un libro così smisurato, Proust aveva l'impressione di doversi molti­ plicare. Aveva bisogno di fare appello a tutti i suoi sensi: la vista, l'udito, l'odorato, il gusto, il tatto; e all'intuizione 243

metafisica, e a ogni forma d'intelligenza, filosofica, psico­ logica, letteraria. E poi un artista solo, lo scrittore, non ba­ stava. Avrebbe dovuto essere romanziere, attore, filosofo, «profumiere, decoratore, musicista, scultore, poeta» e persino critico letterario, come scrisse nel 1 908 a Marthe Bibesco. Aveva un modello alle spalle, lontano nel tempo: una di quelle Cattedrali-Libro, ad Amiens, a Chartres, a Reims o a Rouen o a Bourges, che aveva studiato sui libri di Ruskin e di Male, e che troneggiavano nelle città fran­ cesi, con le case e le botteghe ai piedi. Quelle cattedrali erano la migliore incarnazione del «desiderio e della ri­ cerca del Tutto», perché erano simili a Bibbie e a Summae e incorporavano in sé la natura. Sebbene quello di Proust non fosse un libro sacro, avrebbe preso la forma di un libro sacro, di un «gigantesco poema teologico e simboli­ co», come Elstir definisce la cattedrale di Balbec. Aveva persino pensato di dare a ogni parte un titolo architetto­ nico, come: Portico I, Vetrate dell'abside; e poi ci rinunciò per non sembrare troppo pretenzioso. La cattedrale goti­ ca aveva due volte la «forma del tempo>>, perché lo ren­ deva visibile nel suo interno; e perché era immersa nel tempo atmosferico, nel sole, nella pioggia, nella nebbia, nella notte, sotto il volo delle rondini e dei piccioni . Anche Proust avrebbe dato al suo libro «la forma del tempo», inserendovi lo spessore quasi mostruoso degli anni e delle stagioni. Ma gli rimase un rimpianto. Lui era soltanto uno scrittore, che componeva libri di carta. Non aveva composto un libro di pietra: non aveva costruito una cattedrale «vivente, scolpita, dipinta, cantante»; non poteva reimmergerla nella natura, abbandonandola ai raggi di sole, ai rovesci di pioggia, alla vicinanza della nebbia, al volo delle rondini e dei piccioni. In ogni caso, il Libro-Cattedrale doveva rimanere in­ compiuto. Non per la morte, che Proust sperava di vince­ re o di eludere: da tanto tempo la portava dentro sé stesso, da tanto tempo la «Straniera» abitava nel suo cervello, che 244

egli si era abituato a lei, stabilendo una specie di convi­ venza, regolata da patti vicendevoli. Le ragioni erano al­ tre. Da un lato egli portava in sé, come Faulkner, il senso del totale fallimento di qualsiasi cosa facesse: la lettura di Ruskin (il quale diceva che «nessun grande cessa di lavo­ rare finché non raggiunge il punto di fallimento��) l'aveva rafforzato in questa intuizione; e ai tempi del Contre Sain­ te-Beuve pensava che tutto ciò dipendesse dai tempi mo­ derni, nei quali «i capolavori dell'arte non sono che i relit­ ti del naufragio delle grandi intelligenze». Ma c'era una ragione più tecnica. L'ampiezza dell'architettura era così immensa (si era estesa in tanti tempi della sua vita), che non avrebbe avuto il tempo di finire certe parti, le quali sarebbero rimaste abbozzate. Una volta si spiegò con Cé­ leste, che spesso aveva il dono di Eckermann: «Vedete, Céleste, voglio che, nella letteratura, la mia opera rappre­ senti una cattedrale. Ecco perché non è mai finita. Anche se è costruita, bisogna sempre ornarla di una cosa e di un'altra, una vetrata, un capitello, una cappellina, con la sua statuetta in un angolo» . Proust pensava che l e grandi opere del diciannovesimo secolo - la Comédie humaine, La Légende des Siècles, La Tetra­ logia - avessero soltanto un'unità retrospettiva . Balzac, Victor Hugo e Wagner avevano composto opere ricche ma disparate, obbedendo a piani diversi; e poi, di colpo, quando tutto era già stato scritto, scopersero che esse ap­ partenevano a un ciclo unitario. Non aveva completa­ mente ragione, perché altri libri ottocenteschi, ispirati «al desiderio e alla ricerca del Tutto», come il Faust II e Guerra e Pace, avevano conosciuto fin dall'inizio un'unità costrut­ tiva, sebbene avessero in seguito attraversato cambiamen­ ti, rifacimenti e allargamenti. Ma quando Proust scriveva queste frasi su Balzac e Wagner nella Prisonnière, aveva in mente un'idea opposta. La sua Recherche, mille volte tra­ sformata e allargata, non era un ciclo. Non possedeva «un'unità che si ignorava��, come la Comédie humaine: era nata da un unico progetto architettonico, che folgorò 245

Proust appena aveva cominciato a scriverla. Quando il primo arco era stato costruito, l'ultimo svettava già nell'aria. Proust era fierissimo della sua capacità di archi­ tetto. Era convinto che il nuovo secolo sarebbe stato di­ stinto proprio da queste doti: conoscenza degli strumenti letterari, ardire e coscienza dell'architettura. La Recherche ha un altro carattere, che la rende abnor­ me: l'ampiezza del Prologo o, per usare il termine caro a Proust, del Pronao. L'ouverture dell' Iliade, dell' Odissea e dell' Orlando furioso comprende pochi versi: quella della Commedia un canto: I fratelli Karamazov hanno un epilogo, ma non un prologo: Moby Dick comincia con una serie di citazioni: I demon i contiene un «capitolo primo, a guisa d'introduzione»; per lo più i romanzi hanno dediche, pre­ messe, avvertenze, giustificazioni. Solo il capolavoro di Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita, comprende una serie successiva di dediche, prologhi, introduzioni - quasi senza testo. Ma Proust non condivideva questa vena di istrionismo metafisica. In apparenza, la Recherche è un ve­ ro romanzo. E tanto più ci meraviglia che il suo Pronao cominci verso la fine del libro, e si irraggi all'indietro, fino a compredere quasi interamente i due volumi di Du coté de chez Swann.

La parte fondamentale del Pronao è il mito della Me­ moria. Questo mito è la vetrata più colorata e decorata del Pronao: ma è anche il fondamento leggerissimo e robu­ stissimo, la «pietra angolare» dell'intera Cattedrale, e in­ sieme la cupola aerea che la corona . È fatto di niente: un odore, un sapore, un suono: nulla è più inconsistente; ep­ pure senza di esso l' intero edificio crollerebbe a terra in rovina. Come un vecchio muratore, Proust vi lavorava in­ torno da molti anni. Ne aveva dato il primo abbozzo nel fea n Sa nteu il, u n a seconda approssimazione nel Con tre Sai11 te-Beuve; e nella Recherche lo sviluppò, lo arricchì, lo 246

trasformò in quello che non era mai stato - un principio architettonico e romanzesco, che attraversa fasi successi­ ve, da un fallimento a una rivelazione. Se vogliamo comprenderne la portata, dobbiamo para­ gonarlo a qualcosa in apparenza remotissimo: le Idee di Platone. Non è certo che Proust le avesse in mente. Ma i ricordi della matinée Guermantes appartengono al mondo dell'eterno e dell'Uno, emanano luce, colgono l'unica e suprema realtà, come le Idee platoniche. Proust li parago­ na più volte alle sensazioni risvegliate dalla Sonata e dal Septuor di Vinteuil, la cui natura platonica è evidente. Il loro carattere distintivo sta nel fatto che sono Idee platoni­ che capovolte, le quali non abitano il «regno sovracele­ ste)), ma questa terra: il mondo delle sensazioni, dell'odo­ re e del sapore, del suono e della vista . Stanno qui, luminose apparizioni e incarnazioni dell'Essere. Hanno un precedente famoso, che probabilmente Proust non co­ nosceva: l' Urpflanze di Goethe. Anche l' Urpflanze era «un'idea)) platonica, come diceva Schiller: ma era al tem­ po stesso un'esperienza terrena, una vera pianta che Goethe contemplava con gli occhi. Sopra la memoria aleggia una figura protettrice. La ma­ dre di Proust era morta: egli aveva creduto di averla ucci­ sa, o se n'era addossata la colpa; e all'inizio della Recherche la fa risorgere come madre di Marcel. Mentre la nonna muore, e il padre muore (sia pure in modo invisibile), la madre non scompare mai: nelle stesse ore in cui Marcel prende la carrozza per raggiungere la matinée Guerman­ tes, va al tè di Madame Sazerat. Se nella Recherche la ma­ dre dona molta parte della sua vita (e la propria morte) al­ la nonna, essa acquista una funzione che nella realtà non aveva mai posseduto: diventa la grande dea protettice della memoria, e dello sforzo memoriale. Quella sera d'in­ verno, quando Marcel torna a casa infreddolito, è lei che offre al figlio la tazza di tè e la Petite Madeleine, dai quali, come nel gioco giapponese dei pezzi di carta, escono i fio­ ri del giardino di Combray e quelli di Swann, e le ninfee 247

della Vivonne e la gente del villaggio e le loro case e la chiesa. A Venezia, è lei che guida il figlio nel battistero, dove le due lastre ineguali anticipano, a distanza di molti anni, i pavés del cortile dell'Hotel Guermantes, che susci­ teranno la rivelazione. Nel momento fondamentale, come tutte le fate che conducono fino quasi alla meta i loro pro­ tetti, la madre si allontana, per il noioso tè di Madame Sa­ zerat. Ormai, Marcel non ha più bisogno di lei. Se la ma­ dre è morta e risorta, non possiamo meravigliarci che sovraintenda al regno della morte e resurrezione, al quale appartiene la memoria. Le cose capitali non nascono mai, nella Recherche, dagli sforzi dell'intelligenza e della volontà, che fanno impallidi­ re le cose. Acquistare le cose supreme non dipende da noi: nostra può essere soltanto l'attesa, che nella Recherche si prolunga per anni, fino quasi all'estenuazione. Il ricordo metafisica è un dono, e come tutti i doni dobbiamo ricever­ lo passivamente. Ma chi regala il dono? Chi fa risvegliare i ricordi chiusi nella tazza di tè, nelle pietre ineguali, nel suono del cucchiaio, nell'asciugamano rigido? Un cristia­ no, come Proust non era (o era in parte), avrebbe detto: la grazia. All'inizio della Recherche, Proust dice con chiarezza: la nascita del ricordo metafisica dipende dal caso. Dobbia­ mo accettare la sua risposta: tutto l'edificio della Recherche si regge sul caso; il quale, però, ci invia soltanto segni che conducono verso l'Essere e l'Uno, come sono abituati a fare gli dèi. Dunque gli dèi, a nostra insaputa, stanno giocando con noi. Ce lo conferma un altro passo, dove Proust sostie­ ne che il ricordo è, insieme, l'atto più necessario e libero della nostra vita. Esso è l'atto più necessario, perché noi non scegliamo di ricordare: subiamo la forza del ricordo, che sale in noi con una violenza quasi meccanica. È l'atto più libero, perché ignora l'abitudine e le sue ripetizioni. Ora, chi contiene in sé necessità e libertà, chi trasforma la necessità in libertà e la libertà in necessità, chi rende le cose insieme implacabili e spontanee, non è altri che un potere divino. 248

I ricordi di Proust sono esclusivi. Nessuno di essi viene suscitato dalla visione di una persona: non accade mai che Marcel veda Oriane de Guermantes o Charlus o Bloch o Legrandin, e che questa visione risvegli non un semplice ricordo, ma un ricordo involontario. Come le anime dei morti, i veri ricordi stanno prigionieri delle cose; e solo una cosa - la tazza di tè, la pietra, il cucchiaio, l'asciuga­ mano - può liberare la massa infinita di ricordi - momen­ ti, ore, paesi - che essa raccoglie. Che immensi contenitori sono le cose! E quanti ci appaiono i loro strati, via via più intimi e abissali! Tutto ciò ha un significato, che abbiamo già appreso leggendo il Jean Santeuil. Le cose non sono morte - dure pietre, alberi spogli, mare senz'anima -: es­ se, al contrario, grondano inesauribilmente d'anima. Così pensava anche il tempo di Proust. Nella letteratura di al­ lora, da Flaubert a Hofmannsthal a Pascoli a Pessoa, re­ gnava una grandiosa mistica oggettiva: la ricchezza d'ani­ ma, che la letteratura romantica aveva coltivato, si era rovesciata nelle cose, inondava le cose, si insinuava in ogni poro delle cose. Il mondo degli oggetti puri sembra­ va scomparso. Sebbene fosse irrigidita in oggetti, l'anima era dappertutto, ancora più indefinibile e illimitata di una volta. Se i ricordi sono prigionieri delle cose, Marcel compie ricordando un processo di liberazione che non potrebbe essere più vasto: porta alla luce Combray, i suoi fiori, la sua chiesa, una giornata di luce abbagliante a Venezia, una fila d'alberi illuminata dal sole, una visione d' azzur­ ro a Balbec, un «oceano verde e blu come la coda di un pavone». Una volta - ed è uno dei suoi delitti più gravi ­ Marcel imprigiona ciò che era libero: dona alla tenutaria di una casa di appuntamenti alcuni mobili che erano ap­ partenuti a zia Léonie. Quando va nella casa, i ricordi e le virtù incarcerati negli oggetti, suppliziati dal contrasto al quale li aveva costretti, lo implorano di liberarli, «come quegli oggetti in apparenza inanimati di un racconto per­ siano, nei quali sono chiuse le anime che subiscono un 249

martirio e implorano la loro liberazione» . Ancora una volta, Proust sfiora, senza saperlo, un tema gnostico. Nella Kabbala di Izchak Luria, le Sefirot divine si sono frantumate, e le scintille luminose stanno dovunque: esi­ liate, degradate, avvilite, prigioniere delle potenze demo­ niache; pendenti nelle cose come dentro pozzi suggellati, rannicchiate negli esseri come in caverne murate. Ogni fedele deve cercare di liberare queste scintille prigioniere, di ricongiungerle e di restaurare la perduta unità della luce. Egli non dimentica mai il suo compito. Tutti i suoi più umili gesti quotidiani sono gesti di redenzione. Se la­ vora con amore scrupoloso la pietra, libera le scintille di­ vine prigioniere della pietra: se seduto al suo desco di ciabattino maneggia con precisione il cuoio, libera le scin­ tille prigioniere delle pelli: se si ciba secondo il rito, libera le scintille prigioniere delle carni e delle erbe; se scopa ac­ curatamente la propria casa, libera le scintille prigioniere dei muri e della saggina. Come nell'Odissea, nella Recherche il ricordo è un atto di negromanzia. Odisseo lascia che i morti muti e senza me­ moria si accostino alla fossa e bevano il sangue: allora essi riacquistano voce, intelletto e memoria e raccontano con verità il proprio passato. Questa trama omerica riappare nella rievocazione fallita degli alberi di Hudimesnil. «Cre­ detti piuttosto che [i tre alberi] fossero dei fantasmi del passato, dei cari compagni della mia infanzia, degli amici scomparsi. . . Come ombre sembravano domandarmi di condurli con me, di renderli alla vita. Nella loro gesticola­ zione ingenua e appassionata, riconoscevo il rimpianto impotente di un essere amato che ha perso l'uso della pa­ rola, sente che non potrà dirci quello che egli vuole e che noi non riusciamo a indovinare.» Ma Proust è un negro­ mante molto più potente di Odisseo. Mentre gli spettri dell'Ade, bevuto il sangue, tenuto il loro discorso, «vago­ lano via come un sogno)), nella Recherche (se la rievocazio­ ne è riuscita) i ricordi trovano la parola, e diventano lumi­ nosi e immortali. L'arte proustiana della memoria insegna 250

che dobbiamo dimenticare, abbandonando i nostri ricordi e i nostri cari nell'Ade, lasciando che essi diventino fanta­ smi, come gli spettri dell' Odissea: la dimenticanza uccide l'abitudine; e quando essi rinascono, liberati dalla grazia o dal caso, rinfrescati dalla polvere dell'abitudine, cono­ scono l'eterna resurrezione. Nella rivelazione finale, i ricordi principali sono tre: numero che sottolinea la totalità di questa esperienza. Il processo memoriale è una folgorazione immediata e ve­ locissima, che avviene senza alcuno sforzo, come tutto ciò che ci è donato dal caso o dalla grazia. Marcel inciampa contro le pietre mal squadrate del cortile, come una volta aveva urtato due lastre ineguali nel battistero di San Marco; e di colpo un azzurro profondo inebria i suoi occhi, impressioni di freschezza e di luce abbagliante on­ deggiano attorno a lui: è Venezia. Nel salotto dei Guer­ mantes, un domestico batte un cucchiaio contro un piat­ to, come il giorno prima un ferroviere aveva battuto la ruota del treno in aperta campagna: Marcel prova una sensazione di grande calore, un odore di fumo, scorge la linea d'alberi illuminata dal sole. Mentre si asciuga la bocca col tovagliolo, rigido come l'asciugamano che aveva usato a Balbec, una nuova visione d'azzurro, puro e salino, passa davanti ai suoi occhi, e l'oceano spiega «il suo piumaggio verde e blu come la coda di un pavone» . Le tre coppie di sensazioni non sono «l'eco» o «il doppio» l'una dell'altra: si coprono, si identificano, sono la stessa sensazione, la pietra ineguale è quella pietra, il suono è quel suono, il tovagliolo è quell ' asciugamano. Conosciamo ciò che è accaduto dal fean Santeuil, che an­ ticipa la Recherche quasi in ogni dettaglio. In Marcel, come in Jean Santeuil, vive un individuo che insegue le essenze. Ora questa persona non può afferrare l'essenza nel pre­ sente, perché l'immaginazione non vi partecipa: né nel passato, che l'intelligenza della memoria volontaria dis­ secca; né nell'attesa del futuro, che la volontà costruisce coi frammenti del presente e del passato. Il metafisica, che 251

vive in Marcel, trova le essenze permanenti e nascoste delle cose solo quando un momento presente si identifica con un momento passato: un odore già respirato, un ru­ more già ascoltato, vengono di nuovo respirati e ascoltati, «reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti», preparando quel «nutrimento celeste» che l'anima mori­ bonda attendeva. In quel momento esplode la luce: tutto è luce, sia la visione abbagliante di Venezia, sia la linea d'al­ beri illuminata dal sole, sia l'oceano verde e blu di Balbec. Cominciata nella tenebra dell'insonnia, la Recherche si conclude in questa trionfale rivelazione di luce. Avevamo già conosciuto questa sensazione ascoltando il Septuor di Vinteuil. Anche lì c'era luce; e c'era, in più, «qualcosa da poter paragonare alla seta profumata di un geranio» . Dunque anche nel ricordo c'è quel liscio, quel setoso, quel fondu, che è la qualità suprema dell'opera dell'arte. Cogliendo l'identità del presente con il passato, Marcel isola e immobilizza - per la durata di un lampo - ciò che non si riesce mai ad arrestare: «un po' di tempo allo stato puro». Mentre l'intelligenza separa e distingue tra loro le diverse sensazioni, la memoria risuscita la complessità e compattezza, setosa come un geranio, di un momento vis­ suto, con tutte le sue sensazioni, impressioni, rapporti, ri­ flessi, echi: il tovagliolo-asciugamano contiene il mare di Balbec, e l'odore della camera d'albergo, la velocità del vento, il desiderio di mangiare, l'incertezza tra le diverse passeggiate. Niente è più solido e folto, niente ha più volu­ me e spessore di un momento proustiano: niente ha più materia: eppure come è lieve, come si purifica, come diven­ ta immateriale, solo un profumo e un sapore! Marcel ha raggiunto anche qualcosa che sembra l'opposto del tempo (ma non del tempo puro): l'eterno. Non teme più le vicissi­ tudini e i disastri della vita, la sua brevità illusoria, le in­ quietudini dell'avvenire. La morte gli è indifferente. Posse­ dendo un'analogia, ha raggiunto l'Uno, e la sua lingua non analitica. Così finalmente conosce quella piena, estatica, abbagliante felicità, di tutta l'anima e di tutti i sensi, che 252

riempie le pagine della rivelazione, come quelle sul Septuor di Vinteuil. Ora la vita, che sembrava così sinistra nelle ul­ time parti del libro, diventa «degna di essere vissuta» e tra­ sformata in opera d'arte. Quale ottimismo vitale ripercorre a ritroso la Recherche, e ce la fa rileggere con altra gioia! L' impresa è rischiosa come la discesa di Faust alle Madri. La sensazione cerca di ricreare attorno a sé un luogo antico, mentre il luogo presente si oppone con tutte le proprie forze. La sala da pranzo dell'albergo di Balbec, con le sue tovaglie pronte a ricevere il tramonto del sole, cerca di scuotere la solidità del palazzo dei Guermantes: ne forza le porte, fino a far vacillare per un istante i ca­ napè della biblioteca attorno a Marcel. Il luogo presente rimane vincitore: ma se non avesse vinto, se Balbec e l'oceano e la stanza e il ristorante dell'albergo fossero pe­ netrati nella biblioteca, Marcel avrebbe perso la conoscen­ za, o sarebbe scivolato di là, in un passato lontano da lui decine di anni. Sembra di leggere Il Senso del passato di Henry James. Inoltre, l'impresa è fugace. Quando aveva immaginato per la prima volta il Temps retrouvé, Proust aveva pensato a una Adoration perpétuelle: come la cerimo­ nia ininterrotta, consacrata al Sacramento in certe chiese, durante la Settimana Santa o in altri periodi solenni della liturgia cattolica. Aveva immaginato un'estasi ininterrot­ ta, una condizione stabile? In una tarda intervista, Proust dichiarò il suo fallimento: «Non c'è estasi durevole in questo mond o » . L'adorazione perpetua non era dunque possibile. La cosa suprema ed estrema che egli poteva rappresentare era l'eternità intravista per un istante: una visione «fuggitiva», fragile, e subito abbandonata. Ma questo istante gli bastava. Muovendo da esso, partendo da un odore, un sapore, un suono o una sensazione tatti­ le, subito volatilizzati e perduti, servendosi della «pietra angolare» più lieve che sia mai esistita, Proust costruì la più robusta e grandiosa delle Cattedrali. Nel sistema della memoria, entrano in gioco soltanto quattro sensazioni: l'odore e il sapore (nella tazza di tè e 253

con la madeleine), il tatto (pietre ineguali, asciugamano), l'udito (rumore del cucchiaio). Non c'è alcuna traccia del­ la vista: che, per i Greci, come dicono le prime righe della Metafisica di Aristotele, era il supremo tra i sensi: quello che contemplava le statue, i paesi, gli uomini e, almeno una volta nella nostra vita, persino gli dèi, che era possibi­ le toccare con gli sguardi. Per un verso, Proust nutriva dif­ fidenza per la vista, e dunque per la tradizione greca della luce-intelligenza, «come se il senso della vista fosse più prossimo all'intelligenza, già più astratto, più lontano de­ gli altri» . Egli temeva che lo sguardo desse una visione «piana e superficiale», un disegno lineare delle cose, e non conservasse l'immenso spessore del passato. Per un altro verso, Proust è il vero continuatore dei Gre­ ci, come dovrebbe far sospettare la sua metafisica della lu­ ce. Nella meccanica del ricordo, tutti gli stimoli dei sensi si concludono in una specie di visione allucinatoria del reale. Seguendo la traccia dell'odore e del sapore, Marcel vede la casa grigia di Combray, il piccolo padiglione sul giardino, e tutta la città, e i fiori e le ninfee: seguendo l'impulso del tat­ to, egli vede l'azzurro profondo e la luce abbagliante di Ve­ nezia: seguendo il richiamo dell'udito, egli vede la linea d'alberi illuminata dal sole; seguendo di nuovo il tatto, egli vede il mare, la spiaggia, l'albergo di Balbec. Se integriamo queste pagine con i passi paralleli delle Jeunes filles en fleurs, vi scopriamo un inno allo «stupore profondo» della vista, preferito alla semplicità stilizzata del ricordo. All'improv­ viso, come in un'esplosione fantastica, la vista diventa il supremo dei sensi, che comprende in sé tutte le altre sensa­ zioni. Quando lo sguardo vede le jeunes filles, le odora, le tocca, le assapora, le palpa, le abbraccia, le pesa, le accarez­ za, le possiede, le consola. La vera visione è una specie di atto cannibalico: come le api scorgono le rose e ne estraggo­ no il miele, come noi in una vigna mangiamo i grappoli con gli occhi, così i nostri sguardi mangiano la totalità compat­ ta e sensuale del corpo femminile. Proust si lamentava del­ la povertà dei nostri sensi, e avrebbe voluto averne un cen254

tinaio. Per realizzare questo desiderio, egli intensificò ogni senso: portò il gusto, l'olfatto, l'udito, il tatto al massimo acume; e poi li concentrò tutti insieme sotto il dominio so­ vrano della vista. Non ho parlato della prima, più famosa e forse più bel­ la delle rievocazioni memoriali: quella della tazza di tè e della madeleine, protetta dalla madre-sacedotessa. In realtà, essa non è un ricordo involontario perfetto, come la trinità finale, che illumina la biblioteca del principe de Guermantes: Proust ripete più volte che si tratta di un pri­ mo ricordo, solo in parte riuscito, non condotto sino alla piena elaborazione teorico-mitica. In primo luogo non è luminoso, come lo era nel Con tre Sainte-Beuve («degli odo­ ri di geranio, di aranci, una sensazione di straordinaria lu­ ce, di felicità»), dove giungeva al suo culmine. In secondo luogo, le tre rivelazioni finali sono delle folgorazioni ana­ logiche quasi istantanee, dove la sensazione e la cosa ri­ cordata si identificano e si frappongono: cosa su cosa . Qui, invece, assistiamo a una lenta, drammatica, faticosa ricerca che avviene a tentoni, avanti e indietro, con soste, indugi e improvvisi balzi, negli abissi del nostro spirito. In terzo luogo, la ricerca finale assomiglia alla pura quiete mistica: senza sforzo, estaticamente passiva. Qui, invece, Marcel elabora una complicata tecnica spirituale, ora fon­ data sullo sforzo, ora sulla passività provocata, come certi mistici consigliano all'inizio dei loro esercizi. Lo spazio è mutato. Nelle tre visioni definitive c'è un senso freschissimo di aria aperta, di azzurro, di fumo, di luce, di mondo reale, sia pure rievocato nella mente. Nel caso della madeleine, abbiamo l'impressione fisica di abita­ re tra le cave pareti del cervello, dove Marcel compie una discesa nei tenebrosi inferi del suo spirito. È una pagina straordinaria. Questi arresti, questi tentativi, questi sforzi, questi scarti e violenze, queste concentrazioni e fatiche, queste distrazioni e vuoti, questi spostamenti e trasalimen­ ti, le lente risalite, il rumore delle distanze traversate, i pal­ piti, i confusi dibattiti, le forme indistinte, le pause, le ridi255

scese, le inutili riprese, e infine l'improvviva apparizione -: nessuno scrittore, nemmeno forse Giovanni della Croce o Valéry o Musil, ha mai rappresentato con tale intensità «il paese oscuro» della nostra mente.

L'altra vetrata del Pronao è consacrata al Sonno, che funge da apparente ouverture della Recherche. Come sap­ piamo, la vera ouverture sta molto più lontano, nella rive­ lazione alla matinée Guermantes: come un esperto costrut­ tore di scatole cinesi, Proust inserisce il sonno dentro la memoria, e poi il sonno, a propria volta, avvolge la secon­ da rivelazione memoriale, quella della madeleine. Che il sonno, in ogni caso, sia l' inizio, che le prime righe parlino di letti, di coricarsi1 di candele spente, di occhi che si chiu­ dono, di oscurità dolce e riposante e poi di risvegli, - rive­ la un'intenzione capitale. Il sonno è uno sguardo: Proust vuol vedere il mondo della veglia con gli occhi della not­ te. Gli occhi insonni guardano e rievocano tutto, così che la Recherche esce non da una tazza di tè, ma da una came­ ra piena di tenebra. Quando questa tenebra sarà stata por­ tata all'estremo, fino alle notti di Sodoma, di Pompei e di Parigi, e potrà dirsi esaurita, - solo allora potrà scoppiare, nella costruzione del romanzo, la rivelazione della luce. Tra le molte cose straordinarie della letteratura, è il fatto che ci dà esperienza delle cose che non conosciamo. Que­ st'insonne, quest'uomo che dormiva soltanto caricandosi di droghe in dosi quasi letali, ci rivela la dolcezza, la tene­ rezza, il riposo, la freschezza primaverile del sonno, come solo i giovani conoscono. Ricordiamo Shakespeare: «Il sonno innocente, il sonno che dipana le confuse fila delle cure, morte della vita del giorno, lavacro del faticoso af­ fanno, balsamo della mente ferita . . . (Macbeth II, 2); e Goethe: «Tu vieni come una pura felicità, non pregata, non supplicata . . . Tu sciogli i nodi e i duri pensieri, mesco­ li tutte le immagini della gioia e del dolore; senza impedì»

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mento scorre il circolo delle intime armonie, e avvolti in una piacevole follia, noi sprofondiamo e cessiamo di esse­ re» (Egmont V) . Nel sonno proustiano, come in Shake­ speare e in Goethe, noi partecipiamo alla vita degli ele­ menti: conosciamo le agili forze vegetative della natura: diventiamo le foglie di un albero, il mare; condividiamo l'ininterrotta metamorfosi o la metempsicosi del grande Tutto, da cui forse usciremo come aquile e pesci. Se il pro­ cesso della memoria è morte e resurrezione, il sonno, la vetrata che risponde alla memoria nel Pronao, è la stessa cosa: perché «vi siamo iniziati all'altro grande mistero dell'annullamento e della resurrezione». Proust ha cura di non confondere il sonno con l'incon­ scio e la tenebra assoluta: mentre dormiamo, viviamo dentro una luce attenuata, velata, come quella che discen­ de nel fondo opalino delle acque; invece di sperimentare la totale assenza di pensieri, conosciamo dei «pensieri a metà velati» . Certo, abitiamo dentro un altro appartamen­ to, completamente opposto (anche se talora speculare) al nostro. Esso ha le sue suonerie, i suoi domestici, i suoi vi­ sitatori, le sue voci: il suo tempo, ora più veloce ora più lento del nostro; ed è frequentato da una razza androgina, da oggetti diventati umani. In altri luoghi della Recherche, il sonno non è soltanto un appartamento vicino al nostro, o sopra il nostro. Con una specie di stupore e di orrore, Proust discende nei «regni più elementari della natura»: diventa un animale arcaico, si immerge nell'acqua delle origini, che avvolge la vita della veglia, come il mare aggira una penisola. Abbiamo l'impressione fisica che dormire sia una discesa nelle ulti­ me profondità della terra, «in gallerie sotterranee», «nel suolo e nel tufo», e insieme in una «città morta». Dormire profondamente è dunque impresa che solo i veri geologi e gli archeologi (cioè gli scrittori) sanno compiere. Agostino parlava delle «caverne incalcolabili della memoria, incal­ colabilmente piene di cose incalcolabili» : avrebbe potuto parlare delle «caverne incalcolabili del sonno». Laggiù 257

non giunge nessun riflesso della veglia, nessuna luce del ricordo. Ma nell'abisso, come sapeva Faust, si trovano i te­ sori. Se ci abbandoniamo al momento che passa, come Proust a Cabourg e Marcel a Rivebelle, conosciamo i pia­ ceri frivoli della leggerezza, dell'agilità, dell'assenza di gravità e di peso. Quando dormiamo profondamente, vi­ viamo in ciò che è folto, pesante, spesso, carico di tempo: «le nostre percezioni sono talmente sovraccariche, ognu­ na ispessita da una percezione sovrapposta che la rad­ doppia», proprio come succede se effettuiamo scavi ar­ cheologici a Micene o a Troia, o indaghiamo in una sezione di terreno la sovrapposizione di diverse ere geolo­ giche, divise tra loro da pochi centimetri e da milioni di anni. Così il sonno è simile allo spessore e al volume e al peso del tempo nella Recherche. Se discendiamo tanto in profondo, come meravigliarci se perdiamo il nostro io? Usciamo completamente da lui. Non siamo più nessuno. Non dovremmo dunque stupirei, tanto violenta e dram­ matica è stata la discesa negli strati inferiori e l'uscita da noi stessi, se risvegliandoci entrassimo in un altro corpo. Nessuno può escludere che potremmo ricordare anche la vita che, chissà quando, abbiamo vissuto nel corpo di un altro uomo. Nel sesto canto dell' Eneide, Enea scende, insieme alla Sibilla, nei «regni inaccessibili» di Dite. Giunge a una grotta: >, traccia una prima ruga nell'anima di lei; la fa invecchiare. Poi le sue colpe si estendono alla famiglia: sconfigge l' au­ torità del padre, che rinuncia alla parte di Abramo: avvia la nonna verso una «morte lenta>>; e infine, rivoltandosi 264

contro Marcel, il peccato fa declinare la sua salute e la sua volontà, costringendolo a rinunciare alla vita. Le colpe si accumulano nella sua esistenza. Cosa più grave di aver assistito all'altro peccato originale, la scena di Montjou­ vain? E cosa è più grave, sopratutto, di aver ucciso la non­ na con l'indifferenza? Come nella vita di Proust, tutte le colpe culminano e partono dal matricidio. Il peccato esige un' espiazione. La rivelazione della ma­ tinée Guermantes, l'inizio e poi il lento compimento del libro dovrebbero cancellare la colpa originale, trasfor­ mandola in trionfo, come nel Septuor di Vinteuil. La Re­ cherche, non solo questo Pronao dove le due opposte ve­ trate della colpa e del rimorso si fronteggiano, è un'im­ mensa cattedrale del desiderio di espiazione. Ma se la colpa è limitata, se la indichiamo e la descriviamo con pa­ role precise, nessuna parola saprà mai contenere il senso d i colpa e la brama di soffrire per i propri peccati ed espiarli - il più infinito e illimitato tra i sentimenti. Nulla basta mai, nulla contiene mai l'assalto on doso dei rimor­ si. Al tempo del delitto di van Blarenberghe, Proust pen­ sava, confortato dal mito greco, che le tombe di Edipo e di Oreste diventassero una fonte di benedizione per gli altri, trasformando il male in bene: ora crede che nemme­ no tutta la cattedrale della Recherche sia un'espiazione sufficiente. Occupando interamente la scena, prendendo la parola al posto di Marcel, egli scrive queste parole ter­ ribili: «Mia nonna che, con tanta indifferenza, avevo visto agonizzare e morire accanto a me! Almeno potessi, in espiazione, quando la mia opera sarà terminata, ferito senza rimedio, soffrire per lunghe ore, abbandonato da tutti, prima di morire ! » . Il matricidio invendicato conti­ nua a occupare l'orizzonte, sino alla fine del libro. La scena del bacio della madre trova il proprio parallelo in quella di Montjouvain, dove Mademoiselle Vinteuil e l'amica offendono e profanano il ritratto e la memoria del padre. Qui il peccato originale viene esplicitamente ricor­ dato: intravediamo l'albero della conoscenza del bene e 265

del male; il quale è di nuovo l'albero del peccato edipico, complicato di lesbismo e di sadismo. Davanti all'orrore delle immagini, che Marcel spia dalla finestra semiaperta, potremmo credere che la scena che Mademoiselle Vinteuil e la sua amica recitano davanti ai nostri occhi, sia un'in­ carnazione del Male Assoluto. Proust ammette che il Male Assoluto esiste: ha letto Dostoevskij: conosce la natura umana: sa che il vero malvagio è colui per il quale il Male non è esterno ma interno : una presenza profonda che coincide interamente con lui, senza lasciargli nessuna via di uscita, nessuno spiraglio, nessun sentimento che non sia toccato e insozzato. Il vero malvagio non recita il male: è male. Ma, in tutta la Recherche, non esiste alcun esempio di Male Assoluto. Proust non giunge fino a questi estremi confini: non rappresenta nessuno Stavrogin, sia perché non abita nel male come Dostoevskij, sia perché, nella sua infinita «indulgenza», coi suoi «occhi così stanchi e luci­ di» conosce le vie segrete che trasformano il male in bene. L'analisi che Proust dedica a Mademoiselle Vinteuil è di una precisione implacabile, perché riguarda, in primo luogo, lui stesso. Nel fondo del cuore, Mademoiselle Vin­ teuil è una «vergine timida e supplichevole» : «un'anima sentimentale» e persino «pura » . Essendo virtuosa, vede nel piacere sensuale qualcosa di malvagio; e, per godere questo piacere, deve evadere dalla sua «anima scrupolosa e tenera», diventando malvagia. Come può farlo? Nel pic­ colo salotto illuminato, davanti al ritratto del padre mor­ to, essa recita insieme all'amica una scena di teatro, simu­ la un piccolo �>; e dopo un al­ tro istante le piccole vetrate acquistano un' infrangibile durezza di zaffiri, sovrapposti su un immenso pettorale, dietro il quale continua però ad avvertirsi il sorriso mo­ mentaneo del sole. Nei due arazzi che rappresentano l'in­ coronazione di Esther, i colori si sono fusi, aggiungendo una specie di luce: così il rosa ondeggia attorno alle labbra di Esther, oltre il loro contorno, il giallo della s ua veste si spande untuosamente, il verde stinto nella parte alta dell'arazzo fa spiccare «in chiaro, al di sopra dei tronchi scuri, gli alti rami biondeggianti, dorati e come semican­ cellati dalla brusca e obliqua illuminazione di un sole in­ visibile». Abbiamo visto la metamorfosi del tempo. Que­ sta è la metamorfosi della luce: essa trasforma tutte le cose (il retablo, l'arazzo) in luce, che a sua volta trasforma l'ap­ parenza delle cose, ora nella coda di un pavone, ora in una grotta da Mille e una notte. Tutto è sacro a Combray. In primo luogo la stanza di zia Léonie, museo degli odori, cuore della devozione e delle malattie: legata alla chiesa e al campanile, come un centro a un altro centro. Anche la natura è sacra. Se usciamo all'aperto, nel mese di Maria scorgiamo i biancospini (an­ zi, le a ubépines), le quali non sono altro che ragazze tra­ sformate in fiori, parte di quell'immenso libro delle Meta­ morfosi che è il libro di Proust. Ecco «il movimento di testa sventato e rapido, lo sguardo civettuolo, le pupille abbas­ sate di una bianca ragazza, distratta e vivace» : oppure «una ragazza in abito di festa», nella sua fresca toilette ro­ sa, tutta pronta per il mese di Maria, tra persone in vesta­ glia che resteranno a casa. Dopo la Vergine dorata della Cattedrale di Amiens, le aubépines sono la suprema incar­ nazione dell'eterno femminino di Proust: la devozione 273

cattolica, la civetteria, la grazia, il candore, la tenerezza, la sensualità che si ignora, l'eleganza popolare, il profumo della Rosina di Rossini e della Sylvie di Nerval. Per la pri­ ma volta scorgiamo le au bépines nella chiesa, posate sull'altare, inseparabili dai misteri alla cui celebrazione prendono parte, con i loro mazzi di boccioli di un bianco­ re splendente, come su uno strascico di sposa. Quando le vediamo all'aperto, lo spettacolo è ancora più sacro ed ec­ clesiastico. Qui tutta la natura è chiesa, e la metamorfosi non ha limiti. Le siepi formano una serie di cappelle, che spariscono sotto i fiori ammonticchiati in un repositorio: il sole sembra attraversare una vetrata: il loro profumo si estende untuoso e delimitato come in un interno, davanti all'altare della Vergine; e i fiori hanno delle fini e raggian­ ti nervature in stile flamboyant, come quelle che in chiesa ricamano le balaustre della cripta. Se la chiesa è il Tempo, uno strano orologio domina le vacanze di Marcel e della sua famiglia. Il racconto progre­ disce contemporaneamente lungo le tre dimensioni del giorno, della stagione e degli anni. Nel corso della stessa giornata siamo, la mattina, nella settimana di Pasqua e fa ancora freddo: poco dopo, Françoise prepara gli asparagi, che in Francia crescono tra fine aprile e maggio: poi è già caldo, e le mosche eseguono «la musica da c amera dell'estate»; infine siamo otto giorni prima delle Rogazio­ ni, cioè nove giorni prima dell'Ascensione, che cade qua­ ranta giorni dopo Pasqua. Inoltre le occupazioni di Mar­ cel la mattina sembrano quelle di un bambino, nel pome­ riggio quelle di un adolescente. Non è certo un caso, come non è mai un caso l'uso proustiano del tempo, che obbedisce a un orologio cosmico che batte soltanto nella Recherche. Non siamo né nel tempo lineare (che regge al­ cune sezioni della Recherche) né in quello circolare (che regge la totalità del libro) . Siamo fuori dal tempo? A Combray, dove si concentrano tutte le unità della durata, il tempo è più folto, più ricco e voluminoso del nostro? A Combray tutti si conoscono, e «una persona che non 274

si conosce» è poco credibile come un dio della mitologia, sceso in terra nei tempi cristiani. Il compito di zia Léonie, cronista, spia e poliziotta curiosissima del piccolo mondo di Combray, è quello di trasformare l'ignoto in noto: la «persona che non si conosce» in una persona di conoscen­ za, o almeno parente vicina o lontana di una persona di conoscenza. La sua curiosità è degna di un grande roman­ ziere, fatalmente innamorato dei particolari. Come lei, an­ che Proust cerca di trasformare l'ignoto in noto (sia pure !asciandovi attorno l'alone e il mistero dell'ignoto). Dietro la malata immaginaria e la cronista pettegola di ciò che si vede dalla finestra di Combray, - si nasconde ironicamen­ te Proust; e come si diverte, lì mascherato, a spiare Mada­ me Goupil, che va in chiesa in ritardo e forse non arriverà prima dell'elevazione, o il figlio di Madame Sauton, o i grossi asparagi di Madame Imbert, o la Maguelone che cerca il dottor Piperaud, o a compiangere la povera Mada­ me Rousseau appena defunta, a congetturare chi fosse il cane misterioso (forse il nuovo cane di Monsieur Galo­ pin), o una bambina ugualmente misteriosa che ha attra­ versato la piazza insieme a Madame Goupil. Di nascosto, Proust fa un altro gioco: quello di disegnare un comico ri­ tratto di sé stesso: nevrotico come zia Léonie, perenne­ mente a letto come zia Léonie: abitudinario e desideroso come lei di catastrofi; e che tuttavia partecipa con folle cu­ riosità alla vita, la guarda, la spia e la racconta per la gioia di tutte le Françoise e di noi stessi. Combray continua in due c6tés opposti: il c6té di Mésé­ glise (o il c6té de chez Swann), e il c6té di Guermantes; le mete finali di entrambi sono all'inizio inaccessibili e irrag­ giungibili come l'orizzonte o l'entrata degli Inferi. Di loro sappiamo quello che ci dice il padre di Marcel: Méséglise è il «più bel paesaggio di pianura che conoscesse», Guer­ mantes è «il tipo del paesaggio di fiume» . Molto d'altro non possiamo aggiungere: sebbene qualcuno possa dire che dalla parte di Méséglise sta l'amore, il peccato, la mu­ sica e da quella di Guermantes la società, la letteratura, il 275

ritorno tardivo, il timore del bacio negato. Méséglise e Guermantes sono sopratutto due «creazioni dello spiri­ to», «due giacimenti profondi del suolo mentale», che creano organizzazioni opposte dello spazio; ma esse si at­ traggono come i termini opposti di un'analogia, che non hanno senso e valore fino a quando non si sono fusi nella quiete dell'Uno.

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III

Il Pronao, p arte terza: Swann, la gelosia, la musica

Nella Recherche, nessun personaggio possiede la grazia di Swann: nemmeno Oriane de Guermantes, quando si chia..., mava principessa des Laumes. Nessuno vive con tanta naturalezza, come lui, nel regno leggerissimo dell'appa­ renza, che una parola troppo accentata, o l'entusiasmo della voce, o l'errore di un gesto bastano a incrinare. Chi possiede un nome strano ed elegante come il suo? Swann: questo cigno inglese al quale è stata aggiunta una enne, come se si potesse aggiungere un' ala a un vero cigno: questo nome «bianco», diceva Proust, che va pronunciato dolcissimamente (Souann invece di Svann, come fa la fi­ glia). E poi il viso: col naso arcuato, gli occhi verdi, la lieve miopia, il monocolo, la fronte alta e circondata da capelli biondi quasi rossi; il viso che assomiglia a quello di un grazioso Re Mago (lo stesso naso arcuato, gli stessi capelli biondi) di un affresco di Luini. La sua redingote grigio per­ la, che fa risaltare l'alta statura, la figura svelta : il fiore all'occhiello; i guanti bianchi rigati di nero, il cilindro gri­ gio dalla forma svasata . . . Quale grazia nelle sue battute poetiche, ironiche ed evasive. Ne ricordiamo sopratutto una, rivolta alla principessa des Laumes: «Ah! Ecco l'in­ cantevole principessa! Vedete, è venuta apposta da Guer­ mantes per ascoltare il San Francesco d'Assisi di Liszt e, co­ me una graziosa cinciallegra, ha avuto solo il tempo di andare a beccare qualche piccolo frutto di ciliegio selvati­ co e di biancospino, per metterselo in testa; e ci sono per­ sino ancora delle piccole gocce di rugiada . . . ». 277

La grazia di Swann deriva in molta parte dal fallimento e dalla rinuncia. Quando era giovane aveva conosciuto, come Proust, la «passione per la verità» : decifrando testi, paragonando testimonianze, interpretando monumenti, soddisfaceva la sua sete di assoluto. Non sappiamo cosa lo abbia allontanato dalla verità: il massimo, per Proust, dei peccati. Certo, divenuto maturo, Swann non crede più alla realtà delle idee, sebbene non la neghi del tutto. Gli sembra che tutto sia questione di gusto personale, di clas­ se, di epoca, di mode, nessuna delle quali vale più delle altre. Dubita di tutto. Non spinge le sue idee sino in fon­ do, come faceva Proust, per una specie di pigrizia psicolo­ gica e intellettuale, che gli consente di evitare ogni vero problema; e diventa incapace di riflettere a lungo. Spreca nella mondanità e nei piaceri frivoli i suoi squisiti doni spirituali. Qualcosa conserva della giovinezza: la vitalità ebraica: l'amore per le donne: la passione per il romanze­ sco, che deve venirgli da Balzac; e una fortissima curiosità per le cose umane, caratteri, eventi, pettegolezzi, sebbene spesso offuscata dalla pigrizia e dalla debolezza. Non credo che Proust, il quale era diviso da una mesco­ lanza di amore tenerissimo e di odio verso Swann, gli im­ putasse il suo estetismo, con la violenza con cui l'aveva imputato a Montesquiou e a Ruskin. È un estetismo inno­ cuo e pieno di grazia. Cosa può esservi di più innocente del gioco, così caro a Swann, di paragonare i visi delle persone alle opere d'arte, Bloch al Maometto II di Bellini, il dottor du Boulbon a un Tintoretto, Odette alla Zéphora di Botticelli? Lo faceva anche Proust, nella vita e nell'arte: si divertiva moltissimo a rintracciare le somiglianze, che mettono in rapporto fra loro gli infiniti aspetti dell' uni­ verso; e non per questo era divenuto un «idolatra)), Non era nemmeno troppo grave per Swann essere un collezio­ nista: o un «dilettante di sensazioni immateriali)); o non possedere talento letterario. Proust accusava Swann di un peccato molto più grave: anzi del vero Peccato contro lo spirito; cioè di offenderè si278

stematicamente la verità. Con la sua falsa discrezione, Swann osa pretendere di amare soltanto il particolare con­ creto: non esprime mai la sua ammirazione per un qua­ dro, è felice di dare notizie sul museo dove si trova, sulla data in cui il quadro è stato dipinto; e tanto meglio se può parlare soltanto di ricette di cucina. Se deve formulare un giudizio, dire quella verità alla quale un tempo aveva cre­ duto, dà alle sue parole un tono ironico, come se non con­ dividesse mai del tutto quello che dice: o lo mette tra vir­ golette, per allontanarlo da sé. Ora Proust detestava questa elusione sistematica della verità, questa discrezio­ ne ironica e meccanica. «Per quale altra vita si riservava di dire finalmente in modo serio quello che pensava delle cose, di formulare dei giudizi che non potesse mettere tra virgolette, e di non abbandonarsi più con una cortesia puntigliosa a delle occupazioni di cui sosteneva contem­ poraneamente che erano ridicole? » Tutta l'esistenza di Swann si riassume in un gesto. Come suo padre, quando si trova davanti a qualcosa di oscuro, di insolubile o di doloroso, Swann si toglie gli occhiali o il monocolo, ne asciuga i vetri e si passa una mano sulle pupille stanche. È il suo gesto, che lascia cadere su di lui un'ombra di grazia, di discrezione, di rinuncia, di malinconia e di straziante fallimento. Con la sua intelligenza, l'eleganza, la cultura di storia, di pittura e di musica, Charles Swann, amico dei grandi aristocratici francesi e dei re d'Inghilterra e dei pretenden­ ti al trono di Francia, non sarebbe mai entrato nella Re­ cherche, se non si fosse innamorato di quella che qualcuno chiama une petite grue. Odette (almeno nella sua prima maniera) è una donna infima: eppure l'amore per lei nobi­ lita questo ebreo elusivo, gli fa intravedere le grandi ve­ rità e forme dello spirito. Appena questa passione sarà fi­ nita, i suoi occhi verranno offuscati di nuovo dalla nebbia dell'elusione e non capirà più nulla. Da principio, l'amore di Swann è un amore di immaginazione: nulla di più ir­ reale, illusorio, inconsistente; ma questa immaginazione 279

condurrà alla passione tragica. La prima cristallizzazione è la petite phrase della suonata di Vinteuil coi suoi tremuli di violino, che diventa «l'inno nazionale» del loro amore. La seconda è più importante. Un giorno va a trovare Odette, nella sua casa piena di palme, di crisantemi, di va­ si cinesi. Odette è un poco ammalata; e in piedi accanto a lui, lasciando scorrere lungo le guance i capelli sciolti, pie­ gando una gamba in un atteggiamento leggermente dan­ zante per potersi curvare senza fatica verso l'incisione che lui le mostra, inclinando i grandi occhi, così stanchi e im­ bronciati, colpisce Swann per la sua somiglianza con la fi­ gura di Zéphora (Seppora), la figlia di Ietro, che Botticelli aveva dipinto in un affresco della Sistina. La guarda: un frammento della pittura appare nel suo viso e nel suo cor­ po; così, a poco a poco, fa penetrare Odette nel proprio mondo di sogni, dove trova un posto sicuro. Siamo appe­ na sulle soglie dell' a m ore di Swann . Una sera Swann, che non ha nessuna voglia di vedere Zéphora, arriva così tardi a casa dei Verdurin, che Odette è già uscita. Fino a quel momento lei era stata, per Swann, soltanto un' abitudine: una di quelle abitudini che, per Proust, rendono tollerabile la vita; ma appena non la vede (sebbene sappia che potrà incontrarla l'indomani), prova un colpo al cuore. L'angoscia, un'angoscia senza limiti, si scatena. Cerca di raggiungerla da Prévost, in una sala da tè: ma, a ogni passo, la sua carrozza è fermata da altre car­ rozze, o da persone che attraversano la strada. Conta feb­ brilmente i minuti: si accorge che non è più lo stesso, che non è più solo, ma che un essere nuovo sta accanto a lui, lì in carrozza, aderente, amalgamato con lui. Da Prévost Odette non c'è, e Swann la cerca in tutti i ristoranti dei boulevards. Le luci del gas cominciano a venire spente. Sot­ to gli alberi dei viali, in un' oscurità misteriosa, errano passanti sempre più rari, appena riconoscibili. Qualche volta l'ombra di una donna si avvicina a lui, gli mormora una parola all'orecchio, e lo fa trasalire. In quel momento accade la cristallizzazione definitiva. Nasce, in Swann, il 280

male sacro: il male inviato dagli dèi, che ci segna e ci mo­ della: quella tremenda forza oggettiva, che travolge tutte le nostre immaginazioni iniziali, ed esiste in sé, al di là di noi, sopra di noi, e ci fa conoscere il «sacro» che abita in questo mondo, a costo di uccidere e di farci morire, come l'aveva fatto conoscere a Henri van Blarenberghe. Come ogni desiderio metafisica, il «male sacro» nasce dall'assenza e dall'attesa: Odette non c'è né da Prévost né in nessun ristorante, né tra i fantasmi che errano sui boule­ vards, quasi ombre uscite dal regno oscuro. E quest' assen­ za si trasforma nel violentissimo, doloroso e insensato de­ siderio di possedere - sempre, in ogni minuto e in modo totale - l'altro: desiderio che, nel mondo di Proust, non si può realizzare mai, perché l'altro è per definizione l'im­ prendibile, l'irraggiungibile. Certo, questo desiderio, nato da un'assenza che si sforza di colmare, dà pienezza alla vita. Come sarà colma e gremita l'esistenza di Swann, dal momento che il «male sacro» si è instaurato in lui! Il pos­ sesso di Odette non c'è mai: il possesso è impossibile; ma c'è la continua, ossessiva presenza di Odette, vicina e lon­ tana, vicina specialmente quando è lontana. Ma è vera vi­ ta, vera pienezza? In realtà, ogni attesa, ogni desiderio, ogni ricerca amorosa ci conduce negli Inferi, tra i corpi oscuri, tra i fantasmi dei morti, alla caccia di un'Euridice che non si trova. Swann scende laggiù: le porte si chiudo­ no alle sue spalle; e, per tutta la durata del suo amore, erra tra i fantasmi dei morti, che inviano «lettere di fuoco» che gli ardono le mani. Sorella gemella del «male sacro» è la gelosia. Anch'essa non ci appartiene: anch'essa è una tremenda forza ogget­ tiva, inviata dagli dèi e indipendente da noi. Che vitalità, che allegria, che ferocia, che voracità possiede, mentre ci porta davanti agli occhi le colpe, vere o immaginarie, dell'amata ! Come si alimenta di ogni cibo che la nostra fantasia le fornisce! Si direbbe che abbia un solo desiderio: ucciderei. Anch'essa nasce dal desiderio di possesso tota­ le, e dall'impossibilità di questo possesso. Trasforma tutti 281

gli aspetti del nostro tempo. Il futuro circola abitualmente nella mente di Swann come un fiume: trasparente e fred­ do, incolore e libero, non gli procura tristezza. Ma basta una parola di Odette per colpirlo dentro di lui, immobiliz­ zarlo, trasformarlo in un blocco di ghiaccio; e Swann non riesce più a sopportare questa massa enorme e infrangibi­ le che pesa sulle pareti interiori del suo essere fino a farle scoppiare. Quanto al passato, in che modo ricordarlo? Il passato della gelosia diventa presente: è quello stesso do­ lore, provato mesi e giorni prima, che riappare, come Proust aveva già raccontato ne La fin de la jalousie; apre la porta dell'attenzione e la chiude dietro di sé, e lui deve passare tutto il giorno con questa orribile compagnia, co­ me se fosse qui e ora. La gelosia suppone sempre un mistero, una vasta zona sconosciuta e tenebrosa: quello stesso mistero che affasci­ na i romanzieri, e senza il quale nessun romanzo verrebbe mai scritto. Così la gelosia riaccende, in Swann, la passio­ ne della verità, che aveva infiammato la sua giovinezza, e che la vita, lo snobismo e l' elusione soffocano. Come Proust aveva sperimentato, la gelosia è il più filosofico e totale dei sentimenti: se non l' avesse conosciuta, non avrebbe scritto quel monumento teoretico che è la Recher­ che. Essa non ha come materia i grandi .fatti della storia e dell'arte: non deve decifrare testi e paragonare testimo­ nianze; la sua materia sono soltanto i «piccoli fatti e gesti quotidiani» della vita di Odette - quell' in dividuale verso il quale Proust, già ai tempi del Jean Santeuil, dichiarava di provare soltanto disprezzo. Ma la gelosia dà a questi «pic­ coli fatti e gesti» una forza terribile: infonde loro un valore assoluto; attribuisce alla finestra illuminata o al colpo di campanello o alle piccole bugie lo stesso peso che avreb­ bero nascosti sotto la rilegatura rniniata d' oro di un mano­ scritto prezioso. Così la gelosia diventa la forma più in­ tensa del desiderio di conoscenza che abita l'uomo. Odette mente sempre e di continuo. Swann ha l'impres­ sione che le sue menzogne siano come il «velo sacro» eh� 282

a Sais avvolgeva la statua di Iside: «gli illeggibili e divini vestigi» di una realtà preziosa e introvabile. Ma in che modo scoprire la statua di Iside, la realtà e la verità intro­ vabili? Di solito Swann è pigro: non ha passione né intui­ zione psicologica; ma la gelosia crea o risveglia in lui un genio che non sapeva di possedere. Come tanti altri amanti delusi e tanti romanzieri, impara quello che Poe definiva «il metodo di Dupin». L'intuizione analitica stu­ dia i fatti, li seziona, li suddivide, li paragona; e cogliendo molti piccoli indizi - la tristezza di Odette, un suono di campanello, il titolo di una commedia, una parola di Ma­ dame Verdurin - Swann giunge a scoprire l'introvabile verità. Non serve a nulla. Nella gelosia, tutto quello che fa il geloso si rivolge contro di lui. Swann aveva creduto che sapere lo aiutasse a dominare i fatti con l'intelligenza e a soffrire di meno: invece non fa che rendere più irrimedia­ bili la sua sconfitta e la sua sofferenza. Ci sono dei giorni di remissione e di gioia calma, in cui Odette rientra a casa con Swann, passa teneramente la se­ ra con lui sotto la lampada accesa, e gli prepara l'arancia­ ta. Allora c'è un capovolgimento. Di solito, per la sua im­ maginazione gelosa, un'ora della vita di Odette, è un'ora «atroce e deliziosa» , che non riesce a rappresentarsi. Il mondo abitato da Odette è un mondo «spaventoso e so­ vrannaturale», dove passa il tempo a situarla. Adesso tut­ te le ombre fantastiche, che proiettava sulla parete, tutte le ombre terribili e mobili che si faceva di Odette, si concen­ trano sul suo corpo. E pensa che quell'ora passata con Odette, sotto la lampada, bevendo l'aranciata, non è fitti­ zia, e destinata a mascherare ciò che la sua immaginazio­ ne si rappresenta. Quell'ora appartiene alla vera vita di Odette: il suo mondo è un universo reale, con la tavola, la lampada, la bibita, gli oggetti che contempla con curiosità e gratitudine. Questa vita annulla i suoi sogni gelosi: ma si arricchisce di essi; così che l'esistenza reale prende rilie­ vo davanti ai suoi sguardi mentre tranquillizza il suo cuo­ re. E la lampada, l'aranciata, la poltrona, che contengono 283

tanto sogno e materializzano il desiderio - hanno ai suoi occhi «una specie di dolcezza sovrabbondante e di den­ sità misteriosa». Si tratta di un breve momento di quiete. Per il resto, la vi­ ta di Swann, durante qualche anno, si riassume in una sola parola: ossessione; un'ossessione non astratta, ma fisica, che ha il corpo di un animale. Presto l'ossessione diventa una malattia, come quella di un morfinomane o di un tu­ bercolotico, che fa «uno con lui». E Proust, che rappresenta così volentieri i momenti dove lo psichico e il fisico si confondono, dà due volte il suo parere di medico: «L'amo­ re di Swann era giunto a quel grado in cui il medico e, in certe affezioni, il chirurgo più audace si chiedono se priva­ re un malato del suo vizio o togliere il suo male, è ancora ragionevole o persino possibile» : «questa malattia . . . non si sarebbe potuta strappare da lui senza distruggere lui stes­ so quasi tutto intero: come si dice in chirurgia, il suo amore non era più operabile». Non era più operabile. Per salvarsi, la memoria risale nel tempo, ed esplora i momenti che crede più dolci del suo amore: quando Swann pensava di essere amato. Anche lì non trova che menzogne, e Odette lo colpi­ sce con «una precisione e un vigore da carnefice» . Tutto il suo passato è un «tenebroso orrore}}: sconvolto, distrutto, posseduto dalle stesse belve immonde che abitano nelle ro­ vine di Ninive, divenuto un luogo arido come la steppa. Vorrebbe imprigionare Odette, chiuderla in un carcere, il­ luminata giorno e notte da una lampada, per impedirle di fuggire: come farà più tardi Marcel, il suo doppio. Vorreb­ be vederla morta. O ucciderla egli stesso, come Maometto II, che innamoratosi di una schiava, la pugnalò, per ritro­ vare la propria libertà di spirito.

In Guerra e Pace il principe Andrej viene gravemente fe­ rito durante la battaglia di Austerlitz. Sul suo capo, c'è so­ lo il cielo: un cielo alto, non limpido, ma tuttavia immen284

samente alto e immensamente quieto, con un silenzioso scivolare di nuvole grigie, dietro le quali traspare, sfuma­ ta d'azzurro, una profondità infinita. « "Che silenzio, che pace e che solennità! Non come sono fuggito io" pensa il principe Andrej,"non come siamo fuggiti, urlando e bat­ tendoci . . . , in tutt'altro modo scivolano le nubi per questo cielo alto, infinito. Come mai, prima, non mi accorgevo di questo cielo? E come sono felice di averlo riconosciuto, fi­ nalmente! Sì, tutto è vuoto, tutto inganna, fuorché questo cielo infinito. Nulla, nulla esiste, al di fuori di esso . . . " » Che significa questo cielo così alto e così calmo che di colpo riempie la mente del principe Andrej? Che vuol dire questa profondissima Quiete che all'improvviso arresta il tumulto della storia e il passo del romanzo? Cosa ci confi­ da questa visione estatica di un misterioso oltre? Siamo di fronte alla massima rivelazione religiosa, che illumina la mente del principe Andrej: la sola a cui possa giungere at­ traverso il suo aguzzo razionalismo matematico. In que­ sto momento, nella calma e attraverso gli sprazzi delle nuvole, egli scopre un Dio «indefinito e imperscrutabile, inconcepibile e supremo», un Dio oscuro come quello del­ la teologia negativa, che nessuno di noi può esprimere con le parole e con le immagini e di cui solo la vuota quie­ te del cielo può rendere un'immagine visibile. Non sap­ piamo se chiamarlo Dio, o il Gran Tutto, o il Gran Nulla. Non potremmo essere più lontani dal Dio onnipresente, dal Dio-natura, dal Dio-pienezza, dal Dio creatore di Pier­ re Bezuchov: se questo Vuoto ha assorbito in sé tutte le co­ se, le ha nullificate, e le ha trasformate in illusione. Il campo di Austerlitz è l'osservatorio più alto che Tol­ stoj abbia costruito in Guerra e Pace: lo sguardo che il prin­ cipe Andrej getta da esso sul mondo è più largo e vasto di quello che egli acquisterà dalla sua esplorazione nel regno della morte. Non saprà più vivere a quest'altezza, come aveva sperato, disteso sul campo di battaglia, sotto gli oc­ chi vanitosi di Napoleone. Il suo destino è il medesimo di tutti i personaggi principali di Tolstoj: Natasa, Pierre, Le285

vin, Anna Karenina, i quali conoscono il culmine della vi­ ta nel corso di una rivelazione estatica, di un'illuminazio­ ne extratemporale, che interrompe il corso della loro esi­ stenza e della narrazione. In quell'istante rapidissimo e fuggitivo, gustano una goccia di eternità, che calma per sempre la loro mente e il loro cuore. Ma questi momenti non hanno alcun rapporto col tempo. Non è possibile sto­ ricizzarli, disporli nel corso continuo e graduale di un'esi­ stenza, come tappe di una carriera che deve condurli sem­ pre più avanti e lontano. Essi sono folgoranti e istantanei, come la luce con cui Dio si manifesta ai suoi iniziati. Poi ritorna la vita, col suo tempo progressivo, le sue conven­ zioni; e il grande attimo si volatilizza, non lascia tracce, non viene messo a frutto, o lascia soltanto un ricordo fu­ gace e intermittente, come il cielo di Austerlitz nella men­ te del principe Andrej. Non voglio parlare di influenze letterarie. La letteratura è costruita da molte grandi forme, temi o modelli o arche­ tipi, che ritornano, quasi identici, a distanza di pochi anni o di decine di secoli, senza che gli scrittori abbiano spesso coscienza che una delle loro situazioni fondamentali è identica a una situazione di Apuleio, di Goethe, di Do­ stoevskij, di Tolstoj. Come il principe Andrej coglie l'asso­ luto sul campo di Austerlitz e poi lo dimentica, come Pier­ re coglie l'assoluto in prigionia (un mappamondo formato da milioni di gocce d'acqua tremolanti) e poi lo dimenti­ ca, così i due personaggi chiave della Recherche, Swann e Marcel, che hanno tra loro lo stesso rapporto speculare di Andrej e Pierre, colgono un' improvvisa folgorazione, ascoltando la Sonata per piano e violino e il Septuor di Vin­ teuil, comprendono ciò che nemmeno Proust, forse, aveva compreso, e poi lo dimenticano, per sempre o per molti anni. Il paradosso vuole che Swann giunga al momento più alto della sua vita, uno di quei momenti che illuminano e fanno tremare d'estasi gli amanti di Platone, soltanto per­ ché si è innamorato di una «piccola prostituta», dall' aria 286

vagamente botticelliana e dal viso sciupato, che gli ha ino­ culato il «male sacro». Anche la Sonata con la petite phrase di Vinteuil nasce da un analogo «male sacro», e lo diffon­ de attorno a sé. Essa è «una creatura sovrannaturale», che appartiene a un altro mondo (1, 215, 233, 343). Assomiglia in tutto all'Idea platonica, perché non ha né spazio né ma­ teria (206) né tempo, ed è invisibile (208); e poi ineffabile, impossibile da descrivere, da nominare, da ricordare (206), impenetrabile all'intelligenza (233, 344). Proust vuole che cogliamo precisamente la sua allusione: insiste sul fatto che Vinteuil ha guidato il suo attelage invisibile, il suo cocchio, «attraverso l'inesplorato, verso la sola meta possibile» (345), come il carro dei due cavalli alati sale, nel Fedro, verso il luogo sovraceleste, dove si estende la Pia­ nura della Verità. Ma il mondo sovraceleste di Proust è più ampio di quello di Platone. Oltre le «idee» musicali, comprende certe nozioni fisiche essenziali ed elementari, come quelle di luce, di suono, di rilievo, di voluttà fisica: nozioni che non hanno alcun equivalente (come le idee musicali) e non possono essere tradotte (344); e le leggi se­ grete della materia, della chimica e dell'elettricità, tra le quali le leggi scoperte da Lavoisier e da Ampère (345) . Idee platoniche, nozioni fisiche essenziali, leggi scientifi­ che costruiscono, tutte insieme, lo spazio dove abitano le grandi Forme della mente. L'ardito «esploratore dell'invisibile» sale nel regno ine­ splorato dove vivono le «creature sovrannaturali » : ne capta una; porta con sé questa «prigioniera divina», e la rende visibile, perché brilli per qualche tempo al di sopra del nostro mondo. Così essa sposa la nostra condizione mortale, e prende qualcosa di umano, che ci commuove. Oppure tutto avviene dentro di noi. Vinteuil sale nella «grande notte impenetrata» della nostra anima, la quale è il vero spazio celeste dove vivono le idee, e lì scopre i mo­ tivi e le note; e le porta sul piano incommensurabile, anco­ ra quasi sconosciuto, dove suonano milioni di tocchi di te­ nerezza, di passione, di coraggio, di serenità. Poi il piano 287

e i violini interpretano la Sonata davanti a una folla che spesso la ignora. Sebbene stesa sul pentagramma, essa è ancora così lontana ! Il pianista e il violinista la evocano in una scena di negromanzia: la chiamano dal regno dei morti, dove risiedono anche i ricordi involontari, ese­ guendo tutti i riti e gli incantamenti magici che permetto­ no di trascinarla in terra. La petite phrase è finalmente qui. Ha attraversato gli spazi celesti, lasciato la notte dell'ani­ ma, abbandonato gli Inferi. Non ha parole umane: eppure il suo linguaggio è il più necessario, logico e rigoroso che un uomo possa immaginare. Ora la petite phrase è qui, e Proust deve parlare di lei. Come fare se è ineffabile, impossibile da descrivere, da nominare, da ricordare? E se l'intelligenza non la capisce? Ma Vinteuil l'ha portata tra noi, in questo mondo che per lei è fatalmente una caduta, l'ha resa visibile e trasparente, e dunque Proust può rappresentarla. Appena la musica appare sulla scena - il violino resta a una nota alta come per un'attesa, un'attesa che si prolunga senza fine, quasi per tenerle il cammino aperto - Proust organizza un ric­ chissimo concerto di analogie, per trasformare l'invisibile in una cosa terrena. La Sonata è tutta la natura: «lo scia­ bordio liquido», «l'agitazione mauve dei flutti che il chiaro di luna incanta e bemollizza»: un «odore di rose che circo­ la nell' aria umida della sera » : un «paese di montagna, dietro l'immobilità apparente e vertiginosa di una casca­ ta»: un uccello che lancia dei gridi così improvvisi che il violinista deve precipitarsi sull'archetto per raccoglierli; infine un arcobaleno, il cui splendore impallidisce, si ab­ bassa, poi si rialza, e prima di spegnersi si esalta come non aveva mai fatto. La Sonata è mare, profumo, suono, colore. Ma è anche un quadro di Pieter De Hooch, con la sua porta aperta; e tutto il passato di Swann e di Odette, e un arabesco - e tante presenze femminili -, una passante, Odette, una danzatrice, una passeggiatrice montana vista da lontano, una cantante, una dea protettrice e confidente. Come se volesse occupare tutto lo spazio mentale di 288

Swann e il nostro, la Sonata è una morale: la felicità, la va­ nità, la delusione, il dolore come dono supremo e poi, ve­ nuta da chissà dove (ma certo, dalla leggerezza), la «gra­ zia della rassegnazione quasi gaia». Quel giorno, alla soirée della marchesa de Saint-Euverte, Swann tocca il culmine e la fine della sua vita. Il culmine: perché nemmeno Marcel, al tempo della sua rivelazione musicale e memoriale, capisce con tale profondità cos'è il regno delle Idee, abitato dalle «creature sovrannaturali», la loro discesa tra noi e il nostro incessante desiderio me­ tafisico. La fine: perché la «prigioniera divina», evocata per una volta dal regno dei morti, carezzevole e tenera e dolorosa e profumata, fugge per sempre da lui, verso i luoghi dai quali è discesa. Il «male sacro», che Odette ha inoculato nel cuore di Swann, finisce. Egli ama altre don­ ne. Sposa Odette. Ha una figlia, Gilberte. Invita nella sua nuova casa degli oscuri burocrati che una volta il grande snob, il frequentatore di Buckingham Palace, non avrebbe nemmeno salutato. Ma non è questo il segno della sua fi­ ne. Quando Odette suona al piano la Sonata, Swann dice a Marcel: «Non è vero che è bella questa sonata di Vinteuil? Il momento in cui fa notte sotto gli alberi, quando gli ar­ peggi del violino fanno scendere il fresco. Confessate che è proprio graziosa: c'è tutto l'aspetto statico del chiaro di luna, che è l'aspetto essenziale. Non è straordinario che una cura di luce come quella che segue mia moglie agisca sui muscoli, se il chiaro di luna impedisce alle foglie di muoversi. È questo che è dipinto così bene nella petite phrase, il Bois de Boulogne caduto in catalessi . . . Nel gru p­ petto si intende nitidamente la voce di qualcuno che dice: "Si potrebbe quasi leggere il giornale" » . Tutto qui? Non c'è niente d'altro? L'audace «esploratore dell'invisibile» ­ lo era stato anche Swann, non solo Vinteuil - è tornato a essere un dilettante delizioso, un cigno futile ed elegante, che trasforma un'idea in paesaggio e mette «tra virgolet­ te» tutto ciò che, in qualche modo, potrebbe alludere alla verità. 289

La morte di nessun personaggio della Recherche è stra­ ziante come quella di Swann. Era stato così bello ed ele­ gante: l'ultima volta che appare sembra un vecchio ebreo, col naso da pulcinella. Era stato il miglior amico di Oriane de Guermantes, e Oriane lo rinnega per un paio di scarpe rosse. Era stato il miglior amico di Charlus; e Charlus, si­ nistro becchino, ne infanga la memoria. Aveva amato ap­ passionatamente la figlia; e Gilberte lo rinnega, si vergo­ gna di lui, dimentica o finge di dimenticarlo, ripudia e pronuncia male il suo nome. In un abbozzo, viene confu­ so con un tale che vende dei portapenne. Persino Marcel ostenta di aver conosciuto l'amore e l'arte, mentre Swann non li ha mai conosciuti. Perché questa sorte? Perché que­ sta crudeltà verso un personaggio tanto amato? Una volta Proust disse che crudeli erano «le leggi della psicologia» : non lui. Credo che mentisse, o non sapesse vedere. Egli voleva che il più grazioso ed elegante degli uomini, il ci­ gno che per un istante aveva conosciuto la «divina prigio­ niera >>, diventasse un capro espiatorio. Swann doveva morire, venire immolato, essere rinnegato e calpestato da tutti, come una specie di Cristo del faubourg Saint-Ger­ main, per salvare Marcel, il suo doppio, e permettergli di cogliere e di realizzare la rivelazione, che egli aveva sfio­ rato.

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IV

Chi era Marcel

La lettura della Recherche ci lascia, ogni istante, pieni di dubbi, di incertezze e di inquietudini: spesso non afferria­ mo il punto di vista, e il suolo oscilla sotto i nostri piedi. Ci domandiamo continuamente: «Chi dice io? Chi è la persona che ogni sera vuole il bacio della madre, gioca agli Champs- Élysées, si innamora di Gilberte, viene accol­ to dai Guermantes, si innamora e tiene prigioniera Alber­ tine, va a Venezia, si chiude in una casa di cura, e infine ri­ ceve il dono della letteratura? Chi è il Narratore senza nome, che due volte viene chiamato Marcel?». La risposta è duplice. Il Narratore, questo uomo senza nome e cogno­ me, questo essere nullo, questo ragazzo goffo e infantile, non ha niente a che fare con Proust. Nessuno potrebbe confondere la vita tragica di Proust con questa vita amor­ fa e spettrale, sempre ai confini dell'inesistenza; e credere che la voce eloquente, sarcastica, immaginosa dell' abitan­ te di boulevard Haussmann abbia qualcosa a che fare con la timida e silenziosa voce del Narratore. C'è una prova evidente. Il Narratore sembra non scrivere mai: non lo sorprendiamo mai con in mano una penna; come lo accu­ sa Charlus, è colpevole di procrastinazione. Mentre lui non faceva niente, Proust aveva composto Les plaisirs et les jours, il Jean Santeuil, Contre Sainte-Beuve, molti saggi e ar­ ticoli, e la Recherche, che il Narratore comincia a scrivere nell'anno in cui Proust era già morto. Subito dopo, dobbiamo dare la risposta opposta, senza 291

dimenticare la prima. Il Narratore è Proust. Porta il suo nome, Marcel, che gli attribuisce due volte, a voce e per iscritto, Albertine. Condivide le esperienze archetipiche della sua vita: l'asma: la nevrosi: il bacio negato e poi con­ cesso dalla madre: la telefonata da Fontainebleau-Donciè­ res: il viaggio a Venezia: il soggiorno in casa di cura; la let­ tera a Agostinelli-Albertine. Studia Ruskin; e il coltissimo Jupien ci informa (seppure senza fare nomi) che una copia di Sésame et les lys, certo nell'edizione 1 906 del Mercure de France, sta tra i libri del barone de Charlus. In un abbozzo, Proust attribuisce al Narratore addirittura il premio Gon­ court. Nel cuore di Sodome et Gomorrhe, una frase, avrebbe detto Proust, straziante «come una nevralgia» sembra scritta apposta per stabilire questa identità: «lo, lo strano essere umano che, aspettando che la morte lo liberi, vive con le persiane chiuse, non sa nulla del mondo, resta im­ mobile come un gufo, e come lui vede un po' chiaro sol­ tanto nelle tenebre». Quasi alla fine del Temps retrouvé, il Narratore ricorda che Bergotte (qui Anatole France) aveva trovato «perfet­ te» le sue pagine di collegiale; e una nota ci informa: «al­ lusione al primo libro dell'autore, Les plaisirs et les jours». Ci vengono in mente Le metamorfosi di Apuleio, dove il racconto viene condotto da un io, Lucio, che non ha nulla a che fare con l'autore. Solo che, in uno degli ultimi capi­ toli, Apuleio appone la sua firma: Lucio è uno di Madaura, cioè proprio lui, Apuleio, il «sacerdote di tutti gli dèi». Tutte le cose che erano accadute ad un altro erano acca­ dute anche ad Apuleio. Sebbene avesse abitato sempre nella sua bella casa africana e nessuno gli assomigliasse meno di Lucio, lui era stato il giovane desideroso di magia, l' asino, l'acrobata, il mistico. Dietro il testimone in prima persona, c'era sempre stato il narratore che sapeva tutto, il tessitore dei rapporti e delle allusioni. Ora, nel Temps retrouvé, alla fine del processo di unificazione della Recherche, forse (dico forse, perché la condizione del testo impedisce di trarre una conclusione sicura) ha luogo lo 292

stesso avvenimento . Proust impone al libro la propria firma. Riconosce che tutto ciò che aveva attribuito a Mar­ cel, e che aveva allontanato in mille modi da sé, come esperienze di un altro, sono state, in un modo segreto, le sue esperienze. Sua, sopratutto, è la rivelazione: sua l'in­ tuizione del Tempo. Marcel è un personaggio antichissimo, che porta sulle spalle almeno diciassette secoli di letteratura, e coincide con una larga parte della storia del romanzo. Marcel è Lu­ cio, l'eroe delle Metamorfosi: Wilhelm Meister, l'eroe dei Lehrjahre di Goethe; e molti altri personaggi, che discendo­ no da loro. Sia Lucio sia Wilhelm Meister non hanno spic­ cate qualità positive: non sembrano portati a questo o a quello, hanno un carattere passivo, indeterminato, incerto, più vittima che protagonista delle proprie azioni. Attraver­ sano la vita prigionieri della loro dorata immaginazione, della loro spuma di sogni, come don Chisciotte nei roman­ zi di cavalleria. Una delle loro funzioni essenziali è quella di diventare lo specchio, dove si riflette la colorata realtà del romanzo. Nessuno di essi cresce, si svolge, si arricchi­ sce, come, secondo una leggenda, dovrebbero fare gli eroi di romanzo. Nessuno di loro acquista dei «meriti» . Nessu­ no di loro capisce le proprie esperienze e il mondo che lo circonda. Alla fine del romanzo, Lucio giunge in fondo a un abisso: Wilhelm Meister si perde in una selva di espe­ rienze incompiute e di traviamenti. In quel momento sopra di loro scende la grazia. Iside si rivela a Lucio sulle rive del mare, emergendo dai flutti, scintillando di un abbagliante candore, mentre dall'alto dei cieli cade la rugiada lunare. Wilhelm Meister, senza alcun merito, ottiene in dono Nata­ lie, un «celeste frutto d'oro», «lungamente e saggiamente preparato» dalle amorevoli mani degli dèi. Marcel è il loro erede; e non ha nessuna importanza se Proust, che conosceva benissimo il Wilhelm Meister, non so Le metamorfosi di Apuleio, se ne rendesse conto. Tutti i let­ tori hanno avuto l'impressione di un carattere passivo, spento, pigro, opaco, senza rilievo, mal definito. Ortega y 293

Gasset parlava di acedia. Albert Thibaudet avrebbe voluto Marcel più «vivanb>, lamentando una certa «impressione di vago che ci lascia l'eroe»: mentre questa impressione è una delle grandi invenzioni strutturali di Proust. Marcel è passivo, perché deve essere un lago vuoto che riceve ogni specie di esperienze: uno specchio dove tutto il mondo possa riflettersi; un testimone onnipresente, capace di spiare dietro le porte tutto ciò che accade e di ascoltare tutte le parole che i personaggi pronunciano. Proust giun­ se a dei veri trucchi, per conservargli questo carattere. Molti personaggi, tra cui Saint-Loup, esaltano le sue qua­ lità di conversatore. Ma Marcel, nella Recherche, non parla quasi mai: per lo più le sue domande sono delle didasca­ lie, abbastanza sciocche («La principessa de Guermantes è superiore alla duchessa de Guermantes?» «Gli domandai se la principessa de Iéna era una persona intelligente»). Inoltre, quando parla, Proust cancella molta parte della sua conversazione: capita spesso che un personaggio allu­ da a una battuta di Marcel, mentre questa battuta viene omessa nel testo della Recherche. Di Marcel orale restano pochissime gemme, a parte le «lezioni di letteratura» ad Albertine, che ha appreso da Proust. Vorrei citare solo una di queste gemme, sebbene anch'essa derivi dalle lettere del suo autore: « È puro Pelléas . questo profumo di rose che sale fino alle terrazze. È così forte nella partitura che siccome soffro di hay-fever e di rose-fever, mi faceva starnu­ tire ogni volta che ascoltavo quella scena». Marcel non è più accorto di Lucio e di Wilhelm Meister. Come loro, ha la mente piena di fantasie, di immaginazio­ ne e di «nomi»; e appena confronta questo tesoro interiore con la realtà, l'esperienza, puntualmente, lo delude. Quando si realizzano, i suoi desideri perdono il loro fiore. Non impara nulla, o quasi nulla, dalla vita . Attraversa una prima fase, nella quale non capisce. Non capisce nien­ te. Non capisce che Gilberte ragazza lo desidera: non capi­ sce la bellezza della Sonata di Vinteuil; non capisce la reci­ tazione della Berma, né la chiesa di Balbec, né il mare, né . .

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il proprio amore per Albertine. In una seconda fase, che non ha sempre luogo, un altro (o lui stesso) gli rivela ciò che non aveva capito: Elstir gli spiega il miracolo della chiesa «persiana» di Balbec, come i messi della torre spie­ gavano a Wilhelm Meister la sua vita. Marcel non ha me­ riti. Non muta. E quando anche per lui giungerà la rivela­ zione, sarà il ca s o a portargliela, grazie a una pietra sconnessa, al suono di un cucchiaino, a un asciugamano troppo rigido.

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Gli alberi, le acque, le jeunes filles

Quando Marcel viene accolto per la prima volta nella nuova casa degli Swann, vicino al Bois de Boulogne, non dobbiamo diminuire la portata di questo evento, come si trattasse soltanto di un invito amichevole. Marcel varca una Soglia: penetra insensibilmente nel regno del Mito, come Odisseo passando Capo Malea entra nel mondo sot­ tratto allo spazio e al tempo, o gli Argonauti alla caccia del vello d'oro. Egli è la persona più adatta a compiere il balzo vertiginoso. Vive nella passività assoluta, nel timo­ re, nell'attesa, nell' angoscia, nell' estraniazione assoluta dal reale, come chiunque deve compiere il primo passo di un'iniziazione misteriosa. Cosa importa che la casa al di là della soglia sia soltan­ to una casa come tante altre, costruite dall'architetto Ber­ lier? Anche il padre di Marcel avrebbe potuto affittarla; e non l'aveva fatto soltanto perché non era abbastanza co­ moda e l'entrata poco luminosa. Obiezioni come queste non valgono mai sul piano del mito: così un devoto di Apollo avrebbe rifiutato tutte le obiezioni dello scettico, che metteva in dubbio che il tempio di Delfi fosse stato costruito da Efesto o dalle api. Senza fine, Proust sottoli­ nea che, dopo la soglia, sono presenti tutte le dimensioni del mito: quella regale («la sala del trono»): quella favolo­ sa e magica («la dimora incantata», «una grossa scarpa di Natale», «un antro magico)), «il laboratorio di Klingson) ) : quella sacra («il santuario)), «la cappella misteriosa)), la 296

«cattedrale») e addirittura quella sovrannaturale (la «vita sovrannaturale»). Certo, l'insistenza di Proust ci fa sorri­ dere: mentre si muove sovranamente nel mito, Proust prende in giro le fantasie di Marcel e la propria ornamen­ tazione mitologica. Questo è quasi sempre il doppio volto che il mito assume nella Recherche. Da un lato l'esperien­ za del giovane Marcel è seria e tragica come quella di Odisseo nelle isole incantate o di Faust alle Madri; e dun­ que l'accesso alla casa di Swann è un autentico evento mitico, e il linguaggio di Proust è profondo come quello di Pindaro. Ma, d'altra parte, Marcel si muove in una nu­ vola di timidezza e di confusione. Siamo soltanto nella casa di un dandy e di una cocotte. Così quelle cose gravi che accadono sono anche comiche, e il linguaggio mitolo­ gico di Proust, impiegato con tanta abbondanza, è una deliziosa spuma ironica e decorativa. L'accesso iniziatico a casa Swann viene descritto due volte, come accade anche nelle Metamorfosi di Apuleio. La prima volta è un pomeriggio. Ecco il portiere, cambiato da Erinni in «benevola Eumenide», che alza il suo berretto con mano propizia: poi la «cupa anticamera», simile a quella di Versailles, dove l'attaccapanni ricorda il candela­ bro d'oro a sei braccia, di cui Jahve sul Sinai impose la co­ struzione a Mosè; ecco il rumore delle voci, e la scala di le­ gno, e il profumo di Madame Swann, e la sala da pranzo, « cupa come l'interno di un Tempio asiatico dipinto da Rembrandt», e la torta immensa coi suoi merli e i suoi ba­ stioni, simile al palazzo di Dario, e la tazza di tè che non lascia dormire, e il «regno ancora più misterioso» dove Swann e la moglie conducono la loro vita sovrannaturale. La seconda volta è il pranzo, anzi il lunch. Prima c'è l'atte­ sa nell' avenue, aspettando mezzogiorno e ventisette, e ba­ dando a non sporcarsi gli stivaletti di vernice: poi la tra­ versata di diversi grandi salotti; e l'attesa in un salottino vuoto, dove Marcel resta solo in compagnia delle orchi­ dee, delle rose e delle violette: poi un secondo e un terzo cameriere entrano aggiungendo carbone al fuoco e acqua 297

ai vasi: infine Swann, Swann in persona, che mostra a Marcel confuso i suoi nuovi acquisti d'arte; e, alla conclu­ sione di tutto, Madame Swann col suo cappotto di lontra o il suo accappatoio chiaro in crèpe de Chine. Tutto non è che attesa, attesa, lunghissima attesa, - e, alla fine, come i processi iniziatici che hanno sbagliato il proprio oggetto, la delusione fatale. Accanto a questa incantevole fioritura mit ! ca, l'ultima parte di Du còté de chez Swann e la prima di A l'ombre des jeunes filles en fleurs offrono una delle più grandiose rap­ presentazioni della realtà, che Proust abbia mai tentato. Come il giovane Henry James, egli ci appare un delizioso romanziere mondano, persino con quel tanto di equivoco, di luccicante e salottiero che questo nome significa. Chi incarna qui il tempo è Odette: la nuova incarnazione di Odette, divenuta Madame Swann, con la fedeltà e insieme il rimpianto che Proust nutre per il passato. Se Proust compie le Jeunes filles en fleurs durante la prima guerra mondiale, Odette rappresenta gli anni Novanta del secolo scorso: solo che questo tempo non è compatto; e negli an­ ni Novanta affiorano qualche volta (in una gonna dai bei toni cupi, rosso o arancio scuro, attraversata da una banda di merletto nero, o in una cravatta dal disegno scozzese) gli anni Ottanta, il periodo dell'amore di Swann; e così av­ vertiamo il tempo scorrere, avanti e indietro, mentre in al­ tri personaggi è irrimediabilmente fisso. L'antica Odette è dimenticata. Con uno dei suoi meravi­ gliosi colpi di scena, che spostano la suspense dall' avven­ tura ai personaggi, Proust l'ha trasformata. Sebbene sia passato qualche anno, ora è molto più bella, e sembra più giovane. Non ha più quel viso segnato e mutevole, quegli occhi e quel profilo troppo sporgenti: è ingrassata, ha un'aria calma, fresca, riposata, mentre i capelli lisci danno più estensione al suo viso, animato da una polvere rosa, dove gli occhi sembrano assorbiti. Si è inventata un tipo, un «genere di bellezza», e sui suoi lineamenti applica que­ sto tipo fisso, come una giovinezza immortale. Non è in298

quieta: ma naturale e autorevole, sebbene la sua aisance le venga da una doppia imitazione: quella di Madame Ver­ durin e dei Guermantes. Ha imparato le buone maniere: quando incontra per strada un'aristocratica, le presenta Gilberte e Marcel, e non si sa mai se sia lei - la vecchia co­ cotte - o l' altra a sembrare la più elegante e amabile. In questa metamorfosi solo una cosa ci meraviglia. Odette era stupida e, come sanno Proust e il marito, resta stupi­ da: ma ora passa per «una donna superiore», per la pro­ tettrice e l' ispiratrice di Bergotte. Ci meraviglieremmo meno, se ricordassimo che un'altra donna stupidissima la calma, tranquilla e marmorea Hélène Bezuchova, mo­ glie di Pierre in Guerra e Pace- era diventata, sotto gli oc­ chi stupiti del marito e quelli ironici di Tolstoj, une femme charmante aussi spirituelle q ue belle, la femme la plus distin­ guée de Pétersbourg. Anche l'appartamento di Madame Swann ha cambiato stile: l'estremo Oriente indietreggia davanti all'invasione del diciottesimo secolo; i cuscini che Odette ammucchia e schiaccia dietro la schiena di Marcel, sono seminati di mazzi di fiori Luigi XV e non, come una volta, di draghi cinesi. Adesso accade più raramente che Odette riceva i suoi intimi in vesti da camera giapponesi: li accoglie nelle sete chiare e spumose delle vestaglie Watteau, di cui acca­ rezza sui seni la schiuma fiorita. Ma la casa è rimasta quella di una cocotte. «Una grande cocotte, come lei era sta­ ta, vive molto per i suoi amanti, cioè a casa sua, ciò che può condurla a vivere per sé stessa . . . Il punto culminante della sua giornata non è quello in cui si veste per la gente, ma quello in cui si sveste per un uomo.» Attorno a lei tut­ to ha l'aria di un lusso segreto, e quasi disinteressato. Tie­ ne sempre accanto alla poltrona un'immensa coppa di cri­ stallo, interamente riempita di violette di Parma o di margherite sfogliate nell'acqua, «ciò che sembra testimo­ niare agli occhi dell'ospite di qualche occupazione prefe­ rita e interrotta». Con la complicità di Proust, Odette orchestra nel suo 299

salotto un meraviglioso interno fin de siècle. I lussureg­ gianti giardini d' inverno, con le loro molteplici arbore­ scenze di specie diverse: il vaso di cristallo pieno di vio­ lette di Parma, dal colore sbiadito, liquido e malva : Madame Swann con la sua veste da camera di crepe de Chine, bianca come la prima neve, o in una tunica pieghet­ tata di mussolina di seta che sembra un tappeto di petali rosa o bianchi: le rose, accanto a lei, nell'incarnato della loro nudità, come lei freddolose: il suono dei passi soffo­ cati sui tappeti: gli enormi crisantemi, rosa pallidi come la seta Luigi XV delle poltrone, bianchi come la veste da ca­ mera in crepe de Chine, o rossi metallici come il samovar; infine i toni, rosa o bronzei, che il sole al tramonto esalta suntuosamente nella bruma dei tardi pomeriggi di no­ vembre, simili alla tavolozza infiammata dei crisantemi ­ tutti i colori e le sfumature del salotto d'inverno sono im­ pastati in una natura morta, accostati e fusi in toni che si richiamano, come nella immensa decorazione di un Mo­ net che fosse divenuto Tiziano. Odette non è soltanto l'incarnazione e il simbolo di quel secolo, che si spegne così dolcemente. Essa è il simbolo del tempo naturale: la sacerdotessa delle stagioni, che in lei si inseguono, si sostituiscono e di nuovo si inseguono, e di cui essa si appropria nel colore dei vestiti e nell'arte delle decorazioni. Quando l'inverno ritorna all'improvvi­ so portando il freddo nella settimana santa, Odette riceve coperta di pellicce, con le mani e le spalle freddolose che scompaiono sotto il bianco e brillante tappeto di un im­ menso manicotto e di un colletto di ermellino, che hanno l'aria dell' ultima neve d' inverno. Malgrado il freddo, la primavera avanza; ed ecco nel salotto altri biancori, più inebrianti, quelli delle «palle di neve», che raccolgono alla sommità degli alti steli nudi i loro globi divisi ma uniti, bianchi come angeli annunciatori. Quando giunge infine la vera primavera, Madame Swann compare prima di pranzo sull' avenue du Bois, tardiva, calma e lussureg­ giante come un fiore che non si apre che a mezzogiorno. 300

Indossa una toilette sempre differente, ma sopratutto mal­ va: spiega sul lungo peduncolo il padiglione di seta di un largo parasole, che ha la stessa sfumatura dei petali che si sfogliano nel suo vestito: sorride dolcemente, sorride agli uomini e alle cose, felice del bel tempo, felice del sole che non dà ancora fastidio, con l'aria di sicurezza e di calma del Creatore che ha compiuto la sua opera e non si preoc­ cupa del resto, certa che la sua toilette è la più elegante di tutte; e i fiori del suo flessibile cappello di paglia, i piccoli nastri del suo vestito, sembrano nascere dal mese di mag­ gio più naturalmente dei fiori dei giardini e dei boschi. Questa è la sua epifania. Non solo obbedisce al mattino, alla primavera, al sole come «una grande sacerdotessa», che ne conosce le liturgie e i riti: essa è la dea del Tempo, e percorre lo Zodiaco, sorridente e maestosa, mentre «sotto il lento passo dei suoi piedi» ruotano i mondi. Siamo di nuovo nel libro della Metamorfosi. Se Mada­ me Swann è divenuta un fiore, una sacerdotessa e una dea, perché gli alberi non potrebbero diventare donne­ dee? Così era accaduto qualche centinaio di pagine prima, alla fine del Du coté de chez Swann, nell'episodio del viale delle Acacie. Qui Proust si diverte a parodiare uno dei più famosi episodi dell' Eneide, i Campi del Pianto: «Non lontano di qui si estendono in tutte le direzioni i Campi del Pianto: li chiamano con questo nome. Qui sentieri appartati celano coloro che un doloroso amore consunse con struggimento crudele: intorno li copre una selva di mirto; il tormento non li abbandona neanche nella [morte. In questi luoghi [Enea] vede Fedra e Procri; e la mesta Erifile, che mostra le ferite vibra tele dal figlio crudele, ed Evadne e Pasifae... Tra di esse, fresca della ferita, la fenicia Didone errava nella vasta selva.»

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Anche il viale delle Acacie è «frequentato dalle bellez­ ze celebri», dalle Fedre, Pro cri, Pasifae e Di doni del tempo di Swann e di Marcel. Ma non ci sono i Campi del 301

Pianto. Qui non c'è amore doloroso né struggimento cru­ dele: qui nessuno si è tolto la vita: qui nessuno spettro vaga addormentato nella morte; e non ci sono nemmeno i sentieri appartati. C'è un viale vastissimo, dove arrivano le frivole cocottes della fine del secolo; e dove giunge, «trascinata dal volo di due cavalli ardenti», un'incompa­ rabile victoria, in fondo alla quale riposa con abbandono Madame Swann. Qualcosa è rimasto del mondo antico. Quegli alberi, quelle acacie, sono donne. Il loro nome femminile, «sfaccendato e dolce>>, fa battere il cuore di un desiderio mondano: il loro fogliame è «leggero e lezioso>>, «di un'eleganza facile, di un taglio civettuolo e di un tes­ suto tenue>>, dove centinaia di fiori si abbattono «come colonne alate e vibratili di parassiti preziosi». Abituate a vivere da tanti anni insieme alle donne, le acacie sono delle «driadi», come se uscissero dalle Metamorfos i di Ovidio. Anni dopo, al momento di concludere Du coté de chez Swann, il Narratore ritorna al viale delle Acacie, dove quasi vent'anni prima aveva visto i cavalli furiosi e legge­ ri, la victoria e Madame Swann con i capelli biondi cinti da una stretta banda di fiori. Ma ora, per il Narratore, tutto è degradato. L' autunno è caduto sul mondo; e non è l'au­ tunno dorato della luce, che alterna e trasforma la materia delle foglie, incendiandole, ispessendole come mattoni, facendo scoppiare un «immenso mazzo come di fiori ros­ si». È il tramonto miserabile delle cose. Non ci sono più victorie, ma automobili, non più cappellini piccoli come ghirlande e con un solo fiore d'iris, ma cappelli immensi, coperti di frutti, di fiori e di uccelli: invece dei begli abiti da regina di Madame Swann, tuniche greco-sassoni, o Di­ rettorio, o stracci liberty: gli uomini sono senza cappello; e le cocottes liete di una volta sono diventate «le ombre terri­ bili di quello che erano state, errando, cercando disperata­ mente non so che nei boschetti virgiliani» . Ciò che è più grave, il Narratore ha perduto il dono erotico-mitico, la «fede» della sua giovinezza, quando trasformava gli albe302

ri in donne e le donne in alberi, e dava allo spettacolo del mondo «consistenza, unità, esistenza» . Sappiamo di assistere a un istante passeggero. I l Narra­ tore ha perduto per il momento la sua potenza mitica, che riacquisterà alla fine della Recherche: non sa reinventare le automobili, la moda liberty, le vecchie cocottes. Non sa più dare realtà alle cose nuove; e per questo si aggrappa in modo feticista alle cose passate. Ma Proust non ha smarri­ to la fede che aveva da ragazzo, o che Marcel aveva da ra­ gazzo, e che è rimasta intatta sotto tante illusioni e delu­ sioni. Gli dèi non sono morti. Sono vivi e resteranno vivi in eterno, perché gli dèi siamo noi stessi, che diamo luce e vita e realtà a tutte le cose.

In primo luogo, Balbec è un Nome. Quando Marcel im­ magina, fantastica e pronuncia un nome, accade una rivo­ luzione inaudita: tutta la realtà oggettiva che egli non ama, formata di città, paesi, case, strade, viene abolita e trasformata in individui, che non hanno nessun equiva­ lente col reale; o, per meglio dire, in una serie di miti, che non intrecciano rapporti tra loro. Tutto ciò cui aspirava la sua imma ginazione, tutto ciò che desiderava il suo cuore viene rinchiuso nel rifugio di un nome. Ecco Parma, col suo tono «compatto, liscio, malva e dolce»: Firenze «mira­ colosamente imbalsamata e simile a una corolla»; e Bayeux e Vitré e Lamballe e Coutances e Questambert e Pontorson e Pont-Aven e Quimperlé, coi suoi ruscelli e la tela di ragno di una finestra e i raggi di sole cambiati in punte smussate d'argento brunito. Non c'è niente di più reale di questa invenzione mitografica: perché Marcel ve­ de, ode, tasta, assapora Parma, Firenze, Balbec, Quim­ perlé con tutti gli «organi dei sensi» . Balbec raccoglie, nel suo nome, una serie di associazioni che si sono formate nel tempo: il paese dei Cimmerii di Omero, il finis terrae, il regno delle eterne nebbie marine, delle ombre e delle tem303

peste, una chiesa in stile gotico-persiano costruita sulle rocce davanti al mare furioso, il mondo delle leggende bretoni con re Marco e la foresta di Brocéliande. La partenza verso un Nome è una vicenda tragica: per­ ché esso è un individuo, e l'individuo è l'irraggiungibile e l'impenetrabile. E poi Marcel viola la legge capitale della realtà, che è quella della dea Abitudine: lascia la casa, il letto, la madre, quel mondo che in tanti anni aveva adora­ to, addomesticato, reso familiare. Tutto diventa terribile: anche la semplice partenza per una stazione di villeggia­ tura, che per un altro sarebbe stata soltanto una gita di piacere; le esperienze di Marcel (di Proust) nascono da un inseguimento doloroso, da una caccia ansiosa, da una vio­ lazione, da una ferita. La prima fase è la stazione di Saint­ Lazare: questo «antro impestato» che dà l'accesso al mi­ stero; questa grande officina a vetri, che spiega sopra la città sventrata «uno di quegli immensi cieli crudi e carichi di minacce accumulate di dramma, simile a certi cieli, di una modernità quasi parigina, di Mantegna e di Veronese, e sotto il quale non poteva compiersi che qualche atto ter­ ribile e solenne come una partenza in treno o l'erezione della croce» . La seconda fase è Balbec. Là non c'è niente di quanto il nome lasciava attendere: né il paese dei Cimme­ rii, né il mare in tempesta, né la chiesa gotico-persiana is­ sata sulle rocce e lambita dalle onde. La chiesa è in una piccola cittadina di terra, in mezzo al traffico: è lei, l'unica, e come lei, la Vergine dell' atrio. Ma Marcel aveva nella mente la Vergine ideale, inaccessibile alle vicissitudini, universale. Ora la Vergine, mille volte sognata, è incarnata nella sua figura reale: ridotta alla sua apparenza di pietra, incatenata alla piazza, inseparabile dalla grand-rue, prossi­ ma al caffè e all'ufficio degli omnibus, raggiunta dal feto­ re delle cucine del pasticciere, sottomessa alla tirannia del Particolare, trasformata in una vecchietta di pietra, di cui Marcel poteva misurare l'altezza e contare le rughe. Marcel aveva desiderato il nuovo, sia pure quello del Nome; e ora il vero nuovo, l'imprevedibile realtà lo aggre304

disce con smisurata violenza. Insieme alla nonna, Marcel scende nella hall del Grand-Hotel di Balbec, davanti alla scala monumentale che imita il marmo. È l'esperienza ca­ pitale del nuovo, che viene anticipata nell'ouverture di Du c6té de chez Swann. Nello spirito del nevrotico, dell'ansioso, del claustrofobo, ciò che è esterno all'io risveglia un'ango­ scia tremenda: è un «supplizio», come quello provato da Cristo sulla croce; e Marcel è costretto a comportarsi come uno schizofrenico. Si immobilizza: non lascia nulla di vivo alla superficie del suo corpo; fissa un pensiero, nel luogo più profondo di sé stesso. Il calvario non è finito. Marcel entra nella stanza dell'albergo. Tutti gli oggetti sono scono­ sciuti e non lo conoscono: la pendola, le tende violette, le piccole biblioteche a vetri, un grande specchio in mezzo al­ ·la stanza, il soffitto altissimo, l'odore del vetiver. Gli ogget­ ti della stanza di Parigi erano immobili, pacificati, assimi­ lati, pietrificati. Gli oggetti della stanza di Balbec hanno una forza antropomorfica: sono estranei, animati, aggressi­ vi, implacati dall'Abitudine. La pendola parla incessante­ mente in una lingua sconosciuta: le cortine violette ascolta­ no senza rispondere questi discorsi offensivi, il grande specchio impedisce ogni distensione, il soffitto è incolma­ bile, l'odore del vetiver penetra nell'intimo di Marcel. La mattina dopo, appena vede il «mare nudo», Marcel è salvo sia dall'angoscia della realtà e della notte, sia dai peri­ colosi aiuti dell'abitudine. Egli abbandona senza rimpianto tutto ciò che gli aveva suggerito il nome di Balbec: il paese dei Cimmerii, le ombre perenni e il mare in tempesta. Chi lo salva è colui che aveva salvato sia lui nell'infanzia, sia Proust negli scritti gi ovanili: lo spirito dell'Analogia, che ri­ trova l'unità tra il mare e la terra, tra il mare e le montagne, tra il mare e il sole; e precorre l'insegnamento di Elstir, quando gli mostrerà il Port de Carquethuit. Con una specie di spavalda ironia, Proust viene incontro a Marcel, e lo soccor­ re. Intanto crea la sua più bella marina, dove l' orchestrazio­ ne metaforica barocca, che sembra rubata a un concettista spagnolo, la tradizione della pittura marina dal Seicento a 305

Turner agli Impressionisti, una grandiosa summa di cultura si esprimono in un sublime divertimento, come un gioco che a tratti rivela la sua deliziosa leggerezza parodica. Proust divide il suo testo in due campi metaforici, quello del mare e quello del sole: da una parte e dall'altra, analogie legano i due campi a realtà d'ogni sorta, finché con un ulti­ mo gesto Proust fonde il mare e il sole in una realtà unica. Ecco le immagini del mare. In primo luogo, le onde sono co­ me dei tuffa tori, che uno dopo l'altro si gettano dal trampo­ lino. Poi viene stabilita l'immagine centrale: quella del pa­ ragone tra mare e montagne, che si divide in tre analogie parallele. Il mare è un «circo abbagliante e montagnoso», con le «vette nevose delle sue onde in pietra di smeraldo, qua e là levigate e traslucide» (è il primo accenno all'analo­ gia col regno delle pietre preziose): oppure assomiglia a «colline», che vengono danzando verso l'osservatore, men­ tre le prime ondulazioni appaiono in una «lontananza tra­ sparente>>, vaporosa e bluastra come i ghiacciai in fondo ai quadri dei Primitivi toscani; oppure le onde sono di un «verde così tenero>> come quello delle praterie alpestri. Il campo analogico del mare si allarga ancora, perché il sole lo fa ardere come un topazio, lo fa «fermentare, diventar bion­ do e latteo>> come la birra, «schiumoso>> come il latte: mentre un dio, muovendo uno specchio nel cielo, fa trascorrere delle «ombre azzurre» sulla superficie delle acque. Quanto al sole, esso appare sopratutto nella sua incarna­ zione antropomorfica, via via più parodistica. Dapprima timidamente: «sorride senza viso» sul mare-montagna; e poi discende a salti ineguali, per le stesse montagne, come un gigante di buon umore: indica da lontano a Marcel, con un dito sorridente, le cime blu del mare; infine, stordito dalla passeggiata tra i picchi e le loro valanghe, entra nella stanza di Marcel, dove si ripara dal vento, abbandonando­ si sul letto disfatto, e sgranando le sue ricchezze sul lavabo e sulla valigia aperta. Ma ecco altre analogie: la luce del so­ le è liquida e mobile come l'acqua; mentre la spiaggia e le onde praticano una breccia nel resto del mondo per farvi 306

passare e accumulare la luce, che si deposita sul mare. I due campi di immagine si sono già toccati e fusi più di una volta, e attendono la loro incoronazione unitaria finale. Chi la provoca è un'immagine sacra: il ricordo della Gerusa­ lemme celeste nell' Apocalisse (21 , 1 8-9), con le «mura co­ struite di diaspro e la città di oro finissimo, simile a vetro limpido», mentre i basamenti delle mura sono ornati «con ogni specie di pietre preziose» (il primo con diaspro, il se­ condo con zaffiro, il terzo con calcedonio, il quarto con smeraldo). Tutto si fonde: il mare-montagna, la luce-oro, il mare e la luce del sole come pietra preziosa, il mare-monta­ gna come Gerusalemme celeste, dando così alla visione marina il tocco finale di una visione utopica. «Questa sala da pranzo [dell'albergo] di Balbec, nuda, riempita di sole verde come l'acqua di una piscina, a qualche metro dalla quale l'alta marea e il giorno pieno innalzavano, come da­ vanti alla città celeste, un bastione indistruttibile e mobile di smeraldo e d'oro.» Sebbene avesse compreso il mare (e l'unità della crea­ zione), non credo che Marcel riuscirebbe a comprendere tutta la realtà di Balbec - il mare estivo, gli ippodromi, la pittura e le sue leggi, e sopratutto le jeunes filles en fleurs se non avesse un intermediario. Egli ne ha bisogno, per capire, uscendo dall'illusione dorata e volatile dei nomi; e mai come a Balbec egli ne incontra uno così possente, Els­ tir, per mezzo del quale l' iniziazione diventa calma e per­ fetta. Chi sia Elstir, non è facile dire. È un nome e più di un nome: tutta la tradizione della pittura moderna si con­ centra in lui, da Turner a Monet; ma è anche Chardin, con la «vita profonda della natura morta», e quanti altri pitto­ ri del passato. In più è un Maestro, sebbene Proust, troppo ascetico, lo critichi per questa vocazione: è Ruskin; è Emi­ le Male con la sua cultura iconologica. Forse il paragone più esatto è il tardo Monet, che a Giverny operava due volte «una nuova creazione del mondo», nel giardino e nei quadri; e quando componeva le Ninfee era diventato una specie di filosofo presocratico, che conosceva tutto 307

della natura e degli elementi. Elstir ha un passato di cui si vergogna: non ha ricevuto dall'alto la sagesse, ma l'ha sco­ perta lui stesso, errore dopo errore, acquistando «un pun­ to di vista sulle cose». Sebbene nella sua pittura dimenti­ chi l'intelligenza, è straordinariamente intelligente e colto; e con infinita amabilità e gioia offre tutto quello che sa e che ha appreso a chi è in condizione di capirlo. A Marcel insegna due cose, o per meglio dire tutto: ciò che è la realtà e ciò che è l'arte. Come i veri maestri, Elstir insegna a Marcel ciò egli già sa, o ciò che ha appreso confusamente nella sua prima vi­ sione del mare, appena arrivato a Balbec. Se Marcel aveva visto il mare come una montagna, nel grande quadro Le port de Carquethuit Elstir gli offre un superbo pendant: il mare come terra ferma. Quando dipinge, Elstir muove sempre dalle impressioni e dalle illusioni dell'occhio, ma queste illusioni e impressioni non fanno che confermare un'idea simbolico-filosofica. Nel Port de Carquethuit, da un lato il paesaggio marino viene trasformato in un paesag­ gio terrestre. I tetti delle case sono superati dagli alberi delle navi insinuate nella terra ferma, così che i vascelli di­ ventano qualcosa di cittadino o di costruito sulla terra. Una nave in pieno mare, nascosta per metà dalle opere dell'arsenale, sembra vogare in mezzo alla città. Un grup­ po di pescatori paiono dei viaggiatori di paese, perché escono gaiamente in una barca scossa come una carriola, e un marinaio attento e gioioso la governa come se guidasse un cavallo con le redini. D'altro lato il paesaggio terrestre diventa marino. Le chiese di Criquebec, circondate da tut­ te le parti dalle acque, in un polverio di sole e di onde, sembrano uscite dal mare soffiate in alabastro o in schiu­ ma, e, «chiuse nella cintura di un arcobaleno versicolore, formare un quadro irreale e mistico» . E delle donne, che raccolgono i gamberetti tra le rocce, hanno l'aria di essere in una grotta marina, aperta e protetta in mezzo alle onde miracolosamente allontanate. L' intenzione di Elstir non potrebbe essere più chiara. 308

Quando guardiamo con occhi non offuscati dall' intelli­ genza razionale, ciò che è terrestre diventa marino, ciò che è marino diventa terrestre. Il possente spirito dell' analo­ gia, che dispone di due o più elementi, crea un elemento solo, la terra-mare, il mare-terra, abolendo ogni demarca­ zione tra essi. Proust fa un rapido omaggio al signore dell'analogia, Baudelaire, parlando di «cette multiforme et puissante unité», che richiama senza ombra di dubbio «une ténébreuse et profonde unité» delle Correspondances baudelairiane. 11 paesaggio marino-montano di Marcel culminava nella visione della Gerusalemme celeste. An­ che qui due allusioni ci trasportano nei momenti emble­ matici della storia della salvezza. L'arcobaleno che avvol­ ge le chiese di Criquebec allude al patto di alleanza tra Elohim e gli uomini: «Questo è il segno del mio patto che io pongo tra me e tra voi e tra ogni essere vivente che è con voi per le generazioni per sempre. Pongo il mio arco tra le nuvole e sarà un segno del patto tra me e la terra» (Genesi 9, 1 2-3) . Mentre le onde «miracolosamente allonta­ nate», nella falsa grotta marina, alludono al gesto di Jahve che con un forte vento orientale fa risalire indietro il Mar Rosso, così che, per i figli di Israele, le acque formano un muro a destra e a sinistra (Esodo 14, 21-2). In entrambe le marine il paesaggio si conclude in una visione simbolica: i momenti essenziali del patto dell'al­ leanza tra Dio e l'uomo, la visione della Città cubica e per­ fetta, al di fuori della storia, dove l'uomo abita in Dio e in Cristo, diventati il suo tempio. Potremmo dunque credere che, anche qui, come nella Sonata di Vinteuil, «una prigio­ niera divina» discenda dal cielo portando una rivelazione celeste? Che anche qui conosciamo quel brivido metafisi­ co che estasiò Swann? A differenza di Vinteuil, Elstir non è un pittore metafisico: rappresenta ciò che è, mare, chie­ sa, marina, battelli, pescatori. Ma egli conosce e rivela a Marcel la struttura nella quale l'elemento metafisico si di­ spone nella Recherche: il lampo dell'analogia, lo scatto dell'identità, l'apparizione dell'Vno. 309

Quante cose insegna Elstir, con le parole e sopratutto i quadri, al giovane Marcel! Tutte le illusioni dei nomi ca­ dono, davanti alla luce accecante della realtà e della pittu­ ra, per una volta fuse insieme. Elstir insegna che i soggetti dei quadri non hanno alcuna importanza: sia la cattedrale famosa, sia la barcaccia abbandonata sulla riva, sia la don­ na un po' volgare, sia la vela scintillante di un battello, sia l'antico, sia il moderno sono egualmente preziosi, perduti nell'unità vibrante e sonora della natura; ciò che conta è lo sguardo del pittore, che si identifica con lo sguardo infini­ to della luce. E il quadro, costruito dalla luce, è una cosa doppia, perché da un lato è lo «specchio del mondo», e quindi Marcel può servirsi dei quadri per capire cosa è un disgelo o un biancospino; e d'altro lato, è un mondo asso­ luto, chiuso in sé stesso, riflesso in sé stesso, fuso in sé stesso, compatto e dalle frontiere invalicabili. Infine il quadro è la misura del tempo, l'orologio degli istanti che fuggono e precipitano verso la morte. «Appunto perché l'istante pesava sopra di noi con tanta forza, questo qua­ dro così fermato nel tempo dava l'impressione più fuggi­ tiva, si sentiva che presto la donna stava per andarsene, le barche scomparire, l'ombra cambiare luogo, che la notte stava per giungere, che il piacere finisce, la vita passa e gli istanti, mostrati contemporaneamente da tante luci vicine tra loro, non si ritrovano più.» L a sapienza di Elstir non ha limiti. Spiega a Marcel, de­ luso, tutti i particolari iconologici del portico della chiesa di Balbec, questo «gigantesco poema teologico e simboli­ co»; e per una volta la speranza di Marcel, che sognava di contemplare una chiesa gotico-persiana, non è fuori luo­ go, perché i capitelli del portico riproducono stoffe con draghi cinesi-persiani portati dall'Oriente, da chissà quale navigatore. All'improvviso Elstir non è più Émile Ma.le: si trasforma in Baudelaire e rivela al giovane allievo la bel­ lezza della vita moderna. Un ippodromo è bellissimo. Ec­ co il fantino, grigiastro nella sua casacca splendente, che fa tutt'uno col cavallo: com'è delizioso mostrare la sua 310

macchia brillante, e il mantello dei cavalli sul campo da corsa: come sono graziose le donne che arrivano in car­ rozza, col binocolo agli occhi; e l'immensità luminosa del campo, piena di ombre e di riflessi, e l'umidità marina e olandese, che ascende persino nel sole. Anche le riunioni di yachting, le regate, gli incontri sportivi, dove le donne ben vestite si bagnano nella luce glauca di un ippodromo marino, sono, per un artista moderno, un motivo incante­ vole come le antiche feste veneziane per Carpaccio e Vero­ nese. Elstir non ha nessuna nostalgia per l'antico, preferi­ sce il moderno all'antico: quei toni semplici, chiari, grigi sugli yachts che col tempo velato e bluastro prendono una sfumatura cremosa; e le toilettes marine delle donne, leg­ gere, bianche e in tinte unite, in tela, in lino, in pechino, in coutil, che al sole e sull'azzurro del mare fanno un bianco splendente come una vela bianca. Marcel era giunto a Balbec con un:idea romantica del mare: tempeste turneriane, ombre cimmerie, fine del mondo; ed Elstir insegna la bellezza del mare estivo, que­ sto «vapore biancastro», che perde ogni consistenza e ogni colore. Il mare estivo è il luogo privilegiato di Elstir: il luogo della metamorfosi, dove tutte le cose, come nei suoi quadri, cambiano incessantemente forma, regione, apparenza. Mentre la chiesa di Balbec sembra una grande scogliera, le rocce marine, così potentemente e delicata­ mente tagliate, fanno pensare a una cattedrale. Se il gior­ no è torrido, le rocce sembrano ridotte in polvere, volati­ lizzate dal calore, che ha quasi bevuto il mare, trasfor­ mandolo in un'apparenza gassosa. Ma le vere creature del mare estivo e di Elstir sono le ombre, che assumono un corpo, dei gesti e dei movimenti umani, e l'alone miti­ co delle Dee. Mentre la luce dissolve la realtà, essa si con­ centra in queste creature cupe e trasparenti, che diventa­ no solide. Assetate di freschezza, abbandonano il largo infiammato, rifugiandosi ai piedi delle rocce, al sicuro dal sole: agili e silenziose, sono pronte al primo movimento del sole a scivolare sotto la pietra, a nascondersi in un 311

buco, mentre, appena la minaccia è passata, ritornano ac­ canto alla roccia o all'alga, di cui vegliano il sopore, come guardiane immobili e leggere. Altre nuotano lentamente sulle acque come delfini attaccandosi ai fianchi delle bar­ che, di cui allargano lo scafo, sull'acqua pallida, con il loro corpo verniciato e azzurro. Un giorno arrivano sulla diga di Balbec le jeunes filles, simili a un gruppo di gabbiani che passeggiano svolaz­ zando sulla spiaggia, sconosciuti e incompresi dai ba­ gnanti. Sono cinque o sei. Una porta con sé una bicicletta: due altre gli accessori da golf. Marcel vede un naso dritto e un viso bruno, un paio d' occhi duri e ridenti, delle guance dalla tinta bronzea che evoca il geranio, un viso bianco, e non sa come distinguerle. In realtà non sono ra­ gazze singole e separate, ma un gruppo: una banda a par­ te: qualcosa di fuso, di unitario, un aggregato di forma ir­ regolare, compatto e pigolante, che prima s'arresta come un conciliabolo di uccelli che si riunisce al momento di prendere il volo; e poi s'avanza lentamente sulla diga, le­ gato da un legame invisibile. Proust rappresenta questo impasto, dove tutte le gamme di colore sono vicine, tutte le frasi musicali sono confuse, incerte e irriconoscibili, e ogni apparenza è fluida. Sembrano una «massa amorfa e deliziosa», un solo grappolo scintillante e tremante: uno di quegli organismi primitivi, di quei polipai, dove l'indi­ viduo non esiste ancora per sé stesso. Se Marcel guarda da vicino, vede ogni viso confuso nel rossore dell'aurora, dal quale i veri lineamenti non sono ancora sgorgati. Il volto non ha nulla di definitivo: il corpo non si è fissato e solidi­ ficato in una forma. Come una pasta preziosa, la carne la­ vora ancora: le ragazze non sono che un fiotto di materia duttile, foggiata ogni momento dall'impressione passeg­ gera che le domina. Il loro cinguettio è molto più vario delle parole degli adulti. Come certi uccelli hanno nella voce, prima del momento della muta, delle note che poi perdono, così nella loro ci sono note che non esistono più nella voce delle donne mature; e per mezzo di questo 312

strumento così vario, suonano con le labbra, trascinate dal medesimo ardore dei piccoli angeli musicanti di Giovanni Bellini. Mentre le persone adulte muovono contemporanea­ mente le membra, ognuna delle membra delle jeunes filles è indipendente dalle altre. Esuberanti di giovinezza, desi­ derose di spendere ogni istante il suo dono gioioso e dolo­ roso, non possono vedere un ostacolo senza divertirsi a saltarlo, prendendo la rincorsa o a piedi giunti, interrom­ pendo il loro lento cammino di graziose deviazioni dove il capriccio si mescola al virtuosismo. Con crudele vitalità giovanile, una di esse salta a pie' pari sopra la testa di un vecchio banchiere, che la moglie aveva lasciato, protetto dal vento, sopra una seggiola pieghevole. E quando entra­ no nel Grand-Hòtel, volta a volta saltatrici, danzatrici e cantatrici, vanno dal vestibolo al salone saltando sopra tutte le seggiole, scivolando sul pavimento e conservando l'equilibrio, cantando a piena voce. A giorni, la felicità ba­ gna le guance di una di loro con una luce così mobile che la pelle, divenuta fluida e vaga, lascia passare come degli sguardi che la fanno sembrare di un altro colore, ma della stessa materia degli occhi; e nei visi ondeggiano due mac­ chie più azzurre, gli occhi, dove la «carne diventa spec­ chio e ci dà l'illusione di !asciarci avvicinare all'anima, più che nelle altre parti del corpo» . La felicità non è dunque soltanto la statua di Memnone, che «un solo raggio di sole fa cantare»: ma questa luce fisica, questa assoluta traspa­ renza del volto, dell'occhio e dell'anima. Siamo giunti nel cuore umano del regno della meta­ morfosi. Abbiamo conosciuto gli alberi che mutano, il ma­ re che cambia; e ora queste jeunes filles si trasformano e si ricreano come gli alberi e le onde del mare. Ognuna ha tanti visi come un dio orientale. Se Marcel ricorda uno sguardo energico e un'aria ardita, la prossima volta incon­ tra, in una di loro, un profilo quasi languido, una dolcez­ za sognante; e la volta successiva viene respinto da occhi penetranti, da un naso puntuto e da labbra chiuse. Tutto, 313

in loro e attorno a loro, è mobilità, fuggevolezza, inganno. Ora sembrano rose che si distaccano sul profilo del mare: ora le stesse «ondulazioni montuose e azzurre del mare»: ora creature mitiche, Nereidi, e il loro riso è avvolto dal dolce frangersi delle acque: ora figure delle Panatenee, ora baccanti scatenate. Marcel non ha mai conosciuto pri­ ma d'ora la ricchezza, la mobilità, la vitalità, la felicità, la crudeltà del reale; e la gioia che ne deriva non è quella atemporale che conoscerà molti anni dopo, dallo scatto di un'analogia memoriale, ma la gioia di ciò che cambia, muta e ci sorprende nel tempo. Ne rimane profondamen­ te attratto: ama le ragazze tutte insieme; e se ne lascia im­ pregnare, come un convalescente si lascia impregnare dall'odore di fiori e di frutti che emana da un orto. La sua vita è imbevuta dal loro profumo: simile a un grappolo d'uva che si fa nutrire di zucchero dal sole. Il regno della madeleine e quello della metamorfosi sono due mondi opposti, come l'eterno e il mutabile. Hanno una cosa in comune: entrambi emanano luce: il primo ab­ baglia con la rivelazione atemporale; il secondo respira la luce del volto, della pelle trasparente, degli occhi che sem­ brano far giungere lo sguardo fino all'anima. Ma la luce della metamorfosi è ingannevole. In realtà essa nasconde e si nasconde come le nuvole, che si frappongono tra gli occhi e le ragazze, e cambiano il colore di ogni cosa con la concentrazione, la mobilità, la disseminazione, la fuga; nuvole che sono le stesse jeunes filles, tutte simili alla Leu­ cotea dell' Od issea (V 333-4), la «dea bianca», la «dea della spuma del mare». Così il regno della metamorfosi è inco­ noscibile e inintelligibile: fa parte «dell'abisso inaccessibi­ le che dona la vertigine dei baci senza speranza»; o lo co­ nosciamo solo contemplandolo, sottoposto alle leggi dell'analogia, nei grandi quadri di Elstir. Con i primi freddi, Marcel lascia Balbec, il sontuoso Grand-Hotel, la camera ormai placata dall' abitudine. Quando, ritornato a Parigi, pensa a Balbec, ricorda le mat­ tinate nelle quali, secondo il consiglio del medico, restava 314

a lungo disteso sul letto. L'episodio è una risposta all'ini­ zio di Du coté de chez Swann: quei sogni e ricordi notturni si capovolgono in questa radiosa giornata di sole, secondo quel passaggio dall'ombra alla luce che domina la Recher­ che sino alla rivelazione finale. A causa della luce troppo forte, Marcel teneva chiuse le tende viola: Françoise ag­ giungeva delle coperte, delle stoffe e una tovaglia rossa: ma l'oscurità non era completa: i raggi di sole lasciavano diffondere sul tappeto «come uno scarlatto sfogliarsi di anemoni»; mentre sul muro di fronte alla finestra, un «ci­ lindro d'oro» si spostava lentamente, simile alla colonna di fuoco che, di notte, precedeva gli Ebrei verso Canaan (Esodo 1 3, 21-2). Verso quale Canaan la luce sul muro gui­ dava Marcel? Verso la rivelazione e la luce finale? In ogni caso, essa è segno della sovrabbondanza di gioia, che rap­ presentò per lui l'esperienza di Balbec. Marcel non vedeva le jeunes filles: ma mentre arrivava­ no al suo orecchio le voci dei giornalai, quelle dei bagnan­ ti e dei bambini, indovinava la loro presenza: ne sentiva il riso avvolto, come quello delle Nereidi, nel dolce franger­ si del mare, che saliva alle sue orecchie. Alle dieci comin­ ciava il concerto. Tra gli intervalli degli strumenti, se il mare era pieno, «riprendeva, legato e continuo, lo scivolio dell'acqua di un'onda che sembrava avvolgere i passaggi del violino nelle sue volute di cristallo» . A mezzogiorno arrivava Françoise. Apriva la finestra; e ogni mattina, tan­ to il bel tempo era stato fisso durante l'estate, Marcel tro­ vava il medesimo lembo di sole piegato all'angolo del muro esterno. Aveva un colore immutabile e cupo «come uno smalto inerte e artificioso». Mentre Françoise stacca­ va le stoffe e tirava le tende, il «giorno d'estate che essa scopriva, sembrava così morto, così immemoriale come una mummia sontuosa e millenaria, che la nostra vecchia domestica stesse liberando con precauzione da tutte le sue fasce, prima di farla apparire, imbalsamata nella sua veste d'oro». Strana conclusione. La luce radiosa del sole estivo, ap315

pena paragonato ai petali degli anemoni e alla colonna luminosa che riporta gli Ebrei a Canaan, diventa «immu­ tabile», «cupa come uno sm alto», «morta come una mummia». Cosa significa questa immutabilità del bel tempo? C'è in essa qualcosa di funerario, in quanto viene sottratta alla mobilità delle stagioni?

O

c'è qualcosa di fu­

nerario nel sole stesso, quando è visto direttamente, non negli infiniti riflessi e rifrazioni che ne formano, almeno per noi, la vera sostanza?

31 6

VI

I Guermantes e il mito

Anche Guermantes è un Nome. E fra tutti i nomi che si in­ seguono nella fantasia eccitata di Marcel, lasciando cadere il loro scintillio sonoro e colorato sulle pagine della Re­ cherche, quello dei Guermantes è il nome più carico di as­ sonanze, di ricordi e di suggestioni. È un nome infantile, che la nutrice ripeteva cantando la vecchia canzone: Gioire à la marquise de Guermantes: è un nome che richiama gli arazzi della chiesa, dove la contessa de Guermantes appa­ re nell'Incoronazione di Esther, la vetrata con la figura can­ giante, ora verde ora blu, di Gilbert le Mauvais, e l'imma­ gine di Geneviève de Brabante nei giochi della lanterna magica; e un nome che bagna come in un tramonto nella luce arancione della sillaba antes. E poi c'è il torrione de­ molito della passeggiata del «còté de Guermantes», e il sogno amoroso della duchessa che insegna a Marcel il no­ me dei fiori; e il sogno storico dell'epoca in cui la casa dei Guermantes sorgeva sola nel Medioevo francese, quando nel cielo vuoto non spiccavano ancora Notre-Dame de Pa­ ris, Notre-Dame de Chartres, la cattedrale di Laon e quel­ la di Bayeux. Tutte queste immagini riempiono la fantasia di Marcel adolescente, e danno un alone di poesia al suo snobismo, mentre, tremante come un capriolo, insegue per le strade di Parigi Oriane de Guermantes. In secondo luogo, i Guermantes sono un mito: tra i mille della Recherche, quello che Proust ha elaborato con più sapienza mitologica, ricchezza visiva e deliziose va317

riazioni ironiche. Se gli Olimpici e gli Atridi sono una razza a parte, un genus, anche i Guermantes non hanno alcun rapporto con il resto degli uomini: il loro passaggio tra noi segna l' improvvisa irruzione del mitico nella realtà quotidiana. Come ogni stirpe celeste, essi hanno una genealogia, che Proust, nuovo Esiodo, raccoglie de­ votamente e ironicamente. Anzi, unici tra le razze divine, ne hanno due. La prima è la stessa che, quasi trent'anni prima, Proust aveva attribuito a Laure de Chevigné: nel suo naso curvo, nelle labbra sottili, negli occhi acuti, nella pelle troppo fine, si rivelava una stirpe discesa «da una dea e da un uccello»; e anche i Guermantes restano isolati nella loro «gloria divinamente ornitologica» perché sono discesi «dall'unione di una dea e di un uccello». È la ge­ nealogia più singolare, che non corrisponde a nessuna tradizione greca. La seconda è classica: come Elena, Cli­ tennestra e i Dioscuri, figli di Zeus-cigno e di Leda (o di Nemesi), i Guermantes hanno per origine «la fecondazio­ ne mitologica di una ninfa da parte di un Uccello divino». Ma, a differenza dei genealogisti ellenizzanti del Rinasci­ mento, Proust non si sente obbligato a nessuna coerenza: i figli di Zeus e di Leda diventano dèi: Basin Guermantes è Zeus o Eracle, il barone de Charlus Apollo; e, come al solito in Proust, la loro genealogia greca può essere tra­ scritta in una cristiana, se l'albero dei Guermantes è come l'albero di Jesse, antenato di Cristo, rappresentato su tutte le vetrate delle chiese medievali. Siamo appena agli inizi del mito: attorno al nucleo ge­ nealogico, Proust raccoglie una straordinaria ricchezza di sensazioni fisiche e visive, che formano un grande corpo immaginativo. La descrizione è minuziosissima: come se Proust volesse emulare Pisanello o le incisioni scientifiche di uno zoologo; ma senza che nemmeno uno dei partico­ lari contraddica o dimentichi la metafora centrale. I Guer­ mantes hanno un equivalente nella s truttura fisica dell'universo: sono «un filone prezioso d'opale azzurrino e luminoso», compreso in una materia grossolana; oppu318

re sono dei filoni biondi che venano il diaspro e l'onice, o ancora «la soffice ondulazione di quella capigliatura di luce i cui crini spettinati corrono, come raggi flessibili, nei fianchi dell' agata muschiata» . Conosciamo tutti i tratti del loro corpo: i capelli biondi, anzi dorati, quasi avessero assorbito i raggi del sole, hanno qualcosa del pelame di un felino: gli occhi sono verde-celeste come il mare, e a fior di testa: la carnagione è rosa, e va sino al violetto: il naso è arcuato: le labbra troppo sottili: la voce rauca; un'estrema mobilità e flessibilità vede il loro corpo in un perenne equilibrio instabile di movimenti asimmetrici e compensati,- una gamba trascinata, una deviazione del torso, una spalla che sale, un braccio teso in tutta la sua lunghezza, un saluto a quarantacinque gradi che finisce con un balzo indietro della stessa altezza. Se i Guerman­ tes discendono dagli dèi o sono dèi, debbono fare luce, come tutto ciò che è mitico. Quale splendore abbagliante emanano gli occhi, la pelle, i capelli innaturalmente lumi­ nosi, gli ondulati filoni di chiarezza prigionieri nel dia­ spro o nell'agata! Il gioco mitologico trionfa nello spettacolo all'Opéra, dove il mito viene trasportato sino alla propria celebrazio­ ne barocca e insieme parodizzato come un'efflorescenza vana e lussureggiante. Proust si traveste da Elstir. Se nel Port de Carquethuit acqua e terra erano identificati, qui il teatro viene trasformato in uno spettacolo divino e mari­ no, con una coerenza che non dimentica il minimo detta­ glio. I palchi sono grotte marine. Le signore che appaiono alla luce, distaccandosi l'una dopo l'altra dalle profondità della notte, ninfe seminude, che nascondono il viso dietro «il frangersi ridente, schiumoso e leggero dei loro ventagli di penne»: le loro capigliature di porpora sembrano cur­ vate dall'onda; accanto a loro stanno gli uomini, «tritoni barbuti appesi alle anfrattuosità dell' abisso» . Nel palco della principessa de Guermantes, lo spettacolo marino trova il suo culmine. La principessa è seduta su un ca­ napè, rosso come una roccia di corallo: un grande fiore 319

bianco, che le discende lungo una guancia, sembra una fioritura marina: una retina di conchiglie bianche e di per­ le, pescate negli oceani australi, si stende sulla sua capi­ gliatura; mentre fin nel cuore delle acque, la duchessa de Guermantes, con un'aigrette di uccello sul capo e un ven­ taglio di penne di cigno, difende i diritti del regno degli uccelli. Alla fine, tutto si fonde: il regno del mare e quello degli uccelli fanno uno; il palco è l'assemblea degli dèi, che contemplano gli uomini attraverso un'improvvisa la­ cerazione delle nubi, tra due pilastri del cielo. Marcel è in basso, tra le madrepore umane, tra i protozoi senza esi­ stenza individuale. Quando, d'un tratto, la duchessa lo scorge. Alza la mano guantata di bianco, l'agita in segno di amicizia, fa piovere sopra di lui «l'acquazzone scintil­ lante e celeste del suo sorriso» e gli sguardi di Marcel in­ contrano «l'incandescenza», «i fuochi» degli occhi della principessa. Il mondo dei Guermantes ha trovato la sua più radiosa apoteosi di luce. Poi il regno celeste dei Guermantes si avvicina alla ter­ ra. Le donne-uccello scendono tra gli uomini, insieme ai loro biondi e celesti compagni. All'inizio del Coté de Guer­ mantes, la famiglia del Narratore viene ad abitare proprio vicino a loro, nell'Hotel de Guermantes, a rue de Grenelle. La casa è una di quelle vecchie dimore francesi, dove nel­ la corte d'onore - ricordo di un tempo più antico, quando i diversi mestieri erano aggruppati intorno al signore- si aprono dei retrobottega, delle officine, delle bottegucce di calzolaio e di sarto. L' inseguimento del Nome, che si è protratto per anni e centinaia di pagine, è dunque finito. Il passato è racchiuso nel presente: i gesti, la politesse e la semplicità di Luigi XIV e del Grand Siècle sono qui, nel mondo d' oggi, «come un' emanazione più densa, imme­ moriale e stabile>>; e il mito, intravisto per la prima volta nella chiesa di Combray, passeggia per le strade di Parigi, nelle vesti di una donna dal naso arcuato e dagli occhi ce­ lesti - miracolo non meno grande del corpo di Gesù Cri­ sto nell'ostia. Infine deve essere compiuto l'ultimo passo. 320

Marcel sogna di entrare proprio nel cuore dell'Hòtel de Guermantes, dove abita il mito. Ma il passo è lungo. Mar­ cel viene respinto e allontanato da Oriane de Guermantes, fino a quando egli pensa di entrare nel luogo della féerie. Quando invece pensa che il salotto dei Guermantes è un luogo come gli altri, e che Oriane non è una dea ma una donna, l'incantesimo è spezzato, e la porta si apre con na­ turalezza. Non si tratta soltanto di un dono. Qualcuno ha tolto il tabù. La madre ha operato come una maga o un'ipnotizzatrice, liberando Marcel dal suo sogno amoro­ so, e consentendogli l'accesso al luogo privilegiato. Sappiamo quello che accade a Marcel appena varca una soglia: del mistero a lungo sognato, che sembrava confon­ dere in sé la luce e l'ombra, attraendolo con tanta forza, non resta più niente. Oriane, la dea figlia del dio uccello, diventa una «borghese colta», che segue la moda come le altre donne, ammira per la strada un'attrice ben vestita, e, nella più completa dimenticanza della propria grandezza nativa, guarda se la veletta è ben tirata, schiaccia le mani­ che del vestito, attenta a indossare perfettamente il man­ tello. E degli amici dei Guermantes, con quelle foreste e quei campanili gotici riflessi nel nome, restano soltanto intelligenze simili o inferiori a quelle delle persone che Marcel conosce. Dunque tutta la meravigliosa efflorescen­ za del Nome e del Mito, con gli arazzi, le vetrate, il colore arancione del suono, il passato medievale, la fioritura di biondo e di azzurro, si è dissolta nel nulla? Siamo a uno dei punti critici della Recherche. Come sempre, appena uscito dalle sue illusioni, Marcel non capisce, non vede: ciò che sembra più strano, in questo caso non capisce nem­ meno il Narratore. Chi capisce è soltanto Proust, nascosto dietro il Narratore: o, che è lo stesso, il lettore. In realtà l'esperienza di Marcel non è stata interamente negativa e delusiva, come non lo era stata affatto quella di Balbec o della Berma. Qualcosa Marcel ha colto. I gesti e i modi dei Guermantes rievocano inconsciamente i gesti della corte di Luigi XIV, imprigionati nel presente, come lo erano 321

quelli di Françoise, risuscitando così il passato: biondi e dorati, i corpi dei Guermantes emanano luce: Charlus è una possente apparizione demoniaca: i piaceri della su­ perficie sono spesso deliziosi; e la conversazione di Oria­ ne è un piccolo miracolo di futilità e d'artificio, che incan­ ta almeno il Narratore che deve riprodurne la musica. Ma Marcel deve negare il valore di tutto quello che ha speri­ mentato, perché la rivelazione finale scenda come un mi­ racolo in un mondo desolato e senza colori. Se poi dimentichiamo i corpi, i visi e i gesti degli aristo­ cratici, così spesso stupidi e crudeli, l'aristocrazia resta vi­ va per la sua fioritura puramente araldica: la genealogia. Quanti fatti storici e stirpi dimenticate ricorda la genealo­ gia! Essa rende vivi i nomi: Marcel crede che il castello di Féterne sia solo un'indicazione di luogo; quando appren­ de dal duca de Guermantes che è un nome di famiglia, ha l'impressione che la genealogia renda la vita alle vecchie pietre. Ci sono poi i nomi abbandonati, caduti nell'oblio, perché le famiglie che li portavano sono estinte, mentre in qualche castello o villaggio lontano sopravvivono soltan­ to come indicazioni di cosa, sotto i quali non pensiamo più a scoprire un nome d'uomo: niente è più romantico, tenebroso e sinistro di questa poesia dei nomi dimenticati. La genealogia ha un potere straordinario, perché cancella gli odierni rappresentanti fisici del Nome- cosa importa chi sia nella realtà il principe di Agrigento e persino il du­ ca de Guermantes? - e forma un puro disegno astratto, con tutte le alleanze, le affinità, le parentele, senza nessun residuo di esperienza materiale e di esperienza mondana, coi suoi polloni «traslucidi, alternanti e multicolori>), simi­ le all' albero di Jesse, disegnato sulle vetrate, e all' inizio dei Vangeli di Matteo e di Luca. Così la genealogia rico­ struisce il regno dei Nomi, come dice Genette, proprio in mezzo al mondo della realtà. Ma non basta. Se il duca de Guermantes, per spiegare come fosse parente di Madame d' Arpajon, deve risalire fino a Colbert, gli avvenimenti storici del passato appaio322

no mascherati e ristretti nel nome di una proprietà o di una donna. Così la genealogia rivela di essere una specie di costruzione fantastica, che contiene in sé prigioniera e murata la storia, con la stessa potenza massiccia e cieca con cui una chiesa romanica imprigiona lo spazio e i relit­ ti delle architetture precedenti. Il paragone è chiaro. Pro­ prio come la genealogia aristocratica, la Recherche (erede della Comédie humaine) fonde storia e romanzo, e della prima fa una prigioniera del secondo, in un'architettura non meno massiccia e cieca di quella della chiesa romani­ ca. E allo stesso modo, infiniti fili e legami che, dalla pri­ ma all'ultima parola, tengono stretti fra loro i personaggi, gli eventi, le immagini e i simboli della Recherche, sono si­ mili ai legami che tengono stretti fra loro, attraverso deci­ ne di secoli, le figure genealogiche, i palloni dell' immen­ so alb ero di Jesse d i una grande famiglia. Anche la Recherche è un albero di Jesse. Così il mondo dei Guer­ mantes, che sembrava tanto remoto dalla vocazione arti­ stica di Marcel, rivela di essere, chiuso nelle profondità del libro, un simbolo di tutta la Recherche e delle sue rami­ ficazioni.

La prima volta che Oriane appare nella Recherche non si chiama ancora Guermantes. Porta il nome di principessa des Laumes. E non ha ancora il viso inconfondibile dei Guermantes. Ha soltanto una pettinatura: delle palline di corallo o di smalto rosa, «brinate di diamanti)), che Swann, con la sua galanteria, finge di confondere con dei piccoli frutti di ciliegio selvatico e di biancospino e delle gocce di rugiada, che la principessa-cinciallegra ha bec­ chettato sugli alberi, per mettersele in capo. Non è mai stata così deliziosa: il suo spirito giovanile, osserva Swann, ha ancora una tenerezza, un fondu (supremo com­ plimento nel mondo proustiano), che scomparirà nella duchessa de Guermantes. Certo la sua intelligenza di323

scende già dal coté Mérimée-Meilhac-Halévy, che ha tro­ vato la sua espressione più sfacciata nel teatro di Offen­ bach: è elegante, discreta ed elusiva, come quella di Swann. Ma come brillano e scintillano di gioia gli occhi radiosi della giovane e vanitosa cinciallegra, appena qualcuno le fa un complimento! La sua conversazione è un prodigio: lieta, capricciosa, insolente, piena di un fri­ volo narcisismo. Quando Marcel la incontra, molti anni dopo, Oriane è divenuta la duchessa de Guermantes, e possiede un viso, che può essere soltanto quello della sua razza. Marcel la vede la prima volta come «una signora bionda con un naso grande, degli occhi azzurri e penetranti, una cravat­ ta gonfia, in seta color malva, liscia, nuova e brillante, e un piccolo foruncolo all'angolo del naso». Il fascino della principessa-cinciallegra è un poco scomparso, sebbene ci incantino i suoi sguardi che passeggiano qua e là, salgo­ no lungo i pilastri, si fermano persino su Marcel, come un raggio di sole che erra nella navata, mentre la loro proprietaria è seduta nella chiesa di Combray. Quando incontriamo la duchessa a Parigi, i suoi lineamenti si pre­ cisano ancora: il naso è un becco d'uccello, come quello di una divinità egiziana: negli occhi (due «non ti scordar di me» dice Charlus) è imprigionato il radioso cielo blu di un pomeriggio di Francia; la voce è aspra, roca, pesan­ te, strascicata, con una ruvidezza agreste. Non solo il suo profilo, ma anche, come dice Swann, la sua mente è di­ ventata più «dura» e «angolosa». Sopra il secco e ironico spirito Meilhac-Halévy, si sono depositate le inflessibili linee rette e l'assenza d'ombra del Seicento francese. La sua eleganza è dura: la sua ironia fredda: il suo gusto della discrezione e della limitatezza spesso ottuso; le bat­ tute talvolta volgari. Come diceva Balzac, ha il «cuore nella testa» . La sapevamo gelosa: ma ora la sorprendia­ mo a invidiare la felicità di un domestico; e quanto possa essere crudele, frigidamente crudele, con i suoi abiti e le 324

scarpe color rosso sangue, lo esperimenta Swann, l'ama­ tissimo fra i suoi amici. Il genio di Oriane è la conversazione, nella quale scin­ tilla lo spirito dei Guermantes, sebbene lei abbia perfetta­ mente ragione di dire che quello spirito è soltanto suo (e di qualche amico) . Marcel non lo ama: sognava che la conversazione di Oriane riflettesse il color amaranto del nome, il mistero di un arazzo medievale e di una vetrata gotica e il colore d'oro della freschezza silvestre. Quanto a Proust, sebbene sia nascosto nella Recherche come una seppia, tutto lascia credere che si diverta a imitare quella musica fredda, ora elegante ora sfacciata. Oriane manca di vera cultura: tutto quello che sa le viene da Swann e da Charlus: il suo talento è quello di un critico; e, nella sua enorme volgarità, Madame Verdurin ha molta più audacia e intuizione di lei. Tutto ciò non ha alcuna im­ portanza, perché Oriane non pretende di essere intelli­ gente: adopera ciò che ha ascoltato - idee, libri, immagi­ ni, parole - come materiale della sua musica verbale, davanti alla quale la Parigi mondana pende affascinata e incantata. Non è facile dire in cosa consista il timbro di Oriane. Non possiamo mai trascurare che è francese: ignoriamo se abbia letto La Rochefoucauld, La Bruyère e Chamfort (ha fatto degli ottimi studi), ma certo Oriane è l'ultima erede della grande tradizione moralistica del Seicento e del Settecento, rivissuta per secoli nei salotti. Ama i suoi generi letterari: il ritratto, l'epigramma, la pointe. In parte, Marcel e Swann non hanno torto: in lei resta sempre qual­ cosa di duro, di angoloso, di rettilineo. Quando va in visi­ ta dai cugini, «accende}} una volta per tutte la luce dei suoi occhi e si assicura del loro scintillamento, come se fosse un automa che accende la luce elettrica. Ma il carat­ tere del suo spirito sta proprio in questo. Muove da qual­ cosa di meccanico e di automatico, e poi lo sposta, lo ca­ povolge, lo abbandona, ora con una mossa ancora più au­ tomatica, ora con una naturalezza piena di grazia. Vuole 325

stupire: cerca l'immagine imprevista e assurda: custode delle forme, rompe continuamente le forme; il suo trionfo è quando sceglie un'immagine in apparenza arbitraria, che poi si rivela miracolosamente esatta. Tra le molte false verità degli psicologi e dei romanzie­ ri, c'è quella che la parola (e dunque la conversazione) ri­ veli la nostra anima, ammesso che ci sia un modo per di­ scendere fino ad essa, questo lago di segreti. Proust non pensava così. La conversazione di Oriane de Guermantes rivela solo in piccola parte il suo mistero. Se vogliamo comprenderla meglio, dobbiamo guardarle gli occhi. «Al­ lora, guardando, ascoltando Madame de Guermantes, ve­ devo, prigioniero nel perpetuo e quieto mezzogiorno dei suoi occhi, un cielo d'Ile-de-France o di Champagne, ten­ dersi, bluastro, obliquo . . » Oriane è una figlia di Com­ bray: una creatura di Nerval; una fragile e frigida Diana cacciatrice, aristocratica e agreste, del XVI secolo, che si perde tra i boschi e i fiumi. Il suo vocabolario è antico e puro: quello delle vecchie canzoni, della nonna e della madre; un mondo insieme amato da Proust ed estraneo a Proust, che non aveva i suoi fratelli tra le creature dell' I le­ de-France, ma a Parigi, in Germania, a Pietroburgo, dove Baudelaire, Schopenhauer e Dostoevskij si esprimevano in una lingua talmente più complicata. Come le creature di Nerval, Oriane è melanconica e sognante; e a volte, quando una festa finisce e gli invitati vanno via, è assalita da un'ansia nevrotica, che vorrebbe prolungare le gioie più effimere. La fine di Oriane è triste. La cinciallegra, che ha bec­ chettato i frutti di biancospino e i diamanti per farsi un cappello, è scomparsa: la dama del Seicento, signora della conversazione, è scomparsa; e con lei è scomparsa anche Diana cacciatrice, tra i boschi e i cieli azzurri dell' I le-de­ France. È rimasta soltanto una fata delusa e sconfitta, che non incanta più nessuno; e che si perde e si degrada, lei che aveva tenuto un mondo sotto il suo scettro, imitando .

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ciò che una volta aveva disprezzato, i gerghi degli attori e degli scrittori.

La prima cosa a colpirci in Palamède, barone de Char­ lus, è che non assomiglia affatto a un Guermantes. Non ha niente della razza nata da un uccello divino e una ninfa: né i luminosi occhi celesti (che appaiono solo in una va­ riante), né i radiosi capelli biondi, né il naso arcuato, né la pelle rosea, né i movimenti asimmetrici. Eppure è proprio lui, quest'uomo grande e grosso, con dei mustacchi neris­ simi, a portare al culmine la coscienza storica e mitologica dei Guermantes. Charlus sta a parte, solo, senza nessuno, chiuso nel carcere tragico della sua persona. Così, proprio a lui, Proust dedica il più grande dei suoi ritratti, a cui vorremmo dare un' attribuzione: un Saint-Simon, o un Goya, o un Balzac, o un Fra' Galgario? Come un pittore, coglie Charlus nei suoi gesti, e lo fissa in movimento. Non sa nulla, da principio, della sua psicologia: conosce solo dall'esterno questi gesti, come se nessuna strada lo por­ tasse verso il cuore; e li interroga, li interpreta, li smonta, li fruga con la passione ardente del poliziotto, cercando di arrivare al suo segreto. «Volsi la testa e osservai un uomo di una quarantina d'anni . . . che, mentre batteva nervosa­ mente un bastoncino da passeggio sui pantaloni, fissava su di me degli occhi dilatati dall'attenzione. A momenti, erano attraversati in tutti i sensi da sguardi di un'estrema attività, come ne hanno soltanto, davanti a una persona che non conoscono, degli uomini a cui, per un motivo qualunque, essa ispira dei pensieri che nessun altro avrebbe - per esempio dei pazzi o degli spioni. Egli lanciò su di me un'occhiata suprema, insieme ardita, prudente, rapida e profonda . » Abbiamo già appreso la cosa essenziale. Charlus sta nei suoi sguardi: è i suoi sguardi. Proust ha una doppia con­ vinzione: ora pensa che i segreti degli uomini siano nasco. .

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sti negli sguardi; ora che sia un'illusione credere che cono­ sciamo le persone attraverso di essi. Nel caso di Charlus si abbandona a un vero delirio interpretativo: quegli sguar­ di sono da folle, da spia, da scroccone d'albergo, da ladro, da alienato, da uomo che si vendica di un'umiliazione, da bugiardo, da devoto, da ipocrita, da animale spaventato, da mercante che teme la polizia, da investigatore, da uo­ mo in incognito. In un certo senso, tutte le indicazioni, persino le più strane e apparentemente fuori luogo, sono giuste: Proust ha afferrato la sua preda. Più tardi, quando avremo più confidenza con Charlus (sebbene egli non la conceda volentieri), ci soffermeremo sopratutto su due in­ dicazioni, che sembrano e non sono opposte. Da un lato, Charlus è una spia, e come tutte le spie (Proust narratore in questo stesso momento) interroga e indaga la realtà, stando celato, tentando di non essere sorpreso da nessu­ no. D'altro lato, è un uomo che si nasconde, e cerca di te­ nere ermeticamente chiusa l'espressione del viso e i pro­ pri segreti: i suoi occhi sono una feritoia, dalla quale traspaiono sguardi circospetti e inquieti, che fanno pensa­ re a qualche incognito, «al mascheramento di un uomo potente in pericolo, o . . . di un individuo pericoloso ma tra­ gico». Il segreto di Charlus lo conosceremo solo molto più tar­ di, all'inizio di Sodome et Gomorrhe: egli è un omosessuale. Questo è soltanto uno della rete di segreti che lo circonda. Egli ha due modelli. Come Harun al-Rashid, sogna di per­ correre la Parigi della fantasia e della notte camuffato, ma­ scherato, spiando, esercitando il potere con gli sguardi. L'altro modello è Vautrin: o per meglio dire gli eroi di tut­ ti i romanzi dedicati alla massoneria e alle associazioni se­ grete, dagli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister ai ro­ manzi neri dell' Ottocento. Come Vautrin ha, o dice di avere, un' immensa sapienza segreta, «un tesoro di espe­ rienze, una specie di incartamento segreto e inestimabile», che a volte si riduce a storie di scandali omosessuali: come lui, ha o dice di avere misteriosi informatori. Quei roman328

zi culminavano in una sapienza e in un insegnamento esoterico; e anche Charlus vorrebbe educare il giovane Marcel alla virtù, e addirittura a una specie di sacerdozio, di cui da principio è soltanto un catecumeno. Ma come è lontano Vautrin, con la sua energia e la sua potenza de­ moniaca! Nella Recherche, siamo alla fine di un mondo: Charlus è soltanto un attore nevrotico e intelligentissimo, che vorrebbe recitare la parte di Han1n al-Rashìd e di Vautrin. Charlus è anche, e forse sopratutto, un attore. Già nella scena del ritratto, l'avevamo sorpreso mentre si guardava attorno, prendeva improvvisamente un'aria distratta e al­ tera, si volgeva verso un manifesto, si metteva a leggerlo, fischiettava un'aria, aggiustava la rosa muscosa che pen­ deva alla sua bottoniera, estraeva un taccuino sul quale fingeva di prendere delle note, toglieva di tasca l'orologio, faceva un gesto di malcontento, esattamente come un at­ tore che recita una parte. Quale attore! Senza saperlo, Charlus ha un repertorio immenso: ora da attor tragico shakespeariano e corneilliano, ora da farsesco Scapin, ora da attore del Grand-Guignol. I suoi capolavori sono le grandi tirate, che Proust gli attribuisce con immenso pia­ cere e divertimento: nobili, abbiette, arroganti, pompose, tenere, assurde, folli; nelle quali la tradizione classica (quante letture di storici e di predicatori, sullo sfondo) giunge insieme fino al trionfo e all'autodistruzione. Un at­ tore sa di recitare: mentre Charlus è (non sempre) un atto­ re che si ignora, tanto è mitomane, megalomane, folle­ mente narciso, sempre dominato da un furor teatrale di una prorompente fisicità. Ora innalza il suo ego: sfiora e supera la paranoia, recitando la parte di Dio o di Cristo trionfante e sacrificato. Ora proclama i suoi editti di pro­ scrizione: in preda a spaventosi accessi di insolenza, odio, volgarità, oscenità, ferocia. Ora esalta l'aristocrazia fran­ cese, anzi la sua famiglia, la regale stirpe dei Guermantes: niente sarebbe più ridicolo di questi accessi di mitomania, magari davanti a un allibito Jupien, se non fosse chiaro 329

che anche allora, oltre l'orlo della paranoia, Charlus è l'ul­ timo, sublime Don Chisciotte, che cerca di riscattare il so­ gno aristocratico decaduto, mentre sprofonda disperato nel suo fallimento. Charlus è un personaggio così ricco, che contiene in sé anche una donna, anzi una moltitudine di donne prigio­ niere. A volte, quando parla, esprimendo cose delicatissi­ me, la sua voce si posa s:.1 delle note alte, prende una dol­ cezza imprevista, e sembra contenere dei cori di fidanzate e di sorelle, che diffondono la loro tenerezza: oppure si sente, nascosto nella sua voce, un riso acuto e fresco di collegiali e di civette colpire il prossimo con lingue mali­ ziose; oppure fa il gesto spaventato di una donna pudi­ bonda ma non innocente. Anche il suo riso è femminile. «Ebbe una risatina che gli era particolare. Una risatina che gli veniva probabilmente da qualche nonna bavarese o lo­ renese che anche lei lo ereditava a sua volta, identico, da un'antenata, in modo che suonava così, immutato, da pa­ recchi secoli in certe vecchie e piccole corti d'Europa, e si gustava la sua qualità preziosa come quella di certi stru­ menti antichi divenuti rarissimi.» Da questo lato femmini­ le che porta dentro di sé, Charlus deriva la sua intelligen­ za tollerantissima: «Mi sforzo di comprendere tutto e mi guardo dal condannare nulla»; e quella mescolanza di te­ nerezza raciniana e di sentimentalismo dostoevskijano, che lo rende così caro alla nonna di Marcel, e da cui deriva la sua essenza psicologica «singolare, segreta, raffinata e mostruosa » . In arte, Charlus è un dilettante. Dipinge i ventagli di Oriane: compone delle sonatine: suona benis­ simo Fauré, il cui stile «inquieto, tormentato, schuman­ niano» si adatta al suo romanticismo e alla sua nevrosi: ha un' inclinazione da esteta «idolatra» alla Montesquiou; e tutti questi doni, che gettano sul mondo aristocratico una luce di bellezza, di pittoresco e di frivola eleganza, nasco­ no dal suo tenero cuore femminile. Proust sapeva cosa nascondeva questa tenerezza, per­ ché la scrutava e la studiava in sé stesso. Così quelle voci 330

di fidanzate o di sorelle, o di collegiali o di civette o di ipocrite prigioniere nella voce di Charlus, non ci debbono illudere. Non ci deve illudere nemmeno la delicatezza, la bontà profondissima di Charlus, che Morel considera quasi un santo. Dobbiamo guardare a lungo quella testa magnifica e ripugnante, da Apollo invecchiato, con la bocca malvagia, da cui sembra sul punto di uscire un suc­ co olivastro, epatico, che egli mostra la sera in cui invita Marcel a casa sua. Charlus vive nella tenebra: è della raz­ za degli Svidrigajlov e degli Stavrogin; come loro, sia per orgoglio offeso sia per amore deluso, sia per rancore, sadi­ smo o un'idea fissa, è pronto a uccidere e a giustificare il suo assassinio. Morel ha ragione di avere paura, anzi ter­ rore di lui; e una lettera aperta dopo la morte di Charlus, molti anni dopo la matinée dai Guermantes, rivela che il barone aveva deciso di ucciderlo. La Recherche non è formata da un tempo omogeneo per tutti i personaggi: il tempo corre più velocemente per Charlus che per gli altri; e mentre Oriane o Marcel o Ma­ dame Verdurin consumano circa due anni, Charlus ne brucia dieci. Quando vede per la prima volta Marcel, è un uomo alto, grosso, virile, di una «quarantina di anni»: me­ no di due anni dopo, quando incontra Jupien e il calabro­ ne feconda l'orchidea, è già un «quinquagenario panciu­ to» . Il crollo è improvviso e totale: eccolo camminare ondeggiante, con un ventre che ingrassa e un deretano quasi simbolico, mentre la crudeltà della luce gli decom­ pone il belletto sulle labbra, la cipria fissata dal cold cream sulla punta del naso, la tinta d'ebano sui mustacchi. Chi ricorda più la nidiata di fidanzate e di collegiali? Ora è una vecchia signora manierata, goffa e leziosa, che si di­ mena con mille ondeggiamenti del corpo, e ha il viso in­ clinato e soddisfatto, pieno di piccole pieghe e rughe di affabilità, e sorride senza aprire la bocca, piegando appe­ na l'angolo delle labbra, o accendendo carezzevolmente gli sguardi. La sua ipocrisia viene alla luce. Il barone ab­ bassa devotamente le ciglia annerite, che, contrastando 331

con le guance incipriate, lo fanno assomigliare a un gran­ de inquisitore dipinto dal Greco: un inquisitore tremendo, interdetto dalla Chiesa. Questa trasformazione fisica, quest'aria da vecchia si­ gnora o da ecclesiastico untuoso in chi sembrava così viri­ le, dipende da una completa trasformazione morale. Charlus non resiste più al suo vizio. La rete di ferree reti­ cenze, di difese, di menzogne, di esibizioni di volontà, da cui il vizio emergeva soltanto come da una feritoia, cade completamente. Ora il vizio vuole gridare ad alta voce sé stesso: è divenuto come una maschera che nasconde il vecchio viso e il vecchio corpo. Ora Charlus ama la bas­ sezza, la turpitudine, la degradazione, l' abiezione: si fa passare per un vecchio domestico a cui Morel paga i conti. I suoi discorsi sono sempre più nutriti di volgarità. Cerca la canaille. Senza saperlo, si comporta come uno dei suoi antenati, il duca de La Rochefoucauld o il duca de Berry, che passavano la vita (racconta Saint-Simon) coi loro ser­ vi, giocando a carte o bevendo con loro. Ha un desiderio di male sempre più insaziabile: cerca ladri e assassini; l'uomo amato non può essere per lui che un criminale se­ ducente, «un boia delizioso». Al tempo stesso, giacché So­ doma è legato indissolubilmente al comico, precipita nella farsa in tutte le sue forme: rabelaisiana, assurda, frivolissi­ ma. Ma non potremo mai dimenticare che abbiamo a che fare con Palamède barone de Charlus, ultimo erede della più antica famiglia di Francia . Sino alla fine, immerso nell'abiezione e nella farsa, Charlus è un grande della ter­ ra: uno di quei grandi che il mito greco e la Bibbia rappre­ sentavano nell'ultima sventura; è un re decaduto, Prome­ teo incatenato, re Lear nella sua maestà shakespeariana, coi capelli e la barba di puro argento.

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VII

A p ollo e la morte

Dopo i mesi trascorsi a Doncières, insieme a Saint-Loup e ai suoi amici, Marcel ritorna a Parigi. La nonna non è preavvertita del suo ritorno. Sta leggendo; e pensa cose che fino a quel momento aveva nascosto davanti a lui. Marcel non la guarda con lo sguardo familiare, dell'affetto e dell'abitudine. Questo sguardo è una specie di «negro­ manzia» del passato, che sovente ci restituisce una perso­ na che non esiste. Esso muove dall'idea che noi abbiamo della persona amata, e fa aderire e coincidere con essa tut­ te le immagini che ci giungono, gettandole «nel sistema animato, nel movimento perpetuo della nostra incessante tenerezza». Tutto è cambiato in chi amiamo: eppure noi continuiamo a vedere una persona che non esiste più da molto, e che la nostra pietà non vuole lasciar morire. La tenerezza immobilizza il tempo e gli sottrae i volti amati. Quel giorno, scosso dall'assenza e dal viaggio, che han­ no interrotto le sue abitudini, Marcel guarda la nonna co­ me può farlo il « testimone, l'osservatore, in cappello e cappotto da viaggio, lo straniero che non è della casa, il fotografo che viene a prendere un'istantanea dei luoghi che non rivedremo più». Questo testimone coglie la realtà com'è: crudele e spietato come una pellicola fotografica, quest'osservatore vede le figure amate quali sono, e non come la «negromanzia» le ha trasformate; questo stranie­ ro osserva un istante fedele di tempo. Quante volte, nella Recherche, incontriamo gli sguardi dello «straniero»: i suoi 333

sguardi rapidissimi, in tralice, che non rispettano nulla di tutto quello che l'abitudine, l'immaginazione e l'illusione hanno inventato. Così accade anche in quel momento. Marcel non scorge più la nonna amatissima del suo ricor­ do, ferma, sempre lì, nello stesso luogo del passato, attra­ verso «la trasparenza dei ricordi contigui e sovrapposti». Questa nonna è morta: appare solo un istante; e poi Mar­ cel vede, seduta sul canapè, sotto la lampada, «rossa, pe­ sante e volgare, malata, mentre fantastica e muove sopra un libro degli sguardi un po' folli, una vecchia prostrata», che non conosce. La nonna è malata. Intorno alla sua malattia, Proust rico­ struisce un mito di Apollo guaritore e della medicina delfi­ ca, che viene velato e mascherato dietro la superficie del racconto. Nel testo della Recherche, Apollo compare solo una volta: dopo aver ucciso il serpente Pitone, entra a Delfi con un ramo d'alloro in mano, per proteggersi e purificarsi «dai germi mortali dell'animale velenoso» . In realtà, nel mito greco, Apollo giungeva con il ramo d'alloro dalla val­ le di Tempe, dove si era purificato dalla propria colpa di uccisore del drago (o dracena), figlio della Terra. Questa idea del dio colpevole che espia la propria colpa, del purifi­ catore che deve essere purificato, sarebbe piaciuta moltissi­ mo a Proust, che vi avrebbe colto un accento quasi do­ stoevskijano. Quasi certamente, Proust non la conosceva: in ogni caso non vi allude; nel suo testo, Apollo è soltanto un dio purificatore. Ma Apollo conserva le prerogative del­ fiche di dio della medicina: Proust si diverte (uno dei suoi giochi più profondi e pieni di risonanze) a trasformare gli strumenti della medicina moderna in divinità apollinee. Cosa di più semplice, per un razionalista moderno, del ter­ mometro? Per Proust, la colonna di mercurio è invece pri­ ma «una salamandra d'argento», che «sembra morta»: poi una «piccola strega», che prepara l'oroscopo; e infine «una piccola Sibilla senza ragione)), «una piccola profetessa», che appartiene al regno di Apollo. L'immagine della medicina, che aleggia intorno a questi 334

passi, non potrebbe essere più lontana da quella di una scienza moderna, come la praticavano Adrien Proust, lo stolido ed efficace dottor Cottard, il brillante e fatuo dot­ tor du Boulbon. Tutto ricorda Epidauro, la medicina greca e il culto di Esculapio. Nella malattia ci rendiamo conto ­ dice Proust- che, entrando in contatto con il nostro corpo, sprofondiamo in un mondo immensamente più arcaico di quello del nostro spirito: il corpo ci incatena a un regno differente: abissi ci separano; non ci conosce, ed è assolu­ tamente impossibile farci comprendere da lui. La malattia è Pitone, il mostro primigenio, figlio della Terra. Apollo guaritore non usa dunque verso la nonna la sua sapienza luminosa, che Euripide aveva opposto, in un coro dell'Ifi­ genia in Tauride, alla veggenza tenebrosa della Terra. La sa­ pienza di Apollo guaritore è ctonia: nulla esclude che l'ab­ bia appresa da Pitone. Per vincere la febbre della nonn::l., Apollo usa il chinino: contemporaneo delle «razze scom­ parse», anteriore ai regni delle piante, anteriore alla crea­ zione dell'uomo pensante, il chinino conosce il corpo umano, che è più giovane di lui, ma appartiene allo stesso regno, e può comandargli. Così avviene, nel corpo della nonna, «la battaglia preistorica». In un momento «Pitone viene schiacciato» dal chinino preistorico. È una vittoria momentanea. Subito dopo Apollo viene sconfitto da una forza tremenda: l'uremia. «Il testimone, l'osservatore, in cappello e cappotto da viaggio, lo stranie­ ro che non è della casa» non aveva torto a scorgere, sul vi­ so della nonna, i segni della prossima morte. Con le pagi­ ne successive, che costituiscono il cuore del C6té de Guermantes, Proust tenta la sua più grandiosa rappresen­ tazione della morte: anzi l'unica, perché le altre - quelle di Swann, di Bergotte, di Albertine, di Saint-Loup - sono delle scomparse - e avvengono quasi sempre lontano dal­ la scena, dietro le quinte. Virgilio rivaleggiava con Omero: Dante con Virgilio; ed è probabile che in queste pagine Proust rivaleggi coscien­ temente o incoscientemente con Tolstoj, che al tempo 335

della giovinezza, nella Fin de la jalousie, aveva imitato. Ora egli è immensamente lontano da Tolstoj. Le morti di Guerra e Pace e Anna Karenina sono dei sublimi frammenti di tragedia, che obbediscono quasi sempre a un'assoluta monocromia. Proust, invece, si comporta come un allievo di Dostoevskij. Agisce per contrasto: avvicina il tragico e il comico; di modo che il tragico diventi più intollerabile e insostenibile. Così alterna scene terribilmente dolorose con altre che trae dal proprio repertorio comico, come un grande autore di farse: la marchesa, tenutaria di ele &an­ tissimi ed esclusivi gabinetti pubblici agli Champs-Ely­ sées: il professor E***, impazientissimo di andare alla cena del Ministro del Commercio: lo specialista del naso, che fa ammalare tutta la famiglia: l'apparizione del duca de Guermantes con le sue ridicole pompe, vanità e frivo­ lezze; e il medico Dieulafoy con la sua abilità da presti­ giatore nel far scomparire le parcelle. La scoperta di Tolstoj scienziato e narratore della mor­ te era stata quella di contemplarla con gli occhi di chi muore, in una sublime interiorizzazione dell'esperienza suprema. Ecco il principe Andrej mentre sogna: sa che quella cosa preme contro la porta, vi fa impeto contro, e lui si aggrappa alla porta, tentando un estremo sforzo per tenerla fuori; ma la porta si apre e quella cosa entra, e la cosa è la morte. Da quel momento è un estraneo, arri­ vato tra i ghiacci del Tibet, e vive in un freddo insosteni­ bile. Ecco Anna Karenina a letto con gli occhi aperti, guardando alla luce di una candela che sta per spegnersi la cornice di un soffitto e l'ombra di un paravento che l' invade: l'ombra del paravento tentenna, invade la cor­ nice, il soffitto, altre ombre dall'altra parte le si precipita­ no incontro, per un attimo corrono via, poi avanzano con rinnovata rapidità, tentennano un po', si confondono, e tutto nella stanza e dentro di lei si fa buio. Ecco, infine, lvan Il'ic che sente la morte introdursi nel suo corpo: es­ sa sta lì, si annida, compie il suo struggente lavoro, si fer­ ma davanti a lui; lo guarda e pretende che anche lui la 336

guardi così, fisso, impietrito, proprio dritto negli occhi, la guardi senza far nulla e soffra indicibilmente solo con so­ la, rabbrividendo. Nella Recherche non sappiamo nulla di queste esperien­ ze supreme. Non vediamo mai la morte con gli occhi della nonna: non conosciamo i suoi pensieri di moribon­ da. La morte viene guardata dal di fuori, con gli occhi spietati e l'inesauribile sapienza del Narratore, che ne co­ nosce minuziosamente tutte le fasi. Dà principio essa sembra una presenza quotidiana, che si introduce nella nonna con i modi più semplici e naturali: lei fa la sua pas­ seggiata, va in carrozza, il tempo è bello; e la morte sce­ glie quella giornata qualsiasi per entrarle inavvertitamen­ te dentro, q� asi nell'istante in cui la carrozza raggiunge _ gli Champs-Elysées. Nulla sembra più rassicurante e fa­ miliare di questa prima presa di possesso. Ma, in realtà, nulla è più tremendo. La morte abita costantemente den­ tro di lei, come una persona: è l'affittuario che abita l' ap­ partamento sopra il suo: va e viene nel suo cervello; la nonna ne conosce le abitudini dai rumori che fa regolar­ mente: un mattino non la sente più; e poi, all'improvviso, ritorna. Presto, la morte diventa l'assolutamente estranea, la ne­ mica. Il mondo intero e il suo corpo assalgono la vecchia signora: l'occhio non riesce a far fronte all'assalto di im­ magini che la pupilla non contiene; il peso terribile della pressione universale l'aggredisce, come l'assalirebbe la pressione atmosferica se facesse il vuoto dentro di lei, esposta, indifesa, alle forze del mondo. Infine l'estraneità diventa metafisica. Come Giacobbe, nella Genesi, era ri­ masto solo, lottando fino alla mattina con Dio o con l'an­ gelo di Dio, che gli lussò il cavo della coscia (Genesi 32, 256 : Osea 1 2, 4-5), così la nonna ha il cappello, il viso, il cappotto scompigliati «dalla mano dell'angelo invisibile» col quale ha lottato. La morte si allontana sempre di più, assente da ciò che accade e che essa stessa ha causato e causa. Ora è una 337

scultrice, che lavora con il viso e le membra della nonna, come fossero pietra. Ha in mente un modello che nessuno conosce: plasma il sasso, qui diminuisce la statura, là tra­ sforma la vena in una pietra rugosa; finché il corpo della nonna, «scabro, atrocemente espressivo» sembra una scultura primitiva, quasi preistorica: «la figura aspra, vio­ lacea, coi capelli rossi, disperata, della selvaggia guardia­ na di una tomba» - la tomba nella quale sarebbe discesa. Poi la morte scompare. Niente più affittuario, niente più angelo invisibile, niente più scultrice. Non c'è che la vec­ chia moribonda, dentro la quale la morte si nasconde, tra­ sformando la in una figura irriconoscibile, cieca, sorda, confusa nella parola, continuamente agitata. Per un mo­ mento la nonna esce dalla pietra, e ritorna «di marmo, con le mani immobili sul lenzuolo» . Cerca di gettarsi da una finestra. Quando la figlia glielo impedisce, diventa un au­ toma impassibile, che toglie con cura i peli di pelliccia ri­ masti sulla sua camicia da notte . La discesa nell' abisso non ha limiti. Ora la guardiana della tomba è una bestia, che si è agghindata coi capelli della nonna e si è distesa nel lenzuolo. Soffia, geme, scuote le coperte con le sue convulsioni: non conosce più nessuno: allontana le coper­ te con un gesto meccanico, che non significa niente; e dai suoi occhi non esce più luce. Infine il dottore le fa una iniezione di morfina e le ap­ plica una bombola di ossigeno. «Quando rientrai, mi tro­ vai come davanti a un miracolo. Accompagnata in sordi­ na da un mormorio incessante, . . . sembrava rivolgerei un lungo canto felice che riempiva la stanza, rapido e musi­ cale . . . Liberato dalla duplice azione dell'ossigeno e della morfina, il respiro della nonna non faticava più, non ge­ meva più, ma scivolava vivo e leggero, pattinando, verso il fluido delizioso. Forse al fiato, insensibile come il fiato del vento nel flauto di una canna, si mescolava nel canto qualcosa di quei sospiri più umani, che liberati nella vici­ nanza della morte, fanno credere a impressioni di soffe­ renza o di felicità in coloro che ormai non sentono più, e 338

venivano ad aggiungere un accento più melodioso, ma senza cambiarne il ritmo, a quella lunga frase che si ele­ vava, saliva ancora, ma poi ricadeva, si slanciava di nuovo, dal petto alleviato, per inseguire l'ossigeno. Infine giunto così in alto, prolungato con tante forze, mescolato con un mormorio di supplica nella voluttà, il canto sem­ brava a tratti spegnersi del tutto, come una sorgente che si esaurisce . . . Come se un affluente fosse venuto a portare il suo tributo alle correnti prosciugate, un nuovo canto si immetteva sulla frase interrotta. E questa riprendeva a un altro diapason, con lo stesso slancio inesauribile. Chi può dire se, senza che la nonna ne avesse nemmeno coscien­ za, tanti sentimenti felici e teneri compressi dal dolore, non sfuggissero ora da lei, simili a gas più leggeri che erano rimasti a lungo soffocati? Era come se tutto quello che aveva da dirci si manifestasse: come se lei stessa ri­ volgesse a noi questa prolissità, questa sollecitudine, que­ sta effusione. » Mai come i n queste pagine Proust è u n poeta del corpo, delle sue oscurità e profondità, dei suoi automatismi e della sua fine, e penetra in abissi interiori, dove forse nes­ suno era mai penetrato. Egli non si illude: la nonna non è cosciente; dopo essere stata guardiana della propria tom­ ba, ora è soltanto un automa. Siamo nel regno della pura physis: non si apre mai un altro orizzonte. Ma quel soffio così vivo, leggero, «pattinatore», quella lunga frase che si innalza, si innalza, ricade e poi slancia di nuovo, è un can­ to simbolico. È il canto dell'anima, che sale verso la libera­ zione, e insieme desidera parlare, per un'ultima volta, coi suoi cari. Quante volte Proust ha intonato questo canto! Quando muore, la nonna viene pettinata e distesa sul letto. La lunga lotta si è conclusa con la vittoria della mor­ te, che dovrebbe affermarsi sul viso sconvolto dall'agonia. Ma accade il contrario. Il viaggio di là, la morte come affit­ tuario, la lotta con l'angelo, la morte scultrice, la presenza della bestia - tutte le immagini della morte come radical­ mente altro - scompaiono. La morte libera la vita. Il viso 339

della nonna ritorna giovane. «Come nel tempo lontano in cui i suoi genitori le avevano scelto uno sposo, aveva i li­ neamenti del viso delicatamente tracciati dalla purezza e dalla sottomissione, le guance brillanti di una casta spe­ ranza, di un sogno di felicità, persino di un' innocente gaiezza . . . Un sorriso sembrava posare sulle labbra . . . Sul letto funebre, la morte, come lo scultore del Medioevo, l'aveva adagiata con le sembianze di una ragazza.» In una versione anteriore, Proust aveva osato dire di più: « La nonna sembrava pronta a ricominciare la vita, pronta a che un nuovo corteo la conducesse dallo sposo». Dunque anche lei cedeva al grande ciclo della morte-resurrezione, alla vita che ricomincia in eterno, obbedendo al tema della Recherche. In seguito Proust trovò questa ipotesi troppo ardita. A lui importava, sopratutto, l'immagine della mor­ ta giovane, come tanti anni prima aveva visto, distesa sul letto, la madre.

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VIII

Sodoma e Gomorra

Dal principio alla fine, la Recherche è intessuta di citazioni e allusioni bibliche. Non ci meravigliamo che Proust abbia voluto compiere il suo arco: accanto alla Bibbia esistono gli apocrifi biblici; e accanto alla sua Bibbia, egli insinuò nel testo della Recherche il suo apocrifo biblico, sul destino dei figli di Sodoma e di Gomorra. La Genesi aveva detto: «E Jahve fece piovere sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco da parte di Jahve, dal cielo. E distrusse que­ ste città e tutta la pianura, e tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo ... E Abramo guardò verso Sodoma e Gomorra e tutta la terra della pianura, e vide, ed ecco che saliva un fumo dalla terra, come fumo di una fornace» ( 1 9, 24-5, 27-8). Questa versione non accontentò Proust, che propose una diversa tradizione. Secondo la Recherche, i due angeli, che erano stati posti alle porte di Sodoma per esaminare i peccati della razza maledetta, erano stati scel­ ti male dal Signore, che avrebbe dovuto affidare il compi­ to a un Sodomita. Questi non avrebbe fatto passare nessu­ no di loro, svelando implacabilmente le menzogne e le colpe. Gli angeli invece credettero alle menzogne, e si la­ sciarono sfuggire i Sodomiti. Così questi ebbero una po­ sterità, numerosa come la polvere della terra: abitarono tutte le città, ebbero accesso a tutte le professioni, entraro­ no in tutti i club, formando in ogni paese «una colonia orientale, colta, musicofila, maldicente, che ha affascinan­ ti qualità e insopportabili difetti» . Ecco l'apocrifo prou341

stiano. Come capita spesso agli apocrifi, è la versione co­ mica del destino di Sodoma e Gomorra, che tinge di sé un'ampia parte della fine della Recherche. Accanto a questa tradizione apocrifa, nella Recherche sussiste la versione biblica originaria: la maledizione tra­ gica della razza maledetta. Appena Marcel guarda Char­ lus, dopo l'incontro con Jupien, vede apparire tracciati in un inchiostro fino ad allora invisibile, i caratteri che com­ pongono la parola cara ai Greci antichi: «pederasta » . È una rivelazione simile a quella che avviene nel libro di Daniele. Quando il re di Babilonia, alterato dal vino, or­ dinò ai suoi magnati, alle mogli e alle concubine di bere nei vasi sacri che il padre, Nabucodonosor, aveva portato via dal tempio a Gerusalemme, tutti gli obbedirono. In quel momento apparvero le dita di una mano umana, che incideva sul muro del salone una scritta misteriosa: Mene mene, teqel, farsin. Lo scritto, letto e interpretato da Danie­ le, annunciava la condanna del sovrano e la fine del suo regno. Anche i Sodomiti sono mene, teqel, farsin. In un immen­ so periodo, che rievoca il Baudelaire di Lesbos e di Les fem­ mes dannées e gli risponde: in un periodo pieno di pathos li­ rico e di tensione epigrafica, Proust ci ricorda che quella di Sodoma è «una razza sulla quale pesa una maledizione e che deve vivere nella menzogna e nello spergiuro». Raz­ za senza madre, che mente alla madre persino nell'attimo di chiuderle gli occhi, che la profana e la prostituisce nei lineamenti: razza senza amici, malgrado quelli che il suo fascino ispira e che il suo cuore desidera: razza senza amore, perché il suo desiderio è considerato come vergo­ gnoso, punibile e inconfessabile: razza esclusa dai suoi stessi simili ai quali dà il disgusto di vedere, dipinto in uno specchio accusatorio, quello che essi sono: razza pro­ scritta come gli Ebrei: razza che vive in segreto, come una massoneria molto più estesa, che riposa su un'identità di bisogni, di gusti, di abitudini, di pericoli, di sapere: razza obbligata a una continua costrizione interiore: razza Sa342

turnina, simile all'immensa tribù dei malinconici; razza segnata dal complesso di Andromeda, legata alla roccia, esposta al Mostro, abbandonata al vizio, che nessun Per­ seo verrà a liberare . . . In questa litania di appellativi, che contiene dei romanzi scorciati e gronda di fuoco e di zolfo, il maledetto diventa colui che «non può trovare un guanciale dove riposare il capo». Qui Proust lascia echeg­ giare un'allusione evangelica, che amava moltissimo: «le volpi hanno le tane, gli uccelli del cielo i nidi, ma il Figlio dell'Uomo non ha dove poggiare il capo» (Luca 9, 58). Co­ sì sul capo del Sodomita maledetto aleggia la stessa male­ dizione che perseguita il Cristo. Il tema della maledizione biblica confluisce in un altro, più vasto e tremendo: quello del disastro definitivo, che incombe sull'Occidente e la nostra civiltà di Sodomiti. Chi lo annuncia è Charlus, l'uomo di tutte le fini. La Parigi nella quale egli vive, minacciata dalle bombe tedesche, è la nuova Pompei: il Vesuvio sono i cannoni da marina te­ deschi, le esalazioni del vulcano i gas asfissianti; e tutto è «ultimi giorni di Pompei» - Madame Molé che mette il suo ultimo belletto prima di andare a cena dalla cognata, Sosthène de Guermantes che finisce di dipingersi le so­ pracciglia, gli uomini che si rifugiano ogni sera nelle can­ tine, nascondendo ciò che hanno di più prezioso. Sulle mura di una casa di Pompei, c'era un'iscrizione rivelatri­ ce: Sodoma, Gomorra. Quando, tra le bombe e gli incendi, esce nella notte dal bordello di Jupien, Marcel pensa che i suoi abitanti sono i Sodomiti della Bibbia e di Pompei. Mentre scende il fuoco dal cielo, i nuovi Sodomiti si rifu­ giano nei corridoi della metropolitana, neri come cata­ combe: si abbandonano nell'oscurità al loro vizio, atten­ dono la risposta della carne, celebrano, sotto i boati vulcanici delle bombe, i riti segreti nelle tenebre delle nuove catacombe. Il grandioso tema apocalittico si spegne nel fuoco e nello zolfo della fine. Proust ha voluto discen­ dere sino nell'ultimo girone dell'Inferno, prima di annun­ ciare ai suoi lettori la rivelazione della luce. 343

Le risonanze terribili e grandiose della condanna bibli­ ca, che distrusse le «città della pianura», dello zolfo e del fuoco che distrusse Pompei e forse distruggerà Parigi e il nostro mondo, non riempiono tutta Sodome et Gomorrhe: esse sono una cornice, che contiene una materia profon­ damente diversa, che a sua volta si intreccia con la corni­ ce. Chi ha scritto Sodome et Gomorrhe è sopratutto, come diceva Proust, un «erborizzatore umano, un botanico mo­ rale»: quel botanico morale nascosto nella Recherche, che interpreta l'infinita varietà della psicologia e della società umana. Come un vero botanico, all' inizio di Sodome et Go­ morrhe, Marcel vorrebbe contemplare la fecondazione di un'orchidea, col pistillo offerto al vento, da parte di un ca­ labrone. Proust aveva letto Maeterlinck e Darwin; e deri­ vava da loro l' idea di un' «astuzia» della natura (come nei mirabilia medievali), che realizza la provvidenza della specie. Marcel assiste, in realtà, a un altro spettacolo. Charlus si congiunge con Jupien. Il barone va, viene, guarda nel vuoto, in modo da mettere in valore la bellez­ za delle sue pupille, prende un' aria sciocca e ridicola, mentre Jupien, in perfetta simmetria col barone, alza la te­ sta, posa con impertinenza grottesca il pugno sull'anca, fa risaltare il deretano, prende delle pose con la civetteria che avrebbe potuto avere l'orchidea per il calabrone prov­ videnziale. Questa analogia significa che anche qui, nell' incontro tra due specie di omosessuali, ha luogo la medesima provvidenza. L'omosessualità è una necessità, una fatalità naturale, che obbedisce a un' attrazione mec­ canica; e risale a un «ermafroditismo iniziale» della spe­ cie. Ogni eco biblica scompare: ogni fuoco di Jahve e del Vesuvio è spento. Proust studia l'inversione come potreb­ be fare uno strutturalista: con una specie di divertimento matematico, descrive tutte le possibili congiunzioni che avvengono tra la parte maschile e femminile dell'uomo e la parte maschile e femminile della donna; ogni forma dell'eros eterosessuale e di quello omosessuale. 344

Anche questo tema ha un'eco comica, come l'apocrifo biblico. Se la congiunzione tra Charlus e Jupien fa parte del grande quadro della harmonia mundi, pochi spettacoli sono più farseschi di Charlus che fischia «come un gros­ so calabrone», e di Jupien, che mette radici come una pianta, contemplando con aria meravigliata le rotondità del barone invecchiato. Dopo la solenne frase baudelai­ riana, Sodome et Gomorrhe diventa una frivolissima pocha­ de omosessuale. Via via che procediamo, tutto è sempre più futile, leggero, volgare, assurdo, stridulo, inverosimi­ le: ecco Charlus, il principe de Guermantes, Aimé, Morel, i ragazzi e le ragazze agitare le gambe e le membra in un'operetta frenetica. Tutto viene deformato, degradato, profanato: il gusto blasfematorio non ha più limiti: i ver­ si di Racine sono applicati ai camerieri; con una specie di perverso piacere, Proust contempla il suo sublime liri­ smo, di cui resta qua e là qualche relitto, affondare nell'infamia. Immagino che avesse in mente Dostoevskij e le sue sinistre buffonerie. Con quale crudeltà descrive la degradazione di Saint-Loup, una volta creatura di lu­ ce, che con le mosse del capo, il ciuffo d'oro dei capelli un po' spiumati, i movimenti del collo più agili, fieri e ci­ vettuoli di quelli di un essere umano, diventa un uccello che passeggia istericamente in una gabbia al Jardin des Plantes. E quale orrore idiota suscitano le chiacchiere nel bordello, dove i clienti vogliono ora un domestico ora un chierichetto ora un autista negro ora un soldato canadese o scozzese, ora un mutilato ora un vero assassino: i finti criminali ostentano una crudeltà che non posseggono, e i militari passeggiano con i preti. Sia il male, sia il sadi­ smo, sia l'inversione hanno perso qualsiasi tenebra e mi­ stero romantici. Non sono più altro che farsa. Verso la fine della Recherche, quasi tutti i personaggi diventano invertiti: pochi si salvano; e si ha l'impressio­ ne che se Sodoma e Gomorra è stata una delle prime pa­ role dell'umanità, là, nelle «terre irrigue» della pianura, 345

nel «giardino di Jahve» (Genesi 1 3,10-1 ), forse sarà anche l'ultima In questa conclusione, si intrecciano i due temi princi­ pali, apparentemente contradittori, di Sodome et Gomor­ rhe. Da un lato, il moralista biblico, che si nascondeva in Proust, ha voluto rappresentare un'umanità condannata, minacciata dal fuoco e dallo zolfo, profanata e profana­ trice - un momento prima che la grazia della memoria la salvi. D'altro lato, Proust era, come sappiamo, un «erbo­ rizzatore umano, un botanico morale» . E il botanico mo­ rale voleva rappresentare la trasformazione degli uomini in una razza sola, come alle origini, della quale eteroses­ suali, sodomiti e lesbiche fossero soltanto delle variazio­ ni, legate tra loro da innumerevoli intrecci. Non è affatto vero, come dice l'epigrafe tratta da Vigny, che «la donna avrà Gomorra e l'uomo avrà Sodoma», e «gettandosi da lontano uno sguardo irritato, i due sessi moriranno cia­ scuno dalla propria parte» . I due sessi si unificano: Morel ha il compito simbolico di fondere eterosessuali, Sodoma e Gomorra. Alle spalle di questi giochi del «botanico mo­ rale», c'è il sogno biblico, gnostico e cabalistico dell'an­ drogino, della figura «maschio e femmina», doppia e una, desunta dal primo racconto della Genesi (1, 37). Con quale grazia e dolcezza Proust rievoca «le grandi attitu­ dini dell'Uomo e della Donna, nelle quali cerca di con­ giungersi, nell' innocenza dei primi giorni e con l'umiltà dell'argilla, quello che la Creazione ha separato . ». E co­ me soffre Marcel per la condanna della natura, che ha istituito la «divisione dei corpi» ! Molti lettori pensano che Sodoma e Gomorra rappre­ sentano, nella Recherche, un mondo a parte, che obbedi­ sce a leggi erotiche e morali diverse. Qualcuno sostiene che Gomorra è «infinitamente più inquietante e nera» di Sodoma: qualcuno che è molto più misteriosa; mentre al­ tri affermano che l'amore rivela la propria natura sopra­ tutto nelle malattie amorose, dove l'alterità dell'amato è più forte. Non credo che Proust, il grande Legislatore, . .

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abbia cambiato le leggi di Eros per adattarle alle «terre della pianura» . Le leggi di Eros sono sempre uguali. Noi dimentichiamo che la Recherche è dominata dallo sguar­ do del testimone, Marcel, e che molti sentimenti che gli appartengono non sono condivisi dal Narratore. Se Go­ morra ci sembra più inquietante e tenebrosa, è solo per­ ché il piacere lesbico e sadico erano stati la prima rivela­ zione della colpa, là nella casa di Montjouvain, per Marcel bambino, che guardava con l'occhio dilatato della spia. Ma dietro Marcel testimone sta sempre, ubiqua e ir­ raggiungibile, onnipresente e indecifrabile, la figura del Narratore.

In una lettera del 1 9 1 7 Proust scriveva che Albertine era il «vero centro dell'opera» . In À l'ombre des jeunes filles en fleurs, il Narratore non faceva che confermarlo: Alber­ tine è il primo vocabolo che «noi ritroviamo (sia nel mo­ mento del risveglio, sia dopo uno svenimento), persino prima della nozione dell'ora, del luogo dove siamo, quasi prima della parola "io" , come se l'essere che nomina fosse più noi di noi stessi» . Possiamo pensare a personaggi celebri della storia del romanzo: Emma Bovary, Raskol'nikov, Andrej Bolkonskij, il principe Myskin, Anna Karenina, i quali hanno la stes­ sa posizione centrale e irradiante e sono, come direbbe il Narratore, «più noi di noi stessi» . Ma, mentre questi per­ sonaggi annunciano subito di occupare il centro del ro­ manzo, Albertine vive a lungo nelle coulisses. Appare, con il suo polo abbassato sui capelli neri e la bicicletta, all'ini­ zio della seconda parte delle Jeunes filles: riemerge in Du c6té de Guermantes: occupa, sempre in sordina, una vasta parte di Sodome et Gomorrhe; e solo dopo questa prepara­ zione, dopo questo prologo che non ha mai fine, nelle ul­ time pagine di Sodome et Gomorrhe diventa il «vero centro 347

dell'opera», la grandiosa antagonista drammatica di Mar­ cel. Quando la incontriamo, nel primo soggiorno a Balbec, crediamo di sapere tutto di lei. Ha degli sguardi «neri e brillanti», disegnati sullo sfondo del mare: una voce stra­ scicata e nasale, dalla pronuncia così carnale e dolce che, mentre parla, sembra abbracciarvi, tanto che la sua con­ versazione copre di baci: la mano vi preme con una dol­ cezza sensuale in armonia con il colore rosa, leggermente malva, della sua pelle; la felicità bagna le sue guance di una luce così mobile che la pelle, divenuta fluida e vaga, lascia passare gli sguardi nascosti che la fanno sembrare di un altro colore, ma della stessa materia dei suoi occhi. . . Che vorremmo sapere d i più? M a Albertine è ancora una creatura vaga e informe: una delle migliaia di jeunes filles che popolano il mare e le rive del mare. Quando l'abbia­ mo lasciata, non sappiamo se sia una «baccante demonia­ ca»: un giovane San Giorgio in bicicletta: una piccola gatta sorniona e dal naso rosa; o semplicemente una rosa, dalla tinta unita, violacea e cremosa. I primi amori di Marcel e Albertine, il lungo preludio del Grande Amore, obbediscono alle stesse leggi che rego­ lano l'eros proustiano. Dunque Marcel ama ciò che è im­ possibile da raggiungere: ama, in lei, le sue proiezioni fan­ tastiche: ama sempre lo stesso tipo di donna, cioè colei che soddisfa i suoi sensi e fa soffrire il suo cuore: ama Alberti­ ne come lo spirito di un luogo: la ama non perché la ne­ cessità e la predestinazione lo obblighino, ma perché il ca­ so lo invita: se la desidera con l'immaginazione (nessuno, in Proust, ama altrimenti), la sua è un'oscillazione ritmica, un gioco di slanci e di rifiuti, di attrazioni e di fughe - ciò che è il modo più sicuro per contrarre una passione; Al­ bertine lo fa soffrire e lo calma, è il male e il rimedio. Poi­ ché Marcel ha conosciuto la passione edipica, non verrà mai corrisposto. Con queste ultime leggi e questi tetri rin­ tocchi dolorosi, ci avviciniamo già al nucleo della Passio­ ne; ed ecco i primi moti della Gelosia e il fascino e il terro348

re di Gomorra . . . Ma, per ora, siamo ancora ai limiti. Il «male sacro», che aveva devastato Swann, non si è ancora espresso. Nelle pagine sul secondo soggiorno di Balbec, ciò che affascina è proprio quanto non incontriamo mai nei foschi amori proustiani: la gioia pura e tranquilla, l'amabile tenerezza, la continuità felice della vita quoti­ diana, il ricordo come «un grande impacco calmante» ap­ plicato al cuore. Albertine indossa un cappellino di pa­ glia, una blusa bianca a pallini blu e una sciarpa di seta; e salta nell' automobile con la leggerezza di una giovane ca­ gna. Lei e Marcel bevono insieme il cidre, si abbracciano e si baciano sulla spiaggia, fanno gite in campagna, immer­ si, come le chiese e le statue e la macchina, nella fluidità della luce. Bagnato di felicità, di tenerezza e di luce, Marcel non è felice. Albertine non gli basta, perché egli chiede una sola cosa dall'amore: la sofferenza. Come Proust, Marcel non possiede la forza per sopportare la felicità: scava dentro di essa, finché la luce e la tenerezza scompaiono, cade la te­ nebra più fitta, e i lineamenti amati gli parlano con la voce del dolore. Così, a Balbec, egli vuole lasciare Albertine. Non aspetta nulla dalla realtà: non ha il minimo presenti­ mento; ed è proprio in questi momenti, mentre non atten­ de nulla, che la verità lo assale dal di fuori, lo punge e lo ferisce per sempre. Quasi scherzando, Albertine gli rivela di conoscere benissimo la figlia di Vinteuil e la sua amica: le chiama «le mie due sorelle maggiori» . In quel momen­ to, si scatena in Marcel una intermittence du creur: con la stessa intensità con cui, a Balbec, aveva rivisto il viso della nonna che anni prima gli slacciava le scarpe; con la stessa immediatezza (ma senza alcuna estasi di luce) che assalirà la sua memoria alla fine della Recherche. Si risveglia in lui l'immagine della scena di Montjouvain, con la figlia di Vinteuil e l'amica, che si abbracciano, si baciano e insulta­ no il padre: conservata viva in fondo al cuore con tutti i gesti, le parole pronunciate e l'alone di orrore sacro. Noi conosciamo quale sia la forza di questa intermitten349

za nella mente di Marcel. La scena di Montjouvain è il Peccato Originale, che aveva infangato l' Eden di Com­ bray: contemplando la scena lesbica e sadica, egli aveva mangiato, insieme alle due donne, il frutto dell'albero del bene e del male. La sua colpa era stata di aver guardato: perché guardare, spiare, ascoltare (sia la scena di Montjouvain, sia gli amori di Swann, sia l' incontro di Charlus e di Jupien) è, nel mondo di Proust, una colpa si­ mile a quella di commettere il delitto. Ma ora questo ricor­ do lo punisce, come il più terribile dei vendicatori, di un altro delitto. Se Oreste aveva ucciso la madre, se la figlia di Vinteuil aveva ucciso il padre, anche lui era colpevole di matricidio: per indifferenza, ingratitudine, crudeltà, secchezza di cuore, forse una colpa ancora più profonda e indicibile, che Marcel non osa rivelare (come Proust non osava rivelare l'abisso del suo matricidio), aveva ucciso la nonna. E questo ricordo, sorto all'improvviso dalla notte dove era rimasto sepolto per tanti anni, lo colpisce con la forza di un «supplizio» e di un «castigo» : senza pietà, co­ me Oreste, dopo tanti anni, aveva ucciso Egisto e Cliten­ nestra «con la spada dalla punta assassina» . I l «male sacro» aveva assalito Swann quando non trovò Odette tra i fantasmi che percorrevano i boulevards di Pari­ gi: il suo amore era figlio dell'assenza. Il «male sacro» na­ sce, in Marcel, in modo più irrimediabile: dall'attrazione, dall'orrore e dal fascino, che esercita su di lui la scena di Montjouvain, il peccato originale. Ora, finalmente, Marcel soffre: in un colpo solo riceve tutto il dolore che aveva de­ siderato, tutto l'amore che il dolore suscita. Dietro Alber­ tine, non ci sono più le montagne azzurre del mare, ma la lontana camera di Montjouvain, dove lei cade tra le brac­ cia di Mademoiselle Vinteuil, facendogli sentire «il suono sconosciuto del suo godimento» . La scena è qui, immedia­ ta, resa presentissima al cuore dall' «intermittenza»: Al­ bertine ne fa parte, ora incarnando la parte dell' amica, ora assumendo il viso infiammato di Mademoiselle Vinteuil, che si abbandona fra le braccia dell'amica, col suo «riso 350

strano e profondo». Il dolore di Marcel è intollerabile. Al­ bertine, che fino a un minuto prima sembrava così distan­ te, entra per sempre nella «profondità del suo cuore stra­ ziato». Ma è solo Albertine? O c'è dietro qualcosa di più tremendo? In questi momenti, in cui ci aggrediscono con la loro forza, le donne non sono accompagnate da «forze invisibili», da «oscure divinità» con cui ci mettono in rap­ porto? Crediamo di amare le Albertine mentre amiamo le dee che si sono impossessate di loro. A Balbec, la mattina il sole si leva, spezza il misterioso velo purpureo dell'aurora, dietro il quale lo si sentiva fre­ mere, e irro mpe nel cielo circondato da fiamme spinate e poi da fiotti di luce. È un segno: simile al gesto del sacer­ dote che, durante l' offertorio, leva l'ostia avvolta dalle fiamme spinate dell'ostensorio. Marcel vi scorge il simbo­ lo della sua vita futura: senza più gioia, torturato dall'an­ goscia, con la piaga sempre aperta del dolore sanguinan­ te, dovrà ripetere il proprio sacrificio, giorno per giorno. Se ha commesso il peccato, se ha visto la scena di Montjouvain, se ha ucciso la nonna, ora, per cancellare la colpa, dovrà ripetere il gesto che rinnova la morte e l'im­ molazione di Cristo. E il sacrificio non potrà che essere la vita «terribile» accanto ad Albertine, dove Albertine sarà insieme il veleno e il contravveleno. Marcel è giunto sulle soglie dell'espiazione, che Mademoiselle Vinteuil e la sua amica avevano già compiuto, dedicandosi a copiare la musica del Septuor. Queste sono le pagine dove il senso di colpa di Proust, il suo istinto del sacrificio, la sua impossibile nostalgia di espiazione si rivelano nel modo più atroce. Il cielo non è ancora libero: la luce non caccia la notte; l'orrore del pec­ cato macchia la speranza di liberazione. Quando giunge la madre, mostra al figlio l'immagine del sole. Dietro il so­ le che si leva con le sue rosse fiamme spina te, Marcel con­ tinua a scorgere la stanza di Montjouvain: l'ossessione non l'abbandona: Albertine ha preso il posto dell'amica, ripete le stesse parole pronunciate da un'altra tanti anni 351

fa, e infanga e uccide un'altra volta Vinteuil: «Ebbene! Se ci vedono, sarà ancora meglio . . . non oserei sputare, io, su quel vecchio scimrnione?». Incessante, eternamente rinno­ vata, immutabile, la scena di Montjouvain degrada l'auro­ ra: il sole rosso diventa un «velo cupo>>; le barche, che sor­ ridendo alla luce obliqua del sole rientrano a riva, sono anch'esse uno spettacolo spettrale, che non riesce ad «an­ nullare, a coprire, a nascondere l'immagine orribile» . La vita familiare di Marcel e di Albertine comincia così, sotto questi segni sinistri, che l'accompagneranno fino alla morte della creatura sacrificale. A Parigi, nella casa di rue de Grenelle, dalla quale la madre di Marcel è assente per lunghi mesi, ritroviamo un'altra Albertine. Come è cambiata ! I suoi larghi occhi azzurri mutano forma: sono più lunghi; sebbene abbiano lo stesso colore, sembrano passati allo stato liquido. I suoi capelli, che a poco a poco diventano un'enorme capiglia­ tura, risvegliano il desiderio. Il corpo nudo è dolcissimo: i piccoli seni sono così rotondi che non paiono far parte in­ tegrante del corpo, ma esservi maturati dentro come due frutti. Albertine continua a mutare durante il soggiorno. Quando era arrivata sembrava un giovane animale dome­ stico, che non chiudeva mai le porte, ed entrava in una stanza appena trovava la porta aperta. Per renderla sem­ pre più schiava, Marcel la trasforma in una creatura ele­ gantissima, pesante e opulenta. Eccola con i suoi begli ac­ cappatoi in crepe de Chine, con le vesti giapponesi, con le scarpe nere ornate di brillanti, con il cappotto di zibellino, con le pianelle in cincillà e in capriolo dorato: eccola dive­ nuta un «angelo musicante», una «infanta di Velasquez», una «Santa Cecilia in un quadro», un'opera d'arte viven­ te; eccola indossare, come una grande dama, una veste da camera «blu e oro e foderata di rosa», un cappotto blu cu­ po di Fortuny; e quell'azzurro e quell'oro sono le ombre tentatrici dell'invisibile Venezia. Ma il pallido tiranno non riesce a uccidere la vitalità, la gioia e il riso di Albertine. Non riesce a vincere la sua immensa sensualità, che vor352

rebbe possedere, con ogni senso, tutto il reale. Quando ascolta le voci dei venditori di Parigi, Albertine vorrebbe mangiare quei pesci, quelle ostriche, quelle cozze, quelle verdure, quei fagioli, quegli asparagi, quelle carote, quei formaggi, insieme alle voci che li hanno annunciati; e se succhia un gelato desidera divorare, con una voluttà che ci fa paura, un corpo umano vivente. Quanto a Marcel, sembra aver dimenticato completa­ mente il suo desiderio di sacrificio e di espiazione. Anche lui è simile a Swann e ai personaggi di Tolstoj. Le grandi rivelazioni della vita lo assalgono per un istante, lo porta­ no al culmine della passione e dell'intelligenza, e poi lo abbandonano, come non l'avessero mai visitato. Ora è tor­ turato dalla gelosia: questa inesauribile passione conosci­ tiva che ci fa possedere tutte le nozioni possibili, salvo l'unica che ci importa: quest' « inquieto bisogno di tiran­ nia»; questo demone che non può mai venire esorcizzato; questo spirito del male incarnato in una forma sempre nuova. Cerca di ricordare tutto. Accende lo spirito della memoria: ma la gelosia è come uno storico che deve scri­ vere una storia per la quale non ha documenti. Scava nel­ la memoria: ma le immagini che lo interessano sono state cancellate. La gelosia non è sola. Chi la attizza è l'orrore di Gomorra. L'aveva già conosciuta a Balbec, quando aveva visto una lesbica guardare Albertine con occhi che getta­ vano attorno a sé dei fuochi alternanti, o una specie di striscia fosforescente: forse quei «fuochi», quei «fari)) ' quella «fosforescenza)) erano la luce sinistra di Gomorra; e che terrore pensare, adesso, a quegli sguardi affamati! Così, per non lasciar fuggire Albertine, Marcel le co­ struisce attorno un carcere secentesco, come aveva imma­ ginato a Balbec. In questo carcere, egli è il tiranno, che la spia e controlla i suoi movimenti: il giudice, che le inscena un incessante processo; l'attore, che mente qualsiasi cosa dica, perché i suoi rapporti con Albertine sono instaurati sulla menzogna. Intorno a questo tema, Proust costruisce una rete di allusioni letterarie, insieme tragiche e parodi353

stiche, che proiettano la casa di rue de Grenelle nell'im­ mensità del tempo e della letteratura. Marcel diventa As­ suero nell' Esther di Racine, il tenebroso e triste tiranno, in­ visibile nel fondo dei palazzi: Phèdre, preda del furore amoroso, che odia la luce; e il sovrano delle Mille e u na notte, che uccide le donne che lo tradiscono. Albertine è Esther esiliata: Hippolyte, che discende come lei, intrepi­ da cavallerizza, da una stirpe di Amazzoni; Shahrazad, che suona il liuto al re Shahriyar - ma una Shahrazad alla quale è stato tolto il dono del racconto, che forse l'avrebbe salvata. Nel carcere troppo lussuoso ed elegante, Alberti­ ne perde a poco a poco la sua gioiosa e vitale giovinezza: impallidisce, intristisce come gli uccelli in gabbia; e co­ mincia a fare collezioni di argenti - lei, la sfrenata baccan­ te di Balbec -, «come una noiosa e docile schiava» . Ma nessuno è più prigioniero del grande tiranno. Il carcere rinchiude anche Marcel, che a poco a poco capisce di esse­ re divenuto schiavo della sua schiava. Albertine è un «essere di fuga>>, come l'acqua dalla quale è uscita: muta, cambia, si trasforma, mente, fugge via tra le mani. Anche se rimanesse immobile, Marcel come potreb­ be fermarla, fissarla e imprigionarla? Già una volta, a Bai­ bee, aveva voluto possedere con le labbra quella «rosa sco­ nosciuta»: si era avvicinato a poco a poco con la bocca alla guancia di Albertine, e l'occhio aveva visto un paesaggio trasformato - una molteplicità di Albertine -. Quando le labbra si erano avvicinate ancora alla guancia, tutti i sensi lo avevano abbandonato: la vista, il gusto, il tatto, l'odora­ to; si era trovato davanti al mistero di quella guancia impe­ netrabile. La conoscenza fisica è follia. Ma Albertine è mol­ to più di un corpo. Il suo essere tocca «tutti i punti dello spazio e del tempo», che aveva occupato e occuperà; e in che modo raggiungerli con i sensi, l'intelligenza, l'immagi­ nazione? Albertine è la vera «dea del tempo»; e come porta­ re alla luce il tempo che il suo corpo tiene nascosto? Se Mar­ cel prende Albertine sulle ginocchia, tiene la sua testa tra le mani, l'accarezza, e passa a lungo le mani su di lei, stringe 354

tra le braccia solo l' involucro di un'anima «che dall'interno accede all'infinito». Mille sensazioni si sono raccolte attor­ no a lei, come attorno «al centro generatore di un'immensa costruzione», che passa attraverso il piano del cuore di Marcel. Non è possibile conoscerla. La colpa è della natura. «Quando ha istituito la divisione dei corpi», ha dimenticato «di rendere possibile l'interpenetrazione delle anime.» C'è una sola salvezza. Essa è dovuta alla benevola dea Metamorfosi, e al suo servo fedele, il Sonno, che in Proust sciolgono le situazioni angosciose. Quando dorme, Alber­ tine si trasforma. Distesa sul letto di Marcel, con i capelli lungo il viso come nei quadri di Elstir, diventa una lunga pianta fiorita: possiede la vita incosciente dei vegetali e degli alberi: siccome le metamorfosi non hanno mai fine, ritrova la sua natura più profonda; ora è il mare assopito al tramonto sotto la luna, e il suo soffio lieve il respiro del­ le acque addormentate. Proust crea un sistema metafori­ co, dove il mare, gli alberi, Albertine e Marcel si fondono in un'immagine unica e immensa. Il sonno profondo è il mare aperto: gli scogli, i soprassalti della coscienza: l'agi­ tazione leggera di Albertine, quella delle foglie risvegliate dalla brezza: le sue sopracciglia, un nido d'alcione: le ma­ ni incrociate, le barche; Marcel sale sopra il suo corpo, «si imbarca sul sonno», entrando anche lui nel regno della metamorfosi, perché la sua gamba che pende dal letto è un remo trascinato nell'acqua. Siamo al culmine della Prisonnière, in una rarissima zo­ na di quiete e di felicità pura. Quando Albertine dorme, Marcel la sogna, come altrimenti può sognarla soltanto in sua assenza; e lì, sotto lo sguardo, sotto le mani, la cono­ sce e la possiede completamente, mentre quando è sveglia non conosce e possiede mai né il suo corpo né la sua ani­ ma. L'amore è intero, perché l'irrealtà del sogno e la realtà del possesso si fondono in una sola dolcezza. L' «interpe­ netrazione delle anime>>, che la Natura ci ha vietato, si realizza nel sonno. Albertine non è più una sola donna: innumerevoli ragazze vengono ad approdare nel suo let355

to; tutta la natura, pura, immateriale e misteriosa dorme ­ piante, mare, luna piena, rami degli alberi appena mossi dal vento - sotto gli occhi di Marcel. Come la natura, Al­ bertine è misteriosa: eppure non c'è più nessun mistero da sondare, nessun enigma da interrogare, nessun luogo del­ lo spazio e del tempo da investigare. Albertine è tutta lì, tutta presente: luminosa come la luce del plenilunio, can­ cella le ombre inquiete della gelosia. Simile a un orologio e a uno strumento musicale, il re­ spiro di Albertine misura i secondi e i minuti. Quante cose sono nascoste in questo respiro! Proust discende nel mon­ do sotto la coscienza: nella buia notte del sonno; e proprio laggiù trova la forza, come l'avevano trovata Goethe e Kafka, di balzare al di sopra della coscienza. Il respiro di Albertine è superiore sia alla parola che al silenzio: è flui­ do e leggero come la parola non può essere mai: ignora il male: è il soffio della canna dei pastori edenici; il «puro canto degli Angeli>>. Davanti al respiro lunare di Albertine dormiente, ricordiamo un altro canto felice: il soffio della nonna moribonda, anch'esso «insensibile come quello del vento nel flauto di una canna», che sale, cresce ancora, poi ricade e si slancia di nuovo verso l'alto. Sebbene viva nel carcere che egli stesso ha costruito, Marcel conosce la piccola felicità quotidiana della vita co­ niugale. Il pensiero erotico riempie la casa di una provvi­ sta permanente di dolcezza domestica, quasi familiare, che irraggia persino nel corridoio. Il cappotto, il cappello e l'ombrello di Albertine, gettati a caso nell'anticamera, rendono respirabile e felice l'atmosfera della casa. La loro vita è piena di piccoli incanti. La sera Albertine legge a Marcel ad alta voce, fa d ella musica, gioca a dadi con lui: gli animi, i corpi, e persino le ombre sembrano confonder­ si e fondersi. Sulla casa, aleggia la presenza della madre lontana. La scena archetipica - quella della sera di Com­ bray - si ripete tra le mura del carcere. Il bacio di Alberti­ ne è un' «ostia» e un «viatico», come il bacio della madre: la lingua insinuata nella bocca ha qualcosa di sacro, come 356

il bacio sulla fronte a Combray; e dà la stessa calma, la stessa quiete, la stessa forza nutritiva, lo stesso rimedio contro l'insonnia. Se Albertine non giunge, è l' angoscia. Così l'amore sensuale viene sacralizzato, mentre l'amore per la madre è accompagnato da una profonda ombra in­ cestuosa e da un velo di profanazione. Come sempre, Marcel non capisce. Ha dimenticato il suo desiderio di sacrificio e di espiazione: quel sole rosso, fiammeggiante, levato come un offertorio, spinato come un ostensorio. Certo il suo amore è costruito sui fianchi di un vulcano, ed è minacciato dalla pioggia di zolfo e di pe­ ce: ma tutti gli amori lo sono, nel mondo di Proust. Marcel non capisce di amare Albertine. Non capisce che ogni pas­ sione è un reciproco carcere: una reciproca tortura; non capisce che quando dà quiete e si trasforma nella calma del mare illuminato dalla luna e nel bisbiglio dei rami è amore assoluto. Ormai la terribile inquietudine di Balbec si è calmata, e Marcel soffre, perché Albertine non lo fa più soffrire. Crede che la dea del tempo si sia trasformata nella dea dell'abitudine e gli precluda la conoscenza del mondo. Così, la vuole lasciare. -

Nei lunghi mesi dell'amore per Albertine, Marcel riceve due rivelazioni. A Balbec, Elstir aveva per la prima volta annunciato a Marcel il nome di Mariano Fortuny: l'artista spagnolo-veneziano aveva ritrovato il segreto della fab­ bricazione delle stoffe antiche; e fra poco le donne avreb­ bero potuto passeggiare, o restare a casa, in tessuti magni­ fici, come quelli che Venezia ornava, per le sue patrizie, coi disegni d'Oriente. Poi il motivo di Fortuny si affaccia in primo piano nella Recherche. Con lettere ad amici, Proust si era informato sull'artista che affascinava la fan­ tasia femminile d'Occidente. Forse venne a sapere che Fortuny soffriva d'asma come lui; e che abitava a Venezia in un palazzo dove lampade luminosissime non gettava357

no ombra. Dall'India faceva venire l'indaco, dal Messico la cocciniglia, dalla Cina uova centenarie dall'odore putri­ do. Le sue fonti erano la pittura italiana e fiamminga del Quattrocento, specialmente Carpaccio, la scrittura araba, gli animali araldici della Persia, i fregi del mondo intero: capitelli, pulpiti, soffitti, finestre, stucchi, cofanetti, di cui faceva inventari precisi, allineati nella sua biblioteca. Era un imitatore meticoloso di tutte le decorazioni del passa­ to; e insieme un fantastico inventore di manti e di vesti, che distaccava dalle tele di Carpaccio e di Memling, per deporli sui corpi delle darne del tempo. Fortuny vive nella Recherche nella parte di una contro­ figura del suo autore, sebbene lo sia meno di Elstir e di Vinteuil, di Balzac, di Dostoevskij e di Saint-Sirnon, sui quali Proust diffonde un'immensa parte di sé, in quella fantastica proiezione di miti che lo inventa come perso­ na. Come Fortuny, Proust è un ragno, che assorbe nel suo corpo i motivi e i terni del passato. Quando cita un tema della Bibbia, di Baudelaire, di Vigny, di Omero, di Virgilio, di Sofocle, di Saint-Sirnon e delle Mille e una not­ te, o vi allude segretamente, sembra così felice: li conser­ va nella fantasia, se ne impossessa e poi li trasforma e li varia in temi radicalmente diversi, come Fortuny trasfor­ mava il passato sulle spalle delle sue signore. Fortuny è l' orafo, l'imitatore, il rnanierista, sopratutto l'autore di variazioni, che vive nella Recherche mescolato a cento altri artisti. Proust non aveva forse detto che non poteva scri­ verla un artista solo? Lui, l'enorme ragno, aveva bisogno di un architetto, di un teologo, di un filosofo, di un ro­ manziere, di un attore, di un musicista, di un pittore, di un poeta, di uno scultore, di un critico letterario, di un decoratore, di un profumiere, e persino di un sarto, ai quali affidare ora questa ora quella parte. I suoi allievi eseguivano con diligenza i compiti che gli venivano im­ posti: Fortuny era, fra tutti, diligentissimo; mentre il Grande Architetto adunava nella mente ogni motivo, e 358

l'intrecciava insieme in un significato che forse continua a sfuggirei. Così le grandi dame e le ragazze indossano, sulla scena teatrale della Recherche, le vesti da camera e gli abiti e i mantelli di Fortuny. La prima è Oriane de Guermantes, che sorprendiamo in una veste da camera cupa, lanugino­ sa, striata d'avorio come un'ala di farfalla. Poi, è la volta di Albertine, con una veste da camera blu e oro, foderata di rosa Tiepolo: invasa da un' ornamentazione araba, simi­ le ai palazzi di Venezia dissimulati dietro un velo trafora­ to di pietre; e quel blu profondo, via via che lo sguardo avanza in lui, si cambia in un oro malleabile come l' azzur­ ro che, nel Canal Grande, diventa «metallo fiammeggian­ te» davanti alla gondola che s'avanza. Un particolare, su cui Proust torna più volte, ci colpisce: la veste da camera di Albertine porta intrecciati due uccelli accoppiati, che Fortuny aveva derivato dalla basilica di San Marco, dove, secondo La Prisonnière, essi bevono «alle urne di marmo e di diaspro dei capitelli bizantini». Il tema discende dalle Pietre di Venezia di Ruskin: Proust fonde la tradizione gre­ ca e quella cristiana, il «tutto deve ritornare)) stoico e la morte e resurrezione del Cristo. Ora il motivo della morte e resurrezione è quello centrale della Recherche: presente dovunque, nella memoria, nel sonno, nella metamorfosi, nel Septuor di Vinteuil. Quando le luci della memoria ri­ trovano il passato, nella Recherche tutto risorge: con la sola eccezione della giovane e fragile donna che indossa la ve­ ste da camera blu e oro e rosa, chiusa per sempre nella tomba della mente di Marcel, che le impedisce di rinasce­ re. Si capisce quale rilievo abbia dunque Fortuny coi suoi indaci, le cocciniglie e le uova putride e i Carpaccio, se proprio lui fa echeggiare con più chiarezza il motivo della morte e resurrezione. La seconda rivelazione, di significato molto più grande, viene a Marcel dal Septuor di Vinteuil, che è il simbolo di tutta la musica moderna, sebbene io creda che fra le in­ fluenze abbia primeggiato quella dell' opus 1 32 di Beetho359

ven, col movimento Heiliger Dankgesang eines Gegenesen­ den an die Gottheit. Per molti aspetti il Septuor non fa che raccogliere i motivi della Sonata, con la loro fortissima in­ tonazione platonica, gnostica e romantica. Come i grandi artisti, Vinteuil è cittadino di una patria sconosciuta: ha dimenticato la patria celeste, ma resta sempre inconscia­ mente in accordo con lei; e se canta secondo gli accenti della sua patria, delira di gioia. Con la propria musica, ri­ sale alle origini, quando il mondo non era ancora decadu­ to, e possedeva quella «comunicazione delle anime», quella conoscenza intuitiva e diretta dell'Essere, che re­ gnava nel paradiso terrestre, dove, secondo la Genesi, l'uomo era ancora indiviso, «maschio e femmina>>. Poi il mondo inventò la ragione e le parole, prendendo le strade del linguaggio parlato e scritto, del «linguaggio analizza­ to». Come ogni vera musica, quella di Vinteuil è il lin­ guaggio originario: qualcosa che si è perduto, che non ha avuto seguito, e sopravvive solo in lei. Tutte le frasi di Vinteuil, così simili fra loro, dimostrano che l'individuo esiste: l'individuo, che per tutta la vita Proust aveva ama­ to sopra ogni cosa, ricercandolo nelle cose e nelle persone: l'individuo che Marcel non riesce ad abbracciare; l'anima, che nemmeno la Recherche sa riprodurre nella sua singola­ rità e nel suo segreto, e ha «un'esistenza irriducibilmente individuale» . A che serve cercarla nella vita? Solo nell'ar­ te, dove non contano le int1uenze ma i ritorni, dove le so­ miglianze sono «dissimulate e involontarie», dove tutto è leitmotiv e intreccio, possiamo ritrovarla e ammirarla. La Sonata è bianca, femminile, adolescente: bardata d'argento, grondante di sonorità brillanti, leggere e dolci come sciarpe; un' alba liliale e campestre. Il Septuor è ros­ seggiante e scarlatto: rosso come il sangue e il trionfo; co­ mincia come una Genes i e finisce come un' Apoca lisse il li­ bro sca rla tto per definizione. All' inizio risuonano le prime righe della Genesi. C'è la vastità del mare, un «vuo­ to infinito», una «mattina di tempesta», un «acre silen­ zio»: poi il rosa dell'aurora, che si trasforma in un rosso ,

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che tinge tutto il cielo, come «una speranza misteriosa»; e un canto stridulo, che strazia l'aria e sembra «un mistico canto del gallo, un appello ineffabile ma acutissimo dell'eterno mattino». Non seguirò tutti i motivi e il loro intreccio. Seguirò la scomparsa della promessa dell'Aurora, cancellata dall'at­ mosfera fredda, lavata di pioggia del Principio; e, verso la fine, da una frase dolorosa, «così profonda, così vaga, così interna, quasi così organica e viscerale, che non si sapeva, a ciascuna delle sue riprese, se erano quelle di un tema o di una nevralgia». A differenza della Sonata, il Septuor co­ nosce la desolazione, il disastro, il sangue versato. Tutto è attraversato da una grandiosa, drammatica interrogazio­ ne, da un'immensa e affannata preghiera: le frasi interro­ gative diventano sempre più insistenti, più inquiete, le promesse più misteriose, ricordando l'acre promessa del rosso mattino. Nel finale il motivo doloroso e il canto del gallo si avvicinano: si affrontano, si combattono, l'uno scompare a favore dell'altro, mentre dal confronto emer­ gono solo frammenti; finché l'appello gioioso resta trion­ fante. Non è più l'appello quasi inquieto degli inizi, lan­ ciato dietro un cielo vuoto: ma «una gioia ineffabile che sembra venire dal paradiso»: una «gioia sopraterrestre»; un rosso che scatena tutte le possibilità di vittoria e di esaltazione. È il trionfo della felicità sul dolore, del rosso sul bianco, del bene sul peccato, del cielo sulla terra, della venerazione sulla profanazione, della resurrezione sulla morte. È la speranza del mattino, che l'umanità attendeva da millenni, finalmente realizzata nello spazio della musi­ ca, in tutto il giorno e in tutti i tempi. Questa pagina sublime, dove Proust ha realizzato la fu­ sione di tutte le arti in un disperato grido di trionfo, suscita mille domande, non meno inquiete della musica. Quale è, in primo luogo, la sua funzione nella Recherche? Con deci­ sione, Proust lega il Septuor al tema della memoria involon­ taria, cioè alla rivelazione finale. Certo, anche quella che ha luogo alla matinée dei Guermantes è una rivelazione: ma, 361

per quanto sia estatica e piena di luce, non possiede questo rilievo. La sua coscienza metafisica è meno acuta, perché nasce da sensazioni terrene, e non dalle voci della patria celeste. La sua vittoria è meno «scarlatta», meno trionfale e totale. Proust comprese che non poteva chiudere il libro, o racchiuderne la chiave, nel «mistico canto del gallo». Ave­ va bisogno di abbassare il tono, di scendere verso la terra: altrimenti la stridula e ineffabile freccia verticale non avrebbe dato alla Recherche le fondamenta di cui aveva bi­ sogno. Quanto a Marcel, questa volta capisce. La musica parla alla sua vocazione: è la stessa voce che aveva ascoltato ne­ gli appelli del ricordo, lo stesso sapore che gusterà portan­ do alle labbra una tazza di tè e una madeleine. Ora com­ prende che l'arte può salvarlo dalla vanità e dalla nullità della vita. Sarebbe bastato così poco: ascoltare la voce di Vinteuil, che gli annunciava la liberazione dalle sue colpe; o guardare a lungo le colombe di Fortuny, che gli annun­ ciavano anch'esse la morte e la resurrezione. Ma è ancora troppo presto. Come quella di Swann e del principe An­ drej, l'attenzione di Marcel è passeggera. Le due grandi ri­ velazioni si dissolvono. Marcel torna alla sua solita vita, nel dolcissimo e tremendo carcere diviso con Albertine.

Una mattina alle nove, mentre Marcel dorme, Albertine fugge dal suo carcere. Il dolore di Marcel è immenso. «Quelle parole: "Mademoiselle Albertine è partita" ave­ vano prodotto nel mio cuore una sofferenza tale che senti­ vo di non poter resistere più a lungo. Così avevo creduto che lei non fosse niente per me, ed era semplicemente tut­ ta la mia vita . » Marcel non potrebbe dichiarare più profondamente il proprio errore: non gli resta che cercar­ la, inseguirla, dirle il proprio amore, o rinunciare a lei. Ep­ pure, proprio in questo momento, si abbandona al pro­ prio delirio di onnipotenza, m ente a sé stesso, pensa di 362

poter cambiare la realtà con il calcolo, la menzogna, l'astuzia, la corruzione, il denaro. Davanti agli occhi ha un solo modello: Proust. Ripete tutte le azioni compiute dall'autore del suo libro, quando Agostinelli lo aveva la­ sciato: cerca di corrompere Albertine e sua zia con del de­ naro, uno yacht e una Rolls-Royce; forse Proust scrisse queste pagine o per parodiare amaramente sé stesso, o per espiare. Come sempre, Marcel crede che, per farsi amare, bisogna fingere di non amare: questo sistema gli aveva fatto conoscere soltanto disastri; eppure l'applica un'ultima volta, e scrive ad Albertine che non l'ama. Se una volta era stato Assuero e il sultano delle Mille e una notte, ora è soltanto Phèdre, furibonda d'amore e di gelo­ sia, che voleva morto Hippolyte. Pensa una cosa tremen­ da: «Ah! Se le fosse capitato [un incidente], la mia vita, in­ vece di essere avvelenata per sempre da questa gelosia incessante, avrebbe trovato subito, se non la felicità, alme­ no la calma attraverso la soppressione della sofferenza». Come Proust sapeva, i nostri desideri si realizzano sem­ pre: ma per nostra sventura. Albertine vorrebbe ritornare: la prigioniera liberata desidera di nuovo il suo amatissi­ mo carcere, il suo tenero e sinistro tiranno, il suo Assuero, la sua Phèdre. Troppo tardi: la morte la libera. Durante una passeggiata nella Touraine o lungo la Vivonne, il ca­ vallo la getta contro un albero: o, se vogliamo credere al Temps retrouvé, addirittura «nel fiume». Così il suo destino mitico si compie. Albertine, che è fatta d'acqua, muore nell'acqua, come Hippolyte trascinato e ucciso presso il mare dai cavalli spaventati dal mostro di Poseidone. Quando Albertine lo aveva lasciato, per Marcel tutti gli oggetti - la sua seggiola, la pianola, la camera, il letto vuo­ to, il rumore delle porte - erano imbevuti della sua assenza e del proprio dolore. Ora deve dimenticare le migliaia di Albertine, che aveva amato. La memoria, proprio l'inter­ mittence du ccrur, che gli aveva reso viva la nonna e che lo salverà alla fine della Recherche, lo tortura. Il raggio di sole che piomba sul suo letto è lo stesso raggio che cadeva sulla 363

chiesa di Bricqueville, vista insieme a lei: il sidro e le cilie­ gie, portate da Françoise, sono lo stesso sidro e le stesse ci­ liegie che un ragazzo aveva portato loro a Balbec. Tutto la ricorda: l'oscurità completa, un raggio di luna, la freschez­ za dell'alba, la lama sinistra, bianca, fredda e implacabile dell'alba. Cerca di non ricordare: ma come fuggire il potere terrificante della memoria, come chiudere gli occhi e gli orecchi? Se la memoria è l'orrore, dimenticare, cercare di dimenticare Albertine, come aveva dimenticato Gilberte e Oriane, è un castigo ancora più crudele. Il ricordo resta vivo. Malgrado e oltre la morte, rimane ardentissima la gelosia, per la quale Albertine non è mai morta, ma ancora viva, e continua a tradirlo, a Balbec e dovunque, con le adepte di Gomorra. Così il passato di Albertine - con tutti i sospetti, le gelosie, i tradimenti viene proiettato nel presente e nel futuro : è e sarà per sempre questo presente e questo futuro. Marcel manda Aimé, il maftre di Balbec, a cercare conferme o smentite. E Aimé lo informa che Albertine faceva l'amore, nello stabi­ limento balneare di Balbec, con alcune donne e alcune jeu­ nes filles; e che negli ultimi giorni di vita entrava nelle ac­ que della Loire insieme a una giovane lavandaia e alle sue giovani amiche. Aimé va a letto con la lavandaia, come Albertine, e conosce sul suo corpo ciò che Albertine aveva provato, e ciò che faceva provare alla ragazza. Finalmente la gelosia di Marcel possiede ciò che deside­ rava. Non ha più informazioni indirette, astratte e imma­ ginarie: dal suo carcere abbandonato di Parigi, Marcel ve­ de con terribile intensità allucinatoria (mai Proust ha scritto una pagina così atroce) la scena tra Aimé e la la­ vandaia, la scena originaria tra Albertine e la lavandaia. Il ricordo è intollerabile. Risuscitata dalla sua gelosia, Alber­ tine si irrigidisce tra le braccia della lavandaia, eccitata dal piacere, e le morde il braccio. Marcel aveva creduto che non possiamo mai condividere le sensazioni e i sentimen­ ti degli altri, i quali conservano sempre per noi il loro mi­ stero. Ora ha una conoscenza assoluta del corpo di Alber364

tine, diventa il suo corpo, irrigidito ed eccitato dal piacere, condivide le sue sensazioni, discende nel suo mistero e nella sua essenza. Per la prima volta Marcel conosce l'altro con una terribile intensità dolorosa. Allora diventare l'al­ tro, ciò che è sempre stato il sogno più acuto di Proust, è l'inferno. «Tutte queste immagini . . . la mia sofferenza le aveva subito alterate nella loro stessa materia, non le ve­ devo alla luce che illumina gli spettacoli della terra, era il frammento di un altro mondo, di un pianeta sconosciuto e maledetto, una visione dell'inferno.» Ora Marcel capisce di aver amato Albertine. Aveva co­ nosciuto con lei l'amore assoluto: l'amore impossibile che gli uomini cercano invano, fondendo la tenerezza coniu­ gale e il piacere dei sensi. Albertine era stata per lui figlia, sorella, madre, amante: era stata la sua vita, il suo univer­ so; e ora che lei è morta, anche lui si sente morire. Lungo tutta la propria esistenza Marcel aveva creduto soltanto nelle illusioni e nei piaceri dell'immaginazione: la realtà lo deludeva: mentre con Albertine la realtà gli aveva of­ ferto qualcosa di molto superiore all'immaginazione, rea­ lizzando l'archetipo della sua infanzia, quei baci dati e ne­ gati dalla madre a Combray, che erano continuati nei baci della sera, nella lingua che la giovane prigioniera gli insi­ nuava nella bocca «come un viatico» e come «un'ostia» . Così, a poco a poco, s i convince d i averla uccisa. Sognan­ do di vivere con lei, in quella disperata mattina a Balbec, quando il sole fiammeggiante si alzava in un gesto da of­ fertorio, aveva pensato di espiare il matricidio: la morte della nonna. Non aveva espiato nulla: non aveva compiu­ to nessun sacrificio. Aveva commesso soltanto un «dop­ pio assassinio», uccidendo prima la nonna e poi Alberti­ ne: la sua vita era sporcata da una macchia «che solo la viltà del mondo poteva perdonargli». Poi, su questo grande amore, che condivide la passione, la forza erotica, la cecità, le miserie, le meschinità, le illusio­ ni, gli errori di ogni amore umano, scende l'oblio. Le prime avvisaglie terrorizzano Marcel. La calma che sente in sé è 365

«la prima apparizione di quella grande forza intermittente, che comincia a lottare in lui contro il dolore, contro l'amo­ re, e finirebbe per averne ragione»; e il suo amore ancora vivo freme, come un leone che sta per essere divorato da un pitone. Presto non ama più Albertine. Scompaiono ri­ cordi e dolori. Sente in sé un immenso vuoto, come un uo­ mo nel quale un'arteria cerebrale si è rotta, e una parte del­ la memoria è paralizzata. Quando va a Venezia con la madre - quella Venezia che Albertine anticipava nei suoi vestiti -, Albertine vive ancora in lui: ma chiusa, murata nei suoi Piombi interiori, lontana, inaccessibile nelle profondità estreme, sepolta per sempre nel suo inconscio. E Marcel non discende laggiù - come una prima volta Proust aveva pensato - per raggiungerla e liberarla. Sempre a Venezia, una falsa notizia gli comunica che Albertine è viva: ma la notizia non gli dà gioia. Non solo Albertine è morta dentro di lui, ma è morto in lui l'io che l'aveva amata e imprigionata in un carcere vivente. Come i mostri mitici, l'oblio ha divorato il suo amore. Quando Marcel vede un quadro del Carpaccio, Il Patriarca di Grado che esorcizza un indemoniato, riconosce nel mantello di una delle figure lo stesso mantello «blu scuro», che Fortuny aveva preparato per Albertine e che lei aveva indossato a Versailles, la sera prima di abbandonarlo. Viene assalito da un fugace sentimento di desiderio e di malinconia. Il mantello «blu scuro» si adattava alla notte, a Versailles, al­ la prossima morte di Albertine. Non era la veste da came­ ra con i due uccelli accoppiati, che bevevano nelle «urne di marmo e di diaspro dei capitelli bizantini», e che signi­ ficavano morte e resurrezione. Albertine non sarebbe mai risorta. L'oblio è un mostro. Nessuno scrittore si è mai ribellato più di Proust contro la crudeltà dell'oblio, che divora le persone che abbiamo amato e i ricordi che abbiamo di loro. E nessuno ha compreso meglio di lui la sua forza benefica, che permette la salvezza della memoria involontaria e la continuità e le metamorfosi della vita. Per Albertine non ci 366

sono più uccelli accoppiati. Marcel non pensa più a lei: se ritorna per caso, il suo nome non suscita né dolore né rim­ pianti: tutto è morto; e solo una volta, durante la guerra, la prosa della Recherche si intiepidisce di nostalgia, al ricordo dei cari «vestiti grigi» e degli «occhi sorridenti» . Per Mar­ cel, anche lui chiuso nei suoi «Piombi», non c'è alcuna espiazione. Il peccato resta, inespiabile; e nemmeno la libe­ razione dell'arte lo assolve dal suo doppio assassinio.

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IX

Il temp o ritrovato

Verso la fine di Albertine disparue, il mondo di Marcel va in frantumi, e tutta la Recherche sembra precipitare nella ro­ vina. Marcel è a Venezia, sulla terrazza dell'albergo, men­ tre qualcuno canta Sole mio: non vuole tornare a Parigi con la madre; e di colpo quella Venezia tanto amata - San Marco, il Palazzo Ducale, il Canal Grande, la madre alla finestra dell' albergo, l' angelo d'oro fiammeggiante del campanile, che annuncia agli uomini un'eterna promessa di gioia - gli riesce infinitamente straniera, lontana, irrea­ le. La città, che ha davanti a sé, non è più Venezia. Il suo nome gli sembra una finzione bugiarda, che non può in­ culcare alle cose. Gli splendidi palazzi di marmo sono pu­ re pietre: l'acqua blu e oro del Canale è una combinazione di idrogeno e di azoto, «eterna, cieca, anteriore ed esterio­ re a Venezia, ignorante dei Dogi e di TurneP>; il ponte di Rialto, con la sua bellissima curva, non è più Rialto, come un attore malgrado la parrucca bionda e l'abito nero, non è Amleto. Il canto di Sole mio lo colpisce nel cuore, procla­ mando la sua disperazione: il Canal Grande è divenuto un fiumiciattolo, dopo che l'anima della città ne è fuggita; e tutta Venezia precipita in rovina, mentre il sole si ferma in cielo dietro San Giorgio Maggiore. Venezia è morta. Marcel ha conosciuto un'improvvisa crisi di nervi: un as­ salto non saprei dire se di depressione o di schizofrenia. Poco dopo anche Combray sembra morire per sempre. Dopo migliaia di pagine e tanti anni, Marcel entra a Tan368

sonville, la casa di Swann, invitato da Gilberte: penetra nel luogo che aveva tanto sognato nell'infanzia, il giardi­ no dove aveva visto la bambina dai capelli rossi, con gli occhi neri brillanti, che avrebbe voluto toccare, catturare e portare via con sé: tutto si è realizzato; ma tutto è vano, perché ora Gilberte non l'ama e lui non ama Gilberte. Quando scende la notte, ripete insieme a Gilberte le pas­ seggiate che faceva da bambino: talvolta si avanza da so­ lo, lasciando la sua ombra dietro di sé, come una barca che attraversa spazi incantati. Ma non gli importa più nul­ la di Combray: non nasce mai, in lui, «l'immediata, deli­ ziosa e totale deflagrazione del ricordo»; e pensa che la sua «immaginazione» e la sua sensibilità siano indebolite. Rispetto all'infanzia, quando era fonte di miti e di fanta­ sie, Combray è ormai completamente smitizzata. Una vol­ ta le sconosciute «fonti della Vivonne» erano per lui qual­ cosa di così extraterrestre come l'entrata degli Inferi; e, portate davanti allo sguardo, sono soltanto una specie di lavatoio quadrato, dove qualche bolla sale alla superficie. E poi Combray, luogo dell'Eden, della madre, della non­ na, della vecchia Francia aristocratico-popolare, della na­ turalezza e dell'eleganza, viene profanata: o secerne cor­ ruzione. Qualche tempo dopo il soggiorno a Tansonville, Marcel viene ricoverato in una casa di cura: nel 1 9 1 6 entra in una nuova casa di cura, dalla quale uscirà non guarito molti anni più tardi, dopo la fine della prima guerra mondiale. Nella Recherche ci sono molte omissioni: questa, forse, è la più grande; un immenso spazio bianco, come Proust ave­ va amato nell' É ducation sen timentale. Il Narratore non spiega perché Marcel abbia deciso di rinchiudersi in clini­ ca, né racconta nessuna delle sue sensazioni: tempo aboli­ to. Sappiamo soltanto che vi è rimasto quasi vent'anni: un periodo lunghissimo, più adatto a una vera e propria fol­ lia che a una semplice nevrosi, come quella che aveva por­ tato Proust nella clinica del dottor Sollier, a Boulogne-sur­ Seine. Se il Narratore tace, noi lettori possiamo avanzare 369

qualche ipotesi: la morte della nonna e di Albertine, il sen­ so acutissimo di colpa, l'orrore del doppio assassinio, l'estraneità alle cose, la disgregazione e la rovina della realtà, che aveva conosciuto a Venezia - tutti questi senti­ menti portano Marcel verso la follia. Come sembra, egli la costeggia, senza affondarvi mai completamente. La rovina si distende, si allarga, si amplia. Scoppia la guerra. Il fuoco e lo zolfo che avevano distrutto le «città della pianura » e Pompei stanno per distruggere Parigi: Parigi è la nuova Sodoma-Gomorra, dove si svolgono em­ pi riti segreti; e su tutto l'Occidente colpevole scende l'ombra apocalittica della fine. La guerra distrugge il me­ raviglioso impasto di castelli, di chiese, di paesaggi, di uo­ mini, di chansons de geste, di umile fede, che era stata la Francia. E fra tutti, l'Eden profanato: Combray. La chiesa, divenuta osservatorio tedesco, viene abbattuta. La batta­ glia di Méséglise dura otto mesi, uccidendo seicentomila Tedeschi. Sulla strada dei biancospini, dove Marcel si era innamorato di Gilberte, muoiono i soldati. Il campo di grano diventa la quota 307, di cui parlano i comunicati di guerra. E il ponte sulla Vivonne - la Vivonne, col suo pe­ scatore ignoto, i prati di fiori gialli, che forse erano venuti dall'Asia, le caraffe dai fianchi trasparenti di acqua indu­ rita dove i ragazzi prendevano i piccoli pesci, i giardini di ninfee bianche e scarlatte che davano all'acqua un fondo ora verde scuro ora blu chiaro «giapponese)) e dove si ri­ fletteva la felicità silenziosa del cielo pomeridiano e il rosa e la reverie del tramonto, come se fiorissero in pieno cielo ­ il piccolo ponte sulla Vivonne viene abbattuto. Mentre tutto cade in frantumi, la Recherche è dominata da un movimento opposto: la ricerca dell'Uno. All'inizio i due sessi erano opposti: c'era l'uomo e la donna; ora for­ mano una sola figura, un uomo-donna bisessuale, come nella prima creazione della Genesi quando, secondo le speculazioni cabalistiche, Dio formò l'androgino. All'ini­ zio, lo spazio era nettamente diviso in due: di qui Guer­ mantes, di là Méséglise, inconciliabili come l'Oriente e 370

l'Occidente; nel soggiorno a Tansonville, Marcel appren­ de che la passeggiata più bella per raggiungere Guer­ mantes è quella che passa da Méséglise. All'inizio, la so­ cietà francese riposava su nette posizioni sociali: una per­ sona educata a Combray sapeva che aristocrazia, borghe­ sia, contadini, artisti, cocottes formavano delle caste chiu­ se, che non avevano rapporti tra loro. Alla fine di Alberti­ ne disparue e nel Temps retrouvé, Proust progetta una serie di colpi di teatro romanzeschi, alliances et mésalliances che sarebbero piaciuti a Balzac: Gilberte Swann, figlia di un ebreo e di una cocotte, sposa Robert de Saint-Loup, un Guermantes: la nipote di Jupien, di razza artigiana, giun­ ge per le vie del vizio a sposare un Cambremer, nobile di campagna: Madame Verdurin, con il suo equivoco salotto di artisti, sposa il principe de Guermantes; Odette, la vec­ chia cocotte, diventa l'amante adorata e incarcerata dal duca de Guermantes. Tutti questi matrimoni e queste combinazioni ricordano certo la mescolanza delle classi, e la degradazione dell' aristocrazia, che l'occhio vigile di Proust constatava, specie negli anni dopo la guerra mon­ diale. Ma significano anche che il tessuto sociale della Re­ cherche, all'inizio infinitamente frammentato e suddiviso, si raccoglie e si concentra, secondo quella reductio ad unum che è il significato metafisica del libro. Questo processo diventa visibile alla matinée dei Guer­ mantes, quando Marcel incontra la figlia di Robert de Saint-Loup e di Gilberte Swann. Cominciando la Recher­ che, Proust aveva disposto sulla carta infiniti fili narrativi, e ora tutti questi fili si intrecciano tra loro, formano un tes­ suto, riunendosi nella figura di Mademoiselle de Saint­ Loup, dove si raccoglie, attraverso un gioco di verticali e di trasversali, il c6té de Guermantes e quello de Méséglise, la figura di Swann, le sere di Combray, i giochi con Gilberte agli Champs- É lysées, i pomeriggi di mare a Balbec con Saint-Loup, il sogno della chiesa persiana, Oriane de Guermantes, Odette, il prozio, Morel, la passione di Saint371

Loup per Morel, la musica di Vinteuil, i Verdurin, Alberti­ ne; e molti altri fili ancora. Così tutta la Recherche si concentra in un punto: perché la vita «tesse senza fine dei fili tra gli esseri e gli avvenimenti, li incrocia, li raddoppia per ispessire la trama, in modo che tra il più infimo punto del nostro passato e tutti gli altri», si forma una ricchissima rete di ricordi - e tutto ciò non è al­ tro che «il bel velluto inimitabile degli anni» (il fondu tanto amato da Proust) . Inoltre, se il testo del Temps retrouvé è af­ fidabile, c'è un'identificazione definitiva: tra Marcel, il per­ sonaggio dubbioso, passivo e perplesso, e Proust, il grande ragno che ha tessuto sovranamente la tela. Mi chiedo se tutta la Recherche non sia contenuta in due frasi di Emer­ son, che aveva affascinato la giovane «colomba pugnala­ ta» : «La natura è una combinazione infinita e una perpetua ripetizione di qualche legge. Con innumerevoli variazioni, essa canta la vecchia aria così comune» . « È poeta chi di­ scernerà l'essenza u na della natura sotto la veste ondeg­ giante degli avvenimenti, e saprà rivelarla: egli riuscirà ad attirarci a sé con l'amore e il terrore. »

Prima di incontrare Mademoiselle de Saint-Loup, Mar­ cel aveva conosciuto la rivelazione. Essa era stata, a sua volta, preceduta dall' angoscia del fallimento e della per­ dizione. Quante volte Marcel aveva conosciuto l' impoten­ za: da ragazzo, sulla strada di Guermantes aveva sentito che non riusciva a cogliere i segreti nascosti dietro le su­ perfici dei biancospini; a Tansonville gli era sembrato che la sua immaginazione e la sua sensibilità fossero indeboli­ te, che i suoi ricordi fossero morti. Ora la sua condizione è più tragica. Il treno che lo riporta a Parigi si ferma in aper­ ta campagna: il sole illumina la linea d'alberi e i piccoli fiori della scarpata: vorrebbe scrivere; ma la sua sensibi­ lità naturale è inaridita. Non ha più l'entusiasmo, che è il primo segno del talento. Vede le cose con freddezza e 372

noia, con una «lucidità sterile», «con un occhio minuzioso e tetro». «Alberi, pensai, non avete più niente da dirmi, il mio cuore gelato non vi sente più.» Poco dopo, a Parigi, cerca invano di ricordare Venezia: ma gli sembra di visita­ re una noiosa esposizione di fotografie. La sua esistenza è perduta: non ha talento per la lettura, né per la vita; ha battuto a tutte le porte, ma tutte le porte erano chiuse, o lo conducevano nel vuoto. Come la storia del mondo era precipitata nel bordello di Jupien, nel fuoco e nello zolfo di una nuova Gomorra, così la vita di Marcel è piombata nell'abisso. In questo preciso momento, tutto si capovolge. La mor­ te diventa resurrezione, la fine inizio, il disastro gloria. La porta - che, come nelle favole, attendeva Marcel da sem­ pre, e attendeva soltanto lui - si apre di colpo, senza che egli la veda e la spinga. Nei passaggi più ardui della Recherche, Proust amava ri­ correre a delle immagini bibliche, che gli servivano come eco, approfondimento e sfondo; e qui egli ha consciamen­ te o inconsciamente nella memoria un grande sistema me­ taforico, che i primi cristiani desunsero dalle Scritture. I Salmi avevano detto: «La pietra scartata dai costruttori di case è diventata la pietra angolare» (118, 22), mentre Isaia aveva ricordato che Jahve Sabaoth «sarà occasione di ro­ vina, e pietra di inciampo e pietra di scandalo alle case di Israele» (8, 14) . I Vangeli, gli Atti, Paolo e Pietro scorsero in questa immagine l'annuncio di Cristo: la incisero e la intarsiarono nella loro prosa come uno stemma di luce; e costruirono la teologia del Cristo-pietra. Cristo era sia la «pietra di scarto», rifiutata da Israele: sia la «pietra d'in­ ciampo», contro la quale si urta e si cade, e si distingue chi è salvo e chi è condannato: sia la «pietra di scandalo» per chi aspira alla pura giustizia della legge; sia infine, la «pietra angolare» nella costruzione della Chiesa e del nuovo universo (Matteo 21, 42: Marco 1 2, 1 0: Luca 20, 1 7: Atti 4,11-2: Epistola ai Romani 9, 33: Prima epistola a Pietro 2, 6) . Probabilmente la memoria delle antiche letture bibli373

che raffiorò nella mente di Proust e trasformò Marcel in una specie di controfigura di Cristo. Anche Marcel, in questo momento, è una «pietra di scarto)): chi più misera­ bile e fallito di lui? Tra poco egli «inciamperà)) contro i pavés male squadrati del cortile dell'Hotel Guermantes. E, sebbene sia una «pietra di scarto)), le rivelazioni che egli avrà subito dopo formano la «pietra angolare)) - la «pietra a tutta prova, . . . preziosa, come solidissimo fondamento)), diceva Isaia (28, 1 6) - dell'intera cattedrale della Recherche. Come sempre, Marcel è vicinissimo e lontanissimo dal­ le esperienze di Proust. Da un lato, la rivelazione che egli sta per ricevere è la stessa che Proust aveva avuto anni prima, al tempo del Con tre Sainte-Beuve, con le medesime immagini e le medesime parole. Ma, d'altra parte, nessu­ no è più lontano dal suo percorso. Proust aveva conqui­ stato la sua rivelazione memoriale durante quattordici an­ ni: aveva studiato drammaticamente alcune immagini, le aveva vagliate e unificate, indagando il loro senso riposto, e scoprendo quale era il senso metafisica dell'analogia. Marcel assomiglia a Wilhelm Meister, il quale, alla fine dei Lehrjahre, contempla lo spettacolo della propria vita, e i suoi occhi si soffermano spaventati sopra una selva di er­ rori e di traviamenti, simili a quelli di un bambino incapa­ ce di crescere. Le sue esperienze gli sembrano un inutile groviglio di gesti, di parole, di azioni, di passi. La sua esi­ stenza gli pare un solo imperdonabile errore: qualcosa da rinnegare e buttar via con un gesto. Così Marcel non ha al­ cun merito: la sua vita non è venuta crescendo e progre­ dendo verso l'alto come un albero o una scalinata: non ha approfondito la sua esperienza memoriale; e anche se ha raccolto moltissimi tesori e indizi, ignora di portarli nella mente e non ne comprende il significato. Sia negli Anni di apprendistato sia nella Recherche, la conclusione è identica. Il destino interpreta la vita e il cuore di Wilhelm: egli non ottiene Natalie in premio per le sue azioni, che fino all'ultimo istante restano sbagliate e confuse; Friedrich, il burlesco inviato del destino, gli 374

concede in dono la mano di Natalie, come una «grazia», come una «felicità immeritata», come «un celeste frutto d'oro», lungamente e saggiamente preparato dalle pru­ denti e amorevoli mani degli dèi. Anche la rivelazione di Marcel è un dono: non importa parlare di grazia o di ca­ so, perché nel mondo moderno la grazia prende l'aspetto e il nome del caso. Marcel non è libero di scegliere le sue sensazioni: le ha ricevute tali e quali. «E sentivo che que­ sta era l'impronta della loro autenticità. Non ero andato a cercare i due pavés ineguali del cortile, dove avevo in­ ciampato. Ma appunto la maniera fortuita, inevitabile, con cui la sensazione era stata incontrata, controllava la verità del passato che essa resuscitava, la verità delle im­ magini che metteva in movimento, giacché sentivo il suo sforzo per risalire verso la luce e la gioia del reale ritro­ vato.» Come nelle Mille e una notte, gli dèi o i demoni sono all'opera, e moltiplicano i segni provvidenziali. Eccoli an­ cora una volta, e per l'ultima volta, questi segni, che per­ corrono la Recherche, come un leitmotiv ora nascosto ora trionfale. Marcel inciampa contro le pietre squadrate del cortile, e di colpo risorge Venezia: quando il cucchiaino ri­ suona contro i piatti, risorge la linea d'alberi illuminata dal sole; il tovagliolo con cui Marcel si asciuga la bocca, fa risorgere il piumaggio verde e blu dell'oceano a Balbec. Il momento presente si identifica col passato. Esplode la lu­ ce, sia a Venezia, sia sugli alberi, sia sul mare di Balbec. Il tempo allo stato puro viene isolato: il volume dell'oggetto recuperato; l' eterno raggiunto. Siamo entrati nel regno dell'analogia, dove l'unica legge è l'Uno. Siamo entrati anche, come aveva insegnato tanti anni prima il « rosseggiante» Septuor di Vinteuil, - nel regno della Gioia. Ora Marcel non teme più la vita. Non teme più la morte. Conosce un «appetito di vivere», un entusia­ smo, conquistato sulle rovine e i frantumi della tragedia, come aveva appena conosciuto (molto più fragile) nella giovinezza. All'improvviso, la sua condizione passata si 375

rovescia. Fino a un momento prima, aveva vissuto un'esi­ stenza insensata e frammentaria: non aveva capito né la Berma né il mare di Balbec né i Guermantes né l'amore di Albertine. Ora questa esistenza, illuminata retrospettiva­ mente dalla voce della memoria, diventa una vocazione: cioè una vita in cui si manifesta il destino, dove ogni cosa è destino. Tutto, ora, acquista un senso. Tutto ciò che Mar­ cel aveva visto, udito, odorato, amato, compreso o frainte­ so, mira a costruire un libro, come l'albume disposto nell'ovulo delle piante lo trasforma in grano. Quando scrisse Anna Karenina, la prima rivelazione di Tolstoj fu narrativa. Mentre lottava con la sonnolenza, contemplò il nudo gomito di un elegante braccio aristo­ cratico, poi la spalla, il collo e infine tutta la figura di una bella donna che fissava su di lui gli occhi tristi imploran­ do - e l'immagine diventò Anna Karenina. La rivelazione di Proust (ai tempi del Contre Sainte-Beuve) e di Marcel fu teorica e architettonica: tre analogie, che dovevano diven­ tare la giustificazione e la «pietra angolare» di un libro. Tutto lo spazio era vuoto: la cattedrale, con le navate, le colonne, l'abside, il matroneo, la cupola e il campanile, doveva essere ancora immaginata. Ma, sebbene apparen­ temente coincidano, il libro di Marcel e quello di Proust sono profondamente diversi. Marcel racconta una «voca­ zione», cioè la storia della sua vita, o per usare il termine della critica letteraria, le sue Memorie. Proust scrive un'opera di immaginazione, che prende spunto da alcuni episodi della sua vita, e li trasforma in un genere senza nome. Nella prefazione al Mondo come volontà e rappresentazio­ ne, Schopenhauer aveva scritto: «Per chi voglia penetrare a fondo il pensiero qui esposto, non resta che leggere questo libro due volte; e in verità la prima volta con una buona dose di pazienza che potrà attingersi soltanto dalla spontanea fiducia che il principio del libro presupponga la fine, quasi altrettanto come la fine il principio, e che ogni parte che sta innanzi presupponga quella che segue, 376

quasi altrettanto come quest' ultima la precedente » . Proust realizzò il sogno d i Schopenhauer: il libro circola­ re. Siamo arrivati qui, verso la fine del Temps retrouvé: ab­ biamo letto migliaia d i pagine, senza comprendere i segni, i cenni, gli avvertimenti, le rivelazioni incompiute, le illuminazioni in ombra: interi episodi ricevono soltanto ora il loro significato: non avevamo compreso nemmeno le pagine iniziali; e ora dobbiamo tornare indietro, com­ pitare Longtemps, je me suis couché de bonne heure, e poi ri­ leggere tutto il libro, mentre Marcel comincia a scrivere il suo. Solo la seconda (la terza, la quarta, la decima) lettura è, come diceva Schopenhauer, quella giusta, poiché solo allora potremo avere fermi nella mente, come in un im­ menso zodiaco, le migliaia di punti e di motivi che stan­ no in rapporto fra loro. À la recherche du temps perdu è un libro che si proietta verso il proprio futuro, e di lì torna indietro, come il serpente Ouroboros che si mangia la coda. Un cerchio non è forse la sola forma che possa assu­ mere l'Uno?

Sulla soglia della grande rappresentazione barocca della vecchiaia e del tempo, che conclude la Recherche, stanno due figure mitiche, re Lear ed Edipo. È il caso di ricordarle, perché Proust le intreccia nella sua prosa. Re Lear, accompagnato dal buffone, vaga nella brughiera: «Si strappa i bianchi capelli, che i venti impetuosi nella loro collera senz' occhi afferrano di furia e disperdono»; e «contende con il furore degli elementi: ordina al vento di soffiare la terra nel mare, o di incurvare le acque crestate al di sopra della terra, così che ogni cosa muti o muoia». Vecchio, vagabondo, cieco, coperto di stracci, senza più patria, coi capelli in disordine che ondeggiano al vento, Edipo entra nel bosco proibito delle Eumenidi. Poco dopo il coro intona il canto della vita e della vecchiaia: 377

«Non nascere, è la cosa migliore fra tutte: oppure, appena giunti alla luce, ritornare al più presto nel luogo da dove si è venuti, questa è di gran lunga la seconda cosa [da preferire. · · · · · · · · · · · · · · · · ···· · · · · · · · · · · · · ·· ······· · ··· · · ··· ··· · · · · ··· · · · ·

Morti, dissensi, discordia, battaglie e invidia; e poi, come ultima sorte l' esecrabile, l' impotente, l' insocievole, l'ostile vecchiaia, dove vivono insieme tutti i peggiori fra i mali. Anche costui in questo è sventurato, non io solo, come un promontorio volto verso il Nord, da tutte le parti battuto e sconvolto dalle onde invernali: anche lui, come ondate irrompenti sulle rocce, terribili sciagure non lo abbandonano mai, lo sconvolgono sempre e lo assalgono...»

(Edipo a Colono 1 224 sgg. )

Charlus è re Lear, e Jupien il suo buffone e la sua Corde­ lia. Il cappello di paglia lascia vedere una foresta indomata di capelli interamente bianchi; e la sua b�rba bianca lo fa sembrare una delle statue di fiume che si incontrano nei giardini, tutta coperta di neve. Ma, al tempo stesso, è come se in lui fosse avvenuta un'alterazione metallurgica: i ciuffi dei capelli e della barba sono dei geysers d'argento, che hanno reso visibile il metallo di cui erano saturati; mentre gli occhi, per un processo contrario, hanno perduto il loro splendore. Pochi mesi prima, Charlus ha subito un colpo apoplettico: i suoi movimenti sono scoordinati: il viso è in parte paralizzato; e la voce è divenuta un pianissimo im­ percettibile di parole sussurrate, sullo sfondo del quale si sente come un rotolio di ciottoli. Insieme allo splendore de­ gli occhi, ha perduto la sua fierezza, la sua intollerabile alte­ rigia, il suo furore. Quando passa Madame de Saint-Euver­ te - che molti anni prima aveva crudelmente e volgarmente insultato -, si toglie il cappello, si inchina con zelo, umiltà, 378

timidezza, come davanti a una regina di Francia. Charlus era stato un grande della terra: ora questo gesto proclama la vanità di tutte le grandezze, con più eloquenza che il coro di Sofocle nell' Edipo re e l' Orazione funebre che Bossuet dedicò a Enrichetta di Inghilterra. Ma Charlus non ha perduto la sua grazia. Sopratutto non ha perduto il suo ruolo fonda­ mentale - di signore del tempo, di tenebroso annunciatore deli a fine di ogni cosa umana. «Con una durezza quasi trionfale ripeteva con un tono uniforme, appena balbuzien­ te e dalle sorde tisonanze sepolcrali: "Hannibal de Bréauté, morto! Antoine de Mouchy, morto! Charles Swann, morto! Adalbert de Montmorency morto! Boson de Talleyrand morto! Sosthène de Doudeauville, morto!" . Ogni volta, questa parola "morto" sembrava cadere su quei defunti co­ me una palata di terra più pesante, lanciata da un becchino, che cercava di ribadirli più profondamente alla tomba. » Come u n vecchio, elegante cerimoniere, Charlus ci in­ troduce alla sinistra e grandiosa festa del Tempo. Appena Marcel entra nel salotto dei principi de Guermantes, av­ viene uno dei colpi di scena romanzeschi della Recherche. Da molti anni Marcel non era andato in società, e non ri­ conosce nessuno. Insieme a lui, crediamo di essere andati a teatro: questo è un ballo mascherato, o una di quelle po­ chades che Proust adorava, e che anche qui suscitano in lui un divertimento inesauribile. Tutti si sono travestiti, come dei Fregoli meno dotati. Qualcuno si è agghindato con una barba bianca, e si è attaccato ai piedi delle suole di piombo, che lo costringono a trascinare le scarpe: qual­ cuno si è coperto il viso di rughe e ha indossato delle so­ pracciglia di peli ispidi: qualcuno, una volta solenne e ri­ gidissimo, si è travestito da vecchio mendicante, con le membra tremanti, e un sorriso di sciocca beatitudine sul viso: qualcuno si è attaccato sulle guance delle enormi borse rosse, che gli impediscono di aprire la bocca e gli occhi: qualcuno sembra un diciottenne avvizzito; qualcu­ no ha una voce da fonografo, che non si adatta al suo corpo. Come accade nelle fantasmagorie, non possiamo 379

essere certi di assistere a una prima di Labiche. Perché, a volte, i convitati sembrano degli insetti, o dei pesci e delle rane; e tutto ci lascia credere che siamo entrati in un Museo di storia naturale. Oppure l'ipotesi è più terrifi­ cante. I convitati sono stati pietrificati da una mano mi­ steriosa; e dall'inizio della loro pietrificazione sono passa­ te delle intere ere geologiche, tanto che qui possiamo os­ servare delle erosioni lungo il naso e lì delle alluvioni sui bordi delle guance. Mentre nella biblioteca dei Guermantes Marcel aveva gustato una goccia di eterno, nel salone, dove gli invitati mascherati giungono da tutte le epoche, conosce la secon­ da rivelazione della giornata: il Tempo nel suo processo e nella sua prospettiva. Tutti conosciamo il Tempo: tutti ci viviamo immersi e sentiamo il lento fruscio che l' accom­ pagna e ci avvolge, mentre penetriamo dentro di lui: gli scrittori lo imprigionano nei loro libri - Stevenson resti­ tuisce la sua leggerezza veloce, Flaubert la sua continuità monotona, Hardy il suo faticoso spessore, Proust la melo­ dia vellutata e fondue che suona, inavvertibile, dietro lo scorrere degli eventi. Ma qui, in questa scena, Proust vo­ leva rendere il tempo visibile: voleva esteriorizzare il tempo; come nella chiesa di Combray, dove lentamente discendiamo nelle profondità delle epoche storiche. Era, certo, un'impresa impossibile. Come si fa a scor­ gere quel fluido impalpabile che ci avvolge? Marcel so­ vrappone alla sua memoria degli invitati la loro presenza attuale, coi visi e i corpi mascherati: sovrappone due im­ magini, così da spazializzare il tempo, rappresentando davanti ai nostri occhi una vue optique, dove gli anni ap­ paiono in prospettiva. Se la leggerezza di Stevenson e la monotonia di Flaubert non avevano potuto esteriorizzare il tempo, questi vecchi grotteschi, queste goffe marionet­ te ci danno finalmente l' impressione che il tempo reale sia visibile. Così, davanti agli occhi di Marcel, gli invitati crescono in statura. Non hanno più la lunghezza del loro corpo ma dei loro anni; ed eccoli, spettacolo grandioso e 380

grottesco, camminare vacillando appollaiati in cima a dei «trampoli viventi, che crescono senza fine, e talvolta so­ no più alti di campanili, toccano quasi il cielo, e rendono il loro cammino difficile e pericoloso. Poi, all'improvviso, cadono dai loro trampoli nella tomba» . Tra questi invitati o attori travestiti, il più sublime è il duca de Guermantes, che una volta era stato lo Zeus del­ la Recherche. Tutto cambia, crolla, precipita, si degrada, rovina, come annuncia l'alto lamento barocco intonato da Proust in lingua barocca. «Così cambia la figura delle co­ se di questo mondo; così il centro degli imperi, e ii catasto delle fortune, e la carta delle situazioni, tutto quello che sembrava definitivo è perpetuamente rimaneggiato, e gli occhi di un uomo che ha vissuto possono contemplare il cambiamento più completo appunto dove gli sembrava più impossibile. » Il duca, cuore dell'aristocrazia francese, tiene sequestrata Odette, come Marcel aveva sequestrato Albertine. Il suo ritratto viene dipinto da un fantastico pittore della vecchiaia e della morte, da un sinistro Rem­ brandt, che dispone di una tavolozza di «grigi piombo», di «grigi quasi bianchi» e di luci appena visibili; e usa violente pennellate successive, a strati, a grumi, creando un'impressione straordinaria di spessore e di volume. Sullo sfondo risuona il coro dell'Edipo a Colono, che la­ menta «la vecchiaia esecrabile, l'impotente, l'insocievole vecchiaia». Il duca de Guermantes è una visione romanti­ ca: una roccia nella tempesta, sferzata da ogni parte dalle onde della sofferenza, della collera e della morte; un pro­ montorio sconvolto da raffiche tragiche, schiaffeggiato dalla schiuma della sua magnifica capigliatura bianca. È una statua antica, sgretolata e rosicchiata dal tempo. È il re decaduto di una tragedia greca. È Edipo vagabondo divenuto supplice, che ha bisogno di asciugarsi la fronte, barcolla tentando con gli occhi un gradino che sfugge al piede, e cerca un appoggio, implorandolo dolcemente e timidamente. È un leone incatenato nel giardino zoologi­ co, che crede di essere libero nei deserti dell'Africa. Ma è 381

anche - e qui il tragico Rembrandt della vecchiaia diven­ ta un farsesco Molière - un ridicolo Geronte, beffato dai giovani nel Médecin malgré lui e nelle Fourberies de Scapin. Siamo sulle soglie della morte, che il duca de Guerman­ tes, montato sulle sue gambe tremanti e sui trampoli va­ cillanti, sta per varcare. Qualche volta ci chiediamo se non siamo già di là, nel regno della morte, dove Proust ci ha portato senza avvertirci. Ecco, come in un Trionfo medie­ vale, delle donne quasi paralizzate, curve, con la testa bassa e le mani incerte, che non riescono a liberare com­ pletamente il vestito rimasto agganciato alle pietre della tomba; e qualcuno con le palpebre sigillate dei moribondi, e le labbra, agitate da un tremito perpetuo, che sembrano borbottare le preghiere degli agonizzanti. Ecco Odette, che ha la voce, lo strano, triste, supplichevole squittio dei morti nell' Odissea . Ecco la Berma, simile a un marmo dell'Eretteo, con le arterie quasi pietrificate, lunghi nastri scultorei lungo le guance, e gli occhi che, nella terribile maschera ossificata, brillano debolmente come un serpen­ te che dorme tra le pietre. Tutte le fatuità e i travestimenti della matinée Guermantes sono dimenticati. Quella della Berma è una morte sacra: colei che era stata Phèdre ora mangia i dolci della sua cena funeraria, presenziando alle cerimonie preparate per la sua morte, come se partecipas­ se invisibile a un rito funebre greco. Giunti sulle soglie della morte, dobbiamo tornare indie­ tro. Abbiamo conosciuto l'eterno e il tempo visibile; e ora incontriamo il tempo interiore. Mentre continua la festa mascherata dei Guermantes, Marcel scende profonda­ mente dentro sé stesso; e si accorge che il tempo sta den­ tro di lui, riempie e occupa il suo corpo, ed è un suono senza interruzione, una durata incessante. Se il tempo rea­ le era visibile, il tempo interiore è una musica invisibile, che si proietta al di fuori, forma un altro corpo, costruisce quei trampoli vertiginosi sui quali Marcel e il duca de Guermantes e tutti gli altri sono appollaiati. Marcel porge l'orecchio. Ascolta il passo dei suoi genitori, che accompa382

gnano Swann alla porta, e il suono della campanella, «quel tintinnio rimbalzante, ferruginoso, inesauribile, stri­ dulo e fresco» : lo sente, lo sente ancora, senza che esso sia cambiato in nulla, senza che dopo tanti anni abbia mai cessato di echeggiare dentro di lui. Così un'altra volta la Recherche torna al principio, rievoca la scena archetipica, formando la perfezione di un cerchio. Tutto ritorna - ma nulla è stato espiato.

383

x

Il N arra t ore

Il Narratore della Recherche è simile a quello di molti ro­ manzi di Dostoevskij: per esempio dell'Idiota, che Proust giudicava «il più bel romanzo che io conosca». Chi narra è Marcel, un testimone: non un narratore onnisciente. E co­ me accade a tutti i testimoni, la sua scienza è limitata: sa soltanto quello che vede: scorge le cose dal di fuori: ignora i sentimenti dei personaggi; conosce l'apparenza, la superfi­ cie, o, come egli dice, la «scorza)) dell'universo. Quanto alla verità o all'essenza, non ne sa nulla; e deve limitarsi a inter­ pretare quello che i suoi occhi scorgono, formulando delle ipotesi che non può verificare. Alle volte, come nel caso dell'amore di Swann, ha un soccorso: qualcuno (non sap­ piamo chi) gli dà notizie su avvenimenti accaduti molti an­ ni prima, come i testimoni nell'Idiota e nei Demoni ricorro­ no continuamente ai loro informatori segreti. Spesso il testimone è soltanto «l'osservatore . . . , lo straniero che non è della casa, il fotografo»; e sappiamo quali effetti meravi­ gliosi Proust ricavi dalla totale estraneità dello sguardo al­ la scena, che trasforma il mondo in una serie di quadri freddamente o atrocemente grotteschi. Il testimone si trasforma in spia. C'è un mistero: tre­ mendo come la scena di Montjouvain e l' incontro tra Charlus e Jupien; o innocente, come i misteri di Combray, che la zia Léonie osserva dal suo letto di sofferenze e di fantasia . Allora il testimone si nasconde: cela il volto: guarda senza essere visto, dietro un tramezzo, una fine384

stra, un cespuglio; e questo scrutare in segreto dà una profonda bramosia, una strana cupidigia al suo sguardo, mentre la scena osservata diventa infinitamente preziosa, impregnata di fascino e di ossessione. Con l'occhio dietro la fessura, egli scruta a lungo, a lungo: possiede quello che vede: attende: tentato, adescato, corrotto; e si trasfor­

è come spiare: è già la condizione di Conrad, dove chi racconta Lord Jim, Nostromo, Sotto gli occhi dell'Occidente, Destino, osserva gli ma in complice di quello che vede. Narrare

avvenimenti dietro le porte semichiuse o dietro una tenda accostata, dal buco di una serratura, da un vetro spezzato. Proust sapeva che quest'arte di vedere e di narrare era un peccato: anzi il massimo dei peccati, quello che Adamo commise nel Paradiso Terrestre, perché lasciava allargarsi in lui (come in Marcel) «la via funesta e destinata a essere dolorosa del Sapere». Ma come rinunciare allo sguardo in tralice? Come abbandonare i piaceri atroci del sguardo di Montjouvain era

voyeur?

Lo

il cuore, la spina, della sua ar­

te della visione. I grandi romanzieri non amano né la coerenza dei meto­ di letterari, né la verisimiglianza, che vorremmo imporre loro. In Guerra e Pace il narratore onniveggente e onniscien­ te cambia spesso la propria ottica, restringe

il punto di vi­

sta, omette, tace, e diventa uno sguardo che contempla fis­ samente la pura superficie delle cose. In Dostoevskij e nella

Recherche, accade il contrario. ll testimone sembra annoiar­ si della sua conoscenza limitata; e all'improvviso conosce tutti i segreti delle anime, tutti i misteri degli avvenimenti. Nessun personaggio, nemmeno il minimo, nascosto in un angolo della tela, sfugge al suo sguardo. Proust sembra di­ ventato Tolstoj. Ma, poco dopo, Marcel torna a essere un te­ stimone. La sua onnipresenza e onniveggenza

è

intermit­

tente: ora sta nascosto dentro le cose, ora fuori delle cose: ora sa, ora non sa; e Proust trae degli effetti sottilissimi da questo cambiamento del punto di vista. Mentre ascoltiamo la voce interminabile raccontare, commentare, chiosare, conducendoci da 385

Longtemps, je

me

suis couché de bonne heure sino a - dans le Temps, ci chiediamo a chi la voce appartenga. Marcel sine nomine e Marcel Proust posseggono lo stesso nome. Chi scrive è Marcel sine nomine che, giunto alla rivelazione, ripercorre la sua vita, vi scorge una «vocazione» e l'interpreta secondo questa voca­ zione, raccontando tutto ciò che può legarsi a essa? O è in­ vece Marcel Proust, nato ad Auteuil il 1 0 luglio 1 871 e mor­ to a Parigi nel pomeriggio del 1 8 novembre 1 922, l'unico che ha avuto una vita, almeno secondo lo stato civile? Dob­ biamo essere attenti. In quella voce unica stanno nascoste due persone, fuse nello stesso involucro: Marcel il Narrato­ re, e Marcel Proust, l' «Autore di questo libro», che ogni tanto si distacca invisibilmente dal primo Marcel, e, dietro le sue spalle, fa un piccolo cenno, che ci spalanca un oriz­ zonte diverso. Nulla è più facile che sbagliare, confondere le due voci, e fraintendere il significato del libro. Se voglia­ mo capire, dobbiamo avere nella memoria l'intera Recher­ che e tutti i personaggi e i paesaggi e i motivi e le immagini e le parole, che formano un solo intreccio. Pochi scrittori furono posseduti, come Proust, dall' os­ sessione del punto di vista. Chi poteva stabilire che gli eventi della Recherche erano andati come erano andati? Ed escludere che i personaggi potessero venire interpretati secondo uno sguardo completamente diverso? Non era meglio dare più versioni della stessa storia? Idee come queste, o simili a queste, assalirono Proust, se in un ab­ bozzo egli prevedeva «un secondo romanzo, che sarebbe lo stesso visto da altri occhi, un epilogo se si vuole . . . , dove si direbbe quello che i personaggi erano per delle altre persone» . Poi Proust rinunciò a questo epilogo, ma rea­ lizzò una parte della sua idea nel pastiche dal fournal dei Goncourt, compreso nelle prime pagine del Temps re­ trouvé. Qui abbiamo proprio quello che aveva annunciato: lo scorcio di un «secondo romanzo)), dove alcuni perso­ naggi della Recherche sono visti da un altro sguardo, e ci appaiono diversi. Monsieur Verdurin è un critico di gran­ de talento, morfinomane e asmatico, autore di un bellissi386

mo libro su Whistler, che ha smesso di scrivere i suoi Sa­ lons dopo il matrimonio: Madame Verdurin è una figura drammatica, ispiratrice di Elstir, con gli occhi febbrilmen­ te rivolti verso il passato, e «la rivolta contenuta, tutte le suscettibilità rabbiose di un'amica oltraggiata nelle delica­ tezze, nel pudore della donna»: Cottard è un medico filo­ sofo; e persino Madame Cottard è una persona colta, che legge Stevenson. Così la Recherche contiene, tra le sue pie­ ghe, una seconda Recherche in formato ridotto, che costi­ tuisce la parodia della prima; e Proust ci invita a conti­ nuarla per suo conto, immaginando cosa avrebbe potuto essere il libro se l'avesse scritto Edmond de Goncourt. Nel tempo della giovinezza, Proust aveva amato Flau­ bert - quei libri dove tutte le parti della realtà erano «tra­ sformate in una medesima sostanza, dalle vaste superfici, dallo scintillio monotono», e nessuna traccia di impurità rimaneva. Creando il romanzo puro, che avrebbe avuto un'eredità grandissima nella letteratura moderna, Flau­ bert abolì tutto ciò che aveva formato la sostanza del ro­ manzo, dai tempi di Apuleio, sino a Cervantes, a Sterne, a Balzac, Dickens, Dostoevskij: l'interrogazione saggistica sul tempo, la vita, i sentimenti, la realtà, la letteratura, fu­ sa nel racconto, o gettata lì, come in un immenso sacco, dove si poteva trovare di tutto. Quando cominciò a scrive­ re la Recherche, a Proust del romanzo puro non importava nulla: quelle superfici scintillanti, monotone, dove tutte le cose si dipingevano per riflesso, non lo interessavano più. Voleva comporre un romanzo impuro e mostruoso. Come tutti i romanzieri, doveva raccontare una storia - l'eterna storia del romanzo, quella del giovane che cerca il segreto della realtà, e alla fine lo scopre, la storia di Lucio, di Wilhelm Meister e di Pierre Bezuchov. Ma questa storia non gli bastava . Desiderava scrivere tutto ciò che aveva pensato nella sua vita, che la sua fantastica immaginazio­ ne, l'inesauribile senso analogico e l'intelligenza minuzio­ sa avevano intuito nell'universo. Quando guardava la realtà, non vedeva nulla di com387

patto e di continuo: tutto era caso, frammento, frantuma­ zione. Sapeva di poter trovare la verità solo se accelerava questa tendenza delle cose. Così, lavorando nel suo labo­ ratorio, suddivise ancora ciò che si presentava agli occhi: fissò il microscopio su ogni evento; e in quello che, per gli altri, era un'unità di tempo, scorse una moltitudine di mo­ menti infinitesimali: dissociò un io in una quantità di io che morivano e nascevano; frantumò ogni sentimento in una moltitudine di sentimenti contradittori. Ma non pote­ va tollerare un mondo senza legge. Dall'alto del suo os­ servatorio che confinava con le stelle, puntò sulla terra un telescopio: lo strumento di cui era più orgoglioso. Tutto allora si trasformò: la realtà frantumata e molecolare ob­ bedì a un ordine, rientrò in un cosmo. Il suo telescopio semplificava la realtà: scorgeva linee curve dove prima re­ gnava il pulviscolo. Ebbe il sogno di diventare il Legisla­ tore del mondo; e cominciò a elaborare le sue grandi Leg­ gi sull'origine dell' amore, sulla gelosia, sulla memoria, sull'abitudine, sul sonno, sulla società, sulla guerra, sulla sessualità umana. Con compiacenza e una punta di ironia, parlava della sua opera di «naturalista umano», e del suo dono di «erbo­ rizzatore umano», di «botanico morale)), E con compiacen­ za ancora più grande applicava ai sentimenti metafore fisi­ che, chimiche, fisiologiche, e trasformava la psicologia in una sorta di combinazione chimica, sottolineando la neces­ sità dei processi psicologici: la legge sulla gelosia, o quella sull'oblio, hanno la stessa validità della legge sulla gravita­ zione universale o del terzo principio della termodinami­ ca. Ci viene alla mente Tolstoj, che in Guerra e Pace applica alla storia metafore biologiche e meccaniche, influendo certamente sulle discussioni sulla guerra che avvengono a Doncières. In Tolstoj, sullo sfondo delle doppie maree, del vino che fermenta, del grave che cresce di velocità via via che si avvicina alla terra, esiste un Dio biblico, mascherato dietro la necessità naturale. Nelle analisi psicologiche di Proust non c'è alcun principio divino: il metafisica che ha 388

creato la casa dell'Essere, appoggiandola sulla «pietra an­ golare» della memoria, non ha nessun rapporto apparente con lo squisito e tremendo psicologo, che descrive le curve dei sentimenti umani - abitudine o amore. Come chiame­ remo dunque questo «erborizzatore umano»? Non assomi­ glia affatto agli studiosi positivisti, che elaboravano una psicologia scientifica. L' «erborizzatore umano» era un fe­ nomenologo dell'anima umana, che utilizzando volta a volta il miscroscopio e il telescopio, descriveva una piccola parte - l'unica che gli si presentava agli occhi - del sistema analogico dell'universo. Per mano del «botanico)) o dell' «erborizzatore)) nac­ ' quero così i piccoli e grandi saggi, talora persino i trattati che Proust incorporò nella Recherche. Bisogna distinguere tra loro: alcuni sono perfettamente fusi con la narrazione e ne costituiscono la continuazione e l'eco intellettuale, che dà forza e profondità al racconto. Altri sono delle vere e proprie divagazioni, o digressioni, talora inserite in nuove divagazioni, che esprimono quello «spirito di fuga)), che controbilanciava in Proust la tendenza all'ordine e alla legge: sebbene rientrino nell'architettura generale della Recherche. Vi sono, poi, molti altri piccoli segni, che non obbediscono a nessuna necessità strutturale: allusioni, cenni, omaggi, inchini, che troverebbero il loro posto mol­ to meglio in un libro di memorie, o in un'autobiografia, che in un romanzo. Tutto ci lascia credere che Proust ab­ bia voluto, per mezzo di questi segni, farci capire che la Recherche aveva raccolto tutti i generi letterari esistenti nella forma romanzo, di cui aveva dilatato enormemente i confini. Ma che a lui non bastava nemmeno questo. Vole­ va scrivere un libro, che uscisse da tutti i generi possibili: un puro monstrum; À la recherche du temps perdu.

La Recherche è l'esempio più straordinario di quella forma narrativa che si può definire «romanzo sinfonico)). 389

O per meglio dire, la Recherche è diventata un romanzo sinfonico, come il modello inconsapevole della Recherche, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, ha raggiunto la forma sinfonica solo dopo un lungo lavoro di trasforma­ zione. Se leggiamo i quaderni in cui Proust scrisse le prime redazioni di Du coté de chez Swann, ci accorgiamo che il racconto procedeva secondo lunghi frammenti di qualità omogenea: i ritratti di zia Léonie, di Eulalie, di Françoise e del curato erano disposti in brani compatti e continui. Durante l'elaborazione, Proust si mosse contem­ poraneamente verso tre direzioni. Da un lato, frantumò le grandi scene in scene minori: liberò ogni motivo dalla scoria che l'affliggeva; spesso lo frantumò in piccoli moti­ vi. Poi, nelle stesse pagine o in pagine vicine, intrecciò ogni motivo con motivi d'intonazione diversa, ottenendo effetti di contrasto, di dissonanza o di parallelismo. Infine trasformò una parte dei motivi in leitmotiv. Il tema di Oriane de Guermantes, per esempio, dapprima compare in incognito, come una nota in sordina: la seconda volta riappare velato; e poi compare in piena luce, e si sviluppa all'infinito, scomparendo e ricomparendo, in forme sem­ pre diverse, suscitando risonanze nell'immensa struttura, toccando un diapason e una finale dissoluzione. Così la Recherche è un'immensa sinfonia, dove ogni motivo ritor­ na a distanza di centinaia o migliaia di pagine e si intrec­ cia con gli altri in un'architettura musicale inestricabile. La Recherche non possiede quella fluida continuità tem­ porale, che ci incanta nella Chartreuse de Parme o nell' Isola del tesoro. Proust non l'ha scritta con uno slancio continuo: ma a brani, a pezzi, a frammenti; e nel momento della re­ dazione, ha giustapposto scene diverse, scritte in tempi diversi. Se Fortuny era un decoratore e un sarto, egli è un intarsiatore, che incastra le sue tarsie l'una dopo l' altra, l' una nell'altra. In due luoghi del libro ci prende per mano e ci mostra che la Recherche è un retablo, o addirittura una collezione di quadri. Al Grand-Hotel di Balbec, Marcel entra nella propria stanza: guarda il cielo e l'oceano; li ve390

de suddivisi in scene differenti, attraverso i vetri della fi­ nestra, o riflessi negli specchi della biblioteca, come le predelle di un retablo. Ora abbiamo un quadro religioso, ora un Pisanello, ora un Griinewald, ora una stampa giap­ ponese, ora uno «studio di nubi>>, ora un Whistler. Quan­ do è a Parigi, Marcel guarda le case popolari: a una fine­ stra una cuoca sogna guardando a terra: a un'altra, una ragazza si lascia pettinare i capelli da una vecchia strega; e a Marcel sembra di assistere a una «esposizione di quadri olandesi giustapposti». Come è evidente la linea di confi­ ne che suddivide le mille tarsie! Ma Proust non si accon­ tenta di questa linea di confine. Rifiuta ogni unità di stile: accosta e oppone brani di stile diversissimo, tragico o grottesco o patetico, o farsesco, o metafisica, come nella serata musicale dalla marchesa de Saint-Euverte, o nei ca­ pitoli sulla morte della nonna. Queste verità ci lasciano inquieti. La Recherche è soltan­ to un grande retablo? Proust è soltanto un meraviglioso intarsiatore, che ha composto il pavimento di una chiesa cosmatesca? O un infaticabile pittore, che ha dipinto uno dopo l'altro i mille quadri di una pinacoteca? La cattedra­ le è soltanto un'illusione? Molti segni ci convincono del contrario. Nessuno ha insistito più di Proust sulla neces­ saria fusione finale del tono e dello stile. Nel 1 904, scrive­ va a Anna de Noailles: «Se si cerca ciò che fa la bellezza assoluta di certe cose, delle Favole di La Fontaine, delle commedie di Molière, si vede che non è la profondità, o questa o quella virtù a sembrare eminente. No, è una spe­ cie di fondu, di unità trasparente dove tutte le cose, per­ dendo il loro primo aspetto di cose, sono venute a dispor­ si le une accanto alle altre in una specie di ordine, penetrate dalla stessa luce, viste le une nelle altre, senza una sola parola che resti al di fuori, e che sia restata refrat­ taria a questa assimilazione . . . Suppongo che è ciò che si chiama la patina [le Vernis] dei maestri . . . » . Nella Recherche, il fondu diventa un tema conduttore. La musica di Vinteuil risveglia nell'immaginazione di Marcel ·

391

«qualcosa che potrei paragonare alla seta imbalsamata [e alla «fragranza»] di un geranio». Dopo la rivelazione della biblioteca, egli ci ricorda che le verità dell' intelligenza «sono piane», non hanno «profondità», e sono chiuse da «contorni secchi» : mentre solo le vere opere d'arte posseg­ gono il misterioso «velluto» . Infine Bergotte moribondo, davanti alla Veduta di Delft di Vermeer, osserva «dei picco­ li personaggi in blu, che la sabbia era rosa, e infine la ma­ teria preziosa del piccolo pezzo di muro giallo . . . Non stac­ cava lo sguardo, come un bambino da una farfalla &ialla che vorrebbe afferrare, dal prezioso pezzo di muro. "E co­ sì che avrei dovuto scrivere" diceva. "I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere parecchi strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé stessa, come questo piccolo pezzo di muro giallo" ». Non credo che Proust abbia mai avuto i rimpianti di Bergotte. Questo fondu, dove tutte le cose si dispongono le une accanto alle altre, viste le une nelle altre, penetrate dalla luce: questa seta imbalsamata e questa fragranza del geranio: questo velluto della mente: questi strati di colore sovrapposti, che rendono preziosa la materia - non c'è de­ finizione migliore della compattezza tonale che la Recher­ che risveglia nella fantasia dei suoi lettori, per quanto sia­ no dissimili i materiali con cui è costruita. La cattedrale brilla e scintilla al sole, tutta fusa dalla misteriosa Patina dei Maestri. E poi dietro, ancora dietro il fondu e il «gera­ nio» o il «velluto», avvertiamo un'incessante unità di re­ spiro, una continuità di ispirazione, che corre di pagina in pagina, di volume in volume, come il suono «rimbalzan­ te, ferruginoso, inesauribile, stridulo, fresco» della campa­ nella che risuona senza fine nella memoria di Marcel e nella nostra memoria. Proust non ama la realtà piana, che ci offre la pura per­ cezione visibile, e che noi, come Ingres, possiamo rendere tracciando linee su un foglio di carta bianca. Ama il volu­ me, lo spessore della realtà : ciò che è solido, profondo, stereoscopico in essa; e la nostra abitudine alla Recherche ci 392

impedisce di renderei conto che forse nessun altro roma n­ ziere, nemmeno Balzac, possiede l'arte di rivaleggiare con la scultura o lo stereoscopio. Se Proust guarda un fiore, trova sui petali come uno spessore impalpabile e invisibi­ le, formato da tutti gli sguardi che vi ha posato il tempo, e che il suo sguardo d'oggi deve riattraversare per giungere fino a esso. Se guarda un raggio di sole, innumerevoli ri­ cordi indistinti sino al fondo del passato danno all'im­ pressione una specie di volume, come coristi invisibili che sostengono la voce di una cantante celebre e un po' stan­ ca. Se guarda una ragazza, i sensi cercano le qualità della vista, dell'odore, del tatto e del sapore, e restituiscono la profondità del corpo. Se guarda Albertine, il tempo e i de­ sideri naturali e spirituali che la legano a lui formano una figura dai molti piani, come quelle che si scrutano dietro i vetri di uno stereoscopio . . . Infine c'è un'altra specie d i rilievo. A l tempo del Contre Sainte-Beuve, Proust accusava Balzac di non trasformare completamente la vita, assorbendola tale e quale nell' ope­ ra d'arte, tanto che la Comédie humaine sarebbe una specie di immenso Museo Grévin, rappresentato da un meravi­ glioso ciarlatano. A volte, nella Recherche, si direbbe che anche Proust modelli delle statue, o delle cere, simili a quelle del Museo Grévin. Quando rappresenta Charlus o Norpois, noi ci rendiamo conto che egli ha un modello, anzi molti modelli, davanti agli occhi. Egli incorpora que­ sto corpo visibile nelle pagine della Recherche: ci sembra di urtarlo, di scontrarci con lui, come non ci accade mai in Flaubert, in Stendhal e nemmeno in Tolstoj, ma spesso in Balzac e in Dostoevskij. E poi, come Balzac, Proust è un grandissimo ciarlatano. Quel modello reale egli non si ac­ contenta di incorporarlo nelle sue pagine: lo imita, lo reci­ ta, lo trasporta sulla scena, quasi fosse un attore dal talen­ to impareggiabile, capace di rendere tutti i gesti e i tic di una persona. Il «petit Marcel» che imitava Montesquiou nei guardaroba: Proust adulto che faceva il verso a Flau­ bert, a Sainte-Beuve, a Saint-Simon, ai Goncourt, rinasce 393

qui, nelle grandiose scene mimetiche della Recherche, che posseggono il rilievo e le tre dimensioni della realtà quoti­ diana. Posseduto da questo grandioso mimetismo, Proust è un meraviglioso ritrattista, che fa concorrenza a Tiziano, a Rembrandt, a Goya, e con una specie di civetteria ne ripe­ te i gesti e i procedimenti. Di solito, pone il suo cavalletto all'esterno. Se Flaubert fondeva il ritratto nella narrazione continua, lui lo distacca, lo isola dal racconto, fa un a parte, e pare sempre sul punto di alzarsi dal suo seggiolino e di attaccare il ritratto su un punto della parete. Specie in quelli di Saint-Loup e di Charlus, ciò che lo attrae è il mo­ vimento, il gesto improvviso e irripetibile, che si muove ancora sulle pagine, come la prima volta che si è staccato dal fondo della realtà. Ha tutte le doti: una straordinaria sensualità coloristica, un pennello ora rapidissimo ora in­ dugiante, ora violento ora delicato; il dono di risalire dal gesto fino all'anima e alla nascosta genealogia che si intra­ vede alle spalle della figura. Non tutti i ritratti che escono dal suo atelier, sono identici. Alcuni sono totali. Altri, co­ me quelli di Cottard, Norpois, Brichot, sono sopratutto verbali: altri, come quelli della nonna e della madre, sono invisibili, senza tratti fisici, né fisionomia verbale. Come negli ateliers di tutti gli artisti del passato, alle pareti del suo studio stanno appesi anche dei ritratti di famiglia: quello dei Guermantes, che è addirittura un affresco, e quello, borghese, della famiglia Cottard . Forse soltanto una cosa saziava Dickens: l'immenso flutto dei dialoghi umani, il luogo dove la lingua gli pare­ va più mobile e assurda, e immaginazione e follia poteva­ no scatenarsi liberamente. Allora l'allegria, che lo ispirava scrivendo, prorompeva; e nulla, nemmeno il delitto, lo ec­ citava e lo esaltava così. «Grandi sorsate di parole erano per lui» diceva Chesterton, «come grandi sorsate di vino, pungenti e rinfrescanti. » Si confessava, come non si era· confessato nemmeno nelle pagine più dolorose dei suoi romanzi: giacché i ritratti verbali dei suoi geniali e dissen394

nati parlanti - Mrs. Nickleby, Mr. Pecksniff, Mrs. Gamp, Mr. Micawber - erano autoritratti. La loro prodigiosa reto­ rica, l'euforia linguistica, l'amore dei giochi e del nonsense, la verbalità sostenuta dall'abbondanza del cibo e del bere, parodiavano meravigliosamente il genio alcoolico di Dickens. Mentre rideva fino alle lacrime alle loro spalle, li ammirava, come ammirava sé stesso. Non sbagliava mai una nota. Ascoltava mentalmente le voci immaginarie di ognuno dei suoi personaggi: il timbro: lo stile, l' eccitazio­ ne, la rapidità, la lentezza; e poi, a occhi chiusi, come un direttore d'orchestra, li «eseguiva», con sempre nuove va­ riazioni. Come Dickens, Dostoevskij e Joyce, Proust appartiene alla razza degli adoratori della voce umana. Qualche vol­ ta dice di non amarla: sostiene che, sopra la voce, c'è il re­ spiro di Albertine dormiente; eppure con quale gioia e piacere si perde nei flutti della voce, si smarrisce nelle sue follie, si ubriaca nei suoi torrenti. Possiede una qualità che Dickens non ha: è uno scienziato della lingua. Quando ri­ produce i dialoghi e i monologhi dei personaggi, senza perdere un tic, una sfumatura lessicale, un timbro, un'inarcatura sintattica, Proust è un critico stilistico in at­ to. Rappresenta al vivo quel saggio che egli ha composto mentalmente sul vocabolario, la sintassi e la pronuncia di ognuno dei suoi personaggi, nessuno dei quali trasgredi­ sce le leggi coerentissime del proprio sistema espressivo. Siccome conosce i limiti della scrittura, avrebbe voluto ag­ giungere alla pagina scritta la imitazione fonetica del perso­ naggio. Così l'attore avrebbe completato lo scrittore, la realtà vivente l'opera d'arte. «Charlus ebbe una risatina che gli era particolare - un riso che gli veniva probabil­ mente da qualche nonna bavarese o lorenese, che anche lei lo ereditava a sua volta, identico, da un'antenata, in modo che suonava così, immutato da parecchi secoli, in certe vecchie piccole corti d'Europa, e si gustava la sua qualità preziosa come quella di certi strumenti antichi di­ venuti rarissimi. Ci sono i momenti in cui per dipingere 395

completamente qualcuno, bisognerebbe che l'imitazione fonetica completasse la descrizione, e quella del perso­ naggio che era Monsieur de Charlus, rischia di essere in­ completa per la mancanza di quella risatina così fine, così leggera, come certe suites di Bach non sono mai interpre­ tate esattamente perché le orchestre mancano di quelle "piccole trombe" dal suono così particolare, per le quali l'autore ha scritto questa o quella parte. » Proust è un maestro del dialogo, come rivela i l delizio­ so intreccio delle voci diversissime a casa di Madame de Villeparisis, della duchessa e della principessa de Guer­ mantes. Ma preferisce il monologo, il monologo immenso e inverosimile, tale da sfiorare il discorso scritto, come Dostoevskij: perché in esso si esprime meglio il suo dono di scienziato e di pasticheur. Tra tutti i monologhi, il capo­ lavoro è lo spettacolo verbale, che Charlus inscena per la meraviglia, l'ammirazione e la furia di Marcel, dopo la ce­ na dai Guermantes. La voce umana vi è trattata come una partitura musicale: sullo sfondo risuona il terzo tempo della Sinfonia pastorale di Beethoven, simile a una di quelle «voci invisibili)), che echeggiano nel palazzo d'oro di Eros e di Psiche nelle Metamorfosi di Apuleio; mentre Charlus esegue e dirige la propria voce, come se fosse insieme un'orchestra e il suo direttore. Dapprima ascoltiamo la musica della fredda alterigia e insolenza: poi quella della collera, della rabbia acutissima, dello scherno: poi la nobile e stanca grandezza: poi la nota più acuta e insolente, che cala, come incantandosi alle biz­ zarrie della gamma discendente, a un'intonazione più na­ turale; ed ecco carezze vocali sempre più beffarde, e poi una dolcezza piena di tristezza, e quasi lacrime nella voce; finché ritorna il furore, la voce ora acuta ora grave diventa una tempesta assordante e scatenata, un fortissimo di tutta l'orchestra: c'è una pausa, Marcel fa a pezzi il cilindro del barone, la voce lo richiama: di nuovo è l'insulto, e poi la dolcezza, la malinconia, lo scherzo affettuoso; e, mentre la musica invisibile di Beethoven comincia a suonare (terzo 3%

tempo: La gioia dopo la tempesta), tutto si avvia verso l'ac­ cordo perfetto. Non c'è, in questa orchestrnzione pura­ mente vocale, una sapienza meno grande di quella che farà risuonare il Septuor nel salone troppo affollato dei Verdurin. Questi straordinari ritratti, questi pastiches di gesti e pa­ role, dovrebbero svelarci ciò che Proust ha inseguito per tutta la vita: l'altro: quell'essenza ineffabile, che è un indivi­ duo. L'opera d'arte ce la rivela: attraverso i quadri, la Sona­ ta e il Septuor, conosciamo l'anima e la visione di Elstir e di Vinteuil; «l'universo con gli occhi di un altro», di cento al­ tri, ed è la felicità suprema. Ma Norpois e Charlus e Cot­ tard e Saint-Loup non appartengono alla razza dei creatori: sono soltanto persone. E i ritratti fisici e verbali della Re­ cherche ci fanno conoscere davvero la loro anima segreta? Sappiamo veramente tutto di loro? Quando chiudiamo il libro, abbiamo ricevuto un'illuminazione completa, non solo dell'eterno e dell'arte, ma delle persone che abitano il tempo? Proust è diviso da una doppia inclinazione. Talvolta i gesti, specie se improvvisi, e le parole, sopratutto se in­ controllate, portano alla luce ciò che tace: l'inconscio. Molte altre affermazioni e scene contraddicono questa tendenza. In una parte profonda di sé, Proust è uno gno­ stico. «Non viviamo soli>> egli pensa, «ma incatenati a un essere di un regno differente, da cui ci separano degli abissi, un essere che non ci conosce e dal quale è impossi­ bile farci comprendere: il nostro corpo.» Il corpo è un car­ cere, dove l'anima vive prigioniera e non riesce mai a par­ larci, o a darci almeno un minimo segno dei suoi desideri. Qualche volta crediamo che la carne diventi «specchio» negli occhi, e negli occhi ci lasci avvicinare all'anima: in quel punto la materia sembra frapporre un velo meno spesso; eppure anche questa è un'illusione. Nessuno scor­ gerà mai l'anima, prigioniera nei nostri Piombi; e non è escluso che essa non abiti nemmeno lì, ma altrove, in qualche inattingibile cielo. Così i ritratti verbali di Nor397

pois e di Cottard sono perfetti e coerenti: obbediscono a quel sistema chiuso che è il linguaggio; ma anche Norpois e Cottard sono in un carcere, che Proust ha stretto attorno a loro con le parole, e non ci confidano nulla della loro realtà segreta. Qui, il tentativo di Proust di conoscere l'al­ tro è fallito: volontariamente fallito; perché questi ritratti, che posseggono soltanto la superficie verbale, gli permet­ tono i suoi più feroci e gelidi giochi grotteschi. Proust non vuole che Norpois e Cottard posseggano un'anima. Se la possedessero, liberandosi dal proprio carcere linguistico, chi si divertirebbe più ad ascoltare le loro metafore logore, i giochi di parole, le allusioni e il gergo diplomatico? Soltanto una figura, invisibile e inattingibile, conosce tu tto. Quando il Narratore onnisciente e onniveggente spazza via dalla scena il testimone, in quegli attimi di illu­ minazione, penetriamo nel profondo, visitiamo i nostri Piombi, conosciamo l'anima se greta, che diventa chiara e radiosa nello «specchio» degli occhi e delle parole.

Quando leggiamo la Recherche pensando alla Comédie humaine e a Guerra e Pace, ci colpisce un vuoto, che nulla potrebbe colmare. Non c'è storia. Non c'è la storia dell'af­ faire Dreyfus, ma i suoi riflessi nell'aristocrazia, nella bor­ ghesia e nell'esercito francese. Non c'è la narrazione della guerra mondiale (salvo per minimi dettagli), ma i suoi echi nella società francese, da Madame Verdurin a Mada­ me Bontemps a Monsieur de Charlus a Brichot. Regina delle parti mondane della Recherche è oo�a: Opinione, che colma l' assenza della storia con l' interminabile frastuono delle sue chiacchiere e dei suoi commenti. Ma se la storia scompare, non scompaiono gli eventi e gli uomini che l'hanno popolata. Da Balzac, Proust eredita il desiderio di fondare una realtà doppia, che unisca sullo stesso piano ciò che è immaginario e ciò che è storico. Nulla desta in lui una maggiore compiacenza che far passeggiare 398

Swann, Odette, Marcel, Monsieur de Charlus insieme alla principessa Mathilde, al maresciallo Mac-Mahon e Char­ les Haas, e a tutti coloro che hanno veramente abitato il mondo; e quanti nomi di camiciai, di fiorai, di sarti, di

confiseurs, di ristoranti alla moda, come se la Recherche fos­ se l'almanacco Hachette del suo tempo. Proust non aveva alcuna fiducia negli storici della società . Pensava che l'oblio delle situazioni sociali e dei salotti eleganti era ra­ pidissimo. Così il suo libro, sebbene avesse le radici pian­ tate nel cielo, poteva farci conoscere la vera storia della so­ cietà francese tra la fine del -diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo. Signore e interprete del tempo, Proust non credeva nel tempo degli orologi . Non credeva che fosse un flusso compatto e omogeneo, che portava da un punto a un altro successivo: dove

il 20 settembre 1 898, alle dieci di mattina,

segnasse la stessa ora per tutti i luoghi del mondo, per tutti i personaggi del suo romanzo, e per tutti gli io par­ cellari di questi personaggi.

11 20 settembre 1 898, alle dieci

di mattina, era un immenso contenitore, che raccoglieva qualcosa che si era verificato in quel momento, ma anche un evento di un secolo prima, un'atmosfera di due anni prima, un'eco del 19 settembre, e qualcosa che doveva an­ cora accadere; e poi c' era la goccia di eterno, che forse aveva illuminato qualcuno bevendo una tazza di tè o ur­ tando contro la pietra di un cortile. Non ho bisogno di im­ maginare cosa uno scrittore d'avanguardia avrebbe tratto da questa intuizione: fantastiche lacerazioni temporali, accostamenti di diverse unità temporali, che avrebbero sconvolto il flusso trasparente e invisibile, che accompa­ gna le vicende della

Recherche.

Proust ricorse a una soluzione molto più sottile e com­ plicata, fidando in lettori che studiassero al microscopio, con una pazienza quasi ossessiva, le unità temporali del suo romanzo. Nel grande flusso del tempo, isolò dei tem­ pi individuali. Ci sono dei personaggi, ad esempio, come il barone de Charlus, per il quale il tempo 399

è

più veloce, e

percorrono quasi dieci anni nello stesso periodo in cui l'orologio del mondo non ne suona nemmeno due. Il caso di Marcel è ancora più singolare. Nella prima parte della Recherche, egli ha contemporaneamente dodici, quindici, diciotto anni: va agli Champs- É lysées accompagnato dal­ la bonne, gioca con Gilberte, vende i preziosi vasi cinesi ereditati dalla zia, frequenta le case d'appuntamento; ha pensieri da bambino e da adulto. Ci sono effetti ancora più calcolati. Di solito i lettori suppongono che Proust si sbagli (come si sbagliava Tolstoj, scrivendo Guerra e Pace): qualche volta non è escluso; molto spesso egli usa in mo­ do sistematico la tecnica degli anacronismi. Tutto ci lascia credere che siamo nel 1 898: ma in questo anno, determi­ nato dal concorso delle date e delle stagioni, Proust inseri­ sce degli eventi che si svolgono nel 1 905 o nel 1 9 1 0 o nel 1 9 1 1 , per ricordarci come sia illusorio avere fiducia nel tempo degli orologi. Nel suo complesso, il tempo della Recherche disegna una parabola. All'inizio, in quel prologo che è Un amour de Swann, siamo fuori del tempo, o in un tempo indeter­ minato, o addirittura in due tempi diversi: giacché il prin­ cipio dell'amore tra Swann e Odette si può datare sia at­ torno al 1 8 dicembre 1 879, sia poco dopo il 6 gennaio 1883. A Combray regna quella cosa unica che è il tempo di Combray: dove una sola giornata di vacanza si allunga fi­ no a comprendere due mesi o alcuni anni, come se nell' Eden il tempo fosse molto più folto del nostro. Ma, a un certo punto, quasi esattamente all'inizio della seconda parte delle ]eu nes filles en fleurs, entriamo nel tempo della meteorologia e degli orologi. La seconda parte delle ]eunes filles, Le cOté de Guermantes, Sodome et Gomorrhe, La Prison­ nière, la prima parte di Albertine disparue formano un bloc­ co compatto, dove il ritorno delle stagioni e le allusioni storiche ci conducono dall'estate 1 896 (o 1 897) alla prima­ vera del 1 901 (o 1 902). Questo è tempo: oserei dire tempo visibile. Ciò non esclude che Proust si diverta anche qui a 400

giocare con gli anacronismi, con eventi quasi sempre più tardi, che fanno oscillare questo blocco compatto. Poi, verso la metà di Albertine disparue, il tempo comin­ cia a vacillare. Il nostro piede non posa pi ù su nessuna realtà stabile; e usciamo prima lentamente, poi veloce­ mente dal tempo degli orologi, dove ci eravamo sofferma­ ti per qualche anno. Certo, non mancano alcune date pre­ cise, come il 1 9 1 4 e il 1 9 1 6, che segnano l'irruzione della guerra mondiale nel romanzo. Ma Marcel scompare dalla scena: si rifugia in una casa di cura, dove resta circa venti anni, che nessuna ragione psicologico-narrativa può spie­ gare. È un buco nel tempo. In un anno indeterminato (beaucoup d'années dopo il 1 9 1 6), che è convenuto collocare tra il 1 923 e il 1 925, ha luogo la matinée dai principi de Guermantes: sappiamo di una soirée che avviene tre anni dopo: aggredito dalla morte, Marcel sta scrivendo il suo libro, che noi abbiamo già letto; e l'ultimo evento registra­ to nella Recherche, la morte del barone de Charlus, dovreb­ be essere datato attorno al 1 928. Marcel ha avuto la rivela"­ zione del tempo visibile e del tempo interiore, con quella campanella che continua a echeggiare dentro di lui; e pro­ prio ora scompare dal libro il ciclo delle stagioni. Il tempo non ha più peso: leggerissimo, vertiginoso, spostabile a piacere. La parola fine è apparente. La Recherche, questo romanzo che dovrebbe raffigurare il passato, sale anche lui su dei «trampoli viventi>>, che crescono senza fine, e si inoltra velocemente nel futuro, oltre la morte di colui ­ senza nome e con tutti i nomi - che non ha saputo conclu­ derlo.

401

Nota

Sebbene contenga delle pagine sulla vita di Proust, La co­ lomba pugnalata non intende essere, e non è, una biografia. Il mio debito con gli studiosi di Proust, francesi e inglesi, americani e tedeschi, giapponesi e italiani, è molto più grande di quanto testimonino i veloci ricordi nell'elenco delle citazioni. Ringrazio Alberto Beretta Anguissola, Gio­ vanni Macchia e Bemard Minoret per avermi concesso di utilizzare la loro biblioteca proustiana: Francesco Grant, Luca Nicolai, Francine Sanllorente per aver fotocopiato, nelle biblioteche francesi, inglesi e italiane, libri e saggi al­ trimenti per me irreperibili; e i primi lettori del dattilo­ scritto, Andrea Cane, Gian Arturo Ferrari, Sergio Ferrero, Dinda Gallo, Gérard Macé, Jean-Baptiste Para, Raymond Rosenthal; Silvia Bruni e Gabriella Mezzanotte. aprile 1 994.

P. C.

Elenco delle citazioni e delle allusioni

L' elenco delle citazioni rinvia alla pagina del testo e ai capoversi di ogni pagina, che sono indicati in grassetto (1, 2, 3 ) . L' indicazione con cfr. riguarda allusioni a testi di Proust: quella senza cfr. indica vere e proprie citazioni. Le sigle, seguite dal numero della pagina, rimandano ai seguenti volumi: A.D.: Albertine disparue, édition originale de la dernière version re­ vue par l'auteur, établie par Nathalie Mauriac et Étienne Wolff, Grasset

1 987.

B.A.: La B ible d'Amiens par fohn Ruskin, Traduction, notes et préface de Marcel Proust, Introduction d'Hubert Juin,

10/ 18, 1 986.

C. I-XXI: Correspondance, texte établi, présenté et annoté par Philip Kolb, Tomi I-XXI, Plon

1 970-1 993.

Ca. : Le Carnet de 1 908, établi et présenté par Philip Kolb, Gallimard

1 976.

C.S.B.: Con tre Sainte-Beuve, précédé de Pastiches et mélanges et suivi de

Essais et articles, édition établie par Pierre Clarac avec la collabo­ ration d ' Yves Sandre, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard

1 971 .

C.B.S. II: Contre Sante-Beuve, préface de Bernard de Faillois, Collec­ tion Idées, Gallimard

1 954.

E.J . : Écrits de jeunesse 1 887-1 895, textes rassemblés . . . par Anne Bar­ rei, Institut Marcel Proust international

1 991 .

J.S. : Jean Santeuil, précédé de Les plaisirs et !es jours, édition établie par Pierre Clarac avec la collaboration d'Yves Sandre, Bibliothè­

1 971 . À la recherche du temps perdu,

que de la Pléiade, Gallimard R. I-IV:

édition publiée sous la direc­

tion de Jean-Yves Tadié, tomi I-IV, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard

1 987-1 989.

S.L. : John Ruskin, Sésame et les lys, traduction et notes de Marcel Proust, édition établie par Antoine Compagnon, Édition Com­ plexe

1 987.

405

9, 1: J.S. 320 9, 2: Ca. 83 9, 2-10, 1: cfr. C. XII 212 10, 3-1 1, 1: C.S.B. 931 -2 1 1, 2: cfr. J.S. 330-3 1 1 , 3: J.S. 89 1 2, 2: J.S. 675 14, 2: C. I 121 14, 3: cfr. C. I 1 1 9 14, 3-1 5, 1 : E.J. 65 1 6, 1: J . S . 675 20, 3: cfr. R. III 672-5 21, 2: cfr. C.S.B. 360-1 : cfr. J.S. 41 : C. VII 239 22, 1: R. II 90: C. I 399: C. V 1 15 23, 1: C. IV 353 24, 2: C.S.B. 49 27, 1: C. II 255: C. I 213: cfr. C.S.B. 507-8: C.S.B. 509 27, 2: cfr. Ca. 48: C.S.B. 288 30, 1: c . )()( 349: J.S. 42-3 33, 2: J.S. 520 33, 3-34, 1: C.S.B. 541 : C. IV 155-6 34, 2: J.S. 522 35, 1: C. I 186, 235: J.S. 7: C. I 1 97. Cfr. In nocenza e morte dell'adole­ scente nell'Angelo della notte di Giovanni Macchia, Rizzoli 1 979 36, 1: C. 1 98-9: cfr. J.S. 5-6 36, 3-37, 1: J.S. 7 38, 2: C.S.B. 463 40, 2: cfr. C. I 386-7

·

41, 1: C. I 357: C. I 395 41, 2: C. III 472: C. I 358-9 42, 1: C. I 41 7: C. I 336 42, 3-43, 1: J.S. 457-8 43, 2-44, 1: J. S . 460-1 : cfr. J.S. 472-3: cfr. J.S. 474-5 44, 2: cfr. J.S. 493-4: C. I 319 45, 1: cfr. J.S. 362-3 45, 2: cfr. J.S. 381 : cfr. J.S. 336-8 45, 3-45, 1: cfr. J.S. 381-4 46, 2: C. XII 1 74: cfr. C. XII 295 47, 2: J.S. 1 19: C. I 435-6 47, 3-48, 1: C. II 978: C. II 1 04-7 48, 2: C. II 105 49, 1: C. III 473: C. VIII 1 1 1 51, 2 : C . II 447 55, 1: J.S. 205: C.S.B. II 146 56, 2: C.S.B. II 146 56, 3: J.S. 494, 580 57, 2: J.S. 333: J.S. 246: R. I 42 58, 2: S. L. 1 85 : cfr. C.S.B. 162-3 59, 2: cfr. C. II 126 60, 1: cfr. C. I 331 : cfr. J.S. 689: C. III 421 60, 2: C. II 1 36 61, 1: cfr. C. II 308, 335 61, 2: J.S. 689: C. II 161 62, 1: sull'episodio, cfr. la biografia di George Painter

62, 3: cfr. C. VI 349 63, 2: cfr. C. II 144: J.S. 356 64, 1: C. II 1 34 406

64, 2: cfr. C. II 134: cfr. C. II 136 65, 1: J.S. 360: cfr. C. III 1 82 65, 2: cfr. J.S. 360-1 66, 1: C. II 1 35-6: cfr. C. II 137 66, 2: J.S. 356 67, 2-68, 1 : J.S. 357-8: C. I 137 68, 3: cfr. C. II 1 37 69, 2: C. II 141 70, 1: C. II 144 71, 1: C. XIX 341 -2: C. XVIII 1 12: C.S.B. 337 72, 1 : J.S. 270 72, 2-73, 1: J.S. 470-2 74, 2-75, 1: cfr. R. II 887-8, I 810 75, 2: J.S. 786-7 75, 3-76, 1: J.S. 786-7 76, 2: C. VIII 52-4 77, 2: C. VIII 51-2: cfr. C. VIII 55-6 78, 2: R. II 940-1 79, 1: C. VIII 237-8 79, 2: c. xv 1 53 80, 3: cfr. C. III 1 08-1 1 : R. IV 54 81, 2: C. XV 185: cfr. R. IV 1 381 82, 1 : C. XVIII 463 82, 2: R. IV 485, 488 83, 2: R. IV 485 83, 3-84, 1: R. IV 477 85, 1: c. xx 403 87, 2: C.S.B. 400 : C. XVIII 394: cfr. J.S. 1 60 88, 1 : C . IV 1 95-6 88, 2: R. II 601 : cfr. R. I 30-1, 1 1 1 2-3 89, 2: C. XIII 23 89, 3-90, 1: R. II 601 91, 2: R. III 371 : J.S. 205 9 1 , 3: sui rituali di Proust, Alain Buisine, Proust. Samedi 27 no­ vembre 1 909 , Lattès 1 991 92, 1: R. I 1 67: cfr. R. III 513 92, 2: R. I 641 : cfr C.S.B. 1 53 93, 2: R. III 1095-6 94, 1: C. XI 1 09 95, 1: C. I 444 .

407

95, 2: C.S.B. 372-80 96, 2: C.S.B. 374 97, 1: cfr. C.S.B. 379-80 97, 2-98, 1: cfr. C.S.B. 380-2. Il qua­ dro I due filosofi, di cui parla Proust (o il testo di Proust nella edizione Pléiade) non esiste. Al tempo di Proust, vi erano, al Louvre, due quadri intitolati Il filosofo in meditazione e Il filosofo col libro, il secondo dei quali non viene più attribuito a Rem­ brandt. Nemmeno Il buon Sama­ ritano viene, oggi, riconosciuto autentico 98, 2: sulla filosofia del giovane Proust, Anne Henry, Marcel Proust. Théories pour une esthéti­ que, Klincksieck 1983 99, 2: cfr. J.S. 596: cfr. J.S. 874 99, 3: J.S. 598 1 00, 2: J.S. 1 81 1 01, 1: J.S. 1 90: J.S. 299-300 1 02, 1: J.S. 205 1 02, 2-103, 1: J.S. 204, 207-8 1 03, 2-1 04, 1: J.S. 222: J.S. 221 1 04, 2: J.S. 208: J.S. 299-300 1 05, 2: cfr. J.S. 284, 286, 293 1 06, 2: J.S. 298-9 1 06, 3-1 07, 1: J.S. 297: cfr . J.S. 648, 321, 475 1 07, 2: cfr. J.S. 293-4, 808 1 07, 3: cfr. J.S. 320 1 08, 2: J.S. 771 -3 1 08, 3-1 09, 1: cfr. J.S. 278, 280, 180, 271 , 469: cfr. C.S.B. 65 1 09, 2: J.S. 31 8-9 1 1 0, 2: Isaia 6, 2, Ezechiele l, 1 0, Apocalisse 4, 2: J.S. 243-4: C.S.B. 528 1 1 1, 3: cfr. J.S. 247-8: J.S. 293-4 1 1 2, 2: J.S. 318 1 1 2, 3: J.S. 534-5

1 1 3, 2: J.S. 398-402 1 14, 2: J.S. 537 1 1 4, 3-1 1 5, 1 : C.S.B. 422-3: J.S. 701 -3 1 1 5, 2: C.S.B. 422-3: cfr. C.S.B. 403: cfr. C. II 377 1 1 7, 2: C.S.B. 461 : C. III 88: cfr. C. III 61 : C. IV 1 62: R. III 28. G i o­ vanni Macchia, Il lamento di An­ dromeda nel l' Angelo della notte, ci t. 1 1 8, 1: cfr. C. III 310: C. III 360 1 1 8, 2-1 1 9, 1: C. II 461 : cfr . C. III 224: C. III 41 : C. III 48 1 1 9, 2: C. III 169 1 1 9, 3-1 20, 1: C. III 1 82: cfr . C. III 1 77, 1 85 120, 2: cfr. C. III 62: C. III 86 120, 3-121, 1: C. III 1 05: C. III 1067: C. III 131-2: C. III 1 35: C. III 131 121, 2-122, 1: C. III 1 63 122, 2: C. III 251 : C. III 210, 223 1 22, 3: C. III 258: Pensées, a cura di Léon Brunschwicg, Hachette 1904, Tomo l, p. 5: C. III 262 123, 2: cfr. C. III 280-1 : cfr. C. 3102: C. IV 38: C. IV 86: C. IV 391 123, 3-1 24, 1: cfr. C. III 391 : C. VII 265 124, 2: c. x 330 1 25, 1: C. II 377 1 25, 2-1 26, 1: Esodo 1 3, 21 -2: Van­ gelo di Giovanni 1, 15: tjr. C. II 397: cfr. B.A. 45: C. III 1 60: C. III 285: C. IV 399 1 26, 2: B.A. 93: cfr. C.S.B. 724 1 27, 1 : cfr. B.A. 91 1 27, 2: B.A. 9 1 : cfr. B.A. 54: C.S.B. 724 1 28, 1 : B.A. 51 1 30, 2: C.S.B. 137: cfr. C.S.B. 781 -2: B.A. 32

130, 3-131, 1: cfr. C. III 68: B.A. 12: B.A. 10: C.S.B. 723 131, 3-1 32, 1: C.S.B. 755: B.A. 20: B.A. 33 132, 2: cfr . B.A. 23-8, 260-1 132, 3-133, 1: cfr. B. A . 23-8, 260-1 1 33, 2: B.A. 30-1 : 257-8 1 35, 2: C. XX 208: B.A. 9 1 : C. IV 693: C. II 270 1 36, 1: R. IV 389-90, 692, 202 1 36, 2: R. IV 208: cfr. R. IV 206: cfr. C. XXI 373: R. IV 694-5 1 37, 3: cfr. B.A. 81 : C.S.B. 1 93: B.A. 83 1 38, 2: S. L. 96-7: C.S.B. 812-3 1 38, 3-139, 1: cfr. C. II 412: R. IV 229-30 1 39, 2: R. IV 230 140, 1: B.A. 80: cfr. S.L. 1 25-30: C. VI 290: C. VIII 297 140, 2: C.S.B. 1 73: C.S.B. 1 78-81 141, 1: C.S.B. 1 86: S.L. 1 1 4: Faust v. 1 609: B.A. 1 9 141, 2-142, 1: Ca. 99 1 43, 1: cfr. C. III 446-7: cfr. C. IV 293: cfr. V 1 50 : R. I 639 144, 1: C. IV 293: C. III 447: cfr. C. III 456: cfr. III 448 144, 2-145, 1: cfr. C. III 447: cfr. C. III 445: cfr . R. I 639 145, 2: cfr. C. IV 218: C. IV 21 1 : cfr. R. Il 121 1 : cfr . C. IV 294 145, 3-146, 1: C.S.B. II 356: R. II 87 146, 2: C.S.B. II 356 146, 3: C.S.B. II 356: R. II 87 146, 4: C.S.B. II 357: R. II 87 147, 1: C.S.B. II 142 147, 2: cfr. C. V 358: cfr. C. V 346 147, 3-148, 1: cfr. C. V 341, 348: cfr. C. V 348, 359: cfr. C. VI 1 24: C. V 348: C. VI 28-9 1 48, 2-1 49, 1: cfr. C. V 35 1 , 367, 359, 367 408

149, 2: cfr. C. V 362: cfr . C. VI 28: C .S.B. 159: R. III 499 1 49, 3-150, 1: c. v 359, 354: c. v 355: cfr. C . VII 87, VI 32, V 355 150, 2: cfr. V 57, 91, 275: C. V 373 150, 3: c. v 377 151, 2: Ca. 47, 50-1 : cfr. C. VII 85: C.S.B. 548: C. VII 85: cfr. C. VII 265 152, 1: C. VII 87: cfr. C. VII 251 : C. VII 86, 87 152, 2-153, 1: cfr. C.S.B. 150: C.S.B. 548

153, 2: cfr. C. XVII 214: C.S.B. 548: cfr. R. III 1041 : C. XIV 132 1 54, 1: cfr. R. m 693, 761 154, 2: cfr. R. II 453-9: R. III 754-65 1 59, 1: cfr. C. VI 1 60-1, 1 68-9, 1 71 3 , 202, 1 88: cfr. C . V I 1 79, 326: cfr. C. VI 255-6 1 59, 2-1 60, 1: cfr. C. VI 326, 3 1 8, 307, 31 1 : C. VI 301 160, 2: cfr. C. VII 59: C. VI 311 1 60, 3-1 6 1 , 1: cfr. C . VI 208, 210, 326, 223, 224 161, 2: cfr. C. VI 227: C. VI 326: cfr. C. VI 230, 231 , 233, 309, 312, 326 162, 2: C. XXI 542 162, 3-163, 1: cfr. C . VI 271-5: C. VI 271 163, 2: cfr. C. VI 238, 327, 262 1 63, 3-1 64, 1: C. VI 337, 278, 302, 317 1 64, 2-165, 1: cfr. C. VII 26: C. VII 34 165, 2: cfr. C. VII 101-4, 131 1 65, 3-1 66, 1: C. VII 1 31 : cfr. C. VII 147, 1 04 1 66, 2� cfr. C. VII 224, 239, 249, 256, 285, 256 1 67, 2: cfr . R. II 5: I 810-1 1 : cfr. C. V 300: C. XVI 205: cfr. C.S.B. 66: C. VII 275, 287 409

1 68, 2: cfr. C. VII 271, 276: cfr. R. II 132-3.. 1 77-8 168, 3-169, 1: cfr. C. VII 252: C. VII 263: cfr. C. VII 265: C. VII 264 169, 2: C.S.B. 66-9 169, 3-1 70, 1: cfr. C. VII 287: C. VII 280 1 70, 2: B.A. 13. Ho rubato l'imma­ gine a Hubert Juin, prefazione alla Bible d'Amiens, Bourgois, 10/18, 1 986 1 71 , 2: C.S.B. 150-9, 786 1 72, 1: C.S.B. 157: cfr. C. VII 56, 33, 57 1 72, 2-1 73, 1 : C.S.B. 158: cfr. C.S.B. 152 1 73, 2: C .S.B. 925-6. La scena dell'Xl canto dell'Odissea viene spesso mescolata con quella del VI libro dell'Eneide. Cfr. C. III 1 96: C.S.B. 21 2-3: C.S.B. 532: R. II 78-9: R. IV 523, 528, 909 1 74, 2: C.S.B. 215 1 75, 2: C.S.B. 527 175, 3: C.S.B. 528-30 1 76, 2: C.S.B. 529 1 76, 3-1 77, 1: cfr. C.S.B. 528: cfr. R. II 432 1 78, 1: C. VIII 33: cfr. C. VIII 1 1 8, 302: cfr. R. I 30, 675, 692 1 79, 1: C.S.B. 312: cfr. C.S.B. 218, 214, 216: Ca. 61 1 79, 2-1 80, 1: C. VIII 39, 99: C. VIII 286, 316 1 80, 2: Ca. 69: cfr. C. IX 134: C. IX 139 1 8 1 , 2-1 82, 1 : cfr. C.S.B. 594: C . XVIII 380: R. I I I 396-8: C.S.B. 303 1 82, 2: C.S.B. 15. Cfr. l'introduzio­ ne di Jean Milly alla sua edizio­ ne critica dei Pastiches, Armand Colin 1 970

183, 2: cfr. C. VIII 75: C.S.B. 595: C. XVIII 380: C.S.B. 269 1 84, 2: R. III 473: C.S.B. 221, 309, 502 187, 1: C.S.B. 226-7 188, 2: cfr. C.S.B. 216: Ca. 71 189, 2: C.S.B. 21 1-2 189, 3: C.S.B. 212-3: cfr. Ca. 60 190, 2: C.S.B. 303-4 191, 2: C.S.B. 304, 301 : cfr. R. I 9656 191, 3-1 92, 1: C. IX 155-6 192, 2: R. I 648: cfr. R. I 634-5, 64852, 654-8 1 93, 2: R. I 962 1 93, 3: R. IV 689, 692: cfr. R. IV 689-94 1 94, 2: Ca. 51 : cfr. C.S.B. II 1 42, 146: cfr. R. I 63609, 677, 695 195, 1: cfr. i molti studi di Bemard Brun sul Contre Sainte-Beuve 196, 1: cfr. R. III 1096 1 96, 2: cfr. C. IX 1 62, 1 65-6, 1 67, 1 77: cfr. R. II 33 1 96, 3: cfr. C. IX 208, 218, 225: C . IX 1 96-7, 203: C.S.B. 216 200, 1: C. VIII 221 206, 1: cfr. C. XIV 358, XII 421 206, 2-207, 1: XIII 245, 257: R. III 613 207, 2-208, 1: cfr. XII 242-3: C. XII 250 208, 2: C. XII 2 1 2, 221 , 271 , 314, 336, 347, 314: cfr. C. XII 326, 341 209, 2: C. XIII 228: cfr. C. XIII 35565 209, 3-210, 1: cfr. C. XIII 355-65 210, 2-21 1 , 1: C. XIII 75: C. XII 387: cfr. C. XIII 21 7-221 21 1 , 2: cfr. C. XIII 2 1 5, 2 1 6, 2 1 7221 : R. IV 50-1 21 1 , 3: C. XIII 219 212, 2: C. XIII 243

212, 3-213, 1: C. XIII, 31 1 -3: C. XIV 357-60: C. Xlll 354: cfr. XIV 1 40 213, 2: cfr. C. XIII 283, 291 , XIV 66: C. XIV 71 214, 2: C. XVII 1 75: cfr. XIV 1 30, 47, 45, 76, 62, 304: cfr. XIII 304: cfr. C. XVIII 282 214, 3-215, 1: C. XIV 56, 82-3 21 5, 2: cfr. C. XIV 88, 84: C. XV 1 47: cfr. C. XV 23, 14: C. XV 23 2 1 6, 2: cfr. C . XV 1 3, 21 1 -2, 264, XIV 213: C. XVI 385 2 1 6, 3-3 1 7, 1: cfr. C. XVI 329: C. XVII 90 217, 2-21 8, 1: c. xx 228 220, 1: cfr. C. XIX 726, XVI 309, XV 74, XVI 336-7, XVI 1 96-7, XVII 288, 104, 168: cfr. R. IV 338 220, 2-221 , 1: cfr. C. XVI 302, XVIII 1 09, XIX 618, XVI 232, 339, XVII 379 221 , 2: cfr. XVI 1 82: la definizione di Dabescat appartiene a Geor­ ge Painter 222, 2: C. XVII 456: C. XVI 284-5: C. XVII 379-80 222, 3: cfr. C. XIX 527: C. XX 473-4: C. XIX 510: cfr. C. XVII 456 223, 2: c. xx 574: c. xx 349 224, 1: C. XIX 1 22-3: cfr. C. XVII 36, 330: C.S.B. 46: cfr. C. XVII 44-5 224, 2-225, 1: C. XVI 335: C. XVII 30: C. XVII 29 225, 2: cfr. C. XVIII 149, XVII 322, XVII 415-6, XVI 458: C. XIX 1 223 226, 1: cfr. C. XVI 60: C. XVI 1 65: cfr. C. XVII 1 43; XVIII 149 226, 2: cfr. C. XVI 274, 331 , 344 : C. XVI 369-70: C. XVII 335 227, 3-228, 1: C. XVIII 421 -4: C. XIX 427 410

228, 2: cfr. C. VIII 310 229, 2: C. XVII 37 230, 2: cfr. C. VIII 252, 260, 275, IX 80 231 , 2: cfr. C. XIV 266: C. XIV 269 232, 1: C. XV 49: cfr. C. XVIII 1 24 232, 2-233, 1: C. XVII 405: C. XVII 410 233, 2: C. XVII 502: C. XIX 4 234, 1 : C. XIX 1 87: Pierre Lafue, Pris sur le vif, Paris, Del Duca 1 978, p. 20 235, 1: cfr. C. XXI 476: C. XX 479: C. XXI 494 235, 2: C. XXI 1 83: cfr. C. XXI 342 236, 2: cfr. C.S.B. 644: cfr. C . XIX 618, xx 491 , 601 237, 2: cfr. C. XVIII 1 70: R. IV 61920: cfr. C. XIX 669, XX 329, XXI 479: C. XXI 302, 159 238, 2: cfr. C. XXI 519: C. XXI 5312: C. XXI 141, 1 1 8 239, 1: C. XXI 479 243, 2-244, 1: cfr. C. IX 241 -2 244, 2: R. II 1 97: cfr. C. XVIII 359: R. IV 622: C.S.B. 1 37. Sull'idea di cattedrale, il saggio di Domi­ nique Jullien, La cathédrale roma­ nesque, «Bullettin de la Société des Amis de Marcel Proust», 1 990, pp. 43 sgg. 245, 1: cfr. C.S.B. 606: C.S.B. 216: cfr. R. IV 610 245, 2: R. III 666-7 247, 3-248, 1: cfr. R. I 36, 44. Sulla madre e la memoria nella Re­ cherche, Philippe Lejeune, Écri­ ture et sexualité, nella Recherche, Mario Lavagetto, Stanza 43, Ei­ naudi 1 991 386, 1: R. III 583 386, 2: Jean Milly, Proust dans le texte et l' avant-texte, Flamma­ rion 1 985, p. 201 : R. IV 293: cfr. R. IV 293-4 387, 2: C.S.B. 269 388, 2: R. II 1 65: R. III 30 389, 2: cfr. R. III 793, 859, 544, 546: cfr. R. IV 205 391 , 1: cfr. R. II 161-4: R. II 860 391 , 2: C. IV 1 56 392, 1: R. III 877: R. IV 477: R. III 692 392, 3-393, 1: cfr. R. II 246, I 828, I ·

965, II 246, III 888, II 658. Intorno alla «stereoscopia>> nella Recher­ che, Roger Shattuck, Proust's Bi­ noculars, Random House 1963 393, 2: cfr. C.S.B. 268, 290 395, 2-396, 1: R. III 332-3 395, 2: cfr. R. II 842-854 396, 3-397, 1: cfr. R. II 842-854 397, 2: R. III 762 397, 3-398, 1: R. II 594 : cfr. R. II 1 481 , 298 398, 3-399, 1: su storia e opinione nella Recherche, Anne Henry, Marcel Proust. Théories pour une esthétiq ue, cit., pp. 344 sgg., e Proust romancier, Flammarion 1983 400, 2: cfr. R. I 222, 212 401 , 2: R. IV 625

Indice

Parte prima

LA COLOMBA PUGNALATA 9 I La felicità 16 II Gli dèi mascherati 35 III Willie Heath, Reynaldo Hahn, Lucien Daudet 55 IV Una telefonata da Fontainebleau 71 v Gli altri, il dolore VI L'asma 85 95 VII Jean Santeuil 1 1 6 VIII Antoine Bibesco, Bertrand de Fénelon 1 25 IX Ruskin x Vita e morte con la madre 143 Parte seconda

ATTORNO ALLA RECHERCHE 1 59 1 78 1 98 206 219 234

I Cabourg e la fuga II Ricordo di una mattina III Due visitatori

Due morti v Ringraziamenti di un convalescente VI 1 8 novembre 1 922 IV

Parte terza

LA RECHERCHE 243 263

I Il Pronao, parte prima: la memoria, il sonno II Il Pronao, parte seconda: la colpa, Combray 417

Il Pronao, parte terza: Swann, la gelosia,

277

III

291 296

IV Chi era Marcel v Gli alberi, le acque, le jeunes filles

la musica

317 VI 333 VII 341 VIII 368 IX x 384 403 405

I Guermantes e il mito Apollo e la morte Sodoma e Gomorra Il tempo ritrovato Il Narratore

Nota Elenco delle citazioni e delle allusioni

cc La Colomba Pugnalata>> di Pietro Citati Bestsellers Oscar Mondadori Arnoldo Mondadori Editore

Questo volume è stato stampato presso Arnoldo Mondadori Editore S . p . A . Stabilimento Nuova Stampa - C l e s (TN) Stampato in Italia. Printed in Italy