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Italian Pages 312 Year 1990
Giovanni Maffei
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BIBLIOTECA
Letterature 22
Collana diretta da Giancarlo Mazzacurati
Giovanni Maffei
Ippolito Nievo #
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il romanzo di transizione
Liguori
Editore
Pubblicato da Liguori Editore Via Mezzocannone 19, 80134 Napoli ©
Liguori Editore, Srl, 1990
I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, sono riservati per tutti i Paesi. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, registrata o_ trasmessa con qualsiasi mezzo: elettronico, elettrostatico, meccanico, fotografico, ottico o magnetico (comprese copie fotostatiche, microfilm e microfiches).
Prima edizione italiana: aprile 1990 SS 6 Di ATTZIIIO LOST 6 199519941993
99299990
Le cifre sulla destra indicano il numero e l’anno dell’ultima ristampa effettuata.
In copertina: C. D. Friedrich, Paesaggio montano con arcobaleno, 1809 ca., Essen, Folkwang Museum Printed in Italy, Officine Grafiche Liguori, Napoli. ISBN 88-207-1899-5
Ai miei genitori
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https://archive.org/details/ippolitonievoeil0000maff
Indice
‘ Capitolo primo. Induzioni circa la poetica nieviana fl contesto culturale: i letterati nel decennio di preparazione 11; Missione e mercato: la popolarità di Nievo 18; Romanzi francesi e romanzi italiani: la crisi dei modelli 36.
53
Capitolo secondo. Verso Ze «Confessioni»: le istanze della «vita», del «vero», della «natura» nei primi romanzi pubblicati da Nievo
*
Un tirocinio 53; «Angelo di bontà» 55; «Il Conte Pecoraio» 65; «La nostra famiglia di campagna» come testo di poetica 77.
87
Capitolo terzo. L’umzorismo di Nievo L’umorismo nelle «Confessioni» 87; L’«Antiafrodisiaco per l’amor platonico» 95; L’umorismo nell’età nieviana 106.
T20
Capitolo quarto. Le forme del romanzo asimmetrico Il realismo delle «Confessioni» 121; Destini dei personaggi e strategie intertestuali 128; Il polimorfismo stilistico 150; Manzoni nelle «Confessioni» 158; Un campione di «italiano popolare» 166; Il personaggio «io» 168.
187
Capitolo quinto. L'ideologia delle «Confessioni» La scena storica 187; Il tragitto dell'educazione 202; Il programma delle «Confessioni»: un’ideologia della «preparazione» 220; Perché un eroe mediocre e poco letterato 229; L'ideologia sintomatica: i rimpianti del crociato e le consolazioni della «coscienza» 239; La dislocazione degli eroi 258.
Zio
Capitolo sesto. Pisana: la memoria e la speranza
303
Indice dei nomi
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Capitolo primo Induzioni circa la poetica nieviana
1.
I/ contesto culturale: i letterati nel decennio di preparazione
Chi cerchi nell’opera di Nievo quel ch’egli pensasse della letteratura in genere e della propria attività di narratore in specie — senza contare quanto ovviamente può dedursi dalle forme in cui si spiegò la sua produzione — dispone di scarse dichiarazioni esplicite, deve accontentarsi dei frammenti di un’eventuale poetica, delle emergenze sporadiche di una cognizione critica e storica, sparsamente raccoglibili tra lettere, prefazioni, articoli di giornale, cenni interni ai testi creativi ...; pagine e
righe, peraltro, quasi tutte intensamente percorse dagli interpreti dello scrittore. Il modo migliore per valorizzare questi lumi disorganici, per farne affiorare la coerenza latente, sarebbe restituirli alla costellazione
di cui furono parte: bisognerebbe ‘leggere’ panoramicamente e mettere a fuoco dettagliatamente il fitto contesto storico e culturale di cui le idee e le espressioni nieviane furono minimi momenti, fenomeni tra altri fenomeni. Non tenterò in questo capitolo un percorso così ambizioso:
ma agganciare almeno sommariamente la poetica indiziaria di Nievo al quadro dell’epoca mi sembra un buon modo per avviare un discorso
critico che muoverà soprattutto dall'interno dei testi narrativi, dalla loro complessità strutturale e semantica. Forse da una combinazione mirata di indizi offerti da Nievo medesimo e di testimonianze — omologhe o convergenti, o sintomaticamente divergenti — estratte senza pretese di esaustività dal yz5lieu dello scrittore, potrà emergere un’immagine plausibile della sensibilità nieviana ai problemi dell’arte e alla teleologia del
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
lavoro letterario, e potranno essere utilmente predisposte le successive verifiche testuali, più puntuali e analitiche, volte alla morfologia e al
senso delle scritture narrative. ' Oltre che di sparse notazioni sulla letteratura, Nievo fu autore di un saggio di storia, critica e teoria poetica non molto lungo, ma ordinato, e di struttura trattatistica, cioè gli
Studii sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia, pubblicati per la prima volta a puntate nell’ A/chimzista friulano tra il luglio e l'agosto del 1854, e nello stesso anno raccolti in opuscolo dall'editore Vendrame di Udine. Il testo è stato poi ristampato a cura di F. Ulivi nel Supplemento n. 1 a La Lapa, II, n. 2, 1954. Mi capiterà di farvi cenno più avanti per corroborare talune mie ipotesi interpretative, ma ho l'impressione che gli Studii non siano tanto fervida teoria distillata da passione di lettore e da pulsante esperienza d’artefice (una di quelle teorie che fanno corpo con l'officina segreta della scrittura, e complementariamente la illuminano) quanto il riflesso d’un’informazione culturale piuttosto passivamente recepita. Cosicché il breve testo vale soprattutto a documentare alcune matrici fondamentali della cultura nieviana: gli influssi tenchiani e giobertiani (del Rinzovarzento) sul Nievo degli Studii sono stati messi in luce da C. Bozzetti (cfr. La formazione del Nievo, Padova, Liviana, 1959, pp.
200-205) che per quanto riguarda Tenca ha nominato in particolare gli interventi sulla Storia letteraria dell’Emiliani-Giudici (pubblicati nel Crepuscolo tra il febbraio e il marzo 1852) e la rassegna «Di alcune recenti poesie italiane», comparsa a puntate nella stessa rivista nel 1854. Sul tenchismo degli Studz cfr. anche I. De Luca, Introduzione a I. Nievo, Novelliere campagnuolo e altri racconti, Torino, Einaudi, 1956, pp. XXXVXXXIX; M. Colummi Camerino, Idi/lio e propaganda nella letteratura sociale del Risorgimento, Napoli, Liguori, 1975, pp. 257-262. Il magistero tenchiano fu davvero importante nella formazione di Nievo, più di quanto si sia in genere rilevato: nei testi del nostro scrittore è possibile individuare non soltanto le tracce ideologiche lasciatevi dalla frequentazione delle pagine del Crepuscolo, ma anche precise tracce retoriche: termini, frasi, immagini che ricordano da vicino usi tenchiani e ‘crepuscolanti’. All’occasione, sottolineerò qualcuna di queste coincidenze. Del resto, che Tenca abbia tanto influito su Nievo non appare strano, se si pensa alla centralità dell’ideologia e della pedagogia tenchiana nel panorama culturale lombardo (ma anche più genericamente nazionale) nel «decennio di preparazione». I/ Crepuscolo ebbe fama e diffusione notevoli e sulle sue pagine scrissero intellettuali, anche di grande levatura, provenienti da storie diverse, con inclinazioni ideologiche e culturali specifiche, eppure spinti a una solidarietà almeno provvisoria dal comune bisogno di resistere ai fenomeni di sbando e di reazione succeduti al ’48. L’ampio spazio che riserverò, soprattutto in questo primo capitolo volto a inquadrare la coscienza letteraria nieviana nel clima preunitario, ai testi del Crepuscolo, è quindi dovuto al fatto che in essi traspaiono tendenze e richieste di grande momento nella cultura dell’epoca, e alla funzione di scuola ideologica che la rivista esercitò per il nostro scrittore. L’eclettismo del Crepuscolo — che per alcuni anni raccolse e allineò voci, tradizioni ideali che nel °48-°49, o prima, sarebbero parse difficilmente conciliabili, o perfino repugnanti — aiuta a capire la fisionomia culturale di Nievo anche in certe indistinzioni, nelle ambiguità che talora lasciano perplesso il critico odierno, il quale forse troppo confida nella
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Stabiliamo subito le elementari coordinate storico-geografiche: l’operosità nieviana fu quasi interamente circoscritta al decennio 1850 — il «decennio di preparazione» all’unità — e lo scrittore, anche se risiedette in varie città e contrade del Lombardo-Veneto e nutrì la propria mitologia personale e poetica soprattutto di paesaggi veneti e friulani, gravitò culturalmente intorno a Milano. Proprio in questa città in quegli anni era più che altrove ancora traumaticamente viva l’eco del discorso Del romanzo storico (pubblicato nel 1845) con cui Manzoni aveva liquidato il genefe letterario da lui stesso reso prestigioso; eppure proprio a Milano, mentre questo ripudio sembrava aver chiuso definitivamente il ciclo primottocentesco delle grandi fondazioni teoriche e modellizzanti, si aprivano prospettive nuove, insieme inquietanti e stimolanti, alla coscienza degli scrittori. Già da qualche decennio l’editoria milanese e i connotati del pubblico evolvevano verso una dimensione industriale ed europea’; la vivacità, la relativa modernità dei circuiti culturali della capitale lombarda rendevano i numerosi intellettuali immessi in questi circuiti particolarmente permeabili al progetto ideologico-culturale giobertiano, molto autorevole negli anni ‘50. Questo progetto chiedeva agli potenza conoscitiva del ritornante quesito, desanctisianamente formulato: quest'uomo del risorgimento, come letterato e come politico, è ascrivibile alla scuola liberale, o alla democratica? Il che equivale a interrogarsi, in concreto, sulla misura del manzonismo dello scrittore, e sui limiti del riformismo dell’ideologo. Ma anche grazie alla propaganda tenchiana, negli anni ‘50 le categorie ideologiche, i confini tra le diverse culture risorgimentali erano fluidi e mobili in modo peculiare, e gli Studii sono tra i testi che ci ricordano come, per esempio, se non si trascura la mediazione tenchiana, si possa a ragione parlare di un mazzinismo di Nievo e, altrettanto sensatamente, di un suo giobertismo (intendo essenzialmente il secondo Gioberti politico, quello del Rinzovamento).
? Cfr. M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Finaudi, 1980; nonché le pagine dedicate al medio Ottocento da G. Ragone nel saggio «La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell’editoria italiana (1845-1925)», in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, II. Produzione e consumo,
Torino, Einaudi, 1983. Sulla stampa periodica lombarda in età risorgimentale punti obbligati di riferimento sono poi K.R. Greenfield, Economics and Liberalism in the Risorgiment. 4 Study of Nationalism in Lombardy, 1814-1848, 1934 (ed. it. Bari, Laterza, 1940 e 1964°); e il saggio di A. Galante Garrone «I giornali della Restaurazione» e quello di F. Della Peruta «Il giornalismo dal 1847 all'Unità», di cui si compone La stampa italiana del Risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 1979, vol. II della Storia della stampa italiana, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
intellettuali (l’«ingegno» della nazione, secondo la terminologia di Gioberti) di organizzarsi come ceto funzionale alla mediazione e alla diffusione del consenso, alla omogeneizzazione nazionale e moderata delle ‘parti’ sociali: il Rinnovamento segna una data memorabile per l’«ingegno civile» d’Italia [...]. Gli addetti alla stampa di consumo e alla compilazione dei giornali non trovano tanto una legittimazione strutturale, quanto ideologica e politica: concorrere, anche ai livelli dell’«ingegno mediocre», alla formazione dell’opinione nazionale; diffondere
un’ideologia mediatrice tra passività delle masse e fondazione di un nuovo assetto del potere; calibrare e controllare un senso comune della transizione’.
Gioberti assegnava al lavoro intellettuale ampi spazi sociali ove esercitarsi, e compiti capillarmente pedagogici; ma questi ultimi — diversamente dal mito democratico-mazziniano di un coinvolgimento diretto, apostolico ed eroico, delle «intelligenze» nell’azione politica e insurrezionale — risultavano tutti contratti nell’ambito dell’opizione, da gestirsi principalmente attraverso i canali istituzionali della stampa libraria e del giornalismo (la prima ad uso dei colti e il secondo più ‘popolare’, secondo una strategia di differenziazione degli «ingegni» addetti e dei tipi di utenza). Gli educatori della nazione non avrebbero fatto la rivoluzione, e ad
essi anzi erano sottratti i fati politici unitari, che casomai sarebbero dipesi dalle diplomazie e dagli eserciti: di qui la disillusione sottilmente avvertibile dietro l’ottimismo volenteroso e l'entusiasmo progettuale di tanti transfughi di formazione democratico-mazziniana, ricaduti durante il «decennio di preparazione» nell'orbita gravitazionale moderata e filosabauda. Per questi intellettuali la necessità di misurarsi col mutato terreno storico in cui la letteratura, come missione e come mestiere,
doveva radicarsi, poteva risultare complicata dalla residua affezione ai modelli democratici del protagonismo intellettuale. Creativi e teorici ricercavano certo rapporti coi lettori diversi dall’empatia eroica; ma ? U. Carpi, «Egemonia moderata e intellettuali nel Risorgimento», in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali 4: Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, p. 446. ‘ Cfr. U. Carpi, «Egemonia moderata», cit., pp. 445-447.
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spesso nel pubblico-nazione da persuadere surrogavano i tratti dell’antico popolo-nazione da sommuovere: fraintendimento favorito d’altronde dalla specifica tinta del ‘giacobinismo’ giobertiano, per tanti versi congeniale alle inclinazioni psicologiche e culturali di chi già fosse stato indotto, da un concetto predicatorio della pratica letteraria e da un prepotente bisogno d’assoluti, a incrociare le rotte del mazzinismo?. Riconducibile alla retorica e al mito mazziniani, ma anche compatibile con l’impianto teorico del Rinnovazzento, era per esempio la tendenza di Tenéa a €nfatizzare la fisionomia sociale del pubblico borghese di cui parlava nelle sue riviste. Già secondo il Tenca prequarantottesco della Rivista Europea il letterato della sua epoca aveva «un popolo immenso davanti a sé, di cui [...] farsi interprete, e [...] profeta»; doveva «scende-
re in questo vortice nuovo, immenso, che costituisce il pubblico d’oggidì, esplorarne le tendenze, mettere in evidenza quanto ferve in lui di mal noto, di indeterminato, dargli l’intelligenza di sé, del suo fine». Ma ancora nel ’52 il Tenca del Crepuscolo interpreta il travaglio letterario contemporaneo come laboriosa gestazione di «un’arte, che esca veramente dalle viscere della nazione e concordi in tutto col carattere e coll’azione generale del popolo italiano»’. Nel ’54 il distacco dalle pro‘ispettive politiche mazziniane è ormai netto. Eppure, si veda in che termini il critico parla del nuovo rapporto scrittori-pubblico instaurato dalla rivoluzione romantica: Gl’innovatori [...] traendo la poesia in mezzo alla moltitudine ed accostandola alle fonti popolari, conquistarono un pubblico nuovo, ’Sull’ipotesi gramsciana di un Gioberti «giacobino», sui limiti entro cui è possibile accettarla, nonché, più in generale, sull’influsso duraturo sinergicamente esplicato da Gioberti e Mazzini sulla tradizione del populismo italiano, rimane capitale A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli, 1965 (e ora Torino, Einaudi, 1988, dove si vedranno le pp. 29-37 e 175-179). ° Sono frasi che si leggono nel saggio «Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia» (Tenca prendeva spunto dalla discussione del proemio premesso da Guerrazzi all'edizione del ’45 della Battaglia di Benevento). Il saggio comparve nella Rivista Europea, 1846, I sem., fasc. 2 (febbraio). Cito da C. Tenca, Saggi critici, a cura di G. Berardi, Firenze, ” Così dedicato Cito da
Sansoni, 1969, p. 286. nella prima puntata (I/ Crepuscolo, III, n. 5, 1 febbraio 1852) del saggio al Compendio della storia della letteratura italiana dell’Emiliani-Giudici (1851). C. Tenca, Saggi critici, cit., p. 291.
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più vasto, più vergine di forti entusiasmi, [...] quel che cercarono anzi tutto i poeti fu di esaltare i loro lettori per quel lato che più facilmente li dava in loro balia, di colpirne, di infiammarne l’imaginazione, la facoltà più desta e più sinceramente poetica del popolo. Di qui l’evoluzione [...] circa alla materia poetica, estesa dal piccolo mondo fantasticato dagli antichi all’immensa varietà della vita reale ed ideale, e tutta rivolta ad evocare le grandi cose, e più ancora forse i grandi aspetti delle cose: di qui eziandio quel cercare più addentro nei problemi dell’umana esistenza, messi in rilievo dalle nuove condizioni sociali, e quell’appassionarsi per soggetti ispirati dai rapporti più stretti esistenti fra il poeta ed il popolo".
Risulta chiaro dal passo citato che Tenca tendeva a confondere col popolo-nazione delle profezie democratiche il pubblico probabile della letteratura che I/ Crepuscolo trattava criticamente. Questo pubblico era forse più ampio che in passato, ma restava un pubblico sostanzialmente borghese; i popolani ne erano esclusi per due circostanze difficilmente eludibili: le scarse disponibilità economiche, che rendevano problematico l’acquisto dei libri, e soprattutto il diffusissimo analfabetismo. La confusione tenchiana tra pubblico e popolo aggiornava in fondo il tipico equivoco mazziniano, per cui i concreti connotati delle classi popolari venivano assorbiti e insieme rimossi nel mito sfumato misticamente del Popolo-Nazione. Mi sembra che questo mito agisca ancora nell’invito rivolto da Tenca ai «giovani verseggiatori» contemporanei, a proseguire
il cammino intrapreso dai fondatori romantici, a esplorare le terre incognite aperte all’immaginazione letteraria da quei «primi atleti dell’emancipazione»: il poeta non è un essere astratto e diviso dalle circostanze, in cui vive; esso ne è anzi l’interprete, esso è il senso delle nazioni, come
con profonda parola lo disse Vico. Il pubblico gli chiede formulate melodiosamente quelle verità ch’egli conosce, lora soltanto intravede od attende. La poesia, che non questa suprema necessità dei popoli, non è che vuota confusione di suoni’ .
espresse e ch'egli tarisponde a armonia o
All'altezza del ’58, anche se Tenca sembra valutarne con più cauto * «Di alcune recenti poesie italiane», I/ Crepuscolo, V, n. 42, 15 ottobre 1854, p. 663. ° Ivi, p. 666.
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realismo i tempi e i modi della possibile attuazione, l’«ideale della funzione letteraria» è ancora nella sostanza lo stesso: la magnifica compenetrazione di autori e pubblico, «cosicché le lettere siano veramente il prodotto del pensiero degli uni, ispirato e temperato dal bisogno dell’altro».
Insomma, l’organicità ‘preparatoria’ a cui Gioberti allegava compiti di mediazione indolore, di pedagogia umbratile e diffusa, poteva essere
un succedaneo soddisfacente dell’antico agonismo trascinatore. Dopo la delusione quarantottesca, e ancor più dopo il fallimento dell’insurrezione milanese del ’53, agli officianti dell’ideale apparivano sempre meno praticabili le strade della letteratura-azione, della letteratura-esempio,
della letteratura-rivoluzione: ma essi avrebbero continuato a effondere la loro scienza in tutte le membra del corpo nazionale. La centralità della funzione intellettuale restava assiomatica. Nei decenni postunitari, venuto meno il velo dell’ottimismo progettuale, il tramonto delle antiche presunzioni carismatiche e l’affondare della letteratura nelle sabbie mobili del mercato e del consumo anonimo (l’alternativa sarà l'umiliazione dell’«ingegno» nelle mansioni burocratico-amministrative) indurranno molti scrittori all’arroccamento aristocratico, o a forme di risentimento
protestatario, o di rassegnazione demoralizzata nei confronti del popolo leggente. Per ora, negli anni ’50, la congiura di vecchi e nuovi miti, il sovrapporsi di vecchie e nuove consacrazioni tengono ancora bene. Se si può già intuire che non a suggestive teofanie, a entusiasmanti taumatur-
gie la modernità destina i letterati, bensì all’impoetica omologazione produttiva e ai ricatti del consumo venale, la ruolizzazione entro gli apparati della pubblicità è ancora interpretabile come caso particolare e storico di un eterno mandato ideale. Anzi l’invadenza del mercato,
l’istanza del fattore «pubblico» sono disponibili a interpretazioni euforiche, al mito: come dimostra proprio il caso di Tenca, che per tutto il decennio preunitario col suo Crepuscolo non smise di auspicare e mitizzare — a partire da una lettura volenterosamente ottimistica della «tran-
sizione» in corso, dei «bisogni dell’età presente»!! — una grande rifonte «Dell’industria libraria in Italia», I, Il Crepuscolo, IX, n. 8, 21 febbraio 1858, p. IHSA
"! Sono espressioni, concetti di Tenca piuttosto ricorrenti nei suoi scritti.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
dazione letteraria, affermatrice dell’ideale e del vero, e il sorgere corre-
lativo, ad opera dei fati nazionali e progressivi, del grande pubblico/popolo capace di apprezzarla"”.
2.
Missione e mercato: la popolarità di Nievo
Negli anni ’50, quindi, gli apparati della pubblicità sono sentiti come lo spazio privilegiato in cui gli intellettuali devono esercitare la loro missione pedagogica. La letteratura è un apostolato, ma è anche una professione. Gli addetti alla cultura, almeno i più avvertiti, sentono di dover sostenere un serrato confronto-conflitto con la dimensione del mercato; alcuni pensano anche ad attrezzare la lotta ideale con una
sociologia della letteratura’. Per quanto riguarda in particolare il ro!° Per un’informazione generale su Tenca cfr. G. Berardi, Introduzione a C. Tenca,
Saggi critici, cit., utile anche per l'ampia bibliografia ragionata aggiornata al 1968 (a cui rimando senz'altro) e per le notizie circa i problemi d’attribuzione dei numerosi saggi che comparvero anonimi nel Crepuscolo. Tra i contributi successivi al °68 vanno menzionati almeno il Carteggio inedito Tenca-Camerini, a cura di I. De Luca, Milano-Napoli, Ricciardi, 1973; il Carteggio Tenca-Maffei, a cura di L. Jannuzzi, 3 voll., Milano, Ceschina, 1973; C. Tenca, Scritti linguistici, a cura di A. Stella, Milano-Napoli, Ricciardi, 1974; C. Scarpati, «Un saggio inedito di Carlo Tenca» (si tratta di «Del commercio librario in Italia e dei mezzi per riordinarlo», del 1844), in AA.VV., Studi di letteratura e di storia in memoria di Antonio Di Pietro, Milano, Vita e Pensiero, 1977, pp. 173-227. Ricordo poi gli interventi di P. Voza, Letteratura e rivoluzione passiva, Bari, Dedalo, 1978 (persuasivo in particolare per l’analisi delle funzioni ‘resistenziali’ svolte dal Crepuscolo nel decennio di preparazione); D. Consoli, «Il realismo di Carlo Tenca», in Otto-Novecento, II (1978), n. 5, pp. 6-35; P. Quaglia, I/ noviziato critico del Tenca e il
suo interesse per la narrativa, Firenze, La Nuova Italia, 1982; infine i quattro saggi compresi in Problemi, maggio-agosto 1984, n. 70, alle pp. 144-194: M. Colummi Camerino, «Tenca, il romanzo storico, il realismo»; A. Palermo, «Tenca-De Sanctis e la critica sociologica»; R. Tessari, «Carlo Tenca e il teatro»; G. Pirodda, «Tenca e il pubblico». ‘Tommaseo era stato un pioniere nel considerare la letteratura come una professione, e il letterato nei suoi rapporti col mercato (cfr. U. Carpi, «Egemonia moderata e intellettuali nel Risorgimento», cit., pp. 441-444). Ma va detto anche che Tommaseo, nel suo «Della letteratura considerata come professione sociale» (in Antologia, luglio
1830, pp. 115-132), si limita a osservare che lo scrittore, qualora cooperi nei modi che gli competono al progresso generale, non va spregiato come venale se pretenderà per le proprie fatiche la «material ricompensa» che spetta anche al lavoro di muratori e contadini. Siamo ben lontani cioè dalla metodica e continuata attenzione tenchiana ai
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manzo, intorno a Nievo, nei suoi anni più operosi, andavano moltiplicandosi le lamentele circa una presunta inadeguatezza delle realizzazioni italiane di questo genere letterario rispetto ai fini di popolarità che ad esso si ritenevano propri. Questione non nuova, e anzi da sempre crucia-
le nel pupulismo romantico-risorgimentale, sia in quello democratico che in quello cattolico e moderato"; ora però le denunce — soprattutto nei crepuscolanti, ma non solo in loro — assumono toni di urgente preoccupazione,e connotati sociologici peculiari. Infatti, non si mette in luce solo l'aspetto interno di questa impopolarità (l’osticità linguistica dei libri italiani, o la loro incapacità di rispecchiare le aspirazioni e i sentimenti della gente comune): il problema è anche accuratamente considerato nella sua faccia esterna, e si rileva con preoccupazione la ridotta competitività commerciale delle nostre lettere rispetto ai prodotti stranieri e soprattutto francesi. Al mercato si dà grande importanza proprio dal punto di vista dell’efficacia pedagogica della letteratura. Esso è sentito come luogo di possibile compromissione: la letteraturainsegnamento, la letteratura-idee che voglia farsi merce utilmente vendibile, rispondente a una domanda significativa in termini di quantità, corre di continuo il rischio di degradarsi a letteratura-intrattenimento, a letteratura-seduzione. D'altra parte, nella dimensione del mercato la partìcola d’ideale che ogni buon libro imprigiona e rispecchia può acquistare velocità e mobilità, e per mille tramiti contribuire alla formazione del gusto, di un abito intellettuale e morale diffuso. Ecco perché, nelle
testimonianze critiche e teoriche dell’epoca, si condannano spesso le pratiche letterarie troppo condiscendenti, e quasi altrettanto spesso quelle troppo renitenti alle esigenze di un ampio mercato, e in genere si preferiscono forme di mediazione, di conciliazione. Tentiamo ora di avvicinare la percezione che si aveva negli anni ’50 dei rapporti tra scrittori e pubblico, attraverso le parole e le immagini degli osservatori coevi. I punti di vista di molti di questi sono ancora
letterati come ceto professionale, posto alla cogente pressione di produzione artistica e culturale. “ Cfr. S.S. Nigro, «Popolo e italiana, V. Le questioni, Torino,
immesso nei circuiti di produzione-consumo, e sottoun mercato capace di influire anche sui modi della popolarità», in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura Einaudi, 1986, pp. 223-269.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
tali, da potersi appassionati da come un’«epoca disorientamento
riassumere nella diagnosi formulata nel ‘46 con toni Tenca. Egli aveva descritto il proprio tempo storico di transizione», in Italia e in Europa: donde un generale delle lettere, aggravato qui da noi dalle specifiche con-
dizioni critiche della vita nazionale, e dal vistoso deterioramento dell’in-
novazione romantica. Così Tenca spiegava la perdurante mancanza, in Italia, di «armonica corrispondenza» tra le «lettere» e la «moltitudine»; da un lato autori rinchiusi nella torre d’avorio di una presunta elezione spirituale («letteratura artificiale, parassita, sforzo isolato di qualche generoso intelletto») o artefici corrivi, e magari anche maldestri, passivamente determinati dallo «scopo mercantile» («industria libraria gretta, meschina, estranea affatto ai bisogni ed al movimento sociale d’oggidì»); dall'altro lato lettori sempre più numerosi e avidi, indotti dall’insipienza del prodotto nazionale a consumare dosi massicce di letteratura d’importazione: «Si rifuggì dai libri italiani [...]; si cercarono e si lessero i forestieri; questi soli furono i ben accolti, i festeggiati». Eppure pare che i romanzieri italiani abbiano a disposizione un ampio pubblico potenziale, nonostante la persistenza di certi pregiudizi. Rovani, nel Preludio ai Cento anni, osserva che «Di tutte le forme della letteratura e della poesia il romanzo è la più disprezzata, e per alcune
classi di persone la più abborrita»'°. Non è tanto il romanzo storico, ormai in crisi e condannato anche da Manzoni, a corrucciare il cipiglio degli «uomini onesti e pacifici», dei «padri di famiglia», dei «prefetti», dei «prevosti», quanto «quell’altro genere di romanzi che si è convenuto di chiamare contemporanei, intimi, di costume», la cui produzione in Francia e in Inghilterra ha assunto formidabili dimensioni industriali e precisi caratteri di serie, talché «sembran fatti a gualchiera, a trancia, a
” Cfr. «Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia», in C. Tenca, Saggi critici, cit., pp. 278-282. ‘° G. Rovani, Cento anni, 2 voll., Milano, Ceschina, 1948, vol. I, p. 9. Questa da cui
cito riproduce la prima edizione in volume del romanzo, che apparve in cinque tomi, tre dei quali stampati a Milano «a spese dell’autore» nel ’59, altri due presso il Daelli nel °64. La pubblicazione a puntate dei Cento anni nella Gazzetta Ufficiale di Milano ebbe luogo quasi contemporaneamente, dal ’57 al ’63. L'edizione del romanzo solitamente letta oggi è però un’altra, cioè quella, con tagli e variazioni dell’autore, uscita nel capoluogo lombardo nel 1868-69.
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torchio, a mulino, a vapore». Tanti ne sforna l’industria, «tanti ne inghiotte il mondo, che come sigari li fuma e abbrucia [...]. Tuona la critica, tuonano i pergami, le fanciulle son minacciate di celibato, gli adolescenti di essere cacciati dai ginnasj, i giovani di studio d’essere esclusi dal banco. — Ma i romanzi si riproducono, si sparpagliano, penetrano dappertutto, e son letti persino da chi tuona e sbuffa»'* Nievo, che certo aveva letto il Preludio di Rovani, comparso col titolo di Sinfonia edel romanzo sulla Gazzetta di Milano già il 31 dicembre 1856, in un Articolo /nel Pungolo del 3 gennaio 1858 attribuisce alla lettura dei romanzi le stesse connotazioni di pratica interdetta e al contempo irresistibilmente epidemica: Vegliate pure a’ confini, prescrivete un cordone sanitario, [...] banditegli l’ostracismo, il romanzo s’infischierà di tutte le vostre precauzioni; [...] scacciato con sdegnoso disprezzo dalla vostra biblioteca, cercherà un rifugio sulla toeletta di vostra moglie, o sotto il capezzale della vostra serva [...]. Voi credete di distruggerlo, e invece lo moltiplicate; strozzato come libro, rinasce come appendice; condannato dalla critica detronizza la critica, e installatosi nel pianterreno della gazzetta, attrae a sé l’attenzione [...]!”
A questo pubblico insaziabile di immaginario romanzesco (e Rovani esemplificava coi «nomi ortridi e peccaminosi di Gozlan, di Gautier, di Kock, di Dumas!!!», tutti francesi)” gli scrittori italiani non offrono che ricette insapori, avare e problematiche. Gioberti, Tenca e molti altri
(anche Nievo) erano contrari a una netta distinzione funzionale tra letteratura alta e letteratura bassa, tra magistero dottrinale e commercializzazione ‘popolare’: entrambi i tipi di letteratura (sebbene a livelli diversi, per lettori diversi, con linguaggi diversi e attraverso canali di diffusione diversi) avrebbero dovuto diramare e sospingere la stessa corrente d’idee. Ma è rimarchevole che a molti osservatori del periodo ! G. Rovani, Cento anni, cit., vol. I, p. 11. i Ivi volebpri2. ? L’articolo, intitolato «Ciancie letterarie. Romanzi e drammi», è ora raccolto in I. Nievo, Le confessioni d’un Italiano. Scritti vari, a cura di F. Portinari, Milano, Mursia, 1967. Cito dalle pp. 803-804. ° G. Rovani, Cento anni, cit., vol. I, p. 12.
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l’insipienza dei mestieranti e la presunzione dell’aristocrazia letteraria sembrino riuscire a effetti analoghi: la difficoltà cioè dei nostri libri a innescare il piacere della lettura, la curiosità e l'adesione dei lettori. La letteratura italiana pare che abbia in tutti i suoi settori il torto di essere noiosa. Rajberti, nel Viaggio di un ignorante (1857), confessa di leggere da molti anni quasi solo libri francesi, «perché quei prepotenti là ci usano la soverchieria di fare i libri più interessanti dei nostri»”’, mentre in Italia, paese «delle Accademie e degli Atenei», gli scrittori «non si degnano che di far dormire». Anche Tenca era dell’idea che l’alta cultura italiana fosse troppo sussiegosa per interessare i lettori non specializzati’. Ma è notevole che si parli di noia non solo a proposito dei filosofi superciliosi e dei severi accademici, ma anche dei romanzieri desiderosi di ampio successo. Si legge in un numero del 1854 del Crepuscolo: È pur troppo il difetto, da cui il romanzo italiano non ha potuto emanciparsi che per rare eccezioni: l'intreccio è incompleto, i particolari mancano d’arte e di misura. Per ciò un romanzo italiano è sovente una lettura pesante, anche per gli avidi divoratori di certe produzioni straniere, le quali, in mancanza d’ogni altro merito, palesano però una maggiore abilità di mestiere”.
Anche in una recensione del 1857 leggiamo che: Troppo spesso nei romanzi italiani siamo abituati a trovare la coscienziosità dello scrittore, l’intento letterario, lo scopo morale,
°° G. Rajberti, I/ viaggio di un ignorante, a cura di E. Ghidetti, Napoli, Guida, 1985, PROZIA
2 Ivi, p. 141.
° «Ove si eccettui forse il solo Gioberti, nissuno di quelli che in Italia si decorarono col nome di filosofi, ottenne mai né fama popolare, né testimonianza di pubblico onore. E ciò si debbe ascrivere alla inclinazione, in tutti prevalente, a sequestrarsi nelle loro meditazioni dal mondo circostante, a isolarsi soprattutto dalle condizioni del proprio paese, a non saperne indovinare né lo spirito né i desiderî» («Opere inedite di Alessandro Manzoni. Dialogo dell’Invenzione», I/ Crepuscolo, I, n. 39, 3 novembre 1850. Cito da C. Tenca, Saggi critici, cit., p. 86).
° Si tratta della recensione (anonima, come di norma erano le recensioni del Crepyscolo) «Dio non paga il sabato. Romanzo d’Isabella Rossi Contessa Gabardi Brocchi», I/ Crepuscolo, V, n. 23, 4 giugno 1854, p. 365.
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tutte le buone qualità, eccetto quella d’essere allettevoli. La mancanza d’arte nella narrazione, il poco gusto nei particolari, la scarsa attitudine drammatica nello sviluppo li rendono, è d’uopo confessarlo, quasi sempre nojosi a leggersi anche pe’ lettori d'animo meno
lieve ed insofferente”.
Queste due recensioni sono molto interessanti perché tentano una spiegazione ‘tecnica’ della roiosità del romanzo italiano: essa pare dovuta a una carenza di ‘mestiere’ negli scrittori, a un’incompetenza circa i codici, quasi che tra il romanziere italiano e il suo pubblico fosse problematica quella cordiale complicità semiotica, quel tacito contratto sulle convenzioni del gerere che permettevano in Inghilterra o in Francia una rapida e oliata chiusura del circuito produzione-consumo. È indicativo dell’acume,
ma
anche
dei
limiti
moralistici
dell’orientamento
sociologico-letterario crepuscolante che, per spiegare agli italiani la «straordinaria produttività straniera» in fatto di romanzi, in un numero del 1857 del Crepuscolo il corrispondente dall’Inghilterra ricorra al campo metaforico di una bassa, frettolosa gastronomia: dovete considerare la maggiore universalità della coltura, non già dell'ingegno, e la grande smania tutta britannica di leggere e di pigliare appunti. Questi appunti poi, tratti da libri d’ogni genere e di svariata autorità, si concuocono nel cervello, e s’appiccano con l’ostie, o s’imbastiscono con un po’ di filo, e n’esce [...] uno di quei
così detti pasticci del sabato, che riassumono tutti gli avanzi culinatj della settimana. Una salsa più o meno acre ne asconde in un sapore incognito, o indistinto le varie provenienze, e bisogna vedere con che fame s’ingollano dalle classi speciali, a cui sono confezionate!”
Questa pagina ricorda, per tono e argomenti, quella con cui Cattaneo aveva aperto, nel 1840, la sua recensione a Fede e bellezza. Egli aveva configurato l’esistenza in Francia, in Germania e in Inghilterra di una classe speciale di operai della penna, una «intera tribù» che vive «descrivendo passioni» per un pubblico vorace che «colà consuma ogni % «Gli Ultimi Coriandoli. Romanzo contemporaneo di Cletto Arrighi», I/ Crepuscolo, VIII, n. 30, 26 ottobre 1857, p. 483. % «Lettere bibliografiche d’Inghilterra», I Crepuscolo, VIII, n. 27, 5 luglio 1857, p. 436.
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anno una messe novella di romanzi, non altrimenti che i pacchi di guanti e le casse di tè»: E la vasta ed assidua manifattura ha talmente addestrato le menti e domato la lingua, che la minima maestrina di pensione scriverebbe un tollerabil paio di volumi, mescolando non senza garbo quegli otto o dieci caratteri di convenzione e quelle venti o trenta combinazioni di fatti con cui si può comporre un numero qualunque di romanzi, a un dipresso come
con un mazzo
di carte, o con una
scatola di scacchi si può fare un numero qualunque di partite?”.
Cattaneo e l’anonimo recensore del Crepuscolo sanno benissimo che in Francia e in Inghilterra, e ormai anche in Italia, l'ampliamento del
pubblico ha profondamente modificato la qualità del consumo letterario, e che questa modificazione non può non richiedere trasformazioni nel cuore stesso della creazione artistica. Alla domanda di lettori più numerosi, onnivori, presumibilmente meno attenti, nei paesi più industrializzati si è saputo rispondere, con spregiudicata razionalità mercantile, offrendo congegni narrativi rapidamente commestibili, di non dispendiosa fattura eppure capaci di rinnovare, nel palato irritabile del popolo leggente, gli stimoli di una famelica curiosità; invece in Italia la debolezza strutturale dell’industria culturale si riflette in una debolezza interna dei testi prodotti, in una loro inadeguatezza dal punto di vista merceologico. Certo entrambe le recensioni manifestano un atteggiamento critico nei confronti degli aspetti negativi, squalificanti della letteratura ‘di massa’. Ma non è certo quest’ultima l’obiettivo polemico cui principalmente mira Cattaneo in questa occasione, bensì il tipo diffuso del romanziere italiano sordamente arroccato in un concetto aristocratico °° La recensione cattaneana fu pubblicata nel Politecnico, vol. III, fasc. XIV, 1840. Cito da C. Cattaneo, Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, a cura di A. Bertani, 2 voll., nuova ed., Firenze, Le Monnier, 1948, vol. I, p. 114 (ma ora lo studio dell’autore milanese e della sua rivista può avvalersi anche di C. Cattaneo, «I/ Politecnico» 1839-1844, a cura di L. Ambrosoli, 2 voll., Torino, Bollati-Boringhieri, 1989). Considerazioni non troppo diverse erano state anticipate, ottant'anni prima, da un
testimone come Baretti (cfr. ad es. la recensione al «Saggio sopra la letteratura italiana di C. Denina», in La Frusta Letteraria, 1764. Cito dall'edizione di Bologna, Tip. della Volpe, 1839, vol. I, pp. 222-226).
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della propria funzione, mentre tutt'intorno dilaga un costume ben altrimenti disivolto:
i
nei nostri paesi corrono formidabili racconti di decine d’anni omericamente spese a fare un romanzo, od anche solo a premeditarne lo stile, anzi a crearlo; poiché ogni scrittore nostro è troppo grande da scrivere come gli altri. Sarebbe come chi per fare un borsellino, cominciasse a torcersi e tingersi da sé le sete variopinte, e fabbricarE si le stellette d’oro o le perline d’acciaio”’.
#
Seco Cadianeo la lontananza dal pubblico degli scrittori italiani è dovuta in buona parte al fatto che questi, per individuarsi artisticamente e caratterizzare le proprie opere, si concentrano troppo sulla tessitura linguistica: mancherebbe «per colpa di chi troppo sa [...] il modo sicuro e
fermo e concorde ed uno di valersi della lingua». Proprio su considerazioni d’ordine linguistico verterà, nel 1855, la disamina di Bonghi sul
Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia. Nella mancanza di un fecondo circuito comunicativo tra scrittori e pubblico Bonghi individua un vizio antico, la radice storica dell’isterilimento della società letteraria italiana; e quest’incomprensione gli sembra esser durata nei . secoli fino ai dì suoi, quando al distacco dei lettori e soprattutto delle lettrici dagli ostici e noiosi libri italiani corrisponde il rinchiudersi degli scrittori in casta autosufficiente: I nostri libri, dunque, privati dalle altre letterature del più gran numero de’ lettori, restano quasi circoscritti tra quelli che fanno professione di lettere, e che leggono per scrivere, a fine di essere letti da altri come loro”.
?* C. Cattaneo, Scritti letterari, cit., vol. I, p. 115. Già Pellico aveva ironizzato sull’orgogliosa presunzione d’originalità degli scrittori italiani: «La gloria che si acquista col produrre eccellenti libri originali, sconsiglia molti ambiziosi letterati dal dedicarsi alle traduzioni di libri esteri. [...] Noi siazzo tutti genj creatori, dice il volgo degli scrittorelli, ron abbiamo nulla da ammirare sovra i Parnasi lontani; introducendo în Italia la cognizione de’ libri inglesi e tedeschi, non si fa altro che corrompere il gusto» («Il corsaro di Byron», I/ Conciliatore, n. 68, 26 aprile 1819; cito dall’ed. a cura di V. Branca, 3 voll., Firenze, Le Monnier, 1953, vol. II, p. 491). ? C. Cattaneo, Scritti letterari, cit., vol. I, p. 117. °° R. Bonghi, Lettere critiche. Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia, a cura di E. Villa, Milano, Marzorati, 1971, p. 67.
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Così chiusi, si sono ordinati da sé come a modo di casta: e non attingendo a quella ch’io direi mente comune letteraria d’un popolo, non avendo coscienza dei nuovi bisogni delle menti moderne, scostando sempre più il loro stile dalla naturalezza, [...] hanno scritto, quasi sempre, in una maniera insopportabile”.
Nievo potrebbe aver letto questa pagina di Bonghi: le Lettere critiche, edite dapprima, nel ’55, su Lo Spettatore di Firenze, furono l’anno successivo raccolte in volume proprio a Milano, e furono recensite in un numero del marzo 1857 del Crepuscolo”. Ma l’immagine dei letterati italiani come una presuntuosa e innocua aristocrazia rinchiusa nella turris eburnea della tradizione era davvero molto comune all’epoca. Già nel 1850 Tenca condannava «La scienza che si accontenta e si compiace di sè stessa; l’intelligenza che è mezzo e scopo ad un tempo, che si diverte a giostrare per proprio comodo, che risponde dopo essersi composte le domande e s’irrita se la profana moltitudine vuole interrogare alla sua volta»’?. Tuttavia si ha l'impressione che Nievo abbia presenti gli argomenti bonghiani quando, in una pagina delle Confessioni, non si limita a fare dell’ottuagenario il portavoce di certe sue opinioni criticoletterarie, ma gli attribuisce anche le perplessità, gli sforzi frustrati di comprensione che, secondo Bonghi, furono la causa inveterata della lontananza del pubblico italiano dalle lettere italiane: I nostri grandi autori io li ho piuttosto indovinati che compresi, piuttosto amati che studiati; e se ve la devo dire, la maggior parte mi alligavano i denti. [...] mi lusingo che pel futuro anche chi scrive si ricorderà di esser solito a parlare, e che lo scopo del parlare è appunto quello di farsi intendere. [...] In Francia si stampano si vendono e si leggono più libri non per altro che per la universalità della lingua e la chiarezza del discorso. Da noi abbiamo due o tre vocabolari, e i dotti hanno costumi di appigliarsi al più disusato. Quanto poi alla logica la adoperano come un trampolo a spiccare continui salti d’ottava e di decima. Quelli che son soliti a salire
gradino per gradino restano indietro le mezze miglia, e perduto che 21 Ivi, p. 74. ” Cfr. «Lettere Critiche di Ruggero Bonghi», I/ Crepuscolo, VIII, n. 10, 8 marzo
1857, pp.165-168.
” «La letteratura popolare in Italia», I, I! Crepuscolo, I, n. 3, 20 gennaio 1850, p. 9.
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hanno di vista la guida siedono comodamente ad aspettarne un’altra
che forse non verrà mai”.
Bisogna dire che nelle sue concrete realizzazioni di scrittore Nievo fu piuttosto fedele a questo ideale, di un linguaggio chiaro, cordialmente volto ad esser compreso, modulato nel senso del parlato quotidiano, a costo di trasandare la perfetta tessitura dei periodi, la rotonda compostezza dello stile. Del resto, tra le ragioni che secondo Bonghi impediva-
no la popolarità della letteratura italiana vi era appunto una eccessiva elaboraziorte della scrittura, così sovraccarica, così fittamente intreccia-
ta di intenzioni stilistiche da occludere fatalmente la pronta e naturale apprensione delle idee”. P.V. Mengaldo ha molto giustamente valutato come un pregio del narrare nieviano quella «certa dose di sciatteria,
incostanza e sprezzatura stilistica» che alcuni critici hanno imputato come difetto allo scrittore: difetto relativo, avverte Mengaldo, perché dipende strettamente dalla prospettiva di gusto entro cui si giudica la particolare «naturalezza» dello stile di Nievo, tanto lontana dal monolin-
guismo manzoniano, quanto dal futuro plurilinguismo prezioso di alcuni scapigliati: * I. Nievo, Le confessioni d’un Italiano, a cura di M. Gorra, Milano, Mondadori, 1981, cap. X, pp. 454-455 (la Gorra ha ripreso con poche variazioni l'edizione del romanzo messa a punto da S. Romagnoli, autorevolissima da quando fu pubblicata presso Ricciardi nel 1952).
Se le difficoltà di Carlo Altoviti lettore fanno pensare alla diagnosi di Bonghi, è tenchiana l’immagine degli intellettuali come «guide» che dovrebbero commisurare la lunghezza dei propri passi alle forze del popolo seguace. Scriveva infatti Tenca: «i teorici, rivoltisi a misurare il cammino percorso, viddero la moltitudine lontana lontana, e si fermarono per chiamarla a sè, paurosi che il popolo avesse perdute di vista le sue sentinelle avanzate e che queste potessero dimenticare l’esercito che stava loro alle spalle» («La letteratura popolare in Italia», I, cit., p. 9). Nella stessa pagina del Crepuscolo Tenca paragonava gli uomini di lettere più aperti all’esigenza di lavorare per un’efficace istruzione popolare, e nondimeno consapevoli degli ostacoli che avrebbe frapposto l’assuefazione degli scrittori al linguaggio, ai modi di una tradizione culturale tutta elitaria, «a un disattento coltivatore che s’accorge di avere oltrepassato il terreno fertile e di gettare la semente sulla nuda scogliera». Non solo fu anche di Nievo l'istanza tenchiana di una letteratura accessibile al popolo, ma metafore agricole e vegetali
applicate alla missione dell’educazione nazionale (interpretata come una sorta di laboriosa ‘inseminazione’ coscienziale) si riscontrano più volte, come avremo occasione di vedere, nelle Confessioni d’un Italiano. ” Cfr. R. Bonghi, Lettere critiche, cit., pp. 194-195.
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Forse una larga apertura del compasso narrativo, un abbandono al grande e disteso affabulare romanzesco richiede che si assuma un passo lungo e un po’ svagato, senza che il lettore sia intralciato dai minuti ingorghi che continuamente increspano la pagina del narratore stilisticamente ineccepibile, ma questa resti sempre trasparente e per così dire transitiva rispetto al contenuto narrativo che vi scorre. [...] Il pieno recupero delle Confessioni passerà anche [...] attraverso una riforma del nostro gusto troppo puristico e prezioso”.
Molti osservatori di medio Ottocento addebitano quindi a un rapporto vizioso e asfittico tra scrittori e pubblico la difficoltà a produrre in Italia una letteratura (romanzi o altro) insieme popolare e di qualità. Incompetenza dei codici, malintesi scrupoli linguistici, sostanziale sordità ai bisogni dei destinatari sono altrettanti aspetti di questa difficoltà. Ovviamente la critica di questi anni non sacrifica le proprie alle ragioni °° Cfr. P.V. Mengaldo, «Appunti di lettura sulle Confessioni di Nievo», in Rivista di letteratura italiana, II (1984), n. 3, in particolare alle pp. 516-518 (ma il saggio è ricco di utili osservazioni su tutti gli aspetti del romanzo). Colgo l’occasione di questa nota per ricordare i due interventi di Mengaldo sulla lingua di Angelo di bontà: «Notizie sull’autografo di Angelo di Bontà di Nievo», in Studi di Filologia romanza e italiana offerti a Gianfranco Folena dagli allievi padovani, Modena, Mucchi, 1980, pp. 453-464 (poi in Cultura neolatina, XLI, 1981); «Due paragrafi sulla
lingua di Angelo di Bontà del Nievo», in Rivista di letteratura italiana, IV (1986), n. 1, pp. 93-140. In questi studi Mengaldo pone a confronto ia stratificata redazione manoscritta del romanzo nieviano e la redazione a stampa, ed evidenzia alcune tendenze contraddittorie dell’elaborazione stilistica: la ricerca dell’aulico nobilitante, ma anche della precisione semantica e della semplificazione narrativa, nonché l’uso dei dialettalismi a fini di «color locale». Emergono dall’analisi i connotati di una specifica questione nieviana della lingua, rispetto alla quale la ‘naturalezza’ delle Confessioni sarebbe l'approdo di una tentata soluzione: l’autobiografismo del protagonista-narratore costituirebbe infatti per Nievo una sorta di fattore disinibente rispetto a una condizione linguistica fluida e problematica, che pure egli voleva gestire espressivamente senza ricorrere alla rigida normalizzazione toscana proposta da Manzoni con la quarantana dei Prozzessi sposi. Molto opportunamente nel suo recente libro L’epistolario di Nievo: un'analisi linguistica, Bologna, Il Mulino, 1987 (cfr. «Conclusione», alle pp. 327 e sgg.) Mengaldo ha parlato di indole «conversativa» del narrare nieviano, comprovata dalla prossimità linguistica dei romanzi, e segnatamente delle Confessioni, alle lettere che senza troppi scrupoli di letterarietà Nievo soleva scrivere ad amici e congiunti. Un analogo rilievo, circa la somiglianza tra la prosa «confidenziale» dell’epistolario e quella dei romanzi del nostro scrittore, è stato fatto da A. Balduino, «Ippolito Nievo letterato e uomo, nelle lettere», Belfagor, XXXVIII (1983), n. 5, pp. 566-567.
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mercantili dell’industria del prodotto letterario. Casomai si coltiva un ideale di armonica conciliazione: scrittori che sappiano essere significativi e originali, eppure diffusamente fruibili; che sappiano interpretare i bisogni di un pubblico sempre più numeroso e anonimo, senza farsi travolgere anarchicamente dai suoi gusti e dalle sue debolezze. Qual sia questo ideale di conciliazione ci attesta per esempio una serie di interventi di Tenca nel Crepuscolo (1858; ma sono idee sparsamente presenti anche in testi precedenti) sull’industria libraria italiana. Terfca afutamente imputa la scarsa qualità della gran parte della lettera-
tura circolante ai suoi giorni in Italia alla angustia e alla frammentazione del mercato (effetti necessari della divisione politica), nonché a talune aberrazioni (giuridicamente rimediabili con più giuste leggi a salvaguardia del diritto d'autore) del meccanismo commerciale, tale da avvantag-
giare sui buoni libri quella che Tenca definisce «opera artificiale e di seconda mano, determinata dalla speculazione industriale di un certo numero di editori e di librai»: chimere letterarie, plagi e cattive traduzioni, promosse talora con abili trucchi pubblicitari o con altri stratagemmi semipirateschi. Tenca non deplora la nuova condizione sociale dello scrittore, la moderna dimensione professionale e ‘industriale’ del ‘ lavoro letterario: ma si rende benissimo conto che la fine della plurisecolare subordinazione cortigiana non significò per i letterati solo il senso
nuovo e vivificante di una vergine autonomia. Qui il critico riprende alcune idee già espresse nel ’46 (nel già citato «Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia»), quando aveva rilevato che nei tempi mo-
derni lo scrittore, sottrattosi alla necessità di adulare principi e potentati, «ha guadagnato in dignità, [...] pure questo guadagno non fu senza scapito delle lettere. Invece di ubbidire ad un padrone, dovette compiacere a molti; e chi sa di quali elementi discordi si compone questo ente indefinibile, che chiamasi pubblico, vedrà che il cambio non fu interamente favorevole». Il pubblico, questo nuovo pubblico «sorto appena ® Cfr. «Dell’industria libraria in Italia», I, I Crepuscolo, IX, n. 8, 21 febbraio 1858,
pp. 113-117. Le parole citate sono a p. 115. Gli altri interventi della serie comparvero
nei nn. 9, 10, 11, 12 della rivista, il 28 febbraio e il 7, 14, 21 marzo. 38 «Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia», in C. Tenca, Saggi critici, cit.,
pp. 283-284. Gli argomenti analoghi svolti in «Dell’industria libraria in Italia», 1, cit. sono alle pp. 113-114.
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jeri», che «s’accosta adesso per la prima volta al banchetto delle lettere», ha secondo Tenca e secondo altri osservatori coevi, come il popolo
di molta mitologia risorgimentale, dell’angelico e del bestiale. Gli scrittori dovrebbero sempre «signoreggiare» la «moda letteraria», non farsene «cortigiani», come si legge nel ’53 in una pagina del Crepuscolo"; e Tenca nella serie sull’industria libraria mette in guardia dal corrompere «il gusto della pluralità, assecondata e accarezzata nelle sue cattive tendenze»‘. Che cosa è accaduto quando gli scrittori hanno rinunciato a bilanciarsi sapientemente tra mercato e missione, a far leva sui gusti dei lettori per rispondere ai loro bisogni? Nel saggio tenchiano del ’46 leggiamo che le lettere italiane hanno già rischiato il sopravvento delle «cattive tendenze» del popolo leggente, attizzate dalle mene mercantili e capaci di contagiare e compromettere l’opera degli scrittori. Questi dovrebbero scendere nel «vortice nuovo, immenso, che costituisce il
pubblico d’oggidì, [...] mettere in evidenza quanto ferve in lui di mal noto, di indeterminato, dargli l'intelligenza di sé, del suo fine». Le
lettere, insomma, come pratica maieutica: dilettosa persuasione dei destinatari allo svolgimento delle virtù latenti, dei nascosti semi di vita civile e morale. E invece, dopo le aperture della nuova scuola romantica, la letteratura, traviata e confusa dalla «turba dei trafficanti», «divenne
trastullo e balocco della moltitudine; compiacque a’ suoi capricci, alla sua vanità, alla sua ignoranza, si lasciò deridere, spregiare, ingiuriare», pur di ottenere «il suo scopo mercantile». Nel 58, negli interventi sull’industria libraria, a questa immaginosa
e schematica drammatizzazione Tenca preferisce una certa qual minuziosa sagacia sociologica, nell’additare i concreti problemi del mercato letterario italiano; tuttavia tale giudizioso realismo è ancora coniugato con un concetto decisamente pedagogico del lavoro letterario, sullo ? «Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia», in C. Tenca, Saggi critici, cit., p. 284. ‘° Cfr. «Del romanzo in Italia», V, I/ Crepuscolo, IV, n. 42, 16 ottobre 1853, pp. 667-668.
“ «Dell’industria libraria in Italia», I, cit., p. 117. * «Delle condizioni dell'odierna letteratura in Italia», in C. Tenca, Saggi critici, cit.,
p. 286.
Ivi, p: 282.
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sfondo di forti residui di utopia mazziniana (l’unione mistica di scrittori
e popolo; lo scrittore profeta o interprete dell’epoca...). Solo che quest'utopia, secondo uno stile ideologico diffuso nel «decennio di preparazione», viene prudentemente dilazionata, vista come attuabile in tempi lunghi o lunghissimi: infatti si devono «accostare fra loro, quanto più si può, autori e pubblico, cosicché le lettere siano veramente il prodotto del pensiero degli uni, ispirato e temperato dal bisogno dell’altro. Or tutti sanno che questo, che sarebbe l’ideale della funzione letteraria, è un sognéavverabile chi sa tra quanti secoli, e di cui per ora non s’offre neppure lusinga d’attuazione»‘'. Ma la lunga marcia di avvicinamento al pubblico può cominciare subito, se gli scrittori sottrarranno l’industria al miope criterio dei mercanti, per assumerne direttamente la gestione: Operai della letteratura, i loro sforzi isolati non valgono; [...] Uniscano adunque questi sforzi e chiamino in sussidio quanti amano il decoro letterario del paese; tolgano l’industria libraria dall’avvilimento, in cui è caduta, esercitandola e vegliandola essi stessi. Quel che si cerca è la confederazione dell’intelligenza contro l’industrialismo. [...] chi vuol ristorare le lettere non deve attendere che il È > 3 È È a G c 45 pubblico si guasti, o diventi affatto svogliato e indifferente”.
L’«industria» è quindi per Tenca mero veicolo, involucro necessario della letteratura-educazione: si auspica perciò la subordinazione della pura imprenditorialità, il massimo assottigliamento della ‘buccia’ commerciale (che non opacizzi troppo la polpa luminosa delle lettere), insomma l’assorbimento della logica del mercato nella teleologia del messaggio. Un ulteriore conferma dell’opinione di Debenedetti, secondo cui in Italia sarebbe stata dominante, fin verso il 1860, e oltre, una lettera-
tura octroyée, fatta da un tipo di scrittore (o proposta da un tipo di critico) «che capisce i bisogni del lettore e intelligentemente inventa ciò che fa al caso»
Dagli interventi tenchiani sulle condizioni del mercato librario ita4 «Dell’industria libraria in Italia», I, cit., p. 115. 4 «Dell’industria libraria in Italia», V, I Crepuscolo, IX, n. 12, 21 marzo 1858, p. 181.
‘ G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Milano, Garzanti, 1983), p. 40.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
liano si evince l’idea che non un consumo della letteratura più ampio che in passato, bensì i modi storici in cui questo consumo si è realizzato in Italia hanno nuociuto alla qualità dei prodotti. Il più ampio respiro dell’industria culturale ha reso possibili in altri paesi — accanto ai libri venali e alle scritture effimere — alcune opere valide e utili, e al contempo lette e leggibili da molti. Proprio su questo piano, di una popolarità qualificata, capace di influire sul gusto, sull’intelligenza critica del pubblico, a Tenca pare preoccupante la scarsa competitività che alle nostre lettere deriverebbe dalle strettoie che ne condizionano la nascita: Come mai, col poco che è concesso di fare, reggere a fronte del molto che fanno le altre nazioni? Come soddisfare ai bisogni d’una coltura che s’eleva e diviene sempre più esigente? [...] In ciò la concorrenza dei libri francesi appare insuperabile. Perché essa non tanto sovetchia la produzione indigena penetrando per ogni dove, quanto dispone e mantiene un criterio elevato di critica, dinanzi al quale deve ritrarsi sconfortato il più degli autori italiani”.
Le argomentazioni di Tenca fanno pensare a un testo di Tarchetti, pubblicato pochi anni dopo, nel 1865: Idee minime sul romanzo. Qui lo scrittore, dopo aver fatto l’apologia del romanzo («la perfettissima tra tutte le forme», la più adatta «nel raggiungere il fine comune delle lettere, che è l’istruire e l’educare allettando») elogia la produzione straniera, tanto superiore all'italiana, e si oppone all’opinione di quelli che accusano i romanzi francesi di inquinare il gusto del pubblico italiano: secondo Tarchetti in Francia si scrivono cose buone e cattive, e le
seconde valicano più facilmente le Alpi perché (argomento già tenchiano) «nulla vi ha di più rimarchevole che l'ignoranza degli editori in Italia». Infatti «la Francia è la patria del romanzo», e colà «quelli che vengono tradotti e pubblicati dai nostri editori, sono generalmente tali libri che godono di nessuna o pochissima reputazione». Non sempre, ‘ «Dell’industria libraria in Italia», IV, IZ Crepuscolo, IX, n. 11, 14 marzo 1858, p. 65
* LU. Tarchetti, Tutte Ze opere, a cura di E. Ghidetti, 2 voll., Bologna, Cappelli, 1967; vol. 11; p..922:
“0loi? pi5332:
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non necessariamente le dimensioni industriali del consumo degradano
la qualità del prodotto: questo almeno sembra pensare Tarchetti quando esalta l’esempio francese, «quei mille capolavori che, con una fecondità prodigiosa, ha creato da pochi anni in qua quella nazione»”. Come le citazioni tenchiane, il testo di Tarchetti può aiutarci a inquadrare la figura di Nievo scrittore. Viene anzi da chiedersi, guardando alle cronologie e alle sintonie della sua stagione di formazione, se ambientarla storicamente ai primordi della «scapigliatura» non possa giovaré a comprenderla meglio della più tradizionale collocazione manualistica, tra gli emuli manzoniani e tra gli epigoni secondoromantici del romanzo storico. Nievo scrisse molto, per esempio, su riviste, e su riviste di un tipo particolare, caratterizzate da un facile, quasi popolare umorismo, ma anche vagamente anticonformiste. Ora, questa dimensione giornalistica ‘minore’, d’intrattenimento oltre che d’opinione, sarà
particolarmente familiare alla generazione scapigliata. Nel Purgolo, prima dell’unificazione italiana, pubblicava Nievo, pubblicava l’Arrighi;
dopo l’unità vi avrebbero pubblicato Praga, Tarchetti e altri. Voglio dire che è già di Nievo quella peculiare dimestichezza coi risvolti commerciali del mestiere letterario, che gli scapigliati sperimenteranno a fondo dopo il ’60, traendone però ragioni di sconforto e dissidi interiori che Nievo non conobbe, o conobbe solo minimamente. È indicativo intanto
che nell’epistolario lo scrittore ci si mostri assai più spesso occupato in problemi quali copie invendute o scadenze editoriali, che a definire i connotati etici e tecnico-formali del proprio fare letteratura. È indicativo altresì che Nievo delinei in un articolo di giornale il tipo del poligrafo che baratta «l’arte per la svanzica, la penna per la pistola, la biografia per il pranzo, la necrologia per la cena, l’appendice teatrale pe’ minuti piaceri della settimana», e in un altro articolo voglia riferire a se stesso questo cliché del cottimista della penna, costretto a «empire una colonna» di «chiacchiere», del «più puro ed inacquato sangue di giornalista umoristico», ed esclamante, quando la colonna è finalmente completa:
i
i Ipi, p.1534; 3 «Ciancie letterarie. Romanzi
e drammi»
(da I/ Pungolo,
confessioni d’un Italiano. Scritti vari, cit., p. 801.
3 gennaio
1858) in Le
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
«Ah che mai veggo?... la colonna è piena! / È piena, è piena, è piena!... e
io vado a cena!»”. Ma soprattutto mi sembra indicativa di questa confidenza di Nievo con la dimensione del mercato la versatilità dello scrittore, che è proprio agli antipodi dello scrupoloso artefice solitario di cui parla Cattaneo nella recensione di Fede e bellezza. Il letterato di Cattaneo impiega anche dieci anni omerici e maniacali a creare lo stile di un libro, mentre
Nievo in un solo decennio pensò e scrisse quasi tutta la vasta e varia mole della sua produzione: romanzi, racconti, drammi, poesie, scritti
saggistici e articoli sui giornali, senza contare quanto lasciò incompiuto. Fu tralasciata la cura dei dettagli, molti vi è nei testi di incondito o approssimativo; Nievo non fece mai dell’originalità un mito categorico, coltivò solo larvatamente una personale questione della lingua, né frappose mai tra l'ideazione e la realizzazione una teoria, un metodo ponderato. Infine, non si preoccupò di dare ai propri testi quella tornita e indefettibile compiutezza che, come altri prima e dopo di lui presunsero, sola potesse orazianamente sfidare i secoli. È stata più volte citata dai critici una dichiarazione di Nievo in una lettera, che può veramente valere come manifesto del concetto empirico — e della pratica talora fluviale — della comunicazione letteraria cui egli aderì: «E voglio scrivere, scrivere, scrivere... finché altri avrà pazienza di leggere, ed al di là. Voglio scrivere in verso, in prosa, in tragico, in comico, in sublime, in burlesco, in inchiostro bleu ed in inchiostro nero, in carta reale e in carta lazzerona!»”. È il programma di una prosa impulsivamente speri-
mentale, diramata e varia, che effettivamente si concretò in esperienze presto esaurite e soppiantate da altre esperienze, senza troppi indugi,
rielaborazioni e riprese: come se la scrittura, proprio nei modi e nei tempi del suo esplicarsi, invocasse i cicli ravvicinati di un consumo rapido e disinvolto, qual era quello del pubblico ampio pel quale Nievo virtualmente lavorava. Con ciò non si vuol dire che Nievo fosse scrittore superficiale e disimpegnato: ché anzi nelle Confessioni e altrove egli si ” Cfr. «Empire una colonna» (da L'Uomo di Pietra, 21 agosto 1858) in Le confessioni d’un Italiano. Scritti vari, cit., pp., 889-890. °° I. Nievo, Lettere, a cura di M. Gorra, Milano, Mondadori, 1981, p. 264 (è la lettera ad Andrea Cassa del 7 febbraio 1854).
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dimostra assai ambizioso di fondamenti ideali, di valori da allegare alla propria opera. La sua attività letteraria, che non trascura mai le linee di forza di una pedagogia nazionale, che trasceglie temi e toni consentanei all’efficace trasmissione di messaggi e idee, spontaneamente si dispone secondo l'impostazione tenchiana del problema del rapporto tra scrittori e pubblico. Per Tenca, lo abbiamo detto, l'immissione della letteratura negli ampi mercati aperti dall’«industria» poteva essere condizione di popolarità, Qualora gli autori non avessero passivamente subito, ma invecé sapfentemente pilotato le moderne determinazioni dei del loro rapporto col pubblico, ne sarebbe riuscita non compromessa, e anzi potenziata, la missione letteraria: la quale restava, alla fine dei conti, quella di educare allettando. Ciò che differenzia profondamente Nievo dagli scrittori postunitari è che a lui parevano ancora — tenchianamente — risarcibili e non troppo problematici i nessi tra arte, mercato e missione ideale. Quest’unità entrerà in crisi nei decenni successivi, e se
nel 1869 Tarchetti porrà in alternativa il primo e il terzo termine («Triste la civiltà di quel paese, in cui la letteratura è un’arte e non una missione!»), nel 1883 Dossi apparirà già disposto a sacrificare mercato e missione all’arte, e a una lunga gloria aristocratica: «Il pùbblico di un letterato non è già quello dell’uomo polìtico e del canterino [...] pei quali è indispensàbile e folla e contemporaneità di fautori; [...] gliene bàstano pochi, uno anche, purchè sìano degni, a loro volta, di lode e purchè si
succèdano [...] fino al più lontano avvenire»” C’è un passo nieviano poco noto da cui risulta chiaro quale fosse invece la particolare (relativa) ‘felicità’ di questo scrittore. Nievo rivendica l’importanza delle «parole», i loro legami coi «fatti»: con le parole, si può anche fare la Storia: E propriamente il caso delle goccie d’acqua che si uniscono in corrente, precipitano in cascata, e mettono in giro la macina. L’ac-
* Così nella Prefazione in data 24 gennaio 1869 a Una nobile follia (2° ed. Treves). Cito da R. Bertacchini (a cura di), Documenti e prefazioni del romanzo italiano dell’Ottocento, Roma, Studium, 1969, p. 208.
? Così Dossi nel Margine critico preposto all'edizione del 1884 della Desinenza in A, romanzo uscito una prima volta nel 1878. Cito dall’ed. a cura di D. Isella, Torino,
Einaudi, 1981, p. 21.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
qua che muove non è un prodotto, siamo d’accordo; ma prodotto è la farina macinata da essa. Le parole del pari non saranno un fatto; ottimamente! Ma fatti sono gli effetti che se ne ottengono. Parlate adunque: piuttosto che far nulla, parlate molto e forte; ma parlate
utilmente!” Sembra eletta a teoria la ricca vena discorsiva e affabulatrice che si segmentò nei molti testi di Nievo. Questi nella pagina citata immagina che le parole formino una corrente d’acqua: «Ma tanta forza si spreca inutilmente nelle garrule vanità del pettegolezzo; bisogna deviarla, bisogna applicarla [...]». Se sviluppiamo il simbolismo nieviano più di quel che egli fece, possiamo immaginare che gli scrittori siano gli specialisti di questa «applicazione»; gli idraulici addetti a sospingere e diramare il flusso (in cui possono miscelarsi le finzioni seducenti della letteratura, con le lezioni della filosofia, col sale dell’intelligenza e l’oro delle idee) in tutte le zone della società leggente e ricettiva, sì da sensibilizzarla e smuoverla. Il pubblico, la società per cui gli scrittori operano è come un pesante mulino, una lenta ruota cui bisogna far affluire acque generose: perché, come diceva Cattaneo, «il mondo morale è una macchina male spalmata che si move con chiasso. E talora fa chiasso e non si move»”.
3.
Romanzi francesi e romanzi italiani: la crisi dei modelli
Si potrebbe agevolmente scrivere una storia abbastanza esauriente e ramificata del romanzo italiano dell'Ottocento, dal punto di vista delle posizioni successivamente assunte dagli autori rispetto al romanzo francese. Posizioni varie, ma quasi sempre ambigue — mimetiche e polemiche, antagonistiche e seguaci — che svelano un fondo di lunga durata, psicologico e culturale, in cui si ritrovavano insieme l'invidia della rigogliosa vegetazione narrativa d’oltralpe; il biasimo o almeno la cautela circa le tecniche (viste come artifici, con connotazione vagamente mora?° «Muore... e non muore» (da L'Uomo di pietra, 30 ottobre 1858) in Le confessioni
d’un Italiano. Scritti vari, cit., p. 904.
” Traggo l’aforisma da una nota del curatore in C. Cattaneo, Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, cit., vol. I, p. 393.
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le) necessarie a quel rigoglio; infine la volontà di dar luogo in Italia a un romanzo diverso, forte di superiori ragioni morali, o capace di maggiore verità, e così via. In un capitolo di questo saggio ipotetico Foscolo sarebbe colto nell’atto di opporre al «romanzesco incredibile» rousseauviano la «viva natura» del suo romanzo epistolare’; in un altro capitolo si direbbe dei Promessi sposi, macchina perfetta in cui tutto congiura, per vie dirette o ironiche, a costituire in favola perenne e perennemente esemplare gli eterni ingredienti di tutti i romanzi, per una volta sottratti all’uso artificialmente emozionante, falso ed effimero fattone da tanti scrittori francesi... Il capitolo dedicato ai rapporti tra i nostri romanzieri e i modelli d’oltralpe negli anni ’50 rinverrebbe, accanto alla perpetuazione della vecchia polemica, taluni sopravvenuti elementi di differenziazione e complicazione, dovuti tra l’altro al maturare, da Manzoni in avanti, di nuove condizioni oggettive in cui si svolgeva il lavoro letterario. Innanzitutto, come abbiamo già visto, nei discorsi di Tenca e altrove quella tra romanzi francesi e italiani non si configura soltanto come una competizione di principî, ma come concreta, drammatica gara commerciale, e ciò in relazione alla più risentita consapevolezza che molti scrittori e critici hanno dell’allargamento del pubblico elettivo di questo genere letterario. Ormai l’autore di romanzi sente di avere di fronte una poten-, ziale platea numerosa, dai contorni massicci, anche se sfuggono i volti che la compongono; un pubblico da valutare in termini di mercato, che ?* Le espressioni foscoliane sono nella Notizia bibliografica intorno alle «Ultime lettere di Jacopo Ortis», ora raccolta nell’ed. critica del romanzo a cura di G. Gambarin, Firenze, Le Monnier, 1955 (cfr. alle pp. 493 e 500). Offre suggestioni indirette circa le radici culturali, le ragioni genetiche dello pseudo-autobiografismo delle Confessioni d’un Italiano M. Palumbo, «Dal ‘diario’ al ‘‘libro’’: materiali autobiografici e costruzione letteraria nelle Ultizze lettere di Jacopo Ortis», in Quaderni di retorica e poetica, Il (1986),
n. 1, pp. 125-134. Cfr. anche le pagine dedicate a Foscolo da P. Fasano in L'utile e il bello, Napoli, Liguori, 1984. I rapporti tra Nievo e Foscolo andrebbero approfonditi. Se è stato spesso posto in rilievo il dato tematico dell’ammirazione temperata da riserve critiche che Nievo manifesta in qualche occasione nei confronti di Foscolo-uomo (di Foscolo-mito), se si sono evidenziati taluni foscolismi stilistici e retorici nieviani, resta
da chiedersi in che misura l’autobiografismo dell’ottuagenario sia anche una trasformazione di quello epistolare ortisiano, nell’ipotesi che entrambe le scritture in prima persona abbiano tentato di risolvere con l’istituzione di una soggettività ‘documentaria’ il tradizionale problema dell’oggettività, della verità romanzesca.
38.
Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
magari preferisce il fewi/letton ai classici del genere, e nel quale, come notano Rovani e Nievo, si annoverano non solo la signora e il ragazzo che va a scuola, ma anche i «giovani di studio» e la «serva» (e d’altra parte leggono di nascosto romanzi anche gli «uomini che si danno importanza»). Insomma un pubblico molto esteso e composito, che va allettato con scienza e mestiere, e che risulterà problematico ma vieppiù urgente, per lo scrittore che voglia tener fede alla tradizione impegnata del romanzo italiano, educare. Necessariamente ci si dovrà misurare con
ciò che questo pubblico esige: una scrittura facile e versatile, soluzioni narrative agilmente intercambiabili, che sazino la rinascente curiosità,
ma accoppiate a una certa riconoscibilità di schemi e situazioni, gradita ai nuovi lettori poco sofisticati e discriminanti. Risultare almeno compatibili rispetto alle aspettative ‘edonistiche’ di questo pubblico, e al contempo tener fede all’idea che la letteratura sia un alto magistero, educazione e illuminazione, può costituire un problema per gli scrittori dell’età nieviana; e un problema sarà a lungo, se nel 1888 De Marchi,
reduce dal successo del suo romanzo d’appendice I/ cappello del prete, sentirà ancora il bisogno di suggerire: «L’arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori»”. Ma un altro fatto nuovo è di fronte agli scrittori cronologicamente prossimi a Nievo. Se infatti il Manzoni dei Promessi sposi aveva come possibili modelli — e come impliciti punti di partenza polemici del proprio strenuo impegno alla verità — i romanzi settecenteschi e quelli di Walter Scott, dai Promessi sposi in avanti sempre più col procedere degli anni la letteratura francese ha saputo proporre esempi di romanzo capaci di accoppiare alle attrattive della popolarità una forza di penetrazione e rappresentazione del reale che non può lasciare indifferenti gli autori italiani. E vero che molti di essi tentano di imitare le formule narrative di un Balzac, di un Sue, perché sembrano agevole viatico a un ” Ho già menzionato la «serva» di Nievo e i «giovani di studio» rovaniani: è ancora Rovani, nel Preludio ai Cento anni (ed. cit., vol. I, p. 12) a nominare gli «uomini che si danno importanza». ‘° Così l’autore nell’Avvertenza premessa alla prima edizione in volume (Milano, 1888) del romanzo, già uscito a puntate nelle appendici de L'Italia di Milano, e quindi sul Corriere di Napoli. Cito da R. Bertacchini (a cura di), Documenti e prefazioni del romanzo italiano dell'Ottocento, cit., p. 284.
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ampio pubblico popolare, da sedurre e incatenare alla lettura‘. Ma anche la critica più avveduta ed eticamente orientata, anche gli autori più scrupolosamente memori del mandato civile interrogano le possibili valenze ideologiche ed educative dell’orientamento sociale e contemporaneo di quei romanzi; sebbene poi vengano poste molte e forti condizioni all'adozione dei modelli «realistici» d’oltralpe, e ad essi venga sovente adattatalavecchia protesta manzoniana contro le falsificazioni del romzanesque. E quel che fa per esempio, in un numero del Crepuscolo, il recensofe dei Nuovi misteri di Trieste ossia i Dieci Comandamenti: Il popolo lo si cerca, e dove? Nelle bettole, nelle carceri, nei ritrovi degli assassini, perché lo scrittore [...] ha bisogno dei contrasti, degli accidenti, delle violenze che gli prestino le scene facilmente pittoresche, e lo ajutino a commovere il lettore col volgare soccorso del terrore.
A questo crepuscolante il realismo sociale alla Sue, tanto congeniale ai «romanzieri mestieranti»’, ripugna soprattutto per il ritaglio tendenzioso, la subordinazione del «vero» ai fini interni, illusionistici ed emozionali, della letteratura. Una posizione analoga assumerà il recensore, in un numero dei primi anni ’60 del Politecnico, di alcuni romanzi italiani scritti da donne. Egli vanta che questi romanzi abbiano evitato gli «eccessi» di «quella scuola che i critici d’oltremonti chiamano la scuola del realismo» (lo «sfarzo di accessorj» di Balzac, il «manierato fare di Champfleury, il realista per progetto»...) e rivendica il valore di un’obiettività che non è garanzia di scientificità naturalistica, ma di purezza narrativa, di salute logica e morale, contrapposta, ai trucchi del rorzanesque: «L'autore non fa mai capolino nel libro; vi è come passivo; nessuno potrebbe appuntargli che siasi formato un piano o prefisso uno scopo al quale mostri di convergere i suoi sforzi» (e invece nei «più studiati capitoli» di molti romanzieri francesi, «nei colpi di
©! Un lungo elenco di Misteri italiani è messo a punto da S. Romagnoli in Manzoni e i suoi colleghi, Firenze, Sansoni, 1984, pp. 317-318.
«Nuovi misteri di Trieste, ossia iDieci Comandamenti, romanzo contemporaneo di Adalberto Thiergen», I Crepuscolo, V, n. 33, 13 agosto 1854, p. 527.
° Ibidem.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
scena di cui fanno più calcolo, spuntano fuori, come le due lunghe orecchie dalla pelle del leone, la vogliuzza di destare stupore e la smania di crearsi un successo»).
Sacrificare «l’effetto della catastrofe» allo
«sviluppo logico, necessario» del «risultato psicologico» sarà il verbo verghiano, circa vent'anni dopo”. Ma nelle due recensioni citate troviamo una prospettiva etica, e di giudizio sul mondo, assai diversa da quella della maggiore esperienza verista: Verga si sentirà ancorato all’imperativo dell’obiettività impersonale, anche a costo di scoprire il panorama desolante e cieco del determinismo sociale; viceversa allo scrittore del
Crepuscolo e a quello del Politecnico paiono effetto d'artificio, di sofisticazione commerciale le rappresentazioni drammatiche e traumatiche della vita contemporanea”. Il fatto è che negli anni di Nievo (e così sarà
“ «Sul romanzo delle donne contemporanee in Italia», I/ Politecnico, vol. XVIII, fasc. LXXXV (1863). Cito da C. Cattaneo, Scritti letterari, cit., vol. I, pp. 366-367. L’articolo
è stato attribuito a Cattaneo, ma al curatore dell’antologia da cui cito l’attribuzione pare dubbia. Distingueva tra la verità dei romanzi non immemori delle esigenze dell’ideale e le rappresentazioni tendenziose dei realisti francesi anche P. Lioy, «I romanzi contemporanei», I/ Politecnico, vol. XIII, fasc. LXXII (1862), pp. 253-278.
‘Così Verga nella lettera aperta a Salvatore Farina premessa alla novella L’amzante di Gramigna, raccolta nel 1880 in Vita dei campi. Cito da G. Verga, Vita dei campi, ed. critica a cura di C. Riccardi, Firenze, Le Monnier, 1987, p. 91. °° Come dimostra la recensione del Crepuscolo, ai critici italiani, almeno ai più avveduti, non poteva sfuggire quanto di epidermico, di puramente funzionale alla resa emotiva (e all’efficacia commerciale) del romanzo vi fosse nelle denunce sociali dei Mystères de Paris. Oltretutto le rivendicazioni di Sue, almeno nel suo libro più noto, non andavano oltre i limiti di un cauto riformismo. Ma nonostante la sostanza tutt'altro che rivoluzionaria, nonostante l’ottimismo mistificante e consolatorio che corregge l’analisi dei mali sociali, l’immagine del mondo popolare restituita dai Mystères fu oggetto di disapprovazione, di risentimento, in qualche caso di vera demonizzazione. È difficile dire in che misura i giudizi sul testo risentissero dell’alone mitico creato intorno ad esso dai fenomeni della sua straordinaria fortuna: certo mai prima d'allora s’era vista un’opera letteraria innescare una così formidabile adesione, catalizzare l’interesse dei lettori borghesi, ma anche le passioni di tanti diseredati. Giudicare Sue significava giudicare una civiltà nel suo complesso: la civiltà metropolitana e industriale che aveva reso possibile la bruciante diffusione di un culto letterario di massa; la stessa civiltà che aveva espresso ed esasperato i contrasti sociali rappresentati nel romanzo e aveva sospinto alle barricate del *48 non mai vedute rabbie proletarie. Sui diversi usi ideologici storicamente prodotti dai Mystères de Paris e sui nessi strutturali tra ideologia riformistica e narrativa popolare, cfr. U. Eco, «Eugène Sue: il socialismo e la consolazione», in I/ superuomo di massa, Milano, Bompiani, 1978, pp. 27-67.
Induzioni circa la poetica nieviana
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ancora a lungo) domina nel criterio di narratori e critici «il concetto
onnicomprensivo ed equilibrante di ‘verità’, piuttosto che quello (senti-
to come estremista perché parziale) di ‘realtà’»” . Nella prospettiva
tenchiana, più in particolare, veridico è il romanzo chiaroveggente, capace
di recepire dietro le inerti parvenze e rispecchiare fedelmente l’animazione «ideale» della storia e della società. Si legga questa interrogazione retorica, così chiara nel definire la differenza tra il realismo tenchiano e
quello (qui definito «naturalismo») di matrice francese: «Or questo vero che èla corrispondenza dei due termini dell’essere, la realtà cioè resa più conforme all'idea, può esso andar confuso colla realtà sola, che è lo
scopo dei seguaci del naturalismo nell’arte?»®. Anche Nievo recepì la particolare fede tenchiana nel «vero» — il «reale» illuminato dall’«ideale» — e anch'egli almeno una volta (come le donne scrittrici nel giudizio del Politecnico) ritenne di potersi limitare al ruolo di mediatore coscienzioso: la vita, sollecitata dal calore calibrato di
uno sguardo pietosamente intento al senso e al valore dei suoi semplici oggetti, avrebbe saputo esprimere da sola un suo nòcciolo d’ideale, una sua «verità» edificante, anche senza l’intervento architettonico della
mano dell’artista, prodigata a ritagliare, combinare, allineare, nell’abile congegno di una favola emozionante, i ‘pezzi’ della realtà. Nel 1854 il nostro autore scrive un breve racconto, Ur capitolo di
‘ R. Bigazzi, I colori del vero, Pisa, Nistri-Lischi, 1978? (1° ed. 1969), p. 21. * «Recenti poesie italiane. Perez», I/ Crepuscolo, VI, n. 23, 10 giugno 1855. Cito da C. Tenca, Saggi critici, cit., pp. 237-238. Come nota Berardi nell’Introduzione all’antologia tenchiana (cfr. p. LXX) sta con pieno diritto di cittadinanza nello scritto su Perez la menzione esplicita dell’Estetica di Hegel (cfr. p. 238). Non si potrà infatti negare che la definizione del «vero» formulata da Tenca risenta di asserti come questo: «l’idea come bello artistico, non è l’idea come tale, quale cioè una logica metafisica deve concepirla come l’assoluto, ma l’idea in quanto si è foggiata a realtà ed è entrata con questa realtà in unità immediatamente corrispondente» (G.W.F. Hegel, Estetica, trad. di N. Merker e N. Vaccaro, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 100). Quale fosse poi la genìa di scrittori a cui Tenca pensava pronunciandosi negativamente sul «naturalismo», è comprovato dall’uso del termine, già nel 1850, a proposito di Balzac, al quale il critico riconosceva una spiccata attitudine alla descrizione anatomizzante degli «aspetti esterni» delle «anomalie sociali», e di conseguenza il dubbio privilegio di aver introdotto il «naturalismo pittorico nel romanzo» («Onorato Balzac», Il Crepuscolo, I, n. 30, 1 settembre 1850, p. 117).
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
storia”, in cui appare deciso a rinunciare alla seppur minima complica-
zione d’intreccio, per limitarsi al resoconto di un «caso semplice e vero» che a suo dire gli è capitato: l’incontro presso un’affittacamere con un vecchio che è venuto a Venezia per cercarvi il figlio, e invece viene a sapere della sua morte recente. Pochi cenni autobiografici alle circostanze in cui è avvenuto l’incontro e zone di commento all’inizio e alla fine del racconto racchiudono l’episodio, che è sceneggiato mimeticamente, e non è seguito o preceduto da prolungamenti diegetici che presupporrebbero nel narratore un’onniscienza romanzesca.
La commozione, la
scintilla edificante dovrebbe venire al lettore dai nudi fatti della scena dell’incontro, che Nievo descrive nella rigorosa «focalizzazione interna» del personaggio-osservatore, raccontando solo ciò che avrebbe potuto vedere chi fosse stato presente all’avvenimento, e facendo scaturire soltanto dalla dovizia dei dettagli fisiognomici le emozioni e le psicolo-
gie”. Quasi una minuscola, patetica trarche de vie, in cui l’arte asseconda discretamente l’effetto della vita, come Nievo promette all’inizio del piccolo testo, contrapponendo le «storie genuine e commoventi» al tipo del «romanzetto incartocciato d’intrighi» e la propria scelta narrativa a quella del «novellatore» che dà «nel barocco» e abusa di «quelle tinte azzurrognole e quei riflessi di luna che guastano così miseramente molte delle buone tavolozze d’oggidì». Insomma negli anni nieviani si sogguarda all’efficacia dei realisti d'oltralpe, ma remore vecchie e nuove rendono problematica l'adozione di quel metodo, di quelle tecniche; mentre vanno emergendo le dubbiosità insieme terminologiche, teoriche e ideologiche (dov'è il realismo e
dov'è il materialismo? in quali spazi e spessori della letteratura espandere, racchiudere o innervare il momento «ideale»? come conciliare critica
e documento?) che dopo l’unità saranno al centro di più specifiche ‘Fu pubblicato nell’ Alchimista friulano di Udine, il 20 agosto 1854. Lo leggo in I. Nievo, Romanzi, Racconti e novelle, a cura di F. Portinari, Milano, Mursia, 1967, alle pp. 595-598. °° Il termine tecnico di «focalizzazione interna» è di G. Genette (in Figures III, Paris, 1972; trad. it. Torino, Einaudi, 1976, cfr. pp. 237-242) che definirebbe inoltre «omodiegetico» (cfr. pp. 292-293) il narratore del racconto nieviano, presente come testimone ai fatti narrati.
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inchieste e in alcuni, primo in De Sanctis, vorranno una risposta filosofi-
camente aggiornata e tendenzialmente sistematica”. Quello in cui Nievo visse e operò fu davvero un periodo di forte crisi dei modelli di romanzo. L’altra via che si poteva percorrere, e che fino ai suoi giorni aveva offerto garanzie di successo e salvacondotti a buon mercato alla coscienza deontologica degli scrittori, era quella del romanzo storico. Ma negli anni ’50, anche a causa della sconfessione manzoniana dei componimenti misti di storia e d’invenzione, neppure questa ipotesi appariva più praticabile senza problemi agli autori più coscienziosi e avvertiti. In uno degli interventi «Del romanzo in Italia» apparsi nel 1853 sulle pagine del Crepuscolo, l’autore (che la critica identifica con Tenca o con Giacomo Battaglia)” denuncia il degrado dell'impegno manzoniano nella pratica corriva degli epigoni, che ormai imbastiscono a bizzeffe romanzi stotici con lo stesso sistema — l’infinita combinatoria degli uguali ingredienti cari al pubblico — che in Francia rende possibile il dilagare del «romanzo di moderni costumi»: E, come in Francia con qualche dozzina di personaggi, con qualche dozzina d’incidenti drammatici rimestati, avvoltolati, ordinati in cento maniere si costruiscono centinaja di romanzi, che tutti pretendono essere il ritratto fedele dell’odierna vita sociale, [...] così in Italia non è raro il caso che lo scrittore [...] aggrumolando insieme
qualche spicchio di sentimentalismo alla Grossi, di materialismo all’Azeglio, di pittoresco alla Walter Scott, e sovrapponendo al tutto qualche bastardo intonaco di manzoniana semplicità, ne componga un libro, sul cui frontespizio scrive arditamente: romanzo storico”.
Invero non era una novità degli anni nieviani che si componessero romanzi storici assemblando moduli prefabbricati, alternando o associando un certo numero di possibilità date, sentite come legittime per lo "" Ancora fondamentale, per una visione complessiva della questione del realismo nel secondo Ottocento italiano, R. Bigazzi, I colori del vero, cit. ?? Per il dibattito critico circa questa attribuzione, cfr. la Nota ai testi di G. Berardi in C. Tenca, Saggi critici, cit., pp. CKXXIV-CXXXVII. Il saggio «Del romanzo in Italia» fu pubblicato in cinque puntate nei nn. 33, 34, 35, 41, 42 della rivista, il 14, 21 e 28 agosto, il 9 e il 16 ottobre 1853. ? «Del romanzo in Italia», III, I/ Crepuscolo, IV, n. 35, 28 agosto 1853, p. 558.
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sperimentato gradimento del pubblico, più che per la loro conformità a un'etica del vero storico. La standardizzazione del gezere era stata anzi tanto precoce, che ai tempi di Nievo il rilievo di questo fenomeno era già un topos della critica”. Ciò non toglie l’interesse, la specificità della posizione crepuscolante riguardo alla codificazione del romanzo storico. Querele come quella succitata erano infatti frequenti nelle pagine del Crepuscolo, e si appuntavano contro una supposta degenerazione delle scritture romanzesche, fossero storiche o contemporanee. Si accusavano gli autori di aver tralasciato gli imperativi della testimonianza veridica e ideale, per accondiscendere a una fruizione puramente ‘gastronomica’ del bene letterario, e le rampogne erano inserite in un ampio disegno, prospettico e militante, di rifondazione e di sviluppo. Era argomento ricorrente di Tenca che l’etica del vero, sospingitrice della rivoluzione romantica, avesse lasciato il posto a una nuova ‘maniera’, non meno
perniciosa al senso morale e al senso comune del classicismo pedante. Il critico insisteva nel Crepuscolo, come già nella Rivista Europea, sulla
necessità di tornare a occuparsi del fondamento della funzione letteraria. Insomma, come ribadisce chi scrive sul romanzo in Italia, l’arte ron è fatta per dilettare; e invece «il romanticismo dalle sfrenatezze della
vittoria trovossi risospinto a quella stessa formula, contro la quale dapprincipio era insorto»”.
Nel saggio è espressa un’altra idea forte, che conta rilevare: la degenerazione della romanzeria post-manzoniana ha avuto del fatale; i Promessi sposi hanno espresso in sommo grado, ma anche esaurito le potenzialità dell’esperienza romantica. Se l’«ideale della fede» fu il modo specifico, appropriato a una fase determinata dell’evoluzione culturale, in cui Manzoni poté inaugurare in Italia una «nuova letteratura», tesa allo «studio del popolo e della sua vita», gli imitatori, appartenenti a
una generazione diversa e più incredula, sono stati indotti dall’«audacia
" Un momento piuttosto noto di questo filone critico è N. Tommaseo, «I prigionieri di Pizzighettone. Romanzo storico del secolo XVI», in Antologia, marzo 1830, pp. 98-109. La recensione è stata recentemente analizzata da S. Romagnoli in Manzoni e i suoi colleghi, cit., pp. 187-195. ” «Del romanzo in Italia», III, cit., p. 598. " «Del romanzo in Italia», IV, IZ Crepuscolo, IV, n. 41, 9 ottobre 1853, p. 654.
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intellettuale dei tempi» a ridurre la sostanza religiosa dei Prorzessi sposi a «suppellettile storica», a «tinta locale», hanno scompaginato l’organismo etico del capolavoro manzoniano senza però saper trovare «un nuovo principio che ristabilisse la coesione fra i disgregati elementi»”. Perché s’instauri l’organicità di una nuova scienza letteraria, bisognerà superare Manzoni: è ora che si calchino vie nuove, onde restituire verità, eticità,
dignità di missione alla scrittura romanzesca. Che 9 suoi giorni scarseggino modelli praticabili per il romanziere, e che l'egida dei Promessi sposi non basti più, è opinione suggerita anche da Nievo, dalle pagine del Purgolo, nel gennaio ’58 (possiamo immaginare quante domande, quanti spunti di riflessione provocasse la stesura delle Confessioni, da poco avviata). Mentre ammette che la letteratura del suo tempo è governata «da un potere uz0 e indivisibile, rappresentato da Alessandro Manzoni, felicemente regnante per diritto del suo ingegno, da cui emanano le leggi del buon gusto», Nievo lamenta che il grande padre, dopo aver misconosciuto la prole col suo discorso De/ romanzo storico, non abbia almeno «pensato alla successione, e provveduto agli interessi dinastici della sua schiatta!»”*. Forse Manzoni avrebbe dovuto autorizzare l’interpretazione del suo libro, che effettivamente fu avanzata da molti, come romanzo, dietro e dentro l’apparato storico, sociale e di costume? Da un’interpretazione del genere poteva dedursi l’estensione del manzonismo a materiali contemporanei: ciò che con altri fece anche Nievo. Comunque, non sono lontani i tempi in cui le colpe dei figli ricadranno sul genitore, in cui la goffaggine degli epigoni offuscherà la memoria del padre fondatore. Presto Tarchetti ridurrà fortemente il valore dei Prorzessi sposi rispetto ai capolavori del romanzo europeo”;
e forse già adesso, vivente Nievo, Manzoni
comincia
ad
essere quel gigante imbarazzante ed esoso con cui gli scapigliati intratterranno rapporti ora polemici, ora di ammirata dipendenza. Pensiamo © «Del romanzo in Italia», III, cit., p. 555. 78 Si tratta del già menzionato «Ciancie letterarie. Romanzi e drammi». Cito da Le confessioni d’un Italiano. Scritti vari, cit., pp. 799-800. ? «Non vi ha luogo a dubitare che i Prorzessi sposi sieno finora il migliore romanzo italiano, ma non occorre dimostrare come esso non sia che un mediocre romanzo in confronto dei capolavori delle altre nazioni» (I.U. Tarchetti, Idee minime sul romanzo, in Tutte le opere, cit., vol. II, p. 528).
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all’uso nieviano della materia dei Prozzessi sposi, spesso presa a modello e fatta oggetto di apologia, ma spesso anche deformata e risemantizzata. Se prolunghiamo la linea che va dal capolavoro manzoniano al Conte Pecoraio (qui, intanto, il personaggio della buona contadina ha accettato le attenzioni del signorotto malvagio) incontriamo a un certo punto, nelle Merzorie del presbiterio di Praga, le sventure del Beppe e della Gina, versione disperata e antiprovvidenziale della storia di Renzo e Lucia.
Certo è che dopo i Promessi sposi scrivere romanzi storici si è fatto insieme molto facile e molto difficile: facile la ‘maniera’ imitativa; diffi-
cile, arduo per l'altezza del termine 4 quo il superamento, la fedeltà nell’innovazione.
Dal conformismo cinico, dall’uso frettolosamente
commerciale della penna, dal bricolage approssimativo dei modelli (Manzoni, ma anche Scott e altri), qualora lo scrittore non obliasse completamente la propria coscienza critica, potevano nascere singolari creature: come quel tenchiano La Ca’ dei cani, del 1840, strano romanzo storico
per il quale è difficile dire dove termini l'emulazione goffa, involontariamente deformante e paradossale, tipica dell’epigonismo pedestre, e dove
incominci l’intenzionale parodia”. Se negli anni ’40 scrivere romanzi storici cominciava a comportare
dei problemi, nel decennio successivo il gusto di molti scrittori e lettori volge decisamente altrove. Quasi contemporaneamente Nievo e Rovani (il primo scrivendo tra il ’57 e il 58 Le confessioni d’un Italiano, il secondo iniziando a pubblicare i Cento anni nell'aprile del 1857 sulla Gazzetta Ufficiale di Milano") si provano in romanzi storici che sono già quasi «romanzi della vita contemporanea» (secondo la definizione d’epoca) per la selezione cronologica e tematica: vi si tratta il passato attiguo al presente; vi si offrono, nell’escavazione retrospettiva, le radici del-
l’oggi. Sarebbe sbagliato però, almeno per Nievo, giudicare quest’aper‘Cfr. M. Colummi Camerino, Prefazione a C. Tenca, La Ca’ dei cani, Napoli, Guida, 1985.
"" Mail progetto era stato già annunciato il 31 dicembre 1856, quando nella Gazzetta, come ho già notato, Rovani pubblicò la Sinfonia del romanzo. Tra coloro che hanno segnalato l'eventualità di un’influenza del romanzo rovaniano sul Nievo delle Confessioni, ricordo solo G. Baldi, Giuseppe Rovani e il problema del romanzo nell'Ottocento, Firenze, Olschki, 1967, pp. 74-75.
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tura alla contemporaneità solo come l’effetto di un volgere di mode (stanchezza della romanzeria storica tradizionale, accoglimento di prospettive ‘francesi’...). Spinge in questa direzione anche la temperie culturale e ideologico-politica del decennio di preparazione, l’ansia di futuro che sollecita molti intellettuali del periodo a interrogare e sublimare il presente. Nelle pagine dedicate dal Crepuscolo al romanzo in Italia, il passaggio dal romanzo storico al «romanzo della vita contemporanea» è interpretfto cdÎmemomento necessario di una ratio progressiva, di un proces-
so quasi hegelianamente fatale di autocoscienza collettiva. Si dice che il vero storico («positivo e reale») è stato una sorta di apprendistato,
un’iniziazione al vero «possibile» e ideale, cioè al vero assoluto della storia-filosofia, irriducibile all’esteriorità dei meri fatti e garante di progresso. Il pubblico-popolo dei lettori di romanzi («un pubblico nuovo, illetterato, ignaro di retori e di accademie») è stato abilitato dalla rappresentazione esterna del passato all’intelligenza interna del presenLe:
Il romanzo, come ogni altra forma dell’arte, ha bisogno di far credere alle cose narrate: e qual mezzo migliore che narrar cose note, cose aventi il suggello della storia? [...] Quanto più il romanzo progrediva, e rendevasi famigliare ai lettori, [...] tanto più i lettori divenivano atti ad intendere e gustare il vero possibile, senza esigere il vero positivo e reale, in cui s’acqueta ogni dubbio. [...] Ora una tale tendenza traeva necessariamente il romanzo ad uscire dalla storia per entrare nella vita contemporanea”. * «Del romanzo in Italia», V, I/ Crepuscolo, IV, n. 42, 16 ottobre 1853, p. 667.
® «Del romanzo in Italia», V, cit., pp. 668-669. Il «vero possibile» di cui si parla nel saggio del Crepuscolo va inteso, rosminianamente, in senso ontologico e non meramente logico: «L'essenza dell’ente fu da noi chiamata essere ideale: le sue realizzazioni enti reali. Se l’ente si considera in relazione alle possibili sue realizzazioni, chiamasi anche ente possibile. La parola possibile non si applica all’ente come una sua propria qualità, ma unicamente per esprimere che egli può essere realizzato. Il che è da osservare attentamente, acciochè forse non si creda che l’essenza dell’ente sia ella stessa una mera possibilità e nulla più. No: ella è una vera essenza, non è una possibilità di essenza; ma questa essenza può essere realizzata; se non è realizzata, è possibile la sua realizzazione: ecco ciò che significa ente possibile» (A. Rosmini, Sisterza filosofico, seconda ed. torinese sopra la correttissima fatta a Lucca il 1853, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 1911, p. 25).
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sposi covavano la specie più alta del «romanzo conGià i Promessi ARR PSE Ò 84 è» È temporaneo», cioè il «romanzo civile e sociale»: il quale però — allude il teorico crepuscolante — dovrebbe dar voce in Italia piuttosto alle Le categorie di «vero positivo» e «vero possibile» erano già state adoperate da Tenca a difesa della legittimità del romanzo storico, e quindi in funzione antimanzoniana, nel saggio «Del romanzo storico. Discorso inedito di Alessandro Manzoni», I/ Crepuscolo, I, nn. 40 e 41, 10 e 17 novembre 1850 (ora in Saggi critici, cit., pp. 87-97): «Chi dice invenzione, accenna la suprema facoltà dell’artista a trovare, a svolgere, ad ordinare i fatti in quel modo che meglio risponde all’ideale di vita da lui concepito. Il vero storico non differisce per lui dal vero possibile se non in quanto è un momento già realizzato della vita, non però diverso di sembianza o di carattere, e collegato pur sempre alla catena infinita dell’esistenza» (Saggi critici, pp. 89-90); «Perché l’invenzione, la forza creatrice del poeta debba far divorzio continuamente colla realtà positiva, bisognerebbe credere che i fatti, realizzandosi, perdono la loro natura ideale, quel carattere che li
rannoda a un modo di esistenza più elevato e più generale dell’umanità. Ma il vero, perciò che si realizza e dal possibile si traduce in atto, non cessa d’avere le medesime condizioni, non cessa d’essere la medesima sostanza di vero» (ivî, p. 91). In «Del romanzo in Italia», II (Il Crepuscolo, IV, n. 34, 21 agosto 1853) sembra che il «vero possibile» abbia a che fare con una Necessità logico-progressiva: poiché esiste e vale la «filosofia della storia», «la legge direttiva dei popoli, per la quale ogni epoca è una fase dell’eterno sviluppo umanitario, e come tale ha indole, costumanze e caratteristiche sue proprie», allora «a queste ultime dovrà il romanziero conformare le proprie invenzioni», cosicché esse possano «essere scambiate colla storia, poiché ne ritrarranno lo spirito,
se non la pretta realtà» (p. 537). E chiara l'origine di queste idee da un vulgato hegelismo. L. Jannuzzi, pur comprovando un’informazione dei crepuscolanti circa la filosofia tedesca più congrua di quanto si sia in genere creduto, ha ammesso che essi condivisero la generale situazione della provincia lombarda, ove «l'ideologia oltremontana, penetrata [...] attraverso molteplici traduzioni ancora reperibili nelle biblioteche milanesi», si divulgò poi «soprattutto tramite conversazioni da salotto o da caffè» («I/ Crepuscolo e il Romanticismo tedesco», in AA.VV., Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, Roma, Bulzoni, 1976, vol. III, p. 416. Ma sull’argomento cfr. anche, della stessa studiosa, «I! Crepuscolo» e la cultura lombarda, 1850-1859, Pisa, NistriLischi, 1966).
Trapiantato a Torino dagli esuli napoletani, negli anni ’50 l’hegelismo era già, è vero, «un fatto nazionale — come interpretazione della rivoluzione ‘‘nazionale’’ che s'andava compiendo [...] come teoria [...] della connotazione eminentemente politica che avrebbe
dovuto assumere il concetto di nazionalità»; ma questa concezione passò «attraverso la filosofia della storia dello Hegel nella sua ispirazione globale, questo grande veicolo di idee di liberalismo e di sovranità nazionale [...] nell'Europa dei movimenti di riscatto dei popoli oppressi [...] sulla via di nozioni e miti come quelli di spiriti dei popoli, epoche della We/tgeschichte, rivoluzioni, morti e resurrezioni politiche [...]. All’impresa della borghesia s’offriva la garanzia dello ‘‘spirito del mondo’’» (S. Landucci, «L’hegelismo in Italia nell’età del Risorgimento», in Studi storici, VI, 1965, n. 4, p. 616). “ Cfr. «Del romanzo in Italia», V, cit., p. 669.
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aspirazioni razionali che alla sete d’emancipazione della «classe più numerosa e più povera». I «mali», le «disarmonie» che attendono la denuncia dello scrittore italiano sono infatti diversi da quelli che hanno spinto al romanzo sociale Sue in Francia, Dickens in Inghilterra: Forse è vero che da noi la vita popolare non offre quell’incessante ripullular di miserie, che è proprio di quella d’altre contrade, ove ripercuote tutti gli urti e riurti delle gare industriali; [...] ma quanti altri problemi [...] oltre quello della graduata elevazione del popolo; quanti altri dolori da rilevare e descrivere; quante altre lotte [...]. Chè il romanzo sociale non deve darci soltanto pitture di vita popolare, [...] ma deve annotare e denunziare tutti i mali, tutte le disarmonie che travagliano la società, siano pure mali dello spirito, siano pure disarmonie che per nulla toccano alla classe più numerosa e più povera”. [S
È tempo che il «romanzo contemporaneo», culmine evolutivo della tradizione letteraria, trovi anche da noi compiuta realizzazione, emancipandosi dalle angustie confessionali della religiosità manzoniana e facendosi espressione di una grande fede laica e totalizzante, filosofica e progressiva: si vegga di quanta efficacia potrebbe essere un componimento, il quale, guardando al presente e non al passato, e studiando i mali sociali per denunziarli alla terra, e non già per raccomandarli come un'ottima spinta verso il cielo, si facesse veramente l’eco fedele di tutti i reclami, la dimostrazione effettiva e drammatica di tutti i
problemi, che tormentano questa nostra età, la quale ben più che a godersi il presente, sembra destinata a predisporre ed elaborare il futuro”.
Se il Nievo delle Confessioni, com'è probabile, conosceva queste pagine del Crepuscolo, nel suo laboratorio di scrittore-ideologo aveva a disposizione, insieme agli altri materiali e strumenti idonei a dar corpo al suo progetto letterario, l’utopia fervorosa e avvolgente di un romanzo veramente nazionale, capace di tradurre in letteratura il mito preunitario © «Del romanzo in Italia», IV, cit., p. 654. £ «Del romanzo in Italia», V, cit., p. 669.
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della «transizione».
Questo romanzo
avrebbe còlto sinteticamente e
riecheggiato partitamente i bisogni e i germi fecondi dell’oggi; avrebbe espresso la corrente ancora sotterranea delle idee, destinata a un’emersione luminosa; insomma avrebbe corrisposto al senso di un’epoca insieme terminale e aurorale, di stanchezza e di rilancio, ancora bisognosa di
smaltire i travagli del passato, eppure già gravida di futuro. Sarebbe certo azzardato porre in rapporto diretto l’utopia crepuscolante del romanzo contemporaneo e l’ambiziosità specifica delle Confessioni, pure comprovata dalla ponderosa anche se caotica ingegneria dell'impianto, e dalla profusione di materiali ideologici oltre che strettamente letterari. Non mancano però elementi per ipotizzare, più in generale, un’influenza su Nievo dell’interpretazione tenchiana della contemporaneità. L’ottuagenario nella cui voce si mimetizza lo scrittore è in linea con la fede tenchiana e crepuscolante — condivisa da tanti nel Lombardo-Veneto degli anni ’50: una fede congenere, oltretutto, aveva alitato, proprio all’inizio del decennio, nelle pagine rinomate del Rinzovamento — quando sente urgere nelle viscere del presente un’animazione ideale e progressiva, e prepararsi alla nazione un futuro migliore a dispetto delle contraddizioni e dell’opacità dell’oggi”’. Inoltre l’ottuage” Esemplifico trascegliendo un passo delle Confessioni in cui è particolarmente visibile l'influsso della retorica, oltre che dell’ideologia tenchiana. L’ ottuagenario dice del fervore d’idee e di speranze che intuisce intorno a sé mentre scrive l’autobiografia: «È un mondo nuovo affatto, un rimescolio di sentimenti di affetti inusitati che si agita sotto la vernice asino della moderna società; ci pèrdono forse la caricatura e il romanzo, ma ci guadagna la storia» (Le confessioni, a cura di M. Gorra, cit., cap. XXIII, p. 1070). Nel ’46 Tenca aveva scritto: «È difficile, sotto la uniformità idella vita attuale, esplorare le tendenze e le passioni della nostra società» («Delle condizioni dell’ odierna letteratura in Italia», in Saggi critici, cit., p. 286). Le coincidenze terminologiche sono evidenti, ed è anche notevole che Tenca, come fa Nievo molto ellitticamente nell’ultima
proposizione del passo citato, addebitasse alla difficile intelligenza delle segrete tensioni del presente la crisi in cui si dibatteva la letteratura, e in particolare il romanzo, in Italia; e vedesse come sintomo di non lontano risorgimento il «fervore di studi storici che sorge adesso in ogni punto d’Italia» (p. 288). Erano concetti e immagini frequenti nel Crepuscolo. Scriveva Tenca nel ’54 a proposito dei doveri e dei problemi dei «giovani verseggiatori»: «Essi hanno una società nuova da esplorare, un viluppo pressochè ignoto di relazioni, di circostanze, di vicende, di passioni, che si agita sotto i loro occhi per la prima volta [...]» («Di alcune recenti poesie italiane», I! Crepuscolo, V, n. 42, 15 ottobre 1854, p. 664). Nievo certamente lesse quest’intervento, in cui Tenca recensiva i suoi
Versi del ’54, esprimendo tra l’altro delle riserve circa alcune poesie del nostro scrittore,
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nario attribuisce alla propria autobiografia (proprio come Tenca alla buona letteratura) la facoltà e il fine profetico di rappresentare e chiarire quel moto alla coscienza dei lettori, e di incoraggiare questi ad assecondarlo”. Ma si consideri anche la particolare struttura delle Confessioni. La forma pseudo-autobiografica legittima l’indiscrezione del protagonista-narratore, che interrompe frequentemente il filo del racconto per commentare i suoi ricordi, per derivarne lezioni di condotta o idee, generali sul mondo: per esprimere insomma tutta una scienza della vita, autorevole perché acquisita in tanti anni e attraverso tante sofferenze, che talvolta ‘organizza’ porzioni notevoli del testo, fino ad aggregare veri microsaggi filosofici, o brevi prediche morali. La forma pseudo-autobiografica permette così a Nievo di sfruttare il racconto della vita del suo protagonista per dipanare e dibattere delle idee. Le zone saggistiche e predicatorie del romanzo sono necessarie, perché se il «vero storico e positivo» (il passato dell’ottuagenario) è suscettibile di
mimesi e diegesi, il vero ideale e «possibile» può essere piuttosto oggetto di critica e di teoria, magari di profezia. E infatti l’ottuagenario attinge per le vie del vaticinio e della filosofia al «vero ideale», cioè alla «vera storia» che egli presagisce nel futuro e intuisce germinalmente sepolta | nel presente: il tempo essenziale del più maturo progresso e della maggiore consapevolezza, che non si è ancora incarnato in povere parvenze
romanzabili, ma la cui luce già pone nella necessaria prospettiva di giudizio il presente e il passato: quello collettivo della storia nazionale, come quello della privata biografia. modello delle quali era Giusti: «Certo v’è di frequente esagerazione nel concetto delle poesie del Nievo, e la beffa e l’invettiva vi sono profuse più che non chieda l’importanza dei vizii sociali ch’ei ferisce. Ed è effetto anche questo di manierismo, che studia nel modello il nerbo della frase e del verso, più che non si curi dell’aspetto reale degli argomenti presi a trattare» (pp. 667-668). E azzardato pensare che l'impressione destata in Nievo da questa critica abbia spinto l’ottuagenario ad affiancare la «caricatura» al romanzo, come espressioni d’arte insufficienti a restituire tutta la complessità del presente?
* L’ottuagenario spera che meditando sui casi della sua vita «potranno alcuni giovani sbaldanzirsi dalle pericolose lusinghe, e taluni anche infervorarsi nell’opera lentamente ma durevolmente avviata, e molti poi fermare in non mutabili credenze quelle vaghe aspirazioni che fanno loro tentar cento vie prima di trovare quell’una che li conduca nella vera pratica del ministero civile» (Le confessioni, ed. cit., cap. I, p. 5).
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Se taluni aspetti formali e ideologici delle Confessioni sembrano studiati per rispondere a certe esigenze della cultura crepuscolante, risulta poi assai difficile comprimere in una casella tipologica precisa la morfologia del romanzo. Nievo volle trovare un punto d’incontro tra contemporaneità e storia, e gli insegnamenti manzoniani sono ben vivi nel testo: tuttavia le Confessioni non assomigliano affatto ai Promzessi sposi, né ad alcuno dei romanzi storici che Nievo poteva conoscere. Anche i modelli del realismo sociale francese sono lontanissimi dalle Confessioni, e queste hanno solo qualche punto di contatto coi testi autobiografici e pseudo-autobiografici che ia tradizione italiana ed europea metteva a disposizione. Mi sembra piuttosto che tutti questi modelli di narrativa, insieme ad altri ancora — dal romanzo «intimo» al racconto «rusticale» — siano dentro il testo nieviano; il quale incorpora altresì alcuni tipi non narrativi di discorso (una trattatistica filosofica, una critica storica, una psicologia ‘platonica’...). Nievo insomma fece confluire nella sua operazione generi letterari e tradizioni retoriche diverse, che disciolse o liberamente articolò, o ‘incastonò’ — quasi a formare sotto-testi dotati di una relativa autonomia — in una specie di supertesto aperto e polimorfo, la cui eterogeneità, la cui discontinuità è sommariamente ticucita dall'impianto autobiografico. La struttura poco gerarchica di questa autobiografia atipica ricorda anche — per la scioltezza digressiva, per le sottolineature della voce narrante, per l’arbitrarietà umorale dei tagli e delle accelerazioni, per il continuo recupero alla riflessione del racconto — la soggettività ‘anarchica’ delle scritture umoristiche: nei limiti, ovviamente, e con le specificazioni che dirò più avanti.
Capitolo secondo Verso le «Confessioni»: le istanze della «vita», del «vero», della «natura» nei primi romanzi pubblicati da Nievo
1.
Un tirocinio
Già nei due romanzi che pubblicò prima di scrivere le Confessioni (storico, ma ambientato nel passato recente Angelo di bontà; d’ambientazione contemporanea e contadina I/ Conte Pecoraio) si avverte che
Nievo è a disagio rispetto ai codici del genere «romanzo» più affermati ai suoi tempi, che questi codici gli vanno stretti e che, pur adoperandoli in mancanza d’altro, egli è confusamente alla ricerca di forme nuove, più rispondenti alla sua nozione d’impegno letterario, meglio capaci di convogliare le idee e i valori, il «vero» ideale e civile a cui sentiva chiamata la sua generazione. Il progresso dalla relativa (come vedremo) convenzionalità di questi testi alla novità delle Confessioni è forse paragonabile al percorso rovaniano descritto da Baldi: dai romanzi storici giovanili dello scrittore, in cui si esprimeva solo in parte e disorganicamente una certa qual insofferenza degli ingredienti tragici, dell’esotismo antiquario, del manierato sentimentalismo tradizionalmente allegati al genere «storico», al regime costante dell’ironia controromanzesca che vige nei Cento anni'. Anche a Nievo, alla sua maturazione della forma originale e ! Cfr. G. Baldi, Giuseppe Rovani e il problema del romanzo nell'Ottocento, cit., pp. 7-64.
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innovativa delle Confessioni, giovò probabilmente, tra gli altri fattori, l’aver attraversato forme più ‘normali’: una serie di scarti e anomalie chiarisce come questo attraversamento sia stato intimamente problema-
tico, ed abbia costituito in qualche misura per lo scrittore un iter sperimentale, utile alla sua evoluzione e individuazione tecnico-formale.
Le analisi successive tenteranno di cogliere in rilievo l’indole problematica di questi due romanzi nieviani, quale si riflette nelle scelte formali attuate dall’autore. Richiamo sin d’ora l’attenzione su certi aspetti dell’organizzazione narrativa, di cui la mia lettura dei testi terrà particolarmente conto. Sia Angelo di bontà che Il Conte Pecoraio prevedono almeno due Lettori Modello: il primo lettore (borghesepatriottico in Angelo di bontà, borghese ma anche ‘popolare’ nel Conte Pecoraio) è più ingenuo e meno specializzato, e possiede una competenza
intertestuale mediocre; il secondo lettore è più smaliziato e culturalmente vicino all’autore, è un lettore ‘letterato’ che condivide con Nievo certe riserve critiche, una distanza irridente nei confronti del romzanze-
sco banale, nonché talune preoccupazioni circa le funzioni civili, il dover essere della creazione letteraria. Conseguentemente, anche le strategie testuali che Nievo persegue sono di due tipi. A beneficio del primo lettore infatti vengono confezionate fabulae piuttosto convenzionali, con personaggi tipologicamente riconoscibili e ispirati a sistemi assiologici familiari (ambizioni fraudolente vs amor di patria; egoismo di cattivi padroni vs virtù contadine); intrecci rassicuranti il cui dinamismo ‘provvidenziale’ compiace le aspettative, insieme morali ed estetiche, di un pubblico non selezionato. Ci sono poi le strategie più occulte, che a beneficio del lettore smaliziato disturbano o ipercodificano i percorsi di senso più palesi, e rispetto ad essi stabiliscono una complicità ironica e metatestuale tra l’autore e questo secondo lettore. In Angelo di bontà, queste strategie secondarie sono volte a inquinare, a invalidare sottilmente il meccanismo narrativo che risponde alle aspettative del lettore ingenuo: in quest’opera di erosione precipitano formalmente le riserve nieviane circa gli artifici romanzeschi, sentiti come allontamento dalla vita e sofisticazio° Per il concetto di Lettore Modello, seguo U. Eco, Lector în fabula, Milano, Bompiateispoi DIRLO 79 App
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ne del «vero». Invece nel Conte Pecoraio il percorso di senso principale è apparentemente meno disturbato, ma in esso viene fatto scorrere un senso secondario, per così dire parassitario. C'è la lettera del testo, e c’è
la ‘morale’ evidente, l’elementare ideologia a uso del lettore ingenuo: Dio premia la virtù dei buoni contadini e punisce l'egoismo dei padroni viziosi. Ma il lettore ‘letterato’ è invitato a uno sfruttamento ideologico alternativo dei personaggi e dei loro ruoli attanziali: IZ Conte Pecoraio può ) forse essere interpretato come spuria allegoria, in cui sotto le vesti narrative si’significhi una concezione letteraria, si magnifichi l’utilità, come fattore di concordia sociale, dei libri fedeli al «vero» e ua
alla natura. Le inclinazioni del Nievo narratore rinvenibili in questi due romanzi — alla devianza ironica dalle convenzioni solidificate, e all’ispessimento simbolico, alla programmazione ideologica del testo — le riscontreremo anche nelle Confessioni.
2.
«Angelo di bontà»
Tra le macchine-romanzo nieviane, Angelo di bontà è certo la più ortodossa. Non mi pare giustificato il giudizio fortemente negativo che talvolta ne è stato dato”. È vero che ipersonaggi hanno del tipico, ma anche molti di quelli manzoniani nacquero da radici sfruttatissime: solo che Manzoni le rivitalizzò genialmente, mentre Nievo si limita a sfaccettare la psicologia e i comportamenti delle sue creature quel tanto che basta a farne qualcosa di più che meri fantocci funzionali. Si deve ammettere che il racconto tradisce l’artificio, è visibilmente predisposto al geometrico ingranarsi del conflitto tra i personaggi e allo sciogliersi di esso. Ma di norma ai romanzieri si chiedevano questi uffici, e Nievo almeno non vi assolve in maniera piatta e rassegnata; anzi, come vedre-
mo, introduce nel suo disegno alcuni importanti elementi di complica-
? Per esempio da F. Portinari, Ippolito Nievo. Stile e ideologia, Milano, Silva, 1969,
pp. 17-25 (ma anche nella Presentazione di Romanzi. Racconti e novelle, cit., pp. XVIIXXIII).
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
zione ironica e straniante. Si è detto anche che la tesi ideologica giustapposta sforza i profili dei personaggi e la credibilità delle situazioni; ma chi consideri l’intero arco della produzione nieviana vede come una certa interpretazione del recente passato e una certa pedagogia eticopolitica fossero per lo scrittore ragioni non contingenti, davvero fondanti, per il suo impegno letterario. Eppure, di questo romanzo onesto e tutto sommato efficace Nievo per primo, sebbene giunto tanto giovane al proprio esordio pubblico come romanziere, non pare fosse del tutto contento. Perché ci chiarisca e ci motivi questa insoddisfazione, leggiamo innanzitutto la prefazione apposta all'opera — terminata di scrivere nell’agosto 1855 — l’anno successivo, in occasione della pubblicazione in volume. L’autore dichiara che la sua è «storia vera da capo a fondo», da lui stesso udita da «uno de’ nostri nonni», il quale ne avrebbe avuto notizia
«da testimoni oculari»: e fin qui potrebbe trattarsi di formula rituale, autenticante — come prescritto dal gerere — il valore di verità di quanto si va a raccontare. Ma a ben guardare nella prefazione c’è dell’altro. La verità della storia sembra all’autore una valida scusa della «pochezza» dell’invenzione: Perciò non troverai in questo mio libro l’ordine perfetto ed ideale nel quale i sommi maestri sanno soli conservar belle di vita e di affetto le loro narrazioni, né ti abbarbaglierà lo sceneggiamento a guizzi ed a baleni di qualche mago parigino; ma verrò via, segnando, profilando, intagliando, colorando alla meglio dal reale figure e movenze, fortunato s’io possa far dire che la temperanza niuna cosa sconcia, e dà per avventura alcun merito perfino alla nullezza'.
Pare quasi che la verità dei fatti, dal punto di vista dell’efficacia dei romanzi, sia un difetto; che la realtà rilutti al congegno romanzesco, resistendo all’ordine ideale dei «sommi maestri» (anche di Manzoni?)
come alle astuzie registiche, all’abile mestiere dei «maghi parigini». Il narratore onesto, mediatore di voci veridiche, pare debba adottare l’abi-
‘ I. Nievo, Romanzi.
Racconti e novelle, a cura di F. Portinari, cit., p. 91. Citerò
sempre dal testo di Angelo di bontà contenuto in questa raccolta, facendo seguire alla citazione, tra parentesi, il numero del capitolo e della pagina.
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to minimale e temperante del riproduttore paziente e sagace, demiurgo prudente che profila sì, e colora, «figure e movenze», ma senza asservire le ragioni del «reale» a quelle della letteratura: istanza avvicinabile forse al disinteresse di Rovani per le «avventure saporitamente romanzesche», alla sua voglia di esercitare piuttosto, nello spazio testuale dei Cento anni, le sue doti di osservatore attento, analista metodico «della cosa
pubblica in tutte le sue ramificazioni».
Jn verità Angelo di bontà sfrutta le chances consuete del romzanzesco ben più di quel che la prefazione dica. Questa fu scritta dopo il romanzo e raccoglie — quasi a velare 4 posteriori il senso dell'operazione compiuta — un ideale di poetica cui solo assai parzialmente corrisponde il testo realizzato. Del resto Nievo aveva appena finito di ricopiare il manoscritto, che già se ne diceva insoddisfatto, nella lettera al Fusinato in cui avvertiva di aver sacrificato alcune sue «convinzioni in fatto d’arte alle debolezze del pubblico»°. In che cosa Nievo pensava di aver peccato, quale cedimento si rimproverava? A tentare una risposta può riuscire
utile una coincidenza terminologica: nella prefazione lo scrittore condanna lo «sceneggiamento a guizzi ed a baleni» dei maghi parigini, mentre nella lettera intuisce che le critiche dell’amico potrebbero riguardare lo «sceneggiare», anche se non appare disposto a far correzioni in tal senso («più tosto di ricopiarlo un’altra volta mi annegherei»). «Sceneggiare» è termine che si attaglia alla schietta indole drammatica (di commedia) del testo; ma Nievo può aver alluso, più in generale, a quella ‘zona’ tecnica (che con qualche approssimazione potremmo identificare con l’intreccio) in cui il mestiere consegnato ai facitori di romanzi da una lunga tradizione si esercitava nel sapido montaggio di scene e sommari, nella distribuzione di descrizioni, digressioni, sospensioni e catastrofi, nella tempestiva somministrazione del comico, del patetico, dell’eroico, dell’idillico e così via ... insomma, nell’oculata amministrazione di certe ‘carte’ che ogni romanzo astutamente costruito poteva giocare nei con-
? C. Dossi, Rovaniana, a cura di G. Nicodemi, 2 voll., Milano, Libreria Vinciana,
1946, Cento 6 I. agosto
vol. I, p. 227. Le espressioni di Rovani sono tratte da uno degli intermezzi dei anni: ne do qualche notizia alle pp. 117-119. Nievo, Lettere, a cura di M. Gorra, cit., p. 358 (la lettera porta la data del 29 1855).
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
fronti del lettore. Su questo piano poteva darsi la piena adesione al gusto stereotipato del grande pubblico, ai codici internazionali del romzanesque; l’artificio poteva riprodursi aproblematicamente come seconda natura; variare indefinitamente, ma sempre entro le compatibilità fissa-
te per la combinatoria modulare e astratta, la correaltà della convenzione. Ma accanto ai prodotti più piattamente conformi alla convenzione codificata, potevano occorrere, in altri, scarti e interferenze più o meno
significative, talora davvero qualificanti e capaci di stringere e individuare prospettive nuove: ciò che a Nievo accadrà soprattutto nelle Confessioni. Ora, è probabile che Nievo avvertisse come un rischio la ‘conformità’ di Angelo di bontà, la sua regolarità tipologica; tanto è vero che nel testo s’individuano gli anticorpi formali prodotti dall’autore per difendersi dalla normalità della convenzione, come se fosse una malattia.
L’autore poco sperimentale di questo libro annuncia il romanziere problematico delle Confessioni se non altro in una certa circospezione impiegata ad evitare (per quanto possibile entro un contesto di sostanziale accettazione delle regole del gerere) l’ottemperanza troppo meccanica alle aspettative del pubblico. Questa circospezione non si traduce semplicemente in puntiformi elementi di parodia e ironizzazione, ma in una più pervasiva strategia testuale. Chi ha distinto nel Nievo di Angelo di bontà una chiave comica di scrittura e una convenzione melo-tragica’ non ha rilevato quanto più importava, e cioè che lo scrittore utilizza complessivamente la prima come antidoto della seconda: non soltanto cioè nel senso dell’alternanza salutarmente moderatrice dei registri tonali, ma anche nel senso che questa opposizione è un dato fondamentale di struttura. Quello di Angelo di bontà è un testo ‘comico’ innanzitutto perché, con pochi aggiustamenti e sottrazioni, sarebbe agevole farne la partitura di un’amena commedia degli equivoci. La maggior parte dell’intrigo verosimile, e anche una parte notevole dell’informazione storiografica e della critica storica, nonché dei dettati ideologici nieviani, passano attraverso le numerose ed estese scene dialogate. Il palcoscenico del dramma è mobile ma non troppo: all’azione fa per lo più da sfondo Cfr. gli interventi critici di F. Portinari menzionati nella nota n. 3 di questo stesso capitolo. 7
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qualche sala di Palazzo Formiani, o altrimenti interni e paesaggi opachi e stilizzati, che non assurgono mai (tranne qualche veduta veneziana) a protagonisti del racconto. Ma non basta, perché lo statuto di commedia che caratterizza la forma del romanzo è replicato a livello tematico: vale a dire che il romanzo ‘inscatola’ una commedia virtuale, il cui argomento è la ‘commedia’ quotidianamente recitata nella vita da una generazione d’uomini dediti all’ipocrisia, che vivono in una città dove la finzione è regola e che anzi è costretta dal fato storico a una continua simulazione diplomatica ‘l’inquisitore Formiani dice di aver dedicato i suoi anni migliori al governo di Venezia «non a prolungarne la vita, [...] ma a celarne il putridume agli occhi delle altre nazioni», XI, 296). C’è di che
confondersi, e infatti l’autore approfitta con astuzia di questa possibilità: confonde, scambia o contamina i vari livelli di finzione, e a tratti ottiene l’effetto di destabilizzare, relativizzare il sistema di convenzioni su cui si reggevano i romanzi ‘regolari’.
Vediamo ora più partitamente come è denotata nel testo la commedia-tema, e come poi essa di continuo ‘sfuma’ nella commedia-forma. Alla Venezia di metà ’700 in cui è ambientato il romanzo si dice applicabile «l’apologo dal quale s’assomiglia il mondo ad un palco scenico» (I, 100). Degli svaghi di due giovani cameriere si legge che «Tutte le belle donne hanno il loro teatro, e [...] le due donzelle facevano le regine davanti al caffè del traghetto, tra una turba di barcaiuoli, di donnicciuole, di servidori, e sopratutto di barbieri» (III, 156). Dei partecipanti alla
congiura nobiliare, raccolti dopo l’arresto nelle prigioni della Serenissima, si dice che «parevano all’aspetto gente di qualche affare, ma le acconciature erano così buffe, e così stravolte le figure, che la sembrava
piuttosto scena grottesca di commedia che verissimo spettacolo di prigione» (IX, 260). La Venezia del romanzo è una realtà integralmente teatralizzata: tutti vi svolgono una parte, secondo un copione utilitario: la badessa delle Serafine, quando accarezza la Morosina per blandirne il potente protettore, cioè il vecchio inquisitore Formiani, utilizza «un certo miagolio tenuto in serbo da’ suoi polmoni per le commediole di sentimento» (III, 131); per sedurre la Morosina, Celio sfodera un suo
«armeggìo da secondo amoroso» (VII, 233). Vittima di queste simulazioni, esclusa dai codici che le governano, è l’innocentissima protagonista del romanzo, a cui infatti, quando la abbigliano e ingioiellano per af-
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
frontare la scena mondana di Venezia, pare tutto «sogno o commedia» (III, 153). Oltre a quelli che recitano un ruolo secondo l’occasione, ci
sono personaggi che, come le maschere della commedia dell’arte, non compaiono mai disgiunti dal proprio corredo tipizzante, di gags e costumi buffoneschi. Pensiamo ai lunghi arti inguainati di nero di Chirichillo, agli abiti sgargianti e alla cera d’ubriaco del nobiluomo Valiner, alle performances poetiche di don Gasparo, allo stropiccìo di mani che fa veci di risata per l’ubiquo e felino Bernardo. Ma a tutti i personaggi capita spesso di muoversi e posare come su un palco, come obbedendo a una regìa che prescriva di conformarsi a criteri di visibilità scenica: è uno dei modi in cui si attua la confusione tra la commedia-tema (le strategie ipocrite, i comportamenti manierati che dipendono dalla volontà dei personaggi) e la commedia-forma (strategia dell'autore). Pensiamo a certi ingressi, come questo di alcuni personaggi convocati al capezzale del Formiani morente. Dopo l’invito-annuncio della signora Cecilia, che crea un effetto di suspense, sembra di leggere una didascalia teatrale: — [...] Venite avanti, signori, venite pure! disse la signora Cecilia, facendosi verso la porta. A capo chino e più negro del solito, entrò allora nella stanza il nodaro, e dietro a lui il podestà sospeso sulla punta de’ piedi, cogli occhi sporgenti dalla testa mezzo pollice più del solito. Ultimo veniva Celio, il quale tutta la persona avea composta a calmo e rassegnato dolore (XI, 294).
Pensiamo altresì al concerto melodrammatico dei gesti di Celio e Morosina, nelle scene di effusione sentimentale. In una di esse vediamo per esempio «la Morosina addossata al muro, e come fuor di sé; Celio,
ritto dinanzi a lei, tra la pietà e lo sprezzo» (VII, 231). Proprio nelle scene d’amore lo sfumare dell’enfasi gestuale dei personaggi a livello tematico nella complessiva teatralità del testo a livello formale, il reciproco implicarsi della convenzionalità che irretisce i discorsi dei personaggi e delle convenzioni in virtù delle quali l’autore governa la rappresentazione, raggiungono al meglio il loro effetto: che è quello di proiettare la vicenda verosimile in una dimensione
stilizzata e artificiale,
donde l’autore ammicca al lettore non ingenuo, facendogli travedere i fili e gli ingranaggi della propria regìa, e in cui è sventato il pathos, sono ammortizzate ironicamente le insidie dell’eccesso romanzesco. Nievo
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temeva anche gli stereotipi dell’orroroso, e non trascura di ‘vaccinare’ il testo in tal senso”. Ma soprattutto le retoriche e i miti del nebuloso erotismo romantico gli sembravano rischiosi, come sa chi abbia letto l’Antiafrodisiaco per l'amor platonico”. Trascegliamo, lungo il filo narrativo della passione di Celio e Morosina, alcuni momenti particolarmente indicativi. Diciamo subito che i due si amano ciascuno secondo un proprio codice di comportamento: lui si candida a stabilire con la ragazza una relaZione’exttaconiugale, la qual cosa rientra nella norma del malcostume veneziano; ma Morosina, che intende l’amore solo nella prospettiva del santo matrimonio, consona alla sua straordinaria innocenza, non decodifica correttamente le smanie e le svenevolezze di Celio, non ne
coglie l’insincerità strutturale, che si rifà all’etichetta della buona società cittadina, fatua e gaudente. Dalla differenza dei codici, e dai frainten-
dimenti che ne nascono, trae movimento il racconto e possono generarsi effetti divertenti: si veda come, durante un giro in gondola, Morosina subisca tra smarrita e costernata il copione melodrammatico che Celio le propina per conquistarla'°. Il Formiani progetta di sposare la Morosina, sperando che diventi l’amante di Celio e gli dia un erede. Poco dopo il ‘matrimonio, Celio farà una comparsa vindice e spettrale, ad effetto: in un accettato contesto romantico, sarebbe per lo scrittore l'occasione pet esagitare forti tinte oratorie, languorose tempeste passionali. Ma l’episo-
dio è introdotto dal pronostico disincantato del Formiani, il quale conosce bene le attitudini di Celio alla simulazione melodrammatica, e col
* Come si vede nell’esito fuori tono, quasi comico, della scena di suspense in cui il Tramontino (tipico esponente della genìa dei briganti romantici, al quale la moglie è morta per colpa di un nobile prepotente) si manifesta al suo nemico, finalmente imprigionato per le sue malefatte, come la nèmesi che lo ha condotto a rovina. Dopo l'horror dell’agnizione («la maschera gli si staccava lentamente dal viso, [...] finché su quel fondo
di tenebre si distinse una livida sembianza tetra per barba lunghissima, e per un lugubre riso», IX, 257) l'episodio prosegue in stile teatrale, col Tramontino che fa l’istrione, e complimenta sardonicamente il conte muto e tremante, lo spoglia, lo veste di panni carcerari, lo nutre e gli mostra i locali della prigione, commentando ogni cosa come se si trattasse di delicate attenzioni per un ospite di riguardo. ? Di questo testo parlo più avanti, alle pp. 95-106. 1 Cftalkap) IMiepp:0163-167,
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
suo cinismo veneziano media l’ironizzazione nieviana di un abusato repertorio: — La cerimonia l’è dopodimani, [...] e sta pur quieto che la sera dopo vedremo capitare a passo d’ombra la pallida o infarinata figura del cavaliere!... Capperi, che colpo di scena! Parrà d’essere alla cena del don Giovanni!... (VI, 224).
Come previsto dal copione, la sera dopo il matrimonio Morosina sente improvvisamente afferratsi la mano: — Pagherai caro il tuo tradimento a me ed a Dio! mormorò cupamente una voce d’uomo curvato sopra di lei. Alzò gli occhi irrigidita dallo spavento, e [...] vide Celio, torvo negli occhi, pallidissimo nelle sembianze, barcollante nel camminare, allontanarsi lentamente stendendo minaccioso la mano verso di lei (VI, 224).
I due ci fanno assistere più avanti a un’altra scena forte: Celio recita la parte dell’eroe romantico, con cenni di alfierismo democratico-risorgimentale, e tanta è la foga che comincia a credere di essere il suo personaggio; Morosina al solito non finge ma, come l’amato, si adegua alle convenzioni da drammaturgia popolare che determinano la marcata gestualità, la vocalità esclamativa dell’episodio. Celio chiede a Morosina un giuramento, «rizzandosi impetuosamente, e stendendo inverso lei la destra»: — Lo giuro per l’anima di mia madre e per la mia! rispose la giovinetta impalmando quella mano. — Orsù dunque... se la è così... fuggiamo... [...] — Ma no! continuò egli mutando tenore di voce e togliendo la mano da quella della giovinetta per portatsela in sul cuore. — Omai qui son condannato, a stare... e a morire! (VII, 234).
Si arriva a un passo dall’adulterio, scongiurato dalla tempestiva entrata in scena di Chirichillo, «in atti e gesti d’esitazione d’ottimo stile drammatico» (VII, 236).
E necessario, perché il romanzo giunga a buon fine, che venga risolta la disparità tra i codici dei protagonisti. Ciò che infatti avviene quando Celio, come poi il Formiani, si converte alle fedi della Morosina.
Celio giura che non vedrà mai più l'amata; poi ci ripensa («Mail... e
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perché mai?», IX, 267) e dopo molto dibattere decide che un’ultima volta potrà ben vederla senza pregiudicare la sua conversione. Salta in
una gondola dopo aver rivolto all’ideale platea della commedia di cui è parte «uno sguardo tutto all’ingiro come volesse dire: Mi giudicherete all’ultimo!» (IX, 268). È l’ultima volta che Celio ci mostra la sua tendenza a vivere la vita come una commedia. Nella scena-madre che segue i due giovani fanno tremendamente sul serio. Celio, ormai tutto compreso inun goncetto etico dell’esistenza, non pensa più a sedurre la moglie del formiani: l’anima anzi è rigenerata e resa beata dal sacrificio dell’amor sensuale all’amor ‘platonico’. La virtù esalta Morosina fino al vaticinio politico e alla chiaroveggenza teologica. I due eroi sono sintonizzati con le speranze risorgimentali; le profezie, i santi imperativi, i trasu-
manamenti e le lacrime sono compaginati e sostenuti da una retorica elevata e a tratti altisonante, rispetto alla quale l’autore non pare avere riserve ironiche. Sennonché nel mezzo della scena Nievo fa cadere una similitudine, in cui compaiono «un pubblico zotico e profano, che sdegna le bellezze vive d’una commedia casalinga, e applaude frenetico al dramma mostruoso», e un «capocomico» costretto a «sopraccaricare» di «droghe» letterarie, «di fuochi del Bengala e di stilettate» le sue rappresentazioni (IX, 271). Il paragone è alquanto incongruo rispetto al suo scopo apparente, che è quello di circostanziare un discorso sulla virtù della moderazione; ma assai pertinente rispetto al suo scopo sottaciuto e reale, che è quello di nominare le défaillances cui gli autori sono costretti per compiacere al pubblico, così da giustificare indirettamente la piega che il romanzo va prendendo da questo punto in poi. Infatti il gioco illusionistico, disorientante e parodico del testo come teatro di una vita a sua volta intimamente ‘teatrale’ verrà appianato dal consueto meccanismo provvidenziale adoperato dai romanzieri, per cui quanto di disperso ed equivoco compare nella prima parte del romanzo congiura in ultimo al quadro fermo e senz’ombre del lieto fine edificante. Forse Nievo aveva letto nel Crepuscolo quella recensione in cui si dice: È facile vedere quanto sia falsa quest'arte che, volendo l’effetto ad ogni costo e, volendolo sicuro, fa del mondo un continuo contrasto di angioli e di demonii, ed ha bisogno di finire il quadro con una scena finale, dove, in mezzo al fuoco del Bengala, si veda il tiranno
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
punito e l'innocenza vendicata. Per buona ventura l’effetto non si produce mai fuori della verità, e nulla è più opposto alla verità della vita, che codesta simmetria materiale, a cui vogliono ridurla i romanzieri mestieranti!'.
Anche Rovani, nei Cento anni, scriverà: Noi siamo avversi a quella che [...] chiameremo morale di convenzione, [...] quella che fu convenuto di adottare nelle opere dell’arte, e per la quale i personaggi più o meno scellerati dovrebbero ricevere la loro conveniente punizione prima che cali il sipario o si chiuda il libro, affinché la lezione balzi di tratto dall'opera alla testa del lettore anche il più volgare e ottuso. Questa morale, o, diremo più giusto, questo modo di far uso della morale è spesso erroneo, perché se l’arte dee riflettere i fenomeni del mondo e della vita, sarebbe
costretta ad alterare la verità ogni qualvolta non trovasse che nella vita e nel mondo i galantuomini siano premiati e i perversi puniti”.
In entrambi i passi citati la «simmetria» dei romanzi viene opposta alla «verità» della «vita»: la particolare asimmetria delle Confessioni, quella tendenza che vi si rileva a lasciare inconclusi o irrisolti i destini dei personaggi, aperte e sfilacciate le trame dell’intreccio, nascerà proprio dal bisogno di conformare l’arte alla vita. Ma l’allusione ai «drammi mostruosi» e le operazioni di disturbo condotte ai danni dell’intreccio fanno ritenere che già quando scriveva Angelo di bontà Nievo fosse sensibile, coi più avvertiti interpreti del fenomeno letterario, non solo ai problemi posti dalla crisi del romanzo storico, ma soprattutto all’esigenza più complessiva si ripensare la forma-romanzo come funzione di realismo. Se a molti, come già si è detto, era ormai chiara l’obsolescenza dei
vecchi modelli, ben più difficile appariva l’elaborazione e la gestione di modelli nuovi. Pertanto è abbastanza ovvio che Nievo non giunga a tradurre le sue istanze di rinnovamento nella fondazione di ‘regole’ inedite, che permettano una diversa e migliore presa sulla «verità della vita». Piuttosto queste istanze si scaricano in Angelo di bontà (e il !" «Nuovi misteri di Trieste, ossia iDieci Comandamenti, romanzo contemporaneo di
Adalberto Thiergen», I/ Crepuscolo, V, n. 33, 13 agosto 1854, p. 527. “ G. Rovani, Cento anni, cit., vol. I, pp. 867-868.
Verso le «Confessioni»: le istanze della «vita», del «vero», della «natura»
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fenomeno è rilevabile anche nelle Confessioni e in altri testi nieviani)
nella manipolazione e nello svisamento delle regole consuete, nell’im-
broglio illusionistico delle carte in gioco, da cui sortisce, nei momenti
migliori, un paradossale effetto secondario di verità: l’indiretta rivendicazione di quanto la vita, dietro la maschera screditata della letteratura, ha di irriducibile e diverso.
3.
È oa i «Il Conte’ Pecoraio»
Alla lettura del Conte Pecoraio possono utilmente introdurci alcune considerazioni sulle ultime pagine di Angelo di bontà. I travagli di Celio e Morosina
si concludono
col matrimonio
canonico,
di cui l’autore
attenua la prevedibilità esplicitando la matrice manzoniana: «ed ecco qui uno sgraziato latrocinio all’ultima pagina dei Promessi Sposi, diranno i critici» (XI, 301). Questa pagina, in cui Renzo e Lucia, còlti nel lieto
consesso della prole, estraggono la morale delle loro avventure, è sì replicata da Nievo in una scenetta molto simile in cui compaiono coi loro figli Celio e Morosina, ma non a chiudere il libro, bensì soltanto il penultimo capitolo. L'ultimo è intitolato «Ogni fine è principio». L’autore esordisce osservando che, dopo aver visto attraverso «miserie e
timori» giungere a «stabile ventura» gli eroi dei romanzi, dispiacerebbe
«assistere al digradare della loro età», fino ai lutti, agli «acciacchi» e alle «senili paure», alla morte che tutto oblìa. Perciò «adopera saviamente quel novelliero» che alla fine del racconto «impianta i suoi personaggi al pranzo di nozze, dove la ridente fantasia del lettore li vede tuttora dimenar a quattro le mascelle e cioncar colla pevera» (XII, 302-303). E in fondo il tema già implicito nel racconto manzoniano degli anni coniugali dei suoi protagonisti: l’irriducibilità alla geometrica chiusura dei romanzi del continuum inafferrabile e accidentato della vita vera. Solo che l’ironia discreta di Manzoni è da Nievo elevata al quadrato: si disocculta così impudicamente la convenzionalità del lieto fine da screditarlo del tutto, e per di più il continuum vitale che l’autore insegue di là dall’epilogo simil-manzoniano del penultimo capitolo è quello, esilarante e surreale, degli ultimi anni di Chirichillo, fino alla morte e alla ventilata reincarnazione in Napoleone Bonaparte.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
Insomma, nel finale di Angelo di bontà il riferimento ai Promessi sposi ha una funzione ironica precisa, su di esso s’innesta un gioco d’allusioni il cui oggetto — la sirzzzetria artificiale dei romanzi — è lo stesso più sottilmente preso di mira dalla metafora del «capocomico» costretto dal pubblico ai «drammi mostruosi», e dalla citazione, nella prefazione, dell’«ordine perfetto ed ideale» a cui solo i «sommi maestri» sanno acquistare il sapore della vita (giacché è facile che la simmetria romanzesca digradi nello «sceneggiamento a guizzi ed a baleni di qualche mago parigino»). Uno sfruttamento più esteso e articolato dei Promessi sposi ha luogo nel Conte Pecoraio, dove Nievo finalizza la ‘topicità’ della materia manzoniana a un’operazione polemica di ampio raggio. Ma procediamo con ordine. Il Conte Pecoraio fu scritto tra il 1855 e il 56, e pubblicato nel ’57. Si tratta di un romanzo «rusticale» (parente stretto dei racconti sui contadini che Nievo scrisse in quegli stessi anni e che avrebbe voluto raccogliere, come non riuscì a fare, in un Novelliere Campagnuolo) così aggettivabile perché conforme al filone ideologico e letterario — di preoccupazioni, di indagini, di scritture, di proposte educative concernenti i problemi del mondo contadino — che si affermò in Italia a partire dagli anni intorno al ‘48 e che si suole ricondurre, come a momento caratterizzante e quasi di fondazione, all’articolo del Correnti apparso nel ’46 sulla Rivista Europea, intitolato appunto «Della lettera-
tura rusticale»". ‘Cfr. la lettera al Fusinato del 10 maggio 1856, in I. Nievo, Lettere, ed. cit., p. 376. Questi i titoli e le date di prima pubblicazione delle novelle: La nostra famiglia di campagna (1855), La Santa di Arra (1855), La pazza del Segrino (1859, ma scritta nel ’55), Il Varmo (1856), Il milione del bifolco (1856), L’Avvocatino (1856), La viola di San
Bastiano (1859, ma scritta nel ’56). Nievo, ispirandosi al progetto enunciato dalla Sand di un cordaio ingenuo narratore di storie campestri, finge che siano raccontate da un bifolco di nome Carlone I/ milione del bifolco, L’Avvocatino, La viola di San Bastiano. Carlone avrebbe dovuto essere il narratore anche di due novelle rimaste allo stato di frammenti: I fondatori di Treppo e L’aratro e il telaio. L’intera produzione rusticale nieviana, compresi i frammenti e una seconda redazione della Viola, è ora, con altri testi narrativi, in Novelliere campagnuolo e altri racconti, a cura di I. De Luca, Torino, Einaudi, 1956. !“ Sul Nievo rusticale, nel contesto della produzione letteraria, del dibattito culturale sul mondo contadino in Italia negli anni intorno al ’50, cfr. I. De Luca, Introduzione a Novelliere campagnuolo, cit.; F. Della Peruta, «Ippolito Nievo e il problema dei contadi-
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Le poetiche rusticali prevedevano due possibilità: che si scrivesse de/ popolo, esaltandone le virtù supposte, commovendo circa le difficili condizioni di vita, perorando a favore di condizioni più umane, rassicurando i lettori borghesi e proprietari che mai la gente contadina, nativamente morigerata e rispettosa, avrebbe attentato con le sue richieste all’assetto della proprietà; che si scrivesse per il popolo, somministrandogli un poco della scienza liberal-borghese, ammaestrandolo e persuadendolo, con semplici scritture edificanti ma non superstiziose, a un rapporto fiduciario, di collaborazione e di subordinazione, coi ceti dominanti. Il Conte Pecoraio sembra perseguire entrambi gli obiettivi. Al primo è funzionale l’ampia informazione che il testo offre circa la geografia, le tradizioni, i costumi e i bisogni delle campagne friulane: informazione collocata nelle note a piè di pagina, o nei commenti interni al testo, alla
quale sono asservite altresì le scene dialogate e i sorzzzari” che dipanano la vicenda romanzesca, sia quelle che questi espansi oltre le misure ottimali per l’agile esaurimento dello scarno racconto; ‘allungati’ per così dire dall’inserimento, nelle battute dialogiche e nella descrizione delle circostanze dell’azione, di molti cenni e nozioni utili alla comprensione della vita materiale e morale dei contadini del Friuli. Inoltre I/ ni», in Rinascita, IX (giugno 1952), n. 6, pp. 354-356; G. Petronio, «Nievo e la letteratura popolare», in Società, XII (dicembre 1956), n. 6, pp. 1094-1103; S. Romagnoli, Nievo scrittore rusticale, Padova, Liviana, 1966, nonché «La letteratura popolare e il genere rusticale» e le pagine sul Nievo ‘campagnuolo’ in E. Cecchi e N. Sapegno (a cura di), Storia della letteratura italiana, VIII. Dall’Ottocento al Novecento, Milano, Garzanti, 1969 (e poi 1988”, con bibliografia aggiornata); P. De Tommaso, I/ racconto campagnolo dell'Ottocento italiano, Ravenna, Longo, 1973; A. Di Benedetto, Stile e linguaggio, Roma, Bonacci, 1974, alle pp. 221-244, nonché Nievo e la letteratura campagnola, Roma-Bari, Laterza, 1975, e «Il carattere della narrativa campagnola italiana», in Critica letteraria, VIII (1980), n. 28, pp. 436-447; M. Colummi Camerino, Idillio e propaganda nella letteratura sociale del Risorgimento, cit. Per un confronto Nievo-Sand dal punto di vista di un interprete francese, ricordo infine N. Jonard, «Ippolito Nievo et
George Sand», Rivista di letterature moderne e comparate, XXVI
(1973), n. 4, pp.
266-284.
5 Sulla nozione di «sommario» cfr. G. Genette, Figures II, cit. (alle pp. 144-146 dell’ed. it. Einaudi). Genette ha ripreso il termine dalla tradizione critica anglosassone,
in cui il suzzzzary è la parte non drammatica di un testo narrativo che, tra una scena dialogata e l’altra, riassume o scorcia panoramicamente gli avvenimenti di cui è necessario dar notizia.
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Conte Pecoraio appartiene alla innumerevole famiglia dei romanzi imperniati sul tema del viaggio: e questa volta il tema assolve a palesi funzioni documentarie ed esemplari. Seguendo+le peregrinazioni dell’eroina dentro e fuori il microcosmo idillico del paesetto natìo, il lettore ha modo di incontrare una serie di situazioni emblematiche e incarnazioni salienti della realtà rurale, quale era ma soprattutto quale necessariamente doveva idealizzarsi da uno scrittore rusticale: padroni buoni e cattivi, preti evangelici e mondani, ricchi avari e poveri caritatevoli, una falsa mendica e un fattore intriso di scienza positiva ma privo di cuore, una famiglia in cui regna l'armonia e un’altra guasta dall’avidità di guadagno, paesani pettegoli o in festa, paesaggi miracolosamente belli e altri in cui il processo di modernizzazione borghese e capitalistica ha visibilmente intaccato vecchi equilibri, ed ha accostato ai castelli residuati da un’altra età «qualche casinetto bianco, erede dei loro diritti, spesso anche dei loro vizî, talora, ma raramente, delle virtù» (XII, 389)"°. Insomma, come
chiarisce anche una lunga nota in calce, il testo vuole fornire al lettore ignaro, borghese e cittadino, alcune ragioni per amare la provincia friulana e il popolo che la abita, «solerte, robusto, frugale, ammirabile per la
santità e semplice vaghezza de’ suoi costumi» (cfr. I, 309-310). Ma Nievo pensava anche a un destinatario ‘popolare’ del suo romanzo? La questione è controversa e la risposta non può essere semplice.
Certo Nievo non ignorava l’analfabetismo pressoché normale tra i contadini, ma probabilmente pensava che almeno in prospettiva, direttamente o mediate da interpreti istruiti, storie educative come la sua sarebbero potute penetrare nell’ ‘immaginario’ popolare. Un’ipotesi di lavoro, questa della letteraturizzazione della cultura popolare ad opera di scrittori ben orientati, da cui Nievo derivò in parte la fattura del suo romanzo: il quale, con la suddivisione manichea dei personaggi in buoni buonissimi e cattivi senza remissione, con l’impianto marcatamente ‘provvidenziale’ della fabula, con il ricorso spesso incauto ai colpi di scena e ai ricatti patetici, con gli usi linguistici inclinati, benché discontinuamente, al «color dialettale», pare certo predisposto a una lettura ‘° Cito dal testo del Conte Pecoraio compreso in I. Nievo, Romanzi. Racconti e novelle, a cura di F. Portinari, cit. Tra parentesi sono segnalati il capitolo e la pagina a cui faccio riferimento.
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ingenua più di quanto non fosse Angelo di bontà, e molto più di quel che
saranno le Confessioni".
Ma l'ipotesi nieviana non è solo il fondamento, bensì anche l’argomento del libro. La storia di Maria di Torlano si presta infatti a più di una lettura: se essa è suscettibile di una decifrazione ‘facile’ — dalla quale l’ipotetico lettore ingenuo potrebbe estrarre la morale decantata in chiave scherzosa nell’ultima pagina, che cioè «La contentezza e la buona coscienza sono migliori del brodo di cappone a rimetter le polpe!» (XXX,
509) —
nel testo è inscritta anche la possibilità di un’altra
interpretazione, certo meno piana, e ad un occhio accorto è dato vedere
nella vicenda dell’eroina nieviana, tradotta in simboli ed emblemi, la
serie ordinata di certe idee dello scrittore circa il problema dell’acculturazione delle masse popolari, e circa la letteratura in genere. La meccanica palese del racconto si riassume presto. Diversamente dalla Lucia manzoniana,
Maria, la contadina protagonista del Conte
Pecoraio, accondiscende alle attenzioni del signorotto locale, Tullo conte di Torlano, e resta incinta. L'addio al paese natale non è dovuto alla necessità di fuggire bensì, per vergogna e rimorso, al desiderio di tenere segreta la gravidanza ed espiare soffrendo, fidando in Dio e crescendo santamente il figlio del peccato. Mentre Maria è via, numerose disgrazie riducono allo stremo il padre, la buona famiglia di coloni con cui la ragazza è cresciuta, il buon cappellano che ha in cura la sua anima. Il contino, indebitatissimo, vorrebbe sposare una ricca e pietosa signorina di un paese vicino. Un giorno va a visitarla e chi incontra in casa della fidanzata? Maria, che vi ha trovato ospitalità col bimbo nato da poco. I nodi vengono al pettine: il padre di Maria vorrebbe vendicarla e insegue nelle campagne Tullo, che per la paura e lo strapazzo è colto da malore mortale e salva l’anima pentendosi proprio all’ultimo momento. Intanto ! Personalmente condivido l’opinione di S. Romagnoli (in Nievo scrittore rusticale,
cit.) quando egli, basandosi anche su una lettera di Nievo al Cassa del 26 agosto 1857
(vedila alle pp. 450-451 dell’epistolario curato dalla Gorra), attribuisce al Conte Pecoraio l’«ambizione di diventare il libro di lettura di umili contadine oziose accanto al fuoco domestico nei mesi autunnali seguenti la vendemmia e la semina» (p. 89) e al contempo ammette che Nievo dovesse nutrire forti dubbi «sulla realtà di una eventuale lettura popolare del suo romanzo e la quasi certezza di una accoglienza a ciglio alzato da parte del pubblico borghese» (pp. 89-90).
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Maria, presa da sconforto, è fuggita di nuovo. Nevica, la strada è deserta: il bimbo muore per il freddo, la madre sviene e finirebbe assiderata se di lì non passasse per caso proprio un giovane amato dall’infanzia, prima del traviamento, di ritorno a casa dopo molti anni passati da soldato in Ungheria. Tutto si risolve per il meglio: la Provvidenza premia i buoni coloni e il buon cappellano, toglie di mezzo, dopo il contino, la malvagia madre di lui e i suoi accoliti, insedia al castello l’ex fidanzata del seduttore e suo fratello, ottimi padroni. La morte del figlio, anch'essa equivocamente provvidenziale, permette a Maria di tornare, senza che ai paesani nulla sia trapelato dell'accaduto, a Torlano, dove sposerà il giovane amato da sempre. Ho descritto con qualche cura la fabula per rilevarne la convenzionalità e l’artificiosità: l'ossatura assai semplice del racconto parrebbe davvero destinarlo a lettori poco scaltriti. Ma vediamo ora come Nievo complica e approfondisce il quadro, inserendovi elementi, partizioni e corrispondenze simboliche di notevole interesse. Piuttosto prevedibile, in un romanzo rusticale, che la topografia di Torlano sia anche una topografia morale: il castello è il luogo del vizio e della malafede, la vecchia contessa e suo figlio Tullo, le cameriere veneziane e il piovano vi hanno acclimatato i cattivi costumi della città; il villaggio è il luogo di tutte le virtù contadinesche: pazienza, carità e fede in Dio. Ma è un’altra la coincidenza che colpisce: il castello è pure il luogo della letteratura, in molti dei personaggi che vi orbitano difetti morali e inclinazioni letterarie sono visibilmente connessi. Venuta a stare in campagna, della turbinosa gioventù veneziana la contessa Leonilda ha conservato solo due passioni, il gioco e i romanzi, dei quali «incetta» mensilmente gran copia ad Udine, per farseli poi leggere dalla cameriera e in seguito da Maria. Il piovano è un «abatucolo letterato», sempre intento «a rimasticar latino, ad arrotondare periodi, e a lordar carta», per metter su una sua opera devota, uno Speculum Sanctitatis utile magari «come comodo scalino ad una più comoda prebenda» (VIII, 358). Letterato troppo accanito, il piovano non può riuscire buon pastore: trascura i parrocchiani e non ne tocca il cuore con le prediche, perché, «venusto prosatore latino», ha difficoltà a «maneggiare un rozzo vernacolo» (XV, 419). La letteratura può essere quindi fattore di divi-
sione sociale: essa inficia qui, in un rappresentante preso a emblema
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negativo, la funzione che Nievo (come sappiamo soprattutto dal suo saggio su Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale)" assegnava al clero di campagna, di mediazione e conciliazione tra le classi. Ma la passione per gli artifici letterari corrisponde anche all’abito, genericamente attribuito ai ceti dominanti quando non illuminati da autentico spirito cristiano, della finzione ipocrita. Abito retorico e linguistico, oltre che
morale, come insegnavano tante scene dei Prozzessi sposi. AI castello ogni sera il tresette della contessa inscena la commedia manzoniana degli‘abili‘infingimenti, delle schermaglie. Il fattore blandisce la contessa: «Anche i padroni hanno le loro miserie!». La contessa sospira, il fattore improvvisa «per compiacerla un grugno lungo, secco, spaventato come una quaresima; ché si conoscevano l’un l’altro quei due sornioni; ma era per essi un’utile esercitazione, un trastullo innocente, una giostra di destrezza il cercare di darsela ad intendere a vicenda» (XIII, 402). Lo
scambio dialogico è un gioco codificato, la cortesia linguistica traveste l’aggressività latente dell’egoismo e della prevaricazione. Si veda il forte impianto scenico di tutto il tredicesimo capitolo: come la Venezia di Angelo di bontà, la partita della contessa Leonilda è un teatro dove la vita mima la letteratura, e mostra così la propria insussistenza assiologica. Il contino Tullo, poi, è «un piastriccio di più anime», «un saputello ignorante, un filosofastro ballerino, [...] romantico, classico, scettico, cinico, ascetico, poeta, macchiavellico di volta in volta» (VI, 338). I libri
!* Mi soffermerò più avanti (alle pp. 227-229) su questo testo, che Nievo scrisse nei suoi ultimi anni, normalmente conosciuto col nome di Frammento sulla rivoluzione nazionale. M. Gorra ne ha approntata un nuova edizione condotta sull’autografo, molto diversa da quella che R. Bacchelli pubblicò nel 1929, sulla base della malaccorta trascrizione di un ignoto copista, e che hanno ripreso quanti hanno successivamente riprodotto il testo, dissuasi dal fare personali verifiche dall’affermazione erronea dello stesso Bacchelli, secondo cui l’originale era andato perduto. La Gorra ha ritenuto, per ragioni
solide e condivisibili, che non di un frammento ma di un’operetta tutta compiuta nelle sue parti essenziali si tratti, e pertanto ha proposto un nuovo titolo, Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, col quale anch’io indico il saggio nieviano. Il testo accertato dalla studiosa è ora contenuto, con Venezia e la libertà d’Italia, che Nievo scrisse quasi contemporaneamente, e con una lunga introduzione in cui la Gorra spiega le sue
scoperte, e ne deriva spunti critici di un certo interesse, in I. Nievo, Due scritti politici, a cura di M. Gorra, Padova, Liviana, 1988.
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sono per lui alibi intercambiabili, repertorî di retoriche a cui informare atti e parole, sempre in bilico tra finzione utilitaria e frivola infatuazione: durante un incontro con Maria, che lo rimprovera per le non mantenute promesse di matrimonio, a Tullo «senza fatica vennero le lacrime agli occhi [...]; non che fosse neppur per ombra tentato di attenersi alle sue promesse; ma così, era commosso da quel parlare, da quella figura, da quei gesti, come dagli atti d’una gran maestra di commedia» (VI, 339-340). Ma quale letteratura Tullo preferisce, quale letteratura corrisponde emblematicamente ai guasti del suo carattere, ai connotati di vacuità e incostanza che apparentano questo alla genìa di tanti altri personaggi nieviani, esponenti di una deplorata malattia del secolo, tara generazionale del carattere e della volontà? Osserviamo Tullo mentre passeggia poco prima di incontrare Maria: Il Conte la pretendeva a intenditore di lettere, e quel mattino veniva su, una gamba dietro l’altra, per un viale del parco, leggicchiando a brani Nostra Donna di Parigi di Victor Hugo; ché, benché in piazza strepitasse contro il diluviare dei romanzi francesi, pure ne ripassava in segreto tutta la litania da Sue a Paul de Kock. S’avanzava dunque leggendo un tratto, e poi chiudendo il libro o sfogliandolo alla ventura; ora invidiando, ora maledicendo in cuor suo quel libertino soldataccio, che inganna e lascia andar sul patibolo la zingarella Esmeralda; e come si vede, egli vogava allora a piene vele in una bell’ora di romanticismo (VI, 338).
I romanzi francesi, quindi: e si noti come quelli di Sue e Paul de Kock fossero per tanti critici dell'età nieviana dei modelli negativi, di cui si deplorava l’artificiosità ingegnosa tanto compiacente verso l’edonismo dei lettori quanto distante dai doveri della testimonianza ideale e della rappresentazione scrupolosamente verosimile. Forse Tullo ha trasferito il proprio vivere nella dimensione fittizia, ludicamente disimpegnata delle immaginazioni romanzesche: non si commuove per la disgrazia di Maria più di quanto faccia per la sorte di Esmeralda. Invece lo spazio esistenziale del popolo contadino è tutto serietà paziente, lavoro, carità e ferma obbedienza agli ordinamenti divini. I contadini non conoscono divaricazione tra realtà e convenzione, tra vita e letteratura. Non che manchi loro un semplice ma ricco senso poetico:
ma esso, sia quando si espande in schiette affabulazioni affidate all’orali-
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tà, o in preci ferventi, sia quando non si esprime udibilmente ma satura
di muti inni un supposto sentimento profondo e gioioso della natura e della divinità, non fa che ripetere e prolungare la medesima sostanza grave e pia che rende meritoria la vita delle plebi rurali. Don Angelo osserva le stelle: «Aveva un’anima capace di grande e vera poesia; soltanto egli sentiva, senza che il giudizio e la lingua sopraggiungessero a gloriarsi di quei sublimi sentimenti; [...] per lui la vita era [...] un continuo e, placido volo al sommo amore, alla santa verità [...]. Oh, se tutti i sapienti, gli autorevoli e ricchi personaggi, e i governanti delle cose mondane avessero ricevuto nel cuore la dottrina di don Angelo!» (XIV, 408-409). La «grande e vera poesia» degli umili è contrapposta vantaggiosamente alla cultura dei ceti dominanti. I pregi più alti, l’eminenza spirituale di questa poesia sono anzi irriducibili nei termini del sapere, della letteratura borghese. Emilia, la buona proprietaria che ospita Maria, ammira nella contadina «un certo suo modo di favellare semplice e rozzo bensì, ma vago di ben dipinte immagini, e di veemenza affettuosa» (XXIV, 483). Anche il cordaio è ottimo novellatore, e al
riguardo Emilia racconta a Maria: «Sai che alle volte mi diverto anch'io ad ascoltarlo, e che mi provai anche a scrivere quelle sue storie; ma l’ingegno non seconda la buona volontà, perché mutandole dalla loro prima vesticciola semplice e vaga nei nostri addobbi e cincischî grammaticali, le guasto spaventevolmente» (XX, 460). In fondo è qui riferito un
capitolo, coi relativi problemi, della poetica rusticale nieviana: scrivere come traducendo dal discorso orale di un narratore popolare. Da quest’istanza nacquero il Carlone, cioè il bifolco da cui Nievo finge raccontate alcune sue novelle, e in una certa misura anche l’ottuagenario delle Confessioni: ne nacque, più in generale, il tentativo, realizzato solo in parte e contraddittoriamente, di una narrativa naturale, lontana dall’ar-
tificio dei romanzi alla moda. Questa la topografia simbolica del Conte Pecoraio: da una parte lo spazio dei padroni e della loro letteratura, che è finzione, gioco ozioso e alibi di moventi inconfessati; dall’altra, lo spazio degli umili, della virtù poetica popolare, che è autenticità, impegnata adesione e rispecchiamento, conferma dell’ordinamento provvidenziale della realtà. La peripezia è innescata da una trasgressione. Maria, a differenza degli altri contadini, sa leggere e scrivere («Ti hanno lasciato imparare troppe
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cose», le dicono, IV, 328). Inoltre gira voce che ella discenda da un ramo
decaduto della famiglia dei Conti di Torlano!”. Comincia a bazzicare il castello, dove legge i romanzi alla vecchia contessa e si lascia irretire dalle moine di Tullo. Maria ha oltrepassato i confini dello spazio contadino: un disordine, un peccato di superbia e insieme un tradimento della salute popolare benedetta da Dio, errori da espiare nella fuga dolorosa e umiliata. L'avventura della donna è in qualche misura assimilabile a quella che la Suleiman definisce, in un discorso che verte sul Bildungsro-
man e sul romanzo a tesi, «histoire d’apprentissage exemplaire positif»”°. Versione desacralizzata dello «scenario iniziatico» degli etnologi, questo apprendistato conduce l’eroe da una condizione iniziale d’ignoranza del vero, attraverso varie prove d’interpretazione (larvatamente, nel Conte Pecoraio, le situazioni emblematiche che Maria incrocia nel suo pellegrinaggio), alla conoscenza del vero, che è come una nuova nascita, integra-
trice dell'eroe nel gruppo degli altri iniziati, e principio di una vita nuova secondo verità?'. «Est ‘exemplaire positif’ tout apprentissage qui
mène le héros vers les valeurs inhérentes a la doctrine qui fonde le roman»: e infatti i valori che alla fine del libro Maria potrebbe dire di aver conquistato sono gli stessi del mito rusticale nieviano, fondanti la poetica e la tematica del Conte Pecoraio?’. Certo quest’ultimo non è riconducibile pienamente alla griglia elaborata dalla Suleiman per il romanzo a tesi: tale prospettiva teorica giova tuttavia alla descrizione
del testo, e in particolare al rilevamento di un suo tratto specialissimo. La Suleiman così descrive la categoria attanziale del destinatore nel romanzo a tesi: «Le destinateur par excellence est une figure assimilable au père. Détenteur d’un savoir analogue sinon identique è celui que cherche le héros, [...] il transmet ce qu'il sait, il aide le héros à surmonter
‘Proprio a causa di questa diceria Santo, il padre di Maria, è conosciuto dai compaesani come il «conte pecoraio». °° Cfr. S. Suleiman, «La structure d’apprentissage. Bildungsroman et roman è thèse», in Poétique, n. 37, febbraio 1979, pp. 24-42.
‘iuClrodoi,\p..30; *# Ivi, p123. La griglia teorica della Suleiman è stata già adoperata, nell’interpretazione delle
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Confessioni d’un Italiano, da M.A. Cortini, L'autore, il narratore, l’eroe. Proposte per una rilettura delle «Confessioni d’un Italiano», Roma, Bulzoni, 1983.
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les épreuves. Sa présence bénéfique garantit, en un sens, la réussite du héros»'. Ebbene, mi sembra che il ruolo di destinatore, nei confronti di Maria, sia svolto dai Promessi sposi: vale a dire da un libro che era
riferimento obbligato, nell’età nieviana, per ogni letteratura sul popolo e per il popolo; nonché il modello e la fonte primaria del romanzo di cui Maria è protagonista. I Prozzessi sposi compaiono due volte e lungamente sulla scena del testo, e in entrambi i casi la loro funzione spicca evidente. Dapprima Maria parla a un’amica di un romanzo letto per la contessa, che'l’ha molto commossa non soltanto perché, come si capirà
poi, le sventure di Lucia le ricordano le sue sventure, ma perché più in generale il capolavoro manzoniano le sembra ritagliato, per così dire, nella stessa stoffa morale e linguistica di cui è fatto il suo mondo: vi riconosce la propria fedeltà alle cose, la propria quotidianità fatta di gesti e bisogni concreti, e al contempo il proprio bisogno della norma ideale. L’omogeneità tra l’opera manzoniana e la realtà di Maria spiega perché ella possa comunicare la sua commozione all’amica, rifacendo, osserva l’autore, «nel più umile e rozzo vernacolo il più grande libro del nostro secolo; né io dirò che il libro ci abbia guadagnato, benché sia sempre guadagno quello di poter farsi intendere» (V, 331). Alla parafrasi di Maria s'intrecciano gli ingenui commenti delle due contadine: che da questo o quell’episodio traggono occasione per riandare i propri ricordi, condannano o compatiscono i personaggi come fossero persone davvero vissute e magari conosciute direttamente, e spontaneamente omaggiano
il talento realistico manzoniano, esaltandosi soprattutto là dove riconoscono nel testo oggetti, sentimenti e comportamenti che fanno parte della loro esperienza quotidiana. Le plebi rurali sono serie e ponderate anche in fatto di letteratura: se il contino sfoglia distrattamente i suoi romanzi, quando Maria termina di raccontare i Prozzessi sposi lei e ‘ l’amica stanno «un buon quarto d’ora senza mover bocca guardando alle montagne, al paese, alla luna, e nulla vedendo, ripiegate com'erano ambedue sugl’interni pensieri» (V, 333). Il giorno dopo, proprio questo libro suggerisce a Maria (che scorge in esso il veicolo delle ispirazioni della Vergine Maria) il percorso da compiere per recuperare la salute: 2 S. Suleiman, «La structure d’apprentissage», cit., p. 32.
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«Sì, voglio anch’io fare un voto dal fondo dell’anima, un voto santo,
come quello di Lucia» (VI, 337). Abbandonerà il suo paese, terrà il segreto sulla paternità di Tullo, farà il bene: «prendendo intero il castigo per me, giungerò [...], Vergine santa, ad ottenere la vostra intercessio-
ne» (VI, 337). La seconda citazione dei Promessi sposi segnala l'imminente scioglimento dell’intrigo, e con ciò il compimento dell’espiazione della protagonista e la reintegrazione dell’ordine rotto dalla sua trasgressione. Se la prima volta il libro aveva allontanato Maria dal paese e misurato la massima distanza tra le virtù dell’ingenua contadina e i vizi del contino cittadinesco e letterato, questa volta lo stesso libro favorisce la vicinanza simpatetica tra Maria e un’altra esponente della classe padronale. Ma si tratta di quella buona Emilia a cui piacciono tanto i racconti del cordaio da tentare di trascriverli, senza successo però, perché somma difficoltà è tradurre in letteratura la ‘natura’ dell’affabulazione popolare. Se infatti Maria, che è vicina alla natura e ignora il dibattito culturale sull’inveterata aristocraticità delle lettere italiane, gode ingenuamente e senza stupirsene l’ardua popolarità manzoniana («ho letto io delle storie semplici e camperecce, ma scritte come va, e parevano scappate dalla bocca d’uno di noi», XX, 460; «di molte pagine non ci capivo gran fatto, [...] ma ve n’erano delle altre buttate là così alla buona, che se mi ci mettessi, scommetterei io di scriverne di compagne!», XX, 460-461), Emilia, ch'è
letterata, ride nel sentire «quella villanella sfidare candidamente il nostro più eccellente scrittore, proprio in quel cimento letterario da cui egli solo finora è uscito a bene» (XX, 461). L’elogio della grandezza di
Manzoni mette in luce un paradosso. Infatti è facile agli occhi del popolo ignorante quello che appare difficilissimo alla cultura letterata: Maria si sente capace di raccontare storie come quella scritta nei Prorzessi sposi, mentre Emilia si sa incapace di scrivere storie come
quelle
raccontate dal cordaio. Nievo non se ne rendeva conto, ma questa situazione denota quanto paradossale fosse la sua proposta di una letteratura interclassista che gli scrittori avrebbero dovuto instaurare a partire non dalle proprie consuetudini e dalle proprie conoscenze, ma dalle virtù e dai valori miticamente postulati in un popolo che per condizioni di vita e povertà di strumenti sarebbe rimasto escluso dai loro messaggi. Comunque sia, proprio sul piano mitico di questo interclassismo lettera-
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rio si consolida l'amicizia tra le due donne, la borghese e la contadina, che amano Manzoni perché si somigliano nella bontà, ed hanno sperimentato «che è privilegio delle anime buone di conoscersi [...] prima di toccarsi, come due correnti elettriche; e in ciò consiste [...] la loro ventura più soave» (XX, 457).
Mentre quindi la letteratura priva di respiro ideale, volta a riprodursi come artificio e non a produrre il «vero» nelle coscienze (i periodi latini del piovano, i romanzi francesi di Tullo...) era fenomeno e concausa della diffidenza tra le classi, introduceva nelle relazioni quotidiane il germe della discordia, gli inganni della retorica, la letteratura che si avvicinasse all’esempio del capolavoro manzoniano — la cui sapienza formale riesce così prossima all’essenza del discorso ‘naturale’ — sarebbe capace di volgere al bene le anime, sarebbe fattore di verità e concordia sociale. Corrisponde perfettamente al disegno ideologico del Conte Pecoraio, che appena le due donne hanno finito di parlare dei Promzessi sposi ci sia il colpo di scena: Tullo, col piglio teatrale consueto dei suoi atti, entra nella stanza, ed appare manifesto al lettore che il fin qui misterioso fidanzato di Emilia altri non era che il seduttore di Maria. Da questo ingresso principia un movimento narrativo che, mentre riporterà
‘felicemente Maria nello spazio di Torlano, ne estrometterà la famiglia del conte, coi vizi cittadineschi e le cattive letture. Al castello s’insedie-
ranno proprio Emilia e il fratello di lei, padroni pietosi e compartecipi dell’alta spiritualità delle campagne, e alla fine del libro l’intera comunità paesana pare sul punto di recuperare la condizione archetipica dell’idillio: perfetta organicità e armonia autosufficiente, immemore dei contrasti dell'economia e delle ferite della storia.
4.
«La nostra famiglia di campagna» come testo di poetica
Il populismo risorgimentale era normalmente equivoco: come equivoco è l'impianto apologetico del Conte Pecoraio. Nell’esaltazione dei contadini è dato leggere l’assolutizzazione della loro subalternità e sinceri scrupoli di riforma; nella mitizzazione della natura fuori del tempo si occulta la critica della modernizzazione capitalistica e le ragioni propagandistiche di un progressismo sostanzialmente moderato. Sono chiavi
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
d’interpretazione spesso adoperate e agevolmente adoperabili da chi voglia occuparsi di scritti rusticali, nieviani e non. Non si è invece mai debitamente messa a fuoco l’idea della letteratura che Nievo ‘infiltra’ in questo suo romanzo (come del resto in altre zone della sua produzione). Lo scrittore sembra persuaso della bontà di una letteratura prossima alla natura e non viziata dall’artificio: o meglio, tanto sapiente da non serbare l'impronta della tecnica onde è stata fabbricata, e da assomigliare ai discorsi orali spontaneamente prodotti dal popolo. Ora, è certo che l’oralità popolare occupasse una posizione assiologicamente forte nella cultura nieviana, in cui su un fondo romantico venato di rousseauvismo
s'innestavano influssi mazziniani, tenchiani e giobertiani (ricordiamo che secondo Gioberti le intuizioni della «plebe» precedono sempre la scienza razionale dell’«ingegno», e la «plebe» è matrice di ogni più alta creazione poetica)”. In La nostra famiglia di campagna (racconto% Cfr. V. Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia, 2 tomi, Parigi e Torino, a spese di G. Bocca, 1851, tomo II, pp. 336-342 (dell’opera si ebbero, lo stesso anno e presso lo stesso editore, due distinte edizioni, l’una in ottavo, l’altra in sedicesimo: citerò sempre dalla prima).
Il valore che Nievo attribuiva all’oralità popolare è chiaramente deducibile dalla pagina vichiana e foscoliana degli Studii secondo cui alle scaturigini della civiltà starebbero, ancora indistinti, il linguaggio parlato e la spontanea poesia popolare: la lingua scritta, la poesia dotta ne sarebbero derivate in progresso di tempo, a prezzo di un distacco solo qualche volta e imperfettamente risarcito dalla vita profonda delle nazioni: «Nei primi tempi dell'umanità ogni espressione esterna d’un fatto interiore era poesia bella e buona nel senso preciso ed attuale della parola; e nelle epoche successive della divisione degli idiomi in parlati e in iscritti la poesia doveva rimanere il retaggio delle favelle popolari [...]. In quei tempi noi veggiamo le tradizioni popolari, gli inni e i rituali sacri, le canzoni domestiche, i canti di guerra, tutto ciò infine che s’apprende maggiormente al carattere nazionale, conservare la forma poetica vibrata originale della antica lingua parlata, mentre nelle discipline scientifiche benchè bambine s’andava introducendo un linguaggio più calmo, più preciso ed ordinato». «Poichè l’arte dello scrivere si fu diffusa a coadjuvare con somma efficacia lo spirito umano [...] cominciò l’era dei Poeti scrittori o dotti, che continua pur tuttavia. — Ma la mente di questi, divisa fra l'ammirazione dei loro modelli e le preoccupazioni della società che li circondava, seppe rade volte elevarsi al far vero e grandioso dei loro predecessori, che sciolti da ogni freno servile cantavano francamente nelle lunghe veglie d’inverno, o nelle feste popolari, quello che vedevano e che sentivano. [...] Sorvennero dappoi le soverchie esigenze dei metri e della grammatica, che stringendo sempre più il campo dell’immaginazione e allontanando la poesia dalle sue sorgenti popolari le tolsero gran parte delle sue funzioni civili» (Studii sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia, a cura di F. Ulivi, cit., pp.rl0redli2):
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pamphlet del 1855, in cui Nievo esprime le sue idee rusticali)”° si afferma
che il popolo contadino è la «parte più pura dell’umana famiglia», dove
l'aggettivo allude insieme alla salute morale delle genti rurali e alla loro vicinanza alla natura, alla loro relativa immunità dai vizi della civiltà.
Dalla natura i contadini derivano un’istintiva chiaroveggenza filosofica, che ‘incanalano’ nei semplici concetti di un’umile religiosità cristiana, e grazie alla quale intuiscono — ben più di quanto possa accadere nella società: cittadina e letterata — lo spessore ideale delle cose della vita: infatti lg loro pazienza, il loro spirito di sopportazione nascono «dalla credenza in un mondo superiore, dalla fede piena di Dio, la quale è la formula più alta ed astratta d’ogni filosofia, il trascendentale del tra-
scendentale!»?°. Secondo una logica tipicamente populista e romantica, la massima vicinanza alla natura è anche la massima vicinanza allo spirito. Dai contadini-filosofi potrebbero imparare qualcosa anche gli scrittori, almeno quelli desiderosi di trascendere, secondo l’insegnamento tenchiano, la mera materialità dell’esistenza e di cogliere, nella sintesi del «vero», la trama ideale della realtà. È una conclusione a cui Nievo non giunge direttamente, ma che suggerisce mediatamente attraverso una serie di passaggi che occorre evidenziare. Anche in questo racconto, come nel Conte Pecoraio, lo scrittore
oppone polemicamente due mondi, due ‘spazi’ morali, e in ciascuno ambienta una ‘scienza’ diversa, un modo diverso di porsi rispetto alla natura. C’è lo spazio dei contadini che vivono la natura dall’interno, ne partecipano le virtù con la virtù dei loro cuori, ne mutuano i cicli eterni nel volgersi della loro esistenza («il loro futuro è sempre uguale al passato »)°. Anche nelle illusioni religiose il popolo rurale è fedele alla % Ma occorre distinguere tra fasi diverse dell’ideologia nieviana circa il problema contadino. Al riguardo cfr. M. Martelli, «Due momenti dell'ideologia nieviana: La nostra famiglia di campagna e il Frammento sulla rivoluzione nazionale», Belfagor, XXV (1970), n. 5, pp. 530-551. Sulle idee politico-sociali di Nievo, nel loro svolgersi diacronico, cfr. anche l’Introduzione di G. Scalia a I. Nievo, Scritti politici e storici, Bologna, Cappelli, 1965, pp. 5-63. 2 Cito dal testo del racconto contenuto in I. Nievo, Romanzi. Racconti e novelle, cit. L’espressione riportata è a p. 599.
°° Ivi, p. 642. °° Ibidem.
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natura, perché esse sono spontanea, naturale traduzione soggettiva dell’oggettiva costituzione ideale del mondo. C'è poi la «frivola società» dei «sapienti di lettere», della «gente di città più effeminata che ingentilita, più dottrineggiante che addottrinata, più tumultuante che operosa». Costoro si avvicinano intellettualisticamente alla natura, e così la tradiscono, perché seguono la «miope» e «stolta» filosofia del secolo, che «lacera il velo ideale onde la vita si copre naturalmente al giudizio degli uomini; e credendo indagare la vera natura dei fatti, li discarna di quella loro insita e comprensibile bellezza che è l’idealità!»”'. Il metodo analitico d’accertamento del vero perpetrato dalla «miope» filosofia è proprio il contrario di quello sintetico che predicava Tenca, il quale nello stesso 1855 del racconto nieviano scrisse (e forse Nievo fece in tempo a leggere):
non v’ha realtà nella vita, la quale non abbia la sua parte d’ideale che l’artista sa trovare ed esprimere; ed è per questo che l’arte fu detta, con parola appropriata, invenzione, ossia ritrovamento, giacché l’artista non crea, ma trova, scopre cioè l’accordo della forma
dell’oggetto coll’idea, e in questo riposa come nel vero”.
Secondo Tenca, quindi, la letteratura doveva speculare nei fatti le
essenze: gli scrittori, pur senza tralasciare la missione di testimoni della vita sociale, di educatori del progresso, avrebbero cercato nella mobile pluralità del tempo ciò che eccede il tempo e il divenire, e rinvenuto l’ideale, l'avrebbero ricreato nelle forme particolari e mimetiche offerte dal reale, per restituirlo al mondo, come oggetto di godimento estetico e fonte di ammaestramenti”’. La teoresi di Nievo, in La nostra famiglia di °° Ivi, p. 643. 2 Ivi, p. 634. °° Si tratta del già menzionato «Recenti poesie italiane. Perez». Cito da C. Tenca, Saggi critici, cit., p. 237. ”? Si vedano gli argomenti con cui Tenca difendeva l’uso romantico dell’informazione storica in letteratura dalle viete invettive classicistiche del Perez: «Quando i novatori invocarono l’arte più conforme al vero, non richiesero altro se non di restituire l’ideale alla sua vera natura, di nobilitarlo, non di sopprimerlo; la minuziosità storica, l’adorazione dei particolari a scapito del concetto generale sono un’esagerazione di chi o non comprese o male applicò il concetto, non sono da imputarsi al sistema, il quale vuole il reale, ma non come scopo finale dell’imitazione, bensì come rappresentazione più efficace dell’ideale» («Recenti poesie italiane. Perez», in C. Tenca, Saggi critici, cit., p.
238).
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campagna, è assai più generica: l'ideale non è tanto l’intelligibile che il sensibile occulta e simboleggia, e che va scovato e sviluppato, restaurato nella luce dell’arte, ma «il velo [...] onde la vita si copre naturalmente»,
la «veste naturale di bellezza che vince il sentimento e l’immaginativa». Tuttavia la prossimità all'ideologia tenchiana è chiaramente denotata dall’analoga rivendicazione del «vero» come unità superiore dell’esperienza, comprensiva dei dati materiali che pertengono al senso e dei dati razionali che è virtù dello spirito divinare nei fenomeni, intuendo quanto ’èAn essi di affine ai valori e alle aspirazioni dell’interiorità. Se Tenca insisteva sulla necessità di distinguere la sua proposta di una letteratura fedele al «vero» dal «naturalismo che mira soltanto a ricopiare l’estrinseca sembianza delle cose» e degrada «la facoltà creatrice della bellezza [...] all’ufficio del dagherrotipo»”, Nievo contrappone — con atteggiamento culturale simile, anch’esso di sapore precocemente antinaturalistico — il proprio concetto della «verità» al pregiudizio materialistico, alla «stolta filosofia» che pretende ridurre la vita a meccanismo, lo spirito a effetto della materia: «come colui che a negare la femminile avvenenza deformasse col coltello anatomico il cadavere d’una vergine, e sotto la pallida rotondità delle guance, sotto le pudiche palpebre ed il candido petto mostrasse i muscoli recisi, il sangue grumato nelle vene, e i nervi sfibrati e tremolanti»”°. La «verità» dello scrittore è più ampia e complessa di quella di fisici e anatomisti: aperta all’esercizio delle illusioni, ma anche dinamicamente disponibile alle speranze del progresso: Mala verità è il tutto e non una parte; la verità comprende il grande ed il piccolo, il generoso e l’abbietto, il bello ed il brutto, come cosa
terrena ch’ella è; ché se per verità si volesse intendere la corruzione dell’umana progenie, allora non è duopo di tanto affanno per provarla oscena e vituperevole; ma converrà pur trovare un altro vocabolo che significhi quella ragione immutabile posta da Dio nelle cose create, per la quale esse, come frazioni decimali, si raccostano
La nostra famiglia di campagna, in I. Nievo, Romanzi. Racconti e novelle, cit., p.
635. ” «Recenti poesie italiane. Perez», in C. Tenca, Saggi critici, cit., p. 236. °° La nostra famiglia di campagna, in I. Nievo, Romanzi. Racconti e novelle, cit., p. 634.
82
Ippolito Nievo e il romanzo di transizione è
‘
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perpetuamente alla perfezione senza toccarne la pienezza”.
Il «vero» che anche Tenca additava — al crocevia di storia, etica e
filosofia — alla sapienza formale, all’alacre magistero civile dei letterati è opposto da Nievo al culto laico della scienza positiva, alla mitizzazione del dominio delle tecniche sulla natura, che già in quegli anni (nonostante i ritardi dello sviluppo economico italiano, e sebbene validamente contrastassero gli opposti miti della salute agraria) poteva connettersi a
una nozione euforica del benessere industriale, del progresso tecnologico, nell’uso culturale epidermico e nella quotidiana retorica di ampi settori della borghesia. Infatti nel «mondo pettegolino dei caffè e dei teatri» — in cui allignano «l’ozioso novelliero e il damerino in guanti bianchi» — «si trincia il progresso», si plaude alla «civiltà» degli abiti alla moda e delle «macchine a vapore». Ma nella «frivola società» cittadinesca e letterata non solo la vita è vacua, incredula, artificiale;
anche la cultura non è che brillante ostentazione: più che il vero sapere, vi ha facile corso il «volume infarcito di corbellerie»” e magari, anche se Nievo non lo dice, qualcuno dei romanzi «incartocciati d’intrighi» abilmente confezionati da «qualche mago parigino»‘°. A questo punto si capisce perché debba volgersi altrove, onde guadagnare alle proprie ispirazioni la congrua materia morale e linguistica, lo scrittore teso al «vero», persuaso che la letteratura non possa ridursi a speculazione mercantile e che la «civiltà» non vada confusa coi lustri e gli agi dispensati dall’ingegnoso evo moderno delle manifatture e dei traffici, perché essa «non viene dal di fuori penetrando noi, sibbene dal cuor nostro parte per diffondersi tutto all’intorno». Scrive Nievo: in un crocchio di villane raccolto nella stalla intorno ad un fumoso lucignolo trovo maggior poesia che nel convegno delle eleganti dove l'odore del muschio, il lampeggiar delle occhiate, e il chiaro del
© Ivî, p. 635. °* Ibidem. ° Ivi, p. 643. ° Per usare le definizioni nieviane già incontrate in Un capitolo di storia e nella Prefazione ad Angelo di Bontà. " La nostra famiglia di campagna, in I. Nievo, Romanzi. Racconti e novelle, cit. p.
635.
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canfino mettono i sensi in visibilio. Nella stalla trovomi più daccosto alla natura, madre d’ogni poesia, e se bambina e rozza ancora, tuttavia non degenere; nel s4/0r me ne sento così lontano da rabbrividire al solo pensarvi [...]. E se taluno opponesse, che l’arte mutando abbellisce la natura, risponderei che l’abbellisce purché non la deturpi; risponderei che l’arte è il complemento non l’incamuffatura del vero; risponderei insomma molte altre cose di cotal sapore,
alle quali s’arriccerebbero di sdegno i labbruzzi schifiltosi’”.
“ Non è forzato interpretare le «villane» e le «eleganti» come simboli: muse le prime di un’arte informata alla natura, un’arte che scaturisce spontanea dall’assunzione coscienziosa del «vero» illuminato dall’ideale; mentre le «eleganti» che coi cosmetici e le sapienti civetterie «mettono i sensi in visibilio» personificano forse l’arte che perverte e sofistica la natura, asservendola — come s’imputava a certi romanzieri francesi — alle ragioni seduttive ed emozionali dell’artificio letterario”. © Ibidem. ‘ Forse si può porre in relazione il passo nieviano citato con quella pagina in cui Tenca, scrivendo su Balzac, aveva accomunato nel segno dell’affettazione, dell’illusionismo seduttivo, della contronatura un certo tipo di merce romanzesca (quella condotta a molte delle sue espressioni più salienti proprio dal celebre autore francese) e il mzilieu mondano-borghese e metropolitano da cui quella letteratura aveva tratto alimento e materia tematica e successo di lettori: «Balzac [...] aveva tenuto per alcuni anni lo scettro del romanzo in Francia. Fu nel tempo che susseguì alla rivoluzione del luglio, quando il trionfo della borghesia rinnovò l’aspetto della società francese e il sistema inaugurato da Luigi Filippo rimescolò tutti i bassi istinti e le volgari passioni del cuore
umano. La biografia di Balzac non potrebbe essere scompagnata dalla storia della società in cui visse, e di cui il suo ingegno fu lo specchio fedele [...] quella società corrotta, malaticcia, tormentata dalla vanità e da una sete insaziabile di godimenti, molle nelle ambizioni, nelle passioni, imbellettata di virtù come di vizio, in cui la fantasia tien luogo di sentimento e il lucro è quasi sempre la misura della coscienza. Tutto è posticcio, artefatto, illusorio in quella società: l’affettazione ne è il carattere principale, affettazione di nobiltà, di grandezza, d’ingegno, affettazione perfino di vizii e di immoralità. Non è il caso, nè la sfrenata immaginazione degli scrittori che ha creato tutta quella letteratura di adulteri, di falsarii, di giuocatori, di usurai, di uomini equivoci e di donne sfiorate ed avvizzite, quella pittura d’una società veduta al falso lume dei doppieri, ritinta di gioventù, metà ingenua metà briccona. [...] Balzac ha voluto essere il pittore di questa società. I suoi racconti e lo stesso suo stile hanno tutta l’impronta di quell’epoca d’infermiccia attività. Sono una specie di camera ottica, in cui si riflettono i caratteri ed i costumi in tutti i loro più minuti particolari, ma senza rilievo, ed alterati dalle false tinte dei vetri. [...] E Balzac non fece in ciò se non assecondare la tendenza di quell’epoca che aveva inaugurato per bocca di Janin il culto
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Abbiamo rintracciato a questo punto nel testo nieviano un filo d’idee capace di congiungere l’apologia esplicita e programmatica della saggezza popolare all’istanza, che il racconto-parzpblet si limita a suggerire, di una letteratura naturale. Se il filo paresse troppo sottile, un’altra citazione forse confermerà la giustezza delle induzioni compiute. Si legga qual sia per Nievo l’archetipica di tutte le arti, il primo maestro di tutti gli artisti, donde questi possono imparare un’eterna poetica, un eterno «formulario» per le proprie creazioni: L’arte è arte, o amico lettore, e non è una corbelleria. Tutti nel proprio ordine hanno a mettere studio ed amore efficacissimi nell’arte loro, onde averla facile ed efficace alla pratica. E la natura stessa non è che il sommo fra gli artefici, ubbidiente alla Somma Ragione come macchina a umano intendimento. Sicché potendo noi considerare la mente dell’inventore come operatrice di mirabili cose mediante i congegni meccanici, dalla natura stessa possiamo trarre del pari il formulario dominatore di ogni arte, come strumento e specchio ch’ella è dell’Intelligenza suprema. Io stimo pertanto maggiore l’ingegno posto da essa nell’edificare, diamantare, e dipingere la grotta di Capri, di quanto sprecato ne abbiano dieci geni a sbozzare un omaggio a Dio in quel povero Vaticano”.
L’arte può essere quindi cosa divina, se s’ispira alla natura obbediente alla Somma Ragione. Ma i vicinissimi alla natura e alla divinità sono i contadini. Non sarà strano pertanto che lo scrittore ben intenzionato si volga ad essi, e tenti di accostarsi al linguaggio del popolo per ‘parlare’ la realtà e aderire simpateticamente al «vero». Le persuasioni di Nievo spiegano perché egli, nel Conte Pecoraio, per elogiare Manzoni inventa una contadina a cui i Prorzessi sposi sono tanto congeniali, da sentirsi capace di raccontare storie consimili. Le stesse persuasioni, poi,
fanno sì che l’amore della letterata Emilia per le storie del cordaio sia del leggiadro, del joli, sostituito al culto del bello, e che accettava il manierato come una innovazione di buon gusto nell’arte. Il suo stile barocco, pretenzioso, diffuso, che materializza tutte le immagini, che si gonfia di strane metafore di bizzarri neologismi, era in armonia col gusto metà borghese e metà aristocratico dell’é/lite de’ sui lettori» («Onorato Balzac», Il Crepuscolo, I, n. 30, 1 settembre 1850, p. 117). ; ‘“ La nostra famiglia di campagna, in I. Nievo, Romanzi. Racconti e novelle, cit., p. 155
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preso a connotare in senso positivo il personaggio della ragazza. Ma si spiegano anche altre cose: che Nievo si travestisse qualche volta da bifolco, per entrare in quella «stalla», tra quelle «villane» con cui diceva di trovarsi a suo agio, a narrarvi le novelle del Carlone; che egli poi, nel suo più ambizioso progetto, tentasse di filtrare tutto un lungo romanzo, storico e civile e ‘sentimentale’, attraverso la voce di un uomo mediocre-
mente letterato; il cui discorso è prossimo all’oralità se l’ottuagenario
afferma: «Ricordo a voce alta; e scrivo quello che ricordo». “Ma fl Conte Pecoraio ha anche questo di rimarchevole ai fini della nostra escursione critica: che l’assunto di cui il testo è una sorta di manifesto implicito, l’ipotesi di una letteratura capace di dissimularsi, di parere omologa alla natura dell’oralità popolare, contrasta violentemente con la fattura, la costituzione formale del testo medesimo, che è vistosamente e anzi doppiamente ‘letterario’. A parte i tratti di forte letterarietà rinvenibili al livello superficiale dello stile (il conte pecoraio, ad esempio, «declina» su Tullo morente «le luci lacrimose»)”° il romanzo è caratterizzato da una marcata metatestualità e da una ipertestualità altret-
tanto notevole‘: il circuito dei concetti-emblemi è saldato da un duplice
‘ I. Nievo, Le confessioni d’un Italiano, a cura di M. Gorra, cit., cap. VI, p. 293. ‘° Il Conte Pecoraio, in I. Nievo, Romanzi. Racconti e novelle, cit., cap. XXVI, p. 492.
‘ Nell’uso di questi termini mi rifaccio alla sistematica di G. Genette, in Palizzsestes. La littérature au second degré, Paris, Seuil, 1982. Genette definisce metatestuale la relazione critica per cui un testo parla di un altro testo. Tra due testi sussisterebbe invece un rapporto di ipertestualità quando l’uno (l’ipertesto) deriva dall’altro (l’ipotesto) per trasformazione o per imitazione: pratiche ipertestuali sarebbero, ad esempio, la parodia, il travestimento burlesco, il pastiche; ma Genette ammette anche la possibilità di imitazioni e trasformazioni ‘serie’, e mi sembra che questo sia il caso del Conte Pecoraio. A_M. Gorra va riconosciuto il merito di aver puntato per prima su un’inter-
pretazione del secondo romanzo pubblicato da Nievo in chiave d’ipertestualità manzoniana (cfr. Nievo fra noi, Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 39-52). Diversamente dalla
studiosa, non credo però che l'operazione nieviana vada intesa essenzialmente come un gesto ‘marcato’ di distacco dal modello dei Prorzessi sposi: non escludo che acidi iconoclastici agiscano nel testo, ma come elementi di un gioco complesso, che mira innanzitutto a innalzare il capolavoro manzoniano nella luce del mito, come esempio vivente della possibilità di una grande letteratura popolare. Approfitto di questa nota per avvertire che quando più avanti parlerò di intertestualità mi distaccherò dalla tassonomia di Genette, perché il significato che questi attribuisce al termine (la presenza puntuale in un testo di un altro testo sotto forma di citazione,
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riferimento critico ai Promessi sposi, e il libro di Manzoni è insieme attore, modello e fonte del romanzo nieviano, mentre la letteratura in genere ne è tema cardinale. Come se Nievo potesse bensì concepire e anche tentare una letteratura-non letteratura (una letteratura-natura,
una letteratura-vita...) ma gli riuscisse in fondo più facile e congeniale, o perfino fatale, alludere a questa via d’uscita, a questa sognata salute, ancora con e attraverso la letteratura-costruzione, la letteratura visibilmente ‘letteraria’.
plagio, allusione) è troppo ristretto per i miei fini d’analisi. Preferisco, sulla scorta di altri teorizzatoti, alludere con la parola, in senso più ampio, a tutti i rapporti immanenti che collegano visibilmente un testo ad un altro che lo precede nella tradizione.
Capitolo terzo L’umorismo di Nievo
1.
L’umorismo nelle «Confessioni» Nievo, lo si è detto, approvava il precetto tenchiano, secondo il
quale la letteratura doveva esprimere ed esaltare il «vero», ossia il reale non rescisso dalle sue radici, dalle sue aderenze ideali. Sappiamo anche, dalla lettura di La nostra famiglia di campagna, che lo scrittore giudicava lanimus popolare, almeno finché non si fosse allontanato dalla natura, in una condizione privilegiata, di intuitiva sintonia, rispetto al «vero», cosicché la letteratura tanto meglio avrebbe conseguito il suo scopo morale, quanto più avesse saputo tener vivo il contatto con la sensibilità, con la schietta discorsività del popolo. Nel Conte Pecoraio l'esemplare più riuscito di una letteratura in tal senso «popolare» è additato nei Promessi sposi: ma è un fatto che Nievo ispirò la poetica dei racconti del Carlone meno a Manzoni che alle narrazioni ipotetiche del cordaio, l’ingenuo novelliere (di matrice sandiana anche per il mestiere che esercita) fantasticato nel romanzo rusticale. Vale a dire che Nievo preferì alla via ardua e lunga di un’arte tanto magistrale da trascendere la storicità delle sue forme e da oggettivarsi in una paradigmaticità ecumenica, capace di ascendere a quelle altezze impervie donde i capolavori geniali (secondo un topos dell’epoca) fan piovere verità come luce su tutte le menti, su tutti i cuori, la via più breve di un’arte in grado di dare mimeticamente per acquisiti i pregi dell’oralità popolare, e quindi aderente a questa, come ad una modalità virtualmente predisposta a esprimere la pedagogia del «vero».
88.
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Il Nievo delle rusticali con Carlone, ma anche quello delle Confessioni con l’ottuagenario, ricercò un effetto di verità che convalidasse i suoi testi e li facesse lievitare al di sopra della patente falsità delle usurate convenzioni letterarie, ma con procedimenti assai diversi da quelli adottati, prima di lui, nella strategia manzoniana. Manzoni, anche quando innesta trattamenti distanzianti o perfino ironici, perseguì l’inoppugnabile oggettivazione epica delle proprie invenzioni, mentre Nievo puntò piuttosto su una marcata, caratterizzata soggettività della narrazione, allestendo controfigure popolari e non letterate nella cui voce, nel cui discorrere alla buona, libero da impegni rigidi di costruzione narrativa, l’autore si sarebbe meglio dissimulato, così da documentare debitamente la vita profonda, intellettuale e morale, del popolo, tanto difficile a esprimersi in parole non omogenee, impossibile a comprimersi nella tecnologia rigida, tutt'altra dalla natura dell’oralità popolare, delle macchine narrative regolari, degli artefatti congegni romanzeschi. In questo senso la continuità tra il bifolco delle novelle e il protagonista-narratore delle Confessioni è forte: solo che nel romanzo, coerentemente con una considerazione problematica, a tratti veramente antiarcadica, della ple-
be rurale, Nievo non può delegare la narrazione a un esponente del popolo in senso stretto, nell’accezione della classe più numerosa e più povera. L’ottuagenario (che è stato intendente di finanza, ma anche castaldo, e da bambino inserviente di cucina; che sa scrivere ma manovra con difficoltà la penna, che sa leggere ma ha difficoltà a capire i maggiori autori italiani) vuol essere piuttosto il rappresentante tipico,
non compromesso da un’appartenenza di classe troppo precisa, del popolo-nazione, di un’oscura e mediocre italianità (meno decifrabile in
termini sociologici che come un’antropologia e come un’etica) emersa faticosamente a coscienza di sé nel corso del secolo risorgimentale. Comunque, quale fosse anche nelle Confessioni il progetto nieviano, d’una narrazione d’apparenza spontanea e colloquiale, in un certo senso subletteraria, è chiarito a sufficienza nelle prime pagine del libro, dove s’individua una vera strategia di minimizzazione del testo come costruzione, come pianificazione retorica. L’ottuagenario dice di aver voluto «descrivere ingenuamente» (I, 3)' la sua vita, di aver fatto un «semplice 1
. x è è . . Diè quiPRO in avanti co indicherò tra parentesi nel testo il capitolo e la pagina delle
L’umorismo di Nievo
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racconto» (I, 4), di aver messo insieme le sue confessioni senza un programma preciso e calibrato, diluendo la scrittura in nove anni, «a
sbalzi e come suggerivano l’estro e la memoria» (I, 5). Infine si appella ai lettori: «Ma già la chiarezza delle idee, la semplicità dei sentimenti, e la verità della storia mi saranno scusa e più ancora supplemento alla mancanza di retorica: la simpatia de’ buoni lettori mi terrà vece di gloria» (I, > Si trattava di sottrarre l’opera all’alveo della letteratura, di quella tradizione Iétteraria che molti, negli anni nieviani, accusavano di storica
sordità alla vita autentica del popolo. Meglio avrebbe rispecchiato questa vita un testo intimamente orale, che si presentasse cioé come l’occasionale commutazione scritta della sostanza linguistica e ideale, di quel patrimonio di valori ed esperienze quasi mai raccolto nei libri, e invece sempre ‘discorso’ — recitava il mito populistico risorgimentale — dal popolo-nazione nella sua quotidianità oscura e virtuosa. A un progetto di questo tipo potevano prestare il modello di una scrittura poco architettonica, in qualche modo analoga all’informalità, all’estemporaneità del parlato, certi grandi umoristi molto amati da Nievo, segnatamente Sterne e Heine. E un primo sfruttamento della tradizione umoristica ‘ nelle Confessioni: essa ispira la tendenziale uzoralità del discorso natrativo e riflessivo dell’ottuagenario, il quale, secondo quanto suggerisce anche il titolo del romanzo, dovrebbe modulare il placido estro di una Confessioni da cui sono tratte le citazioni. Farò sempre riferimento all’edizione del romanzo curata dalla Gorra. ? La suddivisione in capitoli del romanzo obbedisce in genere a criteri tematici e retorici abbastanza precisi. Inoltre le cesure sono marcate da variazioni tonali: gli inizi di capitolo spesso ‘accendono’ lo stile, fanno umorale o enfatica la scrittura; le chiuse sono spesso declinate ironicamente o riassumono lapidariamente il senso di quel che si è raccontato. Tuttavia a un certo punto Nievo finge che la segmentazione del racconto non obbedisca a un piano retorico, insinua che il ritmo respiratorio del testo, costituito dalla scansione dei suoi capitoli, non sia effetto di convenzione, bensì di natura, addirittura di sorda biologia, giacché la mano che scrive può riconoscersi governata dalla stessa necessità animale, dallo stesso cronometro viscerale che somministra sonno e veglia al corpo. Mi riferisco alle parole dell’ottuagenario, quando egli, aprendo il capitolo decimoquinto, vuole spiegare come mai la sera prima abbia chiuso alquanto frettolosamente
il precedente: «La vita d’un uomo raccontata così alla buona non porge motivo alcuno ond’essere spartita a disegno, e per questo io ho preso l'usanza di scrivere ogni giorno un capitolo terminandolo appunto quando il sonno mi fa cascare la penna» (XV, 653).
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
memoria fluente in abbandoni, indugiante in commozioni, inarcata in appassionate interrogazioni del passato. Ed effettivamente il discorso del protagonista nieviano ha per lunghi tratti l’apparenza di una performance poco programmata, in una certa misura arbitraria nelle sue digressioni, accelerazioni e svolte. In questo modo Nievo utilizzava una certa nozione di «umorismo» diffusa nell’Ottocento, come specie letteraria omologa, nella sua irregolarità, alla morfologia spontaneamente irregolare degli oggetti e dei fenomeni naturali. Ma la tradizione umoristica poteva soccorrere il nostro autore anche in un altro modo, più sottile e forse più decisivo. Abbiamo detto delle difficoltà che Nievo incontrava a calare le sue intenzioni antiletterarie nella pratica: qui gli era quasi fatale fare letteratura con altra letteratura, riprodurre la convenzione, assemblare schemi
e topoi notorî, o perfino vieti e di bassa lega. Sterne e gli altri umoristi però insegnavano che era possibile aggredire la letterarietà sfruttando, e non necessariamente azzerando, le tecniche di costruzione: queste potevano essere moltiplicate, affollate contraddittoriamente, fino a inflazio-
narle; si poteva ‘atomizzare’ l’artificio, disseminare il testo di eventi formali eccentrici, di nodi e tensioni non riconducibili a una teleologia unitaria, così da disarticolare, disintegrare dall’interno la geometrica, e perciò mendace, architettura del romanzo ‘ben costruito’, con le sue pretese di riproduzione pseudo-oggettiva del reale. L'arte, ostentandosi fino in fondo come tale, non avrebbe preteso di essere un ar4/ogo del mondo, ma si sarebbe francamente posta come produzione di una soggettività demiurgica. Ora, è vero che le inadempienze di Nievo nei confronti del proprio
principio ‘antiletterario’ — già accertabili in gran numero nelle novelle rusticali — si fanno addirittura lampanti nelle Confessioni, dove l’autore soverchia spesso e recidivamente, con la sua cultura, col suo specifico sapere tecnico-formale, col suo mestiere di romanziere, il linguaggio del narratore dietro cui si nasconde, che dovrebbe essere assai più diretto e immune da letteratura, e anzi avvalorato da una candida indifferenza
alle astuzie retoriche degli scrittori professionisti. Ma proprio quando fallisce il suo intento mimetico, la coerente simulazione della voce ottua-
genaria, la soggettività dell'autore opera in maniera più interessante all’interno del testo. Forzando e contaminando i codici e i generi, conge-
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stionando di succhi retorici diversi ed eterogenei lo stile, accostando materiali noti o consunti in guise inedite e talora sorprendenti, Nievo fa delle Confessioni uno strano oggetto, una creatura ibrida e difforme, la cui singolarità formale non è gratuita anche se probabilmente fu solo in parte lucidamente voluta. Ho detto che il modello umoristico offrì a Nievo un registro colloquiale in cui mascherarsi. Ma quando la maschera, la voce dell’ottuagenario si assottiglia tanto da far trasparire o emergere in primo piano l’affollato laboratorio letterario dell’autore, può dafsi che fosse ancora il gusto dell’irregolare ammirato nei grandi maestri dell’umorismo a far sì che Nievo si sentisse autorizzato a lasciar aperta e scomposta la struttura del testo, o almeno a tollerare come vitale e interessante la molteplicità discorde degli elementi retorici e tematici che gli si venivano formando sotto la penna. Forse si potrebbe dire, con una metafora rischiosa ma utile per intenderci, che il regime formale delle Confessioni non è repressivo. La struttura narrativa — l’intreccio — non taglia e non pianifica inflessibilmente, non impone una rigida economia funzionale; piuttosto asseconda
elasticamente, contiene senza comprimere l’estroversa fisiologia della scrittura, l’attività delle sue associazioni e ibridazioni. Le Confessioni sono sì un oggetto narrativo, un romanzo, ma anche il luogo di un esercizio letterario enciclopedico, il piano su cui precipitò e si compose
come testo l’intera gamma nieviana dei temi e delle forme, per tanta parte già distintamente sperimentata nella varietà delle opere precedenti, ed ora concentrata a orchestrare un’estesa ricognizione dei ‘possibili’ letterari, e, attraverso questa, a esprimere un orientamento ideale, una
cognizione del mondo. L'architettura narrativa (una simulata autobiografia sarebbe stata meno gerarchica e vincolante di un romanzo canonicamente costruito, tenuto all’elaborazione ingegnosa di un intrigo e a un convincente scioglimento) fu ordinata alla latitudine, alla varietà della
scrittura. L’estesa esperienza umana che il personaggio-narratore riper-
corre nella memoria fornisce di continuo all’autore occasioni per riversare nel testo, in tutta la sua estensione, la propria esperienza letteraria: Nievo riscrive intensamente se stesso, utilizza come fonti le proprie opere precedenti, ma anche rivisita molta letteratura altrui, l’imita e la tradisce, lavorando non solo con gli usi retorici e i tipi tematici, ma anche coi fondi, con le sostanze ideologiche che questi reperti letterari,
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trapiantati dai vecchi al nuovo contesto, trascinavano con sé.
Se a proposito del primo e giovanile romanzo nieviano, l’Antiafrodisiaco per l’amor platonico, possiamo parlare di sternismo in senso stretto, credo che in questa accezione ampia — come priorità accordata alle esigenze di una scrittura semanticamente densa rispetto a quelle d’una architettura romanzesca univoca e geometrica — si possa dire di un umorismo di Nievo anche nelle Confessioni, non semplicemente come inclinazione all’ameno, o al comico-grottesco?. Anche il divertisserzent delle infrazioni, delle stravaganze meccanicamente studiate e applicate, che piacque a tanti minimi seguaci di Didimo e di Heine, non avrebbe soddisfatto il nostro scrittore, che condivideva piuttosto un concetto ‘maggiore’ e serio dell’umorismo, pure corrente ai suoi giorni: come
pratica letteraria problematica, corrispettiva d’un’inquietudine morale, arte della scomposizione e dell’irregolare, magistralmente antiretorica e anarchica, involgente idee e fermenti feraci; ed anzi essa stessa feconda
euristica del serso, come proprio Nievo afferma in La nostra famiglia di campagna, quando paragona l’informalità sterniana di questo racconto al «camminare», a un bighellonare disponibile e curioso: Per me tutte le azioni nostre naturali prendono sostanza e modo dalla principale e tipica della vita; e come in questa vai le spesse volte a diritta ed a sinistra, finché riesci ove non ti saresti mai
immaginato, così credo debba naturalmente avvenire nella scrittura, alla quale adagiandosi, non possiamo noi far la rassegna di tuttii pensieri che poi verremo colorando, come farebbe delle tornite assicelle un dipintore d’imposte; ma sibbene ci dipartiamo dal primo, ed essendo essi materia viva e bollente e moltiplicandosene perciò il numero, e variandone le specie all’infinito, si corre loro dietro per ogni dove; finché, se la mente non è affatto pazza e disordinata (il che spero non sia ancora della mia) il giro naturale li riconduca al sentiero più spedito‘.
? Inclina, a mio vedere riduttivamente, a un’accezione soprattutto stilistica e figurativa dell'umorismo nieviano — come deformazione comico-grottesca — F. Portinari nella Presentazione dell’ed. da lui curata delle Confessioni, e in Ippolito Nievo. Stile e ideologia, cit. (nonché, più recentemente, nel capitolo dedicato a Nievo in Le parabole del reale, Torino, Einaudi, 1976). * La nostra famiglia di campagna, in I. Nievo, Romanzi. Racconti e novelle, cit., p. 602.
L’umorismo di Nievo
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Certamente la scrittura delle Confessioni non fu così estemporanea e avventurosa; ma i rapporti che l’autore intrattiene con i molti testi che il
suo testo implica e suggerisce son anch'essi attivi e inventivi. Anche la variegata letteratura che dalla tradizione fluisce nelle Confessioni è «materia viva e bollente»: attraversata, attivata dalla scrittura nieviana, essa
reagisce, sprigiona sensi originali. L’uso e l'abuso, la dialogizzazione, per usare la definizione di Bachtin’, della parola letteraria altrui; o, in altri
termini, la flagrante intertestualità (talora subita come automatismo imitativo, più spesso carica di intenzioni personali o apertamente parodica) è uno dei modi in cui Nievo dà corpo all’ideologia, alla programmatica pedagogia del romanzo. Ma i decorsi dell’intertestualità nieviana concorrono altresì a riprodurre sintomaticamente la coscienza dello scrittore nelle sue latenze conflittuali, nei lati meno esposti e solo preterintenzionalmente denotati dal testo. Più avanti ci soffermeremo analiticamente sulla morfologia e sull’ideologia (come programma e come sindrome) delle Confessioni. Per ora basti dire che una certa irregolarità mescidata fu il modo specifico in cui Nievo si rifiutò di ridurre a un’armonia convenzionale, a un’organicità narrativa artificiale e surrogatoria l'inquietudine ch’era sua e di molti altri nel «decennio di preparazione». Il mito risorgimentale della «transizione» — nell’interpretazione resistenziale, recepita e partecipata anche da Nievo, che ne dava la cultura tenchiana — postulava che il «vero» fosse sì nel presente, ma come latenza, come potenza più che come visibile attualità, perché la piena e vittoriosa attuazione ne sarebbe venuta, a forza di fede e opere, quando un fato storico dalle sfumature
politiche avesse permesso l’assunzione del reale nell’ideale progressivo, la discesa del numinoso ideale dalla sfera delle Necessità a quella dei fatti. Nell’oggi, il mito descriveva (individuandolo nella coscienza anco-
ra annebbiata del popolo, nelle incertezze della letteratura, nei compromessi della politica...) uno iato doloroso tra la realtà e l'atteso esaudi-
mento: da un lato un lento flusso di giorni e anni opachi, disorientati, inceppati dal dubbio eppure anelanti al futuro; dall’altro, oltre una soglia epocale certa e profetabile, ma non ancora precisamente collocabi? Cfr. M. Bachtin, «La parola nel romanzo» (1934-35), in Estetica e romanzo, ed. it. Torino, Einaudi, 1979, pp. 67-230.
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le nel tempo, il vagheggiato perfezionamento della Storia, l’operoso avvenire nazionale. Mi chiedo se, grazie ai tramiti indefinibili pei quali una cultura, un senso delle cose comune a molti trascorre in una pratica letteraria individuale, nelle tensioni di una individuale scrittura, Nievo
non abbia fatto corrispondere la sagoma asimmetrica delle Confessioni, priva di fermo centro e attraversata da tensioni molteplici, alla supposta precarietà, all’instabilità del reale colto nella sua dimensione ottativa, nell’ansiosa invocazione dell’ideale latitante. Avremo modo di vedere come la generosa e magmatica complessità del romanzo si aggreghi intorno a un nucleo intellettuale ed emotivo, per così dire, di propaganda profetica, come tutti i materiali confluenti nel testo siano orientati a dar forma a una cognizione del tempo risorgimentale, fino all’epochè preunitaria, come stagione provvisoria e incompiuta, realtà visibile di attesa sofferente e di oscura preparazione; e come d’altronde il testo sia organizzato a risarcire quest'immagine col fantasma, l’ipostasi di un Tempo maggiore — futuro ma già virtuale, e perciò calamitante i discordi elementi dell’oggi — in cui finalmente si perfezionerà il destino nazionale, e si avrà con ciò il compimento luminoso del «vero possibile», l'emersione dell’occulto ideale. L’Antiafrodisiaco (scritto nel °51) era stato invece formazione reattiva a un groppo di miti erotici, letterari e politici, di cui Nievo ventenne voleva liberarsi; segno di una crisi le cui origini vanno cercate certo nella biografia dello scrittore, ma anche nel clima culturale e psicologico del periodo, rispetto al quale la recente disfatta quarantottesca aveva segnato un momento di svolta, di discrimine®. In questo piccolo testo comico i ° Secondo G. Mazzacurati il piccolo testo umoristico, blasfemo nei confronti del mito letterario e sentimentale dell’«amor platonico», mette in scena «la falsità di una forma che ha consumato la propria crisi forse proprio nel biennio della prima guerra di rivoluzione nazionale fallita (tra il 1848 e il ’49, che sono gli anni della relazione con
Matilde Ferrari, nonché quelli in cui si inscrive la misteriosa partecipazione o presenza di Nievo ai moti insurrezionali di Toscana)». Scrive ancora Mazzacurati: «credo che attraverso questa ingombrante metafora dell’amor platonico, oltre a scaricare i residui di una storia privata, Nievo abbia messo precocemente in questione un modo di essere o diciamo meglio uno stile intellettuale ereditato dal primo risorgimento ma visibilmente inadeguato (per la sua soggettività epico-tragica e per i suoi residui byroniani) alle dimensioni collettive, alla complessità d’orizzonti e di interessi che ormai governavano il secondo risorgimento» (G. Mazzacurati, «Nievo dall’epistolario all’Antiafrodisiaco: la
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cieli rarefatti dello spirito, in cui solo un anno prima Nievo aveva trasvolato scrivendo il suo epistolario romantico a Matilde Ferrari, sono capovolti e precipitati in un’opposta enfatizzazione del terreno e del materiale. Proprio la drasticità, l’estremismo di questa conversione manifestano che già al tempo della sua prima prova narrativa Nievo aveva ben chiaro quali fossero i poli problematici intorno a cui si sarebbe interrogato nelle Confessioni (come, diversamente, nel Barone di Nica-
stro); la coscienza assiologicamente piena e la storia tragicamente disertata dai valori; le aspirazioni dinamiche e sublimanti dell’ideale e la greve e refrattaria condizionatezza del reale. Nel suo romanzo maggiore Nievo tenterà di individuare una possibile mediazione. Nell’ Antiafrodisiaco questi termini appaiono invece nella loro scissione: del reale si coglie estremisticamente l’aspetto della materialità, profilata in sagome grottesche e posta a movente meccanico dei personaggi; l'ideale è denegato e assente, compare in negativo come ferita, bisogno o bivalente risentimento; anche, come il vuoto delle lacune che rendono disconti-
nuo, singolarmente disorganico il testo; come la luce la cui assenza trasforma in fantocci istintivi i personaggi, e sembra abbandonare il romanzo nel suo complesso a una balzana, disorientata arbitrarietà.
2.
L’«Antiafrodisiaco per l’amor platonico»
L’Antiafrodisiaco nacque senza i caratteri, le ‘macchie’ originarie del prodotto destinato al pubblico. Infatti Nievo lo scrisse, ma non pensò
catastrofe dell’amore romantico», in Annali dell'Istituto Universitario Orientale / Sez. Romanza, XVII, n. 2, luglio 1985, p. 373; e precedentemente in AA.VV., La correspondance (Edition, fonctions, signification), Aix-en-Provence, Ed. de l’Université de Provence, 1984, pp. 111-112).
Il saggio di Mazzacurati merita attenzione soprattutto perché avvicina l°Antiafrodisiaco in un’ampia prospettiva storico-culturale, e collega la genesi di questo testo — che la critica a lungo ha ritenuto di poter interpretare basandosi quasi soltanto sulla biografia dell’autore — ai decorsi europei, soprattutto settecenteschi ma anche ottocenteschi, del romanzo epistolare, della tradizione parodica che ben presto affiancò la fioritura di questo genere letterario, dell’«antiromanzo» di marca sterniana.
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mai a pubblicarlo, ciò che è avvenuto solo in anni recenti’. La genesi,
l’indole ‘privata’ del testo risulta da una nota aggiunta al manoscritto nel 1852: «Questa storiella fu condotta a termine [...] sotto l’impressione di avvenimenti spiacevoli e di rabbie puerili [...]»°: a sfogare, a distanziare una passione amorosa (ch’era stata soprattutto un’infatuazione letteraria). Non è qui il caso di riandare la preistoria dell’ Antiafrodisiaco, a ritrovarvi il blocco delle lettere di Nievo a Matilde Ferrari,
quella sorta di semintenzionale romanzo epistolare a una voce di cui la «storiella» umoristica costituisce il controcanto e la palinodia’. Meglio notare subito che, mentre sfoga e purifica suoi umori biografici, Nievo ammicca (con poca sottigliezza, con poche mediazioni, ma in modo tanto più sintomatico) a un Lettore Modello disposto, con lui, a gettare in mare l’armamentario ingombrante e prestigioso del letterario romanti-
co, nella sua variante sublime. A uno sguardo attento e continuo, l Axtiafrodisiaco si presenta come una satira metodica e crudele di quel che si potrebbe definire (non soltanto perché il titolo autorizzi a farlo) platoni-
smo letterario: l'ardente retorica nobilitante dell’ideale che aveva costituito una delle prime risorse della letteratura sentimentale tra Sette e Ottocento (la Nouvelle Héloise e l’Ortis erano i modelli più presenti al Nievo delle lettere alla Ferrari e quindi anche, nell’inversione satirica, al
Nievo dell’ Antiafrodisiaco); la mitologia dell’ideal fuoco che era digradata poi, qui in Italia, nel fumo di tanti poeti e narratori secondoromantici coevi del nostro scrittore, nel loro foscolismo deteriore o nella languida maniera «pratajuola»'°. Bisogna tenere a mente questo volto antiretori-
co, antiromantico, ‘antiplatonico’ di Nievo quando si scandagliano i testi successivi, dove esso continua a esercitare un’importante funzione formativa: accanto, è vero, ad altri volti diversi, sfumatamente compre-
' Edito per la prima volta da Le Monnier, a cura di C. Bascetta e V. Gentili, nel 1956, l’Antiafrodisiaco è stato recentemente pubblicato di nuovo come volume autonomo a cura di S. Romagnoli, Napoli, Guida, 1983. ° I. Nievo, Antiafrodisiaco per l’amor platonico, a cura di S. Romagnoli, cit., p. 23. ° Un’informazione ottima e completa sulle circostanze biografiche dell’ Antiafrodisia-
co — oltre che su quelle letterarie e culturali — è nell’Introduzione di S. Romagnoli all'edizione da lui curata del romanzetto. ‘° L’aggettivo è coniato da Nievo in una lettera al Cassa del 20 dicembre 1853, ora alle pp. 260-263 dell’epistolario curato dalla Gorra.
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senti. Il Nievo maggiore, nei panni del narratore ottuagenario delle Confessioni, crederà allo spirito, alla dimensione dell’arizza, e il grande
afflato idealistico costituirà una ragione non secondaria del fascino del suo discorso affabulante e predicatorio: ma il platonismo di questo romanzo sarà soprattutto adeguamento della letteratura alla filosofia, nobilitazione delle trame romanzesche attraverso la discussione delle idee, assorbimento del felos avventuroso o erotico nei superni tragitti della Storia. Una gigantesca supposizione ideale darà senso e salvezza alle esperienze di vita ripercorse autobiograficamente dall’ottuagenario; e certo lo spiritualismo che fa da sostegno e da cornice al romanzo avrà i suoi riflessi diegetici, e tra i tanti che s'intrecciano nel testo saranno ben riconoscibili i fili iridescenti e vaporosi del sublime: per cui Nievo non eviterà le scene madri, le rivelazioni commoventi, gli emotivi eloqui incontinenti, tutta una minuta e varia casistica di fuochi generosi e celesti aneliti trapelanti in gesti parole ed epidermidi congestionate, secondo una ricetta che già negli anni ’50 era sentita come rischiosa o senz'altro deteriore. Ma questa fenomenologia del sublime romantico viene nelle Confessioni fortemente ridotta, e anche continuamente contrappuntata, da vigorose istanze di realismo, che giungono fino a un’attenzione al concreto, al corporeo davvero singolare se paragonata al tono dominante della letteratura di medio Ottocento. Del Nievo maggiore sarà un precario oscillare o un difficile, geniale bilanciarsi tra sublime e comico, astrazione idealizzante e spregiudicatezza realistica, spirito e natura: nell’ Antiafrodisiaco, quasi a provare intensivamente un registro a cui si riserva un frutto di più mediati e modulati esercizi, programmaticamente si esaltano i poli ‘bassi’ di queste coppie di opposti, con la conseguenza fissa di minimizzare i poli ‘alti’: gioco di contrasti e disattese che viene esteso a tutti i campi passibili di sublime letterario. Nella mitologia alla quale Nievo aveva ispirato l’epistolario alla Ferrari, gli innamorati, magnetizzati dall’amor platonico, ovvero da un erotismo sostanziato di teologia, tendevano irresistibilmente a uscire dalle spoglie mortali, sublimando la carne: nel senso, proprio, che un’incandescenza misteriosa assottigliava, rendeva infine puramente simbolico quell’involucro, faceva al limite degli amanti pure sostanze angeliche, vaporose e ardenti; talora verbose fiaccole spirituali, ondeggianti verso l'alto, tese panicamente all’effusione cosmica, alla comprensione del
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tutto. Il travaglio del trasumanamento amoroso poteva essere fastosa-
mente, visivamente manifestato da pallori, rossori, sudori, tremiti e
gemiti, loquele febbrili e altisonanti, occhi specchianti o fiammeggianti;
fenomeno riassuntivo ed estremo, in qualche caso, la consunzione, la
morte per etisia: quando lo spirito rompeva gli argini del corpo e questo, prima di disintegrarsi, brillava per una volta di luce non terrena. Di questa sintomatologia l’Antiafrodisiaco delinea l’immagine speculare e rovesciata: con accanita metodicità il rapporto tra spirito e materia, tra linguaggio dell'anima e linguaggio del corpo viene svisato e capovolto. Può accadere per esempio che questo secondo linguaggio smentisca il primo: s’ingrana allora un semplice meccanismo generatore di comicità. S’insinua che certi atti e contegni — lungi dall’aver diritto, come i personaggi vorrebbero, alla nobiltà, alla tutela di un alibi platonico — siano in realtà epifenomeno immediato di meccanici moti viscerali: di un’ottusa reattività animale provocata da attriti casuali, o di un laborioso metabolismo. Augusto, uno degli eroi del romanzetto, si crede amorosamente corrisposto dalla Signora Morosina, perché ella «aveva fatto
'! Si pensi alla bellezza esangue e stilizzata, quasi purgatoriale, che la malattia mortale donerà a Pisana, già calda e vibrante di umanissimi sensi: «Pallida trasparente come l’alabastro, profilata nelle sembianze come una Madonna addolorata di Frate Angelico, [...] gli occhi le si erano ingranditi meravigliosamente, e la metà superiore della pupilla adombrata dalle palpebre traspariva da queste in guisa d’un lume dietro un cristallo colorato [...]. Era una creatura sovrumana; non mostrava alcuna età. Soltanto si poteva
dire: costei è più vicina al cielo che alla terra!» (Conf., XX, 925). Per Pisana, come per Maria in Fede e bellezza, come per Margherita nella Daze aux camélias (romanzo in gran voga negli anni di Nievo) la morte per tisi è un modo simbolico d’espiare i trascorsi peccaminosi; ma per l’eroina nieviana, più esplicitamente che per le altre, questa morte è anche il segno visibile d’una insufficienza della carne a contenere la sete platonica dello spirito, l’anelito nostalgico dell'anima individua all’unità dell'anima cosmica, nostalgia di cui l'amore umano è simulacro sensibile e mortale. Invoca l’ottuagenario: «Sorridi ancora alla mia mente annebbiata e decrepita, o anima pura, da quel cielo alto e profondo dove per l’intima forza della sua sublimità si rifugiò la tua luce, e additami con un raggio di speranza il sentiero per cui possa raggiungerti!... [...]. [...] V°ha una sfera sovrumana, un ordine eterno dove le colpe piombano nella materia, e le virtù si sollevano a spirito. Io che ti vidi scrollare d’intorno queste spoglie frali e caduche, io che ti ricordo più bella più giovine più felice che mai all’istante supremo e pauroso della morte, [...] io deggio credere per necessità a una sublime purificazione, a un misterioso travestimento degli esseri!» (XX, 944-945).
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una buona digestione, ed aveva gli occhi lucidi come due stelle»”. Fenomeni d’ordine digestivo o alimentare (si tratta delle necessità più prosaiche e meno redimibili nel senso dello spirito) interferiscono sovente con la semiotica dell’amor platonico. Quando Incognito (narratore
della storiella e trasparente controfigura nieviana) s'innamora di Morosina, i sintomi dell’infatuazione si confondono con quelli d’una cattiva
digestione («avendo fatto una colazione piuttosto pesante mi batteva il cuore [.:.]»)°. In una pagina successiva Incognito così interpreta 1 comportamenti della donna: O Morosina, era dunque proprio vero che m’amavi! poiché la mia presenza ti sviluppò l’appetito in maniera, che nell'ora e mezza ch’io ti sedetti vicino non cessasti mai un attimo dal dimenare le. mascelle! — E poi non era forse l’amore innaffiato da qualche sorso di vino che ti coloriva le guancie? [...] O adorabile modestia! — non appena ella si vide sola con me abbrancò un bel pezzo di formaggio, ed un tozzo di pane che restava sulla tavola, e se la diede a gambe lasciando me soletto a meditare l’immensità dell’amor suo".
Più tardi Incognito riceve una lettera dell’amata e immagina di
vedervi le tracce di tre lacrime, «e dopo invece ho scoperto che le erano macchie di unto». Incognito verga una lunga risposta. Viene a questo ‘punto tematizzato il mito sentimentale preso di mira satiricamente: come Incognito chiaramente ci fa capire, era proprio di questo mito e dei relativi cascami retorici che Nievo aveva intessuto le lettere indirizzate a Matilde Ferrari: «parlava di eternità, d’infinita perfezione, di estasi, di annientamento materiale, di esistenza incotporea, come si parlerebbe a colazione del burro più o meno fresco, e delle ova dure, o bollite»!®.
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I. Nievo, Antiafrodisiaco, cit., p. 34.
sonipr) prisT; © Ivi, p. 82. Ivi, p. 98. !é Ibidem. Nievo non esagera affatto il ‘platonismo’ delle lettere spedite alla Ferrari. In quella del 26 febbraio 1850 leggiamo: «Matilde! Matilde! [...] Io l’amo col trasporto della passione, coll’immensità dell’estasi! [...] Il mio amore è grande! Grande come il mio pensiero, esso diverrà eterno sol ch’ella lo voglia. Cosa posso io dirle di più! Nulla! nulla... perché la favella degli uomini non può esprimere i sensi infiniti d’un’anima» (I. Nievo, Lettere, cit., pp. 49-50).
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Risulta evidente l’indole reattiva dell’antiplatonismo nieviano, nu-
trito di giovanile radicalismo e d’ingiusta misoginia: «se s’hanno fra le sue, lettere che abbiano un poco di succo, le sono quelle che seguirono qualche mio foglio piuttosto materiale, e voluttuoso! Da ciò deducete la virginità de’ suoi pensieri, che io avrei giurato esser casti come quelli di Dio!»!. Risulta anche evidente, altrove, che Nievo già poteva postulare un modo diverso e mediato di idealizzare la passione amorosa, non nella negazione, bensì attraverso una complicazione e risemantizzazione della sensualità: come accadrà a Carlino e Pisana, tra Incognito e la Fanny si stabilisce una relazione incentrata sulla fisicità, ma disponibile a una significazione trascendente". Una certa qual dimestichezza simpatetica dei corpi, tattile e sensitiva, viene valutata positivamente, quale tramite di comunicazione affettuosa, cordiale e sincera, che si estende dalla sfera dei sensi a quella dei sentimenti: e abbiamo toccato uno dei temi
d’ascendenza sterniana che s’individuano nell’ Antiafrodisiaco. Pure almeno in parte riconducibile a Sterne è la strategia figurativa comicizzante che Nievo adotta quando sostituisce al contegno patetico, alle inclinazioni melodrammatiche degli amanti del mito romantico certe sue sagome angolose e surreali che, sotto l’effetto della passione, si agitano con ritmo insensato, esprimono una gestualità paradossale, geometricamente convulsa, come provocata da esterna coazione meccanica
agente sui
gangli nervosi come sui fili d’una marionetta. Nella prima pagina del libro Incognito capisce che il Signor Stracotto è malato d’amore perché il poveretto dimena «gambe, e braccia come il Telegrafo», ed è vittima ‘I. Nievo, Antiafrodisiaco, cit., p. 100. "Si rivolge Incognito a Fanny: «Abbiti su queste carte un ultimo saluto, o la migliore delle donne che abbia mai incontrato quaggiù! — Tu hai compreso l’amore per un sacrificio, e mi hai offerto tutta te stessa! Malanno a quelle che chiaccherano d’abnegazione, e d'amore, e nell'estremo fervore dell’estasi ti domandano freddamente: Quando mi sposerai?!» (p. 77). Sono evidenti le analogie tra l'avventura erotica e sentimentale con Fanny, che assorbe la miglior parte delle energie di Incognito durante i moti di Toscana (dietro quest'avventura è intuibile un’esperienza vissuta da Nievo stesso) e, nelle Confessioni, l’idillio veneziano di Carlino e Pisana, «giardino d’ Armida» in cui l’eroe volentieri oblìa
nei piaceri il lutto per la patria morente. Giustamente F. Portinari ha parlato di «un episodio che ritorna quasi come un complesso di colpa» (Ippolito Nievo. Stile e ideologia, Slo UO)
L’umorismo di Nievo
101
di una «convulsione uniformemente accelerata»'?. Il primo bacio di Augusto e Ottavia è un caso balistico alla moviola di teste che carambolano come bocce lentissime lungo traiettorie convergenti: «Bisogna [...] dire che le pesasse [a Ottavia] il capo, perché a poco a poco lo chinava insensibilmente verso di lui: e il contrario per avventura avveniva d’Augusto, il quale lo allungava insensibilmente verso di Lei. Venne il momento che le due teste si scontrarono, e lo scontro successe nelle regioni delle labbra [...]»°°. Il capitolo XXII è interamente condotto come una fars4 scofinessa di burattini o fantocci meccanici, e un vero e proprio fantoccio è mastro Gionata Beccafichi, che al termine del capitolo in cui si racconta la sua storia ci viene descritto come un grottesco assemblaggio di spropositati solidi geometrici: figura quasi emblematica e riassuntiva della vena surreale dell’Antiafrodisiaco”. Nella letteratura che il testo nieviano parodizza e distanzia, il mito platonico e la retorica, il linguaggio di questo mito erano di natura epidemica: il fuoco sublime dell’amore poteva generare o annettersi un fuoco patriottico, o un’infocata religione sociale, ecc.; e insomma le
fiamme potevano propagarsi in dominî, in zone d’esperienza che la mentalità romantica e risorgimentale facilmente riteneva contigue e intercomunicanti. Con coerenza, Nievo insegue e rovescia satiricamente
la retorica ‘platonica’ nelle varie direzioni in cui essa soleva esplicarsi. La teofania storico-progressiva: la rivoluzione quarantottesca, cui pure Nievo non rimase estraneo, viene liquidata in poche allusioni riduttive: «In quel tempo nel nostro piccolo mondo insorse qualche baruffa alla foggia moderna, ma somigliantissima alla Mitologica che descrive Esopo fra le Rane, ed i Topi». Al tipo dell’apostrofe patriottica, petrarchesca, ortisiana e leopardiana, intonante l’elegia delle glorie passate e il compianto dell’odierna umiliazione, subentra il repulsivo referto clinico, uno squallido elenco di malanni (ancora Nievo predilige immagini e !° I. Nievo, Antiafrodisiaco, cit., p. 25.
% Ivi, p.135.
2! S. Romagnoli, nell’Introduzione all’ed. del romanzetto da lui curata, a proposito del capitolo su mastro Gionata Beccafichi ha fatto il nome di Rabelais (sottoscrivendo un
giudizio del Bozzetti). La descrizione del personaggio però mi fa pensare anche a certe bizzarre fisionomie disegnate da Heine nei Reisebilder. 2 I. Nievo, Antiafrodisiaco, cit., p. 52.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
metafore attinte dalla sfera fisiologica): «la nostra patria è una donna ammalata che ha la tegna in testa, l’artritide, e il sangue bleu al braccio destro, che è monca del sinistro, e che ha finalmente un canchero nel
ventre, e una gotta dolorosissima ai piedi»°. Paragonerei infine all’ideo-
logia populista, condivisa dal Nievo rusticale, della nativa spiritualissima e frugale filosofia-religione delle plebi contadine, l'approvazione presente nell’Anziafrodisiaco, in ragione però del realismo sensistico degli umili, del loro pragmatismo erotico ed esistenziale: «Fortunati loro che non sanno cosa sia l’amor platonico, e si attengono al positivo! perché cos'è finalmente l’uomo? — Carne, ed ossa — cos'è dunque
l’amore?»”*. Se nell’Anziafrodisiaco prendessero corpo solo degli slegati impulsi iconoclastici, finalizzati allo sfogo personale o al divertimento goliardico, la cosa avrebbe poco interesse critico. Ma Nievo intuitivamente destruttura un cosmo solidale di miti, stereotipi, credenze; e la destrut-
turazione è d’ordine complessivamente tecnico-formale, prima ancora che tematico. Voglio dire che Nievo aggredisce una certa concezione corrente del congegno narrativo, quella che ai dì suoi, secondando le abitudini medie e i gusti del pubblico, costituiva la ricetta dei romanzi che ho definito regolari. Le scelte formali dell’ Antiafrodisiaco presuppongono l’idea che sia falsa e subdolamente falsifichi l’immagine del mondo ogni teleologia di racconto che, ammantandosi di logica e di verosimiglianza, consegna al lettore un regolato e concatenato flusso di cause ed effetti, e ingrana il meccanismo
delle aspettative avventurose,
della
seducente identificazione col narrato. Questa posizione ‘antiteleologica’ è chiaramente espressa in un luogo del testo: ” Ivi, p. 88. Nelle Confessioni invece Nievo, allineandosi con la tradizione illustre, inneggerà senza ironia: «Quanto sei bella, quanto sei grande, o patria mia, in ogni tua parte!... A cercarti cogli occhi, materia inanimata, sulle spiagge portuose dei mari, nel verde interminabile delle pianure, nell’ondeggiare fresco e boscoso dei colli, tra le creste azzurrine degli Appennini e le candidissime dell’Alpi, sei dappertutto un sorriso, una fatalità, un incanto!... A cercarti, spirito e gloria, nelle eterne pagine della storia, nell’eloquente grandezza dei monumenti, nella viva gratitudine dei popoli, sempre apparisci sublime, sapiente, regina! A cercarti dentro di noi, intorno a noi, tu ti nascondi talora per vergogna la fronte; ma te la rialza la speranza, e gridi che delle nazioni del mondo tu sola non moristi mai!» (XVI, 711-712)
“ I. Nievo, Antiafrodisiaco, cit., p. 60.
L’umorismo di Nievo
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Vi sono molti che trovandosi senza faccende in questo mondo si occupano nel fare i conti a Domeneddio, e assicurano ch’egli ha scritto lettera per lettera tutte le nostre vite future in un libro che chiamano il Destino. Per me dico che se egli si trastulla con simili baje, dovrebbe farci giunger dritti al nostro scopo, senza rigirarci a ghirigori come le lumache. Suppongo che il Signore non sia come certi Romanzieri, i quali guadagnando un tanto per pagina, fanno passare i loro Eroi dalle Indie, e dallo stretto di Magellano per condurli a Napoli: altrimenti dovrei tacciarlo di cattivo gusto, il che
Pe
ripugna, come dicono i Teologi, alle sue infinite perfezioni”. #
In un’altra pagina si legge che la Provvidenza «è il peggior amministrator che si trovi»: asserzione antimanzoniana denotante, più che miscredenza religiosa, una propensione all’eresia controromanzesca. Ciò che infatti rileverà chi guardi alle strategie del testo nieviano: di accerchiamento, di elusione, di straniamento dell’immagine del mondo, come se questo, sfuggente a un’unitaria intellezione e rappresentazione, fosse afferrabile nei suoi frammenti discordi, nelle sue linee caotiche, solo attraverso una scrittura prismatica e altrettanto irregolare. Una scrittura disorientata e disorientante, che in vari modi attenta alle abitudini del lettore, ne spiazza le attese, ‘scarta’ rispetto alla sua ottica consueta, all’ordine delle percezioni che gli sono familiari. Questa trasgressione si
affida al repertorio delle tecniche ‘antiromanzesche’ di Sterne, note a Nievo specialmente attraverso la traduzione foscoliana del Sentimental Journey? .Il nostro scrittore mutua dal modello non soltanto dati generici di sensibilità, ma anche modalità formali come l’ellissi, la frammentaSa ibi pier 33: ° Ivi, p. 81. ? U.M. Olivieri (in «Tra autobiografia e romanzo della storia: Nievo e l’ibridazione dei generi», Lavoro critico, n. 31-32, gennaio-agosto 1984, p. 127) basandosi su un
accenno dello scrittore contenuto nella lettera a Caterina Curti Melzi del 2 luglio 1860 (ora in I. Nievo, Lettere, cit., pp. 655-656) ritiene probabile che Nievo conoscesse assai
meglio di quanto si sia in genere ritenuto anche il Tristram Shandy, nella traduzione francese e non solo in quella italiana molto parziale del Bini, comparsa nel 1829. Anche G. Mazzacurati (in Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 273-274) si è soffermato sui rapporti tra Nievo e Sterne, e ha ipotizzato che Nievo abbia incontrato per la prima volta il Tristram Shandy sulle pagine della Physiologie du mariage di Balzac, libro letto piuttosto presto, ai tempi del rapporto con Matilde Ferrari, e quindi prima di scrivere l’Antiafrodisiaco.
104
Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
zione del tessuto narrativo, l’abito digressivo, la ludicità metadiegetica. L’ellissi, la sprezzatura descrittiva che esige, con lieve effetto di choc, la
cooperazione del lettore, a integrare attivamente le reticenze, gli spazi vuoti del racconto: ecco la descrizione di una scorpacciata:
Ci sedemmo io, ed Anonimo a tavola — e dopo due ore Anonimo aperse la bocca, e m’interrogò — e un’ora dopo ancora io apersi la bocca per rispondergli, ma aveva le mascelle così infiacchite che non ci fu maniera di compiere un accento, e bisognò che mi portassero a letto dove sognai d’essere diventato una botte”.
O il resoconto d’un viaggio, tutto proposizioni esclamative: «Oh
l'eccellente vitello che ci manucammo giunti al luogo della nostra prima fermata! — Che zigari deliziosi fumammo per viaggio! — Che belle donnette ebbimo a compagne nel viaggio della strada ferrata!» e così via. Rimarchevole anche la notazione davvero minimale dell’avvento della cattiva stagione, col conseguente trasloco della famiglia della Morosina dalla campagna alla città. In luogo dell’ovvio accordo simbolico di commiato della natura e rituali della partenza, e della indefinita amplificazione per note paesistiche e psicologiche, leggiamo: «bisogna sapere che le foglie avevan finito di cascare, perché sugli alberi non ce n’era più una; per cui il Signor Filostrato adunò il consiglio di famiglia, e disse: Andiamo alla città. E il consiglio rispose in coro: andiamo!»”. Questo periodare breve e guizzante, frequentemente interpuntato,
che potremmo dire puntinistico per l’attiva funzione significante che vi assume lo spazio bianco, la parola non detta e sottintesa, è il corrispettivo microstilistico della generale articolazione del testo nei corti scattanti segmenti dei capitoli che velocemente sagomano la parodia nieviana. Una regìa istrionesca alterna i dialoghi filosofici e paradossali del Signor Incognito col Signor Stracotto (quasi una sconnessa cornice del racconto) alla trascrizione deformata (di volta in volta picaresca, surreale o
scurrile) del primo amore nieviano. C'è il capitolo digressivo dedicato a °° I. Nievo, Antiafrodisiaco, cit., p. 54. ? Ivi, p. 125. 30 . . . . . Ivi,. p. 38. E qui . saràx opportuno notare, nella miscela di allusioni comiche, una probabile eco di libretti teatrali, di partenze operistiche.
L’umorismo di Nievo
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vita e miracoli «di mastro Gionata Beccafichi prof. di disegno»; un’«osservazione», commento parentetico in margine ai fatti narrati, ritaglia
un altro capitolo, brevissimo, il quattordicesimo, con funzione ritardante. La voce che narra denota il personaggio che si racconta, ma incorpora altresì una istanza metadiegetica. Nievo non ne abusa, ma mostra di saper ‘giocare’ sternianamente col tempo della narrazione («Volete che
vi descriva le nostre tre eroine? Niente di meglio, così chiacchererò un quarto d’ora di più»), magari facendolo interagire col tempo del lettore (impersofiato nella ‘cornice’ da Stracotto, l’innamorato a cui terapeuti-
camente Incognito racconta la sua «storiella»): «Fu mia colpa se quando trovai la Morosina di carne ben diversa dal mio idoletto ideale, il mio
amore si risolse in acqua fresca? Meditate su tal proposito, che io vi narrerò intanto come io, ed Attilio montassimo in un calessino»’”. Non è
davvero il caso di ricorrere a Sterne per spiegare i frequenti appelli al lettore (alcuni inconsuetamente aggressivi: «Tacete, male lingue, e non fate la glosa alle mie semplicissime frasi») o certe esplicitazioni della regìa narrativa (per esempio: «Qui l’ordine cronologico mi ordina di trasportarmi [...]»)". Invece ricorda da vicino la dislocazione sterniana del proemio (nel Sentizzental Journey come nel Tristram Shandy) l’antici-
.pazione nieviana, al quindicesimo capitolo, della «Morale» dell’ Antiafrodisiaco: «Imparate, amici miei (perdonate se metto la Morale prima di finire la favola) imparate, quando avete un’amante, a segregarla con tre muraglie ben grosse dalla vostra immaginazione [...]»”. Nel finale, invece di sciogliersi in logiche conclusioni, la favola precipita inaspettatamente in una confusa farsa onirica: il ventunesimo capitolo consta sol-
tanto della presentazione di certe strampalate fisionomie di personaggi, che nel capitolo successivo grottescamente gesticolano, si abbaruffano e imprecano, inneggiando all’«amore senz’astrazione»”. Farsa onirica: dalla quale infatti il narratore è risvegliato nell’ultimo
106
Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
brevissimo capitolo, dal cameriere che gli porta il caffè. Nievo ha dormito per più di tre anni, dormiva mentre viveva la sua storia d’amore con Matilde Ferrari. Sente con sollievo d’essere uscito da un appassionamento immaturo e conflittuale, ma anche e soprattutto da un labirinto cartaceo di miti soffocanti, di coazioni letterarie. Il risveglio del finale retrospettivamente connota l’Antiafrodisiaco come un testo-incubo, un lungo ibrido sogno iperletterario, liberatorio ed eversivo.
3.
L’umorismo nell'età nieviana
Anche grazie alla mediazione foscoliana, il tipo narrativo del viaggio sterniano fu adottato da molti in Italia”. Se ne colse per lo più il funzionamento digressivo e ‘metatestuale’, generatore di effetti avventurosi e sorprese umoristiche, e non la possibilità che quel modello offriva — come compresero i migliori che in Europa l’adottarono — di incanalare una congruente filosofia del mondo, di calzare, con la giusta
forma discorde, una sostanza intellettuale e morale problematica. In uno scritto del 1856, recensendo appunto uno dei «viaggi» coniati in Italia, De Sanctis distingue tra l’esteriore meccanica replicabile a volontà dell'umorismo e le ragioni genetiche profonde, caratterizzanti nel senso della necessità significativa solo poche concrete realizzazioni di questa modalità letteraria: Non ci è gente, che viaggia alla spensierata, ora guardando, ora cicalando, ora spropositando, vuota di ogni pensiero serio, cammi-
” Sulla fortuna di Sterne in Italia è ancora utile G. Rabizzani, Sterne in Italia, Roma, Formìggini, 1920. Cfr. anche C. Varese, Foscolo: sternismo, tempo e persona, Ravenna, Longo, 1982; L. Toschi, «Foscolo lettore di Sterne e altri Sentimzenta! Travellers», in Modern Language Notes, XCVII (1982), n. 1, pp. 19-40; L. Felici, «Sterne in Italia», introduzione alla trad. it. di L. Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluo-
mo, Milano, Garzanti, 1983. Si vedano poi le introduzioni dei curatori dei tre «viaggi» recentemente apparsi nella collana «Archivio del romanzo» dell’ed. Guida di Napoli, e cioè S. Pellico, Breve soggiorno in Milano di Battistino Barometro, 1983, a cura di M. Ricciardi; L. Ciampolini, Viaggio di tre giorni, 1983, a cura di L. Toschi; G. Rajberti, I/ a di un ignorante (con la Prefazione delle mie opere future), 1985, a cura di E. Ghidetti.
L’umorismo di Nievo
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nando per camminare? Fate conto, che ci sieno scrittori di questa risma, che descrivono, chiacchierano, cacciano fuori tutto ciò che loro frulla pel capo, a proposito ed a sproposito. Per giustificare questa maniera di scrivere, essi dicono che sono «umoristi» [...].
Saltar di palo in frasca, fare a pugni colla logica e col buon senso, finire un racconto comico con un doloroso «ohimé!», fare il senti-
mentale, per riuscire in una grossa risata; cominciare colla filosofia e finire co’ poponi ed i cavoli: questo chiamano «umore»!?
Ève vero che in Heine, quanto in nessun altro, «spicca [...] questa parte esterna dell’‘“umore”: una specie di meccanismo, facilmente imitabile. Beffarsi di tutte le regole e di tutti i canoni della ragione; fare e disfare; dire e disdire; ridere e piangere, colla stessa leggerezza; [...] fare, di un periodo, una babilonia smo in Heine (e non nella pletora vita», ovvero la seria, motivante che invoca l’arte umoristica come
o un laberinto»; ma sotto il meccanidegli imitatori) «ci è l’anima, ci è la intuizione di una temperie epocale la più consentanea espressione dei
propri bisogni: L’«umore» è una forma artistica, che ha, per il suo significato, la distruzione del limite, con la coscienza di essa distruzione. La distruzione del limite. E, perciò, questa forma comparisce ne’ momenti di dissoluzione sociale; né, mai, ha avuto un’esplicazione sì ricca e sì seria, come ne’ nostri tempi. Che limite ci resta più? Di religione? Il secolo decimottavo e Voltaire ci hanno passato al di sopra. Di filosofia? L’un sistema non attende l’altro. Di letteratura? Il romanticismo fa la baia al classicismo. [...]
Pai [...] affermazione e negazione sonosi distrutte a vicenda; rimane il vuoto, l’illimitato; il sentimento che niente vi è di vero e di serio, che ciascuna opinione vale l’altra. Allora, non solo ci è la di-
struzione di ogni limite, ma la coscienza di essa distruzione”. La letteratura umoristica è insomma forma intellettuale di un’età ?* Il saggio desanctisiano, intitolato «Il Giornale di un viaggio nella Svizzera durante l'agosto del 1854, per Girolamo Bonamici», apparve nel Piemonte, II, n. 2, 2 gennaio 1856. Cito da F. De Sanctis, Saggi critici, 3 voll., a cura di L. Russo, Bari, Laterza, 1965, vol. I, pp. 285-286. nioitpà 28):
© Ivi, p. 288.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
disorganica. Certo, dietro queste proposizioni desanctisiane c'è Hegel"; ma mi sembra anche molto tipica del nostro decennio ‘preparatorio’ la percezione del presente — di anni sentiti come decisivi e insieme critici per il destino nazionale — nei termini di una transizione per così dire surdimensionata, interpretata come un disorientamento, uno stallo dello spirito, marcata dai contrassegni mitici di un trapasso verso una nuova,
ancora solo vagamente travedibile organicità. Si è detto del posto importante occupato dal mito della «transizione» nella cultura tenchiana: il Crepuscolo fu uno dei tramiti per cui questo mito ‘divenne ingrediente decisivo della formazione di Nievo, tanto che egli lo innervò profondamente nel fluido sistema ideologico delle Confessioni. Ma ancor prima, sin dai tempi dell’ Anziafrodisiaco, il nostro scrittore commisurò forme e intenti letterari alla sensazione di vivere in un’età ‘di mezzo’, bisognosa di nuove certezze. A estrarne il massimo di suggestioni, potremmo adottare provvisoriamente la distinzione desanctisiana tra esterno meccanismo e intima necessità storico-filosofica dell’umorismo, e con qual“ Anche Hegel, nell’Estetica, distingueva tra umorismo e umorismo: «L'illusione naturale consiste nel credere che sia del tutto facile burlarsi e fare dello spirito su se stessi e su ciò che esiste, e si ricorre quindi spesso alla forma dell’umoristico. Ma altrettanto spesso avviene che l’umorismo divenga piatto quando il soggetto si abbandona ai suoi capricci e scherzi casuali che, messi in fila senza alcun legame, vanno a finire nell’indeterminato ed uniscono le cose più eterogenee, spesso con bizzarria intenzionale. [...] Al vero umorismo, che vuol tenersi lontano da simili aberrazioni, è perciò necessaria grande profondità e ricchezza di spirito, per mettere in rilievo come realmente espressivo ciò che è solo parvenza soggettiva e fare affiorare il sostanziale dalla sua
stessa accidentalità, da semplici trovate» (G.W.F. Hegel, Estetica, alle pp. 791-792 della già citata traduzione in italiano). Anche per Hegel l’umorismo era forma estrema dell’arte, espressione adeguata dell’età della critica e della riflessione, primato della soggettività cosciente sulle determinazioni date della natura e della cultura: «Ai nostri giorni lo sviluppo della riflessione e la critica [...] si sono impossessati degli artisti e [...] li hanno resi, per così dire, una tabula rasa sia nei riguardi della materia che della forma della loro produzione. [...] L'artista perciò sta al di sopra delle determinate forme e configurazioni consacrate, muovendosi libero per sé, indipendentemente dal contenuto e dalle concezioni in cui il sacro e l’eterno stavano prima dinanzi alla coscienza. Nessun contenuto, nessuna forma è più immediatamente identica con l’intimità, con la natura, con l’inconsapevole essenza sostanziale dell’artista; ogni materia può essergli indifferente, [...] il grande artista di oggi ha bisogno del libero sviluppo dello spirito, in cui ogni superstizione e fede, che restano limitate a forme determinate di concezione e rappresentazione, sono abbassate a semplici lati e momenti di cui il libero spirito è divenuto padrone [...]» (Estetica, pp. 796-798).
L’umorismo di Nievo
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che diritto ammettere la giovanile satira nieviana tra le opere veracemente umoristiche del nostro Ottocento: quel sovvertire talune convenzioni narrative, quel disdire le abitudini assestate del lettore medio di romanzi, i ‘giochi’ testuali insomma del libro hanno forse scarso spessore d’elaborazione letteraria, ma non sono gratuiti, se a essi corrisponde la dissacrazione conseguente di alcuni luoghi comuni i quali, pure, erano parsi al Nievo delle lettere a Matilde capaci di costituire un sistema ordinato e rassicurante, orgarico, di valori e credenze. Allo sgombero, attufto néll’Antiafrodisiaco, delle giovanili, disarmate illusioni platoniche, seguirà nelle Confessioni uno sforzo complesso, condotto su piani e lungo spessori diversi, di recupero dell’ideale, di rilettura del reale attraverso idealità rinnovate. L’umorismo del libro maggiore, lo abbiamo detto, sarà assai più lato e indiretto, ma anche più sfumato e sottilmente pervasivo. Guadagnerà in gradazioni, in mediata efficacia, ciò che perderà in oltranza ereticale. Forse mancarono alle Confessioni, sottratti dal naufragio in cui l’autore perì, gli anni necessari a una matura rielaborazione. Forse, se Nievo avesse avuto il tempo, il modo, la volontà, le
ragioni per tornare a dedicarsi al suo manoscritto — per il nostro scrittore è quasi rituale questo tipo d’ipotesi, che certo ha poco di scientifico — le contrastanti linee di forza, le spinte e gli ingredienti del testo avrebbero trovato, senza annullarsi, un mirabile punto d’incontro
e d’equilibrio. Ma già così come sono, nelle Confessioni stanno in reciproca, dinamica relazione, benché non sempre secondo un disegno sapiente, quelle «qualità opposte» che fanno il pregio dello Heine letto da De Sanctis: «l'ironia, il sarcasmo, la caticatura, congiunte con tutte le
gradazioni del patetico», le «bizzarrie» dell’«immaginazione» insieme alle «profondità dell’intelligenza». Certamente Heine fu tra gli autori che potevano insegnare a Nievo una certa disinvoltura nell’alternanza dei toni, del comico e del patetico, del fantastico e del filosofico; ma è chiaro che le «opposte qualità» del tedesco nelle Confessioni devono subordinarsi alla coerenza di un organismo romanzesco, anche se atipico; trascolorano l’una nell’altra, collaborando al peculiare aspetto cangiante del testo, ma non sono giustapposte heinianamente a tagliente 4
«Il Giornale di un viaggio nella Svizzera», in F. De Sanctis, Saggi critici, cit., vol. I,
p. 289.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
contrasto, come facce variopinte di un poliedro letterario programmaticamente stravagante. Nievo amò molto Heine, si esercitò a tradurlo e, similmente a De Sanctis, ne paragonò e antepose «l’arte del vero umore» agli «artifizii comici» di un autore italiano (questa volta il Rajberti del Viaggio di un ignorante)’. Ma il nostro scrittore non avrà letto la recensione desanctisiana: conobbe invece quasi certamente (giacché suscitarono un diffuso interesse) gli elogi di Tullo Massarani ai Reisebilder, in un numero del Crepuscolo uscito pochi mesi prima della scrittura delle Confessioni. Come De Sanctis, Massarani ammira nel sapiente arbitrio formale del tedesco e nella sua mobilità lungo un’ampia e varia tastiera di temi e toni il segno di una letteratura seria e profonda, filosoficamente intenzionata ed eticamente tesa: Il riso inestinguibile dell'Olimpo e le rigide astrazioni della Giudea, la giuliva serenità della natura e la consecrazione pietosa del dolore, tutte le forme dell’ideale si contendono quest’anima di poeta; e quando al razionalismo provocatore che gli domanda qual’è la sua, egli risponde — io le posseggo tutte! — si può dire che in lui vibra veramente l’immenso orgoglio di questa nostra generazione, la qua-
‘ Così nella lettera al Fusinato del 26 luglio 1857: «Hai letto il libro De la France di Heine? — Leggilo e confesserai che se lo avesse letto del pari il Viaggiatore Ignorante avrebbe imparato l’arte del vero umore, e buttato sul fuoco i suoi vecchi artifizii comici, che tanto somigliano al nerbo satirico e faceto dell’umorista tedesco, come i lazzi di Scaramuccia ai frizzi di Molière» (I. Nievo, Lettere, cit., p. 442).
Nievo tradusse Heine nell’agosto 1859, dall'edizione in francese delle opere: l’Intermezzo, e poi tre componimenti scelti tra quelli dei Notturni e delle Foglie volanti, quattro canti della Germania, la romanza Asra dal Romancero e tre canzoni popolari tedesche. Tutte queste traduzioni (Nievo ne pubblicò solo una) sono raccolte ora, con le altre dello scrittore, in I. Nievo, Quaderno di traduzioni, a cura di I. De Luca, Torino, Einaudi, 1964 (e poi 1976, con i testi originali). Ma Nievo doveva aver letto testi di Heine ben prima di tradurlo e anche prima di scriverne al Fusinato. Come avvertiva già C. Bonardi (Enrico Heine nella letteratura italiana avanti la «rivelazione» di T. Massarani, Livorno, Giusti, 1907) e come è confermato da De Luca nella sua prefazione al Quaderno, a un lettore attento della Revue de Deux Mondes, qual era il nostro scrittore, non potevano essere sfuggite le traduzioni in francese delle opere di Heine e i saggi critici su di lui che quella rivista andava pubblicando con una certa frequenza ormai da decenni. Senza contare che la circolazione in volume di alcuni testi (soprattutto i Reisebilder) godeva da
tempo in Francia, e quindi di rimbalzo anche in Italia, di costante fortuna.
L’umorismo di Nievo
111
le, sdegnosa di adagiarsi nell’asilo del dubbio filosofico, s’è lanciata ad abbracciare interi gli orizzonti dell’istoria‘’.
Ma anche per altre ragioni l’opera di Heine poté parere esemplare negli anni nieviani, soprattutto a chi condividesse le preoccupazioni di Tenca circa il destino del romanzo in Italia, le ricorrenti denunce di un avviato processo di sclerotizzazione e scadimento del gezere. Nelle pagi-
ne della rivista gli scrittori italiani erano spesso accusati di essersi sviati da ogni serio impegno di verità e testimonianza, per costruire i loro ronfanzi'— sulle orme dei più corrivi produttori stranieri, o anche
stereotipando in un vacuo meccanismo formale l’eredità manzoniana — attraverso un artificioso montaggio modulare di pezzi e ingranaggi ‘a effetto’. Nell’età dell’industria, assumendo dentro di sé i modi e i ritmi,
la serialità e il macchinismo della produzione industriale, la letteratura romanzesca rischiava di distaccarsi dalle ragioni della vita, della storia e della società. Invece in Heine la «natura» si oppone all’«arte», la spontaneità veridica, che cerca e crea la propria forma, alle misure preordinate e cogenti della narrativa ‘regolare’: Questi Reisebilder [...] sembrano appartenere meno all’arte che alla natura; e qui sta veramente l’originalità e la potenza di Heine; le fronde, i fiori, le spine, non vengono più spontanee e più spontaneamente intrecciate sul cespite del rosajo selvatico, di quel che si mescano nei Reisebilder le effusioni appassionate e la vis comica, l’bumour e la poesia. — Bando al regolo e al compasso, e viva il
capriccio e la libertà!” Era ancora ben vivo negli anni ’50 l’ideale — proprio del romanticismo lombardo sin dai tempi del Conciliatore — di un’arte impegnata e liberamente veridica, inclinata filosoficamente, sorretta da passione etico-civile e insofferente di ordini precostituiti, di gerarchie formali fisse, perché desiderosa di aderire duttilmente ai fatti e alle idee, al vero della storia, di captare con antenne sensibili e interpretare con energia e proprietà le richieste, le tensioni positive risalenti dal corpo sociale. 4 T. Massarani, «Enrico Heine e il movimento Crepuscolo, VIII, n. 22, 31 maggio 1857, p. 348.
? Ivi, p. 345.
letterario in Germania»,
IV, Il
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
Arte, tra l’altro, intrinsecamente ironica e umoristica, autoriflessiva e
polifonica perché incorporante le funzioni della critica, del discorso razionale e metaletterario sui mezzi e sui fini: funzioni che anche Tenca non smise mai di invocare, almeno a complemento esterno, a indirizzo
coordinante delle mimesi narrative, dell'impegno realistico degli scrittori. Quest’ideale, poi, l'aveva magistralmente sperimentato Manzoni dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi, fino a saturarne le valenze, e a ricavarne
qualcosa di nuovo e singolare: un oggetto narrativo inoppugnabile e formidabilmente esemplare, tanto perfetto da costituire forse per il formarsi della tradizione successiva una ragione d’imbarazzo, oltre che un elemento propulsivo‘. La sensazione che il modello dei Prozzessi sposi potesse diventare un vicolo cieco era ormai nell’aria, negli anni nieviani: almeno, qualcuno già riteneva che questo appunto sarebbe accaduto, se gli scrittori non avessero rischiato qualcosa nella scommessa di adattare la lezione del maestro ai fini, agli indirizzi nuovi che i tempi esigevano. Abbiamo visto quale fosse la via lunga proposta da Tenca onde scavalcare i condizionamenti dell’industria culturale e rilanciare i compiti civili della letteratura: a partire da Manzoni e dall’eredità romantica, ma per andare risolutamente oltre. Mediante una strategia su più fronti (sollecitando con la critica l’etbos e la professionalità degli autori, incoraggiando le buone tendenze del pubblico, riformando il mercato librario...) si sarebbero potuti conciliare missione e mercato, e anzi il circuito produzioneconsumo, fattosi più largo e socialmente pervasivo con l’accesso di nuovi e vergini settori di pubblico alla letteratura, avrebbe potuto essere un vettore, un non mai visto moltiplicatore di quelle energie morali e progressive che si supponevano confusamente latenti nel profondo della moderna società, e che invocavano l’innesco di un'espressione adeguata, di un'adeguata autocoscienza letteraria. Ma l’ambiziosa strada maestra che Tenca additava agli scrittori — la creazione di una robusta e nuova ‘ Sull’indole parodica ed enciclopedica del Ferzzo e Lucia, sul debito manzoniano verso le poetiche del Conciliatore e poi sui percorsi, sulle perdite e gli acquisti della revisione che portò ai Prorzessi sposi, sulle profonde modificazioni dell’ironia manzoniana dall'una all’altra versione del romanzo, cfr. E. Raimondi, I/ romanzo senza idillio
Torino, Einaudi, 1974, pp. 125-172.
L’umorismo di Nievo
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letteratura nazional-popolare, fondata sulle ragioni dell’epoca —, se poteva essere approvata in astratto, aveva troppo dell’utopia per utilmente incamminare le concrete operazioni di chi pur fosse desideroso di distinguersi dal volgo dei romanzieri mestieranti. Potevano parere meglio percorribili i sentieri ombrosi — e ancora poco ‘ricattati’ dal mercato — di quella diluita contro-tradizione del romanzo umoristico, che per tanta parte del nostro Ottocento corre parallela, con momenti d’interferenza e commistione, all’evoluzione del romanzo ‘serio’: dal Foscolo diditmeoAdonde la forte marca sterniana dei successivi sviluppi) al Battistino Barometro di Pellico, per esempio; fino appunto alla stagione nieviana, e a quella postunitaria, quando il ceppo conoscerà una più ramificata fioritura. Per fermarci, come ci compete, agli anni di Nievo, si ha l’impressione che in questo periodo l’umorismo goda di notevole prestigio. Alcune coincidenze mi sembrano indicative. Si pensi innanzitutto al plauso tributato da tanti alle scritture umoristiche: agli archetipi sterniani,
oltre che ad Heine”. E poi non solo l’arte umoristica è ritenuta particoNella recensione che ho menzionato De Sanctis non contrappone solo Heine al . mediocre umorismo del Bonamici, bensì anche Sterne, di cui elogia le fini doti d’osservatore (cfr. F. De Sanctis, Saggi critici, cit., vol. I, p. 292). Nel 1865 Sterne sarà ammirato da Tarchetti per la bonomia sorridente e tollerante, non disgiunta dalla qualità ‘sentimentale’ di una conoscenza profonda e veritiera del cuore umano: «Sterne fu detto il capo scuola del romanzo umoristico, ma sotto quel velo dell’umorismo e della satira ha nascosto quanto di nobile e di affettuoso e di commovente fosse mai racchiuso in un libro» (Idee zzinime sul romanzo, in LU. Tarchetti, Tutte le opere, cit., vol. II, pp. 530-531). Entrambe le immagini dello scrittore — l’acuto testimone della vita sociale e del costume, l’esperto dipintore degli affetti — si sovrappongono in un articolo apparso sul Crepuscolo nel 1856, dovuto alla penna del corrispondente letterario dalla Toscana. Questi scrive in difesa di Sterne, trattato da «pagliaccio» (sulle orme di un giudizio di Thackeray) in un articolo sugli «Umoristi inglesi» letto nel fasc. XII della Rivista enciclopedica di Torino. È interessante soprattutto che il crepuscolante proponga all’e-
mulazione degli scrittori contemporanei la satira dolce, comprensiva, moraleggiante di Sterne, quasi come correttivo — si ha l'impressione — delle desolate visioni sociali che s’andavano affermando in Italia a imitazione del realismo francese alla Sue: «Sterne fra gli osservatori della umana società seguitò ad avere fama di singolarissimo; tutti concordano ad affermare non esservi scrittore che più di lui ficchi gli occhi più addentro nel cuore altrui, che abbia l’arte di dipingere più squisitamente gli affetti, il cui riso sia più innocuo ed efficace, la cui morale sia più benefica ed insegni l’amore del prossimo. Nella odierna frenesia pei romanzi d’ogni specie, adesso che lo scrittore, lasciando da parte le splendide sale de’ grandi, si è proposto il lodevole fine di aggirarsi fra le anguste, torte e
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
larmente congeniale all’epoca presente, ma a questa linea vengono recuperati i nomi più prestigiosi della tradizione ottocentesca, nazionale e straniera, ad accreditare quell’accezione allargata di «umorismo» in virtù della quale anni dopo Dossi, progettando una sua opera storica sull’argomento, potrà preventivare un capitolo su Manzoni, «il primo umorista completo d’Italia». Inoltre gli scrittori più ambiziosi e originali che furono attivi (Rovani, Nievo...) o si formarono culturalmente (alcu-
ni scapigliati) negli anni ’50 riservarono tutti un posto di rilievo, tra i loro registri, a quello umoristico, in senso stretto o lato. Ma anche
luride vie popolate dalla povera plebe per scrutarne le miserie, dimostrarne i mali, spiarne le necessità, io credo che il modo tenuto da Sterne nel disegnare e colorire cotesti quadretti di gerere debba riuscire utilissimo esempio» («Corrispondenza letteraria della Toscana», I{ Crepuscolo, VII, n. 9, 2 marzo 1856, pp. 150-151). E stata già segnalata una distinzione di Nievo nelle Confessioni (cfr. VI, 275) tra un umorismo settentrionale freddo e tendenzialmente pessimistico e un umorismo meridionale solare, cordiale ed estroverso. Confessa l’ottuagenario: «Il cervello forse correrebbe da una parte e il cuore dall’altra secondoché s’apprezza meglio o la dignità o la felicità umana». Quest’incertezza corrisponde forse alla fisionomia sfumata dell’umorismo nieviano, che ebbe maestri meridionali e settentrionali, e fu ora umorale commedia, ora cerebrale sarcasmo, e trovò in Sterne il modello incoraggiante di un’unità conciliata di arguzia nordica e gioconda, solare accettazione della vita. ‘ C. Dossi, Note azzurre, a cura di D. Isella, 2 voll., Milano, Adelphi, 1964, vol. I, nota n. 2068. Ma già in uno scritto del °39 Cattaneo aveva accomunato Manzoni ai «più illustri scrittori del secolo, Walter Scott, Byron, Goethe» perché «tutti dipintori di caratteri, o vogliam dire, scrittori satirici», e poi aveva postulato un rapporto diretto tra periodi di vitalità civile, di «eccellenza mentale» di una nazione, e «audacia della satira», cosicché se Dante fu «l'ideale della maldicenza» e «Ariosto e Machiavello furono egregi derisori del prossimo», «tra il secolo di Bibiena e quello del Goldoni sta il seicento, secolo vuoto e fiacco, che non ebbe tampoco
la forza di ridere di sè» (si tratta della recensione
dell'Arte di ereditare, satira d’Orazio tradotta in dialetto milanese dal Medico-Poeta, cioè da Rajberti. Comparve nel Politecnico, vol. I, fasc. III, 1839; la si legge ora col titolo «Della satira» in C. Cattaneo, Scritti letterari, cit., vol. I, pp. 127-131). Nella recensione desanctisiana del ’56 c’è un interessante tentativo di recuperare alla linea dell’umorismo anche Leopardi (cfr. «Il Giornale di un viaggio nella Svizzera», in F. De Sanctis, Saggi critici, cit., vol. I, p. 289). Certo non vanno confusi nel loro significato, nella loro sostanza culturale la satira di cui parla Cattaneo e l’uzzorismo di cui dice De Sanctis sulla scorta di Hegel (e, con intenzione analoga, Massarani e Dossi). Ma questa confusione di fatto in Italia poté verificarsi: mi sembra per esempio che questo sia il caso di alcune osservazioni di Rajberti nel Viaggio di un ignorante.
L’umorismo di Nievo
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Guerrazzi — che apparteneva ad altra generazione, e aveva conseguito la fama con romanzi come La battaglia di Benevento e L'assedio di Firenze — nel ’57 pubblicò la ponderosa allegoria satirica dell’ Asizo, nel 62 un agile testo ameno, I/ buco nel muro, in cui è forte l'influenza di Sterne. È certo che i migliori autori e critici degli anni ‘50 sentissero disperso nella colluvie dei sottoprodotti dell’arte romanzesca — offuscato dagli effetti omologanti di una tecnica letteraria sempre più ridotta a effimero artigianato di macchine emozionanti — quel vivo nesso di utile, vero e intéressànte che era parso garantire valore e significanza non solo ai pochissimi grandi romanzi, ma anche, in qualche misura, a parecchie opere di medio pregio nei decenni precedenti. E forse a qualcuno l’umorismo poté sembrare in grado di salvaguardare almeno in parte e provvisoriamente quel nesso. L’arte umoristica: con le sue pause saggistiche in cui si esercita la riflessione e la critica; con la costitutiva vis polemica, che richiede un rapporto, fosse pur epidermico, coi veri della storia e della società; con la sua stessa generale morfologia, rotta e irregolare, aperta, inventiva, tale insomma da suscitare modi di lettura attivi, tutt’altri rispetto a quelli passivamente illusionistici, surrogatorî, richie-
sti dai più banali e allettanti intingoli romanzeschi. Dirà Dossi in una Nota azzurra: «Lo scrittore umorista deve mediocremente rendere interessante l’intreccio, affinché per la smania di divorare il libro il lettore non sorvoli a tutte quelle minute e acute osservazioni che costituiscono
appunto l’humoun”. Esagera quindi Rajberti quando nel 1857, nel suo Viaggio di un ignorante, insiste sull’eccentricità della propria vocazione, e si dice il solo scrittore in Italia desideroso di far ridere, «perché nessun altro si degna di ciò», in «questi paesi delle Accademie e degli Atenei»”?. Invece, lo abbiamo visto, Rajberti non è il solo a ritenere la posizione apparentemente marginale dell’umorista come la più adeguata ai tempi moderni. Ammirando gli «immensi ordigni», i «multiformi bestioni» meccanici
dell'Esposizione Universale di Parigi, egli riflette sulla «gran poesia utilitaria» del progresso tecnico-scientifico, «destinata in avvenire a * C. Dossi, Note azzurre, cit., vol. I, nota n. 2174. Per altri sviluppi dello stesso punto di vista, cfr. nello stesso volume le note nn. 2490 e 3978. °° G, Rajberti, I/ viaggio di un ignorante, cit., p. 141.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
spazzar via tutte le altre della ciarla, meno forse la satirica, che è l’unica
possibile e ragionevole in tempi di elevata civiltà, e di vizii maggiori»”. Come De Sanctis nel 1856, e anticipando un ricorrente argomento dossiano, Rajberti giudica quindi l’umorismo come la forma congeniale di un’età disillusa, quella della scienza positiva e del dubbio metodico”. Nel ’45 Guerrazzi aveva definito «panteista» il romanzo, gezere armonicamente polifonico, capace di rappresentare tutti gli aspetti, tutte le sfumature del reale: il «buon umore» era solo una delle molte chiavi di
conoscenza adoperabili dal romanziere”. Rajberti colloca l’umorismo in una posizione decisamente più centrale: esso è forma d’arte, nei tempi moderni, per così dire coestesa rispetto al reale, e perciò capace di leggerlo integralmente e secondo verità: i dotti [...] assegnano al ridicolo brevi confini, e non lo credono capace di lunga corsa: sciocchi! [...] mi imagino che il ridicolo sia un mare; nel mezzo del quale stia l’isoletta del sublizze, ma tanto piccola, che allungando una gamba da qualunque parte, la si immerga nell’acqua salata del ridicolo. Sì: il sublime è un punto quasi impercettibile nello spazio: ma il ridicolo è infinito, e per qualche ragione Momo fu collocato a sedere tra gli Dei. L’umana stoltizia ha ridotto ogni cosa a presentare aspetti così grottescamente comici e
buffoneschi e matti, che chiunque abbia voglia e nervi per riderne a lungo [...] fa opera di sapienza: perché guadagna il tempo sul piangere come le femine, o sullo starsene puerilmente ingrugnato.”
Ma Rajberti era un umorista in senso stretto: un puro scettico, avrebbe forse dedotto Dossi. Ben più indicativo, per chi s’interessi al
Nievo delle Confessioni, è il caso del Rovani dei Cento anni. Entrambi gli scrittori, nello stesso 1857, intrapresero l’esecuzione di un progetto ambizioso e d’ampio respiro: grandi e voluminosi romanzi storici epperò anche contemporanei, perché nella rappresentazione attenta del passato Tipi pe 154. °° Per questo concetto in Dossi, cfr. almeno (nell’ed. cit., vol. I) le Note azzurre nn. 1257582172492
679022753 24061
” Cfr. F.D. Guerrazzi, «Discorso a modo di proemio sopra le condizioni della odierna letteratura in Italia», premesso alla riedizione della Battaglia di Benevento, Milano, Tip. Manini, 1845. " G. Rajberti, I/ viaggio di un ignorante, cit., p. 147.
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più prossimo all’oggi giungono alle soglie dell’ideale panoramico e totalizzante delle grandi surzzzae romanzesche d’oltralpe: il complesso affresco della società presente. Ma entrambi gli scrittori non calano (0 hanno difficoltà a farlo) l’ottica impegnativa che intenziona la loro scrittura in
una forma compatta, in un congegno romanzesco di tipo ‘provvidenziale’, secondo una logica economica degli accadimenti, in vista di uno scioglimento esauriente della fabula. Piuttosto, la sagoma di questi testi è sfrangiata, dominano misure irregolari di racconto, modalità narrative ‘untoral@ e problematiche. Eppure, quando Rovani mise mano ai Cento anni pareva animato da ambizioni di classicità:
Tutte le verità e della religione e della filosofia e della storia, se hanno voluto uscire dall’angusta oligarchia dei savj, per travasarsi al popolo, hanno dovuto attraversare la forma del romanzo che tutto assume: — la prosa, la poesia, le infinite gradazioni dello stile; ei si innalza, in un bisogno, nelle più alte regioni dell’idea, s’ abbassa tra le realtà del mondo pratico; [...] al pari dell’iride, ha tutti i colori, ed è per questo che si diffonde nel popolo, e piove come la luce di luogo in luogo e di ceto in ceto e d’uomo in uomo, e per l’onnipotenza sua appunto può recar danni funestissimi come vantaggi su-
premi [...]”.
È un’apologia particolarmente spinta del romanzo, cui vengono addirittura attribuite numinose potenze. L’idea secondo cui questa forma letteraria «tutto assume», e perciò può diffondere la scienza nel popolo, è assai vicina a quella guerrazziana, d’ascendenza romantica, del romanzo «panteista». Inoltre Rovani pare intenzionato a seguire la via della
maggiore tradizione romanzesca, segnata dai «più grandi scrittori del secolo» che, tutti, «sono romanzieri; Foscolo, Manzoni, Goethe, Byron, Scott, Chateaubriand, Vittor Ugo, Bulwer»”. Tanto più è significativo
che nel corso della laboriosa costruzione dell’opera Rovani sia venuto articolando in una mole materialmente notevole di pagine una vena romanzesca ‘minore’, saggisticamente arguta, ironica e sorridente, che
ha poco in comune coi grandi nomi citati nel Preludio. Negli intermezzi che comparivano sulla Gazzetta Ufficiale di Milano mentre andava avanti % G. Rovani, Cento anni, cit., vol. I, p. 13. °° Ibidem.
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
la pubblicazione irregolare dei Cento anni (pause riflessive e di commento che l’autore si riservava, a introduzione di alcune puntate, per dialo-
gare coi lettori e con la critica, e rispondere alle obiezioni che gli venivano rivolte o che intuiva possibili) Rovani vanta l’indole sperimen-
tale e personalissima del suo libro: che non vuol essere un romanzo storico (somigliante per esempio a quelli che egli stesso aveva scritto più di dieci anni prima) e nemmeno, a rigore, un romanzo tout-court, «giusta
il volgare concetto onde è definito questa forma dell’arte»””, ma piutto-
sto una compagine di «foggia insolita»,° screziata e i progress, che liberamente accolga e coordini in racconto molte cose diverse o strane o minori a torto neglette dal conformismo degli altri scrittori: «le carte che altri gettarono e gettan via come inutili e che non furon mai sistematicamente raccolte a far libri; [...] le tradizioni orali di cui cento anni non
hanno potuto ancor rompere il filo, tradizioni di cose che l’orgoglio dei letterati in toga disprezza, ma nelle quali sta pure tutta la sincerità del colore onde si ritrae un secolo»”. Il romanziere dei Cento anni vuol essere storico e artista: ma le ragioni dell’espressione letteraria, dell’arte, rispetto al complementare lavoro della ricerca storiografica, non sono tanto nella pace stilistica del testo finito e organizzato, che decanta e fissa in chiave monumentale o didascalica la lezione del passato, quanto nel dinamismo di un metodo di scrittura, che accresce il racconto secon-
do una logica ‘aperta’, provvisoria e cumulativa. La stessa, sembrerebbe a leggere alcune proposizioni di Rovani sulle proprie tecniche di costruzione, adoperabile in uno zibaldone, in un diario di lavoro d’uso perso-
nale: questo è un libro in cui si raccolgono «tutta la nostra esperienza e i nostri studj — esperienza della vita e studj sui libri»°°; «è un lavoro sui generis che non si può sempre confezionare se la giornata non gli porge tutti gli ingredienti necessarj»"". È altresì sintomatico della pregnanza ” C. Dossi, Rovaniana, cit., vol. I, p. 228. In quest'opera critico-biografica che Dossi
lasciò incompiuta (e che fu pubblicata solo nel 1944, a cura di G. Nicodemi) sono raccolti gli intermezzi, espunti dal testo dei Cento anni in occasione della pubblicazione in volume, tra il 1859 e il ’64. di, p. 21%
” Ibidem. s Iirpa228 * (vi,!p.1266.
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del modello umoristico negli anni ’50, e degli statuti ‘umorali’ che ne venivano al romanzo storico rovaniano, che al cantiere dei Cento anni
siano riferite le stesse interferenze paradossali tra tempo della scrittura, tempo interno del racconto, tempo della lettura sulle quali s'era basata
tanta comicità del Tristramz Shandy:
#
Dei Cento Anni non abbiamo finora percorso che un anno, anzi a rigore aritmetico soltanto tre mesi e qualche giorno, e per così poco tempo si consumarono cinquanta capitoli. Se si dovesse dunque continuare di tal passo e dovessimo attraversare tutti gli anni cento col sistema degli almanacchi lunari si avrebbero a consumare ventimila capitoli per lo meno. Pensata e scritta da un uomo solo, sarebbe questa l’opera più voluminosa pubblicata sulla terra dal diluvio universale alla invenzione delle scarpe di guttaperca. Ma chi potrebbe sopportare il peso, non diremo dell’opera, ma solo della sua idea? L’autore intanto sarebbe già morto di sgomento e tutti quelli che fra i lettori hanno la disgrazia di essere suoi amici, avrebbero dovuto, per lo meno, mettersi a letto colla febbre”
Forse, riferiti alla lunga linea dell'umorismo ottocentesco e allo specifico segmento degli anni ’50, certi aspetti salienti delle Confessioni ‘d’un Italiano non parranno, come talvolta sono parsi, misteriosamente eccentrici; cert’altri, interpretabili come difetti o limiti del testo, risulte-
ranno in miglior luce. E allora, per esempio, il personaggio «io» del romanzo — la voce narrante, riflessiva e digressiva, la sorniona regìa testuale dell’ottuagenario — potrà essere visto come un’amplificazione, una complicazione epica della soggettività giocosa dei testi umoristici di più breve respiro: di quell’«io» mascherato e arguto a cui anche Nievo soleva affidare i propri estri nelle divagazioni bizzarre (tra cronaca letteraria e teatrale, nota di costume, criptica allusione politica, esibizione di filosofia spicciola...) che andava pubblicando nel Purgolo o nell'Uomo di Pietra. Invece la composizione ibrida, aperta, accidentata, disarmonica del libro, la sua densa, qualche volta congestionata intertestualità, parranno un po’ meno il semplice effetto dell’impreciso controllo nieviano dei materiali e degli strumenti di lavoro, e un po’ più la
Selpi,.p: 219;
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
riproposizione, su scala maggiore e con tutte le differenze del caso, del polimorfismo, degli statuti metaletterari e parodici dello fumzour narratiVO.
Capitolo quarto Le forme del romanzo
1.
asimmetrico
Il realismo delle «Confessioni» Se nelle pagine precedenti mi sono dilungato sull’umorismo nievia-
no, sulle sue circostanze e radici storico-culturali, e se in particolare ho
insistito sugli ingredienti umoristici delle Confessioni, è anche perché la critica ha in genere parlato poco di questo aspetto del romanzo, o lo ha . lasciato nel vago, o lo ha inteso restrittivamente come un fatto solo stilistico (la vena comico-caricaturale del Nievo...). Mi rendo conto però che sarebbe rischioso sopravvalutare, isolare i connotati umoristici delle Confessioni: occorre piuttosto intrecciarli ad altri connotati pure importanti del testo, così da non sacrificare la specifica, singolarissima fisionomia di questo a etichette generiche e parziali. Quando Nievo scrisse il suo romanzo maggiore, i procedimenti della letteratura umoristica (almeno quelli riconducibili tipologicamente alla linea Sterne-Heine)
in Italia erano sfruttati di preferenza in testi di
breve lena, leggeri di tono e non troppo impegnativi, il cui orizzonte polemico era la cronaca piuttosto che la storia (diciamo meglio che le grandi questioni dell’epoca vi entravano di scorcio, rese domestiche da un’ironia familiare e dilettosa). Il loro scopo civile era, più che l’effusa edificazione morale del popolo leggente, la relativizzazione a fini di critica e di satira di certi dati attuali del costume, della cultura, della politica e della società. Rajberti sentiva il suo Viaggio di un ignorante
vicino ai «fogli volanti, ebdomadarii», ai giornali ameni del tipo del
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Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
Pasquino, del Pungolo, dell'Uomo di Pietra', mentre ironizzava sulla
specie letteraria dello «scrittore che si rispetti», ogni pagina del quale vuole equivalere «a un carro di letame per ingrassare e fecondare i campi dell’incivilimento»”. Anche una parte notevole della produzione umoristica nieviana non si comprenderebbe senza tener conto della sua destinazione giornalistica’; ma per il Nievo delle Confessioni il discorso da fare è tutto diverso. Ho già detto che l’influenza della letteratura umoristica si traduce in questo testo nell’intento, solo discontinuamente attuato, di marcare con
le inflessioni d’un’oralità e di un’umoralità estemporanea la voce del narratore ottuagenario, nella compiaciuta digressività di questa voce; ho anche accreditato alla sfumata suggestione dell’‘anarchia’ dei grandi umoristi la tendenza di Nievo a disarticolare l’intreccio, l'architettura
del racconto, onde favorire l’esercizio esteso e centrifugo della scrittura, che si ramifica a sperimentare zone diverse del ‘letterario’, tra mimesi passiva, stilizzazione e parodia, così da configurare un’immagine del mondo attraverso un'estesa ricognizione intertestuale. Ma tutti questi fenomeni non possono essere adeguatamente compresi se li rescindiamo dalla specifica ambiziosità del progetto ideologico-letterario sotteso al romanzo. Questo progetto può essere in buona misura riferito alle forti componenti tenchiane della cultura del nostro scrittore: penso soprattutto alla generosa istanza crepuscolante, quale fu espressa più compiutamente che altrove nel saggio «Del romanzo in Italia», di un grande realismo italiano capace di aggiornare e potenziare l'insegnamento manzoniano per pervenire a una rappresentazione totale del presente, che si voleva indagato non solo nella sua complessità sociale, nel dinamismo esterno della sua evoluzione, nel contrasto e nella concordia delle sue
' G. Rajberti, I/ viaggio di un ignorante, cit., p. 153. o i, p. 09. ? Per non parlare dei ‘pezzi’ di più pretto carattere giornalistico (raccolti in buon numero in I. Nievo, Le confessioni d’un Italiano. Scritti vari, a cura di F. Portinari, cit.)
ricordo che i primi quindici capitoli del Barone di Nicastro apparvero a puntate sul Pungolo tra l'aprile e l'agosto del 1857, la Storia filosofica dei secoli futuri fu pubblicata nella Strenna dell'Uomo di Pietra per l’anno 1860, mentre nella Lucciola di Mantova erano già apparse a puntate La nostra famiglia di campagna (tra il maggio e il dicembre del 1855) e Le Maghe di Grado (tra settembre e ottobre del ’56).
Le forme del romanzo asimmetrico
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leggi organiche, ma anche nello spessore interno della sua vita morale,
dei bisogni e delle virtù che vi si supponevano allo stato latente o germinale. Ma se Tenca e i suoi erano piuttosto precisi nell’assegnare un fine a questo realismo ipotetico (non il nudo reale, bensì il «vero», ossia il reale colto nella sua animazione ideale) restavano nel vago quanto ai mezzi, ai principî tecnico-formali che si sarebbero dovuti adoperare a quel fine. Pertanto Nievo poté sì trasporre dalle pagine del Crepuscolo al suo laboratorio una teleologia letteraria suggestiva, al centro della quale era T’idef regolativa secondo cui anche attraverso il rinnovamento della tradizione narrativa sarebbe potuto passare il rinnovamento della vita nazionale. Ma questa teleologia, assai più radicata in un mito storicofilosofico che aggettante in concrete proposte retoriche e poetiche, non era certo in grado di sgombrare risolutamente l’atelier del nostro scrittore da materiali, modelli, attrezzi stilistici, che rimanevano quelli consueti mediamente a disposizione di chi fosse maturato, come narratore, in
quegli anni post-manzoniani così poveri, in Italia, di opere importanti, di scritture stimolanti. Non restava che tendere in guise inedite, forzare nel senso utopistico della teleologia del «vero» la solita letteratura: ciò che appunto Nievo fece nelle Confessioni, avvicinando a suo modo l’ideale di realismo profondo e integrale su cui insisteva la cultura crepuscolante. Non tragga in inganno l’adozione di procedimenti dedotti dalle scritture umoristiche, inseriti oltretutto in una forma pseudoautobiografica, che sembrerebbe di per se stessa sganciare le enunciazioni del testo da obblighi tassativi di coerenza e completezza ‘oggettiva’. Invece proprio la ‘soggettività’ delle Confessioni è funzione del «vero»: nel senso radicale e interno che il termine aveva nell’ideologia tenchiana, dove s’immaginava che il «vero» non fosse immediatamente percepibile nell’esteriorità delle cose, ma costituisse invece il lato recondito e cri-
stallino del reale opaco e scoraggiante; una sostanza preziosa e difficile insomma, contesta d’ideale, da estrarre all'evidenza con paziente maieutica, insieme intellettuale e morale‘. Ho detto che Nievo fallisce spesso * Più precisamente, il «vero» per Tenca non era solo la norma interna e dinamica del anche, in molte pagine del: Crepuscolo, come i un al di nilà, un dover * divenire; ; esso appariva E essere dei fenomeni: qualcosa come la forma luminosa, attuata nel cielo dell’ideale, a cui
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la coerente simulazione della voce dell’ottuagenario: purtuttavia il testo postula che tutti i racconti di private vicende che vi compaiono, tutti i discorsi storico-sociali e le elucidazioni etiche e filosofiche filtrino attraverso l’esperienza personale, il viscerale sentimento del protagonistanarratore. L’autobiografismo delle Confessioni, anche grazie ai numerosi segnali che Nievo dissemina nel testo a connòtare la superiore saggezza del vecchio che racconta, istituisce surrettiziamente una convenzione
ideologica per cui la memoria del narratore, nei punti in cui incontra la storia e la rivive come passione come scelta e come prova, è quasi una sonda gettata a esplorare lo spessore interno, il nerbo morale e progressi-
vo del secolo risorgimentale. Mentre a partire dagli antefatti suggerisce il profilo del presente, l’ottuagenario ne vuole altresì restituire lo spaccato ‘coscienziale’: quell’intimo senso positivo, suscettibile di ottimismo e di operosa speranza, che anche secondo Tenca sarebbe stato compito degli scrittori sollevare a chiarezza consapevole, promuovere con arte retta e persuasiva.
Quest’intento d’interpretazione interna, per così dire essenziale, del tempo risorgimentale spiega perché Nievo abbia profondamente trasformato, nelle Confessioni, l'inclinazione digressiva delle scritture umoristi-
che. Il ‘saggismo’ del romanzo qualche volta è divagazione sul costume, il reale tende nel suo sviluppo, e il cui avvento può essere affrettato dalla fede operosa degli uomini. Questa duplicità di connotazioni (riflessa nei concetti critico-letterari dell’«invenzione» poetica come reperimento dell’ideale nascosto nel reale, e del «romanzo della vita contemporanea» come divinazione di un «vero possibile» che ancora non si è compiutamente incarnato nella sfera dei fatti) ripeteva in fondo, nell’ambito di una filosofia divulgativa ed eclettica, la struttura teorica dell’«intelligibile» di Gioberti: che era, insieme, l’«internità delle cose» e il «cielo», la «terra futura»; ciò che è oltre il
tempo, e in sé non muta, e ciò che «esplicandosi» dal sensibile istituisce il tempo, la storia, il perfezionamento progressivo del mondo. Credo che col «vero» tenchiano sia in qualche modo presupposta dal funzionamento ideologico delle Confessioni (più ancora che un concetto autenticamente hegeliano della storia come razionalità immanente) l’identificazione giobertiana di ciò che è dentro i fenomeni, e di ciò che attende oltre i fenomeni, come l'esito intellegibile e ‘realissimo’ della loro inviluppata teleologia. Come si legge in un libro che Nievo quasi certamente conobbe (segnalo alcune interessanti coincidenze intertestuali nelle note nn. 9, 40 e 43 del prossimo capitolo), «Nei fatti
cosmici, il fatto esprime l’idea, e il presente esprime il futuro, come la potenza contiene l'atto. Ogni fatto èdunque tipico e profetico dell’avvenire Dad contiene il germe» (V. Gioberti, Della filosofia della rivelazione, pubblicata per cura di G. Massari, Torino, Botta, e Paris, M. Chamerot Libraire, 1856, p. 91).
Le forme del romanzo asimmetrico
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notazione bizzarra o espressione di mediocre buon senso, secondo il modello sterniano e heiniano; più spesso aspira confusamente al prestigio del trattato storico-filosofico, o etico, o teologico. Gli excursus di questo tipo — nei quali capita sovente al registro colloquiale dell’ottuagenario di impennarsi in un tono alto ed enfaticamente predicatorio — non sono pochi e alcune volte si protraggono notevolmente. La critica ha potuto considerarli fastidiose lacune della narrazione, farragine riempitiva che è lecito trascurare, e anzi conveniente se si voglia far risaltare la frescarvena affabulatrice nieviana”. Invece queste zone saggistiche d’orizzonte pretenziosamente filosofico sono molto importanti nella struttura del romanzo. In esse certe idee e miti dell’autore, che d’altron-
de sottostanno anche alle parti narrative, si esplicitano discorsivamente e in qualche modo tendono a configurarsi come un sisterza: nel momento in cui, come avviene, la stabilità e la coerenza del sistema sono fallite,
proprio nelle pause riflessive precipitano in modo flagrante le contraddizioni densamente sintomatiche dell’ideologia nieviana. Ma gli excursus sono importanti pure perché doppiano e commentano il racconto: non solo la serie dei fatti storici viene interpretata alla luce di un mito del progresso, di una filosofia della storia; ma, anche, ai fatti soltanto verosimili della biografia del protagonista (e della vita degli altri eroi di cui si parla nel romanzo) viene assegnato un senso ulteriore, che discen-
de da quella storia ‘essenziale’, filosoficamente intesa o profeticamente divinata. Nievo, nella voce dell’ottuagenario, fa cioè dentro il testo, nei
rapporti che pone tra racconto e commento, ciò che secondo l’autore del saggio «Del romanzo in Italia» avrebbe dovuto fare ogni scrittore dietro ? L’atteggiamento discriminatorio nei confronti delle ‘zone’ ideologiche delle Confessioni è andato in genere di pari passo con l’adozione della categoria critica dell’idi/lio, secondo una lettura del romanzo nieviano — privilegiante i temi e i toni della memoria nostalgica, dell’infanzia vagheggiata, della natura, dell’introspezione sentimentale — che, inaugurata in fondo già da D. Mantovani, primo biografo di Nievo (cfr. i giudizi sulle Confessioni in Il poeta soldato, Milano, Treves, 1899) ha goduto poi di lunga fortuna, trovando a un certo punto forme di convergenza con l’altra celebre e assai più selettiva interpretazione di Croce (cfr. La letteratura della nuova Italia, Bari, Laterza, 1914, vol. I, pp. 116-138). Mi sembra che abbia ancora risentito di queste tradizioni critiche F. Portinari in I. Nievo. Stile e ideologia, cit., e in Le parabole del reale, cit. Sulla storia della critica nieviana, cfr. M. Gorra, «La lunga notte della critica nieviana», in Nievo fra noi, cit., pp. 57-101.
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e prima del testo, nel proprio laboratorio ideologico-letterario. Aveva infatti predicato il crepuscolante: E come è vero che esiste una filosofia della storia, come è vero, che al di sopra di quel disordinato concorso di attività individuali, onde risultano i fatti, si libra in alto la legge direttiva dei popoli, per la quale ogni epoca è una fase dell’eterno sviluppo umanitario, e come tale ha indole, costumanze e caratteristiche sue proprie, così a queste ultime dovrà il romanziero conformare le proprie invenzioni, e identificarvele in guisa che possano di leggeri essere scambiate colla storia, poiché ne ritrarranno lo spirito, se non la pretta realtà PA
Anche Nievo regola le sue invenzioni (quella parte ch’egli traduce emblematicamente nel romanzo del «disordinato concorso» delle «attività individuali» nel tempo risorgimentale) su una «filosofia della storia», su una supposta «legge» dell’epoca. Quella in cui l’ottuagenario ha vissuto e ancora vive mentre scrive le sue confessioni — l’epoca a cui Nievo, come Tenca, sentiva di appartenere — è un’età «di transizione», e come
tale comporta privazioni e promesse: in essa non può darsi, ma solo attendersi fiduciosamente dal futuro l’adeguamento della realtà fattuale alle aspirazioni della coscienza, la piena convergenza di merito e felicità. Sul piano letterario, quest'epoca rilutta alla ‘provvidenza’ dei romanzieri: a quella logica semplificante cioè per cui le trame narrative, le evoluzioni avventurose e sentimentali dei personaggi solevano congiurare a uno scioglimento edificante e positivamente definito. Si tenta nelle Confessioni una risposta nuova al vecchio problema manzoniano della falsità del rorzanzesco. Le zone del testo riservate ai commenti e alle esplicazioni dell’ottuagenario si può immaginare che formino, intorno ai blocchi in cui si dipana l’intreccio, come un’intercapedine continua e connettiva, in cui scorra un senso non immediatamente dedotto dalla meccanica sensibile degli avvenimenti, ma capace tuttavia di redimere i medesimi, di connotarli positivamente anche quando essi sembrano negare ai decorsi del reale la piena realizzazione del bene. Tutto in ultima analisi si ricompone e trova la sua cifra giustificante nell'ampio ° «Del romanzo in Italia», II, I Crepuscolo, IV, n. 34, 21 agosto 1853, p. 537.
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orizzonte filosofico-profetico disegnato dai commenti dell’ottuagenario. Proprio perché anche le più tragiche ironie del destino sono recuperabili extradiegeticamente alle superiori ragioni della Storia, alla finale armonia che i travagli della «transizione» fanno presagire, Nievo può abbandonare i propri personaggi all’arbitrio della realtà, ossia di un intreccio che nell’intento di mimare la contraddittorietà della vita vera, e diversamente da quanto succedeva nel più dei romanzi coevi, non ostenta ad ogni passo, ad ogni scatto del meccanismo narrativo la ‘provvidenzialità’ tendenziosa/da cui è strutturato. Nievo può avviare i suoi eroi, i migliori
e meglio intenzionati, su strade amaramente senza uscita; può lasciare inespiato il vizio, e impremiata e offesa la virtù; può permettere che sia mortificato da ingiuste contingenze lo sviluppo d’un’indole buona, cui tutto prometteva una benefica espansione; può, con pertinacia quasi diabolica, privare le più degne ambizioni del sacrosanto esaudimento; può infine demolire, nella variata casistica degli scacchi sentimentali che affliggono i suoi personaggi, l’istituto principe del romanzo a lieto fine, cioè il matrimonio risolutore che al termine delle traversie dell’amore contrastato riconcilia il destino, le aspirazioni soggettive dei protagonisti con la razionalità oggettiva del reale (e d’altra parte Nievo sottrae alla ‘sua specifica ortodossia letteraria, sostituendo o alterando i fattori in gioco, o con un’opera sottile di disturbo diseroicizzante, anche l’altro
possibile esaudimento, quello tragico, delle passioni romantiche: le nozze in cielo, il compimento dell’amore nella morte). L’arte delle Confessioni è insomma tutto il contrario di quella che la già citata recensione del Crepuscolo accusava di falsità, perché essa «volendo l’effetto ad ogni costo e, volendolo sicuro, [...] ha bisogno di . finire il quadro con una scena finale, dove [...] si veda il tiranno punito e l’innocenza vendicata», mentre «nulla è più opposto alla verità della vita, che codesta simmetria materiale a cui vogliono ridurla i romanzieri mestieranti»”.
? «Nuovi misteri di Trieste, ossia iDieci Comandamenti, romanzo contemporaneo di Adalberto Thiergen», I/ Crepuscolo, V, n. 33, 13 agosto 1854, p. 527.
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2.
Destini dei personaggi e strategie intertestuali
Alla simmetria degli intrecci romanzeschi convenzionali Nievo oppone una logica ‘asimmetrica’ che sente omogenea alla temperie irrazio-
nale o difficilmente razionalizzabile, all’intimo squilibrio dell’«età di transizione». Ma questa logica diversa, che pure si vorrebbe sottratta alla coazione dei codici consolidati, aperta alla «verità della vita», non cerca una materia immune — o il meno possibile sfruttata dalla tradizione — dove applicarsi, donde estrarre gli elementi originari atti a dar corpo a un'immagine non compromessa del mondo. Era estraneo a Nievo l’ascetismo che sarà di Verga, la volontà cioè di filtrare assiduamente la tradizione, così da ottenerne testure narrative che paressero estranee all’universo cartaceo dei libri, miracolosamente vicine a un mondo ineffato di cose, voci, sentimenti. Anche nelle Confessioni Nievo fa vistosa-
mente letteratura con altra letteratura, e mi sembra che qui il fenomeno sia assai meno preterintenzionale che nelle novelle rusticali, ed anzi in una certa misura voluto e funzionale. Più che sottrarsi ad essa, Nievo ‘distorce’ la letteratura. Mentre struttura l’intreccio del suo romanzo,
egli ne marca l’atipicità (rispetto alle norme mediamente deducibili dalla tradizione) utilizzando per i propri personaggi una base tipologica piuttosto scontata, e al contempo rendendo singolarmente devianti questi personaggi. Ciò avviene sia attraverso una fluidificazione dei tratti caratterizzanti (sicché i personaggi subiscono metamorfosi da una zona all’altra del testo, violati, deformati da una logica diversa da quella a cui obbedivano nello statuto di partenza), sia attraverso il disancoramento
del personaggio dai percorsi di destino (e di serso) previsti contestualmente dal codice primitivo, ai quali succede l’innesto in una concatenazione d’eventi che quel codice non prevedeva. In altri termini, i codici romanzeschi e letterari in genere di cui Nievo ha competenza, se talora sono
assunti conformisticamente
nel testo, molte volte sono
invece
sottoposti dall’autore a processi d’ipercodifica, secondo le esigenze dimostrative dell’ideologia. L’esemplificazione analitica di questa affermazione può partire dal personaggio di Lucilio. La presentazione che ne vien fatta nel secondo capitolo lo connota con forti tratti di eroe byroniano: fronte alta e spaziosa, sguardo di fuoco, connaturato carisma, volontà acuminata e
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intransigente, orgoglio e sommo egotismo*. Questo titano mette al servi-
zio della patria la propria smania di autosuperamento, i nervi e la fredda intelligenza: la qual cosa non stupisce, dato l’uso politico che fu normalmente fatto, nei primi decenni del nostro Ottocento, della leggenda del poeta inglese, fiorita intorno alla sua personalità e promossa dalle sue azioni e dai suoi scritti. Colpisce piuttosto che Lucilio — del quale nel testo si decanta continuamente l’infallibilità geniale, la quasi sovrumana padronanza e lucidità intellettuale, e che dovrebbe incarnare un principio di volontà tendenzialmente satanico, cui non resistono ostacoli terreni, se non quelli che la volontà stessa proietta orgogliosamente fuori di sé, nella sua sete insaziabile di trascendere il limite umano — di fatto
nella vita non conosca che mortificazioni fallimentari. Non solo l’acume strategico, l’attitudine al comando, l’attivismo demiurgico dell’eroe possono ben poco nei confronti del torpore della storia, dell’intrico delle contraddizioni politiche; ma alla presa volitiva di Lucilio sfugge anche, nella puntuale ripulsa delle sue proposte di matrimonio, la fragile donna che egli ama riamato, quella Clara cioè che pure parrebbe sin dalle prime pagine, per la sua timidezza appassionata, per candore e mansuetudine, predestinata al ruolo di preda, a fungere, secondo l’ortodossia del mito, da complemento masochistico, per così dire, del sadismo del seduttore byroniano”.
* Cfr. Conf., II, 101-104. La descrizione tematizza esplicitamente il satanismo e il titanismo di Lucilio, congruenti col suo carattere romantico-byroniano: «Servo insieme e padrone delle proprie passioni [...]; egoista generoso o crudele secondo l’uopo, [...] credeva che i minori debbano per necessità naturale cedere ai maggiori, i deboli assog-
gettarsi ai forti, i vigliacchi ai magnanimi, i semplici agli accorti. La maggioranza poi, la forza, la magnanimità, l’accortezza egli le riponeva nel saper volere pertinacemente, e valersi di tutto e osar tutto pel contentamento della propria volontà. [...] Grande un cotal temperamento lo portava al comando; piccolo al dispregio; due diverse superbie delle quali non so qual sia quella che meglio si converrebbe all’ambizione di Lucifero» (pp. 101-102). «Adoperò sempre da astuto nei mezzi; ma da forte nella perseveranza: e se fu egoismo, era l'egoismo d’un titano» (p. 104). Non credo poi che sia casuale la consonanza dei nomi «Lucilio» e «Lucifero». ? «La pertinacia e la freddezza da un lato, dall'altro la mansuetudine e la pietà s'erano confuse in un incendio d'amore. La volontà di Lucilio e l’abnegazione di Clara corrispondevano insieme, come quegli astri gemelli che s’avvicendano eternamente l’uno intorno all’altro negli spazi del cielo» (V, 220). Sui miti erotici dell’età romantica e in
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I fallimenti di Lucilio non sono casuali. Una delle idee forti delle Confessioni è quella secondo cui il secolo risorgimentale avrebbe via via eroso i modelli più spiccatamente agonistici ed ‘eroici’ della prassi politica, quelli cioè d’impronta democratico-mazziniana: i più compromessi, tra l’altro, con le applicazioni politiche del mito byroniano, se Mazzini voleva conservato e superato nella socialità del proprio sistema l’individualismo eroico esemplato nella vita da Byron, e se questo mito agiva in ogni caso nel sostrato culturale degli adepti del mazzinismo, come molla di una tendenziale estetizzazione dell’azione politica, vissuta come bel gesto esemplare incurante di prudenze borghesi. La storia, sembra dire l’ottuagenario, ha sempre meno bisogno di individui eccezionali, di protagonismi genialmente machiavellici, che inneschino insurrezioni e poi s’arroghino l'educazione ‘rivoluzionaria’ del popolo; e ha invece molto bisogno di una pedagogia orizzontale e interstiziale, paziente, atta a diffondere coscienza e consapevolezza nelle compagini del sociale, così da preparare, secondo i giusti tempi di maturazione, lo scioglimento della transizione, l’esaudimento del fato nazionale. Il protagonismo giacobino, il rigorismo raziocinante di Lucilio nella prima parte delle Coxfessioni non possono che scontare, nei fallimenti politici ed erotici, la destinata obsolescenza di uno stile di vita e di milizia politica. Nelle ultime pagine del libro mi sembra invece che gli atteggiamenti dell’eroe si allineino all’ideologia propugnata da Nievo. Se nel secondo capitolo il personaggio è presentato come sostanzialmente impaziente di contenta-
re la propria volontà, anche se capace di freddo temporeggiamento quando giudichi sia questa la tattica più proficua ai propri scopi, verso la fine del libro egli ci appare piuttosto come un convinto asceta, un profeta laico della pazienza: questa, che era solo strumento per il suo antico fo titanico bramoso di affermarsi, ora riassume invece il senso più alto di una vita. Vecchio, ammalato e consapevole di dover presto morire, Lucilio confida a Carlino di aver voluto provare, con la costanza dei suoi affetti, «che essi tendono ad un'esistenza più vasta, ad un particolare sui ruoli letterari della virilità «byronica», sempre fondamentale l'escursione di M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni,
1966.
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contentamento più libero e pieno che non si possa ottenere in questa
fase umana dell’esser nostro» (XXI, 987). La pazienza è quindi pegno di virtuale trascendenza; è un’etica («La scienza, le virtù, i doveri della vita si riassumono in un’unica parola: Pazienza!...», XX, 928) confacente a
uno stato dello spirito, all’attesa che è la condizione fondamentale dell’e-
tà di transizione. Si veda il consolato bilancio che Lucilio partecipa a
Carlino, parlando della propria morte non lontana: #
“Soltanto ti confesso che mi duole all'anima di non vedere la fine;
ma è un malanno che è toccato a dieci generazioni prima della mia e non giova lamentarsene. Le mie azioni, le mie idee, il mio spirito che con grande studio e con qualche fatica ho educato ad amare ed a volere il bene, soffocando anche le passioni che lo dominavano, tutto io credo seguiterà a servire quella meravigliosa provvidenza che va perfezionando l’ordine morale (XXI, 985-986).
Abbiamo detto di Lucilio, ovvero delle connotazioni originali indotte nel mito romantico-byroniano dall’ideologia nieviana della «transizione». Diciamo ora di Clara, che ci appare nel primo capitolo come «una fanciulla bionda, pallida e mesta, come l’eroina d’una ballata o l’Ofelia
di Shakespeare» (I, 52). È proprio Nievo quindi a marcare la letterarietà romantica del personaggio, in cui agiscono altresì, in positivo e in negativo, i modelli manzoniani di Lucia e Gertrude. Come Lucia, Clara è casta e pietosa, sollecita verso il prossimo, e come Lucia, almeno fino a un certo punto della sua storia, vive in spontanea sintonia coi voleri divini, con l'ordinamento provvidenziale della natura. Ma, come Ger-
trude, Clara deve subire le pressioni concentriche di parenti e mediatori interessati, i quali però non vogliono indurla al chiostro, bensì a certi indesiderati matrimoni di convenienza. Anche perché le strategie messe in atto per piegare Clara sono molto meno insidiose (Nievo le declina in chiave comica) di quelle sperimentate dal personaggio manzoniano, Clara resiste, mentre Gertrude cedeva. La reclusione in convento sancisce
la sconfitta della monaca di Monza, e pone le condizioni dei successivi delitti; invece Clara si assuefà facilmente all’idea di pronunziare i voti,
come impongono i genitori dopo aver fallito i loro piani matrimoniali, vi si assuefà al punto di respingere Lucilio anche quando farebbe ancora in tempo a sposarlo, per di più col beneplacito della madre. La condizione monacale, abbracciata con l’orgogliosa obbedienza dei martiri, mi sem-
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bra affermare compiutamente nell’eroina nieviana connotazioni solo accennate in Lucia: vocazione alla rinuncia, tenace rimozione del desi-
derio, una purezza di tale oltranza, così formalmente ineccepibile, da risultare scostante e quasi disumana. Il voto formulato da Lucia quella notte famosa nel castello dell’Innominato significava in fondo proprio la priorità accordata alle ragioni della purezza rispetto a quelle della fecondità coniugale; ma non c’è nessuno che sciolga Clara dalla promessa che anche lei ha fatto a Dio — di non sposarsi più — la notte in cui i francesi sono entrati in Venezia, per impetrarne l’allontanamento. Si noti poi che corrisponde simmetricamente alla sete d’autoaffermazione di Lucilio quell’intimo bisogno di negarsi alla vita, per il quale il convento è tanto congeniale a Clara. Dopo i voti la bellezza di Clara, già pallida, si fa diafana e gelida; l’anima s’isterilisce nel rigorismo religioso, in una triste, ascetica noncuranza del mondo!; e d’altra parte la frigidità della donna condanna all’impotenza il virile dinamismo di Lucilio: in senso figurato e proprio, perché i due, non sposandosi, non possono mettere su famiglia, e non possono così mutuare in progenie terrena la stirpe spirituale cui appar-
tengono. Vedremo che al mediocre eroismo di Carlino toccherà riprodursi in una, lunga serie di figli e nipoti virtuosamente educati alle prospettive nazionali, e sarà la sensualissima Pisana a lasciare i articulo mortis un tesoro di ammaestramenti e moniti validi per più generazioni a venire. I personaggi di Lucilio e Clara, sostanziati di un romanticismo troppo sublime, di una pedagogia troppo ‘platonica’ e intransigente per essere diffusamente socializzabile, non possono, come invece può Carlino, essere proposti entro il quadro ideologico delle Confessioni come tipi normativi ampiamente, democraticamente accessibili". Questi eroi
" «Sulle sue labbra, all’indulgente sorriso d’una volta era succeduta la fredda rigidità monastica: oramai si vedeva che l’isolamento dalle cose terrene [...] lo aveva anch'essa
raggiunto; non solo disprezzava e dimenticava, ma non comprendeva più il mondo» (XIV, 636).
‘A un certo punto Nievo affida proprio a Lucilio il compito di celebrare il primato esemplare, la peculiare gloria dell’eroismo ‘mediocre’ di Carlino, scevro di connotati tragico-titanici: «Oh benedette queste anime [...] che veggono il vero, e lo seguono, benché non ve le spinga una forza irresistibile!! Benedetti gli uomini pei quali il
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troppo estremi, discesi dalle zone fulgenti dello spirito al tempo perturbato della transizione, sdegnano aristocraticamente le mediazioni, le
compromissioni a cui invece talvolta Carlino si acconcia con plastico realismo, ritenendole necessarie o provvisoriamente utili, e bruciano
testimonialmente la loro giornata nel mondo sull’altare del Tempo maggiore della Storia ideale. Dice Clara a Lucilio, per motivare il suo rifiuto di sposarlo: «Le anime nostre non erano fatte per trovare la felicità in questo secolo di vizio, e di perdizione. Rassegnamoci e la troveremo lassù!» (XII, 546). La fede cristiana di Clara, nel rimandare a un altrove la felicità impossibile nel presente, consuona con la teologia politica di Lucilio («Credo all’entusiasmo delle anime che irrompendo quandocche-
sia nella vita sociale [...]>, XX, 905) la quale consiglia di confidare alla storia ideale, «a quel supremo sentimento di giustizia che sembra esser l’anima eterna dell’umanità il destino futuro ed imperscrutabile di quelli che si amano»
(XX, 927-928).
Quasi di tacito accordo, i due eroi si precludono la banalizzazione coniugale del desiderio, per fare della passione insoddisfatta, soddisfacibile solo in una sfera superiore, il pegno dell’ordine ideale cui la storia confusamente aspira coi suoi travagli. Questo tipo di rinuncia esercitava
certo un fascino su Nievo, già rapito lettore della Nouvelle Héloise!; ma a monte delle Confessioni c’era lAntiafrodisiaco, non solo le lettere a
Matilde, e pertanto l’autore affida al mediocre buon senso del suo protagonista il compito di relativizzare il rigorismo platonico di Lucilio e Clara. Lucilio è moribondo, Clara in un’altra stanza dello stesso sacrifizio non ha voluttà eppure vi si offrono egualmente, vittime volontarie e generose! Sono i veri grandi» (XX, 905-906).
!° Così Julie a Saint Preux: «Dans le règne des passions elles aident è supporter les tourments qu’elles donnent; elles tiennent l’espérance à còté du désir. Tant qu’on désire on peut se passer d’ètre heureux; on s’attend à le devenir; si le bonheur ne vient point, l’espoir se prolonge, et le charme de l’illusion dure autant que la passion qui la cause. Ainsi cet état se suffit à lui-méme, et l’inquiétude qu’il donne est une sorte de jouissance qui supplée è la réalité. Qui vaut mieux, peut-étre. [...] Le pays des chimeres est en ce monde le seul digne d’ètre habité, et tel est le néant des choses humaines, qu’hors l’Etre existant par lui-méme, il n'y a rien de beau que ce qui n'est pas» (J.J. Rousseau, Julie ou La Nouvelle Héloise, texte établi par H. Coulet et annoté par B. Guyon, in Ouvres cormplètes, ed. diretta da B. Gagnebin e M. Raymond, vol. II, Paris, Gallimard, 1964, p. 693).
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appartamento prega per lui, ma si rifiuta di vederlo per non contaminare con una commozione prosaica l’astratto valore testimoniale dell’amore. Lucilio comprende e condivide l'atteggiamento dell’amata, e infatti l’ultima sua parola, a Carlino, è «Ringraziala!». Carlino invece non capisce troppo bene lo stile di quelle anime elette, e il commento dell’ottuagenario ne mette in luce l'aspetto paradossale, col salubre scetticismo di chi non ha mai opposto per metodo l’etica razionale al senso comune, l’assoluto del dovere alla pratica socievole della compassione: Infatti io la ringraziai, ma non sapeva bene di cosa. Per quanto
l’avessi pregata non avea consentito a consolare il morente della sua presenza; ma siccome ella faceva uno studio peculiare di attraversare le proprie voglie, così mi è lecito il credere che ne sentiva anzi desiderio; e che offerse anche quel sacrifizio per maggior bene
dell’anima di lui (XXI, 990). Dalle rarefatte aure romantiche dell’amore tra Lucilio e Clara, di-
scendiamo con Leopardo e Doretta ad un clima a prima vista più domestico: infatti la storia di questi due personaggi rimette in gioco le convenzioni e i presupposti ideologici dell’idillio rusticale, nonché quel tanto d’idillico che immaneva nella logica provvidenziale dei Prozzessi sposi; parodizza con intenzioni ideologiche serie l’arcadia sociale che anche Nievo aveva profuso nella sua produzione campagnuola. Questa parodizzazione è ottenuta ai livelli del discorso e dell’intreccio mediante l'introduzione di elementi dissonanti rispetto alla retorica rusticale; al livello della fabula mediante l’assunzione in un primo tempo dello schema dei Promessi sposi (innamoramento, amore contrastato, matrimonio
finalmente celebrato) il quale, compatibile e congeniale rispetto all’ottodossia rusticale, viene però successivamente deviato nello schema affatto eterogeneo della tragedia ortisiana (delusione politica, delusione amorosa, suicidio esemplare).
Questa commutazione di schemi e modelli è dichiarata nelle rubriche dei due capitoli in cui è maggiormente sviluppato il racconto dell'amore di Leopatdo e Doretta. Infatti quest’amore è un «idillio pastorale» nella rubrica del quarto capitolo, mentre in quella del tredicesimo Leopardo è definito «un Jacopo Ortis». Sulle rubriche delle Confessioni cfr. S. Romagnoli, «Annotazioni preliminari sulle rubriche del Nievo», in
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Anche se la famiglia di Leopardo gode di prestigio e autorità nella giurisdizione comunale di Cordovado (ma si tratta di una povera eminenza, se rapportata allo strapotere delle giurisdizioni feudali), Nievo è piuttosto deciso nell’attribuirle le tradizionali virtù del mito rusticale. Il padre di Leopardo è «di ceppo paesano e di pasta paesana affatto» (IV, 177) e accetta di buon grado e come naturale l’ordinamento sociale che lo vuole sottoposto all’aristocrazia («era ossequioso alla nobiltà per sentimento, non servile per dappocaggine», IV, 158). Inoltre egli condivide coi contadini di La nostra famiglia di campagna (».
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Tra il grande coagulo del « verosimile » manzoniano e le revisioni post-unitarie del « realismo », nei decenni centrali del nostro Ottocento la posizione dei narratori si fa spesso fluida e le postazioni segmentate: disseminate intuizioni, contraddittorie assunzioni teoriche disegnano tuttavia — all'orizzonte delle pratiche, degli stili — il fantasma seducente di un nuovo realismo, possibilmente emancipato dalla tutela dei Promessi sposi. L’opera narrativa di Nievo è fortemente segnata da questa ricerca di una transizione nei modi della rappresentazione: molte delle soluzioni originali conclusivamente assunte nelle Confessioni d'un italiano sottintendono quasi una morale provvisoria della « verità » romanzesca dopo Manzoni, venata di variazioni sperimentali. Il reverente scioglimento del vincolo manzoniano non fu tuttavia né dispersione né rivolta: semmai Nievo tentò, con altri, il potenziamento, l'esibizione della macchina poliforme di linguaggi e di narrazioni possibili che ai più appariva inclusa nell’archetipo, nell’ingannevole monoblocco del « romanzo storico ». Ma le Confessioni si devono leggere anche come documento intensamente « politico »: il testo affonda per mille radici, per mille tramiti di passione, d’intelligenza, di volontà militante nella sensibilità di un periodo (gli anni '50, il decennio preparatorio all'Unità) che i contemporanei vivevano come il tartassato laboratorio profetico di un futuro « ideale » della vita nazionale: un'illusione, per allora, ancora quasi impregiudicata. E la seconda chiave — quella dei contenuti civili che impegnano interpretazioni del presente e presagi, sublimazioni di un tempo pubblico a venire — necessaria per intendere a fondo la « transizione » che dà titolo a questo libro.
ISBN 88-2
Giovanni Maffei è nato nel 1956 a Napoli, dove insegna nelle scuole medie. Un saggio che anticipava alcune delle linee di ricerca confluite in questo volume è apparso su Lavoro critico
(1982).
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; Metropolitan Toronto Reference Library
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