Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro 8880560093, 9788880560098

Il neoliberismo ha fallito, i robot ci rubano il lavoro, e il mondo si è fatto sempre più complesso e astratto. A cosa d

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Italian Pages 362 [361] Year 2018

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Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro
 8880560093, 9788880560098

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Che fine ha fatto il futuro? Dove sono andati a finire i grandiosi progetti per una società più giusta, più libera, più felice, che una volta furono al centro della storia della sinistra? In questo saggio al tempo stesso rigoroso e provocatorio, Nick Srnicek e Alex Williams abbandonano ogni tentazione nostalgica e provano a immaginare attraverso quali mezzi ridisegnare una prospettiva che dal capitalismo 24/7 in cui siamo costretti a vivere, ci conduca a un mondo libero dal lavoro ed ecologicamente (oltre che umanamente) sostenibile. A partire da una puntuale critica a quella che chiamano folk politics – l’idea secondo la quale “piccolo è bello” e “locale è meglio che globale” – gli autori puntano quindi a un futuro in cui la tecnologia serva finalmente allo scopo di emancipare l’umanità, anziché essere costretta agli improduttivi usi che ne fa il tecnocapitalismo globale. Nei temi, nello stile e nell’audacia dei contenuti, Inventare il futuro è sia una risposta alla vacua sinistra della cosiddetta “terza via”, sia una critica costruttiva ai movimenti che hanno provato a opporsi al neoliberalismo ricorrendo a inefficaci politiche localiste. E al passatismo che ammanta buona parte della retorica antiglobalizzazione, gli autori replicano portando alle naturali conseguenze uno dei testi politici più discussi degli ultimi anni, e che proprio Srnicek e Williams scrissero come reazione al fallimento dei movimenti anti-crisi: il Manifesto per una politica accelerazionista.

Nick Srnicek è autore di Platform Capitalism (Polity, 2016) e assieme a Graham Harman e Levi Bryant ha curato nel 2011 The Speculative Turn, antologia del pensiero realista-speculativo. Alex Williams è docente in sociologia alla City University di Londra. Insieme a Nick Srnicek, ha già scritto il Manifesto per una politica accelerazionista (2013).

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Titolo originale: Inventing the future - Postcapitalism and a World Without Work Nick Srniceck & Alex Williams Verso Books, 2015 © NERO, 2018 ISBN 978-88-8056-009-8

NERO Lungotevere degli Artigiani 8b 00153 Roma www.neroeditions.com www.not.neroeditions.com

Traduzione di Fabio Gironi

INDICE Introduzione 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Il nostro senso comune politico: introduzione alla folk politics Perché non stiamo vincendo? Una critica della sinistra di oggi Perché stanno vincendo loro? La costruzione dell’egemonia neoliberale Modernità di sinistra Il futuro non sta funzionando Immaginari del post-lavoro Un nuovo senso comune Costruire il potere Conclusione Postfazione Ringraziamenti Note

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Introduzione Cosa è successo al futuro? Che fine ha fatto? Per buona parte del XX secolo è stato il futuro a indirizzare i nostri sogni. Da sinistra arrivavano visioni emancipatrici derivate dall’incrocio tra il potere del popolo e il potenziale liberatorio della tecnologia: dalle previsioni di un mondo nuovo di tempo libero e ozio al comunismo cosmico sovietico, dall’afrofuturismo, che celebrava la natura diasporico-sinte­ tica della cultura nera, fino alle proiezioni post-gender del femminismo radicale, l’immaginario collettivo della sinistra è stato in grado di prefigurare società di gran lunga migliori di quelle che sogniamo oggi.1 Attraverso il controllo che il popolo avrebbe esercitato sulle nuove tecnologie, tutti insieme saremmo riusciti a trasformare il mondo in un posto migliore. Oggi, per un verso, questi sogni appaiono più vicini che mai. L’infrastruttura tecnologica del XXI secolo sta producendo risorse tali da rendere plausibile un sistema politico ed economico diverso. Le macchine oggi sono in grado di compiere mansioni inimmaginabili anche solo un decennio fa. Internet e i social media danno voce a miliardi di persone che fino a ieri erano rimaste inascoltate, così che una democrazia partecipativa sembra davvero essere dietro l’angolo. I progetti open source, le potenzialità creative del copyleft, la stampa in 3D, annunciano un mondo dove la scarsità di molti beni potrebbe diventare un ricordo lontano. Nuove forme di simulazione computerizzata potrebbero essere in grado di svecchiare la pianificazione economica, e offrirci dunque possibilità senza precedenti per guidare la nostra economia in maniera razionale. La più recente ondata di automazione sta creando i presupposti per abolire una volta per tutte moltissimi lavori noiosi e degradanti. Le energie rinnovabili rendono praticabili fonti di energia ecologicamente sostenibili e virtualmente inesauribili. Infine, le nuove tecnologie in campo medico sembrano pronosticare non soltanto una vita più lunga e più sana, ma anche nuove sperimentazioni nel campo dell’identità sessuale e di genere. Molte delle 7

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classiche richieste programmatiche della sinistra – meno lavoro, fine della povertà, democrazia economica, produzione di beni socialmente utili, liberazione dell’umanità – sono assai più concrete e ottenibili oggi che in qualsiasi altro periodo della storia. Eppure, sotto la scintillante patina dell’era tecnologica in cui viviamo, rimaniamo schiavi di relazioni sociali vecchie e obsolete. Continuiamo a seguire orari di lavoro massacranti, condannati a un’eterna vita da pendolari, per svolgere mansioni che ci sembrano sempre più prive di senso. Il nostro lavoro è sempre più precario, il nostro salario è mediocre e i nostri debiti sono diventati insostenibili. Facciamo fatica ad arrivare a fine mese, a mettere il cibo in tavola, a pagare l’affitto o il mutuo, a trovare strutture per i nostri bambini a costi ragionevoli, mentre intanto saltiamo da un’occupazione all’altra vagheggiando di pensioni che non otterremo mai. I processi di automazione hanno prodotto nient’altro che disoccupazione, i salari stagnanti hanno devastato la classe media e nel frattempo i profitti delle grandi corporation sono continuati ad aumentare. Sotto la pressione di un mondo sempre più precario e debilitante, la promessa di un futuro migliore è andata in frantumi, oramai dimenticata. E ogni giorno torniamo a lavoro, come sempre: esausti, ansiosi, stressati, frustrati. Su scala planetaria l’orizzonte sembra, se possibile, persino più minaccioso. I peggioramenti climatici si susseguono senza sosta, e le protratte conseguenze della crisi economica hanno spinto i governi mondiali a adottare politiche di austerità paralizzanti e distruttive. Messi all’angolo da forze astratte e impercettibili, ci sentiamo incapaci di eludere e controllare l’immane pressione che su di noi esercitano le spinte economiche, sociali e ambientali. Ma come potremmo sfuggire a una situazione del genere? Se ci guardiamo attorno l’impressione è che i sistemi politici, così come i movimenti e i processi che hanno dominato l’ultimo secolo, siano inca8

INTRODUZIONE

paci di produrre autentiche prospettive di cambiamento: al contrario, l’unico sentiero percorribile è diventato il sacrificio senza fine. Le democrazie elettorali sono ridotte in uno stato pietoso. I partiti di centrosinistra sono stati svuotati, spogliati di qualsiasi mandato popolare: al loro posto, nient’altro che cadaveri vacui guidati da ambizione e carrierismo. I movimenti radicali sbocciano pieni di promesse, per poi venire rapidamente soffocati dalla stanchezza e dalla repressione. I sindacati sono stati sistematicamente privati di qualsiasi potere effettivo, e sono oggi organizzazioni sclerotiche capaci soltanto di opposizioni deboli. Nonostante le calamità dell’oggi, la politica contemporanea rimane drammaticamente a corto di idee nuove: il neoliberismo imperversa da decenni, mentre la socialdemocrazia sopravvive tuttalpiù sotto forma di nostalgia. Nell’esatto momento in cui le crisi che ci troviamo ad affrontare acquistano forza e velocità, la politica appassisce e si tira indietro. E, nella paralisi dell’immaginario politico, il futuro viene cancellato.2 Questo libro si domanda come siamo arrivati a una tale situazione, e come ripartire verso il futuro. Prendendo spunto da quella che chiamiamo folk politics* proveremo a offrire una diagnosi del come e del perché abbiamo perso la capacità di immaginare un futuro migliore. Sotto la spinta della folk politics, le più recenti ondate di protesta – dai movimenti antiglobalizzazione a quelli contro la guerra, passando per Occupy Wall Street – hanno portato a una feticizzazione degli spazi locali, dell’intervento estemporaneo, del gesto transitorio e di vari tipi di particolarismo. È una politica che, piuttosto che impegnarsi nel difficile compito di espandere e consolidare * Per una definizione approfondita di folk politics, vedi il capitolo 1. Nel Manifesto per una politica accelerazionista del 2013, gli autori la definiscono tra le altre cose come un misto di «localismo, azione diretta e inesauribile orizzontalismo». Le traduzioni italiane da allora proposte («politica del senso comune», «politica dal basso», «politica popolare», ecc.) non rendono le sfumature dell’espressione inglese: si è quindi preferito mantenere l’originale. 9

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le proprie conquiste, si concentra sulla costruzione di «rifugi» che resistano all’avanzata del neoliberismo globale. Il risultato sono politiche difensiviste incapaci di articolare e costruire mondi nuovi. Ma per qualsiasi movimento che si proponga l’emancipazione dal neoliberismo e la costruzione di qualcosa di migliore, la folk politics non basta. Al suo posto, questo libro vuole proporre un’alternativa: una politica che provi a riconquistare il controllo del nostro futuro, che nutra l’ambizione di immaginare un mondo ben più moderno di quello che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. Le potenzialità utopiche latenti nelle tecnologie del XXI secolo non possono rimanere schiave della ristretta mentalità capitalista, ma vanno liberate in direzione di un’ambiziosa alternativa di sinistra. Il neoliberismo ha fallito, la socialdemocrazia è impossibile, e solo una visione alternativa potrà essere in grado di traghettarci in un mondo di prosperità ed emancipazione universale. Il dovere fondamentale della sinistra di oggi è quello di articolare, e quindi perseguire, questo mondo migliore.

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Capitolo 1 IL NOSTRO SENSO COMUNE POLITICO: INTRODUZIONE ALLA FOLK POLITICS La mossa successiva toccava a noi, e invece siamo rimasti lì impalati, in attesa che succedesse qualcosa, come bravi obiettori di coscienza che aspettano di essere puniti dopo aver preso una posizione puramente simbolica. Dave Mitchell

Oggi sembra che per ottenere finanche il più piccolo dei cambiamenti sia necessario uno sforzo immenso. Milioni di persone marciano contro la guerra in Iraq, e questa prosegue come da programma. Centinaia di migliaia di cittadini protestano contro l’austerità, e i tagli non si arrestano. Le manifestazioni studentesche, le occupazioni e le rivolte di piazza si oppongono all’incremento delle tasse universitarie, e le tasse continuano inesorabilmente a salire anno dopo anno. In tutto il mondo i manifestanti si mobilitano contro le diseguaglianze economiche, ma il divario tra ricchi e poveri continua ad allargarsi. Dalle lotte contro la globalizzazione degli anni Novanta ai movimenti pacifisti e ambientalisti dei primi anni Duemila, fino ad arrivare a Occupy e alle rinnovate proteste che gli studenti hanno portato avanti dal 2008 in poi, a emergere è uno schema ricorrente: le lotte sociali crescono molto in fretta, riescono a mobilitare un gran numero di persone, eppure ogni volta svaniscono nel nulla, lasciando in eredità soltanto apatia, malinconia e senso di disfatta. Nonostante il desiderio di un mondo migliore venga condiviso da milioni di persone, gli effetti di questi movimenti sono minimi. UNA COSA DIVERTENTE CHE MI È SUCCESSA MENTRE ANDAVO ALLA MANIFESTAZIONE L’ultimo ciclo di proteste è stato permeato dal fallimento, con il risultato che molti comportamenti della sinistra contemporanea hanno assunto un carattere ritualistico, carico di un 13

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fatalismo plumbeo. Le tattiche prevalenti – manifestazioni di protesta, marce, occupazioni e altre forme di azione diretta – sono diventate parte di una narrazione fin troppo conosciuta, in cui manifestanti e polizia giocano parti già assegnate. I limiti di questo tipo di azione sono particolarmente visibili in quei rari momenti in cui il copione salta; per dirla con le parole di un attivista che ricordava gli avvenimenti che, nel 2001, ebbero luogo a una protesta contro il Summit delle Americhe: Il 20 aprile, primo giorno della protesta, marciammo in migliaia verso la recinzione dietro la quale trentaquattro capi di Stato si erano riuniti per stabilire un enorme accordo commerciale. Sotto una pioggia di orsacchiotti lanciati da catapulte, alcuni attivisti vestiti di nero presero delle tenaglie e rimossero rapidamente i supporti della recinzione, tirandole giù con i rampini tra gli applausi generali. Per un breve istante tra noi e il centro congressi non ci fu nulla. Ci arrampicammo sulla recinzione abbattuta, ma perlopiù non andammo oltre. Come se il nostro intento fosse semplicemente quello di rimpiazzare le recinzioni metalliche e le barriere di cemento con una muraglia umana.1

Azioni di questo tipo tradiscono una natura apertamente simbolica e rituale, certo arricchita dalla soddisfazione di aver fatto qualcosa, ma accompagnata dalla profonda incertezza sul come procedere al primo evento inaspettato. Nel momento in cui le barriere cadono, il ruolo del «manifestante diligente» non riesce a fornire indicazioni sul da farsi. Manifestazioni politiche spettacolari come le marce Stop the War, le ormai familiari proteste contro il G20 o il WTO, gli edificanti esempi di democrazia diretta di Occupy Wall Street, appaiono come momenti di grande significato e in cui davvero c’è qualcosa in ballo:2 eppure nulla è cambiato, e l’ipotesi di un vittoria sul lungo termine è stata sostituita da semplici esternazioni di malcontento. Agli osservatori 14

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esterni spesso non è nemmeno chiaro cosa questi movimenti – al di là di un’insoddisfazione generica – esprimano davvero, anche perché col tempo le proteste sono diventate un guazzabuglio di richieste sempre più eterogenee e disparate. Un solo esempio: gli slogan dei manifestanti che sfilarono contro il G20 di Londra nel 2009 andavano dai più grandiosi proclami anticapitalisti ad assai più modesti obiettivi di politica ultralocale. E anche quando è possibile individuare delle richieste specifiche, queste in genere non vengono articolate in nulla di sostanziale: spesso si tratta di slogan vuoti, significativi quanto il desiderio generico per «la pace nel mondo». È tristemente noto come il movimento Occupy fece molta fatica a esprimere degli obiettivi precisi per via della preoccupazione che proposte troppo sostanziali avrebbero finito per produrre delle fratture interne.3 Infine, un ampio spettro di occupazioni studentesche in tutto il mondo occidentale ha adottato il mantra del «nessuna richiesta», nella curiosa convinzione che non avanzare richieste sia un gesto radicale.4 Interrogato sugli esiti delle proprie azioni, chi ha partecipato ai movimenti replica ammettendo un generico senso di futilità, oltre che la convinzione che siano stati proprio i movimenti a radicalizzare chi vi ha partecipato. Se consideriamo le proteste di oggi come esercizi di consapevolezza pubblica, queste hanno avuto – a essere ottimisti – un successo variabile: i loro messaggi vengono manipolati da media ostili e ossessionati dalle immagini di proprietà distrutte (sempre che i media siano interessati a forme di lotta diventate sempre più ripetitive e noiose). C’è chi sostiene che, anziché pensare a ottenere un determinato obiettivo, i movimenti, le proteste e le occupazioni abbiano un valore in quanto tali:5 lo scopo, in questo caso, sarebbe semplicemente quello di ottenere una trasformazione interiore dei partecipanti e creare spazi al di fuori dei rapporti di potere ufficiali. C’è senz’altro del vero in questo, ma eventi come i «campeggi militanti» tendono a rimanere fenomeni effimeri 15

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e di piccola portata, oltre che del tutto incapaci di rappresentare alcuna autentica minaccia alle grandi strutture del sistema neoliberale. Politiche del genere sono più che altro un passatempo (potremmo dire «politica come esperienza psichedelica») e di certo non possono ambire a trasformare una società intera. Sono proteste che lasciano un segno soltanto nei ricordi di chi vi prende parte, eludendo qualsiasi ipotesi di cambiamento delle strutture sociali. E se questi tentativi di radicalizzazione e presa di coscienza hanno sicuramente una loro importanza, una questione rimane aperta: quando si vedranno i risultati di queste azioni? C’è forse una precisa massa critica che questa presa di coscienza deve raggiungere prima che possa finalmente riuscire a tradursi in azione? Le proteste possono costruire contatti, nutrire un senso di speranza e ricordare alla persone il potere di cui dispongono. Ma al di là dei sentimenti aleatori, la politica richiede comunque che questo potere venga esercitato, altrimenti la costruzione di legami emotivi non serve a nulla. Se non agiamo adesso, all’indomani di una delle più grandi crisi del capitalismo, quand’è che lo faremo, allora? L’enfasi posta sull’aspetto emotivo delle proteste è parte di una tendenza più ampia, che ha privilegiato la sfera affettiva come il vero luogo della politica. Elementi corporei, emozionali e viscerali hanno rimpiazzato e stigmatizzato (piuttosto che implementato e migliorato) le analisi astratte. Il panorama contemporaneo dei social media, per esempio, è inquinato dai reflussi acidi prodotti da un continuo torrente virtuale di indignazione e rabbia. Considerato l’individualismo delle attuali piattaforme social – la cui premessa è comunque il mantenimento di un’identità online – non sorprende che la «politica in rete» tenda verso un’autorappresentazione moralmente pura: ci preoccupiamo più di apparire irreprensibili che di ragionare sulle reali condizioni dei cambiamenti politici. Allo stesso tempo, le indignazioni quotidiane svaniscono con la stessa rapidità con la quale 16

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emergono, finché il giorno dopo si passa a un’altra crociata al veleno. Oppure capita che le esternazioni empatiche verso coloro che soffrono tolgano spazio ad analisi più dettagliate: il risultato – quando una conseguenza concreta c’è – sono azioni frettolose se non del tutto sbagliate. Benché la politica si leghi indissolubilmente alle emozioni e alle sensazioni (speranza e rabbia, paura e indignazione), questi impulsi, se trasformati in principale modalità di azione politica, possono portare a risultati perversi. Un esempio celebre resta il Live Aid del 1985, l’appuntamento di beneficenza per le popolazioni africane colpite da carestia che raccolse enormi quantità di denaro grazie a una combinazione di immagini strappalacrime ed eventi condotti da celebrità, orchestrati per una perfetta manipolazione dei sentimenti del pubblico. Il senso di emergenza impose un’azione urgente e a danno del pensiero razionale, e i soldi raccolti non fecero che prolungare la guerra civile responsabile di quelle stesse carestie, dato che il cibo inviato finì per sfamare soltanto le milizie.6 E così, mentre i telespettatori sedevano soddisfatti sul divano beandosi di aver fatto qualcosa, l’analisi imparziale rivela come, al contrario, non fecero che peggiorare la situazione. Imprevisti del genere sono sempre più comuni, anche perché gli obiettivi di questo tipo di azione politica si sono fatti sempre più grandi e astratti. Se la politica senza passione porta dritti a una fredda burocrazia tecnocratica, la passione scevra da analisi corre il rischio di diventare il mero surrogato libidinale di azioni più efficaci. Per dirla altrimenti, la politica diventa un semplice sentimento di legittimazione personale, che a sua volta maschera l’assenza di risultati reali. Più deprimente ancora è il fatto che, anche quando i movimenti riportano qualche successo, lo fanno sempre nel contesto di sconfitte più ampie e pesanti. Nel Regno Unito per esempio, i cittadini si sono mobilitati – solo in contesti locali, ma con successo – contro la chiusura di alcuni ospedali. Solo che questi successi, pur tangibili, sono stati eclissati 17

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dai piani di privatizzazione del National Health Service su scala nazionale. Allo stesso modo, i recenti movimenti antifracking sono riusciti a fermare diverse perforazioni in molte località, ma i governi proseguono comunque nella ricerca di gas naturali e facilitano il lavoro delle compagnie private che utilizzano questo metodo.7 Negli Stati Uniti, in seguito alla crisi immobiliare, vari movimenti nati con l’obiettivo di fermare gli sfratti sono riusciti a evitare che moltissime persone si ritrovassero costrette a lasciare le proprie case:8 eppure i colpevoli della bolla dei mutui subprime continuano ad arricchirsi, ondate di pignoramenti continuano ad abbattersi sulla nazione e gli affitti sono in costante aumento in tutti i centri urbani. I piccoli successi – per quanto certamente utili ad alimentare la speranza – svaniscono se paragonati all’enormità delle sconfitte. Persino i militanti più ottimisti rimangono scoraggiati dinanzi alla quantità di battaglie perse. In altri casi, progetti con buone intenzioni come il Rolling Jubilee in soccorso delle persone indebitate, faticano ad abbandonare l’orbita del senso comune neoliberale:9 l’idea (all’apparenza radicale) di ricorrere al crowdsourcing per raccogliere fondi allo scopo di pagare i debiti dei meno privilegiati implica comunque la partecipazione a un meccanismo di carità volontaria e redistribuzione dei beni che dà per scontata la legittimità dei debiti da ripagare; da questo punto di vista l’iniziativa appartiene a un più ampio spettro di progetti che giocano semplicemente il ruolo di unità di pronto soccorso nei confronti di servizi pubblici comatosi. Sono meccanismi di sopravvivenza, non la visione di un futuro auspicabile. E allora che conclusioni trarre? Il bilancio complessivo della più recente serie di lotte e battaglie è fallimentare; e lo è anche tenendo conto di una moltitudine di successi a livello locale, come di occasionali mobilitazioni su più larga scala. La domanda a cui chiunque sia interessato alle sorti della sinistra deve rispondere diventa quindi: dove abbiamo sbagliato? È indubbio che la sempre maggiore repressione da 18

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parte degli Stati e il potere crescente nelle mani delle corporation abbiano giocato un ruolo importante nell’indebolimento della sinistra. Ciononostante è discutibile che la repressione nei confronti dei lavoratori, la precarietà di massa e il potere dei capitalisti siano maggiori oggi di quanto non lo fossero nel XIX secolo: in quel periodo i lavoratori erano impegnati nella rivendicazione di diritti basilari e si scontravano spesso con apparati statali ben contenti di rivolgergli contro una violenza letale;10 ma vi furono lo stesso mobilitazioni di massa, organizzazioni militanti e radicali di lavoratori e donne che ottennero successi reali e dalle conseguenze importanti. Oggi di tutto questo non resta più nulla. La debolezza della sinistra contemporanea non può semplicemente essere attribuita a Stati più forti o alla repressione capitalista: una diagnosi onesta deve accettare che vi sono problemi anche all’interno della sinistra. E un problema fondamentale, è la diffusa e acritica accettazione di un pensiero basato su quella che chiamiamo folk politics. DEFINIRE LA FOLK POLITICS Cosa intendiamo per folk politics? Il termine indica un insieme di idee e intuizioni che all’interno della sinistra contemporanea guidano il senso comune da cui discendono organizzazione, azione e pensiero politico; è cioè un complesso di presupposti strategici che rischiano di indebolire la sinistra rendendola incapace di nutrire ambizioni di crescita, di generare cambiamenti duraturi e di espandere l’orizzonte dei propri interessi. Non solo i movimenti di sinistra condizionati dalla folk politics hanno raramente successo, ma sono del tutto incapaci di trasformare il capitalismo. L’espressione prende spunto da due accezioni del termine «folk». Innanzitutto, è un richiamo a quelle critiche nei confronti della cosiddetta «psicologia popolare» (folk psychology, appunto) che sottolineano come le nostre intuizioni riguardo al mondo siano costruzioni storiche spesso errate.11 19

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In seconda analisi, il riferimento è al «folk» come sinonimo di locale, autentico, tradizionale e naturale. Entrambe queste dimensioni sono implicite nell’idea di folk politics. A una prima approssimazione potremmo definire la folk politics come un senso comune collettivo e storicamente costruito, che oggigiorno è completamente disconnesso dai reali meccanismi del potere. Visti i mutamenti del nostro panorama politico, economico, sociale e tecnologico, quelle tattiche e strategie che una volta erano in grado di convertire il potere della collettività in risultati di emancipazione, sono oggi del tutto inefficaci. La folk politics entra in gioco a un livello intuitivo, inconscio e pre-critico, e lo fa sotto forma di senso comune della sinistra contemporanea, che è però un senso comune storicamente determinato, oltre che mutevole. Vale la pena di ricordare come le odierne tattiche e forme di organizzazione siano tutt’altro che naturali o innate; al contrario, sono state sviluppate nel tempo come reazioni a problemi politici specifici. Petizioni, occupazioni, scioperi, partiti di avanguardia, gruppi di interesse, sindacati: sono tutte realtà emerse nel contesto di particolari condizioni storiche,12 e il fatto che determinate forme di organizzazione e di azione siano state utili in passato non ne garantisce la rilevanza oggi. Molte delle tattiche e delle strutture organizzative che dominano la sinistra contemporanea sono reazioni all’esperienza del comunismo di Stato, a sindacati autoreferenziali e al collasso dei partiti socialdemocratici. Ma quelle idee che pure avevano senso nel contesto di precisi momenti storici, oggi non sono più strumenti efficaci di trasformazione politica. Il nostro mondo è cambiato: è diventato più complesso, più astratto, meno lineare, più globale. Per rispondere alle astrazioni e alla violenza del capitalismo, la folk politics punta a riportare la politica a una «scala umana» enfatizzando un’immediatezza che è contemporaneamente temporale, spaziale e concettuale. Fondamentalmente il ragionamento alla base della folk politics 20

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è che questa immediatezza sia sempre preferibile, oltre che più «autentica», con il sentimento corollario che astrazione e mediazione siano immancabilmente sospette. In termini di immediatezza temporale, la folk politics è generalmente reattiva (nel senso che piuttosto che agire di propria iniziativa, tende a rispondere alle azioni compiute da corporation e governi);13 ignora gli obiettivi strategici a lungo termine in favore di tattiche di corto respiro (mobilitandosi per singole rivendicazioni o enfatizzando il processo stesso della mobilitazione);14 favorisce spesso pratiche intrinsecamente a breve termine (come occupazioni o zone autonome temporanee);15 preferisce la familiarità del passato alle incognite del futuro (vedi per esempio le ricorrenti fantasie di un ritorno al «buon» capitalismo di stampo keynesiano);16 infine esprime una predilezione per tutto ciò che è volontaristico e spontaneo, in contrapposizione a tutto quanto sembri istituzionale (vedi la romanticizzazione delle rivolte e delle insurrezioni).17 In termini di immediatezza spaziale, la folk politics predilige come spazio di autenticità il «locale» (come nel caso dell’alimentazione a chilometro zero, o delle valute locali);18 al grande preferisce il piccolo (celebrando la comunità su piccola scala e l’impresa autoctona);19 favorisce progetti comunitari non riproducibili su scala più ampia (per esempio, assemblee generali e forme di democrazia diretta);20 e tende a rigettare qualsiasi progetto egemonico, valorizzando la fuga e il ritiro interiore a scapito della costruzione di una controegemonia di ampio respiro.21 Allo stesso modo, la folk politics preferisce che l’azione sia prerogativa dei partecipanti stessi – si prenda appunto l’insistenza sull’azione diretta – e intende i processi decisionali come individuali, piuttosto che da compiersi per mezzo di rappresentanti. Nello schema di pensiero della folk politics i problemi di scala e di estensione vengono o ignorati o minimizzati. Infine, in termini di immediatezza concettuale, quella che si nota è una marcata preferenza per il quotidiano 21

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rispetto allo strutturale (valorizzando così l’esperienza personale rispetto al pensiero sistematico), per il sentire contro il pensare (enfatizzando la sofferenza individuale, o le sensazioni di entusiasmo e rabbia provate durante l’azione politica), per il particolare contro l’universale (considerando quest’ultimo come intrinsecamente totalitario), e per l’etico contro il politico (come nell’esempio del cosiddetto consumo consapevole, o delle critiche moraleggianti all’avidità dei banchieri).22 Secondo questo pensiero, le organizzazioni e le comunità devono essere trasparenti e rinunciare in partenza a qualsiasi forma di mediazione concettuale, o persino al più modesto grado di complessità. Le classiche visioni di emancipazione universale e di cambiamento su scala globale sono state abbandonate in favore della sacralizzazione della sofferenza e del particolare a scapito dell’universale. Il risultato è che qualsiasi processo di costruzione di un universale politico viene escluso a priori. Se interpretata in questo modo, possiamo trovare tracce di folk politics in organizzazioni e movimenti come Occupy, nel movimento spagnolo 15M, nelle occupazioni studentesche, nei gruppi insurrezionalisti comunisti come Tiqqun e il Comité invisible, nella maggior parte delle forme orizzontaliste, negli zapatisti, in certo anarchismo contemporaneo, senza dire di tendenze quali le politiche dal basso sull’esempio del movimento Slow Food, del consumo critico e così via. Detto questo, nessuno dei precedenti esempi racchiude alla perfezione tutti gli elementi della folk politics, e questo ci obbliga a una prima precisazione: in quanto senso comune acritico e spesso inconscio, quando c’è da prendere posizioni politiche concrete la folk politics si compie attraverso sfumature differenti. Insomma, folk politics non è il nome di una posizione esplicita, quanto di una tendenza implicita. Le idee alla base di tale tendenza sono ampiamente diffuse nell’intero panorama della sinistra contemporanea, ma alcune posizioni risultano più condizionate dalla folk politics rispetto ad 22

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altre. Questo ci porta a una seconda precisazione importante: il problema della folk politics non è tanto che parta da una dimensione locale, anche perché tutta la politica inizia dal locale; piuttosto, il problema è che il pensiero della folk politics si accontenta di rimanere a un livello preciso, al punto da privilegiarlo: e questo è il livello del temporaneo, dell’au-toctono, dell’immediato, del particolare. Per la folk politics questi diventano stadi sufficienti, e non semplicemente necessari. Di conseguenza il punto non è semplicemente quello di rigettare la folk politics, dato che comunque resta una componente necessaria per qualsiasi azione politica; semmai, è urgente ribadire che la folk politics altro non è che un punto di partenza. Una terza precisazione è che la folk politics rappresenta un problema solo per un particolare tipo di azione politica: quella che come obiettivo si pone il superamento del capitalismo. In effetti, il pensiero alla base della folk politics può senz’altro prestarsi a progetti politici di altro segno: iniziative di resistenza, movimenti organizzati attorno a problemi locali, progetti su piccola scala… Movimenti mirati a ostacolare la chiusura di un ospedale o lo sfratto di inquilini, per esempio, sono iniziative ammirevoli; ma sono anche profondamente differenti da movimenti il cui obiettivo è l’opposizione al capitalismo neoliberale. L’idea che una singola organizzazione, una singola tattica o una singola strategia possano applicarsi con lo stesso successo a ogni tipo di lotta politica, è la convinzione più diffusa e dannosa della sinistra contemporanea. La riflessione strategica sui mezzi, i fini, i nemici e gli alleati è una fase necessaria da attuare prima di mettere in pratica qualunque progetto politicamente concepito. E considerata la natura del capitalismo globale, qualsiasi progetto postcapitalista dovrà necessariamente avere un approccio ambizioso, astratto, mediato, complesso e globale: vale a dire, un tipo di approccio del tutto estraneo alla folk politics. 23

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Tenendo assieme le tre precisazioni di cui sopra, possiamo dunque dire che la folk politics è un elemento necessario ma non sufficiente per qualsiasi progetto politico postcapitalista. Insistendo sul rimanere al livello dell’immediato, la folk politcs non possiede gli strumenti per trasformare il neoliberismo in altro da sé; benché sia certamente in grado di intervenire in maniera efficace nel contesto di battaglie locali, sarebbe ingenuo credere che queste piccole vittorie possano contribuire al superamento del capitalismo globale: al massimo possono rappresentare delle brevi pause nel suo ineluttabile cammino. Il progetto di questo libro è quello di delineare un’alternativa, un modo per la sinistra di navigare dal locale verso il globale, di sintetizzare il particolare con l’universale. Questa alternativa non può soltanto essere un ritorno conservatore alle politiche della classe operaia del secolo scorso. Deve piuttosto combinare un modo aggiornato di pensare la politica (muovendo dall’immediato all’analisi strutturale) con un modo migliore di fare politica (indirizzando l’azione verso la costruzione di piattaforme e l’allargamento di scala). SOPRAFFATTI In che modo si è affermata la folk politics? Com’è possibile che i suoi princìpi, nonostante le palesi carenze, siano diventati così seducenti e invitanti per i movimenti di oggi? Ci sono almeno tre spiegazioni possibili. La prima vede nella folk politics una risposta al problema di come interpretare un mondo sempre più complesso, e da lì riuscire a intervenire su di esso. Una seconda spiegazione, legata alla prima, individua nella folk politics una reazione alle esperienze storiche del comunismo e della sinistra socialdemocratica. Infine, la folk politics rappresenta anche una risposta immediata allo spettacolo patetico offerto dai partiti politici attuali. Il mondo multipolare delle politiche globali, l’instabilità economica e il cambiamento climatico causato dall’uomo tendono a progredire sempre più velocemente, rendendo 24

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impossibile il tentativo di ricomporre questi cambiamenti in una narrazione strutturata che ci permetta di dare un senso alle nostre vite. Ciascuno di questi fenomeni rappresenta un esempio di sistema complesso, dove a entrare in gioco sono dinamiche non lineari: input di poco diversi possono causare output estremamente variabili, e feedback inaspettati possono derivare da una gran quantità di cause che ricadono su loro stesse. Sistemi complessi di questo tipo operano per di più su scale temporali e spaziali che vanno ben al di là delle nude capacità percettive di un singolo individuo.23 Economia, politica internazionale, cambiamenti climatici: ciascuno di questi sistemi condiziona il nostro mondo, ma i loro effetti sono così estesi e complessi che un’esatta collocazione della nostra esperienza nel loro contesto risulta impossibile. L’economia è un buon esempio. In termini elementari, essendo distribuita nel tempo e nello spazio, l’economia non può essere oggetto di percezione diretta: nessuno incontrerà mai l’Economia in persona. Non bastasse, questa include a sua volta un’enorme quantità di elementi differenti: leggi sulla proprietà, necessità biologiche, risorse naturali, infrastrutture tecnologiche, banchi del mercato, supercomputer… E poi coinvolge un enorme numero di feedback ad anello che interagiscono tra loro producendo effetti che non sono riducibili alle loro componenti individuali.24 In altre parole, l’interazione delle varie parti che compongono l’economia porta a risultati che non possono essere compresi tramite la mera conoscenza delle singole parti: possiamo capire il funzionamento dell’economia soltanto a condizione di avere cognizione delle relazioni che tra queste parti sussistono. Per quanto sia possibile farci un’idea di come funzioni (e in cosa consistita) un’economia, non saremo mai in grado di averne un’esperienza immediata allo stesso modo in cui riusciamo a percepire altri fenomeni. L’economia può essere osservata in maniera asintotica, magari attraverso alcuni importanti indici statistici (diagrammi delle variazioni dell’inflazione, tassi 25

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di interesse, PIL e così via), ma non potrà mai essere vista, sentita o toccata nella sua interezza. Di conseguenza, nonostante la quantità di scritti sul capitalismo, continuiamo a far fatica a comprenderne le dinamiche e i meccanismi. Ancora più importante è il fatto che non disponiamo di una «mappa cognitiva» del nostro sistema socioeconomico, vale a dire un’immagine mentale di come l’azione umana, individuale e collettiva possa situarsi all’interno dell’inimmaginabile vastità dell’economia globale.25 Negli ultimi decenni abbiamo osservato la sempre maggiore complessità delle dinamiche capaci di esercitare un’influenza sulla politica: l’incombente minaccia del cambiamento climatico antropogenico andrebbe per esempio interpretata come un nuovo tipo di problema non risolvibile tramite una soluzione semplice, coinvolgendo una serie di effetti così strettamente collegati che risulta persino difficile capire dove intervenire. Allo stesso modo, oggi l’economia globale è di gran lunga più complessa di quanto lo fosse qualche decennio fa: lo è in termini di mobilità di capitali, della natura intricata della finanza globale, della molteplicità di attori coinvolti nel processo. Come possono le nostre tradizionali cartografie politiche adattarsi a simili cambiamenti? Per la sinistra, se non altro tra Ottocento e primi Novecento, esisteva un’analisi basata sulla classe operaia industriale che offriva una chiave interpretativa potente, in grado di comprendere la totalità delle relazioni sociali ed economiche, e quindi capace di prefiggere dei chiari obiettivi strategici. Eppure la storia della sinistra nel corso del XX secolo ha dimostrato come questa analisi abbia fallito sia nel sostenere le varie possibili lotte di liberazione (di genere, di razza, di orientamento sessuale), sia nel comprendere la capacità del capitalismo di ristrutturarsi o attraverso la creazione del welfare state, o tramite le trasformazioni dell’economia globale in senso neoliberale. I modelli di ieri falliscono quando applicati a problemi nuovi. Abbiamo perso la capacità di compren26

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dere la nostra posizione all’interno della storia e del mondo. Questa separazione tra l’esperienza di tutti i giorni e il sistema in cui viviamo produce una nuova forma di alienazione: siamo alla deriva in un mondo che non capiamo. Secondo il critico e teorico Fredric Jameson, la proliferazione di complottismi e teorie della cospirazione andrebbe in parte considerata come una risposta a questa situazione:26 si tratta di teorie che ipotizzano un piccolo numero di attori in grado di manovrare il mondo intero (il Gruppo Bilderberg, la massoneria o qualche altro capro espiatorio di convenienza), ma nonostante l’estrema complessità di alcune di queste teorie il loro scopo resta quello di fornire una risposta semplice e rassicurante a domande come «chi c’è dietro?» e «qual è il nostro ruolo in questa situazione?». In altri termini, hanno precisamente la funzione di offrire una (fallace) mappa cognitiva. La folk politics si presenta come un’altra possibile reazione al problema di tale travolgente complessità. Dal momento che non riusciamo a capire come funziona il mondo, la soluzione diventa quella di ridurre la complessità a una scala più umana: non a caso i testi della folk politics sono densi di richiami all’autenticità e all’immediatezza, a un mondo «di tutti i giorni» che sia «trasparente», «a misura d’uomo», «concreto», «lento», «armonioso» e «semplice».27 Questo tipo di pensiero rigetta la complessità del mondo contemporaneo, e dunque rifiuta la possibilità di un mondo sinceramente postcapitalista. Il tentativo è quello di dare un volto al potere, ignorando la terrificante natura oggettiva del sistema; i fatti diventano intercambiabili, il potere rimane lo stesso: semmai il tentativo delle tendenze localistiche, delle parentesi resistenziali, delle forme intuitive di azione diretta, è quello di condensare i problemi del capitalismo globale in figure e situazioni concrete. Nel corso di questo processo, la folk politics tende a ridurre la politica a una battaglia di stampo etico e individuale. A volte si è portati a immaginare che ci sia semplicemente 27

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bisogno di «capitalisti buoni» o di un «capitalismo responsabile». Allo stesso modo, l’imperativo dell’azione «dal basso» porta la folk politics alla feticizzazione del risultato istantaneo e del gesto all’apparenza «concreto». Ritardare i danni ambientali provocati da una grande corporation è per esempio considerato un successo, anche quando la corporation in questione si limita semplicemente ad aspettare che l’attenzione si sposti altrove per poi proseguire indisturbata con le sue attività. Inoltre, come a suo tempo osservò Rosa Luxemburg, la feticizzazione dei «risultati immediati» conduce a un pragmatismo sterile che si sforza continuamente di mantenere i presenti equilibri di potere, anziché tentare di alterarne le condizioni strutturali.28 Senza la necessaria astrazione di un pensiero strategico, le tattiche diventano essenzialmente gesti senza conseguenze. Infine, il rifiuto di qualsiasi complessità si mescola alle giustificazioni del mercato neoliberale: una delle argomentazioni principali contro qualsiasi tipo di pianificazione strategica è stata proprio quella che l’economia è diventata troppo complessa per poter essere governata.29 L’alternativa diventa quindi quella di lasciare la distribuzione delle risorse al mercato e rinunciare a qualsiasi tentativo di guidarla razionalmente.30 Considerato quanto detto finora, la folk politics appare come un tentativo di ridurre il capitalismo globale a una dimensione abbastanza piccola da diventare comprensibile, per poi articolare un piano d’azione basato proprio su tale immagine limitata. Di contro, la tesi di questo libro è che le tendenze implicite nella folk politics siano sbagliate; se l’attuale complessità va al di là delle umane capacità di pensiero e controllo, le opzioni sono due: la prima è, appunto, quella di ridurre tale complessità a una scala umana; l’altra è quella di espandere proprio le capacità umane. Noi siamo dalla parte della seconda opzione. Pensiamo cioè che qualsiasi progetto postcapitalista che nutra l’ambizione di sistematizzare fenomeni complessi per il migliora28

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mento della condizione umana implichi obbligatoriamente la creazione di nuove mappe cognitive, di nuove narrazioni politiche, di nuove interfacce tecnologiche, di nuovi modelli economici, e di nuovi meccanismi di controllo collettivo. OBSOLETI Anche se l’ascesa della folk politics può essere spiegata dalle reazioni a una complessità sempre maggiore, è comunque impossibile non collocare il fenomeno all’interno della particolare storia politica che la sinistra ha conosciuto nel corso del XX secolo. Da un certo punto di vista, le tendenze della folk politics sono reazioni comprensibili (anche se inadeguate) a problemi che negli ultimi cinquant’anni hanno riguardato sia le dinamiche interne della sinistra stessa, sia la battaglia contro le forze del capitalismo e della conservazione.31 In particolare, la folk politics si è fatta strada come reazione al collasso dei sistemi socialdemocratici che tenevano assieme le istituzioni della classe operaia, i partiti della sinistra, e la pervasiva egemonia liberale.32 La dissoluzione del blocco socialdemocratico si è concretizzata lungo diverse linee di frattura, nonché in diverse sfere: la nascita di nuove forme di lavoro affettivo oltre che cognitivo; l’emergere di una crisi energetica che ha destabilizzato le certezze della geopolitica; le sempre maggiori difficoltà che l’economia capitalista sta incontrando nell’ottenere profitti; la proliferazione dell’ideologia neoliberale tramite network istituzionali e think tank universitari; l’esplosione di nuove forme di soggettività politica; il generale discredito in cui sono caduti i paesi (nominalmente) comunisti. Tanto in Europa quanto in America, ognuno di questi fattori ha contribuito a demolire le fondamenta del sistema sociale nato nel dopoguerra; nel corso di questo processo, abbiamo assistito sia al superamento dei vecchi paradigmi della sinistra, sia alla neutralizzazione in partenza di proposte alternative. Il più significativo momento di destabilizzazione dell’assestamento postbellico si colloca probabilmente tra 29

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la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. Le rivolte che scoppiarono in tutto il mondo nel 1968 ispirarono e portarono alla ribalta una nuova serie di movimenti di sinistra che rigettavano i metodi di lotta tradizionalmente portati avanti da partiti e sindacati. A motivare questi movimenti fu in parte la consapevolezza storica della repressione staliniana: in seguito alla repressione che, nell’Europa dell’Est, le correnti democratiche avevano subito da parte dell’Unione Sovietica, i partiti comunisti persero credibilità agli occhi di tanti giovani militanti della sinistra europea. Questo mise in discussione la validità strategica del programma leninista che prevedeva la conquista dello Stato da parte di un partito rivoluzionario basato sulla classe proletaria industriale:33 se persino le rivoluzioni che avevano avuto successo erano finite per produrre sul lungo termine tecnocrazie sclerotizzate e repressione, quale doveva essere la vera strategia d’azione per una emancipazione genuina? Il risultato fu che le gerarchie e il ruolo di avanguardia dei partiti comunisti iniziarono a essere considerate forze contrarie agli obiettivi dei nuovi movimenti sociali. Al di là delle palesi difficoltà di un’autentica transizione al postcapitalismo sotto un’amministrazione comunista, negli anni Sessanta e Settanta la prospettiva di una conquista del potere nelle nazioni sviluppate appariva remota, specie se si considerano le divisioni interne che iniziarono a segnare la sinistra. Il maggio francese, durante il quale il partito comunista perse clamorosamente l’occasione di sostenere i movimenti studenteschi e sindacali, sembrò mettere fine a qualsiasi ipotesi rivoluzionaria. In più, la socialdemocrazia – con le sue soluzioni di stampo keynesiano-corporativo al problema della disuguaglianza sociale – apparve sempre più accontentarsi dell’ordine vigente, e quindi incapace di procedere in direzione di un socialismo realmente emancipatore: benché la socialdemocrazia fosse in grado di offrire vantaggi significativi a determinati gruppi sociali, la sua 30

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classe dirigente restava autoritaria e paternalista, generalmente chiusa nei confronti di donne e minoranze etniche e dipendente da un modello di organizzazione capitalista (il fordismo) che generò un insolito livello di coesione sociale. Fu proprio questa coesione sociale a essere erosa tra gli anni Sessanta e Settanta sotto la spinta di nuovi desideri di massa (una maggiore flessibilità sul lavoro, per esempio) e di nuove e insistenti richieste come l’uguaglianza razziale e di genere, il disarmo nucleare, la libertà sessuale e la fine dell’imperialismo occidentale. Verso la fine degli anni Sessanta questi nuovi problemi non poterono più essere risolti dai vecchi gruppi organizzati della sinistra, e la pressione elettorale iniziò a trasformare i partiti socialdemocratici da formazioni la cui base principale era la classe operaia in coalizioni basate sul ceto medio.34 Quel poco che restava di radicale nei partiti socialdemocratici venne lentamente abbandonato. Il continuo declino della forma-partito può quindi essere ricondotto sia alla disastrosa eredità di governo nei paesi cosiddetti comunisti, sia alla disillusione nei confronti dello stesso modello socialdemocratico. Allo stesso tempo, la cosiddetta nuova sinistra avanzò una serie di critiche ben fondate e in buona parte derivate dall’esperienza delle donne (la cui voce continuava a essere ignorata anche all’interno delle formazioni cosiddette radicali): organizzazioni gerarchiche come partiti e sindacati tradizionali continuavano a interiorizzare le stesse relazioni patriarcali e sessiste già prevalenti nella società. Da allora, nel tentativo di produrre forme organizzative nuove e in grado di emanciparsi da questi aspetti repressivi, sono stati portati avanti diversi esperimenti, compresi quei sistemi di decisione consensuale e dibattito orizzontale che, decenni dopo, diventeranno celebri con Occupy Wall Street.35 Gruppi femministi a parte, la nuova sinistra prevalente tra gli studenti e nelle università era assai variegata, anche se tendenzialmente si configurava come esplicitamente antiautoritaria, antiburocratica, e spesso allergica a 31

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qualsiasi forma di organizzazione:36 molte delle tattiche proposte da questi gruppi enfatizzavano i vantaggi dell’azione diretta, traendo ispirazione dai movimenti per i diritti civili degli afroamericani, da precedenti movimenti studenteschi, dalle idee del situazionismo europeo, da correnti politiche anarchiche e dal neonato movimento ambientalista.37 È qui che possiamo individuare l’emergere di quell’orientamento strategico alla base della folk politcs, come anche delle modalità di azione che la caratterizzano: occupazioni, sit-in, comuni, squat, ma anche parate di strada dal sapore provocatorio e «happening» vari. Ciascuna delle tattiche emerse in questo periodo era intesa come un mezzo per ostacolare la funzione quotidiana del potere, sospendere le «normali» norme sociali e promuovere spazi per una discussione ugualitaria. Oltre al tentativo di cambiare la società, interventi del genere si ponevano l’obiettivo di trasformare chi vi prendeva parte, e di incarnare nuove e future forme di organizzazione sociale. I movimenti che hanno preso forma in questo periodo erano insomma eterogenei sia in termini di composizione che di ambizione: coinvolgevano diverse forme di soggettività, provenivano da contesti territoriali differenti e proponevano tattiche e strategie divergenti. Eppure ciascuno di essi, a suo modo, ha articolato desideri nuovi che non potevano essere facilmente interpretati dalle vecchie politiche della sinistra. Sono movimenti che potrebbero essere considerati come parte di una generica politica «anti-sistema» tipica del periodo,38 quando in tutto il mondo si assistette alla tendenza a sfidare e smantellare il potere burocratico-gerarchico in favore di nuovi tipi di azione diretta: dai movimenti studenteschi a quelli femministi, dal «potere nero» negli Stati Uniti al movimento situazionista, dai movimenti sindacali europei alle proteste antistaliniste di Praga, passando per le rivolte studentesche in Messico e a Tokyo, fino alla Rivoluzione Culturale in Cina.39 Ma nelle sue forme più estreme questa politica anti-sistema ha portato a considerare qualsiasi forma 32

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di potere politico come intrinsecamente inquinato da tendenze oppressive, patriarcali e di dominio.40 E questo ha condotto a un paradosso: da una parte si creano le possibilità di forme di negoziazione e compromesso con le strutture del potere esistenti, le quali verrebbero gradualmente cooptate o erose dalla nuova sinistra; dall’altra, è una politica che tende a rimanere marginale e dunque incapace di trasformare quelle parti della società che non siano già convinte del suo progetto.41 Le critiche che tanti movimenti anti-sistema hanno mosso all’ortodossia degli Stati, al capitalismo e al potere burocratico della vecchia sinistra sono in buona misura corrette. Eppure le politiche anti-sistema hanno prodotto pochi strumenti per la costruzione di un nuovo movimento davvero capace di opporsi all’egemonia capitalista. L’eredità di questi movimenti è di conseguenza duplice. Le idee, i valori, i nuovi desideri cui hanno dato voce, hanno avuto un significativo impatto a livello globale: la diffusione delle istanze femministe e antirazziste, i diritti degli omosessuali, la lotta contro la burocrazia, restano tutti successi importanti. Da questo punto di vista, si è trattato di un momento di critica interna assolutamente necessario per la sinistra, ed è in queste condizioni storiche che possiamo individuare il principale patrimonio della folk politics. Allo stesso tempo però, l’incapacità – o la mancanza di volontà – di trasformare gli aspetti più radicali di questi movimenti in progetti realmente egemonici, ha avuto conseguenze importanti nel periodo di destabilizzazione che ne è seguito.42 Per quanto capaci di generare ipotesi di liberazione potenti e inedite, questi movimenti sono stati perlopiù incapaci di rimpiazzare il fallimentare ordine socialdemocratico. TAGLIATI FUORI Nello stesso momento in cui emergevano nuovi movimenti di lotta, le basi economiche del consenso socialdemocratico cominciavano a cedere. Gli anni Settanta furono gli anni della 33

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crisi energetica, della fine degli accordi di Bretton Woods, dell’incremento su scala globale dei flussi di capitale, di una persistente stagflazione e di rendimenti decrescenti.43 Tutto ciò mise effettivamente fine all’assestamento politico su cui si era costruito il dopoguerra, vale a dire quel peculiare insieme di politiche economiche keynesiane, produzione industriale fordista-corporativista, e consensus socialdemocratico in grado di garantire ai lavoratori il ritorno di parte del surplus sociale. In tutto il mondo questa crisi strutturale si tradusse in un’opportunità per le forze sia di destra che di sinistra: quella di generare una nuova egemonia capace di affrontare e risolvere tale crisi. Per la destra la sfida divenne ristabilire il profitto e l’accumulazione dei capitali. Una risposta venne effettivamente dall’affermazione in tutto il mondo del pensiero neoliberale, ma ancora prima, tra Regno Unito e Stati Uniti, le forze di destra avevano già iniziato a sperimentare nuovi metodi per neutralizzare sia la vecchia che la nuova sinistra. Un tentativo particolarmente importante fu quella strategia politico-economica che puntava a collegare la crisi del capitalismo al potere dei sindacati; la conseguente sconfitta del sindacalismo organizzato in tutte le principali nazioni capitaliste rappresenta probabilmente il più grande successo di un neoliberismo dimostratosi capace di spostare la bilancia del potere tra lavoro e Capitale, e i mezzi utilizzati in questa battaglia furono diversi: scontri fisici quando non armati,44 legislazioni concepite per indebolire i meccanismi di solidarietà nelle fabbriche, adozione di metodi di produzione e distribuzione capaci di compromettere il potere dei sindacati (per esempio la disarticolazione delle filiere), riorientamento del consenso pubblico attorno a un’agenda neoliberale nel nome delle libertà individuali e della «solidarietà negativa»… Quest’ultima è il segno di qualcosa di più che la semplice indifferenza verso le proteste dei lavoratori: rappresenta infatti l’affacciarsi di un rabbioso sentimento 34

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di ingiustizia vincolato all’idea che se io sono costretto a sopportare condizioni lavorative sempre più estenuanti (salari bloccati, fine dei sussidi, tagli alle pensioni), significa che anche tutti gli altri devono farlo. Il risultato di tutti questi cambiamenti è stato lo svuotamento del potere dei sindacati e la sconfitta della classe operaia nel mondo sviluppato.45 Mentre la destra affrontava con successo la crisi strutturale consolidando il proprio potere politico ed economico, i movimenti della vecchia e della nuova sinistra si dimostrarono incapaci di confrontarsi con le forze in campo allora emergenti. Negli anni Settanta, i partiti socialisti e comunisti riuscirono a conquistare sempre più voti in Europa occidentale, ma i tentativi di rispondere da sinistra alla crisi si limitarono alla rivendicazione della classica pianificazione corporativista.46 Sotto le nuove condizioni economiche, le vecchie politiche keynesiane si rivelarono però incapaci di promuovere la crescita, di contenere la disoccupazione o di ridurre l’inflazione: il risultato fu che i partiti di sinistra che riuscirono ad arrivare al potere negli anni Settanta, come il Labour Party nel Regno Unito, finirono spesso per attuare politiche proto-neoliberali nel disperato tentativo di dare fiato alla ripresa economica.47 Il tradizionale movimento dei lavoratori, decrepito e stagnante, venne cooptato dalle forze della destra. In questo contesto, la nuova sinistra rappresentò senza dubbio una critica fondamentale per la rivitalizzazione della sinistra tutta; eppure, come abbiamo visto, se le vecchie strutture dei lavoratori erano perlopiù prive di idee, la nuova sinistra fu a sua volta incapace di istituzionalizzarsi e articolare una controegemonia. Il risultato fu una sinistra sempre più periferica e marginalizzata. Quando il neoliberismo riuscì infine a imporsi sul senso comune, le formazioni socialdemocratiche superstiti finirono lentamente per accettarne le condizioni. Con i maggiori partiti politici essenzialmente in accordo con il programma politico ed economico neoliberale, e con un sempre maggior 35

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numero di servizi pubblici privatizzati, la possibilità di ottenere dei cambiamenti significativi per via elettorale fu drasticamente ridotta. Un profondo cinismo prese a insinuarsi nell’azione di partiti ormai privi di significato e sempre più simili a imprese di relazioni pubbliche, con i politici ridotti al ruolo di mercanti che cercano di vendere prodotti poco attraenti.48 Con il declino della partecipazione elettorale e la graduale rassegnazione alle coordinate neoliberali, l’era post-politica fu finalmente compiuta. La bassa affluenza al voto, oggi ai minimi storici, causata dalla disillusione degli elettori è il risultato di questa evoluzione storica. È chiaro come, date le circostanze, possa apparire invitante l’insistenza della folk politics sul risultato immediato e sulla democrazia partecipativa in piccolo. La posizione dei più recenti movimenti sociali è stata però più ambigua. Con l’arrivo degli anni Novanta, il posizionamento della classe operaia come soggetto politico privilegiato è del tutto crollato, mentre a guadagnare peso è stato un più ampio spettro di identità sociali, desideri e critiche a vari tipi di oppressione.49 Tentativi sempre più sofisticati sono stati compiuti per sviluppare un’analisi di come interagiscono le strutture di potere, dando consistenza all’idea di forme intersezionali di oppressione.50 Grazie alla loro diffusione in ambito culturale – e al sostegno della politica mainstream – parti significative dei programmi nati dai movimenti femministi, antirazzisti e queer sono state socialmente accettate e adottate attraverso legislazioni specifiche. Eppure, nonostante i successi, a essere evaporate sono le rivendicazioni che negli anni Settanta si prefiggevano una ben più radicale trasformazione di tutta la società. Le femministe per esempio sono riuscite a ottenere importanti conquiste in termini di parità di salario, diritto all’aborto e servizi per l’infanzia: ma è comunque ben poca cosa in confronto al progetto della totale abolizione dell’identità di genere.51 Allo stesso modo, se pensiamo al movimento di liberazione dei neri, le misure 36

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sul diritto al lavoro e le leggi contro la discriminazione non sono state accompagnate da quei progetti, assai più radicali, portati avanti in precedenza.52 La maggior parte dei risultati attualmente raggiunti dai nuovi movimenti sono limitati dalla cornice egemonica imposta dal neoliberismo, tutta articolata attorno alla priorità dei mercati, a una legislazione di stampo liberale e alla retorica della scelta individuale. A essere marginalizzati sono proprio gli elementi più radicali e anticapitalisti che pure erano parte integrante di questi progetti. Se insomma ci guardiamo indietro, vediamo il crollo delle tradizionali organizzazioni della sinistra e la contemporanea ascesa di una nuova sinistra basata sulla critica alla burocrazia, alla verticalità, all’esclusione e all’istituzionalizzazione, e assieme a questo l’inclusione nel classico apparato neoliberale di alcuni dei nuovi desideri nel frattempo emersi. È proprio in tale contesto che le intuizioni della folk politics hanno avuto modo di sedimentarsi, fino a caratterizzarsi come il nuovo senso comune espresso dai movimenti antiglobalizzazione.53 A loro volta, questi movimenti sono emersi in due fasi: la prima, tra la metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila, si è incarnata in esperienze come gli zapatisti, gli anticapitalisti no global, i World Social Forum e le proteste contro la guerra. Una seconda fase ha avuto inizio subito dopo la crisi finanziaria del 2007-2009, includendo diversi gruppi accomunati da forme organizzative e posizioni ideologiche simili: tra questi, il movimento Occupy, il 15M in Spagna e i vari movimenti studenteschi locali. Entrambe queste fasi hanno tentato di opporsi al neoliberismo e ai suoi portabandiera sia nazionali che industriali: la prima prendendo di mira il mercato globale e le istituzioni di governo, la seconda concentrandosi sull’alta finanza, la disuguaglianza e la lotta al debito.54 Prendendo ispirazione dai movimenti che li avevano preceduti, i gruppi protagonisti della più recente serie di lotte hanno quindi privilegiato il locale e lo spontaneo, l’orizzon37

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tale e l’antistatale. L’apparente plausibilità della folk politics deriva dal crollo dei metodi tradizionali di organizzazione della sinistra, dalla cooptazione dei partiti socialdemocratici all’interno di un ineluttabile paradigma neoliberale, e dal diffuso senso di impotenza prodotto dall’anemica politica dei partiti contemporanei. In un mondo in cui i problemi che siamo chiamati ad affrontare sembrano essere complessi al di là di ogni umana comprensione, la folk politics propone una maniera attraente per prefigurare un futuro di uguaglianza già nel presente. Ma, ciononostante, è una politica che da sola non è in grado di produrre forze capaci di durare nel tempo, né tantomeno di rimpiazzare il capitalismo anziché semplicemente lanciargli un guanto di sfida. GUARDARE AVANTI La critica alla folk politics che muoviamo in questo libro è tanto un avvertimento quanto una diagnosi.55 È verso i precetti della folk politics che si stanno muovendo le forze della sinistra radicale classica, e noi vogliamo invertire questa tendenza. L’obiettivo della prima metà di questo libro è dunque quello di rompere con una serie di dogmi riguardo a come ipotizzare strategie e fare politica oggi. Il capitolo 2 inizia proprio con uno sguardo critico sulla politica esistente, e tenta di rimando una diagnosi e una descrizione dei limiti del pensiero «folk» contemporaneo. Il capitolo 3 dimostra invece come, nonostante la sinistra abbia ormai abbandonato i progetti di egemonia ed espansione, il neoliberismo sia stato capace di intraprendere con successo la strada opposta. La seconda metà del libro suggerisce un progetto di sinistra – alternativo alla folk politics – organizzato attorno a un’idea di emancipazione globale e universale. Il capitolo 4 difende la tesi che una sinistra orientata al futuro debba impossessarsi del tema della modernità, con tutta l’enfasi necessaria in termini di progresso ed emancipazione universale. Il capitolo 5 propone un’analisi delle tendenze del capitalismo 38

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contemporaneo, sottolineando la crisi del lavoro e della riproduzione sociale: queste tendenze devono essere spiegate, e la nostra tesi è che la sinistra debba iniziare a mettere in campo un progetto politico capace di convogliare queste forze verso un obiettivo progressista. Il capitolo 6 cerca di immaginare un futuro post-lavoro in controtendenza all’attenzione che oggi viene data al debito e alla disuguaglianza. I capitoli 7 e 8 esaminano alcuni passi che dovranno essere compiuti per realizzare una simile visione, tra cui la costruzione di un movimento controegemonico che risollevi le capacità della sinistra. Infine, la conclusione fa un passo indietro ed esamina il progetto della modernità dal punto di vista di una sinistra che guardi al futuro e che si ponga come obiettivo l’emancipazione universale. Questo libro è guidato da una convinzione chiave: una sinistra che voglia dirsi moderna non può proseguire con i metodi attuali, né può tornare a un passato fin troppo idealizzato; deve piuttosto affrontare un compito su tutti: la costruzione di un futuro nuovo.

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Capitolo 2 PERCHÉ NON STIAMO VINCENDO? UNA CRITICA DELLA SINISTRA DI OGGI A Goldman Sachs non frega niente se allevi i polli. Jodi Dean

Una sfida fondamentale per la sinistra contemporanea è quella di riflettere sulle sconfitte subite nelle battaglie più recenti e sulla delusione che queste hanno causato. Dai movimenti contro la globalizzazione fino a Occupy, negli ultimi anni abbiamo assistito a un’intensificazione della folk politics e delle sue pratiche: e allora come mai, nonostante la mobilitazione di un gran numero di persone e il risveglio di tante passioni, questi movimenti non sono riusciti a ottenere alcun significativo cambiamento dello status quo? Qualcuno ha osservato che l’inefficacia degli attuali movimenti di sinistra risieda nella loro composizione di classe, che si suppone manchi di una vera componente proletaria e che è stata infiltrata da interessi di tipo riformista e liberale.1 Altri hanno suggerito che il problema sia la natura stessa di un sistema che pone limiti a qualsiasi progetto di trasformazione sociale. Ma, come abbiamo visto nel capitolo precedente, si tratta soltanto di spiegazioni parziali: qui sosteniamo al contrario che questi problemi siano piuttosto frutto dei tipici presupposti «folk» che definiscono l’orizzonte strategico della sinistra attuale. È quindi ora di individuare i limiti imposti dalla folk politics contemporanea. Come già argomentato nel primo capitolo, la folk politics si afferma come generica reazione alla complessità dell’oggi, e si incrocia con la più specifica storia dei movimenti di sinistra del XX secolo; questo capitolo esamina come le intuizioni della folk politics emerse da tale processo abbiano finito per plasmare diverse correnti maggioritarie della sinistra attuale. Ovviamente non abbiamo l’ambizione di coprire l’intero spettro del movimentismo di sinistra; ci concentreremo 41

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piuttosto su quei movimenti della sinistra radicale che sono stati politicamente più influenti e popolari. A tal proposito, non vogliamo sostenere che i metodi usati da questi movimenti siano intrinsecamente problematici, anche per​ ché solo tenendo conto dell’orizzonte storico di riferimento – e della strategia che viene utilizzata per modificarlo – è possibile valutare i meriti di particolari programmi. Vogliamo però individuare le debolezze della sinistra contemporanea in una cornice precisa: quella del presente. Vale a dire un mondo fondamentalmente guidato dagli imperativi del capitalismo globale, in cui la folk politics propone al contrario strategie concentrate sul locale e sullo spontaneo. Inizieremo con l’esaminare una delle tendenze politiche più popolari degli ultimi quindici anni, l’orizzontalismo, per poi rivolgerci al localismo diffuso e in generale alle tendenze reattive che permeano sia la sinistra mainstream che quella radicale. ORIZZONTALISMO Consolidatosi negli anni Settanta assieme ai movimenti di protesta statunitensi, proiettato nel mainstream grazie a zapatisti, attivisti no global e movimenti anti-austerity, l’orizzontalismo è oggi diventato il principale filone della sinistra radicale.2 In risposta al fallimento delle politiche «statocentriche», i movimenti orizzontalisti propongono di trasformare il mondo a partire dal cambiamento dal basso delle relazioni sociali,3 traendo ispirazione da una lunga tradizione teorica e pratica condivisa dall’anarchismo, dal comunismo consiliare, dal comunismo libertario e dall’Autonomia. L’obiettivo è, per dirla con uno dei suoi portavoce, «cambiare il mondo senza prendere il potere»:4 alla base di questi movimenti c’è quindi il rifiuto dello Stato e delle istituzioni, e il privilegiare la società intesa come spazio da cui dovrà emergere il cambiamento. L’orizzontalismo rifiuta i progetti egemonici, considerati intrinsecamente tirannici, per proporre al loro posto una politica basata sui gruppi di affinità:5 piuttosto che promuovere 42

PERCHÉ NON STIAMO VINCENDO?

un’ascesa al potere verticale dello Stato, sostiene l’incontro tra individui al fine di costruire le proprie comuni autonome e autogovernare le proprie vite. Potremmo genericamente riassumerne gli ideali attraverso questi precetti guida: • Rifiuto di ogni forma di dominio • Adesione alle pratiche di democrazia diretta e/o ai processi decisionali su base consensuale6 • Impegno nella cosiddetta politica prefigurativa • Enfasi sull’azione diretta

All’interno di ciascuno di questi punti chiave è possibile identificare una serie di problemi che ne limitano il potenziale ai fini di un’autentica lotta al capitalismo globale. Il contributo più importante dell’orizzontalismo è probabilmente la sua riflessione sul tema del controllo.7 Spingendosi oltre le tradizionali preoccupazioni della vecchia sinistra (ovvero Stato e Capitale), l’orizzontalismo sottolinea i vari modi in cui altri tipi di autorità – razziale, patriarcale, sessuale, abilista, ecc. – continuano a strutturare la nostra società. Il fatto che molti all’interno della sinistra contemporanea abbiano sposato queste idee, decidendo di impegnarsi per una completa rimozione di tali forme di oppressione, resta davvero una conquista cruciale, e una politica di sinistra seria e consapevole non può che sposarne gli assunti. E però i metodi che l’orizzontalismo propone per sconfiggere il controllo e l’oppressione finiscono spesso per scontrarsi con i limiti intrinseci della folk politics: nel perseguire l’immediata e diretta cancellazione dei rapporti di dominio, questi movimenti o ignorano le forme meno percepibili di controllo, o si rivelano incapaci di costruire strutture politiche durature e in grado di sostenere nuove forme di relazioni sociali. Il rigetto di qualsiasi forma di autorità e controllo si lega strettamente a una critica dell’idea di rappresentanza, sia in senso concettuale che politico. In pratica, il risultato è 43

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un’ostilità nei confronti di qualsiasi struttura gerarchica tipica della politica rappresentativa.8 Fenomeni storici come la corruzione dei sindacati e il rapido decadimento delle democrazie liberali hanno fatto sì che il sistema rappresentativo venga visto come una forma politica che conduce inevitabilmente alla creazione di élite tiranniche dedite soltanto al perseguimento dei propri interessi; queste strutture devono quindi essere rimpiazzate da forme di democrazia diretta che privilegino l’immediatezza sulla mediazione, insistendo sul personale oltre che sul politico.9 L’idea è che una «democrazia a viso aperto» sia presumibilmente più naturale e più autentica, oltre che meno incline a favorire l’emergere di gerarchie:10 le decisioni politiche devono essere prese non da rappresentanti, ma da individui che rappresentano innanzitutto se stessi.11 La democrazia diretta diventa quindi il valore su cui tutto il resto fonda, secondo quell’intuizione tipica della folk politics secondo la quale l’immediato è preferibile a qualsiasi mediazione. Piuttosto che maggioranze, procedimenti parlamentari e decreti di qualche commissione, l’obiettivo delle discussioni diventa dunque il raggiungimento del consenso:12 il dibattito sulle decisioni da prendere deve essere il più possibile aperto a tutti, e non solo i risultati, ma gli stessi processi deliberativi devono essere considerati fondamentali.13 È comprensibile come la democrazia partecipativa risulti così attraente per una gran quantità di persone, specie se si considerano i vuoti rituali delle odierne democrazie rap­ presentative.14 In tanti sottolineano il senso di possibilità che viene dalla partecipazione a processi decisionali15 in cui a essere valorizzato è non solo il consenso, ma anche il sentimento di inclusione: piuttosto che gli obiettivi strategici, sono proprio i metodi e i processi in quanto tali a essere percepiti come importanti. Democrazia diretta, consenso e inclusività sono tra i motori di quella predisposizione orizzontalista per la politica 44

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prefigurativa che punta a costruire, nel mondo così com’è il mondo che invece si desidera. Nella storia della sinistra la politica prefigurativa vanta una lunga tradizione, dall’anarchismo di Kropotkin e Bakunin in poi; ma solo recentemente ha iniziato a configurarsi come filone dominante. La vecchia promessa che, dopo la rivoluzione, le gerarchie e le strutture di esclusione sarebbero svanite ha fornito ben poca consolazione a quelle donne o persone di colore le cui rivendicazioni sono state ignorate dall’ennesimo leader maschio e bianco: piuttosto che aspettare la rivoluzione futura, la politica prefigurativa cerca quindi di instaurare un mondo nuovo sin da subito, facendo ancora una volta perno sull’intuizione implicita che l’immediatezza sia superiore ad approcci più mediati. Nelle sue migliori incarnazioni, la politica prefigurativa cerca di dare forma a impulsi utopici nel tentativo di proiettare il futuro già nell’oggi.16 Ma, nelle sue forme peggiori, l’insistenza sulla prefigurazione si trasforma nel dogma secondo il quale i mezzi devono corrispondere ai fini, senza una reale consapevolezza delle forze strutturali opposte.17 Se l’obiettivo è quello di creare il mondo che vogliamo qui e ora e se è proibito (o quantomeno sconsigliato) ricorrere all’impiego di istituzioni e mediazioni, allora la pratica politica più appropriata diventa quella dell’azione diretta. È una pratica che include un grande numero di possibili tattiche, dalle teatrali proteste in stile situazionista agli scioperi selvaggi e al blocco dei porti, fino all’incendio di appartamenti di lusso e così via. In queste pratiche possiamo nuovamente individuare la classica impronta «folk», ovvero la predilezione per il diretto, l’immediato e l’intuitivo. Certo, a volte l’azione diretta resta in effetti la forma più utile ed efficace di protesta: pensiamo ai boicottaggi contro il «decoro» e l’arredo urbano anti-homeless, o al «lavorare con lentezza» come forma di lotta sul posto di lavoro.18 Eppure, come vedremo, l’azione diretta è spesso insufficiente ai fini di un cambiamento duraturo; spesso anzi rappresenta null’altro che un 45

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ostacolo solo temporaneo per i poteri di Stato e Capitale. Ribadiamolo ancora una volta: la democrazia assembleare, la politica prefigurativa e le pratiche di azione diretta non sono fallaci in sé per sé.19 Piuttosto che denunciarne i limiti intrinseci, è semmai necessario che la loro utilità venga giudicata in base a particolari situazioni storiche, a specifici obiettivi strategici, e in termini della loro capacità di esercitare vero potere oltre che di produrre trasformazioni durature. La complessa realtà del capitalismo globale contemporaneo fa sì che gli interventi locali, nella forma di azioni non replicabili su scala più ampia, difficilmente possano ambire a riorganizzare il nostro sistema socioeconomico: ma come suggeriamo nella seconda metà di questo libro, i metodi orizzontalisti possono avere una loro utilità, se accompagnati da altre (e più mediate) forme di organizzazione e di azione politica. Fatta salva questa premessa, possiamo ora rivolgerci a due importanti snodi che hanno segnato le vicende politiche del XXI secolo e che evidenziano come nei modelli orizzontalisti vi siano tanto opportunità pratiche quanto i tipici limiti connaturati a tutta la folk politics. Nelle pagine che seguono esamineremo due tra i più evidenti casi di orizzontalismo: il movimento Occupy emerso in seguito alla crisi finanziaria del 2008, e le proteste che in Argentina sono seguite alla dichiarazione dello stato di default nel 2001. Di entrambi i casi, e degli approcci che li hanno contrassegnati, noteremo sia i successi concreti che i limiti evidenti. OCCUPY La più significativa e recente incarnazione dei principi orizzontalisti è stata quella dei cosiddetti «movimenti delle piazze». Sebbene le occupazioni non richiedano necessariamente una gestione orizzontalista (non a caso i precursori di questa tattica provengono originariamente da ambienti militari),20 è in questa chiave che si è declinata la maggior parte delle occupazioni che si sono succedute dal 2008 in poi. Nel 2011, 46

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le occupazioni di piazze e spazi pubblici hanno coinvolto più di 950 città in tutto il mondo, secondo coordinate politiche, economiche, culturali e di classe caratteristiche dei luoghi in cui prendevano piede. Qui vogliamo analizzare il fallimento dei movimenti Occupy nel mondo occidentale, perché ci aiuta a gettare luce sui limiti della folk politics nei principali paesi capitalisti.21 È anche da notare come questo fallimento si sia verificato nonostante l’enorme varietà di approcci raccolti sotto l’ombrello della sigla Occupy: negli Stati Uniti per esempio, questo movimento – che andava da Occupy Wall Street fino a Occupy Oakland – ha oscillato tra la non violenza più dogmatica e l’antagonismo più sfrontato, passando per l’adesione a un liberalismo confuso e l’invocazione di un comunismo libertario e militante.22 All’eterogeneità regionale si è accompagnata in effetti quella ideologica dei manifestanti: lo spettro politico comprendeva allo stesso modo riformisti liberali, anticapitalisti, insurrezionalisti anarchici, comunisti libertari, sindacalisti, e persino una manciata di libertarians anti-Federal Reserve. In aggiunta alle diversità nella composizione interna, vi era infine una profonda resistenza all’articolazione di rivendicazioni politiche esplicite, che rendeva ancora più difficile il compito di discernere la coerenza del movimento. È abbastanza chiaro il motivo per cui in tanti si sentirono motivati a unirsi al movimento: la natura orizzontalista di Occupy forniva alle persone la possibilità di esprimersi in un mondo che, fino a quel momento, a malapena si era degnato di ascoltarle.23 In America, in particolare, la struttura della democrazia elettorale incentrata su due grandi partiti ha prodotto un’incredibile restringimento degli spazi del discorso pubblico. L’assortimento di slogan e cause associate con il movimento Occupy rende bene quell’esplosione di rabbia repressa e quella proliferazione di richieste politiche che, senza questa piattaforma, sarebbero cadute nel nulla; anche chi non partecipò direttamente alle occupazioni, in Occupy 47

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trovò una piattaforma per gli esclusi grazie a siti internet come la pagina Tumblr We Are the 99 Percent, dando spazio a un coro di proteste contro l’impoverimento economico e l’esclusione sociale.24 Al di là dei risultati politici veri e propri, l’opportunità di poter pubblicamente esternare le proprie frustrazioni ha rappresentato un’esperienza stimolante per tantissimi che si sentivano messi ai margini. Il movimento Occupy è riuscito a stravolgere la vita di tutti i giorni sia dei partecipanti che degli osservatori esterni, e ha permesso a tante persone di ritrovarsi assieme nel contesto di un progetto politico condiviso. Come è stato notato da un osservatore, «praticare l’autonomia insegna all’individuo a riconoscere il proprio potere».25 In città come Oakland gli attivisti hanno spesso spinto per politiche più radicali di quelle che le organizzazioni di mediazione (come per esempio quelle no profit) avrebbero altrimenti portato avanti. Come molti altri movimenti di protesta, Occupy ha anche avuto la funzione di radicalizzare le persone che vi hanno preso parte, specialmente a seguito della brutale repressione scatenata dalla polizia. Le occupazioni prefiguravano un mondo nuovo, o almeno così sembrava; e anche se questo mondo nuovo restava fuori portata, il movimento ha mostrato ai partecipanti cos’era possibile ottenere grazie alla solidarietà politica.26 Assieme ai loro vantaggi interni, gli spazi occupati sono serviti anche come spunto per azioni contro il sistema politico vero e proprio, come nel caso delle manifestazioni contro il G8;27 la maggior parte di queste azioni è consistita in manifestazioni e raduni, e questi spazi sono anche stati utilizzati come luoghi fisici per riunirsi e prendere decisioni collettive. Per quanto riguarda le azioni esterne, gli spazi occupati sono stati usati come quartier generale per la formazione dei militanti, per esempio insegnando a mettere in pratica atti di disobbedienza civile, a gestire la repressione della polizia, o a diffondere informazioni sui diritti legali.28 In generale, le occupazioni hanno funzionato come chiara incarnazione, 48

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nel mondo reale, dell’infrastruttura del movimento: spesso (anche se non sempre) queste occupazioni sono anche state spazi dove fornire sostegno ai gruppi più emarginati della società, in particolare i senzatetto;29 e, cosa forse ancora più importante, le occupazioni – in particolare quella di Zuccotti Park a New York – hanno rappresentato un punto di riferimento ben visibile in grado di attrarre l’attenzione dei media, portando all’attenzione dei governi e del pubblico rivendicazioni che in genere vengono relegate a problemi secondari.30 Anche se per poco, Occupy è stato davvero in grado di suscitare l’interesse dei grandi network per le questioni di giustizia economica: un risultato non da poco, considerato l’ambiente ultra-neoliberale tipico dei media contemporanei. Ma nonostante i non pochi successi, ci sono seri motivi per cui le occupazioni hanno infine fallito. Alcuni di questi sono già stati sottolineati da diversi osservatori interni del movimento, a cominciare da quella retorica inclusivista che, persino dentro Occupy, nascondeva una serie di processi di esclusione basati su razza, genere, salario e disponibilità di tempo libero.31 Le idee e le pratiche del movimento erano intrise dei classici limiti dalla folk politics, che hanno impedito al movimento di espandersi in termini sia di spazio che di tempo, e quindi di «universalizzarsi». Di sicuro, alcuni dei movimenti cresciuti sotto l’ombrello di Occupy non hanno mai avuto intenzione di espandersi su scala più ampia, di durare nel tempo o di estendersi: molti teorici orizzontalisti (anche se non tutti) enfatizzano il peculiare dinamismo di azioni politiche brevi e spontanee, sostenendo che «la permanenza relativa non è necessariamente una virtù».32 Ma che sia volontaria o meno, la tendenza del movimento a dare priorità all’immediatezza (spaziale, temporale e concettuale) ha avuto l’effetto di indebolirlo, rendendolo incapace di durare abbastanza a lungo da poter avere la possibilità di conseguire gli obiettivi basilari che pure si era prefissato. In ossequio ai principi orizzontalisti, il movimento 49

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Occupy è stato caratterizzato principalmente dalla sua predilezione per la democrazia diretta. Benché questa esista in diverse forme – dai consigli dei lavoratori ai sistemi democratici dei cantoni svizzeri – nel caso di Occupy la forma organizzativa principale è stata quella dell’assemblea generale;33 in un periodo di declino dell’efficacia delle democrazie, un modo nuovo di mettere in pratica i principi democratici era una delle principali aspirazioni dei partecipanti alle proteste.34 Ma, se intesa come un feticcio o come un fine a se stesso, la democrazia diretta impone inesorabilmente dei grossi limiti: in primo luogo, il livello di impegno e di coinvolgimento politico che richiede al singolo individuo comporta problemi di sostenibilità. La cosiddetta parecon (economia partecipativa) propone per esempio processi di democrazia diretta a ogni livello della società: ma questa visione di un futuro postcapitalista si traduce concretamente in una serie infinita di incontri sempre più specifici riguardo a ogni singolo dettaglio della vita di tutti i giorni – non esattamente una visione utopica capace di scatenare l’immaginazione…35 All’interno di Occupy molte assemblee generali dege­ neravano in situazioni in cui le questioni più triviali finivano per essere dettagliatamente esaminate da tutta la collet­ tività:36 l’infuocato dibattito sull’eccessivo (o meno) rumore prodotto dai tamburi a Zuccotti Park è solo un esempio particolarmente grottesco del problema. Il punto più generale è che questo tipo di democrazia diretta comporta enormi sforzi di partecipazione: in altre parole, richiede una maggiore quantità di lavoro. Nei brevi periodi di entusiasmo rivoluzionario questo lavoro extra può non avere conseguenze particolari, ma con il ritorno alla normalità andrebbe a sommarsi alle pressioni e gli impegni della vita quotidiana.37 Il lavoro extra richiesto da una democrazia partecipativa è particolarmente problematico se si considerano le dinamiche di esclusione che per sua natura comporta: a soffrirne sono in particolare coloro che non hanno modo di partecipare 50

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fisicamente alle riunioni, coloro che non si trovano a loro agio in gruppi numerosi, o tutti quelli che non sono esperti oratori pubblici (senza dire dei fattori razziali e di genere che entrano in gioco in questi casi).38 Man mano che il movimento Occupy è andato avanti, le assemblee generali hanno semplicemente smesso di esistere, spesso sotto il peso della stanchezza e della noia; la conclusione che possiamo trarne è che il problema della democrazia oggi non può ridursi all’idea che le persone vogliono avere voce in capitolo su ogni singolo aspetto della loro vita: il vero problema del deficit di democrazia risiede nel fatto che le decisioni più significative della nostra società non sono di competenza del cittadino comune.39 La democrazia diretta risponde a questo problema, ma prova a risolverlo rendendo immediata la democrazia, per trasformarla in un’esperienza corporea che rifiuta qualsiasi mediazione. Le preferenze per le forme immediate di democrazia ne limitano anche l’espansione spaziale su larga scala; detta molto semplicemente: per poter funzionare, la democrazia diretta ha bisogno di comunità piccole. È istruttivo notare come le centinaia di migliaia di persone che riempirono piazza Tahrir al Cairo non organizzarono nessuna assemblea generale; e che anche all’interno di Occupy Wall Street le assemblee generali includevano solo una piccola parte del numero totale dei partecipanti.40 I meccanismi e gli ideali stessi della democrazia diretta (come la discussione faccia a faccia) rendono difficile la sua riproducibilità al di fuori di comunità numericamente esigue, e la rendono di fatto impossibile laddove ci siano problemi da discutere su scala regionale, nazionale o globale. I limiti spaziali della democrazia diretta fanno inoltre sì che questa non sia in grado di individuare gli aspetti regressivi delle piccole comunità: le realtà «intime» sono spesso luogo delle più virulente forme di xenofobia, omofobia, razzismo, pettegolezzi e altre varietà di provincialismo reazionario. Le piccole comunità care alla 51

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democrazia diretta non sono un obiettivo in cui può rispecchiarsi una sinistra moderna; non bastasse, la democrazia partecipativa può tranquillamente essere costruita senza ricorrere alle piccole realtà, in particolare grazie all’impiego delle tecnologie di comunicazione disponibili già oggi. Un altro vincolo imposto dalla folk politics deriva dall’idea di considerare il consenso come scopo ultimo del processo deliberativo: il suo ideale è raggiungere una decisione accettabile per tutti, continuando a insistere sull’immediatezza spaziale. Come nota l’anarchico David Graeber, «in una comunità faccia a faccia è molto più facile capire le intenzioni della maggioranza, piuttosto che scoprire come convincere coloro che non hanno intenzione di seguirla».41 Ma ciò che funziona bene su scala ridotta è molto più difficile in una comunità più ampia: è quindi forse inevitabile che nel caso di un movimento relativamente vario ed eterogeneo come Occupy i processi decisionali su base consensuale abbiano portato – nei rari casi in cui si è ottenuto un qualsiasi tipo di conclusione – a rivendicazioni che, per poter accontentare tutti, si traducevano in slogan generici e basilari. Persino l’assoluta mancanza di richieste specifiche è stata rivendicata come un radicale elemento di rottura: sono argomentazioni che, dall’interno del movimento, identificano l’articolazione di richieste come elemento potenzialmente alienante e causa di frizioni, perché danneggiano l’indipendenza del movimento stesso e indirizzano le richieste a forze esterne – per esempio lo Stato – aprendo quindi la porta a un graduali dinamiche di cooptazione.42 D’altra parte, i critici di questo approccio notano come la natura divisiva di richieste e rivendicazioni sia anche un elemento positivo: benché possano suonare come una delusione per alcuni partecipanti, riescono altresì a mobilitare coloro che hanno a cuore una particolare questione. In più, queste frizioni servono a chiarire le autentiche differenze politiche presenti nel movimento (che spesso vengono ignorate nella 52

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pratica), anche laddove possano rivelarsi insormontabili.43 Altre complicazioni sono emerse con il rifiuto, da parte di Occupy, di qualsiasi tipo di organizzazione verticale. I problemi più evidenti di questa impostazione sono gli ostacoli nello stabilire ponti tra il movimento e altri gruppi simili: mentre le piazze egiziane e turche sono state in grado di costruire legami con i movimenti sindacali già esistenti, nel mondo occidentale Occupy ha perlopiù rifiutato contatti del genere.44 Questo comportamento ha causato tre tendenze. Innanzitutto, una struttura decisionale spesso paralizzante: le iniziative prese da Occupy venivano quasi sempre da sottogruppi che agivano in autonomia, anziché osservando le indicazioni di assemblee generali e decisioni consensuali;45 in altre parole, non è stato l’orizzontalismo a produrle. In secondo luogo, ci sono elementi che suggeriscono che un’organizzazione gerarchica sia cruciale per la difesa dei movimenti dalla minaccia dello Stato: nel caso di Occupy, il mantenimento dello spazio occupato contro la repressione della polizia è stato il risultato non dell’orizzontalismo, ma di istituzioni verticali che hanno mobilitato i propri membri in supporto all’occupazione;46 allo stesso modo, in Egitto, tifosi di calcio e organizzazioni religiose hanno giocato un ruolo fondamentale nella difesa di piazza Tahrir contro la violenza dello Stato e delle forze reazionarie ostili.47 Il rifiuto della verticalità in ogni sua forma ha significato, infine, il venir meno di un meccanismo chiave per l’ampliamento del movimento, sia in senso temporale che spaziale; i rapporti con il mondo dei lavoratori e della giustizia sociale (e persino con i partiti politici) avrebbero potuto garantire a Occupy quell’infrastruttura necessaria a muoversi al di fuori dei parametri della folk politics: per tornare all’esempio dell’Egitto, le cooperative dei lavoratori sono state vitali nel trasformare la protesta in uno sciopero generale, con l’effetto di bloccare il paese e dare così il colpo di grazia al regime di Mubarak.48 In Islanda, in Grecia e in Spagna, i legami con i partiti politici hanno aiutato le occupazioni a ottenere 53

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successi di ampio respiro. In generale, malgrado la chiara volontà di diffondere i propri ideali – e l’innegabile successo mediatico che ha ottenuto catturando l’attenzione del pubblico – il movimento Occupy non ha mai compiuto quelle mosse necessarie per dare il via a una vera trasformazione sociale. Ma il problema fondamentale è che, aderendo a una politica prefigurativa, il movimento Occupy si è autoimposto dei limiti. Abbiamo detto che la caratteristica della politica prefigurativa è quella di incarnare sin da subito il mondo che verrà: in altre parole, modifica il modo in cui ci relazioniamo agli altri al fine di sperimentare già nel presente un avvenire postcapitalista. Le occupazioni sono un classico esempio: di solito, hanno l’obiettivo esplicito di creare uno spazio non-capitalista attraverso la mutua solidarietà, il rifiuto di gerarchie, e una rigorosa democrazia diretta. Ma questi spazi sono esplicitamente concepiti e costruiti come soluzioni temporanee, non quindi come occasioni per creare un cambiamento duraturo o lo sviluppo di alternative concrete, e men che meno con l’ambizione di competere contro il capitalismo globale: al più, sono spazi a breve termine che racchiudono le esperienze transitorie di una comunità ristretta.49 Questo pamphlet di un movimento precursore di Occupy è a tal proposito estremamente chiaro: [Gli studenti che hanno insistito per non mettere sul tavolo alcuna richiesta] hanno inteso l’occupazione come la creazione di una sospensione momentanea nel tempo e nello spazio del capitalismo, un riassetto che delinea i contorni di una società nuova. Noi ci schieriamo con questa posizione antiriformista. Sappiamo che sono zone parziali e transitorie, ma ugualmente portano alla luce quelle tensioni tra il reale e il possibile che possono spingere la lotta verso indirizzi più radicali.50

Nell’esempio sopra riportato, l’ammissione esplicita del fatto che l’occupazione è una misura temporanea si combina 54

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all’ingenua convinzione che, forse, questa volta sarà in grado di determinare un cambiamento radicale. Gli spazi prefigurativi sono costretti a lottare costantemente contro la propria dissoluzione interna, e per ovvi motivi: sono spazi che richiedono una grande varietà di supporti logistici, tipo posti letto, cibo, servizi, sanità, sicurezza e aiuto legale; la maggior parte degli aiuti non proviene però da altre comunità prefigurative, ma dipende dalle reti capitaliste già esistenti.51 La riproduzione sociale degli accampamenti è un compito difficile persino nelle condizioni più favorevoli, e anche comunità utopiche ben consolidate (come quelle di natura religiosa) in genere scoprono che l’indipendenza e l’autosufficienza totali sono obiettivi impossibili.52 Va aggiunto che gli spazi prefigurativi sono spesso sotto attacco della repressione da parte di Stato e corporation, e se non lo sono è in genere perché non rappresentano alcun tipo di pericolo per l’ordine esistente: gli zapatisti per esempio continuano a operare in relativa libertà semplicemente perché lo Stato e il Capitale non li considerano una minaccia concreta.53 Ma nell’esatto momento in cui uno spazio prefigurativo diventa una minaccia la repressione interviene istantanea, ed è proprio lì che la feticizzazione dell’orizzontalismo diventa la sua più grande debolezza: la politica prefigurativa, nelle sue forme peggiori, ignora le forze che fanno fronte comune contro la creazione e la crescita di un mondo nuovo. Dichiarare semplicemente che questo mondo nuovo esiste già, e quindi praticarlo localmente, non è abbastanza per sconfiggere queste forze: lo dimostra proprio la repressione subita da un movimento come Occupy.54 La domanda che va posta a qualsiasi tipo di politica prefigurativa è: come può questo progetto estendersi e riprodursi su una dimensione più ampia? 55 Anche dando per buono il dubbio assunto che le persone vorranno davvero vivere come in un accampamento alla Occupy, quali misure sarà possibile mettere in atto per espandere socialmente e fisicamente questi spazi? 55

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Quando i teorici del movimento affrontano la questione, in genere rispondono in termini vaghi: spiegano che determinati momenti «risuoneranno» con altri; che in qualche modo i piccoli gesti quotidiani saranno in grado di permettere un salto qualitativo e di «scardinare» la società; le rivolte e i blocchi si «diffonderanno» e si «moltiplicheranno»; che le esperienze di protesta «contamineranno» i partecipanti e si espanderanno, e sacche di resistenza prefigurativa «si scateneranno spontaneamente».56 Questo approccio sognatore e utopico ignora sistematicamente il difficile compito di passare dal particolare all’universale, dal locale al globale, dal temporaneo al permanente. Gli imperativi strategici di ampliamento, estensione e universalizzazione rimangono irrealizzati. Anche se Occupy non ha avuto successo nell’espandere i propri spazi prefigurativi oltre i margini della società, le sue forme di protesta sarebbero potute comunque tornare utili come piattaforme di lancio per l’azione diretta. In effetti, una delle conquiste più rilevanti ottenute dal movimento è stata la creazione di un’infrastruttura fisica e sociale che sarebbe potuta servire da fondamento per iniziative sul campo: in paesi come Grecia e Spagna sono stati organizzati scioperi contro il debito e picchetti per i lavoratori senza diritto di sciopero. Altri movimenti legati a Occupy hanno offerto supporto agli abusivi, dato cibo ai senzatetto, creato canali di informazione alternativa, messo in moto mobilitazioni per prevenire gli sfratti, protestato contro i tagli del governo e offerto sostegno umanitario dopo i disastri naturali. Ma l’influenza di Occupy non va sovrastimata. Per esempio: molti dei successi conseguiti dalle campagne contro gli sfratti e i pignoramenti sono in realtà l’effetto del lavoro compiuto già molto tempo prima da gruppi di attivisti neri come Take Back the Land.57 In generale il problema è che le azioni dirette agiscono soltanto in superficie, fasciando temporaneamente le ferite inferte dal capitalismo, ma lasciando i problemi intatti e le strutture di fondo invariate. E così i 56

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pignoramenti vanno avanti senza sosta, il debito dei consumatori continua a salire, i lavoratori si ritrovano per strada, e il numero di senzatetto aumenta. Con Occupy, i limiti della «propaganda del fatto» sono diventati evidenti.58 Anche se l’azione diretta può ottenere successi reali, rimane comunque un fenomeno localizzato e temporaneo: in una parola, folk politics. L’azione diretta può essere efficace per mitigare i peggiori eccessi del capitalismo, ma non potrà mai affrontare il difficile compito di combattere un’astrazione diffusa nel tempo e nello spazio. Piuttosto, preferisce rivolgersi a obiettivi più ovvi.59 A mancare è un progetto per una sinistra che sappia allargare i propri orizzonti e quindi trasformare il capitalismo in profondità. L’immagine di Occupy che emerge da queste considerazioni è quella di un movimento indissolubilmente legato alle convinzioni riguardanti i vantaggi degli spazi locali, delle piccole comunità, della democrazia diretta e della temporanea autonomia ai margini della società. Queste convinzioni hanno reso il movimento incapace di espandersi dal punto di vista degli spazi, di mettere in atto trasformazioni sostenibili, e dunque di rendersi universale. I movimenti legati a Occupy hanno conseguito vittorie tangibili producendo solidarietà, dando voce agli emarginati e ai disillusi, e catalizzando l’attenzione pubblica: ciononostante, sono rimasti un piccolo arcipelago di isole prefigurative circondato da un oceano capitalista tanto implacabile quanto ostile. La causa più diretta del fallimento del movimento è stata la repressione da parte della polizia, che in tenuta antisommossa ha ripulito gli spazi occupati in tutti gli Stati Uniti. Ma le cause strutturali di questo fallimento vanno ricercate nei presupposti e nelle pratiche stesse del movimento: una volta privato del suo fulcro – gli spazi occupati – il movimento si è disperso e frammentato. Sostanzialmente, la forma organizzativa di questi movimenti non è stata in grado né di superare i problemi di scalabilità, né di costruire una 57

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forma duratura di potere capace di resistere efficacemente all’inevi­tabile reazione dello Stato. Ciò che funziona bene su una scala – per esempio in una comunità composta da un centinaio di persone – può diventare ingovernabile se esteso su scala più ampia.60 Se una sinistra realmente ambiziosa pretende di sfidare i grandi poteri globali – il sistema capitalista neoliberale e le sue istituzioni, i governi e le loro forze di polizia, le corporation e le società finanziarie di tutto il pianeta – allora una condizione essenziale sarà quella di operare al di fuori della pura dimensione locale. C’è senz’altro molto da imparare da questi movimenti: ma siamo anche convinti che, da soli, rimarranno incapaci di produrre alcun cambiamento di rilievo. ARGENTINA Nella storia recente, l’esempio che più ha fatto sperare nelle pratiche orizzontaliste è quello argentino: la nazione sud­ americana è infatti stata investita da una svolta orizzontalista che ha portato a un ampio controllo delle fabbriche da parte dei lavoratori; ma a uno sguardo più attento è un esempio che in realtà rivela nuove dimensioni dei limiti della folk politics. In Argentina l’immediata necessità di nuove forme di organizzazione sociale si è imposta dopo il collasso dell’economia nazionale: il paese fu colpito da una pesante recessione nel 1998 e l’economia ne risentì perdendo più di un quarto del PIL entro il 2002. Le tensioni sociali giunsero al limite nel dicembre del 2001, quando le politiche restrittive del governo e il caos finanziario provocarono l’esplosione di enormi proteste popolari. Il risultato fu la caduta del governo e la dichiarazione dello stato di default sul debito pubblico. Governate da un esecutivo incapace che non mostrava alcuna volontà di venire incontro ai bisogni del popolo, le persone si trovarono costrette a trovare nuovi modi per sopravvivere. In seguito ai problemi del paese, molti argentini decisero di organizzarsi dando vita a nuove strutture sia politiche che 58

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economiche, e gli esempi da seguire perlopiù arrivarono proprio dai principi orizzontalisti.61 Come nel caso di Occupy, anche in Argentina la tipica organizzazione orizzontalista ha prodotto diversi benefici: il più importante tra questi è probabilmente il modo in cui questi movimenti sono stati in grado di scuotere le regole del senso comune neoliberale lasciandosi alle spalle tanto l’individualismo di mercato quanto la solidarietà negativa. I legami costruiti tra gli individui hanno contribuito a superare l’ostilità con cui spesso altre parti della società guardano a scioperi e proteste. E come Occupy – ma su scala più ampia – i movimenti argentini sono anche riusciti a fornire i mezzi per la riproduzione sociale in circostanze di crisi.62 Ma se questi esperimenti di orizzontalismo applicato hanno prodotto diversi risultati positivi, la loro esperienza ha anche rivelato numerosi nuovi problemi. Il principale sta nei limiti delle assemblee di quartiere come forma di organizzazione: profondamente plasmate da principi orizzontalisti, queste assemblee furono istituite come risposta sia alle necessità immediate, sia alle nuove possibilità che la crisi apriva; simili alle assemblee generali di Occupy, erano riunioni che in effetti riuscirono a dare nuova voce alla gente, ma che anche quando divennero più larghe (magari arrivando a includere più quartieri) non giunsero mai al punto di rimpiazzare lo Stato, o quantomeno di costituirne una plausibile alternativa. Anche nei periodi di massima partecipazione, il movimento orizzontalista non è mai riuscito a rimpiazzare quelle funzioni statali che vanno dal welfare alla sanità pubblica, passando per la redistribuzione dei beni, l’educazione e via dicendo: hanno funzionato, al massimo, come risposta localizzata alla crisi. Altri limiti sono emersi quando ci si è resi conto che queste assemblee potevano funzionare soltanto a patto di rifiutare interessi organizzati (ossia collettivi), oppure incorporando questi interessi al loro interno, ma col risultato di venirne travolte.63 Nel corso delle proteste argentine è stato impossibile 59

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integrare gli interessi collettivi all’interno del processo decisionale delle assemblee senza distruggere le assemblee stesse, dato che spesso tali interessi finivano per monopolizzare la discussione. Ironicamente, queste assemblee hanno funzionato meglio su base individuale. Le fabbriche controllate dai lavoratori hanno rappresentato un altro esperimento di organizzazione sociale. In seguito alla crisi economica alcune industrie fallite furono acquisite e mantenute dai loro dipendenti, aiutando così i lavoratori a conservare il proprio impiego, e in alcuni casi garantendo salari migliori di quelli precedenti (o almeno così pare). Sfortunatamente, malgrado l’attenzione che venne data al fenomeno, il numero totale dei partecipanti all’esperimento fu piuttosto esiguo: le stime più ottimistiche suggeriscono che circa 250 fabbriche diedero impiego a poco meno che diecimila persone.64 Con un totale di più di diciotto milioni di lavoratori nel paese, questo significa che dalle fabbriche controllate dai lavoratori derivava meno dello 0,1% dell’economia. Non solo queste fabbriche giocarono un ruolo marginale dal punto di vista economico, ma rimasero anche necessariamente parte di un sistema di relazioni sociali capitalista. Il sogno di una via di fuga rimase solo quello: un sogno. Schiave dell’imperativo di produrre profitto, le industrie guidate dai lavoratori possono rivelarsi tanto oppressive e dannose per l’ambiente quanto qualsiasi altro tipo di grande impresa, ma senza i vantaggi dell’efficienza di scala: sono d’altronde problemi comuni all’intera esperienza cooperativa che riguardano non solo il caso argentino, ma anche esempi come quello zapatista o come quello nordamericano.65 Oltre ai limiti di natura organizzativa, il principale problema dell’esperienza argentina in quanto modello post­ capitalista è che ha rappresentato poco più che un balsamo temporaneo contro i mali del capitalismo, senza riuscire a imporsi come alternativa credibile. Con la ripresa dell’economia la partecipazione alle assemblee di quartiere e ai progetti 60

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di economia alternativa è drasticamente diminuita.66 I movimenti emersi dalla crisi argentina erano d’altronde nati come risposta a un sistema al collasso, non come alternativa a un ordine sociale in relativa buona salute: il primo difetto dell’oriz­zontalismo contemporaneo sta in effetti nella tendenza a considerare stati di emergenza (come per esempio i postumi di un uragano, di un terremoto o di una crisi economica) come rappresentazioni di un mondo migliore,67 ed è eufemisticamente difficile immaginare come le condizioni date da un disastro possano rappresentare un miglioramento della qualità della vita per la popolazione mondiale. Una politica che trova la sua espressione migliore nel collasso dell’ordine sociale ed economico non è un’alternativa: al massimo è un riflesso guidato dall’istinto di sopravvivenza. Anche la ricorrente inclinazione orizzontalista a individuare un potenziale politico nella maniera in cui organizziamo la vita di tutti i giorni – incontri tra amici, feste, festival e via dicendo – resta problematica.68 Ancora una volta, il punto è che questi metodi non sono estendibili a una scala che non sia quella della piccola comunità; cosa persino più importante, non servono a ottenere alcun obiettivo certo. Come dimostrato dall’esempio argentino, questi metodi possono risultare preziosi per la vita di un quartiere, oltre che per far maturare un senso di solidarietà tra le persone. Ma l’orizzontalismo fatica a competere contro gli interessi organizzati, a mantenersi in vita dopo il ritorno a un certo livello di normalità, e a conseguire obiettivi politici duraturi e su larga scala (come per esempio fornire un servizio sanitario universale, un’educazione di qualità e un livello di sicurezza sociale). Di nuovo: questi approcci restano utili in situazioni di emergenza e per un numero ristretto di obiettivi, ma non riusciranno mai a rivoluzionare la società, né tantomeno a rappresentare una minaccia per il capitalismo globale. Tramite esempi come quelli delle assemblee di quartiere e delle fabbriche gestite dagli operai, abbiamo visto come i 61

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metodi organizzativi dell’orizzontalismo tradiscano la loro insufficienza. Troppo spesso, sono tattiche poco più che reattive e destinate all’insuccesso nell’arena del capitalismo globale. Nell’ultimo decennio, sia a livello teorico che nelle esperienze concrete di Occupy e della crisi argentina, i limiti dell’orizzontalismo sono emersi con estrema chiarezza: anche riconoscendo che i metodi orizzontalisti hanno un’importante capacità di fornire sostegno alle comunità locali e di sovvertire temporaneamente pratiche di sfruttamento, la concezione feticista del consenso e dell’azione diretta – come l’adesione a forme di politica prefigurativa – pone all’orizzontalismo seri limiti alle sue possibilità di espansione e di sovvertimento della società. LOCALISMO Meno radicale dell’orizzontalismo (ma altrettanto onnipresente) è il cosiddetto localismo. Come ideologia si è diffuso ben al di fuori della sinistra: è anzi riuscito a penetrare contemporaneamente le politiche dei pro-capitalisti come degli anticapitalisti, della cultura mainstream come di quella più radicale, assumendo davvero le forme di una specie di nuovo senso comune. Alla sua base c’è la convinzione che la natura astratta e le inconcepibili scale del mondo moderno siano la radice di tutti i nostri problemi politici, ecologici ed economici, e che la soluzione risieda dunque nel «piccolo è bello».69 Piccoli gesti, economie locali, comunità chiuse e interazione faccia a faccia sono solo alcuni dei tipici tratti della visione del mondo localista; in un periodo storico in cui la maggior parte delle strategie e delle tattiche sviluppate nel XIX e XX secolo appaiono superate e inefficaci, il localismo ha una sua logica ammaliante: nelle sue diverse varianti – dal comunitarismo di destra70 al consumismo consapevole,71 passando per gli strumenti di microcredito e le pratiche anarchiche contemporanee72 – promette agli individui concretezza e praticità grazie a una politica dagli effetti riscontrabili e immediati. Ma 62

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il senso di consapevolezza e controllo che ne deriva è comunque fuorviante: il problema del localismo è che in effetti, nel tentativo di ridurre i problemi sistemici su larga scala a una sfera di più semplice gestazione, ignora la natura interconnessa del mondo attuale. Questioni come lo sfruttamento globale, il cambiamento climatico, la crescita della popolazione mondiale e le diverse crisi che stanno attraversando il capitalismo, assumono forme astratte e strutture complesse oltre che non localizzate. Benché la loro influenza sia avvertibile anche a livello locale, non è in nessuna regione specifica che si manifestano compiutamente. Di fatto, i problemi sistemici e astratti, richiedono soluzioni altrettanto sistemiche e astratte. Se la maggior parte del localismo populista di destra può tranquillamente essere liquidato come una fantasia regressiva e machista (vedi il secessionismo libertarian), come una sinistra copertura ideologica per i piani di austerità economica (l’idea della Big Society propugnata dal partito Conservatore britannico), o semplicemente come razzismo puro e semplice (i nazionalisti e i fascisti che incolpano gli immigrati dei problemi economici), il localismo di sinistra è ancora poco studiato. E anche se mosse da nobili ideali, adottando politiche e progetti economici di stampo localista sia la sinistra mainstream che quella radicale finiscono per danneggiarsi da sole. Nelle pagine che seguono esamineremo in maniera critica due tra le più popolari varianti di localismo che ne esemplificano, in aree molto differenti, le problematicità: il cibo «a chilometro zero» e l’economia locale. CHILOMETRO ZERO Grazie a un prestigio che quasi sempre manca ai circuiti della politica, il localismo è recentemente riuscito a dominare il dibattito sulla produzione, la distribuzione e il consumo di cibo: basti pensare a fenomeni enormemente influenti come Slow Food e quello che viene definito «locavorismo» (l’idea cioè di consumare solo cibo locale). 63

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Il movimento Slow Food nacque in Italia negli anni Ottanta, in parte come forma di protesta contro la rapida espansione delle grandi catene di fast food. Come lascia intendere il nome, Slow Food difende tutti quei valori che McDonald’s ignora: cibo locale, ricette tradizionali, pasti consumati lentamente, produzione di qualità…73 È cibo che evoca in maniera istintiva i benefici di uno stile di vita lento, che supera le difficoltà e i ritmi forsennati del capitalismo per tornare a una cultura antica che i pasti li assaporava per davvero e che si fondava su tecniche di produzione antiche di secoli.74 Eppure persino i più convinti sostenitori del movimento ammettono la difficoltà di vivere uno stile di vita genuinamente «slow»: «Pochi tra noi hanno il tempo, i soldi, l’energia e la disciplina per essere uno Slow Foodie modello».75 Senza un’attenta analisi di come le nostre vite vengono strutturate da pressioni economiche, sociali e politiche che rendono assai più conveniente mangiare cibi precotti che uno stile di vita slow, l’esito di questo movimento è null’altro che una variante edonista del consumismo consapevole. È certamente vero che dedicare tempo e calma a cucinare un buon piatto può risultare molto piacevole: prestare attenzione al processo di preparazione di un pasto può elevare l’atto del mangiare dalla pura sfera utilitaristica a quella di un’esperienza assieme estetica e sociale. Ma ci sono ragioni strutturali per le quali non possiamo farlo quanto vorremmo, e sono ragioni che nulla hanno a che vedere con la dimensione morale dell’individuo. Il modo in cui è strutturata la nostra vita lavorativa, è per esempio un’importante ragione per la quale molti di noi non sono in grado di godersi lentamente un pasto, o tantomeno riescono a preparare un piatto secondo i valori di Slow Food. Più che di denaro è una questione di tempo libero, e per tutti quelli che sono costretti a svolgere più lavori per sostenere la propria famiglia il tempo è un lusso. Anche le politiche di genere del movimento Slow Food sono ambigue, considerato che viviamo in una società 64

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patriarcale nella quale la preparazione dei cibi viene ancora considerata un’attività per mogli e madri.76 Il cibo «fast» o precotto può essere effettivamente poco salutare, ma la sua popolarità deriva anche dal modo in cui ha effettivamente liberato la vita di molte donne, affrancandole dai ripetitivi obblighi della cucina per la famiglia.77 Slow Food è un movimento a prima vista innocente e innocuo, ma come tante altre forme di consumismo critico non è davvero in grado di pensare su larga scala, né di stabilire come le proprie idee possano funzionare all’interno del più ampio – e avido – spettro del capitalismo. Strettamente legati al movimento Slow Food, fenomeni come il locavorismo e l’alimentazione «a chilometro zero» sono un altro esempio di politica alimentare tutta concentrata sul cibo locale. Secondo il locavorismo, mangiare solo cibi prodotti sul posto non solo è più sano, ma va anche nella direzione di ridurre le emissioni di anidride carbonica e, di conseguenza, il nostro impatto sull’ambiente: in questo modo, si presenta come seria risposta a un problema globale. Inoltre, il locavorismo sostiene di essere uno strumento per superare l’alienazione data dalla nostra relazione con il cibo sotto un regime capitalista: la tesi è che soltanto mangiando cibo coltivato o prodotto in loco saremo in grado di ristabilire un rapporto con la produzione del nostro cibo, strappandolo dalle fredde mani del capitalismo più sfrenato.78 In confronto al movimento Slow Food, il locavorismo è più esplicito nel presentarsi come alternativa politica alla globalizzazione, ma lo fa rimandando ancora una volta a un’impostazione tipicamente «folk»: da una parte il primato del locale come orizzonte dell’agire politico, dall’altra l’enfatizzazione delle virtù del locale rispetto al globale, dell’immediato rispetto al mediato e del semplice rispetto al complesso. Idee del genere finiscono spesso per ridurre questioni ambientali complesse a problemi di etica individuale, essenzialmente privatizzando una delle crisi più urgenti dei nostri 65

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tempi: crisi che, al contrario, è per sua natura collettiva. Le politiche alimentari di stampo localista, così come il valore sia morale che economico assegnato al cibo locale, sono dopotutto un esempio di etica ambientale personalizzata: vi troviamo argomentazioni di stampo ambientalista (la riduzione del consumo energetico derivata da cibi che non hanno bisogno di trasporti, per esempio) combinate con discriminazioni di classe (come tutto il marketing che punta a rendere il cibo biologico un mezzo di identificazione sociale). Anche qui, problemi complessi vengono ridotti a formule brevi e mal articolate. Per esempio: l’idea che per ridurre le emissioni di anidride carbonica si debba tenere conto del numero di chilometri percorsi dal cibo è all’apparenza ragionevole. Il problema è che non può essere la sola coordinata di un agire etico: nel 2005, una relazione del Dipartimento dell’Agricoltura del Regno Unito ha rivelato che – per quanto il trasporto dei cibi produca effettivamente un impatto ambientale considerevole – un singolo indicatore basato sulla quantità di chilometri percorsi non è un criterio di sostenibilità adeguato.79 È anzi interessante notare come il principio del chilometraggio enfatizzi un aspetto della produzione alimentare che contribuisce piuttosto poco all’emissione totale di anidride carbonica: quando si parte dal «piccolo è bello» diventa facile ignorare come i costi energetici derivanti dalla produzione di cibo locale possono a volte eccedere i costi totali del trasporto di alimenti provenienti da regioni climaticamente più adatte.80 Concentrarsi unicamente sul numero di chilometri percorsi, è fuorviante persino per una corretta valutazione dei costi di trasporto; prendiamo per esempio il trasporto aereo: se parliamo di cibo, copre una porzione relativamente piccola del totale dei chilometri percorsi, ma costituisce una fetta sproporzionatamente grande delle emissioni di anidride carbonica.81 Il consumo energetico che sta dietro il cibo che mettiamo in tavola è importante, ma non può limitarsi a un parametro tanto semplicistico come il numero di chilo66

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metri o l’idea che «locale è meglio»: le tecniche con cui viene prodotto il cibo locale, se inefficienti, possono essere ben più dispendiose di quei prodotti coltivati in maniera efficiente altrove nel pianeta. La vera questione è un’altra: quali priorità diamo al cibo che produciamo? Come viene controllata questa catena produttiva? Chi consuma il cibo, e a quale prezzo? Le politiche alimentari di impostazione localista provano a risolvere questioni complesse appiattendole su una semplice logica binaria: globale, cattivo; locale, buono. Ma le questioni complesse non possono essere ridotte a metodi tanto semplicistici: serve semmai un’analisi che prenda in considerazione l’intero sistema alimentare globale, piuttosto che formule intuitive tarate sui chilometri o sulla contrapposizione tra cibo «biologico» e «non biologico». È anzi assai probabile che il metodo ideale per una produzione alimentare su scala mondiale sarà un insieme complesso di iniziative locali, pratiche per la coltivazione industriale, e sistemi di distribuzione globale. Ed è altresì probabile che un’analisi in grado di suggerire quali sono i metodi migliori per coltivare e distribuire il cibo non sia formulabile da un singolo individuo, ma richieda al contrario profonde conoscenze tecniche, sforzi collettivi e coordinazione globale. Nulla di tutto questo può arrivare da una cultura il cui unico valore è «locale sì, globale no». ECONOMIE LOCALI Il localismo, in tutte le sue forme, rappresenta un tentativo di sfuggire ai problemi e alle politiche di scala che sono il cuore di sistemi estesi come l’economia, la politica e l’ambiente: ma essendo i nostri problemi sempre più sistemici e globali, richiedono come tali risposte altrettanto sistemiche. Certamente l’iniziativa deve sempre prendere forma a livello locale, e in effetti diversi princìpi localisti – a partire dalla capacità di adattarsi in maniera elastica alle situazioni – rimangono senza dubbio utili. Ma quando sconfina nell’ideologia, il localismo si spinge al punto di rifiutare qualsiasi 67

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analisi sistemica capace di guidare e coordinare le diverse iniziative locali, rinunciando così a frenare e potenzialmente rimpiazzare le forze oppressive del potere globale ed evitando di affrontare la minacce che incombono sul pianeta. L’incapacità localista di affrontare le complesse questioni globali emerge con estrema chiarezza se si guarda al mondo del commercio, delle banche e dell’economia: in seguito alla crisi finanziaria del 2008, a sinistra si sono sviluppate varie scuole impegnate a immaginare una riforma dei nostri sistemi economici e monetari. Anche se alcune di queste teorie si sono rivelate utili, una fetta importante si è concentrata sull’idea di trasformare i sistemi economici attraverso processi di localizzazione: l’idea insomma è che il principale problema del mondo degli affari non sia tanto la sua natura intrinsecamente sfruttatrice, quanto la dimensione delle imprese. Detta altrimenti, commerci ridotti e banche più piccole rifletterebbero meglio le necessità delle comunità locali. Campagne recenti ed estremamente popolari come Move Your Money hanno molto insistito sull’idea che, se la colpa della crisi finanziaria è delle banche, i risparmiatori farebbero meglio a spostare i propri soldi verso istituzioni più piccole e virtuose. Simili campagne di consumismo etico alimentano l’idea di un intervento diretto ed efficace attraverso una narrazione che, dopo aver individuato il problema, propone soluzioni semplici e senza troppi sforzi. Come nel caso di molta folk politics, sono campagne che danno effettivamente l’impressione di muovere qualcosa: essendo le grandi banche i cattivi di turno, i singoli individui possono conseguire risultati significativi semplicemente spostando i propri risparmi verso piccole banche del posto e crediti cooperativi. Ma questo modello ignora completamente le complesse astrazioni attorno a cui ruota il sistema bancario moderno: il denaro circola in maniera istantanea su scala globale, immediatamente interconnesso con tutti gli altri mercati. Ogni volta che una piccola banca o credito cooperativo ha più denaro depositato 68

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di quello che riesce a reinvestire localmente, inevitabilmente reinvestirà sul mercato finanziario globale. Un’analisi dei conti di alcune piccole banche statunitensi rivela che queste contribuiscono ai mercati finanziari globali tanto quanto qualsiasi altro istituto: investono in obbligazioni sia del Tesoro che private, e i loro prestiti non sono tanto diversi o meno devastanti di quelli delle grandi banche.82 Movimenti come Move Your Money sono chiaramente una misura riformista, ma potrebbero quantomeno incentivare una trasformazione del sistema bancario statunitense: sfortunatamente, ancora a settembre 2013, il patrimonio totale delle sei maggiori banche americane era aumentato del 37 percento dall’inizio della crisi finanziaria. Con il 67 percento dell’intero patrimonio bancario americano, le grandi banche statunitensi sono oggi, da qualsiasi punto di vista, ancora più grandi di quanto lo fossero all’inizio della crisi.83 Anche se in tutto il mondo sono stati compiuti molti sforzi legislativi per cercare di porre un limite alle attività che sono state causa della crisi (imponendo analisi di bilancio e stress test a cadenza regolare per evitare nuovi piani di bailout), continuano a essere erogati prestiti ad alto rischio,84 così come restano numerosi gli strumenti derivati che pure si sono già dimostrati tanto pericolosi.85 Se gli sforzi localisti di contenere la dimensione delle banche più grandi appaiono destinati al fallimento, che giudizio si può dare di quelle campagne alternative che aspirano a replicare il tipico modello di banca locale comune in tanti paesi europei? Solo in Germania il 70 percento del sistema bancario consiste in piccole banche o crediti comunitari.86 Secondo i loro sostenitori, le banche territoriali tedesche e svizzere condividono il rischio e sono di proprietà partecipata, vantano un alto livello di autonomia e una conoscenza intima delle realtà locali, e proprio per questo sono passate relativamente indenni attraverso la crisi finanziaria;87 è stato anche ripetuto che istituti di questo tipo sarebbero più propensi 69

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a erogare prestiti alle piccole imprese rispetto alle grandi istituzioni più comuni nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Ci sono senz’altro dei vantaggi in alcuni modelli di sistema bancario locale, ma la loro stabilità è spesso sovrastimata. Per esempio, nonostante siano profondamente radicate nel territorio e controllate dalla comunità, negli anni Duemila le banche comunitarie spagnole (le cajas) si sono assunte grossi rischi sia sul mercato immobiliare che in altri investimenti speculativi, cosa che ha comportato la necessità di profonde ristrutturazioni dopo la crisi del 2008. Anche se il controllo di questi istituti è nominalmente assegnato a un consiglio direttivo con rappresentanza della comunità, le decisioni di investimento sono state prese senza grandi controlli. Nel caso spagnolo, la natura locale degli istituti di credito ha portato a una politicizzazione di consigli direttivi che sulla carta sarebbero dovuti rimanere neutrali, con l’effetto innanzitutto di trasformare alcune di queste cajas in piattaforme per l’investimento, da parte dei governi locali, in piani speculativi per l’acquisizione di immobili, e poi di far proliferare il clientelismo.88 Visto che in Spagna la crisi bancaria ha colpito in modo peggiore proprio le banche locali, la ristrutturazione che ne è seguita ha determinato la fusione dei piccoli istituti con banche più grandi. Gli istituti locali hanno incontrato problemi persino in Germania, un paese il cui sistema bancario viene spesso indicato come il migliore al mondo: le Landesbanken hanno per esempio investito grandi somme in prodotti strutturati che a loro volta hanno profondamente risentito della crisi finanziaria.89 La morale di questi esempi è che nella natura dei piccoli istituti di credito non c’è niente che possa metterli al riparo dai peggiori eccessi della finanza contemporanea, e che l’idea di una netta separazione tra il locale e il globale è oggi impossibile. Le influenze politiche, la necessità di cercare investimenti proficui al di fuori della propria area locale, e più semplicemente i maggiori guadagni promessi da investi70

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menti ad alto rischio, sono tutti fattori che portano le banche locali a partecipare anch’esse al sistema finanziario globale. Nemmeno la proprietà comune è garanzia di correttezza: lo dimostrano le disavventure della britannica Co-operative Bank, che è andata vicino al fallimento per via della sconsiderata acquisizione di una società immobiliare nel 2009.90 I problemi sistemici del mondo finanziario possono essere risolti solo smantellandone il potere, e questo è un risultato che si può ottenere o tramite appositi progetti legislativi (come per breve tempo avvenne nel dopoguerra, ai tempi delle politiche keynesiane) o tramite metodi rivoluzionari. Feticizzare tutto quel che è piccolo e locale è semplicemente un modo per ignorare quegli strumenti, ben più incisivi, che davvero potrebbero cambiare e migliorare il sistema. LA RESISTENZA È INUTILE Se un chiaro sentimento pro-folk politics si è manifestato tanto nei movimenti orizzontalisti più radicali quanto nei più moderati movimenti localisti, le stesse intuizioni di fondo animano anche vasti settori della sinistra contemporanea. Tutti questi gruppi condividono una serie di assiomi: il piccolo è bello, il locale è etico, il semplice è meglio, la permanenza è oppressiva, il progresso è finito. Simili valori vengono preferiti alla costruzione di qualsiasi progetto controegemonico che aspiri a una politica in grado di fronteggiare il potere capitalista su larga scala. Di fatto, la maggior parte della folk politics contemporanea esprime «un profondo pessimismo: dà per scontato che il cambiamento sociale e collettivo su larga scala sia impossibile».91 È un atteggiamento disfattista tristemente diffuso nella sinistra contemporanea, e forse anche per buoni motivi, almeno considerate le ripetute sconfitte subite negli ultimi trent’anni. Per i partiti di centrosinistra il massimo a cui si può aspirare è la nostalgia per i bei tempi andati, e il massimo della radicalità è il vecchio sogno socialdemocratico, quando non 71

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il vagheggiamento di una sedicente «età dell’oro del capitalismo».92 Ma le condizioni che a suo tempo resero possibile la socialdemocrazia oggi non esistono più: la fantomatica età dell’oro del capitalismo si fondava sul paradigma di produzione della fabbrica pacificata, dove i lavoratori (bianchi, uomini) ricevevano sicurezza sociale e un tenore di vita basilare in cambio di noia sconfinata e repressione. Era un sistema che dipendeva a livello internazionale da una gerarchia di imperi, colonie e periferie sottosviluppate, a livello nazionale da una gerarchia razzista e sessista, e a livello familiare da un gerarchia molto rigida di assoggettamento delle donne. Inoltre, la socialdemocrazia poggiava su un peculiare equilibrio tra classi (e la disponibilità delle parti di scendere a compromessi) diventato possibile soltanto dopo le distruzioni senza precedenti causate dalla Grande Depressione e dalla Seconda Guerra Mondiale, e sotto la pressione della minaccia esterna rappresentata da comunismo e fascismo. Pur comprendendo la nostalgia che in troppi continuano a provare nei suoi confronti, quello socialdemocratico è un regime il cui ritorno non solo è impossibile, ma anche indesiderabile. Il nodo centrale insomma è che, se pure potessimo tornare alla socialdemocrazia, dovremmo comunque evitarlo: possiamo fare di meglio, e l’adesione all’ideologia del lavoro e della crescita implica che qualsiasi modello socialdemocratico sarà sempre e inevitabilmente dalla parte del capitalismo anziché delle persone. Piuttosto che modellare il nostro futuro sulla falsariga di un passato che non esiste più, dovremmo puntare alla realizzazione di un futuro che ci appartenga davvero: il superamento dei limiti del presente non può compiersi tornando a un capitalismo più umano e ricostruito seguendo le linee guida dei tanto anelati bei tempi di una volta. Se la nostalgia di un passato ormai perduto è una risposta chiaramente inadeguata, altrettanto lo è la diffusa celebrazione del concetto di «resistenza», che poi è sempre una resi72

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stenza ad altre forze dinamiche. Detta altrimenti, resistere non è un movimento attivo, ma un gesto reattivo e di difesa: non ci si oppone per un mondo in costruzione, ma in nome di un mondo già vecchio. L’attuale enfasi sul concetto di resistenza, nasconde una posizione implicitamente difensiva nei confronti degli sconfinamenti perpetrati dall’espansione capitalista. Prendiamo i sindacati: il loro modo di opporsi al neoliberismo lo ritroviamo in slogan come «salviamo la salute pubblica» o «fermiamo l’austerity»; sono cioè richieste che, già nel senso del movimento, rivelano un atteggiamento conservatore. Stando a rivendicazioni del genere, il risultato migliore in cui sperare consiste nel piazzare piccoli ostacoli sulla strada del capitalismo più predatorio: il massimo a cui possiamo ambire è conservare quello che abbiamo già, per quanto poco esso sia. Persino le cosiddette grandi conquiste della sinistra latinoamericana si sono concentrate perlopiù attorno ai tentativi di frenare l’attività delle grandi corporation transnazionali, specie quelle minerarie.93 In molti ambienti, l’idea di resistenza viene oggi celebrata amplificandone la retorica del gesto radicale, ma oscurandone la natura essenzialmente conservatrice: tutto quello che resta è resistere, mentre i progetti più concreti vengono considerati nient’altro che fantasie.94 Se, in determinate circostanze, resistere è senza dubbio una risorsa preziosa, quando si tratta di costruire un nuovo mondo la resistenza è inutile. Altri movimenti propongono un atteggiamento di rinuncia e ritiro cosicché l’individuo possa finalmente astrarsi dall’ordinamento sociale esistente. L’orizzontalismo in particolare è profondamente legato a questo criterio tutto basato sul ripudio delle istituzioni e la creazione di forme di comunità autonome, e in effetti la storia recente dei movimenti di lotta ha teso verso approcci di questo tipo:95 sono approcci che nascono spesso in esplicita opposizione alle società complesse, e quindi l’esito implicito è una qualche forma di comunitarismo o anarco-primitivismo.96 Altri ancora 73

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suggeriscono forme di invisibilità per evitare di essere individuati e repressi dallo Stato.97 All’estremo, alcuni arrivano a proporre una specie di survivalismo di sinistra: se il progresso è una catastrofe98 allora non resta che eclissarci,99 ritirarci in comunità ristrette100 e imparare a coltivare ortaggi, a cacciare, a difenderci, a curarci da soli.101 Se si trattasse null’altro che di pura sopravvivenza, queste posizioni suonerebbero almeno coerenti (anche se poco attraenti): quantomeno, avrebbero la virtù di dichiarare onestamente quali sono le loro implicazioni. Ma le posizioni che predicano il ritiro e la fuga, troppo facilmente confondono l’idea di una logica sociale separata dal capitalismo con una che sia antagonista al capitalismo stesso (o se volessimo metterla in maniera più diretta, che rappresenti una minaccia per logiche del capitalismo).102 Certo è che il capitalismo è stato e continuerà a essere compatibile con una grande varietà di pratiche e spazi di autonomia. Il paese spagnolo di Marinaleda ne è un ottimo esempio: nel corso di tre decenni, questa piccola comunità (2700 abitanti) ha costituito un’«utopia comunista» che ha espropriato terreni, costruito case e cooperative, mantenuto bassi i costi di vita e dato lavoro a tutti. Ma i limiti di questo approccio alla trasformazione del capitalismo sono emersi in fretta: i materiali per la costruzione delle case sono stati forniti dal governo regionale e i sussidi per l’agricoltura dall’Unione Europea, i posti di lavoro vengono sostenuti dal rifiuto di utilizzare macchinari, i guadagni provengono ancora dalla vendita dei beni sul mercato globale, e il commercio rimane soggetto alla competizione capitalista nonché alla crisi finanziaria.103 Marinaleda è solo un esempio di come il progetto di ritirarsi, fuggire o uscire dal capitalismo è ancora interno all’orizzonte proprio della folk politics, secondo cui la difesa di piccoli fortini di autonomia resta il meglio a cui si possa ambire. Noi invece sosteniamo che non solo si può sperare (e ottenere) di più, ma che in assenza di un confronto 74

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più ampio e sistematico anche queste piccole oasi di resistenza rischiano di essere espugnate con fin troppa facilità. LA POLITICA È SEMPRE LOCALE? Orizzontalismo, localismo, nostalgia, resistenza e fuga sono tutti ideali che incarnano, ciascuno in modi diversi, i principi della folk politics. Sono senz’altro criteri che rimangono inadeguati al compito di trasformare il capitalismo, ma questo non significa che vadano del tutto rigettati: come anzi chiariremo nel resto di questo libro, all’interno di questi metodi sopravvivono numerosi elementi importanti e che andrebbero conservati. Piuttosto che essere intrinsecamente dannosa, la folk politics andrebbe semplicemente considerata parziale, temporanea e insufficiente: diversi approcci orizzontalisti, pur senza fornire risposte adeguate, hanno comunque sollevato questioni decisive riguardanti il potere, l’autorità e la gerarchia. Quello che la folk politics produce è piuttosto la tendenza a tirarsi indietro dinanzi alle difficoltà che determinati problemi sollevano; ma in un mondo in cui potere, autorità, gerarchia e sfruttamento ci vengono regolarmente imposti, questi problemi vanno affrontati a viso aperto, non elusi.104 Allo stesso modo è vero che, semplificando un po’, tutta la politica è locale: interveniamo su quanto ci è più prossimo al fine di cambiare strutture politiche più vaste, e quella locale è una dimensione che non possiamo semplicemente respingere. Ma le tendenze attualmente influenzate dalla folk politics si irrigidiscono nel sicuro rifugio localista per evitare i problemi di una società astratta e complessa, rivendicano per il locale autenticità e naturalezza, rifiutano di prendere in considerazione pratiche sostenibili e scalabili. Tutta la politica inizia dal locale, certo: ma la folk politics rimane nel locale. In fin dei conti, una parte significativa del problema della folk politics risiede non tanto nelle tattiche e nelle le pratiche a cui tende a aderire, quanto nella sua visione strategica complessiva. Proteste, cortei, occupazioni, sit-in e scioperi 75

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sono tutti strumenti fondamentali, e nessuno di questi è in sé esclusivo appannaggio della folk politics. È quando questi strumenti vengono indirizzati da una visione strategica che considera cambiamenti piccoli e temporanei come l’orizzonte ultimo del proprio successo, o quando vengono estrapolati dalle condizioni in grado di renderli efficaci, che finiscono per essere inquinati dal «folk-pensiero». Se per esempio le occupazioni restano semplicemente un modo per creare spazi temporanei ed esempi di relazioni sociali non-capitaliste, da queste non arriverà mai alcun cambiamento sostanziale. D’altra parte, se le occupazioni diventassero meccanismi per la produzione di network solidali – e per la mobilitazione di questi verso nuove forme di intervento – allora avrebbero un effettivo ruolo nel contesto di più ambiziose strategie contro-egemoniche. Quello che manca alla sinistra di oggi è proprio una riflessione strategica sui limiti e i vantaggi delle misure a cui ricorre. Le tante proteste, le manifestazioni e le occupazioni che ancora vengono organizzate, operano generalmente senza alcun senso della strategia e restano tuttalpiù episodi di resistenza isolati e dispersi. Difficilmente si considera quanto azioni del genere possano essere tra loro combinate, e come potrebbero funzionare assieme per la costruzione collettiva di un mondo migliore: a rimanere sono soltanto gesti che a volte hanno successo e a volte no, ma che non hanno quasi mai cognizione di come possano contribuire a obiettivi di più ampio respiro.105 Nel prossimo capitolo vedremo quindi come proprio una riflessione strategica di questo tipo abbia permesso alle destre di orchestrare quella situazione che, in ultima analisi, ha permesso al neoliberismo di diventare il senso comune dominante dei nostri tempi.

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Capitolo 3 PERCHÉ STANNO VINCENDO LORO? LA COSTRUZIONE DELL’EGEMONIA NEOLIBERALE Oggi siamo tutti keynesiani. Milton Friedman

Se c’è un’ideologia che domina la nostra era, questa è il neoliberismo. Oggi viene data per scontata l’idea che il modo più efficiente per produrre e distribuire beni e servizi sia il libero scambio sul mercato tra individui guidati soltanto dalla ragione strumentale; d’altra parte, regolamentazioni statali e imprese nazionalizzate vengono interpretate come distorsioni che rallentano le efficienti dinamiche proprie del mercato stesso. Questa concezione del corretto funzionamento di un’economia è un punto di partenza comune sia ai critici che ai sostenitori del neoliberismo: semplicemente, il pensiero neoliberale è riuscito a stabilire cosa a questo punto dobbiamo considerare realistico, necessario e possibile. E nonostante la crisi del 2008 abbia parzialmente messo in discussione la cieca fiducia di cui il neoliberismo godeva, questo è comunque rimasto parte della nostra visione del mondo condivisa: una visione talmente radicata che persino i suoi critici fanno fatica a immaginare alternative coerenti. La cosa interessante è che questa ideologia non è emersa già compiuta direttamente dalla testa di Milton Friedman, di Friedrich Hayek o della Scuola di Chicago, né la sua egemonia globale è mai stata l’inevitabile conseguenza delle logiche interne del capitalismo. All’inizio, il neoliberismo era al contrario considerato un’ideologia marginale: i suoi adepti incontrarono difficoltà a trovare lavoro, rimasero spesso senza una cattedra universitaria e furono ripetutamente ridicolizzati dal mainstream keynesiano.1 Ai tempi, il neoliberismo era ben lontano dall’essere quell’ideologia dominante a livello mondiale che sarebbe diventato poi. La domanda a cui 79

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questo capitolo vuole rispondere è: come è possibile che un piccolo gruppo di pensatori sia riuscito a cambiare il mondo in maniera così radicale? Il neoliberismo non è mai stato un fenomeno scontato, né ha mai rappresentato il naturale punto di arrivo dell’accumulazione capitalista. Piuttosto, è stato fin dall’inizio un progetto politico vero e proprio, capace di riscuotere nel tempo un immenso successo grazie all’abile costruzione di un’ideologia – e di un’infrastruttura capace di supportarla – molto diversa dai meccanismi «folk». Questo capitolo si concentra insomma su come il neoliberismo sia un’ideologia universale e di ampio respiro: partendo da umili origini, la sua logica universalista ne ha reso possibile la diffusione in tutto il mondo, permettendo alla dottrina neoliberale di infiltrare allo stesso modo i media e le università, il mondo della politica e quello dell’educazione, la sfera del lavoro ma anche quella delle emozioni, dei sentimenti e della stessa identità delle persone. Piuttosto che concentrarci su un’analisi di quali sono gli specifici contenuti del pensiero neoliberale, ci interrogheremo quindi su cosa abbia reso possibile la sua egemonia. Quello che è particolarmente interessante, è come sia riuscito a trasformare in profondità il tessuto ideologico e materiale della società nel suo complesso: le classiche ricostruzioni storiche tendono a tralasciare come i principali ingredienti dell’architettura ideologica neoliberale furono in maniera sistematica e attenta costruiti già nei decenni precedenti agli anni Settanta,2 ed è proprio in questa sua preistoria che possiamo comprendere come il neoliberismo rappresenti una modalità politica capace di superare proprio i limiti della folk politics. Questo ovviamente non significa che tale preistoria debba essere presa a modello o addirittura replicata da qualsivoglia politica di sinistra: semmai, rappresenta un interessante esempio di come la destra sia stata capace di muoversi oltre la folk politics per dare forma a una nuova egemonia. La storia del neoliberismo è una storia di contingenze, battaglie, 80

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azioni mirate, molta pazienza e pensiero strategico di ampio respiro: è un’ideologia da sempre flessibile, che si è concretizzata in maniere diverse a seconda delle specifiche circostanze incontrate sul proprio cammino, dalla Germania degli anni Quaranta al Cile degli anni Settanta, dal Regno Unito degli anni Ottanta fino all’Iraq degli anni 2000 e del dopo Saddam Hussein. Tanta versatilità ha reso il neoliberismo un progetto alle volte contraddittorio, ma gli ha anche permesso di avere successo proprio perché queste contraddizioni sono state trasformate in tensioni produttive.3 Queste tensioni e contraddizioni hanno portato alcuni a credere che il termine «neoliberismo» non abbia nessun significato, o che al limite sia poco più che un epiteto polemico; ma il termine – benché venga spesso usato in modo vago – ha un significato molto preciso. Nella percezione popolare, il neoliberismo è genericamente identificato come una celebrazione del libero mercato, un’impostazione che come corollario prevede la difesa a oltranza del libero scambio, dei diritti di proprietà e del libero movimento dei capitali: ma definire il neoliberismo come culto del libero mercato è difficile, se non altro perché molti paesi nominalmente neoliberali non adottano affatto una simile politica economica. Altri notano come il neoliberismo tenda a instillare, ovunque possibile, uno spirito di competizione:4 questo spiegherebbe l’enfasi sulla privatizzazione, ma ignora il fatto che, all’interno dello stesso pensiero neoliberale, vi sia un dibattito proprio su quanto considerare la competizione un fine ultimo o meno.5 Alcuni partono proprio da queste tensioni interne e identificano il neoliberismo con un progetto politico – piuttosto che economico – messo in atto da una specifica classe sociale;6 nell’affermazione c’è senz’altro del vero, ma se presa troppo alla lettera non è in grado di spiegare perché l’ideologia neoliberale sia stata rifiutata per tanto tempo proprio da quelle classi capitaliste che pure avrebbero dovuto avvantaggiarsene. 81

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A differenza dell’opinione comune, la nostra tesi è che il neoliberismo differisce dal liberalismo classico proprio nell’importante ruolo che attribuisce allo Stato.7 In effetti, un compito fondamentale del neoliberismo è stato quello di acquisire il controllo dell’apparato statale al fine di utilizzarlo per il conseguimento dei propri obiettivi;8 mentre cioè il liberalismo classico si erge a favore di una sfera naturale che esula dal controllo statale (le leggi naturali dell’uomo e del mercato), i neoliberali capiscono che di «naturale» i mercati hanno poco o nulla.9 Detta in altri termini, i mercati non emergono spontaneamente nello spazio lasciato libero dallo Stato, ma devono essere costruiti scientemente, a volte partendo da zero.10 Per esempio, per il neoliberismo non c’è nessun mercato naturale per i beni comuni (acqua, aria fresca, terra), per l’assistenza sanitaria o per l’istruzione:11 questi mercati (così come altri) devono quindi essere fabbricati tramite un elaborato sistema di costrutti materiali, tecnici e legali. Ci sono voluti anni prima che i mercati energetici prendessero forma; i mercati volatili esistono in gran parte solo in funzione di modelli finanziari astratti;12 persino i mercati più elementari richiedono architetture intricatissime per poter funzionare correttamente.13 Sotto il dominio del neoliberismo, nella creazione dei mercati «naturali» un ruolo fondamentale è giocato proprio dallo Stato: il neoliberismo esige cioè che sia lo Stato a difendere i diritti di proprietà privata, che sempre lo Stato faccia rispettare i contratti, che imponga una legislazione antitrust, che reprima il dissenso sociale, e che mantenga sempre e comunque la stabilità dei prezzi. Quest’ultimo ruolo in particolare si è fatto sempre più urgente dopo la crisi del 2008, fino ad assumere la forma di un completo controllo della produzione del denaro tramite le banche centrali. Sarebbe quindi sbagliato credere che l’obiettivo dello Stato neoliberale sia semplicemente tirarsi indietro e non interferire coi mercati: gli interventi senza precedenti delle banche centrali sui mercati finanziari non sono sintomi 82

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del collasso dello Stato neoliberale ma, al contrario, gli effetti prodotti dalla sua funzione centrale: creare e sostenere i mercati a tutti i costi.14 Dalle sue origini fino ai nostri giorni, il neoliberismo ha compiuto un lungo e difficile cammino: ma al giorno d’oggi i suoi principi esercitano una potente influenza su tutti quelli che versano sul mercato centinaia di miliardi di dollari ogni anno. LA STRADA PER MONT PELERIN Il neoliberismo ha origini disparate, sia in termini geografici che intellettuali. Nel Novecento, elementi di quello che sarebbe poi diventato il progetto neoliberale possono essere già individuati nella Vienna degli anni Venti, oltre che tra Chicago e Londra negli anni Trenta e in Germania tra gli anni Trenta e Quaranta. Nel corso di questi decenni, in diverse nazioni sorsero movimenti che lavorarono ai margini dell’accademia per la preservazione degli ideali liberali, ma fu solo nel 1938 che le diverse correnti si riunirono nella prima organizzazione transnazionale, a seguito del convegno Walter Lippmann tenutosi a Parigi appena prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. All’evento parteciparono per la prima volta sia teorici del liberalismo classico che i nuovi ordoliberisti tedeschi, i liberali britannici della London School of Economics e gli economisti austriaci Friedrich Hayek e Ludwig von Mises. L’incontro si concentrò sulla storia del declino del liberalismo classico sotto le pressioni dell’emergente pensiero collettivista, e fu proprio in questo contesto che furono mossi i primi passi per la formazione di un nuovo gruppo di pensatori liberali. Dall’appuntamento parigino nacque infatti una nuova organizzazione – il Centre International d’Études pour la Rénovation du Libéralisme – con l’obiettivo esplicito di sviluppare e diffondere una nuova forma di liberalismo. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale mise fine alle ambizioni dell’organizzazione, ma i suoi membri continuarono a lavorare assieme nell’elaborazione 83

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di un neoliberismo: furono così piantati i semi della nuova infrastruttura neoliberale. Grazie a un’intuizione di Hayek, questa infrastruttura venne poi trasformata in un «collettivo di pensiero neoliberale» che inaugurò la lenta ascesa egemonica del neoliberismo stesso.15 Dal momento che il convegno Walter Lippmann venne spazzato via dalle vicende belliche, l’infrastruttura del nascente movimento dovette essere ricostruita e, nel 1945, un incontro fortuito con un uomo di affari svizzero diede a Hayek la possibilità economica di mettere in pratica le sue idee.16 Nacque così la Mont Pelerin Society (MPS): un gruppo chiuso di intellettuali che costituì l’architettura ideologica di base affinché il neoliberismo prosperasse.17 Non è esagerato affermare che quasi tutte le figure più importanti che nel dopoguerra giocarono un ruolo nella creazione del neoliberismo erano già presenti al primo incontro che la MPS tenne nel 1947: tra questi c’erano ancora una volta gli economisti austriaci, i liberali britannici, gli esponenti della scuola di Chicago, gli ordoliberisti tedeschi e un contingente francese.18 Fin dall’inizio la MPS si concentrò su come modificare il senso comune politico per sviluppare un’utopia liberale.19 Era anche ben cosciente che la sua cornice intellettuale aveva bisogno di essere diffusa attraverso una rete di think tank, documenti politici e report universitari, nella speranza di istituzionalizzare – e monopolizzare – il terreno dell’ideologia.20 In una lettera scritta agli invitati Hayek spiegò che l’obiettivo della MPS era quello di «arruolare le menti più brillanti al fine di formulare un programma che abbia la possibilità di ottenere un ampio sostegno. Il nostro sforzo dunque è diverso da un qualsiasi incarico politico, dal momento che si tratta di un progetto a lungo termine, mirato non tanto a ciò che è possibile mettere immediatamente in pratica, ma ad articolare quelle convinzioni che devono diventare popolari affinché i pericoli che al momento minacciano la libertà individuale possano essere evitati».21 La MPS si impegnò quindi 84

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a «combattere una lunga guerra di posizione nella “battaglia delle idee”… Un processo decisionale privatizzato, strategico, e di élite fu dunque adottato come suo modus operandi».22 Aprendo i dieci giorni di lavoro, Hayek portò una diagnosi del problema che i nuovi liberali avrebbero dovuto affrontare: la mancanza di alternative all’ordine esistente (quello keynesiano). Hayek evidenziò la mancanza di una «filosofia coerente per i gruppi di opposizione» e di un «vero programma» per il cambiamento.23 Sulla base di questa diagnosi, Hayek stabilì che l’obiettivo principale della MPS sarebbe dovuto essere quello di modificare l’opinione delle élite, e da lì stabilire i parametri fondamentali per poter plasmare l’opinione pubblica. Contrariamente a quanto si tende a credere, all’inizio i capitalisti non intravidero nel neoliberismo una proposta invitante; tra le missioni principali della MPS ci fu dunque quella di convincerli che le idee neoliberali facevano al caso loro.24 Per conseguire l’obiettivo si scelse di operare attraverso le intangibili strutture di quel senso comune politico che derivava dalle idee circolanti tra i gruppi di élite. Insomma, fin dall’inizio la MPS rigettò qualsiasi tentazione folk politics lavorando nel contesto di un orizzonte globale, in modo astratto (ovvero fuori dai parametri delle possibilità esistenti) e formulando una chiara mappa strategica del terreno che andava occupato – l’opinione delle élite – in modo da cambiare il senso comune politico. Tali obiettivi erano motivati da una concezione coerente ma flessibile di cosa in effetti ci fosse di nuovo in questo neoliberismo. Emersero anche delle divergenze, in particolare riguardo al ruolo che lo Stato avrebbe dovuto giocare per mantenere un ordine competitivo: c’era chi sosteneva che l’intervento statale era necessario per garantire la competizione sul mercato, e chi in qualsiasi tipo di intervento vedeva il rischio di monopoli e processi di centralizzazione.25 Anche la scelta di quali specifiche politiche adottare provocò discussioni, altro segnale di quanto il gruppo fosse lontano 85

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dall’essere omogeneo e univoco al suo interno. In un certo senso, l’elemento comune era semplicemente il network sociale in quanto tale, assieme all’obiettivo generico di immaginare un nuovo liberalismo.26 Ma proprio le differenze interne permisero al neoliberismo di crescere e di mutare mentre si diffondeva su e giù per il globo, dandogli quella forza egemonica che lo caratterizzò ogni qual volta dovette adattarsi alle particolarità dei singoli spazi.27 Fu anzi proprio la flessibilità ideologica che permise al neoliberismo di eccellere nello svolgimento della sua missione egemonica: incorporare diversi gruppi sociali all’interno di un consenso condiviso.28 I dibattiti interni coinvolsero anche le questioni strategiche: diversi membri e sostenitori della MPS tradivano poca pazienza per l’approccio a lungo termine di Hayek, e spingevano per cominciare da subito a produrre pubblicazioni e libri in grado di influenzare il pubblico.29 Ma Hayek era cosciente del fatto che, in pieno dominio keynesiano e con una crescita economica stabile e un basso tasso di disoccupazione, era difficile convincere l’opinione pubblica della necessità di modificare le politiche economiche in vigore. Le posizioni di Hayek finirono comunque con il prevalere, e la strategia della MPS adottò quindi una prospettiva consapevolmente a lungo termine. Al di fuori degli incontri veri e propri, i vari network orbitanti attorno alla Società iniziarono attivamente a costruire un’infrastruttura transnazionale per diffondere la nuova ideologia: perlomeno sin dalla metà degli anni Quaranta, Hayek aveva previsto la costruzione di una serie di think tank per propagandare gli ideali neoliberali e allo stesso tempo collocare membri della MPS in posizioni governative, una mossa che finì col produrre tre capi di Stato e un gran numero di ministri.30 Negli anni Cinquanta, in particolare, si assistette a una proliferazione di think tank affiliati alla Società, che riuscirono nell’impresa di diffondere gli ideali neoliberali all’interno dei circoli della politica oltre che dell’accademia. Nel Regno Unito, gli obiettivi della MPS furono perseguiti 86

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da un network di think tank assieme a organizzazioni come l’Institute of Economic Affairs, l’Adam Smith Institute, il Centre for Policy Studies e altri gruppi minori; diversi membri della MPS finirono con l’entrare nel mondo politico statunitense, prima tramite think tank come l’American Enterprise Institute, e poi attraverso posizioni più istituzionali (per esempio, Milton Friedman fu consigliere economico di Barry Goldwater durante la sua campagna presidenziale). Il luogo in cui il neoliberismo riscosse il primo notevole successo politico oltre che organizzativo, fu però un altro: la Germania. PRIMI PASSI All’indomani della Seconda Guerra Mondiale il mondo era pronto a grossi cambiamenti nel campo delle idee economiche. La Germania dovette affrontare le difficoltà più grandi, derivanti sia dal ben noto problema dell’iperinflazione nella Repubblica di Weimar che dai difficili sforzi di ricostruzione. Mentre la maggior parte degli altri paesi si affidava alle politiche keynesiane, la Germania prese una strada diversa, guidata da pensatori neoliberali che già avevano partecipato al convegno Lippmann. Considerato il totale collasso dello Stato tedesco, il problema che questi pianificatori dovettero affrontare fu quello di come ricostruire la macchina statale, e in particolare come attribuirle legittimità senza già disporre di un’infrastruttura funzionante. La risposta arrivò dagli ideali cari ai primi ordoliberisti: creare uno spazio di libertà economica. Questo generò a sua volta una rete di connessioni tra individui, che riuscì a conferire legittimità al nuovo Stato tedesco: era una legittimità che veniva da un’economia in buona salute31 più che uno status di tipo legale, e che sarebbe stata presa come spunto per i primi esperimenti di neoliberalismo di regolamentazione. Dopo la guerra, gli ordoliberisti tedeschi iniziarono a ottenere posizioni di governo e ad applicare le loro idee, creando una struttura materiale e istituzionale in grado di condizionare 87

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l’ideologia economica del paese. Il primo di questi incarichi (nonché quello storicamente più significativo) fu quello di Ludwig Erhard al direttorato per l’economia nella zona amministrata dalle forze militari britanniche e statunitensi. Con l’aiuto di un altro ordoliberista, Wilhelm Röpke, Erhard eliminò in un colpo solo tutti i controlli sui prezzi e sui salari, e tagliò drasticamente le tasse sui profitti e sui capitali: fu una mossa di deregolamentazione radicale che portò l’Unione Sovietica a imporre il blocco della città di Berlino, dando effettivamente inizio alla Guerra Fredda.32 Nei decenni che seguirono, gli ordoliberisti occuparono posizioni di sempre maggior prestigio all’interno del Ministero dell’Economia, e Erhard stesso divenne Cancelliere della Repubblica Federale nel 1963. Ma nonostante le intenzioni iniziali, agli ordoliberisti mancava una netta distinzione tra gli interventi del governo considerati legittimi e quelli illegittimi: da tale ambiguità derivò il mutamento dell’economia tedesca verso forme sempre più marcatamente keynesiane. Gli interventi per mantenere viva la competizione economica si trasformarono progressivamente in interventi per il welfare, e già nel 1970 la Germania era diventata uno Stato socialdemocratico a pieno titolo. Le difficoltà politiche non impedirono comunque al neoliberismo di produrre innovazioni in altri campi, in particolare in quello dei cosiddetti «mercanti di idee di seconda mano». RIVENDITORI DELL’USATO I neoliberali insistevano molto sull’importanza di combattere su più fronti per influenzare le élite e istituire un nuovo senso comune, e nel dopoguerra questo approccio si espanse alla sfera accademica, a quella dei media e a quella istituzionale. Uno dei metodi più innovativi per il consolidamento ideologico del neoliberismo fu il ricorso ai think tank; per quanto diffusi già da più di un secolo, l’uso che ne fece la MPS fu una novità assoluta: durante questi incontri venivano sviluppate idee e soluzioni per iniziative di tipo politico e venivano 88

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identificati i principali nemici in campo economico. Venne adottata una divisione del lavoro informale, con think tank che si concentravano su ragionamenti filosofici di ampio respiro (e con l’obiettivo di screditare i presupposti e le ragioni alle spalle dell’ortodossia keynesiana: questo per esempio fu negli anni Settanta il compito del Manhattan Institute for Policy Research, o MIPR), mentre altri elaboravano più immediate proposte in termini di legislazione pubblica; erano cioè progetti che tentavano esplicitamente di scardinare la visione del mondo dominante, in modo da poter poi introdurre nuove soluzioni ispirate da una visione nuova: quella neoliberale, appunto. Anthony Fisher fu una figura centrale nella costruzione dell’egemonia ideologica neoliberale.33 Tra i fondatori del primo think tank di tale segno nel Regno Unito – l’Institute of Economic Affairs (IEA) – Fisher sostenne apertamente che la parte difficile non stava tanto nella produzione di idee in grado di modificare l’opinione condivisa, quanto nella loro diffusione. Fedele a questa sua convinzione, Fisher ebbe un ruolo centrale nel fondare think tank conservatori non solo nel Regno Unito, ma anche in Canada (il Fraser Institute) e negli Stati Uniti (il già citato MIPR). Lo stesso IEA si concentrava su «quelli che Hayek chiamava “mercanti di idee di seconda mano”: i giornalisti, gli accademici, gli scrittori, i media e gli insegnanti che delineano il pensiero intellettuale a lungo termine di un’intera nazione».34 L’intenzione dichiarata era quella di intervenire sul tessuto intellettuale delle élite britanniche, infiltrandosi nel discorso pubblico e modificandone impercettibilmente i termini. Il progetto si estese anche alla missione dello stesso IEA, che pure continuava a fornire una descrizione fuorviante del proprio mandato e che si presentava – dissimulando scaltramente i propri veri obiettivi – come una generica organizzazione apolitica interessata alle ricerche sull’andamento dei mercati.35 In linea con questa visione di vero e proprio controllo ideologico, lo 89

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IEA produsse brevi pamphlet pensati per essere il più possibile accessibili al pubblico,36 scritti in uno stile semi-utopico e senza eccessiva enfasi su quali delle misure proposte erano effettivamente già applicabili.37 L’obiettivo, come sempre, era ridefinire la concezione di quanto si sarebbe potuto ottenere a lungo termine, tanto che nel corso dei decenni questi interventi furono in grado di sviluppare un’estesa visione neoliberale del mondo: piuttosto che dedicarsi alle risposte da dare ai singoli problemi considerati importanti sul momento, ciò che lo IEA e i gruppi a esso associati furono in grado di edificare fu una prospettiva economica sistematica e coerente.38 I think tank introdussero la loro concezione del mondo formando esponenti di diversi partiti politici, tanto che molti di quelli che fecero parte dell’amministrazione Thatcher erano passati per lo IEA negli anni Sessanta o Settanta.39 In questo modo, il risultato del lavoro dello IEA non fu soltanto la trasformazione del discorso economico nel Regno Unito, ma anche la naturalizzazione di due specifiche misure politiche: la necessità di attaccare il potere dei sindacati e l’imperativo di mantenere la stabilità monetaria; la prima per permettere ai mercati di adattarsi al variare delle circostanze economiche, la seconda per fornire un’essenziale stabilità dei prezzi, necessaria per il funzionamento di un’economia capitalista. Anche negli Stati Uniti vennero istituiti think tank e gruppi di ricerca universitari il cui scopo era premere per un programma neoliberale: basti pensare a casi come la Her­ itage Foundation e l’Hoover Institute;40 il MIPR operava con l’obiettivo di ridefinire il senso comune politico pubblicando libri di economia neoliberale indirizzati al grande pubblico, alcuni dei quali riuscirono a vendere fino a 500.000 copie. Testi, come Losing Ground di Charles Murray gettarono le fondamenta per una politica economica il cui principale problema da risolvere era non la povertà, ma la dipendenza nei confronti dello stato sociale. Da quella fabbrica di idee che era il MIPR arrivarono anche molte altre misure, come 90

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quelle che promuovevano l’uso indiscriminato delle forze di polizia e l’istituzione dei lavori socialmente utili. I libri prodotti dal MIPR ebbero un enorme successo nel cambiare il senso comune sia delle classi politiche che del pubblico, e la forma organizzativa del think tank fu parte così integrale del successo ideologico del neoliberismo che venne addirittura istituzionalizzata: la Atlas Economic Research Foundation, fondata nel 1981 da Fisher citava tra i suoi obiettivi dichiarati proprio quello di «istituzionalizzare l’aiuto per la creazione di nuovi think tank», e oggi Atlas vanta di aver facilitato la crea­ zione di più di 400 think tank neoliberali in più di ottanta paesi. L’enorme scala dell’infrastruttura ideologica neoliberale risulta qui fin troppo evidente. Assieme ai think tank, molti altri metodi vennero utilizzati al fine di costruire un discorso egemonico. Nel tentativo di promuovere come alternativa dominante la variante di neoliberismo tipica della Scuola di Chicago, Milton Friedman scrisse un gran numero di editoriali e articoli sui maggiori quotidiani, e sfruttò le opportunità che gli venivano dalle interviste televisive in un modo senza precedenti, almeno per un accademico; progetti finanziati dal mondo del business adattarono il suo lavoro in modo da presentarlo in popolari show televisivi, rivoluzionando il panorama dei media contemporanei.41 Le possibilità offerte dai nuovi mezzi di comunicazione furono essenziali nella diffusione della visione economica di Friedman, tra i politici come tra il pubblico: a questi sforzi contribuirono anche giornali come il Wall Street Journal, il Daily Telegraph e il Financial Times, influenzando l’opinione pubblica e invocando il ricorso a politiche neoliberali ogni volta che se ne presentava l’opportunità.42 Scuole di business e consulenti per il management iniziarono a adottare e diffonderne le idee sull’organizzazione societaria, e la Scuola di Chicago divenne un bastione globale del pensiero neoliberale.43 Queste istituzioni giocarono un ruolo cruciale nella diffusione dell’egemonia neoliberale, 91

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dal momento che istruirono gran parte dell’élite finanziaria e politica globale:44 in molti vennero a studiare nelle scuole neoliberali degli Stati Uniti, per poi ritornare nei loro paesi di origine portando con sé le idee che lì avevano appreso. All’inizio degli anni Settanta era insomma a pieno regime un’infrastruttura capillare il cui obiettivo era la promo­ zione degli ideali del neoliberismo: i think tank e i proclami utopici servivano a disegnare una prospettiva a lungo termine; i discorsi pubblici, i pamphlet e i media delinearono i precetti fondamentali del senso comune neoliberale, e figure istituzionali utilizzarono misure legislative per attuare interventi tattici sul terreno della politica.45 Eppure, nonostante il sempre maggior potenziale egemonico, appena dieci anni prima l’ascesa al potere di Ronald Reagan e Margaret Thatcher le idee keynesiane ancora guidavano l’organizzazione economica della maggior parte di Stati e mercati, mentre le proposte degli intellettuali neoliberali venivano ancora considerate come il ritorno (destinato al fallimento) a politiche già sperimentate prima della Grande Depressione. L’atteggiamento cambiò radicalmente negli anni Ottanta, ovvero il decennio che diede il colpo di grazia al sistema keynesiano e che instaurò il neoliberismo come il principale modello per la modernizzazione dell’economia. AFFERRARE IL VOLANTE Dopo i primi tentativi su scala nazionale, il neoliberismo guadagnò attenzione a livello internazionale negli anni Settanta proponendosi come soluzione all’alto tasso di disoccupa­ zione e alla crescita dell’inflazione, insomma ai problemi causati dalle fluttuazioni del prezzo del petrolio, dall’aumento dei prezzi dei beni di consumo e dei salari, e dall’espansione del credito. L’ortodossia keynesiana dominante in quel periodo prevedeva che i governi stimolassero l’economia immettendo denaro laddove la disoccupazione fosse alta, e ritirando denaro – per rallentare la crescita dei prezzi – laddove 92

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l’inflazione fosse troppo alta. Ma negli anni Settanta questi due problemi si presentarono simultaneamente, partorendo una tipica fase di stagflazione. E visto che i classici metodi keynesiani non riuscirono a risolvere la situazione, si aprì la porta a teorie alternative. È importante capire come, in questo momento storico, vi potevano essere diverse letture della crisi: che l’inflazione fosse causata dalla rigidità dei salari e dal potere dei sindacati non era l’unica possibile interpretazione, così come il neoliberismo non era l’unica possibile soluzione. Erano insomma possibili altre interpretazioni e altre risposte, ma ai tempi nessuno trovò alternative.46 La narrazione neoliberale sottovalutava per esempio il ruolo giocato dalla deregolamentazione bancaria promulgata dal Cancelliere dello Scacchiere britannico Anthony Braber nei primi anni Settanta, nonché il crollo degli accordi di Bretton Woods: queste deregolamentazioni produssero un’esplosione della base monetaria e di conseguenza l’inflazione dei prezzi nonché l’innalzamento dei salari.47 In altre parole, sarebbe possibile ricostruire una storia alternativa in cui il problema diventa non il potere dei sindacati, quanto la deregolamentazione finanziaria. La versione dei fatti neoliberale riuscì però a imporsi grazie all’infrastruttura ideologica che i suoi aderenti avevano costruito nei decenni precedenti agli anni Settanta. Gli intellettuali neoliberali si trovavano in effetti in un’ottima posizione, se non altro perché già da tempo andavano profetizzando che l’incapacità dello stato sociale di affrontare la rigidità di prezzi e salari avrebbe finito col produrre inflazione: avevano cioè sia una diagnosi del problema che una soluzione pronta. I funzionari governativi incerti su come risolvere la crisi si convinsero infine dalla plausibilità dell’interpretazione neoliberista,48 ed ecco come la lenta e laboriosa costruzione di un’egemonia intellettuale da parte di un gruppo di pensatori rese infine possibile la penetrazione delle loro idee all’interno dei palazzi del potere.49 93

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Come disse Milton Friedman, «solo una crisi – vera o percepita che sia – produce un reale cambiamento. Durante una crisi, le azioni che è possibile compiere dipendono dalle idee che sono disponibili. Credo che questa sia la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, e mantenerle in vita e disponibili finché ciò che oggi è considerato politicamente impossibile diventerà inevitabile»:50 è un programma che spiega esattamente ciò che accadde con la crisi degli anni Settanta. Se si fossero prese in considerazione analisi alternative sarebbe stato possibile immaginare una risposta diversa da quella neoliberale: piuttosto che attaccare il potere dei lavoratori i politici avrebbero, per esempio, potuto reagire reintroducendo regolamentazioni per la creazione del credito. In altre parole, il neoliberismo non è mai stato un risultato inevitabile: è, piuttosto, una costruzione politica.51 Quando il metodo keynesiano riuscì infine a sviluppare una spiegazione per la stagflazione era già troppo tardi, e gli ideali neoliberali avevano già conquistato il mondo dell’economia accademica come quello della politica. In breve, il neoliberismo divenne egemonico: gli anni Ottanta avrebbero visto Margaret Thatcher a capo del governo britannico, Paul Volcker presidente della Federal Reserve, e Ronald Reagan presidente degli Stati Uniti. Istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, in piena crisi di identità dopo la fine degli accordi di Bretton Woods, si ritrovarono infiltrate ed entro la fine degli anni Ottanta si ritrovarono convertite in crogioli di pura fede neoliberale. Anche la Francia subì una svolta simile nei primi anni Ottanta con l’amministrazione Mitterrand, e tutte le principali economie europee furono convertite alle politiche neoliberali inscritte d’altronde nella stessa costituzione dell’Unione Europea. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna venne lanciata un’ondata di attacchi sistematici contro il potere dei lavoratori: pezzo dopo pezzo, i sindacati furono demoliti e le regolamentazioni per il lavoro smantellate. 94

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Il controllo dei capitali fu allentato, la finanza deregolamentata e lo stato sociale venne cannibalizzato e svenduto. Al di fuori dell’Europa e del Nord America, come per esempio in Cile e in Argentina, le politiche neoliberali vennero imposte negli anni Settanta in seguito ai colpi di stato dei militari. La crisi del debito che colpì i paesi in via di sviluppo negli anni Ottanta rappresentò un momento chiave per la fine delle egemonie proto-socialiste e per la promozione, in tutto il mondo, della svolta neoliberale.52 In più, con il collasso dell’Unione Sovietica, anche l’Europa dell’Est venne colpita da un’ondata di misure economiche spesso raccomandate da consiglieri occidentali: si stima che le politiche di privatizzazione nei paesi ex sovietici abbiano portato a più di un milione di morti, a dimostrazione del fatto che la privatizzazione può essere letale quanto la collettivizzazione, e che l’espansione del neoliberismo non è avvenuta senza perdita di vite umane.53 L’avanzata neoliberale fu accompagnata da miseria, morte e dittature, ma configurò un regime normativo capace di imporsi sulla realtà psichica e materiale della popolazione di tutto il mondo. Entro la metà degli anni Novanta il neoliberismo raggiunse finalmente il suo picco di egemonia con il collasso dell’Unione Sovietica e l’estensione delle nuove misure strutturali messe in atto dal Fondo Monetario Internazionale, senza dire del suo consolidamento per mano del New Labour nel Regno Unito e dell’amministrazione Clinton negli Stati Uniti, e della sua onnipresenza nel mondo dell’economia e dell’accademia. Il pubblico dimenticò rapidamente la crisi degli anni Settanta, e il neoliberismo assunse quelle qualità naturali e universali ben riassunte dalla dottrina thatcheriana del There Is No Alternative. Ecco come il neoliberismo è diventato il nuovo senso comune, dato per scontato da tutti i partiti al potere. Arrivati a questo punto, che le elezioni vengano vinte da partiti di sinistra o di destra conta poco: i dadi sono truccati, il neoliberismo ha vinto. 95

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L’IMPOSSIBILE DIVENTA INEVITABILE Come abbiamo visto, il neoliberismo è riuscito a imporre la propria ideologia anche grazie alla più classica delle divisioni del lavoro: il lavoro accademico per plasmare l’istruzione economica universitaria, il lavoro dei think tank per influenzare le misure politiche, e il lavoro delle figure pubbliche per manipolare i media. La vittoria del neoliberismo ha richiesto un progetto egemonico e una visione del mondo ad ampio raggio: è stato costruito un nuovo senso comune capace di cooptare e dominare la terminologia della «modernità» e della «libertà», espressioni che ancora cinquant’anni fa avevano connotazioni ben diverse da quelle attuali, e che oggi è praticamente impossibile usare senza immediatamente evocare i precetti del capitalismo neoliberale. Sappiamo bene che «modernizzazione» si traduce in termini pratici in tagli ai posti di lavoro e al welfare e nella privatizzazione dei servizi pubblici: oggi modernizzare significa in sostanza «neoliberalizzare». Stessa sorte è toccata alla parola «libertà», diventata sinonimo di libertà individuale, libertà dallo Stato e libertà di scegliere tra i vari beni di consumo. Il concetto liberale di «libertà individuale» giocò un ruolo cruciale nella guerra ideologica contro l’Unione Sovietica, predisponendo il pubblico occidentale a mobilitarsi per un’ideologia, quella appunto neoliberale, che si ergeva proprio a baluardo delle libertà dell’individuo. Insistendo su questo tasto, il neoliberismo è stato in grado di radunare elementi provenienti da movimenti che si richiamavano contemporaneamente al «libertarianismo, alle politiche identitarie, [e] al multiculturalismo».54 Enfatizzando la libertà dallo Stato, il neoliberismo è riuscito poi ad ammaliare sia gli anarcocapitalisti che i «movimenti del desiderio» esplosi dopo il Maggio del Sessantotto.55 Infine, limitando l’idea di libertà a quella da esercitare sul mercato, questa ideologia ha cavalcato anche i desideri indotti dal consumismo. Se invece parliamo di produzione, la libertà evocata 96

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dal neoliberismo è riuscita a sfruttare finanche le crescenti richieste di un’occupazione flessibile che venivano da parte degli stessi lavoratori, un desiderio che presto è finito per rivolgersi contro i loro stessi interessi.56 Nella sua vittoriosa lotta per il monopolio sui concetti di modernità e di libertà, il neoliberismo è riuscito a farsi strada persino nella nostra stessa percezione: presentandosi come la più autentica e concreata rappresentazione dei termini in questione, ha dimostrato di essere il progetto egemonico più riuscito degli ultimi cinquant’anni. Il neoliberismo è diventato «la forma della nostra esistenza: il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi».57 In altre parole, a essere reclutati nella sua visione del mondo non sono soltanto i politici, gli imprenditori e le élite dei media e dell’accademia, ma anche i lavoratori, gli studenti, i migranti e tutti gli altri; il neoliberismo d’altronde crea soggetti: idealmente, tutti noi veniamo a costituirci come soggetti in competizione, un ruolo che comprende e sorpassa il «soggetto produttivo» proprio del capitalismo industriale. Gli imperativi del neoliberismo spingono questi soggetti verso un continuo processo di automiglioramento in ogni aspetto della propria esistenza: la formazione permanente, l’onnipresente necessità di essere costantemente pronti a qualsivoglia impiego e il perenne bisogno di sapersi reinventare, sono tutti elementi che delineano la nuova soggettività neoliberale.58 Il soggetto competitivo cammina inoltre sulla linea che separa il pubblico dal privato, dal momento che la nostra vita personale è schiava delle logiche della competizione tanto quanto la nostra vita professionale: in una condizione del genere, sorprende poco il proliferare di una tensione diffusa a tutti gli strati della società. La società neoliberale ha in effetti esacerbato la diffusione di una lunga serie di psicopatologie: stress, ansia, depressione e disturbi dell’attenzione sono le sempre più 97

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comuni reazioni psicologiche al mondo che ci circonda.59 Ma il particolare persino più importante, è che l’affermazione del «neoliberismo quotidiano» è anche responsabile di comportamenti politici passivi: puoi non essere convinto da questa ideologia, ma i suoi effetti sono comunque in grado sia di costringerti in situazioni sempre più precarie, sia di farti abbracciare posizioni sempre più imprenditoriali. Per sopravvivere abbiamo bisogno di soldi, e dunque troviamo il modo di metterci sul mercato, ci ritroviamo costretti a cercare più di un lavoro, siamo stressati e ci preoccupiamo di riuscire a pagare l’affitto, scegliamo i prodotti più economici quando andiamo a fare la spesa e viviamo le occasioni di interazione sociale come opportunità di networking professionale. Considerati questi effetti, la mobilitazione politica è ormai una chimera perpetuamente rimandata a un futuro lontano dalle ansie e dalle pressioni della vita quotidiana. Allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere come questa produzione di soggettività non sia semplicemente un’imposizione esterna: l’egemonia, in tutte le sue forme, non opera solo come un’illusione, ma come una costruzione fondata sui desideri più autentici della popolazione. L’egemonia neoliberale ha giocato su idee, appetiti e impulsi sociali già esistenti, mobilitando la volontà degli individui e promettendo di esaudire quei desideri in linea coi suoi progetti. L’apologia della libertà individuale, il valore assegnato al «lavorare sodo», la flessibilità sul lavoro, il lavoro come espressione di sé, la fiducia nella meritocrazia, il risentimento verso la corruzione dei politici, dei sindacati e della macchina burocratica: questi sono tutti convincimenti e desideri che precedono il neoliberismo, ma che tramite il neoliberismo hanno trovato espressione.60 Oggi, a destra come a sinistra, in tanti condividono un sentimento di rabbia verso tutti coloro che vengono visti come sfruttatori del sistema: l’odio per i ricchi evasori fiscali si mescola facilmente al disgusto per i poveri che ricorrono 98

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allo stato sociale, e la rabbia verso il capo sul posto di lavoro è la stessa che si prova nei confronti della classe politica tutta. È un fenomeno legato all’ampliamento dell’identità e delle aspirazioni tipiche del ceto medio: il desiderio di avere una casa di proprietà e lo spirito imprenditoriale si sono estesi fino a contagiare l’interno della classe operaia.61 L’ideologia neoliberale deriva dall’esperienza vissuta, e non rappresenta semplicemente un gioco accademico:62 il neoliberismo è diventato un corollario delle nostre esistenze quotidiane, e qualsiasi analisi critica che non sia in grado di identificare questo legame è destinata a non comprendere quanto le radici del neoliberismo affondino in profondità nella nostra società. Nel corso di diversi decenni il neoliberismo è riuscito a formare non solo le opinioni e le convinzioni delle élite, ma anche l’intero tessuto normativo della nostra vita di tutti i giorni: gli interessi specifici dei neoliberali sono diventati universali, ovverosia egemonici.63 Che ce ne rendiamo conto o meno, il neoliberismo costituisce il nostro senso comune collettivo assoggettandoci ai suoi scopi.64 UN MONT PELERIN PER LA SINISTRA? Viene spesso osservato che il neoliberismo ha avuto successo (e continua ad averlo, nonostante i suoi recenti fallimenti) grazie al sostegno di una serie di interessi sovrapposti, che vanno da quelli delle élite transnazionali ai grandi finanzieri, passando per i maggiori azionisti delle grandi corporation. Per quanto questi gruppi di interesse abbiano certamente contribuito all’influenza esercitata dall’ideologia neoliberale, si tratta di un’interpretazione che lascia comunque diverse domande inevase: se il sostegno delle élite fosse stato sufficiente per il successo ideologico del neoliberismo, e se questo avesse offerto loro chiari vantaggi, non ci sarebbe stato un ritardo di quarant’anni tra la sua formulazione iniziale e la sua attuazione pratica. Al contrario, il liberalismo keynesiano già radicato nel sistema rimase per molto tempo 99

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l’ideologia dominante, anche quando questo poneva limiti a interessi assai potenti: in particolare gli interessi finanziari vennero a lungo lasciati ai margini come risultato della crisi del 1929 e della Grande Depressione che ne seguì. Le dinamiche di potere su cui si fondava il consenso keynesiano andavano quindi smantellate pezzo per pezzo. Allo stesso modo, una spiegazione del successo neoliberale che si appoggi solamente sulla sua compatibilità con gli interessi delle élite, non riesce a chiarire il motivo per cui non vennero considerate altre possibili risposte alla crisi degli anni Settanta. Come già ricordato, un elemento importante per il successo ideologico del neoliberismo fu proprio sia l’emergere di una crisi, sia l’esistenza di una soluzione già a portata di mano: quella offerta dall’ideologia neoliberale stessa. Nessun governo dell’epoca sapeva esattamente come affrontare la crisi (cioè la stagflazione), mentre le soluzioni prospettate dai teorici neoliberali fermentavano da decenni all’interno dei circuiti ideologici di riferimento. Non che i neoliberali ricorsero ad argomentazioni particolarmente solide (il mito del discorso politico razionale): fu semmai l’infrastruttura istituzionale che permise loro di diffondere le proprie idee e di imporle come il nuovo senso comune delle élite politiche. Qui c’è un’importante lezione da trarre, tanto che qualcuno si è spinto fino a ipotizzare la necessità di una Mont Pelerin Society per la sinistra.65 A livello generale, la storia del neoliberismo dimostra come il più grande successo recente della destra, e cioè proprio l’instaurazione di un’egemonia neoliberale a livello globale, sia stato conseguito attraverso metodi del tutto estranei alle logiche su cui si fonda la folk politics. Questo significa innanzitutto che i neoliberali hanno pensato nei termini di una visione a lungo termine, e cioè su una scala temporale diversa da quella dei cicli elettorali o dei processi di esplosione e riflusso delle singole proteste. C’è senz’altro da imparare dal modo in cui la MPS ha 100

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pazientemente preparato una lista di obiettivi espliciti, e da come ha analizzato la propria situazione storica per poter poi avanzare metodi specifici ed efficaci alla sua modificazione. La MPS ha puntato al cambiamento su lungo termine, aspettando per anni che si verificasse una crisi del sistema keynesiano e che emergessero figure come Reagan e Thatcher. Adottando questo approccio gli intellettuali neoliberali hanno ragionato in termini astratti e di possibilità: quello che era impossibile nel loro presente è diventato possibile in seguito, in parte proprio grazie alle loro strategie e ai loro piani. In secondo luogo, i neoliberali pianificarono un progetto controegemonico in grado di ribaltare il consenso generalizzato di cui godevano la socialdemocrazia e le politiche di stampo keynesiano: adottarono quindi un approccio ad ampio raggio mirato a modificare le condizioni di egemonia, e costruirono un’intera infrastruttura ideologica capace di insinuarsi all’interno di ogni singolo problema politico, fin dentro al tessuto del senso comune. Ribaltarono completamente le idee egemoniche del periodo, e come ha scritto Philip Mirowski la loro genialità strategica è consistita nel comprendere che: Non basta esporre una visione utopica appena fuori portata per motivare l’azione politica. Il gruppo che trionfa è quello che riesce ad assemblare simultaneamente un insieme di proposte politiche a prima vista indipendenti l’una dall’altra, capaci di agire su orizzonti a breve, medio, e lungo termine, e di combinare il regime della conoscenza con i risultati provvisori, facendo sì che il risultato finale sia il movimento inesorabile della polis verso l’obiettivo prefissato. La scaltra strategia di giocare simultaneamente un gioco a breve e lungo termine – dando superficialmente l’idea di un conflitto interno ma sulla scorta di un’unità di obiettivi teoretici generali – è probabilmente la causa principale del trionfo delle politiche neoliberali, in una congiuntura storica durante la quale i loro oppositori si aspettavano che queste fossero del tutto rifiutate.66 101

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C’è anche una terza lezione importante da tenere a mente per la sinistra: il variegato gruppo facente capo alla MPS ha ragionato in ampi termini spaziali, puntando a diffondere il proprio network in tutto il pianeta attraverso una serie di snodi chiave. I neoliberali intravidero nel think tank la forma organizzativa più adatta a plasmare l’egemonia intellettuale globale: seppero instaurare una rete tra think tank, politici, giornalisti, media e docenti, stabilendo una coerenza tra gruppi diversi senza dover imporre un’unità assoluta di intenti o di forma organizzativa, e dando così al loro progetto un’invidiabile flessibilità. Benché il neoliberismo venga spesso accusato di essere troppo empiricamente eterogeneo per rappresentare un progetto coerente, al contrario è proprio la sua disponibilità a modificare le proprie idee alla luce di nuove condizioni sul campo che lo ha reso un’ideologia particolarmente potente. La proposta di una Mont Pelerin Society per la sinistra non dovrebbe insomma essere semplicemente intesa come un invito a replicare pedissequamente i metodi operativi del neoliberismo. Piuttosto, l’idea è che la sinistra può trarre insegnamento da una visione a lungo termine, dalle strategie di espansione globale, da una flessibilità pragmatica e dai metodi controegemonici che riuscirono a rendere coesa un’ecologia di organizzazioni dai diversi interessi. L’idea di una Mont Pelerin Society per la sinistra, in realtà, altro non è che una chiamata alle armi per la costruzione di una nuova egemonia della sinistra.

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Capitolo 4 MODERNITÀ DI SINISTRA Nella situazione del mondo attuale, qualsiasi alternativa finirà per apparire utopica o triviale. In questo modo, il nostro pensiero programmatico è paralizzato. Roberto Mangabeira Unger

Questo capitolo segna un punto di svolta. Dalla diagnosi «in negativo» sui limiti strategici della sinistra contemporanea, proviamo ora a elaborare un progetto positivo: quello di una via d’uscita dalla condizione presente. Da qui in poi, vogliamo ribadire come la sinistra contemporanea debba recuperare il concetto di modernità, costruire una forza politica contemporaneamente populista ed egemonica, e mobilitarsi per un futuro libero dal lavoro salariato; la folk politics, con tutti i suoi sforzi prefigurativi tra azione diretta e orizzontalismo senza compromessi, non è in grado di aspirare a tanto, in buona parte perché fraintende la natura dell’avversario: il capitalismo è un universale capace di espandersi aggressivamente, e i tentativi di separarsene ricorrendo a semplici spazi di autonomia sono destinati al fallimento.1 Fuga dalla società, feticcio resistenziale, localismo e spazi autonomi sono tutti elementi di una partita giocata in difesa contro un capitalismo senza compromessi e in perpetuo movimento, senza contare che l’universalismo capitalista non ha problemi a coesistere con tali forme di particolarismo. Il capitalismo prevede al suo interno innumerevoli varianti politiche e culturali, nessuna delle quali si preoccupa di frenare il binomio mercificazione e proletarizzazione, né tantomeno di mettere in discussione l’imperativo dell’accumulazione di capitale. La tanto detestata capacità del capitalismo di assorbire ogni forma di resistenza mostra proprio come i particolarismi, da soli, siano incapaci di tenere testa alla sua logica universalista:2 in effetti, considerata la natura intrinsecamente espansionista del neoliberismo, solo un’alternativa altrettanto 105

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espansionista e capace di costituirsi a sua volta come un universale sarà in grado di fronteggiare e infine rimpiazzare il capitalismo sulla scena globale.3 Considerate le dinamiche di accumulazione che risiedono nel cuore del capitalismo, un capitalismo non espansioni­ stico è una contraddizione in termini. Una politica di sinistra realmente ambiziosa non può quindi accontentarsi di difendere le singole realtà locali, ma deve piuttosto mirare alla costruzione di nuove politiche orientate al futuro e capaci di sfidare il capitalismo su larga scala: deve insomma smascherare la pseudo-universalità delle relazioni sociali imposte dal capitalismo, e rivendicare il futuro nel suo significato più autentico. Facciamo allora un passo indietro, procedendo oltre il piano empirico e storiografico dei precedenti capitoli, e cercando di offrire una cornice filosofica per lo sviluppo dei capitoli che verranno. Abbiamo detto che un elemento fondamentale per una sinistra che voglia davvero essere futuribile è la riattivazione del concetto di «modernità». Se i metodi della folk politics mancano di una visione del futuro quantomeno invitante, la battaglia per la modernità è sempre partita da un desiderio su tutti: quello di rendere il futuro migliore del presente. E questo vale sia per il modernismo comunista della prima Unione Sovietica, sia per il socialismo scientifico delle socialdemocrazie postbelliche, sia per la luccicante efficienza del neoliberismo targato Thatcher e Reagan.4 Cosa significhi essere moderni, non è cosa prestabilita: è terreno di contesa.5 Eppure, di fronte ai successi dell’universalismo capitalista, lo stesso termine «modernità» è diventato un dominio della destra. Pensiamo alla parola «modernizzazione»: tutto quello che ormai evoca è nient’altro che una temuta combinazione di privatizzazione, sfruttamento feroce, incremento delle disuguaglianze e goffo managerialismo.6 Non solo: anziché suggerire utopie fondate sull’emancipazione universale, l’idea 106

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di «futuro» tende volentieri a partorire immagini di realtà distopiche in cui convivono apocalissi ecologiche, fine dello stato sociale e dominio delle grandi corporation. Per molti la modernità è null’altro che un’espressione culturale del capitalismo stesso,7 una lettura da cui non può che discendere una conclusione soltanto, e cioè che solo la fine della modernità potrà condurre alla fine del capitalismo. È una tesi che ha prodotto tendenze antimoderne in tanti movimenti emersi dagli anni Settanta in poi: ma l’idea (sbagliata) che modernità e capitalismo semplicemente coincidano, sorvola su quali altre forme la modernità potrebbe assumere, senza dire che tantissime battaglie anticapitaliste sono nate proprio da ideali «moderni» per definizione.8 La modernità è al tempo stesso una narrazione dell’azione popolare e una struttura filosofica attraverso cui interpretare il flusso della storia; come termine che indica una direzione per l’intera società, non può che rappresentare un terreno di battaglia dialettico cruciale per qualsiasi sinistra che nutra l’ambizione di creare un mondo migliore.9 Il presente capitolo ragiona quindi sulla posta in gioco di tale progetto, e lo fa esaminando dal punto di vista filosofico tre elementi in grado di spingere per l’elaborazione di una modernità di sinistra: una diversa concezione del progresso storico, un orizzonte universalista, e un impegno verso il raggiungimento dell’emancipazione universale. Il primo compito da affrontare quando si parla di «modernità» è innanzitutto chiarire il significato del termine. Può riferirsi a un periodo storico preciso (generalmente interpretato in chiave eurocentrica) e a vari eventi specifici dai quali la stessa modernità discenderebbe: il Rinascimento, l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, la rivoluzione industriale...10 Per altri, la modernità è definita da pratiche e istituzioni: burocratizzazione dilagante, un sistema basilare di democrazia liberale, differenziazione delle funzioni sociali, colonizzazione di territori extraeuropei, espansione delle 107

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relazioni sociali in senso capitalista ecc. Ma la modernità può anche riferirsi a un repertorio di innovazioni concettuali imperniate sugli ideali universali di progresso, ragione, libertà, e democrazia. Questo capitolo enfatizza proprio questi ultimi aspetti. Il termine modernità si riferisce a una serie di concetti che sono stati sviluppati indipendentemente da diverse culture in tutto il mondo, ma che hanno ottenuto una risonanza particolarmente marcata in Europa: tali concetti rappresentano elementi della modernità che non vanno abbandonati, e che anzi devono costituire il punto di partenza per qualsiasi discorso popolare che la riguardi. Questi ideali – si tratti di libertà, democrazia, laicità… – sono all’origine sia della modernità capitalista che dei movimenti che vi si oppongono: valori moderni hanno animato le lotte degli abolizionisti, hanno costituito la base per numerose battaglie sociali e sindacali in Africa,11 e sopravvivono oggi «nelle migliaia di lotte per il salario, per i diritti della terra, per la salute, per la sicurezza, la dignità, l’autodeterminazione, l’autonomia, e via dicendo».12 In generale, che sia esplicitamente riconosciuto o meno, le battaglie politiche di oggi si collocano all’interno dello spazio concettuale definito dalla modernità e dai suoi ideali. La modernità va insomma contestualizzata, non rigettata.13 PROGRESSO IPERSTIZIONALE Invocare la modernità significa aprire la questione del futuro. Cos’è che dal futuro dobbiamo aspettarci? Quale strada dovremmo scegliere? Cosa significa essere contemporanei? E il futuro a chi appartiene? Fin dalla sua prima apparizione, la modernità si è preoccupata di disfare la nozione circolare o retrospettiva dello scorrere del tempo, e di introdurre una rottura tra passato e presente; in seguito a questa rottura, il futuro viene proiettato come potenzialmente differente e migliore del passato:14 essendo la modernità equiparata alla «scoperta del 108

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futuro», è dunque strettamente legata alle nozioni di «progresso, avanzamento, sviluppo, emancipazione, liberazione, crescita, accumulazione, illuminismo, miglioramento [e] avanguardia».15 Suggerendo che la storia progredisce tramite libere azioni umane, varie e opposte definizioni di modernità si sono scontrate nel tentativo di definire il concetto di progresso.16 Storicamente, la sinistra ha sempre per sua natura abbracciato la causa del futuro: dalle prime visioni comuniste sul progresso tecnologico passando per l’utopia spaziale sovietica fino ad arrivare alla retorica socialdemocratica del «calor bianco della tecnologia», quello che ha differenziato la sinistra dalla destra è stato il suo esplicito desiderio di futuro, concepito come un miglioramento della situazione presente in termini materiali, sociali e politici, a differenza della destra le cui forze politiche (con poche notevoli eccezioni) sono sempre state caratterizzate dalla difesa della tradizione e dalla loro natura essenzialmente reazionaria.17 Questa situazione si è capovolta con l’ascesa del neoliberismo e di figure politiche – come per esempio Margaret Thatcher – molto brave nell’uti­lizzare efficacemente proprio la retorica della modernizzazione e di conseguenza del futuro. Impadronendosi di questi termini, e piegandoli alla costruzione di un nuovo senso comune egemonico, il neoliberismo ha coniato una visione del futuro che da allora domina la sfera pubblica: il risultato è che sollevare la questione del futuro all’interno della sinistra viene oggi considerato sconveniente e quasi assurdo. Con l’avvento del postmodernismo, i legami apparentemente intrinseci tra futuro, modernità ed emancipazione sono stati dissolti. E così un filosofo come Simon Critchley può oggi asserire con disinvoltura che «dobbiamo resistere all’idea e all’ideologia del futuro, che è sempre l’asso nella manica di una concezione del progresso capitalista».18 Questi sentimenti, tipici della folk politics, accettano ciecamente il senso comune neoliberale: evitano di contemplare i progetti 109

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ambiziosi e li rimpiazzano con una resistenza puramente di facciata. Il disagio che la sinistra radicale prova nei confronti della modernità tecnologica, assieme all’incapacità socialdemocratica di immaginare un mondo alternativo, ha fatto sì che il tema del futuro sia stato oggi completamente ceduto alla destra. Quella che una volta era una delle principali qualità della sinistra – la capacità di suggerire un futuro migliore in grado di scaldare gli animi e scuotere le coscienze – si è oggi deteriorata, dopo anni di completo abbandono. La sinistra deve recuperare il proprio senso di progresso, ma questo non significa che debba semplicemente riesumare la classica concezione del progresso storico diretto verso un obiettivo predestinato. Storicamente, approcci del genere hanno considerato il progresso non solo come un’eventualità possibile, ma come una componente necessaria del tessuto stesso della storia: si riteneva cioè che il progresso delle società umane si sviluppasse lungo strade predefinite e verso un singolo risultato possibile sempre modellato sull’esempio europeo, che le nazioni europee sarebbero dunque giunte autonomamente alla modernità capitalista, e che le loro esperienze di sviluppo storico fossero necessarie e superiori a quelle di altre culture.19 Queste idee hanno dominato la filosofia europea tradizionale e sono sopravvissute all’interno della letteratura sulla modernizzazione degli anni Cinquanta e Sessanta, la stessa che tentava di naturalizzare il capitalismo al fine di combattere l’avversario comunista.20 Fu un’interpretazione della storia che venne in parte difesa anche dal marxismo, oltre che dal capitalismo sia keynesiano che neoliberale: di fatto, l’idea era che ci fosse un modello universale di progresso storico adatto a ogni circostanza e latitudine. Questo finiva per alimentare il pregiudizio che le società non occidentali fossero incompiute e sottosviluppate, e dunque tornava utile per giustificare colonialismo e imperialismo.21 Secondo quei filosofi e pensatori critici nei confronti di tale impostazione, la tradizionale nozione di progresso va 110

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rigettata precisamente perché convinta dell’esistenza di un esito storico predestinato, che si tratti della democrazia capitalista cara all’idea di progresso liberale o del comunismo frutto del progresso marxista. I complessi e spesso disastrosi eventi storici del XX secolo hanno però dimostrato una volta per tutte che la storia non procede lungo binari predeterminati:22 la regressione è tanto probabile quanto il progresso, il genocidio quanto la democrazia.23 In altre parole, si è compreso come non ci sia nulla di intrinseco nella natura della storia o nello sviluppo dei sistemi economici, e che le battaglie politiche non necessariamente garantiscono risultati inevitabili: da una prospettiva sommariamente di sinistra, persino limitate ma importantissime conquiste come le mi­­ sure di welfare, i diritti delle donne e le garanzie per i lavoratori corrono sempre il rischio di scomparire. In più, anche negli Stati in cui al potere sono salite forze virtualmente comuniste, il passaggio da un sistema produttivo capitalista a uno pienamente comunista si è dimostrato molto più difficile del previsto.24 Questa serie di esperienze storiche ha prodotto un intero bagaglio di critiche – basti pensare alla psicoanalisi, alla teoria critica o al post-strutturalismo – mentre per i pensatori postmoderni la modernità diventa sinonimo di ingenuità e scarso senso critico:25 nella famosa formulazione di Jean-François Lyotard, il postmodernismo viene identificato come l’era del sospetto nei confronti delle grandi metanarrazioni,26 una condizione culturale di disillusione in cui a venire meno sono proprio le grandiose promesse sia del capitalismo liberale che del comunismo. Di certo, queste critiche individuano importanti elementi del tessuto cronologico dei nostri tempi, al punto che proprio l’annuncio della fine delle grandi narrazioni è stato spesso interpretato, fuori dall’Europa, come parte integrante della modernità in quanto tale.27 A trent’anni dall’analisi postmoderna, possiamo però osservare come l’impatto di tale condizione culturale non è stato tanto il declino delle meta111

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narrazioni in genere, quanto un diffuso cinismo verso quelle provenienti da sinistra. Il legame tra capitalismo e modernizzazione sopravvive, mentre le nozioni di futuro realmente progressiste sono appassite sotto la critica postmoderna e schiacciate dai rottami sociali prodotti dal neoliberismo. Va anche notato come, con il crollo dell’Unione Sovietica e l’avvento della globalizzazione, la storia sembra effettivamente seguire una grande narrazione:28 in tutto il mondo i mercati, il lavoro salariato, i beni di consumo e le tecnologie capaci di aumentare la produttività si sono espansi seguendo l’imperativo dell’accumulo di capitali, e il capitalismo stesso è diventato il destino di tutte le società contemporanee, in serena coesistenza con le differenze nazionali e prestando ben poca attenzione allo scontro tra civiltà. È comunque possibile distinguere tra l’obiettivo finale (il capitalismo) e il percorso che vi conduce: gli indissolubili legami economici e sociali che esistono oggi fra i paesi del pianeta fanno sì che il modello europeo (fortemente dipendente dallo sfruttamento del colonialismo e della schiavitù) sia impossibile da percorrere per molti paesi in via di sviluppo. Benché esistano dei paradigmi generici, ogni paese deve comunque rispondere agli imperativi del capitalismo globale a modo proprio, e il cammino verso la modernizzazione capitalista si incarna in culture differenti seguendo traiettorie diverse e con vari ritmi di sviluppo.29 Un modello di sviluppo disomogeneo e incostante è anzi oggi all’ordine del giorno,30 tanto che la nozione di progresso non è più legata al solo modello europeo, ma è filtrata attraverso un gran numero di differenti opzioni politiche e culturali, tutte comunque miranti all’instaurazione di relazioni sociali di stampo capitalista. La conseguenza è che oggi i fautori della modernizzazione discutono semplicemente di quale variante del capitalismo convenga applicare. In questa situazione, riappropriarsi del concetto di progresso significa prima di tutto mettere in questione il dogma del fine inevitabile: la modernità capitalista non è mai stata 112

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un risultato obbligato, ma è piuttosto un progetto politico di successo guidato da alcune classi sociali e dall’imperativo sistemico dell’accumulo e dell’espansione. Altri tipi di modernità sono possibili, e nuove visioni del futuro sono essenziali per fornire un supplemento necessario a qualsiasi progetto di sinistra che aspiri a trasformare la società. Questi futuri possibili possono non solo dare una direzione alla lotta politica, ma sono in grado di suggerire quali criteri adottare e quali battaglie intraprendere, quali movimenti ostacolare, cosa ancora va inventato e così via. Senza la prospettiva del progresso ci possono essere solamente reazione, battaglie di difesa, resistenza locale e una mentalità da fortino assediato: insomma, tutti i tratti propri di quella che abbiamo chiamato folk politics. Immaginare futuri possibili è la condizione indispensabile per organizzare una risposta efficace al capitalismo: in dichiarato disaccordo con i precedenti pensatori della modernità, è necessario sostenere che non ci sia alcuna necessità nel progresso, né un singolo paradigma secondo cui giudicare lo sviluppo di una cultura. Il progresso va al contrario concepito come un’iperstizione: una specie di finzione che ambisce a trasformarsi in realtà. Le iperstizioni funzionano catalizzando un sentimento diffuso per poi tramutarlo in una forza storica che porta il futuro a verificarsi: la loro forma temporale è il «sarà stato». Allo stesso tempo, le iperstizioni non rappresentano una proprietà definita e necessaria del mondo presente: piuttosto, sono delle narrazioni capaci di orientare la nostra navigazione. Il progresso è un prodotto dalla lotta politica, non segue né traiettorie prestabilite né tendenze naturali, e il suo successo non è mai garantito. Rimpiazzare il capitalismo si rivela impossibile se si adotta una posizione difensivistaresistenziale, mentre una politica capace di offrire nuove prospettive deve prefiggersi come obiettivo la costruzione di qualcosa di nuovo. La strada per il progresso va costruita, 113

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e non semplicemente percorsa seguendo indicazioni prestabilite: è una faccenda di conquiste politiche, e non di doni dispensati da qualche divina (o terrestre) provvidenza. UNIVERSALI SOVVERSIVI Qualsiasi tentativo di elaborare una concezione alternativa di progresso deve inevitabilmente scontrarsi con il problema dell’universalismo: l’idea cioè che certi valori, ideali e obiettivi siano validi per tutte le culture.31 Abbiamo detto che il capitalismo è un universale espansivo, capace di infiltrarsi nei vari tessuti culturali e di modificarli dall’interno: qualsiasi opposizione al capitalismo che non sia a sua volta un universale, finirà quindi con l’essere soffocata dall’asfissiante abbraccio delle relazioni sociali capitaliste.32 Vari particolarismi – forme poltico-culturali localizzate e specifiche – riescono a coabitare serenamente all’interno del sistema capitalista, tanto che la lista di possibilità continua a crescere mano a mano che il capitalismo si differenzia in capitalismo cinese, capitalismo americano, capitalismo brasiliano, capitalismo indiano, capitalismo nigeriano e così via. La storia insegna che lo spazio globale dell’universalismo è una zona di conflitto dove i vari avversari aspirano alla relativa provincializzazione di tutti gli altri,33 ed è per questo che la difesa dei particolarismi è di per sé una strategia insufficiente. Se davvero la sinistra ha intenzione di sfidare il capitalismo globale, deve ripensare un progetto universalista. Certo, invocare un’idea del genere significa anche attirare un gran numero di critiche: una politica universalista punta a oltrepassare le battaglie locali per generalizzarsi su scala globale ed estendersi al di là delle diversità culturali, ed è proprio per questo che nel corso dei decenni è stata oggetto di tante polemiche.34 Storicamente parlando, è impossibile separare la modernità di stampo europeo dal suo lato oscuro, vale a dire l’enorme rete di domini coloniali, il genocidio di popolazioni indigene, il commercio di schiavi e lo sfrutta114

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mento delle risorse dei paesi colonizzati.35 Durante i suoi processi di conquista, l’Europa si presentò come l’incarnazione stessa di uno stile di vita universale: al contrario, tutti gli altri popoli furono considerati come dei semplici particolari che inevitabilmente sarebbero stati sussunti nella cultura europea, anche se questo richiedeva violenze fisiche terribili e un vero e proprio assalto psicologico-cognitivo alle popolazioni altre. Legata a questo, vi era poi la convinzione che «universale» fosse sinonimo di «omogeneo»: il processo che avrebbe portato i particolari a essere assorbiti dall’universale avrebbe dovuto cancellare le differenze tra le diverse culture, allo scopo di creare una singola cultura mondiale modellata sulla civiltà europea. Questo tipo di universalismo è indistinguibile dallo sciovinismo puro e semplice. Nel corso di questo processo l’Europa ha dissimulato il proprio campanilismo adottando una serie di meccanismi che servivano a celare quali fossero le figure responsabili del processo stesso: sostanzialmente i maschi ricchi, bianchi ed eterosessuali. L’Europa e i suoi intellettuali pretesero di astrarsi dalla loro provenienza geografica e della loro identità, presentando le proprie tesi come frutto di uno «sguardo da nessun luogo»,36 una prospettiva considerata immune dai condizionamenti imposti dalle particolarità razziali, ses­ suali, nazionali e così via, e letta come base indubitabile di un’universalità europea che rendeva automaticamente illegittima qualsiasi altra prospettiva. Detta altrimenti, mentre agli europei era concesso di articolare e incarnare l’universale, le altre culture potevano solo essere rappresentate come particolari e provinciali: inutile ricordare come da allora l’universalismo abbia giocato un ruolo centrale nei peggiori episodi della storia moderna. Considerata una simile eredità storica, la reazione più ovvia sembrerebbe a questo punto quella di eliminare il concetto di universalismo dal proprio arsenale concettuale. Eppure, nonostante le difficoltà e i problemi che vi si associano, 115

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quello dell’universalismo resta un concetto necessario. Il problema, in parte, è che non è possibile rigettare il concetto di universale senza generare altri importanti problemi: il maggiore tra questi è che l’abbandono di tale categoria ci lascerebbe in eredità nient’altro che che una serie di tanti particolari, e non c’è alcun modo di instaurare un senso di solidarietà senza un fattore comune su cui fare leva. L’universale gioca anche il ruolo di ideale trascendente, mai soddisfatto da qualsiasi incarnazione particolare ma sempre teso al proprio miglioramento,37 e come tale contiene l’impulso concettuale di disfarsi dei propri limiti. Rigettare questa categoria significa anche correre il rischio di orientalizzare le differenti culture trasformandole in un esotico «Altro»: se esistono soltanto particolarismi, e se l’Europa diventa equivalente di ragione, scienza, progresso e libertà, il rischio è che le culture extraoccidentali vengano considerate sprovviste di questi stessi concetti, e che l’antiuniversalismo finisca con il replicare inavvertitamente il vecchio pregiudizio orientalista. D’altra parte, si corre anche il rischio di legittimare varie forme di oppressione viste come conseguenze inevitabili di una pluralità di culture: tutti i problemi del relativismo culturale ritornano laddove non ci sono criteri per discernere quali conoscenze globali, quali politiche e quali pratiche servano a una politica di emancipazione. Sorprende dunque poco che elementi universalisti siano apparsi nel corso della storia in tutte le culture,38 che persino i critici ne riconoscano la necessità,39 e che vi siano già stati diversi tentativi di aggiornarne i contenuti.40 Per poter conservare questo indispensabile strumento concettuale, l’universale va quindi identificato non come una serie predeterminata di principi e di valori, ma come un insieme vuoto costituzionalmente impossibile da riempire in via definitiva. L’universale emerge quando un particolare ne rivendica la posizione attraverso una lotta di tipo egemonico,41 esattamente come quando il particolare «Europa» venne ad autorappresentarsi come l’universale «Globale». Non si 116

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tratta semplicemente di un falso universale; la contaminazione infatti è reciproca: l’universale si incarna nel particolare, mentre il particolare perde alcune specificità nel suo ruolo di universale. Un universalismo perfettamente compiuto non esisterà mai: per questo gli universali saranno sempre oggetti di critica da parte di altri universali. Questo è il processo che, più sotto, articoleremo in termini politico-strategici come produzione di una controegemonia, vale a dire un progetto mirato a sovvertire l’universalismo vigente per rimpiazzarlo con un nuovo ordine. Il che ci porta al nostro secondo punto: un universale controegemonico può avere una funzione sovversiva e liberatrice. Da una parte, un universale pone una richiesta incondizionata: tutto deve essere posto sotto il suo dominio;42 dall’altra, però, l’universalismo non è mai un progetto compiuto (persino il capitalismo rimane incompleto). Questa tensione rende ogni struttura egemonica contendibile, e permette agli universali di giocare un ruolo di vettori di insurrezione contro i processi di esclusione. Prendiamo per esempio un concetto come quello dei diritti umani universali: per quanto problematico possa essere, è stato fatto proprio da movimenti che vanno da quelli per il diritto alla casa fino ai tribunali internazionali per i crimini di guerra, ed è a rivendicazioni universali e incondizionate che si richiamano coloro che ne vengono tagliati fuori. Un altro esempio viene dalle femministe, che hanno sottolineato la natura discriminatoria di determinati concetti contro i quali hanno opposto un principio universale come «tutti gli esseri umani sono uguali»: in questo caso, il particolare («donna»), diventa un mezzo per ingaggiare una critica contro un universale esistente e dominante («umanità»), rivelandone a sua volta la natura particolare («uomo»).43 Questi esempi dimostrano come gli universali pos­ sono essere rivitalizzati attraverso battaglie politiche capaci sia di chiarirli che di metterli in questione; in questo senso 117

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«appellarsi all’universalismo come metodo per affermare la supremazia della cultura occidentale significa tradire l’ideale di universalità, mentre appellarsi all’universalismo come metodo per smantellare la superiorità dell’Occidente significa realizzare il suo vero scopo».44 L’universalismo, in questa accezione, è prodotto dallo sforzo politico, e non da un giudice trascendente al di sopra dell’arena sociale. Possiamo ora esaminare un ultimo aspetto dell’universalismo: la sua eterogeneità.45 Come proprio il capitalismo dimostra, l’universalismo non implica caratteri omogenei e non necessariamente comporta che condizioni differenti si trasformino nello stesso tipo di realtà. In effetti, la grande forza del capitalismo sta esattamente nella versatilità con cui affronta condizioni variabili, oltre che nella sua capacità di dare spazio alle differenze. Un universale di sinistra deve nutrire la stessa ambizione: deve essere cioè un universale capace di integrare le diversità, piuttosto che cancellarle. Ma cosa significa tutto questo per un progetto che voglia dirsi moderno? Significa che ogni particolare rappresentazione della modernità deve essere aperta a un processo di creazione collettiva, così come alla sua successiva trasformazione e alterazione. In un mondo globalizzato, in cui necessariamente coesistono popoli tra loro diversi, questo vuol dire anche costruire un modo di vivere in comune nonostante l’eterogeneità degli stili di vita: al contrario delle posizioni eurocentriche e delle concezioni universaliste classiche, bisogna riconoscere l’agire di coloro che sono al di fuori dei confini dell’Europa e ribadire l’importanza delle loro voci per la costruzione su scala planetaria di un futuro genuinamente universale. Ecco perché l’universale è un insieme vuoto che viene occupato nel tempo da vari particolari egemonici (collettivi specifici, ideali specifici, rivendicazioni specifiche): può operare come un vettore di cambiamento sovversivo ed emancipatore rispetto agli universalismi già costituiti, e ha una natura eterogenea che include e non elimina le differenze. 118

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LIBERTÀ SINTETICA Benché la sinistra sia tradizionalmente associata a ideali di uguaglianza (oggi concentrati sulle questioni retributive e sulle disparità economiche), un altro principio fondante di una modernità di sinistra non può che essere quello della libertà. Nel corso del XX secolo su questo fronte si sono combattute molte battaglie, tanto che gli Stati Uniti si sono regolarmente presentati come «il mondo libero» schierato contro un nemico totalitario (prima rappresentato dall’Unione Sovietica, oggi da nozioni sempre più incoerenti di «fascismo islamico»). In questi scontri egemonici, il capitalismo ha ripetutamente affermato la propria superiorità tramite la difesa di un ideale di libertà negativa,46 ovvero la libertà del singolo da interferenze arbitrarie provenienti da altri individui, collettivi e istituzioni (fondamentalmente, lo Stato). L’idea di libertà negativa, imperniata sull’indipendenza da ingerenze esterne, è uno strumento ideale nella lotta contro i regimi considerati totalitari, ma è anche un concetto di libertà mostruosamente ristretto: si riduce in pratica a un pizzico di libertà politica dallo Stato (oggi, in tempi di sorveglianza digitale e guerra al terrorismo, ridotta al minimo) e alla libertà economica di poter vendere la nostra forza lavoro e di poter scegliere prodotti di consumo sempre più nuovi e invitanti.47 Secondo il criterio della libertà negativa, ricchi e poveri sono ugualmente liberi, malgrado le ovvie differenze in termini di capacità di azione:48 la libertà negativa è in effetti pienamente compatibile anche con la povertà di massa, la fame nel mondo, l’emergenza abitativa, la disoccupazione e le disparità di ogni tipo, nonché con quei metodi di marketing asfissiante che aspirano a plasmare e costruire i nostri stessi desideri. A questa nozione limitata di libertà, vogliamo quindi contrapporne una versione assai più sostanziale: quella di «libertà sintetica». Mentre la libertà negativa garantisce un diritto formale alla non interferenza, la libertà sintetica riconosce che un 119

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diritto formale non accompagnato da una capacità materiale è del tutto inutile.49 In un regime democratico, per esempio, siamo tutti formalmente liberi di candidarci a ricoprire una carica politica: ma senza le risorse finanziarie e sociali per condurre una campagna elettorale, questa è una libertà inutile. Allo stesso modo, siamo tutti liberi di rifiutare un lavoro: ma in pratica, la maggior parte di noi è fondamentalmente costretta ad accettare qualsiasi impiego ci venga somministrato.50 In entrambi i casi diverse opzioni sono teoricamente disponibili, ma a livello pratico la maggior parte di queste sono inattuabili, il che rivela l’importanza di disporre dei mezzi per realizzare e mettere in pratica un diritto formale. È proprio questa enfasi sui modi e le capacità di agire a diventare cruciale per un approccio di sinistra all’ideale di libertà. Come scrissero Marx ed Engels, «solo nel mondo reale e tramite mezzi reali è possibile ottenere una vera libertà».51 Letti in questo modo, i concetti di libertà e potere risultano interdipendenti: se il potere è la capacità basilare di produrre gli effetti desiderati su qualcosa o qualcun altro,52 allora un incremento della capacità di esaudire i nostri desideri diventa simultaneamente un incremento della nostra libertà. Maggiore è la nostra capacità di agire, maggiore la nostra libertà. Se una delle più pesanti eredità del capitalismo è quella di aver garantito la piena libertà di azione soltanto a una ristrettissima élite, allora tra i primi obiettivi di un mondo postcapitalista ci dovrà essere quello di massimizzare la libertà sintetica o, in altre parole, di permettere all’intera umanità di prosperare ed espandere il proprio orizzonte collettivo.53 Almeno tre ingredienti sono necessari in tal senso: fornire beni di prima necessità a tutti; espandere le risorse sociali; sviluppare nuove capacità tecnologiche.54 Presi assieme, questi elementi danno forma a una libertà figlia di una costruzione anziché di un’imprecisata natura, a una conquista storica e collettiva piuttosto che al risultato di individui 120

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lasciati a loro stessi. L’emancipazione non significa staccarsi dal mondo come un’anima libera: significa edificare e prendersi cura dei giusti legami. Per cominciare, la libertà sintetica implica quindi la disponibilità assoluta delle risorse-base necessarie a condurre una vita soddisfacente: reddito, tempo, salute e educazione. Senza queste risorse la maggior parte delle persone sono libere formalmente ma non realmente, e la crescente disuguaglianza globale si rivela per quello che è: un’enorme disparità di libertà. Un primo passo per risolvere il problema è il classico obiettivo socialdemocratico di fornire all’intera società tutti i beni di prima necessità, quali salute, alloggio, servizi per l’infanzia, istruzione, trasporti e accesso a internet.55 L’impostazione liberale, secondo la quale queste necessità sono potenziate dalla libertà di scelta sul mercato, ignora i reali ostacoli (finanziari e cognitivi) in cui si incorre quando c’è da fare queste scelte;56 ma in un mondo orientato a una libertà sintetica ci verranno forniti beni pubblici di alta qualità, lasciandoci liberi di vivere le nostre vite, anziché arrovellarci nella ricerca del gestore telefonico più conveniente. L’immaginario socialdemocratico non contempla però altri due elementi essenziali per la nostra esistenza: tempo e denaro. Il tempo libero è la condizione senza la quale né l’auto­ determinazione dell’individuo né lo sviluppo delle nostre capacità possono realmente compiersi:57 una libertà sintetica non può quindi che esigere un reddito base per tutti, in modo da permettere a chiunque di vivere una vita pienamente libera.58 Una misura del genere non solo fornirebbe ai cittadini le risorse necessarie a sopravvivere sotto il capitalismo, ma produrrebbe anche un aumento del tempo libero e ci darebbe dunque la possibilità di scegliere cosa fare delle nostre vite: potremmo sperimentare, portare avanti esistenze non convenzionali, scegliere liberamente di sviluppare le nostre inclinazioni culturali, intellettuali e fisiche, piuttosto che essere costretti a lavorare per sopravvivere.59 Da qualunque 121

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punto di vista, tempo e denaro sono elementi-chiave se vo­glia­ mo dare alla libertà un valore sostanziale. Una prospettiva davvero completa di quella che chiamiamo libertà sintetica deve anche puntare all’espansione delle nostre capacità: se si vuole emancipare il popolo da quelle distorsioni che ci obbligano ad accontentarci dello status quo, la libertà sintetica deve essere aperta a qualsiasi desiderio le persone esprimano.60 Messa in altri termini, la libertà non può semplicemente essere ridotta alla libera scelta tra opzioni già esistenti, ma deve poter contemplare il maggior numero di opzioni possibili. In questo, le risorse collettive sono essenziali:61 i processi di ragionamento sociale possono per esempio rendere possibile una comprensione comune del mondo, dando forma a un «noi» che abbia un potere di intervento ben più grande di quello dei singoli individui.62 Allo stesso modo, il linguaggio è essenzialmente una struttura cognitiva che permette l’utilizzo del pensiero simbolico per l’espansione dei nostri orizzonti:63 lo sviluppo, l’approfondimento e l’espansione della conoscenza ci permettono di immaginare – e realizzare – capacità che sarebbero altrimenti irraggiungibili; più aumenta la conoscenza tecnica del nostro ambiente e maggiore è la conoscenza scientifica del mondo naturale, meglio comprendiamo le tendenze per loro natura fluide del mondo sociale, acquisendo in questo modo un maggiore potere di azione. Come scrisse Louis Althusser: Così come la conoscenza delle leggi dell’ottica non ha mai impedito all’uomo di vedere… allo stesso modo la conoscenza delle leggi che governano lo sviluppo delle società non ha impedito agli uomini di vivere, né tantomeno ha rimpiazzato il lavoro, l’amore e la lotta. Al contrario: la conoscenza delle leggi dell’ottica ha prodotto occhiali che hanno trasformato la vista degli uomini, così come la conoscenza delle leggi dello sviluppo sociale ha prodotto quei tentativi che hanno trasformato e allargato l’orizzonte dell’esistenza umana.64 122

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L’anti-intellettualismo di cui si ammanta la destra, e che sembra infettare sempre di più anche la sinistra critica, è una regressione infausta che trasforma un sano scetticismo nella rinuncia a qualsiasi sforzo in grado di incrementare la nostra libertà. Questa regressione nella sfera della conoscenza si manifesta anche nelle tante fantasie di una libertà imme­ diata e senza vincoli: il volontarismo che considera le mediazioni, le istituzioni e le astrazioni come semplicemente ostili alla libertà, confonde l’assenza di sovrastrutture con una piena espressione della libertà. Il che, ovviamente, è un errore: un’azione collettiva che punti all’espansione della libertà sintetica è possibile solo attraverso una complessa divisione del lavoro, con tanto di agende altamente mediate e strutture istituzionali astratte. Il valore sociale della libertà sintetica non sta insomma nell’ingenuo recupero del contatto faccia a faccia o di qualche forma di cooperazione elementare, ma è piuttosto l’invito a sviluppare collettivamente un’auto­ determinazione complessa e mediata. Infine: se davvero vogliamo espandere la nostra capacità di azione, lo sviluppo tecnologico deve giocare un ruolo cruciale. Da sempre, «la tecnologia è la fonte delle nostre scelte [e] le nostre scelte sono la base per un futuro in cui non siamo ridotti a semplici pedine».65 Il nostro grado di libertà dipende dalle condizioni storiche dello sviluppo scientifico e tecnologico,66 così come le invenzioni che emergono da questi campi di ricerca permettono sia di estendere le nostre attuali capacità di intervento, sia di crearne di nuove; il pieno sviluppo della libertà sintetica richiede quindi una riconfigurazione del mondo materiale in accordo all’impulso di espandere la nostra capacità di agire. Il raggiungimento della libertà sintetica ci chiama a processi di sperimentazione e di accrescimento collettivo e tecnologico che rifiutino di considerare qualsivoglia ostacolo come naturale e inevitabile:67 implementazioni cyborg, vita artificiale, biologia sintetica e riproduzione tecnologicamente 123

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assistita, sono tutti esempi concreti in tal senso.68 Ecco perché l’obiettivo ultimo dovrà accompagnarsi a un processo tendenzialmente infinito di emancipazione degli individui dalle necessità mondane:69 un simile ideale di emancipazione non potrà mai essere soddisfatto con – o ridotto a – una società statica, ma spingerà sempre al superamento dei nostri limiti. La libertà è un’impresa sintetica, non un dono naturale. Sottesa a quest’idea di emancipazione c’è la concezione di un’umanità intesa come ipotesi trasformativa e rivedibile, una realtà costruita attraverso la sperimentazione e l’elaborazione sia teorica che pratica.70 Non c’è nessuna autenticità umana da realizzare, nessuna unità armoniosa a cui dover ritornare, nessuna umanità non alienata irretita da false mediazioni, nessuna completezza da conquistare: l’alienazione è un metodo che apre a nuove possibilità, e l’umanità è un vettore di trasformazione costituzionalmente incompleto. Ciò che siamo e ciò che possiamo diventare sono progetti che devono essere perseguiti nel corso del tempo. Come ha scritto Sadie Plant: Parlare di liberazione delle donne è sempre problematico, perché presuppone che sappiamo cosa le donne siano. Se donne e uomini sono stati organizzati nelle forme che attualmente conosciamo, allora noi non vogliamo liberare ciò che siamo ora, se capisci cosa intendo… Non è questione di liberazione ma una questione di evoluzione, o di ingegneria. C’è un graduale processo ingegneristico che definisce ciò che una donna può diventare, e non sappiamo ancora quale potrà essere il risultato finale. Ma dobbiamo scoprirlo.71

Quello che va articolato è un umanismo che non segua precetti prestabiliti, un progetto di autorealizzazione privo di un obiettivo prefissato.72 È solo tramite un processo di costruzione e di revisione che l’umanità potrà arrivare a conoscere se stessa, e questo significa aggiornare il corpo umano sia 124

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teoricamente che praticamente, sperimentando nuovi modi di essere e nuove forme sociali come ramificazioni pratiche di quel progetto teorico che intende esplicitare «l’umano».73 Significa adottare un atteggiamento interventista opposto a quegli umanismi che vogliono proteggere a tutti costi un’immagine statica dell’umano,74 e questi interventi vanno dalla sperimentazione corporea individuale alla mobilitazione politica collettiva contro una rappresentazione limitata dell’umano.75 Significa abbandonare la decrepita concezione economica dell’«umano» instillata dalla modernità capitalista, e finalmente inventare una nuova umanità. In questo schema, emancipare significa quindi incrementare la capacità umana di agire in base a quelli che in futuro potranno diventare i nostri desideri: l’emancipazione universale rappresenta l’estensione pressante e risoluta di questo obiettivo, fino a includere tutta la nostra specie. È in questo senso che l’ideale di emancipazione universale deve essere al cuore della sinistra moderna.76 Abbiamo visto che, se sprovvista di un’idea di futuro, la sinistra tende a piegarsi ai tradizionalismi e a rinchiudersi nel fortino della resistenza passiva. Ma allora come sarebbe una «modernità di sinistra»? Sarebbe una modernità finalmente ambiziosa, capace di produrre visioni di un futuro migliore. Opererebbe secondo le coordinate di un orizzonte universale, inseguendo un concetto sostanziale di libertà e ricorrendo alle più recenti tecnologie al fine di raggiungere i propri obiettivi di emancipazione. Piuttosto che limitarsi a una concezione eurocentrica di futuro, recluterebbe le voci di tutto il globo per contribuire all’obiettivo pratico di negoziare un futuro plurale e inclusivo. Che si tratti di rivolte degli schiavi, lotte dei lavoratori, insurrezioni anticoloniali o movimenti per i diritti delle donne, la critica agli universalismi dominanti ha sempre giocato un ruolo essenziale nella costruzione di un futuro moderno: sono anzi questi movimenti che hanno continuamente modificato, corretto e dato vita a 125

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un «universalismo dal basso».77 Ma se davvero ambiamo a un futuro libero e plurale, va prima trasceso il presente ordine globale, fondato sul lavoro salariato e l’accumulazione del capitale. Una modernità di sinistra, in altre parole, richiede la costruzione di una piattaforma postcapitalista e postlavorista tramite la quale potranno finalmente emergere e fiorire molteplici modi di vivere.

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Capitolo 5 IL FUTURO NON STA FUNZIONANDO Il concetto di lavoratore libero implica già che sia povero: virtualmente povero. Karl Marx

Finora abbiamo sostenuto come la sinistra contemporanea tenda a una folk politics incapace di ribaltare la situazione presente e di opporsi al capitalismo globale, mentre al contrario dovrebbe rivendicare la complessa eredità della modernità e proporre visioni di un futuro nuovo. Ma è anche fondamentale che queste visioni si fondino su tendenze già in atto: questo capitolo propone dunque un’analisi circostanziale del capitalismo contemporaneo visto attraverso la lente del lavoro e, sulla base di questa analisi, il capitolo successivo sosterrà che quello a cui dobbiamo puntare è proprio un futuro senza lavoro. Ma cosa significa invocare la fine del lavoro? Con «lavoro» intendiamo i nostri impieghi professionali, il lavoro salariato, il tempo e la fatica che cediamo a qualcun altro in cambio di un reddito. È un tempo di cui non siamo padroni ma che è sotto il controllo dei nostri capi, manager e datori di lavoro: al servizio di queste figure spendiamo circa un terzo della nostra intera vita. Il lavoro può essere qui compreso in opposizione a «tempo libero», laddove quest’ultimo è generalmente associato ai weekend e alle vacanze. Quello che però chiamiamo tempo libero non va a sua volta confuso con la semplice indolenza, anche perché molte delle attività a cui più ci piace dedicarci richiedono in realtà un impegno enorme: imparare a suonare uno strumento musicale, leggere, socializzare con gli amici o praticare uno sport, sono tutte occupazioni che comportano vari livelli di fatica e sforzo, ma che comunque scegliamo liberamente di intraprendere. Un futuro post-lavoro dunque, non è un mondo di pigrizia: piuttosto, è un mondo dove le persone non saranno più schiave del lavoro salariato, ma libere di modellare le proprie vite. 129

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Un simile progetto riporta a una lunga tradizione – sia essa marxista, keynesiana, femminista, anarchica o nazionalista nera – che ha sempre rigettato la centralità del lavoro;1 numerosi pensatori hanno provato in maniera diversa a emancipare l’umanità dalla tediosa schiavitù occupazionale, dalla dipendenza dal lavoro salariato, dalla sottomissione delle nostre vite a un capo o a un datore di lavoro, tentando di dischiudere un «regime di libertà» all’interno del quale l’umanità potesse proseguire il suo progetto di emancipazione.2 Ma, precedenti a parte, sono i recenti sviluppi del capitalismo ad aver attribuito una nuova urgenza a questi problemi. Il rapido progresso dell’automazione, il crescente surplus di popolazione lavoratrice e la continua imposizione di politiche di austerità economica obbligano a ripensare la funzione del lavoro per prepararsi alle future crisi del capitalismo; e così come la Mont Pelerin Society fu in grado di prevedere la crisi del sistema keynesiano (organizzandosi per rispondere di conseguenza), così la sinistra contemporanea dovrebbe prepararsi all’incombente crisi lavorativa. A tal proposito, se anche gli effetti della crisi del 2008 non smettono di riverberare per tutto il pianeta, è comunque troppo tardi per sfruttare quell’occasione: tutto attorno a noi vediamo come il Capitale si sia già ripreso, consolidando nuovamente il proprio potere e assumendo una forma inedita e ancora più insidiosa. Se davvero la sinistra ha intenzione di sfruttare la prossima opportunità che si presenterà, bisogna insomma che si faccia trovare pronta.3 Questo capitolo spiega perché un mondo post-lavoro è un’alternativa che più passa il tempo più diventa urgente. La prima parte descrive la crisi del lavoro che già si sta profilando: fine del posto fisso nei paesi sviluppati, crescita della disoccupazione, surplus di popolazione, e collasso del «lavoro» inteso come misura disciplinare capace di mantenere la società coesa. Quindi rivolgeremo la nostra attenzione ai vari sintomi di questa crisi, che si manifestano non solo 130

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nel numero di disoccupati ma anche nell’aumento della precarietà, nel fenomeno della jobless recovery e nel crescente numero di fenomeni come la marginalità e la segregazione urbana: possiamo già notare gli effetti di questi cambiamenti ovunque, e con essi i nuovi conflitti e problemi sociali che così si producono. Infine, considereremo i vari modi in cui gli Stati hanno gestito la tendenza del capitalismo a produrre un surplus di popolazione. Oggi la crisi del lavoro minaccia di mettere in crisi i me­todi di controllo tradizionali: di conseguenza, da questa crisi è possibile facilitare la produzione di quelle condizioni sociali che permetteranno la transizione verso un futuro libero dal lavoro salariato. POVERI VIRTUALI Il lavoro è un fenomeno comune a tutte le società, ma all’interno del sistema capitalista acquisisce qualità storicamente uniche. Nelle società precapitaliste, nonostante il lavoro fosse necessario, le persone avevano accesso comune alla terra, praticavano forme di agricoltura di sussistenza e avevano la disponibilità dei mezzi necessari quantomeno a sopravvivere; i contadini erano poveri ma autosufficienti, e la sopravvivenza individuale non dipendeva dal lavoro svolto per qualcun altro. L’avvento del capitalismo cambiò tutto: attraverso il processo conosciuto come accumulazione originaria, i lavoratori precapitalisti furono sradicati dalla loro terra ed espropriati dei mezzi di sussistenza.4 I contadini si ribellarono, continuando a sopravvivere ai margini dell’emergente mondo capitalista,5 e fu necessario l’uso della forza – e di nuovi severi sistemi legislativi – per imporre il lavoro salariato sull’intera popolazione. In altre parole, i contadini furono trasformati in proletari. La nuova figura sociale del proletariato venne dunque definita proprio dalla mancanza di accesso ai mezzi di produzione e di sussistenza e dal bisogno di lavoro salariato per 131

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sopravvivere:6 questo significa che il proletariato non è equivalente alla «classe operaia» e che non è definito da reddito, professione o cultura. Il proletariato è semplicemente quel gruppo di persone costrette a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere, che esse abbiano un impiego fisso o meno,7 e la storia del capitalismo è la storia della trasformazione della popolazione mondiale in proletariato tramite l’espropriazione progressiva della forza lavoro rurale. In seguito alla recente integrazione dei paesi post-comunisti nella sfera di controllo capitalista, e assieme alla crescita economica di India e Cina, abbiamo di recente assistito a un «grande raddoppio» del proletariato globale, con un altro miliardo e mezzo di persone che oggi dipendono dal lavoro salariato.8 Con l’avvento del proletariato è emersa però anche una nuova forma di disoccupazione; in effetti, la disoccupazione per come la intendiamo oggi è un’invenzione del capitalismo:9 privato dei mezzi di sussistenza, sulla scena della storia irrompe per la prima volta un nuovo «surplus di popolazione» composto da persone incapaci di trovare un’occupazione retribuita.10 E per quanto il capitalismo sfrutti la classe operaia salariata, Joan Robinson ci ricorda come «la sventura di essere sfruttati dai capitalisti non è nulla rispetto alla sventura di non essere sfruttati affatto».11 Perlopiù, la dimensione di questo surplus si espande e si contrae seguendo i cicli economici: di norma, con il crescere dell’economia i lavoratori vengono prelevati dal surplus e integrati nel lavoro salariato, i livelli di disoccupazione scendono e il mercato del lavoro si restringe. A un certo punto però, la domanda economica va in stallo, i salari vengono tagliati per garantire profitti più alti, oppure i lavoratori iniziano a porre rivendicazioni troppo ambiziose. Per ragioni di profitto, di inflazione,12 o semplicemente per ribadire il dominio sulla classe operaia, i lavoratori vengono quindi licenziati;13 di conseguenza, il surplus cresce nuovamente, e viene tenuto in riserva per il successivo ciclo di crescita. 132

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Questi meccanismi ciclici offrono però solo una spiegazione parziale della nostra situazione attuale, in particolare se si considera che la pressione salariale ha ristagnato per decenni, che l’inflazione è rimasta stabile e che i movimenti operai sono stati sconfitti pressoché ovunque. Il modello ciclico basato sulla domanda riesce certamente a spiegare la gravità della crisi del 2008, ma non i cambiamenti a lungo termine del mercato del lavoro come l’aumento del precariato, la jobless recovery, e l’emersione di mercati del lavoro non capitalisti. Per comprendere a pieno la nostra congiuntura storica è quindi necessario prendere in considerazione altri fattori, ovvero quei meccanismi che producono una tendenza secolare in direzione di un surplus di popolazione sempre maggiore, indipendentemente dai cicli economici di espansione e contrazione:14 e sono proprio questi meccanismi a rappresentare la minaccia più grande per la riproduzione delle relazioni sociali capitaliste. Oggi, a monopolizzare l’attenzione dei media è la produzione del surplus di popolazione causata dalla tecnologia. È un’attenzione che si è perlopiù concentrata sulla paura di un’imminente apocalisse provocata da armate di robot pronti a rubarci il lavoro,15 ma va ribadito che gli sviluppi tecnologici possono anche rendere più efficienti i vecchi processi produttivi senza ricorrere a modelli automatizzati (come nel caso delle innovazioni nel mondo dell’agricoltura). In entrambi i casi, questo aumento della produttività significa comunque che il capitalismo ha bisogno di meno manodopera per produrre lo stesso output. L’automazione sembra in ogni caso la minaccia più imminente, con stime che suggeriscono come dal 47 all’80 percento di tutti i posti di lavoro verranno probabilmente automatizzati nei prossimi due decenni.16 Le stime basate esclusivamente sullo sviluppo tecnologico sono però insufficienti se vogliamo prevedere le dimensioni della disoccupazione che verrà: dopotutto, nonostante 133

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una produttività in costante crescita, nella storia del capitalismo il livello di occupazione è rimasto grossomodo stabile, e malgrado alcuni ritardi e rallentamenti nuovi posti di lavoro sono sempre intervenuti a rimpiazzare quelli andati persi. Il fatto è che l’ottimismo derivato dalle esperienze passate perde di vista le basi politiche contingenti di questi dati storici: gli interventi dei governi, i movimenti dei lavoratori, la divisione di genere della forza lavoro e la riduzione della settimana lavorativa sono tutti elementi che, a suo tempo, hanno giocato un ruolo essenziale nel sostenere l’occupazione. È quindi necessario ricorrere ad altre argomentazioni per poter comprendere a quali condizioni il cambiamento tecnologico porterà effettivamente a un incremento della disoccupazione. Una prima argomentazione sostiene che, dal momento che un incremento di produttività tende a far abbassare i prezzi di produzione, il tasso di disoccupazione sale soltanto laddove la domanda non cresca di pari passo con l’abbassarsi dei prezzi:17 se cioè prezzi più bassi permettono più vendite, l’industria in questione potrebbe espandersi piuttosto che tagliare posti di lavoro. Un argomento simile suggerisce che lo sviluppo tecnologico crea spesso nuove realtà industriali e quindi potenzialmente nuovi posti di lavoro, andando a rimpiazzare quelli automatizzati18 (dall’introduzione del personal computer a oggi, per esempio, sono nati più di 1500 nuovi tipi di lavoro).19 In entrambi i casi, i consumatori comprano più beni (perché sono più economici, o più recenti) mentre gli altri mantengono il loro impiego. La stessa logica si applica ai servizi: l’invenzione del bancomat ha per esempio portato a un minor numero di operatori impiegati nelle banche, ma queste hanno reagito al taglio dei costi aprendo nuove filiali ed espandendo la loro quota di mercato,20 cosicché il numero totale degli impiegati è rimasto immutato (anche se questo potrebbe presto cambiare, man mano che le banche migrano sempre di più verso soluzioni online).21 In tutti questi casi la 134

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logica è che, anche se la tecnologia elimina effettivamente alcuni posti di lavoro, la domanda cresce a sufficienza per produrne di nuovi. In un secondo tipo di situazione, il cambiamento tecnologico raggiunge una velocità tale che una larga fetta della popolazione si ritrova incapace di acquisire le competenze necessarie per trovare un’occupazione.22 In questo caso, anche se si creasse nuova domanda, non ci sarebbero abbastanza lavoratori competenti per svolgere questi impieghi, e la fornitura di forza lavoro verrebbe meno:23 la velocità del cambiamento tecnologico (e della diffusione delle nuove tecnologie) potrebbe quindi rendere interi segmenti della popolazione un surplus obsoleto. Infine, in una terza situazione, le tecnologie capaci di rimpiazzare i posti di lavoro diventerebbero di uso così comune che finirebbero inevitabilmente per ridurre la domanda totale di forza lavoro.24 In questa circostanza, anche se venissero create nuove industrie, queste avrebbero bisogno di sempre meno impiegati, dal momento che le nuove tecnologie avrebbero una grande flessibilità di utilizzo.25 Se anche solo una di queste condizioni si verificasse, allora il risultato dei cambiamenti tecnologici sarà l’aumento della disoccupazione. Come vedremo, ci sono buone ragioni per credere che alcune di queste condizioni siano in effetti probabili; ma per quanto la disoccupazione prodotta dalle nuove tecnologie sia al momento la causa più visibile dell’incremento del surplus di popolazione, non è comunque l’unica. Un altro meccanismo capace di modificare la dimensione del surplus è stato già menzionato: l’accumulazione originaria.26 Questa non è soltanto una tesi storica relativa alla genesi del capitalismo, ma è anche un processo ancora in corso che comporta la trasformazione delle economie di sussistenza precapitaliste in economie capitaliste vere e proprie: attraverso vari metodi, contadini poveri ma autosufficienti vengono costretti a lasciare la propria terra e a sopravvivere 135

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soltanto grazie al lavoro salariato. Come abbiamo visto, la globalizzazione ha accelerato questo processo portando a un raddoppio del proletariato globale, e se la manodopera rurale in Cina è in esaurimento, l’integrazione di Africa e Sud Asia fa sì che la riserva mondiale di forza lavoro sia comunque in rapido aumento.27 Queste dinamiche producono a loro volta un’enorme manodopera globale, dipendente dalla creazione di un altrettanto grande numero di posti di lavoro: dunque, indipendentemente da qualsiasi cambiamento in campo tecnologico nel ciclo di produzione capitalista, il surplus di popolazione continua a crescere tramite l’assimilazione di queste nuove riserve. In più, c’è un terzo meccanismo di esclusione di una specifica parte della popolazione dal lavoro salariato capitalista: l’esclusione di donne e minoranze razziali.28 Mentre i problemi della schiavitù, del razzismo e del sessismo non possono essere ridotti a semplici conseguenze degli imperativi capitalisti – sono fenomeni che rispondono infatti a logiche di dominio ben distinte – queste dinamiche discriminatorie hanno indirettamente finito per contribuire agli obiettivi del Capitale.29 È stato infatti ben documentato come forme di lavoro coatto come la schiavitù siano state un elemento chiave per le origini del capitalismo (e continuano a esserlo oggi),30 e come il lavoro non retribuito di moltissime donne e carcerati appartenenti a minoranze etniche continui a essere oltremodo sfruttato.31 A un livello più modesto, la disoccupazione continua a essere distribuita in maniera non uniforme se si prendono in considerazione le differenze di razza, genere e posizione geografica (basti pensare alla devastazione delle città postindustriali). Certi gruppi hanno più possibilità di essere assunti durante periodi di boom economico, ma sono anche i primi a essere licenziati durante una recessione:32 le minacce affrontate del surplus di popolazione sono dunque differenziate lungo linee razziali e di genere, col risultato che le strutture economiche di sfruttamento ed esclusione vanno 136

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a integrarsi con altre logiche di oppressione. In tutti questi casi, il surplus di popolazione è perlopiù circoscritto a un particolare gruppo sociale per effetto di strutture politiche, legali e sociali: in altre parole, non sono solo la tecnologia e l’accumulazione originaria a rendere difficile la ricerca di un lavoro salariato. Questi meccanismi però si influenzano spesso tra loro: certe persone sono più vulnerabili al cambiamento tecnologico di altre,33 e anche l’inserimento di nuovi surplus di popolazione procede in genere secondo linee razziali.34 Ci sono insomma tanti modi attraverso i quali questi meccanismi – cambiamento tecnologico, accumulazione originaria e discriminazione di genere o razziale – generano un proletariato sempre più vasto al di fuori della forza lavoro ufficiale. Qual è allora la composizione del surplus di popolazione di oggi? In genere, questo può essere suddiviso in quattro strati o segmenti differenti: il segmento capitalista, il segmento non capitalista, il segmento latente e quello inattivo.35 Il primo lo conosciamo bene: a comporlo sono i disoccupati e i sottoccupati che si trovano nel normale mercato del lavoro capitalista. Questo gruppo ha accesso a un livello minimo di welfare fornito dallo Stato, è alla perenne ricerca di un (altro) lavoro, e quindi esercita pressioni sui salari di coloro che hanno già un’occupazione. Ma per la maggior parte della popolazione mondiale, essere disoccupati è praticamente un lusso:36 in assenza di servizi di welfare, la maggior parte delle persone sono continuamente costrette a lavorare per poter sopravvivere, e dunque a creare nuove economie di sussistenza parallele al capitalismo.37 Queste rappresentano appunto il segmento non capitalista del surplus di popolazione, composto da persone che sono state private dei loro mezzi di sussistenza38 e che non beneficiano di quei servizi di welfare (offerti dalla comunità o dallo Stato) che gli permetterebbero di sopravvivere a lungo 137

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senza un’occupazione. Le economie di sussistenza producono beni destinati al mercato – chincaglieria e ninnoli vari, per esempio – ma sono organizzate come forme di produzione non capitaliste dato che l’obiettivo non è l’accumulazione dei capitali.39 È un tipo di economia che sta sempre di più dominando il mercato del lavoro dei paesi in via di sviluppo, dove coinvolge tra il 30 e l’80 percento dei lavoratori.40 Un terzo gruppo del surplus, quello latente, si trova principalmente in formazioni economiche precapitaliste che possono essere mobiliate rapidamente all’interno del mercato del lavoro capitalista. Questo gruppo comprende il bacino dei proto-proletari (inclusi i contadini), ma anche i lavoratori domestici non salariati e quei professionisti che vivono con il rischio costante di tornare a far parte del proletariato, spesso per via di processi di dequalificazione professionale o de­skilling (per esempio, medici, avvocati e accademici).41 È un gruppo che gioca un ruolo importante, perché rappresenta un bacino aggiuntivo di forza lavoro a cui il capitalismo può attingere laddove vi sia molta richiesta sul mercato.42 Infine, in aggiunta a questi strati, un enorme numero di persone (disabili, studenti, semplici scoraggiati...) viene considerato economicamente «inattivo».43 In generale, stando ai dati disponibili, determinare con precisione la dimensione e la natura del surplus di popolazione è molto difficile, anche considerando che il numero tende a fluttuare con lo spostarsi degli individui da una categoria all’altra; ma diverse misurazioni convergono, suggerendo che sia di gran lunga superiore al numero dei lavoratori attivi.44 Questa è la crisi del lavoro che il capitalismo dovrà affrontare negli anni e nei decenni a venire: la mancanza di posti di lavoro decenti per un proletariato sempre più vasto. In altri tempi, che il surplus di popolazione fosse un problema era un’idea che veniva apertamente derisa: durante l’«età dell’oro» del capitalismo il basso tasso di disoccupazione, l’abbondanza di posti di lavoro stabili, i salari in salita e 138

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gli alti standard di vita fecero sì che il rapporto causale tra capitalismo e surplus di popolazione venisse facilmente liquidato. Eppure, mentre la maggior parte dei pensatori di sinistra si dedicò ai problemi di crescita economica creati dal capitalismo, una tradizione intellettuale sotterranea ha da sempre insistito che il surplus di popolazione crea un pro­ blema di riproduzione sociale. Sorprenderà poco scoprire che, tra i pochi in grado di intravedere un potenziale in questa classe di surplus, ci furono spesso pensatori collocati al di fuori dell’efficiente ordine capitalista:45 scrivendo da Algeri negli anni Settanta, Eldridge Cleaver sostenne con preveggenza che «quando i lavoratori diventano permanentemente disoccupati, accantonati a causa del raffinamento dei processi produttivi, questi ritornano alla loro condizione [proletaria] basilare», e che «il vero elemento rivoluzionario della nostra era è [il proletariato]».46 Dal cuore della roccaforte capitalista, Paul Mattick definì questa la «più importante tra tutte le contraddizioni del capitalismo».47 In tempi più recenti, i teorici della comunizzazione hanno offerto importanti contributi all’analisi della crisi del lavoro salariato, mentre Fredric Jameson ha definito il Capitale «non un libro di politica, né un libro sul lavoro: è un libro sulla disoccupazione»:48 viene infatti spesso dimenticato come fu proprio Marx a sostenere che l’espulsione del surplus di popolazione fosse parte della «legge generale e assoluta dell’accumulazione capitalista».49 In seguito alla crisi del 2008 e alla protratta stanchezza del mercato del lavoro, non ci si dovrebbe sorprendere che il problema del surplus di popolazione stia di nuovo emergendo. Con il rapido progresso della tecnologia, il già enorme numero di persone incluse in questo surplus sembra essere destinato a crescere ulteriormente. La stessa base sociale del capitalismo inteso come sistema economico – la relazione tra proletariato e datori di lavoro, mediata dal lavoro salariato – si sta rapidamente dissolvendo. 139

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LA MISERIA DI NON ESSERE SFRUTTATI Come abbiamo visto, solo una piccola parte della forza lavoro globale ha formalmente un impiego retribuito, e questo numero è sceso sempre di più dopo la crisi del 2008. I sintomi più evidenti della crescita del surplus di popolazione possiamo leggerli nei cambiamenti che hanno riguardato i dati statistici sulla disoccupazione a lungo termine. Nell’immediato dopoguerra, un tasso di disoccupazione dell’1 o del 2 percento era considerato un obiettivo raggiungibile dalle economie sviluppate: negli anni Cinquanta e Sessanta, nel Regno Unito e negli Stati Uniti la disoccupazione rimase stabile attorno all’1 e al 2 percento, mentre in Germania scese fin sotto l’1 percento.50 I successivi decenni hanno visto un costante aumento del livello di disoccupazione considerato accettabile, accompagnato da un rallentamento della crescita dei tassi di occupazione.51 Oggi la Federal Reserve considera il 5,5 percento come un tasso ottimale di disoccupazione a lungo termine, più del doppio dei livelli del dopoguerra.52 Negli Stati Uniti la percentuale di uomini senza lavoro è triplicata dagli anni Sessanta a oggi, e anche quella di donne è aumentata, nonostante partisse da un livello già molto più alto.53 Mentre la proporzione delle persone con un lavoro è precipitata, negli ultimi decenni il surplus di popolazione è cresciuto costantemente:54 a livello globale, in seguito alla crisi del 2008 il tasso di disoccupazione ha continuato a salire sia in termini assoluti che relativi.55 Il tasso di creazione di posti di lavoro è rimasto di gran lunga inferiore, generando per lo più impieghi part-time, e la previsione è che questa tendenza si trascinerà anche nel futuro.56 Nel frattempo i tassi di partecipazione alla forza lavoro sono in continuo declino, e la previsione è che continueranno a calare nei decenni che verranno.57 Ma questi dati rappresentano soltanto la punta dell’iceberg. La crisi del lavoro e gli effetti del surplus di popolazione non si manifestano soltanto tramite le misurazioni dirette, ma anche attraverso effetti più sottili e indiretti. 140

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Uno di questi – l’aumento del lavoro precario – esemplifica lo stato del mercato neoliberale del lavoro in tutte le economie sviluppate.58 Paragonate alle carriere stabili e ben remunerate delle generazioni precedenti, le occupazioni di oggi sono generalmente caratterizzate da più ore di lavoro occasionale, stipendi bassi e stagnanti, poca tutela dei lavoratori e una montante insicurezza sul futuro.59 La tendenza alla precarietà ha diverse cause, ma una delle funzioni principali di un surplus di popolazione è proprio quella di permettere ai capitalisti di esercitare una pressione sempre maggiore su quei pochi fortunati che un lavoro ce l’hanno.60 Con la crescita del surplus, e le più scarse opportunità disponibili sul mercato del lavoro, oggi ci troviamo dinanzi a moltissimi lavoratori che cercano di ottenere pochissimi posti di lavoro: per i datori, una classica situazione da «coltello dalla parte del manico». La minaccia di spostare una fabbrica all’estero, per esempio, è possibile solo grazie a una saturazione del mercato del lavoro globale. Di conseguenza, i datori acquistano maggior potere sui lavoratori, e la qualità degli impieghi disponibili diminuisce (andando a integrare le quantità misurate delle statistiche di disoccupazione): questo è esattamente il meccanismo che abbiamo potuto osservare nei decenni passati. In tutta Europa l’intensità del lavoro, in termini di ritmo come di richiesta, è aumentata.61 La transizione verso le catene di distribuzione just-in-time ha esacerbato la domanda di occupazione, mentre tecnologie per la sorveglianza sempre nuove vengono impiegate per il controllo degli impiegati e in alcuni casi persino per monitorarne le abitudini al di fuori degli orari di lavoro.62 Il declino della qualità dei posti di lavoro disponibili si rileva anche nel taglio delle ore lavorative piuttosto che in una completa eliminazione delle professioni, e questo è particolarmente evidente se si osserva la crescita del numero di occupazioni part-time, flessibili o freelance negli ultimi trent’anni:63 il tasso di disoccupazione 141

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relativamente basso nel Regno Unito dopo la crisi del 2008 dipende, per esempio, dal gran numero di persone che lavorano in proprio ma che sopravvivono con stipendi da fame.64 Negli Stati Uniti più di sei milioni e mezzo di persone sono costrette a lavori part-time, benché desiderino un’occupa­ zione a tempo pieno.65 Questa trasformazione del lavoro in occupazione occasionale è anche condizionata da innovazioni quali il crowdsourcing per determinati obiettivi o progetti, le agenzie per il lavoro temporaneo e i contratti «a zero ore», che si aggiungono alle dure condizioni sul posto di lavoro e all’assenza di sussidi (a tal proposito, nel Regno Unito si stima che quasi il 5 percento di tutti i lavoratori siano stati assunti con contratti a zero ore).66 Il surplus di popolazione ha anche esercitato una pressione al ribasso sui salari: alcune stime suggeriscono che per ogni aumento di un solo punto percentuale del livello di stagnazione del mercato del lavoro vi sia un incremento dell’1,6 percento nel tasso di diseguaglianza del reddito.67 Salari stagnanti e quote sempre più basse di risorse destinate all’occupazione sono entrambi fenomeni legati a una saturazione del mercato del lavoro,68 e molti economisti ritengono che l’automazione e la globalizzazione del proletariato siano le principali cause della situazione salariale venutasi a creare da qualche decennio a questa parte.69 Tendenze del genere sono proseguite anche dopo la crisi del 2008, con una crescita salariale rallentata in tutti i paesi del G20 (compresa una drastica caduta nel Regno Unito).70 La crescita rallentata dei salari provoca una situazione di precarietà anche nella sfera personale, con una generalizzata ansia provocata dagli alti debiti dei consumatori e dai pochi risparmi a disposizione.71 Negli Stati Uniti il 34 percento di tutti i lavoratori fa fatica ad arrivare a fine mese, mentre nel Regno Unito il 35 percento delle persone non potrebbe sopravvivere più di un mese attingendo solamente ai propri risparmi.72 Nelle sue forme più feroci la precarietà produce 142

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anche un aumento di patologie quali depressione, ansia e tendenze suicide, una forma di «surplus» che sfugge agli indicatori economici tradizionali:73 la disoccupazione viene infatti associata a un quinto dei suicidi su scala mondiale, un dato preoccupante che in seguito alla crisi finanziaria è andato soltanto peggiorando.74 Assieme alla precarietà, fenomeni come il surplus di popolazione e l’automazione portata in dote dalla tecnologia ci aiutano a comprendere una nuova tendenza riscontrabile sul mercato del lavoro: la jobless recovery o «ripresa senza lavoro», che per l’appunto interviene quando un’economia riesce a uscire da un periodo di crisi senza però stimolare la crescita occupazionale.75 Riprese di questo tipo, ormai comuni nell’economia statunitense,76 si sono protratte sempre più a lungo dagli anni Novanta a questa parte;77 la crisi presente non fa eccezione, dato che più di un milione di posti di lavoro scomparsi devono ancora essere recuperati, e le previsioni suggeriscono che il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti rimarrà ben al di sopra dei livelli pre-crisi almeno fino al 2024.78 Questo però è anche un fenomeno globale, e l’economia mondiale attualmente crea nuovi posti di lavoro così lentamente che il loro numero totale resterà significativamente al di sotto dei livelli pre-crisi per almeno un altro decennio.79 Cosa produca queste riprese senza lavoro non è ancora chiarissimo. Quello che però sappiamo è che sono in qualche modo correlate all’automazione:80 gli unici posti di lavoro che hanno conosciuto un simile tipo di ripresa sono in effetti quelli che negli ultimi decenni più hanno subito la minaccia dell’automazione, come ad esempio i lavori di routine e quelli semispecializzati.81 In più, la perdita di questi posti di lavoro ha avuto luogo quasi esclusivamente durante e dopo periodi di recessione:82 in altre parole, durante i periodi di crisi i posti di lavoro automatizzabili scompaiono definitivamente. Se da qui in avanti i processi di automazione accelereranno ulteriormente, problemi del genere non solo andranno 143

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intensificandosi, ma il Capitale sfrutterebbe i periodi di crisi per eliminare questi posti di lavoro una volta per tutte.83 La lentezza che contraddistingue il ritorno dei posti di lavoro si esprime a sua volta come un aumento della disoccupazione a lungo termine, causando una segregazione sempre più netta di interi gruppi di persone fuori dal mercato del lavoro ufficiale. Dalla più recente crisi a oggi, la lunghezza media dei periodi di disoccupazione è raddoppiata e non dà segni di diminuzione;84 periodi di disoccupazione tanto estesi suggeriscono la presenza di un problema strutturale, ed è un problema a cui i lavoratori fanno sempre più fatica ad adattarsi, così come ci vuole tempo e fatica per acquisire nuove capacità da zero: i lavoratori licenziati da un settore come la vendita al dettaglio avranno per esempio molte difficoltà a trovare un lavoro in settori in forte crescita come quelli nel campo informatico. Nel frattempo, anche laddove lavoratori disoccupati da molto tempo riescano infine a trovare una nuova occupazione, con molta probabilità verranno assunti ai margini del mercato, con paga più bassa e contratti temporanei.85 Insomma, le riprese senza lavoro non fanno altro che esasperare i problemi della precarietà, intensificando il processo di segregazione di una parte della popolazione che si ritrova permanentemente disoccupata. Detta altrimenti: la disoccupazione, o la sua costante minaccia, stanno diventando la regola per la grande maggioranza di tutti i lavoratori. In diverse aree urbane, disoccupazione e segregazione dal normale mercato del lavoro sono da tempo un tratto caratterizzante della normale vita di tutti i giorni. Nelle banlieues di Parigi, nei ghetti degli Stati Uniti e in tante altre sacche di povertà metropolitana, intere comunità sono state letteralmente separate dalle grandi tendenze dell’economia e costrette alla stagnazione persino in periodi di crescita.86 Molto spesso gli spazi di segregazione sono organizzati secondo coordinate razziali: marginalizzazione 144

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sistematica e disinteresse trasformano queste comunità in aree dove la vita è difficile, caratterizzata com’è da scarsa coesione sociale, abitazioni fatiscenti e ovviamente alti tassi di disoccupazione.87 Le origini storiche di queste aree sono ben conosciute: razzismo, schiavitù, processi di esclusione prodotti dalle scelte della politica, violenza fisica, migrazione da parte dei bianchi...88 Nell’America degli inizi del XX secolo la meccanizzazione dell’agricoltura costrinse per esempio la popolazione rurale nera a trasferirsi nelle aree urbane: qui i neri rimasero in gran parte senza lavoro, dato che il razzismo dilagante continuò a precludere loro la possibilità di trovare un impiego in ambito tessile o manifatturiero. Inoltre, la razzializzazione del surplus di popolazione permise ai datori di lavoro di manipolare la classe operaia bianca, mantenendo i salari al minimo e impedendo la creazione di sindacati.89 Con la crescita del capitalismo nel dopoguerra, il mercato manifatturiero fu aperto anche ai lavoratori neri, e già nella metà degli anni Cinquanta i tassi di disoccupazione giovanile di bianchi e neri erano grossomodo simili.90 Ma la globalizzazione della riserva di manodopera portò enormi problemi ai lavoratori neri non specializzati: le fabbriche manifatturiere iniziarono a essere spostate all’estero o fortemente automatizzate, e a pagare le conseguenze del processo di deindustrializzazione furono innanzitutto loro.91 I posti da operaio presero a scomparire dalle città per essere rimpiazzati dagli impieghi nel settore terziario, spesso collocati in lontane aree suburbane.92 I ghetti urbani vennero lasciati all’abbandono, trasformandosi così in aree ad alta concentrazione di disoccupati a lungo termine,93 trappole per poveri senza prospettive lavorative e con poco sostegno della comunità, in cui a proliferare erano le economie sommerse.94 Intere comunità vennero così escluse dalla macchina del Capitale e lasciate a loro stesse, costrette a sopravvivere con il poco che riuscivano a racimolare: chi era in cerca di uno stipendio si ritrovò costretto ad 145

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accettare lavori in nero, alle nuove attività commerciali veniva negato il sostegno delle banche (per bianchi) col risultato che l’unica via d’uscita era rivolgersi agli usurai, e la disperazione dilagante si risolse in una proliferazione di attività illegali.95 Specularmente al fenomeno della disoccupazione ai margini delle grandi aree urbane, anche le economie in via di sviluppo devono affrontare il problema dell’espansione e della concentrazione del proprio surplus di popolazione in quartieri poveri, favelas e baraccopoli. Su scala globale, queste realtà si sono estese a livelli senza precedenti per via della spinta esercitata sulla forza lavoro urbana verso le economie informali e marginali.96 Come riporta una relazione delle Nazioni Unite, «le città sono diventate discariche per il surplus di popolazione che si compone di lavoratori non specializzati e sottopagati impiegati nell’ambito di servizi e commercio».97 La principale causa dell’espansione di slum e quartieri poveri è l’accumulazione originaria: forzata dal colonialismo prima e da politiche strutturali poi, la classe contadina di molti paesi in via di sviluppo è stata spinta ad abbandonare le campagne sotto la pressione della competizione globale, del rapido processo di industrializzazione e dello scatenarsi dei cambiamenti climatici. Come già successo durante il processo di industrializzazione europeo, i lavoratori rurali, ormai senza terra, sono costretti a migrare nelle aree urbane nella speranza di trovare un lavoro, e questo processo ha portato alla concentrazione del proletariato urbano in quartieri poveri e indigenti.98 Qui però le somiglianze finiscono, dal momento che in Europa la transizione venne accompagnata dalla creazione di un numero sufficiente di posti di lavoro, dall’emergere di una classe operaia organizzata, e dalla disponibilità di alloggi per i migranti.99 Questa narrativa è stata invece stravolta dalle condizioni imposte dallo sviluppo postcoloniale: l’industrializzazione che abbiamo conosciuto in questi anni 146

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ha avuto luogo in un contesto segnato non dalla scarsità di lavoro, ma da una forza lavoro che era contemporaneamente enorme e globale.100 Ne consegue che, oltre alle minime prospettive occupazionali e alla carenza di alloggi adeguati, uno dei risultati è stato lo scarso sviluppo di una classe operaia «tradizionale».101 I nuovi migranti urbani sono stati lasciati in una specie di stato di transizione permanente a metà tra contadini e proletari, occasionalmente costretti a vivere in un ciclo stagionale che oscilla tra realtà rurale e miseria urbana.102 In questo modo, baraccopoli e alloggi improvvisati rappresentano una doppia esclusione: dalla terra e dall’economia ufficiale.103 L’umanità in surplus, privata dei mezzi di sussistenza tradizionali e lasciata senza un’occupazione, è stata costretta a inventarsi le proprie economie di sussistenza non capitaliste. La maggior parte del lavoro svolto in questi contesti rimane a un livello informale: sottopagato, insicuro, irregolare e senza il supporto dello Stato; in simili economie la produzione è sì organizzata in forme perlopiù non capitaliste, ma rimane comunque orientata alla produzione di beni da immet­tere sul mercato, anziché al consumo personale. È proprio la mediazione del mercato che anzi distingue le economie di sussistenza postcoloniali dalle altre economie precapitaliste,104 anche se entrambe non sono altro che metodi disperati per la sopravvivenza.105 Anche se è l’accumulazione originaria ad aver causato la creazione di queste baraccopoli, è la «deindustrializzazione prematura» che ne ha consolidato l’esistenza. Se in passato i periodi di industrializzazione partorirono quantomeno un numero di posti in fabbrica sufficiente a dare un’occupazione al nuovo proletariato, la deindustrializzazione prematura rimette tutto in discussione: gli avanzamenti tecnologici ed economici permettono oggi di saltare completamente la fase di industrializzazione, il che significa che le economie in via di sviluppo si stanno deindustrializzando a un tasso di 147

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reddito pro capite molto più basso di quello di altri paesi, e con un tasso di occupazione nel settore manifatturiero assai minore.106 La Cina è un ottimo esempio: diversi fattori – declino dell’occupazione nel settore industriale,107 consolidamento delle mobilitazioni dei lavoratori,108 aumento dei salari109 e limiti demografici – stanno obbligando il paese a concentrarsi sullo «sviluppo tecnologico e il potenziamento della produzione» per riuscire a mantenere l’economia in crescita.110 Un’importante causa del processo di deindustrializzazione è proprio l’automazione: la Cina è infatti il primo paese al mondo per acquisto di robot industriali, tanto che si prevede che il numero totale di robot operativi nelle fabbriche cinesi sarà presto maggiore di quello europeo o nord­ americano;111 più passa il tempo, più la cosiddetta «fabbrica del mondo» si sta robotizzando. Un’altra forma di deindustrializzazione può essere osservata nel «rientro» delle industrie nelle economie sviluppate (il cosiddetto reshoring), ma in forma automatizzata e jobless.112 Il processo di deindustrializzazione si sta inoltre allargando alle economie in via di sviluppo del Sud America, dell’Africa subsahariana e della maggior parte dei paesi asiatici;113 persino in paesi dove l’impiego in campo industriale è cresciuto in termini assoluti, si è però verificata una decrescita significativa nell’intensità del processo produttivo.114 Il risultato di tutto questo non è soltanto la scarsa consistenza di una vera e propria classe operaia, ma anche la difficoltà con cui la forza lavoro si confronta con un percorso occupazionale sempre più accidentato. Una deindustrializzazione tanto precoce da una parte sta privando la maggior parte del proletariato urbano globale della possibilità di sostenersi con il lavoro agricolo, dall’altra lo sta lasciando senza l’opportunità di un impiego proprio nel settore dell’industria. Alcuni osservatori si aggrappano alla speranza che ad assorbire il surplus di popolazione sarà il nuovo settore dei servizi, ma la cosa pare poco probabile: 148

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persino in India, centro mondiale dell’outsourcing dei servizi e delle industrie hi-tech, solo una piccola fetta della forza lavoro è impiegata nei campi dell’informatica e della comunicazione.115 Cosa ancora più importante, il potenziale nel settore terziario è limitato dalla più recente ondata di automazione, che probabilmente finirà con l’eliminare quegli impieghi non specializzati e a bassa retribuzione che sono stati comunemente oggetto di outsourcing (come ad esempio i lavori da scrivania, quelli da call center o le mansioni di data entry).116 Quando anche i lavori cognitivi non di routine verranno automatizzati l’effetto potrebbe essere quello di un declino delle economie basate sui servizi, fenomeno che andrebbe ad aggiungersi a quello della deindustrializzazione prematura, e questo potrebbe significare che i nuovi trend tecnologici finiranno per consolidare l’esistenza di vaste fette di popolazione costrette a vivere in ghetti e all’interno di economie informali e non capitaliste. In ultima analisi, benché le misurazioni dei tassi di disoccupazione siano in grado di darci un’idea della dimensione del problema del surplus di popolazione, sono proprio precarietà, ripresa senza lavoro e marginalità urbana di massa gli indicatori che meglio esprimono la restrizione del mercato del lavoro globale. LA VENDETTA DEL SURPLUS L’esistenza di ampi surplus di manodopera, per il capitalismo è in un certo senso un vantaggio: questi vengono infatti utilizzati come strumento disciplinare contro la classe operaia (particolarmente quando vengono filtrati da venature razziste, nazionaliste e sessiste) e come «esercito di riserva» nei periodi di crescita economica. In più, l’esistenza del surplus permette la riduzione dei salari, amplifica la diffusione di uno spirito di competizione tra i lavoratori, e crea un perenne ostacolo alle ambizioni del proletariato. È anche attraverso queste ragioni che è possibile spiegare la spinta planetaria, 149

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promossa da imperialismo e globalizzazione, verso l’assimilazione della popolazione mondiale all’interno di una forza lavoro globale.117 Ma, d’altra parte, il Capitale richiede anche l’esistenza di un particolare tipo di surplus di popolazione: sottopagato, docile, vulnerabile.118 Senza simili requisiti, diventerebbe un problema: stanco di abbassare la testa e di piegarsi a una condizione di perenne sostituibilità, il surplus di popolazione finirebbe con l’opporsi al sistema tramite rivolte, migrazioni di massa, criminalità o altri gesti capaci di arrestare il pacifico procedere dell’ordine delle cose. Il risultato è che il capitalismo deve allo stesso tempo produrre un surplus disciplinato e usare la violenza e l’intimidazione contro quei settori che scelgono invece di ribellarsi. Uno dei principali metodi impiegati per controllare questo surplus riottoso è l’ideale socialdemocratico della «piena occupazione», secondo il quale ogni lavoratore (uomo) fisicamente abile ha diritto a un lavoro garantito. In ossequio a questo ideale le politiche economiche mirano a reinserire il surplus nell’apparato capitalista sotto forma di diligenti lavoratori salariati, sulla scorta di un progetto reso possibile dal consenso egemonico stabilitosi tra rappresentanti del lavoro e del Capitale. L’apogeo di questo approccio fu raggiunto nel dopoguerra, quando a trasformare la piena occupazione in un obiettivo economico necessario furono da una parte le lotte operaie, dall’altra le preoccupazioni dei conservatori per la preservazione dell’ordine sociale.119 Nella breve «età dell’oro» del capitalismo che ne seguì la disoccupazione fu mantenuta al minimo, mentre il Capitale – per potersi espandere e continuare il processo di accumulazione – dovette rivolgersi alle popolazioni precapitaliste sparse per il globo.120 L’aumento dell’occupazione venne raggiunto perlopiù grazie a una crescita economica stabile capace di far aumentare la domanda di lavoratori.121 Storicamente, la crescita delle economie nazionali è sempre stata importante per tenere 150

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sotto controllo gli effetti della disoccupazione prodotta dalla tecnologia: le soluzioni possono essere o l’incremento della produzione per le industrie già esistenti, o la creazione di industrie totalmente nuove per poter così dare un impiego ai nuovi lavoratori. Attorno alla seconda metà del XIX secolo l’aumento della produzione creò, per esempio, quei posti di lavoro che riuscirono a controbilanciare l’influsso del surplus di popolazione proveniente dal settore agricolo;122 nei periodi immediatamente precedenti e successivi alla guerra, la crescita dei posti di lavoro nel settore industriale fu sostenuta dall’emergere del consumismo di massa e dall’incremento delle spese militari;123 oggi invece possiamo individuare tentativi simili nei processi di accumulazione tramite espropriazione, vale a dire nella trasformazione di beni pubblici (o comuni) in prodotti privatizzati (e mercificati). Per permettere la crescita della domanda di lavoro è però necessario che ci sia un bacino di offerta, e cioè una forza lavoro sempre più specializzata: e in questo il sistema educativo gioca da sempre una funzione chiave, al punto che le origini dell’istruzione secondaria stanno proprio nel tentativo di produrre manodopera più qualificata. Nel periodo di alta disoccupazione che segnò la Grande Depressione, un concetto come la «formazione al lavoro» trovò per esempio ampi consensi,124 mentre i primi neoliberali arrivarono al punto di sostenere che l’istruzione fosse necessaria solo ai fini di un adattamento degli individui ai costanti cambiamenti dell’economia.125 Oggi le aree di crescita del mercato tendono a essere quelle degli impieghi specializzati, dei lavori cognitivi e non di routine,126 il che significa che qualsiasi ambizione di piena occupazione richiede sempre più che i lavoratori siano in possesso di qualifiche specializzate: sono in effetti richieste di questo tipo a rendere più chiare le politiche aggressive che molti governi adottano al fine di ridurre l’istruzione universitaria a poco più che un tirocinio di lavoro.127 L’obiettivo dell’intera società diventa così quello 151

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di produrre soggetti competitivi, stretti nella morsa di un continuo ciclo di automiglioramento, necessario per poter essere considerati «assumibili».128 La richiesta che i lavoratori vengano continuamente riqualificati e formati e che la politica intervenga per sostenere una crescita economica stabile è quindi una componente necessaria per la piena occupazione.129 Ma sebbene la richiesta di nuovi posti di lavoro rimanga ideologicamente pervasiva, l’obiettivo di un lavoro per tutti è ormai irrealizzabile. La situazione del mercato del lavoro che si venne a creare nel dopoguerra fece sì che, per il capitalismo, la crescente forza della classe operaia divenne sempre di più un problema e, in particolare, la stagflazione degli anni Settanta rappresentò un’opportunità per invertire la priorità data all’occupazione: gli effetti prodotti dalla pressione di classe – interruzioni della produzione, crescita dei salari, diminuzione dei profitti – furono un fattore cruciale che motivò la decisione delle banche centrali di aumentare i tassi di interesse, nella speranza di ridurre la domanda aggregata e di aumentare la disoccupazione130 (in effetti, il principale consulente economico di Margaret Thatcher finì con l’ammettere che la guerra contro l’inflazione fu, indirettamente, una guerra contro la classe operaia).131 Le severe politiche monetarie dei primi anni Ottanta ebbero a loro volta lo scopo di indebolire il potere dei lavoratori, far aumentare la disoccupazione fino a un livello accettabile per il Capitale e mettere fine al sogno della piena occupazione. Ma se anche l’ideale della piena occupazione non fosse stato messo sotto attacco, la disponibilità di posti di lavoro per tutti richiede necessariamente una forte crescita economica: e questa, per l’economia globale, è una prospettiva che sembra sempre meno probabile. Negli ultimi anni la crescita globale è rimasta significativamente al di sotto dei livelli raggiunti nel periodo pre-crisi,132 ed economisti di ogni estrazione politica avvertono che, a causa dei fondamentali 152

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mutamenti delle nostre economie, la crescita si è ormai stabilizzata a un livello permanentemente più basso.133 Inoltre, le compagnie ai vertici di quei settori considerati in grande crescita – come Facebook, Twitter o Instagram – non creano una quantità di posti di lavoro paragonabile a quella di compagnie tradizionali come Ford o General Motors:134 le nuove industrie impiegano appena lo 0,5 percento della forza lavoro americana (un dato che non suona esattamente esaltante)135 e a seguito di un rapido declino oggi le nuove imprese creano in media il 40 percento di posti di lavoro in meno rispetto a vent’anni fa.136 Allo stato attuale, il vecchio progetto socialdemocratico di incoraggiare l’occupazione grazie alle nuove industrie è destinato a fallire per via della bassa intensità del lavoro e di una crescita economica a singhiozzo. Certo, si potrebbe immaginare che, con il giusto cocktail di misure e pressioni politiche, il ritorno alla piena occupazione sia un’ipotesi ancora percorribile.137 Ma considerato che il picco dell’era socialdemocratica reggeva anche sull’esclusione delle donne dalla forza lavoro, dovremmo piuttosto chiederci se un lavoro davvero per tutti sia mai stato un traguardo davvero raggiungibile. Se la piena occupazione è dunque rimasta allo stato di mistificazione ideologica, il modo in cui ha normalizzato il lavoro ha però ancora un effetto tangibile sui disoccupati: i cambiamenti del welfare, la creazione del cosiddetto work­ fare e l’insistenza sui lavori «socialmente utili» sono in questo senso esempi sempre più insidiosi. D’altronde, così come il concetto di piena occupazione ha cambiato nel tempo diverse sfumature, anche la disoccupazione è stata concepita in modi differenti:138 all’inizio veniva considerata come un incidente di percorso individuale, un problema da mitigare tramite soluzioni di tipo semi-assicurativo. Ma la Grande Depressione stravolse questo atteggiamento, e la disoccupazione di massa iniziò a essere analizzata come un problema 153

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strutturale (e pertinente soltanto agli uomini): i movimenti dei lavoratori enfatizzarono la necessità di un lavoro per tutti, e i governi reagirono adottando misure di welfare e politiche per l’occupazione. Oggi molte delle trasformazioni che hanno per oggetto lo stato sociale possono essere interpretate come tentativi di recuperare la funzione disciplinare del disoccupato: il lavoro non retribuito sotto forma di workfare ha l’effetto di limitare la crescita dei salari e rappresenta una minaccia per quelli che un impiego ce l’hanno già; la figura del disoccupato in cerca di lavoro impone a tutti una norma, mentre l’attacco portato ai sussidi a varie forme di disabilità, sta trasfor­ mando in «lavoratori potenziali» persino persone che fino a poco tempo fa erano considerate estranee alla forza lavoro.139 I disoccupati devono poi adempiere a una lunga serie di obblighi per poter sperare di ricevere finanche il minimo dei sussidi: partecipare a corsi di aggiornamento, compilare sempre nuove domande di assunzione, ascoltare i consigli degli «esperti», e ovviamente lavorare gratis. L’incremento della sorveglianza e del controllo da parte dello Stato ha lo scopo di produrre un surplus di popolazione flessibile e ben addestrato, che sia dunque capace anche di esercitare pressioni sui lavoratori già in possesso di un’occupazione. Importa poco che le misure contro la disoccupazione riescano o meno nei loro intenti dichiarati, dato che il loro vero scopo è un altro:140 il welfare state è ormai diventato nient’altro che un’istituzione progettata per mobilitare il surplus di popolazione contro i lavoratori. La gestione del surplus di popolazione non si basa solo sulla produzione di lavoratori ben disciplinati e di disoccupati disposti a tutto. Le misure punitive e il controllo statale stanno diventando sempre più comuni quando si ha a che fare con gli eccessi del Capitale: per esempio, dimensione e composizione del surplus di popolazione vengono attentamente regolate grazie a rigide politiche di immigrazione. 154

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Per questo surplus, migrare verso un paese con migliori prospettive lavorative è una risposta naturale agli alti tassi di disoccupazione del proprio paese, ed è infatti un fenomeno storicamente molto comune. Nel XIX secolo, con la trasformazione dell’agricoltura e delle campagne provocata dalla meccanizzazione, la via di emigrazione principale fu quella verso il Nuovo Mondo,141 ma la possibilità di emigrare verso il mondo sviluppato è oggi preclusa, e benché vengano tirate in ballo diverse ragioni per giustificare un controllo più rigido dell’immigrazione, la considerazione principale è stata perlopiù quella di tenere sotto controllo il numero di lavoratori di riserva, potenzialmente turbolenti.142 E così oggi assistiamo alla militarizzazione del confine tra Stati Uniti e Messico, alla creazione di una Fortezza Europa sempre più blindata, a misure giustificate dall’infondata paura di stranieri che verrebbero a rubarci il lavoro. Eppure tanta è la disperazione di questi migranti che, anche di fronte alla possibilità di morire, scelgono comunque di intraprendere un viaggio pieno di pericoli verso un paese nuovo. Il risultato è che negli ultimi quindici anni più di 22.000 migranti hanno perso la vita cercando di entrare in Europa, più di 6000 sono morti attraversando il confine tra Stati Uniti e Messico, e più di 1500 nel tentativo di raggiungere l’Australia.143 Queste letali barriere anti-immigrati sono uno dei meccanismi principali usati oggi per segregare e controllare il surplus di popolazione globale. Ovviamente, la discriminazione razziale è un’altra parte integrante del trattamento riservato ai migranti: gli immi­ grati non sono semplicemente rappresentati come individui, ma come altre razze. Quando leggiamo che «orde di clandestini» stanno minacciando la sacralità dei confini europei, o che i lavoratori migranti nel settore tessile in Thailandia sono soggetti a sfruttamento e abusi, in entrambi i casi è evidente come le gerarchie razziali siano un elemento essenziale per il controllo del surplus di popolazione.144 155

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Quando il tentativo di cooptare il surplus all’interno di un bacino di forza lavoro ben disciplinato fallisce, lo Stato ricorre da sempre all’imprigionamento, all’esclusione e alla violenza: e infatti in tutto il mondo è aumentata l’incarcerazione di massa, e con essa la popolazione carceraria sia in termini relativi che assoluti.145 Inutile dire che anche qui si celano dinamiche razziali: in modo più evidente nel caso della popolazione nera negli Stati Uniti, ma anche nel caso dei musulmani in Europa, delle popolazioni indigene in Canada, e in generale nel fenomeno della deportazione e della detenzione di migranti in tutto il mondo.146 Questi sistemi di incarcerazione si estendono al di là delle prigioni, e sono costituiti da una rete di leggi, tribunali, politiche, usanze e regole che, messe insieme, aiutano a soggiogare un gruppo specifico di persone.147 L’incarcerazione di massa è un sistema di controllo sociale indirizzato principalmente al surplus di popolazione, anziché alla criminalità. Per esempio, gli aumenti del tasso di disoccupazione nel settore industriale sono associati, su scala globale, all’incremento delle assunzioni nelle forze di polizia:148 la crescita del bacino di lavoratori disoccupati è cioè accompagnata dalla crescita dell’apparato punitivo e repressivo dello Stato. A sua volta, il crescente numero di migranti rinchiusi in centri di detenzione è una risposta al fallimento delle economie di sussistenza e alla formazione di un proletariato mobile:149 chi è in cerca di una vita migliore di quella di uno slum, cercherà opportunità altrove, ma finirà per essere incarcerato o, peggio ancora, dato per disperso nel Mediterraneo. Il sistema americano è forse l’esempio più lampante della correlazione tra surplus di popolazione e forze di polizia: il picco di incarcerazione di massa rilevato negli ultimi decenni non rappresenta una reazione a un aumento del tasso di criminalità,150 ma è piuttosto una misura per contrastare la proliferazione di ghetti abitati da disoccupati e rispondere ai progressi ottenuti da movimenti per i diritti civili. La natura 156

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intimamente razzista del sistema è cosa nota, ma le dina­ mi­­ che di incarcerazione sistematica non possono essere pienamente comprese senza far riferimento a consi­de­ra­zioni di classe e relative al surplus di popolazione: per esempio, i neri di estrazione media e alto-borghese vivono una vita relativamente tranquilla,151 mentre la maggior parte della popolazione carceraria consiste di «lavoratori poveri o disoccupati».152 Anche le disparità tra popolazione carceraria suddivisa in razze vengono eclissate dalle differenze in termini di classe sociale,153 così come la crescita dell’incarcerazione di massa della popolazione nera è speculare alla diminuzione del tasso di occupazione dello stesso gruppo sociale.154 In effetti, la natura razziale dell’incarcerazione di massa in America deriva «esclusivamente» dalla sproporzionata incarcerazione della popolazione povera nera del paese.155 L’incarcerazione di massa è insomma diventata un metodo per gestire e controllare il surplus di popolazione che è stato escluso dal mercato del lavoro e lasciato in povertà. Raccolti nei ghetti urbani, questi gruppi sono diventati un bersaglio facile per il controllo da parte dello Stato: qui la condizione sociale si incrocia di nuovo con quella razziale, dato che negli Stati Uniti questi spazi di povertà urbana furono inizialmente creati dalle pratiche di marginalizzazione della popolazione nera, mentre il sistema carcerario sostanzialmente porta con sé l’eredità della schiavitù, delle leggi Jim Crow e dei ghetti, rimpiazzando le loro funzioni originali con nuovi sistemi di esclusione.156 Ma ragionare secondo coordinate di classe ci permette di identificare anche un’altra distinzione importante: laddove i precedenti sistemi di esclusione sociale sfruttarono il lavoro non retribuito e cercarono di trasformare la popolazione nera in una docile forza lavoro, il sistema carcerario contemporaneo è progettato proprio al fine di escludere e di controllare il surplus di popolazione.157 Considerate le conseguenze di una fedina penale sporca, il sistema carcerario mette in atto 157

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un’esclusione su tre livelli distinti: esclusione dal capitale culturale e educazionale, dalla partecipazione politica e dai sussidi pubblici.158 Il risultato è che l’incarcerazione dà inizio a un circolo vizioso che costringe la classe urbana povera alla disoccupazione, e dunque riproduce continuamente l’esistenza di gruppi lasciati ai margini del Capitale.159 Piuttosto che mettere in atto delle riforme mirate a educare e reintegrare i carcerati nella società capitalista, vengono costruiti complessi sistemi per prevenire il loro rientro (dopo la prigione) all’interno dei normali posti di lavoro salariato. Nella forma più estrema, un simile meccanismo di esclusione rende queste popolazioni esplicitamente sacrificabili, situate al di fuori della società e soggette a violenza gratuita: ne consegue che questo è un sistema che produce e riproduce un’esclusione permanente dall’economia formale. Queste popolazioni sono considerate «superflue» e non indispensabili, e si ritrovano sottoposte ai trattamenti più brutali da parte delle forze di polizia e di qualsiasi altro metodo di repressione che lo Stato abbia a disposizione. È qui che vediamo come Stato e Capitale ricorrano in ultima analisi a una lunga serie di meccanismi per gestire il surplus di popolazione: da un’integrazione strettamente regolamentata, all’esclusione violenta pura e semplice. LA CRISI DEL LAVORO Come abbiamo visto, sempre più persone sono tenute al di fuori del lavoro formale e salariato, sopravvivendo solo grazie a minimi sussidi statali, al lavoro in nero o a metodi illegali. Le vite di queste persone sono segnate da povertà, precarietà e insicurezza; nel frattempo, più passa il tempo più ci si sta rendendo conto di come, molto semplicemente, non vi siano sufficienti posti di lavoro per dare un’occupazione a tutti. Con il crollo dell’ordine egemonico fondato sul posto fisso e decentemente retribuito, il controllo sociale torna quindi alle misure coercitive: un duro sistema di workfare, un 158

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dichiarata politica anti-immigrazione, controlli più rigidi sul flusso delle popolazioni e incarcerazione di massa per quelli che rifiutano di essere lasciati ai margini. Questa è la crisi del lavoro che il neoliberismo e il surplus di popolazione (che compone la maggior parte della forza lavoro globale) devono affrontare oggi. Con la possibilità di un’automazione del lavoro su larga scala – tema che affronteremo nel prossimo capitolo – è molto probabile che il futuro ci presenterà le seguenti tendenze: • La precarietà delle classi operaie nelle economie dei paesi sviluppati si andrà intensificando, per via della crescita del surplus di forza lavoro globale (prodotto da globalizzazione e automazione). • Le «riprese senza lavoro» si protrarranno e si presenteranno con forme sempre più marcate, andando a toccare principalmente i lavoratori che possono essere rimpiaz­ zati da macchinari. • Le popolazioni di ghetti, baraccopoli e slum continueranno a crescere per via dell’automazione dei posti di lavoro non specializzati, un processo reso ancora più rapido dalla deindustrializzazione prematura. • La marginalità urbana nelle economie sviluppate crescerà sempre di più, in seguito all’automazione dei posti di lavoro non specializzati e pagati poco. • La trasformazione dell’educazione universitaria in una semplice formazione al lavoro sarà accelerata, nel disperato tentativo di produrre grandi quantità di lavoratori specializzati. • La crescita continuerà a essere lenta, rendendo improbabile la creazione di nuovi posti di lavoro che vadano a rimpiazzare quelli perduti. • I cambiamenti al workfare, i controlli per l’immigrazione e l’incarcerazione di massa si intensificheranno, e i disoccupati saranno sempre più soggetti a misure coercitive. 159

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Naturalmente, nessuno di questi esiti è inevitabile. Ma la nostra analisi si basa sulle tendenze attuali del capitalismo e sui problemi che, con molta probabilità, emergeranno in seguito all’ulteriore crescita del surplus di popolazione. Queste tendenze prefigurano una crisi del lavoro, e di conseguenza una crisi che colpirà qualsiasi società fondata sull’istituzione del lavoro salariato. Sotto il dominio del capitalismo, i nostri posti di lavoro hanno svolto un ruolo centrale per le nostre vite sociali e per la nostra stessa identità, oltre a essere l’unica fonte di sostentamento per la maggior parte delle persone. I due decenni che verranno sembrano però presagire un futuro in cui l’economia globale sarà sempre meno capace di produrre un numero sufficiente di impieghi (per non parlare di impieghi decenti), ma in cui sarà ancora da essi che la nostra sopravvivenza comunque dipenderà. Partiti politici e sindacati sembrano ignorare la crisi e fanno fatica a controllarne i sintomi, e questo nonostante l’automazione minacci di rendere obsoleti un numero sempre maggiore di lavoratori. Di fronte a queste tensioni, il progetto politico per il XXI secolo deve essere quello di costruire un’eco­ nomia in cui la sopravvivenza delle persone non dipenda più dal lavoro salariato. Come sosterremo nei prossimi capitoli, queste battaglie possono e devono includere approcci diversi: questo significa produrre idee egemoniche che insistano sull’obsolescenza del concetto di «duro lavoro», che trasformino i tradizionali obiettivi dei sindacati (dalla resistenza all’automazione alla condivisione del lavoro e alla riduzione delle settimana lavorativa),160 che insistano su sussidi governativi per investimenti nel campo dell’automazione, che reclamino l’innalzamento del costo del lavoro per il Capitale161 e via di questo passo.162 Significa opporsi all’espulsione del surplus di popolazione e attaccare i meccanismi di controllo che su di esso vengono imposti. L’incarcerazione di massa e il sistema di sorveglianza razzista devono essere aboliti,163 e i meccanismi di controllo 160

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spaziali – dai ghetti ai controlli di frontiera – devono essere smantellati per permettere il libero movimento dei popoli. Infine, lo stato sociale va difeso: non come un fine in se stesso, ma come una componente necessaria per il raggiungimento di una società post-lavoro più accogliente e tollerante. Il futuro rimane aperto, e la lotta politica che ci aspetta consiste precisamente nel definire quali saranno le conseguenze della crisi del lavoro.

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Capitolo 6 IMMAGINARI DEL POST-LAVORO L’obiettivo del futuro è la piena disoccupazione. Arthur C. Clarke

Mentre i capitoli precedenti hanno analizzato i cambiamenti delle condizioni sociali che stanno rendendo sempre più necessario un mondo post-lavoro, questo capitolo vuole delineare l’aspetto che un futuro del genere potrebbe praticamente assumere.1 Partiremo quindi da alcune generiche richieste per la costruzione di una piattaforma che ci porti a una società libera dal lavoro salariato: il senso è rompere con quella tendenza che porta una fetta importante della sinistra odierna a individuare nel rifiuto di qualsiasi rivendicazione il non plus ultra dell’intransigenza.2 In effetti, diversi critici sostengono che il risultato di qualsiasi richiesta o rivendicazione è legittimare un’autorità esterna e quindi scendere a compromessi con lo status quo: ma è un’interpretazione che perde di vista sia l’elemento antagonista da cui muove il puro gesto di richiedere qualcosa, sia il ruolo essenziale che richieste e rivendicazioni rivestono in quanto agenti attivi del cambiamento.3 Alla luce di queste considerazioni, rifiutarsi di formulare qualsiasi tipo di rivendicazione è il sintomo di una confusione teorica, più che un progresso pratico: una politica priva di rivendicazioni è semplicemente un insieme di corpi senza un obiettivo. Una visione coerente del futuro è invece in grado di avanzare proposte e obiettivi concreti, e questo capitolo vuole appunto contribuire a questa potenziale discussione. Nessuna delle proposte che presenteremo qui è radicalmente nuova, ma proprio in questo sta parte della loro forza: non si tratta cioè di un progetto vago o campato in aria, perché movimenti e strutture capaci di sostenerlo esistono già, e hanno un effetto tangibile nel mondo reale. Oggi le proposte di stampo rivoluzionario appaiono 163

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ingenue, e quelle di impronta riformista semplicemente futili. Troppo spesso dibattiti e confronti vanno a finire così, con ogni singolo schieramento politico troppo impegnato a denunciare i propri avversari per ricordarsi l’imperativo strategico di cambiare la nostra condizione sociale. Le rivendicazioni che proponiamo sono dunque da intendersi come riforme non riformiste, un’espressione con la quale vogliamo intendere tre cose: innanzitutto queste riforme devono tradire uno spirito utopico che possa esercitare pressioni sui limiti di quanto il capitalismo è in grado di concedere; questo le trasforma da garbate pretese a rivendicazioni pressanti, guidate da uno spirito belligerante e antagonista capace di unire all’utopia futuribile l’immediata necessità di ottenere quanto richiesto, qualcosa come un «utopismo senza se e senza ma».4 In secondo luogo, sono proposte che si fondano su tendenze reali del mondo di oggi, e contengono dunque un grado di plausibilità che spesso latita nei sogni rivoluzionari. Infine (e cosa più importante) queste rivendicazioni spostano l’equilibrio politico contemporaneo e costruiscono una piattaforma per sviluppi ulteriori: piuttosto che adagiarsi su una transizione meccanica verso il prossimo e predeterminato stadio storico, proiettano innanzi una via di fuga dal presente.5 Le proposte avanzate in questo capitolo non ci libereranno immediatamente dal capitalismo, ma promettono se non altro di liberarci dal neoliberismo e di instaurare un nuovo equilibrio tra forze politiche, economiche e sociali. Dopo il consenso socialdemocratico e quello neolibe­ rale, la nostra tesi è che la sinistra si debba mobilitare per la costruzione di un «consenso post-lavoro». Ovviamente, in una simile società potremmo avere maggiori possibilità di raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi, ma questo è un progetto a lungo termine, da realizzare nel corso di decenni, non di anni: la scala temporale è quella dei cambiamenti culturali, piuttosto che dei cicli elettorali. Considerato l’indebolimento della sinistra contemporanea, c’è solo una possibile 164

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via d’uscita: una paziente ricostruzione del suo potere, argomento di cui tra l’altro tratteremo nei capitoli a seguire. Non c’è davvero altro modo per realizzare un mondo libero dal lavoro, ed è quindi fondamentale prestare attenzione agli obiettivi strategici a lungo termine e ricostruire il potere d’azione dei gruppi capaci un giorno di conseguirli: in questo senso, indirizzare la sinistra verso un futuro post-lavoro non permetterà soltanto conquiste significative come la riduzione della fatica provocata dal lavoro e la fine della povertà, ma renderà anche possibile accumulare peso politico. Noi crediamo che, considerate le condizioni materiali del mondo attuale, una società post-lavoro sia non solo possibile, ma anche sostenibile e desiderabile.6 Questo capitolo prova dunque a indicare la strada da seguire: gettare le fondamenta di una società post-lavoro grazie alla completa automazione dell’economia, alla riduzione della settimana lavorativa, all’implementazione di un reddito base univer­ sale e a una rivoluzione culturale della nostra stessa comprensione del lavoro in sé. PIENA AUTOMAZIONE La nostra prima richiesta è un’economia completamente automatizzata. Grazie agli sviluppi tecnologici recenti, un’economia di questo tipo potrebbe liberare l’umanità dalla schiavitù del lavoro e, allo stesso tempo, produrre una quantità di ricchezza sempre maggiore. Senza una piena automazione il futuro post-capitalista dovrà necessariamente scegliere tra l’abbondanza di risorse a scapito della libertà (in qualche modo replicando la centralità assoluta assegnata al lavoro nella Russia sovietica) e la libertà a scapito dell’abbondanza di beni sulla falsariga delle distopie primitiviste.7 Al contrario, grazie all’automazione le macchine produrranno tutti i beni e i servizi necessari alla società, liberando da questo peso gli esseri umani:8 è per questo motivo che sosteniamo che la tendenza alla crescente automazione (e alla sostituzione 165

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dei lavoratori umani) dovrebbe essere entusiasticamente accelerata e adottata come fondamentale progetto politico della sinistra.9 Il nostro progetto vuole insomma sfruttare una tendenza già esistente e interna al capitalismo per spingerla oltre i parametri accettabili dalle relazioni sociali riconosciute dal capitalismo stesso. Il capitalismo è stato a lungo sinonimo di rapidi cambiamenti tecnologici: i mezzi di produzione vengono infatti continuamente trasformati, in un processo guidato dall’imperativo dell’accumulazione.10 Nel XIX secolo l’agricoltura venne meccanizzata e piccoli appezzamenti di terreno furono accorpati in fattorie industriali sempre più grandi; anche l’artigianato subì trasformazioni importanti, con l’apparizione di nuovi macchinari da usare nel processo produttivo. Le mansioni che a suo tempo venivano interamente svolte da un lavoratore specializzato furono così suddivise in tante componenti elementari, riducendo il flusso di lavoro a una serie di semplici gesti riproducibili da un macchinario;11 ai lavoratori vennero assegnati incarichi parziali, e ai tradizionali strumenti di loro competenza si sostituirono macchine che ritmicamente adempivano agli stessi compiti.12 Il lavoro divenne quindi sempre più ripetitivo, elementare e guidato dalle macchine, con un conseguente incremento della domanda di manodopera non specializzata e a basso costo (in particolare, donne e bambini).13 All’inizio del XX secolo, questa tendenza prese a cambiare a causa dell’introduzione di nuove tecnologie capaci di eliminare anche i compiti manuali di routine (come il trasporto e la distribuzione dei prodotti): ad aumentare fu dunque la necessità di operai specializzati per la supervisione dei nuovi macchinari, per le attività di servizio e per la gestione delle nuove grandi compagnie che in quel periodo videro la luce.14 Nella prima parte del Novecento la domanda di lavoro specializzato crebbe anche per via dall’avvento di nuove tecnologie da ufficio – macchine da scrivere, fotocopiatrici 166

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e via dicendo – per il cui corretto funzionamento servivano operatori esperti. In altre parole, la tecnologia non ha sempre l’effetto di ridurre il tasso di specializzazione, e l’aumento della domanda di lavoratori specializzati durante l’ultimo secolo ne è prova:15 certo, l’impiego di operai in ambito industriale continuò a diminuire, dato che mansioni del genere si prestavano in maniera particolare a essere rimpiazzate da tecnologie più produttive.16 L’automazione della filiera su larga scala tipica di inizi Novecento fu successivamente accompagnata dall’automazione anche nella piccola produzione,17 e mentre il settore industriale nel 1970 impiegava circa un migliaio di robot, oggi la cifra è salita a più di 1,6 milioni.18 In termini di posti di lavoro, l’industria manifatturiera ha raggiunto un punto di saturazione globale: anche nei paesi in via di sviluppo la tendenza è alla deindustrializzazione, e i tassi di occupazione sono in crescita solo nel settore terziario.19 Parallelo al declino industriale, un altro cambiamento ha avuto luogo durante la seconda metà del XX secolo: mentre nei decenni precedenti le tecnologie a uso ufficio avevano inte­ grato il ruolo dei lavoratori e fatto crescere la domanda di figure professionali in possesso delle relative competenze, con lo sviluppo dei microprocessori e delle tecnologie informatiche queste innovazioni iniziarono in molti settori a rimpiazzare i lavoratori non specializzati (per esempio operatori telefonici e segretari).20 La robotizzazione del terziario sta oggi aumentando in maniera esponenziale, con più di 150.000 robot per servizi venduti negli ultimi quindici anni,21 e al momento i lavori particolarmente minacciati dal processo sono quelli «di routine» i cui compiti possono essere codificati in una serie di passaggi ben precisi: si tratta insomma di incarichi che, se programmati con il software appropriato, i computer sono perfettamente in grado di portare a termine da soli, il che negli ultimi quarant’anni ha prodotto una drastica diminuzione dei posti di lavoro di routine sia manuali che cognitivi.22 167

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La conseguenza è stata una polarizzazione del mercato del lavoro, dal momento che a essere di routine (e quindi automatizzabili) sono molte mansioni non solo di media difficoltà ma anche di media retribuzione:23 in Nord America e in Europa occidentale il mercato del lavoro è ormai caratterizzato da una predominanza di lavoratori impiegati in professioni manuali o di servizio a basso costo e non specializzate (per esempio in campi come la ristorazione fast food, la vendita al dettaglio, il settore alberghiero e il magazzinaggio), mentre al polo opposto troviamo una minoranza di professionisti in possesso di lavori cognitivi altamente specializzati, ben pagati e non di routine.24 E però, la recente ondata di automazione potrebbe drasticamente modificare anche questa situazione, per il semplice motivo che andrà a toccare ogni aspetto dell’economia: raccolta dati (identificazione di frequenze radio, big data), nuovi modelli industriali (produzione flessibile di robot,25 stampa 3D,26 fast food automatizzati), servizi (servizi clienti gestiti da intelligenze artificiali, cura degli anziani), processi decisionali (modelli computazionali, software agents), allocazioni finanziarie (trading algoritmico) e soprattutto distribuzione (rivoluzione della logistica, autovetture autonome,27 navi da carico senza pilota, magazzini automatizzati).28 Possiamo quindi osservare una pervasiva tendenza all’automazione in ogni singolo settore dell’economia, si tratti di produzione, distribuzione, management o vendita al dettaglio.29 A rendere possibile questa ondata sono stati i miglioramenti algoritmici (in particolare il machine learning e il deep learning), i rapidi sviluppi nel campo della robotica, e la crescita esponenziale della capacità computazionale (la fonte dei big data), tutti fenomeni che vanno a comporre una «seconda era delle macchine» che sta aumentando vertiginosamente la quantità di mansioni che possono essere demandate alla tecnologia.30 Da questo punto di vista, viviamo in un periodo storico che davvero non ha precedenti: nuove 168

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tecnologie di apprendimento automatico stanno rendendo automatizzabili sempre più lavori non di routine, complesse tecnologie per la comunicazione permettono ai computer di essere più efficienti degli esseri umani in lavori di abilità e conoscenza, e miglioramenti nel campo della robotica stanno velocemente portando a tecnologie con sempre maggior competenza nei lavori manuali.31 Per non fare che un paio di esempi, le autovetture senza conducente permettono l’automazione delle mansioni di guida e di trasporto, mentre diversi compiti cognitivi non di routine (come la scrittura di notizie giornalistiche o la ricerca di precedenti legali) possono essere portati a termine da robot già oggi.32 L’ampio spettro di questi sviluppi significa che tutti – dagli agenti di borsa agli operai edili, dagli chef ai giornalisti – potranno presto essere rimpiazzati dalle macchine,33 e che chi sposta simboli su uno schermo è tanto a rischio quanto chi sposta casse dentro un magazzino. Uno studio ha previsto che la continua infiltrazione della tecnologia nel mondo della finanza provocherà uno «spopolamento delle borse»;34 i posti di lavoro di vendita al dettaglio – da sempre un bastione dell’occupazione postindustriale – saranno presto occupati dalle macchine,35 e si prevede che più di 140 milioni di lavori cognitivi in tutto il mondo verranno eliminati.36 Mentre la precedente ondata di automazione ha portato a una polarizzazione del mercato del lavoro, quella che verrà sembra annunciare una pura e semplice decimazione di quella parte del mercato che comprende gli impieghi non specializzati e a bassa retribuzione:37 con il lavoro umano ormai rimpiazzato dai robot, i lavoratori sono destinati a salari sempre più bassi e a un impoverimento sempre maggiore.38 Questo significa che l’automazione modificherà in maniera più che sostanziale la composizione del mercato, col potenziale risultato di una riduzione estrema della domanda di lavoratori. Inoltre, come già molti economisti hanno notato, l’aumento di produttività che ci si aspettava dalla 169

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rivoluzione nel campo dell’automazione non si è verificato;39 se una macchina rimpiazza la metà degli operai di una fabbrica, la produttività dovrebbe raddoppiare, assumendo che la fabbrica produca la stessa quantità di prodotti: e invece, nell’ultimo decennio abbiamo assistito a un rallentamento globale della crescita della produttività industriale, particolarmente dopo la crisi economica.40 Tralasciando il fatto che la produttività è notoriamente difficile da misurare, crediamo che alcuni fenomeni possano aiutarci a comprendere la situazione: per prima cosa, è molto probabile che i salari bassi stiano soffocando gli investimenti in tecnologie per l’aumento della produttività. L’accesso a un ampio bacino di forza lavoro a basso costo ha fatto sì che le imprese abbiano meno incentivi a concentrarsi sugli investimenti di capitale: perché comprare nuovi macchinari quando dei lavoratori sottopagati possono svolgere gli stessi incarichi con meno spesa? Ciò significa che, sulla strada della piena automazione, un obiettivo complementare e cruciale è la lotta per salari globalmente più alti. In seconda battuta, è probabile che ci troviamo di fronte a un classico effetto di ritardo; negli anni Novanta, la rivoluzione dell’information technology impiegò del tempo per esprimersi in termini di produttività quantificabile, dato che le aziende del periodo dovettero investire e poi adattarsi alle nuove possibilità offerte dalle tecnologie: per utilizzarle in modo efficace è infatti necessario modificare strutture organizzative, aggiornare capacità e rivedere processi produttivi. In generale, sembra che gli investimenti nelle tecnologie digitali comincino a mostrare vantaggi produttivi soltanto tra i cinque e i quindici anni dalla loro adozione.41 Oggi, molte delle tecnologie di cui si parla sono incredibilmente nuove e inimmaginabili anche solo dieci anni fa: tante novità lasciano immaginare che, prima che le nuove tecnologie inizino a mostrare i loro effetti sulle cifre della produttività, dovremo attendere che vengano adeguate al flusso di produzione delle imprese.42 170

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Infine, e cosa forse ancora più importante, la nostra tesi in questo capitolo poggia su un argomento più normativo che descrittivo: la piena automazione è un obiettivo che può e deve essere conseguito, indipendentemente dal fatto che sia già in corso o meno. Per esempio, tra le tante aziende americane che potrebbero beneficiare dell’adozione di robot industriali, meno del dieci percento ha già provveduto all’acquisto di simili macchinari:43 questa è solo una delle tante aree dove l’automazione deve essere implementata, il che ci riporta all’importanza di rendere la piena automazione una rivendicazione politica anziché assumere che, a tempo debito, questa emergerà spontaneamente come una necessità economica. Diverse misure possono aiutare la realizzazione di un simile progetto: maggiori investimenti statali, salari minimi più alti, ricerca mirata a sviluppare tecnologie capaci di rimpiazzare lavoratori umani e non soltanto di aumentarne le capacità... Le stime più dettagliate prevedono che tra il 47 e l’80 percento dei posti di lavoro attuali potrebbe essere automatizzato:44 è una stima che non va intesa come previsione deterministica, ma come limite massimo nel contesto di un progetto politico che ambisca a rendere il lavoro obsoleto. Sono insomma cifre che dovrebbero essere considerate uno standard sul quale misurare il nostro successo. Per quanto la piena automazione venga qui presentata come un ideale e una rivendicazione, una sua esaustiva attuazione pratica è assai improbabile.45 Esistono ragioni tecniche, economiche ed etiche per le quali, in certi settori, il lavoro umano difficilmente scomparirà: dal punto di vista tecnico, le macchine di oggi restano meno abili degli umani in lavori di tipo creativo e affettivo, come anche in mansioni che richiedono grande flessibilità e nei compiti che dipendono da una conoscenza implicita anziché esplicita.46 In questi campi esistono problemi ingegneristici che appaiono insormontabili almeno per i prossimi due decenni (anche se è bene ricordare che affermazioni simili erano la norma 171

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quando si parlava di vetture autonome solo dieci anni fa); da questo punto di vista, un programma che miri alla piena automazione dovrebbe senz’altro promuovere investimenti nella ricerca per il superamento di tali limiti. Un secondo ostacolo deriva da considerazioni economiche: certi compiti possono essere già svolti dalle macchine, ma il loro costo eccede quello del lavoro richiesto.47 Nonostante l’efficienza, l’accuratezza e la produttività del lavoro svolto dalle macchine, il capitalismo pretende pur sempre il profitto, e dunque preferirà sempre il lavoro umano laddove questo risulti più economico rispetto a ipotetici nuovi investimenti. Un programma di piena automazione punta quindi a superare anche questa barriera, tramite semplici misure come l’aumento dei salari minimi, il sostegno ai movimenti dei lavoratori, e il ricorso a sussidi statali per incentivare il graduale rimpiazzo dei lavoratori umani. Un ultimo limite alla piena automazione è lo statuto morale che viene assegnato a professioni come, per esempio, quella di assistente sociale o di infermiere:48 compiti di questo tipo, che comprendono attività delicate come la cura dei bambini, dovrebbero secondo molti restare prerogativa degli esseri umani. Qui possiamo affrontare il tema da due punti di vista diversi: una prima posizione ammette senz’altro che questi lavori contemplino una dimensione morale preclusa alle macchine; ma in una società post-lavoro, all’assistenza sociale potremmo assegnare un valore ancora più grande, dal momento che a venire meno sarebbero quei privilegi attualmente assegnati ai lavori finalizzati a null’altro che il profitto. L’aumento del tempo libero reso possibile dalla piena automazione potrebbe anche facilitare la sperimentazione di organizzazioni domestiche alternative: c’è una lunga storia di esperimenti utopici che potrebbe servire da ispirazione per riconsiderare il modo in cui le nostre società organizzano il lavoro sociale, domestico e riproduttivo,49 ma bisogna insistere che, per ottenere tutto questo, è comunque 172

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necessario un movimento politico, dato che un mondo postlavoro faciliterebbe il cambiamento, ma non sarebbe in grado di garantirlo. In ogni caso, un approccio ancora più radicale sostiene che l’obiettivo per il futuro dovrà essere l’automazione anche della maggior parte di questi lavori.50 Lo stereotipo della donna naturalmente disposta ad allevare bambini e spontaneamente incline a svolgere mansioni di tipo affettivo è spesso la pericolosa maschera sotto la quale si cela il continuo sfruttamento del lavoro femminile. E quindi: se questo tipo di lavoro potesse finalmente essere eliminato? Tradizionalmente, il lavoro domestico è uno spazio che di veri cambiamenti tecnologici ne ha conosciuti pochi: l’assenza di retribuzione e la mancanza di norme di produttività hanno dato al capitalismo pochi incentivi a investire nella sua riduzione.51 Eppure molti lavori domestici, come per esempio pulire la casa e piegare i vestiti, possono già oggi essere delegati a robot;52 affective computing e tecnologie per l’assistenza permettono inoltre l’automazione di mansioni che investono ambiti considerati troppo personali e imbarazzanti, e quindi più adatti a essere affrontati da robot più «impersonali».53 In uno slancio speculativo, alcuni sostengono anche che il dolore e la sofferenza che accompagnano la gravidanza dovrebbero diventare ricordi del passato, piuttosto che essere vagheggiati come esperienze naturali e meravigliose:54 in questa visione, le forme di riproduzione biologica sintetiche potrebbero finalmente portare a una genuina uguaglianza dei sessi. Non ci esprimeremo su queste varie e possibili strade, ma vogliamo ugualmente citarle come esempi di alcune delle ipotesi che un mondo post-lavoro può inaugurare. Quale che sia la strada scelta, il punto è che il lavoro umano non sarà eliminato immediatamente o nella sua interezza, ma verrà piuttosto ridotto gradualmente: la piena automazione è una rivendicazione utopica che mira a ridurre il più possibile la quantità di lavoro umano necessario. 173

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NON È IL LUNEDÌ CHE DETESTI, È IL TUO LAVORO Una seconda e fondamentale rivendicazione per la costruzione di un futuro post-lavoro torna all’idea classica di una riduzione della settimana lavorativa senza tagli al salario. I lavoratori hanno lottato contro l’imposizione di orari fissi sin dagli albori del capitalismo, e la richiesta di meno ore di lavoro è stata una componente essenziale dei primi movimenti sindacali.55 Agli inizi si trattò di battaglie che portarono a forme di resistenza quali l’assenteismo individuale, al ricorso a un gran numero di giorni di vacanza e ad abitudini lavorative irregolari;56 oggi la resistenza prende la forma della procrastinazione e del «perdere tempo» (pensiamo agli impiegati che in ufficio stanno su internet anziché lavorare).57 Da sempre insomma i lavoratori tentano di sfuggire agli orari imposti, e molti dei successi dei primi movimenti sindacali riguardarono proprio la riduzione dell’orario lavorativo; il weekend di due giorni prese per esempio spunto dalla spontanea abitudine di tanti lavoratori di passare la sera a bere, per poi spendere il giorno dopo a riprendersi dalla sbronza del giorno prima:58 il consolidamento del weekend come periodo di riposo istituzionalizzato fu quindi il prodotto di una serie di continue battaglie politiche (un processo che, nel mondo occidentale, ebbe fine solo negli anni Settanta).59 In maniera analoga, i lavoratori ottennero importanti successi nel ridurre la settimana di lavoro da sessanta ore nel 1900, fino a poco sotto le trentacinque ore durante la Grande Depressione:60 il risultato fu così rapido che negli anni Trenta, in appena un quinquennio, la settimana lavorativa diminuì di ben diciotto ore.61 Nei primi anni della Depressione l’idea di una settimana lavorativa più breve godette di un sostegno bipartisan negli Stati Uniti, al punto che a essere considerata imminente fu la legislazione per istituire una settimana di trenta ore.62 Allo stesso tempo, diversi intellet­­­tua­ li pronosticarono ulteriori riduzioni, immaginando mondi 174

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dove il lavoro sarebbe stato ridotto al minimo essenziale: in una dichiarazione rimasta famosa, Paul Lafargue propose di limitare il lavoro a solo tre ore al giorno,63 e anche Keynes propose com’è noto un’idea simile, calcolando che entro il 2030 avremmo tutti lavorato solo quindici ore settimanali (quello che è meno noto è che in quell’occasione stava semplicemente dando voce alle più diffuse convinzioni del suo tempo).64 Infine, Marx individuò nell’accorciamento della settimana lavorativa uno dei punti centrali della sua visione postcapitalista, sostenendo che si trattasse di un prerequisito base per poter raggiungere «il regno della libertà».65 Oggi però il vecchio sogno delle tre ore di lavoro al giorno sembra svanito. La spinta (durata quasi un secolo) a orari più brevi si è interrotta bruscamente durante la Grande Depressione, quando l’opinione dominante del mondo imprenditoriale e le politiche dei governi decisero di contrastare la disoccupazione attraverso i programmi di cosiddetto makework.66 Dopo la Seconda guerra mondiale, la settimana lavorativa venne stabilizzata a quaranta ore settimanali in quasi tutto il mondo occidentale, e da allora non c’è stato quasi nessun tentativo di modificare la situazione67. Al contrario, nei decenni a seguire il lavoro si è ulteriormente espanso. Dapprima abbiamo assistito a un generalizzato incremento del tempo passato a lavorare:68 con l’entrata nella forza lavoro delle donne, la settimana lavorativa rimase invariata e, di conseguenza, la quantità di tempo totale speso sul lavoro aumentò in maniera impressionante.69 Non bastasse, abbiamo anche assistito a una progressiva erosione della divisione tra lavoro e vita privata, al punto che le nostre professioni permeano sempre più ogni aspetto delle nostre vite: oggi in molti si ritrovano legati al proprio lavoro a ogni ora del giorno e della notte, tramite email, telefonate e messaggi, senza dire delle innumerevoli ansie lavorative che esercitano su di noi una costante pressione.70 I lavoratori salariati sono spesso costretti a fare straordinari non retribuiti, e molti si sentono 175

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costretti dalla società a farsi vedere sul posto di lavoro il più a lungo possibile: queste pressioni hanno fatto sì che la giornata lavorativa media negli Stati Uniti sia arrivata a quasi quarantasette ore settimanali.71 C’è poi una grande quantità di lavoro che resta non pagato e quindi invisibile ai dati ufficiali, così come all’interno della manodopera non retribuita permane una palese divisione tra i sessi.72 Mentre per tanti trovare un’occupazione retribuita rimane un’impresa improba, a crescere è proprio il lavoro non retribuito: sta persino emergendo una sfera di «lavoro ombra» con tanto di punti vendita automatizzati in cui il lavoro viene delegato ai fruitori dei servizi (ad esempio, le casse automatiche nei supermercati).73 Inoltre, per poter conservare la propria occupazione viene richiesta una grande quantità di lavoro sommerso, dalla gestione delle risorse finanziarie personali alla presentazione delle domande di assunzione (se si è disoccupati), dal costante bisogno di corsi di aggiornamento al tempo speso sui mezzi di trasporto, per arrivare infine a quella sfera cruciale (con connotazioni di genere) che è la cura dei bambini, dei membri della famiglia e di altre persone a carico.74 Se il lavoro si è infiltrato in così tante aree della nostra vita, un ritorno alla settimana corta porterebbe con sé numerosi benefici, dai più evidenti – la maggior quantità di tempo libero – ad altri meno scontati.75 In primo luogo, è una risposta all’aumento dell’automazione: in effetti, quello che viene spesso dimenticato è il ruolo che la riduzione della settimana lavorativa ha giocato nei precedenti periodi storici segnati dall’automazione; molti osservatori fanno riferimento alla storia dei cambiamenti tecnologici per mostrare come non vi sia un legame necessario tra innovazioni in questo campo e disoccupazione di massa: dopotutto, gli iniziali processi di automazione hanno sempre coinciso con una significativa riduzione della settimana lavorativa, mentre a mantenere i livelli di occupazione ci pensò la redistribuzione del lavoro. 176

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Un altro effetto positivo riguarda l’ambiente: una settimana lavorativa più breve significherebbe una complessiva riduzione del consumo energetico e dell’emissione di gas;76 il maggior tempo libero a disposizione porterebbe anche a una riduzione dell’acquisto di quei prodotti usa e getta necessari alla vita frenetica a cui siamo obbligati. Più in generale, piegare i miglioramenti della produttività alla diminuzione del lavoro e non alla crescita dell’output si tradurrebbe in un maggior risparmio energetico e nella conseguente riduzione dell’impatto ambientale:77 la riduzione delle ore di lavoro è dunque un elemento essenziale per qualsiasi risposta intendiamo dare al cambiamento climatico. Altre ricerche mostrano che una settimana lavorativa più breve porterebbe a una diminuzione di stress, ansia e altri problemi mentali alimentati dalle politiche neoliberali.78 Ma una delle ragioni più importanti a sostegno della riduzione della settimana di lavoro, è che questa è una rivendicazione capace di generare e consolidare il potere di classe. In primo luogo, la riduzione del tempo dedicato al lavoro può politicamente essere dispiegata come una tattica temporanea: scioperi bianchi, astensioni dal lavoro e altri metodi mirati alla diminuzione dell’orario lavorativo sono tutti mezzi capaci di esercitare pressione sui capitalisti. In secondo luogo, la riduzione della settimana lavorativa va anche a rafforzare i movimenti dei lavoratori: sottraendo ore di lavoro dal mercato, il totale di forza lavoro diminuisce e il potere dei lavoratori aumenta. Come è stato recentemente notato da due osservatori, «nessun altro strumento di negoziazione riesce allo stesso tempo a rafforzare la posizione dei lavoratori nella negoziazione stessa. Inoltre, nessun’altra logica strategica è in grado di dare vita a un circolo virtuoso in cui ogni vittoria rafforza la propria posizione in vista della prossima battaglia».79 È anche per queste ragioni che la riduzione della settimana lavorativa dovrebbe essere un’immediata e fondamentale rivendicazione della sinistra del XXI secolo. 177

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A tal proposito, piuttosto che per una semplice riduzione delle ore giornaliere passate a lavorare, noi qui propendiamo per l’istituzione di un weekend di tre giorni, in modo da ridurre gli spostamenti da e per il posto di lavoro e allungare il periodo di vacanza già in corso. È un obiettivo che può essere conseguito attraverso strategie di diverso tipo, dalle battaglie sindacali alla pressione dal basso, passando per gli interventi legislativi dei partiti politici stessi. Anziché accettare l’imperativo capitalista del lavoro a tutti i costi, i sindacati dovrebbero quindi pensare a una strategia per il futuro e intavolare una negoziazione collettiva per acconsentire a una maggiore automazione in cambio di una settimana più corta. Le testimonianze storiche suggeriscono come di fronte ai cambiamenti tecnologici i sindacati adottino spesso atteggiamenti reattivi, e che gli aumenti di salario finiscano solo con il rallentare, piuttosto che prevenire, l’automazione:80 un approccio alternativo che si concentri sulla riduzione e la diffusione del lavoro, potrebbe ridurre la quantità di lavoro senza lasciare nessuno per strada;81 altri sforzi andrebbero al riconoscimento del lavoro invisibile e non pagato come parte effettiva della settimana lavorativa, in modo da portarlo alla luce e dunque ridurne la quantità;82 battersi per una settimana più corta richiede poi che i sindacati stabiliscano legami con i lavoratori part-time e precari. Ma nonostante i sindacati restino un elemento chiave, da soli non bastano, per la semplice ragione che a ogni settore dell’economia corrispondono diversi potenziali in termini di automazione e incremento di produttività.83 Per rompere davvero con la logica neoliberale è quindi necessaria una battaglia più ampia, a cui dovranno contribuire anche movimenti sociali e istituzioni, così da plasmare l’orizzonte delle possibilità. Diversi think tank, tra cui la New Economics Foundation e la Jimmy Reid Foundation, hanno già iniziato ad avanzare ipotesi di riduzione della settimana lavorativa.84 Nel Regno Unito, gruppi come la Precarious Workers Brigade 178

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e Plan C insistono sul lavoro non retribuito, e si mobilitano per problemi riguardanti lo status del lavoro nella società contemporanea.85 Ma è ancora più interessante notare come quello per una settimana lavorativa più corta sia già un desiderio estremamente diffuso, tanto che diversi sondaggi registrano come la maggioranza della popolazione sia favorevole a una sua attuazione.86 Altre misure politiche attuabili per accorciare la settimana lavorativa possono essere gli interventi per modificare il costo del lavoro e passare da un sistema a persona a un sistema a ora, in modo da rendere economicamente meno vantaggiosi (per le stesse aziende) gli orari di lavoro lunghi.87 Paesi come il Belgio e l’Olanda hanno già dato ai lavoratori il diritto di richiedere orari ridotti quando oggetto di discriminazione da parte dei datori, e l’Olanda ha anche iniziato ad accorciare la settimana lavorativa sia per i lavoratori più giovani che per quelli più anziani, per poter così essere gradualmente introdotti o estratti dalla forza lavoro attraverso cambiamenti graduali dei propri orari.88 Se vogliamo conseguire l’obiettivo di una riduzione della settimana lavorativa, sono tutte opzioni che possono e devono essere considerate. I SALARI NON BASTANO Le proposte da cui siamo partiti equiparano da una parte la riduzione della domanda di lavoro grazie all’automazione, e dall’altra la riduzione dell’offerta di lavoro grazie all’accorciamento della settimana lavorativa.89 Il risultato complessivo di queste misure sarebbe la liberazione di una gran quantità di tempo libero senza una riduzione dell’output economico o un significativo aumento della disoccupazione. Ma questo tempo libero non servirà a nulla se le persone continueranno a far fatica ad arrivare a fine mese. Come scrive Paul Mattick, «il tempo libero di quelli che muoiono di fame o dei bisognosi non è affatto tempo libero, ma una continua lotta per rima­ nere in vita e migliorare la propria situazione».90 179

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Chi svolge solo un lavoro part-time ha per esempio moltissimo tempo libero a disposizione, ma non le risorse per goderselo: essenzialmente «lavoratore part-time» è un eufemismo per «lavoratore sottopagato». È per questo motivo che una delle richieste fondamentali per la costruzione di una società post-lavoro è quella di un reddito base universale, e cioè un reddito che possa fornire a ogni cittadino un sostegno economico sufficiente a sopravvivere, senza dover passare per accertamenti economici di sorta.91 Questa è un’idea che, nella storia recente, ha periodicamente fatto parlare di sé:92 nei primi anni Quaranta una proposta analoga venne avanzata come possibile alternativa al Piano Beveridge che diede forma allo stato sociale britannico.93 In un periodo (ormai praticamente dimenticato) tra anni Sessanta e Settanta, il reddito base fu un elemento centrale nelle proposte di riforma del welfare statunitense. Economisti, organizzazioni non governative e uomini politici hanno esplorato l’idea nel dettaglio,94 e alcuni esperimenti su piccola scala sono stati portati avanti in Canada e negli Stati Uniti.95 L’ipotesi di un reddito base fu talmente influente che più di 1300 economisti firmarono una petizione in cui chiedevano al Congresso degli Stati Uniti di mettere in atto «un sistema nazionale di reddito garantito».96 Tre diverse amministrazioni presero la proposta in seria considerazione, e due presidenti – Nixon e Carter – provarono a far passare provvedimenti a riguardo.97 In altre parole, solo per poco il reddito base non è diventato una realtà già negli anni Settanta.98 Ma sebbene uno Stato come l’Alaska finì con l’offrire un reddito minimo grazie alla ricchezza derivante dalle proprie riserve petrolifere, l’avvento dell’egemonia neoliberale ha fatto sì che l’ipotesi si eclissasse quasi del tutto dal dibattito pubblico.99 Eppure negli ultimi anni l’idea ha conosciuto una nuova popolarità, riapparendo nei media mainstream come in quelli più specializzati, con interventi che vanno da Paul Krugman a Martin Wolf, dal New York Times al Financial 180

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Times passando per l’Economist.100 In Svizzera si è tenuto un referendum a riguardo nel 2016, la proposta è stata raccomandata da diverse commissioni parlamentari in molti altri paesi, alcuni partiti politici l’hanno inclusa nei propri programmi, e ci sono già stati altri esperimenti in Namibia e in India.101 È quindi un’idea che ha una portata globale, considerato che in varie misure è stata già promossa con forza da gruppi in Brasile, Sud Africa, Italia e Germania, oltre che da un network internazionale che include più di venti paesi.102 Dopo la crisi del 2008 e la successiva imposizione del regime di austerità, il movimento per il reddito base ha dunque trovato nuova linfa. La richiesta di un reddito base deve però scontrarsi con le forze egemoniche opposte. La stessa ipotesi di un «reddito per tutti» può essere l’ingrediente su cui si fonda tanto una società post-lavoro quanto una distopia liberale, e questa è un’ambiguità che ha portato molti a confondere posizioni tra loro diversissime. Un reddito base serio e responsabile dovrà quindi articolarsi in almeno tre fattori: deve fornire una quantità sufficiente di reddito per permettere la sopravvivenza; deve essere universale, ossia disponibile a tutti e senza discriminazioni; e deve essere supplementare al welfare, non rimpiazzarlo. Il primo punto è piuttosto ovvio: un reddito base deve poter offrire un reddito adeguato alle condizioni di vita materiali. Il valore esatto di questo reddito varia a seconda di paesi e regioni, ma una cifra può essere facilmente calcolata basandosi su dati già esistenti; il rischio è che, se troppo basso, diventi semplicemente un sussidio governativo all’impresa. In più, il reddito base deve essere universale e per tutti, senza condizioni: solo senza controlli patrimoniali o altre verifiche per potersene avvantaggiare, potrà incrinare la natura disciplinare del welfare state capitalista.103 In questo modo, il reddito base sarebbe anche in grado di evitare la stigmatizzazione associata al welfare tradizionale, dato che tutti ne sarebbero beneficiari. Come abbiamo sostenuto nel capitolo 4, 181

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invocare l’«universalismo» ci obbliga anche a una continua sovversione di ogni applicazione limitata del reddito base (in base allo status degli individui come cittadini, immigrati, o carcerati): l’universalità della misura fornisce la base per una continua lotta mirata all’espansione continua dello scopo e della scala del reddito. Infine, il reddito base deve essere un supplemento al welfare. Ora: la tesi dei conservatori a favore di un reddito minimo è che questo, elargendo una somma di denaro a tutti, andrebbe semplicemente a rimpiazzare il welfare state; ebbene, è una tesi che va respinta ed evitata a tutti i costi. In questo scenario il reddito base diventerebbe nient’altro che il vettore per un incremento della mercificazione, trasformando i servizi sociali in mercati privati; piuttosto che imporsi come elemento antagonista all’ideologia neoliberale, finirebbe con il facilitare la pulsione che del neoliberismo è l’essenza più pura: creare nuovi mercati. Contrariamente a questo approccio, il reddito base che qui rivendichiamo si configura semmai come un’integrazione a un nuovo tipo di stato sociale.104 Ci sono moltissime ragioni per sposare la causa di un reddito base, e sono ragioni che derivano sia da argomentazioni etiche che da ricerche empiriche: riduzione della povertà, sanità pubblica migliore e a costi ridotti, meno giovani che abbandonano gli studi, riduzione dei piccoli crimini, più tempo da spendere con famiglia e amici, meno burocrazia statale...105 A seconda di come il reddito base viene presentato è in grado di ricevere il sostegno di pressoché l’intero spettro politico: libertari, conservatori, anarchici, marxisti, femministe... La forza di una simile rivendicazione risiede in parte nella sua ambiguità, che la rende capace di mobilitare un ampio sostegno popolare.106 Ma per gli scopi di questo capitolo, il vero significato del reddito base è da trovarsi in quattro ingredienti chiave e tra loro correlati. Il primo punto da enfatizzare è che il reddito base universale è una richiesta di trasformazione politica, non solo 182

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economica. Spesso si pensa che il reddito base sia solo una forma di redistribuzione dai ricchi verso i poveri, o che sia semplicemente una misura per mantenere la crescita economica tramite lo stimolo della domanda dei consumatori. Da questo punto di vista il reddito base avrebbe delle impeccabili credenziali riformiste, e rappresenterebbe poco più che un sofisticato sistema di tassazione progressiva. Ma il vero significato del reddito base risiede nel modo in cui inverte l’asimmetria di potere che esiste tra lavoro e Capitale: come abbiamo visto parlando del surplus di popolazione, il proletariato è definito dalla sua separazione dai mezzi di produzione e di sussistenza, ed è dunque costretto a vendersi sul mer­ cato del lavoro per poter guadagnare il reddito necessario alla sopravvivenza. I più fortunati tra noi hanno il lusso di poter scegliere quale lavoro fare, ma alcuni non hanno possibilità di scegliere alcun lavoro. Un reddito base cambierebbe questa situazione, fornendo al proletariato un mezzo di sussistenza senza che questo implichi la dipendenza da un’occupazione retribuita:107 i lavoratori, in altre parole, avrebbero l’opzione di scegliere se accettare o meno un impiego (in molti casi, prendendo l’economia neoclassica sulla parola e rendendo il lavoro veramente volontario). Il reddito base universale dissolve insomma gli aspetti coercitivi del lavoro salariato, riduce la mercificazione del lavoro, ed è in questo modo che trasforma la relazione politica tra lavoro e Capitale. Rendere il lavoro volontario anziché obbligatorio è una trasformazione che implica diverse conseguenze importanti. In primo luogo alimenta un maggior potere di classe e mette in crisi la fragilità del mercato del lavoro. Le condizioni del surplus di popolazione dimostrano cosa succede quando il mercato del lavoro è debole e in sofferenza: i salari crollano e i datori di lavoro sono liberi di sfruttare i propri impiegati.108 D’altra parte, quando il mercato del lavoro è in buona salute, il lavoro incrementa il proprio prestigio politico. L’economista Michał Kalecki identificò questo fenomeno già diversi 183

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decenni fa, quando ragionò sul perché la piena occupazione avrebbe sempre incontrato una continua opposizione:109 se ogni lavoratore avesse un impiego, la minaccia di essere licenziati perderebbe il proprio potere disciplinare, dato che ci sarebbero posti di lavoro a sufficienza per tutti. I lavoratori otterrebbero dunque un vantaggio e il Capitale perderebbe il proprio potere politico. La stessa dinamica si applica al red­ dito base: eliminando la dipendenza dal lavoro salariato, i lavoratori otterrebbero il controllo di quanta forza lavoro erogare, e questo si tradurrebbe in un enorme potere sul mercato. Ma il potere di classe aumenterebbe anche per altre vie: sarebbe più semplice organizzare gli scioperi, dato che i lavoratori non dovrebbero più preoccuparsi di decurtazioni sul salario o scarsità di fondi; la quantità di tempo passata sul posto di lavoro in cambio di un salario potrebbe essere modificata a volontà, e il tempo libero potrebbe essere speso a costruire comunità o a occuparsi di politica; sarebbe possibile rallentare e riflettere sulle proprie decisioni, immuni dalla costanti pressioni del neoliberismo; e anche le ansie che sempre accompagnano il lavoro e la disoccupazione verrebbero ridotte grazie alla rete di protezione che un reddito base offre.110 Inoltre, la richiesta di un reddito base universale viene incontro alle necessità di lavoratori, disoccupati, sottoccupati, lavoratori migranti, lavoratori temporanei, studenti e disabili:111 articolando un interesse comune a tutti questi gruppi, fornisce loro un obiettivo populista per cui mobilitarsi. La seconda caratteristica del reddito base universale è che può trasformare precarietà e disoccupazione da condizioni di insicurezza a stati di flessibilità volontaria. Viene spesso dimenticato che la prima spinta a un lavoro più flessibile arrivò dai lavoratori stessi, che in questo modo speravano di demolire l’opprimente rigidità del tradizionale lavoro di stampo fordista:112 la noiosa ripetitività di un lavoro dalle 9 alle 18 che va avanti per tutta la vita è tutto tranne che una prospettiva allettante. Anche i lavori di assistenza sociale 184

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richiedono spesso, per loro natura, un atteggiamento flessibile, rendendo i posti di lavoro tradizionali ancora meno attraenti. Marx stesso plaude agli aspetti liberatori del lavoro flessibile nel celebre passaggio in cui spiega come il comunismo «mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare così come mi vien voglia, e senza per questo diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».113 Com’è noto, il Capitale è riuscito a impadronirsi del desiderio di una maggiore flessibilità dei lavoratori per trasformarlo in una nuova forma di sfruttamento: oggi il lavoro flessibile equivale non a libertà, ma a precarietà e insicurezza. Ecco, il reddito base universale risponde esattamente alla generalizzata condizione di precarietà per trasformarla da stato di sofferenza in occasione di libertà. La terza caratteristica del reddito base è che questo obbliga a ripensare il valore attribuito a diversi tipi di lavoro. Liberi dall’accettazione supina di qualsiasi impiego venga loro sottoposto, i lavoratori potranno semplicemente rifiutare le occupazioni che pagano troppo poco, che richiedano troppo lavoro, che offrono pochi sussidi, o che sono umilianti o degradanti. Il lavoro sottopagato è spesso rozzo e svilente, e con un reddito base a disposizione è improbabile che molti finiscano per accettarlo: il risultato sarebbe che lavori pericolosi, noiosi o poco attraenti sarebbero molto ben pagati, mentre quelli più gratificanti, tonificanti e allettanti sarebbero pagati meno. In altre parole, la misura del valore del lavoro sarebbe la sua natura, e non semplicemente la sua capacità di produrre profitto.114 In seguito a una simile rivalutazione degli impieghi, con l’aumentare dei salari per i lavori peggiori crescerebbe anche l’incentivo per la loro automazione. Il reddito base dunque, creerebbe un ciclo di feedback positivo: in più, un reddito base non soltanto trasformerebbe il valore dei lavori 185

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peggiori, ma contribuirebbe anche al processo di rivaluta­ zione dei lavori non retribuiti nel campo dell’assistenza sociale. Così come la richiesta di uno stipendio per i lavori di casa fu in grado di far riconoscere (e di politicizzare) il lavoro domestico delle donne, così il reddito base riconosce e politicizza le nostra responsabilità per la riproduzione della società, dal lavoro formale a quello informale, dal lavoro domestico a quello pubblico, dal lavoro individuale a quello collettivo. Il ruolo principale non è più assegnato al lavoro produttivo – che questo venga definito in termini marxisti o neoclassici – ma piuttosto alla categoria più generica di lavoro riproduttivo:115 visto che tutti noi contribuiamo alla produzione e alla riproduzione del capitalismo, anche questa nostra attività merita di essere remunerata.116 Basandosi su un tale presupposto, il reddito base universale annuncia un cambiamento che porta da una remunerazione basata sulle capacità a una basata sulle necessità basilari dei lavoratori.117 Un’attenta considerazione di tutte quelle varianti genetiche, storiche e sociali che caratterizzano e differenziano gli individui ci permette di comprendere come una semplice misurazione dello sforzo compiuto sia un metro di valutazione inadeguato, e che le persone vanno valutate semplicemente in virtù del loro essere persone. Infine: il reddito base è, fondamentalmente, una proposta femminista. Un reddito base universale ignorerebbe completamente la divisione del lavoro per linee di genere, e si lascerebbe così alle spalle molti dei pregiudizi che infestano il welfare tradizionale, roba tipo «è l’uomo che porta a casa lo stipendio».118 Allo stesso tempo, riconoscerebbe il contributo alla riproduzione della società fornito dal lavoro casalingo non retribuito, garantendo una remunerazione adeguata a questi lavoratori e (più spesso) lavoratrici invisibili. L’indipendenza finanziaria garantita da un reddito base sarebbe anche centrale per lo sviluppo della libertà sintetica delle donne, e renderebbe possibile la sperimentazione di 186

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nuove strutture familiari e comunitarie non più necessariamente legate al modello della famiglia nucleare privatizzata.119 Questa indipendenza finanziaria permetterebbe anche la riconfigurazione delle relazioni personali: uno dei risultati più inaspettati emersi dagli esperimenti già compiuti con il reddito base è stato infatti un aumento del numero di divorzi.120 Gli osservatori conservatori hanno subito usato il dato come prova dell’immoralità della proposta, ma il dato indica semplicemente che molte donne sono state finalmente in grado di abbandonare relazioni disfunzionali grazie a una ritrovata indipendenza economica.121 Un reddito base potrebbe insomma tradursi in un approccio sperimentale alla struttura familiare, a un maggior numero di possibilità per la cura dei bambini, e a una trasformazione della divisione del lavoro lungo linee di genere. In più, diversamente dallo «stipendio per i lavori domestici» invocato negli anni Settanta, il reddito base significa non un’espansione dei rapporti salariali, ma la loro diretta disintegrazione. Il reddito base può sembrare sulle prime una misura economica banalmente riformista, ma le sue implicazioni politiche sono assai significative. Avrebbe infatti il potenziale di trasformare la precarietà, di riconoscere il lavoro sociale, di facilitare il potere di classe, di estendere lo spazio di possibilità all’interno del quale sperimentare con l’organizzazione di comunità e famiglie: è dunque un meccanismo di redistribuzione capace di trasformare le relazioni di produzione, e un meccanismo economico capace di modificare le politiche per il lavoro. In termini di lotta di classe, c’è molto poco che distingue la piena occupazione dalla piena disoccupazione: entrambi i fenomeni strozzano il mercato del lavoro, danno potere al lavoro, e rendono più difficile lo sfruttamento dei lavoratori. Ma la piena disoccupazione ha il vantaggio aggiuntivo di non dipendere dalla divisione del lavoro lungo linee di genere (tra lavoro domestico ed economia formale), di non imprigionare i lavoratori all’interno della relazione salariale, e di permettere 187

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a questi ultimi di vivere autonomamente le proprie vite. Per tutti questi motivi, al vecchio obiettivo socialdemocratico di una piena occupazione, dobbiamo sostituire la rivendica­ zione di un futuro di piena disoccupazione. IL DIRITTO ALLA PIGRIZIA Quali ostacoli si frappongono all’istituzione di un reddito base? Se a prima vista il problema di trovare i fondi per finanziare una simile misura sembra insormontabile, studi e ricerche indicano che in realtà si tratterebbe di un compito relativamente facile: servirebbe cioè tagliare quei programmi alternativi che un reddito base renderebbe ridondanti, aumentare la tassazione sui ricchi, e poi imposte di successione, tasse sul consumo, carbon tax, taglio della spesa militare, taglio dei sussidi all’industria e all’agricoltura, e una stretta sull’evasione fiscale.122 L’ostacolo più grande al reddito base – e in generale alla realizzazione di una società post-lavoro – non è in realtà di tipo economico, ma politico e culturale: politico perché le forze che si oppongono a questa idea sono estremamente potenti; culturale, perché il lavoro è profondamente integrato nelle nostre vite come parte della nostra stessa identità. Esamineremo gli ostacoli politici nei prossimi due capitoli: per ora, concentriamoci su quelli culturali. Uno dei problemi più grandi per l’attuazione di un reddito base e la costruzione di una società post-lavoro, è quello di superare la pressione sociale che porta a interiorizzare l’etica del lavoro.123 Lo stesso fallimento degli esperimenti di reddito base tentati negli Stati Uniti è riconducibile a una generalizzata refrattarietà ad abbandonare le nozioni classiche che riguardano il lavoro, i poveri e i disoccupati;124 invece che interpretare la disoccupazione come conseguenza di una scarsa etica lavorativa, il reddito base invita a considerarla un problema strutturale: eppure, quei primi esperimenti fecero ricorso a un linguaggio che ribadiva una netta distinzione 188

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tra lavoratori e beneficiari dei sussidi di welfare, sebbene il piano puntasse proprio alla cancellazione di tali distinzioni. Di conseguenza, i lavoratori più poveri rifiutarono di far parte del programma per paura di essere stigmatizzati come parassiti. Anche i pregiudizi razziali ebbero un peso: i sussidi erano considerati come una caratteristica della popolazione nera, e i bianchi dimostrarono di essere fortemente restii all’idea di essere associati a un programma del genere. Infine, la mancanza di un’identificazione di classe tra lavoratori e disoccupati – tutti appartenenti al surplus di popolazione – impedì la creazione di una base sociale capace di mobilitarsi in favore del reddito base.125 Lasciarsi alle spalle l’etica del lavoro sarà dunque un obiettivo ineludibile per qualsiasi futuro tentativo di costruire un mondo post-lavoro. Come abbiamo visto nel capitolo 3, il neoliberismo ha introdotto una serie di incentivi per spingerci ad agire e a identificarci come soggetti competitivi: è una visione dell’individuo attorno alla quale orbita una costellazione di immagini tutte orientate all’autonomia e all’indipendenza, che necessariamente entrano in conflitto con qualsiasi programma di società post-lavoro. Le nostre vite sono sempre più strutturate attorno a un ideale fortemente competitivo, che nel lavorare duro individua il principale strumento di autorealizzazione,126 e per quanto degradante, sottopagato o scomodo esso sia, il lavoro viene comunque considerato come un bene in sé. Questo è il mantra dei principali partiti politici come della maggior parte dei sindacati: è un’idea che spesso deriva dalla retorica del lavoro per tutti come dall’importanza che viene attribuita all’immagine della «famiglia di lavoratori», e che si accompagna ai tagli del welfare giustificati dal fatto che «lavorare paga sempre». La stessa ideologia è parallela alla demonizzazione dei disoccupati: i giornali pubblicano titoli che mettono in dubbio la caratura morale di coloro che ricevono i sussidi, i 189

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programmi televisivi ridicolizzano i poveri, e lo stereotipo del parassita dello Stato assistenziale è ormai un classico. Il lavoro è diventato centrale per la nostra concezione di noi stessi, ed è così profondamente radicato in noi che, di fronte all’idea di lavorare meno, molti rispondono: «E allora cosa farei?». Il fatto che così tante persone non riescano neppure a immaginare una vita che abbia significato al di fuori del proprio impiego dimostra quanto in profondità l’etica del lavoro abbia plasmato la nostra psiche. Per quanto venga spesso associata all’etica del lavoro protestante, la sottomissione al lavoro è in realtà implicita in molte religioni.127 Questi sistemi etici e valoriali richiedono dedizione al proprio lavoro qualunque esso sia, e instillano il messaggio che la fatica abbia un valore morale intrinseco.128 Dall’ideale religioso che prometteva una miglior vita futura in cambio del duro lavoro, l’etica del lavoro servì poi alla dedizione – tutta secolare – al miglioramento della vita presente: le forme contemporanee di questo imperativo hanno assunto un carattere liberale-umanista, arrivando a dipingere il lavoro come la principale forma di espressione dell’individuo.129 Il lavoro è stato insomma trasformato in parte della nostra identità e presentato come l’unico vero mezzo per la realizzazione individuale:130 tutti sanno, per esempio, che in un colloquio la risposta peggiore alla domanda «perché vuoi questo impiego?» è «per i soldi», anche se questa è chiaramente la verità repressa. Il lavoro nel campo dei servizi esaspera ulteriormente il fenomeno: in assenza di chiari criteri di produttività, i lavoratori sono costretti a recitare la parte dell’impiegato produttivo, facendo finta di godersi i propri incarichi anche quando hanno a che fare con clienti scortesi; lavorare tanto e a lungo è diventato un vero e proprio segno di devozione, e questo nonostante sia un altro modo in cui viene perpetrato il divario retributivo tra i sessi.131 In una situazione in cui il lavoro è interpretato come elemento indissolubile della propria 190

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identità, il superamento dell’etica del lavoro significa poco meno che superare noi stessi. L’ingrediente ideologico al centro dell’etica del lavoro è che la remunerazione sia legata alla sofferenza. Ovunque rivolgiamo lo sguardo, nella nostra società è facile riscontrare come alle persone venga imposto di soffrire se vogliono raggiungere un traguardo. Gli epiteti rivolti ai mendicanti senzatetto, la demonizzazione di quelli che vivono di sussidi, il labirintico sistema burocratico che per tali sussidi è necessario, l’«esperienza lavorativa» non retribuita che viene richiesta ai disoccupati, la sadica persecuzione di tutti coloro che vengono considerati come parassiti che ricevono beni gratuitamente: esempi del genere sono la dimostrazione che, nella società in cui viviamo, soffrire è considerato come un rito di passaggio obbligato. Le persone devono faticare e lavorare duro prima di poter ricevere un salario, devono dimostrare il loro valore agli occhi del Capitale. Questa forma di pensiero lascia intendere un ovvio residuo teologico, giacché la sofferenza è considerata non solo intrinsecamente significativa, ma come la vera e propria condizione base per una vita che valga la pena vivere: in parole povere, una vita senza sofferenza viene considerata come frivola e vacua. Questa concezione va rigettata e considerata il residuo di un’epoca storica trascesa da tempo. La spinta a dare un significato profondo alla sofferenza può magari avere avuto senso in quelle epoche passate in cui povertà, malattia e fame erano elementi ricorrenti dell’esistenza umana; ma oggi è doveroso rifiutarne la logica, e riconoscere che abbiamo superato la necessità di fondare il senso delle nostre esistenze sulla quantità di sofferenza provata: il lavoro e il dolore che lo accompagna non meritano celebrazione alcuna. Quella di cui abbiamo bisogno è una risposta contro­ egemonica, un progetto capace di sovvertire l’attuale concezione del lavoro come necessario e addirittura desiderabile, 191

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il ribaltamento della logica della sofferenza come condizione per qualsiasi tipo di retribuzione. I media, presentando il reddito base come possibile alternativa e soluzione necessaria alla disoccupazione causata dalle nuove tecnologie, stanno in parte modificando la percezione dominante: dobbiamo amplificare questi primi sintomi egemonici. Il predominio dell’etica del lavoro è di intralcio anche per i processi di cambiamento della base materiale dell’economia. Il capitalismo pretende che le persone per sopravvivere lavorino, e allo stesso tempo si dimostra incapace di produrre abbastanza posti di lavoro: il contrasto tra i valori promossi dall’etica del lavoro e questi cambiamenti materiali produce un ulteriore potenziale per la trasformazione del sistema. Il sostegno a una società post-lavoro si potrebbe già costruire dando un ruolo di rilievo ai problemi politici rappresentati dalla precarietà e dalla disoccupazione (così come Occupy ha contribuito a rendere visibile il problema della disuguaglianza, e UK Uncut quello dell’evasione fiscale).132 Ma la cosa più importante è che esiste già un diffusissimo sentimento di avversione per il lavoro: e questo sentimento va in qualche modo cavalcato. Così come l’egemonia neoliberale cooptò i desideri dei lavoratori e ne guadagnò l’approvazione, l’egemonia post-­ lavoro potrà trovare la sua forza nei desideri più autentici delle persone. La pressione che ci spinge ad accettare l’etica del lavoro è controbilanciata dal disprezzo che proviamo per i nostri impieghi: oggi, in tutto il mondo, solo il tredici percento delle persone sostiene di ritenere il proprio lavoro interessante.133 Spossati e svuotati dal punto di vista fisico, mentale e sociale, i lavoratori vivono le loro occupazioni come fonte di continuo stress. Per la stragrande maggioranza delle persone il lavoro non ha alcun significato, non offre alcun tipo di gratificazione né di redenzione: è solo un male necessario che serve a pagare le bollette a fine mese. Chi è già escluso dal lavoro, più che battersi per essere incluso in 192

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una società di obblighi e di fatica, dovrebbe piuttosto creare le condizioni per riprodurre la propria vita al di fuori del lavoro. Modificare il consenso culturale che circonda l’etica del lavoro significa agire a livello del quotidiano, traducendo questi obiettivi a medio termine in slogan, meme, inni, canti… Richiede la difficile ma essenziale organizzazione degli spazi lavorativi e una campagna politica capace di infiammare gli animi delle persone. Il successo di questi sforzi emergerà chiaramente quando le discussioni dei media sull’automazione cambieranno di tono: dall’allarmismo per il declino dell’occupazione, alla celebrazione della libertà dalla schiavitù del lavoro.134 IL REGNO DELLA LIBERTÀ La sinistra del XXI secolo deve puntare a combattere la centralità del lavoro nella vita contemporanea: fondamentalmente, la scelta è tra la celebrazione del lavoro e della classe operaia, e l’abolizione di entrambi.135 La prima posizione trova la sua principale espressione nella tendenza, tipicamente folk politics, a dare valore al lavoro manuale e artigianale. La seconda è la sola e autentica alternativa postcapitalista: il lavoro deve essere rifiutato e ridotto per permettere lo sviluppo della nostra libertà sintetica.136 Come abbiamo illustrato nel corso di questo capitolo, è quindi necessario conseguire quattro obiettivi essenziali: • Piena automazione • Riduzione della settimana lavorativa • Reddito base universale • Rifiuto dell’etica del lavoro Anche se ciascuna di queste proposte può valere da sola come obiettivo, è quando vengono articolate assieme e all’interno di un programma unitario che esprimono tutta la loro potenza. Non si tratta di immaginare riforme semplici 193

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o periferiche, ma una formazione egemonica completamente nuova, che abbia l’ambizione di competere con le alternative neoliberali e socialdemocratiche. Rivendicare la piena automazione amplifica la possibilità di ridurre la settimana lavorativa e incrementa la necessità di un reddito base universale: la prima misura aiuterebbe a produrre un’economia sostenibile e ad accumulare potere di classe, mentre la seconda aumenterebbe la probabilità di ridurre il tempo passato a lavorare e dunque, di nuovo, di espandere il potere di classe. Il tutto, porterebbe a un’accelerazione della stessa piena automazione: con l’aumento del potere dei lavoratori e un mercato del lavoro più strozzato, il costo marginale del lavoro crescerebbe, perché le imprese adotterebbero l’uso di macchinari per potersi espandere.137 Questi obiettivi entrano in risonanza l’uno con l’altro, amplificando il loro potere collettivo. Una nuova egemonia post-lavoro resisterebbe a una (possibile) inversione, avendo creato una massa elettorale che trae benefici da essa e che è interessata al suo mantenimento.138 L’ambizione di questo progetto è strappare l’idea di futuro dalle mani del capitalismo, di costruire nel XXI secolo il mondo in cui vorremmo vivere, e di mettere a disposizione il tempo e il denaro necessari a un concetto sostanziale di libertà. «Lavoro per tutti», il grido di battaglia della sinistra tradizionale, va rimpiazzato con «disoccupazione per tutti». A questo punto però, va immediatamente chiarita una cosa: non esiste una soluzione tecnocratica, e non esiste alcun percorso obbligato che inevitabilmente ci porterà a un futuro post-lavoro. La battaglia per la piena automazione, la settimana lavorativa corta, la fine dell’etica del lavoro e il reddito base universale sono innanzitutto battaglie politiche. Quella del futuro post-lavoro è un’immagine iperstizionale di progresso, che punta a rendere il futuro una forza storica capace di agire nel presente. Le battaglie che un simile progetto dovrà affrontare richiedono che la sinistra oltrepassi 194

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l’orizzonte della folk politics per ricostruire il proprio potere e adottare una strategia espansionistica capace di produrre un cambiamento tangibile. E adesso è esattamente a questi obiettivi che ci rivolgeremo.

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Capitolo 7 UN NUOVO SENSO COMUNE La soluzione è fare in modo che il «senso comune» vada nella direzione del cambiamento. Pablo Iglesias

Una società post-lavoro può potenzialmente esercitare un’attrattiva enorme, anche perché porterebbe a un miglioramento delle condizioni materiali di vita della maggior parte delle persone. Questo però non basta a garantirne la realizzabilità: sui media di oggi, le discussioni su argomenti come l’automazione e il reddito base sembrano dare per scontata l’innata magnanimità delle élite, la neutralità politica della tecnologia e l’inevitabilità di una società in cui di lavoro non ce ne sarà più; ma esistono anche forze enormemente influenti che hanno tutto l’interesse di preservare lo status quo. Nei decenni che ci precedono la sinistra ha conosciuto una sconfitta dopo l’altra, mentre la miseria rimane ancora più diffusa del lusso: nella situazione attuale l’automazione finirebbe soltanto col produrre più disoccupazione, e i potenziali benefici portati dalle nuove tecnologie verrebbero sperimentati unicamente dai loro pochi, ricchi padroni. Allo stesso modo, il poco tempo libero di cui disponiamo verrebbe cancellato da nuovi e tediosi posti di lavoro o dall’estensione del precariato. E se un domani un reddito base venisse garantito, con molta probabilità verrebbe stanziato al di sotto della soglia di povertà, e servirebbe semplicemente ad arricchire imprese e compagnie. Di conseguenza, la creazione di una vera società post-­ lavoro non può che partire dal cambiamento della condizione politica presente. A sua volta questo significa che la sinistra dovrà affrontare a viso aperto la deprimente situazione in cui versa: sindacati in rovina, partiti politici ridotti a marionette governate dagli interessi neoliberali e un’egemonia culturale e intellettuale in drammatico declino. La repressione 197

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subita dalla sinistra per mano di governi e corporation è andata crescendo da diversi decenni a questa parte, leggi e provvedimenti vari hanno reso l’organizzazione politica più difficoltosa, la precarietà ci ha reso tutti più insicuri, e la militarizzazione delle forze di polizia sta procedendo a passo sempre più spedito;1 a questo va aggiunto che le nostre vite private, il nostro mondo sociale e l’ambiente stesso in cui viviamo sono tutti organizzati attorno al lavoro e al suo mantenimento. La transizione verso una società post-lavoro, come pure la transizione verso un’economia decarbonizzata, non è solo questione di superare l’opposizione di qualche potente gruppo di interesse: si tratta piuttosto di mettere in atto una totale trasformazione della società. Lo scontro con l’apparato di potere del Capitale è insomma inevitabile, e non dobbiamo farci illusioni riguardo alle difficoltà che un simile progetto si troverà a incontrare. E se un cambiamento radicale non sarà immediatamente possibile, i nostri sforzi dovranno concentrarsi sull’espansione di quegli spazi di possibilità che esistono già, promuovendo col passare del tempo migliori condizioni politiche: dobbiamo cioè raggiungere uno spazio da dove potranno essere formulate rivendicazioni più radicali e – se vogliamo alterare significativamente il terreno politico – prepararci allo sviluppo di un processo a lungo termine. Non è niente di cui sorprendersi. Il capitalismo non è emerso all’improvviso, ma è progredito lentamente nel corso di diversi secoli fino a raggiungere una posizione domi­ nante.2 Il processo ha richiesto il concorso di diversi elementi: lavoratori senza terra, ampia produzione di beni di consumo, proprietà privata, miglioramenti tecnologici, centralizzazione della ricchezza, borghesia, etica del lavoro e così via. Queste condizioni storiche sono gli ingredienti attraverso i quali la logica sistemica del capitalismo è riuscita infine a guidare il pianeta. La morale di questa storia è che anche il postcapitalismo, come già il capitalismo, dovrà fare affidamento 198

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sull’accumulo di un insieme di elementi specifici: non emer­gerà né all’improvviso né all’indomani di un semplice momento rivoluzionario, e il compito della sinistra dovrà essere quello di creare le condizioni perché il postcapitalismo si avveri, di lottare per proseguire la sua progettazione su scala sempre più ampia. Questo capitolo prende spunto dalla premessa che la sinistra contemporanea versa in condizioni critiche, e che qualsiasi progetto di trasformazione avrà bisogno di molto tempo. Per ragioni di spazio, limiteremo la nostra analisi alle democrazie capitaliste occidentali, con i loro peculiari apparati di potere politico ed economico: dovremo quindi tralasciare le immense (ed estremamente importanti) regioni del resto del mondo.3 Ciononostante, vale la pena ribadire che il problema dell’automazione e del surplus di popolazione sono di natura globale, e che le condizioni per l’avvento di un futuro post-lavoro stanno fiorendo in tutto il mondo, come dimostrato dai già accennati esperimenti di reddito base in India e in Namibia, dalla rapida crescita dell’automazione industriale in tutte le nazioni più popolose, e dalla spontanea emersione di movimenti anti-lavoristi in molti paesi. Ovviamente, benché queste siano dinamiche globali, un progetto politico mirato a trasformare la situazione presente dovrà necessariamente partire, caso per caso, dalle peculiari condizioni incontrate sul terreno. Certamente alcuni principi basilari potranno essere applicati in contesti diversi, ma dovranno essere realizzati secondo circostanze differenti. Tenendo a mente queste precisazioni, possiamo allora chiederci: come è possibile determinare un futuro migliore? La classica strategia leninista – costruire un doppio potere attraverso un partito rivoluzionario e rovesciare lo Stato – è oggi obsoleta,4 e i sostenitori del modello bolscevico possono servire più come figuranti in rievocazioni storiche che come guide per la politica contemporanea. Allo stesso tempo, le rivoluzioni politiche più recenti – da quella iraniana alle 199

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primavere arabe – non hanno prodotto altro che un misto di autoritarismo teocratico, dittature militari e guerre civili. Anche il modello riformista è destinato al fallimento: la vecchia ambizione di dare vita a un mondo nuovo attraverso una semplice consultazione elettorale, si è ridotta alla ricerca del consenso da parte delle élite per poi essere del tutto inglobata all’interno dell’ideologia neoliberale; nelle sue forme migliori, la via riformista potrebbe al massimo ambire a qualche minima miglioria da apportare al capitalismo, agendo come una specie di sistema omeostatico politico. L’ultimo ciclo di lotte ha infine dimostrato come gli approcci «immediati» privilegiati dalla folk politics non riescano a modificare realmente la società: la resistenza locale, le battaglie di difesa, le sacche di politica prefigurativa e la semplice «fuga dalla società» sono strategie incapaci di guadagnare terreno e ostacolare il capitalismo; non basta dichiarare che il progresso arriverà con la pratica, o che le masse riusciranno a creare spontaneamente un mondo migliore.5 Se è vero che in ogni battaglia intervengono elementi casuali e non prevedibili, la difficoltà di costruire un mondo nuovo richiede comunque lo sviluppo preventivo di un pensiero strategico. I nostri sforzi in questa direzione dovranno essere organizzati in maniera lungimirante e lungo linee ben precise, anziché essere dissipati in una serie di obiettivi parziali e scollegati tra loro: anche perché, come la stessa modernità ci insegna, il progresso in direzione di un futuro migliore poggia su caute riflessioni e azioni ben pianificate. Visti i limiti di cui sopra, noi crediamo che il piano d’azione migliore sia la costruzione di una strategia controegemonica. Si tratta di un tipo di strategia a cui è possibile ricorrere anche in condizioni di debolezza, è scalabile dal locale al globale ed è in grado di identificare la morsa del capitalismo in ogni aspetto delle nostre vite, dai nostri desideri più intimi fino al più astratto dei flussi finanziari. Una strategia controegemonica implica un progetto mirato a sovvertire il senso 200

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comune neoliberale dominante, e quindi a potenziare l’immaginazione collettiva: fondamentalmente, è un tentativo di instaurare un nuovo senso comune organizzato attorno alla crisi del lavoro e i relativi effetti sul proletariato. Serve dunque un lavoro di preparazione per una battaglia politica di livello globale, che trasformi il nostro immaginario e riconfiguri il nostro senso del possibile. L’idea è quella di creare una rete di supporto e un linguaggio comune per un mondo nuovo, cercando di modificare l’equilibrio dei poteri nell’attesa di una crisi capace di mettere in questione la legittimità della società contemporanea. Diversamente da varie forme di folk politics, si tratta di una strategia espansionistica e a lungo termine, a suo agio con una realtà fatta di astrazione e complessità, e progettata per sovvertire l’universalismo capitalista.6 In questo capitolo esamineremo quindi tre possibili ambiti di lotta: quello intellettuale, quello culturale e quello tecnologico. Cominceremo esaminando l’idea di egemonia a livello teorico, mentre il resto del capitolo esplorerà alcuni esempi di come un progetto controegemonico al dominio neoliberale può essere messo in pratica attraverso narrazioni utopiche, economie pluraliste e il riorientamento delle tecnologie. LA COSTRUZIONE DEL CONSENSO Inizialmente, il concetto di «egemonia» è servito a spiegare perché la gente comune non si ribellava al capitalismo.7 Secondo la tradizionale narrativa marxista, i lavoratori erano destinati a diventare sempre più coscienti della natura sfruttatrice del capitalismo, e da lì si sarebbero organizzati per trascenderla: il capitalismo avrebbe prodotto un mondo sempre più polarizzato tra Capitale e classe operaia, un processo che avrebbe favorito una strategia politica grazie alla quale la classe operaia organizzata avrebbe ottenuto il controllo dello Stato per via rivoluzionaria. Ma già attorno agli anni Venti fu chiaro che, nelle società democratiche europee, un simile scenario non si sarebbe mai realizzato. Come fu possibile, 201

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allora, che il capitalismo e gli interessi della classe dominante ebbero il sopravvento in queste società senza nemmeno l’uso della forza? Antonio Gramsci rispose a questa domanda sostenendo che il potere del capitalismo si fonda sull’egemonia, ovvero la costruzione del consenso pubblico che porta un determinato gruppo (dominante) a imporre le proprie visioni sugli altri. Un progetto egemonico costruisce insomma un «senso comune» che instaura la visione del mondo di un gruppo come l’orizzonte universale di un’intera società: in questo modo, l’egemonia permette a quel gruppo di guidare e governare una società principalmente attraverso il consenso (attivo e passivo) del pubblico, piuttosto che ricorrendo a metodi coercitivi.8 Questo consenso può essere prodotto in diversi modi: la formazione di esplicite alleanze politiche con altri gruppi sociali, la disseminazione di valori culturali a supporto di un particolare criterio di organizzazione sociale (vedi l’etica del lavoro promossa dai media e instillata tramite l’istruzione), il coordinamento di interessi tra classi diverse (per esempio: i lavoratori vivono meglio quando un’economia capitalista è in crescita, anche se questo significa disuguaglianze di massa e disastri ambientali), e costruzione di tecnologie e di infrastrutture tali da porre limiti invisibili al conflitto sociale (altro esempio: strade più larghe al fine di rendere difficoltosa l’erezione di barricate). In senso lato, l’egemonia permette a gruppi relativamente ristretti di capitalisti di «guidare» l’intera società anche quando i loro interessi materiali sono in conflitto con quelli della maggioranza. Infine, insieme al controllo del consenso attivo e passivo, i progetti egemonici contemplano all’occorrenza anche metodi coercitivi – carcerazione, violenza, intimidazione da parte delle forze di polizia – al fine di neutralizzare i gruppi che rifiutano di sottomettersi.9 Nell’insieme, queste misure fanno sì che un piccolo gruppo di individui sia in grado di influenzare la direzione generale di una società intera, a volte 202

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tramite la conquista e il dispiegamento del potere statale, ma anche al di fuori dei confini dello Stato. Quest’ultimo punto è particolarmente importante: l’egemonia non è soltanto una forma di dominio dispiegata da chi è al potere, ma anche una strategia che permette a coloro che risiedono ai margini di trasformare la società. Un progetto controegemonico permette a gruppi marginalizzati e oppressi di spostare gli equilibri e di creare un nuovo senso comune. Rigettare l’ideale egemonico significa insomma abbandonare qualsiasi ipotesi di vittoria e di esercizio del potere, e in definitiva rinunciare ai principali obiettivi di qualsivoglia battaglia politica.10 Anche se ci sono frange della sinistra contemporanea che sposano apertamente una simile posizione,11 va ricordato che quando persino i movimenti orizzontalisti hanno ottenuto qualche successo, questi sono stati possibili soltanto attraverso un lavoro controegemonico: il più vistoso risultato di Occupy – la trasformazione del dibattito pubblico sulle disuguaglianze – ne è un ottimo esempio. Un progetto controegemonico mirerà quindi a sovvertire quel complesso di alleanze, regole consensuali e senso comune che impediscono la costruzione di una nuova egemonia;12 dovrà cioè cercare di istituire le condizioni sociali dalle quali saprà emergere un mondo post-lavoro, e richiederà un atteggiamento espansionistico che vada ben oltre le misure temporanee e locali proprie della folk politics. Comporterà anche la mobilitazione di differenti gruppi sociali,13 il che significa legare una vasta gamma di singoli interessi attorno a un desiderio comune: quello di una società libera dal lavoro salariato. Negli Stati Uniti l’egemonia neoliberale è notoriamente emersa dalla fusione degli interessi dei liberisti in campo economico con quelli dei conservatori in campo sociale: è un’alleanza problematica (e a volte contraddittoria), ma che riesce comunque a trovare interessi condivisi all’interno dell’ampia cornice del neoliberismo (vedi l’enfasi comune posta sulle libertà individuali).14 In più, i progetti 203

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controegemonici operano su terreni diversi, che vanno dallo Stato alla società civile passando per le infrastrutture materiali, e questo significa che devono sapersi muovere in modi differenti: promuovendo il proprio programma attraverso i media, provando a ottenere potere nelle istituzioni, controllando settori chiave dell’economia, progettando infrastrut­ ture fondamentali... Un progetto di questo tipo richiede un impegno sia empirico che sperimentale. L’obiettivo è identificare i campi di azione che bisognerà rafforzare per influenzare la direzione verso la quale la società contemporanea si andrà evolvendo. La Mont Pelerin Society è un esempio perfetto: acutamente consapevole di come l’economia keynesiana fosse il senso comune dominante del suo tempo, la MPS si assunse il compito a lungo termine di smantellare uno per uno gli elementi capaci di sostenerne l’ideologia. Ci vollero anni perché il progetto iniziasse a dare frutti, e durante questo periodo la MPS dovette continuamente ricorrere ad azioni controegemoniche nel tentativo di realizzarlo compiutamente. Un simile pensiero a lungo termine è chiaramente in conflitto con la tendenza odierna a focalizzarsi sulla resistenza immediata e su nuovi motivi di indignazione quotidiana. Quello sull’egemonia non è semplicemente un dibattito immateriale su idee e valori. L’egemonia neoliberale dipende per esempio da una serie di istanze materiali: nello specifico, l’intreccio tra potere governativo, manipolazione dei media e un ramificato network di think tank. Come abbiamo osservato nella nostra analisi delle origini del neoliberismo, la MPS fu particolarmente scaltra quando si trattò di creare un’infrastruttura intellettuale composta da istituzioni e risorse materiali necessarie per instillare, incarnare e infine diffondere la propria ideologia. È questa combinazione di alleanze sociali, pensiero strategico, lavoro ideologico e interventi sulle istituzioni che conferisce la capacità di modificare il discorso pubblico, e qui un concetto chiave è quello della «finestra 204

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di Overton», ovvero lo spettro di idee e ipotesi che possono «realisticamente» essere discusse da politici, intellettuali e giornalisti, e dunque accettate dal pubblico.15 Questa finestra di opzioni «realistiche» deriva da un complesso intreccio di fattori: da chi controlla i nodi fondamentali di stampa e media radiotelevisivi a chi detiene il potere esecutivo, ma riguarda anche l’impatto della cultura popolare, l’equilibrio di potere tra lavoratori e capitalisti e così via. Per quanto emerga dall’intersezione di elementi disparati, la finestra di Overton ha in sé il potere di plasmare il cammino futuro di governi e società: se una certa idea non viene considerata «realistica» non verrà neanche presa in considerazione come oggetto di discussione, e i suoi sostenitori verranno accusati di «scarsa credibilità». Possiamo valutare il successo degli ideali neoliberali misurando quanto essi siano riusciti a circoscrivere lo spazio del possibile in un periodo di oltre trent’anni;16 oltretutto, seppure non è mai stato possibile convincere la maggioranza della popolazione dei meriti delle politiche neoliberali, quello che conta è che l’assenso attivo non è strettamente necessario: una lunga serie di amministrazioni in tutto il mondo, con l’ausilio di una rete di think tank e con la compiacenza dei media conservatori, è riuscita a trasformare le opzioni possibili in un modo tale da escludere finanche la più moderata tra le proposte «socialisteggianti».17 In questo modo, l’egemonia neoliberale ha reso possibile l’esercizio del potere senza la necessità di controllare direttamente il potere esecutivo statale. Considerato che la finestra delle opzioni possibili può essere spostata ancora più a destra, che un governo conservatore sia o meno al potere fa poca differenza (un particolare che negli USA è stato ampiamente sfruttato dal Partito Repubblicano, spiazzando non poco la sinistra liberale). Ma per come la affrontiamo in questo capitolo, l’egemonia ideologica non si riduce al mantenimento di qualche rigida linea di partito su quello che si può o non si può discutere: anche il 205

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solo portare problemi e categorie di sinistra all’attenzione del dibattito pubblico sarebbe già un enorme passo avanti. Sebbene il concetto di egemonia venga spesso associato agli aspetti più immateriali della società (idee, valori, ecc.), il suo senso è in realtà prettamente materiale. Le infrastrutture fisiche del nostro mondo esercitano una significativa forza egemonica sulla società, imponendo uno stile di vita senza bisogno di alcuna imposizione esplicita: parlando dell’infrastruttura urbana, David Harvey ha scritto che «i progetti che riguardano il modo in cui vogliamo che siano le nostre città […] sono progetti che riguardano le capacità umane: e cioè chi vogliamo o – in maniera forse ancora più pertinente – chi non vogliamo diventare».18 I quartieri suburbani degli Stati Uniti furono costruiti con l’intenzione dichiarata di isolare e individualizzare le reti di solidarietà urbana, e di instillare una divisione di genere tra il privato e il pubblico nella forma della villetta monofamiliare.19 Le infrastrutture economiche servono a loro volta a modificare e plasmare i comportamenti umani: quelle tecnologiche vengono spesso sviluppate per scopi di questo tipo se non direttamente politici, e se pensiamo alla catena di distribuzione just-in-time ci rendiamo conto di come si tratti di un metodo non solo economicamente efficiente in un regime capitalista, ma anche estremamente utile a demolire il potere dei sindacati. In altre parole, l’egemonia – ovvero il dominio esercitato tramite la costruzione del consenso – va considerata una forza tanto materiale quanto sociale. È qualcosa di connaturato alla mente umana, alle organizzazioni sociali e politiche, alla tecnologia, e all’ambiente materiale che costituisce il nostro mondo di tutti i giorni.20 E mentre le forze sociali dell’egemonia devono essere continuamente rinnovate, gli aspetti materiali dell’egemonia esercitano un effetto che, dopo la creazione iniziale, dura estremamente a lungo:21 una volta al loro posto, le infrastrutture sono difficili da rimuovere o da alterare, anche nonostante i cambiamenti delle condizioni 206

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politiche. Basti pensare al problema che stiamo affrontando oggi con le infrastrutture basate sui combustibili fossili: le nostre economie sono organizzate attorno a produzione, distribuzione e consumo di carbone, petrolio e gas, il che rende molto difficile decarbonizzare l’economia. Il rovescio della medaglia è che, una volta che l’infra­ struttura postcapitalista sarà stabilita, sarà altrettanto difficile spodestarla, indipendentemente dalla quantità di forze reazionarie che vorranno opporvisi. La tecnologia e le infrastrutture tecnologiche rappresentano allo stesso tempo ostacoli non indifferenti al superamento del modo di produzione capitalista e risorse importanti per assicurare la longevità dell’alternativa postcapitalista. Questo spiega perché ad esempio non sia sufficiente un movimento populista, per quanto vasto, che si opponga alla forma corrente del capitalismo: senza un nuovo approccio capace di mobilitare per la propria causa risorse come le tecnologie di produzione e di distribuzione, qualsiasi movimento sociale sarà costretto a ricadere nelle pratiche del capitalismo stesso. L’egemonia che la sinistra deve sviluppare è di tipo socio-tecnico, capace cioè di operare sia nella sfera delle idee (e delle ideologie) che in quella delle infrastrutture concrete. L’obiettivo di questa strategia, in termini generici, è traghettare l’egemonia tecnica, economica, sociale, politica e produttiva contemporanea verso un nuovo punto di equilibrio, oltre l’imposizione del lavoro salariato. Questo richiederà il ricorso a pratiche sperimentali e a lungo termine, nonché capaci di agire su diversi fronti: un progetto egemonico implica (e risponde a) una società intesa come un ordine complesso e in divenire, il risultato di pratiche diverse ma interconnesse.22 Certe combinazioni produr­ ranno instabilità, ma altre porteranno a risultati più stabili, se non letteralmente statici. In questo contesto, la politica egemonica rappresenta il lavoro svolto da e per un nuovo punto di relativa stabilità sociale attraverso svariati 207

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sottosistemi sociali: dalla politica nazionale alla sfera economica, dalla battaglia delle idee a un diverso tipo di regime tecnologico. L’egemonia è l’ordine che emerge dall’interazione tra queste diverse sfere: punta a sopprimere certi tipi di azione e a promuoverne altri. Nel resto di questo capitolo, prenderemo in esame tre canali tramite i quali sarà possibile battersi per una nuova egemonia: la pluralizzazione dell’economia, la creazione di narrazioni utopiche e un nuovo utilizzo della tecnologia. Questi sicuramente non esauriscono tutti i possibili punti di attacco, ma identificano aree potenzialmente produttive su cui sarà bene concentrare la nostra attenzione. RICORDARE IL FUTURO Oggi, uno degli aspetti più pervasivi e subdoli dell’egemonia capitalista è la sua abilità nel porre limiti alla nostra immaginazione collettiva. Nonostante sempre più persone tentino di sovvertirlo, il mantra «non c’è alternativa» continua a regnare sovrano. Rispetto a quanto abbiamo visto nel XX secolo si tratta di un cambiamento significativo, se non altro perché il Novecento vide una grande proliferazione di immaginari utopici con tanto di grandiosi piani per il futuro. La conquista dello spazio è stata per esempio un simbolo ricorrente del desiderio umano di controllare il proprio destino;23 la Russia pre-sovietica conobbe un’immensa attrazione per l’esplorazione spaziale, e benché l’aviazione fosse un campo ancora relativamente giovane, il sogno di librarsi in volo nel cosmo sembrava comunque promettere una «totale liberazione dai significanti del passato: ingiustizia sociale, imperfezioni, gravità e, in ultima analisi, la Terra stessa».24 Queste inclinazioni utopiche ebbero lo scopo di rendere intelligibili i rapidi cambiamenti che stava conoscendo il mondo dell’epoca, di sottolineare l’idea che l’umanità avrebbe potuto impartire alla propria storia una direzione razionale, e di coltivare visioni per una società futura. Con sfumature 208

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più mistiche (e con ammirevole ambizione), i cosmisti russi sostennero che l’ingegneria terrestre e l’esplorazione spaziale sarebbero state solo il primo passo verso il vero obiettivo: la risurrezione del morti.25 Nel frattempo, letture più secolari immaginarono piani dettagliati per la creazione di economie completamente automatizzate, per una democrazia economica di massa, per la fine del classismo e il completo sviluppo dell’umanità.26 L’entusiastica convinzione dell’imminenza dei viaggi spaziali era così diffusa che, nel 1924, la notizia di un possibile razzo indirizzato verso la Luna causò quasi una rivolta nelle strade.27 La cultura popolare traboccava di storie in cui a intrecciarsi erano rivoluzione tecnologica e rivoluzione sociale, e dalla semplice fantasia di viaggi extraterrestri simili immagini finirono per esercitare un impatto concreto sulla vita delle persone: nel periodo post-rivoluzionario, questa cultura così pregna di ambizioni per il futuro diede il via a una serie di esperimenti sociali che contemplavano allo stesso modo nuove forme di vita in comune, inedite organizzazioni domestiche e forme politiche innovative.28 Tali esperimenti andarono a contribuire all’idea che, in un periodo di rapida modernizzazione, nessun obiettivo era impossibile, aiutando in questo senso sia i bolscevichi che il popolo. Con lo stalinismo, le ambizioni utopiche pre e postrivoluzionarie furono perlopiù silenziate; ma riemersero negli anni Cinquanta grazie a una nuova sicurezza economica e alla disponibilità di risorse per poter finalmente realizzare alcuni di questi sogni.29 Non è possibile comprendere appieno il momento più alto dello sperimentalismo sovietico – il lancio dello Sputnik e il predominio economico che il paese sembrava prossimo ad agguantare all’epoca – senza considerare come, a renderlo possibile, fu proprio una cultura popolare profondamente imbevuta di slanci utopici.30 Persino gli Stati Uniti conobbero un periodo simile all’inizio della loro storia: spinti dalla diffusa convinzione che il nuovo 209

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capitalismo industriale rappresentasse solamente una fase temporanea e che un mondo migliore sarebbe presto emerso, i lavoratori lottarono per la costruzione del futuro. In un clima molto meno ostile del nostro, il mondo del lavoro fu in grado di costruire una serie di robuste organizzazioni in grado di esercitare una forte pressione sociale.31 E, di nuovo, i successi conseguiti in questo periodo sono inseparabili dalla più ampia cultura utopica in cui erano collocati. Il mondo di oggi rimane invece costretto all’interno dei parametri imposti dal «realismo capitalista».32 Il futuro è stato cancellato: siamo più inclini a credere che la catastrofe ecologica sia imminente, la militarizzazione della società inevitabile e l’aumento delle disuguaglianze inarrestabile. Persino la fantascienza contemporanea è dominata da visioni quasi sempre distopiche, e si occupa più di descrivere il declino del nostro pianeta piuttosto che immaginare possibili scenari di un mondo nuovo.33 Quando un’utopia viene portata all’attenzione del pubblico, sembra sempre che vada rigorosamente giustificata in termini strumentali, anziché lasciare che ecceda (come per sua natura) qualsiasi tipo di calcolo. E intanto, nei corridoi delle università l’impulso utopico viene censurato come ingenuo e inutile. Spossata da decenni di fallimenti, la sinistra ha gradualmente abbandonato quelle che furono storicamente le sue ambizioni più grandi. Per portare un solo esempio: mentre negli anni Settanta il femminismo radicale e i manifesti del movimento queer invocavano a gran voce una società profondamente rinnovata, già vent’anni dopo queste rivendicazioni si erano limitate a una forma più moderata di politica delle identità, per poi ridursi – dagli anni Duemila in poi – a richieste ancora più modeste come i matrimoni gay e le pari opportunità per le donne manager.34 Lo spazio della speranza è stato oggi usurpato dal cinismo e da una supposta maturità venata di scetticismo.35 E così, gli ambiziosi obiettivi che una volta aspiravano alla totale trasformazione del panorama 210

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sociale si sono ridotti a piccoli tentativi di riforma ai margini della società. Noi siamo convinti che una sinistra con grandi ambizioni sia un elemento essenziale per la costruzione di un programma post-lavoro, e che per raggiungere questo obiettivo il futuro debba essere non solo ricordato ma ricostruito.36 Le utopie sono l’incarnazione delle iperstizioni di progresso: ci impongono la realizzazione del futuro, costituiscono un impossibile ma necessario oggetto di desiderio, e ci forniscono sia un linguaggio di speranza che lo stimolo a un mondo migliore. Chi accusa le utopie di essere nient’altro che delle fantasie, perde di vista il fatto che è precisamente il loro elemento di immaginazione a renderle elementi fondamentali di ogni processo di cambiamento politico. Se desideriamo evadere da questo presente, dobbiamo prima di tutto liberarci dei parametri imposti al futuro e dischiudere un nuovo orizzonte di possibilità. Privo della speranza in un futuro migliore, il pensiero politico radicale è destinato al fallimento.37 Non è un caso che l’utopia abbia avuto un ruolo centrale in tutti i grandi movimenti di liberazione, dal primo liberalismo ai socialismi di ogni tipo, dal femminismo al nazionalismo anticoloniale. Cosmismo, afrofuturismo, sogni di immortalità, esplorazione spaziale: sono tutti segnali di un impulso universale al pensiero utopico. Persino la rivoluzione neoliberale coltivò il desiderio di un’utopia liberale alternativa, antitetica al consenso keynesiano dominante. Ma qualsiasi utopia di sinistra che, dal collasso dell’Unione Sovietica a oggi, abbia osato sfidare il neoliberismo è stata sistematicamente privata delle risorse necessarie al suo compimento. La sinistra deve liberare il proprio impulso utopico dalle catene del neoliberismo, per poter così espandere lo spazio del possibile, adottare una prospettiva critica sul momento presente e coltivare desideri nuovi. Per cominciare, il pensiero utopico è in grado di offrire un’analisi rigorosa della congiuntura storica contemporanea 211

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e di proiettare le sue tendenze verso il futuro.38 Mentre gli approcci di tipo scientifico tendono a ridurre la discussione all’interno di una cornice probabilistica, il pensiero utopico riconosce che il futuro è radicalmente aperto, e che quello che sembra impossibile oggi potrebbe diventare possibile domani. Le migliori utopie sono quelle che racchiudono al loro interno tensioni e dinamismi, piuttosto che presentare un’immagine statica di una società perfetta: benché irriducibili a preoccupazioni di carattere strumentale, le utopie incoraggiano la formulazione di idee da implementare nel momento in cui le condizioni finalmente cambieranno. Torniamo all’esempio dei cosmisti russi: nel XIX secolo furono tra i primi a riflettere seriamente sul potenziale dei viaggi spaziali e sulle loro implicazioni sociali. All’inizio vennero considerati degli ingenui sognatori, ma il loro pensiero finì invece con l’influenzare profondamente la futura scienza aerospaziale.39 Allo stesso modo, la prima fantascienza che esplorò i temi dell’esplorazione spaziale e delle utopie cosmiste andò a influenzare, in seguito alla Rivoluzione Russa, quelle politiche statali che promossero lo sviluppo di scienza e tecnologia.40 Creare delle alternative rende anche possibile ricono­ scere che un altro mondo è possibile.41 Oggi che l’imperfetta ma significativa alternativa globale rappresentata dall’Unione Sovietica è svanita dalla memoria collettiva, immaginare un mondo alternativo diventa sempre più importante, perché allarga la finestra di Overton e ci permette di immaginare cosa sarebbe possibile ottenere se le condizioni fossero diverse. Nell’elaborare un’immagine del futuro, il pensiero utopico genera anche un punto di vista dal quale è possibile criticare il presente:42 sospende l’apparenza che il presente sia inevitabile, porta alla luce aspetti del nostro mondo che passerebbero altrimenti inosservati, e solleva questioni che vengono sistematicamente escluse.43 Molta fantascienza americana recente, per esempio, è stata una risposta a problemi 212

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di razza, genere e classe, mentre le prime utopie russe immaginarono mondi capaci di superare i problemi imposti dalla rapida urbanizzazione e dal conflitto tra etnie.44 Questi mondi immaginari non modellano semplicemente delle soluzioni possibili, ma gettano anche luce sui problemi attuali. Come nota Slavoj Žižek commentando Thomas Piketty, la richiesta – a prima vista innocua – di applicare una tassa globale, implica in effetti una completa riorganizzazione dell’intera struttura politica mondiale:45 in una tanto modesta affermazione si cela insomma un impulso utopico, dal momento che le condizioni per la sua realizzazione richiedono una profonda riconfigurazione delle circostanze presenti. Allo stesso modo, la rivendicazione di un reddito base universale fornisce una prospettiva in cui a diventare evidenti sono la natura sociale del lavoro, il suo invisibile aspetto domestico, e la sua estensione in ogni area delle nostre esistenze. Quando vista dalla prospettiva di un mondo post-lavoro, la maniera in cui organizziamo le nostre vite lavorative, le nostre famiglie e le nostre comunità viene investita di un’apparenza nuova: per quale motivo spendiamo un terzo delle nostre vite sottomessi a un datore o a un capo? Perché il lavoro domestico (regolarmente svolto da donne) non è retribuito? Per quale motivo le nostre vite urbane sono organizzate attorno a lunghi e tediosi viaggi sui mezzi pubblici dalle periferie residenziali al centro delle città? La rivendicazione utopica del futuro ci invita sostanzialmente a mettere in questione i dati di fatto del nostro mondo. In questo modo, le utopie possono contemporaneamente essere una negazione del presente e l’affermazione di un futuro possibile.46 Infine, affermando il futuro, l’utopia funziona da modulatore degli affetti: manipola e modifica i nostri desideri e i nostri sentimenti, a livello sia conscio che inconscio. In tutte le sue varianti, l’utopia ha fondamentalmente a che vedere con l’«educazione del desiderio»:47 ci fornisce un quadro concettuale capace di stabilire cosa desiderare e come, liberando 213

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gli elementi libidinali dalle catene del ragionevole. Le utopie ci offrono qualcosa verso cui puntare, qualcosa che vada oltre la blanda ripetizione di quanto già è offerto dall’eterno presente del capitalismo. Scardinando il presente e proiettando l’immagine di un futuro migliore, lo spazio tra il presente e il futuro diventa lo spazio per la speranza e per il desiderio di qualcosa di più.48 Producendo e incanalando questi affetti, il pensiero utopico può diventare uno stimolo all’azione e un catalizzatore del cambiamento, mettendo in crisi le abitudini consolidate e demolendo il consenso attorno all’ordine esistente.49 Se esteso attraverso meccanismi di comunicazione,50 un pensiero orientato al futuro sarà capace di produrre un sentimento di speranza collettiva, in grado di spingere le masse ad agire in nome di un futuro migliore: senza questo sentimento, non è possibile alcun progetto politico.51 Il pensiero utopico rigetta la malinconia e il pessimismo trascendentale che permeano diverse frange della sinistra contemporanea, ma è capace anche di generare emozioni negative.52 L’opposto della speranza è la delusione (un sentimento che oggi è solitamente incarnato da figure come il giovane «laureato senza futuro»),53 e se la rabbia è stata tradizionalmente il sentimento dominante della sinistra militante, la delusione invoca una relazione comunque più produttiva: non solo una volontà di cambiare lo status quo, ma anche il desiderio di quanto il futuro potrebbe riservare. La delusione insomma, sottolinea la brama di un futuro perduto. Se la sinistra vuole contrastare il senso comune del neoliberismo («non ci sono abbastanza soldi», «tutti devono lavorare», «lo Stato è inefficiente»), il pensiero utopico dovrà essere essenziale. Dobbiamo pensare in grande. Il futuro è sempre stato l’habitat naturale della sinistra ed è un terreno che va riconquistato. Nell’era neoliberale in cui ci troviamo, la spinta verso un mondo migliore è stata gradualmente eliminata sotto le pressioni e le necessità dell’esistenza quotidiana. 214

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In questo modo, sotto il tallone di una repressione continua, quello che è andato perduto è l’ambizione a produrre «un mondo che ecceda – esistenzialmente, esteticamente e politicamente – i miseri confini della cultura borghese».54 Quale caratteristica universale e irreprimibile della cultura umana, il pensiero utopico sa emergere anche sotto la repressione più dura:55 l’inclinazione all’utopia contagia uno spettro molto ampio di sentimenti e affetti, e può incarnarsi nella cultura popolare, in quella accademica, nella moda, nell’urbanistica, o semplicemente nei nostri sogni a occhi aperti.56 Il desiderio, che a livello popolare circonda l’esplorazione spaziale, indica per esempio una curiosità e un’ambizione che vanno al di là della ricerca del profitto.57 In maniera simile, un movimento come quello afrofuturista offre non solo l’immagine stilizzata di un futuro migliore, ma lega quest’ultima a una critica radicale delle strutture di oppressione presenti, come anche al ricordo delle lotte passate. Lo stesso immaginario post-lavoro ha molti precedenti storici nella letteratura utopica, indice di un continuo desiderio di oltrepassare i limiti imposti dal lavoro salariato. Movimenti culturali e produzione estetica giocano dunque un ruolo cruciale nel riaccendere il desiderio per l’utopia e ispirare la visione di un mondo diverso. NAVIGARE IL NEOLIBERISMO Se le utopie provano a intervenire sull’egemonia culturale del neoliberismo, per la trasformazione dell’egemonia intellettuale occorre invece concentrarsi su un’altra istituzione chiave: quella educativa. È il sistema scolastico che indottrina le nuove generazioni, trasmettendo i valori dominanti della società e riproducendo così la propria ideologia decennio dopo decennio: tramite il sistema educativo i bambini imparano le idee base di una società, il rispetto per l’ordine esistente (o per meglio dire la sottomissione a esso), e le capacità necessarie per essere poi collocati nei vari settori del mercato 215

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del lavoro.58 Trasformare il sistema educativo-intellettuale è dunque un compito essenziale per la costruzione di una nuova egemonia,59 e non è certo un caso che l’economista e premio Nobel Paul Samuelson abbia scritto che «non mi interessa chi scrive le leggi di una nazione o prepara i suoi trattati: l’importante è che io possa scriverne i manuali di economia». I progetti che abbiano come obiettivo il cambiamento di una tale istituzione, potrebbero quindi concentrarsi su tre obiettivi primari: pluralizzare l’insegnamento dell’economia, riattivare lo studio dei sistemi economici di sinistra, ed espandere l’alfabetizzazione economica di massa. In effetti siamo così profondamente immersi nell’ideologia neoliberale che viene spesso dimenticato come, a suo tempo, l’economia fosse una disciplina relativamente pluralista. Durante il periodo tra le due guerre ci fu una sana competizione tra moltissimi approcci diversi, formalisti e non-formalisti;60 nelle riviste accademiche non era insolito imbattersi in discussioni sulla pianificazione economica, sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, o su altre categorie standard dell’economia marxista; negli anni Sessanta, il famoso «dibattito tra le due Cambridge» riunì pensatori sia appartenenti al mainstream economico che non, per un confronto sui fondamenti della disciplina che, per ammissione di tutti, fu vinto dagli economisti non ortodossi;61 e fino agli anni Settanta, si poteva discutere dello sfruttamento dei lavoratori, della teoria del lavoro socialmente necessario e del problema della trasformazione (tutti concetti marxiani) sulle pagine delle principali riviste di economia.62 Difficile immaginare qualcosa di simile oggi. Per quanto l’economia neoclassica sia un ombrello che racchiude molte varianti diverse, rimane fondamentalmente una prospettiva limitata su quali sono davvero i temi chiave di una reale conoscenza economica (il problema in parte è da attribuire anche alle richieste metodologiche delle principali testate accademiche, dove viene data la precedenza alla modellazione formale piuttosto 216

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che alle analisi sociologiche e alle investigazioni qualitative). Per poter cambiare il consenso culturale e accademico riguardo al corretto funzionamento di un’economia sarà quantomeno necessario adottare uno sguardo più plurale all’educazione degli studenti. È proprio qui che alberga la speranza di un ritorno al pluralismo: in diverse parti del mondo vediamo già alcuni tentativi di portare idee economiche alternative nel mainstream universitario, e gruppi di studenti e di professionisti stanno cercando di organizzarsi in tal senso. In numerose università gli studenti di economia rivendicano con forza il diritto a un’istruzione meno allineata,63 arrivando a protestare contro i guardiani del mainstream; nel frattempo, gruppi come la Post-Crash Economic Society o Rethinking Economics stanno coordinando i loro sforzi per dei curriculum universitari alternativi.64 In ogni caso, per rendere possibile la pluralizzazione dell’economia sarà necessario lo sviluppo di un programma di ricerca così come di nuovi testi di studio. La diffusione dei criteri formalisti si può spiegare, in parte, proprio con la necessità di rientrare nei requisiti istituzionali per l’educazione universitaria: questi approcci, fondati su principi chiari e facilmente trasmissibili, offrono teorie su cui i ricercatori possono lavorare e diventano oggetto di manuali e di tesi di dottorato capaci di perpetrarne la tradizione di pensiero.65 Oggi l’accademia è dominata da manuali di economia neoclassica, e il risultato è che, anche qualora i docenti volessero pluralizzare la disciplina, non c’è disponibilità di alternative facilmente accessibili.66 Qualche segno che la situazione sta lentamente cambiando c’è – per esempio il manuale firmato da due fautori della teoria della moneta moderna67 – ma se vogliamo ampliare l’orizzonte provinciale del mainstream, il lavoro da fare è ancora molto. Per facilitare questo processo serve un movimento capace di rivitalizzare lo sviluppo delle teorie economiche alternative. La pochezza delle analisi economiche interne alla sinistra 217

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contemporanea è emersa con chiarezza in seguito alla crisi del 2008, quando la risposta dominante è stata la riproposizione di un improvvisato modello neo-keynesiano; la sinistra è rimasta insomma sprovvista di un programma economico sensato e convincente, essendosi concentrata più sulla critica del capitalismo che sull’elaborazione di alternative valide, e qui è possibile ravvisare non solo una crisi dell’immaginazione utopica, ma anche dei nostri limiti cognitivi. È quindi importante riflettere con attenzione su una serie di fenomeni contemporanei, tra cui: le cause e gli effetti della stagnazione secolare; le trasformazioni indotte dalla transizione a un’economia informazionale e post-scarsità; i cambiamenti prodotti dall’introduzione della piena automazione e del reddito base universale; la possibile collettivizzazione di catene di produzione e di servizi automatizzati; il potenziale progressivo di approcci alternativi al quantitative easing; i metodi più efficaci per decarbonizzare i mezzi produttivi; le implicazioni delle dark pool per l’instabilità finanziaria; e via di questo passo. Allo stesso modo, serve rinnovare la ricerca accademica sul postcapitalismo, cercando di immaginare quali forme pratiche questo potrebbe assumere. Al di fuori di pochi e obsoleti testi classici, pochissima ricerca è stata dedicata ai sistemi economici alternativi, e ancora meno a quei sistemi che tengono in considerazione tecnologie emergenti come la stampa 3D, le autovetture autonome e l’intelligenza artificiale «soft».68 Per non fare che qualche esempio: quale sarà il ruolo giocato dalle criptovalute non statali? Come misurare il valore se non tramite il lavoro, astratto o concreto che sia? Una futura economia postcapitalista sarà in grado di affrontare le impellenze ecologiche? Quale tipo di meccanismo potrà rimpiazzare il mercato e superare i problemi di calcolo economico socialisti? 69 E quali saranno gli effetti della probabile caduta tendenziale del saggio di profitto?70 La costruzione di un mondo postcapitalista è tanto un compito tecnico quanto politico, e per dare il via alla sua 218

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pianificazione la sinistra deve superare la sua generalizzata avversione per i modelli formali e matematici. È anzi piuttosto ironico come le stesse persone che criticano l’astrazione dei modelli matematici finiscano spesso per aderire alle più astratte interpretazioni del capitalismo; riconoscere l’utilità dei modelli matematici non equivale all’adozione di modelli neoclassici, o a seguire supinamente i dettami delle pure cifre: al contrario, il rigore e l’elaborazione computazionale permessi dai modelli formali sono risorse essenziali per poter apprezzare (e gestire) la complessità dell’economia.71 In ogni caso, dalla teoria della moneta moderna all’economia della complessità, dall’economia ecologica a quella partecipativa, diverse traiettorie di pensiero sono già state inaugurate, anche se per ora si tratta di scuole marginali; e organizzazioni come la New Economics Foundation stanno aprendo la strada a modelli economici che possono facilitare il conseguimento di obiettivi di sinistra, oltre a incrementare la competenza pubblica nelle questioni economiche. Quest’ultimo punto è particolarmente importante: una maggiore competenza economica generale non produrrebbe solo una trasformazione delle consuetudini degli economisti accademici, ma renderebbe anche l’economia comprensibile a chi specialista non è: le più sofisticate analisi delle tendenze dell’economia vanno cioè messe in relazione con le intuizioni e le esperienze della vita di tutti i giorni. Benché nel pros­simo futuro la rinascita del pensiero economico di sinistra sarà probabilmente circoscritta alla sfera accademica, l’obiettivo finale dovrà essere quello di diffondere una nuova educazione economica ben al di fuori dei confini delle università. I sindacati potrebbero per esempio usare le proprie risorse per istruire i propri iscritti sulla natura mutevole dell’economia contemporanea; attraverso programmi educativi interni, i lavoratori potrebbero imparare a situare i problemi delle loro occupazioni e delle loro comunità all’interno di un contesto più ampio. Obiettivi simili si possono raggiungere formando 219

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gli attivisti (in alcuni casi già lo si è fatto), mentre le scuole libere potrebbero rappresentare un’altra possibilità ancora, dando al pubblico la possibilità sia di familiarizzare con idee che troppo spesso vengono rese incomprensibili dal lessico accademico, sia di accedere a un livello di istruzione precluso dalle esorbitanti rette universitarie e dagli alti prezzi delle pubblicazioni accademiche. Nel Regno Unito esiste una lunga tradizione interna alla working class che potrebbe servire da modello: per esempio, in alcune comunità locali la Workers Educational Association già fornisce un’istruzione a basso costo per gli adulti.72 Istituzioni di questo tipo offrono un mezzo per ricondurre la conoscenza economica astratta alla competenza pratica maturata sul campo di lavoratori, attivisti e membri della comunità, permettendo all’una di plasmare l’altra. Lavorando sistematicamente per sviluppare un’ottica pluralista, la ricerca economica e l’istruzione pubblica giocheranno un ruolo cruciale nel rafforzare le narrazioni utopiche che abbiamo descritto nella sezione precedente, e offriranno gli strumenti di navigazione necessari per tracciare una nuova rotta, fuori dal capitalismo. RIORIENTARE LA TECNOLOGIA Come abbiamo sostenuto poco sopra, l’egemonia non è semplicemente localizzata nell’ideologia dominante di una società, ma è anche integrata nelle tecnologie che ci circondano e nell’ambiente che abbiamo costruito. Tutti questi elementi sono intrinsecamente politici: facilitano certi usi e certi gesti mentre ne impediscono altri. Per esempio, la nostra infrastruttura attuale tende a strutturare la società in forme individualistiche, competitive e basate sulle risorse fossili, indipendentemente dalla volontà dei singoli o della collettività. L’importanza di queste infrastrutture «politicizzate» sta crescendo ancora di più con l’espansione della tecnologia verso le più piccole nano-scale e le più grandi formazioni 220

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post-planetarie. Ogni aspetto delle nostre vite viene toccato dalla tecnologia, al punto che in molti direbbero che l’umanità stessa è intrinsecamente tecnologica.73 In risposta a questa egemonia materiale – costituita interamente dal capitalismo e parte integrante di esso – si presentano diverse ipotesi possibili. Una prima posizione sostiene che, ai fini di una libertà completa, non ci sia altra strada che distruggere completamente l’ambiente costruito:74 è la linea di pensiero che raggiunge il suo apice con l’invito primitivista ad abbandonare del tutto ogni forma di civilizzazione, ma inclinazioni del genere le troviamo anche in molta sinistra contemporanea. Considerata la devastazione che verrebbe provocata da un simile progetto, e vista l’inettitudine teorica dietro a questi proclami, è una posizione che per noi rappresenta poco più che una curiosità accademica. Una seconda alternativa sostiene invece che la tecnologia può effettivamente essere la base di un ordine postcapitalista, ma che qualsiasi tentativo di modificare la tecnologia attuale dovrà attendere che il progetto politico postcapitalista sia pienamente realizzato:75 il che senz’altro renderebbe il nostro compito più facile, ma visto lo stretto legame che intercorre tra tecnologia e politica, e considerati i potenziali latenti già insiti nelle tecnologie attuali, crediamo che sia più utile considerare quali sviluppi tecnologici considerare già adesso, per poterli così immediatamente riutilizzare. Un terzo punto di vista si concentra invece su invenzione e ingegno, sottolineando la natura politica di scelte come quali tecnologie sviluppare e in che modo progettarle:76 in effetti, la direzione dello sviluppo tecnologico è determinata non soltanto da considerazioni di natura tecnica ed economica, ma anche da intenzioni politiche, e piuttosto che semplicemente raccomandare l’acquisizione dei mezzi di produzione questo approccio argomenta la necessità di inventarne di nuovi. Infine, un’ultima ipotesi sostiene che le tecnologie già esistenti contengono dei potenziali nascosti 221

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capaci di espandere il nostro orizzonte presente, e propone dunque di riutilizzarle immediatamente:77 il ragionamento è che sotto il regime capitalista il potenziale della tecnologia è drasticamente ridotto, ridimensionato a mero veicolo per la produzione di profitto e il controllo dei lavoratori; questo però non toglie che, nonostante gli utilizzi attuali, la tecnologia a nostra disposizione continui a racchiudere un potenziale inesplorato.78 Il compito che ci spetta diventa quindi quello di rivelare tale potenziale e applicarlo a processi di cambiamento scalabili; per dirla altrimenti, si tratta di un intervento utopico: il riorientamento della tecnologia esistente aspira a riaccendere l’immaginazione collettiva, a riconsiderare quanto possiamo ottenere con i mezzi già a nostra disposizione.79 Abbiamo dunque due possibili strategie per affrontare efficacemente la questione dell’egemonia tecnologica. La prima si concentra sull’invenzione e l’adozione di nuove tecnologie, insistendo sulla possibilità di creare strumenti inediti di cambiamento. Sulla scorta di questa idea, alcuni hanno invocato un maggiore controllo democratico sul design e sull’implementazione di infrastrutture e tecnologie:80 sul posto di lavoro questo significherebbe decidere quali tecnologie siano da ammettere e come utilizzarle. Considerando che nuove tecnologie sono raramente (o forse mai) introdotte all’improvviso, resta un lungo lasso di tempo durante il quale è possibile sfruttare il proprio potere per acquisire il controllo dello sviluppo e dell’implementazione di questi strumenti. Il rifiuto delle strategie di sorveglianza è uno degli obiettivi più ovvi, ma queste battaglie potrebbero anche riuscire a ostacolare l’introduzione di tecnologie che produrrebbero un’intensificazione, una velocizzazione e un generale peggioramento delle condizioni lavorative.81 Un’argomentazione altrettanto forte in favore del controllo democratico dello sviluppo tecnologico può essere formulata a livello statale, considerato che la maggior parte 222

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delle grandi innovazioni in questo campo proviene dal settore della finanza pubblica e non dal settore privato: è infatti lo Stato che indirizza le più significative rivoluzioni tecnologiche, da internet alle tecnologie verdi, dalla nanotecnologia agli algoritmi che guidano il motore di ricerca di Google, fino a tutti i principali componenti elettronici all’interno dei prodotti Apple, come iPhone e iPad.82 Il microprocessore, il touch screen, il GPS, le batterie, gli hard drive e SIRI sono tutte innovazioni che vengono da investimenti governativi:83 il fatto è che i mercati capitalisti prediligono gli investimenti a breve termine e a basso rischio, mentre il venture capital contemporaneo tende verso la creazione di profitto immediato. Sono dunque i governi che forniscono le risorse a lungo termine che permettono lo sviluppo e il successo delle grandi innovazioni;84 sono i governi a investire in progetti di sviluppo a rischio che hanno alta probabilità di fallimento, ma che proprio per questo conservano la potenzialità di portare a cambiamenti profondi. Considerato dunque il peso dei governi nei processi tecnologici e nelle innovazioni dei prodotti di consumo, il finanziamento pubblico dovrebbe essere controllato democraticamente: il che significa che i governi hanno un ruolo da giocare non solo sulla velocità del progresso tecnologico ma – cosa ancora più importante – sulla sua direzione.85 In questo senso quei progetti che vengono definiti mission-oriented paiono particolarmente significativi:86 si tratta di progetti che non mirano alla differenziazione o a miglioramenti marginali dei prodotti già sul mercato, ma si concentrano piuttosto su studi originali ad ampio raggio come i viaggi spaziali e internet. Questo è uno sviluppo rivoluzionario, pensato per la creazione di nuove strade tecnologiche e aperto alla possibilità che a emergere spontaneamente potrebbero essere anche innovazioni inaspettate: se controllato democraticamente, potrebbe fronteggiare i maggiori problemi sociali dei nostri giorni e promuovere un pensiero su larga scala, per esempio 223

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ricorrendo agli investimenti statali per plasmare il valore sociale dei progetti di ricerca, e decidendo quali tra questi è più urgente finanziare.87 Un governo lungimirante potrebbe sostenere progetti mission-oriented come la decarbonizzazione dell’economia, la completa automazione del lavoro, l’espansione di risorse energetiche rinnovabili ed economiche,88 l’esplorazione della biologia sintetica, la ricerca sui medicinali a basso costo, il sostegno all’esplorazione spaziale e la costruzione di intelligenze artificiali. La sfida è quella di sviluppare meccanismi istituzionali che permettano il controllo popolare sulla direzione intrapresa dalla tecnologia. Negli anni Settanta il controllo pubblico sulla spesa governativa per la ricerca fu al centro di diverse battaglie dei lavoratori. In quelli che sono oggi esperimenti semidimenticati, in paesi come il Regno Unito e il Giappone (e poi in Brasile, India e Argentina), i lavoratori provarono a piegare lo sviluppo tecnologico alla produzione di «beni socialmente utili»,89 ovvero capaci di rispondere ai bisogni della società, prodotti in modo tale da minimizzare gli sprechi ed essere ecologicamente sostenibili, e rispettare i lavoratori e le relative competenze.90 Il più influente tra questi esperimenti fu il Lucas Plan. Ebbe luogo nel Regno Unito alla Lucas Aerospace, una compagnia che produceva componenti ad alta tecnologia perlopiù destinati all’esercito, e che riceveva generosi finanziamenti statali.91 Minacciati dalla disoccupazione strutturale e dai licenziamenti imminenti, i lavoratori della Lucas Aerospace svilupparono una proposta alternativa su come gestire l’azienda e preservare i posti di lavoro: l’argomentazione principale fu che, dal momento che i finanziamenti alla compagnia arrivavano dallo Stato, l’intera società britannica avrebbe dovuto avere voce in capitolo sul loro utilizzo, così da trarne tutti beneficio e contemporaneamente reindirizzare le risorse verso prodotti realmente proficui. Nello sviluppo della loro proposta di beni socialmente utili, i lavoratori 224

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si comportarono da pianificatori: stilarono una lista delle competenze e dell’equipaggiamento di cui già disponevano, chiesero suggerimenti alla comunità dei lavoratori su quali beni sarebbero stati di loro interesse, e decisero collettivamente quali tra queste tecnologie e queste capacità potevano essere reimpiegate per scopi differenti.92 Piuttosto che per l’equipaggiamento militare hi-tech, le risorse esistenti sarebbero quindi state impiegate per il design e la produzione di tecnologie mediche, energie rinnovabili, interventi per la sicurezza e sistemi di riscaldamento per l’edilizia popolare:93 nella sua stesura definitiva il piano ammontò a 1200 pagine, con progetti dettagliati per 150 prodotti.94 Per raggiungere i propri obiettivi contro l’intransigenza della dirigenza, la strategia scelta fu essenzialmente di tipo controegemonico: i lavoratori dichiararono esplicitamente che il loro scopo era «infiammare l’immaginazione» e rivoluzionare la concezione popolare sui veri compiti della catena produttiva.95 È importante notare che il Lucas Plan rifiutò di rimanere uno spazio temporaneo di politica prefigurativa, ed ebbe piuttosto l’obiettivo di sollecitare le risorse di sindacati e governi per permettere la creazione di un nuovo ordine egemonico. Il tentativo fu ben accolto da pacifisti, ambientalisti, femministe e altri movimenti operai, cosa che portò alla creazione di contatti internazionali e a un’ondata di azioni organizzate dai lavoratori.96 Alla fine però, la difficile situazione del Partito Laburista e dei sindacati nazionali – assieme alla rapida ascesa del neoliberismo – rese impossibile il raggiungimento dei traguardi che il Lucas Plan si era prefissato; ma ottenne comunque un successo: il rallentamento della perdita dei posti di lavoro. E questo fu possibile proprio grazie all’abbandono degli atteggiamenti difensivisti e alla volontà di creare un’alternativa concreta.97 Nonostante gli scarsi risultati, il Lucas Plan rappresenta un chiaro esempio di come il riorientamento delle forze produttive possa essere uno strumento utile a trasformare la 225

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direzione tecnologica della società: non si trattò soltanto del tentativo dei lavoratori di controllare un’industria all’interno di un’economia esclusivamente orientata al profitto, ma rappresentò uno sforzo radicale di reindirizzamento dello sviluppo tecnologico, e così passare dall’applicazione di piccole migliorie per i sistemi di armamento alla produzione di beni utili all’intera società.98 Il Lucas Plan è insomma un esempio ideale di come la conoscenza tecnica, la consapevolezza politica e il potere collettivo possano essere coordinati per permettere un riutilizzo radicale del nostro mondo materiale. Un progetto di riorientamento ancora più ambizioso ebbe luogo in Cile nei primi anni Settanta, quando il neo­ eletto governo di Salvador Allende cercò di trasformare il paese in una nazione socialista tramite cambiamenti graduali da implementare attraverso le istituzioni economiche e politiche già esistenti. Un elemento cruciale di questo processo fu lo sviluppo di Cybersyn, un innovativo esperimento di pianificazione economica decentralizzata che provò a connettere le aziende sparse in tutto il paese alle funzioni burocratiche e governative. Il progetto si tradusse in una vera e propria trasformazione della scienza cibernetica: quello che in molti criticavano come un mero sistema di controllo99 diventava un’infrastruttura per il socialismo democratico. Il sistema Cybersyn non era costruito per assolvere alle funzioni di un governo centrale onnipotente ed esterno, ma fu progettato come un modulatore interno e parziale dei flussi economici:100 venne cioè pensato per dare la parola ai lavoratori sui processi di pianificazione, per permettere alle industrie di gestirsi autonomamente e, allo stesso tempo, per offrire un orientamento razionale all’economia nazionale. Per raggiungere questi obiettivi, Cybersyn avrebbe dovuto servirsi di un proto-­ internet in grado di connettere le industrie, di un simulatore economico per testare le nuove politiche, di un sistema di previsione statistica per anticipare i problemi, e di una sala operativa che sembrava direttamente pescata dall’immaginario 226

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sci-fi. Ma l’ostilità degli Stati Uniti rese impossibile l’acquisto di nuovi computer (mentre gli accordi presi con la Francia andarono in porto solo dopo il rovesciamento del governo Allende),101 e il risultato fu che il Cile, nel tentativo di instaurare un socialismo cibernetico, dovette ricorrere al riutilizzo delle tecnologie esistenti in una specie di approccio fai da te, utilizzando le risorse disponibili e provando a mettere assieme qualcosa di nuovo. Al tempo, il Cile possedeva soltanto quattro computer mainframe (solo uno dei quali poté essere impiegato per Cybersyn)102 e cinquanta computer in tutto il paese: il proto-internet dovette quindi basarsi sui più diffusi telex. L’ambizione di costruire un sistema di imprese democratiche e gestite dai lavoratori fu definitivamente stroncata dal colpo di stato (supportato dagli Stati Uniti) che depose il regime di Allende nel 1973. Ma sebbene il progetto non venne mai interamente realizzato, almeno in un caso quello che sarebbe dovuto diventare Cybersyn dimostrò comunque la sua efficacia: alle prese con la crescente opposizione dell’élite economica, il governo cileno dovette affrontare nel 1972 uno sciopero a cui presero parte più di 40.000 camionisti.103 La piccola borghesia cercò di indebolire il governo impedendo la spedizione di materiali essenziali per la produzione industriale: ma i lavoratori assunsero il controllo delle fabbriche e continuarono a guidare i camion ovunque possibile, mentre il governo nazionale sfruttò il network di telex pensato per Cybersyn per coordinarsi e aggirare i blocchi. In effetti, come osserva un importante storico dell’esperimento, «il network offrì un’infrastruttura di comunicazione per collegare la rivoluzione dall’alto, guidata da Allende, con la rivoluzione dal basso guidata dai lavoratori cileni e da membri delle organizzazioni popolari».104 In altre parole, lo sciopero dimostrò l’abilità di Cybersyn di riutilizzare l’infrastruttura esistente per conseguire obiettivi democratici e socialisti, e offrì una visione – storicamente senza precedenti e molto promettente – di un futuro possibile. L’esperimento che sta dietro a Cybersyn 227

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offre un esempio creativo e utopico di un riorientamento in cui si mescolavano principi di cibernetica, tecnologia già disponibile e software all’avanguardia.105 Gli esempi da cui siamo partiti suggeriscono che il riorientamento della tecnologia si può tradurre in progetti politici immediati; ma esistono anche ipotesi più speculative, che senza dubbio ben si prestano a un futuro postcapitalista. In quanto fonte essenziale di produttività ed espansione delle nostre capacità di azione, l’innovazione tecnologica diventa un elemento centrale di qualsiasi modo di produzione che voglia andare al di là del paradigma capitalista. Sarà necessario costruire un nuovo mondo: non sulle rovine del vecchio, ma riutilizzando gli elementi più avanzati di quello presente. Possiamo già intuire il potenziale nascosto di un simile metodo, in particolare se si considera che le tecnologie per ottenere gli obiettivi classici della sinistra (riduzione del lavoro, abbondanza di beni, maggiore controllo democratico) sono disponibili come mai prima nella nostra storia. Il problema è che queste tecnologie rimangono racchiuse all’interno di relazioni sociali che ne oscurano il potenziale e che le rendono impotenti: in questo contesto, lo stimolo a riflettere sull’uso della tecnologia e sul suo riorientamento, aspira a riaccendere l’immaginazione utopica nel cuore di un capitalismo stantio. Esiste già un’intera gamma di possibilità: il capitolo precedente ha analizzato le tecnologie per l’automazione del lavoro come cardine fondamentale tra capitalismo e postcapitalismo, ma la strategia del riorientamento si estende ben al di là della semplice automazione delle forze produttive. In effetti, argomenti simili stono stati avanzati in riferimento alle reti della logistica, alla ristrutturazione delle città in chiave ecologista, e all’uso delle tecnologie informatiche a fini postcapitalisti.106 Identificare queste tecnologie ci può aiutare a concentrare la nostra attenzione su come svilupparle e utilizzarle nel contesto della lotta politica. 228

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La logistica offre un esempio particolarmente interes­ sante, del momento che allo stesso tempo sfrutta i differenziali salariali, permette la produzione globale, e guida il processo di automazione. Senza negarne il ruolo nello sfruttamento del lavoro a basso costo in tutto il mondo, è comunque possibile identificare diversi modi in cui la logistica può rivelarsi utile in chiave postcapitalista:107 i suoi usi, in altre parole, vanno ben oltre a quelli del capitalismo. Per prima cosa, un’economia postcapitalista dovrà essere flessibile, sia nella sfera della produzione (per esempio, grazie alla stampa 3D), che in quella della distribuzione (per esempio, grazie alla logistica just-intime). Ciò permetterà all’economia di essere sufficientemente reattiva ai cambiamenti del consumo individuale, diversamente dai grandiosi e inflessibili sforzi di pianificazione dell’era sovietica: senza queste tecnologie il postcapitalismo rischierebbe di andare incontro a tutti i problemi economici già conosciuti dai primi esperimenti comunisti.108 Una logistica globale permetterebbe inoltre il ricorso a un vasto arsenale di vantaggi comparativi, anche al di là dei differenziali salariali. Per citare un solo esempio: la ricerca indica come sia più ecologicamente sostenibile che certi prodotti vengano coltivati in Nuova Zelanda e poi spediti nel Regno Unito, anziché essere prodotti e consumati nel Regno Unito stesso.109 Messa altrimenti, persino dopo essere stati spediti dall’altra parte del mondo, questi prodotti lasciano comunque una minore carbon footprint, e la ragione è molto semplice. Riprodurre il clima appropriato per la coltivazione di determinati alimenti nel Regno Unito richiede un consumo energetico immenso. Anche qui, questi vantaggi ambientali comparativi possono essere sfruttati solo se esiste un network logistico globale ed efficiente. Infine, la logistica è un ingrediente fondamentale per l’automazione del lavoro, e rappresenta un esempio di quello che sarà possibile aspettarsi da un mondo postcapita­ lista: macchinari che lavorano indipendentemente, e che si 229

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occupano di quel lavoro pesante altrimenti svolto dagli es-­ se­ri umani. È bene ricordare che prima della rivoluzione logistica il trasporto dei beni era un compito fisicamente devastante per i lavoratori: l’automazione di queste mansioni è quindi da incoraggiare, non da temere per via di un’irra­ gionevole paura delle macchine. È esattamente per queste ragioni che la logistica rappresenta un’importante tecno­ logia di transizione tra capitalismo e postcapitalismo. Il riorientamento tecnologico ha comunque dei limiti importanti da tenere in considerazione. Un esempio: i sovietici credevano di poter semplicemente cooptare e convertire a fini comunisti le tecnologie e le tecniche capitaliste,110 ma queste tecnologie erano state progettate con in mente la massima efficienza e un rigoroso controllo da parte del management.111 Vista la quantità di tecniche e macchine che la Russia sovietica prese a prestito dal capitalismo, non sorprende che l’intero sistema finì spontaneamente per approdare a modi di produzione di tipo capitalista: ancora una volta, i lavoratori si ritrovarono a essere solo parti dell’ingranaggio di produzione, privi di ogni autonomia e costretti a lavorare duro. L’ambizioso progetto di conquistare i mezzi di produzione capitalisti si scontrò con la realtà del fatto che le relazioni di potere sono intrinseche a queste tecnologie, e che dunque queste ultime non possono essere piegate a scopi che sono diametralmente opposti al loro funzionamento previsto.112 Le tecnologie di controllo numerico sono per esempio state usate per gestire i ritmi di produzione, costringendo i lavoratori a tenere il ritmo di una macchina e rendendo il potere della dirigenza più indiretto e invisibile:113 in questo modo, le macchine possono occultare le relazioni di potere facendole apparire come inevitabili processi meccanici. Eppure, nonostante tutti i limiti del caso, il riorientamento rimane possibile, perché in alcune tecnologie esiste spesso una riserva non sfruttata di potenziale latente. Il punto di più difficile comprensione è che, per usare le parole di 230

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uno storico, «la tecnologia non è buona né cattiva, ma non è neanche neutrale».114 Qualsiasi tecnologia è politica, ma è anche flessibile: la sua esistenza va oltre lo scopo per la quale è stata progettata.115 Il design, il significato e l’impatto di una tecnologia sono costantemente in movimento, modificandosi con l’utilizzo e il mutare dell’ambiente in cui si trovano.116 Parafrasando Spinoza, possiamo dire che ancora non sappiamo che cosa può un corpo sociotecnico: chi di noi può davvero sapere quali potenziali inesplorati aspettano di essere scoperti all’interno delle tecnologie già a nostra disposizione? Quale tipo di comunità postcapitalista possiamo costruire grazie al materiale di cui siamo già in possesso? La nostra scommessa è che il vero potenziale trasformativo della maggior parte della ricerca tecnologica e scientifica rimane ancora inespresso. Ma allora come è possibile distinguere tra tecnologie che sono limitate dal proprio design e tecnologie le cui proprietà nascondono potenziali vantaggi per un futuro postcapitalista? Non c’è alcun metodo a priori per determinare il potenziale di una tecnologia, ma possiamo comunque stabilire dei parametri generici, così da applicarli nell’esame di aspetti specifici di particolari tecnologie.117 Per identificare questi criteri, un punto di vista possibile è determinare quali funzioni rappresentano gli aspetti necessari e/o esaustivi di una tecnologia: per esempio, se l’unico ruolo di una tecnologia è quello di sfruttare i lavoratori, o se questo ruolo è assolutamente necessario al suo utilizzo, allora tale tecnologia non avrà posto in un futuro postcapitalista. E allora, secondo questi criteri il taylorismo, basato necessariamente sul controllo e sullo sfruttamento sistematico dei lavoratori, andrebbe rigettato, così come le armi nucleari, che richiedono la capacità di produrre distruzione di massa.118 Ma quasi sempre lo statuto delle tecnologie è più ambiguo: se una tecnologia progettata per ridurre la quantità di lavoro specializzato rende possibile la dominazione dei lavoratori da parte della classe 231

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manageriale, allo stesso tempo può aprire spazi per la condivisione degli impieghi e la riduzione delle ore lavorative. Se una tecnologia capace di ridurre i costi di produzione causa un taglio dei posti di lavoro, questa rende anche superfluo il lavoro umano. Se una tecnologia che centralizza i processi decisionali riguardo alle infrastrutture facilita il controllo privato, può però essere riutilizzata come snodo per processi decisionali collettivi. Sono tecnologie che insomma incarnano entrambi i potenziali, e il compito di riorientarle si concretizza proprio nel tentativo di bilanciarli. L’obiettivo di una sinistra proiettata al futuro è quello di stabilire quali sono i parametri attraverso cui giudichiamo il possibile uso delle tecnologie esistenti, e di portare avanti nuove ricerche e nuove analisi capaci di determinare se specifiche tecnologie possono essere convertite e impiegate per un progetto postcapitalista. Questo è particolarmente cruciale per i lavoratori impiegati in quei settori tecnologici che, attraverso le loro scelte di design, stanno costruendo il terreno per la politica del futuro.119 Ma è necessario chiarire che, senza un mutamento delle idee egemoniche in seno alla società, le nuove tecnologie continueranno a essere svilup­ pate secondo principi capitalisti, così come le vecchie tecnologie rimarranno legate ai valori del Capitale. La strategia egemonica è in ogni caso necessaria per qualsiasi progetto che punti a trasformare la società e l’economia. E da diversi punti di vista, la politica egemonica è l’antitesi della folk politics: al contrario di quest’ultima, mira a persuadere e a influenzare, e non presuppone una politicizzazione spontanea; opera su scale diverse non limitandosi al tangibile e al locale; e si prefigge di conseguire forme di potere sociale che spesso non appaiono affatto «politiche», anziché concentrarsi sui metodi politici più spettacolari (come le proteste di strada). Una strategia controegemo­nica si sforzerebbe di cambiare il senso comune delle società, di rinnovare l’immaginazione sociale utopica, di ripensare 232

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le possibilità dell’economia, e infine di riutilizzare le infrastrutture economiche e sociali esistenti. Nessuno di questi passi è di per sé sufficiente, ma sono esempi di azioni concrete che possiamo intraprendere per costruire le condizioni sociali e materiali attraverso cui operare un cambiamento sostenuto da un movimento di massa. Certo, per come affrontata finora questa ipotetica controegemonia resta una faccenda astratta: per capire come una simile strategia può davvero incidere sul mondo reale, serve innanzitutto un’ipotesi di lavoro. E quello che faremo ora sarà proprio rivolgerci ai metodi tramite i quali l’egemonia e il potere dovranno essere costruiti, interrogandoci allo stesso tempo su chi sarà incaricato di farlo.

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Capitolo 8 COSTRUIRE IL POTERE La costruzione di un popolo è il principale compito della politica radicale. Ernesto Laclau

Una strategia può indicare una strada da seguire, ma lascia comunque aperta la questione su quali forze sociali siano in grado di intraprenderla. In effetti, qualsiasi strategia richiede una forza sociale attiva e collettivamente mobilitata capace di intervenire sull’esistente; ma se una strategia controegemonica implica per definizione l’uso del potere, col potere la sinistra contemporanea ha un rapporto duplice: da una parte sembra restia a impiegarlo, dall’altra ne è rimasta soggiogata.1 Gli attori tradizionali del potere della sinistra (la classe operaia e le sue relative forme istituzionali) sono rimasti indeboliti dagli attacchi della destra e dalla loro stessa stagnazione; nel frattempo, frustrati dai fallimenti dei precedenti tentativi di trasformazione sociale, in molti hanno scelto di trincerarsi in azioni marginali e difensive, seguendo quindi i dettami della folk politics.2 Ma la creazione di un mondo post-lavoro richiederà trasformazioni sociali di ampissima portata, così come nuove capacità proprio nell’utilizzo del potere. Questo capitolo sostiene dunque che, per riuscire a instaurare un nuovo ordine egemonico, saranno necessari almeno tre elementi: un movimento populista di massa, un solido ecosistema organizzativo, e un’analisi dei punti cruciali attraverso cui esercitare il potere politico.3 All’interno della sinistra, unità di classe e forma organizzativa sono da sempre oggetto di discussione: la prima è vista come precondizione per la creazione di reti solidali e per garantire sicurezza, coscienza di un interesse comune e semplice peso numerico. A sua volta, una solida struttura organizzativa fornisce leadership, coordinazione, stabilità nel tempo e concentrazione di risorse. Quella sui punti di pressione 235

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è invece una discussione meno appariscente, ma che ugualmente non possiamo trascurare: stiamo parlando di quegli snodi di potere economico e politico che possono essere sfruttati per forzare un gruppo sociale ad adattarsi agli interessi di un altro.4 Una tattica classica come lo sciopero punta per esempio a ostacolare il processo produttivo per costringere i proprietari ad acconsentire alle richieste dei lavoratori: senza questi punti su cui fare leva, il cambiamento potrebbe essere ottenuto solo se coincidente con gli interessi dei potenti. Qui analizzeremo quali sono gli ingredienti necessari alla costruzione del potere politico e proveremo quindi a proporre una strada da seguire. Il tutto non va ovviamente inteso come una prescrizione esaustiva o sufficiente delle azioni da intraprendere: quella che vogliamo offrire è una riflessione sui limiti dei precedenti storici, e da lì argomentare l’importanza dei fattori che abbiamo sopra menzionato ai fini di un nuovo potere della sinistra. Tra i compiti che la sinistra deve oggi affrontare, questo è probabilmente il più duro: ma è anche un passo essenziale se davvero vogliamo che un mondo post-lavoro emerga dalle rovine del neoliberismo. UNA SINISTRA POPULISTA Se vogliamo accumulare potere politico c’è una domanda su tutte a cui rispondere: chi saranno gli attori del progetto mirato alla costruzione di una società libera dal lavoro salariato? In altre parole: quali figure sociali saranno interessate alla creazione di una società post-lavoro? La risposta più ovvia è quella che abbiamo già considerato: il sempre crescente surplus di popolazione. In effetti man mano che i lavoratori nei paesi in via di sviluppo scivolano nel precariato, e che una fetta sempre maggiore della popolazione mondiale viene assimilata nel gruppo di lavoratori «liberi» sotto il regime capitalista, sempre più persone stanno tornando a una condizione di proletariato di base. Marx annunciò che «siamo tutti virtualmente poveri», e le tendenze in corso sembrano con236

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fermare la narrazione marxista tradizionale: la classe operaia è destinata a conquistare una posizione dominante tramite l’assimilazione di un numero sempre maggiore di lavoratori e la semplificazione della propria situazione economica.5 Ai tempi si prevedeva che la classe operaia, concentrata in enormi fabbriche, si sarebbe infine unita sia in termini fisici (condividendo gli spazi) che di interessi comuni (prendendo coscienza del proprio status di proletariato). La semplificazione del lavoro avrebbe eliminato le gerarchie tra lavoro specializzato e non specializzato, mentre l’alta domanda di lavoro avrebbe reso il Capitale indifferente a divisioni di tipo identitario (di razza, genere o nazionalità).6 Questo è effettivamente avvenuto in alcuni luoghi e in determinate circostanze storiche. Per esempio, mentre nei primi decenni del XX secolo la classe operaia nera negli Stati Uniti venne violentemente esclusa dai sindacati bianchi, dopo la Seconda guerra mondiale le divisioni razziali in molte aree svanirono.7 Anche le distinzioni di età, sesso, abilità, nazionalità e reddito sarebbero dovute scomparire con il progresso del capitalismo.8 Ancora più importante è che la classe operaia emergente avrebbe dovuto godere di un’importanza strategica grazie al suo accesso diretto alle leve della sfera produttiva: gli scioperi, le occupazioni delle fabbriche, i rallentamenti e i sabotaggi furono tutte tattiche impiegate per ostacolare la produzione e costringere i dirigenti e i capitalisti ad acconsentire alle richieste della classe operaia.9 Quest’ultima, tendenzialmente composta da lavoratori uomini e bianchi, sarebbe quindi dovuta crescere per diventare sempre più omogenea e potente, assumendo il ruolo di avanguardia della rivoluzione postcapitalista. Solo che niente di tutto questo si è verificato. Al contrario, la classe operaia si è sbriciolata, le sue strutture organizzative sono crollate, e oggi «non esiste più alcuna frazione di classe capace di egemonizzare la classe».10 Sotto la pressione esercitata dal processo di deindustrializzazione, dalla globalizzazione, dalla nascita delle economie 237

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di servizio, dal precariato, dalla scomparsa delle tradizionali roccaforti fordiste e dalla proliferazione di identità di diverso segno, la classe operaia industriale è oggi profondamente frammentata: ricopre un ruolo sempre più marginale e, tolte poche eccezioni (pensiamo al Sud Africa o al Brasile), la sua influenza politica è costantemente diminuita.11 Il movimento operaio cinese una certa forza ce l’ha, ma anche in questo caso l’esternalizzazione della produzione verso paesi periferici sta lentamente erodendo il suo potere.12 Il peso della classe operaia globale è insomma oggi seriamente compromesso, e un ritorno al passato appare come un ipotesi eufemisticamente implausibile: il classico soggetto rivoluzionario non esiste più, mentre a restare sono solamente interessi sovrapposti ed esperienze divergenti. In realtà dovremmo a questo punto chiederci se la classe operaia sia mai stata davvero in una posizione tale da poter trasformare il mondo, quantomeno visto che la situazione odierna non è così differente da quella dei primi anni del movimento operaio. Per prima cosa, l’ideale dell’unità dei lavoratori è sempre stato più un’aspirazione ideale che una realtà; sin dalle sue origini, il proletariato ha sempre conosciuto divisioni interne: tra lavoratori salariati maschi e lavoratrici non retribuite, tra lavoratori «liberi» e schiavi, tra artigiani specializzati e operai non qualificati, tra centro e periferia, nonché tra nazione e nazione.13 La tendenza all’unificazione è sempre stata un fenomeno limitato, mentre a resistere ancora oggi sono quelle differenze ora esacerbate dalle condizioni della divisione del lavoro globale. Ma soprattutto: se la deindustrializzazione (l’automazione della filiera manifatturiera) è uno stadio necessario lungo la strada che conduce a una società postcapitalista, allora la classe operaia industriale mai sarebbe potuta essere un agente di cambiamento, perché la sua esistenza dipende da condizioni economiche che la transizione al postcapitalismo eliminerebbe. Se insomma il processo di deindustrializzazione è necessario 238

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per l’avvento del postcapitalismo, allora nel corso del processo la classe operaia industriale è inevitabilmente destinata a perdere il proprio potere, a frammentarsi e a disintegrarsi; e questo è esattamente il fenomeno che abbiamo osservato negli ultimi decenni. E allora chi può assumere oggi il ruolo di soggetto della trasformazione? Nonostante le dimensioni sempre maggiori del surplus di popolazione, e nonostante l’impoverimento del proletariato globale, dobbiamo accettare il fatto che non esiste nessuna risposta ovvia. Il dissolversi delle distinzioni tra impiegati e disoccupati, e tra lavoro formale e informale, coincide con la scomparsa di un agente trasformativo coerente. La frammentazione dei tradizionali gruppi di resistenza e rivolta, assieme alla generale disintegrazione della classe operaia, fa sì che il compito attuale sia quello di assemblare un nuovo «noi» collettivo. Non c’è alcun gruppo preesistente in grado di rappresentare interessi universali, o di costituire l’avanguardia necessaria a portare a termine un processo di trasformazione: non l’operaio, né l’intellettuale, e neppure il sottoproletariato. Com’è possibile allora comporre un popolo dopo la disgregazione del proletariato?14 Nella pratica esistono diversi metodi che possono facilitare una simile convergenza. Come abbiamo visto, l’approccio marxista classico presupponeva che le tendenze interne al capitalismo avrebbero esasperato le divisioni tra classi e portato all’unità del proletariato. Altri hanno proposto un ideale di unità costruito su generici interessi in comune, come per esempio le necessità biologiche, ma i minimi interessi in comune tendono a produrre rivendicazioni senza ambizione.15 D’altra parte, in un movimento come Occupy l’unità è emersa dalla prossimità fisica (corpi che lavorano e vivono assieme in accampamenti condivisi), ma questa unità di superficie era poco più che una facciata e spesso mascherava differenze assai più concrete: non a caso, quando la prossimità fisica è stata interrotta – per esempio in seguito 239

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allo smantellamento degli spazi occupati – l’unità dei partecipanti si è rapidamente sfaldata. A sua volta, nel caso delle primavere arabe, l’unità dei dimostranti è stata forgiata dalla comune opposizione a un tiranno, il che ha effettivamente saputo riunire assieme tanti gruppi eterogenei.16 Ma anche queste recenti esperienze di lotta dimostrano come un’unità basata esclusivamente sull’opposizione tende a disintegrarsi qualora l’avversario comune venga sconfitto. Il problema che un progetto post-lavoro deve affrontare è che, nonostante la diffusa esperienza di cosa significhi es­­ sere proletari, l’esito è il più delle volte nient’altro che una coesione minima dalla quale deriva una quantità di interessi vasti e tra loro divergenti.17 La sfida che si pone a una politica trasformativa è dunque quella di riuscire ad articolare queste differenze all’interno di un progetto comune, senza limitarsi ad affermare che l’unica vera lotta è la lotta di classe. In questa chiave, non sorprende che molte delle battaglie politiche più promettenti degli ultimi anni si siano presentate sotto forma di movimenti populisti anziché come movimenti di classe.18 Attenzione però: con «populismo» non intendiamo una specie di cieco movimento di massa, né una rivolta dai contenuti generici quanto approssimativi, e meno ancora un contenuto politico in particolare.19 Piuttosto, qui per populismo intendiamo quella logica politica secondo cui differenti identità vengono riunite assieme contro un avversario comune nel tentativo di ottenere un mondo nuovo.20 Dai movimenti antiglobalizzazione a Syriza in Grecia, da Podemos in Spagna a Occupy in diversi paesi occidentali, per non dire delle tante esperienze latinoamericane, questi gruppi hanno mobilitato sezioni ampie e trasversali della società, anziché rivolgersi soltanto a particolari identità di classe.21 Sono movimenti che prendono le mosse dalla frustrazione provocata da richieste rimaste inascoltate: in circostanze democratiche normali, le rivendicazioni che arrivano dalla società – si tratti di incrementi salariali, sussidi di disoccu240

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pazione, o servizi di assistenza sanitaria – vengono prese in carico nella loro specificità e affrontate dalle istituzioni preposte; di solito il risultato è solo qualche cambiamento di superficie, ma le istituzioni – così come l’intera organizzazione della società – non vengono mai messe in discussione. I movimenti populisti invece hanno cominciato a prendere piede quando richieste come salari adeguati, alloggi a prezzi popolari, servizi per l’infanzia e così via, hanno preso a essere regolarmente ostacolate. Come spiega il più noto teorico del populismo politico, Ernesto Laclau, «oltre un certo limite, quelle che erano richieste formulate all’interno delle istituzioni diventano istanze rivolte alle istituzioni, e in seguito diventano rivendicazioni contro l’ordine istituzionale. Quando questo processo supera i limiti degli apparati istituzionali, ecco il populismo».22 Attraverso questo processo interessi particolari acquisiscono caratteri sempre più generali, e il populismo si configura come ferma opposizione all’ordine vigente. A differenza dei tradizionali raggruppamenti di classe, il «popolo» viene tenuto assieme da un’unità nominale anche in assenza di qualsiasi unità concettuale; è insomma un attore politico complesso e costruito: si identifica sotto un nome comune anche quando non c’è alcuna necessaria unità di interessi materiali. Questo per esempio ci aiuta a capire perché è stato così difficile comprendere il preciso orientamento politico di un movimento come Occupy: a legare il 99 percento delle persone che vi presero parte era più un nome che qualsivoglia politica comune. Nel populismo questa unità nominale combacia poi con l’assegnazione di un nome alla frattura interna alla società, e la designazione di un avversario comune contro cui combattere;23 a sua volta, dare un nome al nemico comune permette a un ampio spettro di persone di identificarsi negli interessi e nelle rivendicazioni articolate da un movimento: per non fare che qualche esempio, Occupy assegnò al nemico il nome «l’1 percento», Podemos si riferì prima alla «casta» 241

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e poi alla «trama», mentre Syriza alla «Troika». Il nome che viene assegnato all’antagonista dipende da fattori empirici, ma non è necessariamente da essi limitato: la divisione che Occupy ha portato avanti, quella tra il 99 e l’1 percento, è per esempio riuscita a mobilitare moltissime persone anche se non empiricamente accurata.24 Assegnare un nome al popolo e a chi vi si oppone è un gesto politico, non un proclama scientifico. Tanto il popolo quanto l’antagonismo nella società vengono dunque costituiti tramite l’atto stesso del nominarli, e questo rappresenta una risposta all’impossibilità di identificare gli antagonismi inerenti alla società osservando la semplice necessità storica dei fatti, specialmente in un periodo storico nel quale le identità di classe si sono frammentate e le differenze sono proliferate. Perché un «popolo populista» emerga, sono comunque necessari altri elementi ancora. Per cominciare, una particolare rivendicazione o battaglia deve poter rappresentare tutte le altre: il movimento Occupy, per esempio, ha sollevato un vasto numero di rivendicazioni a livello locale, regionale e nazionale, legandole tra loro sotto l’ombrello della lotta contro la disuguaglianza. In casi come questo, non si tratta di un gruppo particolare che cerca di essere riconosciuto dalla società, ma di un gruppo che parla universalmente per l’intera società. Per poter agire da portavoce dell’intera società, un simile gruppo deve però essere recepito come rappresentante di interessi molteplici: deve dunque poter rappresentare un largo spettro di interessi e non semplicemente il proprio tornaconto.25 Per un movimento operaio tradizionale, gli interessi comuni basterebbero ad assicurare la fedeltà di tutti; ma in un movimento populista l’assenza di un’immediata unità fondata su interessi comuni significa che la propria coerenza è perpetuamente insidiata da una tensione interna, quella cioè tra la battaglia simbolo dell’intero movimento e le singole rivendicazioni che la compongono. 242

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Il populismo, dunque, richiede un costante processo di rinegoziazione delle differenze e dei particolarismi, nel tentativo di stabilire un linguaggio e un programma in comune e per controbilanciare l’esistenza di forze centrifughe. La differenza tra un movimento populista e i criteri della folk politics risiede quindi nel modo in cui vengono gestite le differenze: laddove il populismo cerca di costruire un linguaggio e un progetto condivisi, la folk politics preferisce che le differenze siano in grado di esprimersi autonomamente in quanto differenze, evitando di adottare qualsiasi funzione universalizzante. La mobilitazione di un movimento populista che punti a una politica anti-lavoro richiede dunque l’articolazione di un populismo all’interno del quale diversi tipi di lotte mirate alla giustizia sociale e all’emancipazione umana possano tutte sentirsi rappresentate. È anzi molto importante sottolineare come proprio le politiche anti-lavoro possano offrire prospettive di questo segno; per esempio, rappresentano l’opzione più credibile per una coalizione rosso-verde, perché da una parte raggiungono un compromesso tra un programma economico mirato alla creazione di nuovi posti di lavoro e alla crescita economica, e dall’altro sposano un programma ambientalista mirato alla riduzione di emissioni di anidride carbonica. Il progetto di una società libera dal lavoro salariato è anche intrinsecamente femminista, dal momento che riconosce tanto la quantità di lavoro invisibile svolto prevalentemente dalle donne, quanto la femminilizzazione del mercato del lavoro e la necessità di un’indipendenza economica per una completa liberazione delle donne. Ma una politica post-lavoro si collega anche alle battaglie antirazziste, visto che proprio i neri e le altre minoranze etniche sono sproporzionatamente vittime di alti tassi di disoccupazione, dell’incarcerazione di massa e di trattamenti violenti da parte delle forze di polizia. Infine, un progetto post-lavoro segue la tradizione delle battaglie postcoloniali e 243

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dei movimenti indigeni, visto che tra i suoi obiettivi ci sono sia la disponibilità di mezzi di sussistenza per l’enorme forza lavoro di tipo informale, sia la lotta contro le barriere che ostacolano l’immigrazione.26 Elencare le caratteristiche di un movimento capace di fondere assieme queste differenze ci aiuta a enfatizzare l’importanza delle rivendicazioni in seno a qualsiasi populismo autentico. Le rivendicazioni costituiscono uno strumento fondamentale per cementare l’unità, e devono dunque essere in grado di rispondere ai diversi interessi di differenti soggetti.27 In sé, richieste e rivendicazioni non danno per scontato chi si attiverà per portarle avanti, ma permettono a tutti di vedere i propri interessi rappresentati, riuscendo comunque a mantenere intatte le differenze tra istanze separate.28 Per capirci: rivendicare una politica anti-lavoro può avere un significato differente per uno studente universitario, per una madre single, per un operaio o per una persona estromessa dalla forza lavoro; eppure, nonostante le differenze, ognuno di questi soggetti vede i propri interessi riflettersi nella medesima richiesta. Il compito di una politica che parta dal territorio è precisamente mobilitare questi soggetti nel nome della stessa rivendicazione: un movimento basato su una logica populista può quindi dare consistenza politica a una serie di reclami e richieste eterogenee, senza per questo negarne le specifiche diversità.29 Particolari rivendicazioni dovranno essere iscritte all’interno di una narrativa coerente, capace di creare un fronte comune contro un singolo antagonista: è per questo motivo che una precisa visione del futuro è l’elemento essenziale di un populismo autentico. In realtà, è proprio l’assenza di una visione futura ad aver caratterizzato molti dei più recenti movimenti populisti: Occupy, per esempio, non ha mai tradotto il proprio momento negativo di insubordinazione in un progetto politico positivo attorno al quale organizzare un popolo; in altre parole, non è mai riuscito a combinare assieme interessi differenti 244

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e a fonderli all’interno di un progetto mirato a un futuro migliore, rimanendo invece allo stadio del semplice rifiuto e senza mai fornire un «focus autonomo di soggettivazione».30 In ultima analisi, benché il progetto post-lavoro imponga una centralità della classe, è anche chiaro come non sia più sufficiente una mobilitazione che solo dagli interessi di classe deriva: al contrario, quello che serve è coinvolgere un’ampia fetta della società e renderla una forza attiva capace di trasformare lo stato delle cose, ed è proprio in questo che sta il ruolo del populismo. Ovviamente, negoziare un senso di appartenenza comune a livello di slogan, rivendicazioni, simboli e identità, non può restare il solo livello su cui articolare un approccio politico di questo segno: un movimento populista deve anche agire su (e attraverso) organizzazioni di vario tipo, mirare a sovvertire il senso comune neoliberale e crearne uno nuovo al suo posto. E soprattutto deve poter costruire vari tipi di potere egemonico, in tutte le forme possibili, all’interno come all’esterno dell’apparato statale. ECOLOGIA ORGANIZZATIVA L’organizzazione è l’elemento di mediazione chiave tra scontento e azione effettiva, ed è capace di conferire un tipo di potere qualitativamente differente a gruppi di persone con un obiettivo comune ma privi di struttura interna. Come emerso chiaramente da esperienze come Occupy o i movimenti pacifisti e antiglobalizzazione, il problema della sinistra non sta necessariamente nei numeri: dal punto di vista puramente quantitativo la sinistra non è particolarmente più «debole» della destra, e anzi, considerando la sua capacità di mobilitare le masse, sembra semmai vero il contrario. Specialmente nei periodi di crisi, la sinistra dà l’idea di essere particolarmente capace di mettere in moto un movimento populista; il problema risiede semmai nel passo successivo: come questa forza popolare viene organizzata e mobilitata. Per la folk politics, «organizzazione» ha spesso significato 245

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un attaccamento feticista a quei criteri localisti e orizzontalisti che quasi sempre finiscono per ostacolare la costruzione di un progetto controegemonico di tipo espansionistico.31 Questo feticismo organizzativo è uno degli aspetti più deleteri del recente pensiero di sinistra: la convinzione che se a essere utilizzate sono le forme organizzative giuste, queste diventano automaticamente in grado di garantire il successo politico.32 La folk politics cade spesso in questo errore, ma lo stesso vale per quelle ipotesi più ortodosse – sindacati, avanguardie, gruppi di affinità, partiti politici... – che ciclicamente vengono proposte come cure miracolose capaci di rimediare al declino della sinistra. Nella maggior parte dei casi, le forme organizzative che vengono raccomandate non considerano la differenza di terreni strategici che queste si trovano ad affrontare: la folk politcs, per esempio, prende una particolare forma organizzativa – costruita in condizioni specifiche – e prova a estenderla all’intero campo sociale e politico. Piuttosto che adottare un approccio decontestualizzato del genere, dobbiamo insomma pensare in termini di un vario e robusto «ecosistema di organizzazioni». La più elementare critica da muovere a un certo feticismo organizzativo è che un progetto politico richiede per sua natura una divisione del lavoro. All’interno di un movimento politico di successo esiste un numero di compiti essenziali che vanno portati a termine: alimentare consapevolezza sociale, fornire supporto legale, e poi egemonia mediatica, analisi del potere, proposte di misure politiche, consolidamento della memoria di classe, leadership, e via di questo passo.33 Nessuna singola organizzazione può bastare da sola a svolgere tutti questi ruoli e dunque promuovere un cambiamento su larga scala. In questo senso, noi non abbiamo intenzione di promuovere alcun tipo specifico di organizzazione: non esiste un singolo veicolo ideale per dare forma ai vettori della trasformazione. Al contrario, ogni movimento politico di successo è il risultato di una vasta ecologia di orga246

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nizzazioni che agiscono in modo più o meno coordinato tramite una divisione del lavoro necessaria all’ottenimento di qualsiasi cambiamento politico. Nel corso di questo processo di trasformazione emergeranno dei leader, ma non esisterà alcun partito di avanguardia: piuttosto, a essere all’avan­ guardia saranno delle funzioni temporanee.34 Un’ecologia di organizzazioni equivale a un pluralismo di forze capaci di produrre un effetto di ritorno sulle loro capacità relative;35 permette una mobilitazione collettiva spinta dall’ideale di un mondo alternativo, piuttosto che un semplice assembramento basato su alleanze pragmatiche.36 Inoltre, produce anche lo sviluppo di una serie di altre organizzazioni per così dire compatibili: «Lo scopo è quello di creare un qualcosa che sia più della mera costruzione di alleanze (dove le parti, intese come raggruppamenti di persone, debbano rimanere uguali a loro stesse e cooperare in maniera puntuale), ma meno di una soluzione generica (per esempio, l’idea di partito). Si tratta di attuare interventi strategici che possano attrarre sia i gruppi già costituiti che quella coda lunga che non appartiene ad alcun gruppo, interventi che siano presentati come complementari gli uni agli altri e non esclusivi, e i cui effetti possano rinforzarsi a vicenda».37 Questo significa che l’architettura generale di una tale ecologia di organizzazioni avrà una struttura decentralizzata e interconnessa; una struttura cioè che tra gli elementi del proprio ampio network dovrà comprendere – diversamente da quanto raccomandato dalla concezione orizzontalista – anche gruppi chiusi e organizzati gerarchicamente.38 In breve, non esiste alcuna struttura organizzativa privilegiata: non tutte le organizzazioni devono avere, come propri principi regolativi, la partecipazione, l’apertura e l’orizzontalità. Le divisioni tra rivolte spontanee e organizzazioni stabili, e tra desideri a breve termine e strategie a lungo termine, hanno creato fratture all’interno di quello che dovrebbe essere un progetto coerente mirato alla costruzione di un mondo 247

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post-lavoro: la diversità organizzativa dovrebbe poter essere combinata a un’unità trasversale di carattere populista. Una rapida ricognizione di come possa operare una tale ecologia organizzativa ci aiuterà a chiarire in che modo queste proposte possono essere praticate. Ovviamente, non potremo che fornire una descrizione breve e sommaria, viste anche le particolarità che caratterizzano battaglie di diverso tipo, e la complessità dei relativi problemi. Inevitabilmente, un ecosistema di organizzazioni viene a crearsi in circostanze specifiche quando decisioni differenti rispondono a diversi contesti politici. Detto questo, un movimento sociale di ampio respiro resta essenziale per qualsiasi politica postlavoro, il che rende anche possibile un vasto spettro di approcci tattici e organizzativi. A un estremo di questo spettro troviamo quelle esplosioni temporanee che prendono la forma di rivolte e proteste spontanee. Negli anni Sessanta, le rivolte urbane in America furono ad esempio un fattore cruciale che spinse le élite a sostenere l’idea di un reddito minimo.39 Queste esplosioni di energia politica non articolano rivendicazioni precise, ma richiedono una risposta immediata. In fenomeni relativamente più organizzati, i movimenti sociali spesso assumono le forme raccomandate dalla folk politics, come d’altronde abbiamo visto negli ultimi decenni: operare secondo principi di democrazia diretta può aiutare a conseguire determinati obiettivi, come dare voce alla gente comune, creare un senso di volontà collettiva, e permettere l’articolazione di prospettive diverse.40 Può inoltre favorire il processo di costruzione di un’identità populista e dare maggior potere a un popolo che si configura come collettivo. Quello che però manca alle organizzazioni strutturate secondo i principi della folk politics è una prospettiva strategica capace di trasformare le spettacolari scene di protesta e gli ampi movimenti di popolo in azioni efficaci sul lungo termine.41 Molto spesso gli effettivi risultati di una protesta vengono determinati da altre 248

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organizzazioni più durature e istituzionalizzate, capaci di egemonizzare richieste, tattiche e strategie di movimenti che, presi da soli, risultano relativamente effimeri. Le occupazioni che più hanno avuto successo, almeno in tempi recenti, sono state proprio quelle che hanno favorito un legame con i movimenti operai (in Egitto, per esempio), e/o con i partiti politici. In Islanda i movimenti di protesta hanno conseguito i loro maggiori traguardi quando una coalizione rosso-verde ha vinto le elezioni sconfiggendo la precedente amministrazione conservatrice;42 solo qualche anno fa, la Spagna ha dimostrato il potenziale che emerge quando i movimenti sociali seguono una doppia strategia, dentro e fuori dal sistema partitico. Il successo di un importante progetto di trasformazione sociale quale è il post-lavoro, dipenderà dal supporto di un movimento di massa più che da qualsiasi imposizione dall’alto: i movimenti populisti di piazza resteranno quindi un elemento essenziale. Come già indicato nei capitoli precedenti, i media giocano un ruolo centrale all’interno di un’ecologia politica il cui obiettivo è la costruzione di una nuova egemonia. La strategia sarà allora quella di imporre una forte presenza mediatica, stabilendo così un nuovo linguaggio comune, dando voce al popolo, assegnando un nome agli antagonisti, generando aspettative e narrative che possano interessare la gente, e articolando le nostre più sentite rimostranze con un linguaggio chiaro e deciso. Sono questi elementi che permettono alle narrazioni dei media di cambiare col tempo, e fondazioni e giornalisti sono già ben posizionati all’interno della società per poter agire in tal senso43 (non a caso la Mont Pelerin Society includeva tra i suoi membri numerosi giornalisti). Questa comunicazione deve saper ricorrere anche alla lingua di tutti i giorni, visto che il gergo accademico è (a ragione) considerato inutile dalla maggior parte delle persone. I media di sinistra non dovrebbero aver timore di presentarsi come accessibili e piacevoli, o di trarre ispirazione dal 249

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successo dei siti più popolari: in effetti, tradizionalmente la sinistra si è concentrata sulla creazione di spazi mediatici al di fuori del mainstream, mettendo da parte qualsiasi tentativo di cooptare le istituzioni già esistenti e così diffondere le idee più radicali all’interno della narrazione dominante. Troppo spesso strumenti del genere finiscono per rivolgersi soltanto a coloro che già ne condividono le posizioni, portando avanti narrazioni incapaci di uscire dalle proprie «camere d’eco». Internet ha dato a tutti una voce, ma non un pubblico: a questo fine i media mainstream rimangono indispensabili, e rimarranno tali anche in futuro, dato che la loro capacità di influenzare e di modificare l’opinione pubblica – definendo implicitamente ciò che è «realistico» e ciò che non lo è – è ancora sorprendentemente forte. Il successo di un progetto controegemonico richiederà un’iniezione di idee radicali nel mainstream, e non semplicemente la costruzione di un pubblico frammentato al di fuori di esso: una delle lezioni più importanti che si possono trarre dalle esperienze di reddito base negli Stati Uniti è che la corretta inquadratura di queste iniziative tramite i media è un elemento fondamentale per il loro successo.44 È per questa ragione che i media esistenti rappresentano un determinante campo di battaglia per il progetto presentato in queste pagine. Insieme ai media, un altro ingrediente indispensabile per un’ecologia politica sono le organizzazioni di intellettuali. Queste vanno dai think tank ai dipartimenti universitari e agli altri istituti di istruzione superiore, passando per le varie realtà indipendenti che possono contribuire a una presa di coscienza politica. La costruzione di un’egemonia però non si può limitare alla pura trasmissione di quei decreti emessi dalle organizzazioni intellettuali d’avanguardia, e non è un caso che Gramsci abbia coniato il concetto di «intellettuale organico», vale a dire di intellettuale intimamente legato alle forze materiali ed economiche fondamentali della società:45 gli intellettuali organici partecipano insomma alla pratica, 250

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sono organizzatori e costruttori assieme.46 Un’efficiente infrastruttura intellettuale di sinistra dovrebbe poi sostenere quelle istituzioni intellettuali in linea con la propria visione del mondo: offrirebbe la propria collaborazione e, dove possibile, le proprie risorse, oltre a diffonderne il messaggio. In un mondo dominato dalla complessità nessuno può avere una visione privilegiata del tutto, e dunque una robusta sfera intellettuale dovrà includere molteplici prospettive; questa si combinerà con le indagini sul campo condotte dai lavoratori, esaminando per esempio il funzionamento della logistica nella vendita al dettaglio ed elaborando strategie per il suo sabotaggio,47 o compilando un’analisi dettagliata delle reti di potere locali al fine di produrre un cambiamento dal basso.48 Assieme agli intellettuali organici, ci sono poi quegli istituti altamente specializzati capaci di mantenersi a distanza dal caos della politica quotidiana, e gli unici in grado di assolvere a funzioni particolari. Come già intuito dalla Mont Pelerin Society, a volte è necessario dedicare meno sforzi intellet­ tuali ai compiti immediati e impellenti per concentrarsi con più attenzione sullo sviluppo di proposte politiche a lungo termine, e queste includono argomenti vitali come lo sviluppo di nuovi metodi per organizzare e comprendere l’economia, cosa che richiede conoscenza tecnica e ricerca ad ampio raggio. Ma questo lavoro, per essere efficace, deve sempre poter confluire in un network composto da attori politici e narrazioni sociali. In passato le organizzazioni dei lavoratori sono state importanti forze di cambiamento; oggi però sono ridotte sulla difensiva, e nel frattempo una serie di leader sindacali eccessivamente rigidi (se non proprio corrotti) e un complesso di abitudini antiquate hanno reso particolarmente arduo qualsiasi tentativo di rivitalizzarne le sorti. Eppure i sindacati rimangono organismi indispensabili per la trasformazione del capitalismo, e qualsiasi sforzo di immaginare una nuova struttura sindacale dovrà tenere in considerazione sia 251

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i fallimenti del passato che le nuove condizioni economiche dell’oggi. Sarà quindi necessario rinforzare i legami tra la leadership e gli iscritti comuni, costruire reti di solidarietà trasversali che oltrepassino i confini tradizionali (per esempio, professori universitari che siano disposti a offrire supporto agli addetti delle pulizie nei loro uffici), imparare dalle esperienze di quei sindacati innovativi guidati dai lavoratori (quelli organizzati dai lavoratori immigrati, per esempio), radicalizzare i sindacati esistenti e fondarne di nuovi in aree che ne sono prive. In termini generali, l’efficacia di un sindacato dipende dall’allineamento della sua forza politica con le condizioni economiche e infrastrutturali esistenti. Come abbiamo visto nei precedenti capitoli, queste condizioni sono oggi definite dall’incipiente crisi del lavoro: la crescita del surplus di popolazione, il ritorno della precarietà, la stagnazione dei salari e il lentissimo ritorno dei posti di lavoro, sono tutte sfide cruciali per il modello sindacale tradizionale. Con il progressivo dissolversi della distinzione tra lavoro e vita personale, con la scomparsa della sicurezza di un posto di lavoro fisso e il continuo aumento del debito personale, i problemi del lavoro hanno oggi effetti che si estendono ben al di là della propria singola occupazione. Il cambiamento delle condizioni sociali modifica la relazione tra i sindacati, i loro membri, e la comunità tutta. Questo richiede prima di tutto che venga riconosciuta la natura sociale della lotta politica e che si colmi il gap tra posto di lavoro e comunità:49 i problemi lavorativi si estendono alla propria vita dome­­ stica e quindi alla comunità, e viceversa. Allo stesso tempo, la comunità può offrire un supporto essenziale alle azioni dei sindacati, così come questi ultimi dovrebbero riconoscere il debito dovuto al lavoro invisibile di tutti quelli che sono al di fuori del mondo del lavoro «ufficiale»:50 non soltanto i lavoratori domestici che riproducono le condizioni di vita dei lavoratori salariati, ma anche gli immigrati, i lavoratori precari, e l’enorme numero di persone che compongono 252

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l’esercito di riserva e partecipano alle miserie del capitalismo. I sindacati devono insomma aspirare a estendere la propria attività anche al di là dei propri iscritti: è senz’altro vero che esiste una tradizione di organizzazioni operaie che sono state in grado di stabilire legami con le rispettive comunità, ma questo deve oggi diventare l’obiettivo esplicito e principale di ogni sindacato. Il processo dovrebbe avvenire in entrambe le direzioni: per esempio, in Francia hanno avuto luogo degli «scioperi indiretti» in cui i lavoratori si dichiarano non scioperanti (e quindi continuano a essere pagati), ma permettono ai membri della comunità di bloccare o di occupare il loro posto di lavoro.51 Inoltre, i movimenti operai hanno sempre fatto ricorso alle comunità locali per ricevere supporto morale e logistico, e laddove si crei un network di solidarietà le comunità si mobilitano autonomamente per difendere i lavoratori dalla repressione statale.52 D’altra parte, i sinda­ cati possono interessarsi a problemi della comunità – come quello degli alloggi – dimostrando così il valore delle organizzazioni dei lavoratori:53 piuttosto che radicarsi semplicemente negli ambienti lavorativi, i sindacati risulterebbero oggi molto più adatti alle condizioni presenti se venissero organizzati attorno agli spazi regionali e alle comunità presenti sul territorio.54 Espandendo il mandato territoriale delle organizzazioni sindacali, le richieste sorte nei posti di lavoro locali possono allargarsi a un più ampio gruppo di rivendicazioni sociali. Come abbiamo sostenuto nel capitolo 7, bisogna mettere in discussione l’infatuazione di tipo fordista per il lavoro permanente, la socialdemocrazia, e l’ossessione dei sindacati per salari e preservazione dei posti di lavoro. In tempi di automazione, precarietà e disoccupazione crescente, le classiche rivendicazioni sindacali mostrano dei limiti che chiedono di essere valutati con attenzione. Noi pensiamo che i sindacati riscuoterebbero molti più consensi se sposassero la causa di una società post-lavoro, se sottoscrivessero il potenziale 253

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liberatorio della settimana lavorativa ridotta, della condivisione del lavoro e del reddito base.55 Negli Stati Uniti, quello dei lavoratori portuali della West Coast rappresenta un esempio di come l’automazione si sia accompagnata a salari più alti e meno tagli ai posti di lavoro (benché questo settore sia anche un nodo cruciale per fare leva sulla struttura capitalista).56 La Chicago Teachers’ Union offre un altro esempio di sindacato che ha esteso la propria strategia oltre le negoziazioni collettive, e che si è mobilitato per la creazione di un vasto movimento sociale riguardante lo stato del sistema educativo in generale. In più, muoversi verso un mondo post-lavoro significa anche superare alcune delle principali tensioni tra movimenti ambientalisti e movimenti operai: mettere in atto degli incrementi di produttività al fine di avere più tempo libero – piuttosto che per aumentare il numero di posti di lavoro e il loro output – è l’obiettivo che può mettere d’accordo entrambi. Modificare gli obiettivi dei sindacati e organizzarli attorno alle necessità dell’intera comunità a cui appartengono li aiuterà a distaccarsi dai classici – e fallimentari – ideali socialdemocratici, e sarà un passo essenziale per conseguire con successo il rinnovamento del movimento operaio. Infine: lo Stato rimane un territorio di contesa sociale, e i partiti politici avranno un ruolo in ogni ecologia di organizzazioni, specie se i tradizionali partiti socialdemocratici continueranno nel loro declino lasciando dunque spazio a una generazione nuova. La realizzazione di una società post-lavoro per tutti richiederà di più che operare semplicemente al livello dei posti di lavoro individuali; sarà anche indispensabile conseguire successi sul piano dello Stato,57 e benché i partiti vengano oggi accusati di cinismo e di accet­ tare passivamente i limiti imposti dal Capitale internazionale, è possibile che la situazione cambi. Piuttosto che trasformarsi in un impossibile veicolo di desideri rivoluzionari – che ci porterebbe all’improbabile prospettiva di un «voto» per 254

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l’avvento del postcapitalismo – i partiti potrebbero avere la più realistica responsabilità di costituire una punta dell’iceberg in termini di pressione politica, e di sviluppare la capacità di attrarre un bacino elettorale estremamente variegato.58 Lo Stato può dunque svolgere un ruolo complementare a quello della politica, sia nelle strade che sul posto di lavoro, così come queste realtà possono a loro volta ampliare le opzioni possibili per i partiti. Trascurare lo Stato – il metodo proprio della folk politics – è un errore: i movimenti di massa e i partiti politici dovrebbero essere considerati entrambi strumenti utili a un movimento populista, perché rendono possibile il conseguimento di obiettivi diversi. A livello più generale i partiti possono integrare le diverse tendenze che compongono un movimento sociale – da quelle riformiste a quelle rivoluzionarie – all’interno di un progetto comune. Benché il Capitale internazionale e il sistema interstatale rendano virtualmente impossibile attuare un cambiamento radicale dall’interno dello Stato, esistono comunque decisioni politiche importanti e basilari da prendere, come per esempio quelle che riguardano i temi dell’austerità, degli alloggi, del cambiamento climatico, dei servizi per l’infanzia, della demilitarizzazione della polizia e del diritto all’aborto. Rigettare su due piedi la politica parlamentare significa ignorare i progressi tangibili a cui queste misure potrebbero condurre: solo coloro che occupano già una posizione di privilegio possono permettersi di non preoccuparsi di questioni come salario minimo, leggi sull’immigrazione, modifiche al supporto legale, o leggi sull’interruzione di gravidanza. Nella loro forma migliore le entità elettorali possono agire come una forza distruttiva (facendo ostruzionismo, pubblicizzando controversie politiche, strutturando l’indignazione pubblica), e in alcune situazioni riescono persino ad agire come una forza progressiva. Questo non significa che i movimenti sociali vadano trasformati in strumenti di partito il cui scopo è racimolare voti: la relazione tra partiti 255

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e movimenti sociali deve anzi andare ben oltre, verso un processo di comunicazione a doppio senso. Da una parte, i partiti possono offrire un sostegno finanziario a iniziative comunitarie, e varie misure politiche – come per esempio le leggi che regolano lo svolgimento di manifestazioni pubbliche – possono essere modificate per facilitare il lavoro degli attivisti all’interno dei movimenti sociali (in Venezuela, per esempio, lo Stato ha facilitato la creazione di comuni di quartiere per l’integrazione del socialismo all’interno delle pratiche quotidiane).59 D’altra parte, è anche possibile accumulare collettivamente le risorse necessarie per la creazione di nuovi partiti (Podemos, per esempio, fu fondato grazie a una campagna di crowdfunding che raccolse 150.000 euro) e la vitalità di un partito può essere mantenuta grazie a costanti negoziazioni istituzionali tra i movimenti locali, i membri tesserati, e le strutture centrali del partito stesso.60 Restiamo su un esempio come Podemos: il movimento spagnolo ha mirato alla costruzione di meccanismi di governo popolare, ma ha anche cercato di penetrare nelle istituzioni,61 in una battaglia per il cambiamento sociale combattuta su due fronti che ha dimostrato maggior potenziale di trasformazione rispetto alle due strategie (quella basata unicamente sui movimenti e quella combattuta solo nelle istituzioni) prese singolarmente.62 Per citare un altro esempio, il Partido dos Trabalhadores brasiliano è rimasto aperto a molti gruppi diversi (provenienti dalla teologia della liberazione come dai movimenti contadini) nonostante si sia organizzato attorno a un nucleo di natura essenzialmente sindacale. Come ha osservato un ricercatore, «questa combinazione di movimenti dal basso e di avanguardie è riuscita in un leninismo che era tutto tranne che leninista».63 Tutte queste esperienze politiche dimostrano come una mobilitazione di massa da una parte possa trasformare lo Stato in uno strumento utile a conseguire gli interessi del popolo, e dall’altra sia necessaria a trascendere la netta divisione tra 256

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potere dei movimenti e potere delle istituzioni. Lo scopo deve essere quello di evitare sia «la tendenza a feticizzare lo Stato, il potere ufficiale, e le sue istituzioni così come la tendenza opposta, quella di feticizzare l’anti-potere»:64 è un obiettivo possibile persino in un contesto attuale dove a regnare è l’insoddisfazione per la politica, anche se resta ovvia l’importanza di un quadro argomentativo chiaro e in grado di articolare questa insoddisfazione. In ultima analisi, i partiti conservano ancora un significativo potere politico, e la lotta per il loro futuro non può essere lasciata alle forze della reazione. Dovrebbe ormai essere fin troppo chiaro come ci troviamo ben distanti dal feticismo del localismo, dell’orizzontalismo e della democrazia diretta prodotto dalla folk politics. Un’ecologia di organizzazioni non nega che tali forme organizzative possano avere un ruolo, ma rifiuta l’idea che da sole esse bastino. Quello che vogliamo promuovere è una complementarità funzionale tra diverse organizzazioni, piuttosto che l’attaccamento a una specifica organizzazione o forma organizzativa. PUNTI DI LEVA Qualora un movimento populista riesca effettivamente a costruire un ecosistema di organizzazioni controegemonico, per poter essere efficace questo richiederebbe comunque la capacità di ostacolare i processi produttivi. Anche con una robusta ecologia di organizzazioni e un movimento di massa ben coeso, il cambiamento resta impossibile senza la possibilità di «fare leva» sul potere: in termini storici, molti tra i più importanti passi in avanti compiuti dal movimento operaio sono stati possibili anche grazie a lavoratori collocati in posizioni strategiche. Che abbiano o meno ricevuto solidarietà, ottenuto alti livelli di consapevolezza di classe, o conseguito una forma organizzativa ottimale, questi lavoratori ebbero successo grazie alla loro abilità nell’inserirsi all’interno e contro il flusso dell’accumulazione capitalista. 257

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In effetti il miglior indicatore della militanza dei lavoratori e del successo della lotta di classe potrebbe proprio essere la posizione strutturale occupata dai lavoratori all’interno di un’economia. Per esempio, nel contesto delle prime infrastrutture logistiche i lavoratori portuali si trovarono a occupare una posizione chiave per la circolazione dei capitali; il trasporto intermodale – il trasferimento di beni tra navi, treni e mezzi di terra – era un processo faticoso e costoso:65 collocati in un nodo fondamentale di tale sistema, e cioè in un punto attraverso cui i beni dovevano obbligatoriamente passare, i lavoratori portuali che svolgevano queste mansioni controllavano di fatto un punto di leva. Il risultato fu che il livello di militanza politica tra questi lavoratori divenne altissimo, e che il settore perse più giorni di lavoro a causa di dispute sindacali che qualsiasi altro.66 Anche una celebre potenza sindacale come la United Automobile Workers nacque da una posizione strutturale all’interno del processo produttivo, nonché dall’importanza dell’industria automobilistica per l’economia nazionale statunitense: in quel contesto il potere dei lavoratori si impose tra l’altro in un periodo di alta disoccupazione e di bassi livelli di organizzazione, dimostrando dunque che il successo del sindacato non necessariamente deve trarre origine dalle condizioni favorevoli del mercato del lavoro, né da una particolare forza organizzativa.67 Una situazione simile fu quella in cui si vennero a trovare i minatori: il lavoro in miniera concedeva molta autonomia dalla dirigenza, perché si svolgeva in un ambiente in cui le interruzioni della produzione sono particolarmente efficaci; di conseguenza, «la loro posizione e concentrazione diede l’opportunità, in certi momenti, di forgiare un nuovo tipo di potere politico».68 Questo vale anche per l’attività mineraria di oggi, capace di resistere alla minaccia dello spostamento di capitali dal momento che quella che non può essere spostata è proprio la riserva di risorse naturali. Un esempio attuale sono le aree minerarie in Sud Africa, in cui a venire a galla è sia la 258

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forza dei sindacati che la violenza del Capitale: quando nel 2012 i lavoratori indissero uno sciopero a sorpresa, lo Stato intervenne duramente uccidendo più di trenta lavoratori in quello che viene ricordato come il massacro di Marikana. Meno violenta, ma non meno significativa, è la posizione di monopolio di certi fornitori. Scioperi in questi siti, come nel caso del Po Chen Group in Cina, rappresentano una minaccia reale per gli interessi capitalisti, visto che possono bloccare un’intera catena di distribuzione.69 Dall’altro lato della stessa catena, anche la distribuzione al dettaglio è un ambito vulnerabile: qui l’azione militante offre ricche opportunità per creare disagi alla macchina capitalista, oggi profondamente dipendente dalla logistica just-in-time.70 L’importanza di questi punti strategici non può insomma essere sovrastimata. Nel corso del secolo scorso però, questi punti di leva sono stati lentamente eliminati, tramite processi sia consapevoli che non: lo sviluppo dei container marittimi ha permesso l’automazione del trasporto intermodale,71 la globalizzazione della logistica ha facilitato lo spostamento delle fabbriche in risposta agli scioperi, e la transizione verso il petrolio come fonte di energia primaria ha ridotto drasticamente il numero di strozzature su cui intervenire. Oggi i classici punti in cui esercitare pressione politica sono quasi del tutto scomparsi, il che ci obbliga a un momento di sperimentazione e riflessione strategica: la sperimentazione è necessaria precisamente perché la politica è un campo di sistemi dinamici, guidato da conflitti interni, da adattamenti e contro-adattamenti che conducono a una corsa agli armamenti tattici. E questo significa che qualsiasi tipo di azione politica finirà col perdere la propria efficacia nel tempo, man mano che gli avversari impareranno ad adattarvisi: nessun metodo sarà sempre valido. In effetti, più passa il tempo e più diventa urgente abbandonare le tattiche ormai familiari, dato che le forze antagoniste impareranno a difendersi e a reagire in modo sempre più efficace: alla segretezza si risponde con le spie sotto copertura, 259

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all’uso di maschere si risponde con nuove legislazioni che ne vietano l’uso, ai cordoni in piazza si risponde con app capaci di tracciare i movimenti delle forze di polizia, alla documentazione degli abusi polizieschi si risponde con la criminalizzazione di quegli stessi documenti, alle proteste di massa si risponde con rigide regolamentazioni che le rendono noiose e sterili, e alla disobbedienza civile si risponde con la repressione brutale. Le tattiche politiche sono un campo dinamico di forze, e la sperimentazione è essenziale per aggirare i nuovi ostacoli che Stato e corporation pongono costantemente sul cammino del cambiamento. La storia del movimento operaio offre un’immagine esemplare di questo genere di atteggiamento. Una delle sue tattiche principali è stata quella di limitare la disponibilità di forza lavoro, incrementando dunque la propria forza e il proprio valore.72 I primi sforzi in questa direzione furono compiuti limitando il diritto a prendere parte a corsi di formazione per alcuni posti di lavoro, attuando una discriminazione sulla base di abilità, sesso e razza.73 I primi tipografi, per esempio, si organizzarono per proteggere una forza lavoro specializzata esclusivamente maschile, minacciata dall’introduzione di lavoratrici non specializzate.74 Ma il processo di rapida obsolescenza delle competenze prodotto dal capitalismo e dall’industrializzazione dei processi produttivi ha danneggiato molti sindacati di lavoratori specializzati, così come ha notevolmente allargato il bacino della forza lavoro. Il risultato è stata la dissoluzione di molti dei tradizionali sindacati artigiani, basati su competenze tecniche specifiche, e l’avvento di sindacati industriali che inclusero lavoratori sia specializzati che non, seguendo appunto un paradigma industriale.75 Un’altra possibile tattica per ridurre la fornitura di forza lavoro è stata già esaminata: la riduzione delle ore lavorative. Questo produce una riduzione della riserva di lavoro, come nel caso delle discriminazioni sindacali di cui sopra, ma con un’importante differenza: piuttosto che escludere particolari 260

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gruppi dagli impieghi specializzati, punta a sottrarre una porzione di lavoro da ognuno.76 Ma per diversi motivi – non ultimo l’emergere nel dopoguerra di un consenso tra Capitale e manodopera – questa tattica è caduta sostanzialmente in disgrazia, mentre l’attenzione del movimento operaio si è rivolta alla contrattazione collettiva per salari migliori. Come però abbiamo già sostenuto, è una tattica che potremmo riconsiderare nel tentativo di trasformare il nostro sistema socioeconomico. Gli scioperi hanno rappresentato un’altra tattica fondamentale: in questo caso, la logica è sempre stata quella di infliggere costi al Capitale e così ottenere un vantaggio al tavolo delle negoziazioni. Ma questo approccio è limitato dal fatto che i lavoratori non specializzati possono essere facilmente rimpiazzati da nuovi (e più docili) crumiri e sostituti. Inoltre, gli scioperi permettono ai datori di lavoro di sfruttare l’interruzione della produzione per introdurre nuovi macchinari: e cioè proprio il tipo di cambiamento contro cui i lavoratori si oppongono. A tal proposito, nel corso del XX secolo sono state tentate nuove tattiche come gli scioperi sit-down e le occupazioni, che rendevano il lavoro dei nuovi impiegati impossibile e al tempo stesso dimostravano l’assoluta inutilità di capi e dirigenti.77 Quello che sempre è possibile notare è insomma una dinamica corsa agli armamenti tra i vari avversari, dove ciascuno prova a ottenere un vantaggio strategico tramite l’uso di nuove tecnologie e di nuove tattiche. Oggi il terreno delle lotte sta nuovamente cambiando, come è indicato da almeno due nuovi problemi relativi alle classiche strategie di interruzione del lavoro. In primo luogo, resta la tendenza all’automazione: così come l’automazione della logistica ha fatto scomparire diversi punti di pressione politica potenzialmente sfruttabili dai lavoratori portuali, così l’automazione di fabbriche, sistemi di trasporto e persino servizi preannuncia un forte declino dell’efficacia delle battaglie sul posto di lavoro. L’arrivo delle autovetture autonome, 261

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per esempio, ridurrà drasticamente i punti di leva presenti all’interno dei sistemi di trasporto. Nel Regno Unito, la National Union of Rail, Maritime and Transport Workers dovrà presto affrontare il problema, considerato che treni senza conducente sono già operativi, e che si prevede un loro maggiore utilizzo nel prossimo futuro (l’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, dichiarò esplicitamente che grazie all’automazione sarebbe stato finalmente possibile distruggere uno dei pochi sindacati militanti rimasti nel Regno Unito).78 Eppure alcuni punti su cui fare leva rimangono, e in seguito alla ristrutturazione di questi settori e alla loro automazione ne emergeranno ancora di nuovi. Per esempio, come notato da un autore già nel lontano 1957, «un’intera fabbrica automatizzata può essere completamente bloccata da uno sciopero a cui partecipi anche solo un piccolo numero di persone»:79 il declino del numero di lavoratori addetti alla supervisione di un processo produttivo produce insomma una concentrazione di potere nelle mani di un piccolo gruppo di individui. Allo stesso modo, per quanto un sistema di trasporto automatizzato sia impermeabile agli scioperi, a scioperare potrebbero essere i programmatori e i tecnici informatici responsabili per il suo funzionamento: considerati i limiti tecnici delle autovetture autonome, questo sistema sarebbe particolarmente suscettibile ai blocchi; sono veicoli che d’altronde operano grazie a una semplificazione della variabilità dell’ambiente circostante che li rende «simili a treni che procedono su binari invisibili»,80 e questo significa che la manipolazione intenzionale dell’ambiente potrà dunque permettere di sabotarne la funzionalità. Inoltre, gli algoritmi di riconoscimento pattern utilizzati per diversi compiti (diagnostica, riconoscimento facciale e identificazione di emozioni, sorveglianza…) si prestano facilmente al sabotaggio informatico.81 Da tale panoramica consegue che una comprensione tecnica del funzionamento di queste tecnologie è essenziale per capire come poterle ostacolare, e 262

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la sinistra del futuro dovrà essere tanto politicamente astuta quanto tecnologicamente competente: quello che serve è produrre un’analisi dei trend di automazione che stanno ristrutturando i processi di produzione e circolazione delle merci, e sviluppare una comprensione strategica di quali sono i nuovi punti di leva che potranno emergere in futuro. Le tattiche tradizionali hanno un secondo limite: rischiano di fallire per via della disoccupazione di massa e delle lotte che oggi riguardano più il surplus di popolazione che la classe operaia. Se non esiste alcun posto di lavoro da rallentare o sabotare, cosa fare? Anche qui, il repertorio di possibili azioni di protesta ha subìto profonde trasformazioni in seguito al cambiamento delle condizioni sociali, politiche e tecnologiche: con la diffusione di nuovi fenomeni come il precariato, i contratti a zero ore, il lavoro temporaneo e gli stage non retribuiti, i movimenti dei disoccupati e quelli incentrati sulla riproduzione sociale offrono istruttivi esempi di resistenza. Queste lotte non hanno mai avuto l’obiettivo di ostacolare il lavoro in un determinato luogo, e dunque hanno dovuto immaginare nuovi metodi per accumulare potere politico. Una delle miopie più comuni nella sinistra contempo­ ranea consiste proprio nell’assumere che il potere dei lavoratori può soltanto derivare dal rallentamento della produzione, ignorando il fatto che le proteste contro l’ordine esistente hanno assunto una grande varietà di forme anche al di fuori del posto di lavoro. In Argentina per esempio, i movimenti dei disoccupati hanno fatto sentire la propria voce bloccando le grandi arterie urbane, giocando un ruolo cruciale per il rovesciamento del governo.82 Per coloro che sono esclusi dal meccanismo salariale e che si ritrovano privi di un posto di lavoro, bloccare le arterie del traffico diventa un efficace metodo di esercizio del potere politico:83 l’improvviso aumento di blocchi autostradali in seguito alla morte di Michael Brown per mano della polizia, a Ferguson nel Missouri, dimostra come questa forma di lotta sia cresciuta in popolarità.84 Tattiche 263

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simili – tra cui gli scioperi degli affitti e del debito – affrontano altri aspetti della riproduzione capitalista con lo stesso obiettivo basilare; anche i blocchi portuali sono una tattica promettente, e modelli realizzati al computer possono offrire suggerimenti su come evitare di compiere azioni politiche disorganizzate e inefficaci.85 Queste nuove tattiche, naturalmente, devono essere situate all’interno di un più ampio piano strategico, se non vogliono essere semplicemente una serie di movimenti temporanei che nascono e muoiono senza lasciare tracce durature. La classica base del potere del movimento operaio, dunque, è oggi più frammentata e più debole. Questo però non deve necessariamente decretare la definitiva sconfitta della lotta di classe: l’automazione e la precarietà forse segnano il declino del sabotaggio dei luoghi di produzione, ma certamente non indicano la fine assoluta della possibilità di interruzione del lavoro. E così, sebbene i tradizionali punti di pressione politica siano spariti, nel contesto di una struttura flessibile e globale questo cambiamento ha incrementato in altri modi la vulnerabilità dell’infrastruttura stessa. Lotte locali ben organizzate possono immediatamente diventare globali:86 il compito che ci attende è quello di valutare attentamente le trasformazioni della nostra realtà materiale e di preparare strategie da applicare all’interno di nuovi spazi di azione. Esistono già pratiche da cui trarre insegnamento, come le «analisi delle strutture di potere» intraprese da sindacati e attivisti, capaci di mappare le reti sociali locali e i loro attori principali, determinandone forze e debolezze e individuando amici e nemici.87 Quello che qui sosteniamo è che a un simile processo serve anche un complemento che enfa­ tizzi le condizioni materiali della lotta anziché limitarsi ai suoi network sociali. Ma per garantire il successo di entrambi gli approcci sarà necessario connettere l’esperienza diretta della situazione sul territorio con la conoscenza astratta di condizioni economiche in continuo cambiamento. 264

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Un mondo post-lavoro non emergerà né dalla benevolenza dei capitalisti, né dalle inevitabili tendenze dell’economia, né dalle necessità della crisi. Al tempo stesso, se vogliamo che una società post-lavoro rappresenti un’ipotesi strategica sensata, il potere della sinistra va ricostruito. Questo richiede un generale progetto controegemonico che punti a sovvertire il senso comune neoliberale e che riarticoli il significato di parole come «modernizzazione», «lavoro» e «libertà». Dovrà necessariamente essere un progetto populista in grado di coinvolgere un’ampia fetta della società, e che pur traendo spunto dagli interessi di classe non sia riducibile a essi. Avrà bisogno di un approccio organizzativo generale e ad ampio raggio, che combini i vantaggi delle diverse organizzazioni e non si riduca al pragmatismo delle alleanze di circostanza, ma che sposi la visione di un mondo migliore. E queste nuove organizzazioni, queste nuove masse, dovranno a loro volta identificare e occupare i nuovi punti di leva che puntellano i circuiti del capitalismo e i suoi posti di lavoro sempre più sterili e aridi. Di fronte a un capitalismo globalizzato e in movimento perpetuo, l’opposizione deve saper prevedere le trasformazioni che avranno luogo nel prossimo futuro e adottare un atteggiamento politico flessibile, capace di giocare d’anticipo.

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Conclusione State vivendo i risultati inaspettati di vecchi piani. Jenny Holzer

Arrivati fin qui è lecito chiedersi: a che punto siamo ora? Il più recente ciclo di lotte si è ormai esaurito (anche per via delle strategie mutuate dalla folk politics), e ovunque si rivolga lo sguardo il risentimento delle masse si mescola alla loro impotenza. Abbiamo sostenuto che la strada più promettente da seguire è quella di recuperare gli ideali della modernità e di attaccare il senso comune neoliberale che condiziona ogni aspetto delle nostre vite, dalle più esoteriche discussioni politiche ai nostri più vividi stati emotivi. È un progetto controegemonico che può essere messo in pratica soltanto lasciandosi alle spalle le battaglie difensiviste e immaginando mondi migliori, e in questo libro abbiamo delineato un possibile progetto che prende la forma di una politica post-lavoro in grado di renderci liberi di sviluppare le nostre vite e le nostre comunità nel modo che preferiamo. Affinché una simile battaglia possa avere successo, serve una sinistra populista che costruisca l’ecologia organizzativa necessaria per un approccio politico ad ampio raggio, capace di agire su molteplici fronti e di fare pressione, quando possibile, sui punti strategici della nostra economia. Ma la fine del lavoro non sarà la fine della storia. Costruire una piattaforma per una società post-lavoro sarebbe un risultato immenso, ma sarebbe comunque solo l’inizio.1 È per questo che resta cruciale concepire la politica di sinistra come una politica per la modernità: serve a ricordarci di non confondere l’avvento di una società post-lavoro – o di qualsiasi altra società – con la fine di tutto. L’universalismo vive un continuo processo di autodisfacimento, conservando in sé le risorse necessarie per una critica immanente capace di approfondire ed espandere i suoi ideali: nessuna specifica formazione sociale è sufficiente a soddisfare le sue richieste, concettuali o politiche che siano. Allo stesso modo, la libertà 267

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sintetica ci impone di non accontentarci dell’attuale orizzonte delle possibilità. Accontentarsi di una società post-lavoro rischierebbe di lasciare intatte le divisioni razziali, sessuali, coloniali ed ecologiche che continuano a strutturare il nostro mondo,2 e anche laddove queste asimmetrie di potere venissero messe in crisi da un mondo post-lavoro, gli sforzi per eliminarle dovranno senza dubbio continuare. Inoltre, dovremo anche individuare un sostituto sistematico ai mercati e confrontarci con la creazione di nuove istituzioni politiche. Non sappiamo ancora cosa può un corpo sociotecnico, e dobbiamo ancora svincolare appieno lo sviluppo tecnologico per dischiudere nuove forme di libertà. Trascendere la nostra dipendenza dal lavoro salariato è importante, ma dovremo comunque affrontare l’enorme compito di disfarci di altri limiti di tipo politico, economico, sociale, fisico, biologico. Il progetto mirato allo sviluppo di un mondo post-lavoro è certamente necessario, ma non sufficiente. Una piattaforma post-lavoro pone comunque l’obiettivo di un nuovo equilibrio che completi la transizione che dalla socialdemocrazia postbellica ha portato al neoliberismo, e da lì conquistare una nuova egemonia post-lavoro. Crediamo che tale piattaforma possa aiutarci a mettere a fuoco i compiti da affrontare nel presente, e al tempo stesso fornisca un punto di appoggio stabile da cui procedere per puntare a nuovi obiettivi di emancipazione. Come con qualsiasi piattaforma, coloro che sono responsabili della sua progettazione non possono prevedere come verrà utilizzata in futuro: benché opportunità e limiti siano fattori impliciti della sua struttura, non esauriscono tutte le possibilità che da essa derivano. Una piattaforma lascia il futuro aperto, piuttosto che chiuderlo:3 se progettata correttamente, ha successo proprio nel momento in cui offre alle persone le condizioni per portare avanti iniziative nuove. Con una piattaforma post-lavoro le persone potrebbero ricominciare a partecipare ai processi politici, come potrebbero finire con il ritirarsi in mondi individuali, 268

CONCLUSIONE

magari ritagliati all’interno dalle forme di intrattenimento offerte dai media. Ma ci sono motivi per nutrire speranza, considerando che la transizione verso una simile società richiederà anche un sovvertimento dell’etica del lavoro. Questo progetto implica insomma una trasformazione delle soggettività, nel senso che offre le risorse necessarie per una trasformazione completa che porti dall’egoismo individuale proprio del sistema capitalista a forme di espressione comuni e creative rese possibili proprio dalla fine del lavoro. L’umanità è stata per troppo tempo schiava degli impulsi dettati dal capitalismo, e un mondo post-lavoro promette un futuro in cui questi vincoli verranno quantomeno allentati. Ciò non significa che questa nuova società sarà un mondo dei sogni, ma che il lavoro non sarà più imposto da fuori, si tratti di un datore di lavoro o dal semplice bisogno di sopravvivere: verremo spronati al lavoro dai nostri desideri, non da una forza a noi estranea.4 Contro l’austerità imposta dalle forze conservatrici e contro la frugale esistenza cara agli antimodernisti, la rivendicazione di un mondo post-lavoro aspira alla proliferazione dei desideri, all’abbondanza, alla libertà. Si tratta sicuramente di un futuro rischioso, come rischioso è qualsiasi progetto per la costruzione di un mondo migliore. Non ci sono garanzie che le cose andranno come previsto: un mondo post-lavoro potrebbe generare dinamiche immanenti che condurranno alla dissoluzione del capitalismo, oppure le forze reazionarie potrebbero cooptare nuovi desideri all’interno di un rinnovato sistema di controllo. Simili preoccupazioni hanno portato diverse frange della sinistra contemporanea a ipotizzare sì il nuovo, ma un nuovo senza rischi: abbondano gli inviti generici a sperimentare, a creare, a prefigurare, ma le proposte concrete vengono spesso accolte da un’ondata di critiche che descrivono nel dettaglio tutti i modi possibili in cui tali proposte finirebbero col produrre risultati negativi. Alla luce di queste due opposte tendenze – essere da una parte favorevoli alla novità, e temere 269

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il rischio implicito in una trasformazione sociale – diventa chiaro il fascino esercitato da quelle idee politiche che celebrano «l’evento spontaneo»: si tratta fondamentalmente di un’espressione del desiderio di novità senza responsabilità. L’evento messianico promette di distruggere il nostro mondo stagnante e di far emergere un nuovo stadio storico, convenientemente scevro dal difficile lavoro che la politica è. L’arduo compito che ci attende è quello di costruire un mondo nuovo, pur con la consapevolezza che questo potrebbe anche generare nuovi problemi. In fondo, nelle migliori utopie ci sono sempre disarmonie sotterranee. Questo imperativo va contro ai principi precauzionali pensati per eliminare la contingenza e il rischio, elementi che fanno parte di qualsiasi processo decisionale. Secondo un’interpretazione particolarmente severa, il principio precauzionale serve a convertire l’incertezza epistemica per preservare lo status quo, invitando coloro che vorrebbero costruire un futuro migliore a desistere dal loro intento, magari con la raccomandazione di portare avanti «più ricerca». Possiamo anche notare come il principio precauzionale contenga al suo interno una lacuna che gli è quasi costitutiva: ignora il rischio prodotto dalla propria applicazione. Messa in altri termini, il tentativo di rimanere estremamente cauti – e dunque di eliminare i rischi – denuncia una miopia riguardo ai pericoli prodotti dall’inattività e dall’omissione.5 Mentre i rischi devono essere certamente calcolati con prudenza, una più profonda consapevolezza delle complicazioni introdotte dalla contingenza rende chiaro come scegliere la strada più cauta spesso non sia la scelta migliore. Il principio precauzionale è pensato per minimizzare la contingenza e precludere la possibilità del futuro, quando in effetti sono proprio le contingenze inerenti ai progetti ad alto rischio che conducono a un futuro più promettente. Per usare le parole dell’artista concettuale Jenny Holzer: «State vivendo i risultati inaspettati di vecchi piani». 270

CONCLUSIONE

Costruire il futuro significa insomma accettare il rischio che si possano verificare conseguenze inaspettate e che le soluzioni adottate si rivelino imperfette: forse resteremo in trappola, ma quantomeno potremo scappare verso trappole sempre migliori.6 DOPO IL CAPITALISMO Progetti come il post-lavoro e, in termini più ampi, il post­ capitalismo, sono determinazioni progressive che emergono dalla dedizione alla causa dell’emancipazione universale. In pratica implicano la «dissoluzione controllata delle forze del mercato… e la separazione del lavoro dal reddito».7 Ma la traiettoria ultima dell’emancipazione universale è diretta verso il superamento di tutti i limiti fisici, biologici, politici ed economici. Questa ambizione di rimuovere ogni vincolo, se spinta alle sue estreme conseguenze, conduce inesorabilmente a grandiose frontiere speculative. Per i cosmisti russi persino la morte e la gravità erano ostacoli possibili da superare grazie all’intelligenza e alle invenzioni future.8 In simili speculazioni post-planetarie, il progetto dell’emancipazione umana viene reso costituzionalmente infinito, percorrendo una strada tra due vie di sviluppo tra loro correlate: quella tecnologica e quella umana. Lo sviluppo tecnologico segue un cammino ricombinante, capace di fondere idee, tecnologie e componenti tecnologiche in combinazioni sempre nuove. Oggetti semplici vengono uniti tra loro fino a formare sistemi sempre più complessi, e ogni invenzione che viene sviluppata diventa la base per tecnologie ancora più nuove. Con questo ritmo di espansione, le possibilità combinatorie proliferano in fretta.9 Ci viene detto che la competizione di stampo capitalista è stata un potente motore di avanzamento tecnologico: secondo la narrazione dominante, la competizione intra-capitalista spinge al cambiamento tecnologico del sistema produttivo, mentre il capitalismo di consumo produce una domanda di 271

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prodotti sempre diversi. Ma, d’altra parte, il capitalismo ha anche creato enormi ostacoli allo sviluppo tecnologico. Sebbene l’immagine pubblica del capitalismo sia caratterizzata da un carattere dinamico e dalla propensione al rischio e allo sviluppo, è un’immagine che nasconde le vere fonti del dinamismo dell’economia capitalista. Tecnologie quali le reti ferroviarie, internet, il personal computer, il volo supersonico, i viaggi spaziali, i satelliti e le energie pulite sono state tutte rese possibili dagli Stati, non dalle corporation. Nel dopoguerra, nel pieno dell’epoca aurea dello sviluppo tecnologico, erano i fondi pubblici a finanziare i due terzi della ricerca.10 E negli ultimi decenni abbiamo visto come gli investimenti delle grandi corporation in tecnologie ad alto rischio siano drasticamente diminuiti.11 Con il taglio delle spese statali imposto dal neoliberismo, non c’è da sorprendersi se il tasso di cambiamento tecnologico è diminuito dagli anni Settanta ad oggi.12 In altre parole, il motore primario dello sviluppo tecnologico è sempre stato un investimento collettivo, e non privato.13 Invenzioni ad alto rischio e nuove tecnologie rappresentano investimenti troppo pericolosi per i capitalisti: figure come Steve Jobs ed Elon Musk hanno nascosto con grande astuzia la loro dipendenza dai progetti di sviluppo statali. 14 Allo stesso modo, gli ambiziosi progetti su grande scala capaci di impiegare miliardi di dollari sono guidati da obiettivi non economici che eccedono qualsiasi analisi costi-benefici: tali progetti vengono ostacolati da vincoli di mercato, considerato che un’analisi obiettiva –in termini capitalisti – della loro realizzabilità li rivela come profondamente irrilevanti.15 In più, alcuni potenziali benefici per la società (come quelli offerti da un vaccino per l’Ebola, per esempio) vengono trascurati per via del loro limitato potenziale in termini di profitto, mentre in alcune aree (come nel caso dell’energia solare e delle auto elettriche) i capitalisti hanno attivamente impedito il progresso facendo pressione sui governi per interrompere i sussidi all’energia pulita e per implementare leggi che ostrui272

CONCLUSIONE

scano ulteriori sviluppi. L’intera industria farmaceutica offre un esempio particolarmente deprimente degli effetti prodotti dalla monopolizzazione della proprietà intellettuale, mentre l’industria tecnologica è sempre più colpita dal fenomeno del patent trolling. Il capitalismo promuove insomma una falsa attribuzione delle fonti dello sviluppo tecnologico, costringe la creatività degli inventori a rispettare le logiche di accumulazione capitalista, limita l’immaginazione sociale all’interno dei parametri dettati dalle analisi costo-benefici, e attacca quelle innovazioni tecnologiche che tendono a distruggere il profitto. Per poter emancipare lo sviluppo tecnologico, dobbiamo andare oltre il capitalismo e liberare la nostra creatività dai suoi limiti attuali:16 questo ci aiuterebbe a svincolare le tecnologie dal loro obiettivo presente, orientato al controllo e allo sfruttamento, e a riorientarle verso l’espansione qualitativa e quantitativa di un’autentica libertà sintetica. A quel punto, potremo davvero scatenare le ambizioni e realizzare mega-progetti utopici, finalmente ridestando i più classici sogni di invenzione e di scoperta. Il grande sogno dei viaggi spaziali, la decarbonizzazione dell’economia, l’automazione del lavoro, l’estensione della vita umana, sono tutti grandi progetti tecnologici che vengono attualmente intralciati, in vari modi, dal capitalismo. Il progresso e l’espansione della tecnologia, una volta liberati dai ceppi del capitalismo, riusciranno a potenziare sia le libertà negative che quelle positive, e potranno altresì gettare le basi di un’economia veramente postcapitalista, permettendo l’abbandono di scarsità, lavoro e sfruttamento, e aprendo al progresso per un pieno sviluppo dell’umanità.17 Il futuro degli esseri umani, è quindi indissolubilmente legato a un’immagine di libera trasformazione tecnologica. La strada verso una società postcapitalista comporta una transizione capace di lasciarsi alle spalle la proletarizza­zione dell’umanità e di procedere verso una soggettività nuova e plastica. Questo nuovo soggetto non può essere in alcun 273

INVENTARE IL FUTURO

modo predeterminato: al contrario, può essere elaborato solamente tramite lo svolgersi di ramificazioni pratiche e concettuali. Non esiste alcuna «vera» essenza umana a cui sia possibile attingere al di là di tutti i nostri legami con le reti tecnologiche, naturali e sociali di cui siamo parte.18 L’idea che una società post-lavoro finirebbe semplicemente col trasmettere ancora di più i ciechi ideali del consumismo, ignora le capacità umane di innovazione e creatività: in poche parole, è un’impostazione pessimista basata sull’attuale soggettività capitalista.19 Similmente, lo sviluppo di nuove necessità deve essere distinto dalla loro mercificazione: mentre quest’ultima cristallizza i desideri all’interno di una logica del profitto che pone limiti alla prosperità umana, lo sviluppo di nuove necessità rappresenta un’autentica forma di progresso. L’«estensione e differenziazione dei bisogni» va insomma preferita a quei vagheggiamenti sullo «stato primitivo e naturale» al quale secondo la folk politics dovremmo tornare. All’interno della società capitalista la complessità dei bisogni umani è senza dubbio deformata, ma quando queste necessità vengano liberate «il loro obiettivo diventa necessariamente lo sviluppo di una “ricca individualità” per l’intera specie umana».20 Il soggetto postcapitalista, dunque, non rivelerà soltanto quel sé autentico ora occultato dalle relazioni sociali capitaliste, ma piuttosto scoprirà lo spazio necessario per la creazione di nuovi modi di essere. Come notò Marx, «la storia non è altro che una continua trasformazione della natura umana», e il futuro dell’umanità, essendo prima di tutto una questione pratica e da svolgere nel tempo, non può essere stabilito astrattamente e in anticipo. Ciononostante, è possibile formulare alcune idee. Per Marx, il principio fondamentale del postcapitalismo era lo «sviluppo delle potenzialità umane quali fini in se stesse»:21 lo scopo principale del suo progetto era cioè l’emancipazione universale degli esseri umani. I vari ideali che i pensatori marxisti hanno proposto per il raggiun274

CONCLUSIONE

gimento di questo obiettivo – la socializzazione dei mezzi di produzione, la fine della forma-valore, l’eliminazione del lavoro salariato – altro non sono che mezzi per l’ottenimento di questo fine. La questione da porre immediatamente allora è: cosa comporta questo obiettivo? La costruzione della libertà sintetica è il mezzo tramite il quale le potenzialità umane possono finalmente essere sviluppate. Questa libertà trova diversi modi di espressione, inclusi quelli economici e politici;22 ma assieme a questi ci sono anche le sperimentazioni con la sessualità e le strutture riproduttive,23 la creazione di nuovi desideri, l’elaborazione di nuove capacità estetiche,24 di nuove forme di pensiero, di ragionamento e, in ultima analisi, di nuovi modi di essere umani.25 L’espansione dei desideri, dei bisogni, degli stili di vita, delle comunità, dei modi di essere, delle capacità, sono tutti elementi di un unico progetto di emancipazione universale. È un progetto che punta all’espansione di quello che verrà, all’elaborazione di cosa significa essere umani e alla produzione di nuovi desideri utopici, e che si allinea con la traiettoria di un vettore di universalizzazione infinitamente esteso verso il futuro. Il capitalismo, nonostante tutte le sue apparenze di liberazione e di universalità, ha essenzialmente vincolato queste forze in un continuo ciclo di accumulazione, ossificando le più autentiche potenzialità del genere umano e riducendo lo sviluppo tecnologico a una serie di innovazioni tanto banali quanto marginali. Ci muoviamo sempre più veloci – è il capitalismo stesso che ce lo impone – ma non andiamo da nessuna parte. Quello che invece dobbiamo costruire è un mondo che ci permetta di accelerare al di fuori del nostro stato di stasi. PRIMA DEL FUTURO Questo libro ha difeso la tesi che la sinistra non può né accontentarsi di rimanere nel presente, né tornare al passato. Per 275

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costruire un futuro nuovo (e migliore) dobbiamo intraprendere i passi necessari per costruire un nuovo tipo di egemonia. È un’idea che va contro il senso comune politico di oggi: le tendenze della folk politics – le stesse che enfatizzano il locale e l’autentico, il temporaneo e lo spontaneo, l’autonomo e il particolare – sono spiegabili come reazioni difensive a una serie di sconfitte o di vittorie ambivalenti, e come risposta a un vertiginoso aumento della complessità del nostro mondo. Ma sono risposte che rimangono profondamente insufficienti se vogliamo ottenere vittorie significative nella lotta contro il capitalismo globale: piuttosto che cercare una salvezza temporanea e locale all’interno dei vari fortini della folk politics, dobbiamo procedere oltre questi limiti. Contro la resistenza fine a se stessa, contro il ritiro o la fuga dalla società, contro qualsiasi anelito di «purezza», il compito della sinistra odierna deve essere quello di intraprendere una politica di scala con ambizioni espansionistiche, con tutti i rischi che questo comporta. A questo fine sarà necessario recuperare l’eredità della modernità e rivalutare quali parti della matrice dell’illuminismo è possibile preservare e quali dovranno invece essere scartate, dal momento che solo una nuova forma di azione universale potrà soppiantare il capitalismo neoliberale. Senza nessuna tabula rasa e senza eventi miracolosi di mezzo, dobbiamo trovare le risorse con cui edificare una nuova egemonia all’interno delle tendenze e delle possibilità offerte dal mondo di oggi. Nonostante questo libro si sia concentrato sull’automazione e sulla fine del lavoro, esiste una vasta gamma di ipotesi politiche a disposizione della sinistra contemporanea: sul breve termine questo significa ripensare le classiche rivendicazioni della sinistra alla luce delle tecnologie più avanzate, e ripartire dalle fondamenta offerte da quel terreno post-nazionale conosciuto come stack, ovverosia l’infrastruttura globale che rende possibile il nostro mondo digitale.26 È già possibile distinguere un nuovo modo 276

CONCLUSIONE

di produzione dalle tecnologie più all’avanguardia: la stampa 3D e l’automazione del lavoro preannunciano, per alcuni prodotti, la possibilità di un sistema basato sulla flessibilità, sulla decentralizzazione e su un regime di post-scarsità; la rapida automazione della logistica introduce la possibilità utopica di un sistema globale interconnesso dove parti e beni potranno essere spediti in maniera rapida ed efficiente e senza dispendio di lavoro umano; le criptovalute e la loro tecnologia blockchain potrebbero mettere a disposizione della comunità una nuova valuta, separata dalle forme capitaliste.27 Anche la guida democratica dell’economia potrà essere accelerata dalle nuove tecnologie. Oscar Wilde affermò che il problema del socialismo è che impegna troppe serate, e in effetti una maggiore democrazia economica potrebbe costringerci a dedicare sempre più tempo a discussioni sulle decisioni da prendere riguardo i più minuti dettagli delle nostre vite.28 Per evitare un simile problema, l’uso delle tecnologie informatiche sarà quindi essenziale: semplificherà le decisioni da prendere e automatizzerà quelle che verranno collettivamente considerate irrilevanti. Per esempio, piuttosto che deliberare su ogni singolo aspetto dell’economia, le decisioni potrebbero limitarsi a certi parametri fondamentali (input energetico, output di anidride carbonica, investimento nella ricerca, e via dicendo).29 I social media, se liberati dalla spinta verso la monetizzazione e il narcisismo, potrebbero essere usati come ausilio per lo sviluppo di una sincera democrazia economica, espandendo i processi decisionali verso un pubblico nuovo, e permettendo metodi di deliberazione e di partecipazione grazie all’utilizzo di piattaforme social postcapitaliste. Persino il problema che da sempre affligge le economie postcapitaliste – quello di distribuire efficientemente i beni in assenza di prezzi di mercato – potrà essere risolto grazie all’uso dei computer. Dai primi esperimenti sovietici di pianificazione economica a oggi, la potenza di calcolo dei computer è cresciuta esponenzialmente, 277

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fino a diventare centinaia di miliardi di volte superiore30 e rendendo dunque facilmente risolvibili i calcoli necessari per trovare la migliore distribuzione delle nostre risorse produttive. Allo stesso modo, la raccolta dati su risorse e preferenze tramite sistemi computerizzati fa sì che i dati grezzi necessari alla gestione di un’economia siano oggi più che mai a portata di mano. E tutto questo potrà essere indirizzato all’implementazione di un nuovo Lucas Plan a livello sia nazionale che globale, reindirizzando le nostre economie verso la consapevole produzione di beni socialmente utili quali energia rinnovabile, medicine economiche e – più in generale – verso l’espansione della nostra libertà sintetica. È questo l’aspetto di una sinistra del XXI secolo. Un movimento che intenda rimanere rilevante e politicamente influente, deve necessariamente venire a patti con le potenzialità e gli sviluppi offerti dal nostro mondo tecnologico. Dobbiamo espandere la nostra immaginazione collettiva oltre a quello che viene oggi permesso dal capitalismo: piuttosto che sperare di ottenere un miglioramento marginale della durata delle batterie dei nostri smartphone o della potenza dei nostri processori, la sinistra dovrebbe incoraggiare il sogno di un’economia decarbonizzata, dei viaggi nello spazio e di un’economia robotizzata – tutti temi cari alla fantascienza – per prepararsi all’avvento di un futuro postcapitalista. Il neoliberismo, per quanto possa oggi apparire intoccabile, non offre garanzie di sopravvivenza a lungo termine. Come tutti i sistemi sociali che l’hanno preceduto, non durerà per sempre. Il nostro compito è inventare quanto arriverà poi.

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Postfazione REINVENTARE IL FUTURO Dove eravamo arrivati? Nei mesi che sono trascorsi dalla prima edizione inglese di Inventare il futuro ci sono stati numerosi e significativi cambiamenti. L’elezione di Jeremy Corbyn a leader del Partito Laburista britannico e l’inaspettata popolarità di Bernie Sanders alle primarie delle presidenziali statunitensi hanno trasformato le tradizionali aspettative della sinistra, e il ritorno del socialismo in America è il sintomo di una vasta frammentazione dell’egemonia politica nel mondo occidentale. Questo è uno degli elementi più caratterizzanti del momento presente: i partiti tecnocratici della sinistra e della destra neoliberale vedono la propria capacità di tenere la società sotto controllo minacciata dalle stesse forze economiche che loro stessi hanno imposto. La disuguaglianza, la crescita senza lavoro e la generale stagnazione economica hanno diminuito la fiducia del pubblico nelle virtù del centrismo politico. Tutto ciò è causa di entusiasmo come di preoccupazione, e in questo contesto stiamo assistendo a una crescita dei populismi sia di sinistra che di destra. Il senso comune politico sta cambiando, e stanno emergendo nuove possibilità. Mentre Corbyn e Sanders hanno introdotto agli ideali del socialismo un’intera nuova generazione, i movimenti reazionari neonazionalisti hanno oggi più possibilità che mai di assumere il totale controllo del sistema. Senza una strategia ben definita, una visione positiva del futuro e la mobilitazione di una base di attivisti, risulterà fin troppo difficile vincere la futura battaglia per l’egemonia politica. Troviamo però incoraggiante osservare come si stiano creando delle relazioni produttive tra nuovi socialismi, quello che rimane dei movimenti orizzontalisti (come Occupy), movimenti politici recenti come Black Lives Matter, Fight for 15, e battaglie come quella per gli alloggi pubblici. Benché non siano sempre in sincronia, stiamo forse assistendo all’avvento di una più dinamica e potente ecologia politica consapevole – e questa 281

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è la cosa più importante – di tutte quelle interconnessioni tra movimenti che vanno al di là delle lotte locali. Dalla pubblicazione del libro a oggi, le discussioni sul tema del reddito base universale sono diventate molto più frequenti. L’idea è apparsa in diverse forme, è diventata un argomento di ricerca per think tank di sinistra e ha ricevuto una considerazione maggiore da parte di partiti politici, attivisti e sindacati. Nonostante il fallimento del referendum svizzero sull’introduzione del reddito base, il tono del dibattito è sicuramente cambiato: se prima questa idea aveva ancora bisogno di essere introdotta nel linguaggio politico, è ora sufficientemente comune da permettere discussioni su quale sia la forma migliore per la sua messa in pratica. A tal proposito, riteniamo che il nostro approccio politico al reddito base resti assolutamente necessario: per ottenere un reddito che sia genuinamente universale e che possa fornire una retribuzione al di sopra della soglia di povertà, servirà costruire un grande movimento politico che lo sostenga. Inevitabilmente, la misura comporterà una certa redistribuzione dei redditi e della ricchezza, e questa rimane una questione politica, e non meramente tecnocratica. Allo stesso tempo, una seria politica redistributiva che promuova l’implementazione del reddito base dovrà necessariamente esplorare questioni più ampie: qual è la natura del lavoro? Come viene creato il valore? E come può essere condiviso? Il progetto politico che abbiamo delineato in questo libro ha giocato un piccolo ruolo nel rendere possibile gli eventi appena descritti, se non altro perché Inventare il futuro è stato letto in diversi circoli che vanno dalla sinistra più radicale ai sindacati, dai giornalisti come dai politici. La critica alla folk politics e la necessità di pensare in termini più espansionistici, istituzionali ed egemonici, sono stati argomenti di discussione per molti gruppi interni alla sinistra. I legami tra reddito base, automazione, e necessità di una nuova politica post-lavoro vengono oggi esplorati da attivisti, sindacati, 282

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e partiti che hanno finalmente iniziato a prendere in seria considerazione queste idee. Ovviamente, come nel caso di qualsiasi progetto che aspiri a rimpiazzare il nostro senso comune, alcuni elementi di questo piano sono stati oggetto di comprensibili critiche. Col senno di poi, e grazie ai commenti arrivati da più parti, vorremmo rispondere alle domande più pertinenti, ammettere i limiti delle nostre argomentazioni, e correggere alcuni fraintendimenti. Ci impegniamo a farlo con la massima umiltà, dato che consideriamo questo libro come un contributo a un dibattito più ampio e – speriamo – un’opportunità per riflettere su quelli che riteniamo essere i problemi più vistosi della sinistra contemporanea. FUTURI POST-LAVORO In diversi articoli e recensioni sul nostro libro sono state poste domande fondamentali su quali conseguenze implichi la realizzazione del mondo post-lavoro che ci auspichiamo, dal punto di vista dell’ambiente, del lavoro, della riproduzione sociale e del colonialismo. Un mondo post-lavoro e ad alta tecnologia implica anche l’esaurimento delle risorse e il peggioramento del clima planetario? Un mondo post-lavoro significa protrarre l’oppressione e il soggiogamento dei paesi più poveri? Che ruolo avranno, in questo mondo, i lavori domestici e non salariati? Sono domande estremamente importanti. Per tentare delle risposte sarà utile immaginare una serie di possibili fu­ tu­ ri che esemplifichino diversi modi in cui il progetto post-lavorista potrebbe concretizzarsi. In generale, possiamo immaginare quattro tipi di futuro (con possibili intercon­ nessioni): un mondo post-lavoro neocoloniale e razzista, un mondo post-lavoro ecologicamente non sostenibile, un mondo post-lavoro misogino e un mondo post-lavoro di sinistra. Un primo possibile futuro post-lavoro sarebbe dunque neocoloniale e razzista. In questo caso l’abolizione del lavoro salariato verrebbe realizzata solamente nei paesi capitalisti 283

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più avanzati, e i paesi poveri verrebbero lasciati indietro. I paesi con una società post-lavoro diventerebbero dunque estremamente attraenti per i migranti, e l’afflusso di persone finirebbe con l’esacerbare la xenofobia già esistente e suscitare violente repressioni da parte degli Stati. Le frontiere verrebbero fortificate e i confini europei, americani e australiani si ritroverebbero ricoperti da ancora più vittime e morti di quanti già ce ne siano oggi. Nei paesi più poveri continuerebbe lo sfruttamento dei lavoratori sottopagati, mentre moltissimi altri rimarrebbero rinchiusi nella prigione del lavoro domestico, per via del suo potenziale punitivo quanto della sua efficienza economica. Il risultato sarebbe dunque un inasprimento della disuguaglianza globale, un’espansione della xenofobia e del razzismo, e una maggiore destabilizzazione politica e militare, con i paesi occidentali trincerati dietro frontiere fortificate e schierati contro il resto del mondo. Un secondo possibile futuro sarebbe una versione ecologicamente non sostenibile del mondo post-lavoro. In tale scenario, una società post-lavoro verrebbe creata in alcuni (o in molti) paesi, ma per sostenerla l’automazione su larga scala necessaria verrebbe imposta senza considerare la sua sostenibilità a lungo termine. In tutto il mondo i processi estrattivi andrebbero intensificandosi, e l’inquinamento e i danni ambientali da essi causati continuerebbero ad aumentare. Le risorse energetiche necessarie a sostenere un’inefficiente implementazione dell’automazione verrebbero tratte dai combustibili fossili, e le emissioni di carbonio finirebbero per toccare livelli ancora più alti di quelli attuali. Allo stesso tempo, i modelli di consumo continuerebbero a espandersi, raggiungendo livelli ai quali qualsiasi incremento di produttività equivarrebbe a un sempre maggiore output di inquinanti. Il principale risultato di questo processo sarebbe l’accelerazione della catastrofe climatica, cosa che a sua volta porterebbe a migrazioni di massa causate dal clima, maggiore xenofobia, destabilizzazione politica, ingenti 284

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perdite di vite umane, devastazione della biosfera, ed estinzione di molte specie animali. Un terzo possibile futuro sarebbe un futuro misogino. In questo caso la maggior parte del lavoro salariato scomparirebbe, e ne emergerebbe un enorme aumento di tempo libero. Ma questo non sarebbe accompagnato da un simultaneo ripensamento del lavoro riproduttivo non retribuito: le donne dunque continuerebbero a portare il peso di questi compiti e non ci sarebbe alcun investimento nel campo dell’automazione dei lavori domestici, come cucinare, pulire, o fare il bucato. Al contrario, come già successo in passato, qualsiasi nuova tecnologia casalinga finirebbe con l’innalzare gli standard di pulizia, anziché ridurre la quantità di lavoro. Si tratterebbe insomma di una società in cui gli uomini sono finalmente liberi dal lavoro salariato mentre le donne restano prigioniere delle mansioni domestiche, il che si tradurrebbe anche in un’analoga disparità di rappresentanza sulla scena politica: gli uomini sarebbero sempre più liberi di perseguire la propria carriera pubblica, mentre le donne rimarrebbero legate alla sfera privata della casa. Contro e al di là di questi scenari deprimenti, possiamo infine immaginare una quarta opzione: un futuro post-lavoro di sinistra. Questa ipotesi implicherebbe (quantomeno) l’impegno di mantenere le frontiere aperte, l’abolizione di tutti i meccanismi di controllo spaziale (come prigioni e ghetti), la riduzione/socializzazione del lavoro (salariato e non), il rafforzamento del welfare e l’erogazione di un reddito base su scala globale. Non si tratterebbe ancora di un futuro pienamente postcapitalista (per esempio, i beni verrebbero ancora acquistati sul mercato, la proprietà privata esisterebbe ancora, e le logiche di accumulazione sarebbero ancora valide), ma sarebbe comunque un mondo immensamente migliore di quello attuale, sia in termini di qualità di vita che del nostro potere politico. Il nostro libro altro non è che un primo tentativo di articolare una visione e proporre una strada che ci conduca 285

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a quest’ultimo tipo di futuro. Benché le reazioni alla sua pubblicazione abbiano coperto molti dei suoi temi e diverse idee chiave, un elemento cruciale sembra spesso assente dalle discussioni: il problema del surplus di popolazione. Non è un caso che il capitolo che si concentra su questo tema rappresenti nel libro un punto di svolta, delineando il motivo principale che giustifica il progetto post-lavoro. Quel capitolo cerca di portare a galla le connessioni sistematiche che intercorrono tra fenomeni come i morti alle frontiere, la brutale gestione dei quartieri poveri e delle sacche di disoccupazione urbana, lo sfruttamento del lavoro nelle carceri, il proseguimento di forme di schiavitù, l’aumento della densità di slum e baraccopoli, la proliferazione di suicidi e di disturbi mentali, gli attacchi all’istruzione universitaria, e gli effetti devastanti che nei paesi in via di sviluppo derivano dalla transizione a uno stadio postindustriale. In quello stesso capitolo solleviamo inoltre il problema dell’automazione insistendo che proprio minoranze e paesi in via di sviluppo corrono maggiormente il rischio di essere ridotti a uno stato di povertà ancora più profondo: come abbiamo sostenuto, «i nuovi trend tecnologici finiranno per consolidare l’esistenza di vaste fette di popolazione costrette a vivere in ghetti e all’interno di economie informali e non capitaliste». Quel capitolo tenta quindi di analizzare gli attacchi che vengono portati contro i più marginalizzati, i metodi tramite i quali un numero sempre maggiore di persone vengono emarginate dal capitalismo, e l’importante influenza di fattori razziali, di genere e coloniali in questo processo. Una delle tesi più importanti di questo libro è che il più probabile risultato dell’attuale cammino di sviluppo capitalista sarà proprio un futuro che includerà gli elementi peggiori di quegli scenari neocoloniali, razzisti, misogini ed ecologicamente disastrosi che abbiamo descritto poco sopra. Come abbiamo provato a dimostrare nel capitolo sul surplus di popolazione, una prospettiva del genere è il termine ultimo 286

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di un’impostazione politica che tende a lasciare inalterato lo stato delle cose, ed è per questo che abbiamo più volte insistito che, se non verrà immediatamente costruito un movimento capace di correggere la rotta, le cose andranno sempre peggio. Siamo però d’accordo con quei critici che hanno osservato come un mondo post-lavoro possa anche sorgere sul colonialismo stesso, o su un rafforzamento del lavoro riproduttivo non retribuito, o persino sulla totale distruzione della biosfera: queste possibilità sembrano anzi sempre più probabili, vista la recente rinascita del fascismo, del razzismo e della xenofobia. Ma è proprio un’analisi di questo taglio a motivare la tesi centrale del libro: un mondo post-lavoro di sinistra è oggi sia necessario che possibile. Ed è anche per questo che il capitolo sul surplus di popolazione precede la discussione sugli scenari post-lavoro veri e propri, dato che vuole stabilire le condizioni congetturali secondo le quali tale progetto potrebbe essere compreso. Il futuro post-lavoro che immaginiamo non è un vagheggiamento né un’utopia astratta: al contrario, il futuro che auspichiamo risponde a (ed è condizionato da) le sempre maggiori devastazioni sociali e ambientali che caratterizzano il nostro mondo. È quindi importante insistere su questo punto: un mondo post-lavoro deve essere concepito come una risposta alle condizioni emergenti o già esistenti di stampo neocoloniale, razzista, sessista e classista. Come tale, un progetto post-lavoro che finisse con il perpetrare o l’esacerbare queste condizioni sarebbe diametralmente opposto alla nostra visione del futuro. Il post-lavoro è uno scenario che ha molti lati positivi, che abbiamo elaborato a lungo nel corso del libro. Ma nelle condizioni attuali queste idee acquistano un’urgenza ancora maggiore: come abbiamo scritto, «queste tendenze devono essere spiegate», e per questo motivo siamo dell’opinione che «un mondo post-lavoro è un’alternativa che più passa il tempo più diventa urgente» e che la sinistra contemporanea 287

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dovrebbe prepararsi all’incombente crisi del lavoro e del surplus di popolazione. Questo significa che «il progetto politico per il XXI secolo deve essere quello di costruire un’economia in cui la sopravvivenza delle persone non dipenda più dal lavoro salariato». Sono queste le preoccupazioni fondamentali che giustificano il nostro progetto: il superamento del lavoro non potrà essere basato sul continuo saccheggio e sfruttamento dei paesi più poveri da parte di quelli più ricchi, né sul dominio degli uomini eterosessuali esercitato su ogni altra identità sociale, né su quello dei bianchi sui neri. Per qualsiasi visione di un mondo post-lavoro di sinistra, si tratta di coordinate non solo basilari ma anche non negoziabili. I LIMITI DELL’ANALISI Rivolgiamoci adesso a due importanti limiti di questo libro. Il primo riguarda le preoccupazioni di carattere ecologico. È evidente che nel nostro testo i problemi del cambiamento climatico e della sostenibilità ambientale non sono stati trattati con sufficiente profondità, anche perché una risposta esauriente a queste problematiche avrebbe richiesto un intero volume a sé. Ciononostante, abbiamo provato a rendere chiaro il fatto che, secondo noi, una visione del futuro deve essere ecologicamente sostenibile, e dunque non dipendente da un’economia fondata su quell’accumulo e su quell’estrazione di risorse che finirebbero per rendere il nostro pianeta inabitabile (ecco dunque spiegata la nostra insistenza per un’economia decarbonizzata). Se la piena automazione si dimostrerà ecologicamente sostenibile dipenderà da questioni come la rimpiazzabilità dei combustibili fossili, l’espansione delle energie rinnovabili, la sostituzione delle risorse energetiche in via di esaurimento, la trasformazione di processi manifatturieri inefficienti e l’eliminazione delle pratiche lavorative basate sullo sfruttamento dei lavoratori: in altre parole, una risposta soddisfacente al problema ecologico dovrà basarsi su una vasta conoscenza tecnica e politica. 288

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Ma riteniamo anche che una politica mirata al post-lavoro abbia molto da offrire all’eterno tentativo di superare quella divisione tra una politica del lavoro basata sulla crescita economica e sull’aumento dei posti di lavoro, e una politica ambientalista basata sul controllo dell’inquinamento delle emissioni di gas serra. Il futuro post-lavoro elimina alla radice la principale motivazione per la quale abbiamo bisogno di crescita e di lavoro – ovvero, la correlazione tra reddito e lavoro salariato – e rende dunque possibile la creazione di nuovi legami tra diversi movimenti sociali. La riduzione del lavoro si tradurrà anche in un immenso risparmio del consumo energetico, con stime che indicano che, se solo gli Stati Uniti adottassero una settimana lavorativa di tipo europeo, sarebbe possibile consumare fino al 20% di energia in meno. Infine, la premessa fondamentale di una società post-lavoro è quella di applicare i miglioramenti della produttività alla diminuzione del lavoro, piuttosto che all’espansione della produzione. All’interno di un sistema capitalista la messa in pratica di questa idea sarà, naturalmente, un compito arduo: ma è proprio per questo che deve essere l’obiettivo irrinunciabile di una battaglia eminentemente politica. Il secondo limite da segnalare è che la nostra proposta si basa quasi interamente sul mondo occidentale. Come ab­biamo già notato, l’analisi della congiuntura storica presente che offriamo in questo libro tenta di essere globale, così come vorrebbe esserlo la descrizione dell’imminente crisi del lavoro. Eppure, come autori, restiamo due maschi occidentali bianchi, e la nostra esperienza è perlopiù limitata alle condizioni che caratterizzano i luoghi in cui viviamo e respiriamo: è per questo che abbiamo circoscritto la nostra analisi strategica al mondo occidentale. La nostra intenzione è però quella di evidenziare i limiti della nostra analisi e quindi rendere visibile la nostra posizione: l’unica alternativa sarebbe stata quella di affermare, 289

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con una certa hybris, di sapere meglio di chiunque altro come il resto del mondo dovrebbe e potrebbe costruire una società post-lavoro o, in altri termini, di sostenere che due uomini bianchi (noi) dovrebbero essere i leader di questo processo. Questo sarebbe in evidente conflitto con la convinzione che un’autentica modernità di sinistra «recluterebbe le voci di tutto il globo per contribuire all’obiettivo pratico di negoziare un futuro plurale e inclusivo». Il maggior limite della nostra analisi strategica è senza dubbio il suo focus sul mondo occidentale, ma riteniamo anche che questo sia un limite necessario. Ciononostante, esiste la possibilità di oltrepassare questo limite grazie al lavoro futuro, e ci auguriamo a tal proposito che altri avranno occasione di sviluppare ulteriori analisi del potere e delle nuove possibilità date dal contesto di altre società. MA CHE FOLK STAI DICENDO? Volgiamo ora la nostra attenzione a quella che, abbastanza prevedibilmente, si è rivelata essere l’idea più controversa del libro: quella di folk politics. Cerchiamo subito di chiarire un punto fondamentale: la nostra critica di quanto abbiamo definito come folk politics non deriva né dalla convinzione che altre tattiche e strategie siano intrinsecamente migliori, né da un’arbitraria idiosincrasia. Piuttosto, la nostra critica deriva dall’esperienza diretta delle battaglie politiche che hanno avuto luogo negli scorsi decenni: sono passati più di vent’anni da quando gli zapatisti entrarono nel mainstream della politica radicale, eppure nulla sembra suggerire che alcun movimento radicale recente sia riuscito a minacciare il dominio del neoliberismo (o, ancor meno, del capitalismo). Le nostre esperienze in questi movimenti, e in quel breve attimo di speranza che fu Occupy, rappresentano proprio lo stimolo che ci ha convinto a scrivere Inventare il futuro. Ai tempi abbiamo sperato che questi movimenti avessero successo, e quando così non 290

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fu rimanemmo ovviamente delusi. La nostra critica alla folk politics parte insomma da una domanda su tutte: cos’è che non ha funzionato? Non crediamo che la nostra risposta sia particolarmente innovativa: obiezioni simili sono state mosse in molte forme sia dai partecipanti stessi di quei movimenti che da critici esterni, e il nostro libro è profondamente ispirato da questa letteratura. Ciò che c’è di nuovo nel nostro punto di vista è forse il tentativo di ricondurre i problemi che hanno afflitto questi movimenti alla propensione all’immediatezza, ossia all’essenza della folk politics contemporanea (che in effetti potrebbe tranquillamente essere definita come «politica dell’immediatezza»). Quello che vediamo prevalere in varie forme in tutta la sinistra contemporanea, sia nei proclami espliciti dei teorici che nei presupposti impliciti di varie pratiche, è proprio una continua enfasi su tutto quanto è immediato, al punto che un simile atteggiamento è ormai diventato parte integrante del nostro senso comune. Questo ci porta a considerare un aspetto che ancora non ha ricevuto la giusta attenzione: quanto la folk politics sia storicamente costituita. Per quanto il problema non sia stato particolarmente evidenziato nel nostro libro (è menzionato in un solo paragrafo) la nostra idea è che la folk politics cambi nel tempo. Gradualmente, certe idee e certi valori diventano dominanti e assumono una posizione intuitiva all’interno dell’immaginazione degli attivisti. Negli anni Sessanta, in gran parte del mondo occidentale la folk politics avrebbe magari invitato alla costruzione di un partito rivoluzionario, e in futuro è certo che la folk politics cambierà ancora: potremmo ad esempio osservare come il senso comune della folk politics finirà per includere quel tipico «attivismo da click» (o clicktivism) proprio dei social media. È dunque necessario differenziare due significati di folk politics: in primo luogo, questo termine indica un senso comune politico storicamente costruito; ma d’altra parte, può anche riferirsi alla 291

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manifestazione contemporanea (oggi orientata alla politica dell’immediatezza) di questo stesso senso comune. Considerata la sua natura storica, sarebbe a questo punto corretto dire che il nostro progetto è quello di costruire una nuova folk politics. È solo oggi che la folk politics – che abbiamo definito come un «senso comune collettivo e storica­ mente costruito, che è oggigiorno completamente disconnesso dai reali meccanismi del potere» – si sovrappone a un altro significato del termine inglese «folk», quello inteso come celebrazione dei piccoli spazi e dell’autenticità, basato sulla valorizzazione dell’immediatezza. In ultima analisi, il nostro desiderio è quello di trasformare il mondo, non di avere la soddisfazione egoistica di avere ragione. Se gli eventi dovessero dimostrare che la nostra critica è sbagliata saremo più che felici di ammettere il nostro errore. In effetti, per noi la parte più essenziale di questo libro è la seconda: l’analisi del surplus di popolazione globale e la descrizione di un futuro possibile. Le quattro rivendicazioni che abbiamo elencato come essenziali per il raggiungimento di un futuro post-lavoro dovrebbero essere considerate come punti di partenza per la discussione, e non come asserzioni dogmatiche. L’umiltà è una virtù necessaria, e non possiamo affermare con certezza che le nostre critiche e le nostre soluzioni saranno adatte a ottenere i risultati sperati: il mondo è complesso, e l’assolutezza dei proclami tramite i quali molti pensatori di sinistra presentano le proprie idee viene regolarmente smentita da ripetuti fallimenti. Tornando alla nostra critica alla folk politics, pensiamo sia necessario fare tre precisazioni, senza le quali questa critica rischia di non essere pertinente. La prima è che la folk politics è una tendenza implicita, non una posizione esplicita. Questo ci porta alla considerazione cruciale su cui ci preme insistere: la folk politics non è equivalente all’orizzontalismo, all’anarchismo, alla politica prefigurativa o al localismo. Abbiamo inventato il concetto di folk politics proprio perché 292

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riteniamo che ci siano molti aspetti positivi all’interno di questi movimenti, e non era nostra intenzione attaccarli senza riserve. Al contrario, il concetto di folk politics è pensato per identificare una specifica serie di caratteristiche, e per descrivere un elemento comune dietro a tutti quei movimenti che, finora, non sono stati in grado di trasformare il mondo o di arrestare il neoliberismo. Ma, di nuovo: l’idea di folk politics non corrisponde esattamente ai concetti di orizzontalismo, anarchismo, politica prefigurativa e localismo. Se esistono specifiche pratiche che incarnano la nostra concezione di folk politics (quindi una politica basata sull’immediatezza spaziale, temporale, e concettuale), la nostra opinione è che queste siano limitate. Ma se queste caratteristiche non sussistono (vedi per esempio il modo in cui l’anarcosindacalismo si concentra sulla creazione di strutture politiche scalabili), è evidente che di folk politics non si può più parlare. Forse per rendere più chiara la nostra posizione è il caso di ricorrere a un semplice esempio. Le Black Panthers misero in atto diverse iniziative per la comunità, incentrate sull’offerta di servizi sanitari, istruzione e cibo. Si potrebbe dunque pensare che rappresentino un archetipo del pensiero «folk», vista l’attenzione riservata alle comunità locali. E invece non è affatto così: è vero che le Black Panthers concepirono questi sforzi su scala locale, ma solo come parte di una visione strategica molto più ampia. Con un’espressione meravigliosa, descrissero il loro programma come una «sopravvivenza in attesa della rivoluzione». Qui si può individuare lo sforzo di creare nuovi mezzi di riproduzione sociale – non spazi separati dalla società, né paradisi prefigurativi – utili alla più ampia lotta contro il razzismo, il capitalismo e l’imperialismo. Questa insomma non è folk politics: è una politica basata su un’analisi globale che cerca di adattare i propri sforzi alla scala di varie forme di strutture di oppressione. Ed è per questo cha abbiamo voluto precisare che «la democrazia assembleare, la politica prefigurativa e le pratiche di azione diretta, non 293

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sono fallaci in sé per sé». Le singole tattiche appartengono all’arsenale dalla folk politics solo quando vengono considerate in relazione al proprio orientamento strategico e alle proprie condizioni storiche. C’è poi un’altra precisazione da fare, utile a comprendere l’uso che abbiamo fatto di un termine come folk politics. La nostra intenzione era quella di usarlo in senso provocatorio, non dispregiativo. Questa seconda precisazione chiarisce quindi un punto centrale: non vogliamo rigettare la folk politics. Come abbiamo scritto, la folk politics «resta una componente necessaria per qualsiasi azione politica [ma] non è che un punto di partenza». La nostra critica è che, da sola, la folk politics rappresenta una strategia insufficiente, non che la folk politics sia del tutto sbagliata. E infatti plaudiamo ai risultati raggiunti dai movimenti guidati dalla folk politics, scrivendo che «i movimenti legati a Occupy hanno conseguito vittorie tangibili producendo solidarietà, dando voce agli emarginati e ai disillusi, e catalizzando l’attenzione pubblica»; in un capitolo successivo, notiamo come «operare secondo principi di democrazia diretta può aiutare a conseguire determinati obiettivi, come dare voce alla gente comune, creare un senso di volontà collettiva, e permettere l’articolazione di prospettive diverse. Può inoltre favorire il processo di costruzione di un’identità populista e dare maggior potere a un popolo che si configura come collettivo». Sono affermazioni chiaramente ben lontane da un rigetto completo della folk politics, e suggeriscono qualcosa di completamente diverso da una semplicistica opposizione tra «folk» e «modernità»: la relazione che abbiamo cercato di individuare è molto più complessa. La terza e ultima precisazione è forse la più importante al fine di comprendere i limiti della nostra critica: la folk politics è un problema soltanto per quei progetti che ambiscono a superare ostacoli su larga scala quali il capitalismo e il cambiamento climatico. Sommando questa precisazione alle due che abbiamo già fatto, si giunge all’affermazione che la politica 294

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dell’immediatezza è necessaria ma insufficiente per la trasformazione del capitalismo globale. E se questa sembra un’affermazione modesta, bene: era proprio quello il nostro scopo. LA NECESSITÀ DI UNA LEADERSHIP Un altro elemento di questo libro che sembra aver suscitato scandalo è stato il nostro insistere sulla necessità di una leadership, cosa che ha spinto più di un commentatore a invocare lo spettro del leninismo tecnocratico. Ma il nostro approccio alla questione dell’organizzazione politica è proprio basato sul rifiuto di una tale prospettiva; dipende semmai dalla nozione di «ecologia di organizzazioni», e da una precisa concezione della politica egemonica. Proviamo quindi a tentare un rapido sommario di come immaginiamo un movimento composto da un’ecologia di organizzazioni. Per cominciare, come sottolineiamo nel capitolo 8, l’architettura generale di una tale ecologia avrà una «struttura decentralizzata e interconnessa; una struttura cioè che tra gli elementi del proprio ampio network dovrà comprendere – diversamente da quanto raccomandato dalla concezione orizzontalista – anche gruppi chiusi e organizzati gerarchicamente. In breve, non esiste alcuna struttura organizzativa privilegiata. Non tutte le organizzazioni devono avere, come propri principi regolativi, la partecipazione, l’apertura, e l’orizzontalità. Le divisioni tra rivolte spontanee e organizzazioni stabili, e tra desideri a breve termine e strategie a lungo termine, hanno creato fratture all’interno di quello che dovrebbe essere un progetto coerente mirato alla costruzione di un mondo post-lavoro: la diversità organizzativa dovrebbe poter essere combinata a un’unità trasversale di carattere populista». Si noti che non vi è menzione alcuna di «avanguardie tecno-feticiste», benché siamo pronti ad ammettere che organizzazioni «clandestine» di tipo «gerarchico» possano in effetti giocare un ruolo importante. Ma la necessità della 295

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segretezza e l’inevitabilità delle gerarchie (per quanto informali) sono state riconosciute da tempo anche all’interno dei gruppi anarchici, tanto che in questo libro ci ispiriamo proprio alle loro intuizioni: ben pochi sarebbero in disaccordo con questo punto. L’idea più problematica sembra piuttosto essere quella di avanguardia, un concetto da trattare con cautela considerati i fraintendimenti che ne possono derivare. Ci sembra che la preoccupazione principale suscitata da un simile concetto riguardi il potenziale rischio che gruppi gerarchici e segreti possano assumere una leadership con la forza. Nella nostra era, in cui a dominare è la promiscuità politica e in cui un’organizzazione che voglia centralizzarsi e distaccarsi dai suoi membri è destinata al collasso, questa ci sembra un’evenienza assai improbabile. Ma per rendere chiara la nostra posizione, insistiamo nel proporre un’architettura orizzontale, il che significa che nessun singolo gruppo o organizzazione dovrebbe puntare a dominare l’intero movimento. Intendiamo piuttosto proporre quelle che, con riferimento al lavoro di Rodrigo Nunes, abbiamo chiamato «funzioni temporanee di avanguardia». Distinguendo questa nozione da altre idee tradizionali, nel suo Organisation of the Organisationless Nunes scrive che «la funzione di avanguardia differisce dalla concezione teleologica di avanguardia che dominò la tradizione marxista e che contribuì a dare forma all’avanguardismo. Questa è oggettiva nella misura in cui, una volta che il cambiamento da essa introdotto viene propagato, può essere identificata come la causa di un numero sempre maggiore di effetti. Ma non è obiettiva nel senso di una determinazione transitiva, che verrebbe resa necessaria da leggi storiche, tra una posizione oggettivamente definita (classe, frazione di classe) e una rottura politica soggettiva (coscienza, evento). La funzione di avanguardia è simile a ciò che Deleuze e Guattari hanno chiamato “la linea di fuga della deterritorializzazione” all’interno di un assembramento 296

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o di una situazione, capace di aprire una strada che, una volta comunicata agli altri, può diventare qualcosa da seguire, da dirottare, a cui resistere, e così via». Procedendo in una formulazione più concreta, questo per Nunes significa che «la leadership emerge come un evento in quelle situazioni in cui alcune iniziative riescono momentaneamente a concentrare e strutturare l’azione collettiva attorno a un obiettivo, un luogo, o un tipo di azione. Queste possono assumere diverse forme, a diverse scale e livelli, più o meno “spontanee”. Potrebbe dunque trattarsi della folla in una protesta che, all’improvviso, decide di seguire un gruppo in un cambio di direzione, o di un piccolo gruppo di persone che decide di accamparsi in un luogo attraendo così migliaia di altri partecipanti, o ancora di un nuovo sito internet che riesce ad attirare l’attenzione di molti visitatori come dei grandi media, e via di questo passo. La caratteristica più importante della leadership distribuita è precisamente il fatto che, in principio, essa può avere origine in qualsiasi luogo; non solo da chiunque (per la gioia della sensibilità ugualitaria degli attivisti), ma letteralmente ovunque». Consigliamo la lettura di questo libro, che rappresenta una splendida analisi di come la leadership abbia funzionato in Occupy e in movimenti simili. L’avanguardia, secondo l’analisi di Nunes, non è scomparsa: è stata semplicemente distribuita e resa mobile. Cosa significa questo nella pratica? Prendiamo un esempio capace di chiarire una questione tanto complessa: il movimento #BlackLivesMatter. In questo caso abbiamo potuto osservare l’emergere di un’avanguardia tramite i social media, con l’improvvisa popolarità dell’hashtag in seguito all’omicidio di Trayvon Martin. Dopo la morte di Michael Brown per mano di un poliziotto gli abitanti di Ferguson sono diventati un’avanguardia nelle strade, respingendo la violenza dello Stato e innalzando il movimento a un nuovo livello di intensità. Questo è stato anche amplificato 297

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dai social media, portando alla nascita di un movimento su scala nazionale (e in seguito internazionale). Dopo il brutale omicidio di Freddie Gray, i cittadini di Baltimora sono diventati la nuova avanguardia: la lotta si è così estesa, guidata dai manifestanti nelle strade. Al momento in cui scriviamo, il movimento sembra però correre un altro rischio: quello di essere cooptato da un gruppo di leader «politicamente rispettabili». Non è dunque chiaro, al momento, se e dove questa leadership condurrà il movimento, o se emergeranno altri leader, in strada o in altri luoghi. Questo è avanguardismo, ma certo non del tipo che in tanti temono. Vorremmo addirittura suggerire che si tratta anzi di un concetto piuttosto umile, sensibile alle realtà dell’attivismo di strada e consapevole dei più vasti problemi di pianificazione strategica. Ci sembra dunque che sia questo il modo in cui la leadership funzioni all’interno dei movimenti sociali contemporanei: il nostro obiettivo è di esplicitare questo punto, e di provare a elevare il dibattito riguardo al problema della leadership verso una maggiore sofisticazione. Gli anarchici avrebbero molto da aggiungere, considerato che questi argomenti sono stati discussi a lungo nei loro circuiti. Il nostro contributo vuole suggerire che una discussione di questo tipo andrebbe estesa al livello di un’intera ecologia di organizzazioni, e non limitata all’interno delle organizzazioni singole. Questo incoraggerebbe la formulazione di domande del tipo: come sarà possibile ottenere una leadership nei movimenti sociali capace di condurre a un’espansione su nuove scale, senza per questo instaurare leader permanenti e illegittimi? Cos’altro può garantire la coerenza di un movimento, se non un’avanguardia centrale o un leader capace di imporre unità? La risposta che diamo in questo libro è: il futuro. O meglio, l’adesione condivisa alla visione di un mondo diverso e più desiderabile. Questa visione non può essere imposta a nessuno, ma piuttosto «richiede un costante processo di 298

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rinegoziazione delle differenze e dei particolarismi, nel tentativo di stabilire un linguaggio e un programma in comune e per controbilanciare l’esistenza di forze centrifughe». Costruire una controegemonia significa svolgere il difficile compito di costruire e mantenere un progetto comune e collettivo all’interno delle differenze tra individui, e cercando di negoziare tra di loro. È anche cruciale che venga ben compreso cosa intendiamo per egemonia. Con il termine, che abbiamo introdotto nel capitolo 7, non intendiamo un sistema di dominio: questa interpretazione è un errore comune che non coglie le sottigliezze del concetto e la storia del suo sviluppo da Gramsci a oggi. In effetti l’egemonia dovrebbe essere compresa come una modalità dell’esercizio del potere, complessa ed emergente, che dipende dalla capacità che i gruppi sociali hanno di influenzarsi a vicenda in maniera indiretta e frammentaria. Questa influenza può assumere diverse forme, dal dibattito razionale ai richiami emotivi, dalle pratiche educative ai codici culturali, dalle narrazioni offerte dai media fino alle architetture dell’economia e delle infrastrutture. L’egemonia, se compresa in questo modo, deriva dall’interazione e dalle pratiche di un vasto numero di gruppi, attori e organizzazioni all’interno della società: l’egemonia non appiattisce le differenze, ma emerge dallo scambio tra le diversità. Un’altra dimensione decisiva di una prospettiva politica egemonica è l’idea che nessun progetto politico su larga scala possa procedere appellandosi soltanto a coloro che già sono convinti dei suoi meriti. Contro questa prospettiva, abbiamo visto come alcuni sostengono che modificare i desideri delle persone significhi di fatto infrangere la loro libertà. Eppure ci sembra ovvio che modificare i desideri, le convinzioni e i comportamenti di razzisti, sessisti, fascisti e capitalisti sia una parte essenziale di un progetto politico di sinistra. A dirla tutta, l’unico modo per comprendere appieno i successi di un movimento è valutarne la capacità di ottenere trasformazioni 299

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del «senso comune» pubblico su larga scala, e dunque di saper modificare i desideri delle persone. Per esempio, nel Regno Unito l’ostilità pubblica nei confronti delle dichiarazioni apertamente omofobe è un risultato che è stato reso possibile da un lungo progetto egemonico mirato a modificare il modo di pensare delle persone. Questo avviene in parte tramite mezzi espliciti, ma anche grazie ad altri metodi, da soluzioni legislative al linguaggio scelto dai media per la narrazione dei fatti di cronaca, il tutto reso possibile da campagne di sensibilizzazione durate decenni. Agendo assieme questi metodi permettono la creazione di un ambiente differente, all’interno del quale i soggetti vengono formati. È anche utile prendere in considerazione quale sarebbe l’alternativa a un simile atteggiamento: questa interpreterebbe le persone come essenzialmente inerti e immutabili, e considererebbe come unico obiettivo davvero ottenibile la creazione di gruppi ristretti di persone con interessi comuni, vale a dire una forma di separatismo. È una posizione che fa affidamento quasi esclusivamente sulle rivolte spontanee, e che porterebbe non solo al fallimento, ma anche a un’accettazione acritica di forme sociali e categorie essenzialiste. A noi sembra che una politica di sinistra degna di questo nome non possa che rigettare una simile posizione. I successi dei movimenti antirazzisti, femministi e queer dipendono dalla loro (implicita) adozione di un progetto egemonico mirato a modificare le condizioni sociali all’interno delle quali le persone maturano convinzioni, opinioni e desideri. Questo processo di trasformazione non può essere compreso soltanto come una faccenda di imposizione; al contrario, la politica egemonica opera riorientando le tendenze, i desideri, le opinioni e le convinzioni delle persone, lavorando su ciò che è disponibile al momento con l’obiettivo di operare una trasformazione graduale. È in questo senso che la politica egemonica ha bisogno di «leadership»: non nel senso di leader individuali, ma nel senso di essere in grado di cambiare 300

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le condizioni che determinano la traiettoria delle società, trasformando i mezzi attraverso i quali i soggetti (e i loro desideri) vengono articolati e modellati. E questa è politica, pura e semplice. Infine è obbligatorio un commento sul nostro appello a creare una Mont Pelerin Society per la sinistra. Si tratta di un’idea intenzionalmente controversa, anche se di recente è stata difesa da figure come Philip Mirowski e Owen Jones. Ma la storia del neoliberismo è l’unico e miglior esempio di cambiamento ideologico avvenuto nel XXI secolo: è per questo che troviamo le strategie del neoliberismo interessanti per capire come questi movimenti di potere avvengono su scala globale. Diverse reazioni al nostro libro ci hanno accusato di proporre una specie di Mont Pelerin avanguardista per la sinistra: da quanto abbiamo appena detto dovrebbe emergere chiaramente che così non è. Abbiamo d’altronde specificato che «la proposta di un Mont Pelerin per la sinistra non dovrebbe insomma essere semplicemente intesa come un invito a replicare pedissequamente i metodi operativi del neoliberismo». Al contrario, abbiamo identificato tre elementi che potrebbero rivelarsi utili per la sinistra: la sua enfasi su una visione a lungo termine, la sua intenzione e capacità di costruire metodi di espansione globale, e la flessibilità pragmatica e strategicamente controegemonica, capace di unire un’ecologia di organizzazioni con una varietà di interessi diversi. Non diamo alcun valore agli aspetti elitisti e avanguardisti della Mont Pelerin Society. Come abbiamo scritto, «in un mondo dominato dalla complessità, nessuno può avere una visione privilegiata del tutto». La sfida che un Mont Pelerin della sinistra dovrebbe affrontare sarebbe dunque quella di elaborare un modo di mettere in pratica questi ideali – una visione del futuro, una strategia espansionistica, un’ideologia flessibile – in forme nuove, capaci di evitare l’avanguardismo d’élite che caratterizzò la Mont Pelerin Society e di rispondere alle 301

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esigenze della sinistra attuale (come, per esempio, la mancanza di quelle risorse a cui invece la MPS poté attingere). COSTRUIRE FUTURI Ci sono molti altri problemi che non abbiamo potuto affrontare, ma questa nostra risposta è già piuttosto lunga, e siamo certi che ormai i lettori saranno in grado di trarre le proprie conclusioni riguardo ai temi che abbiamo toccato. Vorremmo quindi concludere parlando del futuro, e in particolare della relazione tra il futuro in generale e la nostra particolare visione di un futuro post-lavoro. Nel capitolo sulla modernità di sinistra ci siamo riferiti coscientemente e con regolarità a un futuro le cui visioni sono tutte al plurale: «Altri tipi di modernità sono possibili, e nuove visioni del futuro sono essenziali [per la sinistra]». Poco dopo abbiamo insistito che «immaginare dei futuri possibili è la condizione indispensabile per organizzare una risposta efficace al capitalismo». E ancora, abbiamo scritto che una modernità di sinistra «sarebbe finalmente una modernità ambiziosa, capace di produrre visioni di un futuro migliore». Se nella prima parte usiamo spesso la forma plurale, in seguito ci siamo concentrati su una specifica ipotesi, quella di un futuro post-lavoro. La seconda metà del libro difende in effetti la plausibilità di questa particolare visione del futuro: abbiamo sostenuto che un futuro senza lavoro è un obiettivo desiderabile, e il nostro tono risoluto deriva dalla forza di questa nostra convinzione. Ma siamo consapevoli dal fatto che questa non è l’unica visione possibile, e dunque abbiamo insistito sulla necessità di «riconoscere l’agire di coloro che sono al di fuori dei confini dell’Europa, e ribadire l’importanza delle loro voci per la costruzione su scala planetaria di un futuro genuinamente universale». Ci poniamo poi all’interno di un più ampio dibattito: «Una visione coerente del futuro è invece in grado di avanzare proposte e obiettivi concreti, e [questo libro] vuole appunto contribuire a questa potenziale 302

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discussione». In certi casi abbiamo difeso la nostra visione di un futuro post-lavoro ricorrendo a una retorica forte, ma è un’insistenza che dovrebbe essere stata temperata dai nostri ripetuti avvertimenti: «Ogni particolare rappresentazione della modernità deve essere aperta a un processo di creazione collettiva, così come alla sua successiva trasformazione e alterazione». Dopotutto, il progetto esposto in questo libro non è altro che un invito. Le nostre richieste e rivendicazioni «non danno per scontato chi si attiverà per portarle avanti». Speriamo insomma che quelli che verranno persuasi dalla proposta di una politica post-lavoro vorranno costruire sulle basi del progetto che abbiamo qui avanzato riempiendo le sue lacune, estendendolo versi nuovi orizzonti, e cercando di creare connessioni con altre battaglie. Il futuro non si può inventare da soli.

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Ringraziamenti Inventare il futuro è stato scritto non da due autori, ma da molti. Per l’assistenza fornitaci durante la sua preparazione vorremmo ringraziare: Alex Andrews, Armen Avanessian, Diann Bauer, Ray Brassier, Benjamin Bratton, Harry Cleaver, Nathan Coombs, Michael Ferrer, Mark Fisher, Sam Forsythe, Dominic Fox, Lucca Fraser, Craig Gent, Jeremy Gilbert, Fabio Gironi, Jairus Grove, Doug Henwood, Aggie Hirst, Amy Ireland, Joshua Johnson, Robin Mackay, Suhail Malik, Keir Milburn, Reza Negarestani, Matteo Pasquinelli, Patricia Reed, Rory Rowan, Michal Rozworski, Mohammed Salemy, Robbie Shilliam, Ben Singleton, Keith Tilford, James Trafford, Deneb Kozikoski Valereto, Pete Wolfendale, e le innumerevoli altre persone che, attraverso moltissime discussioni, hanno aiutato il libro ad assumere la forma attuale. Vorremmo anche ringraziare il team di Verso che ci ha aiutato a migliorare il libro nel corso del processo editoriale: Rowan Wilson, Mark Martin e Charles Peyton. Infine, Nick vorrebbe ringraziare la sua famiglia per il sostegno costante, e Helen Hester per il suo inestimabile contributo, dalle più piccole correzioni grammaticali ai più grandi problemi concettuali. Alex vorrebbe ringraziare la sua famiglia per il supporto e i consigli ricevuti, e Francesca Peck per la pazienza e il suo incrollabile incoraggiamento intellettuale.

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Note INTRODUZIONE 1. John Maynard Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti, Adelphi 2009; George Young, I cosmisti russi. Il futurismo esoterico di Nikolaj Fedorov e dei suoi seguaci, Tre 2017; Mark Dery, «Black to the Future: Interviews with Samuel R. Delany, Greg Tate and Tricia Rose», in Flame Wars: The Discourse of Cyberculture, Duke University Press 1994; Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi, Guaraldi 1976. 2. Per altri esempi di questa posizione si vedano: Franco «Bifo» Berardi, Dopo il futuro, DeriveApprodi 2013; T.J. Clark, «For a Left with No Future», in New Left Review marzo/aprile 2012; Fernando Coronil, «The Future in Question: History and Utopia in Latin America», in Craig Calhoun e Georgi Derluguian (a cura di), Business as Usual: The Roots of the Global Financial Meltdown, New York University Press 2011. Oppure, usando le parole di un recente intervento, «il futuro non ha futuro»: Il comitato invisibile, L’insurrezione che viene, 2010. CAPITOLO 1 1. Dave Mitchell, «Stuff White People Smash», apparso su rabble.ca il 26 giugno 2011. 2. È significativo che la ragione principale del fallimento delle negoziazioni in corso al WTO di Doha sia da ricercarsi nella divisione tra gli Stati, più che in un qualsiasi movimento di resistenza. 3. Altri punti di vista interni del dibattito occorso in Occupy sulla questione delle richieste possono essere trovati in Astra Taylor e Keith Gessen (a cura di), Occupy! Scenes from Occupied America, Verso 2011. Per una critica dettagliata alla posizione del «nessuna richiesta» vedi Marco Deseriis e Jodi Dean, «A Movement Without Demands?», apparso su possible-futures.org il 2 gennaio 2012. 4. Zach Schwartz-Weinstein, «Not Your Academy: Occupation and the Future of Student Struggles», in A.J. Bauer, Christina Beltran, Rana Jaleel e Andrew Ross (a cura di), Is This What Democracy Looks Like?, Social Text E-Book 2012, reperibile su what-democracy-looks-like.com. Per un intervento che traccia il peso sempre minore delle rivendicazioni concrete avanzate dagli studenti durante l’occupazione della University College London nel 2010, vedi Guy Aitchison, «Reform, Rupture, or Re-Imagination: Understanding the Purpose of an Occupation», in Social Movement Studies 10:4, 2011, pag. 431-9. 5. I lavori di Hakim Bey sono probabilmente i più famigerati tra quelli che trattano l’autosufficienza delle proteste autonome. Vedi Hakim Bey, T.A.Z. – Zone Temporaneamente Autonome, Shake 1996. E anche Jeremy Gilbert, AntiCapitalism and Culture: Radical Theory and Popular Politics, Berg 2008, pag. 203-9, per una critica comprensiva dall’interno dei movimenti sociali sui pericoli dell’«immaginario attivista». 6. Linda Polman, L’industria della solidarietà, Bruno Mondadori 2009. 7. Radix, «Fracking Sussex: The Threat of Shale Oil & Gas», Frack Off 2013, reperibile su frack-off.org.uk. La forza che più ha osteggiato il fracking è stato il mercato stesso, con il recente abbassamento dei costi del petrolio. 8. Eviction Free Zone, «Direct Action, Occupy Wall Street, and the Future of 307

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Housing Justice: An Interview with Noam Chomsky», 2013, su libcom.org. Adam Gabbat, «Occupy Wall Steet Activists Buy $15m of Americans’ Personal Debt», Guardian, 12 novembre 2013. Paul Mason, Live Working or Die Fighting: How the Working Class Went Global, Vintage 2008. Stephen Stich, Dalla psicologia del senso comune alla scienza cognitiva, Il Mulino 1994; Patricia Churchland, L’Io come cervello, Raffaello Cortina 2014. Mentre vorremmo qui tratteggiare una pur vaga analogia con la tradizione neurofilosofica, non vogliamo affatto affermare che la folk politics sia in alcun modo un parto della psicologia popolare. Piuttosto, la nostra critica è centrata sulla nozione del fatto che l’insorgenza di determinati fenomeni è insieme necessaria e ingannevole quanto la realtà dei modi in cui i sistemi operano. Per una storia di questo «repertorio della contesa» vedi Charles Tilly, Social Movements 1768-2004, Paradigm 2004. James Doward, Tracy McVeigh, Mark Townsend e Matthew Taylor, «March for the Alternative Sends a Noisy Message to the Government», Guardian, 26 marzo 2011. Liza Featherstone, Doug Henwood e Christian Parenti, «Left Anti-Intellectualism and Its Discontent», in Eddie Yuen, George Katsiaficas e Daniel Burton Rose (a cura di), Confronting Capitalism: Dispatches from a Global Movement, Soft Skull 2004. Bey, T.A.Z. Paul Davidson, The Keynes Solution: The Path to Global Economic Prosperity, Palgrave Macmillan 2009. Il comitato invisibile, L’insurrezione che viene, 2010. Greg Sharzer, No Local: Why Small-Scale Alternatives Won’t Change the World, Zero 2012. Ernst Schumacher, Piccolo è bello, Slow Food 2010. Taylor e Gessen, Occupy! Richard J.F. Day, Gramsci è morto. I nuovi movimenti dall’egemonia all’affinità, Elèuthera 2013; Jon Beasley-Murray, Posthegemony: Political Theory and Latin America, University of Minnesota Press 2010. Justin Healey, Ethical Consumerism, Spinney 2013. James Ladyman, James Lambert e Karoline Wiesner, «What Is a Complex System?», in European Journal for Philosophy of Science 3: 1, 2013, pag. 33-67. Susan Buck-Morss, «Envisioning Capital: Political Economy on Display», in Critical Inquiry 21: 2, 1995, pag. 434-67. Fredric Jameson, «Cognitive Mapping», in C. Nelson e L. Grossberg (a cura di), Marxism and the Interpretation of Culture, University of Illinois Press 1990. Ibid. Schumacher, Piccolo è bello; Carl Honoré, Elogio della lentezza, rallentare per vivere meglio Rizzoli 2014. Rosa Luxemburg, The Essential Rosa Luxemburg: Reform or Revolution and the Mass Strike, Haymarket 2008. Friedrich Hayek, La via della schiavitù, Rubbettino 2011; «The Theory of Complex Phenomena», in Michael Martin e Lee McIntyre (a cura di), Readings in the Philosophy of Social Science, MIT Press 1964. 308

NOTE

30. Questa è una domanda cruciale nel dibattito sui calcoli socialisti. Vedi Oskar Lange e Fred M. Taylor, On the Economic Theory of Socialism, McGraw-Hill 1964; Fikret Adaman e Pat Devine, «The Economics Calculation Debate: Lessons for Socialists», Cambridge Journal of Economics 20: 5, 1996; Allin Cottrell e Paul Cockshott, «Calculation, Complexity and Planning: The Socialist Calculation Debate Once Again», in Review of Political Economy 5: 1, 1993. 31. È importante notare qui come «sinistra» sia un termine fondamentalmente artificiale, ma senz’altro utile, usato per descrivere un universo di forze politiche e sociali incredibilmente vario e potenzialmente contraddittorio. Per una discussione completa sulle origini della distinzione tra destra e sinistra nella Francia postrivoluzionaria vedi Marcel Gauchet, «Right and Left», in Lawrence Kritzman (a cura di), Realms of Memory: Conflicts and Division, Columbia University Press 1997. Tanto per chiarirci, consideriamo oggi «sinistra», nel suo senso più largo, i seguenti movimenti, posizioni e organizzazioni: socialismo democratico, comunismo, anarchismo, libertarismo di sinistra, anti-imperialismo, antifascismo, antirazzismo, anticapitalismo, femminismo, autonomia, sindacalismo, movimento queer e una gran parte del movimento ecologista, nei suoi vari gruppi alleati o ibridati con le categorie precedenti. La possibile concordanza tra queste diverse forze è una questione legata alle costruzioni o alle articolazioni politiche, più che un qualcosa di naturale o predeterminato. 32. Gerassimos Moschonas, In the Name of Social Democracy: The Great Transformation, 1945 to Present, Verso 2002, pag. 15-17; John Gerard Ruggie, «International Regimes, Transaction and Change: Embedded Liberalism in the Postwar Economic Order», International Organization 36: 2, 1982. 33. Dopo la sconfitta del Sessantotto ci fu un breve ritorno del classico pensiero rivoluzionario maoista e leninista. Questi tentativi di rilanciare rispetto alle forme tradizionali di organizzazione rimasero numericamente marginali e finirono per fallire. Per una storia di questo momento storico in America vedi Max Elbaum, Revolution in the Air: Radicals Turn to Lenin, Mao and Che, Verso 2016. 34. Moschonas, In the Name of Social Democracy, pag. 35-6. 35. Per una critica femminista di questi modelli di organizzazione vedi Jo Freeman, The Tyranny of Structurelessness, 1970, reperibile su struggle.ws. 36. Martin Klimke e Joachim Scharloth, 1968 in Europe: A History of Protest and Activism, 1956-77, Macmillan 2008. 37. Ibid. 38. Giovanni Arrighi, Terrence Hopkins e Immanuel Wallerstein, Antisystemic Movements, Verso 1989, pag. 45-7. 39. Ibid. 40. Peter Starr, Logics of Failed Revolt: French Theory After May ’68, Stanford University Press 1995. 41. Grant Kester, «Lessons in Futility: Francis Alÿs and the Legacy of May ’68», in Third Text 23: 4, 2009. 42. Gilbert, Anti-Capitalism and Culture, pag. 23-4. 43. Daniel Yergin, Il premio: l’epica corsa al petrolio, al potere e al denaro, Sperling & Kupfer 1991; Barry J. Eichengreen, Global Imbalances and the Lessons of Bretton Woods, MIT Press 2007. 44. Geoffrey Barlow, The Labour Movement in Britain from Thatcher to Blair, Peter 309

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46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55.

Lang 2008. A testimonianza del successo neoliberale nella demolizione del potere dei sindacati, la densità di popolazione in età lavorativa iscritta ai sindacati nelle nazioni OCSE passò dal 34,1 al 20,4 tra 1980 e 2000. OCSE, «Trade Union Density», OECD Stat Extracts, su stats.oecd.org David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore 2007. Ibid. Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza 2005. Tim Jordan, Azione diretta! Le nuove forme della disobbedienza radicale, Elèuthera 2003. Kimberlé Crenshaw, «Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics», in University of Chicago Legal Forum 140, 1988. Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex: The Case for Feminist Revolution, Morrow 1970; Mandy Merck e Stella Sandford (a cura di), Further Adventures of the Dialectic of Sex: Critical Essays on Shulamith Firestone, Macmillan 2010. Vedi, per esempio, James A. Geschwender, Class, Race and Worker Insurgency, Cambridge University Press 1977. Amory Starr, Naming the Enemy: Anti-Corporate Movement Confront Globalization, Zed 2000. Jordan, Azione diretta!; Taylor e Gessen, Occupy! Questo lavoro ha l’intento di espandere quanto precedentemente proposto nel Manifesto per una politica accelerazionista. Abbiamo evitato di usare il termine «accelerazionismo» in questo libro a causa delle controversie interpretative generate da quel concetto, non perché non vi crediamo più o altro. Per approfondire vedi Alex Williams e Nick Srnicek, «#Accelerate: Manifesto for an Accelerationist Politics», in Robin Mackay e Armen Avanessian (a cura di), #Accelerate: The Accelerationist Reader, Urbanomic 2014.

CAPITOLO 2 1. Queste posizioni possono essere rintracciate nelle varie accuse al movimento Occupy sul suo essere troppo liberale. A tal proposito vedi Mark Bray, «Five Liberals Tendencies that Plagued Occupy», in Roar Magazine, 14 marzo 2014, reperibile su roarmag.org. Argomenti simili sono già stati usati in passato. Lo stesso Marx, per esempio, pensava che i contadini fossero una base insufficiente alle politiche rivoluzionarie, e che soltanto la classe lavoratrice industriale avrebbe avuto interessi in linea col pensiero comunista. La nostra posizione è che, indipendentemente dalle connotazioni di classe dell’orizzontalismo, del localismo e delle altre folk politics, si tratta comunque di fenomeni costretti dalla nozione di immediatezza spaziale, temporale e concettuale. Anna Feigenbaum, Fabian Frenzel e Patrick McCurdy, Protest Camps, Zed 2. 2013, pag. 159. Occorre osservare come orizzontalismi alternativi fossero presenti nelle politiche di sinistra già da prima di inizi Settanta, con dei precetti proto-orizzontalisti già intuibili nell’anarchismo del XIX secolo così come in altri movimenti precedenti. 3. In questo capitolo non tratteremo la lunga storia del movimento anarchico, al fine di concentrarci sull’orizzontalismo come incarnazione contemporanea di 310

NOTE

alcuni suoi principi e pratiche. 4. John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi, Intra Moenia 2004. 5. Richard Day, Gramsci è morto. I nuovi movimenti dall’egemonia all’affinità, Elèuthera 2013. Vedi anche Jon Beasley-Murray, Posthegemony: Political Theory and Latin America, University of Minnesota Press 2010. 6. L’impegno per le decisioni consensuali non è sempre un obiettivo esplicito dell’orizzontalismo in sé, ma è piuttosto una via popolare e contemporanea di incarnare un’orizzontalità procedurale nella pratica. Alcune forme di anarchismo, come per esempio il «piattaformismo» sudamericano, sfuggono esplicitamente al processo decisionale condiviso. 7. Uri Gordon, Anarchy Alive! Anti-Authoritarian Politics from Pratice to Theory, Pluto 2007, pag. 20. 8. Pur rimanendo poco convinti delle prospettive su larga scala della democrazia diretta e delle sue forme decisionali faccia a faccia e/o consensuali, ciò non preclude, naturalmente, un ragionamento su come possa essere concepita la democrazia partecipativa in forme sempre più complesse e tecnologicamente mediate. 9. Murray Bookchin, Democrazia diretta, Elèuthera 2015. 10. Ibid. 11. Manuel Castells, Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di internet, Università Bocconi Editore 2012. 12. Si crede generalmente che l’origine delle forme decisionali consensuali tipiche dell’attivismo di sinistra contemporaneo siano da ricercare nel movimento religioso quacchero di circa trecento anni fa. Tali procedure furono infatti introdotte da partecipanti quaccheri nelle manifestazioni contro il nucleare. L.A. Kauffmann, «The Theology of Consensus», in Astra Taylor e Keith Gessen (a cura di), Occupy! Scenes from Occupied America, Verso 2012. 13. Marina Sitrin, «Occupy: Making Democracy a Question», in Federico Campagna ed Emanuele Campiglio (a cura di), What Are We Fighting For: A Radical Collective Manifesto, Pluto 2012, pag. 86-87. 14. Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza 2005. 15. Kauffmann, «Theology of Consensus». 16. Federico Campagna ed Emanuele Campiglio, «What Are We Struggling For?», in Campagna e Campiglio, What Are We Fighting For?, pag. 5. 17. Murray Bookchin, Democrazia diretta. 18. South London Solidarity Federation, «Direct Action and Unmediated Struggle», in Campagna e Campiglio, What Are We Fighting For?, pag. 192. 19. Probabilmente la più nota forma di azione diretta, ovvero lo sciopero generale, è stata l’arma più potente a disposizione dei movimenti dei lavoratori nel XIX e nel XX secolo, e rimane uno strumento importantissimo ancora oggi, se usato in maniera appropriata. Ma questo richiede perlopiù una scala ampia (che cioè contempli una dimensione nazionale o industriale) nonché persistenza, solidarietà, un’adesione numericamente consistente e un sistema abbastanza organizzato per sovvenzionarlo. La struttura stessa dei movimenti orizzontalisti spesso lavora contro il successo di simili tattiche. 20. Feigbaum et al., Protest Camps, pag. 161. 311

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Il successo relativo degli egiziani, dei tunisini e degli islandesi nel mettere in atto pratiche di occupazione deriva da una varietà di condizioni che li differenziarono molto dalle condizioni di partenza dei movimenti europei e nordamericani: per esempio, la condizione di relativa omogeneità religiosa ed etnoculturale della Tunisia e dell’Islanda; i forti legami tra le occupazioni e altre forme di resistenza istituzionale in tutti e tre i paesi; la diversa (e più visibile) repressione statale in Tunisia ed Egitto; la piccolezza dell’Islanda (insieme al tentativo consapevole di esprimere il movimento in termini parlamentari); e gli ostacoli emotivi (ovvero la paura) che andavano superati in Egitto e in Tunisia. Per queste e altre ragioni è in questi paesi che tali tattiche hanno avuto maggior successo. Research and Destroy, «The Wreck of the Plaza», Research and Destroy, 14 giugno 2014, reperibile su researchanddestroy.wordpress.com. Josh MacPhee, «A Qualitative Quilt Born of Pizzatopia», in Kate Khatib, Margaret Killjoy e Mike McGuire (a cura di), We Are Many: Reflections on Movement Strategy from Occupation to Liberation, AK Press 2012, pag. 27. Taylor e Gessen, Occupy! George Ciccariello-Maher, «From Oscar Grant to Occupy: The Long Arc of Rebellion in Oakland» in Khatib et al., We Are Many, pag. 42. Manuel Castells, Reti di indignazione e speranza. Feigenbaum, Protest Camps, pag. 35. Ibid. Ibid. Vedi, per esempio, l’Australian Tent Embassy montata sulle terre degli aborigeni (ibid.); Castells, Reti di indignazione e speranza. Lester Spence e Mike McGuire, «Occupy and the 99%», in Khatib et al., We Are Many, pag. 58. Raul Zibechi, «Latin America Today, Seen From Below», Upside Down World, 26 giugno 2014, reperibile su upsidedownworld.org, pag. 42-4. Potremmo insomma dire che, mentre i movimenti politici e sociali spontaneisti che durano un periodo relativamente breve hanno un loro ruolo, una politica che si basa esclusivamente su tali espressioni troverà molto difficile smantellare e rimpiazzare nel lungo termine quei fenomeni che caratterizzano il capitalismo avanzato. Anton Pannekoek, Workers’ Council, AK Press 2003; Gregory Fossedal, Direct Democracy in Switzerland, Transaction 2007; Keir Milburn, «Beyond Assemblysm: The Processual Calling of the 21st Century Left», in Shannon Brincat, Communism in the 21st Century, Volume 3: The Future of Communism, Praeger 2013. Isabel Ortiz, Sara Burke, Mohamed Berrada e Hernan Cortes, World Protests 2006-2013, Initiative for Policy Dialogue e Friedrich-Ebert-Stiftung 2013, pdf reperibile su fes-globalization.org. Michael Albert, Oltre il capitalismo. Un’utopia realistica, Elèuthera 2007. Samuel Farber, «Reflections on “Prefigurative Politics”», su International Socialist Review, marzo 2011, reperibile su isreview.org. Jane McAlevey, Raising Expectations (And Raising Hell): My Decade Fighting for the Labour Movement, Verso 2014, pag. 11. Not An Alternative, «Counter Power As Common Power», in Journal of Aes312

NOTE

thetics and Protest 9, 2014, reperibile su joaap.org. 39. Martin Gilens e Benjamin Page, «Testing Theories of American Politics: Elites, Interest Groups, and Average Citizens», in Perspectives on Politics 12: 3, 2014. 40. Rodrigo Nunes, Organisation of the Organisationless: Collective Action After Networks, Mute 2014, pag. 36. 41. David Graeber, Frammenti di antropologia anarchica, Elèuthera 2006. 42. Helen Hester, «Synthetic Genders and the Limits of Micropolitics», …ment 6, 2015. 43. Marco Deseriis e Jodi Dean, «A Movement Without Demands?», Possible Futures, 3 gennaio 2012, reperibile su possible-future.org. 44. Noam Chomsky, Occupy, Penguin 2012, pag. 58. 45. Not An Alternative, «Counter Power as Common Power». 46. Ibid. 47. Jeroen Gunning e Ilan Zvi Baron, Why Occupy a Square? People, Protests and Movements in the Egyptian Revolution, Hurst 2013, pag. 180-1. 48. Ibid. 49. Hakim Bey, T.A.Z. – Zone temporaneamente autonome, Shake 1996. 50. «Communiqué from an Absent Future», We Want Everything, 24 settembre 2009, reperibile su wewanteverything.wordpress.com, pag. 19. 51. Deseriis e Dean, «A Movement Without Demands». 52. Vedi, per esempio, le riflessioni sui villaggi del movimento religioso shaker in Theodore Schatzki, The Site of the Social: A Philosophical Account of the Constitution of Social Life and Change, Pennsylvania State University 2002. 53. Farber, «Reflections on “Prefigurative Politics”». 54. Bruno Bosteels, «The Mexican Commune», reperibile su academia.edu, pag. 12. 55. Si tratta di un vecchio problema, spesso tirato in ballo nei dibatti tra anarchismo e marxismo. Vedi, per esempio, la riflessione sull’anarchismo e sul comunismo in Messico in ibid. 56. Il comitato invisibile, L’insurrezione che viene. 57. Spence e McGuire, «Occupy and the 99%», pag. 61. 58. Paul Mason, Why It’s Kicking Off Everywhere: The New Global Revolutions, Verso 2012, pag. 63. 59. Di fronte all’emergere di Occupy, McKenzie Wark pose una domanda memorabile: «Come potete occupare un’astrazione?» Vedi McKenzie Wark, «How to Occupy an Abstraction», reperibile su versobooks.com. 60. R.I.M. Dunbar, «Neocortex Size as a Costraint on Group Size in Primates», Journal of Human Revolution 22: 6, 1992. 61. Per uno studio più completo vedi Marina Sitrin, Everyday Revolutions: Horizontalism and Autonomy in Argentina, Zed 2012. 62. Silvia Federici, «Feminism, Finance and the Future of #Occupy – An Interview», Znet, 26 novembre 2011, reperibile su zcomm.org. 63. Un problema simile si produsse nelle assemblee generali di Occupy Wall Street. Milburn, «Beyond Assemblyism», pag. 191; Sitrin, Everyday Revolutions, pag. 67-8. 64. Sitrin, Everyday Revolutions, pag. 130; Juan Alcorta, «Solidarity Economies in Argentina and Japan», Studies of Modern Society 40: 12, 2007, pag. 270. 65. Farber, «Reflections on “Prefigurative Politics”». 66. Si stima che, una volta che la situazione si riprese, l’economia del baratto 313

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passò dall’essere usata da un numero che stava tra un milione e due milioni e mezzo di persone, a soltanto 100.000. Alcorta, «Solidarity Economies», pag. 272-3; Sitrin, Everyday Revolutions, pag. 77. 67. Feigenbaum et al., Protest Camps, pag. 159. 68. Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi. 69. Ernst Schumacher, Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Mursia 2010. 70. Philip Blond, Red Tory: How Left and Right Have Broken Britain and How We Can Fix It, Faber & Faber 2010. 71. Justin Healey, Ethical Consumierism, Spinney 2013. 72. Uri Gordon, Anarchy Alive! Anti-Authoritarian Politics from Pratice to Theory, Pluto 2007. 73. Alan Ducasse, «The Slow Revolutionary», Time, 3 ottobre 2004. 74. Carl Honoré, Elogio della lentezza: rallentare per vivere meglio, Rizzoli 2014. 75. Ibid. 76. Sarah Bowen, Sinikka Elliott e Joslyn Brenton, «The Joy of Cooking?», in Contexts 13: 3, 2014. 77. Miriam Glucksmann e Jane Nolan, «New Technologies and the Transformations of Women’s Labour at Home and Work», in Equal Opportunities International, 20 febbraio 2007. 78. Will Boisvert, «An Environmentalist on the Lie of Locavorism», New York Observer, 16 aprile 2013. 79. Alison Smith, Paul Watkiss, Geoff Tweddle, Alan McKinnon, Mike Browne, Alistair Hunt, Colin Trevelen, Chris Nash e Sam Cross, The Validity of Food Miles as an Indicator of Sustainable Development: Final Report, Department for Enviroment, Food and Rural Affairs 2005. 80. Caroline Saunders, Andrew Barber e Greg Taylor, Food Miles: Comparative Energy/Emissions Performance of New Zealand’s Agricolture Industry, Lincoln University, Agribusiness and Economic Research Unit 2006, pdf reperibile su lincoln.ac.nz. 81. In Gran Bretagna nel 2005 soltanto l’1% delle tonnellate di cibo è stato trasportato per via aerea, generando però l’11% delle emissioni prodotte dalla movimentazione degli alimenti in generale. Smith et al., Validity of Food Miles, pag. 3. 82. Dough Henwood, «Moving Money (Revisited)», LBO News, 2010, reperibile su lbo-news.com. 83. Stephen Gandel, «By Every Misure, The Big Banks are Bigger», Fortune, 13 settembre 2013, reperibile su fortune.com. 84. Victoria McGrane e Tan Gillian, «Lenders Are Warned on Risk», Wall Street Journal, 25 giugno 2014. 85. OTC Derivatives Statistics at End-June 2014, Bank for International Settlements 2014, pag. 2, reperibile su bis.org. 86. David Boyle, A Local Banking System: The Urgent Need to Reinvigorate UK High Street Banking, New Economics Foundation 2011, pag. 8. 87. Ibid. 88. Giles Tremlett, «Spain’s Saving Banks’ Culture of Greed, Cronyism, and Polit314

NOTE

ical Meddling», Guardian, 8 giugno 2012. 89. Boyle, Local Banking System, pag. 10. 90. Andrew Bibby, «Co-op Bank Crisis: What Next for the Co-operative Sector?», Guardian, 21 gennaio 2014. 91. Greg Sharzer, No Local: Why Small-Scale Alternatives Won’t Change the World, Zero 2012, pag. 3. 92. Philip Mirowski, Never Let a Serious Crisis Go to Waste: How Neoliberalism Survived the Financial Meltdown, Verso 2013, pag. 326. 93. Zibechi, «Latin America Today». 94. Christian Marazzi, «Exodus Without Promised Land», in Campagna e Campiglio, What Are We Fighting For?, pag. viii. 95. Un tale approccio è stato definito dai teorici della comunizzazione come «alternativismo». Endnotes, «What Are We to Do?» in Benjamin Noys (a cura di), Communization and Its Discontents: Contestation, Critique, and Contemporary Struggle, Minor Composition 2012, pag. 30. 96. Day, Gramsci è morto. 97. Bey, T.A.Z. 98. Il comitato invisibile, L’insurrezione che viene. 99. Ibid. 100. Ibid. 101. Ibid. 102. Vivek Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, Verso 2013, pag. 228-9. 103. Dan Hancox, The Village Against the World, Verso 2013, cap. 8; Ulrike Fokken, «Die Rote Insel», Die Tageszeitung, 16 febbraio 2013, reperibile su taz.de; Jason E. Smith, «The Day After Insurrection», Radical Philosophy 189, 2015, pag. 43. 104. Vedi Alberto Toscano, «The Prejudice Against Prometheus», STIR, 2011, reperibile su stirtoaction.com. 105. Chris Dixon, «Organizing to Win the World», Briarpatch Magazine, 18 marzo 2015, reperibile su briarpatchmagazine.com; Keir Milburn, «On Social Strikes and Directional Demands», Plan C, 7 maggio 2015, reperibile su weareplanc.com. CAPITOLO 3 1. Jamie Peck, Constructions of Neoliberal Reason, Oxford University Press 2010, pag. 40. 2. Questa storia standard è in fase di riscrittura, e questo capitolo deve moltissimo ai pionieri di tali ricerche, inclusi i lavori inediti di Alex Andrews. Vedi, per esempio, Philip Mirowski e Dieter Plehwe (a cura di), The Road from Mont Pelerin: The Making of the Neoliberal Thought Collective, Harvard University Press 2009; Philip Mirowski, Never Let a Serious Crisis Go to Waste: How Neoliberalism Survived the Financial Meltdown, Verso 2013; Peck, Constructions of Neoliberal Reason; Daniel Stedman Jones, Masters of the Universe: Hayek, Friedman, and the Birth of Neoliberal Politics, Princeton University Press 2012; Richard Cockett, Thinking the Unthinkable: ThinkTanks and the Economic Counter-Revolution, 1931-1983, Fontana 1995; Michel Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli 2015. 315

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Vedi per esempio la strana ma immensamente produttiva alleanza tra economisti neoliberali ed estremisti conservatori negli Stati Uniti. Peck, Constructions of Neoliberal Reason, pag. 6; David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore 2007. Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi 2013. Rob Van Horn, «Reinventing Monopoly and the Role of Corporations: The Roots of Chicago Law and Economics», in Miroswki e Plehwe, Road from Mont Pelerin, pag. 204-37. Harvey, Breve storia del neoliberismo. Philip Cerny, Rethinking World Politics: A Theory of Transnational Neopluralism, Oxford University Press 2010, pag. 4. Karl Polanyi è un’eccezione particolare, avendo presto riconosciuto il ruolo dello Stato nella creazione dei mercati. Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi 2010; Peck, Construction of Neoliberalism Reason, pag. 4. Il legame tra genere e diritti è appropriato al contesto storico. Vale la pena sottolineare che questa costruzione politica delle economie nega la possibilità di un qualsiasi semplice economismo. Thomas Lemke, «The Birth of Biopolitics: Michel Foucault’s Lecture at the Collège de France on Neoliberal Governmentality», Economy and Society 30: 2, 2001, pag. 194. Harvey, Breve storia del neoliberismo. La costruzione dei mercati è stata eccezionalmente ben studiata, sia nel campo della sociologia della finanza che in quello dell’economia sociologica. Vedi Donald MacKenzie, Material Markets: How Economic Agents Are Constructed, Oxford University Press 2009, capitolo 7; Donald MacKenzie, Fabian Muniesa e Lucia Siu (a cura di), Do Economists Make Markets? On the Performativity of Economics, Princeton University Press 2007; Michel Callon, «An Essay on Framing and Overflowing: Economic Externalities Revisited by Sociology», in Michel Callon, Laws of Markets; Andrew Barry, Political Machines: Governing a Technological Society, Athlone 2001. Nick Srnicek, «Representing Complexity: The Material Construction of World Politics», tesi di dottorato, London School of Economics and Political Science, 2013, capitolo 5; Donald MacKenzie, An Engine, Not a Camera: How Financial Models Shape Markets, MIT Press 2008. Callon, «Essay on Framing and Overflowing». Questo tipo di movimento è in molti modi parallelo alle fasi di ritiro e rilancio della neoliberalizzazione descritte da Jamie Peck. Vedi Peck, Constructions of Neoliberal Reason, pag. 22-3. Mirowski e Plehwe, Road from Mont Pelerin. Peck, Constructions of Neoliberal Reason, pag. 48. Plehwe, «Introduction», in Mirowski e Plehwe, Road from Mont Pelerin, pag. 16. Cockett, Thinking the Unthinkable, pag. 109. Peck, Constructions of Neoliberal Reason, pag. 50; Cockett, Thinking the Unthinkable, pag. 4. Peck, Constructions of Neoliberal Reason, pag. 50. Citato in Cockett, Thinking the Unthinkable, pag. 104. 316

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23. Peck, Constructions of Neoliberal Reason, pag. 49. 24. Citato in Cockett, Thinking the Unthinkable, pag. 111. 25. Plehwe, «Introduction», pag. 7. 26. Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo. 27. Plehwe, «Introduction», pag. 4. 28. Peck, Constructions of Neoliberal Reason, p. 276. 29. Colin Crouch, Quanto capitalismo può sopportare la società, Laterza 2014. 30. Cockett, Thinking the Unthinkable, pag. 117. 31. Peck, Constructions of Neoliberal Reason, pag. 51 32. Ibid. 33. Peck, Constructions of Neoliberal Reason, pag. 57. 34. L’analisi quantitativa delle reti sociali fa emergere il peso dello stesso Fisher, mettendolo accanto a Hayek al centro del network della MPS. Vedi Plehwe, «Introduction», pag. 20. 35. Cockett, Thinking the Unthinkable, pag. 131. 36. Ibid. 37. Ibid. 38. Ibid. 39. Ibid. 40. Ibid. 41. Harvey, Breve storia del neoliberismo. 42. Ibid. 43. Cockett, Thinking the Unthinkable, pag. 184. 44. Leo Panitch e Sam Gindin, The Making of Global Capitalism: The Political Economy of American Empire, Verso 2012, pag. 144. 45. Harvey, Breve storia del neoliberismo. 46. Plehwe, «Introduction», pag. 6. 47. Harvey, Breve storia del neoliberismo. 48. Ann Pettifor, «The Power to “Create Money Out of Thin Air”», openDemocracy, 18 gennaio 2013, reperibile su opendemocracy.net. 49. Questa ricerca di una risposta può essere rintracciata anche nella scelta dei modelli macroeconomici. Peter Kenway, From Keynesianism to Monetarism: The Evolution of UK Macroeconometric Models, Routledge 1994, pag. 39. 50. Cockett, Thinking the Unthikable, pag. 196. 51. Milton Friedman, Capitalismo e libertà, IBL Libri 2010. 52. Alcuni affermano che il neoliberismo sia stato necessario a causa della crisi di accumulazione affrontata dal sistema capitalistico negli anni Settanta. Ma questa argomentazione nega i modi alternativi in cui si sarebbe potuta risolvere questa crisi, e attribuisce un’eccessiva consapevolezza dei propri interessi agli stessi capitalisti. 53. Philip Cerny, Rethinking World Politics: A Theory of Transnational Neopluralism, Oxford University Press 2010, pag. 139. 54. David Stuckler, Lawrence King e Martin McKee, «Mass Privatisation and the Post-Communist Mortality Crisis: A Cross-National Analysis», Lancet 373: 9,661, 2009. 55. Harvey, Breve storia del neoliberismo. 56. Questa è una delle basi dell’opinione comune secondo la quale il postmoder317

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nismo è l’espressione culturale del neoliberismo. 57. Harvey, Breve storia del neoliberismo. 58. Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo. 59. Ibid. 60. Mark Fisher, Realismo capitalista, NERO 2018, cap. 4. 61. Wanda Vrasti, «Struggling with Precarity: From More and Better Jobs to Less and Lesser Work», Disorder of Things, 12 ottobre 2013, reperibile su thedisorderofthings.com. 62. Harvey, Breve storia del neoliberismo. 63. Sulla narrazione dell’austerity e la sua adozione nella coscienza popolare, vedi Liam Stanley, «“We’re Reaping What We Sowed”: Everyday Crisis Narratives and Acquiescence to the Age of Austerity», New Political Economy 19: 6, 2014. 64. Ernesto Laclau, «Identità ed egemonia: il ruolo dell’universalità nella costituzione delle logiche politiche», in Judith Butler, Ernesto Laclau e Slavoj Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, Laterza 2010. 65. Il tratto più evidente dell’ideologia odierna consiste nel suo cinismo o, per come la mette Slavoj Žižek, l’ideologia funziona anche (e in particolar modo) se non ci credi. Vedi Slavoj Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia, Ponte alle Grazie 2014. 66. Mirowski, Never Let a Serious Crisis Go to Waste, pag. 356. 67. Ibid. CAPITOLO 4 1. Questo processo espansivo è stato concepito in svariati modi (non incompatibili fra loro): per esempio attraverso sviluppi irregolari e combinati, interventi sugli spazi e cicli espansivi egemonici. In ogni caso, la natura espansiva dell’universalismo capitalista è piuttosto evidente: vedi rispettivamente Neil Smith, Uneven Development: Nature, Capital and the Production of Space, Verso 2010; David Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore 2015; Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore 2014. 2. Per un’articolata difesa di quanto affermiamo, vedi Vivek Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, Verso 2013. 3. «Perché è l’universale, infine... a fornire l’unica vera negazione dell’universalismo prestabilito.» François Jullien, L’universale e il comune. Il dialogo tra culture, Laterza 2010. 4. Mark Fisher e Jeremy Gilbert, Reclaim Modernity: Beyond Markets, Beyond Machines, Compass 2014, pag. 12-14. 5. Sandro Mezzadra, «How Many Histories of Labour? Towards a Theory of Postcolonial Capitalism», European Institute for Progressive Cultural Policies, 2012, reperibile su eipcp.net. 6. Mark Fisher, Realismo capitalista, NERO 2018. 7. Argomenti simili sono stati avanzati a proposito della postmodernità. Vedi Harvey, The Condition of Postmodernity: An Enquiry Into the Origins of Cultural Change, Wiley-Blackwell 1991. 8. Peter Wagner, Modernità. Comprendere il presente, Einaudi 2013. 318

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9. Per argomentazioni simili a proposito dello «sviluppo» vedi Kalyan Sanyal, Rethinking Capitalist Development: Primitive Accumulation, Governmentality and Post-Colonial Capitalism, Routledge India 2013, pag. 92. 10. Per restituire il senso di questa varietà, Jameson sottolinea quattordici possibili diversi momenti d’inizio della modernità in quanto periodo storico. Fredric Jameson, Una modernità singolare. Saggio sull’ontologia del presente, Sansoni 2003. 11. Alberto Toscano, Fanaticism: On the Uses of an Idea, Verso 2010; Frederick Cooper, Decolonization and African Society: The Labor Question in French and British Africa, Cambridge University Press 1996. 12. Chibber, Postcolonial Theory, pag. 233. 13. «Il rifiuto del centralismo occidentale non pone un tabù sull’uso del pensiero occidentale. Al contrario, libera gli strumenti dell’Illuminismo per una loro applicazione originale e creativa», dice Susan Buck-Morss in Thinking Past Terror: Islamism and Critical Theory on the Left, Verso 2013. 14. Wang Hui, The End of Revolution: China and the Limits of Modernity, Verso 2011, pag. 69-70. 15. Göran Therborn, European Modernity and Beyond: The Trajectory of European Societies, 1945-2000, Sage 1995, pag. 5. 16. Jameson, Una modernità singolare. 17. Corey Robin, The Reactionary Mind: Conservatism from Edmund Burke to Sarah Palin, Oxford University Press 2011. 18. Simon Critchley, «Ideas for Modern Living: The Future», Guardian, 21 novembre 2010. 19. Kamran Matin, «Redeeming the Universal: Postcolonialism and the Inner Life of Eurocentrism», European Journal of International Relations, 19: 2, 2013, pag. 354. 20. Walt Whitman Rostow, The Stages of Economic Growth: A Non-Communist Manifesto, Cambridge University Press 1996. 21. Walter Mignolo, The Darker Side of Western Modernity: Global Futures, Decolonial Options, Duke University Press 2011, pag. xxiv-xxv. 22. S.N. Eisenstadt, «Multiple Modernities», Daedalus 129: 1, 2000, pag. 1. 23. Theodor Adorno e Max Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi 2010; Zygmunt Bauman, Modernità e olocausto, Il Mulino 2010. 24. David Priestland, The Red Flag: A History of Communism, Grove 2009. 25. Stephen Eric Bronner, Reclaiming the Enlightenment: Towards a Politics of Radical Engagement, Columbia University Press 2004, pag. 28. 26. François Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli 2014. 27. Walter Mignolo e He Weihua, «The Prospect of Harmony and the Decolonial View of the World», Marxism and Reality 4, 2012. 28. Wagner, Modernity, pag. 81. 29. S.N. Eisenstadt, «Multiple Modernities», Daedalus 129: 1, 2000. 30. Per alcune recenti riflessioni su questo concetto, vedi il dibattito riportato da Alex Anievas in Marxism and World Politics: Contesting Global Capitalism, Routledge 2012. 31. Per una genealogia filosofica-politica-religiosa dell’universale, vedi Jullien, On the Universal, capitoli 4-7. 32. Dovrebbe essere chiaro che la discussione sull’universale qui portata avanti 319

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è più su un registro politico che filosofico. Ètienne Balibar, «Sub Specie Universitatis», Topoi 25: 1-2, 2006, pag. 11. Volendo potremmo suddividere queste critiche in quelle portate avanti dal decolonialismo latinoamericano, dai subaltern studies sudasiatici e dal postcolonialismo africano, ognuno dei quali ragiona su modernità e colonialismo attraverso la propria storia regionale. Mignolo, Darker Side of Western Modernity. Ibid. Ramón Grosfoguel, «Decolonizing Western Uni-Versalism: Decolonial Pluri-Versalism from Aimé Césaire to the Zapatistas», Transmodernity: Journal of Peripheral Cultural Production of the Luso-Hispanic World 1: 3, 2012. Jullien, On the Universal, pag. 92. Jullien ritiene che il pensiero islamico abbia un certo grado di normatività universale etico-politica, ma questa è in ogni caso molto meno evidente di quella che emerge dalla modernità europea e si caratterizza per la priorità che viene data alla comunità (ibid.). John Hobson, The Eastern Origins of Western Civilization, Cambridge University Press 2004; Amartya Sen, «East and West: The Reach of Reason», New York Review of Books 47: 12, 2000. «Il progetto di provincializzazione dell’Europa non può […] derivare dal pensiero che la ragione/scienza/universalità che aiuta a definire l’Europa moderna siano semplicemente “specificità culturali”, e che quindi appartengano soltanto alla cultura europea. [Questo] semplice rifiuto della modernità sarebbe, in molte situazioni, un atteggiamento politicamente suicida.» Dipesh Chakrabarty, Provincializing Europe: Postcolonial Tought and Historical Difference, Princeton University Press 2007, pag. 43-45; Matin, «Redeeming the Universal»; Duy Lap Nguyen, «The Universal Province of Modernity», Interventions 16: 3, 2014, pag. 447; Mignolo, Darker Side of Western Modernity, pag. 275. Ci sono stati diversi approcci alternativi al classico universalismo sostanzialista. Non ci dilungheremo a riguardo, ma un minimo commento è doveroso. L’«universalismo negativo» fonda l’universalismo su un’opposizione condivisa, ma così facendo resta a livello di folk politics difensivista e, per l’appunto, negativa. Non elabora cioè un futuro alternativo. L’«universalismo minimo» dichiara pochi principi base comuni a tutti, ma è semplicemente una versione ridotta dell’universalismo classico e rimane soggetto a tutti i suoi problemi. Infine, il «pluriversalismo» resta la prospettiva più interessante, e quella alla quale ci sentiamo di aderire maggiormente: afferma l’autodeterminazione delle culture in un mutuo impegno orizzontale, ma bisogna comunque fare tre precisazioni. Primo, trascura lo strumento di contatto tra le diverse culture, che secondo noi richiede una sofisticata teoria di ragionamenti al fine di evitare prevaricazioni di sorta (vedi i lavori di Anthony Laden a favore di un concetto di pensiero non dominante e collettivo). Secondo, si oppone giustamente a una visione omogenea dell’universalismo, ma sottovaluta i modi in cui l’universalismo può già incorporare le differenze che evidenzia: troppo spesso il pluriversalismo sottovaluta il terreno comune richiesto da un mondo globalizzato, e l’umanità non esiste semplicemente come una serie di modi di vivere che si escludono a vicenda, ma al contrario come un groviglio di differenze tra loro strettamente connesse. Infine, il pluriversalismo riconosce che, se vuole avere una pur minima possibilità, l’universalismo capitalista va eli320

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minato: fino ad allora sarà costretto solo a gesti difensivi e di resistenza contro l’espansivismo capitalista. Il pluriversalismo di conseguenza non può che puntare sulla fine del capitalismo e su un progetto controegemonico postcapitalista come sua precondizione esistenziale. Il problema dell’universalismo – e specie di quello attualmente esistente – non può essere liquidato da semplici orpelli teorici. Grosfoguel, «Deconolizing Western Uni-Versalism», pag. 101; Bhikhu Parekh, «Non-Ethnocentric Universalism», in Tim Dunne e Nicholas J. Wheeler (a cura di), Human Rights in Global Politics, Cambridge University Press 1999; Mignolo, Darker Side of Western Modernity, pag. 275; Anthony Simon Laden, Reasoning: A Social Picture, Oxford University Press 2014. 41. Ernesto Laclau, «Identità ed egemonia: il ruolo dell’universalità nella costituzione delle logiche politiche», in Judith Butler, Ernesto Laclau e Slavoj Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, Laterza 2010. 42. Nora Sternfeld, «Whose Universalism Is It?», reperibile su eipcp.net; Jullien, On the Universal, pag. 92. 43. Judith Butler, «Rimettere in scena l’universale: l’egemonia e i limiti del formalismo», in Judith Butler, Ernesto Laclau e Slavoj Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità. 44. Stefan Jonsson, «The Ideology of Universalism», New Left Review, maggio/ giugno 2010, pag. 117. 45. Matin, «Redeeming the Universal». 46. Per un classico riferimento sulla libertà negativa vedi Isaiah Berlin, «Two Concepts of Liberty», in Henry Hardy (a cura di), Liberty, Oxford University Press 2002. 47. Milton Friedman, Capitalismo e libertà, IBL 2010. 48. Friedrich Hayek, La via della schiavitù, Rubbettino 2011. 49. Qui ci sono dei punti di contatto con la distinzione operata da Philippe van Parijs (e da molti altri teorici) tra libertà formale e reale; la nozione di libertà «sintetica» chiarifica però come non si tratti di un aspetto naturale dell’umanità, ma di una costruzione sociale. Vedi Philippe van Parijs, Real Freedom for All: What (If Anything) Can Justify Capitalism?, Oxford University Press 1997, pag. 21-4. 50. Daniel Raventos, Basic Income: The Material Conditions of Freedom, Pluto 2007, pag. 68; Mignolo, Darker Side of Western Modernity, pag. 300-1. 51. Karl Marx e Friedrich Engels, Ideologia tedesca, Bompiani 2011. 52. Steven Lukes, Il potere. Una visione radicale, Vita e Pensiero 2006. 53. Come afferma Erik Olin Wright: «L’idea di “prosperità” non include soltanto lo sviluppo dell’intelletto umano e delle capacità sociali e psicologiche durante l’infanzia, ma anche la continua opportunità di esercitare ulteriormente tali abilità, e di svilupparne di nuove qualora le circostanze di vita lo richiedano». Erik Olin Wright, Envisioning Real Utopias, Verso 2010, pag. 47-8. 54. Non esiste un ordine esatto di preferenza per questi tre elementi, anche se più avanti nel libro ci concentreremo soprattutto sul primo. 55. Alex Gourevitch, «Labor Republicanism and the Tranformation of Work», Political Theory 41: 4, 2013, pag. 597. 56. Slavoj Žižek, «Utopia and Its Discontents», intervista con Slawomir Sierakowski, 23 febbraio 2015, reperibile su lareviewofbooks.org. 57. Karl Marx, Salario, prezzo, profitto, Bompiani 2010; Grundrisse, PiGreco 321

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2011; Il Capitale, Utet 2013. 58. Esiste un altro argomento – tipico della tradizione repubblicana – a favore di questa posizione, che correttamente sottolinea come il lavoro salariato implichi una dominazione (e non semplicemente un’interferenza), e che soltanto la disponibilità dei fondamentali mezzi di sussistenza ci può liberare da essa. Questa posizione ha alle spalle una lunga tradizione di pensatori, che va da Aristotele a Robespierre fino agli attivisti sindacali del XIX secolo: anche se non vi faremo ricorso nei nostri argomenti a favore di una società post-lavoro, resta comunque una posizione importante al fine di superare la concezione liberale di libertà. Vedi Raventos, Basic Income, capitolo 3; Gourevitch, «Labor Republicanism and the Transformation of Work», pag. 593-8. 59. Antonella Corsani, «Beyond the Myth of Woman: The Becoming-Transfeminist of (Post-)Marxism», SubStance 36: 1, 2007, pag. 127. 60. A tal proposito vedi Parijs, Real Freedom for All, pag. 17-20. 61. Qui ci sono somiglianze con l’idea di power-with e di power-to. Vedi Uri Gordon, Anarchy Alive! Anti-Authoritarian Politics from Pratice to Theory, Pluto 2007, pag. 54-5; John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi, Intra Moenia 2004. 62. Laden, Reasoning, pag. 14-23; Gordon, Anarchy Alive!, pag. 54. 63. Per la nozione di linguaggio come struttura cognitiva vedi Andy Clark, Supersizing the Mind: Embodiment, Action and Cognitive Extension, Oxford University Press 2008, capitolo 3. 64. Riportato in Gregory Elliott, Althusser: The Detour of Theory, Brill 2006, pag. 16. 65. Krafft Ehricke, «The Extraterrestrial Imperative», Air University Review, febbraio 1978. 66. Marx e Engels, Ideologia tedesca. 67. Per una difesa di questo spirito prometeico vedi Ray Bassier, «Prometheanism and Its Critics», in Robin Mackay e Armen Avanessian (a cura di), #Accelerate: The Accelerationist Reader, Urbanomic 2014. 68. Per un’interpretazione precedente e già storicizzata della nostra natura cyborg vedi Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli 1999. Per un aggiornamento attuale vedi invece il manifesto di Laboria Cuboniks in Helen Hester e Armen Avanessian (a cura di), Dea Ex Machina, Merve Verlag 2015. 69. Benedict Singleton, «Maximum Jailbreak», in Mackay e Avanessian, #Accelerate. 70. Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza 1973. 71. Sadie Plant, «Binary Sexes, Binary Codes», 3 giugno 1996, reperibile su future-nonstop.org. 72. Reza Negarestani, «The Labor of the Inhuman», in Mackay e Avanessian, #Accelerate. 73. Ibid. 74. Come esempi di questa mentalità ristretta vedi Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi 2010; Francis Fukuyama, Our Posthuman Future: Consequences of the Biotechnology Revolution, Profile 2003. 75. Per due affascinanti resoconti sulle sperimentazioni corporee vedi Shannon Bell, Fast Feminism, Autonomedia 2010; e Paul Preciado, Testo tossico. 322

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Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornografica, Fandango 2015. 76. Il resto di questo libro si concentrerà soprattutto sui primi due aspetti della libertà sintetica: le condizioni base dell’esistenza e le capacità di azione collettiva. Ad ogni modo, torneremo sull’implementazione tecnologica dell’umanità nella conclusione. 77. Susan Buck-Morss, Hegel, Haiti and Universal History, University of Pittsburgh Press 2009, pag. 106. CAPITOLO 5 1. Anche due recenti manifesti prodotti in India e in Germania hanno attaccato la celebrazione del lavoro: Kamunist Kranti, «A Ballad Against Work», 1997, reperibile su libcom.org; Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, DeriveApprodi 2003. 2. Karl Marx, Il Capitale, Libro III, Utet 2013. 3. Le ricerche suggeriscono che, nella formazione dei movimenti sociali, i cambiamenti di opportunità (come quelli che arrivano in momenti quali le crisi economiche) sono molto più importanti del livello di insoddisfazione generale. In altre parole, l’idea che il peggioramento della situazione porti necessariamente a una rivoluzione ha poco sostegno empirico. Sidney Tarrow, Power in Movement: Social Movements and Contentious Politics, Cambridge University Press 1998. 4. Karl Marx, Il Capitale. 5. Michael Perelman, The Invention of Capitalism: Classical Political Economy and the Secret History of Primitive Accumulation, Duke University Press 2000. 6. Come scrive Marx, «proletariato» deve essere inteso, economicamente parlando, come niente di più che la «massa dei salariati», e cioè chi produce e valorizza il «Capitale» per essere poi «gettato sul lastrico non appena sia diventato superfluo per i bisogni di valorizzazione». Marx, Il Capitale, Libro I. 7. In casi come quello dei lavoratori domestici non salariati, il proletario può anche vivere con il salario generato da qualcun altro, con tutti i problemi di dipendenza che questo comporta. In casi del genere la sopravvivenza del proletario è indirettamente dipendente dal lavoro salariato. 8. Richard Freeman, «The Great Doubling: The Challenge of the New Global Labor Market», in John Edwards, Marion Crain e Arne Kalleberg (a cura di), Ending Poverty in America: How to Restore American Dream, New Press 2007. 9. Steve Fraser, The Age of Acquiescence: The Life and Death of American Resistance to Organized Wealth and Power, Little, Brown US 2015, pag. 60. 10. Il problema di come definire il surplus di popolazione viene spesso ignorato in letteratura. Ma restano comunque questioni importanti che non possono essere tralasciate: se il surplus viene definito in termini di lavoratori salariati vs. lavoratori non salariati, significa quindi che la popolazione lavorativa carceraria non fa parte del surplus? E che dire di tutto quel lavoro informale che lavora per un salario e produce per il mercato? Altri problemi derivano se il surplus viene definito in termini di lavoro produttivo e improduttivo. La posizione di Negri e Hardt è per esempio che, visto che sotto il postfordismo il lavoro socialmente prodotto è ovunque, un termine del genere abbia perso di significato (vedi Michael Hardt e Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine mondiale, Rizzoli 2004). È una conclusione che rigettiamo, e qui cerchiamo di dimostra323

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re come il surplus di popolazione sia al contrario un concetto ancora utile dal punto di vista sia analitico che esemplificativo. Noi pensiamo che il surplus può essere definito come tutti coloro che si ritrovano fuori dal lavoro salariato sotto le condizioni di produzione del capitalismo. Questo significa che nella categoria è incluso anche la maggior parte del lavoro informale (che non si trova sotto le condizioni di produzione del capitalismo). In questo senso, siamo particolarmente influenzati dal lavoro portato avanti da Kalyan Sanyal. Joan Robinson, Economic Philosophy, Penguin 1964, pag. 46. In economia questo viene associato al NAIRU, ovvero il tasso di disoccupazione di inflazione stabile. L’opinione è che se si assumono lavoratori quando la disoccupazione è a questo livello, il risultato sarà l’aumento dei salari e in ultima analisi l’inflazione; in questo modo viene stabilito quanto in basso il tasso di disoccupazione possa essere spinto. Per una definizione classica degli usi politici della disoccupazione vedi Michał Kalecki, «Political Aspects of Full Employment», in Political Quarterly 14: 4, 1943; Samuel Bowles, «The Production Process in a Competitive Economy: Walrasian, Neo-Hobbesian, and Marxian Models», American Economic Review 75: 1, 1985. In particolare, l’enfasi sulle tendenze secolari alla creazione di un surplus di popolazione è secondo noi una delle caratteristiche uniche del marxismo alla prese con le analisi sulla disoccupazione. La paura che l’automazione rubi il lavoro ha una lunga storia, di cui i luddisti sono stati uno dei primi esempi. Più recentemente, è stata una delle questioni chiave degli anni Sessanta tramite la discussione del concetto di «cybernazione», è tornata negli Ottanta e Novanta grazie ai titoli sensazionalistici dei commenti giornalistici, per poi emergere ancora una volta negli ultimi anni. L’enorme numero di testi rilevanti in materia include: Ad Hoc Committee, «The Triple Revolution», International Socialist Review 24: 3, 1964; Donald Michael, Cybernation: The Silent Conquest, Center for the Study of Democratic Institution 1962; Paul Mattick, «The Economics of Cybernation», New Politics 1: 4, 1962; David Noble, La questione tecnologica, Bollati Boringhieri 1993; Jeremy Rifkin, La fine del lavoro: il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Mondadori 2014; Martin Ford, Il futuro senza lavoro. Accelerazione tecnologica e macchine intelligenti. Come prepararsi alla rivoluzione economica in arrivo, Il Saggiatore 2017; Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, Feltrinelli 2015. Queste stime si riferiscono al mercato del lavoro statunitense ed europeo, ma numeri simili si ripetono indubbiamente anche a livello globale e, come diremo in seguito, possono anche essere peggiori nelle economie in via di sviluppo. Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, The Future of Employment: How Susceptible are Jobs to Computerisation?, 2013, reperibile su oxfordmartin. ox.ac.uk; Jeremy Bowles, «The Computerisation of European Jobs», Bruegel, 2014, reperibile su bruegel.org; Stuart Elliott, «Anticipating a Luddite Revival», Issues in Science and Technology 30: 3, 2014. Karl Marx, Il Capitale. Paul Einzig, The Economic Consequences of Automation, W.W. Norton 1957, 324

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pag. 78. Thor Berger e Carl Benedikt Frey, Technology Shocks and Urban Evolutions: Did the Computer Revolution Shift the Fortunes of US Cities?, Oxford Martin School 2014, pag. 6. James Bessen, «Toil and Technology», Finance & Development 52: 1, 2015, pag. 17. L’evidenza suggerisce come la diffusione globale delle filiali bancarie stia già diminuendo. Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, Technology at Work: The Future of Innovation and Employment, Citi – Global Perspective and Solutions 2015, pag. 25-6, reperibile su ir.citi.com. Wassily Leontief, «National Perspective: The Definition of Problem and Opportunities», in The Long-Term Impact of Technology on Employment and Unemployment, National Academy of Engineering 1983. Ci sono alcune prove del fatto che stia accadendo, con le aziende che denunciano difficoltà a trovare lavoratori specializzati e l’innalzamento della disparità di salario tra i lavoratori più e meno specializzati all’interno della stessa azienda. Bessen, «Toil and Technology», pag. 19. Boyan Jovanovic e Peter L. Rousseau, General Purpose Technologies, Working Paper, National Bureau of Economic, gennaio 2005, reperibile su nber.org; George Terbough, The Automation Hysteria: An Appraisal of the Allarmist View of the Technological Revolution, W.W. Norton 1966, pag. 5455. Aaron Benanav e Endnotes, «Misery and Debt», in Endnotes 2: Misery and the Value Form, Endnotes 2010, pag. 31. Barry Eichengreen, Secular Stagnation: The Long View, National Bureau of Economic Research, gennaio 2015, pag. 5, reperibile su nber.org. Kalyan Sanyal, Rethinking Capitalist Development: Primitive Accumulation, Governamentality and Post-Colonial Capitalism, Routhledge India 2013, pag. 55. In particolare, questo significa che questo settore economico è eminentemente contemporaneo, e non il residuo di un qualche modo di produzione precapitalistico. Gabriel Wildau, «China Migration: At the Turning Point», Financial Times, 4 maggio 2015, reperibile su ft.com; «Global Labor Glut Sinking Wages Means US Needs to Get Schooled», Bloomberg, 4 maggio 2015, reperibile su bloomberg.com. Mentre l’Africa deve ancora essere integrata a pieno nel regime capitalista globale, è da notare come l’integrazione della Cina e degli Stati post-sovietici abbia generato un’impennata una tantum nella forza lavoro globale. D’ora in poi, la tendenza sarà di un generale declino dell’importanza di questo meccanismo nella produzione del surplus di popolazione. Notiamo qui che mentre i primi due meccanismi sono integrali all’accumulazione capitalista (cambi nelle forze produttive ed espansione delle relazioni sociali capitaliste), la terza è una logica distinta dalla sola accumulazione. La caratteristica empirica di tale gruppo cambia anche col tempo (vedi per esempio l’integrazione delle donne nella forza lavoro negli ultimi quattro decenni). Lynda Yanz e David Smith, «Women as a Reserve Army of Labour: A Critique», Review of Radical Political Economics 15: 1, 1983, pag. 104. In altre parole, queste forme di dominazione sono spesso funzionali al capitalismo, anche se le loro funzioni non ne spiegano la genesi. 325

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Ben trentasei milioni di persone sono oggi considerate sotto schiavitù: Global Slavery Index 2014, Walk Free Foundation 2014. Edward E. Baptist, Half Has Never Been Told: Slavery and the Making of American Capitalism, Basic Books 2014; Silvia Federici, «Wages Against Houseworks», in Revolution at Point Zero: Housework, Reproduction and Feminist Struggle, PM Press 2012. In termini di disoccupazione globale, le donne hanno dovuto affrontare le conseguenze più dure della crisi negli ultimi anni. ILO, World Employment and Social Outlook: The Changing Nature of Jobs, International Labour Organization 2015, pag. 18. Per esempio, gli uomini di colore negli Stati Uniti hanno sofferto in maniera particolare l’automazione e l’esternalizzazione dell’industria manifatturiera. William Julius Wilson, When Work Disappears: The World of the New Urban Poor, Vintage Books 1997, pag. 29-31. Michael McIntyre, «Race, Surplus Population and the Marxist Theory of Imperialism», Antipode 43: 5, 2011, pag. 1500-2. Qui ci si richiama sostanzialmente alle divisioni operate da Marx tra esercito flessibile/di riserva, latente e stagnante, aggiornando però quello stesso esempio storico. Gary Fields, Working Hard, Working Poor: A Global Journey, Oxford University Press 2012, pag. 46. Kalyan Sanyal le descrive come «economie del bisogno». Vedi Sanyal, Rethinking Capitalist Development. L’area dell’«impiego vulnerabile» oggi ammonta al 48% dell’occupazione totale: cinque volte di più del livello pre-crisi. Si pensa inoltre che questo numero sia sottostimato, vista la sua natura informale. ILO, Global Employment Trends 2014: Risk or Jobless Recovery?, International Labour Organization 2014, pag. 12; David Neilson e Thomas Stubbs, «Relative Surplus Population and Uneven Development in the Neoliberal Era: Theory and Empirical Application», Capital & Class 35, 2011, pag. 443. Secondo la classica formula marxiana, si tratterebbe del tipico schema MDM: trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione di denaro in merce ai fini della sussistenza. Differisce dalle economie precapitaliste di sussistenza nel fatto che le merci non sono prodotte per un consumo personale, ma devono essere necessariamente mediate dal mercato. Sanyal, Rethinking Capitalist Development, pag. 69-70. Michael Denning, «Wageless Life», New Left Review II/66, novembre/dicembre 2010, pag. 86; ILO, G20 Labour Markets: Outlook, Key Challenges and Policy Responses, International Labour Organization/OECD/World Bank 2014, reperibile su ilo.org, pag. 8. Marilyn Power, «From Home Production to Wage Labour: Women as a Reserve Army of Labour», Review of Radical Political Economics 15: 1, 1983. David Harvey, Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro e sull’attualità di Marx, La casa Usher 2014. ILO, Key Indicators of the Labor Market, 8th edn, International Labour Organization 2013, reperibile su ilo.org. State of the Global Workplace: Employee Engagement Insights for Business 326

NOTE

Leaders Worldwide, Gallup 2013, reperibile su ihrim.org, pag. 27; John Bellamy Foster, Robert W. McChesney e R. Jamil Jonna, «The Global Reserve Army of Labor and the New Imperialism», Monthly Review, novembre 2011; Neilson e Stubbs, «Relative Surplus Population». L’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che in questo momento il 5,9% della popolazione lavorativa (ovvero 201 milioni di persone) sia disoccupato, ma questo dato è determinato da una definizione piuttosto stringente di «disoccupazione» (ILO, World Employment and Social Outlook – Trends 2015, International Labour Organization 2015, pag. 16, reperibile su ilo.org); basta lavorare qualche ora per tagliare un prato, guadagnare qualche dollaro vendendo vestiti fatti a mano sul marciapiede di fronte casa, o lavorare in un call center mentre si ha un dottorato, che per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro questo equivale ad avere un impiego. In poche parole, i lavoratori informali, quelli sottoccupati e quelli part-time vengono tutti considerati tra la popolazione occupata. Ancora per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il dato della disoccupazione migliora quando le persone vengono estromesse dalla forza lavorativa: questo perché una minor forza lavoro complessiva diminuisce anche il tasso di disoccupazione. Una misurazione più indicativa sarebbe quindi il livello di occupazione all’interno della fascia in età lavorativa, il che allargherebbe il dato della disoccupazione a circa il 40% della popolazione (ILO, Global Employment Trends 2014, pag. 18). In misura simile, l’Organizzazione stima che soltanto metà della forza lavoro globale percepisce un salario (ILO, World Employment and Social Outlook: The Changing Nature of Jobs, International Labour Organization 2015, pag. 28). Ma queste misurazioni continuano a sovrastimare il numero di persone impiegate, e così per superare queste deficienze sono state tentate altre formule. Gallup, per esempio, definisce l’«impiego» come un lavoro formalizzato di almeno trenta ore settimanali: da questo deriva che oltre il 74% della forza lavoro attuale non rientra nella definizione. Vedi State of the Global Workplace: Employee Engagement Insight for Business Leaders Worldwide, Gallup 2013, reperibile su ihrim.org, pag. 27. Un altro studio, basato sugli studi dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui disoccupati, sugli impieghi vulnerabili e su chi è economicamente inattivo, stima il surplus di popolazione al 61% di coloro che hanno un’età utile al lavoro (calcolo di Neilson e Stubbs, «Relative Surplus Population», pag. 444). La conclusione da trarre da queste misurazioni è semplice: il surplus globale è enorme, ben maggiore della forza lavoro formale. 45. Frantz Fanon, I dannati della Terra, Einaudi 2007, cap. 2; Patricia Connelly, Last Hired First Fired: Women and the Canadian Work Force, The Women’s Press 1978. 46. Cleaver usa qui il termine «Lumpen» per riferirsi a ciò che abbiamo finora definito condizione «proletaria». Eldrige Cleaver, «On Lumpen Ideology», The Black Scholar 4: 3, 1972, pag. 9-10. 47. Mattick, «Economics of Cybernation», pag. 19. 48. Benavav e Endnotes, «Misery and Debt»; Fredric Jameson, Rappresentare il Capitale. Una lettura del primo libro, Bruno Mondadori 2013. In linea generale potremmo distinguere due modi in cui il concetto di surplus di popolazione ha 327

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funzionato nei recenti dibattiti. Un’argomentazione comune tende a sovrapporre un particolare gruppo sociale (per esempio, le minoranze nere) con il surplus di popolazione in sé. Un’altra argomentazione, meno usata, prende in esame il fatto che il surplus di popolazione è frutto di una tendenza secolare che da sempre ne aumenta le dimensioni. Marx, Il Capitale, Libro I. Richard Duboff, «Full Employment: The History of a Receding Target», Politics & Society 7: 1, 1977, pag. 7-8. Sebbene il NAIRU sia una misurazione opinabile per il pieno impiego, vale la pena notare come il periodo postbellico vide il tasso di disoccupazione attestarsi ben al di sotto del NAIRU stesso, mentre il periodo neoliberale lo fece aumentare fino a superarlo. Jared Bernstein e Dean Baker, «Full Employment: The Recovery’s Missing Ingredient», Washington Post, 3 novembre 2014, pag. 10; José Nun, «The End of Work and the “Marginal Mass” Thesis», Latin American Perspectives 27: 1, 2000, pag. 8; Guy Standing, Precari: la nuova classe esplosiva, Il Mulino 2012; Jeffrey Straussman, «The “Reserve Army” of Unemployed Revisited», Society 14: 3, 1977, p. 42. Economic Projection of Federal Reserve Board Members and Federal Reserve Bank Presidents, Federal Reserve Board, dicembre 2014, reperibile su federal-reserve.gov, pag. 1. Claire Cain Miller, «As Robots Grow Smarter, American Workers Struggle to Keep Up», New York Times, 15 dicembre 2014. Bureau of Labor Statistics, «Civilian Employment-Population Ratio», Federal Reserve Bank of St Louis 2014, reperibile su research.stlouisfed.org; Deepankar Basu, The Reserve Army of Labour in the Postwar US Economy: Some Stock and Flow Estimates, University of Massachusetts 2012, pag. 7. ILO, Global Employment Trends 2014, pag. 17. Il tasso di crescita lavorativa è crollato dall’1,7% registrato tra 1991 e 2007, all’1,2% del periodo 2007-2014. ILO, World Employment and Social Outlook, pag. 29. Ibid. I lavoratori delle economie in via di sviluppo hanno ovviamente vissuto a lungo in condizione di precarietà. Il rinnovato interesse nei confronti della precarietà è più un sintomo del collasso di quel modello di lavoro peculiare delle economie sviluppate nel periodo postbellico. Un’analisi più approfondita di queste caratteristiche è reperibile in Standing, Precari. Marx, Il Capitale, Libro I. Francis Green, Tarek Mostafa, Agnès Parent-Thirion, Greet Vermeylen, Gijs van Houten, Isabella Biletta e Maija Lyly-Yrjanainene, «Is Job Quality Becoming More Unequal?», Industrial & Labor Relation Review 66: 4, 2013, pag. 770-1; Andrew Glyn, Capitalismo scatenato. Globalizzazione, competitività e welfare, Brioschi 2007. Carrie Gleason e Susan Lambert, Uncertainty by the Hour, pag. 1-3, reperibile su opensocietyfoundation.org. Mentre questo aspetto della precarietà è stato spesso enfatizzato, il lavoro irregolare rimane ancora una piccola porzione del mercato del lavoro nel328

NOTE

le economie avanzate dei paesi capitalisti. Kim Moody, «Precarious Work, “Compression” and Class Struggle “Leaps”», RS21, 10 febbraio 2015, reperibile su rs21.org.uk. Si stima che circa un quarto dei lavoratori nelle economie sviluppate abbia contratti temporanei o non li abbia proprio. ILO, World Employment and Social Outlook, pag. 30. 64. Self-Employed Workers in the UK – 2014, London: Office for National Statistic 2014, reperibile su ons.gov.uk. 65. Bureau of Labor Statistics, «Employment Level – Part-Time for Economic Reasons, All Industries». 66. Le statistiche ufficiali dicono che 1,4 milioni di persone in Gran Bretagna lavorano con contratti a zero ore. Vedi Analysis of Employment Contracts that Do Not Guarantee a Minimum Number of Hours, Office for National Statistics, 30 aprile 2014, reperibile su ons.gov.uk. 67. Dean Baker e Jared Bernstein, Getting Back to Full Employment: A Better Bargain for Working People, Center for Economic and Policy Research 2013, pag. 12. 68. Baker e Bernstein, «Full Employment». 69. In un sondaggio tra esperti di economia mainstream, il 43% degli intervistati si è detto d’accordo col fatto che la tecnologia abbia giocato un ruolo centrale nella stagnazione dei salari, di contro al 28% che non intravedeva legami. «Pool Results: Robots», IGM Forum, 25 febbraio 2014, reperibile su igmchicago.org. 70. ILO, G20 Labour Markets, pag. 5; The Slow Recovery of the Labor Market, US Congressional Budget Office, febbraio 2014, reperibile su cbo.gov, p. 6; Ciaren Taylor, Andrew Jowett e Michael Hardie, «An Examination of Falling Real Wages, 2010-2013», Office for National Statistics 2014, reperibile su ons.gov.uk. 71. Il livello dei risparmi personali in America è crollato drasticamente dal 1970 a oggi. US Bureau of Economic Analysis, «Personal Saving Rate». 72. «Share of US Workers Living Paycheck to Paycheck Continues Decline from Recession-Era Peak, Finds Annual CareerBuilder Survey», CareerBuilder, 25 settembre 2013, reperibile su careerbuilder.com; 8 Million People One Paycheque Away from Losing Their Home, Shelter, 11 aprile 2013, reperibile su england.shelter.org.uk. 73. Saskia Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino 2015. 74. Carlos Nordt, Ingeborg Warnke, Erich Seifritz e Wolfram Kawohl, «Modelling Suicide and Unemployment: A Longitudinal Analysis Covering 63 Countries, 2000-11», Lancet, 2015, pag. 5; Justin Wolfers, Is Business Cycle Volatility Costly? Evidence from Surveys of Subjective Wellbeing, National Bureau of Economic Research 2003, reperibile su nber.org; Nikolaos Antonakakis e Alan Collins, «The Impact of Fiscal Austerity on Suicide: On the Empirics of a Modern Greek Tragedy», Social Science & Medicine 112, luglio 2014; Karen McVeigh, «DWP Urged to Publish Inquiries on Benefit Claimant Suicides», Guardian, 14 dicembre 2014. 75. Ben Bernake, «The Jobless Recovery», articolo presentato al Global Economic and Investment Outlook Conference, Carnegie Mellon University, 6 novembre 2003, reperibile su federalreserve.com. 329

INVENTARE IL FUTURO

76. Olivier Coibon, Yuriy Gorodnichenko e Dmitri Koustas, Amerisclerosis? The Puzzle of Rising US Unemployment Persistence, Brooking Papers on Economic Activity, Brookings Institution, autunno 2013, reperibile su brookings.edu. 77. Natalia Kolesnikova e Yang Liu, «Jobless Recoveries: Causes and Consequences», Regional Economist, aprile 2011, reperibile su stlouisfed.org. 78. Slow Recovery of the Labor Market, pag. 2; Bureau of Labor Statistics, «Employed, Usually Work Full Time». 79. ILO, G20 Labour Markets, pag. 4. 80. È stato suggerito che una delle ragioni di tale connessione è che, in scia a una recessione, le imprese non si assumono il rischio di nuove assunzioni in posizioni automatizzabili. Nir Jaimovich e Henry E. Siu, The Trend Is the Cycle: Jobs Polarization and Jobless Recoveries, National Bureau of Economic Research 2012, reperibile su nber.org, pag. 29. 81. La distinzione tra routine e non-routine spiega i dati meglio che la divisione in livelli di istruzione, o tra lavori manifatturieri e legati ai servizi. Ibid. 82. Negli scorsi tre decenni il 92% della perdita di posti di lavoro negli ambiti automatizzabili di media specializzazione si è verificato nei primi dodici mesi di una recessione. Ibid. 83. Nelle recessioni passate i lavori di routine non sono mai stati recuperati. Ibid., pag. 14. 84. ILO, Global Employment Trends 2014, pag. 11-12. Bureau of Labor Statistics, «Of Total Unemployed, Percent Unemployed 27 Weeks and Over», Federal Reserve Economic Data, Federal Reserve Bank of St Louis, 1 gennaio 1948; Eurostat, «Long Term Unemployment Rate», Eurostat 2015, reperibile su ec.europa.eu. 85. Alan Krueger, Judd Cramer e David Cho, «Are the Long Term Unemployed on the Margins of the Labor Market?», Brookings Papers on Economic Activity, primavera 2014. 86. Loïc Wacquant, «The Rise of Advanced Marginality: Notes on Its Nature and Implications», Acta Sociologica 39: 2, 1996, pag. 125; Richard Florida, Zara Matheson, Patrick Adler e Taylor Brydges, The Divided City and the Shape of the New Metropolis, Martin Prosperity Institute, 2014, reperibile su martinprosperity.org. 87. William Julius Wilson, When Work Disappears: The World of the New Urban Poor, Vintage Books 1997, pag. 15. 88. Loïc Wacquant, «Class, Race and Hyperincarceration in Revanchist America», Socialism and Democracy 28: 3, 2014, pag. 46. 89. Frances Fox Piven e Richard Cloward, Poor People’s Movements: Why They Succeed, How They Fail, Random House 1988, pag. 191. 90. Michelle Alexander, The New Jim Crow, New Press 2012, pag. 218. 91. Il numero di uomini di colore impiegati nell’industria venne quasi dimezzato tra 1973 e 1987. Wilson, When Work Disappears, pag. 29-31. 92. Ibid. 93, Ibid. 94. Wacquant, «Rise of Advanced Marginality», pag. 127. 95. Va considerato che l’economia informale è notoriamente difficile da quantificare, pur comportando una grossa parte dell’economia globale. Per un qua330

NOTE

dro d’insieme dei metodi di misurazione dell’economia ombra globale, vedi Friedrich Schneider e Andreas Buehn, Estimating the Size of the Shadow Economy: Methods, Problems, and Open Questions, CESifo Working Paper Series, n. 4448, 2013, reperibile su papers.ssrn.com. Per una più dettagliata lettura etnografica di un’economia informale urbana vedi Sudhir Alladi Venkatesh, Off the Books: The Underground Economy of the Urban Poor, Harvard University Press 2006. 96. Le Nazioni Unite ritengono che nelle economie in via di sviluppo due quinti della forza lavoro sia impiegata nel settore informale, mentre altre ricerche denotano un aumento significativo di queste proporzioni tra il 1985 e il 2007. Mike Davis, Planet of Slums, Verso 2006, pag. 176; Friedrich Schneider, Outside the State: The Shadow Economy and the Shadow Economy Labour Force, 2014, reperibile su econ.jku.at, pag. 20. 97. UN-Habitat, The Challenge of Slums: Global Report on Human Settlements 2003, UN-Habitat 2003, reperibile su mirror.unhabitat.org, pag. 46. 98. Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi 2010. 99. Jan Breman, «Introduction: The Great Transformation in the Setting of Asia», in Outcast Labour in Asia: Circulation and Informatization of the Workface at the Bottom of Economy, Oxford University Press 2012, pag. 8-9; Nicholas Kaldor, Stategic Factors in Economic Development, New York State School of Industrial and Labor Relations 1967. 100. Jan Breman, «A Bogus Concept?», New Left Review, novembre/dicembre 2013, pag. 137. 101. Sukti Dasgupta e Ajit Singh, Manufacturing Services and Premature Deindustrialization in Developing Countries: A Kaldorian Analysis, World Institute for Development Economics Research 2006, reperibile su ideas. repec.org, pag. 6; Breman, «Introduction», pag. 2; Fields, Working Hard, Working Poor, pag. 58; Davis, Planet of Slums, pag. 15. 102. Davis, Planet of Slums, pag. 175; Breman, «Introduction», pag. 3-8; George Ciccariello-Maher, We Created Chàvez: A People’s History of the Venezuelan Revolution, Duke University Press 2013, cap. 9. 103. Sassen, Espulsioni, cap. 2. 104. Sanyal, Rethinking Capitalist Development, pag. 69. 105. Davis, Planet of the Slums, pag. 181-2. 106. Più che al 30/40% della totalità della forza lavoro impiegata, l’industria è oggi vicina al 15/20%, con un prodotto interno lordo procapite che si attesta sui 3000 dollari circa, anziché sui 10.000. Dani Rodrik, «The Perils of Premature Deindustrialization», Project Syndicate, 11 ottobre 2013, reperibile su project-syndicate.org, pag. 5. 107. Dal 1996 sono andati persi oltre 30 milioni di posti di lavoro nel settore dell’industria. Erik Brynjolfsson, Andrew McAfee e Michael Spence, «New World Order», Foreign Affairs, agosto 2014. 108. Manfred Elfstrom e Sarosh Kuruvilla, «The Changing Nature of Labor Unrest in China», ILR Review 67: 2, 2014. 109. I salari reali sono aumentati del 300% tra il 2000 e il 2010. ILO, Global Wage Report 2012/13: Wages and Equitable Growth, International Labour 331

INVENTARE IL FUTURO

Organization 2013, reperibile su ilo.org, pag. 20. 110. ILO, Global Employment Trends 2014, pag. 29. 111. International Federation of Robotics, World Robotics: Industrial Robots 2014, International Federation of Robotics 2014, reperibile su worldrobotics.org, pag. 19; Lee Chyen Yee e Clare Jim, «Foxconn to Rely More on Robots; Could Use 1 Million in 3 Years», Reuters, agosto 2011; «Guangzhou Spurs Robot Use Amid Rising Labor Costs», China Daily, 16 aprile 2014, reperibile su chinadaily.com.cn; Angelo Young, «Nike Unloads Contract Factory Workers, Showing How Automation is Costing Jobs of Vulnerable Emerging Market Laborers», International Business Times, 20 maggio 2014. 112. Majority of Large Manufacturers Are Now Planning or Considering «Reshoring» from China to the US, Boston Consulting Group, 24 settembre 2013, reperibile su bcg.com; Stephanie Clifford, «US Textile Plants Return, with Floors Largely Empty of People», New York Times, 19 settembre 2013. 113. Dani Rodrik, Premature Deindustrialization, Bureau for Research and Economic Analysis of Development 2015, reperibile su ipl.econ.duke.edu, pag. 2. 114. Fiona Tregenna, Manufacturing Productivity, Deindustrialization and Reindustrialization, World Institute for Developing Economic Research 2011, reperibile su econstor.eu, pag. 11. 115. Su una forza lavoro complessiva di 481 milioni di persone, soltanto un milione di individui lavorano in questo settore. Fields, Working Hard, Working Poor, pag. 51. 116. Frey e Osborne, Technology at Work, pag. 62; Brynjolfsson e McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine. 117. Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale, Pgreco 2012. 118. Questo spiega perché, nonostante l’enorme massa di popolazione proletaria in Cina, questo surplus di lavoro stia diventando un problema reale nel momento in cui i salari aumentano. 119. Göran Therborn, Why Some People Are More Unemployed Than Others: The Strange Paradox of Growth and Unemployment, Verso 1991, pag. 23-4. 120. Harvey, Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro e sull’attualità di Marx, La casa Usher 2014. 121. L’intervento politico viene spesso trascurato dagli autori più ottimisti sull’esperienza storica dell’automazione. Vedi per esempio George Terbough, The Automation Hysteria: An Appraisal of the Alarmist View of the Technological Revolution, W.W. Norton 1966. 122. Lewis Corey, The Decline of American Capitalism, Covici Friede 1934, pag. 272. 123. Harry Braverman, «Automation: Promise and Menace», American Socialist, ottobre 1955, reperibile su marxist.org; Benanav e Endnotes, «Misery and Debt», pag. 36; Duboff, «Full Employment», pag. 1. 124. Benjamin Kline Hunnicutt, Work Without End: Abandoning Shorter Hours for the Right to Work, Temple University Press 1988, pag. 259-60. 125. Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi 2013. 126. ILO, «Trends», World Employment and Social Outlook, pag. 23. 127. Peter Cappelli, «The Path Not Studied: Schools of Dreams More Education Is Not an Economic Elixir», Issues in Science and Technology, 27 novembre 332

NOTE

2013, reperibile su issues.org; Stanley Aronowitz, Dawn Esposito, William DiFazio e Margaret Yard, «The Post-Work Manifesto», in Stanley Aronowitz e Jonathan Cutler (a cura di), Post-Work: The Wages of Cybernation, Routledge 1998, pag. 48; Stefan Collini, What Are Universities For?, Penguin 2012; Andrew McGettigan, The Great University Gamble: Money, Markets and the Future of Higher Education, Pluto 2013. 128. Standing, Precari. 129. È da notare come persino Paul Krugman e Lawrence Summers nutrano dubbi sul fatto che l’aggiornamento professionale possa risolvere questo ordine di problemi. Paul Krugman, «Sympathy for the Luddites», New York Times, 13 giugno 2013; Lawrence Summers, «Roundtable: The Future of Jobs», presentato a The Future of Work in the Age of the Machine, Hamilton Project, Washington, 19 febbraio 2015, reperibile su hamiltonproject.org. 130. Glyn, Capitalism Unleashed, pag. 27-31. 131. Harvey, Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro e sull’attualità di Marx. 132. Le rilevazioni suggeriscono che il tasso di crescita annuale sia stato del 2%, ben al di sotto degli standard di crescita del PIL globale. Chris Williamson, «January’s PMI Surveys Signal First Global Growth Upturn for Six Months», Markit, 4 febbraio 2015, reperibile su markit.com. Altri studi ritengono che la crescita sia stata maggiore, ma i risultati sono andati peggiorando in tutte le economie in via di sviluppo sin da prima che iniziasse la crisi, e la stima della produzione globale potenziale è stata continuamente rivista al ribasso anche in seguito. World Economic Output 2015: Uneven Growth Short- and Long-Term Factors, International Monetary Fund 2015, pag. 69-71, reperibile su imf.ogr. 133. Senza pretendere di pronunciarsi sulle diverse spiegazioni che sono state portate a riguardo, vogliamo comunque mettere in risalto il crescente consenso su una nuova era contrassegnata dalla minor crescita: Andrew Kliman, «What Lies Ahead: Accelerating Growth or Secular Stagnation?», E-International Relations, 24 gennaio 2014, reperibile su e-ir.info; Robert Gordon, Is the US Economic Growth Over? Faltering Innovation Confronts the Six Headwinds, National Bureau of Economic Research, agosto 2012, reperibile su nber. org; Lawrence Summers, «US Economic Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis, and the Zero Lower Bound», Business Economics 49: 2, 2014; Tyler Cowen, The Great Stagnation: How America Ate All the Low Hanging Fruit of Modern History, Got Sick, and Will (Eventually) Feel Better, Dutton 2011; Coen Teulings e Richard Baldwin (a cura di), Secular Stagnation: Facts, Causes and Cures, CEPR 2014. 134. Cowen, Great Stagnation, pag. 47-48. 135. Thor Berger e Carl Benedikt Frey, Industrial Renewal in the 21st Century: Evidence from US Cities?, Oxford Martin School 2014. 136. Dati presi da: Bureau of Labor Statistics, «Table 1. Private Sector Gross Jobs Gains and Losses by Establishment Age»; Bureau of Labor Statistics, «Table 5. Number of Private Sector Establishment By Age». 137. Questa è una posizione comune a molti economisti di centrosinista. Vedi Baker e Bernstein, Getting Back to Full Employment; Pavlina Tcherneva, Beyond Full Employment: The Employer of Last Resort as an Institution for Change, Levy Economics Institute of Bard College, settembre 2012, reperi333

INVENTARE IL FUTURO

bile su lebyinstitute.org. 138. Danning, «Wageless Life», pag. 84-6. 139. Aaron Bastani, «Weaponising Workfare», openDemocracy, 22 marzo 2013, reperibile su opendemocracy.net; Joe Davidson, «Workfare and the Management of the Consolidated Surplus Population», Spectre 1, 2013, reperibile su spectrecambridge.wordpress.com; Marta Russell, «The New Reserve Army of Labor?», Review of Political Economics 33: 2, 2001. 140. Aufheben, «Editorial: The “New” Workfare Schemes in Historical and Class Context», Aufheben 21, 2012, reperibile su libcom.org, pag. 4. 141. «Nel 1820 la Gran Bretagna aveva una popolazione di 12 milioni di abitanti, ma tra il 1820 e il 1915 emigrarono in 16 milioni. In altre parole, più della metà dell’incremento demografico emigrò ogni anno. Nello stesso periodo, il totale dell’emigrazione europea verso il Nuovo Mondo (“regioni temperate con insediamenti bianchi”) fu di 50 milioni di persone.» Foster, McChesney e Jonna, «The Global Reserve Army of Labor and the New Imperialism»; Davis, Planet of Slums, pag. 183. 142. Per esempio, negli anni Settanta e Ottanta la Svizzera mantenne un tasso di disoccupazione basso, nonostante una crescita lenta, rimpatriando gli immigrati italiani. Therborn, Why Some People Are More Unemployed than Others, pag. 28. 143. Tara Brian e Frank Laczko (a cura di), Fatal Journeys: Tracking Lives Lost During Migration, ILO 2014, reperibile su publications.iom.int, pag. 12. 144. Dennis Arnold e John Pickles, «Global Work, Surplus Labor and the Precarious Economies of the Border», Antipode 43: 5, 2011. 145. Tra il 1998 e il 2013 la popolazione carceraria è aumentata dal 25 al 30%, mentre la popolazione mondiale è aumentata del 20%. Roy Walmsley, World Prison Population List, International Centre for Prison Studies 2013, reperibile su prisonstudies.org, pag. 1. 146. Molly Moore, «In France, Prisons Filled with Muslims», Washington Post, 29 aprile 2008; Scott Gilmore, «Canada’s Racism Problem? It’s Even Worse than America’s», Macleans, 22 gennaio 2015, reperibile su macleans.ca; Jaime Amparo-Alves, «Living in the Necropolis: Homo Sacer and the Black Inhuman Condition in Sao Paulo/Brazil», presentato al Critical Ethnic Studies and the Future of Genocide, Univesity of California, Riverside, marzo 2011, reperibile su repositories.lib.utexas.edu. 147. Alexander, New Jim Crow, pag. 13. 148. George S. Rigakos e Aysegul Ergul, «Policing the Industrial Reserve Army: An International Study», Crime, Law and Social Change 56: 4, 2011, pag. 355. 149. Angela Y. Davis, «Deepening the Debate over Mass Incarceration», Socialism and Democracy 28: 3, 2014, pag. 16. 150. È sufficiente indicare qui due punti: che il picco nella costruzione di carceri fu raggiunto in un periodo di diminuzione del tasso di criminalità e che, benché il tasso di criminalità sia rimasto costante negli ultimi trent’anni, gli Stati Uniti sono diventati sei volte più punitivi. Alexander, New Jim Crow, pag. 218; Wacquant, «Class, Race and Hyperincarceration», pag. 45. 151. Wacquant, «Class, Race and Hyperincarceration», pag. 42. 152. In California l’80% degli accusati si avvale di un avvocato d’ufficio. Ruth Wilson 334

NOTE

Gilmore, «Globalisation and US Prison Growth: From Military Keynesianism to Post-Keynesian Militarism», Race & Class 40: 2-3, 1998-1999, pag. 172. 153. Wacquant, «Class, Race and Hyperincarceration», pag. 44. 154. Derek Neal e Armin Rick, The Prison Boom and the Lack of Black Progress after Smith and Welch, National Bureau of Economic Research, 2014, reperibile su nber.org, pag. 2. 155. Wacquant, «Class, Race and Hyperincarceration», pag. 43. 156. Wacquant, «From Slavery to Mass Incarceration: Rethinking the “Race” Question in America», New Left Review II/13, gennaio-febbraio 2002, pag. 42. 157. Ibid.; Alexander, New Jim Crow, pag. 219. 158. Wacquant, «From Slavery to Mass Incarceration», pag. 57-8; Rocamadur, «The Feral Underclass Hits the Streets: On English Riots and Other Ordeals», Sic 2, 2014, reperibile su communisation.net, pag. 104, n. 10. 159. Jeremy Travis, Bruce Western e Steve Redburn, The Growth of Incarceration in the United States: Exploring Causes and Consequences, National Academies Press 2014, pag. 258; Neal e Rick, Prison Boom and the Lack of Black Progress, pag. 34. 160. Le dinamiche che inducono i sindacati e i movimenti sociali ad adattarsi a nuovi obiettivi devono essere necessariamente risolti nella pratica e nei contesti locali. I sindacati hanno modi e strutture differenti nazione per nazione e settore per settore, rendendo di fatto obbligatori degli approcci su misura. 161. Per esempio, i recenti scioperi nei fast food hanno generato diverse previsioni secondo cui l’aumento dei salari minimi incentiverebbe l’automazione. Considerato quanto siano miserevoli questi lavori, riteniamo la loro automazione un effetto inequivocabilmente positivo. Steven Greenhouse, «$15 Wage in Fast Food Stirs Debate on Effects», New York Times, 4 dicembre 2013. 162. Paul Lafargue, Il diritto alla pigrizia, Piano B 2009. 163. Per una riflessione su come questo possa realizzarsi in pratica, vedi Angela Y. Davis, Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, minimum fax, 2009. CAPITOLO 6 1. In maniera sia implicita che esplicita, questo capitolo deve molto al lavoro di Kathi Weeks. Vedi Kathi Weeks, The Problem with Work: Feminism, Marxism, Antiwork Politics and Postwork Imaginaries, Duke University Press 2011. 2. «Communiqué from an Absent Future», We Want Everything, 24 settembre 2009, reperibile su wewanteverything.wordpress.com. 3. Ben Trott, «Walking in the Right Direction?», Turbulence 1, 2007, reperibile su turbulence.org.uk; Marco Deseriis e Jodi Dean, «A Movement Without Demands?», Possible Futures, 3 gennaio 2012, reperibile su possible-futures.org; Bertie Russell, «Demanding the Future? What a Demand Can Do», Journal of Aesthetics and Protest, 2014, reperibile su joaap.org. Weeks, Problem with Work, pag. 218-24, 175. 4. 5. Questo è un aspetto che le distingue dalle «richieste di transizione» articolate da Leon Trotsky. Vedi Trott, «Walking in the Right Direction?»; Leon Trotsky, Programma di transizione. L’agonia mortale del capitalismo e i compiti della Quarta internazionale, Massari 2009. 335

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6. Sui criteri di desiderabilità, applicabilità e fattibilità vedi Erik Olin Wright, Envisioning Real Utopias, Verso 2010, pag. 20-5. 7. Come esempi della prima opzione vedi il movimento stakanovista o i commenti di Lenin al metodo di gestione taylorista: «I russi sono cattivi lavoratori se paragonati a quelli delle nazioni avanzate... dobbiamo organizzare in Russia lo studio e l’insegnamento del sistema taylorista e tentare sistematicamente di adattarlo ai nostri bisogni.» Vladimir Lenin, «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, Opere, vol. 27, Editori Riuniti 1967; Lewis H. Siegelbaum, Stakhanovism and the Politics of Productivity in USSR, 1935-1941, Cambridge University Press 1990. Per una critica all’idea di libertà senza abbondanza vedi l’affermazione di Marx e Engels nell’Ideologia tedesca: «Questo sviluppo delle forze produttive […] è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria». 8. Non le analizzeremo qui per problemi di spazio, ma ci sono importanti questioni etiche attorno al rapporto tra macchine e lavoro – in particolare riguardo l’intelligenza artificiale. Tali problematiche sono destinate a diventare sempre più importanti nei prossimi decenni. Per un maggiore approfondimento vedi Thomas Metzinger, Il tunnel dell’Io. Scienza della mente e mito del soggetto, Cortina 2009; Illah Reza Nourbakhsh, Robot fra noi. Le creature intelligenti che stiamo per costruire, Bollati Boringhieri 2014. 9. Mentre la fine del lavoro è un tema comune nella sinistra, la richiesta di piena automazione trova, sorprendentemente, poche esternazioni esplicite. Vedi, per esempio, Eldridge Cleaver, «On Lumpen Ideology», The Black Scholar 4: 3, 1972; Valerie Solanas, SCUM – Manifesto per l’eliminazione dei maschi, ES 2013; J. Jesse Ramìrez, «Marcuse Among the Technocrats: America, Automation and Postcapitalist Utopias, 1900-1941», American Studies 57: 1, 2012. Più di recente Aaron Bastani di NovaraMedia si è appellato a un «comunismo di lusso e pienamente automatizzato» e membri del collettivo Plan C hanno fatto un simile appello al «luxury communism»: discussione a cui questo libro tenta di contribuire. 10. «Lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale è il compito storico e la legittimazione del capitale. Appunto così esso crea inconsciamente le condizioni materiali di una forma di produzione superiore», Karl Marx, Il Capitale, Libro III, cap. 15. 11. Marilyn Fischer, «Tensions from Technology in Marx’s Communist Society», Journal of Value Inquiry 16: 2, 1982, pag. 125-126; Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, The Future of Employment: How Susceptible Are Jobs to Computerisation?, 17 settembre 2013, reperibile su oxfordmartin.ox.ac.ul, pag. 8; Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. 13-15. 12. Karl Marx, Grundrisse, PiGreco 2011. 13. Karl Marx, Il Capitale. 14. Maarten Goos, How the World of Work Is Changing: A Review of the Evidence, ILO 2013, reperibile su ilo.org, pag. 10-12; Frey e Osborne, Future of Employment, pag. 10. 15. Bruno Latour, «How to Write “The Prince” for Machines as Well as Machinations», in Brian Elliot (a cura di), Technology and Social Change, Edinburgh University Press 1988, pag. 27. 336

NOTE

16. Fiona Tregenna, Manufacturing Productivity, Deindustrialization and Reindustrialization, World Institute for Development Economics Research 2011, reperibile su econstor.eu, pag. 7. 17. Colin Gill, Work, Unemployment and the New Technology, Polity 1985, pag. 95. 18. Tessa Morris-Suzuki, «Robots and Capitalism», in Jim Davis, Thomas Hirschl e Michael Stack (a cura di), Cutting Edge: Technology, Information, Capitalism and Social Revolution, Verso 1997, pag. 15; World Robotics: Industrial Robots 2014, International Federation of Robotics 2014, reperibile su worldrobotics.org, pag. 15. 19. A livello globale, il 45% dei lavoratori è impiegato nei servizi, il 32% nell’agricoltura e il 23% nell’industria, ma più della metà della crescita occupazionale proviene dal settore dei servizi. Global Employment Trends 2014: Risk of a Jobless Recovery?, ILO 2014, pag. 23. 20. Frey e Osborne, Future of Employment, pag. 11. 21. Questa cifra non include i molti robot venduti per servizi d’intrattenimento, domestici e per servizi personali. World Robotics: Service Robots 2014, International Federation of Robotics 2014, reperibile su worldrobotics.org, pag. 20. 22. Negli Stati Uniti in questo periodo i lavori di routine sono diminuiti dal 60 al 40%. David Autor, Frank Levy e Richard Murnane, «The Skill Content of Recent Technological Change: An Empirical Exploration», Quarterly Journal of Economics 118: 4, 2003, pag. 1296; Stefania Albanesi, Victoria Gregory, Christina Patterson e Ayşegül Şahin, «Is Job Polarization Holding Back the Job Market?», Liberty Street Economic, 27 marzo 2013, reperibile su libertystreeteconomics.newyorkfed.org. 23. Guido Matias Cortes, Nir Jaimovich, Christopher J. Nekarda e Henry E. Siu, The Micro and Macro of Disappearing Routine Jobs: A Flows Approach, National Bureau of Economic Research, luglio 2014, reperibile su nber.org. 24. David Autor, Polanyi’s Paradox and the Shape of Employment Growth, National Bureau of Economic Research, settembre 2014, reperibile su nber. org; Maarten Goos, Alan Manning e Anna Salomons, «Job Polarization in Europe», American Economic Review 99: 2, 2009. 25. Morris-Suzuki, «Robots and Capitalism», pag. 17. 26. L’importanza della stampa 3D (o della cosiddetta produzione additiva) sta in primo luogo nella sua capacità di creare complessità a partire da tecnologie semplici: tutto può essere creato in questo modo, dalle case ai motori dei jet passando per gli organi per trapianti. In secondo luogo, la sua capacità di ridurre drasticamente i costi di costruzione (in termini sia di materie prime che di forza lavoro) preannuncia una nuova era nella realizzazione di moduli infrastruttutturali e abitativi. Infine, la sua flessibilità è un progresso notevole, poiché permette di superare i tradizionali costi associati al rinnovo di investimenti fissi per nuove linee di produzione. 27. Le aziende saranno probabilmente le prime ad adottare questa tecnologia, visto l’enorme risparmio che può comportare. I governi e i servizi di pubblica utilità (come i treni metropolitani automatici già in funzione a Londra e altrove) saranno probabilmente la seconda ondata di fruitori. Infine, a seguito di modifiche legali e assicurative, i consumatori saranno costretti ad adottare questa tecnologia. 337

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28. Isaac Arnsdorf, «Rolls-Royce Drone Ships Challenge $375 Billion Industry: Freight», Bloomberg, 25 febbraio 2014, reperibile su bloomberg.com; «Amazon Testing Drones for Deliveries», BBC News, 2 dicembre 2013; Danielle Kucera, «Amazon Acquires Kiva Systems in Second-Biggest Takeover», Bloomberg, 19 marzo 2012, reperibile su bloomberg.com; Vicky Validakis, «Rio’s Driverless Truck Move 100 Million Tonnes», Mining Australia, 24 aprile 2013, reperibile su miningaustralia.com.au; Elise Hu, «The Fast Food Restaurant that Require Few Human Workers», 29 agosto 2013, reperibile su npr.org; Christopher Steiner, Automate This: How Algorithms Came to Rule Our World, Penguin/ Portfolio 2012; Mark Levinson, The Box: How the Shipping Container Made the World Smaller and the World Economy Bigger, Princeton University Press 2008; Daniel Beunza, Donald MacKenzie, Yuval Milo e Juan Pablo PardoGuerra, Impersonal Efficiency and the Dangers of a Fully Automated Security Exchange, Foresight 2011. 29. Per un riepilogo un po’ datato ma ancora utile dei vari processi di automazione vedi Ramin Ramtin, Capitalism and Automation: Revolution in Technology and Capitalist Breakdown, Pluto 1991, cap. 4. 30. Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli 2015, cap. 2-4. 31. Ibid., cap. 1; Frey e Osborne, Future of Employment, pag. 44. 32. Paul Lippe e Daniel Martin Katz, «10 Prediction About How IBM’s Watson Will Impact the Legal Profession», ABA Journal, 2 ottobre 2014, reperibile su abajournal.com. 33. Brynjolfsson e McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine, cap. 2. 34. Dave Cliff, Dan Brown e Philip Treleaven, Technology Trends in the Financial Markets: A 2020 Vision, Foresight 2011, pag. 36. L’esatta tempistica dell’automazione dei mercati finanziari dipende dal singolo prodotto preso in esame. Per un profilo dell’adozione incostante dell’automazione nel trading, vedi Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, Technology at Work: The Future of Innovation and Employment, Citi – Global Perspective and Solution 2015, pag. 26-7, reperibile su ir.citi.com. 35. Vauhini Vara, «The Lowe’s Robot and the Future of Service Work», New Yorker, 29 ottobre 2014. 36. Frey e Osborne, Future of Employment, pag. 19. 37. Ibid. 38. In un inaspettato revival della teoria marxista più classica, due recenti modelli hanno suggerito che l’automazione porterà all’impoverimento dei lavoratori: Jeffrey Sachs, Seth Benzell e Guillermo LaGarda, Robots: Curse or Blessing? A Basic Framework, National Bureau of Economic Research, aprile 2015, reperibile su nber.org; Seth Benzell, Laurence Kotlikoff, Guillermo LaGarda e Jeffrey Sachs, Robots Are Us: Some Economics of Human Replacement, National Bureau of Economic Research, febbraio 2015, reperibile su nber.org. 39. Lawrence Summers, «Roundtable: the Future of Jobs», presentato a The Future of Work in the Age of the Machine, Hamilton Project, Washington, 19 febbraio 2015, reperibile su hamiltonproject.org. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro sostiene inoltre che il lento incremento del tasso di occupazione globale è principalmente correlato all’altrettanto lenta crescita economica, ma 338

NOTE

sottolinea anche che l’incremento della produttività si è ripreso più velocemente di quello occupazionale. ILO, World Employment and Social Outlook: The Changing Nature of Jobs, ILO 2015, pag. 19-23. 40. Bank of International Settlements, Annual Report 2013/2014, pag. 58-60, reperibile su bis.org; Robert Gordon, «US Productivity Growth: The Slowdown Has Returned After a Temporary Revival», International Productivity Monitor 25, 2013; David Autor, «Roundtable: The Future of Jobs», presentato a The Future of Work in the Age of the Machine, Hamilton Project, Washington, 19 febbraio 2015, reperibile su hamiltonproject.org. 41. Susantu Basu e John Fernald, Information and Communications Technology as a General-Purpose Technology: Evidence from the U.S. Industry Data, Federal Reserve Bank of San Francisco 2006, pag. 17, reperibile su frbsf.org. 42. Ad ogni modo, nuove ricerche suggeriscono che i robot industriali hanno già contribuito per circa il 16% alla recente crescita nella produttività della forza lavoro. Georg Graetz e Guy Michaels, Robots at Work, Centre for Economic Performance 2015, reperibile su events.crei.cat, pag. 21. 43. Frey e Osborne, Technology at Work, pag. 40. 44. Frey e Osborne, Future of Employment, pag. 38; Stuart Elliott, «Anticipating a Luddite Revival», Issues in Science and Technology 30: 3, 2014, reperibile su issues.org. 45. La tipica replica marxista alla piena automazione è puntare il dito contro i suoi limiti «oggettivi», sostenendo che il capitalismo non eliminerà mai la sua fonte di plusvalore (la forza lavoro). Tuttavia questa replica confonde un esito sistemico con un incentivo individuale, un ostacolo interno con un limite assoluto e una lotta politica con una diatriba teorica. Innanzitutto, l’imperativo dei singoli è aumentare la produttività della tecnologia in modo da guadagnare un plusvalore aggiunto rispetto ad altri capitalisti. L’esito sistemico di questa operazione è dannoso per i capitalisti nel loro complesso (si produce meno plusvalore), ma tuttavia resta vantaggioso per i capitalisti singoli, e dunque proseguirà. In secondo luogo, i limiti del sistema produttivo capitalistico sono erroneamente presi per i limiti di ogni possibile cambiamento: se il capitalismo non può sopravvivere alla piena automazione, allora si ritiene che la piena automazione sia impossibile. Questo tipo di posizione fa del capitalismo il punto d’arrivo della Storia, rifiutando a priori qualunque ipotesi postcapitalistica. Infine, l’attrito d’origine teoretica tra incremento produttivo, crescente composizione organica del capitale e un ridotto tasso di profitto, finisce per presentare uno scenario che il Capitale non permetterebbe mai per via dei suoi effetti sistemici. In questo resoconto, è assente un movimento politico che lotterebbe per spingere il capitalismo al di là di se stesso. In altre parole, un ragionamento secondo cui la piena automazione non si avvererà mai, semplicemente sancisce come inefficace la lotta politica. Concludendo, questa linea di pensiero rinuncia a ogni riflessione critica sul capitalismo e lo accetta come fase finale della Storia. Come dichiara apertamente Ramin Ramtin: «Il fatto che [la piena automazione] possa risolversi in contraddizioni socioeconomiche e politiche esplosive non la rende per questo impossibile» (Ramtin, Capitalism and Automation, pag. 103). La pura e semplice scommessa del rivendicare la piena automazione è immaginare che il benessere possa essere prodotto in modi non capitalistici. 339

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Per alcune indicative critiche alla piena automazione, vedi Ernest Mandel, Late Capitalism, Verso 1998, pag. 205; George Caffentzis, «The End of Work or the Renaissance of Slavery? A Critique of Rifkin and Negri», in Letters of Blood and Fire, PM Press 2012, pag. 78. 46. Bisogna dire che alcune implicite mansioni cognitive vengono sempre più automatizzate attraverso il controllo ambientale e il machine learning, con innovazioni ancora più recenti che eliminano finanche il bisogno di un ambiente controllato. Frey e Osborne, Future of Employment, pag. 27; Autor, Polanyi’s Paradox; Sarah Yang, «New “Deep Learning” Technique Enables Robot Mastery of Skills via Trial and Error», 21 maggio 2015, reperibile su phys.org. 47. Secondo Marx è per questa ragione che «in una società comunista, le macchine disporrebbero di un campo di azione ben diverso che nella società borghese». Marx, Il Capitale. 48. Silvia Federici, «Permanent Reproductive Crisis: An Interview», Mute, 7 marzo 2013, reperibile su metamute.org. 49. Per un’eccellente visione d’insieme di alcune storiche esperienze riguardanti soluzioni domestiche alternative vedi Dolores Hayden, Grand Domestic Revolution: A History of Feminist Designs for American Homes, Neighbourhoods and Cities, MIT press 1996. 50. Tuttavia, bisogna riconoscere che, storicamente, i dispositivi salva-lavoro domestico tendono a imporre notevoli aspettative sul mantenimento della casa piuttosto che creare più tempo libero. Ruth Schwartz Cowan, More Work for Mother: The Ironies of Household Tecnology from the Open Heart to the Microwave, Basic Books 1985; Leopoldina Fortunati, L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, Marsilio 1981; Silvia Federici, «The Reproduction of Labor Power in the Global Economy and the Unfinished Feminist Revolution», in Revolution at Point Zero: Housework, Reproduction and Feminist Struggle, PM Press 2012, pag. 106-107. 51. Intendiamo il termine «produttività» nella sua accezione più strettamente marxista, non per insinuare che il lavoro domestico sia inutile. 52. «Robots Capable of Sorting Through and Folding Piles of Rumpled Clothes», 16 marzo 2015, reperibile su phys.org. 53. Ringraziamo Helen Hester per averci fatto notare questo aspetto. 54. Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex: The Case of Feminist Revolution, Farrar, Straus & Giroux 2003, pag. 180-181. 55. E.P. Thompson, «Time, Work-Discipline, and Industrial Capitalism», Past & Present 38: 1, 1967, pag. 85; Stanley Aronowitz, Dawn Esposito, William DiFazio e Margaret Yard, «The Post-Work Manifesto», in Stanley Aronowitz e Jonathan Cutler (a cura di), Post-Work: The Wages of Cybernation, Routledge 1998, pag. 59-60; David Graeber, «Revolution at the Level of Common Sense», in Federico Campagna ed Emanuele Campiglio (a cura di), What Are We Fighting For: A Radical Collective Manifesto, Pluto 2012, pag. 171. 56. Benjamin Kline Hunnicutt, Work Without End: Abandoning Shorter Hours for the Right to Work, Temple University Press 1988, pag. 9. 57. Roland Paulsen, «Non-Work at Work: Resistance or What?», Organization, 2013, reperibile su sagepub.com. 58. Witold Rybczynki, Waiting for the Weekend, Penguin 1991, pag. 115-117; 340

NOTE

Thompson, «Time, Work-Discipline and Industrial Capitalism», pag. 76. 59. Rybczynki, Waiting for the Weekend, pag. 133. 60. Hunnicutt, Work Without End, pag. 1. 61. Ibid. 62. Ibid. 63. Paul Lafargue, Il diritto alla pigrizia, Piano B 2009. 64. John Maynard Keynes, Esortazioni e profezie, Il Saggiatore 2011; Hunnicutt, Work Without End, pag. 155. 65. Marx, Il Capitale, Libro III, cap. 48. 66. Hunnicutt, Work Without End, cap. 7. 67. Alcune nazioni europee – soprattutto la Francia – hanno ridotto la settimana lavorativa a trentacinque ore, ma il trend generale è stato quello di mantenere un monte di quaranta ore settimanali. Gli anni Settanta hanno visto alcuni settori produttivi scioperare apertamente in favore di una settimana lavorativa più breve. Ibid.; Anders Hayden, «Patterns and Purpose of Work-Time Reduction: A Cross-National Comparison», in Anna Coote e Jane Frankiln (a cura di), Time on Our Side: Why We Need a Shorter Working Week, New Economics Foundation 2013, pag. 128; Aronowitz et al., «Post-Work Manifesto», pag 63; Chris Harman, Is a Machine After Your Job? New Technology and the Struggle for Socialism, 1979, reperibile su marxists.org, parte 8. 68. Hunnicutt, Work Without End, pag. 2. 69. In particolare, questo fenomeno sembra abbia raggiunto un punto di svolta negli Stati Uniti. Nonostante l’aggiunta di 40 milioni di nuovi lavoratori, le ore lavorative complessive sono rimaste le stesse tra il 1998 e il 2013. Shawn Sprague, «What Can Labor Productivity Tell Us About the U.S. Economy?», Beyond the Numbers: Productivity 3: 12, 2014, pag. 1. 70. Jonathan Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi 2015. 71. Lydia Saad, «The “40-Hour” Workweek Is Actualy Longer – by Seven Hours», Gallup, 29 agosto 2014, reperibile su gallup.com. 72. Valerie Bryson, «Time, Care and Gender Inequalities», in Coote e Franklin, Time on Our Side, pag. 56. 73. Craig Lambert, «The Second Job You Don’t Know You Have», Politico, 20 maggio 2015, reperibile su politico.eu. 74. Guy Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino 2012. 75. Numerose argomentazioni favorevoli all’accorciamento della settimana lavorativa si sono ripetute nel corso della storia: i suoi benefici mentali e fisici, la risposta alla disoccupazione tecnologica, l’aumento della produttività che potrebbe comportare il più forte potere contrattuale della forza lavoro. Queste argomentazioni erano dominanti all’inizio del XIX secolo come lo sono oggi. 76. David Rosnick e Mark Weisbrot, Are Shorter Work Hours Good for the Enviroment? A Comparison of US and European Energy Consumption, Center for Economic and Policy Research, dicembre 2006, reperibile su cepr.net, pag. 7; Anderd Hayden e John M. Shandra, «Hours of Work and the Ecological Footprint of Nations: An Exploratory Analysis», Local Environment 14:6, 2009. 77. Juliet Schor, «The Triple Dividend», in Coote e Franklin, Time on Our Side, pag. 9-10. 78. Denis Campbell, «UK Need Four-Day Week to Combat Stress, Says Top 341

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Doctor», Guardian, 1 luglio 2014. 79. Ibid. 80. Mondli Hlatshwayo, «NUMSA and Solidarity’s Responses to Technological Changes and the ArcelorMittal Vanderbijlpark Plant: Unions Caught on the Back Foot», Global Labour Journal 5: 3, 2014; Ramtin, Capitalism and Automation, pag. 132. 81. Questa era una posizione ventilata dal TUC (Trades Union Congress) in Gran Bretagna negli anni Settanta e che ha avuto in parte successo con gli operai dell’industria metallurgica nella Germania Ovest. Gill, Work, Unemployment and the New Technology, pag. 171-172. 82. Questo fu quello che accadde durante lo sciopero dei camionisti francesi nel 1996. Alan Riding, «French Trucker Strike Ends with Indirect Defeat for Government», New York Times, 30 novembre 1996. 83. André Gorz, La strada del paradiso, Edizioni Lavoro 1984. 84. Anna Coote, Jane Franklin e Andrew Simms, 21 Hours, New Economics Foundation 2010, reperibile su neweconomics.org; Tom Hodgkinson, «Campaigners Call for 30-Hour Working Week to Allow for Healtier, Fairer Society – and More Time for Fun», Independent, 24 aprile 2014. 85. Jo Littler, Nina Power e Precarious Workers Brigade, «Life After Work», New Left Project, 20 maggio 2014, reperibile su newleftproject.org. 86. Will Dahlgreen, «Introduce a Four Day Week, Say Public», YouGov, 16 aprile 2014, reperibile su yougov.co.uk. 87. Schor, «Triple Dividend», pag. 8. 88. Anna Coote, «Introduction: A New Economics of Work and Time», in Coote e Franklin, Time on Our Side, pag. XXI; Hayden, «Pattern and Purpose of WorkTime Reduction». 89. Sottotitolo preso dall’omonima canzone del duo inglese Sleaford Mods (The Wage Don’t Fit, N.d.T.). 90. Paul Mattick, «The Economics of Cybernation», New Politics 1: 4, 1962, pag. 30. 91. Questa idea è stata anche chiamata reddito garantito, dividendo sociale, reddito di cittadinanza e tassazione negativa. Ognuna di queste definizioni ne implica una variante lievemente diversa. Preferiamo usare la formula «reddito base universale» perché non limita subito il campo di applicazione (come fa la dicitura «reddito di cittadinanza») e non dipende da un tetto reddituale (come nel caso di «tassazione negativa»). 92. Il reddito universale di base è stato raccomandato da moltissimi pensatori. Vedi, tra i tanti riferimenti, Thomas Paine, «Agrarian Justice», in Mark Philp (a cura di), Rights of Man, Common Sense and Other Political Writings, Oxford University Press 2008; Bertrand Russell, Strade per la libertà, Newton Compton 1971; Robert Theobald (a cura di), The Guaranteed Income: Next Step in Economic Evolution?, Doubleday 1966; Martin Luther King, Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?, Società editrice internazionale, 1970; Milton Friedman, Capitalismo e libertà, Istituto Bruno Leoni 2010; Murray Bookchin, Post-Scarcity Anarchism, AK Press 2004; Michael Hardt e Toni Negri, Impero, Rizzoli 2002; Weeks, Problem with Work. 93. Walter Van Trier, «Who Framed “Social Dividend”?», presentato alla Prima Conferenza USBIG (US Basic Income Guarantee), CUNY, 8 marzo 2002, re342

NOTE

peribile su econpapers.repec.org, pag. 29. 94. Lynn Chancer, «Benefitting from Pragmatic Vision, Part I: The Case for Guaranteed Income in Principle», in Aronowitz e Cutler, Post-Work, pag. 86. 95. Evelyn Forget, The Town with No Poverty: Using Health Administration Data to Revisit Outcomes of a Canadian Guaranteed Annual Income Field Experiment, University of Manitoba 2011; Derek Hum e Wayne Simpson, «A Guaranteed Annual Income? From Mincome to the Millennium», Policy Options/Options Politique, febbraio 2001. 96. Chancer, «Benefitting from Pragmatic Vision, Part I», pag. 86. 97. Nello specifico, negli Stati Uniti i provvedimenti includevano il Family Assistance Plan di Nixon e il Better Jobs and Income Program di Carter, entrambi rimasti inattuati. In Australia un reddito garantito fu inoltre raccomandato dalla Poverty Commission nel 1973, ma il sostegno a tali posizioni evaporò dopo le elezioni che portarono a un cambio di governo. Ibid.; Barry Jones, Sleepers Wake! Technology and the Future of Work, Oxford University Press 1982, pag. 204-205. 98. Una risorsa indispensabile per la storia dietro questi alti e bassi nelle politiche favorevoli al reddito base, e insieme guida essenziale a come l’inquadramento culturale determini l’applicabilità di tali linee guida, è Brian Steensland, The Failed Welfare Revolution: America’s Struggle over Guaranteed Income Policy, Princeton University Press 2007. 99. Daniel Raventós, Basic Income: The Material Conditions of Freedom, Pluto 2007, pag. 12. 100. Paul Krugman, «Simpathy for the Luddies», New York Times, 13 giugno 2013; Martin Wolf, «Enslave the Robots and Free the Poor», Financial Times, 11 febbraio 2014. 101. Più nello specifico, il partito dei Verdi d’Inghilterra e Galles l’ha inserita nel suo manifesto; il Partito Liberale Canadese ha messo in agenda la proposta, e il suo segretario l’ha spinta nel 2001; in Canada la Commissione senatoriale per gli affari sociali lo ha raccomandato come metodo per combattere la povertà e i cittadini svizzeri hanno partecipato a un referendum in merito. Denis Balibouse, «Swiss to Vote on 2.500 Franc Basic Annual Income for Every Adult»; Reuters, 4 ottobre 2013; Hum e Simpson, «A Guaranteed Annual Income?»; Rigmar Osterkamp, «The Basic Income Grant Pilot Project in Namibia: A Critical Assessment», Basic Income Studies 8: 1, 2013; Davala et al., Basic Income; Forget, The Town with No Poverty, pag. 2. 102. Davala et al., Basic Income; Barbara Jacobson, «Basic Income Is a Human Right! A Report on the Demonstration in Berlin», Basic Income UK, 29 settembre 2013, reperibile su basicincome.org.uk; Alfredo Mazzamauro, «“Only One Big Project”: Italy’s Burgeoning Social Movements», ROAR Magazine, 20 gennaio 2014. Vedi anche The Basic Income Earth Network (BIEN), che promuove una campagna a favore del reddito base universale dal 1986. 103. Questa è una scelta in fase di concezione della proposta, tuttavia – come la variante conservatrice del reddito universale di base (o la funzionalmente simile tassazione negativa) – spesso chiama in causa un accertamento delle condizioni economiche. Vedi, per esempio, Lewis Meriam, Relief and Social Security, Brooking Institution 1946; Friedman, Capitalism and Freedom. 343

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104. La pianificazione di un reddito base universale implicherebbe idealmente una trasformazione del welfare state. I programmi che forniscono servizi sociali devono essere mantenuti ed espansi – per esempio, la sanità pubblica, il sistema scolastico, il diritto alla casa, i trasporti pubblici e l’accesso a internet. Questo dovrebbe essere uno dei primi obiettivi della sinistra, non solo per i loro benefici intrinseci ma anche perché l’espansione di tali servizi è necessaria per diminuire il consumo energetico globale. Alyssa Battistoni, «Alive in the Sunshine», Jacobin 13, 2014, reperibile su jacobinmag.com; Wright, Envisioning Real Utopias, pag. 4. 105. Forget, The Town with No Poverty; Hum e Simpson, «A Guaranteed Annual Income?»; Chancer, «Benefitting from Pragmatic Vision, Part I», pag. 99-109. 106. L’ascesa del reddito universale di base negli anni Sessanta e Settanta fu in buona parte dovuta a questa sua capacità di raccogliere il consenso trasversale di più fazioni politiche. Steensland, Failed Welfare Revolution, pag. 18-19. 107. Wright, Envisioning Real Utopias, pag. 218. 108. Cutler e Aronowitz, «Quitting Time», pag. 8. 109. Michał Kalecki, «Political Aspects of Full Employment», Political Quarterly 14: 4, 1943. 110. L’influente Holmes and Rahe Stress Scale indica come la perdita del lavoro sia uno degli eventi più stressanti che un adulto possa ritrovarsi ad affrontare. Richard H. Rahe e Ranson J. Arthur, «Life Change and Illness Studies: Past History and Future Directions», Journal of Human Stress 4: 1, 1978. 111. Il reddito di base è stato la proposta centrale del collettivo giapponese Blue Grass, un gruppo di attivisti per i diritti dei disabili che hanno sostenuto questa idea sin dal 1970. Toru Yamamori, «Una Sola Moltitudine: Struggle for Basic Income and the Common Logic that Emerged from Italy, the UK and Japan», presentato al convegno Immaterial Labour, Multitudes and New Social Subject, King’s College, Università di Cambridge, 29 aprile 2006, reperibile su academia.eu, pag. 9-12. 112. Paolo Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi 2014. 113. Marx ed Engels, Ideologia tedesca. 114. Robert J. Van Der Veen e Philippe Van Parijs, «A Capitalist Road to Communism», Theory and Society 15: 5, 1986, pag. 645-646. 115. Weeks, Problem with Work, pag. 230. 116. Ailsa Mckay e Jo Vanevery, «Gender, Family and Income Maintenance: A Feminist Case for Citizens Basic Income», Social Politics: International Studies in Gender, State and Society 7: 2, 2000, pag. 281; Gorz, La strada del paradiso. 117. In particolare, questo distingue in modo fondamentale la posizione qui espressa da alcune altre proposte (come l’economia partecipativa o il New Socialism) che individuano esplicitamente nell’impegno e nel sacrificio le basi del riconoscimento e del compenso. Michael Albert, Oltre il capitalismo. Un’utopia realistica, Elèuthera 2007; W. Paul Cockshott e Allin Cottrell, Towards a New Socialism, Spokesman 1993, pag. 27; Karl Marx, Critica del programma di Gotha, Massari 2008. 118. Weeks, Problem with Work, pag. 149. 344

NOTE

119. Mckay e Vanevery, «Gender, Family and Income Maintenance», pag. 280. 120. Hum e Simpson, «A Guaranteed Annual Income?», pag. 81. 121. Questa è una delle ragioni per cui il reddito base universale è una richiesta migliore di quella per un salario per il lavoro domestico. Weeks, Problem with Work, pag. 144. 122. Raventós, Basic Income, cap. 8; Chancer, «Benefitting from Pragmatic Vision, Part I», pag. 120-122; Guy Standing, «The Precariat Needs a Basic Income», Financial Times, 21 novembre 2013; Gorz, La strada del paradiso. 123. Per un’eloquente polemica contro l’etica del lavoro vedi Federico Campagna, L’ultima notte. Anti-lavoro, ateismo, avventura, Postmedia 2015. 124. Steensland, Failed Welfare Revolution, pag. 13-18. 125. Ibid. 126. Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi 2013. 127. Campagna, L’ultima notte. 128. Weeks, Problem with Work, pag. 44. 129. Ibid. 130. Ibid. 131. Youngjoo Cha e Kim A. Weeden, «Overwork and the Slow Convergence in the Gender Gap in Wages», American Sociological Review 79: 3, 2014. 132. Keir Milburn, «On Social Strikes and Directional Demands», Plan C, 7 maggio 2015, reperibile su weareplanc.org. 133. State of the Global Workplace: Employee Engagement Insight for Business Leaders Worldwide, Gallup, 2013, reperibile su ihrim.org, pag. 12. 134. Come sempre, il giornale satirico The Onion è un passo avanti agli altri, titolando di recente un articolo: «I lavoratori dell’industria cinese temono di non essere mai rimpiazzati dalle macchine». 135. Gáspár Miklós Tamás, «Telling the Truth About Class», Grundrisse 22, 2007, reperibile su grundrisse.net. 136. Pur aderendo a pratiche di folk politics non modulabile, il movimento del «ritorno alla terra» dei Settanta fu più che altro espressione del desiderio di sfuggire all’etica del lavoro dominante. Bernard Marszalek, «Lafargue for Today», in The Right to Be Lazy, AK Press 2011, pag. 13. 137. Gorz, La strada del paradiso. 138. Steensland, Failed Welfare Revolution, pag. 220. CAPITOLO 7 1. Lesley Wood, Crisis and Control: The Militarization of Protest Policing, Pluto 2014. 2. Per una panoramica di alcuni dei dibattiti sulle origini del capitalismo vedi Ellen Meiksins Wood, Imperi del capitale, Meltemi 2007, cap. 1-3. 3. Per un passo fondamentale verso la comprensione delle condizioni del capitalismo postcoloniale e dell’egemonia dello «sviluppo», vedi Kalyan Sanyal, Rethinking Capitalist Development: Primitive Accumulation, Governmentality and Post-Colonial Capitalism, Routledge India 2013. 4. Le condizioni uniche del Venezuela sembrano aver prodotto il solo spazio in cui questa strategia è stata adottata in maniera significativa, sebbene in una 345

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forma curiosamente modificata. Vedi George Ciccariello-Maher, «Dual Power in the Venezuelan Revolution», Monthly Review 59: 4, 2007; Vladimir Lenin, «Sul dualismo del potere», in Lenin, Opere, vol. 24, Editori Riuniti 1966. 5. Per una critica a tale tendenza in tal senso delle teorie della comunizzazione vedi Alberto Toscano, «Now and Never», in Benjamin Noys (a cura di), Communization and Its Discontent: Contestation, Critique and Contemporary Struggle, Minor Composition 2012. 6. Pur concordando con il loro approccio controegemonico e la loro insistenza su una visione postcapitalistica, divergiamo dalle economie comunitarie folk politics prese come obiettivo da J.K. Gibson-Graham, così come dalla loro interpretazione discorsiva dell’egemonia. La differenza più importante tra la loro e la nostra analisi è la negazione dell’universalismo capitalista, che permette loro di considerare caratteristiche di piccola scala come sufficienti a cambiare l’economia. Per una critica dell’universalismo capitalista e dell’articolazione di un’egemonia postcapitalistica, vedi rispettivamente J.K. Gibson-Graham, The End of Capitalism (as We Knew It): A Feminist Critique of Political Economy, University of Minnesota Press 2006, e J.K. Gibson-Graham, A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press 2006. 7. L’intera vicenda dell’evoluzione del termine all’interno del pensiero marxista inizia con la sua inclusione negli scritti di G.V. Plekhanov del 1884 come gegemoniya, che al tempo di Lenin si evolse nell’idea di una leadership politica interna a un’alleanza di classe. Questa idea fu considerevolmente sviluppata da Gramsci in un’interpretazione più ramificata e complessa del governo per consenso, al fine di analizzare sia la strategia marxista sia l’esistente stato di potere capitalistico. G.F. Plekhanov, «Socialism and the Political Struggle», in Selected Philosophical Works, vol. 1, Progress 1974; V. I. Lenin, Che fare?, La Città del Sole 2006; Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi 2014. 8. Ci sono state numerose critiche all’egemonia, tra cui: Richard Day, Gramsci è morto. I nuovi movimenti dall’egemonia all’affinità, Elèuthera 2013; Scott Lash, «Power After Hegemony: Cultural Studies in Mutation?», Theory, Culture & Society 24: 3, 2007; Athina Karatzogianni e Andrew Robinson, Power, Resistance and Conflict in the Contemporary World: Social Movements, Networks and Hierarchies, Routledge 2010; Jon Beasley-Murray, Posthegemony: Political Theory and Latin America, University of Minnesota Press 2010. Basterà qui dire che la maggior parte di queste critiche si basano su un fraintendimento del concetto stesso di egemonia, considerandola al pari di una dominazione (il che, in tutte le formulazioni post-gramsciane, è esplicitamente negato), oppure dipendente da un consenso attivo (e non è così). Seppure altre analisi teoretiche del potere – come quelle di pensatori come Foucault, Deleuze e Guattari, e Bourdieu – possano essere utilizzate per integrare le prospettive offerte dalla nozione di egemonia, non concordiamo con chi di recente sostiene possano efficacemente rimpiazzarla. 9. È utile qui ricordare che, sebbene una governance egemonica si collochi generalmente nell’ordine del consenso (quantomeno passivo), questa non implica un’assenza totale di dominio o forza coercitiva. Semplicemente indica una situazione in cui il potere coercitivo debba sottostare alla consensualità. Vedi Gramsci, Quaderni dal carcere. Questo chiarimento è necessario per evitare 346

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accuse come quelle dirette contro la teoria gramsciana di egemonia da quei critici che vogliono dimostrare la specificità storico-culturale della nozione, soprattutto data la sua apparente incompatibilità con situazioni politiche molto diverse, quali quelle dell’India durante il colonialismo inglese o degli Stati Uniti all’epoca della schiavitù. Vedi Ranajit Guha, Dominance Without Hegemony: History and Power in Colonial India, Harvard University Press 1998; Frank Wilderson, «Gramsci’s Black Marx: Whither the Slave in Civil Society?», Social Identities 9: 2, 2003. Presumiamo che l’egemonia, intesa nel senso generale che delineiamo in questo capitolo, riguardi ogni società complessa dove il dominio non è il principale mezzo di governo. Questa posizione è stata espressa anche da Pablo Iglesias, leader di Podemos. Pablo Iglesias, «The Left Can Win», Jacobin, 9 dicembre 2014, reperibile su jacobinmag.com. John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi, Intra Moenia 2004. Nonostante gli insegnamenti gramsciani vengano perlopiù associati all’eurocomunismo e alle sue particolari manifestazioni storiche, pensiamo comunque che da queste vadano disgiunte sia l’analisi politica di fondo che le intuizioni strategiche proprie dell’egemonia. A dire il vero, il peso che nell’eurocomunismo viene dato al processo elettorale (che viene preferito a più ampie trasformazioni egemoniche) ci sembra al contrario un abbandono delle fondamentali intuizioni della stessa egemonia, tra cui quella che individua il potere nell’interconnessione di luoghi differenti (dei quali lo Stato è solo uno tra i tanti). Pur appoggiando l’estensione del concetto di egemonia per come formulata da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (in particolare l’allargamento dello spettro di soggettività politiche che questa include), va detto che questa non è senza problemi. Il ricorso all’analisi del discorso come forma di ontologia sociale si trasforma effettivamente in una lettura antirealista che nuoce inutilmente al più ampio progetto di comprensione della complessità della politica. Vedi Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, Il Nuovo Melangolo 2011; Ernesto Laclau, New Reflections on the Revolutions of Our Time, Verso 1990. Per un’approfondita critica alla teoria egemonica fondata sul discorso, tipica di Laclau e Mouffe, vedi Geoff Boucher, The Charmed Circle of Ideology: A Critique of Laclau and Mouffe, Butler and Žižek, re.press 2009. David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore 2007. Questo concetto è stato originariamente formulato da Joseph Overton in relazione al reale fine operativo di un think tank. Vedi Nathan J. Russel, «An Introduction to the Overton Window of Political Possibilities», Mackinac Center for Public Policy, 4 gennaio 2006, reperibile su mackinac.org. Ciò può essere concepito in termini culturali come la creazione di un «realismo capitalista». Vedi Mark Fisher, Realismo Capitalista, NERO 2018. «In una situazione simile, l’egemonia non ha nulla a che fare con la capacità di far sì che la gente creda in te; ha a che fare, piuttosto, con la capacità strategica di rendere le loro credenze o i loro scetticismi irrilevanti.» Jeremy Gilbert, «Hegemony Now», 2013, reperibile su academia.eu, pag. 16. David Harvey, Spaces of Hope, University of California Press 2000. 347

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19. Judy Wajcman, Technofeminism, Polity 2004, pag. 35. 20. Jonathan Joseph, Hegemony: A Realist Analysis, Routledge 2002. 21. Thomas Hughes, «Technological Momentum», in Merritt Roe Smith e Leo Marx (a cura di), Does Technology Drive History? The Dilemma of Technological Determinism, MIT Press 1994; Networks of Power: Electrification in Western Society, 1880-1930, Johns Hopkins University Press 1993. 22. Questo è quello che sostiene Peter Thomas: «Gramsci era consapevole che tutte le pratiche sociali sono tra loro legate, proprio in virtù della sua insistenza marxista sulle pratiche sociali quali relazioni sociali all’interno di una totalità sociale, e non come semplici espressioni di qualche logica regionale. Il che lo portò a concepire quella che io chiamerei “la costituzione politica del sociale”». Peter Thomas, «“The Gramscian Moment”: An Interview with Peter Thomas», in Adam Thomas (a cura di), Antonio Gramsci: Working-Class Revolutionary: Essays and Interviews, Workers’ Liberty 2012. 23. De Witt Douglas Kilgore, Astrofuturism: Science, Race and Visions of Utopia in Space, University of Pennsylvania Press 2003, pag. 21. 24. Asif A. Siddiqi, The Red Rockets’ Glare: Spaceflight and the Russian Imagination, 1857-1957, Cambridge University Press 2014, pag. 21. 25. Nikolai Federovich Federov, «The Philosophy of the Common Task», in What Was Man Created For?, Honeyglen 1990, pag. 98. 26. Per esempio, vedi Aleksandr Bogdanov, La stella rossa, Sellerio 1989. 27. Siddiqi, Red Rockets’ Glare, pag. 86-87. 28. Richard Stites, Revolutionary Dreams: Utopian Vision and Experimental Life in the Russian Revolution, Oxford University Press 1989, pag. 36. 29. Francis Spufford, L’ultima favola russa, Bollati Boringhieri 2016; Siddiqi, Red Rockets’ Glare, cap. 8. 30. Anche se oggi l’Unione Sovietica viene spesso descritta come un fallimento economico, tra 1928 e 1970 la sua economia fece eccezionalmente bene, superando quella di qualsiasi altro paese a eccezione del Giappone. Robert Allen, Farm to Factory: A Reinterpretation of the Soviet Industrial Economy, Princeton University Press 2003, pag. 6-7. 31. Steve Fraser, The Age of Acquiescence: The Life and Death of American Resistance to Organized Wealth and Power, Little, Brown 2015, cap. 6. 32. Fisher, Realismo capitalista. 33. Un esempio è il passaggio dal tecno-ottimismo postcapitalista di Star Trek al tecno-pessimismo fondamentalista di Battlestar Galactica. Barry Buzan, «America in Space: The International Relations of Star Trek and Battlestar Galactica», Millennium: Journal of International Studies 39: 1, 2010. 34. Vedi per esempio: Kathi Weeks, The Problem with Work: Feminism, Marxism, Antiwork Politics, and Postwork Imaginaries, Duke University Press 2011, pag. 182–3; Nancy Fraser, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberalista, Ombre Corte 2014; Helen Hester, «Promethean Labours and Domestic Realism», in Joshua Johnson (a cura di), The Scales of Our Eyes: The Scope of Leftist Thought, Mimesis International 2015; José Esteban Muñoz, Cruising Utopia: The Then and There of Queer Futurity, New York University Press 2009, pag. 19-21; Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex: The Case for Feminist Revolution, Morrow 1970. 348

NOTE

35. Fredric Jameson, Valences of the Dialectic, Verso 2010, pag. 413. 36. «Marx cercò di combinare la politica della rivolta con la “poesia del futuro” e si dedicò alla dimostrazione che, rispetto al capitalismo, il socialismo era più moderno e più produttivo. Per la sinistra di oggi recuperare quel senso del futuro e quell’eccitamento è senza dubbio uno dei compiti principali di qualsivoglia “battaglia discorsiva”.» Fredric Jameson, Representing Capital: A Reading of Volume One, Verso 2011, pag. 90. 37. Fredric Jameson, A Singular Modernity: Essay on the Ontology of the Present, Verso 2002, pag. 8. 38. Possiamo qui tracciare una distinzione tra utopie astratte e concrete: se le prime proiettano un immagine del futuro slegata dalle attuali condizioni politiche, le seconde sono guidate da un’analisi rigorosa della congiuntura corrente a aspirano a incidere sul qui e ora. Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza 1973; Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti 2005. 39. George Young, I cosmisti russi. Il futurismo esoterico di Nikolaj Fedorov e dei suoi seguaci, Tre 2017. 40. Richard Stites, «Fantasy and Revolution: Alexander Bogdanov and the Origins of Bolshevik Science Fiction»; Siddiqi, Red Rockets’ Glare, cap. 4. 41. Erik Olin Wright, Envisioning Real Utopias, Verso 2010, pag. 23. 42. Jameson, Singular Modernity, pag. 26; Vincent Geoghegan, Utopianism and Marxism, Peter Lang 2008, pag. 16. 43. Zygmunt Bauman, Socialism: The Active Utopia, Routledge 2011, pag. 13. 44. Kilgore, Astrofuturism, pag. 237-8; Stites, Revolutionary Dreams, pag. 33. 45. Slavoj Žižek, «Towards a Materialist Theory of Subjectivity», Birkbeck, Londra, 22 maggio 2014, podcast su backdoorbroadcasting.net. 46. Weeks, Problem with Work, pag. 204. 47. Ruth Levitas, The Concept of Utopia, Peter Lang 2011. 48. E.P. Thompson, «Romanticism, Utopianism and Moralism: The Case of William Morris», New Left Review, settembre-ottobre 1976, pag. 97. 49. La forma più condensata e interventista di questa dimensione utopica è il manifesto. Vedi Weeks, Problem with Work, pag. 213-18. 50. Manuel Castells, Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di internet, Università Bocconi Editore 2012. 51. Patricia Reed, «Seven Prescriptions for Accelerationism», in Robin Mackay e Armen Avanessian (a cura di), #Accelerate: The Accelerationist Reader, Urbanomic 2014, pag. 528-31. 52. Wendy Brown, «Resisting Left Melancholy», Boundary 2 26: 3, 1999. 53. Paul Mason, Why It’s Kicking Off Everywhere: The New Global Revolutions, Verso 2012, pag. 66-73. 54. Mark Fisher, «Going Overground», K-Punk, 5 gennaio 2014, su k-punk.org. 55. Bloch, Il principio speranza. 56. Paul Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi 2003; Weeks, Problem with Work, pag. 190-3; Geoghegan, Utopianism and Marxism, pag. 20. 57. Bizzarramente, questa assenza di brama per il profitto ha portato qualcuno a sinistra a interpretare in maniera perversa l’esplorazione spaziale come una «utopia capitalista». George Caffentzis e Silvia Federici, «Mormons in Space», 349

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in George Caffentzis, In Letters of Blood and Fire, PM 2012, pag. 65. 58. Louis Althusser, «Ideologia e apparati ideologici di Stato», 1970. 59. Gramsci, Quaderni dal carcere. 60. Mary Morgan e Malcolm Rutherford, «American Economics: The Character of the Transformation», History of Political Economy 30, 1998. 61. G.C. Harcourt, Some Cambridge Controversies in the Theory of Capital, Cambridge University Press 1972. 62. Paul A. Samuelson, «Understanding the Marxian Notion of Exploitation: A Summary of the So-Called Transformation Problem Between Marxian Values and Competitive Prices», Journal of Economic Literature 9: 2, 1971. 63. Edward Fullbrook, «Introduction», in Edward Fullbrook (a cura di), Pluralist Economics, Zed 2008, pag. 1-2. 64. Più informazioni sul sito rethinkeconomics.org. 65. David Colander e Harry Landreth, «Pluralism, Formalism and American Economics», in Fullbrook, Pluralist Economics, pag. 31-5. 66. Il testo di studio più diffuso è firmato Greg Mankiw, già lacchè di Bush e intrepido difensore dell’un percento: N. Gregory Mankiw, Macroeconomia, Zanichelli 2015. 67. William Mitchell e L. Randall Wray, «Modern Monetary Theory and Practice», 2014, pdf su mmtonline.net. 68. Due brevi ma eccellenti eccezioni sono quelle di Tiziana Terranova in «RedStackAttack!», in Mackay e Avanessian, #Accelerate. 69. Per alcuni esempi di ricerca sul tema vedi Oskar Lange e Fred M. Taylor, On the Economic Theory of Socialism, McGraw-Hill 1964; W. Paul Cockshott e Allin Cottrell, Towards a New Socialism, Spokesman 1993; W. Paul Cockshott Allin Cottrell, Gregory Michaelson, Ian Wright e Victor Yakovenko, Classical Econophysics, Routledge 2009; Andy Pollack, «Information Technology and Socialist Self-Management», Monthly Review 49: 4, 1997; Dan Greenwood, «From Market to Non-Market: An Autonomous Agent Approach to Central Planning», Knowledge Engineering Review 22: 4, 2007. 70. Sull’argomento lavorano già diversi economisti. Il problema viene ostacolato dall’esistenza di misure diverse (molte delle quali raggiungono comunque conclusioni simili sulle tendenze cicliche e secolari) e da studi che restano al livello delle apparenze e non scavano in profondità nei relativi meccanismi causali. Sembra esserci una correlazione tra il crescente utilizzo del capitale fisso nel processo di produzione e il declino secolare sulla lunga distanza della redditività, ma per ora qualsiasi connessione causale resta allo stadio di pura affermazione. Sul tema, vedi Minqi Li, Feng Xiao e Andong Zhu, «Long Waves, Institutional Changes, and Historical Trends: A Study of the LongTerm Movement of the Profit Rate in the Capitalist World-Economy», Journal of World-Systems Research 13: 1, 2007; Guglielmo Carchedi, Behind the Crisis: Marx’s Dialectic of Value and Knowledge, Haymarket 2012; Deepankar Basu e Ramaa Vasudevan, «Technology, Distribution and the Rate of Profit in the US Economy: Understanding the Current Crisis», Cambridge Journal of Economics 37: 1, 2013; Gerard Dumenil e Dominique Levy, «The Profit Rate: Where and How Much Did It Fall? Did It Recover? (USA 1948–2000)», Review of Radical Political Economics 34: 4, 2002. 71. Mary Morgan, The World in the Model: How Economists Work and Think, 350

NOTE

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Cambridge University Press 2012. Per maggiori informazioni vedi wea.org.uk. Andy Clark, Supersizing the Mind: Embodiment, Action, and Cognitive Extension, Oxford University Press 2008. John Zerzan, Futuro primitivo, Nautilus 2001; Derrick Jensen, Endgame: The Problem of Civilization, Volume 1, Seven Stories 2006. Gavin Mueller, «The Rise of the Machines», Jacobin 10, 2013, su jacobinmag.com. Questo è stato uno dei principali interessi sia degli studi su scienza e tecnologia, sia degli approcci femministi alla tecnologia. Per alcuni rappresentativi esempi di queste ricerche, vedi Wajcman, TechnoFeminism; Wiebe Bijker, Thomas Hughes e Trevor Pinch (a cura di), The Social Construction of Technological Systems, MIT Press 1987; Wiebe Bijker, Of Bicycles, Bakelites, and Bulbs: Toward a Theory of Sociotechnical Change, MIT Press 1997; Donald MacKenzie, Fabian Muniesa e Lucia Siu (a cura di), Do Economists Make Markets? On the Performativity of Economics, Princeton University Press 2007; Thomas Hughes, Networks of Power: Electrification in Western Society, 1880-1930, Johns Hopkins University Press 1993. Vedi il recente dibattito sulla «tesi della riconfigurazione». Alberto Toscano, «Logistics and Opposition», Mute, 2011, su metamute.org; Jasper Bernes, «Logistics, Counterlogistics and the Communist Project», in Endnotes 3: Gender, Race, Class and Other Misfortunes, settembre 2013; Alberto Toscano, «Lineaments of the Logistical State», Viewpoint, 2015, su viewpointmag.com. Karl Marx, Grundrisse, PiGreco 2011. Come dimostrato dagli esempi qui riportati, i processi di riadattamento e di creazione sono indissolubilmente legati, dal momento che ogni riconversione implica l’utilizzo creativo del vecchio materiale, e che ogni creazione comporta un lavoro sul materiale a disposizione. La distinzione tra i due, più che indicare un’opposizione, è semmai una questione di enfasi. Andrew Feenberg, Transforming Technology: A Critical Theory Revisited, Oxford University Press 2002. Per una serie di linee guida utili a capire come i lavoratori possano adattare la tecnologia al posto di lavoro, vedi Chris Harman, Is a Machine After Your Job? New Technology and the Struggle for Socialism, su marxists.org. Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza 2014; Michael Hanlon, «The Golden Quarter», Aeon Magazine, 3 dicembre 2014, su aeon.co. Per un più preciso approfondimento, vedi Mazzucato, Lo Stato innovatore, cap. 5. Mariana Mazzucato, Building the Entrepreneurial State: A New Framework for Envisioning and Evaluating a Mission-Oriented Public Sector, Levy Economics Institute of Bard College 2015, pdf disponibile su levyinstitute.org, pag. 9; Carlota Perez, Technological Revolutions and Financial Capital: The Dynamics of Bubbles and Golden Ages, Edward Elgar 2003. Mazzucato, Building the Entrepreneurial State, pag. 2. A tal proposito, vedi missionorientedfinance.com. Caetano Penna e Mariana Mazzucato, «Beyond Market Failures: The Role of State Investment Banks in the Economy», Conference on Mission-Oriented Finance for Innovation, Londra 24 luglio 2014, disponibile su youtube.com. Il miglior esempio contemporaneo a riguardo è probabilmente la riconversione 351

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tedesca alle energie rinnovabili. 89. Nick Dyer-Witheford, «Cycles and Circuits of Struggle in High-Technology Capitalism», in Jim Davis, Thomas Hirschl e Michael Stack (a cura di), Cutting Edge: Technology, Information, Capitalism and Social Revolution, Verso 1997, pag. 206-7; Adrian Smith, Socially Useful Production, Brighton STEPS Centre 2014, su steps-centre.org, pag. 2. 90. Qui è possibile intravedere alcune proprietà che Murray Bookchin individua nella nozione di tecnologia emancipatrice, sebbene per quanto ci riguarda siamo poco inclini alla sua visione di un futuro comunitario su piccola scala. Murray Bookchin, «Towards a Liberatory Technology», in Post-Scarcity Anarchism, AK 2004. 91. Hilary Wainwright e Dave Elliott, The Lucas Plan: A New Trade Unionism in the Making?, Allison & Busby 1981, pag. 16. 92. Ibid. 93. Ibid. 94. Smith, Socially Useful Production, pag. 5. 95. Ibid. 96. Ibid. 97. Wainwright e Elliott, Lucas Plan, pag. 231. 98. Ibid. 99. Tiqqun, L’ipotesi cibernetica. 100. Eden Medina, Cybernetic Revolutionaries: Technology and Politics in Allende’s Chile, MIT Press 2011, pag. 26. 101. Ibid. 102. Ibid. 103. Ibid. 104. Ibid. 105. Ibid. 106. Jameson, Valences of the Dialectic; Toscano, «Logistics and Opposition»; Mike Davis, «Who Will Build the Ark?», New Left Review II/61, gennaio-febbraio 2010; Medina, Cybernetic Revolutionaries; Nick Dyer-Witheford, «Red Plenty Platforms», Culture Machine 14, 2013; Terranova, «Red Stack Attack!»; Evgeny Morozov, «Socialise the Data Centres!», New Left Review 91, gennaio-febbraio 2015. 107. Per una sofisticata argomentazione opposta, vedi Bernes, «Logistics, Counterlogistics and the Communist Project». 108. Per un efficace resoconto dal taglio semi-finzionale, vedi Spufford, L’ultima favola russa. 109. Caroline Saunders e Andrew Barber, Food Miles – Comparative Energy/ Emissions Performance of New Zealand’s Agriculture Industry, Agribusiness and Economics Research Unit, luglio 2006, pdf disponibile su lincoln.ac.nz. 110. Feenberg, Transforming Technology, pag. 58; Monika Reinfelder, «Introduction: Breaking the Spell of Technicism», in Phil Slater (a cura di), Outlines of a Critique of Technology, Ink Links 1980, pag. 17. 111. Nel campo degli studi su scienza e tecnologia esiste un’ampia letteratura su questa natura politica, ma ci piace anche segnalare le ricerche che si concentrano sul cambiamento tecnologico dal punto di vista delle competenze e 352

NOTE

della classe. David Autor, Frank Levy e Richard Murnane, «The Skill Content of Recent Technological Change: An Empirical Exploration», Quarterly Journal of Economics 118: 4, 2003; Amit Basole, «Class-Biased Technical Change and Socialism: Some Reflections on Benedito Moraes-Neto’s “On the Labor Process and Productive Efficiency: Discussing the Socialist Project”», Rethinking Marxism 25: 4, 2013. 112. Per una delle prime analisi di questo effetto, vedi Raniero Panzieri, «Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo», in Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi 1976. 113. David F. Noble, La questione tecnologica, Bollati Boringhieri 1993; Karl Marx, Il Capitale, Libro I. 114. Melvin Kranzberg, «Technology and History: “Kranzberg’s Laws”», Technology and Culture 27:3, 1986, pag. 545. 115. George Basalla, The Evolution of Technology, Cambridge University Press 1988, pag. 7. 116. Su come la tecnologia viene plasmata dai suoi utilizzatori, vedi Nellie Ooudshorn e Trevor Pinch (a cura di), How Users Matter: The Co-Construction of Users and Technology, MIT Press 2005. 117. Harry Cleaver, «Technology as Political Weaponry», in The Responsibility of the Scientific and Technological Enterprise in Technology Transfer, American Association for the Advancement of Science 1981, pdf reperibile su academia.edu. 118. Anche se mai impiegate, le armi nucleari si fondano ancora su questa loro primaria funzione. 119. Per una riflessione incisiva sul rapporto tra lavoratori cognitivi e altre figure della classe operaia, vedi Matteo Pasquinelli, «To Anticipate and Accelerate: Italian Operaismo and Reading Marx’s Notion of the Organic Composition of Capital», Rethinking Marxism 26: 2, 2014. CAPITOLO 8 1. Per «potere» intendiamo la capacità di portare avanti i propri interessi. Steven Lukes, Il potere. Una visione radicale, Vita e Pensiero 2007. 2. John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Intra Moenia 2004. 3. Qui ci concentriamo su tre fattori, ma senza dubbio ce ne sono innumerevoli altri, compresi elementi imprevedibili quali la visione individuale e la semplice fortuna. 4. In termini di lotta di classe, qui possiamo trovare forme come il potere associativo, quello contrattuale e quello sul posto di lavoro. Beverly Silver, Le forze del lavoro, Bruno Mondadori 2008. 5. Sotto il capitalismo, la caratteristica distintiva del conflitto di classe si ritiene sia la sua tendenza a semplificare l’antagonismo. Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi 2014. 6. «The Holding Pattern: The Ongoing Crisis and the Class Struggles of 20112013», Endnotes 3, 2013, su endnotes.org.uk, pag. 49-50. 7. Frances Fox Piven e Richard Cloward, Poor People’s Movements: Why They Succeed, How They Fail, Random House 1988, pag. 194. 8. Marx e Engels, Manifesto. 9. Come però ci ricorda Beverly Silver, non dobbiamo partire dal presupposto che simili tattiche siano risultate ovvie sin da subito: al contrario, è stato 353

INVENTARE IL FUTURO

necessario inventarle e portarle avanti attraverso la pratica e la sperimentazione. Silver, Le forze del lavoro. 10. «Editorial», Endnotes 3, 2013, pag. 7. 11. Göran Therborn, «New Masses? Social Bases of Resistance», New Left Review II/85, gennaio-febbraio 2014, pag. 9. 12. Ching Kwan Lee, Against the Law: Labor Protests in China’s Rustbelt and Sunbelt, University of California Press 2007; Kevin Hamlin, Ilya Gridneff e William Davison, «Ethiopia Becomes China’s China in Global Search for Cheap Labor», Business Week, 22 luglio 2014. 13. Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis 2015; Zak Cope, Divided World, Divided Class: Global Political Economy and the Stratification of Labour Under Capitalism, Kersplebedeb 2012. 14. Per non dare che una minima panoramica di come questo tema sia stato affrontato, basti citare temi di discussione quali il concetto di comune, l’articolazione di un’egemonia, il partito e la composizione. Vedi rispettivamente Michael Hardt e Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli 2004; Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza 2008; Jodi Dean, The Communist Horizon, Verso 2012; Sidney Tarrow, Power in Movement: Social Movements and Contentious Politics, Cambridge University Press 1998. 15. Badiou offre una critica di come la tendenza ai diritti minimi riduca l’essere umano alle sue basi animali. Alain Badiou, Etica. Saggio sulla coscienza del male, Cronopio 2006. 16. Anna Feigenbaum, Fabian Frenzel e Patrick McCurdy, Protest Camps, Zed 2013, pag. 176. 17. Ricorrendo a un linguaggio maggiormente neoclassico, potremmo dire che l’unità oggettiva viene confrontata dalla pluralità soggettiva. 18. Sebbene i movimenti populisti vengano spesso posti in opposizione ai movimenti di classe, è più accurato dire che i movimenti populisti contengono i movimenti di classe. Come sostiene Laclau, il populismo non nega la lotta di classe, ma la necessità astorica della lotta di classe come unico motore del cambiamento sociale. Dentro un movimento populista alcune battaglie possono essere più rilevanti di altre, e sotto le attuali condizioni del surplus di popolazione noi pensiamo che sia proprio la classe a emergere nuovamente come principale (anche se represso) luogo di lotta dei nostri tempi. Per come lo intendiamo qui, il populismo esprime dunque una logica connettiva anziché un contenuto specifico. Il «popolo» quindi non è né un soggetto né un’entità sostanziale, ma un collettivo emergente fondato su una particolare logica di connessione. Linda Zerilli, «This Universalism Which Is Not One», Diacritics 28: 2, 1998; Laclau, La ragione populista. 19. Per un’utile genealogia di come è cambiata la valenza del termine «populismo», vedi Marco D’Eramo, «Apologia del populismo», Micromega, aprile 2013. 20. Laclau, La ragione populista. 21. Yannis Stavrakakis e Giorgos Katsambekis,«Left-Wing Populism in the European Periphery: The Case of Syriza», Journal of Political Ideologies 19: 2, 2014; Pablo Iglesias, «The Left Can Win», Jacobin, 9 dicembre 2014, su jaco354

NOTE

binmag.com; Dan Hancox, «Why Ernesto Laclau Is the Intellectual Figurehead for Syriza and Podemos», Guardian, 9 febbraio 2015; Laclau, La ragione populista; George Ciccariello-Maher, We Created Chavez: A People’s History of the Venezuelan Revolution, Duke University Press 2013. 22. Ernesto Laclau, «Why Constructing a People Is the Main Task of Radical Politics», Critical Inquiry 32: 4, 2006, pag. 655. 23. Enrique Dussel, 20 tesi di politica, Asterios 2008. 24. Per esempio, il Wall Street Journal stima che chiunque negli USA guadagni sotto i 500.000 dollari appartenga al 99 percento. È difficile immaginare che tanti tra quelli che guadagnino cifre del genere siano allineati col progetto espresso da Occupy Wall Street. Vedi Phil Izzo, «What Percent Are You?», WSJ Blogs – Real Time Economics, 19 ottobre 2011, su blogs.wsj.com. 25. Tornando alla discussione sull’universalismo affrontata nel capitolo 4, questo è il modo in cui l’universalismo viene contaminato dal particolare, e viceversa. 26. Therborn, «New Masses?», pag. 8-9. 27. Bertie Russell, «Demanding the Future? What a Demand Can Do», Journal of Aesthetics and Protest 2014, su joaap.org. 28. BenTrott, «Walking in the Right Direction?», Turbulence 1, 2007, su turbulence.org.uk. 29. Qui ci sono risonanze con quella che Plan C ha chiamato «comunità di riferimento». Russell, «Demanding the Future?». 30. Tiziana Terranova, «Red Stack Attack!», in Robin Mackay e Armen Avanessian (a cura di), #Accelerate: The Accelerationist Reader, Urbanomic 2014, pag. 387. 31. William K. Carroll, «Hegemony, Counter-Hegemony, Anti-Hegemony», Socialist Studies/Études Socialistes 2: 2, 2006, pag. 30-2; Richard Day, Gramsci è morto. I nuovi movimenti dall’egemonia all’affinità, Elèuthera 2013. 32. David Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Il Saggiatore 2013. 33. The Free Association, «Rock’n’Roll Suicide: Political Organisation in PostCrisis UK», Freely Associating, su freelyassociating.org. 34. Per una discussione sulle «funzioni dell’avanguardia» vedi Rodrigo Nunes, Organisation of the Organisationless: Collective Action After Networks, Mute 2014, pag. 34-40. 35. Sull’importanza di forme di organizzazione multiple, vedi Tarrow, Power in Movement, Capitolo 8. 36. Carroll, «Hegemony, Counter-Hegemony, Anti-Hegemony», pag. 22. 37. Nunes, Organisation of the Organisationless, pag. 30. 38. Questo è quello che Rodrigo Nunes chiama «network-system». Ibid. Il lavoro di Nunes sottolinea inoltre un’area importante per ulteriori ricerche, vale a dire una topologia di rete comparata dei movimenti. A riguardo, indispensabili saranno gli strumenti matematici della teoria dei grafi. 39. Brian Steensland, The Failed Welfare Revolution: America’s Struggle over Guaranteed Income Policy, Princeton University Press 2007, pag. 22. 40. Henry Farrell e Cosma Shalizi, «Cognitive Democracy», Crooked Timber, 23 maggio 2012, su crookedtimber.org. 41. Zeynep Tufekci, «After the Protests», New York Times, 19 marzo 2014. 42. Manuel Castells, Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di 355

INVENTARE IL FUTURO

internet, Università Bocconi Editore 2012. 43. Jane McAlevey, Raising Expectations (and Raising Hell): My Decade Fighting for the Labor Movement, Verso 2014, pag. 312. 44. Steensland, Failed Welfare Revolution, pag. 230. 45. Roger Simon, Gramsci’s Political Thought, Lawrence & Wishart 1991, Capitolo 12. 46. Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi 2014. 47. SomeAngryWorkers, «Gr***ford? Where The Hell’s That?!», Libcom, 14 settembre 2014, su libcom.org. 48. McAlevey, Raising Expectations, pag. 37. 49. Questo è quello che McAlevey chiama «whole-worker organising». 50. Erik Olin Wright, Envisioning Real Utopias, Verso 2010, pag. 223. 51. Alain Badiou, Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali, Ponte alle Grazie 2012. 52. Harvey, Città ribelli. 53. McAlevey, Raising Expectations, pag. 51. 54. Bill Fletcher e Fernando Gapasin, Solidarity Divided: The Crisis in Organized Labor and a New Path Toward Social Justice, University of California Press 2009, pag 174. 55. Guy Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino 2012. 56. Steven Greenhouse, «The Nation: The $100,000 Longshoreman; A Union Wins the Global Game», New York Times, 6 ottobre 2002. 57. Di recente Nina Power ha suggerito che il reddito base universale debba essere un obiettivo globale, piuttosto che una richiesta su scala nazionale. In via di principio siamo d’accordo, ma pensiamo anche che le attuali condizioni politiche rendano inevitabile il fatto che queste richieste passino dapprima attraverso gli Stati nazionali. Nina Power, «Re-Engineering the Future», in occasione di Re-Engineering the Future, Tate Britain, Londra, 10 aprile 2015. 58. In questi anni, l’idea che la forma-partito stia attraversando una crisi profonda è diventata comune; ma si sottovaluta il modo in cui la forma-partito si sia continuamente reinventata a seconda delle mutate condizioni. Tendenzialmente, possiamo dire che la crisi abbia riguardato i partiti d’avanguardia e quelli socialdemocratici: i primi si basano su una piccola élite di intellettuali che spiegano alle masse quali siano i loro interessi, incitandole alla rivoluzione. Lars T. Lih, Lenin Rediscovered: «What Is to Be Done?» in Context, Haymarket 2008, pag. 13-18. I secondi si fondano invece su un sostegno di massa, sulle politiche elettorali, su una base economica indipendente e su una posizione centrale all’interno delle organizzazioni dei lavoratori. Gerassimos Moschonas, In the Name of Social Democracy: The Great Transformation, 1945 to the Present, Verso 2002, pag. 35. Entrambe queste forme sono poco adatte alle attuali condizioni dei paesi capitalisti avanzati, ma crediamo che il concetto gramsciano di Partito come moderno Principe sia ancora valido e possa aiutare la struttura di un partito come Podemos. Un’approfondita disamina della forma-partito andrebbe oltre i limiti di questo libro, ma siamo d’accordo con Peter Thomas quando nel partito intravede: 1) solo una sezione di un più ampio movimento populista; 2) una forma di autogoverno del movimento; 3) un’organizzazione che istituzionalizza le differenze anziché imporre un’identità; 356

NOTE

4) un’organizzazione che sintetizza le richieste del movimento e che agisce come un apparato sperimentale per la loro proposizione. Peter Thomas, «The Communist Hypothesis and the Question of Organization», Theory & Event 16: 4, 2013, su muse.jhu.edu. 59. Dario Azzellini, «The Communal State: Communal Councils, Communes, and Workplace Democracy», North American Congress on Latin America, estate 2013, su nacla.org. 60. Dan Hancox, «Podemos: The Radical Party Turning Spanish Politics on Its Head», Newsweek, 22 ottobre 2014. 61. Nel caso di Podemos, vengono previste «primarie aperte ai cittadini, la costituzione e proliferazione di circoli, la modifica e l’approvazione del programma partecipativo, e poi il finanziamento collettivo, una contabilità trasparente, la conferma e la revocabilità dei ruoli, un limite ai mandati e al salario dei rappresentanti». Germán Cano, Jorge Lago, Eduardo Maura, Pablo Bustinduy e Jorge Moruno, «Podemos: Overcoming Representation», Cunning Hired Knaves, 31 maggio 2014, su hiredknaves.wordpress.com. 62. All’interno di Podemos c’è comunque un grande dibattito interno sulla direzione che il movimento dovrebbe prendere. In via generica, possiamo distinguere tra una posizione che punta a un potere più centralizzato e fondato sullo Stato, e una che mira a un potere delegato e decentralizzato che tenga conto dei movimenti locali. Vedi Luke Stobart, «Understanding Podemos (2/3): Radical Populism», Left Flank, 14 novembre 2014, su left-flank.org. 63. Gary Genosko, The Party Without Bosses: Lessons on Anti-Capitalism from Félix Guattari and Luís Inácio «Lula» Da Silva, Arbeiter Ring 2003, pag. 19. 64. Ciccariello-Maher, We Created Chavez, pag. 16. 65. Mark Levinson, The Box. La scatola che ha cambiato il mondo, Egea 2013. 66. Ibid. 67. Silver, Le forze del lavoro. 68. Timothy Mitchell, Carbon Democracy: Political Power in the Age of Oil, Verso 2013, pag. 19. 69. Ashok Kumar, «5 Reasons the Strike in China Is Terrifying! (to Transnational Capitalism)», Novara Wire, aprile 2014, su wire.novaramedia.com. 70. SomeAngryWorkers, «Gr***ford?». 71. Deborah Cowen, The Deadly Life of Logistics: Mapping Violence in Global Trade, University of Minnesota Press, pag. 41–5. 72. Questo è quello che Erik Olin Wright descrive come un tipo di potere strutturale. Erik Olin Wright, «Working-Class Power, Capitalist-Class Interests, and Class Compromise», American Journal of Sociology 105: 4, 2000, pag. 962. 73. Jonathan Cutler e Stanley Aronowitz, «Quitting Time», in Stanley Aronowitz e Jonathan Cutler (a cura di), Post-Work: The Wages of Cybernation, Routledge 1998, pag. 9-11. 74. Cynthia Cockburn, Brothers: Male Dominance and Technological Change, Pluto 1991. 75. McAlevey, Raising Expectations, pag. 28. 76. Cutler e Aronowitz, «Quitting Time», pag. 17. 77. Ibid.; Noam Chomsky, Occupy, Penguin 2012, pag. 34. 78. Murray Wardrop, «Boris Johnson Pledges to Introduce Driverless Tube Trains 357

INVENTARE IL FUTURO

within Two Years», Daily Telegraph, 28 febbraio 2012. 79. Paul Einzig, The Economic Consequences of Automation, W.W. Norton 1957, pag. 235. 80. David Autor, Polanyi’s Paradox and the Shape of Employment Growth, National Bureau of Economic Research, settembre 2014, su nber.org, pag. 26. 81. Anh Nguyen, Jason Yosinski, e Jeff Clune, «Deep Neural Networks Are Easily Fooled: High Confidence Predictions for Unrecognizable Images» arXiv 2015, su arxiv.org. 82. Qui una risorsa classica è Pivenand Cloward, Poor People’s Movements. Vedi anche Liz Mason-Deese, «The Neighborhood Is the New Factory», Viewpoint 2, 2012, su view-pointmag.com. 83. Day, Gramsci è morto. 84. Jael Vizcarra e Troy Andreas Araiza Kokinis, «Freeway Takeovers: The Reemergence of the Collective through Urban Disruption», Tropics of Meta: Historiography for the Masses, 5 dicembre 2014, su tropicsofmeta.wordpress. com. 85. Per esempio, al fine di svelare gli effetti di un blocco portuale sulla West Coast, è stato utilizzato un modello di equilibrio economico generale per predire gli effetti sulle singole industrie assieme all’impatto su beni deperibili, beni dirottati ecc. Il modello disaggrega inoltre questi effetti in un impatto sulle esportazioni, sulle importazioni, e sul potere d’acquisto dei consumatori, individuando gli obiettivi precisi di tutte le forme di pressione politica che è possibile esercitare attraverso un blocco. «The National Impact of a West Coast Port Stoppage», National Association of Manufacturers and the National Retail Federation, giugno 2014, pdf disponibile su nam.org, pag. 9. 86. Vedi per esempio lo sviluppo di nuove forme di organizzazione nelle reti della logistica. Jane Slaughter, «Supply Chain Workers Test Strength of Links» Labor Notes, aprile 2012. 87. McAlevey, Raising Expectations, pag. 37. CONCLUSIONE 1. È quello che Marx implica quando afferma che «di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna». Karl Marx, Il Capitale, Libro III. 2. La tenacia della divisione della società per linee di genere è ampiamente dimostrata in Maria Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale: Women in the International Division of Labour, Zed 1999. 3. Kathi Weeks, The Problem with Work: Feminism, Marxism, Antiwork Politics, and Postwork Imaginaries, Duke University Press 2011, pag. 216. 4. Robert J. Van Der Veen e Philippe Van Parijs, «A Capitalist Road to Communism», Theory and Society 15: 5, 1986, pag. 637. 5. Gregory N. Mandel e James Thuo Gathii, «Cost-Benefit Analysis Versus the Precautionary Principle: Beyond Cass Sunstein’s Laws of Fear», University of Illinois Law Review 5, 2006. 6. Per una riflessione essenziale sul tema, vedi Benedict Singleton, «Maximum Jailbreak», in Robin Mackay e Armen Avanessian (a cura di), #Accelerate: The Accelerationist Reader, Urbanomic 2014. 358

NOTE

7. 8. 9. 10. 11. 12.

13. 14. 15.

16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30.

Paul Mason, «What Would Keynes Do?», New Statesman, 12 giugno 2014. Singleton, «Maximum Jailbreak»; Nikolai Federovich Federov, «The Philosophy of the Common Task», in What Was Man Created For?, Honeyglen 1990. Per un’articolazione accessibile di questa posizione, vedi W. Brian Arthur, La natura della tecnologia. Che cos’è e come evolve, Codice 2011. Tony Smith, «Red Innovation», Jacobin 17, 2015, pag. 75. Mariana Mazzucato, Erik Brynjolfsson e Michael Osborne, «Robot Panel», presentato al FT Camp Alphaville, Londra, 15 luglio 2014, disponibile su youtube.com. Michael Hanlon, «The Golden Quarter», Aeon Magazine, 3 dicembre 2014, su aeon.co; Tyler Cowen, The Great Stagnation: How America Ate All the LowHanging Fruit of Modern History, Got Sick, and Will (Eventually) Feel Better, Dutton 2011, pag. 13. Questa è una delle conclusioni principali a cui arriva Mariana Mazzucato in un libro importante come Lo Stato innovatore, Laterza 2014. Per un’approfondita analisi di come Apple abbia cinicamente fatto affidamento sulle tecnologie sviluppate dallo Stato, vedi ibid. cap. 5. Il fatto che così tanti megaprogetti proseguano nonostante la loro storia di sforamento dei costi e mancanza di rimuneratività è considerato un paradosso da uno studio: Bent Flyvbjerg, Nils Bruzelius e Werner Rothengatter, Megaprojects and Risk: An Anatomy of Ambition, Cambridge University Press 2003, pag. 3-5. André Gorz, La strada del paradiso, Edizioni Lavoro 1984. Vedi Karl Marx e Friedrich Engels, Ideologia tedesca, Bompiani 2011. Questo appellarsi al concetto di umanità fuori dal capitalismo è, per esempio, uno degli aspetti più problematici del lavoro di Jacques Camatte. Vedi Jacques Camatte, This World We Must Leave, Semiotexte 1996. Weeks, Problem with Work, pag. 169. Ernest Mandel, Late Capitalism, Verso 1998, pag. 394-5. Marx parla di «energie». Karl Marx, Il Capitale, Libro III. Federico Campagna, L’ultima notte. Anti-lavoro, ateismo, avventura, Postmedia 2015. Per una prima indagine a riguardo, vedi Alexandra Kollontai, Selected Writings, Allison & Busby 1977. Stephen Eric Bronner, Reclaiming the Enlightenment: Toward a Politics of Radical Engagement, Columbia University Press 2004, pag. 15. Weeks, Problem with Work, pag. 103. Benjamin Bratton, The Stack: On Software and Sovereignty, MIT Press 2015. Tiziana Terranova, «Red Stack Attack!», in Robin Mackay e Armen Avanessian (a cura di), #Accelerate: The Accelerationist Reader, Urbanomic 2014, pag. 391-3. I racconti di vita quotidiana sotto un’economia partecipativa fanno riflettere. Vedi Michael Albert, Oltre il capitalismo. Un’utopia realistica, Elèuthera 2007. Nick Dyer-Witheford, «Red Plenty Platforms», Culture Machine 14, 2013, pag. 13. Misurata in termini di operazioni al secondo, ci si aspetta che la differenza tra 1969 e 2019 sia di 107 contro 1018.

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