La bellezza salverà il mondo 8882273296, 9788882273293

“Accostando un monaco maturo, non trovi qualcosa di sovrumano che ti strabilia e ti provoca vertigini, ma qualcosa di pr

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La bellezza salverà il mondo
 8882273296, 9788882273293

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LA BELLEZZA SALVER‘ IL MONDO

Nella stessa collana SPIRITUALI -

pneumatikoi

Bartholomeos I, Gloria a Dio per ogni cosa Ignazio IV, Un amore senza finzioni E. Timiadis, Chiamati alla libertÜ

Invieremo gratuitamente il nostro Catalogo generale e i successivi aggiornamenti a quanti ce ne faranno richiesta. www.qiqajon.it www.monasterodibose.it

AUTORE: TITOLO: COLLANA: FORMATO: PAGINE: PREFAZIONE: TITOLO ORIG.: EDITORE ORIG.: TRADUZIONE: IN COPERTINA:

Basilio di Iviron La bellezza salverÜ il mondo Spirituali - pneumatikoi 18 cm 155 Antonio Ranzolin To` ka´lloj qa` sw´sh to`n ko´smo ß Iera Moni Iviron, Monte Athos 2005 dal greco a cura di Antonio Ranzolin, revisione di Vassilis Kalogerakis Basilio di Iviron

Prima edizione digitale: 2017 ß 2011, 2017 EDIZIONI QIQAJON COMUNIT‘ DI BOSE 13887 MAGNANO (BI) Tel. 015.679.264 - Fax 015.679.290

isbn 978-88-8227-750-5

BASILIO DI IVIRON

LA BELLEZZA SALVER‘ IL MONDO

EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE

PREFAZIONE

Secondo viaggio al Monte Athos. Con tre amici. Saliamo sul battello che dal porticciolo di Simonos Petra – il monastero delle vertigini, appollaiato sulla roccia – ci porta a Dafni. Devo pagare. Non ho spiccioli. Ho solo alcune banconote. Non me le cambiano. Non ne hanno la possibilitÜ. Un monaco à seduto. Osserva la scena. Osserva la mia difficoltÜ e quella dei miei compagni, mentre frughiamo le tasche per cercare, inutilmente, monete. Dalla sua sacca estrae allora il denaro occorrente e lo mette tra le mani dell’impiegato. Con un sorriso. Si risiede. Protesto. E lui mi fa segno di sedermi al suo fianco. E di accettare di essere amato. Semplicemente. Padre Giorgio. Mi presento. Presento i miei compagni. Tiro fuori un libro che ho portato con me. Perchß, quando à uscito, mi ha subito conquistato (tra quanti amici l’ho diffuso!). Ma anche perchß lo so amato dall’Athos: l’autore à un suo figlio, uno dei fiori piô belli della Santa montagna. Puð dunque fungere da passapor5

to: l’abbraccio à piô facile quando ci si riconosce incendiati dai medesimi amori. Il viso di padre Giorgio si illumina. Bacia l’icona della Santissima, rappresentata nella copertina delle Lettere dell’anziano Iosif 1. Giubila come un bambino, per il fatto che il volume, a lui oltremodo caro, abbia conosciuto una traduzione italiana e due parole di prefazione di padre Efrem, suo igumeno. Tripudia. Dafni. Il porto principale dell’Athos. Viavai di pellegrini, viavai di monaci. “Dove andate? Venite nel mio monastero!”. Autobus sgangherato che porta fino a Karyàs, la capitale. Pieno, strapieno, come sempre. Padre Giorgio chiede a un greco la cortesia di cedermi il posto (nel battello gli avevo accennato ad alcuni problemi alla gamba sinistra). Senza che glielo domandi, interviene. Pietoso. Sono giÜ nella sua mente, nel suo cuore. Anche nella sua preghiera? Eccomi, di nuovo, seduto accanto a lui. Il rosario scorre tra le sue dita, ininterrottamente. Lunghi silenzi, in mezzo a un vociare orientale dentro un autobus tutto orientale. La santitÜ, padre Giorgio. “• piô facile in monastero – mi dice – che nel mondo. LÜ, se lo vuoi, tutto ti guida, ti conduce ad essa. Nel mondo, perð, quando c’à, à piô grande. Perchß à frutto di piô grandi fatiche. In un ambiente difficile, talora ostile”. 1 Cf. Iero Iosif, Le Lettere, a cura di Lorenzo monaco, Edizioni Valleripa, Valleripa-Linaro 1988.

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Padre Giorgio continua a sgranare il suo rosario. E io mi sento un idiota ad aver parlato di santitÜ. Come se non conoscessi i miei peccati, le mie miserie, il fango in cui sguazzo, e con piacere. Ma forse à lui, padre Giorgio, con la sua sola presenza, a inocularmi una nostalgia... Appuntita. Acuminata. Karyàs, finalmente. Si scende. Il piccolo popolo dell’autobus sgangherato si disperde. Una macchina attende padre Giorgio. Fa salire anche noi. Filotheou. Foresteria del monastero. Padre Giorgio ci presenta al giovane monaco – Giorgio anche lui – incaricato degli ospiti. Poi si congeda. Non senza avermi chiesto di poter tenere tra le mani e sotto gli occhi, per il resto del giorno e per la notte, il libro del suo Iosif. Non senza averci preannunciato il trattamento che, in quanto non ortodossi, ci sarebbe stato riservato: nel refettorio avremmo mangiato dopo gli altri; solo il nartece esterno della chiesa avrebbe potuto accogliere i nostri piedi. Discutibili regole. Discusse, effettivamente, e non condivise, da alcuni greci ospiti al pari di noi. Ma egli si scusa. Si appella alle usanze del monastero. Spiegandole, come puð. E con il suo abbraccio tacita ogni obiezione, supera tutto. Un abbraccio da cui ci sentiamo trasportati, in refettorio, nei posti d’onore piô grande, proprio accanto all’igumeno, e, in chiesa, nel santuario, nel santo dei santi, proprio accanto a chi celebra. Cala la notte. Le porte del monastero sono giÜ chiuse da tempo. La grande stanza in cui siamo alloggiati ospita anche altra gente. Ciascuno à nel suo letto. Si accinge a pren7

dere sonno. Per alzarsi, l’indomani, assai presto, prevenendo il levarsi del sole, per il mattutino. Si apre all’improvviso la porta. Ed ecco, sulla soglia, stagliarsi la figura di padre Giorgio. Si avvicina con passi silenziosi al mio letto. Si piega. Sussurra una domanda: “Tutto a posto? Tutto bene?”. Sç, tutto a posto. E scompare fulmineo come fulmineo à entrato. Tutto a posto, padre Giorgio. L’ospitalitÜ à buona, il letto à confortevole. Il monastero à come una madre che ci accoglie, nella notte, tra le sue braccia, e tu ne sei la voce amorevole. Che bisbiglia “buona notte” ai quattro italiani. Buona notte, padre Giorgio. Tutto à a posto. Mattutino nel nartece esterno. Mentre la notte si arrende via via al nuovo giorno. Vedi passare monaci e pellegrini, ma tu non entri nel cuore del tempio. Eppure sai che la Luce trisolare che infiamma l’altare arriva anche a te, assimilato ai catecumeni, ai penitenti (ma forse che il tuo posto – il posto che si addice alla vita che vivi – sarebbe diverso?). Un raggio della Luce inaccessibile arriva anche a te. L’abbraccio di ieri di padre Giorgio te lo testifica. Te lo conferma. E anche tu unisci le tue preghiere, povere, lontane, al canto dei monaci. E tutto si mescola e sale, all’unisono, al Cardiognosta divino. Abbi pietÜ di me, e di tutti. O Pietoso. O Filantropo. O Sole che illumini i giorni e le notti. Passa il tempo. Vorremmo partire. Visitare Karakallou. Ci raggiunge padre Giorgio, con il libro. Ci parla di Iosif, del suo Iosif. Un folle. Un vero sapiente. Un innamorato. Che continua a incantare. A insegnare. A 8

stupire. A spronare. Padre Giorgio usa tutto il ventaglio delle sue piô belle parole... Lo salutiamo. O, meglio, vorremmo salutarlo. “Vi accompagno”. E ci accompagna lungo il sentiero che, attraverso il bosco, porta a Karakallou. Rumore dei nostri passi che calpestano la terra, fruscio di foglie, canto di uccelli. E silenzio. Siamo in silenzio. In compagnia di un risorto che, in silenzio, ci spiega le Scritture. E ogni mistero. Camminando con noi. In silenzio. Il nuovo monastero à vicino. I due chilometri che lo separano da Filotheou sono stati quasi percorsi. Padre Giorgio ci blocca. “Non so il perchß, nß ha importanza il saperlo. So solo che ho sentito qualcosa dirmi: Accompagnali, abbracciali. E prometti loro che li ricorderai. Sempre. Non so perchß ci siamo incontrati. So solo che à stato voluto da un Altro. A quest’Altro vi affido”. E ci abbraccia. E lo abbraccio. E scompare nel bosco. Ciao, padre Giorgio. Benedici. Benedici sempre. Come hai promesso. Altre due volte sono tornato al Monte Athos. Mai ho cercato padre Giorgio. Mai. Vive ancora? O à passato all’altra Riva, dopo aver solcato tutto il suo mare? Non so, non importa. Di una cosa son certo. Mi sono sentito accarezzare dal suo amore di fratello, di padre. E avvolgere dalle sue preghiere. Un sentimento, questo, che ritorna spesso nelle ore buie della lotta, della vita: “Non disperare”, mi dico. Nel giardino della Santissima (di Grecia o del cielo) c’à un padre Giorgio che sgrana rosari per te. 9

* *

*

La bellezza salverÜ il mondo dell’archimandrita Basilio mi ha rinviato a padre Giorgio. E a tutte quelle figure che esalano il buon odore di Cristo conosciute, per grazia, lungo la mia strada. Uomini e donne di oriente e di occidente (le acque sotterranee si incontrano sempre...) che a un certo punto compaiono nel tuo orizzonte vitale, per scomparire subito dopo perchß sia Cristo a rimanere stabilmente dentro di te. Come profumo, come luce, come consolazione. Come farmaco che à lç per guarirti. Come nostalgia acutissima di cið che sei e non vivi... A quelle figure ci rimanda Basilio. Allo loro bellezza rivelatrice di un’altra Bellezza. E creatrice di bellezza. La teologia à questo. Solo questo: raccontare la vita dei santi. Ossia le potenzialitÜ davvero divine della natura umana. Le potenzialitÜ cristiche. Spazi infiniti; profonditÜ abissali; amore straripante, disinteressato e sacrificale; sfolgorio di luce increata, pasquale... Non ha fatto questo, in fondo, il gigante Gregorio Palamas, quando ha teologicamente difeso, contro i razionalisti del suo tempo, l’esperienza degli esicasti? Non à questo che ribadisce, in una pagina mirabile che funge da introduzione al suo capolavoro, Pavel Florenskij? “Che cos’à l’ecclesialitÜ?”, si chiede il futuro deportato e fucilato. “• una vita nuova, la vita nello Spirito. Qual à il criterio di veritÜ di questa vita? La bellezza ... Gli specialisti di questa bellezza sono gli star10

cy spirituali”2, gli anziani. Alla cui sequela impariamo la sequela di Cristo, cioà la teologia. Non dice questo, ancora, e in maniera ripetuta, in tutti i suoi libri, quel teologo greco spesso e volentieri “eccessivo” che risponde al nome di Giovanni Romanidis? Quando sottolinea che la chiesa – e con essa la teologia – ha un solo compito: terapeutico. Guarire la nostra umanitÜ decaduta e dilatarla fino alle sue estreme possibilitÜ. Cristiche, appunto. Per farla partecipe dell’umanitÜ nuova: profeti, apostoli, santi. Nella “Gerusalemme celeste”, tra le “miriadi di angeli”, con l’“adunanza festosa”, in mezzo all’“assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli” che “seguono, ovunque vada, l’Agnello”... L’archimandrita Basilio ci rinvia dunque, in questo libro, alle figure dei santi. Sia quando li richiama espressamente sia quando sembra trattare di altro. Santi con un nome (Porfirio, ad esempio) o senza nome. Santi che sono il nostro vanto e la nostra gloria: il vanto, la gloria e la bellezza della natura umana. Non à dei santi che abbiamo disperatamente bisogno? Non à la pietosa compagnia dei santi a illuminare le nostre notti? Antonio Ranzolin

2 P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della veritÜ. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Milano 2010, p. 13.

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PROFILO BIOGRAFICO

L’archimandrita Basilio (Gondikakis) nasce nel 1936 a Creta. Dopo gli studi teologici ad Atene e a Lione, si ritira, nel 1966, al Monte Athos, inizialmente in un eremitaggio, poi nel monastero di Stavronikita, di cui, per una ventina d’anni, à l’igumeno. Dal 1990 al 2005 à superiore del celebre monastero di Iviron, il terzo per importanza nell’ordinamento athonita. La sua presenza al Monte Athos coincide con il progressivo passaggio dal sistema idioritmico a quello cenobitico di vita dei monasteri, e lo favorisce. Attualmente egli vive in solitudine in un’abitazione vicina ad Iviron. I suoi libri conoscono molteplici edizioni in Grecia e traduzioni in varie lingue; costituiscono “la sorpresa di una testimonianza filocalica contemporanea” (Christos Yannaras). In italiano sono stati pubblicati: Canto d’ingresso. Il mistero dell’unitÜ nell’esperienza liturgica della chiesa ortodossa, Cens-Interlogos, Cernusco sul Naviglio-Schio 1992 (la sua opera maggiore); La parabola del figlio prodigo, Cens-Interlogos, Cernusco sul Naviglio-Schio 1993; sei altri brevi scritti o discorsi all’interno del volume Aa.Vv., Voci dal Monte Athos, Cens-Interlogos, Milano-Schio 1994 (fra questi, una splendida introduzione a Isacco il Siro e un commento teologico agli affreschi del monastero di Stavronikita). 13

Tutto cið che ha umiltÜ à divinamente bello. Isacco di Ninive

DAL VECCHIO AL NUOVO ADAMO

L’inferno della separazione

Adamo non ha accolto nel rendimento di grazie – secondo una modalitÜ eucaristica – tutto il creato, l’amore e il comandamento di Dio1. Non ha obbedito a Dio. Si à mosso individualmente. Ha reagito con precipitazione e, in seguito, con una vigliaccheria sfrontata. Ha avuto paura di Dio, quando l’ha sentito camminare nel paradiso. Ha addossato la colpa all’altro, a Eva, al serpente. Ha accusato l’Altro. Ha accusato Dio. Ha guadagnato la maledizione. Non ha compreso qual à la natura e la missione dell’uomo. Si à separato dall’altro. Si à separato da Dio. Si à separato dalla comunicazione, dalla comunione divina, dalla comunione universale – cattolica – che à divina. • entrato nell’inferno della separazione, della non comunione, nella frenesia di salvare il proprio io a spese dell’altro. Allora, come riferisce san Simeone il Nuovo Teologo2, l’intera natura si à rivoltata contro i progenitori. Gli animali si sono inferociti. Sono divenuti bel17

ve e si sono avventati su di loro per sbranarli. Quelli si sono difesi. E ha avuto inizio la storia a tutti nota, non della pericoresi nell’amore3, ma della difesa individuale, della separazione. Ciascuno si isola nel suo amor proprio, in quello corporeo o in quello spirituale. Da lç lancia fuoco e fiamme, morali o materiali, sull’anima e sul corpo dell’altro. Ci siamo cosç inferociti che nessun altro intervento poteva salvarci che non fosse l’incarnazione e il sacrificio del Figlio di Dio. “Avevamo bisogno che Dio si incarnasse e morisse, per poter noi stessi vivere”4. Il Signore “si mette in comunione con l’uomo per la seconda volta, e in una comunione molto piô straordinaria della prima”5. Viene il nuovo Adamo. Si dimostra obbediente “fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8). Non lotta per difendere se stesso. Ha la missione di fare la volontÜ del Padre che lo ha mandato e compiere la sua opera (cf. Gv 4,34). Quest’opera à l’abolizione della morte, la nuova creazione. La comunione e la vita con Dio. Il fatto che l’uomo diventi dio per grazia. Che ciascuno ricapitoli il mistero del tutto. Che il Padre e il Figlio, per la grazia dello Spirito santo, vengano a prendere dimora in ogni credente (cf. Gv 14,23). Che tutti noi fedeli – la chiesa e, tramite essa, la creazione e la storia tutte – abbiamo un centro, un lievito, un focolare. Una grazia che avvinca, domini, benedica, santifichi e moltiplichi tutto.

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“Sono verme e non uomo”

Nell’incarnazione del Dio Verbo “fu sconvolta ogni cosa per preparare l’abolizione della morte”6. Come se il maligno subodorasse il prepararsi di qualcosa di tremendo (“• stata distrutta la mia potenza”7). Per questo ha cercato in ogni modo – di persona o servendosi di noi uomini come suoi strumenti – di distogliere il Signore dal compiere la sua opera. Il maligno voleva che una tale eventualitÜ fosse evitata. Che qualcos’altro, qualunque altra cosa, accadesse, fuorchß cið che doveva accadere. Ma il Signore à andato avanti fermamente, per fare la volontÜ del Padre che l’ha mandato (cf. Gv 6,38). Si à incamminato serenamente verso la passione. “Indurç il volto per andare a Gerusalemme” (Lc 9,51). Ha parlato, una volta, severamente a quanti lo spronavano a qualcosa di diverso: “Lungi da me, Satana!” (Mt 16,23). Un’altra, non rispondeva affatto alle proposte che gli venivano fatte sia per schernirlo (“Indovina! Chi à che ti ha percosso?”, Mt 26,68) sia per salvarlo (“Non sai che ho il potere di metterti in libertÜ?”, Gv 19,10). I suoi discepoli prendevano abbagli in continuazione non appena tentavano di aprire bocca e di mormorare qualcosa, quando il Signore parlava loro, rivelava loro il mistero del suo cammino verso la passione e verso il Padre. Si sbagliavano. Non rispondevano correttamente. Non capivano il Signore. Cristo patç per noi, lasciandoci un esempio (cf. 1Pt 2,21). La sua anima santissima ha conosciuto passio19

ne, umiliazione, sofferenza: “La mia anima à triste fino alla morte” (Mt 26,38), e cosç pure il suo corpo: “Ogni membro della tua carne santa ha sopportato per noi l’ignominia”8. “Non aveva nß apparenza nß bellezza” (Is 53,2) colui che era “splendente di bellezza piô dei figli degli uomini” (Sal 44,3)9. Ma “il suo aspetto era spregevole e deforme” (Is 53,3). Ha oltrepassato tutto il dolore umano. Ha preso su di sß tutta l’afflizione e tutti i peccati degli uomini: “Egli porta i nostri peccati e per noi patisce dolore” (Is 53,4). Si à umiliato a un punto tale, che solo un Dio puð umiliarsi cosç. La sua umiliazione estrema, la sua discesa negli inferi di una simile prova, supera le possibilitÜ umane. Egli non à solo uomo, à Dio-uomo. E cið si rivela non soltanto nella sua gloria, ma anche nell’ignominia che ha patito per la nostra salvezza: “Cosç sarÜ disprezzato dagli uomini il tuo aspetto” (Is 52,14). Ha superato i limiti dell’uomo anche nell’ignominia, nell’umiliazione, nella discesa. “Ma che significa la parola ‘ascese’ se non che prima era disceso?” (Ef 4,9). Quando il Messia arriva a dire di se stesso la tragica frase: “Sono verme e non uomo” (Sal 21,7), à come se dicesse: “Io sono Dio e non un uomo soltanto”. Ci rivela la vera dimensione della gloria nell’ignominia, nella kenosi, in ragione dell’amore. Il disonore della croce diventa gloria, perchß volontariamente il Signore si à sacrificato per gli amati. Quando à disprezzato, quando à umiliato e, nudo, crocifisso “per noi uomini e per la nostra salvezza”10, 20

la chiesa lo vede, allora, re della gloria: “Per questo lo chiamo re: perchß lo vedo crocifisso”11. Il Signore della gloria, grazie a cui e in cui sono tutte le cose (cf. 1Cor 8,6), accetta l’estrema umiliazione, agisce nel segno dell’obbedienza perfetta: “Non mi ribello, non contraddico. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le guance agli schiaffi; non ho nascosto la mia faccia alla vergogna degli sputi” (Is 50,5-6). Noi non possiamo umiliarci. Non possiamo e non sappiamo obbedire. Per questo lo lasciamo solo. “Chi puð ascoltarlo?” (Gv 6,60). Chi puð seguirlo in una simile passione? Chi puð restare sveglio assieme a lui nel Getsemani? Lo abbandoniamo, lo lasciamo solo, a dispetto di tutte le nostre promesse. Ma non à solo. C’à sempre il Padre con lui. Questa à la forza, questo à il contenuto della sua missione: vi à sempre il Padre in lui, e lui à nel Padre. Anche sulla croce. Quando si fece buio “da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio”, il Signore disse: “Dio mio, Dio mio, perchß mi hai abbandonato?” (Mt 27,45-46). • con lui il Padre, nel mentre lo abbandona. Segno di amore indicibile, reciproco, inspiegabile. Nessuno lo capisce: nessuno capisce la sua passione. Nessuno puð seguirlo nella lotta contro la morte, nell’umiliazione estrema. Va avanti da solo: “Il Cristo disceso solo per combattere contro l’ade12 à risalito con l’abbondante bottino della sua vittoria”13.

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“Fine della morte”

• entrato cosç tanto dentro di noi con il suo amore, la sua kenosi, la sua umiliazione. Siamo entrati cosç tanto dentro di lui, siamo arrivati cosç tanto vicino a lui con la nostra cattiveria, piccolezza, meschinitÜ. Lo hanno bestemmiato, gli hanno sputato addosso, lo hanno schiaffeggiato, schernito, percosso, lo hanno crocifisso, gli hanno fatto bere fiele ed aceto. Chi? I sommi sacerdoti, i soldati, i ladroni, i passanti, la folla tutta. I vicini e i lontani “radunarono ... tutta la coorte” (Mt 27,27) della storia contro di lui. “Ed egli, pur maltrattato, non apre la bocca” (Is 53,7). Avviene una lotta tra noi e Gesô. Una competizione impari. Lo abbiamo condannato a morte, con odio: “Via! Via! Crocifiggilo!” (Gv 19,15). In contraccambio ci dona, con amore, la vita eterna: “Fammi risorgere, e darð loro il contraccambio” (Sal 40,11). Non potevamo cadere piô in basso di dove siamo caduti. Non poteva sollevare piô in alto la natura umana di dove l’ha sollevata. Non possiamo piô separarci da lui, qualunque cosa facciamo. Noi siamo stati criminali nella misura piô grande possibile. Lui ci ha beneficato in una misura tale che un’altra à impossibile: “Nessuno ha un amore piô grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Ci siamo legati reciprocamente. Siamo divenuti fratelli del Figlio di Dio, a prescindere dal fatto che crediamo o no in lui. A prescindere dal fatto che ne 22

siamo consapevoli o no. A prescindere dal fatto che cið si situi nel subconscio o nella parte cosciente della nostra esistenza. Egli à sceso molto piô a fondo nel nostro io di quanto noi possiamo scendere o vedere. • penetrato nelle nostre profonditÜ sconosciute. E le ha riempite tutte di luce, perdono, consolazione. • disceso unicamente con amore e rispetto per la nostra natura – la natura nascosta e deiforme, che noi abbiamo violentato con la nostra ribellione –. Non à venuto per fare qualcosa di esteriore o di particolare. Ma cið che à unico, cið che à universale e indistruttibile. Non offre qualcosa che à una piccola parte di se stesso (fatica, insegnamento) o qualcosa di estraneo a se stesso (“sangue di tori e di capri”, Eb 10,4). Ma se stesso, interamente. Si sottopone alla morte volontaria. Non à sceso dalla croce vivo, come chiedevano gli ebrei, perchß quanti erano lç davanti potessero vedere e credere. Non à venuto per compiere simili interventi miracolistici, nß per impressionarci con eventi e fenomeni soprannaturali. • sceso dalla croce morto. E con la morte ha vinto la morte. Lç si trova l’unica grandezza della sua grazia e della sua forza. Non si sacrifica all’interno di un tempio, ma fuori di ogni casa e di ogni tempio, su un alto patibolo, la croce, per consacrare l’aere e la creazione intera. Ogni luogo à diventato un altare. Non si sacrifica nel cuore di una cittÜ per una sola nazione. Ma ha patito fuori delle mura e della cittÜ, 23

per mostrare che il sacrificio à universale – cattolico –: per tutta l’ecumene, per tutta l’umanitÜ14. • questo l’elemento confortante per l’uomo. “L’unica cosa nuova sotto il sole”15. Che rinnova l’uomo e la creazione. Risuscitato, egli conrisuscita l’ecumene. E si rallegrano la creazione intera e l’umanitÜ. Non abbiamo vincitori e vinti. Abbiamo solo vincitori. Abbiamo solo luce, solo gioia. “Tutto à ricolmo di luce”16. L’unico canto che mai si à ascoltato: “La morte à stata messa a morte!”17.

“Con veritÜ hai promesso che saresti rimasto con noi”

I discepoli “si ricordarono delle sue parole” (Lc 24,8) dopo la resurrezione. Solo da lontano appare chiaramente il mistero della salvezza. Sono soltanto i profeti a vedere gli eventi prima che accadano. La chiesa, dopo la resurrezione e la pentecoste, vive con il Signore e lo conosce realmente come pienezza di vita eterna. Adesso capiamo che il Signore doveva venire, incarnarsi. Questa sua visita à stata una teofania: “Ci ha visitati dall’alto il nostro Salvatore”18. Doveva patire, essere crocifisso, per vincere la morte: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). 24

Doveva partire, perchß noi lo conoscessimo. Se non fosse partito, non sarebbe venuto lo Spirito. Se non fosse venuto il santissimo Spirito, il Signore sarebbe rimasto a noi sconosciuto. Lo avremmo perduto. Doveva ascendere al cielo, raggiungere il Padre, per manifestarsi veramente nello Spirito: “Gesô ... essendo nel Padre si riconosce maggiormente”19. Quand’à venuto, ci ha colmati di gioia, di luce. Quand’à partito, abbiamo capito che allora à venuto, si à rivelato. Rimane con noi. Ci trova. Ci prende con sß. Ci distende e ci dilata, perchß arriviamo alle sue misure: “Con veritÜ hai promesso, o Cristo, che saresti rimasto con noi sino alla fine dei secoli”20. La sua incarnazione à stata una teofania e una manifestazione del suo amore. E la sua partenza, la sua ascensione, il suo diventare invisibile à la vera teofania e permanenza tra noi: “Nessuna condizione ha delimitato Gesô dopo la resurrezione: non il luogo, non il tempo, non la quantitÜ, non la qualitÜ”21. Egli, quale Dio inintelligibile e ineffabile, nel manifestarsi inevitabilmente si nasconde e nel nascondersi si manifesta. Qualunque sua manifestazione a livello delle nostre misure à una kenosi e una forma di nascondimento. Non possiamo comprendere o esprimere il mistero dell’epifania divina. Per questo, il divino Dionigi confessa: “Egli rimane occulto anche dopo la sua manifestazione o, per parlare piô divinamente, nella sua stessa manifestazione siffatto mistero di Gesô rimane nascosto e non puð essere spiegato in se stesso da nessuna ragione e da nessuna intelligenza ma, an25

che quando se ne parla, rimane ineffabile, e quando si pensa rimane ignoto”22. Nel cammino verso Emmaus, appena “lo riconobbero ... sparç dalla loro vista” (Lc 24,31). Sparç dalla loro vista per rimanere per sempre con loro. Se egli fosse rimasto, una volta riconosciuto, essi lo avrebbero perso, perchß lo avrebbero circoscritto nel tempo e nello spazio; avrebbero detto: “Egli ora à lÜ”. Sparç dalla loro vista, una volta riconosciuto: cið significa che si à manifestato realmente e rimane con loro dovunque e sempre. Viene visto invisibilmente e conosciuto nell’inconoscenza colui che à al di sopra di ogni conoscenza. • cosç grande, che non solo deve allontanarsi perchß si manifesti la sua reale grandezza, ma deve diventare completamente invisibile per rivelarsi come colui che à. Nel manifestarsi come colui che à, ci risuscita alla vita. Ci fa trovare noi stessi. E l’uomo si trova quando si perde a causa del Signore e del suo vangelo (cf. Mc 8,35). L’uomo, in tal modo, risorge. • assunto in cielo. Assume altre dimensioni. Acquista la grandezza che gli à propria e l’antica bellezza. Entra “in un’unione senza confusione”23 con la vita eterna. Adesso capiamo perchß ha detto a Tommaso: “Perchß mi hai veduto, hai creduto – anche questo à un bene, à l’inizio –. Veramente beati, tuttavia, sono quelli che credono pur senza aver visto” (cf. Gv 20,29). Essi mi vedranno sempre, senza ostacoli (sia quando mi perdono sia quando mi trovano). Mi vedranno nello Spirito. Pertanto, nß quando non mi vedono io 26

manco a loro, nß quando mi vedono essi entrano in contatto con me, per il solo fatto che funzionano i loro sensi creati ed effimeri. Tutta la loro esistenza à un solo organo di senso, un solo occhio, e vedono unicamente me, la luce senza tempo. Vivono interamente in me e io in loro (cf. Gv 6,56). L’uomo diventa Cristo per grazia. Non vede il suo Signore e Dio per un attimo, con gli occhi carnali, e poi lo perde. Non tocca con un membro solo del suo essere (il dito o la mano) una parte sola del Signore (le mani o il costato). Ma l’intera esistenza del credente, anima e corpo, si trova unita con l’intero Dio-uomo: con la sua divinitÜ e con la sua umanitÜ. Nella sua interezza l’uomo si nutre e cresce in virtô di una segreta, reale e inseparabile unione con Gesô: “Tutto in tutto te stesso mi hai assunto in un’unione senza confusione”24. Vedi per un attimo, e mai perdi la visione di lui. Tocchi realmente con mano, una volta, e ti mescoli per sempre con il Dio-uomo, con la vita nuova, che ha vinto e soppresso la morte. Gli apostoli hanno toccato il Signore, si sono commisti alla sua carne e al suo spirito e si sono trovati al di lÜ della morte25. Il Signore à venuto per renderci partecipi della vita eterna. • venuto per iniziarci alla “conoscenza inconoscibile”26, al conoscere nell’inconoscenza, al vedere invisibilmente e all’ascoltare il suo silenzio. Perchß guadagnassimo la vita grazie alla sua morte; perchß perdendoci ci ritrovassimo; à venuto per rendere le realtÜ che riteniamo buone (salute, gioia, vita transeunte) davvero buone, capaci di essere trasfigu27

rate, santificate, rese incorruttibili; per trasformare le disgrazie (malattia, sofferenza, morte) in una benedizione, un’esultanza e una vita eterna concentrate. In tal modo, i veri credenti, i santi, non cercano la vita, nß sfuggono la morte, quando giunge la loro ora. Cercano il Dio-uomo, che dÜ senso alla vita e alla morte, alle cose celesti e a quelle terrestri. Egli discende nell’ade. E “ha infranto i chiavistelli della morte”27. Si avvia verso il cielo, ascende liberamente e si aprono porte celesti: “Alzate, principi, le vostre porte” (Sal 23,9). Gli viene dato “ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18). Domina sulle creature celesti e terrestri28. Si apre una via nuova e vivente attraverso il velo, cioà la sua carne (cf. Eb 10,20). Il cielo diventa accessibile all’uomo e la terra un paradiso. La divinizzazione si dimostra un’umanizzazione: “LÜ giunto [dopo il martirio e la morte], sarð davvero uomo”, confessa il teoforo Ignazio29. Anche l’occuparsi di cose effimere e materiali si rivela vita nello Spirito: “Anche quello che fate nella carne à spirituale. Fate tutto in Cristo Gesô”30. Mi completerð, arriverð alla “completezza che à in Dio”31, quando mi perderð. Mentre mi trovo qui, per via, anche se soffro (dal momento che non sono morto, non mi sono dissolto, non mi sono perso interamente), sono incompleto. Non sono ancora nato. Non esisto veramente. “Il parto à per me imminente”32, à la mia morte. Non solo vi à uno spazio di vita per l’uomo lç dove prima della resurrezione non c’era alcuna speranza, ma solo se giunge lç egli perviene alla pienezza. Si 28

completa. Arriva “alla completezza che à in Dio”. “O prodigio davvero soprannaturale! O stupore di pienezza! La morte un tempo ripugnante e odiata ora à esaltata e benedetta. Cið che un tempo procurava lutto e scoramento ... si à ora rivelato causa di gioia e di festa”33. La morte non à vista come libertÜ, nß come carcere la vita, quella piccola e transeunte. Vita e libertÜ sono Cristo, in quanto Dio e in quanto uomo, nella terra e nel cielo, per i vivi e per i morti. La terra non impedisce al credente di vivere nel cielo fin da oggi. Nß il cielo lo priva della grazia corporea, lÜ dove si trova il Signore con il suo corpo immacolato identico a Dio34, primizia della finale resurrezione corporea di noi tutti. Con la sua ascensione il Signore rimane inseparabile (riempie l’universo) e “dichiara a quelli che lo amano: ‘Non mi divido da voi. Io sono con voi, e nessuno à contro di voi’”35. Chi puð in effetti essere contro di noi, quando egli à con noi? Quale rumore puð coprire la parola che viene comunicata con il silenzio? Quale velo puð nascondere la vista di colui che si manifesta diventando invisibile? Chi ci puð dividere da colui che rimane con noi ascendendo al cielo e partendo da noi? Chi puð circoscrivere o imprigionare colui che si trova “dovunque e in nessun luogo”36? Quale prova puð minacciare la vita di chi si salva perdendosi a motivo del Signore (cf. Mc 8,35)? 29

• venuto a portare una nuova vita. Ora “la nostra natura un tempo caduta ... à stata collocata, oltre ogni comprensione, sul trono divino”37.

Nß materialismo nß idealismo, ma divino-umanitÜ

Il maligno ha cercato, dopo l’incarnazione del Dio Verbo, di impedire a qualunque prezzo il compimento dell’opera del Signore. Dopo la pasqua e la pentecoste cerca, con la medesima ostinazione, di contraffare e di occultare con passioni ed eresie l’unica veritÜ che salva – conosciuta nello Spirito – che à il Signore Dio-uomo. Per questo la chiesa, che à corpo di Cristo e lo stesso Dio-uomo che si prolunga nella storia, con una perseveranza divina e una fermezza irremovibile, vive e confessa la veritÜ del Dio-uomo, il dogma di Calcedonia. Quanti si accostano al Signore umanamente non lo conoscono. O lo condannano al legno infamante della croce, o lo falsificano con le eresie, nel loro sforzo di conoscerlo secondo la carne. “Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo piô cosç” (2Cor 5,16). Ora conosciamo tutto altrimenti, secondo lo Spirito. Viviamo tutto nel Cristo risorto. Ora abbiamo la chiesa, la nuova creazione. Un’altra realtÜ, la divino-umanitÜ. 30

Non materialismo. Nß idealismo. Ma divino-umanitÜ. Un diverso rispetto della materia e dell’idea, del creato e dell’increato. “Tutto si à mescolato”38. “Oggi le creature celesti fanno festa assieme alle terrestri e le terrestri conversano con le celesti”39. L’intera lotta – una lotta violenta e pacifica – à finalizzata alla salvaguardia dell’ortodossia, dell’equilibrio divino-umano. Essa à combattuta perchß non cadiamo nß in un precipizio nß nell’altro: perchß non uniamo in maniera inumana la creazione con il Creatore, incenerendone la natura, nß dissolviamo la DivinitÜ, perdendola nell’idolatria del panteismo.

“Gustate e vedete com’à buono il Signore”

Null’altro dobbiamo fare se non vivere nella chiesa, che à lo stesso Dio-uomo. Nella chiesa dello Spirito santo, dove la natura, tutta, “facendo ritorno al suo primo stato”40, à rinnovata e deificata. In tal modo, proviamo il dolore dei profeti che vedevano, nelle loro contemplazioni divine, il futuro martirio del Signore e la nostra ingratitudine, e si chiedevano: “Chi racconterÜ la sua generazione?” (Is 53,8). Accogliamo e gustiamo la grazia e la vittoria dei santi, che vivono nel Signore, conoscono i profeti e ci raccontano la generazione e la vita beata del Dio-uomo. In quale maniera il Crisostomo vive con Abramo e con Sara; si unisce al coro dei tre fanciul31

li, nella fornace ardente di fuoco, viene rinfrescato e si mette a teologare! In quale maniera Gregorio il Teologo vive gli eventi della nostra salvezza, filosofa secondo un’ispirazione divina, e si esprime poeticamente e con brevitÜ di parola! I santi padri, cosç, dài per grazia, assemblea dei primogeniti, sono la nostra vita, il ponte che ci porta fino alla nuova creazione, alla nuova comprensione dell’universo, al mondo rinnovato. Ci portano in modo vivo nel passato e senza inganno nel futuro. Ci rivelano il mistero dell’hic et nunc, unendoci con Cristo, che à l’alfa e l’omega, il passato e il futuro. Un fiume di acqua viva scorre nella chiesa. Parte dall’antichitÜ, attraversa i secoli e giunge sino a noi: profeti, apostoli, padri, martiri, giusti e santi41. Vivendo nella chiesa ortodossa – corpo di Cristo –, applicando quanto stabilito, restando fedeli alle regole, arriviamo a una porta aperta – che trascende le regole e ogni possibile aspettativa – “che nessuno puð chiudere” (Ap 3,8). Siamo condotti a una sorgente da cui zampillano acque purissime. Ci immergiamo e, rinfrescati, ci destiamo per un cammino infinito. Arriviamo a una festa giÜ iniziata. Troviamo la tavola imbandita (“la mensa à ricolma”42); un vino forte (“vino di compunzione”: Sal 59,5). Piô bevi, e piô ti rinfreschi e hai sete. Piô hai sete, e piô ribevi e ti inebri. E piô ti inebri, piô sei vigile e sobrio. SobrietÜ ed ebbrezza, fedeltÜ e cammino, stanchezza e riposo, perdita e ritrovamento, lamento straziante e urlo di vittoria diventano un’unica cosa. 32

Canto, inno, danza: “Genti tutte, battete le mani” (Sal 46,2), danzate in esultanza. “Tripudi la creazione, danzi l’umanitÜ: ci ha infatti convocati la santa Madre di Dio ... il talamo in cui il Verbo ha sposato la carne”43. Ogni festa della Madre di Dio e del Signore nella chiesa ortodossa à un’adunanza sacra, una sacra veglia notturna che ci introduce nel giorno stesso che non conosce tramonto. Ci porta presso la Madre di Dio, “che ineffabilmente ha generato nel tempo colui che à fuori del tempo”44. Culminando nella divina liturgia, ci rivela tutto il mistero della teologia e dell’economia divina. Cið che prima era diviso viene unito45: uomini e angeli, terra e cielo, creato e increato. La grazia del Padre e del Figlio e dello Spirito santo à inviata dall’alto. Incontra ciascuno e tutti. Dio à uno e tre. E noi siamo ciascuno e tutti. E vogliamo salvaguardare e vivere l’unicitÜ e la cattolicitÜ della persona e della comunitÜ. Cið trova attuazione nella chiesa. “Il muro di separazione che era frammezzo à abbattuto. La spada di fuoco si volge indietro”46. Tutti gli esseri danzano insieme. “Tutto si à mescolato”, senza confusione o divisione. Superiamo le parole e le espressioni: “Incapaci di esprimere a parole la tua inconcepibile trifulgida divinitÜ, noi inneggiamo a te, Signore amico degli uomini, e glorifichiamo la tua potenza”47. Nella veglia notturna si infrange la barriera della fatica e del sonno. Spunta un’altra resistenza, data 33

dall’alto. E stai lç, la sera, stanco e in piedi, come un albero dritto e immobile in pieno mezzogiorno. Straripi di vita. Non parli, ti muovi. Non ti muovi, stai fermo. Non stai fermo, sei travolto da un’altra Potenza, che ha fatto risorgere e ascendere Cristo, che dal non essere ha creato ogni cosa. Che opera in modo straordinario e mirabile all’interno e d’intorno, in tutti noi, che siamo piccoli e reietti: “Nß, infatti, il ricco à beato, nß à miserabile il povero, ma beato, tre volte beato à colui che sarÜ stimato degno di quel rapimento sulle nubi, anche se à il piô povero di tutti”48. Non ti interessa la vita o la morte, il sonno o la veglia, l’azione o l’inazione. Nel cuore dell’uomo, e ancora piô in fondo, qualcosa à stato posto, come dono, da lui, da lui che à fin da principio. Una fiamma che non si spegne. Una sorgente che non inaridisce. Un peso che vince e soffoca ogni disgrazia. Una forza che, quando scoppiano tempeste di qualsiasi tipo, ti spinge in alto, ti trascina fuori, in un cielo azzurrissimo. Non muta al sopraggiungere di mutamenti. Non teme minacce. Cresce, con il tempo, in maniera rigogliosa. Esiste al di lÜ di successi o di insuccessi, di esistenza o di inesistenza. Cosa sia, non lo sai. Sai soltanto che c’à. E questo qualcosa à il tuo essere, che à di un Altro, e ti à stato dato liberamente, e solo perchß lui lo ha voluto, lui che ti ha tratto dal grembo, la tua speranza fin dalle mammelle di tua madre (cf. Sal 21,10). Nonostante tu non lo meriti, nonostante tu lo respinga con la tua 34

condotta. Anche se tu, poveraccio, lo vuoi profondamente. • la tua esistenza e l’impasto unico dell’esistenza del mondo intero. Sei arrivato all’inarrivabile. Si à rivelato il mistero. I dubbi sono finiti. E sono iniziati nuovi cammini e una fermentazione teurgica49. • arrivato tutto. Il passato à ritornato. Cið che à morto à risuscitato. E cið che à arrivato viene in continuazione. Il gusto – l’unico – à buono: “Gustate e vedete com’à buono il Signore” (Sal 33,9). Qui solo sei grato, solo ringrazi. E rimani. Rimanendo nella divina eucaristia ti trovi nel centro. E centro diventa ciascuno. E ciascuno diventa persona, diventa il tutto, poichß cancella se stesso. Sopporti tutto e ti rallegri di tutto. Tutto arriva a te. Sfocia nel tuo essere, il tuo piccolo essere. La tua esistenza diviene, per grazia, a opera di un’altra Potenza, terra che contiene l’Incontenibile. E tutto inizia, parte, fluisce da te in un moto riconoscente di glorificazione, di umile contraccambio, di mai concluso ringraziamento (“per tutti i tuoi benefici che conosciamo e che non conosciamo”50), che porta nuova pienezza e gloria imperitura. “A te spetta ogni gloria, onore e adorazione...”. “Ti celebriamo, ti benediciamo, ti rendiamo grazie”51. “Le cose tue da cið che à tuo a te offriamo, in tutto e per tutto”52. Il centro, il punto finale, il termine in cui tutto si raccoglie. E il principio, da cui tutto procede. 35

E il tutto à oltrepassato per il tutto. Ed esisti con il non esistere. Con la rinuncia all’esistenza. Ti senti indegno di essa: “Vedo, o mio Salvatore, il tuo talamo adorno, e non ho la veste per entrarvi”53. Allora, in cambio, à inviata la grazia divina, à inviato il dono dello Spirito santo. E sei innalzato alla vera esistenza (“Nulla ha tralasciato di fare, fino a che non ci ha innalzati al cielo”54), dove un Altro comanda e governa. E questo Altro à il tuo io prezioso, la nostra vita inusitata e il nostro inusitato riposo. Egli à “colui che offre e colui che à offerto, colui che riceve e colui che à distribuito”55 nella liturgia dell’universo. Tutto à diventato comunione. Tutto à diventato armonia e divina liturgia. Tutto à stato unito, riconciliato, santificato. Adesso la chiesa, vivendo nello Spirito, comprende l’opera del Signore, l’opera che il Padre gli ha dato da fare (cf. Gv 17,4). E quest’opera diventa opera del popolo (leitoý ßrgon), una liturgia di vita. La vita della chiesa: “Noi e Cristo siamo una cosa sola”56. Il Signore vive in ciascun fedele e nella chiesa tutta. E ciascun fedele e la chiesa tutta vive in tutto il Cristo: “Facciamo attenzione gli uni agli altri per incitarci all’amore” (Eb 10,24). Questo bollore del mosto, che gorgoglia nel barile della creazione – eccitazione d’amore – à quiete, riposo, tempo sabbatico. Non vivi per te stesso. Vivi per l’Altro, e ti acquieti. Ti espandi, nella tranquillitÜ e nel silenzio, a opera di un’altra Potenza, che giunge santificando incessantemente profonditÜ nuove della tua esistenza. 36

Dobbiamo, noi che viviamo, non vivere piô per noi stessi, ma per colui che à morto e risorto per noi (cf. 2Cor 5,15), al quale spettano gloria e potenza nei secoli. Amen.

1 Lo scritto à stato pubblicato per la prima volta nella rivista Su´naxh 2 (1982), pp. 21-30. 2 Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Etico 1,2, in Id., Traitßs thßologiques et ßthiques, a cura di J. Darrouzàs, SC 122, Cerf, Paris 1966, pp. 188-191. Qui di seguito riportiamo un frammento del testo di Simeone cui il nostro autore rimanda, frammento che poeticamente tratteggia le conseguenze cosmiche della caduta: “La creazione tutta, appena vide Adamo uscito dal paradiso, non volle piô sottomettersi al trasgressore. Il sole non voleva piô risplendere, la luna non tollerava di far luce, le stelle preferivano non apparire ai suoi occhi, le sorgenti non trovavano un motivo per zampillare. I fiumi non volevano scorrere, l’aria meditava tra sß di ritirarsi e non dare possibilitÜ di respiro al ribelle. Le fiere e tutti gli animali della terra, allorchß lo videro spoglio della gloria di un tempo, lo coprirono di disprezzo e si inasprirono tutti, immediatamente, contro di lui. Il cielo, a buon diritto, stava per muoversi e cadere su di lui e la terra non accettava di portarlo sulle sue spalle” (cit. in Ieromonaco Gregorio [Chatziemmanouil], La divina liturgia. “Ecco, io sono con voi... sino alla fine del mondo”, Libreria editrice vaticana, CittÜ del Vaticano 2002, pp. 109-110) [N.d.T.]. 3 Giovanni di Damasco fa ben capire, nell’opera con cui à universalmente conosciuto, il concetto di pericoresi a livello trinitario: “La permanenza e la dimora delle ipostasi sono dell’una nell’altra: infatti esse sono inseparabili e indivisibili fra loro, avendo una reciproca compenetrazione senza confusione, in modo che esse non si fondono o si mescolano fra loro ma si tengono insieme scambievolmente” (Giovanni Damasceno, La fede ortodossa 1,14, a cura di V. Fazzo, CittÜ Nuova, Roma 1998, p. 86). Tale reciproca compenetrazione, indicata dal termine pericoresi, rimanda dunque a una coesistenza – nell’amore – dell’uno nell’altro senza confusione e nello stesso tempo senza separazione [N.d.T.]. 4 San Gregorio il Teologo, Orazione 45. Per la santa Pasqua 28, in Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Bompiani, Milano 2000, p. 1169. 5 Ibid. 9, p. 1145.

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6 Sant’Ignazio il Teoforo, Lettera agli Efesini 19,3 (cf. Ignazio di Antiochia, Ora comincio a essere discepolo. Le lettere, a cura di S. ChialÜ, Qiqajon, Bose 2004 [Testi dei padri della chiesa 68], p. 20). 7 Triïdion, grande sabato, vespro (cf. Anthologhion di tutto l’anno II, a cura di M. B. Artioli, Lipa, Roma 2000, p. 1132). 8 Ibid., grande giovedç, ufficio della santa passione (cf. Anthologhion di tutto l’anno II, p. 1058). 9 Le citazioni bibliche veterotestamentarie sono sempre tratte dalla versione greca dei lxx, di cui si adotta anche, in particolare, la numerazione dei salmi [N.d.R.]. 10 Dal Simbolo di fede. 11 San Giovanni Crisostomo, La croce e il ladrone 1,3, PG 49,403. 12 Secondo la tradizionale dottrina ortodossa, prima di Cristo appartenevano al regno dei morti – o ade o inferi – le anime di tutti i defunti, sia giusti sia ingiusti. Con la morte sulla croce, Gesô, nella sua anima divinizzata, “discese agli inferi”, “per portare l’annuncio [della salvezza] anche agli spiriti in prigione” (1Pt 3,19). Risorgendo gloriosamente, egli ha vinto la potenza della morte e ne ha sbaragliato il dominio. A partire dalla pasqua, le anime dei defunti si trovano in una condizione temporanea e transitoria, “intermedia”, fino alla seconda venuta del Signore, quando esse si uniranno ai loro nuovi corpi di risorti. “Alcune anime si trovano ... nella condizione di pregustare la gioia e la beatitudine eterne e altre nella paura delle torture eterne che nella misura completa avranno compimento dopo il giudizio finale. Fino allora nella condizione delle anime sono ancora possibili dei cambiamenti, specialmente mediante l’incruento sacrificio ... offerto per loro e mediante ogni altra forma di suffragio” (S. Rose, L’anima dopo la morte. Esperienze contemporanee alla luce dell’insegnamento ortodosso, Servitium-Interlogos, Sotto il Monte-Schio 1999, p. 204). La vittoria sulla morte come centro dell’opera salvifica di Cristo (morte che dunque non proviene da Dio nß à un evento “naturale”) e il fatto che l’uomo (neppure nella sua anima) non sia immortale per natura ma solo per grazia, sono due concetti che percorrono tutta la tesi di laurea del teologo greco G. Romanidis, di recente tradotta in italiano (G. Romanidis, Il peccato originale. Chi à l’uomo? Quale la sua storia?, Asterios Editore, Trieste 2008), e che danno ragione di quell’appellativo di “chiesa della pasqua” con cui la chiesa ortodossa viene identificata. Cf. anche S. ChialÜ, “Discese agli inferi”, Qiqajon, Bose 2000 [N.d.T.]. 13 PentekostÛrion, domenica di pasqua, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, a cura di M. B. Artioli, Lipa, Roma 2000, p. 159). 14 Cf., ad esempio, San Giovanni Crisostomo, La croce e il ladrone 1,1, PG 49,400-401. 15 San Giovanni Damasceno, La fede ortodossa 3,1 (cf. Id., La fede ortodossa, a cura di V. Fazzo, CittÜ Nuova, Roma 1998, p. 161). 16 PentekostÛrion, domenica di Pasqua, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 156).

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17 Parakletikß, tono 2, domenica, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno IV, a cura di M. B. Artioli, Lipa, Roma 2000, p. 212). 18 Menaæon, 25 dicembre, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno I, a cura di M. B. Artioli, Lipa, Roma 1999, p. 1170). 19 Sant’Ignazio il Teoforo, Lettera ai Romani 3,3 (cf. Ignazio di Antiochia, Ora comincio a essere discepolo, p. 33). 20 PentekostÛrion, domenica di Pasqua, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 162). 21 Macario di Magnesia, Apocritico 3,14 (cf. C. Blondel, Macarii Magnetis quae supersunt ex inedito codice, Parisiis 1876) [N.d.T.]. 22 San Dionigi Areopagita, Lettera III, in Id., Tutte le opere, a cura di P. Scazzoso e E. Bellini, Bompiani, Milano 2009, pp. 630-631. 23 Parakletikß, tono 4, domenica, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno IV, p. 305). 24 Ibid. 25 Cf. Sant’Ignazio il Teoforo, Lettera agli Smirnesi 3,2 (cf. Ignazio di Antiochia, Ora comincio a essere discepolo, p. 43). 26 Isacco il Siro, Discorsi 66. Per una traduzione parziale, fatta direttamente dal siriaco, dei Discorsi di Isacco, cf. Id., Discorsi ascetici/1. L’ebbrezza della fede, a cura di M. Gallo e P. Bettiolo, CittÜ Nuova, Roma 1984; per un’antologia dei suoi testi, cf. Id., Un’umile speranza. Antologia, a cura di S. ChialÜ, Qiqajon, Bose 1999; per uno studio complessivo della sua spiritualitÜ, cf. I. Alfeev, La forza dell’amore. L’universo spirituale di Isacco il Siro, Qiqajon, Bose 2003; infine, per un’introduzione al mondo teologico ed esperienziale di Isacco, cf. Basilio di Iviron, “L’abba Isacco esiste”, in Aa.Vv., Voci dal Monte Athos, pp. 217-251 [N.d.T.]. 27 Cf. Triïdion, grande sabato, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno II, p. 1112). 28 Cf. Divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, preghiera dell’inno cherubico (cf. Liturgia eucaristica bizantina, a cura di M. B. Artioli, Gribaudi, Torino 1988, p. 84). 29 Sant’Ignazio il Teoforo, Lettera ai Romani 6,2 (cf. Ignazio di Antiochia, Ora comincio a essere discepolo, p. 35). 30 Id., Lettera agli Efesini 8,2 (cf. Ignazio di Antiochia, Ora comincio a essere discepolo, pp. 14-15). 31 Ibid. 19,3 (cf. Ignazio di Antiochia, Ora comincio a essere discepolo, p. 20). 32 Id., Lettera ai Romani 6,2 (cf. Ignazio di Antiochia, Ora comincio a essere discepolo, p. 35). 33 San Giovanni Damasceno, Orazioni per la dormizione della beata vergine Maria 1,12 (cf. Id., Omelie sulla Beata Vergine, a cura di A. Caceffo, Edizioni Paoline, Alba 1973, p. 128). 34 Homïtheos: “della stessa divinitÜ di Dio”, “identico a Dio”. Cf. Giovanni Damasceno, La fede ortodossa, p. 220 [N.d.T.]. 35 Cf. PentekostÛrion, giovedç dell’ascensione, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 454).

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36 Cf. Sant’Efrem il Siro, Encomio a Pietro e Paolo, in Id., ’/Erga (Opere) VII, a cura di K. G. Phrantzolas, Ekdoseis To Perivoli tis Panaghias, Thessaloniki 1998, p. 119. 37 PentekostÛrion, giovedç dell’ascensione, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 457). 38 San Giovanni Crisostomo, Commento all’evangelista Matteo 1,2 (cf. Id., Omelie sul vangelo di Matteo/1. (1-25), a cura di S. Zincone, CittÜ Nuova, Roma 2003, p. 36). 39 Menaæon, 6 gennaio, grande benedizione delle acque. 40 Parakletikß, tono 1, domenica, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno IV, p. 167). 41 Hïsioi, nel testo greco. Il termine indica, in particolare, i santi provenienti dall’ambiente monastico [N.d.T.]. 42 PentekostÛrion, domenica di Pasqua, orthros, catechesi di san Giovanni Crisostomo (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 166). 43 Parakletikß, tono 1, domenica, piccolo vespro. 44 PentekostÛrion, giovedç dell’ascensione, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 457). 45 Cf. Triïdion, grande sabato, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno II, p. 1110). 46 Menaæon, 25 dicembre, vespro (cf. Anthologhion di tutto l’anno I, p. 1154). 47 Parakletikß, tono grave, domenica, mesonychtikon (cf. S. Giovanni Damasceno, Canti della Risurrezione, a cura di B. Borghini, Edizioni Paoline, Alba 1974, p. 195). 48 San Giovanni Crisostomo, Sull’ascensione del Signore nostro Gesô Cristo 5, PG 50,451-452. 49 Se il termine theourghæa, in base alle sue componenti (Theïs, Dio, ed ßrgon, opera) rinvia, da un lato, a un’opera di Dio o divina e, dall’altro, a un’opera che rende simili a Dio o divinizza, “fermentazione teurgica” allude a un’esistenza che si vede “lievitata” dalla presenza operante di Dio, capace di compiere le opere di lui e dunque a lui assimilata [N.d.T.]. 50 Divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, preghiera dell’anafora (cf. Liturgia eucaristica bizantina, p. 95). 51 Ibid. (cf. Liturgia eucaristica bizantina, p. 98). 52 Ibid. 53 Triïdion, grande lunedç, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno II, p. 946). 54 Cf. Divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, preghiera dell’anafora (cf. Liturgia eucaristica bizantina, p. 95). 55 Ibid., preghiera dell’inno cherubico (cf. Liturgia eucaristica bizantina, p. 85). 56 San Giovanni Crisostomo, Commento alla Lettera agli Ebrei 6,3 (cf. Id., Omelie sull’Epistola agli Ebrei, a cura di B. Borghini, Edizioni Paoline, Alba 1967, p. 126).

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SANTA SOFIA, LUCE DELLA NOSTRA STORIA

Il problema del conflitto1 tra il Fanar2 e Atene: inesistente e serio3. Ma non à nostra madre la grande chiesa4? Non si trova lç il nostro cuore, la nostra forza, il come fino ad ora siamo vissuti? E non si trova lç garantita la speranza del come possiamo vivere nell’epoca di un mondo globalizzato e internazionalizzato? * Si à acceso un piccolo fuoco. Ti aspetti che si spenga, ma esso divampa. Ha tutta l’apparenza di un fatto grave. • pericoloso. Puð trasformarsi in un incendio sciagurato. Osservando la vicenda dal Monte santo5, vorrei (me l’hanno chiesto anche taluni fratelli) dire due parole. In quanto aghiorita ti trovi, se sei vero monaco, in un luogo e in un sistema di sicurezza. Sei morto e sei libero. Chiese un monaco: “Perchß, camminando nel deserto, ho paura?”. L’anziano gli risponde: “Ancora sei vivo”6. Se fossi morto, non avresti paura di nulla. Saresti assolutamente libero e sensibile. Saresti un 41

solo organo di senso. Lo scopo della vita dell’uomo à quello di arrivare a quest’organo di senso, di diventare un solo organo di senso. Se una tale grazia ti viene data, ti muovi, allora, liberamente. Circoli a porte chiuse e aperte (cf. Gv 20,19), con i problemi risolti e irrisolti. Se una certa esperienza ti ha segnato; se qualcosa di simile, sia pure minimamente, ti à stato elargito; se hai trovato la consolazione dopo la grande prova; se sei uno “che ha sperimentato la resurrezione”7; se sei passato alla vita, sia pure una volta soltanto ma realmente, attraverso la morte (quella vera): allora puoi sperare. Puoi andare avanti. Devi tuttavia, poichß ancora ti trovi in questo mondo che cambia e si trasforma, procedere con molto timore e molta attenzione, radicandoti nell’amore (che à sacrificio di tutto) e nell’umiltÜ (che à brama di scomparire), perchß si manifesti l’Altro, che à consolazione di tutti. Dopo questa premessa, possiamo gettare uno sguardo sulla storia della nostra nazione. Penso che l’ellenismo abbia tracciato un percorso analogo. Ha cercato. Ha attraversato molte prove. • arrivato da qualche parte. Ha trovato qualcosa che non à del secolo presente e che al tempo stesso lo aiuta ad avanzare con chiarezza e fermezza nel secolo attuale. Tutto cið si rinviene nella teologia liturgica ortodossa. * Greci. Un piccolo popolo con grandi ambizioni. Perseguono la veritÜ. Amano il parlare forbito e vanno al di lÜ di esso. 42

Indagano, cercano in tutti i settori di trovare la causa prima; di trovare risposte alle domande nevralgiche in ordine all’uomo, al mondo, a Dio. Sono pronti ad ascoltare ogni novitÜ. Ad abbracciare la veritÜ che li convince. A rigettare tutto cið che non li appaga. Viaggiano, studiano, imparano. Rendono filosofia la meditazione della morte8; arte e tragedia, i loro problemi personali e le avversitÜ della storia. Non trovano pace nell’arte (neanche nella piô elevata), e nemmeno nella filosofia (“giochi da ragazzi”9). Vogliono proiettarsi verso qualcosa di piô audace e divino; verso qualcosa a cui li spinge e a cui li prepara la strada finora percorsa, la conquista finora ottenuta, la sete finora patita. “CiviltÜ dei greci. Nessuna adorazione della forza. Il temporale era appena un ponte. Negli stati d’animo non si cercava l’intensitÜ bensç la purezza”10. L’incontro dell’ellenismo con il cristianesimo ha marchiato la sua storia, ma anche quella dell’umanitÜ. Quando alcuni greci chiesero di vedere Cristo, il Signore disse: “• venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23). I greci (non i romani, nß gli ebrei) accolgono il messaggio della nuova creazione. Sono preparati dai filosofi, dai poeti, dai tragici. Tramite i greci il messaggio della nuova creazione si trasmette al mondo. Per questo padre Georgij Florovskij ha l’ardire di dichiarare: “Essere cristiani significa essere greci, dato che il Nuovo Testamento, di cui accettiamo la suprema autoritÜ, à per sempre un libro greco”11. 43

Nell’epoca ellenistica e romana, quando l’impero romano si espande come potenza, l’ellenismo penetra come spirito. Dopo le persecuzioni e lo spostamento della capitale dell’impero dall’antica alla nuova Roma, il diritto romano à il quadro e la base dell’amministrazione, la lingua latina à la lingua ufficiale dello stato. Con il tempo, in maniera fisiologica, il latino si spegne. Il greco parlato dal popolo ne prende il posto. Esso diviene lingua dello stato, del culto, della teologia, della letteratura... L’impero viene detto romano dall’inizio alla fine. Si trasforma in greco. Alla fine, à l’impero cristiano: quello dell’ellenismo cristiano. L’ellenismo pagano à superato. Ne rimane l’anima e l’opera, trasfigurata. Approdiamo a cið che i greci cercavano. Ai filosofi classici succedono i padri della chiesa. I primi sono modelli di riflessione e di pensiero. I secondi si dimostrano maestri universali, perchß non offrono il risultato della loro opera e della loro inquietudine intellettuali, ma la grazia di Dio, che viene data a quanti si consegnano integralmente alla sua volontÜ. Non pensano il divino, ma lo sperimentano. Si rivelano grandi luminari che illuminano con una luce increata l’ecumene. Sono incendiati dal fuoco insostenibile dell’eros divino ed estatico. Trascendono la creazione e il pensiero. Arrivano al riposo divino dell’eterna consolazione che salva l’uomo donandogli la libertÜ del secolo futuro, mentre egli vive nello spazio e nel tempo. “I principali maestri della nostra divina sapienza ogni giorno muoiono per la veritÜ rendendo testimonianza, come à giu44

sto, con ogni parola e opera, alla singolare conoscenza della veritÜ che hanno i cristiani”12. Si compie una trasformazione del vecchio mondo. Si realizza uno spostamento. Dalle cose vecchie passiamo alle nuove. Dalle cose confuse e profane a quelle che puramente e santamente concelebrano insieme. Dalle ipotesi e ricerche oscure, legate a un “cercare il Signore, andando come a tentoni” (At 17,27), all’“ora tutto à ricolmo di luce”13. Dalla filosofia ci eleviamo alla teologia, dalla tragedia alla divina mistagogia. Prende forma, come culto divino purificato, la divina liturgia, la grande settimana14. Tutti gli sforzi messi in atto e tutte le conquiste ottenute dalla Grecia nella filosofia, nella lingua e nell’arte si trovano presenti nel miracolo del culto e della teologia liturgica di Bisanzio, valorizzati e trasfigurati. Tutti gli elementi si distinguono, sono vivi come iniziati e concelebranti in uno sfolgorio sereno di luce increata e di bellezza divina. Nella mistagogia divina del culto ortodosso trovi, nella terra, il cielo, non come rappresentazione teatrale, ma come realtÜ liturgica. In questo clima a regnare e a regolare tutto à l’unione inconfusa e indivisa del divino e dell’umano: dono della presenza del Signore Dio-uomo, che à colui che offre e colui che à offerto15. Qui l’umiltÜ estrema si identifica con la gloria ineffabile, l’amore divino con la bellezza inconcepibile, la libertÜ con l’unitÜ. Non ci sono divisioni. Non c’à giudeo nß greco. Tutti sono uno in Cristo Gesô (cf. Gal 3,28). 45

La divina liturgia à offerta per l’ecumene. • il lievito del Regno che fa fermentare tutta la pasta, lo spazio dell’Incontenibile che abbraccia l’ecumene, il crogiolo che accoglie e amalgama, fonde e valorizza divinamente gli elementi positivi di ogni cultura e mentalitÜ. Non ignora l’occidente (la nuova Roma proviene da lç). Assume tutti i contrassegni caratteristici dell’oriente (la sua passione e la sua profonditÜ). Tutto viene messo alla prova, purificato: “Il fuoco proverÜ la qualitÜ dell’opera di ciascuno” (1Cor 3,13). Affiora un nuovo mondo. • la creazione della nuova civiltÜ: civiltÜ augusta e magnifica, civiltÜ amabile e serena. Accetta tutti. “Tutto copre ... tutto spera” (1Cor 13,7). Cið impregna, muta e santifica l’uomo intero e la sua creazione. Appare nel sistema sinodale di amministrazione, che si impone; nella compunta melodia degli inni, che si ascolta; nell’espressione ieratica delle immagini, che illumina la chiesa; e nella santa architettura dei templi, che accoglie l’uomo. Tutto, con la parola e con il silenzio, con l’opera e con l’ethos, manifesta la stessa realtÜ teantropica. “Ecco avanzare, con la sua scorta, il sacrificio mistico perfetto”16. Questo culto perfetto – questa perfetta teologia – viene offerto gratuitamente a tutto il mondo. La diffusione della fede si attua salvando e trasfigurando, e non conquistando e asservendo i popoli che vengono cristianizzati. Cið che offre la Bisanzio ortodossa ai suoi cittadini à una grazia che, nel tem46

po dell’impero, li mantiene modesti e, nel periodo della schiavitô, orgogliosi. * Quando cade e si perde l’impero, rimane la grande chiesa come forza etnarchica dei popoli ortodossi. Con la presa della CittÜ17, perdiamo la gloria dell’impero e guadagniamo la benedizione della prova. Nella chiesa à dimostrato che, quando perdi qualcosa di importante a cui sei attaccato, ti viene offerto (se appari degno della prova) qualcosa di piô prezioso, spirituale e indistruttibile, che non avresti guadagnato senza la perdita precedente. Nella condizione di schiavitô, che ci ha portati a “disperare ... della nostra vita” (2Cor 1,8), sussiste, quale potenza di vita, la fede. Resta la divina liturgia, la grande settimana, che prende tutto il popolo asservito, lo inizia al mistero e lo porta, attraverso la sua passione, all’evento della resurrezione; alla certezza interiore che c’à qualcosa che non si perde: una consolazione che ti accompagna nella schiavitô ed elimina la morte. Cið si puð vedere e toccare con mano nel modo in cui il popolo fedele à vissuto nel lungo periodo della turcocrazia18; nel modo in cui ha resistito nello spirito e nel corpo; nel modo in cui ha pianto, ha cantato il suo dolore; ha costruito le case e i templi; ha organizzato l’istruzione; ha lottato, si à sacrificato, con il cuore sempre gravido della brama di libertÜ, gravido della grande idea19. “Di nuovo, con lo scorrere degli anni, con lo scorrere dei tempi ...”20. 47

* Giunge la rivoluzione. Province greche vengono liberate. Si crea lo stato greco21. Si avvicina la realizzazione della grande idea. Arriviamo alla distanza di un soffio da Santa Sofia. Segue la disfatta dell’Asia Minore22 (sciagura, secondo molti, piô grande della caduta della CittÜ). Molti sostengono che la grande idea à persa. Non sembra piô esistere l’aspettativa, la lotta per Santa Sofia. Sostanzialmente, tuttavia, la grande idea non à persa, ma si illumina, si dilata e si eleva. Se si fosse perduta con una disfatta storica, cið significherebbe che non era poi cosç grande, ma piccola e perduta prima ancora di esserlo. Nostro obiettivo finale non à la conquista di un luogo geografico, ma l’ascensione in un mondo liturgico. Perdiamo qualcosa di materiale e si apre dinanzi a noi qualcosa di continuamente piô santo e spirituale. La via dolorosa e salvifica prosegue. Rimane, sempre, la divina liturgia, cioà la potenza che risuscita i morti e costruisce Santa Sofia. Alla fine, la grande idea della nostra nazione si identifica con la grande idea della nazione umana (à questa che dobbiamo servire), che à l’Amore incarnato, il sacrificio per l’altro. La nostra vita à un Golgota che porta alla resurrezione. Le prove storiche ci elevano a una mistagogia, che si rivela un’ascesa senza fine dal relativo e umano all’assoluto e teantropico. 48

* Il regime di Kemal Atatürk23 che segue la disfatta dell’Asia Minore, privo di una pur qualche nobiltÜ presente nella teocrazia ottomana, procede alla pulizia etnica con il genocidio delle minoranze24. Arriviamo alla realtÜ odierna, all’ora attuale in cui la grande chiesa continuamente à spogliata, umiliata, indebolita, resta appesa alla croce del proprio ufficio25. E lo compie divinamente e santamente. Appare, alla lettera, la veritÜ dell’altra logica: la gloria finale dello spirito che si identifica con l’umiltÜ estrema; la forza che “si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9). Essa comprende, in tal modo, il dolore dei deboli e sostiene le loro infermitÜ. • un fatto divinamente sacro, santissimo, che il primo nell’ordine tra le chiese ortodosse sia rivestito della clamide della debolezza. * Il cammino continua. Camminiamo. La storia cammina. I turchi, appena prendono Costantinopoli, la chiamano Qostantiniyye. Con il tempo essa si altera, scolorisce. Sentono che si sta perdendo cið che hanno conquistato. Ma la vogliono com’era. Vogliono la vita che li salva. E la CittÜ assume, per essi, un altro nome: diviene Istanbul. Diviene un cammino nostalgico verso la CittÜ che si sta perdendo26. Camminiamo tutti insieme. Capiamo che tutti, in quanto uomini, romani27 e turchi, liberi e schiavi, aspettiamo qualcosa di piô. “Non abbiamo quaggiô 49

una cittÜ stabile, ma ricerchiamo quella futura” (Eb 13,14). La nostra vita diviene un cammino verso una CittÜ. Nel nostro percorso storico arriva il momento in cui non combattiamo contro la Turchia, ma camminiamo assieme ad essa. Per un periodo di tempo siamo noi a precedere. Ci troviamo nell’Unione Europea. Anche i turchi vogliono entrarvi. Vogliono (à una necessitÜ storica) liberarsi di una certa brutalitÜ che hanno ereditato; entrare in un altro mondo; abbracciare una logica diversa; cominciare a rispettare un po’ l’uomo; cessare di sterminare in maniera cosç facile e sconsiderata gli inermi. Cið à consolante per tutti. Anche il popolo greco, quasi nella sua totalitÜ, lo vuole, se lo augura e lo favorisce. Talora, tuttavia, si sente una protesta stonata. Una voce che dice no. E non capisci da dove parta, su cosa si fondi, cosa persegua. Talora la individui in maniera piô concreta. A Creta vi à un incontro panortodosso. La rappresentanza del patriarcato ecumenico chiede alle altre delegazioni partecipanti di presentare un’istanza all’Unione Europea, in modo tale che nella costituzione europea in fase di elaborazione il patriarcato ecumenico venga citato come istituzione di portata paneuropea, nel momento in cui, quale chiesa ortodossa prima nell’ordine, ha la responsabilitÜ e il servizio dell’arbitrato per quanto concerne la soluzione dei problemi tra ortodossi. Cið che à evidente e accettato in maniera panortodossa à negato dalle rappresentanze di due chiese 50

locali, quella di Russia e quella di Grecia. Nel prosieguo delle discussioni, la loro tesi diventa assolutamente chiara. Il grande, quindi, retrocede. Il rappresentante del patriarcato ecumenico, avendo a cuore l’unitÜ delle chiese ortodosse, ritira la sua richiesta. E la domanda à la seguente: come e perchß cið à accaduto? Se per il rifiuto russo le ragioni possono essere comprensibili, e forse non nuove, per quello greco, tuttavia, le ragioni sono incomprensibili e sicuramente nuove. Cosa succede? La nazione che genera i grandi padri, che si segnalano come maestri ecumenici in quanto luminari universali, questa stessa nazione puð (rinnegando la grazia) generare nello stesso istante il piô grande tradimento? In una tale caduta, in un tale scivolone, tutti ci troviamo complici. Nessuno puð lavarsi le mani, come se fosse privo di responsabilitÜ. Tutti dobbiamo guardare in faccia il nostro stato miserando; cominciare a riflettere seriamente e a pentirci. Con una simile condotta volubile non creiamo problemi soltanto a noi stessi e al nostro paese, ma, altresç, all’intera chiesa ortodossa e all’ecumene. Non abbiamo alcun diritto di agire da sciocchi. • un dato evidente il nostro dovere e il modo di compierlo. Non apparteniamo a noi stessi ma a una missione sacra. E questa à definita da come hanno vissuto, da come si sono comportati e da che cosa ci hanno lasciato in ereditÜ quanti ci hanno generato nella carne e nello spirito. 51

* Ora che ci troviamo nell’epoca della globalizzazione; ora che i potenti sono spaventati dalla reazione degli oppressi; ora che vogliono reprimere il terrorismo con la minaccia della superioritÜ militare e con l’ostentazione della forza (non hanno altri modi), che genera solo reazioni piô grandi e innesca cieche esplosioni; ora che si parla di rievangelizzazione dell’Europa... Unica potenza che puð aiutare, rianimare tutti e riunire l’ecumene non à quella umana che signoreggia e tiranneggia sui deboli, ma la potenza divina dell’Amore sacrificale. • la logica e la condotta dell’Uno che si offre in sacrificio per la salvezza dei suoi fratelli, cioà di tutti, persino di coloro (o anzitutto di coloro) che lo odiano, gli sputano addosso e lo crocifiggono28. Questa à l’unica logica (il capovolgimento della nostra logica illogica). • la divina riconciliazione dell’amore. Tutti accettano l’amore, tutti lo capiscono, ed esso vince per tutti. E noi, deboli come siamo, non abbiamo nient’altro, liturgicamente, da offrire se non questa potenza minima che vince la morte mediante la morte. – L’impero bizantino dimostra che “l’ellenismo cristiano, l’ellenismo trasfigurato dalla manifestazione del Verbo e dalla venuta dello Spirito, à ormai totalmente un fatto della storia”29. Esso, con la grazia teantropica, ha generato la nostra sacra civiltÜ. – La caduta della CittÜ rivela la forza viva ed etnarchica della grande chiesa. 52

– La disfatta dell’Asia Minore mostra che, per quanto questa sia persa, non à tuttavia perduta, ma fiorisce e risplende la grazia e la forza della divina liturgia; ossia la grande idea e l’attesa dell’umanitÜ: “Di nuovo, con lo scorrere degli anni, con lo scorrere dei tempi ...”, e tutti guadagneremo. E vinceranno Amore e fratellanza. E scenderÜ sulla terra la pace.

* In ordine a tutto cið un messaggio giunge dal Monte santo e dalla CittÜ. Un secolo prima della caduta di Costantinopoli, l’aghiorita san Gregorio Palamas, ricapitolando la teologia e la pietÜ della chiesa orientale, chiarisce le relazioni tra creato e increato, tra ortodossia ed eterodossia. Conformemente alla tradizione della chiesa e all’esperienza del santo, la vita spirituale à il mutamento, la trasfigurazione e la divinizzazione – in forza della grazia – dell’uomo nel suo corpo e nella sua anima. Non equivale alla mera consacrazione intellettuale ad argomenti teorici e teologici. Questa tesi risulta oggi comprensibile anche da parte di molti occidentali che, malati di disidratazione e di deperimento spirituali – conseguenza della scolastica –, cercano aiuto dall’oriente, persino dall’estremo oriente. Al tempo stesso, la pietÜ della chiesa ortodossa risulta maggiormente comprensibile da parte della mentalitÜ musulmana che à nata e si à sviluppata nello spazio dell’oriente. 53

* Il Monte santo, in quanto figlio e frutto della grande chiesa, ha la parentela spirituale e la relazione ininterrotta (stabilita dalla tradizione) con la madre chiesa, che gli dona la resistenza della sopravvivenza e del rinnovamento. Quando l’impero cade, il Monte santo sopravvive, come anima e icona dell’impero, confine tra storia ed eternitÜ, dove i monaci dei popoli ortodossi continuano “palamicamente” la loro vita e la loro ascesi. Oggi, con la grazia di Dio, esso rivive (quando molti lo avevano cancellato), nutrito dallo spirito antichissimo e mai vecchio della vita e della sinodalitÜ liturgiche, che ha ereditato dalla madre chiesa. * Nella CittÜ odierna dai molti milioni di abitanti senti che a dominare ed a imporsi continuamente à la presenza di Santa Sofia, che, con un’ampiezza celeste di comprensione – estranea all’agitarsi di mire anguste –, celebra il mistero della salvezza di tutti. Anche tutte le moschee, cercando o di superarla in grandezza o di imitarla in grazia, dimostrano che in nessun caso rimangono indifferenti dinanzi a questa magnificenza inspiegabile della divina bellezza dell’umiltÜ. E Santa Sofia rimane in silenzio. Non à infastidita. Non infastidisce. Solo illumina, consola, sopporta e attende. Non sarebbe forse sconveniente se noi, i neogreci di oggi, potessimo – per il bene di tutti – ascoltare la voce di Santa Sofia... 54

1 Il testo à stato pubblicato dal quotidiano To` Bhˆma nei giorni 18 e 19 gennaio 2004 con il titolo: “Diama´kh metaxu´ Fanarı´ou kaı` ’Aqhnw ˆ n” (Conflitto tra il Fanar e Atene). 2 Fanar à il quartiere di Costantinopoli che ospita il patriarcato ecumenico, il quale à chiamato anche Fanar perchß proprio lç, a partire dal 1601, ha la sua sede [N.d.T.]. 3 L’autore si riferisce, in particolare, come spiegherÜ nel prosieguo del testo, alla contrapposizione tra chiesa di Grecia e patriarcato ecumenico nel corso di una consultazione panortodossa, tenutasi ad Iraklion (Creta) dal 17 al 19 marzo 2003 e consacrata ai rapporti tra le chiese ortodosse e l’Unione Europea. In quell’occasione, Atene e Mosca si rifiutarono di sottoscrivere la seguente proposta di Costantinopoli: invitare l’Unione Europea a riconoscere come persona giuridica d’interesse europeo il patriarcato ecumenico. Ma questa à solo una puntata del conflitto esploso in quell’anno. Un’altra si à vista dopo la morte, il 9 luglio 2003, dell’arcivescovo di Salonicco, con il problema della sua successione. • da ricordare che in Grecia vigono regimi ecclesiastici differenti: il Monte Athos, che conserva il suo antico privilegio di autoamministrazione, sotto la giurisdizione spirituale del patriarcato di Costantinopoli; le quattro metropolie del Dodecanneso e l’esarcato di Patmos, che dipendono direttamente dal patriarca di Costantinopoli; Creta, che ha un regime di semiautonomia sotto la giurisdizione di Costantinopoli; la chiesa di Grecia propriamente detta, che comprende le diocesi dell’“antica Grecia” – le regioni che hanno raggiunto l’indipendenza nel 1830 e la cui autocefalia à stata riconosciuta dal patriarcato ecumenico nel 1850 – e quelle dei “nuovi territori” – l’Epiro, la Macedonia e la Tracia –, riunite allo stato ellenico dopo il 1913 e “affidate per procura”, per quanto concerne l’amministrazione, da Costantinopoli alla chiesa di Grecia nel 1928. Il conflitto, scoppiato, come si à detto, nel luglio del 2003 e risoltosi nel luglio del 2004, verteva proprio sulle metropolie dei “nuovi territori” e sul diritto di nomina dei relativi metropoliti. La contesa à stata ricomposta nel senso che all’arcivescovo di Atene spetterÜ di proporre una rosa di candidati all’interno della quale il patriarca ecumenico nominerÜ il metropolita della sede vacante [N.d.T.]. 4 L’appellativo di “grande chiesa di Cristo”, attribuito inizialmente alla basilica di Santa Sofia, à passato a designare il patriarcato di Costantinopoli che in Santa Sofia aveva la sua impareggiabile cattedrale, terminata nel 537 ai tempi dell’imperatore Giustiniano [N.d.T.]. 5 HÛghion ros: à l’abituale denominazione del Monte Athos. “Santo” perchß proteso tutto alla santitÜ. Ricapitolazione e sintesi, nella coscienza degli ortodossi, di tutti i “monti santi” che la storia sacra ha conosciuto: Sinai, Carmelo, Sion, Tabor, Golgota... Da quella denominazione deriva il termine “aghiorita” per indicare il monaco che vive al Monte Athos o che lÜ ha ricevuto la tonsura monastica [N.d.T.]. 6 Detti dei padri, Serie anonima N 90 (cf. I padri del deserto, Detti editi e inediti, a cura di S. ChialÜ e L. Cremaschi, Qiqajon, Bose 2002, p. 102).

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7 Parakletikß, tono 3, domenica, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno IV, p. 262). 8 Cf. Platone, Fedone 81A, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 19965, p. 91 [N.d.T.]. 9 Eraclito, Frammento 70 (cf. I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di. G. Reale, Bompiani, 20083, p. 359). 10 S. Weil, L’ombra e la grazia, Rusconi, Milano 1985, p. 153. 11 G. Florovskij, “‘/Enaj au˘todı´daktoj da´skaloj. ‘H qeologikh` diaqh´kh tou” (Un maestro autodidatta. Il suo testamento teologico), in Su´naxh 64 (1997), p. 10. 12 San Dionigi Areopagita, I nomi divini 7,4 (cf. Id., Tutte le opere, p. 483). 13 PentekostÛrion, domenica di Pasqua, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 156). 14 La settimana santa del rito latino [N.d.T.]. 15 Cf. Divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, preghiera dell’inno cherubico (cf. Liturgia eucaristica bizantina, p. 85). 16 Divina liturgia dei presantificati, inno sostitutivo di quello cherubico (cf. S. Rosso, La celebrazione della storia della salvezza nel rito bizantino. Misteri sacramentali, feste e tempi liturgici, Libreria editrice vaticana, CittÜ del Vaticano 2010, p. 280). 17 Pïlis: uno dei nomi di Costantinopoli. Come Roma era l’Urbs per eccellenza, cosç Costantinopoli, “nuova Roma”, à per eccellenza la Pïlis. La CittÜ cadde in mano ottomana nel 1453 [N.d.T.]. 18 Si tratta di quattrocento anni (dal 1453, presa di Costantinopoli, al 1821, insurrezione greca che segna l’inizio della guerra di liberazione), cosç sintetizzati dal poeta e saggista contemporaneo Kostas E. Tsiropoulos (Larissa 1930): “I greci vissero quattro secoli subendo diversi martiri, tra cui il rapimento dei loro bambini da parte dei dominatori con lo scopo di convertirli in fedeli soldati musulmani, feroci torturatori dei greci stessi (i giannizzeri, famosi per la loro estrema crudeltÜ). Nel corso di quei secoli di tenebre e oscuritÜ, i turchi non lasciarono nella terra greca nessuna traccia di cultura, nessun monumento, ma solo il ricordo dei supplizi” [N.d.T.]. 19 MegÛle idßa, in greco. Rappresenta la speranza, da parte di Atene, di affermare la propria sovranitÜ sui territori storicamente greci – Costantinopoli in primo luogo – rimasti sotto il dominio turco; una speranza concretamente tramontata con il trattato di Losanna (24 luglio 1923), che costringe i greci ad abbandonare definitivamente i territori dell’Asia Minore e organizza lo scambio delle popolazioni greche e turche della Grecia e dell’Asia [N.d.T.]. 20 Il verso à tratto da una delle numerose canzoni popolari – cantate da intere generazioni di greci – che esprimono il duplice sentimento presente nel popolo asservito dai turchi: il dolore per il presente di schiavitô

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ma anche la speranza e l’attesa di un futuro di libertÜ. Il canto citato dal nostro autore appartiene ad Emanuele Gheorghillas Limenita, un uomo di lettere nativo di Rodi, che ne compose il testo due o tre anni dopo la caduta di Costantinopoli. Il tema di questa lamentazione per la presa della CittÜ à l’ultima liturgia celebrata nella basilica di Santa Sofia. Alla Vergine che à sconvolta e nel pianto, il canto – in una delle sue versioni – dice: “Taci, Sovrana, non piangere, non lacrimare: di nuovo, con lo scorrere degli anni, con lo scorrere dei tempi, di nuovo sarÜ tua” [N.d.T.]. 21 Riconosciuto e garantito nei suoi confini dalle potenze europee (Russia, Francia e Gran Bretagna) con il protocollo di Londra del 3 febbraio 1830 [N.d.T.]. 22 Con l’espressione mikrasiatikß katastrophß si intende, propriamente, l’ultima fase della guerra greco-turca del 1919-1922, con le devastazioni, i massacri e infine la drammatica espulsione dalla Turchia dei greci lç residenti da millenni [N.d.T.]. 23 Mustafa Kemal, detto Atatürk (padre dei turchi), nasce nel 1881. Sconfitti i greci, ristabilita l’unitÜ turca, deposto il sultano Maometto VI, viene eletto nel 1923 presidente della nuova repubblica, che guiderÜ verso la modernizzazione. Nei confronti delle minoranze la sua politica à sostanzialmente genocidiaria: la Turchia ai turchi, cancellare ogni presenza “altra” (armena, greca...) dal paese. Muore nel 1938 [N.d.T.]. 24 Genocidi che la Turchia odierna si ostina a non riconoscere [N.d.T.]. 25 Vessazioni amministrative e discriminazioni, che hanno progressivamente soffocato la comunitÜ greca presente in Turchia (ridotta, attualmente, a meno di cinquemila persone); chiusura, decretata nel 1971, della prestigiosa facoltÜ di teologia ortodossa di Chalki, vera fucina di teologi e vescovi del patriarcato; manifestazioni che di tanto in tanto gruppi di facinorosi organizzano davanti alla sede del patriarcato stesso; attacchi contro chiese e cimiteri cristiani: alcuni esempi della “croce” che grava sulle spalle della grande chiesa [N.d.T.]. 26 Il nome Istanbul viene fatto risalire all’espressione greca eis tàn Pïlin (da leggersi con la pronuncia “is tim bolin”), oppure a quella – in dialetto ionico – eis tÜn Pïlin (pronuncia: “is tam bolin”), che significa “alla CittÜ”: movimento, direzione, anelito verso la CittÜ per eccellenza [N.d.T.]. 27 In greco suona “romiç”, che à l’espressione della lingua popolare per dire romaæoi, cioà romani. • da ricordare che in tutte le fonti storiche e letterarie l’impero di Costantinopoli à denominato “romano” e il suo imperatore, fino a Costantino XI Paleologo (1405-1453), riceve il nome di “re dei romani”. “Romani” fu il nome con cui i greci continuarono a chiamare se stessi anche durante l’occupazione turca, evidenziando la consapevolezza di essere, anche in schiavitô, gli eredi e i custodi della cultura e della fede dell’impero romano cristiano [N.d.T.]. 28 Cf. San Giovanni Damasceno, Omelia sul fico seccato e sulla parabola della vigna 2, PG 96,577BC. 29 Cf. G. Florovskij, Vie della teologia russa, Marietti, Genova 1987, p. 403.

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LA BELLEZZA SALVER‘ IL MONDO. UN PUNTO DI VISTA AGHIORITICO

Quando parliamo della bellezza1 che non à semplicemente spettacolo esteriore ed effimero o predicato estetico, ma potenza che salva il mondo, allora il Monte santo, con la sua esistenza e la sua vita, ha qualcosa da dirci: perchß si chiama “giardino della Santissima”2 e “monte della trasfigurazione”3. La Santissima, secondo l’innologia della chiesa, à la fanciulla purissima e piena di grazia, “bella della bellezza delle virtô”, che ha accolto, “per il fulgore dello Spirito”, “il decoro fonte di bellezza” (il Signore Dio-uomo), “colui che abbellisce l’universo”4. Ma, per accostare con il timore dovuto e comprendere il mistero della bellezza che salva, non dobbiamo dimenticare che non à altra cosa la bellezza, altra l’amore e altra il bene. “Il bene à celebrato dai sacri autori come bello e bellezza, come amore ed amato ... Esso chiama (il verbo à kalßo) a sß tutte le cose, donde appunto si dice anche bellezza (kÛllos)”5. Cioà: Dio, che à amore e bellezza inconcepibile, crea tutto “bello assai” (Gen 1,31). E chiama, attra59

verso la bellezza, a una partecipazione di vita l’intera creazione. Ascoltando la chiamata della bellezza divina, l’uomo diviene partecipe della beata vita trinitaria. Resistendo e disobbedendo, egli crea l’inferno della non comunione, la maledizione della bruttezza contro natura, che non salva ma distrugge l’uomo e la creazione. Non dobbiamo dimenticare che, oltre alla vera bellezza che chiama e salva, ve ne à anche un’altra falsa, che provoca e rovina, perchß non à rivelazione di bontÜ ma apparenza di bellezza, e funziona come esca. Stordisce e intrappola l’uomo e lo porta all’asservimento e alla distruzione finali, promettendogli, come per magia, una facile salvezza. Dentro questa lotta, dentro la prova rappresentata dalla scelta di una bellezza, si sviluppa la storia dell’uomo e dell’umanitÜ: quale bellezza ci affascinerÜ maggiormente? A quale ci piegheremo? Fin dal primo istante ci ha travolti una bellezza che ci ha rovinati, perchß l’abbiamo separata dall’amore e dall’obbedienza a Dio. Ci siamo mossi in maniera frettolosa e avventata. “Bello era a vedersi, e buono a mangiarsi il frutto che mi ha inflitto la morte”6. Anche nella mitologia antica si cita l’incanto di una bellezza ingannevole. Nell’isola delle sirene si udiva una melodia talmente ammaliante che i naviganti di passaggio rimanevano storditi, perdevano la testa. Cadevano vittime di essa, e venivano sbranati da quegli esseri mitici che erano per metÜ donne e 60

per metÜ uccelli, senza poter opporre resistenza, mentre vedevano mucchi di cadaveri imputridire e pile di ossa imbiancarsi al volgere del tempo. * Nella nuova creazione, al contrario, una donna diviene causa della salvezza. La fanciulla di Nazaret, sconosciuta e insignificante per il mondo, ma umile e intatta, si rivela la “benedetta tra le donne”7, che accoglie il saluto dell’arcangelo e concepisce il Figlio e Verbo di Dio. La bellezza della virtô dei giusti, lo zelo dei profeti e l’attesa di tutta l’umanitÜ preparano e portano in gestazione la bellezza e la virtô della Vergine. Anche la bellezza dell’intero creato rivela e illumina la virtô inesprimibile della “bellezza di Giacobbe”8. Dio, quando “vide tutte quante le cose che aveva fatto, ed ecco, erano belle assai” (Gen 1,31), attraverso una tale bellezza intravedeva la bellezza della Vergine; o, diversamente, la bellezza della “bella tra le donne”9 – ossia il suo Figlio e Dio – che ha abbellito e dato senso a tutta la creazione. La Vergine, con la sua umiltÜ santa e con la sua libera obbedienza al volere di Dio, si à dimostrata lo strumento di salvezza di tutto il mondo. • “il confine tra natura creata e natura increata”10. La “scala ... per cui Dio à disceso” e il ponte “che al cielo trasferisce i terrestri”11. Suo figlio à Dio (il Dio Verbo). E Dio à il figlio da lei stessa generato. In quanto “madre oltre natura e vergine secondo natura”12, vive, in forza dello Spirito santo, la maternitÜ della perpe61

tua verginitÜ e ottiene la verginitÜ della divina maternitÜ. Unisce il cielo e la terra. Avevamo, sç, offuscato la bellezza dell’immagine di Dio, ma il Dio Verbo – grazie al sangue della Semprevergine – à divenuto uomo perfetto e “ha fuso con la divina bellezza l’immagine deturpata”13. Il Dio Verbo non si à presentato rimanendo all’esterno, ma ha mescolato l’intera nostra natura “con la divina bellezza”. La salvezza dell’uomo viene intesa e vissuta come partecipazione e ritorno alla bellezza antica. La bellezza divina salva l’uomo non magicamente, a sua insaputa, nß dall’esterno, con la forza: cosç facendo, lo svaluterebbe. Al contrario, l’uomo à salvato nell’onore, con il diventare egli stesso kallitßchnes – artista –, fonte di bellezza e di salvezza per tutti: “sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14). Cosç che nasca da tutto il suo essere, come ringraziamento, la glorificazione di Dio. La Vergine, nella sua identitÜ di Genitrice di Dio, ha dimostrato madre di lui la natura umana. Con l’esempio e l’aiuto della Santissima ogni anima che vive nel silenzio e nella purificazione, sottomettendosi alla volontÜ divina, puð diventare, per grazia, madre di Dio. Concepire e generare una piccola gioia che oltrepassa la morte. L’uomo sperimenta, allora, la visita della grazia in tutta la sua esistenza, la visita della Santissima nel suo universo interiore. E come Elisabetta si chiede: “A che debbo che la madre del mio Signore venga da me?” (Lc 1,43). 62

Tale presenza della Madre di Dio perdura come protezione e nutrice del Monte santo. Per questo, a ragione, un monaco semplice diceva che l’xiïn estin à l’inno nazionale dell’Athos14. * Al tempo stesso, il giardino della Santissima à il monte della trasfigurazione e come tale à conosciuto. Nella cima piô alta si trova la chiesa della Trasfigurazione. Dal volto del Figlio di Dio e Figlio della Vergine si diffonde perennemente la grazia, “la bellezza apportatrice di luce di colui che ha abbellito il genere umano”15. Il Signore, per rafforzare la fede dei discepoli e perchß questi potessero affrontare la prova della sua passione, prese con sß i tre apostoli piô ragguardevoli e “li condusse su un alto monte ... si trasfigurð davanti a loro” (Mc 9,2). Aprç gli occhi della loro anima e del loro corpo, ed essi lo videro in quella gloria divina che aveva “prima che il mondo fosse” (Gv 17,5). Si presentarono, all’interno di tale gloria senza tempo, Mosà ed Elia, che conversavano sulla passione che il Signore si apprestava a subire. Gli apostoli rimangono sconvolti dalla bellezza inesprimibile che si apre dinanzi a loro. Si trovano nel paradiso, per il quale il mondo à stato creato. Conoscono in un istante, con la presenza dei profeti e il loro dialogo, il passato e il futuro. E la loro reazione spontanea à la seguente: “• bello per noi essere qui” (Mc 9,5). Siamo arrivati alla fine, che à la “completezza che à in Dio”16. Restiamo qui! 63

A dispetto di un tale sentire, non sono perð in grado di diventare realmente partecipi di questa bellezza, di viverla nella sua pienezza, come offerta di amore, e di trasmetterla a tutti gli altri. Si trovano lontano. Hanno ancora strada da percorrere. E cið traspare dalla proposta che fanno. Pietro suggerisce al Signore: “Facciamo tre tende, una per te, una per Mosà e una per Elia, non sapendo quello che diceva” (Lc 9,33). Non sapeva cið che chiedeva. Propongono di fare tende, per coprire il Dio-uomo e i profeti; mentre erano essi che avevano bisogno di chiedere al Signore della gloria una copertura non fatta da mano d’uomo e una protezione. Per questo, mentre Pietro parlava, senza che il Signore pronunciasse verbo, giunse in risposta una nube luminosa che li coprç. E si udç dalla nube una voce che diceva: “Questi à il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Lui ascoltate” (Mt 17,5). E i discepoli caddero subito a terra: “Furono presi da grande timore” (Mt 17,6). Non ressero alla piena di luce che li inondava e che superava la loro resistenza. “Furono presi da grande timore”, perchß non comprendevano la voce che diceva: “Lui ascoltate”, cioà a lui obbedite, a lui affidate la vostra vita. • questa l’esortazione di Dio Padre. Questo dovete fare. Non costruire tende, per dare una copertura al Signore e ai profeti; nß fabbricare teorie, per risolvere i vostri problemi. Ma credere nel Dio-uomo, abbandonare nelle sue mani l’intero vostro essere, ricevendo forza e vita. Perchß egli à la vite e voi i tralci (cf. Gv 15,5). 64

Il Signore subito si accosta a loro e li sveglia. Essi non vedono nessun altro, se non Gesô solo. E continua l’iniziazione al mistero della fede. Continua l’insegnamento del Signore attraverso le azioni. Non piô con la salita “su un alto monte”, perchß vedano la sua gloria divina, ma con la discesa tra il popolo martoriato, perchß incontrino la realtÜ della vita e i problemi dell’uomo. Mentre scendevano dalla montagna, chiarç loro che nulla di cið che avevano visto doveva esser detto ad alcuno, “se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (Mc 9,9). Cið che hanno visto non à argomento di facili racconti, ma dono personale del Signore che devono conservare nell’intimo, assimilare, e convertire in potenza di fede che si manifesterÜ nelle ore difficili della passione. Continuando la loro discesa dal monte incontrano, in mezzo alla folla, il padre con il figlio tormentato da uno spirito impuro. Rivolgendosi al Signore, gli dice: “Ho portato mio figlio malato dai tuoi discepoli. Ma essi non hanno potuto guarirlo. Tu, se puoi fare qualcosa, aiutaci, muoviti a compassione di noi” (cf. Mc 9,17-18.22). Gli dice il Signore: “La questione à se sei capace di credere. Tutto à possibile per chi crede!” (cf. Mc 9,23). Subito il padre, “gridando con lacrime”, dichiarava: “Credo. Aiuta la mia incredulitÜ” (cf. Mc 9,24). Se, prima, l’apostolo Pietro non sapeva cið che diceva, il padre del bambino malato sa cið che dice, perchß soffre. • tutto una sofferenza intollerabile. E la sofferenza rende l’uomo vero. Se volete, anche arti65

sta: kallitßchnes, creatore di bellezza. Il suo grido intriso di lacrime à una confessione spontanea e una veritÜ pura, che fuoriesce dalle sue viscere doloranti. Manifesta la tragica situazione dell’uomo, e la lotta tra la fede e l’incredulitÜ che lo tormenta. Ed egli abbandona il suo io malato e suo figlio ai piedi di colui che à “il medico delle anime e dei corpi”17. Allora il Signore ordina allo spirito impuro di fuggirsene e di non rientrare piô nel bambino. “E gridando e scuotendolo fortemente, uscç” (Mc 9,26). Il figlio cadde a terra come morto, cosç che molti dicevano: “• morto”. Ma il Signore lo prese per mano, lo sollevð e lo diede a suo padre. Il problema à quello di credere in colui che à la vita; di abbandonare te stesso interamente a lui: te stesso, con la tua fede e la tua incredulitÜ; te stesso, vivo o morto. Non ha alla fine importanza se mi rendo conto che vivo o che sono morto; o se anche gli altri ritengono che io sia morto. Importante à che mi trovi abbandonato accanto a colui che à amore. Meglio per me essere malato e morto accanto a colui che à la vita, che essere un vivo immaginario, lontano da lui. Importanti sono il coraggio della fede e la forza della pazienza, che oltrepassano la logica. “Tutto à possibile per chi crede!”. Cið che ci salva non à cið che facciamo o possiamo fare noi, ma cið che sorge dal coraggio della fede e della pazienza, dal coraggio del sacrificio di noi stessi (per quanto malati). 66

Possiamo affermare che pure la creazione del mondo intero à un atto di coraggio e di sacrificio di Dio. Per amore siamo stati creati, che à sacrificio ed offerta. Ci salviamo con il medesimo movimento di amore e di offerta di noi stessi, per riconoscenza nei confronti di colui che per primo ci ha amati. Nel cuore della divina liturgia brilla questa veritÜ della gloria e dell’amore divini; questa veritÜ del sacrificio del Figlio di Dio e della fede che salva il mondo. Santo tu sei, tutto santo, e magnifica à la tua gloria: tu che hai tanto amato il tuo mondo da dare il tuo Figlio unigenito, affinchß chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna18.

Tale esplosione dell’amore divino crea e conserva il mistero della vita e della salvezza del mondo. • essa a inondare l’universo di luce. • essa a contrassegnare il Monte santo e a fare dell’intera sua vita una divina liturgia, convertendo la preghiera di un’unica frase (“Signore, Gesô Cristo, abbi pietÜ di me”) in respiro dei monaci. Con questa preghiera confessiamo la nostra fede in lui e chiediamo la sua misericordia: “Signore, Gesô Cristo, Figlio di Dio, abbi pietÜ di me peccatore”. Tu sei il Figlio di Dio, Dio, il Forte (ti conosco e non ti conosco, sei incomprensibile). Io sono debole e peccatore. Confesso la mia debolezza (che conosco e non conosco). Chiedo la tua misericordia. Aiuta la mia incredulitÜ. Abbi pietÜ di me. 67

Signore, Gesô Cristo, Figlio di Dio, abbi pietÜ di me peccatore. Lo dico con le labbra, con l’intelletto e con il cuore. Lo dico con il segno della croce preziosa, con le prostrazioni. Quanto piô divento consapevole di cið che dico, di cið che accade – consapevole che lui à il Forte, il Dio dell’amore, e che io sono debole –, tanto piô l’atto della preghiera diviene benedizione e impregna il mio intelletto e il mio cuore. Mi tiene in vita. E il percepire che, mentre sono debole e peccatore, sono oggetto dell’amore del Forte, mi rallegra. L’uomo, in questo spazio dell’amore e del silenzio, si ambienta. Diviene una sola cosa con la preghiera. Ad essa si uniscono fisiologicamente il respiro e il battito del cuore. Con ogni moto delle sue viscere egli non respira solo l’ossigeno dell’aria, ma altresç la grazia dello Spirito, come divina consolazione. Si trova nel suo clima e ambiente naturale, che lo colma di gioia. Tutto viene illuminato da dentro: come il volto del Signore e le sue vesti rifulsero per la gloria increata ed eterna della DivinitÜ; come la bellezza della Vergine rifulge dall’interno, à il frutto del suo grembo; cosç, le persone umili e donate a Dio rifulgono per una grazia e libertÜ interiore. Glorificano spontaneamente, in modo volontario e involontario, Dio, giorno e notte. E la sovrabbondanza del riposo, come forza che le nutre e come luce che le illumina, si presenta in tutte le loro opere e in tutti i loro movimenti. 68

Qualcosa di vero, di non fatto da mani d’uomo e di libero affiora senza fatica, come dono divino, da tutto il loro essere. Ma, perchß questo succeda, uno deve affaticarsi molto, superare prove, morire infinite volte – “Ogni giorno io vado incontro alla morte” (1Cor 15,31) –. La sua vita deve diventare (spesso) un martirio e “luogo del cranio” (Mt 27,33). Ed egli deve accettarlo senza disappunto. Allora un bagliore di gloria increata si leva per questi uomini grondanti dolore e immolazione, che porta in dono la libertÜ del secolo futuro, fin da oggi, a vantaggio di tutti. La bellezza di questo benessere spirituale, che non à semplicemente frutto di fatica e sacrificio, ma dono della grazia, plasma, con il passare dei secoli, l’ethos, il programma, le ufficiature, l’architettura dei templi dei monasteri e di tutto l’Athos. Qualcosa di invisibile e di increato informa le realtÜ visibili e create. L’intero mistero della chiesa, che à prova della presenza tra noi del Signore, si manifesta come bellezza inconcepibile in tutta la teologia liturgica e la vita cultuale, con le norme rituali, le preghiere, le suppellettili liturgiche, le icone e l’innologia, nella quale si canta, in tutti i toni19, la veritÜ dogmatica diventata poesia. E come la bellezza della bontÜ divina salva, la vera salvezza nella chiesa genera santi che creano bellezza – artisti: kallitßchnes –. E la vita continua come amore della bellezza – philokalæa – del paradiso.

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* Quando nel xiv secolo gli esicasti del Monte santo furono diffamati come individui caduti in errore, san Gregorio Palamas e i suoi compagni di ascesi difesero l’autenticitÜ dell’esperienza monastica parlando della luce della trasfigurazione. • la teologia della luce increata che definisce il carattere e il contenuto della vita dei monaci. Dissero che la luce della trasfigurazione non à nß creata nß l’essenza impartecipabile di Dio. Non à uno splendore materiale, che per un attimo appare per perdersi in seguito. Non à un’illusione della fantasia, che getta l’uomo “spesso nel fuoco e sovente nell’acqua” (Mt 17,15). • la grazia e l’attivitÜ increata che promana, senza poter venire separata da essa, dall’essenza divina. • la gloria naturale della DivinitÜ. • DivinitÜ. • “la bellezza vera e amabile che circonda la natura divina e beata”20. • il regno di Dio. Di tale grazia diventano tuttavia partecipi non quanti sono intellettualmente solidi o quanti sono teologicamente preparati, ma coloro che si sono spiritualmente purificati con l’umiltÜ, la contrizione del cuore, la fede e l’amore. Coloro che di continuo si pentono, cercano la misericordia del Signore e affidano se stessi e tutti gli altri a Cristo Dio. Costoro ricevono dentro di sß la grazia e la vivono come riposo dell’anima, regno di Dio e forza di amore. Sperimenti il fatto che “il regno di Dio à dentro di noi” (cf. Lc 17,21). Credi non perchß qualcuno ti abbia detto qualcosa, ma perchß la fede nasce dentro 70

di te, la vita nasce dentro di te. Ogni spazio riflette una grazia increata. E il silenzio ti rimanda “la voce di una brezza leggera” (1Re 19,12). Non c’à nulla a cui tu ti abitui. Tutto à uno stupore pacifico, un’alba di luce che si identifica con la vita e la salvezza del mondo. Tutto alimenta una fonte di consolazione che avverti, dentro di te, unificare tutte le cose. Resti solo e trovi tutti. Perdi forze con il passare del tempo, e ne gioisci in segreto, perchß cið che à perso à qualcosa di effimero e corruttibile, mentre rimane cið che à eterno e si rinnova, che promette bene per tutto il mondo. Ti riposi con la fatica. Ami gli umili. Ti fai fratello degli afflitti. Sei impressionato dagli inesistenti. Questi, come i temerari della fede e i liberi, si sono consegnati al Potente. Non hanno chiesto niente per sß. Hanno ricevuto la pienezza della vita. Hanno vissuto il “ti basta la mia grazia” (2Cor 12,9) che il Signore disse a Paolo. E ti trasmettono gratuitamente, senza esigere alcun contraccambio, la grazia che hanno attinta dalla fonte della vita. Cosç, il semplice e vero aghiorita à colui che ti aiuta con la sua sola presenza. Non vuole sbalordire nessuno con le sue virtô e conoscenze. Non vuole biasimare nessuno per le sue imperfezioni o mancanze. Non fa altro, egli stesso, che riprovare continuamente se stesso. Ma tramite tutto il suo agire si manifesta la compassione di Dio, che gli ha intenerito il cuore e lo ha lasciato sbigottito, secondo l’espressione di sant’Ignazio: “Resto stupito della mitezza”21 di Dio. 71

* L’amore che incontri, la delicatezza che trovi, ti fanno bene. E l’assalto che subisci piô tardi a opera di tentazioni e sventure che ti cadono addosso, una dopo l’altra, con l’intenzione, letteralmente, di annientarti, ti fanno ancora piô bene. Ti imbatti, allora, in una visita divina e in una inusuale consolazione. Come se si fosse raccolta molta incrostazione attorno a te. Come se tu fossi stato bendato, ingessato da fatti e sensazioni che ti soffocavano. E mentre tu non potevi liberarti, son venuti altri dall’esterno a percuoterti, con la volontÜ di ammazzarti. Percuotevano con furia. Abbattevano i muri che ti avevano imprigionato. Rompevano la vecchia crosta di menzogna che ti aveva avvolto. Mentre quelli picchiavano furiosamente, tu ti arrendevi in preda al terrore. Alla fine, coloro che avevano deciso di annientarti ti hanno liberato da una falsitÜ e da una invisibilitÜ, dovuta alla foschia, che ti separava dalla veritÜ. Ti hanno lasciato solo, “mezzo morto” (Lc 10,30), ma coperto dalla cura di un buon samaritano che hai sentito accanto a te. Le tentazioni che hanno voluto annullarti si sono rivelate tuoi aiutanti. Hanno fatto cið che tu dovevi fare e non riuscivi a fare. Hai sperimentato la veritÜ degli apoftegmi degli anziani: “Togli le tentazioni, e nessuno si salva”22. Hanno distrutto cið che aveva bisogno di distruzione. E in te à comparso qualcosa che non viene di72

strutto, perchß possiede un’altra resistenza e natura: “Gioisce nelle sofferenze” (cf. Col 1,24). Alla fine, ci salva cið che ci distrugge, come a salvare il seme à la sua morte nel cuore della terra, quando giunge la sua ora. Salvezza non sono i nostri successi e la nostra carriera nello spazio della corruzione, ma l’abolizione della morte e il regno dell’amore. E divinizzazione non à l’acquisizione delle virtô, ma la divina trasformazione e trasfigurazione da esse operata. E il premio non viene dato ai santi, secondo l’abba Isacco, per le virtô nß per la fatica delle virtô, ma per l’umiltÜ che nasce da esse23. Con l’umiltÜ l’uomo si restringe. Si perde. Diventa come uno mai venuto all’esistenza24; e nel contempo si dilata, diventando, per grazia, terra che contiene l’Incontenibile. Tutto cið acquista realtÜ e valore quando lo vedi incarnato nella vita dei santi, cioà nella vita e nell’ethos dei veri umili. Ai nostri giorni abbiamo avuto una grande benedizione, come un fulgore di bellezza e di gioia divine, nella persona di un anziano che fin da bambino si era consegnato integralmente a Dio25. Nacque nel 1906. All’etÜ di dodici anni venne all’Athos da solo, all’insaputa dei suoi genitori. La Santissima lo condusse a Kafsokalyvia26, in una kalyva27 con buoni anziani. Visse nel paradiso del Monte santo. Con il suo cuore puro in breve tempo scoprç la grazia unica degli asceti nascosti, disprezzati, sconosciuti e inesistenti. E volle perdersi assieme a loro; per73

dersi tra i cori degli angeli. Disse: “Voglio andarmene, perdermi, non esistere”. Aveva un tale amore per Cristo! Viveva e parlava come un pazzo d’amore. E Dio non ignorð la brama di questa creatura incontaminata. Egli si recð, una sera, nella chiesa centrale della skiti28, prima dell’inizio dell’ufficiatura. Si sedette nel pronao sotto una scala. Passa poco tempo ed ecco entrare nello stesso ambiente buio l’anziano Dema, un asceta che abitava da solo sopra la skiti, in una kalyva primitiva. Si guarda attorno. Non vede nessuno. Prende il komboskini29 e comincia le prostrazioni. Dice la preghiera del cuore. Non controlla se stesso nß i suoi movimenti. Prorompe in un grido di beatitudine. Risplende nella luce. Questa si trasmette subito alla materia infiammabile che à il giovane monaco, il quale, sconvolto, piange in maniera irrefrenabile. Egli à entrato, d’un tratto, nel mondo della grazia dell’asceta disprezzato. E l’anziano diventa l’arcangelo Gabriele scelto per l’annunciazione al piccolo e sconosciuto monaco, che si chiamerÜ piô tardi Porfirio e si rivelerÜ l’angelo portatore del fuoco (pyrphïros) della gioia per il mondo intero. Al termine dell’ufficiatura, egli non à in grado di parlare con nessuno. Va nel bosco. Prorompe in grida: “Gloria a te, o Dio! Gloria a te, o Dio!”. GiÜ si sono aperti i suoi sensi. Vede, ode, odora da lontano. Discerne cið che avviene nell’anima di ogni uomo. Gli parlano le rocce, gli raccontano tutta la storia e i segreti di Kafsokalyvia. 74

Confessa: “Da quando sono diventato monaco, ho capito che non esiste la morte”. “Vedevo tutto, ma non parlavo”. Nel momento in cui riceve la pienezza della gioia indicibile e della salute dello Spirito, Dio gli manda una malattia. Non puð rimanere a Kafsokalyvia. Esce nel mondo. A vent’anni à ordinato prete. Diventa confessore a ventidue. • colui che ha illuminato, rinfrescato e allietato con il suo divino sorriso il cuore del xx secolo. • rimasto dal 1940 al 1973 nel quartiere Omonia, come cappellano del Policlinico di Atene, e tuttavia, sostanzialmente, mai ha lasciato Kafsokalyvia. Il sonno della morte lo ha colto al Monte santo, lç dov’era diventato monaco, nel dicembre 1991. Ai suoi monaci piô giovani ordinð di portare, dopo la riesumazione, le sue ossa nel bosco di KerasiÜ30 e di dimenticare – persino essi – il luogo che le avrebbe ospitate. Le sue ultime parole furono: “Perchß siano una cosa sola” (cf. Gv 17,21). Il suo insegnamento e la sua presenza emanano luce e fragranza di paradiso. Disse: “Siamo una cosa sola, persino con le persone che non sono vicine alla chiesa... Cið che à tutto à l’amore per Cristo”. * C’à qualcosa di piccolo, di minimo, che possiede il piô grande dinamismo e regola tutto. Quando lo trovi, dai tutto per quest’unica cosa. E cosç trovi tutto, tutto che concelebra e che gioisce. 75

Dall’uno sei condotto al molteplice. E dal molteplice e ingarbugliato arrivi all’uno e puro – iniziale e finale – senza turbamenti. Padre Porfirio non si à mai turbato. Ma trasmetteva a tutti la caritÜ e la gioia divine, perchß aveva Cristo dentro di sß. Non ha dato importanza ai carismi. Nß li ha chiesti, nß li ha coltivati, nß li ha promossi. Non voleva presentarsi come un taumaturgo e un carismatico. Voleva manifestare cið che ha vissuto e conosciuto: quanto Dio à amore e misericordia per tutti. Dentro di sß aveva l’eros divino e la potenza di Cristo. In ragione di cið, i carismi erano semplicemente un ausilio per manifestare l’amore di Dio agli uomini. Chi non possiede questa presenza divina come potenza di vita, si occupa dei propri carismi e della loro promozione. Per far lievitare la propria fama e il proprio prestigio. E mentre si dÜ da fare perchß tutto cið paia avvenire a sua insaputa e contro la sua volontÜ, tutti capiscono quello che accade. Chi, come il padre Porfirio, à in possesso dei carismi divini, lotta per nasconderli e perchß sia solo Cristo ad apparire. Alla fine, tuttavia, nessuno puð nascondersi. Si svelano entrambi: appaiono la libertÜ e la grazia di colui nel cui grembo sussulta la gioia divina; e si manifesta, in maniera corrispettiva, l’affanno doloroso dell’altro che vuole essere onorato. Chi vuol salvare il proprio prestigio soffre. Non puð nascondere la malattia che lo divora. Si lusinga 76

nell’intimo (fino a esserne sconvolto) quando à lodato. Si deprime (fino a sentirsi uno straccio) quando à toccata e contestata l’idea che ha di sß. A motivo di cið, questi presenta grandi e bruschi cambiamenti. “Cade spesso nel fuoco e sovente nell’acqua” (Mt 17,15). Talora gioisce ed esulta, e talora si turba e si rabbuia. Gli uni ama e accoglie. Gli altri rimprovera e rifiuta. Dio, perð, esiste per noi tutti, giusti e ingiusti. Padre Porfirio à un caso diverso. Non ha un prestigio da salvare; ha Cristo nel suo intimo che lo salva. Non à lui a vivere. • Cristo che vive in lui (cf. Gal 2,20). E cið si rivela nei fatti. Egli à al di lÜ delle passioni e dei carismi; al di lÜ delle adulazioni e dei biasimi. Accetta tutto, ma da nulla à turbato e a nulla sottomesso. Ha Cristo dentro di sß, come luce e speranza per se stesso e per il mondo intero. Cið lo ha tenuto lontano da ogni turbamento, da ogni falso problema che avrebbe potuto ottenebrare la sua anima e quanti si trovavano accanto a lui. Vivendo nel mondo, non ha perduto la serenitÜ e la grazia del deserto. Vivendo nel periodo del cambiamento del calendario ecclesiastico31, che cosç tanta gente ha logorato e impegolato, egli à rimasto imperturbabile, dedicandosi ad altre questioni. Allorchß negli ultimi anni, con il numero dell’anticristo e la sua venuta32, si erano ovunque diffuse parecchia confusione e parecchia fobia, padre Porfirio à rimasto tranquillo e sorridente. Disse: “Quan77

do ho Cristo in me, non ho paura e non mi occupo di nessun anticristo”. Ha comunicato a tutti la pace e la sicurezza della fede che gli umili e i teofori possiedono. Ha rinviato tutti a Cristo e alla chiesa, non alla sua autoritÜ o alla sua virtô. Si nutriva dell’eros divino di Cristo. Ammirava la bellezza dell’intera creazione e gongolava come un bambino. Vedeva i fondali dell’anima umana e ne condivideva la pena. Lç dove un moralista si sarebbe innervosito osservando qualche traviamento, il padre Porfirio vedeva, al tempo stesso, il dolore dell’anima sensibile di chi, traviato, invocava aiuto. Solo amava, benediceva, curava. Non rimproverava, non malediceva nessuno. Per quanto abbia cercato di annullarsi, di buttar via le sue ossa, di occultare i suoi carismi, la luce della sua divina bontÜ lo ha tradito: à brillata ed à divenuta evidente a tutti. La veritÜ della divina bellezza e dell’amore che nascondeva nell’anima resta viva anche dopo la sua morte. La sua figura non si descrive con miracoli e carismi. Molto meglio: la sua presenza si individua come porta di luce. Ed esultanza dell’anima, che gratuitamente à donata a tutti. Non ha ferito nessuno, fino al termine della sua vita. Leniva il dolore e acquietava l’anima di tutti. Disse: “Quando me ne andrð, sarð con voi ancora di piô”. E cosç à. 78

* Il regno di Dio à simile a un granello di senape (cf. Mt 13,31-32) e alla piccola quantitÜ di lievito che cela in sß il piô grande dinamismo (cf. Mt 13,33). Al tempo stesso, il regno di Dio à simile alla situazione confusa della vita quotidiana che tutti conosciamo. • simile a una rete che ha raccolto pesci buoni e pesci cattivi (cf. Mt 13,47-50); à simile a un campo che ha il seme buono e la zizzania (cf. Mt 13,24-30). Non adesso, ma alla fine, à il tempo della vagliatura. Chi perð vive in Cristo si trova fin d’ora nella fine. Vede tutto puro e sereno. “Tutto à puro per chi à puro” (Tt 1,15). • un organo di senso che vede, e una luce che illumina; ci trasmette la sicurezza iniziale e finale dell’amore che salva. Se sei Porfirio, conosci la strada dell’eros divino. Se sei come Pietro, che era spontaneo e simpatico, ma si à spinto fino al rinnegamento, puoi imitare la sua condotta, che, “uscito fuori, pianse amaramente” (Mt 26,75). Cosç facendo à entrato in paradiso e ha gustato la dolcezza di essere salvato. Se sei come il padre dotato di poca fede e di incredulitÜ, piegato dalle molteplici malattie e dalle sventure, affida, senza metterti ad analizzare, te stesso e gli altri a Cristo Dio. E allora, nel segreto, brillerÜ dentro di te la luce che ti dirÜ che Dio à amore e che tutto ha fatto e fa “bello assai” (Gen 1,31). A lui la gloria e la potenza nei secoli. Amen.

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1 Relazione presentata il 5 marzo 2005 in un convegno tenutosi a Cambridge in Inghilterra che aveva per tema: “La bellezza salverÜ il mondo”. 2 Narra la tradizione che la Vergine, dopo l’ascensione, venne al Monte Athos. Estasiata per la sua bellezza, lo chiese in dono a suo Figlio, per riservarlo ai soli monaci. Gregorio Palamas – nel suo Discorso sulla vita mirabile e simile a quella degli angeli del nostro padre santo e portatore di Dio Pietro, che visse asceticamente sul santo Monte Athos – riferisce le seguenti parole della Madre di Dio apparsa in visione, assieme a san Nicola, a Pietro l’Athonita: “C’à un monte, in Europa, al tempo stesso bellissimo ed altissimo ... io stessa ho deciso d’adibire questo luogo, che ho scelto tra tutti gli altri sulla terra, come un rifugio adatto alla vita monastica; percið lo consacrai come dimora mia propria e d’ora in poi sarÜ chiamato Santo; per tutti coloro che lç staranno, combatterð per tutta la durata della loro vita la lotta contro il comune nemico degli uomini e sarð per loro un’alleata del tutto invincibile, suggeritrice di cið che si deve fare, interprete di cið che non si deve fare, tutrice, medico, nutrice ...” (Gregorio Palamas, Che cos’à l’ortodossia. Capitoli, scritti ascetici, lettere, omelie, a cura di E. Perrella, Bompiani, Milano 2006, p. 187; per altre varianti della medesima tradizione, cf. Nicola della Santa montagna, Alle origini dell’Athos. La Vita di Pietro l’Athonita, a cura di A. Rigo, Qiqajon, Bose 1999, pp. 35-39, 63-64). La coscienza che l’Athos à dimora specialissima della Vergine si manifesta in modo particolare nelle sue icone disseminate un po’ dovunque, negli innumerevoli miracoli attribuiti alla sua intercessione e, soprattutto, nell’attaccamento filiale e semplice a lei, che à “tutrice, medico e nutrice” di ogni aghiorita [N.d.T.]. 3 Nel prosieguo del discorso, l’autore ci ricorderÜ che sulla vetta dell’Athos vi à una chiesetta dedicata alla trasfigurazione, a significare che quell’evento à la chiave per comprendere la vita monastica, ma altresç la vita cristiana tout court. Ci ricorderÜ, inoltre, come proprio il tema della trasfigurazione e della natura della luce taborica abbia assunto un’importanza decisiva nel corso della disputa tra san Gregorio Palamas, che fu monaco al Monte santo, e gli umanisti della sua epoca. Per un ulteriore approfondimento di cosa significhi la trasfigurazione per un athonita, cf. Emiliano di Sæmonos Petra, “Son divenuto, nella notte, luce”, in Aa.Vv., Voci dal Monte Athos, pp. 77-104 [N.d.T.]. 4 Cf. Parakletikß, tono pl. 1, domenica, orthros (cf. S. Giovanni Damasceno, Canti della Risurrezione, p. 149). 5 San Dionigi Areopagita, I nomi divini 4,7 (cf. Id., Tutte le opere, pp. 413-415). 6 San Gregorio il Teologo, Orazione 44. Per la nuova Domenica 6 (cf. Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, p. 1127). Cf. anche Parakletikß, tono grave, martedç, divina liturgia, beatitudini. 7 Menaæon, 21 novembre, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno I, p. 944). 8 Parakletikß, tono 3, giovedç, orthros, ode 7 del canone 1.

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9 Triïdion, domenica del figliol prodigo, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno II, p. 404). 10 Gregorio Palamas, Omelie 37,15 (cf. Id., Che cos’à l’ortodossia, p. 1374). 11 Inno Akathistos, stanza 3 (cf. Anthologhion di tutto l’anno II, p. 1486). 12 Parakletikß, tono grave, lunedç, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno I, p. 459). 13 Cf. Triïdion, domenica dell’ortodossia, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno II, p. 596). 14 Il testo completo dell’xiïn estin, cosç caro alla pietÜ ortodossa da essere ripetuto giornalmente in tutte le ore dell’ufficiatura, cosç recita: “• veramente cosa degna proclamarti beata, o Madre di Dio, sempre beata e tutta immacolata, Madre del nostro Dio. Piô venerabile dei cherubini, incomparabilmente piô gloriosa dei serafini, tu che senza corruzione hai generato il Verbo Dio, realmente Madre di Dio, noi ti magnifichiamo”. La prima parte dell’inno (“• veramente cosa degna... xiïn estin...”), secondo la tradizione athonita, registrata in un sinassario nell’anno 1548, à stata trasmessa alla chiesa dall’arcangelo Gabriele proprio al Monte Athos. Apparso, nella veste di un umile monaco, a un novizio in un kellion (casa dipendente da un cenobio) dedicato alla dormizione della Madre di Dio non lontano dal monastero di Pantokratoros, l’arcangelo cantð quella prima frase, ne incise le parole su una lastra di pietra e, dopo aver detto: “Cantate cosç, e cosç cantino tutti gli ortodossi”, scomparve. Da allora quel kellion, onorato da una visita angelica, fu chiamato xiïn estin. Anche l’icona della Madre di Dio innanzi a cui Gabriele aveva elevato il suo inno – trasferita a Karyàs, nella chiesa del Protaton – fu venerata con il nome che tuttora conserva: xiïn estin [N.d.T.]. 15 Parakletikß, tono 3, giovedç, vespro (cf. Giovanni Damasceno, Paracletica. Inni alla Madre di Dio, a cura di B. Intrieri, Monastero Esarchico di S. Maria di Grottaferrata, Grottaferrata 2001, p. 73). 16 Sant’Ignazio il Teoforo, Lettera agli Efesini 19,3 (cf. Ignazio di Antiochia, Ora comincio a essere discepolo, p. 20). 17 Divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, preghiera dopo il Padre nostro (cf. Liturgia eucaristica bizantina, p. 108). 18 Ibid., anafora (cf. Liturgia eucaristica bizantina, p. 96). 19 Esistono otto diversi toni (tonalitÜ o modi di cantare salmi ed inni), utilizzati ciascuno durante un’intera settimana (per quei pezzi che non siano dotati di melodia propria). I toni si susseguono l’un l’altro a partire dalla domenica di Pasqua e sono raccolti in un libro chiamato Oktïechos o Parakletikß [N.d.T.]. 20 Triïdion, domenica dell’ortodossia, synodikon (per una traduzione completa in una lingua europea, cf. La Lumiàre du Thabor. Revue internationale de Thßologie orthodoxe 41-42 [1994], pp. 49-90). 21 Sant’Ignazio il Teoforo, Lettera ai Filadelfiesi 1,1 (cf. Ignazio di Antiochia, Ora comincio a essere discepolo, p. 38).

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22 Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio il Grande 5 (cf. Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, CittÜ Nuova, Roma 19992, p. 83). 23 Cf. Isacco di Ninive, Prima collezione 58 (greco 37), in Mystic treatises by Isaac of Nineveh, a cura di A. J. Wensinck, Koninklijke Akademie van Wetenschappen, Amsterdam 1923, p. 274. 24 Cf. ibid. 74 (greco 81), p. 346. 25 Per quanto qui scrive in riferimento a padre Porfirio, l’autore rimanda al libro: Ge´rontoj Porfurı´ou Kausokalubı´tou. Bı´oj kaı` lo´goi (Vita e discorsi di Porfirio Kafsokalyvita), Iera Moni Chryssopighis, Chania 2003. Ricordiamo che su padre Porfirio sono stati pubblicati in lingua italiana, ma in Grecia, due volumi: Monaco Agapio, La fiamma divina che si accese nel mio cuore. Padre Porfirio, Edizioni Sacro Eremo femminile della Trasfigurazione del Salvatore, Atene 2002; K. Giannitsiotis, Vicino a padre Porfirio (un suo figlio spirituale racconta), Edizioni Sacro Eremo femminile della Trasfigurazione del Salvatore, Atene 2005 [N.d.T.]. 26 Il nome di questo insediamento monastico, a dirupo sul mare, nella parte meridionale dell’Athos, si deve al monaco Massimo (xiv secolo), chiamato Kausokal÷ba (“Bruciatore di capanne”) perchß di tanto in tanto dava fuoco alla propria capanna per vivere da errabondo come un “folle per Cristo”. La memoria liturgica di Massimo il Kafsokalyva, conosciuto e onorato anche da Gregorio il Sinaita, cade il 13 gennaio [N.d.T.]. 27 “Capanna”, letteralmente. Si tratta della dimora di un solo monaco o di una piccola fraternitÜ, con la chiesetta (o oratorio) incorporata nella costruzione. Molte kalyve formano una skiti [N.d.T.]. 28 Il termine deriva da asketßs, “asceta”. Al Monte Athos, indica, come si à detto nella nota precedente, un gruppo di kalyve che, pur dipendendo da uno dei venti monasteri sovrani, à dotato di amministrazione interna e governato da un monaco chiamato dikaæos, eletto ogni anno dall’assemblea degli anziani di tutte le kalyve e aiutato da quattro consiglieri. La chiesa centrale della skiti riceve il nome di kyriakïn, perchß i monaci di tutte le abitazioni che compongono la skiti vi si ritrovano, per la divina liturgia e per le altre ufficiature, alla domenica (in greco kyriakß) e nelle altre feste [N.d.T.]. 29 La corda della preghiera del cuore. Fatta di lana o di seta, ha di solito 100 nodi [N.d.T.]. 30 KerasiÜ, all’estremitÜ meridionale della penisola athonita, tra Kafsokalyvia e la skiti di Haghia Anna, à il piô antico insediamento monastico conosciuto dell’Athos, citato anche nella Vita A di sant’Atanasio l’Athonita 20 [N.d.T.]. 31 Nel 1924 la chiesa ortodossa greca abbandona il calendario giuliano in favore di quello gregoriano. L’adozione del nuovo calendario, presentata giÜ nel 1923, in un sinodo indetto a Costantinopoli dal patriarca Melezio (Metaxakis), come una necessitÜ di adeguamento scientifico-astronomico (il calendario giuliano aveva accumulato un ritardo di 13 giorni sull’anno astronomico) e di avvicinamento all’occidente, provocð vive reazioni in alcuni strati del popolo greco: essi vedevano in questa inno-

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vazione l’inizio di un minimalismo modernista capace di intaccare l’integritÜ stessa della dottrina e della vita della chiesa ortodossa. Il movimento, estesosi ad altri paesi e spaccatosi in vari rami, ha presentato (e presenta tuttora, pur nel suo complessivo indebolimento) due tendenze di fondo: l’una, piô radicale, considera le chiese ufficiali come prive della grazia divina e decadute dalla successione apostolica; l’altra, piô moderata, ritiene le chiese neocalendariste non prive della grazia divina e della successione apostolica, ma cadute in un “errore sanabile”, continuamente e caparbiamente segnalato, in attesa di resipiscenza e conversione, dalla stessa presenza e “resistenza” delle chiese tradizionali o veterocalendariste [N.d.T.]. 32 In Grecia (ma non si tratta di un “privilegio” riservato a quel paese...), in alcune frange marginali della chiesa, la speculazione sull’anticristo, sulla sua identitÜ e sul tempo della sua venuta ha fatto versare, negli ultimi decenni, parecchio inchiostro. Non ancora disseccato: nel 2006 il monaco Massimo, igumeno di un monastero dedicato a san Cosma di Etolia nella metropolia di Corinto, pubblicava un libro di quasi settecento pagine dal titolo • arrivato l’anticristo. In questo volume – sulla base di profezie bibliche e del valore numerico delle lettere greche che compongono la frase Ho antæchristos ßlthen, “l’anticristo à arrivato” – l’autore sostiene che l’anticristo à nato nel 1983 e farÜ la sua pubblica apparizione nel 2013, apparizione che sarÜ seguita dal secondo avvento del Signore (intorno al 2018), e dunque dalla fine di questo mondo e dall’inizio della vita eterna... [N.d.T.].

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DA ERACLITO ALL’ANZIANO PORFIRIO

Avremo l’ardire di accostare, brevemente, due grandi figure della nostra tradizione1. Il primo nasce e muore ad Efeso nel vi e v secolo a.C. • il “filosofo oscuro”2. Il secondo nasce in Eubea3 e muore al Monte santo nel xx secolo. • l’anziano luminoso. Mentre li dividono, nello spazio e nel tempo, cosç grandi distanze e mentre vivono, nello spirito e nella cultura, in un clima cosç diverso, tuttavia la loro inedita audacia di sacrificare – sin dall’infanzia – tutto a favore dell’Uno li apparenta. * Il primo – Eraclito – non à semplicemente un filosofo, ma un fenomeno della storia universale. Un meteorite che à apparso nel firmamento umano. Un temporale violento che ha portato il piô tranquillo e luminoso sereno. • “straordinario sin da bambino” (test. 1)4 e di animo grande. Nasce con una sete. Cerca la veritÜ. • esigente. Niente lo appaga. Esamina tutto. Dai suoi contemporanei à qualificato: oscuro, dispregia85

tore del volgo, sprezzante, misantropo... Egli non dÜ importanza ai commenti. Segue la sua strada. Traccia il suo cammino. Tutta la sua esistenza, come un ago magnetico, à attratta stabilmente da una stella polare di cui i piô nemmeno sospettano. Si affaccia all’agone con pretensioni mai viste. Pretende di trovare l’Uno. Di trovare il modo in cui il tutto à ordinato. Abbandona tutto. Cede al fratello piô giovane i privilegi regali che aveva in quanto primogenito di una famiglia di re. Va a finire sui monti, cibandosi di erbe. Medita, cercando se stesso. • bruciato, dentro, da un fuoco che sempre vive. Dichiara: Tutte le cose sono uno scambio con il fuoco, e il fuoco uno scambio con tutte le cose, come le merci sono uno scambio con l’oro, e l’oro uno scambio con le merci (fr. 90). Quelli che cercano l’oro rivoltano molta terra, ma trovano poco oro (fr. 22). Mi sono cercato (fr. 101).

Ha cercato se stesso. Ha trovato il poco oro con il quale acquista tutto. Alla fine quest’oro à l’umiltÜ, il coraggio di abbandonare tutto a motivo dell’Uno. Nella sua parola e nella sua vita bastona, in termini chiari, la tracotanza e la presunzione. Confessa: “Meglio spegnere la tracotanza che un incendio” (cf. fr. 43). La presunzione à convulsione (cf. fr. 46). 86

La tracotanza, in quanto arroganza, e la presunzione, in quanto culto della nostra grandezza immaginaria, sono davvero incendio e invasamento demoniaco, che portano con sß la rovina finale. • convinto dell’esattezza della diagnosi. Per quest’Uno sacrifica tutto. E tutto gli viene dato. “Un’unica cosa scelgono, in cambio di tutte, i migliori, gloria imperitura dei mortali; mentre i piô si rimpinzano come bestie” (fr. 29). E non si saziano, perchß altro à cið che soddisfa e nutre l’uomo e altro gli animali. Altro à il piacere proprio del cavallo, altro quello del cane e altro quello dell’uomo ... Gli asini piô che l’oro sceglierebbero la paglia. Il cibo, infatti, à per gli asini piô piacevole dell’oro (fr. 9).

Per gli asini la paglia à migliore dell’oro. L’uomo, con le sue esigenze, à qualcos’altro. Ha altri rapporti con Dio e gli animali. “Il piô saggio” tra gli uomini à una scimmia se confrontato con Dio nella bellezza, nella sapienza e in tutte le altre virtô (cf. fr. 83). Al tempo stesso, “la piô bella” tra le scimmie à brutta paragonata all’uomo (cf. fr. 82). Esiste il movimento perituro delle cose periture e quello eterno delle cose eterne. • dolce per le cose periture il movimento perituro. Esso à tuttavia insufficiente e intollerabile per l’uomo. Come l’acqua del mare: à “la piô pura e la piô 87

contaminata; per i pesci à bevibile e salutare, per gli uomini à imbevibile e mortifera” (fr. 61). “L’uomo educato non deve essere nß sudicio nß sporco, nß deve dilettarsi del fango. I porci godono del fango piô che dell’acqua pura” (fr. 13). Opera una diagnosi del disordine, della confusione e della falsitÜ dominante. Ciascuno ritiene di avere “una sapienza sua propria” (cf. fr. 2), mentre la sapienza à una sola. La dona il fuoco sapiente e sempre vivo che à causa dell’ordinamento del tutto (cf. fr. 64). Ma mentre vivono insieme al Logos divino, i piô non lo conoscono (cf. fr. 1). Per questo siamo circondati da disordine e guerra. Tutto passa “per lotta e necessitÜ” (fr. 80). L’invidia, l’antagonismo e la necessitÜ regolano la vita degli uomini. A dominare, in tal modo, à una guerra generale. Essa à “comune” per tutti. Essa à re e padre di tutti. Gli uni rende dài, gli altri uomini, gli uni schiavi, gli altri liberi (cf. fr. 53). Ma mentre cosç stanno le cose, c’à una forza segreta che “ama nascondersi” (fr. 123). C’à un’armonia invisibile che à “migliore” di quella visibile (fr. 54). Questa forza invisibile e segreta regola tutto. • chiamata Logos comune e divino che tutto governa. • chiamata “Fuoco sempre vivo” (fr. 30) che, come un fulmine, “timoneggia tutte le cose” (fr. 64). • chiamata Sapienza ed à “distinta da qualsiasi altra cosa” (fr. 108), e tutto, attraverso tutto, governa. • chiamata Legge divina che “a tutte le cose à sufficiente e tuttavia le sopravanza” (fr. 114). 88

Per quest’unica forza che tutto, attraverso tutto, governa, tutto à buono e giusto, mentre per l’uomo alcune cose sono giuste, altre ingiuste. Quest’unica forza à riconosciuta da uno solo, il migliore, à riconosciuta da Eraclito, che con senno e audacia, senza ombra di alterigia, sacrifica tutto a favore di quest’Uno che ha trovato, e cosç tutto gli viene donato. Ed egli si rivela “gloria imperitura dei mortali” (cf. fr. 29). Maledizione e condanna sono la sfrontatezza della tracotanza e la malattia della presunzione, in qualunque forma – scoperta o segreta – si presentino nell’uomo. Anche il sole, se travalica le sue misure, verrÜ sorpreso dalle Erinni, quali ministre di Dike (cf. fr. 94). Questo rivoluzionario che dice no a tutto finisce con il dire sç all’Uno. Guadagna la sua libertÜ piegandosi all’Uno che ha trovato: “Legge à anche obbedire alla volontÜ dell’Uno” (fr. 33). Sottomettendosi, obbedendo al Logos divino e alla Legge divina, si affranca dalla menzogna e dal disordine. Oltrepassa tutto: dal movimento perituro delle realtÜ periture arriva a quello eterno delle eterne. Dalla guerra alla pace. Dalla fatica al riposo. Dal “non congetturare a caso sulle cose piô grandi” (cf. fr. 47) al gioco spensierato. Alla sazietÜ, alla sovrabbondanza. Cosç, mentre la guerra à comune e tutto accade “per lotta e necessitÜ” (fr. 80), i migliori sono liberati dal disordine e dalla confusione della guerra, perchß non operano “per lotta e necessitÜ”, come i piô, i 89

malvagi, ma fanno e pensano tutto per partecipazione del Logos divino (cf. test. 16). Giungono, cosç, alla veritÜ e la conoscono. Se, infatti, isolandoci siamo nel falso, partecipando del Logos divino siamo nel vero (cf. test. 16). Qui non à re la guerra, ma un fanciullo. “Un fanciullo ha potere regale” (fr. 52). • arrivato alla libertÜ finale, lç dove la vita si identifica con la morte – e la supera –, l’essere con il non essere. Arriva alla conoscenza “per partecipazione del Logos divino”. Quand’ero giovane, non sapevo nulla; giunto a maturitÜ, ho saputo tutto (cf. test. 1). • arrivato all’incredibile, a conoscere tutto mediante la fede. “La maggior parte delle cose divine [e quali cose non sono divine?] a causa della mancanza di fede si sottrae alla conoscenza” (fr. 86). In ragione del fatto che non crediamo, ci sfuggono molte cose, e non le conosciamo. “Rimproverando” sottolinea che vi sono increduli che non sanno nß ascoltare nß parlare (cf. fr. 19). Colui che tutto fa e tutto pensa “per partecipazione del Logos divino”, che ascolta liberamente e parla personalmente, dal Logos divino viene risuscitato e diventa custode dei vivi e dei morti. Riunisce tutti per sempre. Alla fine, l’oscuro, il dispregiatore del volgo, il misantropo, si rivela al mondo come luminoso e filantropo. Si prende cura, si dÜ pensiero per tutti: “Bisogna ricordarsi anche di colui che dimentica dove conduce la strada” (fr. 71). 90

Non demoralizza nessuno. Ha parole buone per tutti: “Comune a tutti à il pensare” (fr. 113) e “a tutti gli uomini à data possibilitÜ di conoscere se stessi ed essere saggi” (fr. 116). Cið che comunica con la sua parola e la sua vita à divino. “Aspirando con la respirazione il Logos divino, diventiamo intelligenti” (cf. test. 16). Ha constatato e sperimenta che “ethos per l’uomo à la divinitÜ” (fr. 119). E l’ethos divino ha “conoscenze”, mentre quello umano non ne ha (cf. fr. 78). Eraclito non à un semplice filosofo o poeta. • “gloria imperitura dei mortali” (cf. fr. 29). Quando lo accusavano di essere tenebroso e dispregiatore del volgo, non vi ha dato importanza. Quando, piô tardi, lo stimano e lo riconoscono filosofo e poeta, egli, di nuovo, nemmeno si lascia sfiorare dal fatto. Va oltre. Per lui i pensieri filosofici sono “giochi da ragazzi” (fr. 70). E il linguaggio ornato della poesia (al modo di Saffo) un’emozione insufficiente, che semplicemente incanta l’udito (cf. fr. 92). Niente lo attarda. Disprezza la gloria effimera, l’onore e i commenti. Sacrifica se stesso nella lotta per le massime realtÜ. • un “caduto in battaglia”. • onorato da dài e da uomini (cf. fr. 24). “A tutti gli uomini à data la possibilitÜ di conoscere” le buone parole che ha per tutti (cf. fr. 116). Non à egli a dirle. Le dice il Logos. L’atto finale di colui che à orgogliosamente umile à quello di mettersi in disparte, di cancellarsi. E di aprire la strada di tutti verso il Logos comune e divino. 91

“Se hai udito non me ma il Logos, à saggio concordare che tutte le cose sono Uno” (fr. 50). Lo sbocco finale dell’impresa titanica di Eraclito à l’aiuto offerto al genere umano con il far sç che si oda il Logos divino. Non si interpone tra gli uomini e il Logos. Ma tutta la sua lotta e il suo sacrificio – come di uno “caduto in battaglia” – hanno l’effetto di farlo diventare una trasparenza, una porta aperta, un passaggio, un “accesso” (pïros), perchß tutti arrivino, grazie alla speranza, all’“insperato” e all’“inaccessibile” (Ûporos). “Se uno non spera, non troverÜ l’insperato: à introvabile, infatti, e inaccessibile” (fr. 18). Ogni sua frase à un fulmine che spegne l’incendio della tracotanza, dissolve le creazioni del cattivo gusto e provoca l’incandescenza della vita sempiterna – “Fuoco sempre vivo” (fr. 30) –. L’intera sua opera e la sua presenza non esaltano lui e sottovalutano gli altri. Ma, al contrario, contraggono, eclissano lui, ed esaltano il Logos comune e divino che salva tutti. Egli à stato reso incandescente dal fulmine del Fuoco sempre vivo. Riscalda e illumina l’uomo con una luce che mai tramonta (non lo appesantisce con opinioni). Appaga tutti, anche i piô esigenti, anche quanti si dilaniano tra loro. Materialisti e idealisti lo vogliono fondatore della propria teoria. Quando un Nietzsche confessa: “Accanto a Eraclito ho percepito sempre un calore piô vivo, meglio che in qualunque altro posto ... Nelle sue parole debbo senz’altro riconoscere cið che di piô imparenta92

to con me un uomo, finora, sia riuscito mai a pensare”5, l’anima di Eraclito, in ogni caso, si commuove: sente qualcosa nell’ade. “Le anime nell’ade aspirano odori” (fr. 98). * Il secondo – l’anziano Porfirio – à un eroe nato dello Spirito. Ardimentoso. Come un altro Colombo, esce nell’oceano infinito per ricercare il nuovo mondo bramato dalla sua anima. A dodici anni parte da solo per il Monte santo, all’insaputa dei suoi genitori. Si inoltra nell’ignoto, affascinato e guidato dall’eros segreto che infuoca il suo cuore. Nessuno lo manda e nessuno lo attende. Invisibilmente lo protegge il Dio “che custodisce i piccoli” (Sal 114,6). La Santissima dispone cosç, ed egli arriva a Kafsokalyvia, nella kalyva di San Giorgio. Lç vivono due anziani, semplici, generosi. Autentici aghioriti. Coltivano il campo della loro anima. Adempiono ai loro doveri monastici. Amano le ufficiature. Dicono la preghiera del cuore. Non hanno alcuna considerazione di se stessi. Sono nutriti dalla tradizione del luogo sacro, come gli alberi secolari dalla terra del Monte santo. Accolgono questo ragazzo dodicenne. Non gli impartiscono insegnamenti specifici. Lo amano – ed egli lo capisce –, senza dirgli mai “bravo”. Semplicemente, lo portano con sß nelle ufficiature. Gli danno un komboskini per la preghiera del cuore. Egli à aiutato, nutrito spiritualmente, con il fatto di vivere as93

sieme a loro; di vederli; e di respirare la fragranza del Monte santo. L’ambiente sacro e immacolato della skiti à cið che il ragazzo inquieto e purissimo cercava. Il suo cuore palpita. Obbedisce liberamente e gioiosamente. Cið gli dÜ forza e appetito nella lotta. Gli basta solo trovarsi con i suoi anziani nelle ufficiature e nei servizi, in casa e nel bosco. Essi non dicono parole superflue. Non parlano del loro paese e dei loro parenti. Sono solo e semplicemente monaci aghioriti. Nulla di piô. Cið offre allo spirito giudizioso e sveglio del giovane novizio piô di quanto non pensino essi stessi. Gli aprono la via per progredire e crescere senza limiti. Per questo principiante tutto à occasione di gioia e di conoscenza. Come una spugna, assorbe tutta la grazia dalle salmodie, dalle icone e dall’intero ambiente della skiti. Tutto lo entusiasma e gli parla: l’ufficiatura nella kalyva, la veglia nel kyriakon, la natura tutta del Monte santo – i corsi d’acqua, gli alberi, gli uccelli, le rocce –. Davvero, “cið che ci avvolge” à “dotato di ragione e di intelligenza” (cf. test. 16). L’ambiente à santo e sacro. Egli lo sente, lo vive. Ringrazia Dio che lo ha portato in questo paradiso. Confessa: “La nostra religione à amore, à eros, à invasamento, à pazzia, à brama ardente del divino ...”6. Vuole andare avanti. Una simile creatura, dotata di tanto ardimento e slancio, non puð fermarsi in nessun luogo. Vuole andare oltre. Vuole accedere all’Inaccessibile... 94

Cið che cerca lo ritrova nei santi – gli uomini veri e liberi –, in quelli antichi, in quelli nuovi, con i quali convive. Lo vede nei monaci umili, nascosti, negli asceti disprezzati, che emettono raggi invisibili. Vuole perdersi nell’entroterra sconfinato del Monte santo, spirituale, impenetrabile, inaccessibile, inavvicinabile. Dice: “Devo partire, perdermi, non esistere”7. Vuole trovarsi in compagnia degli inesistenti, degli umili, degli angeli. E poichß à vero e consapevole di cið che cerca, la sua preghiera di perdersi non resta senza risposta. Dio che l’ha protetto quando da solo ha preso la strada per l’Athos anche ora ascolta il desiderio ardente del suo cuore. Una sera, nel nartece buio del kyriakon della skiti, prima dell’inizio dell’ufficio, arriva un asceta “perduto”, un monaco disprezzato, l’anziano Dema, che vive in una kalyva priva di tutto8 sopra la skiti. L’anziano inizia, in quello spazio oscuro e vuoto, le sue prostrazioni. Ripete la preghiera del cuore. All’improvviso leva un grido di glorificazione. • inondato di luce. E subito quella materia infiammabile che à il piccolo monaco prende fuoco. Riceve la grazia. • sconvolto, come se su di lui un fulmine si fosse abbattuto. • assunto in un altro mondo. Trema da capo a piedi. Si aprono i suoi sensi. Vede l’invisibile. Si contorce in preda ai singhiozzi. La grandezza della benedizione eccede la sua resistenza. Soffoca nel pianto. Non puð parlare. Appena termina l’ufficiatura, corre nel bosco. Scoppia in grida: “Gloria a Dio, gloria a Dio!”. 95

Il cielo ha risposto. Vede chiaro tutto, lo sente. Lo ode, lo fiuta da lontano. Vede cosa accade nell’anima dell’uomo. Vede cosa accade nelle profonditÜ della terra. Si perde nell’abbraccio infinito dell’amore di Dio. Puð un ragazzo cosç piccolo sostenere un carisma cosç grande? Sç: Dio sa cosa fa. Egli à sconvolto dall’amore di Dio. Prosegue il suo cammino nel paradiso della letizia divina. Nuota letteralmente nella profusione della gioia. Trova tutto. Ci trova tutti, come un uomo solo. Prega. Resta lç. Si umilia, e ascende fino al cuore dei misteri di Dio, e ce li comunica. Non si monta la testa. Rimane estraneo ad ogni tracotanza e presunzione. • un grande, cioà umile, e resta cosç. Non à impressionato dai carismi, ma da colui che li dona. Per una vita à rimasto nascosto con Cristo in Dio (cf. Col 3,3), ricolmo di grazia. Disse: “L’uomo con Cristo diventa pieno di grazia e cosç vive al di sopra del male. Il male per lui non esiste. Esiste solo il bene, Dio”9. “Quando uno à vuoto di Cristo, sopraggiungono, allora, migliaia di altre cose a riempirlo: invidie, odi, noia, malinconia, ribellione”10. “Chi à animato dallo Spirito santo ha anch’egli la conoscenza che ha Dio. Conosce il passato, il presente e il futuro. Glieli manifesta lo Spirito santo”11. • un teoforo. Dio che gli aveva dato la forza di venire dodicenne al Monte santo gli invið un’infermitÜ. Si ammala. Non puð restare. Esce dall’Athos. 96

L’arcivescovo del Sinai Porfirio12, quando lo conobbe in Eubea, ne rimase colpito e lo ordinð prete a vent’anni, dandogli il nome di Porfirio. L’accademico Amilcare Alivizatos13, quando lo conobbe – Porfirio era allora trentaquattrenne – ne fu incantato, tanto da chiedere all’arcivescovo di Atene Cryssanthos14 di nominarlo – lui che aveva frequentato soltanto la prima elementare – cappellano del Policlinico di Atene, nel quartiere di Omonia. Lç resta per trentatrß anni (1940-1973). Si fa conoscere come una brezza dello Spirito e un sorriso divino per tutta la gente affaticata della zona. Ama e illumina tutti: come Dio fa sorgere il sole “sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45). Non rimprovera nessuno. Consola e benedice tutti. Arriva perfino alla “casa di tolleranza” – quando, nell’Epifania, deve aspergere con l’acqua benedetta –. Non si meraviglia. Gioisce. Canta con tutto il suo cuore il tropario della festa: “Al tuo battesimo nel Giordano, Signore ...”15. Chiama anche queste creature sofferenti a baciare la croce e la loro “animula tormentata” a trovare consolazione16. Si fa conoscere come una benedizione per tutti. Un volto angelico. Un divino bambino che gioca. Un profumo che si espande e incontra ogni anima. • illetterato e sapientissimo. • un poeta divinamente ispirato, plasmatore di parole e di uomini. Dice: “Devi essere poeta per diventare cristiano”17. Cristo non accetta anime grossolane18. Dice: “Vedevo tutto, sapevo tutto, ma non parlavo”. 97

Parlava con discrezione, quando e quanto era necessario, per infondere coraggio all’altro, il sofferente e malato. Per dirgli quanto Dio à amore. Parlava liberamente. E ti trasmetteva il candore infantile del paradiso che aveva dentro di sß. Diceva cið che pensava e cið che aveva fatto: voleva imparare a suonare l’harmonium; aveva messo a posto una vecchia radio che faceva funzionare giorno e notte. E aiutava anche te a dire cið che pensavi. Il confessarsi da lui diventava una conversazione tra amici. • stato un bambino di Dio sino alla fine. Ti si presentava com’era. Non si atteggiava con te, in maniera artefatta, da santo e impeccabile. Non temeva la realtÜ. Non voleva essere glorificato dagli uomini. Voleva che fosse glorificato il nome di Dio. Di Dio, che “fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). Questo era padre Porfirio, che morç nel 1991 nel kellion dove aveva ricevuto la tonsura monastica. • stato una presenza luminosa di veritÜ e di consolazione, perchß ci ha trasmesso in dono la grazia di Dio che aveva dentro di sß. Non ci ha propagandato le virtô e l’irreprensibilitÜ della sua vita. Se padre Porfirio si fosse fermato ai carismi e a motivo di essi si fosse proposto di essere glorificato come carismatico e di sbalordire il mondo con i suoi prodigi, sarebbe diventato forse un’Atanasia di Egaleo19 o uno di quei tanti pseudoprofeti di simile stoffa che affliggono il mondo. Adesso à l’anziano Porfirio, il puro diamante, il bambino sorridente di Dio, che dissipa le tenebre del98

l’inferno e della tristezza: aiuta “il mondo a sentire l’abbraccio con cui Cristo avvolge noi tutti”20. Va al di lÜ dei carismi. Porta Dio ed à mosso da Dio. • saggio e quieto. Ha la gioia e la semplicitÜ del fanciullo di Dio. Non si turba individualmente. Non grida mai, trasmettendo la fredda repulsione che provoca in te chi vive nell’errore ed à pseudoprofeta “come se avesse una sapienza sua propria” (cf. fr. 2). • sereno. Parla “in modo tranquillo, semplice e dolce”. Senza nervosismi umani: trasmette la certezza della fede. Con un sorriso celeste tutto à sistemato. In maniera silenziosa e incruenta il vecchio uomo à distrutto. Le passioni si trasformano, si trasfigurano in forze a servizio dell’uomo, per il suo progresso e per la sua salvezza spirituali. Vive e confessa che l’umiltÜ à il cuore dell’anima. L’egoismo à idiozia e malattia che stordisce e porta all’errore. Disse: “Quando me ne andrð, sarð con voi ancora di piô”. E cosç à. * Gli uomini tracciano, con la loro vita, un cammino. Alcuni lo percorrono sino alla fine con successo. Altri rimangono a metÜ, per diverse ragioni. Molti si affaticano, lottano, vanno avanti. Qualcosa conseguono. Da qualche parte arrivano. Sacrificano tutto, eccetto la gloria, che tengono per sß. Si danno da fare perchß il loro nome sia negli orecchi di tutti, come ricompensa alle loro fatiche. Fanno il possibile per garantirsi un posto bene in vista, sia da vivi sia da morti. Questa à la loro malattia e la loro condanna. 99

Quanti si fermano alla propria sapienza non hanno cervello e si accontentano di poco. Quanti si crogiolano nella propria eleganza stilistica tradiscono la poesia. Quanti si entusiasmano per i propri carismi e li reclamizzano sono marionette che confondono gli ingenui. Eraclito non si lascia impressionare dalla sua sagacia filosofica, che tanto à stata ammirata. Nß dal suo genio poetico, che tanti onori ha ricevuto. Non vuole, nß puð, fare carriera come l’ennesimo filosofo o poeta della serie. Ha un’altra vocazione, che gli divora le viscere. Va oltre la filosofia e la poesia, oltre la gloria effimera e l’esistenza. Fa lo stesso l’anziano Porfirio. Non si lascia impressionare dai carismi che ha. Poichß à vero egli medesimo e veri sono i suoi carismi, li salva disprezzandoli, e anch’egli si salva. Tiene stretto dentro di sß colui che elargisce i carismi e resta, per sempre, una benedizione per i vivi e per i morti. Eraclito parla come in confessione. Ti apre il suo cuore. Ti offre le viscere della sua anima, con tutto cið che vive, e ti dice: “• difficile combattere con il desiderio del cuore: qualunque cosa desideri, la compra a prezzo dell’anima” (fr. 85). Fa lo stesso padre Porfirio: ti parla liberamente. Ti dice cið che ha dentro di sß. Non recita il ruolo del santo – lo à –. E ti offre la possibilitÜ di comportarti in maniera analoga – liberamente –. Leggendo Eraclito o padre Porfirio, trovandoti accanto a loro, non acquisisci conoscenze, ma, assai di piô, ricevi un’irradiazione che ti giudica e ti allieta, 100

ti cura e ti fa maturare. Impari ad ascoltare e a parlare (cf. fr. 19); per giungere, alla fine, al silenzio eloquente. Resi incandescenti dal fulmine del Fuoco sempre vivo – “il fuoco proverÜ la qualitÜ dell’opera di ciascuno” (1Cor 3,13) –, essi effondono, come profumo di incenso che brucia, una parola di consolazione che calamita tutti e a tutti dÜ pace. Eraclito condanna gli idoli della sapienza, della poesia. Giudica le statue, l’impuritÜ dei culti misterici. Padre Porfirio condanna gli idoli della santitÜ, l’egoismo e il puritanesimo, come possessione demoniaca. Quando adori idoli – o ti autoidolatri – ti tormenti. Ti prendi gioco di te. Vivi nelle docce fredde della paura e dell’illusione, come uno stolto e uno stupido. “L’uomo sciocco ama provare stupore per ogni discorso” (fr. 87). Turbamento della paura che trasmetti agli altri. Costoro sono giunti alla pace della certezza. Sono audaci. Sono innamorati dell’Uno. Danno tutto per esso. Sono ciechi e hanno molti occhi; sono invasati e tranquilli. Pervengono alla sovrabbondanza divina con l’integrale sacrificio di sß. “Voglio partire, perdermi, non esistere”21: parole di un temerario che identifica l’essere con il non essere. Non chiunque puð accettare questa identificazione. “• impossibile a chicchessia credere che una stessa cosa sia e non sia” (test. 7). Solo un Eraclito (migliore) e un Porfirio (santo) possono desiderarlo e attuarlo con il sacrificio del proprio essere. 101

Essi, sacrificando tutto e se stessi, arrivano all’apice del desiderabile. Esistono e non esistono. Si trovano al di lÜ della morte. Diventano custodi di vivi e di morti. Arrivano alla vera purezza e libertÜ. Vero à il libero. Libero à colui che si à asservito volontariamente all’Uno. “Legge à anche obbedire alla volontÜ dell’Uno” (fr. 33). Totalmente puro, “se mai, di rado, puð accadere” (fr. 69), à l’inesistente. Chi ha osato sacrificare tutto, anche se stesso, per l’Uno, per causa del Signore e del suo vangelo (cf. Mc 8,35). * Avere il coraggio di sacrificare tutto. Di dissolverti, di giungere consapevolmente al non essere, e vedere sorgere da questo sacrificio qualcosa di altro, di sempiterno, di estraneo alla corruzione, alla gloria effimera o alla tua giustizia, che à “panno immondo” (Is 64,6). E scoprire che questa cosa altra, sconosciuta, estranea a te stesso (che forse non conosci e disprezzi) à il tuo vero io e il tuo vero essere. Ricevere, dopo il sacrificio di tutto, molto di piô di quanto ti immaginassi o ti aspettassi. “Dopo la morte attendono gli uomini cose che essi non sperano e neppure immaginano” (fr. 27). * Quando cerchi l’irraggiungibile, imbocchi una strada pericolosa. 102

Quando, come Eraclito o Porfirio, inizi con una simile foga e pretesa la tua strada, o perdi tutto, con la tracotanza e la presunzione (manifesta o occulta), o guadagni tutto, con la vera audacia e umiltÜ. Essi hanno sacrificato tutto, a favore dell’Uno. E tutto à stato loro dato, a favore di tutti. Sono giunti all’insperabile e all’incredibile, alla profusione della vita e della libertÜ. Si godono il gioco spensierato del regno dei cieli, lç dove regna il “piccolo bimbo, il Dio che à prima dei secoli”22 – “un fanciullo ha potere regale” (fr. 52) –, emettendo perennemente “una luce che investe lieta l’ade e la morte”23.

1 Il tema à stato sviluppato in un discorso tenuto a Iraklion (Creta) il 23 novembre 2003, nel corso di una manifestazione organizzata dalla biblioteca comunale intitolata all’intellettuale, prosatore e poeta Dimitrios Vikelas (1835-1909). 2 Scrive, nelle Vite dei filosofi, Diogene Laerzio a proposito dell’opera eraclitea Sulla natura, composta con stile originale, audace e non facilmente intelligibile: “Depose [il suo libro] come offerta nel tempio di Artemide, a detta di alcuni, dopo averlo scritto nella forma piô oscura possibile, affinchß vi si accostassero soltanto quelli che erano in grado di capirlo, e perchß non venisse disprezzato per essere scritto in uno stile accessibile a tutti. Lo descrive anche Timone [di Fliunte], dicendo: ‘E tra di loro si levð Eraclito, che grida come il cuculo, che ingiuria il popolo, che parla in modo oscuro’” (I Presocratici, p. 319). Di qui, appunto, l’appellativo di “oscuro” con cui Eraclito à passato alla storia [N.d.T.]. 3 Eubea à la seconda isola greca per grandezza, dopo Creta. Sorge nell’Egeo, parallela alla costa attica. Lç, nel villaggio di San Giovanni, nacque il 7 febbraio 1906 l’anziano Porfirio che, al momento del battesimo, ricevette il nome di Evanghelos [N.d.T.]. 4 Il nostro autore rimanda, per il numero che assegna alle testimonianze su Eraclito e ai frammenti del filosofo, al volume Die Fragmente

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der Vorsokratiker. Griechisch und deutsch I, a cura di H. Diels e W. Kranz, Zurigo 19516, pp. 139-190 (tr. it.: I Presocratici). Ricordiamo al lettore che l’interpretazione dei frammenti data dall’archimandrita Basilio (che li cita nel testo originale) in qualche caso non concorda con la traduzione italiana appena segnalata. Basta, del resto, prendere varie edizioni dell’opera eraclitea per accorgersi della varietÜ esistente di traduzioni e di interpretazioni del filosofo “oscuro” [N.d.T.]. 5 Cit. nel periodico ’Epopteı´a, nrr. 36-37, p. 603. 6 Ge´rontoj Porfurı´ou, p. 200. 7 Ibid., p. 86. 8 XerokÛlybo, in greco. Il termine indica una kalyva che manca (tra le altre cose...) anche di acqua corrente [N.d.T.]. 9 Ge´rontoj Porfurı´ou, p. 203. 10 Ibid., p. 364. 11 Ibid., p. 394. 12 Si tratta di Porfirio III, nato anch’egli nell’isola di Eubea, arcivescovo del Sinai dal 1926 al 1968 [N.d.T.]. 13 Nato nel 1887, studið teologia ad Atene, diritto canonico e storia della chiesa in Germania. Nel 1918 divenne professore di diritto canonico e di teologia pastorale in patria. Nel 1936 organizzð nella capitale greca il primo congresso internazionale di teologia ortodossa, i cui Atti furono premiati dall’Accademia di Atene, congresso che segnð, per universale riconoscimento, una svolta nella teologia ortodossa: la presa di coscienza, da un lato, della propria originalitÜ e, dall’altro, delle influenze estranee che fino ad allora l’avevano condizionata. Morç nel 1969 [N.d.T.]. 14 Nato nel 1881, arcivescovo di Atene nel 1938, divenne famoso per la sua ferma opposizione al regime occupante (le potenze dell’Asse) durante il secondo conflitto mondiale, opposizione che comportð, nel 1941, la sua deposizione da primate della chiesa di Grecia. Morç nel 1949 [N.d.T.]. 15 “Al tuo battesimo nel Giordano, Signore, si à manifestata l’adorazione della TrinitÜ: la voce del Padre ti rendeva infatti testimonianza, chiamandoti ‘Figlio diletto’, e lo Spirito in forma di colomba confermava la sicura veritÜ di questa parola. O Cristo Dio che ti sei manifestato e hai illuminato il mondo, gloria a te” (Anthologhion di tutto l’anno I, p. 1271) [N.d.T.]. 16 Ge´rontoj Porfurı´ou, p. 146. 17 Cf. ibid., p. 228. 18 Cf. ibid., p. 229. 19 Atanasia Samari, conosciuta come “Atanasia di Egaleo” o “sant’Atanasia”. Nata nel 1926, afferma di ricevere, fin da quando aveva quattordici anni, messaggi che la Vergine scrive direttamente sul suo petto. Figura assai discussa e piô volte portata in tribunale, la “veggente”, con il sostegno dei suoi adepti e, secondo molti, con il raggiro di tante persone ingenue, avrebbe accumulato un’ingente fortuna economica [N.d.T.]. 20 Ge´rontoj Porfurı´ou, p. 445.

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21 Ibid., p. 86. 22 Menaæon, 25 dicembre, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno I, p. 1167). 23 D. Solomos, Poih´mata kaı` peza´ (Poesie e prose), a cura di S. Alexiou, Ekdoseis Stigmç, Athina 1994, p. 259.

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“IO SONO VENUTO PERCH” ABBIANO LA VITA E L’ABBIANO IN ABBONDANZA” (Gv 10,10)

Il Dio Verbo incarnato à venuto “a cercare e a salvare cið che era perduto” (Lc 19,10). • venuto nei panni del forte, ubbidendo alla volontÜ del Padre celeste, per salvare il mondo. “Ecco, vengo a fare la volontÜ di Dio” (cf. Eb 10,9). Prova della sua forza onnipotente à il fatto che viene e si comporta come un debole, un “mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Prova dell’autenticitÜ della sua veritÜ – “io sono la veritÜ” (cf. Gv 14,6) – à il fatto che la insegna mediante l’amore, mediante il suo sacrificio sulla croce. Come la natura divina, nella persona del Signore, non à separata da quella umana, cosç la veritÜ del vangelo non à separata dall’amore. La veritÜ senza amore à, per la vita, una menzogna. E l’amore che non “si compiace della veritÜ” (1Cor 13,6) à, per l’uomo, un inganno. L’amore à il metodo e il modo per insegnare la veritÜ che libera l’uomo. “Conoscerete la veritÜ e la veritÜ vi farÜ liberi” 107

(Gv 8,32). Qui incontriamo la veritÜ che si incarna come amore. E l’amore che si sacrifica “per la vita e la salvezza del mondo”1. Non puð esserci teologia e proclamazione della veritÜ senza la presenza operante dell’amore divino. Nß puð esserci amore che salva se non si fonda sulla veritÜ della DivinitÜ trinitaria, che à amore. Il Signore non à venuto per insegnare veritÜ di natura teorica e giuridica o per offrire una giustizia mondana. Parla come “uno che ha l’autoritÜ dell’amore, e non come gli scribi” (cf. Mt 7,29). “Non contenderÜ nß griderÜ” (Mt 12,19). Contendono e gridano i deboli. Viene come sovrabbondanza di pazienza, di amore, come una brezza leggera in cui Dio à presente (cf. 1Re 19,12). Conosce l’uomo e i suoi bisogni. Conosce le sue tribolazioni e i suoi desideri. Lo libera “dalle tenebre e dall’ombra di morte”2. Gli perdona i peccati e lo porta alla conversione e alla trasfigurazione. Libera i posseduti da spiriti impuri. Non riveste l’indemoniato della regione dei geraseni di insegnamenti esortativi o minacciosi. Questi non solo strappava i suoi abiti, ma spezzava persino le catene, per tornarsene tra i sepolcri e i deserti come spauracchio per il mondo. Lo libera dai demoni. E, cosç, egli si siede “vestito e sano di mente” accanto al Signore (Lc 8,35; Mc 5,15). Ama, perdona e assicura forza a chi à impegnato nella lotta. Non condanna l’adultera sorpresa in flagrante. “Nemmeno io ti condanno”. Le ordina solo: 108

“Va’ e ... non peccare piô” (Gv 8,11). Lo stesso consiglio dÜ al paralitico guarito: “Ecco, sei guarito! Non peccare piô, perchß non ti accada qualcosa di peggio” (Gv 5,14). Essi possono, cosç, lottare nella penitenza, non cadere nelle stesse colpe, perchß li ricopre l’affetto e l’amore del Dio-uomo. Non condanna il debole, nß rimprovera il peccatore. Aiuta l’infermo e cura il malato. “Non spezzerÜ una canna incrinata, non spegnerÜ una fiamma smorta” (Mt 12,20). Tocca il dolore dell’uomo. “Toccð” il lebbroso e fu sanato (cf. Mt 8,3). “Toccð” il sordomuto, che fu guarito, e comincið a sentire e a parlare (cf. Mc 7,33). “Toccð” la bara del morto e il figlio della vedova di Nain risuscitð (cf. Lc 7,14). “Tutta la folla cercava di toccarlo, perchß da lui usciva una forza che guariva tutti” (Lc 6,19). Si presenta come una benefica irradiazione di forza, consolazione e salute. Mentre con tutti à mite e indulgente, si rivolge con accenti severi agli ipocriti e ai falsi profeti che con grande impudenza falsificano la veritÜ della salvezza, screditano Dio. Fanno della casa del Padre suo un luogo di mercato (cf. Gv 2,16) e tormentano l’uomo. Colpisce severamente gli ipocriti e i dottori della Legge, che caricano il mondo di “fardelli pesanti e difficili da portare” (Mt 23,4), mentre essi non offrono aiuto nemmeno con un dito. Bussa con discrezione alla porta di ogni solitario. Se quegli gli apre, entrerÜ e cenerÜ con lui (cf. Ap 3,20). 109

Colpisce i falsi cristi, i falsi profeti e i falsi maestri, che contraffanno la veritÜ del vangelo della salvezza. E i fabbricanti di miracoli, che sconcertano l’uomo e vaticinano il divino. “Se vi dicono: ‘Ecco, à nel deserto’, non andateci. ‘Ecco, à in casa’, non credeteci” (Mt 24,26). “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirÜ: ‘Eccolo qui’, oppure: ‘Eccolo lÜ’. Perchß, ecco, il regno di Dio à dentro di voi” (Lc 17,20-21). Il regno di Dio si trova dentro di voi. Con la penitenza, la contrizione e la purezza del cuore vi pacificherete interiormente. Tale pace interiore vi consentirÜ di vedere Dio e di sentirvi suoi figli. “Beati i puri di cuore, perchß vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perchß saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,8-9). La presenza del Signore non si circoscrive in maniera mondana. Non si comprende in maniera umana. Non si accosta in maniera magica, con segni e prodigi. Se vi dicono: “Si trova qui”, o “lç”, non credeteci. La presenza del Signore à una folgore che illumina cið che à sotto il cielo (cf. Mt 24,27). • una manifestazione divina. • una grazia divina, che apre gli occhi dell’anima. Illumina l’uomo, che si rende conto dell’unico miracolo. Dell’“unica cosa nuova sotto il sole”3: il fatto che il Figlio di Dio diventa figlio dell’uomo. Il fatto che la seconda persona della TrinitÜ santa à Dio perfetto e uomo perfetto. Non si tratta di insegnamento e di atto umano – la predicazione del Signore –, ma di presenza efficace della grazia divina. Se “la Legge fu data per mezzo 110

di Mosà, la grazia e la veritÜ vennero per mezzo di Gesô” (Gv 1,17). Egli à venuto per liberarci dalla maledizione della Legge. “Ci ha riscattati dalla maledizione della Legge” (Gal 3,13). La legge di Dio era stata cosç distorta che, con essa, sono arrivati a un deicidio: “Noi abbiamo una Legge, e secondo la nostra Legge deve morire” (Gv 19,7), perchß si à fatto Figlio di Dio. Non à venuto a donarci soltanto la salute del corpo; nß a risolvere problemi connessi ad aporie metafisiche. • venuto ad affrancare l’uomo dalla tirannia del maligno. A renderlo dio per grazia. A renderlo capace di vedere invisibilmente la luce della DivinitÜ. Capace di non racchiudere l’inconcepibile entro pensieri umani, nß la salvezza entro schemi giuridici. • venuto a dargli la possibilitÜ di conoscere Dio in maniera degna di Dio. La possibilitÜ di vederne, di sentirne la presenza come luce che illumina e consola “ogni uomo che viene nel mondo” (Gv 1,9). La possibilitÜ di prendere coscienza della nobiltÜ spirituale e della dignitÜ dell’essere umano. • venuto ad aprirgli gli occhi. A santificarlo nell’anima e nel corpo. A donargli l’antica bellezza e l’adozione a figlio. A renderlo figlio di Dio, persona libera, sacerdote della creazione. Proprio dopo la guarigione del cieco nato e le reazioni dei farisei, interessati al sabato e non all’uomo, il Signore confessð: “• per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perchß coloro che non vedono vedano, e quelli che vedono diventino ciechi” (Gv 9,39). Segue subito, precisamente a motivo di 111

cið, la parabola del buon pastore (cf. Gv 10,1-16), che illumina e ottenebra: irrita e indispone gli scribi e i farisei; assicura riposo e salvezza agli “affaticati e oppressi” (Mt 11,28). Il buon pastore chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori (Gv 10,3). La folgore della DivinitÜ, che mette a morte l’ade4, ha una correlazione con il fatto di chiamare per nome ogni pecora razionale. La chiamata per nome à una folgore segreta che illumina le profonditÜ e le estensioni sconosciute dell’esistenza umana. Soltanto il sentire pronunciato il tuo nome da parte di colui che ti ama, che à amore e per il cui tramite “tutto à stato fatto” (Gv 1,3): soltanto questo ti “sussistenzializza”. Ti dÜ sussistenza, esistenza. Ti onora, ti rende persona con un nome unico e ti introduce nello spazio della vita. Diventi consapevole di chi sei e di che cosa sei chiamato a diventare. Esci fuori dalla prigione dell’ovile chiuso, della percezione creata. Esisti. Vedi, dinanzi a te, il liberatore andare avanti. Tu lo segui. Sei sempre in partenza. Ti riposi nel cammino. Respiri nella libertÜ. La dilatazione non ha fine. Risplende di fronte a te uno stupore incessante di luce. Conosci la voce del pastore. Incanta le tue orecchie. Allieta il tuo cuore. Penetra dentro di te, come una pioggia divina in una terra assetata. Conosci la voce del buon pastore, che si sente in mille modi. Essa pacifica, illumina, dentro di te, mille luoghi. Cið ti risveglia, permettendoti di vedere, 112

sentire, avanzare e parlare come persona. Quanto esisteva nel tuo intimo ed era stato condannato al sonno e alla morte risorge. “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la mia vita per le pecore” (Gv 10,14-15). L’amore divino, che lega il buon pastore alle pecore, ha come modello il “come” trinitario, che definisce la relazione fra le tre persone dell’unica DivinitÜ. Il buon pastore sacrifica la sua vita per le pecore. Gli costa il sacrificio su una croce il chiamare ciascuno per nome, cioà liberare l’uomo, liberarlo dalla maledizione della Legge, dalla maledizione dei falsi maestri, dei falsi profeti, che sono ladri e briganti. Ora l’uomo puð muoversi liberamente, muoversi come persona, muoversi per amore. Trovare l’amore estatico, Dio che lo ha plasmato. Assoggettare volontariamente a lui la propria libertÜ. Dare la propria vita per riprenderla (cf. Gv 10,18). Darla per salvarla. Non c’à altro modo per salvare la vita che non sia il perderla per causa del Signore e del vangelo (cf. Mc 8,35). Per vedere la tua vita e la tua gioia dilatarsi senza fine, come benedizione per tutti. “Cammina innanzi a loro” (Gv 10,4): conducendole fuori dell’ovile, non le abbandona. Se ne prende cura. Le porta “piô lontano” (Lc 24,28). Continuamente si sacrifica per la liberazione, il continuo cammino e la santificazione delle pecore. “Dopo essersi, una volta per tutte, offerto in sacrificio ... sempre si immola, santificando chi vi partecipa”5. E se alcune lo hanno abbandonato, lo hanno rinnegato, egli 113

non le rinnega. Cerca di trovare quella perduta (cf. Lc 15,6). “Non puð rinnegare se stesso” (2Tm 2,13). “Un estraneo, invece, non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perchß non conoscono la voce degli estranei” (Gv 10,5). • loro aliena. Non la vogliono. Non la sopportano. Non si addice ad esse la voce degli estranei. E se talora, per poco, li seguono, in breve capiscono che à in agguato qualcosa di sospetto. • una trappola pericolosa. Li abbandonano e fuggono. Perchß costoro non sacrificano la propria vita a favore delle pecore. Sacrificano le pecore a favore di se stessi. Come ladri e briganti. “Il ladro non viene se non per rubare, sacrificare e distruggere” (Gv 10,10). “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarÜ salvato; entrerÜ e uscirÜ e troverÜ pascolo” (Gv 10,9). La porta aperta che conduce alla libertÜ à la stessa che conduce all’unitÜ. “EntrerÜ e uscirÜ e troverÜ pascolo”. TroverÜ la libertÜ e l’unitÜ. La libertÜ senza vincoli, che à diventata un caldo nido. E l’unitÜ dell’amore, che possiede l’ampiezza e la purezza degli spazi aperti. E ogni pecora che entra ed esce attraverso la porta e si nutre del cibo dell’amore nella libertÜ diviene, per grazia, pastore. “Chi entra dalla porta à pastore delle pecore” (Gv 10,2). Pasce e guida le altre pecore emanando la stessa grazia, voce e forza del buon pastore. E indirizza tutti alla porta della salvezza, che à lo stesso pastore grande delle pecore (cf. Eb 13,20). E trova (la pecora cui all’improvviso viene donato il privilegio di diventare pastore) che il pastore gran114

de à, lui stesso, “l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29); à “l’Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo” di Apocalisse 13,8. “Per questo il Padre mi ama: perchß io do la mia vita ...” (Gv 10,17). Un’altra logica. Il comandamento nuovo dell’amore. Lo svuotamento, l’umiltÜ, perchß ad essere onorato sia il debole e il povero. “Chi à ricco si fa mendicante; mendica, infatti, la mia carne, affinchß io mi arricchisca della sua divinitÜ”6. * “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Viene come estraneo. Sconcerta i suoi. Ed à ospitale con gli estranei. Poichß ama gli estranei, poichß ama anche quanti lo rifiutano, per questo libera anche i suoi. Amando gli estranei e considerandoli familiari, ama te. Ti allarga l’orizzonte della vita. Se gli estranei non sono tuoi, perdi anche i tuoi e te stesso. Se non vedi Cristo nel volto dell’estraneo, del malato, del sofferente e del carcerato, allora lo ignori del tutto. I suoi, gli amici, i parenti, la madre e i suoi fratelli si stabiliscono in un’altra maniera: “Chi fa la volontÜ di Dio, costui per me à fratello, sorella e madre” (Mc 3,35). Non sono miei nß entreranno nel regno dei cieli quanti dicono: “Signore, Signore”, ma quanti fanno la volontÜ del Padre mio che à nei cieli (cf. Mt 7,21). Impari ad amare. Conosci tutto, lo fai tuo con l’amore del buon pastore, che ha tutto suo, perchß si sacrifica per la salvezza e la libertÜ di tutti. 115

“Trovi pascolo” (cf. Gv 10,9) perchß, come persona, conosci il Signore – con la grazia dello Spirito – come folgore della DivinitÜ. Le pecore che sono sue, ma non appartengono a quest’ovile, vogliono, bramano ascoltare la voce del buon pastore. L’ovile à definito dalla cura del pastore che cerca quella perduta. L’ovile ha le dimensioni dell’amore del pastore, che si distende dovunque e “non c’à chi si nasconderÜ al suo calore” (Sal 18,7). Non ti trovi in una religione o in un movimento che si definisce e si fonda sulla base delle opinioni di una maggioranza o di una minoranza. Ha (quest’ovile) le dimensioni della veritÜ e dell’amore di colui che si sacrifica “per la vita e la salvezza del mondo”. “Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga” (At 10,34-35). Mostra amore e rispetto nei confronti di ogni malato, ovunque sia. Colpisce la superbia e l’ipocrisia ovunque esse esistano, tra i suoi o tra gli estranei. Loda la buona disposizione e la fede, ovunque le trovi. “Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede cosç grande” (Lc 7,9). I suoi, fratelli e familiari, non si definiscono appellandosi a una parentela di sangue, nß a identitÜ di vedute umane o di mire temporali, ma appellandosi all’amore che ha portato tutto dal non essere all’essere e che rigenera l’uomo decaduto. I liberi figli di Dio “entrano ed escono e trovano pascolo” dovunque e sempre, perchß seguono il buon pastore. Colui che ama e onora la sinceritÜ, la contrizione e la penitenza, ovunque le trovi. 116

Colui che prende come primo abitante del paradiso un ladrone che si pente. Colui che ammansisce il persecutore all’eccesso e lo rende grande apostolo delle genti. Colui che non fa differenza di persone, mai, con nessuno, ma ama l’autenticitÜ e preferisce le posizioni chiare: “Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poichß sei tiepido, non sei cioà nß freddo nß caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,15-16). In tal modo, non si definiscono con criteri vaghi e meschini il suo ovile e i suoi. Ma con i criteri della veritÜ, della sinceritÜ e della dignitÜ. Ci sono persone tiepide nella fede e nella vita, che ti provocano il vomito. Ci sono persone autentiche – di quest’ovile –, umili, “pneumatofore”, “cristofore”, che ti rivelano lo stesso Signore. Ce sono altre che non sono di quest’ovile, e tuttavia sono cosç dignitose, severe con se stesse e limpide nella loro lotta, che ti giudicano inflessibilmente perchß ti accontenti di poco e sei tiepido. Ne cito due di vere, che aiutano tutti a trovare pascolo dentro e fuori dell’ovile: una persona autentica e lontana; e una familiare e santa. La prima – che non à di quest’ovile – à un uomo che ha qualcosa da dire. Lo dice in maniera personale. Lo dice come in confessione. Lascia che sia trascritto cosç come esce. E dal suo intimo esce molto. La sorgente à cosç impetuosa nel suo scorrere da rovesciare la coppa che vai a riempire. Scrivendo, à lui stesso a patire prove. Leggendolo, sei tu a patire docce fredde. Dici sç, dici no. Mai, perð, resti indiffe117

rente. Mai ti lascia addormentare o provare nausea a motivo della tiepidezza. Ha esigenze che superano i limiti del consueto e del creato. Le formula in maniera personale. Le esprime talora in modo tranquillo, come la bellezza del tramonto del sole, che affoga la natura nella fantasmagoria del suo sereno. Talora, oltraggiando in modo altisonante, come il cielo carico di nuvole nere, quando esplode in un temporale. Cið che importa à che parla con sinceritÜ. Prende tutta la sua vita – la sofferenza, l’aspettativa – e la immette nella sua espressione. La offre, in quel momento, allo stesso modo, “a tutti e a nessuno”. Attraversa la polvere del mercato, la foschia dell’indeterminatezza. E dÜ coraggio a quanti perseguono cið che à prezioso e cercano l’assoluto. Un elemento minimo di veritÜ, tenuto stretto in mezzo a una moltitudine di urla, che arrivano alla follia... Ma che mai possono invalidare o eliminare l’elemento dell’autenticitÜ che cela nelle sue viscere quest’uomo del dolore, che confessa: “Mi sento perso quando mi trovo in un ambiente non casto. Non esiste per me che un precetto, e questo solo: essere casto e puro”. E: “Mai ho cercato di nascondermi”. “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). E i negatori e i contestatori ci svegliano dal sonno, perchß seguiamo il buon pastore, ovunque ci conduca. La seconda persona – di quest’ovile –, con l’umiltÜ che ha accolto e l’amore che ha provato, à giunta al punto di essere una viva sensibilitÜ. Un corpo che assorbe tutto il profumo dell’ambiente circostan118

te. Un sentire profondo, un cuore grave. Carica, com’essa à, di un contenuto di dolore divenuto riposo. In tal modo, trova preziosa ogni cosa. Vede l’insieme, con i suoi minimi dettagli, rivestito della dolcezza di una luce beata. Chi ha una tale viva sensibilitÜ, ha sempre Qualcuno che gli fa compagnia (cf. Lc 24,15). Ed egli stesso, con la sua sola esistenza, fa compagnia a tutti. Visita con discrezione gli afflitti (cf. Mt 25,36). Copre i deboli, “come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali” (Mt 23,37). Come la chioccia, avvolge lievemente ed affettuosamente, con un tepore liberante, le potenzialitÜ nascoste di ciascuno. La sua viva sensibilitÜ ti dissolve nelle componenti con cui sei stato formato e ti ricostituisce salvificamente, facendoti salire in un luogo alto, “dove non c’à dolore”7. E ti fa scendere, protetto da una luce increata, nell’ade di qualsivoglia prova e confusione. Dentro il calore di questa presenza avverti che si sta celebrando il processo di una morte vivificante. Come il seme che si dissolve nella terra e si ricostituisce. Uno stato vecchio se ne va. Una vita nuova, con teneri virgulti, pieni di speranza, spunta dalla terra al calore del sole. Tale processo del cammino verso la luce e verso l’oscuritÜ (nella luce i rami, e nell’oscuritÜ le radici) rivela il mistero della vita: processo, questo, dalle opposte correnti dello scomporre e del comporre, del perdere e del trovare, del non conoscere e del conoscere veramente, dello scendere e dell’ascendere in una nuova creazione dove esiste una possibilitÜ di vita per tutti. 119

Quella persona à giunta alla maturitÜ dello spirito, a un’umanitÜ di umiltÜ che la rende simpatica a tutti. Dice mille volte le stesse cose e non si ripete, non ti investe con stereotipi prefabbricati, come parole e frasi, che tiene dentro di sß. Ma poichß vive nello Spirito santo; poichß à una sorgente che zampilla perennemente; poichß tutto brilla dentro di lei per il grande amore per persone e per cose: per questo parla sempre degli stessi temi in un modo nuovo, vivo. L’umiltÜ e l’amore rinnovano l’uomo e la sua parola. Non isolano, ma uniscono le persone. Tutti desiderano e vogliono, con tutto il loro cuore, sentire l’uomo dell’amore – l’uomo veramente umile, sensibile – proferire, dire le stesse cose, perchß vengono riscaldati dalla sua compagnia e dal suo affetto. Del resto, forse che la natura e cið che in essa vive si stancano del sole che ogni giorno esce identico? Al contrario: lo aspettano e rimangono esposti all’irradiazione della sua energia che à identica ogni giorno. L’amore di Dio ci riunisce tutti. Con l’incarnazione del Dio Verbo e la divinizzazione della natura umana assunta, tutti, tra noi, siamo diventati fratelli, al di lÜ del fatto che molti non credano in lui. “Neppure i suoi fratelli credevano in lui” (Gv 7,5). * Uno solo à il Figlio e Verbo di Dio “per mezzo del quale tutto à stato fatto” (Gv 1,3). “Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef 4,5). Una sola morte (del Dio-uomo) per la vita di tutti. Un solo ingresso (per l’uomo) nella vita, attraverso il battesimo 120

“nella sua morte” (Rm 6,3). “Uno à morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli à morto per tutti, perchß quelli che vivono non vivano piô per se stessi, ma per colui che à morto e risorto per loro” (2Cor 5,14-15). Se non si sacrifica per tutti colui che à principio della tua fede (cf. Eb 12,2), allora non puð salvare nemmeno te. Il buon pastore onora e salva il singolo perchß si sacrifica per tutti. Ama tutti. Ha il suo comandamento nuovo dell’amore, il suo nuovo gregge. Per esso si sacrifica. Parla delle proprie pecore. Parla di quelle perdute. Parla del fatto che ci sarÜ un solo gregge con un solo pastore. Conosce anche quelle che non lo conoscono, che non si trovano ancora tra il suo gregge. Le cerca nei monti del loro vagare. Tutte vogliono entrare nel gregge di questo pastore. Chi non vuole la sua libertÜ, che à donata e straripa d’amore? E chi non accetta come buon pastore e principio della fede colui che si sacrifica per la salvezza del mondo e per la personale salvezza e libertÜ di ciascuno? Colui che si sacrifica perchß ogni uomo acquisti un nome? Questi due elementi (la salvezza del mondo e la chiamata nominale dell’uomo) procedono insieme: l’adozione dell’uomo a figlio e la redenzione della creazione. Vi à una dimensione personale del mondo. E una dimensione mondiale della persona. La creazione non puð vivere e salvarsi senza i figli di Dio salvati e liberi. 121

E l’uomo non si salva, per quanto tu gli dia il mondo intero, se perde se stesso. “Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?” (Lc 9,25). “O che cosa un uomo potrÜ dare in cambio della propria vita?” (Mt 16,26). Ognuno, come persona, vede l’universo nella sua propria maniera; e vi à, per ognuno, un altro universo che porta il suo stesso nome. Con il beneplacito del Padre, per la mediazione del Figlio, con la cooperazione dello Spirito santo tutto à stato fatto. Il Signore Dio-uomo à il grande sommo sacerdote, in quanto à “colui che offre e colui che à offerto”8, nella liturgia del mondo intero. Egli à “colui che benedice, moltiplica e santifica ogni cosa”9. E l’uomo adempie alla sua missione in quanto persona. Vive come pastore per grazia, che si sacrifica per le pecore. Egli à, cosç, una benedizione per tutto il mondo. Il buon pastore, chiamando per nome le pecore e sacrificandosi per esse, crea i nuovi buoni pastori per grazia. I falsi maestri e i falsi profeti, in quanto ladri e briganti, vessando e sfruttando le pecore, creano nuovi ladri e nuovi briganti, nuovi assassini di uomini e nuovi usurpatori della creazione. L’universo non puð salvarsi, se l’uomo, per mezzo di Gesô Cristo, non à salvato; se l’uomo non vive in Cristo; se non trova la ricchezza del suo esistere e del suo gioire grazie al sacrificio della propria vita per causa del Signore e del suo vangelo (cf. Mc 8,35). 122

Se cosç si comporta, riceve, allora, “lo Spirito che rende figli adottivi” (Rm 8,15). Si sente figlio ed erede di Dio, coerede di Cristo (cf. Rm 8,17). Porta a compimento la sua missione. Giunge alla pienezza della vita – una vita nel rendimento di grazie –. Il Signore non ti salva individualmente, isolatamente, separatamente dagli altri. Non ti trovi vivo in un cimitero o in un obitorio. Non sei un naufrago che à stato salvato in mezzo ai relitti di una sciagura. Cið non à dono di vita, ma condanna a morte. Il Signore risuscita e salva l’uomo, perchß, risuscitato, conrisuscita l’ecumene10. Conrisuscita l’universo umano11. “E non c’à piô nessun morto nei sepolcri”12. Tutto à pieno di luce e di vita, “il cielo, la terra e le regioni sotterranee”13. E tutto il mondo salvato diviene, in un certo qual modo, prolungamento e corpo dell’uomo. “E ho altre pecore che non sono di quest’ovile: anche quelle io devo condurre. Ascolteranno la mia voce” (Gv 10,16). Vogliono ascoltare la mia voce. Per vedere gioire il cuore. Mai hanno ascoltato un vangelo simile, un lieto messaggio, capace di donar loro libertÜ e onore. Lo ameranno, perchß, “se uno osserva la mia parola, non vedrÜ la morte in eterno” (Gv 8,51). Questa voce risuscita i morti. “Viene l’ora – ed à questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno” (Gv 5,25). Allora si fa sentire, si manifesta, la reazione: “Ha un demonio ed à fuori di sß” (Gv 10,20). Vuole liberare l’uomo. Rovesciare cið che à istituzione. Dev’es123

sere osteggiato da tutti come indemoniato. Risultato finale: la crocifissione. “Via! Via! Crocifiggilo!” (Gv 19,15). E l’altra parte, quella tormentata, della povera umanitÜ s’interroga, e dice che queste “parole” non sono di un indemoniato. Sono di un liberatore. Ci aprono gli occhi dell’anima e del corpo su un’altra realtÜ: sulla nuova creazione. “Puð forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?” (cf. Gv 10,21). Quanti sono asserviti alla maledizione della Legge e circoscrivono il divino dicendo: “Ecco, à qui”, o “Ecco, à lç” (cf. Mt 24,23), irridono l’uomo e vengono irrisi dal maligno. Con questa logica non possono conoscere il Signore come folgore che illumina per sempre cið che à sotto il cielo. Quanti invece sono stimati degni di conoscere il Signore come folgore di luce increata non si asserviscono agli elementi della Legge e della logica creata e peritura. Questi à il vincitore della morte: una presenza che, d’un tratto, dona tutto. Illumina il passato e rivela il futuro. • l’alfa e l’omega, à “colui che à sempre uguale a se stesso”14. E, nel contempo, “colui che à, che era e che viene” (Ap 1,8). Vivendo in Cristo, possediamo, come presente, tutto cið che ci ha preceduto e tutto cið di cui siamo in attesa. Quando il Signore assicura alla sorella di Lazzaro: “Tuo fratello risusciterÜ” (Gv 11,23), essa completa subito la frase rinviando, con la sua propria concezione, alle realtÜ ultime: “So che risusciterÜ ... nell’ultimo giorno” (Gv 11,24). Ma il Signore le enuncia la veritÜ vera che si trova dinanzi a lei: “Io sono la resurrezione e la vi124

ta; chi crede in me, anche se muore, vivrÜ; chiunque vive e crede in me non morirÜ in eterno” (Gv 11,25-26). Vivendo in Cristo, desideriamo cið che possediamo e ricordiamo cið che attendiamo. Tutto, attraverso di lui, à divenuto uno: quando lo ignoriamo, egli si trova accanto a noi e ci rafforza. E quando lo conosciamo, si perde, per riempire con la sua grazia tutto: la presenza e l’assenza, la tribolazione e la gioia, la conoscenza e l’ignoranza, la vita e la morte, cielo e terra e sottoterra15. Quando, dopo la crocifissione del Signore, i suoi discepoli si dispersero, come da lui era stato predetto, due di essi presero la loro strada (cf. Lc 24,13-35). Volevano andarsene da Gerusalemme. Allontanarsi dal luogo dei terribili avvenimenti. Discutere. Scambiare opinioni. Vedere tutto da piô lontano, per vederlo forse meglio. Perchß una consolazione, foriera di speranza, potesse forse stillare nel loro intimo. E mentre il viaggio continua, la discussione prosegue. A un certo punto, uno sconosciuto si avvicina. Cammina insieme a loro. Non vuole interromperli, nß far loro da maestro, ma ascoltarli. Per questo li provoca, fingendo ignoranza e chiedendo loro con fare cortese: “Di quale argomento parlate, per avere un volto cosç triste?”. Crea in loro un senso di fiducia. E offre loro una possibilitÜ di continuare la discussione. Di verbalizzare il loro dolore. Di riferire la loro perplessitÜ. Lo sconosciuto si mostra comprensivo. Non li ostacola. Non li importuna. Li sollecita a parlare. Li aiuta ad 125

esprimersi. A dire ogni cosa come la sentono. E quelli continuano. Quando ormai à chiaro che egli à uno che ignora cos’à accaduto e chi à Gesô, entrambi raccontano insieme, senza prender fiato, tutta la storia. Cos’à successo. Chi era Gesô, “potente in opere e in parole” (Lc 24,19). Cos’hanno fatto i sommi sacerdoti e le altre autoritÜ. Dove la vicenda à sfociata: nella disperazione. Perchß “noi speravamo” (Lc 24,21) che egli avrebbe liberato Israele. Ora non speriamo piô. Non possiamo sperare. Da tre giorni giace, morto, nel sepolcro. Comunque, alcune donne della nostra compagnia ci hanno strabiliati, perchß si sono recate alla tomba e non l’hanno trovato. Hanno detto di aver visto angeli; di lui, perð, nessuna traccia. Dopo aver narrato tutto, dopo aver allentato la tensione, essi si acquietarono; il forestiero, che seguiva il loro discorso con comprensione e pazienza, ascoltava le loro parole; come se concordasse con loro. Come se giustificasse la loro perplessitÜ. Voleva lasciarli confessare chiaramente la loro finale disperazione. Ed essi lo hanno amato, lo hanno accolto come amico e interlocutore che prodigava consolazione. Non era un estraneo, ma un familiare. Per questo, quando prende la parola, egli parla liberamente, utilizzando espressioni che solo un mutuo amore e una mutua amicizia rendono accettabili, rivelando la genuina confidenza che si era creata tra loro. Diversamente, per estranei, sarebbero intollerabili, addirittura inammissibili, le espressioni: “Stolti e tardi di cuore” (Lc 24,25). Siete, cioà, ottusi e pusillanimi. Non avete 126

nß un’intelligenza nß un cuore che ami, cosç da poter comprendere cið che dissero i profeti. “Non bisognava che il Cristo patisse tutte queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). E comincið a spiegar loro quanto Mosà e i profeti avevano affermato sulla sua persona. E mentre la spiegazione procedeva, procedeva anche il cammino. Si avvicinarono al villaggio dove erano diretti. E Gesô finse di dover andare piô in lÜ. Egli, che non li aveva minimamente “forzati”, diede loro il diritto di esser loro, se volevano, a “forzarlo”. “Ed essi lo forzarono, dicendo: ‘Resta con noi, perchß si fa sera e il giorno à ormai al tramonto’” (Lc 24,29). Non lasciarci soli, nella condizione in cui siamo. Fin lç dove ci hai condotti, ci hai spiegato tutto. Ci hai rasserenato il cuore. Dove vai ora? Non ti lasciamo andar via. Non possiamo farcela da soli. Il giorno à al suo termine. “Si fa sera”. Viene il buio. Cade la notte. Senza di te tutto à notte. Sei la luce, il giorno che non conosce tramonto. O verremo con te, o verrai con noi. “Ed entrð per rimanere con loro” (Lc 24,29). E nel momento dello “spezzare il pane” (Lc 24,35) i loro occhi si aprono. Lo riconoscono. Ma egli diviene invisibile. Era giunta l’ora, dopo cosç tanta fatica e sofferenza dell’anima e del corpo, di manifestarsi realmente con il diventare invisibile. Facendosi invisibile sensibilmente, si manifesta divinamente. Si trova per sempre in mezzo a loro. Sigilla la loro esistenza. Illumina, riempie tutto. Ed essi partono. Non possono 127

restare. Devono raccontare l’accaduto (la teologia à questo). Ora loro casa à l’ecumene. Piô non esiste disperazione. Non esiste stanchezza per il cammino fatto. Non à sera. Il giorno non declina. “Tutto à ricolmo di luce”16. • il giorno ottavo e senza sera. Sole senza tramonto. L’“invisibile” si identifica con un lampo di luce increata. Ricordano il passato. Ricevono forza per il futuro. “In quell’ora stessa” (Lc 24,33) partono per Gerusalemme. Un nuovo cammino. Un nuovo arrivo in un’altra assemblea liturgica. Prima di donare gioia, la ricevono dagli altri. Prima che essi riescano a parlare, gli undici si affrettano a dire a gran voce: “‘Davvero il Signore à risorto ed à apparso a Simone!’. Ed essi narravano cið che era accaduto lungo la via ...” (Lc 24,34-35). Danno e ricevono tutti. Procedono incessantemente di gloria in gloria. Da un’assemblea liturgica a una nuova assemblea liturgica. Tutto à diventato liturgia. * Il fine del cammino verso Emmaus era l’ingresso nella divina liturgia – “entrð per rimanere con loro” (Lc 24,29) –. E il miracolo della teofania – “nello spezzare il pane” (Lc 24,35) – à l’occasione di un nuovo esodo, di un nuovo cammino e ingresso in una nuova assemblea liturgica. Il Signore appare a tutti, agli undici e ai due (cf. Lc 24,36-53). DÜ la pace. Segue un nuovo esodo. “Li condusse fuori verso Betania” (Lc 24,50). Li benedice. Ascende al cielo. Si perde (diviene invisibile per sempre) e si trova sempre, veramente, con tutti, “sino alla fine dei secoli”17. 128

* Vivere una vita, seguire il cammino di tutta l’umanitÜ, a iniziare “da Mosà e da tutti i profeti” (Lc 24,27). Camminare nell’angoscia discutendo della passione del Signore, dei patimenti dell’umanitÜ (dei tuoi propri tormenti). E a un certo momento, dopo tutta la fatica del viaggio e della ricerca, vederlo dinanzi a te. Egli subito scompare, appena lo riconosci. Ma ti si aprono gli occhi e vedi l’invisibile attorno e dentro di te. Il comune viaggio continua. Egli à assieme a te, ovunque tu ti trovi. Lo riconosci, lo ami come pasqua grande, sacratissima, eterna18. Trovi pace nell’essergli grato, nel glorificarlo. Conosci e vivi il mistero – il mistero per te incomprensibile, prima – del Signore che doveva patire “tutte queste sofferenze” (Lc 24,26) per entrare nella sua gloria. Anche tu dovevi patire, soffrire, arrivare spesso fino alla croce dell’agonia, scendere nella tomba della disperazione, per risorgere nella luce della sua presenza. Per diventare partecipe della sua gloria. Per camminare incessantemente con lui, riposandoti. Per vederlo aggirarsi “in un’altra forma” (Mc 16,12). Per riconoscerlo nella forma del sofferente, del povero, dell’oppresso, dello straniero e prigioniero (di quello vero). Per vederlo dovunque e sempre invisibilmente (anche quando non lo vedi). Cosç che egli sia benedizione e comprensione per tutti. Per poter tu sentire, andando a ritroso, che egli sempre era accanto a te. Per essere certo che à accan129

to a tutti coloro che lottano, camminano e cercano cið che vale, a prescindere dal fatto che, spesso, non ne siano consapevoli. * I discepoli hanno riconosciuto il Signore nella frazione del pane (cf. Lc 24,35). Lo hanno riconosciuto grazie al solo suo gesto di spezzare il pane e di offrirlo a loro. Dopo il grande dolore che porta al crollo e alla disperazione, l’uomo diventa pura sensibilitÜ. Anche il nulla ti dÜ molto. Anche il minimo movimento parla in modo eloquente. Allora ti raccontano storie infinite alcuni insignificanti dettagli (movimenti, voci, suoni e incontri fortuiti) che un tempo non ti dicevano niente, perchß avevi l’illusione dell’autosufficienza o l’afasia dell’insensibilitÜ. Ora ascolti ogni cosa, vedi ogni cosa e accogli ogni cosa in modo unitario e diverso, come concelebrante nel culto razionale della salvezza del mondo intero. Capisci di essere, continuamente, nel venerdç santo e nella Pasqua. Capisci che la folgore diviene eternitÜ. Che il contatto si rivela mescolanza. Che lo vedi per un istante e che per sempre rimane in te la luce del suo volto. Che egli ti sfiora per un attimo e che tu sei tutto salvato. Il Signore toccð il morto e questi risorse (cf. Lc 7,14). L’emorroissa toccð il Signore e trovð salvezza (cf. Lc 8,44), Tommaso toccð il Signore e credette (cf. Gv 20,24-29). 130

Che si unisce, dentro di te, l’una volta per tutte (hÛpax) con il sempre (aeæ). Che confessi come Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28). Che esclami dal profondo: “Sia gloria a Dio per tutto!”19. Che ricevi in te la grazia della certezza. Che accogli tutto con riconoscenza. Che trovi nel minimo il massimo e nel momentaneo l’eterno, quando ti nutri della fiamma dell’amore perpetuo che rende immortale l’effimero. E ti rendi conto che tutte queste realtÜ sono doni di colui che ha detto: “Io sono venuto perchß abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

1 Divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, preparazione delle oblate (cf. Liturgia eucaristica bizantina, p. 40). 2 Parakletikß, tono 2, sabato, vespro (cf. Anthologhion di tutto l’anno IV, p. 210). 3 San Giovanni Damasceno, La fede ortodossa 3,1 (cf. Id., La fede ortodossa, p. 161). 4 “Quando discendesti nella morte, o Vita immortale, allora mettesti a morte l’ade con la folgore della tua divinitÜ” (apolytikion anastasimon, tono 2; cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 866) [N.d.T.]. 5 Horolïghion tð mßga, ufficio della divina comunione, ode 9 del canone. 6 San Gregorio il Teologo, Orazione 38. Per la Teofania 13 (cf. Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, p. 893). 7 Cf. Eucholïghion tð mßga, ufficiatura funebre (cf. anche ufficio del piccolo apodypnon, in Anthologhion di tutto l’anno I, p. 172). 8 Divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, preghiera dell’inno cherubico (cf. Liturgia eucaristica bizantina, p. 85).

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9 Cf. Eucholïghion tð mßga, preghiera sui kïllyba. Kïllyba sono i dolci (fatti con grani bolliti di frumento, simbolo dei corpi destinati a risorgere) benedetti per il riposo delle anime dei defunti [N.d.T.]. 10 Cf. San Giovanni Crisostomo, Contro gli ubriaconi e sulla resurrezione 3, PG 50,438. 11 Cf. PentekostÛrion, domenica di Pasqua, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 159). 12 Ibid., catechesi di san Giovanni Crisostomo (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 166). 13 Ibid. (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 156). 14 San Gregorio di Nissa, La vita di Mosà 1,76 (cf. Id., La vita di Mosà, a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1984, p. 61). 15 Cf. PentekostÛrion, domenica di Pasqua, orthros (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 156). 16 Ibid. (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 156). 17 Ibid. (cf. Anthologhion di tutto l’anno III, p. 162). 18 Cf. ibid. 19 L’espressione preferita di san Giovanni Crisostomo, pronunciata anche sul letto di morte. Cf. Palladio, Dialogo sulla vita di Giovanni Crisostomo 11, a cura di L. Dattrino, CittÜ Nuova, Roma 1995, p. 179 [N.d.T.].

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IL SUPERAMENTO DELLA MORTE NELLA VITA MONASTICA

Diceva un padre del deserto: “Non sono monaco, ma ho visto veri monaci”1. Tale frase mi serve a giustificare la mia presenza, stasera, tra voi2. Sulla base di quanto ho visto, cercherð di spiegare brevemente cos’à un monaco ortodosso e quale profonda relazione leghi noi tutti alla vita liturgica dei monasteri e alle esperienze personali dei santi asceti. Il Signore non à venuto nel mondo per migliorare semplicemente le condizioni della vita presente, non à venuto per proporre un sistema economico o politico, nß per insegnarci un metodo che ci garantisca un equilibrio psicosomatico. • venuto per vincere la morte e portare la vita eterna. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perchß chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). E questa vita eterna non si identifica con la promessa di una felicitÜ metastorica, non à una semplice sopravvivenza post mortem, nß una dilatazione senza termine della vita presente. Vita eterna à la grazia che illumina e dÜ senso fin da oggi alle realtÜ presenti e 133

a quelle future, all’anima e al corpo dell’uomo. Le apparizioni del Cristo risorto ai discepoli hanno lo scopo di dar loro questa certezza: la morte à stata vinta. Il Signore à risorto. “La morte non ha piô potere su di lui” (Rm 6,9). • perfetto Dio: entra ed esce a porte chiuse. • perfetto uomo: si lascia toccare, mangia e beve come ciascuno dei suoi discepoli. Cið che vale, nell’uomo, non sono tanto le sue capacitÜ fisiche e intellettuali, ma il fatto che egli possa diventare partecipe della resurrezione di Cristo, il fatto che egli possa morire e vivere, fin da oggi, la vita eterna. “Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverÜ per la vita eterna” (Gv 12,25). Il monaco, offrendosi interamente a Dio, salvaguarda l’unica veritÜ. Vive e manifesta l’unica gioia: chi perderÜ salverÜ... (cf. Mt 16,25). La vita del monaco à una perdita e un ritrovamento. Monaco ortodosso non à semplicemente il “mistico”. Non à colui che con una determinata dieta o tecnica à giunto a un alto livello di dominio di sß e a prodezze di natura ascetica. Queste cose, da sole, sono conquiste del secolo presente, insignificanti e incapaci di vincere – per il monaco e per i suoi fratelli – la morte. Vero monaco ortodosso à il risorto. Egli non ha la missione di fare qualcosa con i suoi ragionamenti o di organizzare qualcosa con le sue capacitÜ, ma di testimoniare con la sua vita che la morte à stata vinta. E cið avviene quando egli stesso si seppellisce come il seme nelle viscere della terra. 134

Per questo – secondo quanto si narra nel libro dei detti dei padri del deserto –, quando un giovane monaco riferisce all’anziano: “Osservo questo: il mio intelletto si trova continuamente in Dio”, l’anziano gli dice: “Non à grande impresa il fatto che il tuo intelletto si trovi in Dio; cið che invece ha importanza à il considerare te stesso al di sotto di ogni creatura”3. In questo modo egli lo trasferisce in un altro spazio. Da un’occupazione parziale, quale possono essere i nostri pensieri su Dio, lo chiama al dono totale, all’umiltÜ, che à una vera morte e nel contempo la resurrezione a una nuova vita, venerabile e onnipotente. Nell’universitÜ del deserto – cosç i padri hanno chiamato il monachesimo – gli asceti non “imparano” ma “patiscono” le cose divine4. Non affaticano la loro mente o il loro corpo, ma sacrificano interamente se stessi. “Se non distruggessi tutto, non potrei costruire me stesso”5. Vero monaco à chi à risorto dai morti, chi à un’icona del Cristo risorto. Egli manifesta che la realtÜ spirituale non à cið che à immateriale, e che la realtÜ carnale non à cið che à corporeo. Spirituale à qualsiasi cosa (materiale e immateriale) che à stata santificata dal mistero della croce e della resurrezione, qualsiasi cosa che à stata trasfigurata dall’energia divina increata. Egli rivela, in tal modo, la missione spirituale di cið che à creato e corporeo. E contemporaneamente manifesta l’esistenza palpabile di cið che à immateriale e increato. 135

Monaco à chi ha sposato un mistero: la celebrazione della salvezza dell’universo all’interno della chiesa ortodossa. In un modo distinto egli si occupa di tutto e di nulla. • “separato da tutti e unito a tutti”6. Il concetto di specializzazione gli à estraneo per natura. Non à specializzato in qualcosa, nß qualcos’altro lo lascia indifferente. Gli interessa tutto. Cið che ha importanza e lo illumina – gli rivela cið che lo interessa – à come si colloca, si incorpora e si ordina (quale posto prende) ciascuna cosa all’interno della totalitÜ trasfigurata, all’interno della divina liturgia della salvezza dell’universo. • tale rivelazione e conoscenza del principio che dÜ coesione al tutto a interessarlo. Questa rivelazione concerne ogni cosa. Percið qualsiasi realtÜ trasfigurata – che partecipi in modo totale all’energia divina che salva il tutto – lo interessa alla pari. Lo aiuta a conoscere se stesso e qualsiasi questione gli si presenti. Un monaco scriveva: Non à mio lavoro costruire e tinteggiare case. Nemmeno leggere e scrivere. Qual à la mia missione? Se possibile, morire in Dio. Allora vivo e mi muovo a opera di un’altra Potenza. Posso in tal modo, liberamente, fare tutto (zappare, organizzare, leggere, scrivere) senza legarmi a nulla. Posso passare attraverso tutto – debbo passare – perseguendo sempre con tranquillitÜ cið che à uno e unico. Posso lasciare che tutto, tutte le “divagazioni”, mi attraversino liberamente, in attesa di quell’uno che dÜ valore a ogni cosa. 136

Quando costruisci per costruire, edifichi il tuo sepolcro. Quando scrivi per scrivere, tessi il tuo lenzuolo funebre. Quando vivi e respiri cercando la misericordia di Dio, allora intorno a te si intesse una veste di incorruttibilitÜ e dentro di te freme la dolcezza di una consolazione celeste. Costruire o scrivere risulta del tutto secondario.

Il monaco non ha quale scopo di vita di pervenire a un’autoconcentrazione o a un progresso individuali, ma di servire il mistero della salvezza con il fatto di vivere non per se stesso, ma per colui che à morto e risorto per noi (cf. 2Cor 5,15). E per tutti i suoi fratelli. A una tale meta si arriva perchß il monaco vive non come vuole lui, ma come detta la chiesa. La tonsura monastica, l’ingresso nella vita monastica avviene all’interno della divina liturgia. Il candidato monaco rinuncia a se stesso davanti al santo altare. E viene accolto da una santa fraternitÜ, che à santa perchß ha deposto su questo altare tutta la sua vita, i suoi progetti, la sua speranza. Come non à la virtô del sacerdote a trasmutare il pane ed il vino in corpo e sangue di Cristo, ma la grazia del sacerdozio di cui à rivestito, cosç, nel contesto della vita monastica, non à la capacitÜ o il carattere dell’igumeno o dei fratelli ad agire fondamentalmente, ma à lo spirito della tradizione a guidare ogni cosa. Da tutti i padri emerge un’unica linea. Tutti conducono allo stesso spazio della libertÜ dello Spirito. Ciascuno parla alla sua maniera. Esprime la sua espe137

rienza. Sottolinea cið che ha capito. E a partire da tutta questa moltitudine mossa dallo Spirito, vissuta in altri luoghi e altri secoli, si costituisce una voce armoniosissima di semplicitÜ, che canta l’unico inno intorno al trono dell’Agnello. Lo canta ora e sempre. Qui e dovunque. Lo canta nello spazio liturgico della vita, quello spazio libero dalle barriere delle anguste aspirazioni e convenzioni. • pertanto la stessa Potenza sovratemporale e buonissima che dal non essere ha creato ogni cosa a consacrare i preziosi doni sulla sacra mensa, a saldare nell’unitÜ il coro dei santi padri, a consacrare il monaco che si offre, a prendere tra le sue mani e accogliere tutto cið che costituisce e fa vivere ogni comunitÜ monastica. L’intera nostra vita ruota attorno a Dio. Il nostro tempo, la nostra occupazione à lui. La resistenza del nostro corpo e le primizie della nostra mente sono offerte a lui. L’ufficiatura, la meditazione, la preghiera, costituiscono il senso della lotta e il polo attorno a cui ci muoviamo. La divina liturgia rappresenta il cuore del nostro organismo e mette insieme la nostra vita personale e la nostra comunitÜ di fratelli. Dal punto di vista architettonico il monastero à costruito in modo tale da essere al servizio della divina liturgia. • – potremmo dire – una divina liturgia cantata con l’architettura. Attorno alla chiesa, come cherubini e serafini, si dispiegano arcate, celle, refettorio, biblioteca: lo spazio in cui si celebra la divina liturgia ventiquattro ore su ventiquattro. 138

Ogni cosa à al suo posto, liturgicamente gerarchizzata. Per questo, seguendo il programma di vita del monastero, camminando tra i suoi corridoi, ti accorgi di ruotare in continuazione attorno alla “sola cosa di cui c’à bisogno” (Lc 10,42). Con i tuoi pensieri e la tua fatica, il tuo dolore e la tua gioia, con il tuo corpo e la tua anima ti muovi all’interno della divina liturgia della vita del monastero, che viene offerta per l’ecumene. Tale vita e tale edificio ti appaiono una vivente icona della resurrezione di Cristo. Come alla resurrezione Cristo ha spezzato le porte della morte e ha tratto serenamente e salvificamente alla luce i progenitori e quanti erano avvinti tra i ceppi, cosç la divina liturgia trascina tutta la nostra vita verso il regno celeste, e il tempio, con la sua forma, calamita tutto il monastero verso la luce e la serenitÜ della santificazione. Questo carattere simultaneamente di croce e di resurrezione della vita si dispiega ovunque. Ogni consolazione e grazia viene data all’ortodossia e al suo monachesimo attraverso la morte. Consolazione à il superamento della morte, in ogni forma di vita. Possiamo renderci conto di questo anche nelle grandi ufficiature monastiche, nei digiuni, in tutto il sistema di ascesi. • dura l’ortodossia? • severa? Supera la resistenza dell’uomo? Dall’esterno appare cosç. Cosç à in parte anche nella sua essenza (“Monaco à violenza fatta alla natura”, afferma san Giovanni Climaco7). Solo che non à mai priva di speranza, per 139

quanto dura possa sembrare. Non à mai soffocante e innaturale, per quanto oscura possa presentarsi. Perchß, alla fine, dalla molta fatica, dall’ascesi e dalla veglia – realtÜ che superano, spesso, la resistenza umana – spunta un germoglio, nuovo, incorruttibile, immarcescibile, che dÜ un frutto centuplicato. E allora proclami beate le fatiche e le sofferenze. Sacrifichi tutto. Perchß la letizia che si à levata à luce del secolo futuro, che gioiosamente illumina e vivifica le realtÜ presenti e quelle a venire. Spontaneamente, in tal modo, cerchi in continuazione le cose piô dure, piô buie, piô isolate, per inoltrarti in quelle che consolano senza farti arrossire, che splendono di una luce che non declina e riconciliano l’uomo con tutti e con tutto. I veri monaci giungono, alla fine, ad accogliere con riconoscenza e di buon grado la tribolazione e la sofferenza, o il disprezzo e l’umiliazione da parte degli uomini, perchß cosç vengono affrancati dalle consolazioni ingannevoli di questo mondo e diventano partecipi, fin da oggi, della gloria eterna del Signore. San Simeone il Nuovo Teologo ci testimonia: “Consideravo un nulla le tribolazioni e le tentazioni che mi sopraggiungevano, a confronto non della gloria futura, ma di quella presente del nostro Signore Gesô Cristo”8. Il fatto seguente à significativo. Viene ogni tanto nel nostro monastero un vecchio asceta9, a cercare un po’ di aiuto. Con cið che riceve si nutre egli stesso e assiste anche altri piô vecchi di lui. Giunto un giorno per la sua consueta visita, si espresse cosç con 140

un fratello del monastero: “Non credo di infastidirvi venendo a chiedere aiuto. Se perð cosç fosse, fa lo stesso, posso non venire un’altra volta. Non angustiatevi, perchß il monaco à come un cane. Se gli dai un calcio, gli fai del bene; se non gli dai un calcio ma un pezzo di pane, anche questo à un bene per esso”. Tale anziano, nonostante abbia superato i settantacinque anni di etÜ, non pretende di essere rispettato da alcuno. Si considera un cane. Fa una prostrazione davanti a tutti – monaci, novizi e pellegrini – e chiede a tutti la benedizione. Si à tuttavia rivestito di una tale inesprimibile grazia che tutti fanno festa ogni volta che viene in monastero. Tutti, monaci e pellegrini, ci raccogliamo attorno a lui per ascoltare le parole di grazia che escono dalla sua bocca, per venire illuminati dalla gioia che si sprigiona dal suo volto, senza che egli lo sospetti. Assomiglia a quell’abba che chiedeva a Dio di non essere da lui glorificato sulla terra, e il cui viso brillð con tale forza che nessuno poteva fissarlo negli occhi10. In questi umili che risplendono della grazia senti che si celebrano senza posa, nel loro intimo, due virtô: il mistero della conversione e il mistero dell’amore. Non appartengono a quanti si sono convertiti, ma a quanti si convertono. L’invito “convertitevi” fatto dal Signore (Mt 4,17) non viene inteso come “convertitevi una volta”, nß significa “convertirsi ogni tanto” (forse si inizia da lç); significa, invece, che la tua vita diviene conversione. Che esiste dentro di te un perpetuo atteggia141

mento di conversione e di contrizione. Che nessuno parla, pensa, fa qualcosa fuori del clima e dell’ethos della contrizione. Che quest’ultima impregna l’esistenza di ognuno. Celebrare ogni momento il mistero della conversione, della contrizione, del venire rialzati dall’altra Potenza. Sentire ogni momento che, caduto, sei risollevato da lui. Sentire che tu sei caduta e lui resurrezione. Sei non essere e lui à l’essere. E per la sua misericordia sconfinata ti ha portato all’essere; caduto, ti ha fatto risorgere e ti fa risorgere incessantemente. In tal modo, grazie a questo maturare dello spirito di conversione dentro di noi, perveniamo alla condizione espressa dall’apostolo Paolo: “Portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesô, perchß anche la vita di Gesô si manifesti nel nostro corpo” (2Cor 4,10). Si trovano nel venerdç santo e nella domenica di Pasqua contemporaneamente. Vivono senza posa la “morte che vivifica”, l’“afflizione che letifica”11. Come sono sensibili alla conversione, cosç lo sono al mistero dell’amore. Vedono anche qui il cammino del sacrificio che conduce direttamente e sicuramente alla vita eterna. Nessuna fatica offerta a Dio per amore va perduta. Qualunque cosa si offra, si perda – perchß data per amore al fratello –, si conserva, si ritrova intatta e accresciuta nella vita eterna. L’altro non à semplicemente un indispensabile compagno della nostra esistenza, ma un elemento inseparabile della nostra autocoscienza spirituale. L’uo142

mo puð trovare se stesso nelle sue vere dimensioni solo perdendosi per Dio e per l’altro (il fratello). “Chi perderÜ ... troverÜ” (Mt 16,25). Solo cosç si ricostruisce dentro di lui la magnificenza teantropica e sconfinata dell’uomo. Solo cosç possiamo capire come le fondamenta su cui l’uomo si regge non vengano mai scosse. Le fondamenta sono la morte, l’annientamento. Ma la realtÜ antropologica entro cui vive continuamente l’uomo nuovo à la grazia che abbraccia ogni cosa. La ricompensa che non verrÜ perduta per il bicchiere d’acqua donato al fratello (cf. Mt 10,42) à la nuova coscienza trinitaria che si leva nell’intimo dell’uomo: l’altro non à il confine che delimita il nostro io individuale, che chiude il nostro spazio o che semplicemente blandisce la nostra vanitÜ. Non à il lenzuolo funebre che ricopre il nostro isolamento di morte. Non à l’“inferno”. L’altro à terra familiare di vita, il nostro io piô caro e invariabile, che ci regala – in virtô del nostro offrirci a lui – il senso e la realtÜ della vita eterna che giÜ à iniziata: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perchß amiamo i fratelli” (1Gv 3,14). Accostando un monaco maturo, non trovi qualcosa di sovrumano che ti strabilia e ti provoca vertigini, ma qualcosa di profondamente umano, umile, fonte di serenitÜ e consolazione. Con tutta la loro vita di ascesi e di ritiro, essi non si sono allontanati dall’uomo: vi hanno fatto invece ritorno. Hanno abbracciato tutti gli uomini e i loro dolori. Sono diventati veri uomini. 143

Il progresso monastico non dipende da quanto il monaco ha digiunato o tribolato, ma da quanto, con l’intera sua ascesi, à divenuto partecipe della grazia del Paraclito, ha trovato lui stesso riposo e si à fatto riposo per l’uomo suo fratello. I monaci di una fraternitÜ pensavano di superare in virtô gli altri monaci perchß facevano piô digiuni e le loro ufficiature erano piô lunghe. Su tale argomento un vecchio anziano si espresse cosç: Non ditemi quanto digiunano o quanto dura la loro ufficiatura. Un’altra à la cosa che mi interessa. Puð uno di loro – anche il piô perfetto – capire l’uomo stanco di oggi, dare un conforto all’afflitto? Puð liberare chi à stretto nelle macchinazioni del diavolo? Se fa questo, se à in grado di dar riposo al fratello, di fargli amare la vita, di farlo gioire ed essere grato a Dio, sarÜ tutto cið a dimostrare i progressi spirituali compiuti da un tale monaco.

Questa posizione dell’anziano aghiorita à caratteristica. Mostra quanto il monachesimo ami l’uomo. Esso misura tutto con il metro dell’amore, della salvezza universale di tutti, e non con quello dell’immaginaria sistemazione di ciascuno separatamente. La luce che emana dal vero monaco rivela. • simile alla parusia del Signore: “Se dunque vi diranno: ‘Ecco, à nel deserto’, non ci andate; o: ‘• in casa’, non ci credete. Come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, cosç sarÜ la venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,26-27). Il monaco non dice: “Fate questo o quest’altro” umanamente, non propone 144

un suo progetto, nß esprime un punto di vista, ma effonde consolazione. Innanzi a lui avverti sconfinata serenitÜ e sicurezza. Tutto si riempie di luce. I tuoi dubbi si sciolgono silenziosamente. Ami il Cristo, la vita. Non temi la morte. Simili monaci – sconosciuti, anonimi, pieni di luce – esistono. Ne ho conosciuto uno. • traboccante. • questa un’espressione che rende un po’ la veritÜ a suo riguardo. Ha un tesoro di gioia indicibile in un vaso di creta, piccolo, fragile (cf. 2Cor 4,7). E la gioia à straripata, ha riempito lo spazio circostante. Si à estesa, ha profumato ogni cosa. La luce risplende dall’intimo del suo essere. L’esultanza supera la sua capacitÜ di resistenza, spezza il suo cuore, ed egli scoppia in lacrime, in grida e movimenti. Sia quando parla che quando tace. Sia quando dorme che quando à sveglio. Quando à presente o quando à assente dice la stessa cosa, ha la stessa identitÜ, grazia e forza. La sua presenza o il suo ricordo. La percezione della sua vicinanza o la sua sola esistenza effonde, emana qualcos’altro, qualcos’altro che à increato, sereno, penetrante. Che rinnova l’uomo. Distende i suoi nervi. Spegne la sua collera. Illumina la sua mente. DÜ ali alle sue speranze. Prepara a una guerra che arreca serenitÜ e pace a tutto il popolo. Qui à generato continuamente qualcosa di eterno e immobile. Qui procede qualcosa di inesauribile e indiviso. In ogni parte, in ogni frammento, à presente il mistero del tutto, e il tutto à incessantemente qualcos’altro: fresco, nuovo, udito e visto per la prima volta. Dice a tutti la stes145

sa cosa, e ciascuno riceve cið che cerca, cið di cui ha bisogno. Non à cið che dice ad avere importanza, ma lo Spirito che affiora, che viene donato con cið che dice. Lo Spirito spinge, muove il suo cuore e la sua lingua. Lo Spirito modula la sua frase e disegna le tessere delle sue parole. • strumento, lira dello Spirito, che vibra interamente alle ispirazioni di lui. Per questo la melodia che esce da tale strumento ti incanta e ti porta in una terra straniera. Profondissimamente umana: umanizza l’uomo. Tutti i problemi vengono risolti da lui in modo unitario. Ha guadagnato il paradiso con il suo sangue. Ha fatto di se stesso uno straccio, si à strappato, si à dato, si à distribuito a tutti. Ora si muove a suo agio in tutto, diversamente da come si muove qualsiasi altro. Ovunque trova una casa che à sua, perchß sempre ha dato fuoco – per amore dell’altro – alla propria kalyva. Ovunque cammini, trova una stabile roccia, perchß si à abbassato e ha lasciato l’altro camminare sopra di lui. La sua frase calza sempre perfettamente; egli trova sempre, nel suo discorso, l’immagine che cerca, perchß non ha deriso nessuno, non ha ferito l’uomo, non ha recato offesa ad alcuna creatura. Ha lenito la ferita e il dolore di tutto il mondo. • cosç incrinata la sua voce, affannoso il suo respiro. Sono cosç tremolanti le sue mani, barcollanti le sue gambe. E tuttavia sta in piedi ben saldo. Cammina con passo fermo. Senza impedimenti. Vede, avanza, ama. • libero. • un uomo del secolo futuro, 146

percið à anche l’unico a parlare correttamente di questo secolo. Inosservato da quanti sono “ritenuti le colonne” (Gal 2,9), ed à lui che osserva tutti e tutto. Egli à una giornata di sole, un momento di riposo, una profusione di purezza. Dovizia di verginitÜ feconda. Tutto il suo corpo interiormente ride, con rispetto. Emana luce e dolcezza. • un giorno primaverile con molta brezza, fresca, lieve, tersissima, carica di aromi vivificanti e di profumi provenienti dalle vallate in fiore del suo cuore e dai pendii dei suoi santi e luminosi pensieri. Accanto a lui ti purifichi, ti rivesti – per grazia – di grazia. Quest’uomo à un’icona della teologia, della santitÜ; à la rivelazione dell’unione delle due nature in Cristo. Il suo corpo à alimentato, sostentato in questa vita in forza di esperienze spirituali. • la manna celeste a nutrire il suo corpo, a riempire il suo cuore, a sostenere le sue ossa... Conosce Dio – come dichiara la divina liturgia – quale tremendo12 e filantropo13. • debole, sottile come la tela di un ragno, ed à onnipotente. Riceve ondate di grazia che superano la sua resistenza. Il suo vaso di argilla non regge. Trabocca, s’infiamma. Tutto in lui e attorno a lui diventa luce inaccessibile. • oceano di luce ove puoi nuotare per tutta la vita, ove nuota e si salva tutta la creazione e tutta la storia. Lo Spirito increato che si attenda nelle sue viscere dona – attorno e in lui – esistenza a tutto. • palpabile, esistente, assai piô del paesaggio che ti circonda. E il suo corpo à trasparente, pieno di luce. 147

Egli à naturale e santo. • perfetto uomo e dio per grazia. Nessuna falsitÜ nella sua condotta. Egli non crea; solo genera, fa procedere. Non parla; solo fa. Non commenta; solo ama. I suoi pensieri sono azione. Le sue parole realizzazione. La sua assenza riempie tutto (per grazia). La sua presenza apre uno spazio per tutti (per grazia). Ha un’altra concezione della vita, del mondo, delle distanze. Non ha esistenza nel mondo, e nel contempo lo ricapitola, organizza, riunifica (“Hai rafforzato tutta la terra con le tue preghiere”14). • uscito dalla mischia. Se tenti di colpirlo, i tuoi dardi non lo trovano. • inesistente per essi. Se lo cerchi, dovunque tu sia, lo hai accanto a te. Vive solo per te. La sua figura, la sua vita, la sua lingua, la sua visione del mondo emerge a ogni istante. Con il tramontare della sua vita, il perdersi del suo corpo, il partire, lo spiritualizzarsi del suo essere, l’affinarsi e il valorizzarsi della sua carne. “Ebbi parte all’immagine, perð non la conservai; (il Signore) prende parte alla mia carne sia per salvare l’immagine sia per rendere immortale la carne”15. Innanzi a lui capisci la teologia di san Gregorio Palamas. Dall’essenza a te inaccessibile della sua santitÜ senti effondersi e sprigionarsi, senza sforzo e senza fine, una grazia inspiegabile che giunge fino a te – fino al tuo corpo e alla tua anima – quale luce vivificante. 148

Come il sole garantisce a tutta la creazione la possibilitÜ di vivere, cosç questa luce del monaco garantisce le possibilitÜ perchß la vita fiorisca in ogni uomo. Non limita. Non obbliga a una militanza particolare. Non chiude. Non organizza in modo umano. Aiuta ciascuno a trovare se stesso. Aiuta ciascuno ad amare la propria vita, guidandolo fino al cuore della luce che non conosce tramonto. Tutti si confessano a lui. Ed egli si confessa a tutti. Nessuno esita a rivelargli qualsiasi realtÜ occulta della propria vita. Al contrario, ciascuno apre il cuore con fiducia davanti a lui, come il fiore schiude i suoi petali dinanzi al sole. Quanto a lui, non ha paura che qualcuno venga a sapere i segreti della sua vita. Al contrario, spesso pone una cortina di silenzio tra il suo essere – tutto luce e ribollio – e i sensi cagionevoli del suo visitatore, per timore che questi perda, a quella visione, la vista. Lascia cosç che una luce, con delicatezza e in silenzio, lenisca, illumini, conforti e rallegri l’uomo, il suo fratello, creato a immagine di Dio. Non ti atterrisce con le sue prodezze ascetiche, ma ti rasserena, trasfondendo in te quell’amore di Dio entro cui egli vive giorno e notte. Nel dialogo à gentile e attento. Sa, vede, ama. Discerne ove vanno a finire le cose. E cosç, in tale clima della veritÜ totale (sulla vita e sull’uomo), agisce. • un chirurgo. Scopre una a una le tue difficoltÜ in un clima di naturalezza. Non soffri durante l’operazione che ti viene fatta. Un Altro – prima – ha sofferto per te: il Signore Gesô. E ti trovi ora nel luogo 149

del riposo che la sua sofferenza ha portato. “Perchß, ecco, mediante la croce tutto il mondo à stato inondato di gioia”16. Ti lascia vedere, digerire. Ti chiede ogni volta come ti senti mentre si svolgono i vostri incontri. Ti accorgi che solo ti aiuta con discrezione. Non si intromette brutalmente. Non si impone magicamente. Ti rivela il funzionamento secondo natura del tuo essere. Ti lascia libero. E sei prigioniero della veritÜ, della libertÜ, dell’unica realtÜ cosç com’à. E parti confortato, affrancato da preoccupazioni, riposato, rinvigorito. Parti e vai al tuo lavoro, vai dove vuoi, e tuttavia resti qui per sempre. Qui ti porta la sola esperienza della tua vita che rende questo luogo, per te, un monte Oreb che puð essere chiamato: “Il Signore vide ... Il Signore si fece vedere” (Gen 22,14). Un cordone ombelicale di speranza lega il tuo essere spirituale a questo luogo, a questo momento, a questa persona, a questa esperienza. E tale cordone maternamente nutre, vivifica e plasma nella matrice della chiesa il neonato spirituale, l’uomo nuovo che à in gestazione e nasce per opera dello Spirito santo. Davanti a lui ti accorgi che gli antichi santi vivono davvero; come lui, che à antico e morto per il mondo e vive in un altro modo – nello Spirito santo – assieme a noi. Ci dimostra cosç che anch’egli non ci abbandonerÜ mai. Davanti a lui hai la percezione di trovarti nel giorno ultimo. Sei giudicato. Ti giudica il suo amore, di cui non sei degno. Il suo sguardo penetrante e puro, che non ti condanna. 150

Capisci come sarÜ il giudizio di Dio. Ti rendi conto di come viene interpretata, cristianamente, l’immortalitÜ dell’anima. Di come saranno i corpi risorti. Il presente e il futuro si spiegano non con ragionamenti, ma tramite un’epifania, una manifestazione di vita. Ti trovi dinanzi a una teofania, a una vera antropofania. La tua vita assume un’altra dimensione, escatologica. E di un tepore e di una speranza umani si riempiono le realtÜ escatologiche. La presenza dei santi antichi à sensibile. E la grazia dei nuovi trascende la storia e ci conduce, fin da oggi, nell’eternitÜ. Sia che vivano sia che muoiano, testimoniano della potenza della resurrezione. Rivelano la grandezza dell’uomo, la luce senza tramonto del Regno, per il quale siamo stati plasmati. Ci mostrano che non c’à differenza – nella chiesa – tra antico e nuovo: ci mostrano il corpo del Cristo risorto che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21,5). Un giovane monaco ha scritto di un antico abba: Leggo Isacco il Siro. Vi trovo qualcosa di vero, eroico, spirituale. Qualcosa che trascende lo spazio e il tempo. Sento che à una voce echeggiata per la prima volta nelle mie profonditÜ sconosciute e chiuse. Pur essendo tanto lontano nello spazio e nel tempo da me, à venuto tuttavia nella casa dell’anima mia. In un momento di quiete mi ha parlato. Si à seduto con me. Per quante altre cose abbia letto, per quanti altri siano passati accanto a me (o ancor oggi vivano al mio fianco), nessuno à stato cosç discreto. E tuttavia a nessuno ho aperto una cosç profonda stan151

za della mia casa. O, per esprimermi meglio: nessuno mi ha mostrato fraternamente, amicalmente, che dentro di me – dentro la natura umana – c’era anche questa porta. La porta che si apre su uno spazio aperto, sconfinato. E nessuno mi ha detto l’inesprimibile e l’insospettabile, che cioà tutto questo mondo appartiene all’uomo. Per la prima volta avverto una santa fierezza, un’ammirazione per la natura umana (o, meglio, divino-umana). Cið mi à stato donato quale benedizione divina dalla presenza di un santo, di uno che si à separato dal mondo e dalla confusione del peccato. Egli appartiene alla natura umana. Ne sono felice. Godo del beneficio della sua benedizione. Essendo della mia stessa natura, mi trasfonde a livello ontologico il sangue vivificante della sua libertÜ. Mi rivela il vero uomo. Mi dice attraverso la sua presenza – e io lo percepisco – che siamo assieme. Non à qualcosa di estraneo al mio io. • lui il mio io piô vero. • un puro fiore della natura umana.

Possiamo ora terminare ricordando la parola di consolazione del profeta: “Dice il Signore: ‘Beato chi ha una discendenza in Sion, una parentela in Gerusalemme’” (Is 31,9). Noi tutti possiamo dirci beati, perchß abbiamo nel Sion dell’ortodossia (il Monte santo) la discendenza dei santi asceti. E nella Gerusalemme celeste abbiamo cosç tanti parenti. Essi vivono per noi e costituiscono la luce e la speranza per la nostra vita presente e per quella futura.

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1 Cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, Macario l’Egiziano 2 (cf. Vita e detti dei padri del deserto, p. 304) [N.d.T.]. 2 Con minime modifiche viene qui ripubblicato, per gentile concessione degli editori, un testo di una grande bellezza e profonditÜ comparso all’interno del volume giÜ citato Aa.Vv., Voci dal Monte Athos, pp. 17-32. In quella raccolta portava il titolo: “Tu sei caduta e Lui risurrezione”. L’originale greco era apparso, una prima volta, nella rivista del monastero athonita di Grigoriou (cf. ‘O oÔsioj Grhgo´rioj 1 [1976], pp. 18-33), senza alcun riferimento alla data, al luogo e all’occasione in cui il discorso era stato pronunciato; à stato, in anni recenti, ristampato una seconda volta nel volume Archimandrita Basilio, Ka´lloj kaı` ‘Hsucı´a sth`n ‘Agioreitikh` Politeı´a (Bellezza ed esichia nella vita aghioritica), Iera Moni Iviron 1999, pp. 7-27 [N.d.T.]. 3 Detti dei padri, Serie alfabetica, Sisoes 13 (cf. Vita e detti dei padri del deserto, p. 451) [N.d.T.]. 4 Le “sperimentano”. Cf. Dionigi Areopagita, I nomi divini 2,9: “... dopo avere non solo imparato (mathïn), ma anche sperimentato (pathïn), le cose divine” (Id., Tutte le opere, pp. 388-389) [N.d.T.]. 5 Detti dei padri, Serie alfabetica, Alonio 2 (cf. Vita e detti dei padri del deserto, p. 140) [N.d.T.]. 6 Nilo Asceta, Discorso sulla preghiera 124, in La Filocalia I, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Gribaudi, Torino 1982, p. 286 [N.d.T.]. 7 Giovanni Climaco, La scala 1,10, a cura di L. d’Ayala Valva, Qiqajon, Bose 2005, p. 89 [N.d.T.]. 8 Simeone il Nuovo Teologo, Etico 10, in Id., Traitßs thßologiques et ßthiques, a cura di J. Darrouzàs, SC 129, Cerf, Paris 1967, p. 281 [N.d.T.]. 9 Asketßs. Il termine, al Monte Athos, à specifico: indica quel monaco povero che vive in una misera abitazione e si nutre di pane secco, di cið che la terra offre spontaneamente e della caritÜ degli altri monaci. Vive in silenzio e in solitudine e prega ininterrottamente, “solo con il Dio solo” [N.d.T.]. 10 Cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, Pambo 1 (cf. Vita e detti dei padri del deserto, p. 421) [N.d.T.]. 11 Charopoiðn pßnthos, in greco. • il titolo del settimo discorso o gradino della Scala di Giovanni Climaco. L’espressione, assieme al termine, coniato sempre dal Climaco, di charmol÷pe (“gioiosa tristezza”), viene abitualmente usata per connotare il “clima”, l’“atmosfera” con cui i cristiani vivono la quaresima. Cf. A. Schmemann, Quaresima: in cammino verso la Pasqua, Qiqajon, Bose 2010, pp. 53-57 [N.d.T.]. 12 Cf. la “preghiera a capo chino” recitata sottovoce dal presbitero dopo il Padre nostro: “Tu, o Sovrano, dal cielo volgi lo sguardo su coloro che davanti a te hanno chinato il loro capo: poichß non lo hanno chinato davanti alla carne e al sangue, ma davanti a te, Dio tremendo” (Liturgia eucaristica bizantina, p. 108) [N.d.T.]. 13 Cf., ad esempio, la preghiera recitata sommessamente dal presbitero prima del vangelo: “Fa’ risplendere nei nostri cuori, o Sovrano amico

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degli uomini, la pura luce della tua divina conoscenza ...” (Liturgia eucaristica bizantina, p. 74) [N.d.T.]. 14 Menaæon, 17 gennaio (memoria di Antonio il Grande), grande vespro (cf. Anthologhion di tutto l’anno I, p. 1337) [N.d.T.]. 15 San Gregorio il Teologo, Orazione 38. Per la Teofania 13 (cf. Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, p. 893) [N.d.T.]. 16 Compieta della settimana del rinnovamento. La “settimana del rinnovamento”, chiamata anche “settimana luminosa” presso gli slavi, va dalla domenica di Pasqua a quella successiva di san Tommaso apostolo. Il nome si riferisce, fra l’altro, al “rinnovamento” e alla rinascita spirituale che iniziano a sperimentare e a vivere quanti a Pasqua sono stati battezzati [N.d.T.].

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INDICE

5

PREFAZIONE

13

PROFILO BIOGRAFICO

17 17 19 22 24 30 31

DAL VECCHIO AL NUOVO ADAMO L’inferno della separazione “Sono verme e non uomo” “Fine della morte” “Con veritÜ hai promesso che saresti rimasto con noi” Nß materialismo nß idealismo, ma divino-umanitÜ “Gustate e vedete com’à buono il Signore”

41

SANTA SOFIA, LUCE DELLA NOSTRA STORIA

59

LA BELLEZZA SALVER‘ IL MONDO. UN PUNTO DI VISTA AGHIORITICO

85

DA ERACLITO ALL’ANZIANO PORFIRIO

107

“IO SONO VENUTO PERCH” ABBIANO LAVITA E L’ABBIANO IN ABBONDANZA” (Gv 10,10)

133

IL SUPERAMENTO DELLA MORTE NELLA VITA MONASTICA

155