Insegnare a chi non vuole imparare 8864432892, 9788864432892

"Bello, come un film del neorealismo. Un libro fatto di vera scuola quotidiana, quando a farla sono due insegnanti

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Giuseppe Bagni Rosalba Conserva

Insegnare a chi non vuole imparare

Prefazione di Pietro Lucisano

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Prima edizione Ega 2005 La versione di questa edizione è scaricabile dal sito www.circolobateson.it Nuova edizione riveduta L’Asino d’oro edizioni 2015

© 2015 L’Asino d’oro edizioni s.r.l. Via Saturnia 14, 00183 Roma www.lasinodoroedizioni.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-6443-289-2 ISBN ePub 978-88-6443-290-8 ISBN pdf 978-88-6443-291-5

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Prefazione Un epistolario nel labirinto di Pietro Lucisano

Ormai tutti han famiglia e hanno figli, che non sanno la storia di ieri, io son solo e passeggio tra i tigli con te cara che allora non c’eri. E vorrei che quei nostri pensieri quelle nostre speranze di allora rivivessero in quel che tu speri o ragazza color dell’aurora. Italo Calvino, Oltre il ponte

Due colleghi si scrivono raccontandosi esperienze di scuola. Due colleghi bravi, impegnati, sensibili, capaci di cogliere elementi della loro esperienza con il cuore e con la testa. Emerge dalla loro corrispondenza il vissuto del professionista riflessivo, del professore di scuola secondaria superiore, colto, in grado di trasformare l’esperienza quotidiana collegandola a teorie e modelli. Dalle lettere si comprende come la scuola sia un aspetto importante della vita di chi le scrive, un aspetto che dà stimoli, che possono essere insieme commozione, preoccupazione, soddisfazione, disagio. I due si scrivono a partire da esperienze diverse: Rosalba Conserva insegna italiano e storia in un Istituto tecnico, Giuseppe Bagni insegna chimica nel laboratorio di un Istituto professionale. Nessuno dei due ha come allievi i ‘Pierini’ del dottore del Liceo classico. In questa corrispondenza ci sono molte delle domande che si pongono gli insegnanti, ci sono anche alcune risposte e alcune riflessioni, ma non ci sono ‘ricette’. Già, perché Bagni e Conserva dentro a questa scuola, mentre discutono tra loro, finiscono per

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dover dare «una raffica di 4», «votare per il 7 in condotta a ben cinque allievi», proprio perché, come dice Conserva, «Cambiano i tempi, cambiano le generazioni, ma la scuola si trova davanti sempre lo stesso problema: far passare la ‘memoria sociale’ nella ‘memoria individuale’». E così la corrispondenza a due diventa una corrispondenza a quattro: Beppe intellettuale e Bagni insegnante, Rosalba intellettuale e Conserva insegnante. Beppe e Rosalba colgono le contraddizioni, le inquadrano in modelli descrittivi, avanzano ipotesi interpretative, fino a cogliere le ragioni e i rimedi possibili. Bagni e Conserva, invece, sono immersi in queste contraddizioni e talvolta si capisce che annaspano, che cercano una soluzione per il qui e ora. Talvolta ci stupiscono, come quando Conserva nella lettera del 17 novembre afferma di essersi arresa all’efficacia dei voti pur di mettere a tacere uno studente che insisteva nel chiedere come fosse andato all’interrogazione. I due intellettuali si confrontano su tematiche fondamentali («Dove nasce l’indifferenza dei ragazzi alla scuola?»), sulla deontologia professionale che implica la «segretezza»; colgono il fatto che la forma della scuola è «usurata, anacronistica, obsoleta» e che «Se i contenuti e i metodi non funzionano, non ci sono buone relazioni che salvino la situazione»; citano, cercano conforto in primo luogo in Bateson, ma poi si accompagnano a Bruner, Wittgenstein, Truffaut, Kafka, Canetti, Popper. Il ragionamento elevato ‘molcisce le cure’. I due insegnanti, invece, si arrovellano su che cosa proporre ai ragazzi e sul perché i contenuti del sistema scolastico non costruiscano in alcun modo una continuità di interesse in loro. Le lettere e le riflessioni si inseguono come in un dialogo reale, in cui solo raramente a una osservazione segue una risposta precisa. Ogni osservazione e riflessione dell’altro, infatti, è più spesso lo spunto per cercare nella propria memoria esperienze analoghe o in grado di corrispondere in interesse, intensità, problematicità a quelle che vengono proposte. L’ascolto è la più difficile delle discipline. Nella fretta di fare, spiegare, insegnare, va-

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lutare, dimentichiamo continuamente che ascoltare può essere un servizio ben più grande che parlare. Ascoltando insegniamo ad ascoltare. Ma forse il mio compito non è chiosare un libro che va letto. In questi ultimi anni sto riflettendo molto su quanto le condizioni di contesto determinino le nostre esperienze e il nostro modo di sentire e di pensare. Ed è evidente che Conserva e Bagni vivono la loro esperienza di insegnanti in una scuola piena di contraddizioni in cui spazi, tempi e rapporti sono definiti in modo tale da consentire solo interventi limitati. La scuola è un labirinto. Dentro la logica della scuola del Ministero diventa ragionevole riscoprire l’utilità dei voti, la necessità di far provare la durezza dello studio, la soddisfazione per il successo di uno studente difficile, la sofferenza per i ragazzi che disturbano, lo scherzo sull’errore di Pomponio. Nel labirinto si insegnano i verbi, ma l’unico tempo è il presente noioso, non entrano le storie dei ragazzi, il loro passato, non entra il loro futuro. Il presente noioso è fatto di episodi scollegati, interrotti dal trillo di una campanella. Si sopravvive, però. Tutti siamo sopravvissuti al labirinto. Dei risultati è difficile parlare perché non c’è una cultura della valutazione. Ma dobbiamo certamente al labirinto la competenza e il rigore morale del nostro paese e delle nostre classi dirigenti. Eppure si può persino imparare ad amare il labirinto, i suoi orari, le sue campanelle, le storie che all’interno si ripetono ciascuna nella sua originalità: «Con Demarco le ho provate tutte, fino a quando mi sono arresa», «c’è sempre anche Filippo, che preferisce studiare vicino a qualcuno», «Reyes e Manzi – fino a ieri pecorelle smarrite – hanno fatto un compito niente male». Si può riflettere sul labirinto accettando la convinzione che resistere al suo interno per tredici anni sia il prezzo da pagare per una condizione di vita socialmente meglio retribuita e socialmente più rispettata, la convinzione che solo il labirinto aiuti a formare le competenze necessarie per inserirsi nella società della conoscenza. Si può vivere nel labirinto se accettiamo l’idea che ‘alla fine’ faccia bene ai ragazzi.

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Tra le regole del labirinto c’è quella che il cavallo deve bere e deve bere quello che tu gli dai da bere quando dici tu. È buffo il detto da cui, in parte, prende le mosse questo epistolario: «Si può portare un cavallo alla fonte, ma non si può costringerlo a bere». Viene da chiedersi: perché bisogna costringere il cavallo a bere? Ovviamente per il suo bene. Avete mai visto morire di sete cavalli perché si rifiutano di bere? Non è più ragionevole immaginare che i cavalli quando hanno sete siano in grado di cercare da soli fonti, ruscelli, pozzanghere? I cavalli sanno distinguere per istinto l’acqua pulita da quella inquinata. Forse non sempre. Forse è necessario disporre pascoli e cercare di fare in modo che ci siano più possibilità di bere, quando si vuole, come si vuole, quello che si vuole. Accetterei che queste fossero considerate stravaganze di un vecchio professore di educazione, se non fosse che la Montessori ha realizzato questo principio nelle sue scuole, un principio che oggi viene applicato in tutto il mondo. I ragazzi entrano, scelgono i materiali con cui lavorare, lavorano, li rimettono a posto. Nelle scuole Montessori non ci sono banchi in fila e compiti a casa. Dentro alla ‘scuola labirinto’ non possiamo che perderci e assistere al fatto che si perdano anche i nostri ragazzi. Mi chiedo perché ci affanniamo tanto dietro a quel 20% che lascia la scuola, senza prendere mai sul serio il dramma sia di coloro che restano e che, giorno dopo giorno, perdono interesse e motivazione, sia ancora di quella piccola minoranza che impara solo a ubbidire in cambio di una carota e che impara a vivere flessa in ossequio al bastone. Da tempo abbiamo perso il filo che porta all’uscita. L’unica possibilità è volare, senza paura di scottarsi le ali. Ma non si vola da soli: ci vogliono almeno un padre ingegnere, capace di costruire ali, e un figlio coraggioso, capace di sfidare la vertigine. In questi giorni, nel mio labirinto, sto insegnando ai corsi di Tirocinio formativo attivo a questi giovani che, dopo un lungo percorso universitario (generalmente molto brillante) e talvolta

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dopo diversi anni di precariato (a scuola o in università), pagano con i loro soldi, e a caro prezzo, una ulteriore formazione per accedere a un precariato più stabile nella scuola. Hanno pagato e pagano per poter accedere, non per profitto, a uno dei mestieri più belli del mondo. Pagano e hanno pagato per il piacere di poter trasferire a qualcun altro le emozioni che hanno provato imparando, per rivedere negli occhi dei ragazzi la loro stessa gioia. Solo chi ha imparato può capire quanto sia forte il bisogno di condividere con qualcuno le cose che ha appreso, sperimentato, goduto. Tuttavia, questo movimento che Benjamin paragona al movimento dell’onda che si rovescia può avvenire solo in un regime di infinita reciproca libertà, un regime che la scuola del Ministero nega per definizione. Nel labirinto se ne possono vedere solo ombre. Oggi più che ieri i corridoi del labirinto sono stretti e tortuosi. Ogni giorno si è chiamati a scegliere tra l’insegnante della Costituzione e l’impiegato del Miur. Tra il professionista a cui la Costituzione riconosce una grande libertà di azione e l’impiegato che deve preparare i ragazzi ad allinearsi agli standard ministeriali e a risolvere le prove Invalsi. Ogni giorno si vive una lotta per costruire conoscenza insieme ai ragazzi, cercando di realizzare occasioni perché scelgano un atteggiamento scientifico e uno stile di rispetto, ascolto e partecipazione; e ogni giorno, usando la scienza contro la scienza, i media presentano slogan, modelli, stili di vita che contrastano con i valori che proponiamo. La scuola è bombardata da ricette per migliorarne la qualità scritte da persone che l’hanno vissuta poco o niente e che ne hanno studiato forse alcuni aspetti sui libri: consulenti dei ministri, manager politici, persone che hanno della scuola una conoscenza scolastica. Tanto scolastica da pensare che sia possibile dare i voti alla scuola e che la soluzione sia quella del bastone e della carota. Sono persone che non si commuovono abbastanza leggendo il testo di Gerta, la studentessa albanese che, nel suo tema pieno

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di errori, ci insegna che sentimenti ed emozioni possono essere veicolati anche in un italiano approssimativo. Beppe e Rosalba ci guidano invece in questa realtà complessa, attraverso un costante sforzo di ‘ricomprensione’, con il coraggio di mostrare il limite della loro stessa capacità di cogliere fino in fondo la realtà dei loro studenti. Conserva confessa di aver consigliato ai suoi ragazzi di chiudersi nella propria stanza a studiare per scoprire dalla battuta di una ragazza che non tutti hanno una stanza dove chiudersi. E se come scrivono Beppe e Rosalba il senso dell’educazione è la comprensione, ne emerge che comprendere rimane un esercizio faticoso dove non si può dare mai nulla per scontato, dove un percorso che appare ideale non realizza risultati e invece un’autogestione, con tutte le pecche delle autogestioni, riesce a stimolare in Sonia impegno e voglia di apprendere, riesce a farle tornare la sete. Così, con i nostri allievi del Tirocinio formativo attivo, abbiamo cercato di prendere esempio dai nostri due autori e abbiamo aperto un forum per confrontarci con i nostri giovani colleghi e sono convinto che tra loro si formerà un nucleo che ci aiuterà a uscire dal labirinto. Da questo epistolario continuo a imparare, desidero imparare; leggendo i testi dei giovani colleghi, provo una grande emozione. È ancora possibile imparare e dunque deve essere ancora possibile insegnare.

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Premessa

Dice un proverbio: «Io posso portare il cavallo all’abbeveratoio, bere è affar suo». Insegnare non è un semplice travasare la scienza da una mente a un’altra mente. Insegnare e imparare presuppongono l’azione attiva di tutti i soggetti implicati nella relazione: cosa facile da concepire in via teorica, ma non altrettanto facile da realizzare nella pratica; fosse pure una acritica ‘trasmissione’, quella culturale non è mai stata, nemmeno per i ‘bravi scolaretti’, una comoda passeggiata. Chi conduce il cavallo all’abbeveratoio non può certo bere al posto del cavallo. Tuttavia – per restare nella metafora – è pur vero che l’intero contesto può essere disegnato (e ri-disegnato) con svariate modalità: non c’è un unico modo di conduzione, né un tempo unico per arrivare alla meta; l’abbeveratoio può avere forme diverse, l’acqua può essere più o meno allettante. Infine, il cavallo è un organismo vivente, predisposto perciò ad apprendere, così come può apprendere chi lo conduce. Questo libro nasce da una intesa tra due insegnanti: scriversi delle lettere per ragionare di scuola nell’arco di un anno scolastico. In un lungo racconto che pone al centro il contesto e la relazione con i ragazzi – i cui nomi sono tutti di fantasia e non riferibili a persone realmente esistenti –, entrambi ragionano di apprendimento e dei suoi risvolti teorici; ma per le specificità delle materie che insegnano e per le diverse storie personali, ciascuno dei due è portato a rendere centrali anche altri e differenti temi, a sentire l’urgenza e la necessità di raccontarli: per Bagni è la politica – scolastica e non solo –, per Conserva è la didattica nella sua quotidianità.

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Il lettore troverà che le lettere non sempre si corrispondono in modo puntuale e lineare. Gli accordi presi inizialmente prevedevano infatti che ciascuno dei due riflettesse sul proprio lavoro quotidiano scrivendone all’altro, non che si sentisse obbligato a rispondere punto per punto. Qualche volta perciò una lettera riprende da un’ottica diversa uno stesso argomento o sposta il discorso su un diverso piano; altre volte la risposta è la riformulazione di una domanda posta in una precedente lettera, con le nuove riflessioni che quella ha generato e con l’introduzione di un nuovo tema, e così via. Giuseppe Bagni e Rosalba Conserva

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Il primo giorno di scuola

14 settembre Domani conosceremo i nuovi ragazzi. Da due mesi non vediamo ragazzi – per intenderci: quelli che la scuola riunisce in un’aula e chiama con un numero ordinale e una lettera dell’alfabeto, e che un insegnante identifica come ‘suoi’ in virtù del contesto dove quotidianamente li incontra. A disegnare l’estetica del primo incontro verrà in aiuto l’ansia dell’attesa: conoscersi lì non è come conoscersi altrove. Noi che da studenti ne abbiamo conosciuti di insegnanti così... di polso, abbiamo finito con il credere che l’essere educatori coincidesse con una ‘adultità’ percepibile anche da lontano. E a volte ci chiediamo come altro può essere una persona che dovrà costringere chi adulto ancora non è ad accettare dell’imparare la fatica che l’accompagna. Sulle loro facce attente e un po’ impaurite leggeremo le frasi che già li hanno messi in guardia dalle illusioni: «Quest’anno non si scherza!»; «Sei alla scuola superiore, ti sei fatto grande...». Confermare o no le attese di una autoritaria, rigida scansione delle ore, lontane da cedimenti, senza affettività né debolezze? Difficile tracciare un confine tra come siamo e come dovremmo o vorremmo apparire: persone che si prendono cura di istruire i piccoli con quella ‘attenzione distratta’ che li fa crescere. Fatto l’appello, dettato l’elenco dei libri, entreremo nel merito facendo lezione, e che sia una lezione ben fatta, quasi una metafora della rassicurante ritualità di tutto un anno di scuola; sì, cominciare subito con un argomento di studio, molto meglio di quel vago parlare di come va il mondo..., di come la pensi tu...

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È vero, ci siamo specializzati nel dare spiegazioni prima di tutto e su tutto, il nostro modo di rapportarci ai ragazzi è insegnare loro ciò che ancora non sanno. La nostra affettività? È in quell’ostinarci a credere che diventeranno bravi, bravi scolaretti, s’intende. G.B. e R.C.

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Le lettere

Roma, 25 settembre Caro Giuseppe, ieri mattina ho portato per la prima volta la 1ª G in biblioteca (ventiquattro ragazzi, tutti maschi). Solita sensazione di sgomento: tanta l’offerta e poche le idee che ho su quello che può fare centro e inchiodarli a divorare un libro fino all’ultima pagina. Per la loro età – 14-15 anni –, se dovessi considerarla come condizione perenne e universale dello spirito, non soggetta quindi alle mode come invece è, andrebbero bene Guerra e pace, Delitto e castigo, L’educazione sentimentale e via elencando i massimi. Dapprima un giro illustrativo, guidati dal bibliotecario della scuola. Ho chiesto aiuto: «Consigliali tu». Lui invece li ha lasciati liberi di scegliere. Si sono precipitati nella stanza riservata ai gialli, alla fantascienza, allo sport. Uno ha preso un libro che spiega come si gioca a calcio. «Va bene?» mi ha chiesto. «Ma non lo conosci già il gioco del calcio?» ho detto io. Lui: «Sì, ma leggerlo è diverso...». Poi ci ha ripensato, ha preso un manuale sul gioco del golf: «Questo non lo conosco». Caro Beppe, beato te che insegni una scienza ‘precisa’! Io invece devo educare, alimentare il loro ‘immaginario’, come suol dirsi, e questo compito mi pesa, mi pesa l’assenza di confini... E aggiungi la mia convinzione che, a quell’età, nella lettura di buoni libri uno si gioca tutto. Sarà, la mia, una visione romantica della vita: che il ‘destino’ di ciascuno di noi è tutto in quelle pagine folgoranti, lette precocemente, che ti rovesciano addosso il mondo e tu diventi un altro. Ne vieni fuori frastornato («Non ho capito

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niente!»), però sai per certo che lì c’è un segreto che devi scoprire e che la chiave è nelle tue mani. Quando Marguerite Yourcenar aveva 8 anni, il padre le leggeva i Ricordi di Marco Aurelio nella traduzione inglese. E noi? Non dovremmo anche noi riconoscere e coltivare la genialità dell’infanzia? Tornati in classe, tra i quattro muri spogli dell’aula che ti rassicurano che un confine c’è – e quindi un ‘dominio’ che è solo tuo –, ho scritto alla lavagna la scheda da compilare a inizio e fine lettura. «Solo romanzi» ho aggiunto. «Quanti?». «Dieci». «Possiamo sceglierli noi?». «Sì, dietro mio consiglio». «Dobbiamo fare il riassunto?» ha chiesto uno. «No, a fine lettura dovete scegliere una pagina da leggere ad alta voce ai compagni». È un metodo che ho seguito altre volte, e funziona per chi è abituale lettore (di romanzi). Gli altri barano: scelgono la pagina (di solito una delle prime) e non leggono il resto. Che faccio per cambiare le abitudini di questi ragazzi? Di questi, e sono i più, che se non imparano qui, non c’è altrove chi faccia scoprire loro il piacere di leggere? Non te lo so dire, non me lo ricordo. Ogni caso è un caso a sé. Intanto li ho messi in un classico «doppio vincolo»: leggere è un piacere/leggere è un obbligo. Ma gli esseri umani, anzi ogni creatura vivente – come ci ha insegnato Bateson – vive perennemente in doppi vincoli, e se la cava. Rosalba P.S. Nella sala d’ingresso della biblioteca li osservavo standomene in disparte mentre aspettavano il turno per registrare il libro. Seduti attorno a un grande tavolo discutevano tra loro disinvolti e allegri. Si conoscono da due settimane: hanno tanto da dirsi e sono rispettosi l’uno dell’altro. Non c’è stato niente del genere nella mia vita scolastica. Solo bugie, silenzi, giudizi sull’altro covati dentro, alleanze rivolte a ferire qualcuno, competizione... E se fosse questa loro innocenza il bene da preservare? La zona sacra che non bisogna invadere, la promessa di un mon-

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do migliore? E se fosse che per loro Guerra e pace è un di più, non è così necessario? *** Firenze, 2 ottobre Cara Rosalba, anch’io ho avuto il primo incontro con la mia classe. Una prima di diciassette alunni, tutti vivaci come si conviene negli istituti professionali. La classe è quasi equamente ripartita tra femmine e maschi e dodici, dei diciassette, sono accomunati da precedenti bocciature subite in una qualche prima superiore o alle medie. Quando in laboratorio abbiamo parlato delle loro scelte c’era di che disperarsi: chi aveva chiesto altri indirizzi ma non vi aveva trovato posto, chi aveva scelto per esclusione. In gergo scolastico la chiameremmo una classe di ‘raccattati’. Eppure, quasi come tutti gli anni, questi alunni da mani-nei-capelli, appena diventano ‘i miei alunni’, mi entusiasmano. Mi sembrano tanti singoli mondi che nascondono diverse qualità, piccoli gioielli da portare alla luce. Vorrei bruciare le tappe della conoscenza e, se potessi, li seguirei a casa per scoprire di che materia sono fatti i loro discorsi, da chi hanno preso i loro gesti e il modo di sorridere. So che non si può, e soprattutto non si deve. Anche quest’anno, lavorando in presidenza, ho il semidistacco: chimica e laboratorio nella sola prima classe, con otto ore settimanali. Pochi alunni, quindi, e quando incontro gli altri studenti in presidenza è proprio la mancata condivisione con loro di una storia di classe a crearmi disagio. Quelle mura che, mi scrivi, rassicurano anche te, io me le lascio alle spalle proprio quando ne avrei più bisogno. Mi hanno colpito le tue parole su come la lettura di buoni libri possa dischiudere un orizzonte nemmeno immaginato, ma la mia esperienza mi fa pensare che il problema nostro, oggi, di inse-

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gnanti che intervengono nella fase dell’adolescenza, sia più complesso. Non solo offrire occasioni d’incontro con una cultura ricca di segreti che devono scoprire ma, ancora prima, riuscire a collocarsi sul loro terreno e dare senso, per loro, a questa scoperta. Non solo renderli consapevoli che la chiave per la stanza del tesoro è già dentro di loro, ma convincerli che quello che vi troveranno è davvero un tesoro. Anche se li potrà portare oltre il mondo che conoscono, oltre i modelli della televisione e, per la maggioranza dei miei alunni, oltre l’immaginario che possono ereditare dai loro genitori. Convincerli non è facile proprio perché si dischiude un orizzonte così vasto e bisogna imparare ad affrontare il senso di vertigine che ne deriva. D’altra parte, lo stesso Gardner a proposito della situazione della scuola americana ha scritto che l’obiettivo prioritario oggi, prima di insegnare a leggere e scrivere, è quello di ridarne la voglia, ricostruirne appunto il senso. Per quanto riguarda il fatto che dovrei sentirmi beato perché insegno una scienza ‘precisa’ questa da una batesoniana esperta come te proprio non me l’aspettavo! Tu mi insegni che rigore e immaginazione accompagnano sempre qualsiasi attività umana: io devo alimentare il loro immaginario proprio come te, ma con l’ulteriore difficoltà di doverlo fare in un campo in cui ancora domina il dogmatismo e si pensa di potervi trovare verità assolute. Il senso della realtà e la forma del pensiero di uno scienziato non sono diversi da quelli di un poeta o di un artista. Allenando la propria mente con esperimenti, egli percepisce differenze e somiglianze, e costruisce con rigore le immagini su cui poter poi ‘immaginare’. Questa impresa mi stimola, ma non mi sento certo ‘beato’! Penso tu abbia ragione quando parli dei sentimenti (parli di innocenza, ma io preferisco evitare termini così impegnativi) come bene da preservare nei ragazzi. Con mio fratello tempo fa parlavamo di qualcosa di analogo. Anche lui insegna le tue materie e si trova a dialogare con alunni e alunne che separano comple-

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tamente la sfera dei sentimenti da quella delle scelte di vita di tutti i giorni. I sentimenti restano belli e universali, ma le pratiche della vita quotidiana restano strettamente legate al mondo del possibile e della contingenza. Oltre a «preservare» la loro «innocenza», allora, non dovremmo anche aiutarli a vivere la vita di ogni giorno in coerenza con i loro valori? Ti trascrivo un brano del tema di Gerta, un’alunna albanese di prima, da pochissimo in Italia; l’argomento era l’acqua e il suo immaginario: «Resto seduta di fronte a lui e mi ciama, mi ciama in nome e mi soride con la sua facia dolce. Il suo colore da qualce parte blu e da qualche parte celeste mi tranquilla l’anima. E iniziamo a parlare. Io racconto tutte le mie cose, e lui mi ascolta. È il migliore amico che ho, che non mi tradisce mai e con nessuno. Questo mio migliore amico è l’aqua ‘il mare’. Quando sono triste lui mi abracia forte, mi tranquilla il corpo e mi tolie tutti i pensieri tristi dalla mente. Ma quando è triste lui io non facio niente solo lo vedo, e lui questo vuole e piache. L’aqua è anche un elemento che ti aspira, ti tranquilla e in tanti casi ti fa sognare. Ecco perché ‘il mare’ è il mio migliore amico». Il giudizio della mia collega e amica Isabella è stato questo: «Il tuo elaborato è molto bello e pieno di poesia, anche la calligrafia è molto bella e chiara, così mi dispiace ‘sporcare’ queste pagine con le correzioni. Lo correggeremo insieme». Ho condiviso la delicatezza delle sue parole di fronte a un componimento così solare, prova tanto bella che sul livello della sensibilità non sono legittimi alcun tipo di confini, figuriamoci quelli geografici. La sensibilità sfugge alla prigionia delle regole grammaticali, tanto difficili e ancora sconosciute a Gerta. Giuseppe

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Roma, 4 ottobre Caro Giuseppe, spiegare: un verbo che identifica la scuola e che riassume in una sola parola cosa diavolo fa un insegnante. Cosa fa? Spiega. La spiegazione, che potremmo definire un ‘espediente retorico’, è per sua natura selettiva: seleziona parti di ampie descrizioni, le connette e dà loro un senso. E così costruiamo spiegazioni che in certi casi sono ‘fuori del tempo’ (un teorema euclideo lo giri e lo rigiri ma resta sempre lo stesso), in altri casi ‘aperte’, soggette cioè a revisione: vedi le spiegazioni di accadimenti storici. Queste cose tu le sai, e sai che ho studiato per anni la questione. Fino a provare il rifiuto di concepire lo spiegare come una scelta ‘corretta’ – dal punto di vista dell’«ecologia delle idee», s’intende. Però, te lo confesso, spiegare mi piace e mi riesce bene. Succede a chi sta spiegando che quella intuizione che tale prima non era – in quanto silenzio, attenzione, raccoglimento erano imposti perché previsti dal ruolo –, diventi un bel giorno davvero esperienza, e nuova. Che diventi inoltre, per i ragazzi, esercizio di pensiero su come potrebbe essere, anche fuori dell’aula, una condizione eccezionale di ‘intimità’: l’ascolto di un’altra persona, una persona qualsiasi, che parla con il suo essere intero, mente e corpo. Se tu mi fossi accanto mentre spiego, forse diresti che in fondo in fondo altro non faccio che raccontare delle storie. Può darsi. Mi osservo, a tratti, mentre nel silenzio dell’aula, con gli sguardi tutti rivolti a me, faccio spettacolo: con passaggi repentini vado da ieri a oggi (dal Paleolitico al nomadismo dei Rom), trasferisco un’idea da un contesto all’altro, richiamo un pezzo del loro vissuto («Capita anche a voi di...»), anticipo concetti e fatti che spiegherò dopo, dichiaro la mia incompetenza su un campo che ho appena sfiorato («...di genetica, però, non so molto») o quanto poco tutti quanti sappiamo di cose che crediamo di sapere («Fortunati voi, che sarete in vita quando sarà chiaro ciò che oggi è un punto oscuro...»).

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Quanta libertà mi prendo! E tuttavia questa libertà la controllo, fingo che qualcuno che ne sa più di me stia a guardare, mi immergo cioè nella condizione di chi venga osservato, ascoltato, valutato da un giudice sapiente e togato che può fare pollice verso. Non farti l’idea che spieghi sempre. Ho la fortuna di avere due sole classi: in una ho ben dieci ore a settimana, e in due giorni tre ore di fila. Tu come organizzi il tempo della lezione? Io in quelle tre ore di fila – già da molti anni – metto in programma un solo argomento (ti faccio un esempio: ieri in 2ª G l’uso della virgola prima del pronome relativo), e in quel tempo c’è spazio ‘anche’ per la classica spiegazione. Il resto è ‘laboratorio’: esercizi, verifiche immediate, aggiustamenti... un conversare quasi alla pari. A venti minuti dalla fine detto le consegne per i compiti a casa, divento di una pignoleria che a qualcuno può apparire maniacale. Entrambi insegniamo in scuole scelte dai ragazzi perché «qui si studia poco». Per fargli cambiare opinione bisogna perciò dare un segnale tangibile di quanto conta (e quanto sarà tenuto in conto) il loro impegno individuale. «Ma io sto attento alla spiegazione! Non basta?» chiede Manzi. «Sì, è una buona premessa» gli rispondo «facilita il lavoro a casa ma non lo sostituisce». Oggi, mentre spiegavo prendendo gli oggetti a portata di mano – l’astuccio era una pietra, la gomma da cancellare era una selce – e mostravo il gesto del battere una pietra sull’altra, quello straordinario passaggio evolutivo del genere umano mi è diventato chiaro come non mai. E mi sono chiesta: chissà se l’hanno capito come adesso l’ho capito io. Spiegare vuol dire capire in un altro modo, capire con l’intero corpo. È una esperienza che gli allievi devono poter fare: comunicare ad altri ciò che si è compreso, cercare la strada che sia convincente e avvincente. Ma perché l’interrogazione ‘classica’ non funziona? Perché di rimando abbiamo solo frasi smozzicate? Spiegare presuppone che di una certa cosa si abbia il pieno dominio. E la tensione che si crea quando si vuole dire ciò che si sa a chi non lo sa è la causa che mette in moto capacità esplicative

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insospettate. Forse il meta-messaggio racchiuso nelle mie spiegazioni è che spiegare è un’arte, un atto creativo, e come ogni arte richiede addestramento, rigore e immaginazione, sopra ogni cosa. Rosalba *** Firenze, 8 ottobre Cara Rosalba, la tua lettera mi ha stimolato a riflettere sulla spiegazione. Insegnando chimica, le spiegazioni che mi competono si giocano tutte in campo scientifico, dove sembrano assumere un carattere estremamente preciso. Bruner, in La cultura dell’educazione, riassume molto bene l’evoluzione dello spiegare scientifico. Ti propongo un breve passaggio che trovo illuminante: «A partire dal diciassettesimo secolo l’ideale della comprensione (qualunque ne sia l’oggetto) è stata la spiegazione causale per mezzo di una teoria: l’ideale della scienza. Una teoria che funziona è tutto sommato un miracolo: idealizza le nostre diverse osservazioni del mondo in forma ridotta all’essenziale permettendoci di vedere i miseri particolari come esempi di un caso generale. Le teorie esplicative inoltre funzionano indipendentemente da quello che se ne pensa e (almeno presumibilmente) dalla particolare prospettiva personale con cui si guarda il mondo». La spiegazione scientifica, quindi, cerca leggi eterne e avulse dal contesto. Storicamente, questo modo di intendere la spiegazione fondato sulla generalizzazione e astrazione dal contesto ha goduto di un prestigio indiscusso. In fondo riproduce un criterio di verità tipicamente umano, che vede degno di fede soprattutto ciò che è dotato di universalità e permanenza nel tempo. Nel periodo po-

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sitivista, nei riguardi dell’interpretare, proprio delle scienze umane, lo spiegare della scienza (in particolare la fisica) godeva di un tale strapotere che le scienze umane erano considerate ‘non del tutto serie’, perché non spiegavano niente: servivano solo ‘ad arricchire la mente’. Ma cosa succede nel secolo scorso a questo mondo così fortificato su verità eterne? Bruner scrive che «mentre i professori di scienze decretavano [...] la leggerezza delle ‘materie leggere’, l’Europa si avviava a una nuova guerra – mettendo in scena le storie della letteratura, della storia, degli studi sociali che avrebbero dovuto solo ‘arricchire la mente’. [...] I gas velenosi [...] potevano anche essere i frutti letali della scienza verificabile, ma l’impulso a usarli nasceva dalle storie che ci raccontiamo [...]». Bellissimo modo, questo di Bruner, per introdurre la svolta interpretativa che «dapprima si espresse nel teatro e in letteratura, poi nella storia, poi nelle scienze sociali e infine in epistemologia. Oggi si esprime nell’educazione». Il suo fine principale è la comprensione. E le nostre spiegazioni non devono mirare proprio a questo? In fondo, per tutti noi si tratta di muoverci tra passato, presente e possibile, e, lentamente spiegando, interpretando, raccontando, cercare di mettere in scena una sovrapposizione di approcci e rapporti con il mondo che siano la scintilla capace d’innescare la comprensione. Anche a me piace spiegare. E come può non piacere? È un palcoscenico interamente a nostra disposizione, una recita a soggetto con il controllo diretto di tutti gli elementi della scena. Una bella lezione coinvolge corpo e mente e, se è davvero bella, penetra nella sfera dell’emotività di tutti. Forse sono proprio le sue qualità di completezza e coinvolgimento che generano quel «senso d’intimità» di cui tu parli. Eppure quella stessa tua diffidenza verso la spiegazione mi si è andata via via rafforzando. Da tempo ricorro sempre più rara-

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mente alla lezione ‘classica’; mi capita, certo, di farne, ma non è più la spiegazione pianificata dei miei primi anni. È più spesso un modo di introdurre il tema che approfondiremo. Procedo per accenni, innesco problemi che mi guardo bene dal chiudere, con l’interesse preminente di farli diventare un problema anche per loro. Preparo gli alunni a concentrare la loro attenzione su precisi passaggi della ricerca. In altri momenti la lezione è un tirare le fila, correggere la rotta, chiudere l’esperienza selezionando e connettendo (riprendo le tue parole) le parti più significative, là dove i miei giovanotti non arrivano. Con la pratica di insegnante di laboratorio, mi sono trovato negli ultimi anni a dover imparare a fare a meno non solo della cattedra ma dell’aula stessa, cioè del luogo che dà fisicità alla lezione e ne favorisce lo svolgimento secondo regole canoniche. Io stesso ho favorito, sette o otto anni fa, questo allontanamento dall’aula tradizionale: evidentemente era l’esito naturale del mio modo di intendere la lezione. Niente di particolare, ovviamente, solo che insegnare chimica mi ha portato ad assumere quasi naturalmente il ruolo di una guida che accompagna all’esplorazione di un territorio che conosce bene, cercando di far condividere ai visitatori la sua passione. Per questo mi piace il laboratorio. Mentre i ragazzi sono impegnati – imparano a impegnarsi nella stessa forma sia sul libro di testo o sulla guida pratica, sia con strumenti e sostanze –, io posso muovermi fra loro, posso ‘arrivargli alle spalle’, mettermi accanto a loro e starci tutto il tempo che serve (siamo due docenti per un numero di alunni che non è mai oltre i venti). Tu non immagini il piacere dell’accorciare le distanze, pratica resa possibile dal laboratorio. Quando superi la sorpresa, mista a diffidenza, di quei ragazzi e ragazze che, potendo, preferirebbero nascondersi all’ultimo banco, speranzosi di passare tutta la scuola nel maggior anonimato possibile, e ti affianchi a loro, oltre la me-

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tafora. Significa aiutarli a capire, in un rapporto ‘spalla a spalla’ importantissimo, perché dà ai ragazzi la certezza che in quel momento il prof non li osserva, valuta, giudica; non incrocia cioè il loro sguardo ma vi sovrappone il proprio a illuminare meglio lo stesso oggetto. A me piace in particolare perché offre l’opportunità di fornire «doppie descrizioni» e di farlo non nella forma della correzione di una risposta sbagliata, ma assumendo lo stesso ruolo nello stesso momento. I miei ragazzi scoprono così che occhi esperti vedono cose diverse anche quando guardano le stesse cose che guardano loro. Giuseppe *** Roma, 10 ottobre Caro Giuseppe, mi dicevi del «senso di vertigine» che si prova davanti a tanto «orizzonte» e che noi ‘frastorniamo’ con i nostri discorsi. Ed è proprio per limitare i guasti di un ‘frastornamento incauto’ che preferisco applicarmi (e far applicare loro) alla cura delle procedure, dove il criterio di ‘giusto’ e ‘sbagliato’ è meno aleatorio (quasi quasi ‘oggettivo’). A cominciare dalla ortografia, dalla punteggiatura, dalla costruzione di frasi ‘ben formate’ (concordanze, congiunzioni, preposizioni ecc.). So anche che su queste ‘evidenze oggettive’ si appunterà il giudizio di chi li prenderà dopo di me, al triennio: lì, devono poter fare ‘bella figura’, è lì che verranno mazzolati al primo errore di ortografia. E il giudizio che verrà formulato sulla base del loro primo compito in classe – il loro ‘biglietto da visita’ – potrà diventare un pre-giudizio che li favorirà o li danneggerà per tutto l’anno. Forse esagero, ma quante volte ci capita di restare tenacemente ancorati alla prima

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impressione che abbiamo avuto dall’incontro con una persona! A inizio anno, a quegli studenti che scrivono in modo arruffato, così come gli viene, assegno per casa un dettato e un copiato al giorno, e la verifica devono farla da sé, scrivendo in calce il numero degli errori. A me tocca solo di apporre una sigla: «Visto». Le prime volte fanno una revisione ‘alla grossa’, e devo perciò controllare io ogni parola. Li sgrido per quanto tempo mi fanno perdere, li terrorizzo («Non un mese! Tre, quattro mesi di copiato, se domani trovo una sola parola sbagliata! Se ancora devo dannarmi per decifrare queste zampe di gallina!»). Poco alla volta vengono fuori quasi dei quadri: le ‘o’ tonde, ogni ‘i’ con il suo puntino sopra, gli accenti al posto giusto, l’apocope... Insomma, errori zero, pagine in bella grafia, impaginate con margini regolari e ogni cosa al suo posto. Poi mi accorgo che gli altri compiti – quelli assegnati a tutta la classe e che anche loro devono fare – li fanno con la non-cura di prima. Perché? È sempre un’impresa scardinare abitudini a lungo coltivate, e per loro quei compiti in più – il dettato e il copiato fatti come si deve – costituiscono una parentesi isolata dal resto. Tornando alla tua lettera, anche io ho apprezzato la ‘delicatezza’ dell’insegnante di Gerta: «Lo correggeremo insieme». A noi che insegniamo italiano e sollecitiamo con i temi l’espressione del cosiddetto ‘mondo interiore’, succede spesso di trovare ragazzi e ragazze potenziali scrittori. E siccome so quale dura disciplina è lo scrivere, questi ragazzi un po’ speciali cerco da un lato di incoraggiarli lodandone la genialità, dall’altro però divento con loro ancora più severa, ancora più intransigente, affinché non si facciano illusioni (un famoso scrittore e critico letterario – adesso non ricordo il nome – alla domanda «Qual è un metodo per insegnare ai giovani a scrivere?», rispondeva: «Quale? Ce n’è forse un altro? Bastonarli!»). A quell’età è facile illudersi che basterà andare dove il cuore comanda: la creatività, innanzitutto! E le doppie? E i congiuntivi? Se non intervieni subito – e al biennio in realtà è già tardi –, gli

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automatismi sbagliati non li smuovi più, sono come le radici di un albero che vanno sempre più sotto per crescere comodamente indisturbate. Ed è forse perché non sottovalutano il lato tecnico della scrittura la ragione per cui a fare una buona riuscita sono i ragazzi che accettano il duro tirocinio che sta a monte della creatività, non i nostri allievi ‘ingenui’, sregolatamente creativi. A quell’età, quando sei preso dal misurare la ‘genialità’ del tuo pensiero con la ‘pochezza’ del mondo che ti sta intorno, se non c’è chi ti sostiene puoi cadere nel precipizio. Può accadere che un ragazzo geniale incontri un maestro geniale, il quale si proponga egli stesso – che ne sia consapevole o no – come modello, e che ottenga, sì, buoni risultati, ma solo finché c’è lui... «È possibile» scrive in Pensieri diversi Wittgenstein «che un maestro elevi i suoi scolari ad un’altezza per loro innaturale quando essi si trovano sotto il suo influsso diretto, ma non sia capace di guidare il loro sviluppo portandolo fino a quell’altezza; così che essi precipitano appena il maestro abbandona l’aula». In verità l’incontro con un maestro non-banale costituisce una fortuna per un allievo (nella nostra storia di scolari resta il ricordo di quella particolare persona che ci ha scossi dal torpore...). Però, se pure è auspicabile in un maestro una buona dose di ‘genialità’, occorre che egli la temperi, in modo che possa ‘abbandonare l’aula’ in qualsiasi momento, senza troppi rimpianti. Prendiamola come una «doppia verità»: bisognerebbe riuscire a essere entrambe le cose, banali e non-banali. Ci verrà in aiuto l’ironia, l’autoironia, lo sguardo disincantato... e anche lo sguardo che trova fonte di meraviglia in ciò che per altri è una insignificante ovvietà. Rosalba P.S. La «doppia verità», il mio eterno rovello... te ne parlerò in un’altra lettera.

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Roma, 12 ottobre Caro Giuseppe, questa mattina i ragazzi della 1ª G erano impegnati in un compito, e così li osservavo uno a uno. Mi chiedo quale descrizione di loro sia più appropriata. Che cosa vedo io, con quali tratti li identifico. Riotti: fra i tanti Andrea, Massimiliano, Danny eccetera porta un nome ‘originale’, vale a dire ‘antico’: Pasquale. Quando detto i compiti a casa, anziché prendere il diario e la penna, guarda stupito, come per dire: che sta succedendo? Corbelli è come lui, quando assegno i compiti mi guarda sbalordito, ci mette un po’ prima di riprendersi. (Mi ricorda mio figlio in prima elementare, che ogni mattina chiedeva: «Anche oggi?»). Arrossisce, il rossore sulle guance è perenne, una soluzione adattativa ‘economica’, per non doverci pensare ogni volta. Fleuri: presentandosi al gioco di ‘mi ricordo...’, ha detto: «Mi ricordo del giorno che ho creato il mio sito». Ora lo guardo ammirata. Capisco vagamente la ragione del suo successo con i compagni: è uno ‘che sa il fatto suo’. Si distrae di continuo, riempie fogli con scritte tipo murales, e i suoi traffici non finiscono qui. Gli ho detto: «Continua così e alla fine dell’anno sarai bocciato». E lui: «Impossibile, io sono bravo». Tonucci invece ha paura, paura di essere bocciato. Il giorno che gli ho chiesto perché non risponde mai alle domande ha detto: «Io sono timido, ho sempre paura. Anche alle medie ero così». Io a modo mio l’ho rassicurato: «Fai bene ad avere paura, la paura ti rende cauto, ti garantisce contro la tentazione di lasciarti andare». Sembrava convinto, poi se ne è tornato al banco suo muovendo le spalle come un damerino. Non ho ancora capito se la lezione la segue davvero, intento com’è a sistemarsi di continuo i due riccioli laterali sulla fronte. Va fiero dei suoi pantaloni nuovi in stile militare, con la cintura stretta in vita e portata molto in alto, non in basso come si porta adesso.

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Marangoni: non mette la stanghetta alla ‘a’ e nemmeno il puntino sulla ‘i’. Quanto al resto, si fa notare per la faccia da bambino e la corporatura ‘da uomo fatto’. È un atleta, pratica uno sport (forse il calcio) da quasi professionista. È amico di Capriati, il quale ogni tanto se lo abbraccia. Sedevano vicini, li ho separati. Hanno accettato senza fiatare, eppure mi immaginavo di dover affrontare faticose contrattazioni. Strano come Marangoni sia acquiescente ai miei ordini, forse ‘obbedire’ gli viene facile per la consuetudine con il ‘mister’. Ora sta vicino a D’Angeli, uno bravo. Sta buono, ma si annoia, sbadiglia. Almeno prima lottava. Capriati gli ha fatto la campagna per farlo eleggere rappresentante di classe: un voto plebiscitario. Corsetti: ha un dente canino cresciuto di traverso. Giorni fa si è assentato perché si è dovuto operare, al ritorno mi ha fatto vedere la ferita sul palato. Fa errori di ogni tipo, di tutti i tipi, quando scrive e quando parla: «Perché ho il dente malato» dice lui. Ha un taglio degli occhi ‘orientale’, furbesco, ma è un agnellino. Gionfriddo: è quello che diventerà, da grande, ‘una brava persona’. Riservato, diligente, sobbalza quando sente il suo nome. Di lui un compagno ha scritto: «Porta i capelli dipinti sulla testa»; chissà che cosa voleva dire... Carandini: che dire di lui? È bravo, è l’allievo che tutti sogniamo. Uno che in altri tempi sarebbe stato ‘normale’. Qui, invece, è una quasi-eccezione. Studia ogni giorno, senza affanno. Suo nonno lo aiuta nelle ricerche, gli stampa le pagine dei Promessi sposi da internet. Reyes e Puruggan sono stranieri. Tutti e due hanno fatto le medie qui. Reyes è preoccupato di non saper rispettare le regole di impaginazione. Per i margini do loro due possibilità: tre centimetri a sinistra e otto a destra, oppure la ‘mezza colonna’, rigorosamente mezza per chi fa errori di grammatica, più di mezza per gli altri. Reyes non ha ancora deciso in quale categoria stare. Si agita, all’inizio consegnava il foglio sgualcito, ora va meglio: prima di mettersi a scrivere disegna i bordi con la matita e la squadra.

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Osservo la tensione che si crea durante il compito in classe. Io, dalla cattedra o passando tra i banchi, provo a garantirne la durata. Riotti non sembra minimamente turbato dalla eccezionalità del momento. Tra una chiacchiera e l’altra riesce a scrivere e a non perdere il filo. Lui. Gli altri non si perdono una sua battuta di spirito, sono tutt’orecchi. Rosalba *** Roma, 15 ottobre Caro Giuseppe, ieri in 2ª G una ragazza è caduta in quello che io chiamo, da anni, ‘l’errore di Pomponio’. Devi sapere che tanti anni fa, quando insegnavo nella scuola media, avevo una classe terribile, tutti maschi (ah, come invidiavo gli insegnanti delle Magistrali: classi di sole ragazze!). Molti di loro venivano da un quartiere periferico di Bari: caseggiati cadenti, strade male illuminate, al centro la piazza deserta. Questa classe faceva disperare tutta la scuola. La diedero a me perché ero l’ultima arrivata. L’alunno Pomponio era alto e grosso, faceva il pugile. Ai miei occhi di allora, non esperti, sembrava un uomo e lo ‘rispettavo’, lo lasciavo stare, come fa una donna (del Sud) con il maschio di casa. Naturalmente non studiava mai, e non faceva mai un’assenza: sembrava venisse a scuola solo per riposarsi. Al primo banco, si distoglieva dai suoi pensieri solo per mettere a tacere la gazzarra quando lui aveva mal di testa. Un giorno stavo spiegando (lottando per spiegare) le congiunzioni subordinanti, in particolare la differenza tra ‘perché’ e ‘affinché’. Scrissi una frase alla lavagna: «L’ascensore si è fermato ‘perché’ è andata via la corrente». Cosimo Pomponio alzò la testa, lesse la frase, ne fu colpito e chiese: «Di che marca è l’ascensore?».

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Io dissi che questo non c’entrava niente, e tuttavia presi sul serio la sua domanda: «Gli ascensori» dissi «vanno a corrente elettrica», eccetera. Lui replicò: «Non era un ascensore Bellomo». Suo cognato lavorava alla ditta Bellomo. Alzò le braccia come per annunciare il Verbo e rivolto alla classe disse: «Gli ascensori Bellomo non si fermano, anche quando non c’è la luce». Seguì un applauso. Ieri Monica Cardelli ha detto qualcosa di simile. Ha commentato la frase scritta alla lavagna che esemplificava l’uso dei correlativi ‘né... né’: «Marco non è né bello né intelligente, tuttavia ha successo», dicendo che era impossibile, che per avere successo eccetera eccetera. Allora, come faccio ogni anno, ho raccontato la storia di Pomponio, e come ogni anno ho assegnato la paternità dell’errore a chi per primo c’è cascato: ieri, in 2ª G, a Cardelli. Uso il metodo di denominare gli errori con la persona che li fa perché ho scoperto che così se li ricordano: per esempio, l’errore di Colosimo riguarda la paragrafazione (a ogni frase, punto e a capo), l’errore di Provenzano è mettere la congiunzione dopo la copula («La rotazione agricola è quando...») e così via. In Alfabetizzazione e oralità – un libro scritto da linguisti e antropologi – ho trovato una interessante distinzione tra livello ‘intensionale’ e livello ‘estensionale’ della frase. Data una certa frase, gli alfabetizzati sono in grado di esaminarla a prescindere dal suo significato, vale a dire che sanno isolare e prendere in esame la ‘forma della frase’ per verificare, al suo ‘interno’, se la grammatica è giusta o sbagliata. E così, ignorando (provvisoriamente) il piano della comunicazione ‘esterna’ (quello di cui la frase parla), ciò che della frase diventa oggetto di studio è il livello che i linguisti chiamano ‘intensionale’: i fonemi, l’ortografia, i sintagmi (nel nostro caso: né bello/né intelligente). Diversamente da quelle alfabetizzate, le società non alfabetizzate (le culture orali) tengono conto sempre e soltanto della realtà a cui la frase (e in generale il linguaggio) si riferisce, vale a dire che accettano o rifiutano una frase non analizzandola nella sintassi, nell’ortografia eccetera, ma sulla base di proprietà essenzialmente ‘pragmatiche’. Un esempio: la

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frase «Mario rubò i soldi a Luigi» è sbagliata «perché Mario non lo doveva fare». Questa grammatica, che noi chiameremmo ‘di Pomponio’, è quella che i linguisti chiamano ‘estensionale’. Nella scuola superiore noi abbiamo a che fare con ragazzi da lungo tempo alfabetizzati, eppure perfino durante la lezione di grammatica, quando è chiaro che conta solo il livello ‘intensionale’, l’interesse verso l’aspetto pragmatico del messaggio emerge spontaneamente con una confusione di piani logici. Ciò non accade per tutti i ragazzi, s’intende. Di regola essi colgono l’errore di tipo logico. Ma a me interessa non tanto la regola quanto l’eccezione. Nel caso che ti ho appena raccontato, il persistere di modalità di pensiero ‘ingenuo’ rende evidente una verità sacrosanta: quello di Pomponio e di tutti gli altri è un ‘errore scolastico’, e il pragmatismo di questi ragazzi ingenui dimostrerebbe quanto il linguaggio sia nato e si sia radicato in modo non scisso dalle cose che dice. Tutto ciò mi riporta a domande che da tempo mi arrovellano: che cosa si acquista, e che cosa si perde con l’istruzione? Tanti anni fa, all’università di Mogadiscio ho insegnato l’italiano a studenti somali, in particolare il linguaggio della scienza (dovevano poi iscriversi a una facoltà scientifica). Erano quasi tutti poco alfabetizzati, ricchi della loro cultura orale. «Che cosa insegni in Italia?» mi chiese uno studente. E quando dissi che insegnavo ‘italiano agli italiani’ dapprima si mise a ridere, poi disse: «In Somalia è diverso, il somalo qui lo sanno tutti». Ecco, e se stessimo sottovalutando che si può ‘soffrire’ di troppa alfabetizzazione? Alle volte, poi, mi viene il sospetto che noi occidentali stiamo correndo il rischio di dis-connetterci dal resto del mondo... E siccome nessuna risposta mi viene facile, provo con Bateson ad allargare la domanda: «Qual è la struttura che connette tutte le creature viventi?». Rosalba

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Roma, 16 ottobre Caro Giuseppe, siamo in 1ª G e l’argomento della lezione per tutta la settimana è la descrizione. I ragazzi sono stati esercitati lungamente a descrivere già alle medie, dove hanno appreso un gran numero di regole. Eppure... Dato un racconto – una nave corsara che va verso le Antille –, l’esercizio chiedeva di completare il testo inserendo una descrizione: la descrizione del capitano della nave. Facile, no? Invece molti ragazzi, i più ‘ingenui’, spontaneamente completano l’esercizio non descrivendo il capitano, ma raccontando che cosa fa. Coltivare nei ragazzi la loro naturale tendenza a narrare è senz’altro positivo, e tu, da scienziato, lo rivendichi anche per la tua materia. Ma a scuola dobbiamo ‘culturalizzare la natura’ (scusa la definizione affrettata). E mi torna il dubbio: perché censurare la tendenza a vedere le cose nel tempo (narrare), affinché imparino a vederle come fossero fuori dal tempo (descrivere, generalizzare, dare definizioni...)? Cosa si guadagna? Cosa si perde? E come si fa a contemperare esigenze contrapposte? Per esempio, si può ignorare del tutto il rigore del linguaggio scientifico? Prendiamo la definizione. L’esperienza mi dice che quando un ragazzo, interrogato, inizia definendo correttamente ciò che poi dovrà sviluppare, è già sulla buona strada. Dare forma verbale a un concetto in una o due frasi, in un linguaggio altamente formale, è una cosa seria, tanto seria che viene quasi la tentazione di far ripetere a pappagallo le definizioni prese dal libro. Molti insegnanti, anche di materie scientifiche, dicono invece ai ragazzi: «Esprimiti con parole tue». Io credo che proprio qui non si debba barare: non è forse in questo che si identifica il linguaggio scientifico? Si può accettare una definizione fatta alla bell’e meglio soltanto nella fase iniziale, per partire da lì e portare poi i ragazzi a riflettere sui vincoli, sulle peculiarità della definizione scientifica: brevità, densità... anche l’eleganza è una delle caratteristiche della

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definizione. Serve a scuola ragionare su queste sottigliezze? Qualche dubbio ce l’ho, ma invece di coltivare i dubbi, con i ragazzi ragiono di sottigliezze. Quanto al riassunto, qui l’assenza di incertezze è pressoché generale: a scuola si deve imparare a riassumere. Trascurare i dettagli e cogliere il nucleo centrale di un certo discorso. Forse conosci l’aneddoto dell’antropologo che spiega agli abitanti di un villaggio africano come si usa un certo congegno, mettiamo una trivella a mano, e quelli, alla domanda «Avete capito? Avete domande da fare?», rispondono: «Dov’è finita la gallina?». La scena era stata filmata, e nel filmato si vede una gallina che per tutto il tempo ha razzolato alle spalle dell’antropologo. Racconto ai ragazzi questa storia quando capita che uno commetta l’errore di rendere centrale una informazione secondaria. Da quel momento, per designare la natura dell’errore diciamo: «Tu hai visto la gallina!». Rosalba *** Firenze, 28 ottobre Cara Rosalba, il tuo alunno Pomponio mi ha fatto ricordare cose passate: i tempi in cui insegnavo al serale. Non tanto per l’impegno che nei miei ‘studenti della notte’ era altissimo, specialmente confrontato con quello delle classi che avevo al mattino, ma per l’assenza, nella descrizione che fai di quel ragazzo, dell’esuberanza tipica degli adolescenti. Pomponio ha infatti molto in comune con i miei alunni adulti, che venivano in classe con una cartella già piena di storia vissuta. Quel rispetto che tu portavi all’alunno Pomponio, come una donna (del Sud) al maschio di casa, io lo portavo ai miei ‘studenti

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della notte’; una sorta di soggezione, come quella che prova un figlio laureato (del Centro) di fronte al padre, che ormai sovrasta per cultura, ma da cui è sovrastato per tutto il resto. Per loro, come mi pare di capire per Pomponio, la definizione di ‘studente’ perdeva molto del potere connotativo. Troppo poco, infatti, avevano da spartire con la vita dello studente; e molto più giusto dire che questi uomini diventavano studenti in un pezzetto serale della loro vita. Però, quanto valore attribuivano a quel piccolo e faticoso pezzetto! Certo non mancavano aspetti atipici e curiosi rispetto ai criteri usuali che abbiamo della vita di classe, come l’intervallo che si dilatava in una sorta di pausa cena con i banchi apparecchiati con un tovagliolo, una bottiglia di vino e una bella fetta di pane. Alle ultime ore c’era sempre qualcuno che si addormentava (quasi sempre il fornaio cedeva prima delle undici). Eppure qualche volta mi viene da pensare che quella fosse ‘vera’ scuola. Non ti ho parlato dei miei anni al serale solo per l’analogia d’atteggiamento dei miei adulti con il tuo giovane pugile – ho ben chiaro, Rosalba, che è solo una somiglianza superficiale –, ma anche perché hanno molto influito su quello che penso del famoso ‘errore di Pomponio’. Errore senza tempo, difficile da sradicare per le sue connessioni con l’atteggiamento psicologico, molto naturale, che privilegia l’esperienza soggettiva diretta e confida nel senso comune. Anche nelle classi di oggi sono convinto che ci siano molti alunni che commettono l’errore di Pomponio. Colgono i significati complessivi e non riescono, spesso nemmeno ci provano, ad analizzare gli aspetti strutturali del discorso. È un atteggiamento analogo a quello che nella mia materia li porta a cercare in fretta la definizione più semplice di ciò che vedono, evitando la fatica di osservare e descrivere dettagliatamente quello che sta accadendo, oppure la preferenza verso aspetti non centrali, non pertinenti, per noi insignificanti ma per loro significativi (sì, anche i miei spesso «vedono la gallina»).

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È un errore senza classe sociale, ma ovviamente più difficile da rimuovere nei vari Pomponio, che di scuola non ne vogliono, perché è soprattutto a scuola che gli «errori di tipo logico» possono apparire come tali. Nella vita quotidiana infatti, il pensiero ‘estensionale’, tutto sommato, funziona. È tipico delle società non alfabetizzate, ma non c’è una crescente analogia tra queste lontane civiltà e la nostra, occidentale, che Walter Ong, già nel 1986 in Oralità e scrittura, definiva a «oralità secondaria»? In effetti con le macchine si dialoga, ma l’interattività di oggi affida a esse la gestione dei tempi della comunicazione, dominio che era assente nel concetto d’interazione. Il linguaggio diventa sempre più iconico, bidimensionale come lo schermo del computer, appunto, senza profondità perché non cerca, anzi ostacola, la combinazione con altre ‘letture’. Ed è ancora un’icona, quella della clessidra, che segnala i tempi della macchina e scandisce quelli delle nostre risposte: tutte le azioni riflessive sono costrette in un angolo, imprigionate in tempi senza soggettività. Tuttavia non mi sento di usare i toni apocalittici che si sentono spesso in sala docenti. Non è affatto detto che una società che riscopre l’oralità – ma con modi e forme nuove, appunto secondarie – non possa essere comunque riflessiva e civile. Quello che invece è sicuro è che la lingua che parla la scuola non è più in sintonia con la lingua madre dei ragazzi. Ci sono molti presupposti impliciti nel nostro insegnamento che non hanno più il carattere di postulati, e dovremmo rimetterli in discussione, serenamente. Le cose a cui chiediamo di pensare e che chiediamo di fare a scuola sono sempre più lontane da quelle che i ragazzi pensano e fanno quando non sono a scuola. Eppure, proprio per questa minor pertinenza nel contesto delle loro vite, la scuola ha paradossalmente sempre più importanza. Diventa l’unico luogo dove si gioca al ‘gioco del raddoppio’: si parla delle parole, si decide sulle decisioni, ci si interroga sulle domande da porci. Luogo del ‘deuteroapprendimento’, dove si scava alla ri-

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cerca di un tesoro, tanto prezioso oggi, che appare così superfluo, ma tutt’altro che semplice da portare alla luce. Non saremo in grado di aiutare nessuno senza essere consapevoli che il passaggio dal giudizio complessivo (o ‘estensionale’) a quello analitico (‘intensionale’) è per molti ragazzi un triplo salto mortale. Conquista alfabetica in epoca di riscoperta dell’oralità. Un passaggio non spontaneo da fare in un ambiente non naturale come la scuola. C’è niente di più difficile? Quando siamo in laboratorio, faccio ‘faticare’ molto i miei alunni. Rallento sempre i loro ragionamenti, discutiamo a volte di una definizione per ore (sì, anche per me la forma delle definizioni è cruciale nell’educazione alla mentalità scientifica). Pongo delle questioni e voglio che scrivano la loro risposta su strisce d’acetato, che poi ricompongo sulla lavagna luminosa. In gruppo discutiamo delle risposte di ciascuno, tutte ugualmente proiettate sulla parete (sulla lavagna ci sono sette-otto risposte in contemporanea). Minaccio il taglio della mano a chi la alza per rispondere a voce, evitando di fare la fatica di riflettere prima per iscritto. Ma sono consapevole della fatica che fanno, come lo sono delle tante assurdità che proponiamo loro. So di dovermi far carico della motivazione del loro impegno, perché nulla e nessuno fuori dall’aula lo giustifica più veramente, e sento con la stessa chiarezza che potremo giudicarli solo dopo aver proposto loro una scuola meno assurda. Non sono per niente d’accordo con chi dà giudizi categorici sui nostri giovani (stupidi, ignoranti...). Prima diamo una scuola di qualità, per tutti e per ciascuno, spendiamo per aiutare i più sprovvisti di risorse e motivazioni (senza chiuderli in riserve indiane), e poi saremo legittimati a discutere di quello che, comunque, ci sembrano essere. È molto superficiale pensare che i nostri alunni siano gli stessi di cinquant’anni fa, solo progressivamente più scemi e svogliati. Ma veramente non è possibile fare di meglio? Ancora non siamo in grado di accontentare Popper, che già un secolo fa sognava una

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scuola che non pretendesse risposte non sollecitate a domande mai poste? Tu mi scrivi che barcamenandosi nei «doppi vincoli» gli esseri umani imparano a crescere. Bene, anche noi docenti dobbiamo prendere atto che in quello che scegliamo di fare a scuola si misura un doppio vincolo: da un lato deve avere valore disciplinare (vincolo epistemologico), dall’altro deve ‘adattarsi’ alla mente di chi apprende (vincolo psicologico). Come spesso mi ricorda mio fratello Andrea, al senso del dovere che chiediamo ai nostri alunni corrisponde, per noi, il dovere di dar senso al loro apprendere. Giuseppe *** Firenze, 29 ottobre Torno alla questione della ‘intensionalità’, per un confronto tra le grammatiche e le scienze, dove ci sono grandezze ‘estensive’ e ‘intensive’. Nelle scienze, le prime dipendono dalle dimensioni del campione che si sta analizzando, le seconde sono invece una proprietà del materiale, indipendenti dalle qualità dell’oggetto specifico. Estensivo, per esempio, è il peso, intensiva la densità. Ma la differenza concettuale e psicologica non è cosa da poco. Il peso è degli oggetti, la densità è delle sostanze. Tra oggetti e sostanze c’è un salto abissale di livello d’astrazione: il peso appartiene alla sfera della percezione, e qui c’è una sfasatura nell’apprendimento (i décalages piagetiani) rispetto al concetto di conservazione della sostanza, attraverso cui i bambini capiscono che il peso non cambia se schiacciamo una pallina di creta per farne una pizza (in effetti la sola percezione direbbe che pesa meno la pizzetta perché preme su tutta la mano e non su un unico punto); la densità è il peso di una unità di volume. La diversa complessità è già tutta in queste poche parole. Ogni

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insegnante minimamente ragionevole parte dal peso per poi introdurre la grandezza derivata della densità. Derivata appunto, non solo matematicamente ma anche psicologicamente, perché dal caso del singolo oggetto, di ferro per esempio, si passa alla classe di tutti gli oggetti fatti di ferro. Tutta questa tirata per dirti che l’‘errore di Pomponio’ mi sembra un bel punto di partenza. Anzi, ‘il’ punto di partenza per risolvere il nostro doppio vincolo. C’è dell’altro: gira intorno all’idea di utilizzare la discussione sull’ascensore ‘marca Bellomo’, ma devo fare un passo indietro. Non solo l’apprendimento precede sempre lo sviluppo (siamo tutti avanguardisti!), ma oltre a questa fatica, oggi chiediamo ai nostri alunni una sorta di ‘atto di fede’: credere nello sviluppo che la scuola cura, sapendo che questo è solo uno dei loro futuri possibili, e forse, oggi, nemmeno il più remunerativo. Oggi, sempre di più, la scuola sembra una madre che chiede alla figlia di mettere da parte una dote non più richiesta per alcun matrimonio. Se la società impone di adattarsi a cambiare anche fino a undici mestieri nel corso della vita, perché spendere tanta energia per essere qualcosa di preciso? Se padri e madri se la sono cavata con poca istruzione e mestieri precari, non si capisce perché i figli dovrebbero darsi tanto da fare a scuola se quel precariato comunque è nel loro futuro. Giuseppe *** Roma, 29 ottobre Caro Giuseppe, te lo dico spesso tra le righe e, qualche volta, sopra le righe: a procurarmi non poche perplessità non è tanto l’insegnamento dell’italiano, quanto un certo insistere nel voler ‘istruire’ i giovani

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contrastando la ‘naturalità’ del loro crescere, pensare e agire. Con l’istruzione si acquista da un lato e si perde dall’altro. Agli occhi di alcuni – i nostalgici dell’età dell’oro (se è mai esistita) di una umanità perfettamente integrata con il mondo vivente – si perde soltanto, e qualcosa di fondamentale: una sorta di ‘innocenza’, anche in senso letterale, la capacità di non-nuocere. E se fosse sbagliato ‘mettere in riga il mondo’? So bene che spostando l’attenzione tutta e soltanto sulla ‘naturalità’ dell’apprendimento rischiamo di cadere in una semplificazione grossolana, anche di comodo: una buona scusa per lavarsi le mani, per lasciare le cose come stanno (e spesso le cose stanno malissimo). Tuttavia è pur sempre una ‘verità’, e cioè una possibile descrizione di un fenomeno che altri spiegano in modo diverso questo: è l’istruzione, è la cultura che identifica l’essere (il divenire) umani. Tra le abitudini di pensiero che abbiamo preso da Bateson ce n’è una fondamentale: ammettere e coltivare ‘visioni molteplici del mondo’. Ce lo ripetiamo continuamente: contemperare due e anche più sguardi relativi allo stesso oggetto. Non ci è dato di vedere e giudicare le cose da un punto esterno dal quale cogliere la ‘verità ultima’. E allora, di fronte a questioni che mi tirano in due direzioni opposte – entrambe a mio giudizio ‘vere’ – mi chiedo piuttosto: questa faccenda come è più conveniente pensarla? Mi dirai che la questione che ponevo prima (l’innocenza contrapposta a qualcosa come l’esperienza) rimanda non tanto al ‘cosa’ insegnare, ma al ‘come’ insegnarla. Questo lo capisco benissimo: ci sono modi di trattare il sapere che guastano ‘l’estetica del vivere’, per dirla con Bateson. E io ce la metto tutta a trattare le cose che so e a stare con i ragazzi curando ‘l’estetica’. Eppure mi torna spesso il dubbio che tenerli chiusi in un’aula scolastica sia davvero necessario. E ammettendo che l’istruzione a livelli superiori continui a occupare un posto alto nella gerarchia dei valori di una società democratica (e ciò non mi è difficile ammetterlo)

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mi chiedo anche: istruire sì, ma per quanto tempo? Qual è la misura ottimale? E questa misura è uguale per tutti? C’è una soglia che non va superata, pena l’insorgere di ‘patologie’? E che danno fa una istruzione ‘non-riuscita’? Per mia esperienza, è proprio nelle scuole di livello superiore, specie quelle che non sono licei, che l’istruzione non riesce, o riesce solo per una percentuale bassa di allievi. Qui, al biennio soprattutto, si dimostra il lato ‘in-sensato’ e necessariamente coercitivo dell’istruzione. Solo ‘costretti’, gli esseri umani (liceali e non), nella fase di crescita, accettano di stare rinchiusi in una stanza a sentir raccontare ‘strane storie’ e a prenderle sul serio, ad applicarsi in cose che ‘non hanno senso’. Ma questa nostra cultura, raffinata (o solo complicata?) sul piano formale, è forse per come è fatta selettiva? Per un alfabetizzato occidentale, la perdita (possibilmente precoce, già alle elementari) dello sguardo ‘infantile’ sul mondo costituisce infatti un vantaggio. Gli studi sulla mente ci dicono che gli apprendimenti che si sedimentano nel profondo e perdurano sono quelli che si acquisiscono nei primi anni di vita, perciò è un vantaggio essere instradati precocemente verso processi mentali governati dalla logica astratta, dal linguaggio formale (‘proposizionale’, come lo chiamano i linguisti); così come è un vantaggio per chi voglia fare il pianista l’essere addestrato da piccolo all’ascolto e alla esecuzione della musica. Come forse ti ho già detto, in 2ª G perdo spesso la pazienza, in 1ª G invece mi succede di rado (a proposito, io riesco ad affezionarmi davvero a una sola classe: è così per te?). L’altro giorno mi sono arrabbiata moltissimo perché non riuscivo a cavare da loro una frase decente dopo aver spiegato e rispiegato le proprietà del gerundio. I ragazzi intuiscono le regole, le sanno applicare, ma io pretendo che imparino a usare il linguaggio logico-formale proprio delle teorie, che sappiano argomentare attorno a una teoria: nel nostro caso, spiegare, dare una definizione del ‘soggetto nascosto’ del gerundio. Demarco, calmo, ha

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detto: «Lei non si preoccupi, noi abbiamo capito, solo che non lo sappiamo dire». Rosalba *** Roma, 30 ottobre Caro Giuseppe, rinunciare a insistere con chi ‘non è portato’ per gli studi teorici? Accettare che siano differenziati i percorsi? Chissà. A patto che nel percorso detto ‘di serie B’ vengano impiegati gli insegnanti migliori, quanto di meglio c’è oggi sul mercato. Parlo di una scuola dove il ‘sapere’ non sia separato dal ‘saper fare’, dove insomma si coltivi una mente non-divisa. Guardiamo come molti insegnanti di scuola superiore, anche buoni insegnanti, adattano il programma affinché rispecchi il ‘livello della classe’. Abbassare il tiro è una soluzione che ‘avvantaggerà’ i ragazzi: andare incontro ai loro gusti, alle loro tendenze, non affaticarli troppo, non chiedere l’impossibile! E chissà che questo ‘impossibile’ non sia ciò che ragionevolmente essi potrebbero capire e imparare. Dai discorsi che sento fare su certi studenti, quelli che tu chiami «raccattati», ho tratto una riflessione generale: un insegnante insegna bene ai ragazzi che gli assomigliano. Con quelli che non gli assomigliano si dispera, non li capisce. E quando dopo faticose contrattazioni riesce a ottenere dieci righe di riassunto senza strafalcioni, la data del Congresso di Vienna, la parafrasi dell’Infinito... potrebbe chiedersi: ne valeva la pena? E se fosse che altre curiosità, altre passioni stavano mettendo radici e io le ho disseccate mettendoci il concime sbagliato, adatto a un’altra pianta? Accostando (non sostituendo) una verità all’altra, riuscendo a contemperarle entrambe, a vivere cioè dentro un «doppio vinco-

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lo», la domanda chiedersi cosa sia andato perduto diventa una domanda legittima. Provo a precisare mettendomi nei panni (e mi viene facile) dell’insegnante dubbioso: che cosa non ho educato della sua mente che poteva più facilmente e con maggiore efficacia essere educato? Che cosa non ho valorizzato di ciò che potenzialmente egli ha già e che poteva acquistare altro valore? Quel poco – dieci righe, una data – garantisce davvero la ‘struttura che lo connetterà’ alla società in cui vive? A quella parte della società che io insegnante considero, nel bene e nel male, espressione della migliore tradizione culturale? Nel frattempo, mi chiedo, se sia forse andato perduto uno sguardo nuovo. Che succederebbe se diventasse importante ‘saper guardare la gallina’? Io non l’ho capito, e se l’ho capito non l’ho saputo né raccogliere, né assecondare, né metterlo in primo piano; perché, mi dico nei giorni ‘neri’, questo sguardo nuovo non mi ‘parla’, e quindi non so educarlo. Ed è proprio in quei giorni che mi appare non-legittima la pretesa di ‘mettere in riga’ una visione del mondo che poteva crescere a suo piacere, nella sua forma. Però, però... e qui mi viene in soccorso l’altra ‘verità’: in quale altro luogo, se non nella scuola, poesia e prosa, mito e scienza, sentimento e ragione possono convivere e combinarsi in uno stesso pensiero? Rosalba *** Firenze, 31 ottobre Cara Rosalba, voglio raccontarti una storia. Balli è un mio alunno di quest’anno che ha cambiato classe dopo appena una decina di giorni. Ho conosciuto la madre. È ve-

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nuta in presidenza a scrivere la domanda di passaggio ad altro indirizzo. Poche parole al preside, non più di mezza pagina. È una signora molto giovane, a cui ho pensato fosse sufficiente dettare le parole burocratiche del caso. Invece la madre ha riempito le poche righe di errori di tutti i tipi. Si è vergognata, di me e del figlio, e ha ricopiato la domanda dicendomi di scusarla. Ma anche la seconda copia era terribile. È stato allora il ragazzo a intervenire dicendo alla mamma che stesse tranquilla e che la lettera al preside la ricopiava lui per la terza volta: lei l’avrebbe solo firmata. Tu, Rosalba, sai il dolore quasi fisico che provo di fronte a queste scene, quindi, credimi quando ti assicuro che è stato solo per la sorpresa che non sono riuscito a risolvere prima e meglio la situazione – per esempio scrivendola io al computer, come faccio spessissimo quando vedo per tempo i segni dell’analfabetismo. Ma quello di cui vorrei dirti davvero è il peso, enorme, che ho misurato sulle spalle del mio Balli, chiamato ad assumere verso la madre un atteggiamento che ribaltava i ruoli fra loro. A 15 anni, con pochissima istruzione, era già ben oltre la madre. Chissà quante altre volte gli sarà già capitato. Lo stesso pensiero mi viene quando vedo gli alunni cinesi che traducono le norme dell’iscrizione ai loro genitori – veri ambasciatori di un’integrazione difficile – o quando arrivano la mattina assonnati per le notti di lavoro al telaio a Prato o nelle pelletterie a San Donnino. Per tutti questi ragazzi, molto più adulti degli altri, molto più vissuti – come quelli del serale di cui ti ho parlato –, e che restano quasi sempre ai margini dell’istruzione, si può e si deve offrire la stessa scuola di qualità, la stessa classe dei più bravi... Però, per agganciarli ai nostri discorsi di scuola, bisogna forse partire più da vicino, stare più dentro all’esperienza quotidiana. Dalla parola alla frase, dalla frase alla parola; anche se il soggetto della frase fosse l’ascensore Bellomo. Giuseppe

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Roma, 1° novembre Caro Giuseppe, ma che fatica star dietro agli interessi dei ragazzi per «agganciarli», come tu dici, ai nostri discorsi di scuola! Già, i nostri discorsi. In un’altra lettera mi facevi osservare che «la scuola non è più in sintonia con la lingua madre dei ragazzi». Ma la scuola non parla, non può parlare nella lingua madre. Per il semplice fatto che la scienza (tutto ciò che è oggetto di studio) non è stata scritta nella lingua materna. E non mi sorprende che questo ritorno al linguaggio materno-naturale sia uno come te a sostenerlo: un fiorentino che insegna scienze – non una meridionale come me, lungamente smaliziata da studi linguistici. Io la lingua madre la insegno (al Sud era, e forse è ancora, quasi lingua straniera), e vedo i ragazzi inciampare di continuo nell’errore, e non perché la lingua madre sia troppo diversa dai linguaggi formali della scienza, ma perché gli assomiglia troppo: è qui la difficoltà, è qui l’inganno. Tu, crescendo, hai assimilato il linguaggio scientifico al punto che non ne avverti più l’estraneità: per te, quel linguaggio è per davvero ‘materno’. Il caso ha voluto che il passaggio sia stato graduale, indolore, forse non lo hai neanche avvertito. Come non l’abbiamo avvertito da ragazzi io e i miei fratelli: tra noi e la scuola c’era di mezzo un padre che correggeva i nostri svarioni e voleva che parlassimo come un libro stampato (per me l’emancipazione è stata non soltanto andare via di casa ma poter dire le cose in modo sgrammaticato). Ma per i ‘nostri’ ragazzi, cosa ci corre in mezzo? Proprio quel «triplo salto mortale» di cui parli. Un salto che per alcuni è davvero ‘mortale’: vedi quelli che abbandonano gli studi, quelli che arrancano fino alla fine. In una lettera precedente ti ho parlato dei vantaggi di una precoce ‘alfabetizzazione alta’ (linguaggio ‘proposizionale’, saper generalizzare, parafrasare, definire ecc.). I destini degli studenti

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si giocano in famiglia, nella cura della mente e del corpo – non guasta una buona alimentazione. Mi dirai che ho scoperto l’acqua calda. Allora diciamo anche questo: per uno come Balli, che ha una madre non istruita, può diventare cruciale il divenire consapevole che si tratta davvero di un triplo salto mortale, e che questo difficile salto ha una valenza politica. Mi viene in mente quello scrittore americano, nero (non ricordo il nome), che da piccolo abitava in un sobborgo newyorkese, in un caseggiato dove norma erano il crimine, lo spaccio di droga, la prostituzione... Si chiese: «Come faccio a uscire di qui? La scuola! Andare bene a scuola, prendere una borsa di studio». E così fece. Senza andare oltre oceano, c’è la storia di Giuseppe Di Vittorio, che da ragazzo, bracciante, studiava a lume di candela con un dizionario e un quaderno, e che da adulto è poi divenuto segretario generale della Cgil. Casi isolati. Però, nel passato, ne ho avuti allievi così: rari, ma li ho avuti. Ragazzi che, come dici tu, si facevano «una dote non più richiesta per alcun matrimonio». Rosalba *** Firenze, 2 novembre Cara Rosalba, ho appena finito di leggere la tua lettera. Come sempre è sincera, appassionata. Più di altre, per me, coinvolgente. Ti voglio rispondere subito, a caldo e senza rileggere. Poi ci saranno occasioni per riflettere. C’era una volta... una ragazza che in Inghilterra lavorava come parrucchiera. Era fidanzata con un giovane che le voleva bene, o almeno tutto lo faceva pensare. Due lavori normali, ma sufficienti per poter contare su un futuro in linea con il loro presente: il sa-

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bato sera passato al pub, con gli amici; qualche ubriacatura ogni tanto, come da regolamento, per sentirsi liberi da regole. Una casa, dei figli. La ragazza decide di iscriversi all’università. Perché lo fa? Forse perché su quel futuro non vuole più contare. Corsi serali che il college inglese organizza per gli studenti lavoratori. Il tutor che le viene assegnato è un professore di letteratura molto disincantato sui vantaggi dell’istruzione e che non avrebbe nessuna voglia di perdere tempo con una parrucchiera, se non fosse imposto dalle norme. Il loro è inizialmente uno scontro: lei entusiasta, che vuole imparare di tutto; lui annoiato, che non crede nelle parrucchiere che vogliono istruirsi, né nel suo lavoro all’università. Lei che gli invidia la cultura, il linguaggio; lui che non sa più cosa farsene. A una lezione, il professore domanda agli studenti perché un uomo che viene colpito da una tegola in testa mentre passeggia è una disgrazia ma non una ‘tragedia’. La ragazza produce nella classe un effetto dirompente osservando che per la letteratura non sarà una tragedia, ma per chi l’ha presa in testa sì. In un altro momento, quando il tutor le propone di cimentarsi su un possibile componimento per l’ammissione ai corsi universitari, dal titolo Come risolverebbe il candidato i problemi tecnici di messa in scena del Peer Gynt di Ibsen?, la ragazza risponde in un rigo che basterebbe darlo alla radio. Lentamente, dopo le prime arrabbiature, il professore viene colpito dalla spontaneità e dalla originalità del pensiero della ragazza, cose che vede perdersi nei suoi studenti regolari, spenti e stereotipati. Alla fine del percorso, alle soglie dell’esame d’ammissione, il professore fa di tutto per convincere la ragazza a tornare al suo lavoro, al fidanzato, al pub del sabato sera; tutte cose più vere di quelle che cerca nell’università. La esorta a tenersi la sua testa e il suo forte accento dialettale, di sfuggire all’omologazione, unico destino che l’attende dentro l’università.

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Arriva il giorno della prova. Il tema che esce dalla busta chiusa è proprio quello sulla messa in scena del Peer Gynt... La sera il professore le chiede notizie, le dice che spera che abbia scritto alla commissione quel rigo che lei aveva tanto difeso di fronte a lui come legittima risposta. La ragazza risponde che era stata tentata, ma alla fine aveva deciso di scrivere quattro pagine, accettando di misurarsi sul terreno che le veniva proposto. Il professore le chiede perché, che cosa l’avesse convinta, che cosa sentisse di aver imparato per accettare di stare al gioco. Lei risponde che era stata un attimo a riflettere prima di decidere come affrontare la prova. In quel momento aveva ripercorso tutto quello che la scelta di studiare aveva significato per lei. La separazione dal fidanzato e dai vecchi amici, la rinuncia alle certezze, la fatica e le umiliazioni. Poi si era resa conto di aver già vinto la sua scommessa. Si era resa conto che era libera di scegliere se e come svolgere il componimento. Per la prima volta in vita sua aveva sentito di poter decidere tra più futuri possibili. C’era una volta... un uomo che saliva con la macchina sull’Amiata. In un tratto disabitato un vecchio correva all’impazzata per la discesa sotto la pioggia. Proprio mentre stava oltrepassando una macchina, cadde a terra sulla strada. L’uomo alla guida si ferma, lo aiuta a risollevarsi: la faccia coperta di sangue, pronuncia frasi sconnesse. Poco dopo sopraggiunge una macchina che si ferma accanto alla sua. È il figlio, che inizia a offendere il vecchio padre che è di nuovo scappato dall’ospizio dove l’hanno rinchiuso. Così viene fuori che il vecchio non correva per sua scelta: la sua capacità di controllare le gambe non era più sufficiente per frenarsi lungo quella discesa così ripida. Tutto questo gli era già successo: sapeva di essere imprigionato dagli anni assai più che dalle mura dell’ospizio, eppure tentava di nuovo la fuga. «Un vecchio fuori di testa» dice quel figlio sgradevole. L’uomo

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che l’ha soccorso decide che quando ripenserà all’accaduto si ricorderà di una testa fuori dal recinto, del sogno di un vecchio di sfuggire all’unica possibilità di futuro che gli veniva concessa. Delle due storie una è vera, l’altra inventata. Ma che importanza ha? Parlano entrambe del diritto alla possibilità, di averne finalmente una, di averne ancora una. Non ti sembrano comunque due ‘menti non-divise’ che hanno imparato il valore della libertà di scelta nel corso della loro vita? Imparato da chi? Insegnato direttamente dalla scuola? Forse la risposta non c’è. Appreso e basta, frutto della combinazione di scuola ed esperienza; né solo contenuto, né solo metodo: una emergenza delle buone relazioni giocate su buoni contenuti. Tutto qui, per ora. Nella prossima lettera ragionerò ancora sulle due storie. Giuseppe *** Roma, 4 novembre Caro Giuseppe, ho letto le tue storie. La libertà di scegliere ‘si impara facendo esperienza’. Altrove. La scuola non basta. «Da giovani bisogna correre la prateria» ci diceva all’università Vittorio Bodini, ispanista e poeta. Oggi, in 2ª G, solita musica: chi non sta attento, chi non prende a cuore la propria concentrazione, chi non si attrezza perché il filo dei discorsi rimanga teso... «Studiare è un’impresa troppo faticosa! Alla vostra età bisognerebbe essere per strada e correre la prateria». «Io, alla vostra età...» ho aggiunto «se avessi potuto, a scuola non ci sarei andata. Ci sono andata perché mio padre non immaginava per me un destino diverso». Stupore generale. «E voi?» ho detto guardando negli occhi quelli degli ultimi ban-

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chi. «C’è qualcuno tra voi non obbligato, che può sfuggire a una tale condanna?». «Ma che dice?!» avranno pensato. «Questa qui sta dicendo tutto il contrario delle prediche che sentiamo a casa». «Che senso ha far male l’unica cosa che qui vi viene chiesto di fare?» ho detto. Traccio alla lavagna la freccia del tempo e indico la punta della freccia: «Voi siete qui, non tornerà indietro questo tempo. Se lo perdete, se perdete le occasioni che questo tempo vi offre, le perdete e basta». A scuola tutto viene predisposto perché tutto funzioni come un orologio: il sogno di un universo newtoniano in perfetto accordo con regole certe e immutabili e in tutto e per tutto prevedibili è come se si fosse miracolosamente realizzato. Orario delle lezioni pronto già dalla prima settimana di scuola; la campanella elettronica che non sbaglia un colpo; collegi, consigli di classe, persino data e ora degli scrutini di giugno li sappiamo già a settembre; il regolamento d’Istituto al capitolo Giustificazioni delle assenze disciplina il dettaglio (i ritardi: di un minuto, non si giustificano; da due in poi, sì; a dieci si entra alla seconda ora); le circolari avvertono giorno per giorno di nuove evenienze, e anche di queste vengono regolamentati causa ed effetto. Eppure, tutto intorno congiura affinché il meccanismo si rompa. Basta un giorno di vacanza inaspettata – uno sciopero per esempio –, a cui furbescamente viene fatta seguire la richiesta dell’assemblea degli studenti, di sabato, il lunedì successivo magari io ho il giorno libero... il martedì mi ritrovo spaesata. Con somma gioia dei ragazzi: «Ma noi pensavamo che... lei mica ci aveva detto che...». Ognuno ha un libro diverso, io stessa non ricordo niente. Al ‘tanto’ che ci scodella il programma (i libri di testo, non ne parliamo), io mi sforzo di contrapporre il ‘poco’ selezionando il ‘meglio’, i granelli di sabbia in cui si concentra il significato e il senso del mondo intero: due ottave di Ariosto, un sonetto di Petrarca, uno di Foscolo, un film di Olmi. L’altro giorno ho chiesto a Riotti: «Come andavi alle medie in

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italiano?», e potevo evitarmi la domanda, perché tanto la risposta già la sapevo: «Tutto bene. La professoressa era simpatica». Quando sento parlare della ‘simpatia’ degli insegnanti do i numeri: ma che c’entra adesso, che vuoi che me ne importi se ti piaceva o no la professoressa? Rosalba *** Roma, 7 novembre Caro Giuseppe, oggi alle mie tre ore se ne sono aggiunte due (la collega di scienze è in permesso). Cinque ore di fila. Una buona occasione per correggere i compiti chiamandoli alla cattedra uno alla volta. Puoi immaginare quanto mi costa organizzare tutto in modo che gli altri si tengano impegnati. Ho scelto perciò un racconto dall’antologia: lettura ed esercizi, ciascuno lavori con il compagno di banco. Scarso il controllo da parte mia. I ‘buoni scolaretti’ subito obbediscono: la testa sul libro e l’occorrente per scrivere. Capriati fa il pazzo. Non gli pare vero di potersi esibire liberamente nel ruolo del piacione romano, che d’altronde gli sta a pennello. Ma non è il rompiscatole classico. ‘Partecipa’, come suol dirsi. Però vuole stabilire con me un rapporto privilegiato, pretende che a lui sia permesso ciò che ad altri è severamente proibito: dire le battute quando capita – e cioè a sproposito –, uscire ogni cinque minuti, fare i compiti sì e no, scrivere le ‘i’ senza il puntino. Mentre correggevo i temi uno a uno, si è seduto accanto a me: «Posso?» ha detto portandosi la sedia alla cattedra. E si è messo a commentare gli errori che via via sottolineavo e spiegavo ai suoi compagni. Al momento del voto perorava la causa. È venuto il suo turno. Il tema era zeppo di errori (la punteg-

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giatura: due virgole in tutto): voleva il 6, mentre io gli ho dato 4. Allora è ritornato tra i banchi sparpagliando penne e quaderni non suoi lungo il cammino. Poi ha chiesto di uscire: le braccia alzate, «È urgente!». Mi domando cosa fare con lui. Assecondare un rapporto che lui vorrebbe d’amicizia, quando invece dovrei metterlo sotto torchio? So che il pomeriggio vaga tra il bar, la palestra e il negozio dello zio. E so che a scuola incontra adulti diversi, che ne resta colpito, ma vorrebbe da noi insegnanti una approvazione che non possiamo dargli per come è e per quello che fa. Se non cambia è destinato alla bocciatura. E questo sarebbe niente; quello che è peggio è che se continua così, si rafforzerà in lui uno stile che lo penalizzerà, lo inchioderà al ruolo del ‘buffone di classe’. Per i compagni un diversivo, per lui solo amarezze (nascoste dietro una esibita soddisfazione di sé). Devo catturalo ‘facendolo diventare bravo’: non appena dirà o scriverà una cosa sensata, lo loderò platealmente. Altre volte ha funzionato, ma questi trucchi riescono quando un insegnante sa identificarsi nel mondo di un ragazzo, e soltanto se la classe ha piena fiducia in lui. Per conquistarmi questa fiducia mi impegno io per prima (ma non sempre ci riesco) a essere una ‘brava scolaretta’: mai trascurare la verifica dei compiti, concedersi pochi ‘fuori programma’, rispettare tempi, scansioni. Anche per quel che riguarda i manuali in uso: mai trattarli con sufficienza! Non li ho forse scelti io? Rosalba *** Firenze, 8 novembre Cara Rosalba, ti ho proposto nell’ultima mia lettera due storie che ho asso-

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ciato sotto la suggestione delle tue parole. Vorrei provare adesso, con più calma, a ragionarci sopra. Tu poni problemi vivi che toccano il senso dell’insegnamento e la qualità delle relazioni attraverso cui questo si realizza a scuola. Sei sicuramente consapevole che non ci sono risposte certe, e se ce ne sono, sono tante. Io che di risposte non ne ho, che forse nemmeno le ho cercate con convinzione, temo di non essere in grado di reggere con te una conversazione a questo livello. Con le mie due storie volevo proporti un altro punto di vista, sapendo di non rispondere alle questioni, ma per spostarle sullo sfondo di una rappresentazione che non perde comunque di significato, perché lascia i soggetti in carne e ossa al centro della scena. Tu mi scrivi, anche a proposito del tuo alunno Capriati, che forse un docente deve potersi immedesimare nei propri alunni. Io penso che non debba essere così. Se fosse vero, per quelli come me, che insegnano in scuole che non avrebbero mai frequentato da studenti, sarebbe un bel problema. Secondo me, invece, è importante imparare a ‘non contare’ sui nostri alunni. Non contarci, nel senso che dobbiamo insegnar loro a camminare, perché camminare è bello e utile, a prescindere da dove andranno – in fondo da qualunque luogo, sapendo camminare, si può tornare indietro – e anche se ci fanno arrabbiare perché non si rendono conto dell’importanza per loro stessi dell’imparare a camminare. Il gusto delle passeggiate è un frutto maturo. Ricordo quando andavamo in montagna con i figli: tutto facevano, meno che passeggiare. A tratti correvano avanti, poi restavano indietro. Cercavamo di abituarli ad andare con passo regolare perché potessero arrivare più lontano, senza stancarsi subito, ma sapevamo bene che non potevano godersi nello stesso modo di noi adulti quelle camminate. Piccoli, e alti più o meno come le piante a fianco del percorso, il panorama che vedevano con i loro occhi era davvero diverso dal nostro, che

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potevamo alzare lo sguardo fino alle montagne. Allora ce li mettevamo sulle spalle, e le cose andavano un po’ meglio (tranne per le spalle), ma in questo modo non avrebbero mai imparato a camminare. Adesso che ci ripenso, ricordo che le volte in cui si sono divertiti di più sono state quando riuscivamo a inventarci lungo il percorso una storia dove si inserivano le cose che vedevamo o facevamo sul sentiero. Solo esteriormente, quindi, la nostra esperienza era stata la stessa; l’andare con il medesimo passo, finalmente insieme, era diventato possibile lasciandoli vivere la passeggiata a modo loro. L’avventura dava senso alla fatica che facevano nel salire. Fa riflettere. Molte volte ci arrabbiavamo, ma non lo eravamo veramente per davvero: volevamo capissero che noi ci tenevamo, come capita a te con i tuoi alunni. Penso che tu faccia bene ad arrabbiarti, ma per loro più che con loro. Dare possibilità di scegliere non è cosa da poco, anche se non garantisce sulla scelta. Io, nel mio piccolo, cerco di imparare a essere soddisfatto quando mi sembra di aver allargato l’orizzonte dei miei alunni, anche se questo farà da sfondo a scelte di vita ‘povere’, diverse da quelle che vorrei per loro. Tu sai bene che il contesto conta molto. Può far scattare, per contrasto, la consapevolezza in qualunque momento della vita che quella scelta è ‘povera’. Ma, appunto, in qualunque momento della vita. Il nostro successo o insuccesso non lo misuriamo nei tempi del nostro contatto con loro. Mi rendo conto che nel mio caso può sembrare più facile questa proposta di ‘vita docente’: io parlo di chimica, cerco di far rivivere il favoloso mondo degli scienziati; qualcosa comunque che non tratta direttamente questioni valoriali e che resta lontana dalla realtà di tutti i giorni. Si potrebbe pensare che sono meno in gioco di un insegnante delle tue materie.

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Non è questo il punto. Il punto è che sono in gioco come gli altri, ma meno degli altri posso illudermi di dirigerlo fino a un risultato certo. Ma quali certezze è ragionevole cercare? Non è facile rispondere; io prima di tutto sento il bisogno di essere sicuro della qualità di ciò di cui sono unico responsabile: buone proposte sulle cose da imparare, trasmettere passione, desideri, ambizioni. Pretendo di essere seguito, anche se sono disposto ad attenderli o recuperarli se scantonano. Non cerco, però, segnali di ‘somiglianza’. Giuseppe *** Firenze, 9 novembre Cara Rosalba, trovo che tra la struttura scolastica e le storie che vi si svolgono ci sia una relazione, per molti versi analoga a quella batesoniana tra forma e processo. La mia idea è di occuparci sia della forma, che ci compete, sia dei processi, che ci coinvolgono. Avrai capito dalle mie lettere che mi piace molto l’idea di una scuola che coinvolge i ragazzi in un’impresa collettiva di valore. Valori vissuti in prima persona, che possano diventare storie di valori. La ‘forma’ della nostra scuola è usurata, anacronistica, obsoleta. Se i contenuti e i metodi non funzionano, non ci sono buone relazioni che salvino la situazione. La ‘simpatia’ è un ingrediente importante, ma hai ragione a dire che se è l’unica qualità di un insegnante non è una qualità. Ho dei ricordi molto vivi della mia esperienza di studente liceale. Iscritto alla prima nel 1967, la maturità cinque anni dopo. Anni di tumulto, non solo ormonale. Nella memoria ho tutti o quasi i compagni, molti professori, ma nulla, dico nulla, della scuola insegnata. Questa tabula rasa della memoria ‘contenuti-

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stica’ non la sento come una conferma della priorità delle relazioni – non credo che nemmeno ci faccia bene stabilire delle priorità –, più semplicemente non c’è stato niente degli insegnamenti che mi abbia davvero ‘segnato dentro’. Certo vi è molto di mio in questo disastro liceale. Entrai in prima come vincitore di concorso nella scuola media per uscirne dopo cinque anni con il minimo impegno e il minimo dei voti, e la certezza che, se dopo la quinta ci fosse stata una ‘sesta’, non sarei sopravvissuto. Eppure avrei ben voluto, allora, essere coinvolto, almeno al punto da ricordare, oggi, qualcosa di scuola, non soltanto i compagni, le amicizie, in generale i valori umani. Perché quello era il momento della cultura di base non finalizzata e non specialistica, dove trovare aiuto per impadronirsi degli strumenti di cittadinanza. Li ho conquistati da autodidatta, nella scuola, certo, ma quasi nonostante essa. Fallimentari non erano tanto le persone e le relazioni, per lo meno non tutte, quanto la proposta che mi veniva fatta. Quella forma con cui leggiamo le storie scolastiche non la vedo granché modificata, anche oggi che è diventata ancor più anacronistica rispetto alle caratteristiche nuove dei ragazzi – peggiori? E se anche fosse, questo ci assolve forse dal riflettere su quale scuola vada proposta loro? Oggi, prima del saper leggere, scrivere e far di conto, serve ridare un motivo per farlo. Io aggiungerei che, appena accanto a queste abilità, serve insegnare a rileggere, ri-scrivere e fare altri conti. Abbiamo alunni malati dai troppi messaggi, linguaggi, saperi dozzinali di senso comune. Abbiamo bisogno di una didattica dello svuotamento e della ricostruzione. Giuseppe ***

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Roma, 12 novembre Caro Giuseppe, che te ne pare di come vestono le nostre ragazze? Sembrano disposte a cedere su tutto, tranne che sulla lunghezza delle loro imbarazzanti magliette (l’imbarazzo è mio). Eppure, credo che qualcuno dovrebbe dirlo a Cardelli e Velati che a scuola non ci si dovrebbe vestire così. Oggi avrei voluto chiamarle in disparte, parlare loro da donna a donna, ma non l’ho fatto, non so quali siano le parole adatte per una questione tanto personale. Il disappunto mi resta dentro, e per non alimentarlo apro subito il libro di grammatica e senza fare l’appello inizio la lezione. Il nome. Il capitolo l’avevano già studiato (tutti? Ovviamente no), ma due ore mi bastano appena per precisare, farli riflettere... Rosalba *** Roma, 13 novembre Caro Giuseppe, come capisco la collega di matematica! La sua disperazione di ieri assomiglia alla mia di oggi. Siamo sempre in 2ª G: il testo argomentativo. Già a casa avrebbero dovuto fare gli esercizi. Verifica: hanno fatto i compiti i soliti quattro. Riassumo le regole dell’argomentazione e per esemplificarle leggo la recensione di un film presa da “La Stampa”. Mentre leggevo, e molto piano, notavo che il silenzio non era motivato da interesse, anzi, quasi tutti parlottavano sottovoce fra loro. Mazzanti scribacchiava sul diario, Proietti meditava fra sé cose sue... Ho fatto credere di non essermi accorta della ‘finta’ attenzione e poi li ho puniti. «Come immediata verifica, farete un elenco scritto degli argomenti che il giornalista ha addotto a favore del film».

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Sconcerto. Avevano preso quella lettura per un intermezzo, come fosse la pubblicità durante uno sceneggiato. «Mi sono distratto, vuole rileggere l’articolo?» dice Proietti. E io: «No. Procedete. Quindici minuti di tempo. Varrà come interrogazione orale». E mi troverò a dover dare 3 a tutta la classe, bel risultato! Ben mi sta! Consegnano i compiti, ne prendo uno e lo leggo ad alta voce: misera cosa. «Un’argomentazione poggia sui fatti, ho detto, non sui giudizi: è bello, è brutto, mi piace. E poi, argomentare, e questo dovreste saperlo, significa mettere al centro una tesi». Da qui, un sermone sulle responsabilità che riguardano soltanto loro («Io posso portare il cavallo all’abbeveratoio, bere è affar suo»). Il fatto è che Demarco, Proietti, Cardelli e gli altri fanno coincidere quello che chiamano ‘studio’ con il semplice venire a scuola ogni mattina. Lo zaino con i quaderni e i libri, cinque ore di filato al proprio banco. «Il mio dovere l’ho fatto!». E invece noi sappiamo (io ne sono convinta profondamente) che la vera differenza sta nello studio individuale, a casa. È qui che si dividono i destini (scolastici e non) dei ‘Pierini’ e dei ‘Gianni’, per dirla con don Milani. Mi dici tu come potranno mai i Demarco, i Capriati fare il salto di livello se non si danneranno l’anima sui libri? Il guaio è che quando una questione la prendi di petto (come ho fatto oggi) finisci con lo svilirla, porti il discorso su un piano sbagliato... e ti ritrovi tra le mani solo amarezza. Avrei dovuto invece fare come fai tu, tendere la mano e dire senza dirlo: vi capisco, queste cose sono lontane dalla vostra vita di ragazzi, ma proviamo insieme a far quadrare il cerchio, facciamo un passo alla volta. Insomma, stare al loro fianco, non davanti a loro, non dietro una cattedra, e su un piedistallo! Adesso che sono a casa, mi restano ben due giorni interi (sabato e domenica) per riflettere sui miei sbagli. Provo a elencarli: 1) assegno troppe pagine da studiare, troppi esercizi; davanti a quel vasto mare è facile che molti scelgano di non imbarcarsi;

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2) vado di corsa e non mi preoccupo che mi stiano dietro; 3) sono insofferente verso le loro innocenti (e prevedibili) trasgressioni; 4) non curo abbastanza il contesto: ho confuso clamorosamente i piani. L’ignoranza delle regole dell’argomentazione potrà mai essere corretta da una predica sui doveri del bravo scolaro? 5) non mi controllo, finisco con il dire una parola di troppo. Aggiungi tu il resto. A mia discolpa dico che mi fa rabbia la loro pigrizia, il defilarsi, la mancanza di orgoglio, lo sciupare le occasioni. Mi accorgo adesso di aver seminato, questa mattina, solo inquietudine e, quel che è peggio, un sentimento di sfiducia: «Quella lì» staranno forse dicendo, «non sa nemmeno lei che caspita vuole!». Devo rimediare, vigilare sul mio umore, avere cura di me stessa. Domani farò un giro per villa Ada, dalla parte del laghetto... E lunedì saprò, senza averlo ‘programmato’, voltare pagina. Adesso dimmi tu una parola buona (e non farmi aspettare troppo). Rosalba *** Firenze, 15 novembre Pazienta Rosalba, i nostri alunni sono ormai studenti ‘del mestiere’, abituati ad adeguarsi a richieste stereotipate. Nell’ortodossia scolastica, la lettura di un articolo vale meno dello studio del libro di testo da pagina a pagina. A me capita qualcosa di analogo con la disciplina in laboratorio: ci si può muovere, quindi è un po’ meno scuola e un po’ più ricreazione. Ma questa ortodossia è ancora un problema di ‘forma’ che non si è imposta da sola. Ci vuole lavoro e, ancora, pazienza.

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Tu mi dici spesso dei tuoi dubbi sulla naturalità del pensiero che viene dispersa, spesso ostacolata volontariamente dall’istruzione formale. Certo qualcosa si perde, ma tu stessa concludevi in un’altra lettera che la scuola resta l’unico, forse l’ultimo, luogo che tiene insieme la poesia e la prosa, l’oralità e l’alfabetizzazione: questo, mi pare, possa essere il pensiero forte che ci può rassicurare. Inoltre, una mente ecologica è quella in equilibrio con il mondo naturale e ben inserita nella cultura. L’uomo senza cultura è meno naturale, preda del senso comune, degli stereotipi. Dovrebbero i nostri ragazzi prendere coscienza del valore politico dell’istruzione? Intanto ce ne sono di ragazzi che ‘fanno politica’ – nei movimenti pacifisti, nel volontariato... Li ho visti a una manifestazione per la pace. E quello che colpisce non è che la maggioranza degli studenti quel giorno se ne sia stata a casa a dormire o alla televisione. Credo invece che il motivo abbia molto a che vedere proprio con la loro debolezza come studenti, incapaci ancora di usare gli alfabeti per rileggere e comprendere le cose che accadono intorno: candidati naturali a un futuro da esclusi. Facili prede delle nuove forme di comunicazione e di coloro che riducono il significato dell’inserimento nella comunità a quello di seguire, tutti, gli stessi quiz televisivi. Non trovano nessun problema a giudicare l’agire senza applicarvi i criteri del giusto, del vero e del bello, che pure possiedono spontaneamente. Sono quindi divisi in due senza sentire alcuna contraddizione. Renderli liberi è lo scopo dell’istruzione: solo se liberi saranno veramente naturali, menti che tornano a essere non-divise, capaci di seguire l’insegnante che «mette in riga il mondo» per trovare «la propria riga» nel mondo. Giuseppe ***

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Roma, 16 novembre Caro Giuseppe, hai presente le nostre uscite con i ragazzi? Quell’‘acchiappaacchiappa’ chi sta indietro, chi si ferma al chiosco dei gelati, quelli che fingono di aver sbagliato autobus e te li ritrovi alla meta e non sai come ci sono arrivati... Prima di entrare nel merito delle storie che mi hai raccontato, voglio raccontartene anch’io una tratta dal film I 400 colpi di Truffaut: è la sequenza della lezione di ginnastica. La lezione si fa per strada, il professore porta fuori la classe e, da vero atleta, vestito come dev’essere un corridore (maglietta e calzoncini bianchi), corre a passo cadenzato e regolare davanti ai ragazzi. Quelli corrono a modo loro, e dapprima lo seguono, infreddoliti, con il cappotto abbottonato stretto sui calzoni alla zuava, sciarpa e berretto, le scarpette non da ginnastica; vanno dietro di lui a due a due, a tre a tre. E a due e a tre, man mano si nascondono in un portone, o cambiano strada. La scena si chiude con l’immagine del professore che corre da solo. La domanda è: lui lo sa? Lo sa che sta perdendo via via i ragazzi? E se lo sa (e io sono convinta che lui lo sappia), perché non si volta mai? Ho ragionato a lungo su questa storia, al di là delle intenzioni del regista. L’ho letta come metafora di un rapporto gerarchico (e anche della segretezza, di cui ti parlerò in un’altra lettera): chi sta sul gradino più in alto deve chiudere un occhio, e a volte entrambi, per concedere a chi sta in basso qualche innocente libertà: purché resti non svelata, purché non se ne parli. Nel film di Truffaut ho poi trovato esemplificato il rapporto tra padri e figli, insegnanti e allievi che è stato della mia adolescenza. Quel prendersi cura dei ragazzi, ma mai fino in fondo; non dare troppo peso alle loro paure, alle loro speranze: la strada per crescere, per adattarsi al mondo, dovevano trovarla da sé. Così era per i ragazzi della scuola media che ho avuto negli anni Settanta, a Bari.

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Non c’è società che non si impegni a istruire i piccoli: ogni società lo fa a modo suo, e la trasmissione culturale può consistere nell’insegnare a scuoiare un capretto, a potare alberi, a riconoscere il volo degli uccelli...; dalle nostre parti un ragazzino deve saperne di chimica, di storia antica, moderna, di informatica eccetera. Ma quando la trasmissione culturale non funziona, chi e cosa deve produrre adattamento? È il sistema di istruzione che deve adattarsi alle richieste (nuove) dei giovani? Oppure sono loro che devono forzatamente farlo? Far sperimentare loro la caduta nel precipizio, oppure evitare che si portino sull’orlo di quel precipizio? In 1ª G abbiamo letto alcuni passi della Lettera al padre di Kafka. La cura dei figli, la vicinanza dei padri ai figli, l’essere comprensivi e amici dei figli – ho detto – è una ‘moda’ recente. Prima sarebbe stata una eccezione. Solo le madri erano amorevoli, e non sempre: il giovane Leopardi, per esempio, non trovò mai un posticino nel cuore gelido di sua madre («La prego di volermi bene» le scriveva da Roma). Tempo fa trovai su un giornale una interessante chiave di lettura dell’episodio di Ettore sulle mura di Troia. Astianatte piange terrorizzato in braccio alla nutrice al vedere il padre con quel po’ po’ di armamentario addosso. Ettore allora si toglie il cimiero e lo poggia per terra. Ma non si toglie la corazza. A viso scoperto prende in braccio il figlio e se lo stringe al petto con la corazza addosso. Da questo modo di congedarsi dal figlio (e dalla vita: Ettore sa che tra poco andrà a morire), potremmo trarre un insegnamento. Tra padre e figlio non c’è mai (non dovrebbe esserci) un contatto diretto, c’è sempre un diaframma, un ‘impedimento’. La corazza può essere più o meno spessa, dura o flessibile, ma c’è. Estendiamo questa metafora al rapporto tra noi e i nostri ragazzi: da quale pratica di vita, da quali esperienze trarremo insegnamento per indossare, a scuola, la corazza del giusto spessore? Ripeto la domanda: far sperimentare loro la caduta nel precipizio, oppure evitare che si portino sull’orlo del precipizio? E noi

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per primi, quale nozione abbiamo di dove e di come noi stessi stiamo precipitando? Rosalba *** Roma, 17 novembre Caro Giuseppe, è da un bel po’ di anni che i voti (a numero) mi sembrano una grande trovata. Non è che non ne veda la balordaggine (dare un numero a una persona!), però, mentre da giovane mi sarei fatta torturare pur di non prendere sul serio questa storia di ‘dare numeri’, adesso li trovo una eccellente risorsa in caso di emergenza. «Come sono andato?» chiedeva ogni cinque minuti un ragazzo che anni fa mi faceva disperare, uno che stava sempre sul chi vive. E io, all’istante: «7». Questo ‘trucco’ funziona perché hanno ‘fede’: nei numeri e in me. Piuttosto ragionerei sulla opportunità di dichiararlo o di tenere segreto il voto. Ai miei tempi, dopo una interrogazione il voto non si doveva sapere. Forse, senza averlo consapevolmente deciso, con questo trucco i professori ci tenevano sulla corda. Facciamo l’ipotesi che sia ancora utile tenere gli studenti in uno stato d’allerta (non c’è vera conoscenza senza pathos), allora: quali nuovi espedienti dovremmo inventare? Prendiamo la questione più in generale: se la scuola è una ‘organizzazione gerarchica’ (e non potrebbe essere altrimenti), come rende manifesta la gerarchia? «E il voto che c’entra?» mi dirai tu a questo punto. Vista in astratto, la scuola, presa nella sua intera configurazione, non è diversa da qualsiasi altro sistema gerarchico che, a garanzia della sua stabilità, deve vigilare su come e dove vengono

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diffuse le informazioni. E allora, che voleva dire nella scuola del passato la non-comunicazione del voto? E che l’affissione pubblica dei voti finali fosse preceduta dalla segretezza dei passaggi intermedi? Come in un Conclave, a cui segue l’annuncio pubblico: «Habemus Papam». La mia ipotesi è che in quel caso la segretezza comunicava sulla ‘forma’ della relazione, vale a dire che confermava il piano gerarchico dei rapporti. Mi obietterai che quella ‘stupida segretezza’ serviva solamente a marcare una distanza, che obbediva cioè a una logica di autorità esasperata. Spesso buttiamo in mare procedure antiquate, vecchi contenuti eccetera prima di chiederci e di avere davvero compreso a quale esigenza rispondevano. (Qualche volta mi viene da pensare che abbiamo irriso ai ‘pensierini’ della vecchia scuola elementare senza aver sostituito qualcosa che educhi altrettanto stabilmente l’automatismo della frase formale.) E ancora: attraverso quali messaggi, attraverso quali rituali noi oggi tracciamo la differenza adulto-giovane e comunichiamo, e confermiamo, la relazione gerarchica? (Vedi la corazza di Ettore). Per concludere. So di aver toccato una questione delicata e di aver corso il rischio di fraintendimenti. Veniamo allora a un’altra domanda: qualora ammettessimo tratti di non-comunicazione, chi o cosa costituirà per noi la garanzia che avremo scelto ciò che davvero conviene tenere segreto? Guardiamo ai bravi maestri: hai presente il maestro del film di Philibert Essere e avere? Che fanno di tanto speciale lui e i maestri come lui? Semplicemente insegnano. Vale a dire che in un rapporto contrassegnato da un costante dialogo, la non-comunicazione e il rispetto dell’altro nella gerarchia sono una questione di stile, e cioè di percezione inconsapevole delle soglie oltre le quali una parola di troppo, un atteggiamento poco conforme al ruolo rischiano di distruggere la relazione e di snaturare il contesto più ampio.

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E io invece quella parola di troppo, specie in 2ª G, quante volte me la lascio sfuggire! Rosalba *** Firenze, 18 novembre Cara Rosalba, mi hai parlato di contesti gerarchici e di segretezza. Provo a risponderti spostando il discorso su due argomenti: i legami e i riti. Ho partecipato di recente a un forum su Saperi, formazione e globalizzazione. Lì qualcuno ha osservato che le relazioni che si stabiliscono a scuola non sono né orizzontali, nel senso di una simmetria totale tra i soggetti coinvolti, né di tipo semplicemente gerarchico. Le ha definite ‘genealogiche’, per metterne in evidenza il carattere di incontro tra generazioni. Mi sembra un bell’aggettivo che spiega in modo molto naturale i diversi ruoli del maestro e dell’allievo dentro la relazione, senza farne un problema di autorità, bensì di diversa responsabilità. Un incontro di generazioni, dicevo, dove chi al mondo è venuto prima parla del mondo che ha trovato e di quello che lascia a chi viene dopo. Un passaggio del testimone tra soggetti che si capiscono non solo perché condividono il quadro concettuale di riferimento, ma soprattutto perché si ritrovano sui valori ‘eterni’, che sono alla base del pensare e dell’agire di ciascuno. Quindi una consonanza prima umana e poi politica. Qualcosa di più della condivisione, perché è l’affidarsi a una generazione con cui si sente di nuovo possibile un’identità di presupposti e princìpi, a prescindere dal trovarsi poi insieme nell’azione. Un atteggiamento che può derivare solo dal riconoscimento

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di una continuità profonda che supera di slancio le tante discontinuità apparenti. Tu mi hai già scritto sulla necessità di identificarsi con i propri alunni per essere buoni insegnanti e io ti ho già risposto. Ora aggiungo che forse potremmo essere d’accordo nel riconoscere che è indispensabile credere in una continuità. Siamo i poli di una relazione dispari e asimmetrica con la consegna di non approfittarcene, anzi, di darne vantaggio agli altri, e sappiamo – o dovremmo sapere – che la qualità della nostra prestazione professionale dipende dal nostro coinvolgimento. Io che insegno a ragazzi svogliati e cialtroni, quelli che si preparano – rifiutando di studiare a scuola – a diventare i nuovi extracomunitari della «modernità liquida», quelli che si tengono lontani dalla politica, dai dibattiti, dai movimenti per la pace (moltissimi, nel dubbio, anche dalla scuola), mostrando verso i loro coetanei impegnati nella politica – per loro quasi dei ‘marziani’ – lo stesso miscuglio di timore e disprezzo con cui guardano a un campo nomadi. Io, dicevo, come potrei pensare che vale comunque la pena spendersi per loro se non fossi convinto che sotto questo modo di pensare e agire, epidermico e indotto, scorre un fiume che trasporta le stesse nostre passioni, gli stessi entusiasmi e furori pronti a esplodere non appena trovano una via per raggiungere la pelle? Sai bene che l’identificazione passa quasi sempre attraverso ‘azioni rituali’. C’è oggi, in molti giovani, un desiderio di nuova ritualità; qualcosa di indimenticabile, solido, duraturo. Una voglia di identificazione senza gerarchie. È un’utopia? E conviene coltivarla? Oggi gli individui si connettono con grande facilità ma non si legano. Una causa è la virtualità dell’idea stessa di connessione. Il legame è un vincolo, una delimitazione, una rinuncia. In passato il legame è sempre stato garantito da una identificazione gerarchica – ad esempio all’epoca delle corti con il re –, oggi questo non è più possibile. Per i legami servono luoghi veri: luoghi del con-

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tatto e dei doveri reciproci, dove ci si ritrova nel comune desiderio di vivere un’esperienza, e che sia, magari, indimenticabile. Quello che si desidera è molto importante. Qualcuno ha detto che nel futuro troveremo quello che impariamo a desiderare nel presente. Beppe *** Roma, 22 novembre Caro Giuseppe, mi parli di legami, rituali, relazioni: spiegano i fenomeni della vita, compresi i tuoi studenti «svogliati e cialtroni». Compreso tutto ciò che è oggetto di studio, specie le nozioni che ci sono più familiari e che quindi ci appaiono ovvie. Se insisto con i ragazzi su soggetto e predicato, analisi logica e così via, è perché il terreno è già stato coltivato alle medie. E così oggi in 1ª G ho richiamato il modo abituale – e che già conoscono – di intendere la gerarchia delle componenti di una frase, e ho fatto capire, ne sono certa, che la definizione di ‘nucleo’ della frase come coincidente con il soggetto e il predicato non è ‘sbagliata’, ma è solo una descrizione ‘imprecisa’: noi potremmo analizzare una frase e descriverla cercando di cogliere la sua ‘autodescrizione’. Nella lingua italiana, il soggetto ha questa peculiarità: una stretta relazione formale (morfologica) con il verbo, pur quando il soggetto ‘grammaticale’ non coincidesse con il soggetto ‘logico’ (un esempio: «Ai bambini capita spesso di sbagliare gli accenti»: qui il soggetto ‘logico’ è il complemento di termine, «ai bambini»). Quindi, dico ai ragazzi, la classica domanda «chi fa l’azione?» non va posta prima ma solo dopo aver cercato e rilevato la relazione formale soggetto-predicato. Un procedimento, questo,

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più lungo, che sembra non porti dritto alla meta. Del resto, è proprio così: mai in materia di apprendimento la strada più breve è una linea retta: è sinuosa, è un fiume che fa lunghi giri. Il modo che io propongo di descrivere e analizzare la frase non si aggiunge, precisandolo, al modo che prima loro praticavano, ma lo cambia, e più in generale introduce (tende a introdurre) un cambiamento nei modi di intendere e di pensare i fenomeni viventi. «Vedete» ho detto «quell’albero lì fuori (un platano): noi siamo in grado di descriverne la forma, di analizzarlo nelle sue parti e di dare a queste un nome; facciamo confronti, annotiamo somiglianze e differenze, ricorriamo a tassonomie già note (classe, ordine, famiglia...) eccetera; e a sua volta l’albero ‘si autodescrive’, descrive sé stesso mostrandosi alla luce, crescendo, cambiando nel tempo, proprio come succede a noi, che abbiamo una ‘verità interiore’, che è la nostra ‘verità’, la ‘verità’ che emerge dal nostro punto di vista, e magari ce ne rendiamo conto solamente quando una persona attribuisce una ‘etichetta’ al nostro carattere (timido, espansivo, sospettoso) e noi sentiamo che quella persona ha colto nel segno, oppure che sta sbagliando, che non ha capito davvero chi siamo e come siamo fatti. Lo capiamo, anche se non sappiamo dire a parole chi siamo davvero. Ecco, sia che la teniamo per noi, sia che la esplicitiamo ‘raccontandoci’ (attenzione! – ho detto – anche qui possiamo sbagliare: le parole saranno sempre imprecise!), questa ‘seconda verità’, e cioè la descrizione che noi abbiamo di noi stessi, accostata all’altra – la descrizione che ci viene dall’esterno – può aprirci a una visione più profonda di noi». Ora, non pretendo che i ragazzi a loro volta sappiano riferire i miei discorsi teorici. Piuttosto, spero di aver dato loro altri elementi per pensare in modo più rigoroso ai fenomeni della vita. Non abbiamo bisogno soltanto di ‘marziani’ impegnati nella politica ma anche di ‘marziani’ che pensano in modo ‘eco-logico’. Rosalba

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Firenze, 24 novembre Cara Rosalba, la descrizione che noi abbiamo di noi stessi, scrivi, è «la nostra ‘verità’». E quanto conta per un insegnante tenere conto di come i suoi ragazzi si autodescrivono e si raccontano! E che dire, poi, di quelli che non hanno le parole per raccontarsi... Un’amica, preside in una scuola media, mi diceva di un questionario svolto dagli alunni. Alla domanda su quale luogo della scuola fosse il preferito, un ragazzo ha risposto: «Mi trovo bene sul terzo gradino delle scale». La risposta era stata annoverata fra quelle che indicavano la preferenza del luogo dell’incontro di ragazzi e ragazze prima della campanella, ma restava la curiosità: perché proprio il terzo gradino? L’alunno allora ha spiegato che il terzo gradino è il più alto prima del pianerottolo che è controllabile dalla portineria. Da quella posizione si vedono tutti i compagni e ancora non si è visti dagli adulti. Invece Davide Forti non ha ancora trovato un gradino analogo nella nostra scuola, e, a dire il vero, non l’ha neppure cercato. L’anno scorso si è iscritto in prima, ‘certificato’ dalle medie. «Certificato per cosa?» mi chiederai. Al mio primo incontro non l’avrei saputo dire: non era un mio alunno e io l’ho conosciuto nella mia funzione di vicepreside, perché dopo due mesi di scuola non comunicava, non si apriva, mostrava carenze di ogni tipo, necessitava insomma di un riorientamento. Oggi direi che era affetto da mal di scuola, una sorta d’allergia che di norma consiglia il soggiorno nei professionali. Davide è un ragazzo dallo sguardo vispo, curioso verso la scuola, ma di quella curiosità tipica di un turista in viaggio in un paese molto diverso dal suo. Non ho mai avuto la sensazione che considerasse l’esperienza scolastica come qualcosa che appartenesse alla sua vita reale. Tutto quello che vede lo confronta con il suo mondo: zona Piagge, periferia di Firenze; madre che lavora

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tutto il giorno, padre assente, la stanza più grande è per lui il marciapiede della strada, condiviso con gli amici. So bene che non è una storia originale, d’altra parte i ‘casi’ che abbiamo a scuola raramente corrispondono a ragazzi o ragazze con storie particolari, più spesso assomigliano a problemi di interfaccia tra un organismo e un ambiente entrambi ‘sani’ e completamente descrivibili, ma divisi da una superficie che non traspira. Problemi di membrane divenute impermeabili. Ecco, era come se Davide stesse nel suo banco, chiuso in un ‘sacchetto di plastica’. Per farlo sentire meno solo, fu deciso di spostarlo: dall’indirizzo molto qualificato dov’era, alla specializzazione più ‘umile’ dell’Istituto. Ma dubito che dall’interno del suo ‘sacchetto’ abbia colto una qualche differenza, se non quella che nella nuova classe ‘i ragazzi nel sacchetto’ erano molti di più. Davide non ha nemmeno terminato l’anno, perché la madre ha chiesto un percorso integrato con la formazione dell’ente locale. Ben presto il percorso è diventato a frequenza alternata: presente nei giorni di attività al Centro di formazione e assente nei giorni destinati all’Istituto. Nessuno vi ha fatto molto caso, come se sapessimo che non poteva finire altrimenti. Quest’anno frequenta il Centro di formazione. Ho chiesto sue notizie al responsabile del Centro, che mi ha detto di aver incontrato Davide in corridoio: era stato espulso dalla classe perché nel test dove si chiedeva agli allievi quale inserimento avrebbero desiderato nel mondo del lavoro aveva scritto che da grande voleva fare il ladro. Un bel problema cercare di insegnare qualcosa a chi non sa che farsene. Le storie come quella di Davide sembrano confermare che non esiste una scuola adatta a chi di scuola non ne vuole. Secondo Bateson, ogni processo mentale richiede una fonte di «energia collaterale». Pensare di insegnare per pura abilità o perché si è trovata la scuola ‘alla portata di quella testa’, è come ostinarsi sui rubinetti quando manca pressione nell’acquedotto.

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Ho spesso la sensazione che molti colleghi si difendano dietro un atteggiamento che sconfina nel fatalismo, addossando la responsabilità di questa disaffezione allo studio alle nuove generazioni, oppure vedendovi il frutto amaro dell’abbrutimento della nostra civiltà, stritolata tra mass media e computer. Si sono dimenticati che nei bei tempi passati la scuola si dedicava soltanto ai già bravi, a quelli che avevano ‘voglia di studiare’. I ragazzi come Davide erano fuori dai giochi già prima della fine delle medie, e pace per loro. Il problema è nato quando l’andare a scuola è diventato un obbligo per tutti, e lo Stato lo ha posto al di sopra della libertà di scelta individuale. E allora, che senso ha prendersela con gli studenti che ‘vengono a scuola perché ce li mandano’, quando sarebbe meglio dire che siamo noi a chiamarli? Sarebbe già un bel passo avanti decidere se li vogliamo davvero oppure no, senza l’ipocrisia di rispondere di sì, purché vadano in scuole diverse dalle nostre. Perché, se davvero li vogliamo, allora il problema ci riguarda, e anche se non possiamo garantirne la soluzione, cambia il nostro ruolo in maniera definitiva. Nella scuola di tutti in cui io vorrei essere, quella del ‘non uno di meno’, so che sarò chiamato non solo a regolare il rubinetto, ma anche ad avventurarmi lungo i tubi, nei tanti casi in cui l’acqua non arriva. Certo non tutti possono imparare tutto, né allo stesso livello, ma questa verità è troppo banale: quello che ci dovrebbe interessare di più sono i tanti ragazzi che possono imparare, ma che non vogliono farlo, a scuola. Il vero, unico problema di Davide era che per lui la scuola non era un problema. Tante volte nella mia esperienza scolastica mi sono trovato di fronte a ragazzi e ragazze ‘sigillati’ nei loro sacchetti di plastica, apparentemente impermeabili a qualunque approccio, ma non mi lamento sugli esiti del mio lavoro. Accanto agli inevitabili fallimenti, porto nei miei ricordi anche tracce di sacchetti fatti a pezzi e di guasti all’acquedotto riparati. Credo che abbia contato pro-

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porre percorsi, tempi e modi dell’apprendere adatti alla fascia d’età degli alunni, ma non solo. Conta anche imparare a pensare come si pensa dall’interno del ‘sacchetto’, partecipare della piacevolezza dello stare «sul terzo gradino», riflettere sui modi dell’apprendere, saperli sfruttare tutti e non lasciarsi tentare dall’imporre per forza il nostro. Confidarmi con te mi aiuta a sostenere l’impresa. Beppe *** Roma, 25 novembre Caro Giuseppe, ieri in 2ª G (la classe era dimezzata per via delle gare sportive) è successo questo: stavamo correggendo per l’ennesima volta la parafrasi di un canto di Leopardi. Procediamo lentamente, annotiamo poche cose per volta. È da più di un mese che stiamo dietro a due sole poesie. Ricerca dei significati delle parole, studio della sintassi, del verso, prove (intermedie) di lettura ad alta voce eccetera. D’Urso si era fermato a «che travagliosa / era mia vita: ed è, né cangia stile» (Alla luna) perché non aveva capito. E così, una buona mezz’ora se n’è andata su questa frase, sul valore dei due punti, sulla omissione del nome («travagliosa») dopo il predicato («ed è»), sulle cesure, sulla posizione degli accenti dell’endecasillabo e via dicendo. Poi, in conclusione, ho fatto leggere la poesia a ciascun ragazzo, a turno. Lo vado dicendo da anni: una poesia, bisogna saperla leggere. Ad alta voce. Punto e basta. Tutto il lavoro precedente, arrivati lì, può essere buttato nel cestino della carta. E loro hanno letto bene, si capiva dalle pause e dall’intonazione che avevano compreso ogni sfumatura. (I voti sul registro: dall’8 in su.) Puoi immaginare la mia soddisfazione, e anche quella dei ra-

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gazzi, dopo il loro personale ‘travaglio’. Quando sono scesa in sala insegnanti ho raccontato tutto a una collega e ho trovato conforto nel fatto che anche lei procede così, anzi fa di più, registra le letture meglio riuscite e a fine anno le raccoglie in un cd. Allo stesso tavolo dove eravamo noi, due colleghi si raccontavano le solite barzellette sugli svarioni dei ragazzi, sulla loro stupidità. Com’è che reagisco sempre male, come se mi pugnalassero, quando sento denigrare gli studenti? Le storie dei ‘nostri’ ragazzi... non dico di no, ma andrebbero raccontate in luoghi ‘protetti’, non in luoghi aperti al via vai, non accanto alla porta del gabinetto! Rosalba P.S. I due punti dopo «era mia vita»: «Che eleganza, che soluzione geniale quel giustapporre le due frasi!» ho detto ai ragazzi, anche loro ammirati dal genio di Leopardi. Poi ho aggiunto: «A una distanza planetaria... risulterà che oggi abbiamo soltanto perso tempo!». Mi piace insistere sulla ‘gratuità’, sulla ‘inessenzialità’ di quello che a scuola studiano: lo trovo altamente educativo, di questi tempi. Altra annotazione: la lettura ‘espressiva’ di una poesia non ammette alcuno sbaglio; anche una sola sillaba cambiata comporta l’interruzione della prova, che viene rimandata ad altro giorno. Albanese, infatti, è stato ‘rimandato’. *** Roma, 26 novembre Caro Giuseppe, in attesa di una tua lettera, mi siedo ‘sul terzo gradino’ e provo a dare voce alle domande che tengono me e te sulla corda: è sempre necessario obbligare i ragazzi «che di scuola non ne voglio-

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no»? Chi sono io che li obbligo, io che decido il cosa e il come? E in generale, accrescere le conoscenze è ‘comunque’ un fatto positivo? Noi due insegniamo in un tipo di scuola dove giorno per giorno tra gioie e dolori siamo portati (anche involontariamente) a ragionare sulla natura della nostra cultura. Non è un caso che proprio nelle scuole che non sono licei trovino facile terreno le domande di fondo (e legittime) sull’istruzione. E come è già successo ad altri, anche per noi c’è il rischio che ci si attesti sui due punti estremi: o farne una tragedia, o buttarla a ridere (fino a ora, la prima). Ti scrivevo ieri della lettura ad alta voce di una poesia. I ragazzi si esercitano a casa per non sbagliare nessuna parola, nessun accento, e così, senza accorgersene, imparano la poesia a memoria! Succedeva nelle scuole di una volta che i bambini imparavano a memoria anche cose di cui non capivano il significato. Era così anche per le preghiere, per la messa in latino, recitate storpiando le finali, attaccando e staccando impropriamente le parole, nell’ignoranza quasi totale di quello che volevano dire. Magari uno lo capiva da grande (è successo a me), quando quel bla-bla ti ritornava alla mente e di colpo le parole si dichiaravano. Ma fino ad allora il mistero era fitto. Ripetendo meccanicamente si imparava forse la ‘durata’ di una frase? A esercitare sulla frase il tempo del respiro? Ammettiamo per ipotesi che tutto questo abbia a che fare con la crescita inconsapevole della ‘forma’ del pensiero. E chissà che quel ripetere meccanicamente senza capire fosse il presupposto per un salto di livello... Mi fermo qui. Sono domande troppo grandi, che mi trovano impreparata. Guardiamo invece l’opinione che hanno gli insegnanti dell’apprendimento meccanico: grosso modo – sostiene Bateson – sono schierati così: i ‘conservatori’ lo considerano positivo, i ‘progressisti’ no, e insistono perché gli allievi capiscano. Da che mi ricordo di aver imparato qualcosa, soltanto al cate-

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chismo, in parrocchia, mi veniva chiesto di ripetere a memoria e basta. Devo aver avuto una maestra ‘progressista’: niente ‘a pappagallo’, anche le poesie – rigorosamente a memoria – bisognava averle capite, e averci aggiunto pensieri formulati con ‘parole proprie’, spesso solo sciocchezze. Insomma, nel bene e nel male, il nostro sapere è ‘critico’. Essendo fondato sul ‘testo’ – sulla scrittura, sul commento di testi scritti – è un sapere critico anche quando un testo crediamo di assumerlo così com’è. Questo sapere critico, questo ragionare da sé cercando interpretazioni originali, si acquisisce bene nel liceo, dopo il tirocinio del ginnasio con la traduzione quotidiana dal latino e dal greco: puntuale, fedele, quasi banale. Nei primi anni di scuole come la tua e la mia non c’è quasi niente che assomigli a quel lavorare nel ginnasio giorno dopo giorno coltivando un qualche ‘perfezionismo’: intendo gli automatismi relativi al linguaggio scritto e di conseguenza parlato. Le materie da noi sono tante, mal collegate o collegate solo sulla carta: tante materie, tante conoscenze in più – dirà qualcuno –, tante possibilità di comprendere il mondo in cui viviamo... Con tante materie il tempo passa certamente più in fretta, e di conseguenza ogni apprendimento è frettoloso. Si impara, sì, ma ‘bene’ nulla. Prendiamo Manzi: vivace, attento, pronto, lui riassume perfettamente le caratteristiche dello studente non-liceale di oggi. Gli procura un grande piacere conoscere come andarono le cose tra Persiani e Ateniesi, la differenza d’uso tra perché e poiché, e altre quisquilie. Davanti a un test con le crocette, mette le crocette giuste ed è il primo a consegnare; altro non vuole fare. Giorni fa, esco di pomeriggio per una passeggiata nel giardino della basilica di San Paolo, incontro ragazzi e ragazze dell’età dei miei studenti. A gruppi, stesi sul prato chiacchierano, sfaccendati. Come! Sfaccendati? E i compiti? Non gli hanno dato compiti a casa? O sono loro che hanno deciso di non farli? I miei ragazzi invece... Come sono brava, io, che li metto al riparo dalla tenta-

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zione di sfuggire ai loro ‘doveri’! Il tipo di compiti che assegno richiede una ‘necessaria’ applicazione, esercizi che possono essere svolti anche senza una guida, e che per loro natura impongono riflessione, lentezza. Oggi, per esempio, ho assegnato altri quaranta versi dei Sepolcri da parafrasare (apprendimento di livello uno), così, oltre che a ‘tradurre’ parafrasando (e tradurre è la strada privilegiata per imparare le sfumature della propria lingua), imparano un metodo (apprendimento di livello due). È importantissimo alla loro età imparare a far bene una cosa, fosse anche quella sola! Ma quanta fatica per far loro accettare la ‘noia’ della parafrasi! Tornando a casa, mi sono detta: lo so già che domani mezza classe verrà impreparata, o con un compitino fatto alla bell’e meglio. Com’è che non mi riesce davvero di... È stato allora, all’improvviso, che l’invenzione del ginnasio, con l’obbligo di tradurre ogni giorno dal latino e dal greco – una cosa, se vogliamo, perfettamente inutile – mi è parsa una trovata geniale. Rosalba P.S. Giorni fa, al Cidi*, in un incontro di studio, hai parlato dei «vicoli ciechi» della scienza. Non mi ricordo gran che. Ricordo solo la storia della «mela di Newton»: possiamo calcolare la traiettoria della mela ma non come, quando, perché cadrà. «Qui le variabili sono tante, conta anche la stagionatura dell’albero» hai detto. E allora, quanto contano i nostri modi ‘stagionati’ di insegnare?

* Il Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti), fondato a Roma nel 1973, opera nel campo della didattica e della ricerca in ambito pedagogico organizzando seminari, convegni, corsi di formazione. Negli anni ha istituito centri in tutto il territorio nazionale.

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Firenze, 28 novembre Cara Rosalba, tu mi scrivi dell’importanza della «crescita inconsapevole della ‘forma’ del pensiero», e ti chiedi se questa non sia legata anche ad apprendimenti meccanici, a esercizi che potrebbero sembrare perfettamente inutili come le quotidiane traduzioni al ginnasio. Se con ‘meccanico’ intendi automatico e inconsapevole sono d’accordo con te, ma non ho dubbi che la crescita ‘inconsapevole’ della forma del pensiero richieda la scelta ‘consapevole’ da parte di noi insegnanti di temi sensati. L’importanza di fare esercizio non va contrapposta a quella dell’affrontare temi significativi. Tu mi sollecitavi a riflettere sui «vicoli ciechi» della scienza e sulla «mela di Newton». Cerco allora di mettere in fila le mie idee sui contatti che le scienze hanno con la struttura della narrazione, con la ‘contingenza’ come contesto che favorisce un evento rispetto ad altri possibili, e con il tempo come responsabile della irreversibilità di certi fenomeni. Di solito ai ragazzi propongo la metafora di Prigogine della natura come una stanza. In essa vi sono parti già all’equilibrio, che di conseguenza non mostrano alcuna tendenza a ulteriori trasformazioni; ad esempio, l’aria della stanza dove le particelle dei gas componenti si muovono con un disordine ormai stabile. Ma anche oggetti ben lontani dall’equilibrio, come i fiori nel vaso: strutture molto organizzate e soggette a una trasformazione permanente e irreversibile. Ecco che la stanza contempla nello stesso momento l’annullamento del tempo e la sua funzione costruttiva. Ora, proprio il ruolo del tempo e la rottura di simmetria rispetto al tempo – cioè l’irreversibilità dei processi – giustificano il successo dell’approccio storico-narrativo in ambiti della scienza che l’avevano sempre rifiutato. Veniamo adesso alla «mela di Newton». In una conferenza del 1988 Popper osserva come Newton abbia descritto perfettamente

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il moto della caduta di una mela, prevedendone istante per istante la posizione. Eppure non sarà mai in grado di prevedere quando la mela cadrà. Sul ‘quando’ sono decisive le condizioni di salute dell’albero, lo stato della mela, il vento e le condizioni meteorologiche presenti e passate. Troppe variabili per una sola equazione! Insomma, ciò che succede (alla mela) ha più modi e tempi di succedere, e non si lascia mai prevedere completamente. «È un po’ come un’escursione in montagna» dico ai ragazzi. Lì possiamo seguire sentieri ben disegnati, che scorrono in vallate strette fra alte montagne. Noi escursionisti non abbiamo in quei tratti alcuna alternativa. Mettiamo poi che la vallata finisca e che il sentiero si biforchi in due percorsi che si inerpicano faticosamente su entrambi i lati della montagna: diventa obbligatorio fare una scelta. Mettiamo anche che nessun fattore oggettivo ci possa guidare. Allora eventi normalmente insignificanti, come le piccole difficoltà che si incontrano a ogni passo, possono diventare decisivi. Sono questi momenti che rendono impossibile una completa pre-dizione del percorso della passeggiata, anche se una volta fatta una scelta nei punti delle biforcazioni poi seguono lunghi periodi di previsionalità. Nasce un fattore storico che rende possibile solo una post-dizione. È come dire che il tragitto di un’escursione in montagna spesso può essere analizzato solo ‘dopo’ che si è concluso, e a partire dalla mappa dei sentieri possibili. Ma questa mappa cos’è, se non la somma di tutte le possibili scelte, bivio dopo bivio? Ecco che i «vicoli ciechi» perdono il carattere di strade senza uscita e diventano momenti di una esplorazione, apparentemente marginali rispetto alla strada maestra che viene scelta, ma fondamentali per capire il metodo della scelta. Cosa dovrebbe fare l’insegnante di scienze? In primo luogo riconoscere i contatti che le scienze hanno con la struttura della narrazione: con la contingenza come contesto che favorisce un evento rispetto agli altri e, a un livello diverso, la scelta di una

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teoria rispetto ad altre possibili. In questa prospettiva le pagine dimenticate di vita della scienza – gli anni di pausa della cosiddetta scienza ‘normale’; il tempo delle teorie in conflitto e i fattori che hanno spinto in favore dell’una o dell’altra; la scelta di una direzione e di un paradigma che automaticamente hanno reso le altre «vicoli ciechi»; il loro recupero spesso avvenuto in momenti successivi – sono preziose per insegnare il modo della costruzione delle conoscenze. La scienza è caratterizzata da una «domanda appassionata, non da una risposta» (ancora una splendida espressione di Prigogine). Ma se al centro è la domanda, tutta la nostra ricostruzione della scienza a scuola è monca e impoverita, perché nasconde ai ragazzi il travaglio della ricerca delle risposte: il conflitto tra le tante possibili, gli eventi che ne hanno fatto preferire una sulle altre. Tuttavia, per non cadere nell’errore di proporre un modo differente di ‘imparare le scienze’ – la storia della scienza al posto della scienza –, invece che insegnare a vedere il mondo con gli occhiali di uno scienziato, bisogna aggiungere che questo atteggiamento aperto alle alternative, che cerca sempre di chiarire i presupposti delle scelte ed è disponibile alle revisioni, pone sì un problema di contenuti, ma soprattutto di metodo. L’insegnamento delle scienze non può iniziare con la trasmissione delle ‘teorie della scienza’ così come si sono consolidate oggi, ma dalle risposte scientifiche che gli alunni possono dare a domande che scaturiscono da attività e osservazioni adatte alla loro fase evolutiva. La risposta scientifica è sempre un primo livello di astrazione. Non si deve accettare la tesi che esista una scienza ‘minorenne’ che si può insegnare con un agire senza teorizzare, e poi una scienza ‘maggiorenne’, che si insegna teorizzando (con falsa linearità) senza agire. Sarebbe come sostenere che i minorenni agiscono senza il sostegno di un pensiero che condivide del loro agire la stessa natura, per così dire, minorenne.

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Un pensiero, Rosalba, che, utilizzando le tue parole, acquista la sua forma in modo ‘inconsapevole’, come se questa fosse il ‘residuo solido’ segnato sulle etichette dell’acqua minerale che, mi faceva notare uno studente, di solido a guardarla non ha niente. Camminare sui sentieri secondari è un esercizio necessario; prevede la ripetizione di azioni e di ragionamenti al solo scopo di ‘prendere il passo’ dell’escursionista esperto. Il percorso, allora, è importante quanto la meta. Non più, però, del trasmettere il ‘gusto’ dell’andare. Beppe *** Roma, 30 novembre Caro Beppe, oggi siamo andati nell’aula multimediale. Quaranta minuti di grande meraviglia. Le scarne illustrazioni del libro di geografia, per i ragazzi della 1ª G sono diventate ‘storie’. Ah, come sarebbe bello se ogni lezione fosse accompagnata da uno spettacolo così ‘memorabile’! Noi siamo nell’ala della scuola detta vecchia: per raggiungere l’ala nuova, dove si trovano le aule ‘speciali’, occorrono lunghi spostamenti, e non ti sto a dire gli incidenti di percorso, tutti prevedibili (Manzi si ferma al bar, Reyes finge di essersi perso nel piano seminterrato, Tonucci va nella stanza dei bidelli a pettinarsi i riccioli davanti allo specchio). E così devo limitare le lezioni ‘speciali’. Eppure lo so, e la psicologia dell’apprendimento lo dimostra: le nuove tecnologie sono molto più efficaci, e anche più democratiche, delle spiegazioni tutte e solamente verbali. Se i ragazzi possono imparare anche a scuola – non soltanto al di fuori – attraverso procedimenti più veloci e che suggeriscono immagini

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mentali non ambigue, che cioè le precostituiscono, perché contrastare questa ‘naturale’ tendenza e fingere che una frase basta leggerla per avere tutto chiaro? Senti questa: era scritto sul libro di storia: «I Romani dovettero fronteggiare una massiccia invasione dei Sabini». «Come te la immagini?» ho chiesto l’altro giorno a Corsetti. Quale immagine si è formata nella tua mente? E Corsetti, alzandosi in piedi e allargando le braccia: «Un mucchio di pietre grandi così». Ha quindi ragione chi propone di destinare alle tecniche ‘sequenziali’ – alla spiegazione verbale in primo luogo – il 30% del tempo scolastico, non il 70% come di norma si fa. Il 70% va assegnato alle tecnologie audiovisive, informatiche, interattive, che favoriscono il pensiero ‘simultaneo’, così vivo nei ragazzi. Mi chiedo se sono troppo obsoleta, con l’uso esclusivo di gesso e lavagna come unica aggiunta alla spiegazione. Eppure credo che imparare attraverso il linguaggio verbale sia un arricchimento, e una occasione che soltanto la scuola può dare. Quella capacità di aggirare l’ostacolo della linearità delle parole e di riuscire a tradurre un concetto (fatto di parole) in un’immagine mentale, e tale che chi l’ascolta si crei la stessa immagine. Però, però... niente di più efficace e di più veloce della fotografia di un coccodrillo per capire come è fatto un coccodrillo! C’è pure chi sostiene che la differenza del supporto – un computer oppure un libro – è una differenza in cui si giocano la stabilità, la ‘memorabilità’ a lungo termine, la qualità delle informazioni. Per di più, da quando le elaborazioni logico-formali sono state affidate alle macchine (tv, computer), i ragazzi si sentono esonerati dall’esercitarle. Non parliamo poi dell’argomentare! Spiegare come si scrive un testo argomentativo o un tema a tesi richiede lunghe, noiose spiegazioni e numerosi esercizi intermedi. Colosimo della 2ª G: «Io ai temi sono andato sempre bene; io scrivo di getto, come mi viene». «E come sai che il tema ti è venuto bene?» ho detto. «E il giorno che scrivere non ti viene facile che fai?». Per riuscire a scrivere bene, anche senza passione, bi-

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sogna imparare le tecniche, esercitarsi, fare esperienza, conoscere i parametri per giudicare da sé la riuscita di un tema. Agli esami di maturità, negli anni passati, gli ho detto, mi capitava di leggere temi che sostenevano una tesi e il suo esatto contrario: le cose stanno così, anche se... Insomma, il candidato non si assumeva la responsabilità di esplicitare chiara e tonda la sua opinione, ma si barcamenava tra posizioni contrapposte come per mettersi al riparo dal giudizio dell’esaminatore (chi lo sa come la pensa quello lì!). E dopo averli avvertiti dal non cadere nell’‘errore del candidato’ (lo chiameremo d’ora in avanti così), ho dettato loro uno schema: a) esposizione della tesi; b) sviluppo degli argomenti; c) ripresa della tesi iniziale in forma riassuntiva. Dovete cimentarvi nel trovare argomenti convincenti! Riprendere gli argomenti contrari, per smantellarli poi uno a uno! Mai perdere di vista lo scopo! Direte a voi stessi: è quella, e non un’altra, la tesi che voglio sostenere e dimostrare. Magari scrivetevi su un pezzetto di carta – bella e chiara, messa in evidenza sul banco – una frase che esprima in modo inequivocabile la vostra tesi: questo per evitare che i pensieri vi portino lontano, per evitare che il ragionare sulla tesi contraria, anziché demolirla, vi porti ad abbracciarla. Prendiamolo come un esercizio di retorica... Rosalba P.S. «Chi non ammette di avere torto può insegnare solo le tecniche» scrive Bateson. E io, con il tema a tesi non sto forse smantellando le «versioni molteplici del mondo»? Non sto esercitando l’abitudine di pensiero che le cose stanno in un modo solo? Forse è vero piuttosto che la vita ci pone, sì, di fronte a due o più possibilità, ma ci impone una scelta sola. E allora, aver acquisito l’abitudine a tenere fede a un ragionato, solido convincimento può esserci utile. Ma il dubbio resta... Con la retorica dell’argomentare attorno a una sola tesi mi pare di legittimare e rinforzare una

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prassi che i ragazzi già conoscono: di scontro frontale su posizioni rigide, che non fanno evolvere nuove idee (vedi i dibattiti televisivi). E la vita invece non è fatta così! *** Firenze, 1° dicembre Cara Rosalba, la cosa mi convince, anzi mi sembra ovvio che lo spazio da destinare alla lezione tutta e soltanto verbale debba essere ridotto a vantaggio dell’operatività e dei linguaggi visivi: è ovvio per la mia materia, per le materie tecniche e scientifiche si intende, dove spiegazioni ed esperienze di laboratorio si combinano necessariamente con una oralità a volte rigorosa, altre no, purché sia ‘viva’. Per quanto riguarda le mie personali abitudini, io adesso preferisco imparare studiando, e sui libri, ma è un’abitudine adulta: di fatto ho studiato più da insegnante sulla scuola che da studente a scuola, eppure anche in quel periodo ho imparato. Quando ho letto Oralità e scrittura di Ong mi sono fatto l’idea che i miei nonni vivessero ancora in una civiltà orale in quanto entrambi analfabeti, eppure non li definirei ignoranti. «Studiare fu un modo d’apprendere possibile solo dopo la scrittura e il possesso delle abilità relative» scrive Ong. I miei nonni invece avevano imparato molto anche senza studiare, sul luogo di lavoro e attraverso le relazioni della quotidianità. Mio padre ha interrotto gli studi alla quarta elementare, facendo appena in tempo a imparare a leggere e scrivere, tuttavia è divenuto imprenditore e per una vita ha mandato avanti una fabbrica con oltre cento dipendenti. Penso si possa dire che ha goduto per anni di una cittadinanza piena, anche culturale, eppure oggi fatica a prendere i soldi allo sportello bancomat. Non capisce quel linguaggio: le risposte da dare in un certo tempo per non tornare alla schermata precedente, la necessità di conferma

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del dato, la risposta da dare non su un rigo ma toccando un punto di una mappa bidimensionale. Per questo e per tanti altri motivi, oggi è un cittadino ‘minore’. Vorrei tanto che certi nostri ragazzi capissero il senso della ‘minorità’ che li attende rifiutando di imparare a scuola, ma so che non è nelle loro corde. E d’altronde, a inviare segnali contraddittori è la stessa ‘società del sapere’: da un lato moltiplica le fonti della conoscenza (mai usciti nel passato tanti libri, mai tanti documentari scientifici alla tv, e poi internet...), dall’altro non disdegna di allevare i giovani come semplici consumatori di beni. Offrire meno scuola a chi non vuol imparare è una scelta insensata, almeno quanto aumentargli le ore con i corsi di recupero al pomeriggio. Sarebbe come se una madre proponesse al figlio che non mangia solo scatolette e a tutte le ore. Anche se può apparire paradossale, nella mia esperienza il mal di scuola si guarisce solo con la scoperta del ‘gusto’ dell’imparare. Come quando, per esempio, i miei alunni imparano, nel senso più ricco del termine, le norme di sicurezza da seguire negli ambienti di lavoro lavorando il vetro ai bunsen del laboratorio di chimica. Norme apprese senza studio – poi verrà anche quello –, grazie all’applicazione in una procedura che per di più permette loro di farsi i propri strumenti di laboratorio. Li useranno tutto l’anno, compagni di lavoro e, insieme, oggetti carichi d’apprendimento, sottoponibili addirittura a una valutazione estetica – che si tratti di una definizione ‘ben fatta’ o dell’apprezzamento di una procedura. Oggetti e procedure carichi di significati, appunto. Ho sempre pensato che etichettiamo troppo schematicamente con ‘sapere’ e ‘saper fare’ due aspetti di un’unità ben più complessa e interconnessa, spezzando la relazione circolare che li lega, per leggerla come un senso unico che dal sapere ‘scende’ alle sue applicazioni. Per molti le cose non funzionano così, forse addirittura per nessuno. Beppe

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Roma, 2 dicembre Caro Beppe, ognuno di noi, specie se insegna italiano, dà ai ragazzi una ‘impronta’, uno stile dell’imparare che loro si portano dietro nel tempo. Può succedere allora che l’aver preso un certo stile da un certo insegnante non li metta del tutto in grado di affrontare le verifiche a cui altri li sottoporranno. Mi dirai che ciò che conta è che imparino a pensare. Forse per ‘insegnare a pensare’ io sacrifico le cosiddette nozioni... Ma no, non è così... Per far apprendere nozioni, per stabilire collegamenti, anche io – così come fanno tutti – delimito il campo isolando specifici argomenti (e come altrimenti si potrebbe insegnare?). Credo che il mio insegnamento sia molto cambiato da quando ho imparato qualcosa di cibernetica, di circuiti di retroazione e di processi ricorsivi, ma non saprei dirti come e dove si fa concreto ciò che ho imparato. Quello che so per certo è che, procedendo in modo cibernetico – ‘in negativo’ cioè: constatata l’alternativa che si è realizzata, interrogarsi sul perché le altre concepibili non l’abbiano fatto –, riesco ad afferrare la complessità dei sistemi viventi (i miei studenti compresi), e forse ad avvicinarmi, in positivo, all’atteggiamento ‘estetico’ che mi fa apprezzare le uscite ‘creative’ dei ragazzi e ogni sorta di passaggio di livello: come per esempio il negare qualcosa, che ha le sue regole, per affermare qualcos’altro sulla base di nuove, differenti regole. In 1ª G stavo spiegando la differenza tra descrizione ‘oggettiva’ e ‘soggettiva’ (qui la mia anima ‘costruttivista’ avrebbe dovuto ribellarsi: non esiste alcuna descrizione oggettiva, sono tutte mappe di un territorio la cui verità ultima non ci è dato conoscere; invece ho sorvolato, per ora). «Una delle caratteristiche della descrizione soggettiva è la ‘personalizzazione’ degli oggetti» dico, e cerco di esemplificare la cosa guardandomi attorno. La parete di fronte è occupata per intero da un attaccapanni: è vuoto, c’è soltanto un ombrello appeso dalla cordicella, prendo di lì lo spunto e dico:

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«L’ombrello se ne sta timido e solitario al gancio dell’attaccapanni». Capriati si alza e appende accanto a quello il suo ombrello. L’errore di Pomponio? Forse no. Infatti Capriati propone, e lo fa con l’escamotage dell’ironia, l’uso del livello pragmatico (‘estensionale’) della frase dopo averne attraversato mentalmente, e negato (con un computo velocissimo, quasi inconsapevole) l’uso ‘intensionale’. Rosalba *** Firenze, 3 dicembre Cara Rosalba, su alcune tue lettere sono rimasto indietro, e tento ora di mettermi ‘a paro’, come dicono i tuoi studenti. Lascio decantare ancora qualche giorno la lettera dove mi parli della segretezza nella scuola. Oggi voglio riprendere il discorso sulla distanza tra la lingua madre e la ‘lingua’ della scuola. È vero che la scuola non parla la lingua naturale dei ragazzi, rischierebbe di banalizzarsi. Si sa che l’uomo è l’unico animale che ha destinato un luogo e un tempo specifico per la trasmissione delle conoscenze. Atto volontario che ha prodotto un linguaggio tutt’altro che spontaneo, molto riflessivo e votato all’interpretazione e alla spiegazione. Ma io avevo in mente qualcosa di diverso. C’è stato un tempo in cui si poteva imparare anche senza studiare. L’esperienza quotidiana produceva un apprendimento che oggi non è più in grado di indurre. I motivi sono tanti e diversi. Certo, i lavori erano a minor contenuto teorico e rendevano efficace il semplice apprendistato sul luogo dove venivano svolti. Oggi la tecnologia dialoga con chi è istruito alla sua comprensione. Anche quando adotta linguaggi ‘amichevoli’, l’amico lo trova

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solo tra coloro che hanno transitato con un certo profitto sui banchi di scuola. Mi sembra giusto riferirsi alla tecnologia includendovi anche l’alfabeto (le pratiche del leggere e scrivere sono ‘tecnologiche’). Senza istruzione (senza alfabetizzazione) il mondo esperibile è ormai una fetta molto residuale dell’esperienza possibile e di conseguenza l’apprendimento che produce non è più sufficiente per garantire alcun tipo di cittadinanza, né sul lavoro né nella vita sociale. Vero, ma non basta. C’è qualcosa che cambia nel nostro modo di apprendere e, a un altro livello, dentro il mondo che deve essere appreso. Apro una breve parentesi per tornare al vecchio detto «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Proverbio ancora valido, ma è come se si fosse ribaltato: oggi è molto più facile ‘fare’ che ‘dire’; o meglio, ri-dire, come ricostruzione degli algoritmi che sottendono l’agire, almeno secondo quanto Longo sostiene nel suo Homo technologicus. Tuttavia ‘fare’ è un verbo bellissimo, che però a scuola ha avuto pochissima fortuna. All’epoca della pedagogia dell’attivismo si era tradotto nella priorità dell’agire manuale, con danni gravi per tutti. Nella pedagogia odierna, invece, torna come distinzione tra ‘sapere’ e ‘saper fare’, con il grande rischio che con essa tornino anche i danni di un tempo. Eppure ‘fare’ resta un verbo centrale nella vita di tutti e incarna il desiderio di lasciare traccia di noi nel mondo. Il senso comune – e forse non solo quello – tiene ‘fare’ e ‘desiderare’ ben separati. Sembrano divisi dall’abisso che separa il mondo materiale dall’immateriale, ma se «l’uomo è fatto della sostanza di cui sono fatti i sogni», allora questa distinzione è solo superficiale. Quando si ripensa al passato è sempre nella forma del cosa si è ‘fatto’ nella vita, non del cosa si è ‘imparato’ o studiato. Non ti sembra, allora, che ciò che chiediamo di imparare debba misurarsi con ciò che si è in grado di capire, fare, apprezzare per sé? Che

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cioè il nostro insegnamento debba collocarsi tutto in quello spazio di sviluppo possibile («zona di sviluppo prossimale» l’ha chiamata Vygotskij) che sta oltre le capacità degli studenti, ma non così ‘oltre’ da perdere il dialogo con loro ed essere seguiti solo da quelli che accettano le fatiche della scuola sempre e comunque, per il rispetto di regole altrove assimilate? Per dialogare bisogna conoscere il loro linguaggio e far conoscere il nostro. La mia curiosità verso la psicologia dell’apprendimento si spiega proprio per la convinzione che ne sappiamo ancora troppo poco. Eppure l’esplosione delle facoltà della mente che ha realizzato il ‘software’ alfabetico una volta ‘installatosi’ nel cervello, non è dovuto proprio al suo essersi veramente incorporato? Può darsi che abbia usato male il termine, ma l’importante è chiarire che non penso affatto a una scuola ‘materna’ nel senso che si limiti ad ‘assistere’ il bambino e la bambina nella loro crescita naturale. C’è un modo di apprendere che è incorporato nella biologia di ciascuno, che cambia nel tempo e su cui dovremmo interrogarci molto di più, se davvero vogliamo una scuola di qualità per tutti. Il problema, Rosalba, è che non solo cambia, si riduce, il ‘dire’ direttamente deducibile dal ‘fare’ tecnologico di oggi, ma la nostra epoca manda messaggi subdoli, di facile presa sugli adolescenti, che dicono che, in fondo, non c’è nemmeno ‘bisogno’ di dire. Si può ‘fare’ a tutti i livelli, oggi, grazie alle interfacce, ai linguaggi ‘amichevoli’ appunto, che la tecnologia ha interposto tra noi e il mondo e che lo rendono direttamente accessibile, apprendibile, addirittura senza alfabeti, né grammatiche da possedere. Cambia il modo di apprendere, non è sequenziale ma simultaneo, e cambia il modo in cui il mondo vuole essere appreso. La scuola fallisce da un lato perché non prende atto della psicologia dell’apprendimento – la sua ‘lingua madre’ –, perché ignora il pensiero narrativo e il fatto che, come tu mi scrivi, il vero apprendimento dev’essere emozionante («non c’è conoscenza senza pathos»); dall’altro perché la società ha bisogno di consu-

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matori. L’adolescente copre oggi una fetta dei consumi impensabile solo pochi anni fa. Esagero? L’anno scorso ho concesso ai miei allievi di seconda di andare al cinema nelle mie ore a vedere il film I cento passi. Il ‘ricatto’ a cui li ho costretti è stato quello di far loro scrivere un commento sulle differenze che vedevano tra la loro vita, e la vita, gli interessi di quei ragazzi siciliani. La maggioranza ha risposto che i ragazzi del film di Marco Tullio Giordana erano molto più impegnati, molto più irrequieti: per questo fondavano la radio libera e si ribellavano alle regole imposte dalla convivenza con la mafia. Ma la causa di ciò l’hanno trovata nel fatto che loro, oggi, «hanno molto di più». Hanno, a sentirli, quasi tutto quello che gli occorre: il cellulare che li tiene in contatto fra loro in maniera permanente, il motorino che allarga enormemente il loro territorio di pertinenza, la televisione in camera eccetera. Lo scrivevano, però, non con felicità ma quasi con dolore. Il contatto virtuale e la libertà di movimento sembrano ampliare la relazione ma non legano davvero, come ti ho già scritto. È il problema del ‘troppo pieno’ degli adolescenti, che è più difficile da combattere del ‘troppo vuoto’. Beppe *** Firenze, 4 dicembre Cara Rosalba, in una lettera del mese scorso mi parlavi di Di Vittorio. Al tempo in cui visse Di Vittorio la scuola era un modo per uscire da un orizzonte e conquistarsene altri. Il caso dello scrittore nero americano che scommette sull’andare a scuola, o meglio nell’andar ‘bene’ a scuola, per uscire dal ghetto ne è un ulteriore esempio. Ma questo messaggio di fiducia nella scuola come via di fuga e

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di autodeterminazione veniva lanciato dalla società stessa. Oggi, invece, alla fine del percorso di istruzione si prospetta ancora insicurezza e precarietà, celate dietro le esigenze di un mercato che promuove soprattutto lavoro flessibile e a tempo determinato. Per i soliti ‘non portati’ allo studio, la scuola propone saperi segmentati, velocemente ‘capitalizzabili’ per l’inserimento nel mercato del lavoro. ‘Competenze’ come figurine Panini da raccogliere in un album... Tutto va bene, tutto fa brodo. Come si fa, allora, a parlare di riscatto sociale e di uscita dal ghetto – dai tanti ‘ghetti’ della modernità – se la qualifica di saldatore ‘assolverà’ l’obbligo formativo e di istruzione e condannerà a un futuro da addestrato? C’è stato un tempo in cui non esisteva il supermercato dei futuri, disponibili per tutte le taglie; e non era la scuola a dover insegnare il valore della conquista del proprio avvenire. Era una consapevolezza diffusa, la base di partenza per affrontare le difficoltà del percorso. Ma se ciascuno trova il proprio orizzonte dipinto davanti al naso, perché rischiare il triplo salto mortale? Certo, i ragazzi non dovrebbero abboccare ai messaggi che li bombardano e dovrebbero rispondere con lo studio ostinato, accurato, rigoroso. Ma non credo ci possiamo permettere il lusso di lasciare che ‘il fiume faccia giri oziosi’ (come tu scrivi), né di attenderli lungo il cammino, perché in questo contesto sono sempre meno quelli che si mettono in cammino da soli. Dobbiamo andare a prenderli lì dove sono, e metterli in moto spingendo sul gusto dell’imparare – anche ‘perdendo tempo’ –, sulla bellezza del sapere disinteressato – il più rivoluzionario di tutti –, sull’emozione della scoperta dei propri talenti. E se si parla di gusto, ecco che torna la necessità di intervenire nel linguaggio-macchina (resto nella metafora informatica) dei ragazzi. L’unico dove non si risenta della povertà prodotta dall’adeguamento alle nuove, banalizzanti interfacce. Perché nella cosiddetta società dell’apprendimento, in realtà, è capace di apprendere solo chi ha già appreso prima. Se i ragazzi

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fossero formati in una buona scuola saprebbero gestire le interfacce senza farsi deformare da esse. Ecco cosa intendo per ‘alfabetizzazione alta’. Beppe *** Roma, 4 dicembre Caro Beppe, quando si legge in classe, come è salutare (per me) pensare insieme ai ragazzi. Ieri, per esempio, dal libro di geografia, una bella descrizione della Via della seta. E chissà come ognuno di loro si costruiva mentalmente gli scenari, e come avrei voluto essere nella loro testa per ‘vederli’! Insomma, mi sono fatta l’abitudine a leggere e a riflettere in compagnia. Se leggo da sola mi vengono solamente ‘brutti pensieri’ – oppure sono ‘belli’, ma li perdo subito. Ma veniamo all’oggetto di questa lettera: la ‘manipolazione’. Ieri ne abbiamo discusso al Circolo Bateson*; era con noi un amico psicologo. Ha detto che nel suo lavoro la intende come «una proiezione della sua personale immagine del mondo sull’immagine che ne ha ‘inconsapevolmente’ il paziente». Uno psicoterapeuta sa di cosa è fatto il mondo dei sogni del suo paziente – mentre questo lo sa senza saperlo – ed è (sarebbe) facile per lui riversare sul paziente il proprio mondo affinché ‘ristrutturi’ l’altro. È come se lo psicoterapeuta dicesse, senza dirlo però a chiare lettere: «È così che devi pensare quello che finora hai pensato». Questa, per il mio amico, è ‘manipolazione’. «Come ne esci?» gli * Il Circolo Bateson è un laboratorio di studio e di ricerca sull’epistemologia dei sistemi viventi. È stato fondato a Roma nel 1990 da un gruppo di amici interessati al pensiero di Gregory Bateson, in particolare alle teorie relative al fondamento biologico della vita e della conoscenza.

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abbiamo chiesto. E lui: «Cerco di creare le premesse perché il paziente ‘racconti delle storie’». Far emergere ‘storie’ non è difficile con gli studenti (anzi, a volte bisogna fermarli), ma nella psicoterapia bisogna attendere qualche volta mesi, e non è detto... Per indurre nel paziente un modo diverso di pensare, e quindi di agire, la strada più semplice non è forse quella che porta dritto dritto allo scopo? In un contesto di cura, dove c’è qualcuno che ha preso a cuore la sofferenza e la guarigione di un altro, se pure lo ‘manipola’ non lo fa per un proprio tornaconto ma per accorciargli il tempo del dolore. E a scuola? Le nostre strategie sono diverse caso per caso. Nello sforzo di contemperare rigidità e flessibilità siamo sostenuti dalla presunzione di poter dire, a conclusione di tutto: «Ce l’ho fatta!». Se poi sia morale raggiungere lo scopo ‘costi quel che costi’, vale a dire con mezzi che ci ripugnerebbe teorizzare come ‘giusti’ – punizioni, raggiri, ogni sorta di ‘trucco’ eccetera –, questa è storia vecchia quanto la storia dell’umanità. Rosalba *** Roma, 5 dicembre Caro Beppe, la collega di disegno ha suggerito che si nomini un tutor per i ragazzi che non vanno bene: così si fa nelle scuole francesi, ha detto. Ieri ho dato un’accelerata alla lezione per dedicare una delle tre ore alla nomina dei tutor. Mi sono dovuta inventare alcuni ‘bravi scolaretti’, perché il numero dei bisognosi di tutoraggio supera quella dei loro tutori. E così sono stati introdotti nuovi incarichi di responsabilità, nella quasi generale soddisfazione. «E a me chi mi guarda?» ha detto Marangoni, il quale all’onere di rap-

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presentare la classe (è stato votato contro il suo volere) deve ora aggiungere quello di controllare a vista Fleuri, che passa il tempo ad allenarsi a disegnare sul quaderno scritte per i murales. «Solo tu ci puoi riuscire» ho detto. Donati, che nasconde dietro un’espressione angelica molte furbizie, è stato affidato a Dario Petrone, il quale, salito immeritatamente di grado, ha nascosto subito un foglietto sotto il libro e, preso il compagno per il braccio, lo ha strattonato mentre stava scartando il panino (non suo) poggiato sul banco di dietro. Poi, per farsi perdonare, gli ha fatto tenere uno dei suoi guanti a mezzo dito. Alcuni accoppiamenti sono stati contestati, ma io non ho tenuto conto delle loro richieste. In conclusione, da adesso in poi, alla gerarchia unicamente incentrata nella posizione frontale – uno contro tutti –, s’è aggiunta una gerarchia interna a chi mi sta davanti. I banchi sono in file separate, non in cerchio, come si usava disporli negli anni (il ’68) in cui lottavamo contro la ‘scuola di classe’ e contro un autoritarismo reso manifesto dalla cattedra appoggiata sul piedistallo. Ero a Bari, inizio anni Settanta, e insegnavo alle medie, in un quartiere di poveri, un quartiere oggi si direbbe ‘a rischio’. La scuola era un orribile palazzo di nuova costruzione: le aule arrangiate al piano terra, al posto dei negozi rimasti invenduti e presi in affitto dal Comune – stanze anguste che si chiudevano con la saracinesca. Ricordo perfettamente due gemelli terribili che in classe giocavano a nascondino. Stavano attenti solo all’Iliade – Ettore che si scontra con Patroclo, poi con Achille –, e mentre i compagni parteggiavano a gran voce per l’uno o per l’altro, loro due impersonavano ciascuno il proprio eroe, facendo a botte sul pavimento. Magrissimi, portavano i pantaloni legati in vita con lo spago. Dopo aver lavorato a smantellare i banchetti del mercato rionale, giocavano fino a sera tardi per strada, solo sul tardi la madre tornava dal lavoro e finalmente apriva la porta di casa.

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In quegli anni mi sarebbe servita l’esperienza di scuola che ho adesso: anche se mi riusciva – non sempre, s’intende – di ‘tenere buoni’ i ragazzi, non posso dire di aver insegnato loro quello che sapevo e che forse avrei potuto insegnare (noi militanti nella sinistra aspettavamo la ‘rivoluzione’, ci sembrava che mutato il quadro politico il resto sarebbe venuto da sé). Da classi come quelle, dove regnavano ‘i gemelli di strada’ e i vari ‘Pomponio’, si usciva a fine giornata sfiniti con la domanda: «E domani, ce la farò?». Un giorno disposi i banchi in cerchio, ma presero ugualmente il sopravvento, con la differenza che dovevo contenere le loro sfrenatezze seguendo una strategia circolare. Rosalba *** Firenze, 6 dicembre Cara Rosalba, vorrei parlare della segretezza: vorrei parlarne anche come ‘spazio di rispetto’. Il primo anno in cui ero vicepreside, circa otto anni fa, un pomeriggio una madre venne a prendere suo figlio a scuola per portarlo a una visita medica. Era una signora dimessa, piuttosto giovane e di una loquacità fuori misura. Nell’attesa che il figlio arrivasse in presidenza, mi aveva raccontato la storia di tutta la famiglia. Ero stato io ad avviare la conversazione chiedendole che tipo di controllo dovesse fare il ragazzo e mi disse che lo portava dallo psicologo perché era anoressico. Io le chiesi di più, perché era la prima volta che sentivo di un’anoressia maschile (sembra che il fenomeno sia in crescita) e la signora mi raccontò che il ragazzo aveva cominciato a smettere di mangiare da cinque o sei mesi, quando era passato alla scuola superiore. Lui diceva alla

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mamma che aveva qualcosa in gola che lo infastidiva quando ingoiava, e saltava pranzo e cena. Da qui la prima diagnosi di anoressia. Era passato in cura da uno psicologo che aveva formulato una diagnosi molto più complessa e scomoda. La signora mi aveva già fatto capire che i rapporti in famiglia erano burrascosi, ma non per cose gravi: erano i litigi di tutti i giorni che pensava fossero comuni in tutte le famiglie. Invece il dottore aveva scoperto che i problemi del figlio erano cominciati dal momento in cui aveva abbandonato l’orario (anticipato) di uscita della scuola media, che lo portava a mangiare da solo in cucina, e aveva seguito quelli della nostra scuola che lo portavano ad essere a tavola insieme ai genitori. Il ragazzo non sopportava quella tavola, quelle voci alterate, forse le grida. Di conseguenza tutta la famiglia era stata messa in terapia. Un’esposizione inopportuna, prematura rispetto alla sua capacità di fare a meno di certezze fondamentali come l’equilibrio familiare, aveva prodotto nel ragazzo uno stato quasi patologico. Come se un meteorite fosse piombato nella sua atmosfera e avesse perforato la sua superficie. Ma tu mi poni il problema della manifestazione della gerarchia nella scuola, facendomi il bell’esempio di Ettore che si toglie l’elmo quando abbraccia il figlio ma mantiene la corazza. Bello, perché propone un punto di vista organico e vitale che unifica tutta la nostra esperienza. Eppure io non sono convinto di questa lettura della segretezza, cioè così ‘estroversa’ da richiedere segnali specifici di visibilità. Per farti capire come la penso, ti propongo ancora un’immagine della mia memoria. Di mio padre non posso dire che fosse il trionfo del calore paterno: semplicemente non era nelle sue corde. A maggior ragione, quando ci abbracciava e baciava percepivo il significato del suo gesto e, per opposizione, sentivo confermata la gerarchia familiare che poneva lui a garante della ‘salute’ economica della famiglia e nostra interfaccia con il mondo adulto. E questa gerarchia

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la sentivo proprio nell’istante in cui si negava e si scioglieva in un abbraccio. Era la percezione di una diversità di ruoli e responsabilità che si manifestava nella consapevolezza di un atto unico, raro. Una distanza a cui ero abituato, che non leggevo come freddezza, e che quando si accorciava esprimeva da sola tutto il significato del momento. Mio padre non si è mai dovuto preoccupare di togliersi la corazza. Mi faceva lo stesso effetto la sua pelle da adulto, con la barba che mi pungeva anche quando era fatta di fresco. Lo stesso capita ai miei figli con me: forse l’abbraccio della mamma ha sempre qualcosa di più gradevole di quello paterno. In altre parole, credo, come te, che la segretezza sia una conoscenza estetica, inconscia. Che i vincoli e le barriere siano indispensabili per il funzionamento degli organismi, ma è troppo pericoloso progettarne di artificiali. È fondamentale conoscerne il ruolo e preservare le superfici opache che permettono le relazioni nascondendo al contempo i meccanismi intimi e profondi dei reciproci funzionamenti, ma bisogna lasciare all’evoluzione – tanto delle specie quanto delle strutture come la scuola – il compito di indicare quali sono quelle necessarie e quali quelle dettate da interessi particolari e, spesso, di potere. Beppe *** Firenze, 7 dicembre Cara Rosalba, voglio tornare sul tema della segretezza. Tenere segreto il voto, com’era nella scuola di una volta? Io ho sempre detto e dirò sempre il voto che assegno. Lo spiego, ovviamente, ma succede anche che i ragazzi non lo trovino giusto comunque. In questi casi non ho mai pensato di appellarmi

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all’oggettività della prova o sciocchezze simili: richiamo i ragazzi alle diverse responsabilità, loro e mie, e chiarisco che io, le mie, me le assumo fino in fondo. Per essere più chiaro, dico fin dai primi giorni di scuola che i voti li do io, punto e basta; non si discutono o contrattano, ma per non essere letto come autoritario cerco di far vedere quanta mole di loro lavoro utilizzo per la valutazione: test, relazioni, riflessioni scritte – quando ci troviamo di fronte a un problema di laboratorio –, risultati delle ricerche eccetera. Spero che i miei alunni imparino a valutarsi attraverso i modi della mia valutazione, quindi faccio molta attenzione ad assumere decisioni coerenti, il più possibile prevedibili. Vorrei, in altre parole, offrire come tu dici qualcosa che non cambia, una ‘forma’ su cui proiettare i processi per riuscire a leggere il nuovo che portano con sé. Tra retroazione e calibrazione c’è una circolarità che non si spezza mai. In ogni singola azione ci vedo l’una e l’altra. Per fare un esempio, pensa alla lettura dell’ora con un orologio. In laboratorio abbiamo un orologio di quelli moderni, senza numeri sul quadrante. Chiediamo ai ragazzi di scrivere secondo loro che ora è esattamente, deducendola dalla posizione delle lancette. Poi facciamo la media delle loro opinioni e scriviamo l’ora con l’indicazione dello scarto massimo dalla media: la precisione è sistemata. Poi cominciamo a porre altre questioni: siamo davvero sicuri che sia quella l’ora esatta? E se l’orologio va indietro o avanti? Se addirittura fosse fermo? La precisione della ‘macchina’ non si riduce ripetendo le prove con la stessa macchina. A questo punto c’è sempre qualcuno degli studenti che si accorge che l’unico modo di scoprire la precisione dell’orologio è confrontarlo con altri orologi. Una volta ‘calibrato’ l’orologio, della sua accuratezza potremo far tesoro per tutte le nuove serie di misure. Se fosse questo il ‘qualcosa che non cambia’? Questo modo complesso di imparare e decidere, che coinvolge sempre diversi livelli? A scuola, allora, più che ripensare a nuove e vecchie segretez-

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ze – un terreno molto scivoloso – si potrebbero moltiplicare i punti di vista e le descrizioni degli apprendimenti, cosicché, se è vero che il singolo caso non modifica la classe dei casi, imparare a ‘scegliere’ i casi significativi e il ‘modo’ della loro lettura possono diventare l’autovalutazione. Che, non scordiamolo, è capacità di agire. Non è sul voto che entra in gioco la segretezza, ma sulla valutazione della valutazione. La segretezza non è la negazione di un esito, ma la difesa della complessità dei meccanismi e delle misure che ne stanno alla base. Beppe P.S. Parlando di segretezza dicevi tra l’altro: «Quel prendersi cura dei ragazzi, ma mai fino in fondo». Aspetterò che sia finita l’occupazione per rifletterci di più sopra. Tuttavia ti confesso che non ho simpatia per chi vuole invadere tutti i campi dell’azione. Se anche gli angeli riconoscono delle soglie, e quindi esitano, possibile che noi umani non ne riconosciamo alcuna? *** Firenze, 8 dicembre Cara Rosalba, oggi ritorno a parlare di scienza, che mi permette di fare meno chiacchiere in astratto. La scienza, come tu mi ricordi, non è certo fondata sul senso comune. Spiega il noto per mezzo dell’ignoto, proponendo teorie antintuitive per spiegare cose che sembrano spesso banali. Il linguaggio della scienza non è naturale ma è comunque profondamente radicato nella natura umana e nell’esperienza. Si fonda sul desiderio di spiegare, richiede immaginazione e rigore, ricorre a doppie descrizioni come moltiplicazioni dei punti di vi-

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sta. Non è solo linguaggio riflessivo, formalizzato. È soprattutto un punto di vista che si può apprendere ‘naturalmente’. Per farti capire cosa intendevo quando ti ho scritto che bisogna ridurre la distanza con la lingua madre dei ragazzi, ti riporto le pagine di due quaderni di scienze di alunne di una quarta elementare di Barberino di Mugello (le uso spesso nei corsi del Cidi perché mi sembrano molto significative). Si tratta del resoconto di due esperienze fatte in un’aula normale, senza attrezzature particolari, ma con un esito tutt’altro che comune: «Riscaldiamo una piccola quantità di acqua distillata. Descrivi quello che succede all’acqua nel becher. Oggi abbiamo provato a riscaldare su una piastra elettrica un becher con l’acqua distillata. All’inizio all’acqua non succedeva niente. Piano piano abbiamo visto che si iniziavano a formare le prime bolle. Non erano molto grandi, anzi, erano proprio minuscole quasi da non accorgersi che c’erano. Alcune erano depositate sul fondo e salivano in superficie piano piano. Dopo si è iniziato ad appannare il becher e a uscire sempre più fumo. Poi da quando il becher si era appannato cascavano gocce. L’acqua stava diminuendo e salivano sempre più bolle ed erano più grosse di quelle all’inizio. Finché l’acqua è iniziata a bollire. Si sentiva il rumore delle bolle che scoppiavano. Era un rumore piacevole! Dopo abbiamo lasciato la piastra elettrica accesa per un po’. Adesso nel becher non c’è quasi più acqua distillata». Una descrizione ricca, curiosa, anche poetica. Di solito questa fase di osservazione e descrizione viene saltata perché sembra troppo poco astratta e concettuale. Si pensa che l’evaporazione e l’ebollizione siano fenomeni noti perché i termini sono conosciuti nella vita quotidiana. Allora ci si concentra sulla spiegazione più generale e formalizzata. La più accreditata in questo senso è quella che descrive l’ebollizione come il

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passaggio di stato che avviene quando la temperatura raggiunge il punto in cui la tensione di vapore del liquido raggiunge la pressione atmosferica. Anche se può darsi che qualcuno la semplifichi un poco, di solito si tratta di una banalizzazione, teoricamente ineccepibile. Si commette quindi ancora un errore epistemologico nel giudicare semplici i concetti come quello di ‘pressione atmosferica’ (a volte anche quello di ‘tensione’ dato che si può tradurre con ‘tendenza a’) perché di uso comune nella vita quotidiana. Spero tu sia d’accordo nel giudicare che questa pratica, la più comune a scuola, non è assolutamente ‘alfabetizzazione alta’, non è insegnamento, ma addestramento, indifendibile da qualunque punto di vista. C’è stato un tempo in cui gli alunni erano disposti a imparare a memoria queste ‘pappardelle’ incomprensibili; oggi di questi alunni se ne trovano sempre meno, ma di quel tempo non ho nessuna nostalgia. Altro esempio: esperienza sulla solubilità. La maestra ha posto il problema di che fine fanno le sostanze che ‘spariscono’ in acqua. La classe ha deciso di fare delle ricerche sulle soluzioni: «Per verificare se le sostanze solubili sono ancora nell’acqua oppure no, abbiamo deciso di riscaldare le tre soluzioni: 1) acqua distillata e sale 2) acqua distillata e zucchero 3) acqua distillata e solfato di rame. Giovedì 11 marzo siamo scesi in laboratorio, abbiamo preso tre bacchette di vetro, tre capsule e un fornellino. In una capsula ci abbiamo messo il sale e l’acqua demineralizzata, nell’altra lo zucchero e l’acqua demineralizzata e nell’ultima il solfato di rame e l’acqua. Poi con le bacchette le abbiamo mescolate. Quando il fornellino era pronto per riscaldare le tre soluzioni abbiamo appoggiato la capsula con il sale e l’acqua. Vedevamo che l’acqua bolliva e alcune bollicine uscivano dalla capsula e si andavano a posare sul banco e quando scoppiavano si vedevano i chicchini del sale. Dopo un po’ l’acqua iniziava a diminuire e si iniziava a vedere

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il sale appiccicato ai bordi della capsula. Dopo abbiamo provato a mettere sul fuoco lo zucchero e l’acqua, dopo un po’ meraviglie delle meraviglie! Si iniziava a sentire l’odore del caramello e poi lo zucchero si è caramellato! Poi abbiamo messo la capsula del solfato. L’acqua diminuiva e bolliva. Quando l’acqua era sparita, si vedeva il solfato di rame sul fondo. Sul tavolo c’erano bollicine azzurre. Mi ero sbagliata! Credevo che le sostanze fossero sparite invece da questa verifica ho la prova che ci sono ancora!!!». Qui c’è rigore e immaginazione, riflessione e sorpresa, anche coinvolgimento emotivo. Ciò avviene quando gli insegnanti portano gli allievi a ricostruire il clima avventuroso che caratterizza la vita degli scienziati, a non limitarsi a un resoconto della scienza finita che potremmo definire ‘morta’. Questa è l’‘alfabetizzazione alta’ che io vorrei. In questo senso non la considero estranea alla lingua madre dei ragazzi, perché vi affonda le radici, anche se poi si staccherà cercando l’ignoto delle spiegazioni più ricche e complesse. Mi fermo qui. Ti scrivo dalla presidenza, con la scuola in occupazione, e mentre scrivo mi arrivano continuamente sollecitazioni ad altri discorsi, a collegamenti che mi dispiace far cadere o rinviare. A presto. Beppe *** Roma, 8 dicembre Caro Beppe, anche io oggi ho sentito la parola che ogni anno, tra novembre e dicembre, secondo un rituale ormai (malamente) collaudato si ripresenta carica di promesse e di minacce: autogestione.

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Mercoledì terranno un’assemblea. Staremo a vedere. Negli scorsi anni li mettevo in guardia da avventure dissennate, questa volta ho preferito lasciar perdere. Da noi assemblea (le poche volte che si fa per davvero) e autogestione sono uno sbraco totale. Funziona bene soltanto il servizio d’ordine, che i capi organizzano con geometrica precisione perché riesca il gioco di guardia e ladri: se da ‘autogestione’ si passa a ‘occupazione’, vengono occupate le aule sotto la stretta sorveglianza di quelli che con la fascia rossa al braccio vigilano. L’esperienza mi dice che pochi ragazzi se ne avvantaggiano (acquistano durante l’autogestione una ‘sapienza’ nuova), mentre tutti gli altri, che proprio a novembre hanno cominciato a ‘entrare nella macchina’, si perdono. Abbiamo parlato in altre lettere dell’importanza del rito, di una ‘cornice rituale’ affinché l’apprendimento prenda forma e si sedimenti (lo so, il rito può uccidere l’immaginazione... ma noi due sappiamo farne buon uso, vero?). Per noi, lo scorrere uguale del tempo si combina con l’attesa vigile dell’imprevisto, e questo puntualmente arriva e dà nuova vita ai nostri piani, senza sconvolgerli. Ma quando la rottura della cornice rituale ha carattere di ‘punto di svolta’, di esperienza che ristruttura il contesto e chi ci sta dentro, il contesto appare in una luce nuova: una sorta di ‘nuova verità’, un passaggio di livello. Interrompendo bruscamente (e in modo traumatico) il tran tran quotidiano, l’autogestione potrebbe portare alla luce la natura della scuola e di ciò che a scuola si fa; insomma, la natura politica dell’istruzione, con il suo corollario di domande sul come e sul perché, sui rapporti di potere – a scuola e fuori della scuola – eccetera. Così è stato nel ’68, così è stato, in seguito, in certi casi isolati (anche il ’68, però, non fu esperienza di massa). Invece, da noi, nella nostra scuola, i più ne escono spenti o vergognosi per non aver saputo onorare le aspettative. A parte le eccezioni. Come quell’allievo di qualche anno fa,

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Piero Zampa, sempre pronto al dibattito, ad accogliere ogni novità. Viene mandato a una assemblea cittadina, un coordinamento studentesco che si tiene al Tasso, lo storico liceo romano da sempre politicizzato. Il giorno dopo torna che gli occhi ancora gli brillano: «Lì è diverso» diceva ai compagni. «Voi non ve lo potete nemmeno immaginare quant’è diverso là: quelli ‘discutono’!!!». Fu quell’anno che suggerii a un gruppetto di incerti ‘l’autogestione del ripasso’. Dissi: «Mi volete?». Loro dapprima no, poi mi vennero a cercare. Furono due settimane intense. Sette persone sui libri, a ragionare, a imparare le minuzie. Passavamo intere mattinate immersi nel laboratorio di scrittura. Vidi in due di loro brillare davvero gli occhi alla scoperta di quanto c’è di ‘artificioso’ nel mestiere dello scrivere, quando sperimentavano i trucchi della retorica, o quando prendevano atto del carattere altamente formale del linguaggio scientifico e apprezzavano l’eleganza di una definizione. Ecco, quella volta ho capito come non mai che cosa può essere un insegnamento partecipato, quanto conta la forma della partecipazione, e quanto sia cruciale il contesto: un tempo disteso, nessuna urgenza di finire al suono di una campanella, un luogo non affollato, l’assenza di variabili ‘distraenti’ (gli altri, gli sfaccendati, erano in giro a tirare calci al pallone), una condizione di ‘intimità’, così necessaria allo studio. Fu da quella esperienza che imparai a programmare diversamente la scansione delle lezioni: non più un’ora di questo e un’ora di quest’altro. Non più grammatica, antologia, storia diluite nell’arco della settimana. No. Una sola materia al giorno, anche per tre ore di seguito un solo argomento, e per certi periodi e per certi argomenti si andava avanti per tutta la settimana. Così faccio ancora adesso. Quindi, l’autogestione serve. Rosalba ***

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Roma, 9 dicembre Caro Beppe, la campanella dell’autogestione è suonata. Le mie due classi questa mattina erano dimezzate. Ho fatto una lezione dimezzata. Un ragazzo di terza è entrato come una furia («E voi, che fate qua?») e ha spiegato agli indecisi le ragioni della protesta: le porte antincendio si aprono al contrario! «Perché non chiedete al Consiglio d’Istituto che le aggiustino?» ho detto. «Non ci hanno fatto fare le prove di evacuazione» ha risposto lui, leggendo da un foglio che aveva in mano. Devi sapere che la mia scuola, costruita da ingegneri di una volta, quelli tutti d’un pezzo, una scuola dove ha sempre insegnato e insegna un buon numero di ingegneri, i quali tengono a norma i laboratori e il resto, è una delle più sicure del mondo. (Ti aggiornerò sugli sviluppi.) Caro Beppe, quante volte negli anni passati abbiamo chiuso gli occhi di fronte a situazioni che gridavano vendetta! E cosa imparano i ragazzi da questo andazzo? Che idea si fanno dei diritti e doveri di una democrazia? Quando la scuola, da essere riservata a una élite, diventa scuola di tutti, non c’è altra scelta: deve essere rigida. Il modello? Il primo che mi viene in mente è Barbiana. Rosalba *** Roma, 10 dicembre Caro Beppe, tu dici sempre che occorre dare senso a ciò che si fa. Questo ‘dare senso’ a ciò che a scuola si fa viene inteso da alcuni come un dover giustificare e adattare le scelte di metodo e di contenuto alla luce della contemporaneità, alla vita – questa sì, vera – fuori

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della scuola. Quando invece – e questo lo credo fermamente – la scuola ha senso se è ‘sensato’ ciò che si fa all’interno di un progetto che non è detto sia ‘sensato’ visto dall’esterno. Faccio un esempio. Che vuol dire ragionare ore e ore attorno alla morfologia del soggetto o alla scansione dell’endecasillabo? I miei ragazzi, futuri meccanici, informatici, elettronici, usciti dalla scuola mai troveranno chi gli chiederà conto di cesure ritmiche e di concordanze morfologiche. Queste cose hanno senso per due soli motivi: 1) se vengono imparate bene, con il necessario rigore; 2) se hanno attinenza con un programma più generale, deciso per tutti. So che questo mio ragionamento vale anche per le materie scientifiche. Però noi di italiano ci attardiamo attorno a questioni per loro natura obsolete e perciò stesso svincolate da una utilità ‘pratica’ (i poeti minori del Quattrocento: bah!). E credo che qualcosa di simile valga anche per le scienze, quando educazione scientifica significa non soltanto descrivere il mondo con categorie scientifiche, ma anche acquisire un atteggiamento estetico (Bateson riusciva a vedere nella disposizione delle parti di un fiore una ‘dissertazione metafisica’). Insomma, prendiamo un ragazzo che viene da una famiglia non istruita, non in grado di colmare da solo le eventuali mancanze della scuola, un ragazzo che in casa ha sì, magari, «una stanza tutta per sé» ma ha anche una televisione tutta per sé, e quindi una sconfinata libertà di sconfiggere la ‘noia’ dello studio. A certi ragazzi cresciuti scolasticamente a metà succede che arrivino all’età critica senza aver mai conosciuto una sola giornata di studio abbastanza severo da mettere alla prova le proprie capacità. E allora? Allora qualcuno, a un certo punto, lo studio glielo deve imporre! E questo qualcuno deve essere convinto che l’esercizio del suo ruolo comporti necessariamente una condotta rigida – e anche, ma non solo, non troppo, flessibile. Quando parlo o scrivo di intransigenza, o della complementarità di rigore e immaginazione, e metto l’accento sulla parola rigore, mi spaventa l’idea che qualcuno intenda i miei discorsi co-

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me un vagheggiare puro e semplice la scuola del passato. Mi è già accaduto di essere accusata di questo. A mia difesa posso dire che cerco sempre di fare attenzione al punto cruciale ‘dove gli angeli esitano a mettere piede’. Sentire empaticamente le ‘ragioni’ e il ‘cuore’ dell’altro (sia l’altro un essere umano, un animale, una pianta) è una cosa che si impara. L’empatia, per quanto oscura, è anch’essa una ‘disciplina’, e chissà se basta una vita per non sbagliare, per sbagliare di meno. E chissà che tenendo in classe i ragazzi a fare ‘mezze lezioni’, in giorni, questi, dove i loro compagni partecipano alla baraonda che infuria nel cortile, io non li stia privando di un’esperienza ‘necessaria’. Ma com’è che non esiste mai una sola verità?! (Doppia, molteplice descrizione, doppia, molteplice verità... su questo continuo ad arrovellarmi.) Rosalba P.S. A proposito di empatia: ho letto che gli operatori del filmdocumentario Il popolo migratore, dopo le lunghe ore passate in cielo a filmare gli uccelli così da vicino da sentire il loro affanno, quando scendevano a terra scoppiavano in un pianto disperato. *** Firenze, 11 dicembre Cara Rosalba, mi parli dell’autogestione del tuo Istituto. Nel mio è appena finita l’occupazione e prendo lo spunto per tornare sulla ‘cura’ e sulle soglie del nostro agire, se vi sono. Ti sento molto amareggiata e non mi stupisce: anch’io sono anni che cerco di capire cosa pensare di queste autogestioni/occupazioni che, quando vanno bene, offrono molto a pochi stu-

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denti e pochissimo a molti. Di solito se ne parla come delle vendemmie: quest’anno è andata bene, meglio dell’anno scorso, oppure è stata un’annata da dimenticare. Fenomeno stagionale, ineluttabile e imprevedibile. Due anni fa nel mio Istituto fu appunto una di quelle annate da dimenticare. I ragazzi pretendevano autogestione e occupazione, senza neanche fare la fatica di un’assemblea o di una qualunque altra forma di consultazione fra loro. Decidemmo che in queste condizioni non avremmo concesso le aule e, fatti entrare i ragazzi che volevano fare lezione, chiudemmo le inferriate dell’ingresso. Fu un errore – adesso è facile dirlo, ma allora sembrava la risposta più giusta da dare a loro – e scatenò il finimondo. I ragazzi con meno parole e idee, che ripongono per conseguenza più fiducia nel potere dirimente delle braccia, quando videro l’ostacolo fisico delle inferriate caricarono l’ingresso. Seguirono scene da stadio delle quali preferisco non parlare. Di qua dall’inferriata, noi insegnanti allibiti e costernati; adulti incapaci di qualunque azione di fronte a una situazione di quelle che nella vita di tutti i giorni si cerca solo di evitare. In quei momenti lunghi e tesi, ricordo di essermi chiesto come fosse possibile che studenti e insegnanti, protagonisti di due contesti così apparentemente inconciliabili, potessero dopo qualche giorno superare una tale frattura e ritrovare un terreno comune di lavoro e dialogo. Eppure, anche in quella situazione quasi drammatica, fu possibile che la Becheroni, professoressa di anatomia, riconoscesse un suo alunno subito di là dall’inferriata e lo chiamasse per nome. Il ragazzo le sorrise e iniziarono una discussione molto civile, amichevole e rispettosa. Un momento di scuola di tutti i giorni, ma, in quel mattino da incubo, una perla che pareva brillare di luce propria. Alla fine un varco lo trovarono e l’Istituto fu occupato, non senza subire le conseguenze di tanta tensione accumulata. E poi? Nulla. Tutto un passeggiare avanti e indietro, nessuna idea su cosa farsene della scuola finalmente conquistata. Dopo un paio d’ore,

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o poco più, i ragazzi si fecero mandar fuori senza nessuna difficoltà: bastò far osservare loro che non stavano facendo nulla e che noi dovevamo fare le pulizie. Il nulla di quella occupazione aveva ingoiato anche loro. L’anno scorso cominciò sotto i peggiori auspici. Arrivati alla stagione propizia per le autogestioni, chi entrava doveva percorrere la scalinata coperto dai fischi di chi se ne andava. Ma nessuno osava mettere piede nella scuola se non per fare lezione: era come se del vuoto di idee messo in mostra l’anno prima tutti avessero coscienza e paura. Poi la sorpresa: salta fuori un gruppetto di studenti di quarta con una sigla mai sentita (Naps) che stampano dei volantini molto efficaci sulla riforma e anche ricchi di autoironia sullo stile di vita giovanile. Una mattina mi chiedono microfono e amplificatore e sulla scalinata tengono per un’ora i ragazzi a discutere dei comportamenti dell’anno precedente. C’era moltissima autocritica su quello che era avvenuto e un taglio politico molto più netto. Beppe *** Firenze, 12 dicembre Quest’anno il gruppo dei Naps ha di nuovo guidato l’autogestione con un radicalismo maggiore dell’anno scorso, ma tutto sommato con responsabilità. Mentre l’anno prima ci avevano chiesto di controllare che nessuno fumasse nelle aule e ci chiamavano a buttare fuori i ‘grandi’ di quinta del Tecnico (loro, di terza e quarta del Professionale, si sentivano un po’ in soggezione), quest’anno invece hanno chiarito subito che l’occupazione «non si fa d’accordo con il preside» e non si deve chiedere il permesso. Ovviamente non è andata proprio così, si è contrattato molto fra le parti, fino alla possibilità di dormire nell’Istituto, cosa che i

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ragazzi hanno imposto accettando però di usare la palazzina che abbiamo destinato allo scopo. Non c’erano i duemila e passa alunni dell’Istituto, ma la presenza è stata sorprendente, con film e dibattiti molto seguiti e qualche classe che ha scelto di svolgere comunque lezione. Che dire in conclusione? Che forse è vero che pochi se ne avvantaggiano e molti ne escono delusi «per non aver saputo onorare le aspettative» come tu dici, eppure ci sono state cose che ci hanno colpito tutti. Il gruppo di lavoro per la scrittura degli striscioni, ad esempio, ha appeso per la prima volta la frase che il professore (parole di un professore! Ti rendi conto?) dice al giovane Holden «Ciò che distingue l’uomo immaturo è che vuole morire per una causa, mentre ciò che distingue l’uomo maturo è che vuole vivere per essa». La mia ex alunna Sonia Montagni, ora in terza al chimico-biologico, si è molto impegnata in tutta la settimana dell’autogestione; l’ho trovata a scuola sia al mattino che al pomeriggio e allora sabato, l’ultimo giorno, le ho chiesto come fosse andata per lei, che non sapevo così impegnata. Sonia mi ha detto che era stanchissima, che non aveva mai spazzato così tanto in vita sua e che era arrabbiatissima con chi votava per l’autogestione e poi se ne stava a casa, ma in fondo era felicissima: aveva conosciuto più ragazzi in quella settimana che nei tre anni precedenti e ne aveva conosciuti ‘di molto in gamba’. «Professore, questi ragazzi del Naps sanno un sacco di cose! E io ho imparato tantissimo!». E mi ha garantito che avrebbe continuato ad andare alle riunioni anche quando la scuola sarebbe tornata alla normalità. Che dire? Sonia mi è venuta in mente quando mi hai scritto del tuo Piero Zampa, al ritorno dal Tasso. Certo loro due potrebbero essere buoni esempi di quei ragazzi che, come tu dici, sanno avvantaggiarsi dell’autogestione. Ognuno vede il gradino che la sua gamba può fare, ma ciò che conta è che per vederlo bisogna comunque alzare lo sguardo, e poi, per decidere di salire nonostante la fatica che potrà significare, bisogna desiderare quel nuo-

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vo punto di vista. Ho sempre pensato che la differenza tra gli studenti bravi e i non-bravi parta proprio dalle diverse direzioni dei loro sguardi, da ciò che imparano o non imparano a desiderare. Beppe *** Firenze, 13 dicembre Cara Rosalba, come vedi, torniamo sempre sul problema del come insegnare a chi non vuole imparare: nessuno mi toglie dalla testa che Sonia nell’autogestione (dentro la scuola, quindi) abbia trovato un motivo per imparare, scoprendo un modello positivo di adolescente istruito. Un modello comprensibile per una studentessa come lei, alla sua portata. Ecco qualcosa che noi trascuriamo, Rosalba. Ma se è ovvio, almeno tra noi insegnanti, che per insegnare a chi non vuole imparare – senza per questo trascurare i bravi – ci vuole una buona scuola, non sarei come te sicuro che l’autogestione la faccia peggiorare. Tu scrivi che la vedi come un’occasione persa per far risaltare «la natura politica dell’istruzione»; io non lo direi, perché oggi non sono le occasioni a mancare, ma gli adolescenti capaci di coglierle. Nel ’68 la scuola era una barca scossa dai venti della rivolta giovanile, oggi è la scuola il vento che deve portare le barche degli studenti fuori dalle secche. Tutto è così diverso che non mi paiono possibili confronti. Anni fa i ragazzi – certo, non tutti nemmeno allora – partivano dall’analisi politica per decidere il loro agire; oggi è il loro agire che li porta alla politica. Chiaro allora che è un punto d’arrivo molto più maturo, non più il punto di partenza come lo fu, confuso quanto vogliamo, per la nostra generazione. Ma perché minimizzare cosa può succedere ai ragazzi che sanno avvantaggiarsi delle più diverse situazioni?

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Tu, Rosalba, mi scrivi frasi nette e decise – che la scuola per tutti deve essere rigida, che deve aver senso all’interno di un progetto che non è detto sia ‘sensato’ visto da fuori –, al punto che ho la sensazione che ti sia esposta molto più del solito in quella lettera. Come se fossi scesa a un livello più profondo di riflessione sulle tue convinzioni di insegnante, sotto la spinta di questa sospensione del tempo, nel quale la scuola rivela, per negazione, i suoi presupposti più profondi. Mi scrivi che è stato nel caos di settimane di questo tipo, a contatto con studenti sfaccendati che giocano al pallone nei corridoi e siedono sulle cattedre, che hai sperimentato con pochi di loro un diverso tipo di lezione, che mantieni ancora adesso. Tu stessa concludi che l’autogestione allora serve, può servire. Su questo io la penso come te, e credo che un processo analogo, nelle debite proporzioni, si sia messo in moto nella mia Sonia. L’autogestione l’ha costretta a un inevitabile posizionamento rispetto a cosa stava avvenendo. Quando l’azione parte dagli studenti, con tanto di votazione classe per classe, loro dopo si giudicano. Sonia ha giudicato la preparazione dei ragazzi più in vista (e quel suo «Quanto sanno!» mi fa sperare che abbia giudicato nelle forme che la scuola le ha insegnato!); ha anche dato giudizi sull’assenza dei compagni che dal canto loro hanno giudicato l’autogestione per poi scegliere di rimanere a casa. Tutti quindi, sia i presenti che gli assenti, sia quelli che si sono davvero impegnati nei gruppi che quelli che hanno giocato al pallone nei corridoi, che quelli che hanno proseguito le lezioni: tutti hanno appunto scelto. Certo, ci saranno molti studenti che hanno eluso la riflessione sui propri comportamenti, però in molte classi, alla ripresa delle lezioni, ci sono state aspre discussioni tra gli alunni grazie al fatto che l’etica della partecipazione è molto più sentita dell’etica dell’impegno scolastico. In qualche modo allora, individuale o collettivo, si può sperare che un ripensamento ci sia stato. Che quel

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‘vuoto’ messo in mostra diventi ingombrante e scandaloso per loro stessi nel momento in cui dilaga nella scuola e ne ferma le lancette. Ma non credo che sia giusto giudicare, Rosalba: il loro non è, non è più, un vero attacco alla istituzione-scuola e non mi pare che ci interroghino in quanto insegnanti di una disciplina. Nella nuova ritualità delle occupazioni vedo non la domanda di gestire la scuola – com’era nel ’68 –, ma il suo ‘tempo’, sempre più prezioso perché sempre più l’unico che scandisce, per ragazzi e ragazze, un’esperienza collettiva. Quello che vediamo durante le autogestioni non è il risultato di quello che si è o non si è insegnato, né il teatrino di studenti che vogliono sostituirsi ai docenti. Parlano anche di scuola, ma soprattutto parlano a scuola di altro. E quelli che non parlano di nulla rappresentano il dramma di ragazzi che non hanno nulla di cui parlare e non sembrano soffrirne. Ma sarà poi così? Alla fine dell’autogestione c’è sempre del materiale che gli studenti hanno elaborato. Quest’anno, come ti ho detto, è stata ‘una buona annata’, con parole d’ordine e articoli per il giornalino piuttosto ben fatti (penso a un «Voi dateci la cultura che il lavoro ce lo scegliamo da soli»), eppure non è stato l’aspetto più importante. D’altra parte questi periodi non intaccano l’energia collaterale che manda avanti la scuola. Quel ragazzo che due anni fa parlava con la Becheroni lo faceva nel nome di una pratica quasi quotidiana di relazione che superava di slancio l’inferriata che li divideva; era una storia comune che negava la tensione, come se quella conversazione stesse avvenendo su una nuvola scesa per puro caso sulla scalinata. Voglio dire che c’è una ritualità che non si deposita nell’edificio ma che, in una buona scuola, si conserva nei soggetti. Forse, come accadeva nelle vecchie civiltà orali, diventiamo memorabili per opposizione, quando veniamo negati. Ho già scritto troppo. Ti sarai accorta che non ho ripreso le tue

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parole più decise, quelle che dici potrebbero essere lette come una spinta verso un ritorno alla scuola del passato. So bene che non intendi questo e so anche cosa intendi per intransigenza e costrizione allo studio. Sono d’accordo, pur continuando a pensare che non è questo il centro del problema. Già la legge sancisce l’obbligo scolastico, che ha molti significati, certo non ultimo quello di obbligare allo studio. Bateson ha chiarito come gli organismi viventi comunichino grazie a fonti d’energia collaterali: «Se date un calcio a una pietra, essa si muove con l’energia che ha ricevuto dalla vostra pedata; ma se date un calcio a un cane, esso si muove con l’energia che ricava dal suo metabolismo». Il nodo non risolto è quale sia, oggi, la «energia collaterale» dei ragazzi (la motivazione, il desiderio ecc.) e come noi possiamo metterla in moto per sostenere il loro studio. Ma questo è uno dei nostri fili conduttori e non necessita di una risposta diretta. Basta che il mio non rispondere tu non lo legga come una lettera non scritta... Beppe *** Roma, 13 dicembre Caro Beppe, ieri pomeriggio abbiamo consegnato nelle mani dei genitori il ‘pagellino’ (non ha lo stesso valore della pagella di fine quadrimestre, ma questo i genitori non lo sanno). Immagina il mio sgomento al sovrappiù di informazione, quando vengo a sapere dalla madre di un ragazzo le storie di famiglia, com’è lui adesso, come era prima, come lo giudicano i parenti... e devo perciò riaggiustare il tiro sulla base dei nuovi racconti, accostare al mio il loro punto di vista.

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Quanto sarebbe comoda una ‘visione semplice’, poter dire e pensare che le cose stanno in un modo solo! Purtroppo, però, sappiamo per certo che le cose non stanno mai in un modo solo, che due, tre descrizioni sono meglio di una. Penso alle tante volte in cui gli studenti mi dicono che ‘ho sbagliato’ nel valutare un compito e spesso è vero, e anche quando non lo è ciò mi fa capire che non ho saputo comunicare un messaggio correttivo. Dicevo del mio sconforto: loro (i genitori), gli ignari, gli incauti, li hanno affidati a me! E io? Saprò io reggere alle attese? Quel senso di inadeguatezza al commisurare il mio lavoro sgangherato con le singole ‘storie’, le storie dei ragazzi intrecciate con quelle delle madri e dei padri, i quali hanno fiducia in me. Fiducia che io, da parte mia (incautamente) alimento: «Stia tranquillo, lo seguirò meglio, domani lo chiamerò in disparte, gli parlerò...». Faccio molte domande per farmi un’idea di come i figli passano la giornata dopo la scuola: se c’è chi li aiuta, se vanno in palestra, se hanno in camera la tv. «Come?! Nella stanza dove studia?! Il computer va bene, ma la tv...». Al pomeriggio devono studiare. Punto e basta. Come spesso succede, l’idea che mi ero fatta di loro viene smentita. La madre di Reyes: «Com’è che mio figlio non ha mai compiti da fare a casa?» (?!). E la madre di Albanese, un ragazzo che avevo appena finito di lodare perché è sempre preparato: «Veramente noi a casa lo vediamo sempre davanti ai videogiochi». Solo il padre di Donati ha chiesto: «Potrebbe dargli meno compiti?». Io assegno compiti uguali per tutti, a certi ragazzi (Reyes è uno di questi) anche un supplemento di esercizi, e ciascuno li svolge in modi e tempi disuguali, tra la palestra e un videogioco... e io me ne accorgo solo dopo che ho parlato con i genitori! Mi barcameno tra rassicurazioni e promesse: «Starò dietro a suo figlio», «Controllerò più spesso il suo quaderno» eccetera. E man mano cresce il mio sgomento: ce la farò a tenere impegnati i ‘faciloni’? A dare a ciascuno il giusto, azzeccato ‘programma-

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stampella’ (dettati, riassunti, lettura ad alta voce ecc.)? A non sovrapporre troppo il mio tempo con la loro ‘percezione del tempo’? Tornata a casa con la quasi certezza di aver sbagliato tutto, faccio piani meticolosi: per due settimane lascio perdere la storia, rendo più agevole la grammatica con un unico modulo sulla frase semplice e complessa e sulla punteggiatura; sposto la geografia al venerdì, due ore di esercizio in classe, per gruppi – uno ripete la lezione, il compagno lo sta a sentire e lo corregge, con il libro aperto. Questo metodo («Tu lo dici a me, io lo dico a te»), me l’ha suggerito una collega: pare che funzioni. Quanto alle verifiche, prima delle vacanze di Natale tre giorni di compito in classe. L’ultima ora del lunedì, in 1ª G, correzione dei compiti alla lavagna: sospenderò per due settimane la lettura dei libri di narrativa. Insomma, farò in modo che quelli finora incerti poggino i piedi ben piantati su un terreno certo. Ma so già che non potrò contare su un periodo ‘liscio’: lunedì c’è la prova di evacuazione, venerdì l’assemblea di Istituto, il personale non docente domani è in sciopero, le prime due ore di giovedì la classe ha un incontro con la psicologa... Bisogna imparare sì a fare piani, ma soprattutto bisogna imparare a disfarli. Rosalba *** Roma, 15 dicembre Caro Beppe, tu insegni una materia scientifica e il metodo per capire la scienza, io devo dare gli strumenti linguistici perché il ‘capire’ abbia voce. L’italiano è il ‘pane’. Tuttavia anche a me, pur cercando di ridimensionare il ruolo della mia materia nel tentativo di alleggerire le mie responsabilità, succede di pensarla come la pen-

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sano tutti: «Come va in italiano? Chi è l’insegnante di italiano?» chiedo quando so di un ragazzo che va male a scuola. «Noi abbiamo capito, solo che non lo sappiamo dire» disse Demarco. Tu scrivevi tempo fa che «è molto più facile fare che dire», e poi argomentavi sulla bellezza del fare e del desiderare. Per noi donne ciò è talmente scontato che non potremmo condurre la nostra vita diversamente. È per gli uomini che la bellezza del fare e del desiderare costituisce una scoperta (noi donne, nel frattempo, stiamo scoprendo l’utilità del ‘dire’ e del ‘farci sentire’). La lingua materna è «incorporata» in ciascuno, scrivi, diverse sono le storie personali, ciascuno ha un modo di apprendere «incorporato nella biologia»: e questa è una premessa indubitabile. Lasciare che si sviluppino sapere e saper fare nella varietà e diversità dei percorsi. Ah, il mondo è bello perché è vario! Se non fosse che, usciti dalla scuola, a scegliere «cosa fare» sono soltanto quelli che le cose le sanno fare e soprattutto ‘dire’ nel modo universalmente riconosciuto come appropriato: un dire piano, fluente, grammaticalmente a posto... insomma, ‘classico’. Il discorso parlato: ecco dove inciampano; ecco l’abilità che per loro sarebbe la chiave di tutto, la carta vincente. Non fosse altro che per questo, nessuno si permetterebbe di bocciare, di giudicare male un ragazzo che sa dire le cose che sa. E i nostri ragazzi? Che fanno loro a casa? Leggono, capiscono, chiudono il libro. Oppure capiscono a scuola (dalla spiegazione) e a casa danno solo un’occhiata al libro. Invece, proprio quelli che l’italiano non lo masticano – e sono i più, nelle scuole come la mia e la tua s’intende – a casa dovrebbero ‘ripetere il contenuto’. Ricordi la bella formuletta? «Ripetere il contenuto». Tu dici che non hai nessuna nostalgia del tempo in cui «si imparavano a memoria pappardelle incomprensibili». E quel «tantissimo» che ha imparato la tua Sonia Montagni non viene certo da un acritico bla-bla. Nel passato, anche io ridevo a sentire di una pratica così poco intelligente. Ma poniamoci l’altra domanda: e se fosse salutare ri-

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petere a memoria pappardelle? E se questo bla-bla fosse non stupido ma necessario, magari riferito a cose già lette e comprese? Leggere e ripetere il contenuto, questo semplice e grandioso suggerimento, così essenziale e così facile da applicare, mi ha fatto ripensare a tanta pratica didattica (recente) incentrata su verifiche veloci, ‘oggettive’. Risposte a domande, domande mirate a risposte mirate: «Elenca i personaggi della storia», oppure «Qual è il luogo della vicenda? In quanto tempo si svolge?» eccetera. «Com’è che è così difficile ricordare le cose studiate a scuola?» ho detto ai ragazzi della 2ª G. «Com’è che un fatto, una storia, un concetto li capiamo, ma il giorno dopo ce li siamo già dimenticati? Perché non ci dimentichiamo come si attraversa la strada, come si allacciano le scarpe, come si parcheggia il motorino? Perché la formazione della Roma, della Lazio, titolari e riserve nel campionato di due, tre anni fa – quanti goal, quanti calci d’angolo, chi era l’arbitro – li tenete impressi indelebili nella memoria?». L’apprendimento culturale è labile, scivola come l’acqua su una pietra dura e impermeabile. Ho disegnato alla lavagna un cerchietto (una pietra liscia) e, accanto, due tratti ondulati e paralleli (una zolla porosa), poi goccioline di pioggia. «Vedete? Qui la pioggia incontra resistenza e non si ferma, la zolla invece l’acqua se l’assorbe. La storia, la fisica eccetera se ne vanno chissà dove, non penetrano nella vostra mente, la memoria non le ferma. A meno che...» e qui ho disegnato dei piccoli fori nella pietra «a meno che voi non scaviate dei varchi per far penetrare l’acqua. Questo è lo studio: il leggere, ripetere, titolare, sottotitolare, fare schemi, riassunti eccetera incardinano nella mente la memoria di quello che studiate, fino al punto che potrete dopo richiamare nozioni e concetti, quasi senza rendervene conto: è la memoria inconsapevole (mente e corpo insieme), la stessa che ci preserva dal finire sotto le ruote di un’automobile». In 1ª G sto lavorando attorno alla coerenza di un testo. I ragazzi spesso non sanno organizzare un discorso, dirlo o scriverlo di filato (sono abituati a domandine cui seguono rispostine). E

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allora? Dove, se non a scuola, possono imparare a organizzare discorsi coerenti? Rosalba *** Roma, 17 dicembre Caro Beppe, certi giorni vivo in uno stato di grazia: nessun lavoro è bello come il mio. In 1ª G consegno i compiti di storia. Molti gli 8 e i 9. Alla lista delle singole e differenti voci per la valutazione (paragrafazione, ortografia, concordanze ecc.) ne avevo aggiunte due nuove: ‘capacità di attenzione’ e ‘coerenza del discorso’, e queste sarebbero state decisive per il voto complessivo. Il giorno del compito avevo letto ai ragazzi la pagina di un capitolo di storia: Cretesi e Micenei, già studiati una settimana prima; dovevano perciò costruire un discorso su un argomento già noto e rimasticato. Una difficoltà alla volta: nei giorni precedenti, capire e ragionare (domandine e rispostine); adesso, costruire anzi ri-costruire un discorso speculare a quello appena ascoltato, una prova sulla coerenza, sulla sintassi. E per lasciare un solo vincolo (le scelte sintattiche), la scaletta dei ‘fatti’ l’avevo dettata io. Ho preso i compiti uno per uno, ho letto ad alta voce i passaggi logici grammaticalmente riusciti, riusciti anche nel compito di Tonucci, Riotti e Corsetti. Tonucci ha tirato fuori da una delle numerose tasche la calcolatrice per aggiornare la media dei suoi voti. Riotti ha chiesto due volte: «Allora, sono andato bene?». Io ho finto di non essermi meravigliata del suo ‘successo’: «Che lo chiedi a fare? Io non dubitavo che ci saresti riuscito». Capriati e Manzi sono stati gli unici a non aver tenuto conto dei vincoli della prova. Hanno preso 4, un compito scopiazzato.

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Superati dai compagni che ritengono peggiori di loro, si sono svegliati dal lungo sonno, finalmente. Da oggi non capeggiano più il gruppetto dei candidati alla bocciatura: gli manca il seguito. Prevedo perciò un ravvedimento. «Posso sedermi al primo banco?» ha detto Manzi venendo dal fondo dell’aula già carico delle masserizie: le sciarpe della Roma e una pila di libri – lui li porta sempre tutti perché non sa mai che diavolo si farà quel giorno. Gli è stato cambiato per tre volte il tutor, l’ultimo era della Lazio, è durato poco. L’intera macchina del tutoraggio non ha funzionato: dapprima si scambiavano i ruoli, poi non si è capito più niente. Rosalba P.S. In Giappone ancora oggi le famiglie della borghesia intellettuale curano l’educazione estetica dei figli adolescenti mandandoli periodicamente alla cerimonia del tè. Quando penso che per ‘ricrearsi lo spirito’ Capriati e compagni vanno al centro commerciale di Spinaceto... Allora ho avuto come un’illuminazione, ho deciso: per le vacanze di Natale niente compiti di storia, di geografia, niente grammatica (come un sol uomo: «Evviva!»), andrete in gruppo a bere l’acqua alla fontana di piazza di Spagna, a raccogliere fiori di malva al Giardino degli aranci (Aventino), a guardare le orchidee all’orto botanico (alla lavagna, le istruzioni per arrivarci: Roma non la conoscono). «E se uno dice che ci è andato e invece non è vero?». «C’è modo di provarlo: una fotografia». *** Roma, 16 gennaio Caro Giuseppe, vorrei dedicare più tempo a entrare nel merito delle tue let-

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tere, ma il pomeriggio, tra compiti da correggere e lezioni da preparare, il tempo che resta se ne va a tenere aggiornato il mio diario, che è il ‘laboratorio’ per queste lettere. Il fatto è che la quotidianità, nei suoi minuti particolari, occupa quasi interamente i miei interessi. Lo sento come il solo terreno sul quale ho qualcosa da dire. A partire da quanto hai scritto tu sull’autogestione, mi restano in sospeso alcune domande, a cominciare da questa: cosa accade quando insegnanti e studenti diventano consapevoli della natura ‘politica’ dell’istruzione? Per me, significa accentuare l’aspetto pragmatico del mio lavoro; per loro diventa la scoperta che a scuola si può discutere anche d’altro e, come tu dici, si diventa capaci di valutare quel diverso modo di stare a scuola e di pensare la scuola ‘con strumenti che nella scuola stessa hanno appreso’. Non quindi con parametri esterni, non in una scala di giudizio in cui la cultura occupi un posto secondario o nessun posto (questa tua osservazione la trovo interessante). Però – mi viene da pensare –, il prezzo che si paga perché cinque ragazzi su venticinque facciano il salto, è tenere a casa gli altri venti? E per tre settimane? (Certe volte tanto dura l’autogestione.) E dopo? A chi devo parlare io, quando li raccoglierò tutti quanti? I pochi soddisfatti e i tanti delusi... È sempre accaduto che a dare una scossa alla maggioranza siano sparute minoranze. Come i cinque, sei ragazzi e ragazze che dall’autogestione tornano ‘ricchi di esperienza’, come la tua Sonia Montagni, che imparano, come dici tu, «ad alzare lo sguardo» e scoprono la natura politica di ciò che stanno facendo a scuola, e prendono a coltivare, a desiderare quel nuovo sguardo. Però io, da qualche tempo, se proprio devo sollevare lo sguardo dal piccolo dominio che mi è dato praticare, se cioè il punto di osservazione non è più la cattedra – dalla quale vedo solamente chi mi sta di fronte –, ciò che muove i miei desideri non è la politica scolastica italiana, né la politica in generale... Tu, dalla di-

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stanza che ti sei dato, scopri l’aspetto politico e sociale dei problemi scolastici; io mi allontano a una distanza che mi fa vedere tutto quanto il mondo vivente (amebe comprese). Altre distanze, altri nuovi orizzonti mi trovano impreparata, sono scenari che oggi (ahimè) mi interessano poco, non mi affascinano allo stesso modo. Quella «sospensione del tempo», che tu mi attribuisci, agisce in me ridimensionando il mio interesse per lo scorrere diacronico degli eventi, a vantaggio della sincronia: quella vasta sincronia dove si scopre, inconsapevolmente, la «struttura che connette». E allora, siccome il pianeta Terra (gli animali, le piante, noi stessi) non lo posso salvare io da questo ‘progresso’ dissennato, scelgo di prendermi cura delle nuove generazioni: che imparino a pensare (e tra le mani mi trovo non la biologia, l’economia, le scienze naturali ma la grammatica, e fa lo stesso). Che abbiano strumenti di pensiero diversi da quelli che hanno portato il nostro pianeta allo stato attuale: uno stato che, volenti o nolenti, tutti, anche io e te, abbiamo determinato. Perché, caro Beppe, noi due – che qualcuno giudica bravi insegnanti – siamo figli e attori (attori forse meno, chissà) della stessa errata ecologia di idee che andiamo denunciando. Sappiamo tanta storia, tanta scienza, disponiamo di una potente tecnologia... e stiamo faticosamente imparando come ‘pensarle’. E ci viene il sospetto che coloro che prendono decisioni di vasta portata (politici, economisti ecc.) non sappiano quasi nulla del cammino della scienza, né di quanto le idee astratte condizionino i fatti concreti. Che differenza c’è tra il semplice sapere che il mondo è complesso e l’agire in una visione eco-sistemica? Allora, sì, educare lo sguardo, fare in modo che i ragazzi ‘imparino a desiderare’ un mondo nuovo. E chissà che scrivendo a te, ed essendo costretta a riflettere sui miei stessi pensieri, io non diventi davvero capace di contemperare i due differenti livelli dell’agire: il livello delle ‘buone pratiche didattiche’ e quello della ‘compromissione nel sociale’. E chissà che non mi riesca anche

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di diventare una brava persona, oltre che una brava insegnante... Queste lettere, e un certo tuo implicito ‘richiamo all’ordine’, mi sono di grande aiuto. Rosalba *** Firenze, 18 gennaio Cara Rosalba, sto riflettendo su rigore e immaginazione (una coppia oppositiva/complementare) mentre rileggo le lettere dove mi parli dell’importanza di studiare a memoria le poesie, del ruolo svolto dai ‘pensierini’ di un tempo, del valore delle relazioni formali che sono racchiuse nella grammatica della lingua, dell’importanza dello studio a casa con la consegna di «ripetere il contenuto». Bene, io su questo sono d’accordo con te, completamente. Non lo sono, invece, se questo richiamo ci portasse a scoprire un nuovo primato del rigore rispetto all’immaginazione. Una cosa è analizzare i due poli separatamente, un’altra è credere che esista rigore senza immaginazione e viceversa. Si finirebbe con il trasformare il rigore in costrizione e l’immaginazione in fantasticheria. In questa maniera ci si aggroviglia di nuovo in discussioni vecchie che non portano da nessuna parte. Si tratta invece di costruire un’idea di scuola che sappia recuperare in una forma ‘nuova’ la funzione e il ruolo che hanno svolto quelle ‘vecchie’ pratiche – in una forma adatta a una scuola che sappia essere di qualità e, nello stesso tempo, di massa. L’idea di Bateson che qualunque forma di apprendimento si muove su una linea a zig-zag che unisce i due poli della dicotomia rigore/immaginazione, per me fu una folgorazione fin dalla prima lettura. Nel quadro di un pittore è forse banale dire che coesistono immaginazione e rigore, lo è meno, però, dire che sono presenti

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come componenti indissolubili fin sulla tavolozza e nella scelta del pennello, e ancora prima nella scelta del soggetto. Tu mi scrivi cose interessantissime sulla grammatica, ma io sono convinto che la tua analisi logica – che si muove tra il rigore delle relazioni formali tra soggetti e predicati, e l’immaginazione che sceglie, elabora possibili teorie – non avrebbe trovato spazio nella scuola al tempo dei ‘pensierini’. Qualcosa di simile capita a me quando affronto in classe la nomenclatura chimica: neanche in questo caso il rigore è scisso dall’immaginazione (come potrebbe esserlo se la nomenclatura è il distillato di tanto ‘pensiero’ scientifico?). Tra il ‘metanolo’ di oggi e lo ‘spirito di legno’ di qualche secolo fa c’è tutto un processo che un insegnamento puramente nozionistico nasconde. Ti sei mai chiesta se il sale comune si chiama così perché è il più diffuso elemento della classe dei ‘sali’, oppure se la storia è un’altra? Perché esiste una importantissima classe di reazioni che si chiamano ‘ossidazioni’ anche se non formano ossidi? Io spiego queste cose ai ragazzi che, mi sembra, le capiscano e riesco a farci entrare in mezzo anche la psicologia di Vygotskij (che mi guardo bene dal nominare in classe!), che spiega mirabilmente come un bambino chiami ‘rosa’ tutti i fiori – proprio come i chimici ‘sale’ tutti i sali. L’atto del pensare è sempre un saliscendi tra livelli diversi di generalità, così il bambino cerca naturalmente l’astrazione e usa il termine del singolo elemento per la classe degli elementi. Quando l’esperienza ha costruito in lui il concetto della classe, arriva anche la parola appropriata, ‘fiore’, che ristruttura ‘rosa’ come nome di uno solo dei suoi elementi. Quindi, anche durante le tue passeggiate per Roma con i ragazzi, la vostra mente disegna e manipola unicamente ‘mappe’ (di alberi, di strade...), scala continuamente montagne e si lancia in discese vertiginose! Sempre Bateson ci mostra che è futile porsi la domanda se è il rigore che genera l’immaginazione o viceversa, perché la cau-

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salità del mondo fisico non si applica al mondo degli organismi: il luogo dei fenomeni mentali, dove le relazioni sono circolari, dove ogni evento è insieme causa ed effetto. Allora è giusto parlare di rigore e di immaginazione, ma senza dimenticare che sono componenti indivisibili di un unico processo; presenti sempre insieme come sillabe che non hanno significato se non nella parola che compongono. Sono anch’io convinto che apprendere a scuola non sia una cosa ‘naturale’. Siamo l’unico animale che pratica la trasmissione intenzionale delle conoscenze, in luoghi appositamente predisposti. Di conseguenza lo studio non può che costare fatica e concentrazione. Forse la parola giusta è ‘disciplina’, e forse queste tue argomentazioni potrebbero essere tutte riassunte nel dire che le discipline devono essere (di nuovo? ancora?) i ‘mattoni’ dell’apprendimento scolastico, a qualsiasi livello di scuola. Da quella dell’infanzia fino all’università. So bene che, detto così, suona conservatore, perché per ‘disciplina’ intendiamo da sempre il sapere formalizzato e specialistico. Addio costruttivismo, addio psicologia dell’apprendimento e centralità dello studente, se tornassimo su questo disciplinarismo anche noi. Ma perché non usare il termine disciplina invece che per designare il sapere formalizzato e finito, per la forma della scoperta e della costruzione (ri-costruzione) personale del sapere? Sai che al Cidi di Firenze a questa idea crediamo molto. Io credo che sarebbe un bel passo avanti se trattassimo le conoscenze cosiddette pre-disciplinari come una ‘infanzia’ delle discipline, indispensabile per guidare i bambini a scoprire che anche l’immaginazione prevede regole e confini. Se non sbaglio a dire che l’infanzia della frase può essere la frase semplice (il ‘pensierino’), allora l’infanzia del pensiero scientifico formalizzato è sicuramente l’osservazione, la definizione: prime astrazioni che corrispondono alla ‘rosa’ usata per designare la classe. Dopo, quando il concetto sarà costruito, arriverà la parola ‘fiore’. Ma è sempre disciplina, prima e dopo. Una disciplina che si

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sviluppa e che in questo modo libera la mente, insegnando paradossalmente l’indisciplina. Lo fa proprio perché lavora su norme e confini, dandocene consapevolezza quando ci troviamo ‘oltre’ di essi, e anche dei casi in cui questa violazione è utile se non addirittura necessaria – i grandi scienziati sono stati tutti in fondo dei ‘fuorilegge’, ma credo che qualcosa del genere valga anche per il mondo della letteratura e della poesia. E invece oggi si continua a parlare di ‘ambiti di esperienza’ (o di roba equivalente) che devono venire prima, ben distinti dalle discipline che subentreranno dopo, e si favorisce ancora la frattura del percorso a zig-zag, accettando prima immaginazione senza regole, e, dopo, regole senza immaginazione. Così non si conducono i ragazzi sulla strada faticosa e tortuosa della conoscenza del mondo e di sé. E loro si troveranno soli dopo, proprio quando diventa difficile rintracciare quella strada sotto il bombardamento di informazioni a cui oggi siamo tutti sottoposti, ma loro particolarmente: di continuo osservati dalla televisione, che si incarica di persona di entrare in casa per controllare se «ripetono il contenuto». Allora non ti pare che dovremmo cominciare per davvero a occuparci dei contenuti, e per essere sicuri di essere capiti, completare oggi la consegna del «ripetere il contenuto» aggiungendo «per comprenderlo», così da non rischiare di trovarci in cattiva compagnia? Beppe *** Roma, 21 gennaio Caro Beppe, alla tua lettera non avrei nulla da aggiungere. Ancora una volta, un richiamo a non esagerare...

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Io butto là cose ‘estreme’, forse perché queste si prestano meglio a essere raccontate. E do così l’impressione di isolare singoli dati ignorando il più ampio circuito di fatti e di idee con cui sono connessi. Ma ho la quasi certezza (almeno lo spero) di non separare forma e processo nell’agire quotidiano, di tener conto della loro complementarità, del loro procedere zigzagando. Accennavo nella lettera precedente alla nozione di tempo diacronico e sincronico, essenziale per comprendere i fenomeni viventi. Nella diacronia c’è la scoperta (e quindi il prendersi cura) delle singole storie personali, nella sincronia c’è la «struttura che connette» ogni singola storia con i processi più generali in cui le creature sono immerse. Tenere insieme i due livelli, pensarli come combinati e non separati: è così che il nostro agire diventa meno distruttivo. Quanto alla complementarità di rigore/immaginazione (disciplina/indisciplina e così via), ammetto di prendere a cuore il primo dei due termini. L’altro (l’immaginazione) non è che non l’abbia a cuore, ma non so raccontarlo. Come se dovessi toccare una zona ‘sacra’: il livello della inconsapevolezza (o qualcosa del genere). Lo ripeto: certe premesse, a cominciare da quella premessa che in fatto di immaginazione e rigore non c’è un ‘prima’ e un ‘dopo’, appartengono ormai al mio modo abituale di pensare. Ma è tale la paura di farne materia di analisi, di pianificazione eccetera, che quando parlo di scuola preferisco dare di me l’idea di una persona all’antica, e come se mi appagassi unicamente della mia rigidità, spoglia di correttivi. Cerco semmai di comunicare agli insegnanti una pratica che ormai mi appartiene: quella di coltivare innanzitutto dentro noi adulti la tensione immaginativa, perché è da lì che riusciamo a comunicare agli studenti le nostre scoperte, le meraviglie, le passioni... Un insegnante, se vuol diventare o restare un buon insegnante, deve aver cura di procurarsi una sua personale felicità quotidiana, magari anche piccola ma quotidiana (io per esempio vado

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a vedere il tramonto da ponte Marconi: non è la settima meraviglia del mondo ma è a due passi da casa). Essere infelici, totalmente, cupamente infelici è un lusso che un insegnante non può permettersi. A noi insegnanti serve anche riflettere sul senso e sui modi di imparare utilizzando noi stessi come ‘laboratorio’: quanto ci metterei io a riassumere quel capitolo di storia? Come procedo io per correggere un errore di sintassi? E così via. Se è vero che siamo connessi con il mondo dei viventi (umani, animali, piante), figuriamoci quanto lo siamo con i nostri ragazzi! Certe volte uno si pone domande insolubili perché la risposta la cerca solamente fuori di sé. Invece, è anche sui nostri stessi processi mentali che conviene ragionare: per apprezzarli, per imparare a fidarci di noi stessi. E coltivare così una certa dose di autostima. Già, l’autostima. Quanto conta per i ragazzi! Ma vale anche per noi adulti. Guardiamo per esempio agli errori in cui cadiamo, indotti spesso dai messaggi di sfiducia delle persone da cui ci aspetteremmo di essere sostenuti. Capita anche a scuola. Almeno a me capita. Quest’anno, in 2ª G sono arrivata dopo un’altra insegnante. Metà della classe mi guarda con sospetto, non ha fiducia in me, e io in quella classe sbaglio, perdo la bussola. E c’è di più: corro il rischio di farmi di loro una rappresentazione mentale tutta al negativo e che si radichi al punto da impedirmi di vedere altro. C’è una osservazione di Margaret Mead che è stata per me illuminante. Mi ritorna come un monito quando mi accorgo di eccedere nel mettere in risalto l’aspetto solo ‘problematico’ dei ragazzi. Nel libro Con occhi di figlia, Mary Catherine Bateson racconta di una risposta che la madre (Margaret Mead) diede a un’amica scrittrice che si lamentava di non riuscire a conciliare il lavoro con l’accudimento del figlio piccolo perché «il bambino piangeva tanto». Margaret Mead le fece notare: «Forse, il vero problema è che il bambino sorride tanto».

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Ecco, noi potremmo specializzarci a ‘consolare i pianti’ e finire così per divenire incapaci di cogliere e apprezzare i tanti sorrisi. Rosalba P.S. Ti ho già parlato del ‘gioco del silenzio’? Lo propongo ai ragazzi, quando a fine giornata li vedo stanchi. Nel silenzio che (faticosamente) si crea, riusciamo a sentire il canto degli uccelli che svolazzano sugli alberi del piazzale. Bene, ieri niente canti: cornacchie, gazze, gabbiani erano muti. Nessun rumore ‘creaturale’ veniva da fuori, e nemmeno dai corridoi. Solo rumori di macchine, una porta sbattuta, le frenate del treno della metropolitana... Allora Tonucci ha fatto il pio pio del pulcino, e man mano la fattoria si è animata del verso di altri animali: Dario Petrone è uscito nel corridoio a quattro zampe e Fleuri l’ha rincorso dicendo che il coniglio era scappato. Capriati è scappato davvero, e dalla strada cantava vittoria. *** Firenze, 22 gennaio Cara Rosalba, siccome sto rileggendo La lingua salvata di Elias Canetti (libro che di sicuro conosci), oggi ti propongo di far ‘partecipare’ anche lui alla nostra discussione sul rapporto tra docenti e allievi. Hai presente il capitolo L’entusiasta? È quello in cui Canetti parla del liceo che frequentò – tra il 1916 e il 1920, a Zurigo. Racconta l’atmosfera «ricca e variegata» della sua scuola, dove c’erano professori «che non concepivano la disciplina come una costrizione», e proprio per questo, aggiunge, la disciplina «sapevano imporla nella classe senza che nessuno pensasse di ribellarsi». Oltre al suo «grande amore» per Friedrich Witz, il giovane Ca-

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netti ricorda la «fredda sobrietà» di Franz Hunziker, con il quale condusse una «lotta tenace». Di questo professor Hunziker non dice altro, forse perché lo vede come rappresentante di una categoria di docenti con i quali non era riuscito a entrare in sintonia. Eppure il giudizio non è negativo. Perché? Secondo me perché Canetti racconta davvero da studente la sua esperienza scolastica, e allora i suoi docenti diventano elementi di una classe più vasta entro cui ciascun docente ha propri, differenti criteri di valutazione. Un professore come Hunziker, allora, può avere un ruolo positivo nel panorama («ricco e variegato») del corpo docente se rappresenta un modello di maturità significativo, anche se il rapporto che stabilisce è freddo e faticoso. Non dimentichiamo, inoltre, che noi insegnanti siamo gli unici adulti che i ragazzi possono osservare mentre lavorano – in questo superiamo i loro genitori – e un eccesso di omogeneità potrebbe avere un effetto omologante pericoloso quanto l’incoerenza sull’estremo opposto. La libertà di insegnamento è un valore e una garanzia anche per chi apprende, non solo per chi insegna. Certo, ci spiazza un punto di vista che fa di noi semplici ‘elementi’ di una classe. Siamo abituati a pensarci come protagonisti, individualità poco inclini a farsi ‘mescolare’ con altre. Ma è sicuramente un errore: gli studenti non ci mescolano. Quando li sento parlare dei loro professori – come noi quando ripensiamo ai nostri – non definiscono, neanche implicitamente, una loro qualità standard, non ne fanno la media, ma li pensano piuttosto come una collezione, appunto, di personaggi. Ma torniamo a Hunziker. Perché il giovane Elias non si sente in sintonia con lui? È una questione importante. Io penso che la ragione della «lotta tenace» potrebbe essere proprio nelle qualità proposte da Hunziker – sobrietà, ponderazione e prudenza –, qualità che non trovano facile traduzione nel vocabolario degli adolescenti. Tra i professori dotati di «fervida immaginazione», c’è, invece,

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Friedrich Witz, che scalda profondamente l’animo di Canetti: «Talvolta parlava dalla cattedra, ma con tale fervore e potenza evocatrice che tutti noi dimenticavamo dov’era e ci sentivamo con lui in assoluta libertà. Poi si metteva a sedere in un banco in mezzo a noi, ed era come se fossimo tutti insieme a fare una passeggiata». Con Witz – continua Canetti – regnava in classe «una sorta di intenzionale disordine»; in sua presenza «si viveva sempre al centro di un campo di forze passionali». Insegnava la storia e la letteratura in modo «non ortodosso»: il suo era piuttosto «un dono, l’elargizione di una ricchezza che aveva in sé». Quando leggeva poesie, egli rafforzava negli studenti «il piacere della metamorfosi», e venivano fuori «cose insospettate e insospettabili», nelle quali gli studenti si identificavano, così come avviene quando da piccoli si ascoltano le fiabe. Personaggi storici si mescolavano con i poeti. Erano infatti i poeti a interessare Witz più di ogni altra cosa: «Invece di elencare le gesta di un imperatore e di collegarle alle rispettive date, lui ci dava una rappresentazione vivente di quel personaggio, usando di preferenza le parole di qualche scrittore recente». Un giorno, parlando di Enrico IV, lesse una lirica di Liliencron, e quando giunse all’appassionata dichiarazione di Heinrich: «Irene di Grecia, io l’amo! », il ricciolo che aveva sulla fronte gli cadde sul libro, «e io» scrive Canetti «che di tale amore ero del tutto ignaro, mi sentii correre un brivido giù per la schiena». Tu hai avuto un professore così? Io ho avuto in quinta liceo il professor Maffezzuoli che per certi tratti lo ricorda. Era agli ultimi anni di carriera, ma aveva la passionalità di Friedrich Witz, in particolare per la poesia. Un giorno ci parlava di Leopardi e si infervorò a tal punto da scommettere che avrebbe potuto aprire a caso l’antologia e leggere una qualunque sua poesia ritrovandovi la struttura poetica che ci aveva insegnato. Fu un colpo di teatro notevole, con il professore che a occhi chiusi apre il libro, stando seduto su un banco (cosa che non faceva mai, figuriamoci: alla sua

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età!) come per farci capire che in quel momento era in gioco in modo particolare; oppure sentiva che quella situazione meritava un palcoscenico più appariscente della cattedra. A trent’anni di distanza da quella mattina il mio ricordo così vivo conferma il segno che lascia una lezione che coinvolge mente e corpo, ragione e sentimento. Ma mi rendo conto che non sto parlando della lezione del professore, bensì della mia classe in quell’ora di lezione. La sintonia che si era realizzata dava davvero senso alla domanda posta nella forma, che ci propone Bateson, della «doppia domanda»: chi era mai quell’insegnante, che si faceva capire dai suoi allievi? E chi erano quegli allievi, che riuscivano a capire il messaggio di un vecchio-giovane insegnante? Una buona lezione è sempre il successo di una comunicazione che segnala differenze e nello stesso tempo le supera. Anni fa, insegnando chimica in quarta al Tecnico elettronico, mi infervorai a tal punto sulla teoria atomica che in un passaggio cancellai la lavagna con la sciarpa di un alunno del primo banco. Colpa della cimosa, che nelle aule era già diventata un reperto introvabile, e dell’abitudine a surrogarla con ‘cenci’ di tutti i tipi. Molti sorrisero ma si trattennero dal ridere: non vollero interrompermi mentre mi vedevano così lanciato. Anche perché erano lanciati anche loro, e quella sciarpa, a pensarci bene, fu come il testimone che si passano i compagni nella staffetta. Beppe *** Firenze, 23 gennaio Cara Rosalba, sempre dal capitolo L’entusiasta, oggi ti propongo il «puntiglioso e disciplinato» professor Karl Beck. «Mi dava un senso di

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sicurezza» scrive Canetti, e aggiunge che la matematica che imparò da lui divenne «una componente molto profonda» della sua natura: elemento di «coerenza», di «coraggio intellettuale». Il metodo che egli apprese da Beck lo troviamo in questo brano: «Partendo da un ambito magari molto piccolo, ma sottratto a qualsiasi dubbio, si prosegue senza posa in un’unica direzione, che rimane sempre la stessa, senza domandarci dove possa portare, evitando di guardarsi a destra o a sinistra, continuando a procedere verso una meta che pur non si conosce; fino a quando non si fanno passi falsi e i passi che si fanno rimangono fra loro coordinati, non può succedere niente, si avanza nell’ignoto, ed è questa l’unica maniera per conquistare gradualmente l’ignoto». Matematica come ricerca di coerenza, palestra di coraggio intellettuale, laboratorio di esplorazione dell’ignoto con l’unico strumento di scavo della propria razionalità. Un’avventura insomma, dove puntiglio e disciplina hanno lo scopo di mantenere lo sguardo fisso sul fine, senza «guardarsi a destra o a sinistra». All’opposto, la lezione di storia di Friedrich Witz: non un percorso verso, ma un percorso tra. Una continua assunzione di punti di vista diversi, un mettersi in viaggio «totalmente sprovvisti di meta». Con lui, pure se non si andava mai avanti, scrive Canetti, «si imparavano molte cose, ma più che apprendere nozioni si acquistava sensibilità per ciò che era stato tralasciato o che ancora era nell’ombra». Un’atmosfera molto speciale quella in cui Witz lo portava con sé: «Le ali che egli mi diede senza che io me ne accorgessi mi restarono attaccate anche quando lui mi ebbe lasciato; così volai io stesso in quel mondo e mi ci aggirai stupefatto». Nella parte finale del capitolo, che mi è rimasta talmente impressa da convincermi oggi a parlarne con te, Canetti ricorda il viaggio in treno, di ritorno da una gita scolastica. Alle sue domande «esitanti, incerte e piene di devozione», Witz cominciò a parlargli di sé: «Si aprì con grande sincerità e senza preoccupazione alcuna di proteggersi dall’opinione altrui, tanto che io, non senza sconcerto, ne ricavai l’impressione di un uomo ancora nel suo far-

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si, niente affatto sicuro della propria strada [...]. Cercava senza posa e non trovava mai nulla che lo appagasse [...]. Quest’uomo che mi sedeva davanti, che mi infiammava di un tale amore che ovunque lo avrei seguito con cieca fiducia, non conosceva la propria strada, si volgeva ora a una cosa ora a un’altra, voler essere insicuro era la sua unica sicurezza, e per quanto ciò mi affascinasse moltissimo – giacché egli si esprimeva con parole che avevano il potere di turbarmi e confondermi meravigliosamente – pure, dove, verso quale traguardo avrei dovuto seguirlo?». Un uomo ancora nel suo farsi, niente affatto sicuro della propria strada. Un uomo che non si proteggeva. Sembra proprio che Canetti sia d’accordo con te, Rosalba – lo sono anch’io, ma il suo appoggio ti lusingherà molto di più! –, sul fatto che chi non si prende cura di sé, chi non si protegge, non protegge neanche gli altri, e quella maggiore sincerità della comunicazione che sembra realizzarsi si paga a caro prezzo. Ma veniamo alla questione più calda e personale: se anche i nostri alunni avessero in mente un traguardo da raggiungere attraverso l’imitazione di un modello? Se fossero alla ricerca di qualcuno da seguire, noi ce la sentiremmo di essere quel qualcuno? E sarebbe giusto farlo? Ti lascio con queste piccole gigantesche domande che non mi sento di affrontare ora. Sono depresso all’inverosimile per una raffica di 4 che ho dato questa mattina nella mia classe. Accolti con indifferenza e rassegnazione, come si accetta di bagnarsi quando piove. Non hanno neanche cercato di aprire l’ombrello: nessuna scusa, nessun apparente dispiacere. Oggi farei salti di gioia per avere studenti con il problema di Canetti, studenti con un traguardo in testa e a caccia di modelli da imitare. I miei ragazzi non sembrano mirare a nulla. Credono di dominare il tempo e si illudono di star galoppando su bei cavalli bianchi. Tengono gli occhi bassi e non si accorgono che sono su una giostra che gira, gira e li farà scendere dai suoi cavallucci nello stesso punto in cui li ha fatti salire.

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Oggi davvero non so come riuscire a farmi sentire da loro, impermeabili a tutto. Tempo addietro ho fatto un bilancio tutto sommato positivo dei ‘sacchetti di plastica’ che sono riuscito ad aprire, ma oggi è giorno di sconfitta e non riesco a vedere la strada della rivincita. Eppure so che il primo passo è vincere la loro indifferenza: aprire un varco, entrare nella fortezza e riuscire a fargli alzare lo sguardo. Te ne riparlerò quando sarò meno abbattuto. Beppe *** Roma, 24 gennaio Caro Beppe, ogni tanto ho paura di prendere troppo a cuore chi arranca e troppo poco i ragazzi più bravi. C’è di buono che alle elementari e alle medie i ‘bravi’ li hanno abituati a studiare senza gloriarsi, e i ‘non-bravi’ a convivere serenamente con i bravi. Giorni fa Donati, a nome della classe, ha chiesto che leggessi i voti di geografia, quelli precedenti e quelli attuali: tutti hanno fatto progressi, compreso Carandini, il migliore, che è passato da 8 a 9. Nel suo caso non ho fatto commenti, e lui l’ha ritenuto ovvio. A Corsetti e Manzi invece un «Bravo!» plateale. Insomma, mi resta il sospetto – e il timore – che mi vada specializzando a fronteggiare gli accidenti, gli imprevisti, le cose che non vanno bene, gli scarti dalla norma: i Riotti, i Corsetti, i Pomponio di ogni tempo e di ogni dove. Come succede a un medico, interessato solo a chi sta male: ce la mette tutta, eppure succede che gli muoia un paziente. A noi insegnanti, che un allievo si perda per strada. Per don Milani: «La scuola ha un unico problema: i ragazzi che perde». E qui avrei molto da dire. Mi viene in mente il finale di un film del 1955 che ho rivisto di recente, Il seme della violenza, con un Sidney Poitier diciottenne.

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Una scuola professionale del Bronx, New York, anni Cinquanta: i ragazzi di strada, il peggio della ‘gioventù bruciata’. Ma si sa, anche il peggio è fatto di gradazioni: tra i ragazzi di quella scuola ce ne sono due al massimo grado, due per i quali «la vita che fanno da liberi non è migliore della galera». Alla fine, pagano per le loro colpe, vengono allontanati. Il professore (dopo una lotta spettacolare: il cattivo è armato di coltello) li consegna entrambi al preside: che li invii al riformatorio. La morale del film non è solo che un insegnante bravo, determinato, può farcela a fronteggiare situazioni al limite, e questo messaggio l’avevo colto anni fa, quando vidi il film per la prima volta; l’altro messaggio, che ho colto ora, è che qualcuno deve pagare affinché l’ordine sia ristabilito. E sono gli stessi ‘sopravvissuti’ alla violenza generale, dapprima complici e poi soltanto vittime, a desiderare l’esclusione dei due: «Ce ne siamo liberati, finalmente stiamo bene». Forse allo slogan «Non uno di meno» – che è davvero una utopia anche per chi la persegue come realtà possibile – andrebbe accostata una frase di riserva: «Può darsi il caso che uno di meno permetta agli altri di stare meglio». Nella scuola è sempre accaduto, specie tra i maschi – un classico: il Törless di Musil. Ci si rafforza? Chissà. La scuola della violenza, praticata e subita, è per davvero una scuola di vita? Prima c’era la strada, il cortile... ora le aule scolastiche. E certi nostri ragazzi, che non hanno nessuno che gli dica una cosa qualsiasi che li faccia crescere bene? Allora, io mi appassiono a questi casi. Se pure i bravi non li trascuro (in 1ª G, oltre a Carandini ho almeno altri tre ragazzi bravissimi), l’attenzione è sempre lì, a quelli che stanno indietro. Il livello delle lezioni, il ‘passo del gradino’ è commisurato ai più bravi, loro fanno da battistrada, poi però bisogna far salire Corsetti, Reyes... Posso dire di aver capito Corsetti sin dal primo giorno: ho capito cosa dovevo fare io e cosa doveva fare lui. Ieri ha portato un compito (un riassunto) quasi senza errori. L’ho letto ad alta voce, sorvolando sulle imperfezioni, e i compagni alla fine hanno applaudito. Poi ho chiamato Corsetti

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in disparte per fargli notare gli errori. Uno era un pronome relativo, e lui ha detto no, non ho sbagliato, e ha indicato, due righe sopra, l’antecedente (si chiama così il nome di cui il relativo è pronome: in italiano, a differenza del latino, il pronome relativo deve stare ‘attaccato’ al nome, cosa che lui non aveva fatto). Ebbene, indicando il nome (con cui il pronome, pur se distante, era declinato correttamente), Corsetti mi ha fatto capire di aver colto il livello intensionale della frase. Puoi immaginare la mia gioia. Rosalba *** Roma, 25 gennaio Caro Beppe, ieri, grande partecipazione, allegria! Le regole ortografiche. Ho dettato frasi con molti ‘ce n’è’, ‘ce l’ho’, ‘gliel’ho’... E ancora, i monosillabi da accentare e no, le insidie delle maiuscole e delle minuscole. Verifica immediata: ogni riscontro era accompagnato da un «E vai!». Alla fine, la ola come allo stadio. Oggi, invece, la scrittura creativa: raccontare di sé ispirandosi allo stile impressionista: «Ispiratevi a uno dei tre quadri riportati sul libro» (Interno a Collioure di Matisse, e poi Bonnard e De Pisis). Quanto al modello di scrittura, quello proposto era Bambino che si sveglia, un breve e suggestivo racconto di Vittorini («Dimenticatevi Manzoni» ho detto). Certi ragazzi assorbono subito, sono dei copiatori nati (il tema di Corbelli: un perfetto racconto vittoriniano). A scuola, del resto, si impara a imitare, perciò è decisivo per la loro educazione estetica scegliere buoni modelli. Quello che è difficile è incardinare uno stile, ma intanto va bene anche una sola prova riuscita. Se penso alla mia formazione di scrittrice (si fa per dire), quanto devo a quel copiare sui quaderni frasi e intere pagine degli au-

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tori che amavo! So che anche tu ricopi gli autori di cui ti vuoi appropriare... Rosalba P.S. Forse non ci crederai, ma l’ortografia produce effetti miracolosi. Nel curare l’ortografia un ragazzo diventa consapevole dell’aspetto convenzionale delle norme grammaticali, e capisce anche di cosa è fatto il passaggio dal pensiero (o dall’oralità) alla forma scritta: con l’ortografia stiamo appunto ‘descrivendo’ il linguaggio. Alle elementari qualche insegnante sottovaluta le norme ortografiche; eppure, quando un bambino ci ragiona e le applica, trova il primo, il più facile accesso al livello ‘intensionale’ del linguaggio. *** Roma, 26 gennaio Caro Beppe, oggi riunione orientativa sui libri di testo: quali mantenere, quali le nuove adozioni. Per la storia manterrò il manuale in uso: struttura quasi tradizionale, divisione rigida in capitoli e capitoletti, schede di lavoro, complessità linguistica di livello medio. Preferivo però l’edizione precedente, ora non più in commercio, sembrava congegnata attorno a un’unica semplice consegna: leggi e ripeti il contenuto. Mi chiedo spesso quale ruolo hanno svolto per noi i compendi; se quello che siamo oggi lo dobbiamo alle sintesi mandate a memoria senza arricciare il naso. Allora mi sembrava che tutta la ‘scienza’ fosse nei libri di scuola... I libri di una volta: ‘asciutti’ e lineari. Quelli di oggi sono scritti in forma non-lineare: quasi volessero simulare il pensiero, che appunto non è del tutto lineare, che funziona cioè per associa-

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zioni, per rimandi. Tuttavia sono associazioni e rimandi programmati. Non sarebbe il caso – mi chiedo – di lasciare a insegnanti e studenti la ricerca di nuovi, non-previsti percorsi? Volendo poi ricavare da quelle pagine un discorso (anche questo serve!), chi studia trova i dati disseminati e formalizzati in differenti codici – quasi non fosse previsto che dal testo si debba ricavare un altro testo, magari un riassunto. Ma è davvero necessario saper fare discorsi (lineari)? E le nozioni, serve ricordarle? Cambiano i tempi, cambiano le generazioni, ma la scuola si trova davanti sempre lo stesso problema: far passare la ‘memoria sociale’ nella ‘memoria individuale’. Il contenuto dei libri di studio, quindi, andrebbe non solo capito ma anche ricordato. Che fa oggi l’autore di un manuale? Preorganizza la memoria con una varietà di accorgimenti, anche tipografici, predispone il lettore alla raccolta dei dati, a connetterli; ma quella del manuale è una ‘memoria statica’. È lo studente che dovrà animarla, è lui che deve diventare padrone di quella memoria. Con il manuale di vecchio tipo erano i ragazzi a dover ‘fare da sé’ certe operazioni (evidenziare le parole chiave, scrivere i sottotitoli ecc.) al fine di costruire il passaggio dalla ‘memoria del libro’ alla memoria, diciamo così, ‘interiore’. Prendiamo il mio libro di storia: sarà pure meno dispersivo di altri, ma è tuttavia congegnato in modo da rendere non necessario il lavoro preliminare dei ragazzi. Le parole chiave sono scritte in neretto, ogni paragrafo è già suddiviso in sottoparagrafi, ogni sottoparagrafo è preceduto da un titolo-sommario (scritto in rosso), il volume è accompagnato da un volumetto ‘di sostegno’ che di ogni capitolo contiene il riassunto (ben fatto, non c’è che dire)... insomma, non c’è bisogno né di sottolineare, né di scrivere al margine sottotitoli, rimandi, nemmeno il riassunto. E anche se volessimo ignorare il volumetto ‘di sostegno’, il contenuto del libro è già abbastanza semplificato, anche nella sintassi. La mia tesi è questa: proprio perché immersi in un mondo do-

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ve l’informazione, essendo prevalentemente iconica, non è né discorsiva né lineare, il libro di studio deve caratterizzarsi per differenza. Rosalba *** Firenze, 27 gennaio Cara Rosalba, il discorso sui manuali e gli esempi che fai, presi dalle tue lezioni, mi interessano moltissimo: da un lato mi permettono di entrare nella tua classe e dall’altro capisco meglio come traduci e applichi nelle tue materie un’epistemologia che è ben più ampia dei singoli ambiti. Ma non ho la testa adesso per risponderti a questo livello, anche se mi riprometto di provarci in futuro perché sarebbe molto bello se la nostra corrispondenza fosse anche la ricerca di significati comuni nelle pratiche quotidiane di due docenti di materie così apparentemente diverse. Come ti ho scritto nell’ultima lettera, il mio impegno dei prossimi mesi sarà combattere con qualunque mezzo l’indifferenza dei miei alunni. Fare a pezzi i ‘sacchetti di plastica’, dove loro si sigillano per attraversare il tempo della scuola senza esserne minimamente contaminati. È una emergenza che sento di dover risolvere subito, fin da febbraio, o sarà troppo tardi. Noi due mi sembra che ci capiamo bene soprattutto per il fatto che siamo entrambi interessati alla quotidianità. Ed è vero che il rischio, come tu mi hai scritto, è che concentrandoci sui ‘pianti’ ci dimentichiamo dei ‘sorrisi’. Forse dovremmo valorizzare i sorrisi e usarli proprio per curare i pianti. Facile a dirsi. Nella mia quotidianità, però, l’indifferenza degli alunni più deboli alla propria debolezza mi pesa come un maci-

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gno, come fosse un’offesa personale, e la soddisfazione che provo a tratti passa attraverso la convinzione di essere almeno sulla buona strada per sgretolarla. E io allora mi convinco. Mi dico che so da dove si deve partire: da una buona epistemologia, dalla qualità delle nostre scelte di contenuto (anche da buoni manuali), dall’intreccio dei legami di classe, che fanno di noi e degli studenti un unico organismo capace di sentire e volere. Se abbandoniamo uno di questi fili, se lo lasciamo cadere perché ci sembra secondario, il gomitolo non si dipana e perdiamo i ragazzi. Perdiamo quelli che potremmo aiutare, questo è il problema. Ci sono casi che non si recuperano con le nostre forze; ragazzi e ragazze che non si sentono pronti al confronto sul terreno della scuola, ed è forse proprio il nostro terreno che li spinge a cercare altri tipi di rivincite. Comunque sia, questi casi sono pochi. Non certo i tre sui dieci attuali. Leoncini e Marroncini, ad esempio, due storie micidiali, di sofferenza, di patologia dell’animo. Questi sono casi particolari che vanno trattati come tali. Un giorno te ne scriverò, ma intanto ti dico che è sbagliato pensare alla selezione tenendo in mente gli esiti di queste situazioni, che non sono la regola. Per i Leoncini non si tratta di bocciare o promuovere, ma di intercettare e aiutare il percorso di maturazione che ha modi e tempi personali. E comunque, se i soldi dei fondi sociali europei spesi l’anno scorso per venti alunne di un Professionale fiorentino fossero elargiti ugualmente per i venti casi difficili della mia scuola, anche gli ‘irrecuperabili’ non sarebbero tali. Basterebbe accompagnarli passo passo, fargli conquistare, ri-conquistare, la fiducia in sé stessi. Curarli, o meglio, aver cura di loro, perché solo le patologie si curano. Beppe ***

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Firenze, 28 gennaio Cara Rosalba, ti sto scrivendo dalla presidenza. È sera e due colleghi sono entrati a fare due chiacchiere alla fine delle lezioni. Il professor Ferrari ha forse la classe più difficile di tutto l’Istituto. Una prima indirizzo ‘motorista’, formata per ultima, dove i casi difficili sono la quasi totalità. Ferrari mi ha raccontato di essere entusiasta della lezione di oggi: due ore di disegno tecnico. Lui e il suo collega hanno disposto gli alunni in classe separando i chiacchieroni e sorvegliandoli continuamente. Una sorta di ‘gioco del silenzio’, come quello di cui mi hai scritto, ma dovuto alla rabbia di due docenti vicini all’esaurimento. Ebbene, Ferrari mi ha detto che dall’imposizione di questa disciplina ferrea è scaturita una lezione bellissima, che ha colpito gli stessi ragazzi, quasi sorpresi nello scoprirsi capaci di una così lunga concentrazione. Ma non è stata bella perché semplicemente disciplinata. Ferrari gli ha insegnato le regole del disegno, le proiezioni, le norme Uni, la ragione degli accordi internazionali eccetera. Disciplina e meraviglia, quindi, insieme, e senza scorciatoie per gli studenti più deboli. Alla fine è sempre un problema di qualità: il professor Ferrari l’abbiamo voluto io e la mia collega Assunta in quella prima, perché è forse il più competente nella materia di tutta la scuola! Finora aveva insegnato all’Istituto tecnico, e solo alle quarte e alle quinte, per la strana idea dei presidi che nelle prime lui fosse ‘sprecato’. Tutto il contrario: porta gli allievi in biblioteca, fa girare in classe il suo materiale professionale; simula una discussione vera; sa tenere la disciplina e darle un senso; impone il rigore e fa correre la loro immaginazione! Dopo è venuta in presidenza Cristina Innocenti a riportare il videoregistratore. Era disperata della sua seconda a cui ha fatto vedere L’attimo fuggente. Tre buoni quarti della classe del tutto di-

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sinteressati: un muoversi e chiacchierare continuo, nonostante si trattasse di un film su un argomento che doveva toccarli da vicino e preparato da lei, bravissima, con cura. Invece è uscita con la sensazione di aver perso tempo. Dove nasce l’indifferenza dei ragazzi alla scuola? La società, certo, con i suoi nuovi valori e disvalori ci mette del suo. Poi la crescente distanza del tipo di sforzo che chiediamo, rispetto a quelli che vengono richiesti fuori dalle ore di scuola. La lentezza che applichiamo e ostentiamo di fronte al culto della velocità. Pratiche di approfondimento e riflessione richieste a ragazzi e ragazze sempre più addestrati, invece, a rispondere in tempo reale a stimoli altrettanto istantanei. È molto gettonata la spiegazione di una scuola che insegna sempre di meno, per colpa delle teste dei ragazzi sempre più ‘vuote’: effetto di televisione, computer, internet, PlayStation, e chi più ne ha più ne metta. I ragazzi non sanno più ragionare? Può darsi, ma è una verità inutile, consolatoria, quasi offensiva. Noi con gli alunni ci dobbiamo lavorare, non possiamo disprezzare le nostre classi, perché in quelle classi dobbiamo rientrarci il giorno dopo, e anche il successivo. Quelle lamentazioni mi fanno pensare a un produttore d’ombrelli che impreca alla pioggia, invece di preoccuparsi di fare ombrelli sempre migliori. Il vero problema è come si lavora con questi ragazzi, come si possono far crescere in questa società tanto attenta alla produzione, quanto poco alla riflessione. Altrimenti si finisce per regalare argomenti a coloro che si tirano fuori da qualunque responsabilità, perché – dicono – non c’è niente da fare con alunni «sempre più stupidi». Allora la scommessa è creare le condizioni dell’apprendimento e ricercarne la qualità tenendo in mano tutte le sue variabili. Non una di meno. L’indifferenza viene soprattutto dalle poche attese che hanno, dai pochi successi e dai pochi riconoscimenti dei successi. Voglia-

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mo che imparino, che conoscano nomi e formule, ma non curiamo abbastanza che ri-conoscano il valore di quello che fanno. Beppe *** Roma, 11 febbraio Caro Beppe, che impresa certi giorni tenere buona la classe. Prendiamo le ultime due ore del venerdì: tornano svagati e stanchi dalla palestra, con il pensiero alla giornata che sta per finire, e vorrebbero continuare a giocare. «Non uno di meno», «Senza quell’uno, forse...» ti dicevo in un’altra lettera. Capriati per esempio, che per abitudine dice e fa la prima cosa che gli passa per la testa, accada quello che deve accadere. Noi tutti siamo lì, finalmente concentrati, assorti... e arriva la sua battuta di spirito – sempre azzeccata, a dire il vero –, e il tempo che si perde... Devo però essere onesta: Capriati è cambiato, da qualche tempo le sue uscite spiritose si sono ridotte, quelle poche riescono ad armonizzarsi con i discorsi ‘seri’ senza fermarli, e di sicuro anche noi ci stiamo adattando a lui, stiamo co-evolvendo insieme. Risultato: lezioni serie, ma non seriose. Sarà che anch’io, da parte mia, non mi aspetto più che lui faccia il rompiscatole, e questo messaggio – un messaggio di fiducia non detto a parole – in qualche modo ‘passa’ e condiziona le sue risposte. In 2ª G, dopo la brutta pagella, Proietti e Demarco appaiono ‘domati’: niente giochetti sotterranei né plateali. Di studiare, però non se ne parla. Questa mattina ho detto in tono categorico: «Voi due, venite qui, al primo banco. Ho deciso che non dovete essere bocciati». Con loro non so qual è la cosa giusta da fare, le sto provando

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tutte. Successi, fino a ora, pochi, quasi niente – o forse ci sono, ma io non riesco a vederli. Nell’affrontare la loro ‘diversità’, noi adulti oscilliamo, a seconda dell’umore della giornata, tra l’accoglierli e il respingerli: oggi una parola di stima, domani un rimprovero tagliente. Certe volte una ‘parola di troppo’ ferisce gravemente un ragazzo, e invece noi sul momento non ci rendiamo conto che abbiamo lanciato non già una pietrolina ma un macigno, e ci lasciamo fuorviare dalla sua reazione di (finta) indifferenza. La diversità, lo scontro tra generazioni sono sempre esistiti. Oggi, processi di cambiamento accelerati e una cultura psicologica, sociologica eccetera – una cultura superficiale, approssimativa, certo, ma diffusa in ampi strati sociali – fanno apparire la ‘diversità’ dei giovani quasi un’evidenza indubitabile. Ne abbiamo fatto anche materia di discorso pubblico (convegni, dibattiti televisivi... anche le antologie scolastiche ne parlano!). E quando mai, quando mai a scuola, nel passato, i professori parlavano con gli alunni dei ‘problemi dei giovani’? O almeno senza la mediazione della letteratura. Ciò che mettevano in comune con gli allievi era quasi esclusivamente la disciplina che insegnavano (mi riferisco anche ai maestri di Canetti). Il resto – come sei fatto tu, chi sono io, come ci relazioniamo eccetera – è giusto che non diventi oggetto esplicito di racconto, tanto meno di analisi sociologica. O che almeno, qui, si agisca con cautela. Io non parlo di ciò che ho capito di te, io mi comporto come si comporta un adulto che ti ha capito. «Fargli conquistare, ri-conquistare, la fiducia in sé stessi» scrivi. «Curarli, o meglio, aver cura di loro, perché solo le patologie si curano». Quando vedo un ragazzo che vacilla, oppure uno che ha perso l’autostima, insomma uno che se la passa male, io posso (devo) fare solo questo: insegnargli a leggere e scrivere. Prendermene cura, anche a muso duro. Tu mi parli di Canetti. Io ricordo vagamente (non ho a portata di mano il libro) un passo del Törless di Musil, dove il giovane

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protagonista va di notte nella stanza del suo professore di matematica perché vuole saperne di più sul concetto di infinito. «Oggi» tu scrivi «farei i salti di gioia per avere studenti con il problema di Canetti» (o di Musil). Ma noi abbiamo a che fare con studenti che non condividono la nostra stessa ‘enciclopedia’ (te ne ho parlato altre volte). Lavoriamo, sì, per costruirne una comune, ma raramente ci succede di poterla confrontare, perché quando (e se) avremo trasmesso loro un pacchetto di nozioni e di idee e le avranno assimilate, loro saranno nelle mani di altri insegnanti, oppure fuori della scuola: non saremo noi a conoscere questo eventuale confronto paritario. Anche nei nostri ragazzi si accende ogni tanto una ‘lucina’, ma sono troppi e ben più allettanti i ‘rumori’ in cui sono immersi e che li catturano: «Non si accorgono» dici tu «che sono su una giostra che gira, gira e li farà scendere dai suoi cavallucci nello stesso punto in cui li ha fatti salire». In verità quella lucina la vedo brillare costantemente in cinque, sei allievi per classe: determinati, ben saldi nel loro proposito anche quando si lasciano andare a qualche distrazione... Ma per altri (a volte tanti, a volte no) è proprio come dici tu. Per loro studiare è una faccenda né scontata né facile. Tu mi ricordi che l’apprendimento scolastico deve essere sia condiviso sia regolato su un tempo individuale: di riflessione personale e intima, magari in luoghi protetti – lo ‘studio’, nella tradizione borghese, è anche un luogo della casa. Certe volte li guardo uno per uno e mi immagino i pomeriggi di Capriati, di Riotti, di Demarco... nella propria stanza (chi ce l’ha), o nella stanza comune, e in quella stanza c’è un televisore, uno stereo, il cellulare a portata di mano e altre diavolerie – sempre se di pomeriggio sono a casa, che già per loro è un’eccezione. Oggi non possiamo sapere per certo quale strada prenderà nel futuro la nostra cultura, e tutto lascerebbe intendere che non saranno i nostri ragazzi – i miei e i tuoi – a orientarne il cammi-

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no. Eppure mi ostino a credere che il rinnovamento della cultura, quale che sia la direzione che prenderà, non sta nelle mani delle persone ‘già colte’; un mondo nuovo e forse migliore può solo venire da chi alla cultura si accosta con uno sguardo meravigliato, da chi sta facendo quello che tu chiami «il triplo salto mortale» per acquisire gli strumenti di pensiero e di espressione del pensiero che altri – i ‘figli dei dottori’ – hanno preso con il latte materno, incapaci quindi di provare una identica meraviglia. Per vincere le loro resistenze, perché facciano esperienza del particolare benessere che la piena conoscenza di un qualcosa ti dà – e per tenere acceso l’interesse degli scolaretti già bravi – non resta che proporre contenuti, diciamo così, raffinati, gli stessi in cui ci sembra che si sia formata la parte migliore di noi. Ed è qui, se vogliamo, la sostanza della «sobrietà», della «passione» di cui parla Canetti: uno stile di vita che si alimenta di prodotti sublimi (non mi viene un’altra parola), di fronte ai quali ogni suggestione dettata dalle mode perde smalto e assume insignificanza. La sobrietà come una sorta di sospensione del tempo, e come fosse la pietra filosofale. Ieri, per spiegare il capitolo sulla battaglia di Salamina ho ‘perso tempo’: ho letto un passo da I Persiani di Eschilo. Quell’aver osato Serse «incatenare il mare», l’Ellesponto, ignorando l’ordine delle cose voluto e custodito da un dio! Si è accesa una discussione sul concetto di ‘limite’, su che cos’è questo nostro tempo, con il culto della velocità, che non ci lascia pensare. Rosalba ***

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Firenze, 12 febbraio Cara Rosalba, venerdì abbiamo finito gli scrutini. Quest’anno abbiamo settantaquattro classi al Professionale e settanta al Tecnico. In fondo a scuola non esiste una gerarchia di responsabilità che giustifichi una carriera intesa nel senso classico di ascesa ai piani alti. Le decisioni di maggior responsabilità – le più difficili, personali – restano sempre quelle che vengono prese ai piani più bassi, nei consigli di classe. Il voto di un insegnante al primo incarico può essere decisivo su un anno di studi di un alunno. Trovami qualcosa di equivalente fuori della scuola. Quanti sonni agitati dopo aver partecipato a consigli di classe che promuovevano qualcuno in una classe e ne bocciavano un altro nell’identica situazione in un’altra! Paola Quadrini piangeva nel dubbio che si fosse commessa un’ingiustizia tra due allieve che aveva con sé da tre anni! Allora, l’unica cosa che mi viene in mente quando penso alla nostra carriera, che sembra scontato si possa fare nella scuola solo occupandosi di altro rispetto a insegnare bene, è che si dovrebbe imparare a godere della stessa soddisfazione che questa produce senza, però, i suoi segnali simbolici (soldi, biglietti da visita ecc.). A testimoniare il successo saranno gli altri colleghi, gli studenti, i genitori: una fama circoscritta come quella di cui gode un medico di corsia o di famiglia. Noi insegnanti non siamo primari, la nostra è un’altra professionalità, molto meno appariscente ma anche molto più coinvolta e partecipata. Un chirurgo quando lavora ha bisogno così poco della partecipazione del paziente che lo addormenta, noi invece abbiamo così tanto bisogno dei nostri studenti che ci sforziamo in tutti i modi di svegliarli. Ti dicevo della settimana di scrutini. È piacevole la scuola in questi pomeriggi, piena di colleghi che attendono il proprio turno di riunione. Molti di loro, che insegnano in plessi lontani dal mio,

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li vedo solo in questi momenti, quando si fermano in presidenza a parlare delle cose avvenute, spesso dei problemi ma non solo. Non c’è la solita fretta, con i figli da andare a prendere all’uscita da scuola o il pranzo da inventare. In queste condizioni la conversazione gira libera, inventa gli argomenti e così facendo, a volte, scava molto di più nell’intimità. Ho sempre pensato che ‘perdere tempo’ insieme è fondamentale per conoscersi bene. L’amicizia e la confidenza che si produce tra compagni di classe, secondo me, deve molto a questo stare insieme senza fini immediati. L’ho riprovata l’anno scorso, da adulto quindi, quando ho seguito il corso abilitante per scienze: con i compagni di classe (anche di classe di concorso!) ci continuiamo a sentire nonostante la brevità dell’esperienza. La confidenza che i pomeriggi degli scrutini aiutano a creare è importante. Ha molto a che vedere con l’accordo, la sintonia che vedo poi in molti consigli di classe a fine anno. I professori si chiamano per nome, si chiedono le cose e spesso cambiano opinione, o la fanno cambiare agli altri con semplicità. Al polo opposto ci sono i consigli degli antagonisti, quelli formati da professori che si detestano e votano sugli alunni ma in realtà danno continuamente i voti a sé stessi. Ma sono pochi, per fortuna! Beppe *** Roma, 14 febbraio Caro Beppe, un giorno mi hai scritto che eri depresso per aver dato «una raffica di 4». E io? In 2ª G ho votato per il 7 in condotta a ben cinque allievi! E poi, se i Demarco li vogliamo salvare, dobbiamo dar-

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gli un messaggio che li aiuti a riconoscere il limite oltre il quale la scuola non è più tale. E visto che minacce, consigli e promesse non sono serviti, chissà che il 7 in pagella non li aiuti a cambiare, e non aiuti la classe intera, così condizionata dai cinque puniti – e loro complice, senza averlo deciso. Oggi in Consiglio si parlava del calo degli iscritti: perderemo tre prime classi. «Non sappiamo fare progetti allettanti!» ha detto un collega. «Ormai la gente vuole una scuola facile, è questo che i genitori desiderano per i figli!». Io ho detto che ‘gente’ così non ne ho mai conosciuta. Poi ho detto che la scuola è per sua natura obsoleta e che la nostra libertà sta proprio qui, nel non lasciarci condizionare: dalle mode, dalle suggestioni del momento, dalla ‘gente’. Noi insomma ci muoviamo in ambiti di libertà che altrove non sarebbero concessi. Ovviamente non ho convinto nessuno. Ho semmai rafforzato una mia convinzione: l’insegnante è una persona di stampo speciale. Per lui etica e politica sono la stessa cosa, un presupposto caduto il quale la cultura rimane «una questione privata». Questo rimanda alla vecchia idea che fare il maestro è una vocazione: una cosa che negli anni Settanta abbiamo drasticamente rifiutato. Chi in quegli anni avesse detto in una assemblea sindacale che ‘l’insegnamento è una missione’ sarebbe stato messo a tacere per sempre. Eppure, sotto sotto, molti di noi (noi del Cidi specialmente) continuano a pensare che il nodo è lì: un insegnante non è un lavoratore qualsiasi. Non lo è in scuole come la mia e la tua, dove non guasta uno spirito ‘missionario’ (laico, magari); tu lo dici con una bella metafora: siamo medici di famiglia, non chirurghi; e questo spesso non basta: occorre essere in buona salute. E questo ancora non basta: occorre che la vita sia sgombra da fastidiose incombenze o da affetti che ti prendono l’anima e impongono urgenze ineludibili, come dover badare a figli molto piccoli (la mitologia dei grandi maestri li racconta come figure solitarie). Anche tu me ne parli: dover correre per andare a prendere i

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figli a scuola... «Ho sempre pensato che ‘perdere tempo’ insieme è fondamentale per conoscersi bene» scrivi. Rosalba *** Roma, 17 febbraio Caro Beppe, al Cidi ieri si parlava del linguaggio dei giovani. I ragazzi di Barbiana – ha detto un maestro – erano portatori di un mondo ricco, a cui don Milani seppe dare voce. Egli insegnava ai suoi ragazzi l’importanza di ‘possedere le parole’ per un riscatto sociale che allora vedeva protagonista il movimento operaio (il linguaggio doveva raccontare quel mondo). E fino a pochi decenni fa c’era ancora una cultura materiale che forniva ai ragazzi, specie ai ragazzi di campagna, esperienze ricche di storia. Questa cultura materiale ora non c’è più. C’è una cultura televisiva, molto chiassosa, e che, tra l’altro, non esce dalla superficialità. Oltre questa, quali altre esperienze conviene far emergere? E delle storie personali, conviene farne oggetto di riflessione? Non lo so, è una domanda a cui è difficile rispondere. ‘Raccontare storie’ è un facile accesso al conoscere. Anche condividendo (e non potrebbe essere altrimenti) il presupposto che ogni essere umano sa e vuole ‘pensare per storie’, mi chiedo dove si va a parare qualora si stabilisca l’equivalenza tra il raccontare (che è una forma primaria di descrizione di sé e del mondo) e una soggettività senza vincoli: un esempio, le vicende strappalacrime esibite alla tv. (Anche qui c’è una qualche ‘verità’: un bisogno urgente di raccontare di sé per conoscersi? Un correttivo alla solitudine, alla omologazione? Chissà.) Non sto parlando dello stile narrativo in quanto tale, in quanto connaturato all’essere umano. Voglio invece ragionare a un livello

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diverso, circoscrivendo la questione al nostro tempo. Il dare voce alle emozioni, alle speranze, come ‘luogo della politica’ è una proposta di certa parte del movimento femminista: l’emancipazione sociale, culturale e politica si realizzerebbe attraverso un protagonismo che metta al centro la soggettività; la lingua perciò deve parlare dei singoli, non delle classi. La questione della soggettività e delle sue conseguenze sul piano didattico mi arrovella da diversi giorni. Se intendessimo la soggettività come strategia privilegiata per accedere a una qualche ‘verità più vera’ rispetto alle generalizzazioni delle storie collettive o alle astratte teorizzazioni, potremmo cadere nell’errore di sopravvalutarla o di prenderla per oro colato. Anche per la soggettività, comunque raccontata o agita, valgono i limiti del tempo, del luogo, di ciò che rendiamo oggetto di racconto. E poi, non tutto si presta a essere raccontato. Raccontare storie, anziché parlare per generalizzazioni. Ma perché e quando è più conveniente raccontare storie? Prendiamo le nostre lettere: quando raccontiamo le nostre personali esperienze non è forse per parlare di altro? Ricordi il patto che facemmo quando inaugurammo questa corrispondenza? Uno dei vincoli che ci siamo dati è quello di portare le questioni minute a un livello più alto di astrazione: per afferrare la ‘reale’ natura dei problemi bisogna infatti pensare a organizzazioni di più ampie dimensioni. Una comprensione profonda delle cose viene quando riusciamo a portarci da un livello di complessità C a un livello di complessità C+1. Questo passaggio serve per capire e per pensare entro una prospettiva più vasta. È solo dopo (o accanto a) questa operazione mentale che è conveniente raccontare storie. Le quali sono sempre metafore, alludono cioè ad altro, sono metaracconti: anche il livello C+1 è un metaracconto. Diversamente dalle teorizzazioni e dal pensiero rigidamente sequenziale, le storie hanno il pregio di seguire una strada flessibile, non diretta. È proprio così: nel mondo biologico la via più

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breve non è una linea retta ma un percorso tortuoso, a zig-zag. Pensare e agire in modo eco-logico non vuol dire che la conoscenza analitica va rigettata, ma che va combinata con la disposizione a meditare su sé stessi e sul mondo esterno. Oggi ho fatto portare in classe il giornale “Leggo” – uno dei tanti distribuiti gratis all’uscita della metropolitana –, perché dovevano scegliere un articolo sul quale osservare l’uso della punteggiatura. Verifica della punteggiatura, di maiuscole e di altri segni grafici. Abbiamo trovato una virgola mancante prima della relativa appositiva, e poi, troppe le frasi nominali! Ancora: una mancata uniformità nell’uso di maiuscole e minuscole per le sigle eccetera. Alla fine erano esausti. Ecco, con questo tipo di lavoro in classe faccio loro toccare con mano la natura di quello che si chiama studio, glielo faccio esperire. Le lezioni, o le parti di lezione, incentrate sul puro diletto (i giochi linguistici: acrostici, anagrammi, cambi di lettere e di sillabe ecc.) aiutano, fra l’altro, a capire e ad apprezzare la differenza. Si stancano, sì, ma non si annoiano. Devi credermi sulla parola. Rosalba *** Roma, 28 febbraio Caro Beppe, nell’attesa di una tua lettera (lo so che da vicepreside hai molto più da fare di me) ti propongo una ulteriore riflessione sulla presunta ‘stupidità’ dei nostri ragazzi. Ieri c’è stato un collegio dove il preside, molto preoccupato, ha presentato i grafici che dimostrano la tragica situazione delle ripetenze, degli abbandoni eccetera.

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Sarà anche vero che bocciature e voti bassi i ragazzi se li sono meritati: «Dovremmo alzare i voti per allinearci alla statistica nazionale?» ha detto un collega. «Dovremmo mentire?». Su questo niente da obiettare. Ma che «i ragazzi arrivano alle superiori digiuni di qualsiasi nozione», come in modo lapidario ha detto un altro insegnante, mi pare privo di qualsiasi fondamento, specie se consideriamo il luogo dove la frase viene detta: un’assemblea di docenti, cioè di esperti in materia di apprendimento. Nessuno studente, nessun essere umano è ‘digiuno di nozioni’: questo è un presupposto sbagliato sotto ogni profilo (biologico e culturale). Sono i nostri strumenti di rilevazione che vanno semmai riconsiderati: sono quelli, e noi che li scegliamo, a far emergere certi dati piuttosto che altri, anche quello che chiamano ‘il vuoto’ di nozioni. Questa mattina in sala insegnanti si continuava a parlare dei fallimenti della scuola: «Questi ragazzi, noi li stiamo rovinando perché non li responsabilizziamo», «La scuola di una volta funzionava...». «Ma per quanti funzionava? Quanti erano, allora, ad andare a scuola?» ho detto mentre andavo via – era suonata la campanella, dovevo correre in classe e portare i ragazzi nell’aula tecnologica. Oggi in 1ª G: il film Sogni di Akira Kurosawa, i primi due episodi: Il sole sotto la pioggia e Il pescheto. Mercoledì andremo all’Istituto giapponese di cultura: c’è la mostra delle bambole allestita per la festa della primavera, le stesse bambole che si vedono nel secondo episodio del film. Rosalba *** Roma, 12 marzo Caro Beppe, dovrei riprendere il filo delle storie che mi si srotolano davanti,

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e ce ne sarebbero alcune che vogliono essere prepotentemente raccontate, perché parlano di eccezioni, di differenze; come è per Cuore di De Amicis, dove Franti si fa largo tra i ragazzi che, nella loro ‘normalità’, gli danno l’agio di emergere da attore protagonista. Proprio ieri ricordavo in 1ª G questa faccenda del nostro percepire e apprendere in virtù delle differenze, e che apprendere vuol dire trasformare una differenza in una differenza, entro un certo contesto. Su questo tema sono ferrata, e mi sono venuti facili un buon numero di esempi. Anche Petrone ha fatto un esempio: «Se tutti in 1ª G venissimo a scuola con i capelli tinti di rosso, non noteremmo nessuna differenza». «Giusto» ho detto io. «Però, se appuntassimo l’attenzione alle sfumature, noteremmo differenti tonalità di rosso». Specializzarsi a osservare e valutare differenze anche molto sottili è cruciale per noi insegnanti. Prendiamo la grammatica: qui per me è facile discriminare ciò che è ‘giusto’, da ciò che è ‘sbagliato’ seguendo criteri convenzionali; per le poesie, i racconti, le mitologie vale invece il criterio della aleatorietà. I pensieri dei ragazzi si mettono in movimento, pensieri difficili da controllare e che non si prestano a essere incanalati in un’unica direzione né a essere valutati ‘oggettivamente’. Perciò devo fare molta attenzione a scegliere quei tipi di prove che meglio rendono palese ciò che è stato capito, cosa no, come lo hanno capito, cosa sanno fare dopo che hanno capito. Mi domando sempre se convenga fare riassunti, parafrasi, domandine e rispostine, se insomma convenga rivestire di parole un qualche contenuto che si presenta nella sua tautologica perfetta ‘verità’, come è stato il giorno in cui abbiamo visto Sogni di Kurosawa e Gionfriddo ha detto: «Non c’è bisogno di dire niente. È bello, e basta». Non è sempre vero che la loro reticenza a fare il compitino – dopo un film, una mostra, una gita – esprima semplicisticamente il desiderio di sottrarsi al lavoro: qualche volta la loro reticenza esprime una qualche saggezza.

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E quante sono le volte che anche a noi pare più opportuno far tacere l’ansia di rielaborare un contenuto, di rivoltarlo da tutte le parti! E in sede di verifica, sono tanti i casi in cui ci basta cogliere uno sguardo, avvertire un’atmosfera di com-partecipazione, di attenzione intelligente. E sono tanti i segnali attraverso cui prendiamo decisioni, esprimiamo un tacito giudizio senza una chiara consapevolezza di come ci siamo arrivati. Se tu mi chiedessi perché oggi, ieri, una settimana fa la lezione è ‘riuscita’, non sempre saprei darti una risposta ‘logica’, non sempre saprei documentarla. Eppure documentare, tracciare differenze, è necessario, per loro, per me, e ovviamente anche per chi giudicherà dall’esterno. Oggi tre ore molto laboriose. A renderle tali hanno contribuito Capriati e Riotti che erano a casa con l’influenza. Reyes e Manzi – fino a ieri pecorelle smarrite – hanno fatto un compito niente male. Li ho letti alla classe facendo notare dove e come è migliorata la loro scrittura. Questa di accogliere con tutti gli onori le pecorelle smarrite è storia recente. Ai tempi miei venivano lodati solamente i bravi. Delle pecorelle che durante e dopo le elementari si smarrivano non si aveva più notizia, nessuno si premurava di sapere dove stessero, che diavolo facessero. Rosalba *** Roma, 13 marzo Caro Beppe, ti ho parlato del film a episodi Sogni di Kurosawa. Una settimana dopo siamo stati all’Istituto giapponese di cultura. Lì si celebrava la festa della primavera – come in molte case giapponesi e come si vede nel film, nell’episodio Il pescheto. Per propiziare l’arrivo della primavera, sono messe in mostra bambole ricca-

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mente vestite in abiti tradizionali, con accanto oggetti rituali, sui gradini di una sorta di scala laccata di rosso. E così, i ragazzi hanno rivisto le bambole lì, dal vivo, tali e quali a quelle del film. Il giorno dopo, a scuola, abbiamo rivisto il film. Per loro era la seconda volta, per me la centesima. «Perché mi racconti questa storia? Perché la fai così lunga?» mi dirai. Veniamo al punto. Le parti lente del film, che sono le scene più importanti, e che di solito i ragazzi vedono con insofferenza – la danza rituale del corteo nuziale delle volpi (Il sole sotto la pioggia) e la danza delle bambole (Il pescheto), una sorta di teatro kabuki –, ora loro le vedevano con altri occhi, con altra ‘sapienza’. Quanto a me, che pratico il Tai Chi, non è stato difficile apprezzare il passo delle volpi e la danza delle bambole. Per me, insomma, c’è un apprendimento che fa da sfondo (il Tai Chi) e che crea una ‘risonanza’. Nonostante questo vantaggio, sono certa di aver capito come non mai quel film: è come se non soltanto loro, ma anche io l’avessi capito in modo diverso, come se glielo avessi spiegato, come se io avessi centrato la spiegazione. Insomma, ho apprezzato il film nello stesso modo con cui lo stavano apprezzando loro. Quel vedere una seconda volta, tutti insieme, il film – e che avvertivo come apprendimento di livello superiore –, è stato per me la conferma di come gli esseri umani possono conoscere solo in ‘contesti ripetuti’. E poi, trovi anche tu che non è solo importante capire una certa cosa, ma è importante anche come la capisci e con chi quella certa cosa la capisci? Noi insegnanti ci siamo specializzati nel capire le cose insieme con le persone a cui le spieghiamo. Di questa peculiare modalità di apprendimento io adesso sono consapevole – c’entra ovviamente l’empatia o, detto in altre parole, i messaggi non-verbali (compreso il silenzio). Rosalba

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Roma, 22 marzo Caro Beppe, sto ancora rimuginando attorno alla frase «I ragazzi arrivano alle superiori digiuni di qualsiasi nozione». Oltre che contenere un errore di prospettiva, questa frase è ‘sbagliata’ perché non parla di quei due o tre, anche di quel singolo, che le nozioni le posseggono; tuttavia, presa per quello che è – una generalizzazione –, se pure avrà un qualche fondamento, tace però su come è stato accertato ciò che afferma. Da un po’ di anni, considerato che le relazioni finali non le legge nessuno, le scrivo per me, perché mi aiutino a sbagliare di meno l’anno dopo (l’anno dopo non è detto, però, che non ricada negli stessi errori o in errori peggiori). Scrivo sbrigativamente quello che ho fatto, e dico lungamente, nel dettaglio, ciò che ‘non’ ho fatto, i percorsi che ho intravisto ma non ho saputo – oppure non ho voluto – seguire, quelli che ho intravisto troppo tardi eccetera. Analizzo, per fare un esempio gli strumenti che ho usato: come mai sui ‘popoli del mare’ solo il libro di storia e non quel bellissimo video che si trova in biblioteca? E così via. Sono molte e diverse le variabili che strutturano e condizionano il processo mentale. Un esempio semplicissimo: se nel foglio su cui sto scrivendo non lascio un ampio margine per la successiva revisione, è poco probabile che la revisione sia ben fatta, è addirittura possibile che l’assenza di margini bianchi mi condizioni al punto che io la revisione scelga di non farla. Sappiamo insomma che del processo mentale fanno parte gli strumenti materiali – dai libri alle prove strutturate, i test per esempio –; lo sappiamo ma poi ci comportiamo, parliamo, descriviamo la realtà, come se gli strumenti fossero assoluti, liberi cioè da condizionamenti. (Noi, noi occidentali, abbiamo lungamente esercitato il pensiero che separa l’io dagli altri, soggetto e oggetto, il dentro e il fuori ecc.) Alludo non solo agli strumenti materiali in senso proprio, ma anche agli strumenti non-mate-

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riali, detti astratti (teorie dell’apprendimento, didattiche disciplinari, criteri di valutazione ecc.) dai quali facciamo derivare le nostre azioni concrete. Per sua natura, l’apprendimento culturale oltre che evanescente è complicato, ed è complicato anche accertarsi che l’altro abbia appreso: se a essere interrogati fossimo noi insegnanti, noi che siamo tra i massimi esperti in materia di ‘interrogazione’, potremmo non riconoscere nella forma della domanda la risposta che pure possediamo. Per di più non tutti sono in grado di esplicitare le nozioni, non tutti sanno dare loro una forma linguistica. Oggi io ero certa che Tonucci aveva studiato la storia di Tiberio Gracco e capivo benissimo che quel suo aggiustarsi i riccioli senza spiccicare parola era dovuto al fatto che lui quella storia non la sapeva dire. La profezia che si autoavvera: se mi convincerò che tu sei ‘completamente digiuno di nozioni’, mi comporterò come chi attribuisce all’altro una ignoranza totale. Ed è molto probabile che l’altro se ne convinca a sua volta e si comporti di conseguenza. Insomma, nell’andare a caccia di ciò che non sanno e di ciò che sanno, conta quello che decidiamo di fare dopo, dopo aver preso atto della assenza di nozioni, fosse anche totale. Rosalba *** Firenze, 22 marzo Cara Rosalba, ho riletto tutte insieme le tue ultime lettere. Si intravedono diversi stati d’animo. Nella maggior parte traspira un’atmosfera di calma ricerca, una quiete che mi fa pensare tu le abbia scritte nelle prime ore del mattino, quelle che riservi solo per te. Colpiscono per la loro limpidezza e serenità; altre invece, ma poche, hanno il

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battito più accelerato, come quando ci si ferma dopo una corsa. Vi si riconoscono i segni della tensione passata, non ancora del tutto svanita. Anche per questo mi piace il nostro epistolario: non è solo un’occasione di riflessione sulle cose della scuola – comunque per me preziosa –, ma anche la testimonianza degli stati d’animo indotti da questo strano lavoro che ci chiede di gestire e gestirci in situazioni spesso diversissime. Se vuoi immaginarti il contesto da cui partono le mie lettere, immaginale come uno sguardo fuori dalla finestra; un attimo di pausa ritagliato in un andirivieni di ragazzi, ragazze, professori, custodi: tutti con qualcosa da raccontare. Anche quando ti scrivo da casa non sono mai solo: non abbiamo uno studio e nel grande salotto c’è sempre anche Filippo, che preferisce studiare vicino a qualcuno; evidentemente devo essere anch’io come Filippo, perché queste sono le situazioni che prediligo. D’altra parte sai che non sono portato a lanciarmi nelle situazioni e di conseguenza preferisco esserci immerso per non correre il rischio di restarne estraneo. È forse anche per questo che mi piace il laboratorio. In una normale aula è sicuramente diverso, ma in laboratorio la situazione torna per certi versi ad assomigliare a un reticolo di relazioni che ci avvolge tutti, dove ciascuno assume ruoli molteplici. Intanto sono sempre in compresenza e quindi posso assistere alla lezione del mio amico e collega Roberto. Poi è un fatto che gli alunni si devono parlare per coordinarsi nel lavoro comune. La comunicazione è molteplice e richiede solo regolazione, non inibizione. Come ti dicevo, io trovo che queste situazioni siano illuminanti appena si riesce a ritagliarsi uno spazio di riflessione. Prima di entrare nel merito di ciò che mi scrivi, vorrei raccontarti qualcosa accaduta a scuola nel periodo delle manifestazioni contro la guerra. Era un giovedì, e mancava il preside. Mattina di proteste spontanee un po’ ovunque: nella mia scuola si sono tradotte in un corteo nei corridoi, per chiamare gli studenti fuori dalle aule e portarli a manifestare con le altre scuole in piazza San Marco. Una bella confusione, come puoi immagi-

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narti, perché tra gli studenti sono pochi quelli in grado di fare pressione con la sola arma dell’argomentazione. I più diventano aggressivi e si rifugiano nelle urla. Ho fatto uso dei ‘margini di flessibilità’ che la mia ‘autorevolezza’ mi permette: ho deciso di farli uscire dai corridoi dando in cambio la possibilità di parlare agli studenti nelle aule dal microfono della presidenza. L’altra mattina alcuni studenti hanno bloccato per breve tempo i binari della stazione centrale. A scuola è giusto che adottino lo stesso atteggiamento? No, ma solo se li aiutiamo a vedere la ‘differenza’. Il treno è una macchina che si muove su dei binari, per fare notizia si può solo fermarla. La scuola invece è fatta dalle persone, e come ogni organismo vivente possiede molti vincoli e soglie di tolleranza; niente a che vedere con dei binari. Io ho solo cercato di far risaltare questa differenza – in un giorno di scuola giustamente particolare – in cambio della comprensione che la loro scuola non è il treno su cui possono salire e scendere disinvoltamente. Invece la cosa non è piaciuta a molti, anche se un comportamento analogo lo avevamo già adottato con l’autogestione dell’anno precedente, quando concordammo con il comitato due ore di lezione e poi la libera decisione degli alunni se restare in aula o partecipare ai gruppi di lavoro. Va detto che il giorno dopo c’è stato uno strascico che è sembrato dare ragione a chi ha lamentato la pericolosità della comunicazione ufficializzata alle classi. Gli alunni infatti hanno di nuovo richiesto di poter uscire per partecipare alle proteste studentesche. Ho detto di no, che se entravano dovevano fare scuola, perché quelle programmate erano iniziative già conosciute prima d’entrare in classe e ciascuno poteva e doveva fare le proprie scelte. Le scelte hanno un prezzo, il minimo a scuola è l’assenza. Eppure non mi è sembrata solo una richiesta furba, almeno non per tutti. Vi ho visto anche la voglia di fare qualcosa fuori dalla scuola,

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ma accompagnati da essa. Me lo fa credere l’educazione con cui sono venuti, in molti, a chiedermelo, la tranquillità con cui hanno accettato la mia posizione. Forse avevano bisogno di attraversare la soglia da entrambi i lati per apprezzarne il significato. Si aspettavano una scuola-fortino da espugnare, si sono invece trovati in un luogo di confronto civile e di scelte responsabili. La pace si difende nelle strade ma si costruisce a scuola, con la pratica della democrazia e del dialogo. Gli atteggiamenti dei ragazzi non dobbiamo mai giudicarli ‘tossici’ di per sé per la scuola, nemmeno quando sono proteste che rompono gli schemi consolidati. Si tratta di indicare i margini perché le loro azioni restino compatibili con un dialogo. Nel mondo vivente, ogni variabile può diventare ‘tossica’, sia che superi la soglia di tolleranza, sia che venga inopinatamente bloccata. Porre dei confini è necessario quanto garantire gradi di libertà al sistema. Ho fatto male? No, ho fatto bene, e il chiacchiericcio in sala professori me lo conferma. Le azioni che hanno il consenso di tutti sono quasi sempre fasulle. Certo, ci sono rimasto male, perché l’idea che la scuola debba proteggersi in forma preventiva incontra anche ottimi colleghi che speravo istintivamente con me. Comunque quell’idea non è la mia e la trovo pericolosa perché preferisce il rigido rispetto delle procedure alla comprensione dei processi che l’attraversano. La strategia della pietra, che resiste al cambiamento restando immutata, non è buona per gli organismi viventi. Non dovremmo allora riuscire a spostare il livello del ‘sacro’ dal piano della campanella a quello del modo della comunicazione, del suo fine, dei suoi contenuti? La scuola, in fondo, è l’ultimo luogo istituzionale dove si deve continuare a credere nella civiltà della conversazione. Beppe

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Firenze, 23 marzo Cara Rosalba, tempo fa mi hai scritto che noi occidentali «stiamo correndo il rischio di dis-connetterci dal resto del mondo»; siamo portati a violare i confini, a considerare sempre ‘progresso’ il superamento di barriere e l’abbattimento di muri. Queste tue parole mi hanno fatto molto riflettere. In maniera un po’ confusa penso che i confini servano per delimitare e quindi per definire. Ricordo le parole di Bateson, che in Mente e natura osserva: «Un mondo del senso, dell’organizzazione e della comunicazione non è concepibile senza discontinuità, senza soglia [...]. Il chiaroscuro è un’ottima cosa, ma William Blake ci dice recisamente che gli uomini saggi vedono i contorni e perciò li tracciano». Nello stesso tempo il confine non è soltanto una linea che divide, ma anche che unisce, una superficie di contatto che si lascia oltrepassare senza permettere però che questo flusso confonda le parti. Nel mondo delle relazioni, il confine è una membrana semipermeabile come la pelle, che ci protegge senza chiuderci. Ricordo da bambino l’emozione della prima volta a teatro con la magia del sipario rosso, acceso come un fuoco sotto la luce dei riflettori, gli stessi che di lì a poco avrebbero illuminato i protagonisti. Apparentemente un bel controsenso: il sipario come protagonista della scena che nega, eppure profondamente necessario, perché è quella negazione che identifica il luogo e prepara a quanto accadrà di lì a poco. Un ricordo e una lettura, un’emozione e un ragionamento, sono la mia «doppia descrizione» del sipario. Beppe ***

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Roma, 24 marzo Caro Beppe, apro una parentesi sulla nozione di ‘responsabilità’. C’è da chiedersi se è proprio vero che i ragazzi di oggi sono più fragili dei ragazzi di una volta (io tenderei a vedere in molti casi il ripetersi di una dinamica ‘eterna’: ogni fase di passaggio comporta una ‘piccola morte’). Mi chiedo se dobbiamo prenderci cura di loro fino in fondo. E se sì, che ne sappiamo davvero di come sono? Secondo me è un vantaggio che la conoscenza che abbiamo di un allievo sia delimitata – e limitata – dal contesto-scuola. Questo ci aiuta a circoscrivere l’ambito del nostro agire, a frenare l’impulso a dare giudizi categorici sulla loro personalità... E tuttavia, nonostante i limiti, nel rapporto quasi quotidiano con i ragazzi, nello scambio reciproco di pensieri e di storie si crea un processo co-evolutivo nel quale c’è un guadagno di conoscenza, un ‘di più’ che a tratti ci pare di afferrare. I poeti hanno una corsia privilegiata, l’empatia, per arrivare al cuore delle cose; ma per gli altri – per me, per te, per tutti i nonpoeti –, il ‘di più’ di conoscenza nasce, sì, dalla percezione della somiglianza fra sé e l’altro, e cioè da una (inconsapevole) empatia, ma è una conoscenza ‘doppia’, fatta anche di ragionamento, consapevolezza, disciplina mentale. È di grande aiuto per noi considerare conoscenza empatica e ragionamento non momenti staccati, non in alternativa l’una con l’altro ma complementari (come è per rigore/immaginazione, diacronia/sincronia ecc.). E credo che tu con gli studenti (e di sicuro con tuo figlio Filippo) riesca meglio di me a non separare ma a combinare i due aspetti della relazione. Per come ho imparato a conoscerti, il tuo registro comunicativo non è mai uno solo. Parlando ieri in 1ª G di Pascoli e del simbolismo, «Vedete» ho detto «voi studiate la fisica, la storia, la chimica eccetera, come ‘oggetti’ fuori di voi, e vi è stato insegnato a distinguere quegli

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‘oggetti’ dalle vostre considerazioni ‘soggettive’, dai discorsi che raccontano il vostro mondo interiore, insomma voi avete imparato che l’‘io’ e ‘il-resto-del-mondo’ sono ambiti distinti, da pensare e da descrivere separatamente. Il poeta invece concepisce l’unità, non la distanza...». Leggiamo Corrispondenze di Baudelaire: «È un tempio la Natura ove viventi / pilastri a volte confuse parole / mandano fuori; la attraversa l’uomo / tra foreste di simboli dagli occhi / familiari». Mi chiedo mentre ti scrivo che cosa è ‘passato’, come ciascuno se le è immaginate le «foreste di simboli» che l’uomo attraversa nel «tempio» della Natura. E io, alla loro età, se mai mi avessero fatto studiare Baudelaire, che diavolo avrei capito? Ho raccolto molte facce perplesse, Carandini serio, Gionfriddo incantato... La poesia arriva di sicuro al cuore dei ragazzi. Però è sempre immane l’impresa di rendere significativo e durevole il suo messaggio, farlo passare nella memoria stabile, che non scivoli come l’acqua scivola sulla pietra. Ricordi la metafora della pietra e della zolla? La zolla assorbe subito l’acqua, ma per farla penetrare nella pietra noi dobbiamo scavare dei forellini. Fuori di metafora: studiare. Ieri però non riuscivo a trovare qualcosa di semplice da fargli fare: un esercizio, chessò, un commento. L’operatività nelle mie materie (a parte la grammatica) non è così scontata. Per la poesia (per l’arte in generale), quando volessimo descriverla, raccontarla a nostra volta, dovremmo farlo con un linguaggio sì rigoroso, ma che si alimenti di una buona dose di aleatorietà e di non-detto. Rosalba *** Roma, 26 marzo Caro Beppe, le mie lezioni non sono proprio come le tue, ma in qualche

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modo assomigliano a un ‘laboratorio’, dove si accetta di tutto. «Se non ragioniamo sugli errori non si va avanti» dico sempre ai ragazzi, e dare la ‘paternità’ a ogni errore (da quello di Pomponio in poi), e trattarlo con la giusta dose di ironia, aiuta chi teme di farsi avanti, chi si paralizza all’idea di essere colto in fallo. Uno di questi è Martelli. In un suo compito c’era scritto ‘concilianti’ invece che ‘coincidenti’. «Questo è un errore interessante» ho detto rivolta a lui e alla classe. «Ti sei lasciato ingannare dall’assonanza». E ho aggiunto: «Certi pasticci succedono molto di frequente: Tizio usa una parola per un’altra e tuttavia chi legge o chi ascolta riesce ad afferrare il significato che era nelle sue intenzioni. Io mi arrabbio con voi quando sbagliate, mi sorprendo se non mi capite, e anche a voi succede spesso di non capire me. Eppure» e qui ho allargato come al solito il discorso «tutti noi dovremmo sorprenderci, anche e forse di più, per il fatto che capiamo e riusciamo a farci capire, per le tante cose che impariamo senza sapere di averle imparate, per come siamo bravi a cambiare opinione o a confermare le opinioni precedenti». Insomma, siamo immersi in un continuo movimento di idee, e mi succede a volte di esserne consapevole. Pensiamo a quanti sono i messaggi di conferma e disconferma che ci vengono dai nostri studenti, che generano in noi (o rafforzano o smantellano) abitudini di pensiero: anche questo noi apprendiamo mentre insegniamo, così come avviene in loro. Vedi cosa accade con la mia 2ª G: gli studenti di quella classe non si fidano del tutto di me, e io ne ricevo un messaggio di disconferma. Allora cerco di rimediare: ad esempio predispongo le cose affinché una prova scritta la svolgano tutti senza sbagliare, e questo genera (è probabile che generi) un clima favorevole alla personale autostima, e allo stesso tempo alla fiducia reciproca; certe altre volte sommo in un’unica valutazione sia l’impegno sia i risultati ‘oggettivi’ e tento così di migliorare il mio rapporto con loro. È successo oggi con Tagliaventi, uno dei pochi che accetta fiducioso i miei consigli e che dall’inizio dell’anno fa riassunti,

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dettati senza punteggiatura eccetera (il ‘programma-stampella’): ho premiato l’impegno nonostante i risultati oggettivamente scarsi. Così con Riotti: un giorno gli correggo il compito in sua presenza, correggiamo insieme, discutiamo degli errori e di ciò che è ben scritto. Seguendo criteri dichiarati preventivamente e uguali per tutti, il compito sarebbe stato da 4, ma la familiarità che si era creata tra me e lui (una parità insolita), non me lo consentiva. Il piano dei rapporti, insomma, era cambiato: era un piano relazionale dove l’oggetto (il riassunto, in questo caso) che fa da medium tra lui e me diventava secondario. Mi viene da pensare a quel tuo «spostare il livello del ‘sacro’ dal piano della campanella a quello del modo della comunicazione...». Ciò che conta in questi casi è non confondere i livelli, l’essere consapevoli che li teniamo distinti, il riuscire a vedere le cose nonseparate e tuttavia non-confuse. E tu, non dimenticarti che anche la campanella della scuola ha una sua precisa, differente sacralità! Rosalba *** Roma, 27 marzo Caro Beppe, siamo a due mesi dalla fine della scuola, il periodo più nero dell’anno, per noi e per loro. Il gatto con il topo: l’afferri e lui ti scappa. Quasi non so più cosa sia fare scuola quando tu spieghi, assegni i compiti e loro li fanno. Con Demarco le ho provate tutte, fino a quando mi sono arresa: «Per quanto diversi siamo tra noi» gli ho detto «siamo pur sempre animali, abbiamo la vocazione a vivere, siamo predisposti a mettere in atto soluzioni adattative. Per dirla in modo scientifico, tu sei ‘autopoietico’» ho aggiunto con un tono semiserio. «Sai dove andare, ne hai le capacità. Forse sba-

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glio io, sbagliamo tutti noi a tirarti da una certa parte, nell’unica direzione che abbiamo scelto per te, nonostante la tua volontà». Demarco mi ha gettato uno sguardo sospettoso: «Ma allora» avrà pensato «tu non ti occuperai più di me?». L’ho lasciato solo a districarsi (a contemplarsi) nel suo personale «doppio vincolo», fermo al semaforo mentre il verde si accende e si spegne. Nelle giornate nere come questa, arrivo a pensare che non mi giovi l’aver studiato e assimilato le teorie di Bateson sul mondo vivente: quel continuo accostare descrizioni a descrizioni, il considerare parzialità e provvisorietà delle scelte dentro l’indefinito campo di ciò che è possibile conoscere, e che questo conoscere è una costruzione nostra. Come sarebbe meglio restare ancorati al nostro originario mondo ‘tolemaico’, all’intima ricchezza di una pura esperienza sensoriale, riporre fiducia in ciò che vediamo e ascoltiamo: che la Terra è ferma, che il lampo precede il tuono, che i colori esistono là fuori tali e quali a come li vediamo noi. A ogni passo che faccio, a ogni scelta, mi balza agli occhi tutto ciò che ho scartato, sacrificato. Cerco allora una rassicurazione. Provo a consolarmi del fatto che i miei colleghi sanno dove andare: a differenza di me, lavorano con tenacia senza tentennamenti, e sanno valutare, registrare i risultati in chiare e ordinate tabelle. Osservavo giorni fa in Campidoglio un gruppo di studenti francesi (scuola media). Seduti per terra ai piedi della statua di Marco Aurelio, ascoltavano il professore mentre spiegava. Avevano sulle ginocchia un blocchetto prestampato, con righe vuote da riempire, su cui di tanto in tanto scrivevano. Ecco, nozioni finite per risposte definite (facili suppongo), ecco il segreto! E c’è dell’altro. Alle domande del professore, lì, all’aperto, nel bel mezzo della gazzarra dei turisti, qualcuno alzava addirittura la mano prima di rispondere! E i distratti non recavano alcun disturbo agli attenti: rimanevano educatamente immersi nei propri pensieri. Come è diversa una mia analoga lezione, quel mio trascorrere

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pasticciato da un argomento all’altro. Quando ho portato la 2ª G alla Crypta Balbi (documenti dell’Alto Medioevo), li ho frastornati di ogni genere di notizia e di commento (così mi pare, così penso adesso). E loro? Dovevo richiamare a gran voce quelli che scappavano nella sala accanto, due che si azzuffavano, quello che faceva il solletico al compagno davanti. I custodi del museo, alla fine, hanno lodato la mia pazienza, e anche l’‘educazione’ dei ragazzi! Pensa tu cosa non vedono ogni giorno quando arrivano le scolaresche italiane! Forse i ragazzi francesi più grandi, quelli dell’età dei miei, si comportano come i miei. Non so. Insomma, dall’invidia che ho provato per la scuola francese ho tratto la conclusione che i ragazzi italiani ricevono, sì, una educazione ‘fantasiosa’, gli vengono sì riconosciute molte libertà (un ‘poter fare’ precoce che rallenta la capacità di scegliere il ‘cosa fare’, come scrivi tu), ma al punto che la loro istruzione finisce per soffrirne. Torno allora a chiedermi: cosa si perde quando si guadagna in giocosità e fantasia? E quando queste fossero le uniche esperienze della vita di un bambino... meglio allora la scuola montessoriana? Forse sì, o forse meglio una combinazione dell’una e dell’altra. Rosalba *** Roma, 30 marzo Caro Beppe, «La scuola, in fondo, è l’ultimo luogo istituzionale dove si deve continuare a credere nella civiltà della conversazione» concludi nella tua penultima lettera. L’oralità si alimenta di scarti, dell’uso inaspettato di una parola: l’oratore sospende il discorso e accoglie la parola dell’altro. Quanto è servito, a me e a te, leggere e rileggere Oralità e scrittura

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di Ong, tenuto conto che l’apprendimento scolastico è fatto soprattutto di messaggi verbali, di discorsi che si intrecciano. Mai parlare come un libro stampato! Quando spiego, a tratti mi fermo per cercare la parola – questo succede a tutti – e lascio sospesa la frase. Mi sono accorta che, nel tempo, e senza averlo deciso, ho generato in loro l’abitudine di suggerire la conclusione. Anche se la parola o la locuzione suggerita è inappropriata, o non è quella che avrei usato io, la incorporo tuttavia nel mio discorso, e magari aggiungo una perifrasi che la renda appropriata. Con questo non voglio certo dire che a scuola si discuta alla pari, non nego che esistano livelli differenti di comprensione e di formalizzazione del pensiero. Ma questa è un’altra storia, e te ne ho parlato tante volte. Oggi leggo dal giornale che in Francia gli insegnanti denunciano la ‘noia’ degli studenti: chiamano quella attuale «la generazione del telecomando». Ma allora? I ragazzi francesi che ho visto al Campidoglio, erano tutta una messa in scena per farmi morire d’invidia? O sarà che erano gli ‘eccellenti’, gli unici a essere mandati in giro a istruirsi? Ricavare informazioni da un testo scritto richiede che lo si legga per intero e non ‘per rapidi sguardi’, come avviene con i messaggi iconici. Succede che i nostri ragazzi sovrappongano loro personali, consuete modalità di lettura (‘per rapidi sguardi’, appunto) a testi che richiedono una strategia diversa. In 2ª G, attraverso varie prove – di scrittura e di discorso parlato – stanno prendendo atto di quanto sia difficile riassumere (com’è facile cioè cadere nell’errore di ‘vedere la gallina’, o detto con una più nota metafora: guardare il dito anziché la luna). Solo attraverso riscontri minuziosi, evidenziando un eventuale errore di prospettiva, verificando la gerarchia delle informazioni, oltre che i problemi squisitamente grammaticali (subordinate, richiami anaforici, perifrasi ecc.), può maturare nei ragazzi l’ostinazione a volere capire.

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Di recente ho fatto fare, in giorni consecutivi, una prova ripetuta sullo stesso testo, una scheda di storia sulla vita dei monaci del Medioevo. Dapprima un test (domande-risposte), poi un riassunto vero e proprio. Hanno così appreso consapevolmente qual è la particolare natura di un testo ‘derivato’ – nel nostro caso, un riassunto – e ciò tuttavia non comporta automaticamente né in via definitiva, l’abbandono di quel modo un po’ raffazzonato con cui leggono e derivano testi da altri testi. La domanda è sempre la stessa: come far accettare ‘il fare sempre le stesse cose’ a ragazzi non abituati alla ‘noia’ dello studio, abituati come sono a ‘cambiare canale’? Le tre ore consecutive di grammatica o di storia sono forse per loro l’unica esperienza ‘senza telecomando’. Qui, oltre a una accurata scelta di tempi, luoghi, strumenti (materiali e concettuali), può avere buon gioco l’autorevolezza dell’insegnante, che però esiste solo se l’altro la riconosce. Insomma, è un terreno di conquista mai definito una volta per tutte e, in generale, a scuola conta sia ciò che un insegnante sa, sia ciò che lui è. E sbaglieremmo a considerare l’una cosa senza l’altra. Si fanno corsi sulla relazione, sulla psicologia degli adolescenti, e poi scopriamo che gli insegnanti che bocciano di meno e hanno i risultati migliori sono quelli che conoscono bene la materia che insegnano e che hanno imparato a insegnarla. Quando da giovane confessavo a un’amica, studiosa di linguistica, la mia ignoranza in fatto di teorie del linguaggio e di didattica dell’italiano, lei diceva: «Tu pensa a studiare. Quando ne saprai tanto, troverai la strada». È quel conoscere bene una certa cosa, che fa venire voglia di trasmetterla ad altri. È da allora che mi sono appassionata alle teorie più che alle tecniche. Pur non disprezzando le tecniche (ci mancherebbe), trovo che non ci sia niente di più ‘concreto’ di una buona teoria. Rosalba

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Firenze, 31 marzo Cara Rosalba, vorrei provare a rispondere almeno in parte alle tante sollecitazioni che mi sono arrivate dalle tue lettere. Le osservazioni che fai sugli alunni mi colpiscono sempre, perché riesci a mettere in evidenza gli aspetti a cui tutti dovremmo essere sensibili. Anch’io ho diversi Capriati, Demarco... irrefrenabili, esplosivi. Anch’io mi rallegro quando li vedo meglio inseriti, come se avessero metabolizzato comunque qualcosa del clima a cui sono esposti, nonostante ne manchino segnali quantificabili, di tipo ‘oggettivo’. Quando per il Cidi parlo nelle scuole della valutazione, cito sempre un brano di Carla Fasano, preso da una pubblicazione Ocse, Valutare l’insegnamento, dove lei suggerisce che si diffonda tra i docenti la consapevolezza che un qualsiasi sistema di indicatori è caratterizzato «da una certa quantità di non-conoscenze». Pertanto, aggiunge: «Si debbono trovare dei mezzi per amministrare le imperfette conoscenze che influiscono sugli attuali sistemi di indicatori e per sviluppare, forse, strategie mirate a gestire la non-conoscenza». Tu mi parli dei tuoi alunni, e così facendo mi inviti a seguirti nell’esplorazione di quella zona d’ombra che si produce inevitabilmente dietro la faccia illuminata dai nostri riflettori. Avanziamo al buio, a tentoni, e mettiamo in gioco molto di noi. Come diceva il mio professore di chimica all’università, lo scienziato è un cieco che deve localizzare un palloncino attaccato al soffitto. Lo cerca con il suo bastone, ma quando lo trova lo colpisce e lo sposta: chissà qual era davvero la posizione del palloncino prima del suo intervento. Le nostre tecnologie, i nostri strumenti (le prove ‘oggettive’) ci traggono in inganno facendoci credere che ci siano guanti e mascherine per gli insegnanti, da indossare per non influenzare le nostre osservazioni. Invece ci sono solo bastoni, che è neces-

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sario usare, ma sapendo che non hanno il potere di dissipare il buio. Francesco Ciampi era in prima quando io avevo la seconda ‘chimici’. Venne da solo in presidenza per parlarci del suo ‘caso’. Parlava con la mia collega Assunta e le diceva, con una proprietà di linguaggio assolutamente fuori dal comune, che era ‘distimico’ e che aveva già girato diversi psicologi dell’Asl; che nei casi come il suo non si sapeva come avrebbe potuto reagire a una bocciatura; che lui temeva di poter commettere una sciocchezza. Io e Assunta siamo rimasti sbalorditi di questo quattordicenne che ci voleva spiegare con grande intelligenza (e astuzia) di essere una specie di matto con tanto di certificazione doc. Appena è tornato in classe, siamo andati sul vocabolario a vedere cosa diavolo volesse dire ‘distimico’: lì per lì abbiamo finto di saperlo per non dargli l’impressione che i collaboratori del preside ignorassero un vocabolo da lui usato con tanta naturalezza. Si decise di farlo parlare con lo psicologo che è a disposizione della scuola per sentire il suo parere. Disse che effettivamente andava seguito e forse anche certificato, ma sia i professori della classe che la famiglia decisero che era il caso di aspettare l’anno successivo. Quest’anno la prima toccava a me e quindi ho acquistato ‘il caso Ciampi’. Così l’ho visto da vicino – e lui ha visto me – e mi sono spinto nella sua zona d’ombra. Il ‘caso’ mi ha fatto spazio ed è diventato Io e il mio alunno Francesco: ti dirò di lui, di come lo conosco e di come lui conosce me, senza potermi tirar fuori. Francesco è partito alla grande. Entusiasta, bisognoso di mettersi subito in evidenza, è venuto per primo volontario all’interrogazione mostrando poco studio alle spalle ma la dote di un’intuizione notevole. Poi qualche tonfo, con delle mattinate così dirompenti nello sviluppo della lezione da dovergli urlare in continuazione. Però chi l’aveva anche l’anno scorso mi dice che quest’anno è irriconoscibile: molto più convinto e impegnato. Certo è un tipo particolare. Un mese fa ho dovuto richiamarlo

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perché è uno dei pochi delle prime che non ha ancora regolarizzato l’iscrizione alla seconda. Lui mi dice che non intende farlo fino a quando qualcuno non gli spiegherà cosa ce ne importa se suo padre è vaccinato oppure no. Allora leggiamo insieme il foglio dell’iscrizione e mi rendo conto che su più di mille alunni Francesco è stato l’unico ad accorgersi che sul modulo dell’iscrizione il computer ha mangiato un intero rigo e le informazioni sul figlio risultavano chieste sul genitore. Lui, non comprendendo, non eseguiva... davvero un caso da certificare! Beppe *** Firenze, 2 aprile Due sabati fa Francesco Ciampi è sceso in presidenza e ci ha portato una torta al limone che ha fatto con le sue mani (certificare, certificare!). Dopo un’ora circa rieccolo che mi chiede se può parlarmi in privato. Mi dice che sta attraversando un periodo di depressione profonda, che sente di aver deluso tutti, in particolare i suoi genitori. Si sente diverso dagli altri, non lega con i ragazzi della classe e comincia ad aver dubbi sulla sua sessualità. Mi dice che quella torta è il suo saluto, l’ultimo, perché lunedì intende suicidarsi (!). Non lo ha fatto, non certo grazie al sorriso che mi ha strappato e alle mie parole. Spero che non lo avrebbe fatto comunque e che quello fosse solo un richiamo per me, un invito a varcare con lui la soglia di un altro territorio, uno di quelli dove i propri passi rimbombano talmente da diventare assordanti. Un luogo, quindi, dove non è prudente avventurarsi da soli; uno di quelli dove anche gli angeli esitano. Bene, con Francesco le cose sembrano funzionare. Io non credo di dargli tutta l’attenzione che vorrebbe, ma ogni tanto gli lan-

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cio uno sguardo, una frase che gli faccia sentire che ho con lui un rapporto speciale. Vorrei sentisse che sono disposto a prendermi cura di lui, e intanto, come tu ripeti spesso, «insegnargli a leggere e a scrivere». Non si aspettava molto dalla scuola, alle medie lo avevano già etichettato come ‘il matto del paese’. Io mi impegno perché lui maturi dalle attese della scuola. Ma perché il guidato possa fare a meno della guida, deve avere dentro di sé sia gli strumenti che il desiderio di andare. Faccio di tutto per fargli vedere che è perfettamente in grado di avere successo, che quello che impara gli resta dentro e che sono nuovi e migliori attrezzi per scoprirsi. Il successo fa bene all’autostima, a uno come Francesco può insegnare che anche se non vede ancora bene cosa sarà nella vita, certamente sarà qualcosa di speciale. Tutti devono poterlo credere e tutti devono esserlo per la scuola. Ma non glielo dico con le parole. Vorrei riuscire a renderlo pronto per la scoperta. Certo che con i tipi come Francesco si misura cosa significa davvero «non uno di meno». Mi hai fatto molto riflettere quando mi hai scritto che ci vuole una condizione psicofisica quasi perfetta per reggere, tutti i giorni, il peso di queste responsabilità. Le preoccupazioni della vita privata le dobbiamo lasciare altrove, eppure tutta la nostra esperienza è fondamentale. Il figlio piccolo sopporta tanto meglio l’assenza della madre, quanto più lei riesce con comportamenti coerenti a favorire la costruzione di una sua immagine incorporata nella mente del suo ‘cucciolo’. Qualcosa del genere, forse, deve avvenire anche tra insegnante (forse non il singolo insegnante) e alunni. La neotenia, l’immaturità neonatale propria della specie umana, implica per la sopravvivenza la prolungata dipendenza materiale ed emotiva del neonato ‘immaturo’ dalla figura materna. Invece quanti nostri studenti sono lasciati soli, neonati che vorremmo camminassero da soli! Li vorremmo ‘valorosi’ per Dna, senza la necessità di lanciargli messaggi di valore. E senza fare a

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scuola nessuno sforzo – hai perfettamente ragione – per scoprire le ‘differenze’ nel loro modo di imparare. Francesco è intuitivo, preferisce i percorsi più veloci per trovare le soluzioni. Lo devo rallentare per fargli prendere coscienza delle leggi che sta applicando e fargliene cogliere le implicazioni. Casini invece è terrorizzato non dal non capire, ma dal non saper rispondere. Impara tutto a memoria e non fa alcun ‘fuori pista’, per paura di restare bloccato con la neve alle ginocchia. Lui ha bisogno di essere allontanato dal quadro per vederne la cornice. Devo fargli percepire quanto spazio di libertà ha prima di essere sul confine legittimo di un ragionamento. Mi piace pensarmi come il custode del museo che gira di notte con la torcia elettrica attorno alla ‘statua’ della Legge di Avogadro, perché tutti i visitatori possano avere, anche solo per un attimo, la statua illuminata dal loro punto di vista. La combinazione di luce e controluce è un ‘attimo di illuminazione’ per tutti. Non lo si fa, Rosalba, le nostre torce fanno luce solo agli ‘adatti’ alla scuola. E chi resta al buio, che si nasconda negli ultimi banchi! O se ne vada nelle scuole adatte! Quelle dove qualche candela garantisce al massimo la penombra. La verità è che nella scuola di qualità per tutti ci credono in pochi, e siamo già pieni di doppi canali, cresciuti all’ombra del ‘benpensantismo’ di sinistra. Beppe *** Roma, 3 aprile Caro Beppe, devo comunicarti una novità di tutto rispetto: Capriati si impegna di meno a farci ridere. Per meglio dire, ora fa ridere soltanto me. Si è messo a fare il verso del ‘bravo insegnante’ e con un tono

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talmente serio che i compagni non colgono l’ironia! Faccio l’esempio di ieri: Baldazzi litiga a voce alta con Fleuri, io mi limito a un blando rimprovero, e lui: «Metta la nota, metta la nota! Io non posso essere privato del mio diritto allo studio!». Oggi sposto in prima fila Corsetti, che gli stava seduto accanto e che lui distraeva di continuo: «Vai, Corsetti, vai al primo banco, così accresci il tuo bagaglio culturale». E ancora: a Tonucci che chiede di uscire nel bel mezzo di una spiegazione: «Tu non approfitti delle opportunità che ti offre la scuola». Quanto a sé, ora si appaga di scrivere in modo ‘pulito’: calligrafia, impaginazione. «Vede? Vede come mi sto impegnando?» ha detto ieri agitando da lontano il foglio senza una cancellatura, con le lettere uniformi, tutte alla stessa altezza. E il famigerato ‘contenuto’? Questo lo interessa di meno. Si trattava di un compito di storia: Romolo e la fondazione di Roma tra storia e leggenda. Un passaggio importante riguardava, appunto, la coincidenza tra verità storica e leggenda: quest’ultima parla del colle Palatino che Romolo circoscrisse con l’aratro nel 753, e proprio ai piedi del Palatino gli archeologi hanno trovato i resti di una palizzata!, che è per giunta databile intorno al 750! Nel questionario che avevo dettato veniva chiesto, tra l’altro, di riferire la doppia coincidenza: cronologica e topologica. I bravi l’hanno fatto, ma tutti gli altri – Capriati compreso – hanno riferito solamente dati sparsi, tra questi: 1) Roma diede il nome a Romolo e non viceversa; 2) la lupa era un animale totemico, che i romani avevano in comune con le popolazioni dell’Irpinia. Questi due dati, che hanno colpito la loro immaginazione, a differenza dell’altro (sul quale bisognava ragionare), potevano essere memorizzati e riferiti separatamente, senza collegamenti (si tratta di semplici nozioni). È molto probabile che la questione del Palatino e del confronto tra ricostruzione storica e leggenda l’abbiano capito, ma che, come altre volte è accaduto, non sapevano dirlo a parole. Forse è anche mancata una spiegazione schematica da parte mia. Infatti

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quando oggi ho consegnato i compiti corretti e ho fatto lo schema alla lavagna – da una parte un disegnino di Romolo che ara e dall’altra quello degli archeologi che scavano – si sono resi conto dell’importanza di ragionare, in storia, sulla relazione tra differenti documenti. Ciò che conta (per adesso) è che abbiano capito qual è stato il loro limite nel riassumere un fatto, qualcosa di simile al ‘vedere la gallina’. Ma quella di selezionare le informazioni sulla base di criteri ‘interni’ a noi stessi (ciò che ‘io’ ritengo importante) invece che ‘esterni’ (il testo preso in esame) è una caratteristica degli esseri umani in generale, non soltanto della 1ª G. A scuola vorremmo risposte univoche alle nostre spiegazioni, ma l’imprevisto non è eliminabile: è allo stesso tempo limite e ricchezza del nostro essere... umani. Rosalba *** Roma, 7 aprile Caro Beppe, mi fa soffrire la mala grazia con cui le ragazze (2ª G): si rivolgono ai compagni, anche quel loro vestire esageratamente alla moda, una moda ‘dissacrante’, come tutte le mode dirai, ma questa di oggi, così ‘trasparente’, rivela (ai miei occhi, s’intende) scarso rispetto per la propria persona. Per non dire del rispetto dei contesti: anche la scelta del vestito da indossare, non uni-forme ma che sia della ‘giusta formalità’, aiuta a vivere meglio. Sono stata tentata più volte di dire a Cardelli e Velati come la penso, ma il terreno è scivoloso, potrei dire una parola di troppo. Mi sono limitata a uno sbrigativo consiglio: «Metti una maglietta più lunga», accolto con una allegra risata. Un consiglio do anche a me stessa: di stare in guardia, che il senso di imbarazzo che provo a

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tratti nei loro riguardi non degeneri in ostilità. Mi chiedo se si sentano poco considerate da me, se abbiano bisogno di un altro tipo di attenzione da parte mia. E se io avessi davvero un’influenza su di loro? Ammesso che io conti qualcosa nei loro pensieri. Ieri ripensavo ai maestri che furono per Canetti un modello di vita. In quella lettera ti chiedevi: e se anche i nostri alunni fossero alla ricerca di qualcuno da seguire? E noi, aggiungevi, ce la sentiremmo di essere quel qualcuno? Come ti ho detto altre volte, con i ragazzi io mi ostino a cercare un punto di incontro solo a partire dalle materie che insegno. E da qui immagino che riuscirò a trasmettere qualcosa di più: un secondo implicito e non intenzionale messaggio, magari anche uno ‘stile di vita’. Forse però con le due ragazze della 2ª G (Monica Cardelli e Patrizia Velati) dovrei favorire un diverso ed esplicito piano di incontro: personale, fatto di confidenze. Loro due mi osservano di continuo – come vesto, come mi muovo – e si dicono cose all’orecchio e ridono. Ridono anche quando le rimprovero per la loro sbadataggine, perché non portano i libri, si assentano ai compiti in classe. Con quel fare spavaldo che cosa vogliono dimostrarmi? E se per assurdo, rifiutandomi, cercassero proprio in me ‘la persona da seguire’? Rosalba *** Roma, 8 aprile Caro Beppe, con amici insegnanti discutevo ieri dei tecnicismi (analisi puntuali, riscritture ecc.) che loro ritengono inutili e che mortificano la ‘creatività’. Mettono quindi in discussione sia la nozione di ‘errore’ sia l’insegnamento solo ‘funzionale’ della scrittura.

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Ciò mi porta a riflettere ancora sulla ‘naturalità’ del pensiero. Già da tempo io e te ne discutiamo, e da posizioni non proprio coincidenti. Se dovessi riassumere la mia, direi che confido sulla predisposizione dei ragazzi a imparare, che in loro è ‘naturale’ come in ogni essere umano; creo dei contesti piuttosto rigidi e lascio che ciascuno si adoperi da sé a trovare la propria strada per liberare l’immaginazione: che la scuola, a mio parere, non può, non deve pianificare. A differenza del pensiero logico (analitico, razionale), l’immaginazione e la creatività sono componenti del pensiero che si alimentano del casuale: non sono un prodotto diretto della scuola, semmai la scuola le favorisce, ma senza predeterminarne la forma. Intendo dire che il cosiddetto pensiero ‘divergente’ non rientra in un programma da perseguire finalisticamente, consapevolmente. In un programma finalizzato, consapevole, vincolante rientrano i contenuti di studio veri e propri (l’aspetto teorico, normativo, convenzionale delle discipline); questi potranno anche essere specificati in modo ‘perfetto’ (faccio per dire), ma creatività e immaginazione devono restare non specificati, o specificati in modo ‘imperfetto’. A noi spetta semmai curare la ‘cornice’ (il contesto): è così che potremo cogliere e apprezzare un apprendimento nuovo, un pensiero ‘divergente’. Prendiamo la 1ª G. Qui potrei quasi dire che la mia sola presenza garantisce la stabilità della ‘cornice’; e nonostante le intemperanze dei Riotti e dei Capriati siano sempre in agguato, i ragazzi si vanno educando ciascuno per proprio conto a una propria autonomia e originalità di pensiero (quante e belle storie inventano prendendo il volo e staccandosi dal modello letterario che le ha generate e coltivate...). In 2ª G accade di meno, qui la dinamica tra vincoli e crescita autonoma del pensiero non procede allo stesso modo. In più, io commetto errori nella comunicazione. Mi riesce solo per poco tempo di fermare un processo ricorsivo, che cresce su sé stesso, del tipo: tu gridi e io grido di più. Oppure mi vendico: «Non avete studiato il capitolo?», «E allora per domani ve ne assegno tre».

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Dopo le vacanze di Pasqua farò una verifica su quattro capitoli dei Promessi sposi che più della metà della classe dovrà (lo farà?) leggere e studiare per la prima volta. Di questa 2ª G diciamo tra noi colleghi ogni male possibile: per come si lasciano andare a una giocosità stupida, continua, fastidiosa. Il 7 in condotta ha creato una tregua di qualche settimana, adesso siamo punto e daccapo. Molti di questi ragazzi hanno passato troppo tempo nello studio rabberciato, si sono convinti (senza averne consapevolezza: è qui il guaio) che la vita è tutta una corsa ad arrangiarsi: apprendimento di secondo livello, il più resistente, che si è sedimentato. Ora non lo si può cambiare a comando, a forza. Ogni tanto la paura della bocciatura si fa concreta, allora si danno da fare, ma dura poco. Oggi Velati ha rinunciato allo psicologo per mettere ordine nel suo squinternato quaderno di scuola. Demarco è andato in ritiro sabato e domenica nella casa dei nonni per fare un riassunto di storia: la fatica lo ha provato, ci metterà un mese per riprendersi (non sarebbe più salutare per lui una scuola professionale?). Siccome nell’incontro pomeridiano con i genitori ero stata assente, ho fatto quel colloquio direttamente con i ragazzi. Li ho ricevuti uno a uno in un’aula vuota. Parlavano, dicevano le loro ragioni, io prendevo appunti e anche loro segnavano sul diario giudizi e suggerimenti. Avevo predisposto le cose – banco, sedie, registro personale, porta chiusa – perché il contesto fosse analogo a quello del ricevimento dei genitori, che avesse la stessa solenne ‘ufficialità’. Cardelli e Velati sono venute insieme. Ho fatto scrivere sotto dettatura Il decalogo dello studente che sarà promosso; punto 5: isolarsi nella propria stanza. Cardelli si è fatta una risata: «E chi ce l’ha?». Rosalba ***

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Roma, 10 aprile Caro Beppe, a Roma quasi tutte le strade sono alberate, e adesso che gli alberi stanno per fiorire ho messo in guardia i ragazzi della 1ª G: chi tornando a casa passa dall’Eur sorvegli i ciliegi del laghetto, ci dica quando sono in piena fioritura. Ci siamo andati, di pomeriggio però, e non tutti sono venuti. Dopo sono fioriti gli alberi di Giuda, e questa volta li ho portati di mattina ai giardini della basilica di San Paolo, e il giorno dopo all’albero maestoso del Palatino. L’albero sta subito dopo la cancellata e si vede comodamente dalla strada. Per vederlo più da vicino bisognava entrare e fare il biglietto. «Vado a dire una bugia» ho detto ai ragazzi «dirò che insegno scienze naturali». E così ho fatto. Ci hanno fatti entrare se pure non forniti di regolare permesso e di elenco con il timbro della scuola. L’albero si prestava a essere esplorato salendoci sopra dai tronchi larghi e bassi, coperti di muschio, qua e là grappoli di fiori rosa attaccati direttamente al tronco. «Come si sta bene in questo posto» hanno detto in molti. «Dobbiamo tornarci e rimanere tutto il giorno». Per strada e poi nella metropolitana erano allegri, rumorosi ma con giudizio, fastidiosi quel tanto da essere perdonati dai passanti e dai viaggiatori. Chissà come mi invidiano, ho pensato, io che passo la giornata con ragazzi così simpatici. Sono quasi tutti figli unici, e la scuola è una occasione preziosa per incontrare amici che diventano ‘fratelli’: non va perso un solo minuto. Se io non ho né fratelli, né ‘amici di strada’, se ho soltanto amici ‘virtuali’ (i calciatori, i divi della tv, del cinema ecc.) potrò mai sprecare l’occasione di godermeli, quelli ‘veri’ che ogni mattina arrivano (e quanti!) dove arrivo io, e senza che io li abbia chiamati, senza alcuno sforzo da parte mia? A contemplare l’albero di Giuda, alla luce cangiante del sole tra le nuvole, siamo rimasti più dei cinque minuti promessi al bigliettaio. Loro si sparpagliavano sulla strada sterrata che porta

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alle rovine del palazzo di Augusto, e io li chiamavo: «Correte, correte, adesso è diverso» dicevo, quando cambiava la luce. Dopo quelle passeggiate fatte un po’ di corsa e nella solita gazzarra (acchiappa uno di qua e perdi quelli che stanno là), sembrava che gli fosse rimasto poco o niente di quel mio tentativo di ‘educazione naturalistico-sentimentale’, e invece ho scoperto che è rimasto tanto. Nella relazione scritta trovo descrizioni particolareggiate: forma, coloriture, passaggio di nuvole e cambio di luce. Ora sono loro a segnalare fioriture di alberi e posti che meritano una passeggiata ecologica. Tonucci: «Quando ci andiamo?» (in via delle Sette Chiese, sul viale di Casal Palocco...). Secondo lui, ogni mattina dovremmo fare il pellegrinaggio. Forse hanno ragione loro. Dovrei dedicare più tempo a portarli in giro, al conversare disimpegnato, senza troppe pretese, senza l’ossessione di verificare sempre cosa diavolo abbiano imparato. Rosalba *** Firenze, 18 aprile Cara Rosalba, parlavamo tempo fa di scontro tra generazioni. Non mi convincono mai le definizioni per le generazioni. Tendono a isolare aspetti che sono importanti solo in relazione con altri. Le generazioni non sono mai sole al mondo. Lo confermi tu stessa quando ti interroghi su cosa fare con le due ragazze della 2ª G: nella loro ‘storia’ è implicata in parte la tua. Ho trovato interessante la distinzione che fai tra l’aspetto casuale del pensiero ‘divergente’ (creativo) e quello ‘programmatico’ delle discipline, ma condivido anche le perplessità dei tuoi amici sui tecnicismi della scrittura, che potrebbero uccidere sul nascere la naturalità del pensiero.

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Delle tecnologie non se ne può più. Il nostro è ‘il tempo del telecomando’, certo, ma in questo tempo tutti siamo chiamati a fare i conti con la tecnologia. La tecnologia domina solo se non è dominata (il telecomando è una grande comodità se lo si sa usare), e allora è interessante domandarsi cosa deve fare la scuola perché questa generazione sia padrona della tecnologia che la cultura le mette a disposizione. Io penso che debba formare il soggetto. Forse oggi è più difficile di ieri, ma non mi sembra una cosa rilevante. Ci tocca, punto e basta. Il ragionare per generazioni è sempre rischioso perché scivola facilmente verso definizioni sbrigative, non di rado sottilmente dispregiative. Con lo stesso atteggiamento la nostra generazione potrebbe essere definita quella della guerra preventiva e della democrazia sganciata dai bombardieri. Non so chi starebbe meglio. Hai ragione a dire che la scuola deve caratterizzarsi «per differenza». Quasi per contrasto, aggiungerei, visto le diverse e nuove abitudini degli adolescenti. Allora che fare? Guidarli, sì, ma per renderli autonomi, liberi di scegliere. Qui sta la differenza tra chi gestisce e chi è gestito. In questa scuola il rigore diventa fondamentale, come lo è per l’organismo il rispetto delle sequenze metaboliche di fronte a nuove abitudini alimentari. Noi insegnanti dobbiamo essere i cardini che fanno girare la porta, sono d’accordo con te. In attesa che ciascuno sappia essere quel vincolo dobbiamo portarli per mano, convincerli e sostenerli nell’attraversare la soglia. Tenerli saldi, come tu dici e come dimostri nelle storie che mi racconti. Non nascondiamoci, però, che il problema di oggi è più complesso. Non si tratta più solo di portarli all’acqua, ma di far capire loro il valore del bere la nostra acqua quando sullo scaffale hanno a portata di mano bevande molto più zuccherate (e ‘costose’, diresti tu). Bere è affar loro, ma che cosa è che toglie la sete dobbiamo insegnarglielo noi! E poi c’è un altro problema che io sento molto forte: la nostra acqua disseta davvero? Quello che insegniamo, e in generale la

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scuola che abbiamo oggi, è quella buona, ‘che forma i soggetti’? Io non lo credo. E porto perciò il discorso sul piano politico. Sono convinto che non si può sostenere il principio (l’utopia) del «non uno di meno» con in mano questa scuola. Forse mi ripeto, ma al canale fatto su misura dei falliti non si può contrapporre la scuola dei fallimenti, sempre dei soliti. Bisogna maturare un’altra idea di scuola, diversa dalla nostra, che di canali ne ha già mille. Sì, perché sappiamo bene che si può canalizzare anche tenendo i ragazzi negli stessi istituti. Una scuola di massa che pensa sempre come scuola d’élite mostra la sua ipocrisia proprio quando si misura con ragazzi per i quali alla fatica del portarli all’acqua si aggiunge il problema della sete che non c’è. Certo, una buona scuola non può prescindere dall’avere buoni studenti, e restano i problemi che tu sottolinei: la necessità che ci concedano fiducia, che diano il massimo, che assumano quegli atteggiamenti che aprono possibilità di successo. Ma noi, almeno noi, dobbiamo credere che buoni studenti lo si può diventare se si ha la fortuna di essere in una buona scuola. Questo è il presupposto. Se è la qualità degli studenti che fa apparire ‘di qualità’ la scuola, questa non è una buona scuola; non è sicuramente di tutti e per tutti. Beppe *** Firenze, 19 aprile Cara Rosalba, ieri sera ho seguito a Firenze un dibattito tra le forze politiche della sinistra sulla situazione della scuola. Effetto: non sono riuscito a prendere sonno fino alle tre di notte. Eppure non è successo nulla di particolare, quindi è colpa mia, o meglio di un nodo

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non risolto che torna spesso anche nelle nostre lettere: quale deve essere la nostra risposta al problema dei ragazzi che di scuola ‘non ne vogliono’. Per me non è una discussione accademica, se ci perdo il sonno è perché non mi pare che ci si renda conto fino in fondo di cosa stiamo parlando – a livello di finalità, valori, professionalità – quando parliamo dei ‘disadatti’ allo studio. Conosco tanti ottimi professionisti nella mia scuola, ricchi però di una professionalità che con certi allievi (come i tuoi Demarco, Cardelli, Velati) si dimostra inutile. Allora bisognerebbe avere il coraggio di dire che se quella professionalità non funziona per qualcuno è da rivedere per tutti. Conosco tanti insegnanti di buon cuore, che sono sempre dalla parte dei ragazzi, specialmente di quelli che restano indietro. Piangono sui ragazzi ‘dispersi’ e vorrebbero dare loro una mano, però non vanno a cercarli sulle loro strade. Pensano che la migliore traiettoria tra due punti sia sempre la più breve e vorrebbero che tutti salissero a bordo senza però dover rallentare per nessuno. Tendono la mano con il rischio di strappargliela. Anche questo è un atteggiamento sbagliato, che pagano anche quelli che sembrano tenere il passo. Chi ci tiene all’eccellenza dovrebbe sapere che questa è rappresentata proprio dalle ragazze e dai ragazzi che sanno portare a spasso il ragionamento, che imparano a imboccare senza paura vicoli e strade laterali pur di scoprire tutta la ricchezza nascosta nei singoli argomenti. Conosco tanti curricoli, proposti da cultori della materia o da associazioni disciplinari, destinati a produrre solo nuova ignoranza di ritorno. Roba che non si struttura nella testa, che non si può agganciare a nulla di veramente già compreso. Tu mi ricordavi che nessuna nuova conoscenza è mai del tutto nuova. La nostra mente apprende solo tramite variazioni sul tema. Una semplice verità che, però, sottenderebbe tutta un’altra strategia di insegnamento. Sono problemi che si possono occultare facilmente se ci si concentra solo sugli studenti disposti (sempre meno) a studiare

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e ripetere. Se studiare e ripetere sono la nostra consegna per essere l’‘eccellenza’. Nella scienza, le teorie perdenti sono state spesso puntellate con teorie ad hoc, tutte tese a nasconderne il superamento. A scuola succede qualcosa di simile. Il giochetto non funziona solo se la finalità è davvero il «non uno di meno». Ecco la posta in gioco. Tanto il mondo della politica che quello dell’amministrazione locale del centro-sinistra credono che sia pragmatismo porsi il problema di ‘che fare’ per quelli che di scuola ‘non ne vogliono’, senza rendersi conto che il problema dei trenta su cento che escono senza titoli dalla scuola è soltanto una faccia del problema. Se si concentrano sull’effetto trascurando la causa, se riducono la questione al trovare un percorso su misura per quei trenta, legittimano e sorreggono un modello obsoleto anche per gli altri settanta. Paradossalmente, fanno il gioco del doppio canale. Ho seguito una miriade di percorsi integrati negli ultimi anni. Di tutto di più, sempre con gli stessi risultati: una scuola ‘educata’, che invece di espellere senza garbo chi di scuola ‘non ne vuole’ accompagna i ragazzi all’uscio. Ma una scuola educata non è una scuola che educa, e alla fine quelli da allontanare vengono comunque allontanati. Per chi di scuola non ne vuole ci deve essere un’attenzione particolare, ma non meno scuola. Invece è proprio così che si pensa, anche a sinistra. Ma che obbligo scolastico hanno in testa queste persone? Un obbligo che vale sul serio solo per quelli che andrebbero a scuola anche senz’obbligo? Nessuna persona di buon senso penserebbe di eliminare i limiti di velocità sulle strade perché prende atto che c’è chi possiede macchine veloci e di limiti ‘non ne vuole’. La persona di buon senso non si illude che il codice della strada elimini tutti gli incidenti, ma sa che le regole devono essere scritte ‘per tutti’ se si vuole davvero che siano efficaci. Forse è vero che a scuola ci sono ragazzi difficilmente recuperabili – in quella scuola, in quella classe, in quel momento della

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loro vita –, ma sono convinto che sono solo una parte esigua dei trenta su cento di cui si parla sempre. La maggior parte di quelli che ‘non ne vogliono’ sono il prodotto di questa scuola, e possiamo recuperarli dimenticandoci dei trenta e pensando ai cento. Resteranno sicuramente dei casi, ma non speriamo di risolverli con ingegnerie scolastiche o progetti più o meno integrati. Devono essere un problema delle singole scuole, che possono intervenire – in quella scuola, in quella classe, in quel momento della loro vita – utilizzando tutte le strategie possibili, comprese le offerte degli enti locali. L’allontanamento dalla classe, però, deve essere l’ultima delle strategie. Questa è la questione sul tappeto. Altrimenti, se si vuole rispettare i diritti di chi di scuola non ne vuole, basta abbassare l’obbligo e... che vadano dove vogliono. Siamo d’accordo che una buona scuola deve istruire il più possibile il maggior numero dei suoi studenti? Che deve saper utilizzare a tal fine tutte le risorse? Beppe *** Roma, 19 aprile Caro Beppe, non potevo aspettare di mettere in ‘bella copia’ i miei pensieri a proposito della tua ultima lettera perché voglio dirti subito che mi hai comunicato quella passione politica che sentivo sepolta dentro di me e che affiora a tratti ammantata di scetticismo. Mi hai portato indietro negli anni, quando ero giovane e, come te, intransigente. Adesso a me non importa parlare del quadro politico generale quando parlo di scuola. Mi rassicura la tua cocciutaggine, il fatto che tu e il Cidi vigiliate, interveniate con puntuale ostinazione.

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Io, la mia ostinazione, la tengo dentro, come cibo assimilato, come è per quelle conoscenze che non abbiamo bisogno di esibire perché sono nella struttura del nostro essere. Chi di storia ne ha tanta – alle spalle e dentro il cuore – forse a un certo punto si può permettere di ricamare il punto a giorno, e lasciare ad altri di tessere e confezionare la tela. «La nostra acqua disseta davvero?». Forse sì, con i nostri limiti. Rosalba *** Roma, 1° maggio Caro Beppe, riprendo gli appunti presi qua e là, ma rimugino tra me e me su questa fine d’anno, e solo a dirla, la parola ‘fine’, mi mette addosso una grande agitazione. Tutto, ora, deve essere finalizzato a un’unica meta. Storie e riflessioni se ne vanno da sole per strade che si perdono e che io non rincorro. Insomma, oggi avverto solo questo: il peso di quanto non si è realizzato, delle ore perse, dei giorni interi persi, del tempo che è stato male impiegato. Mi ripasso le giornate sbagliate, gli errori che ho commesso: di impostazione del programma, gli interventi non tempestivi, l’eccesso di rigore in certe mie pretese. Sento anche il peso della centralità della materia che insegno: che mestiere è mai questo, se neanche nei giorni di vacanza riesci a staccare la spina! Mi stupisco di avere qualche volta, oppure troppe volte, provato soddisfazione del mio lavoro, di essere tornata a casa compiaciuta di una bella lezione, della sintonia tra me e loro. Ieri in 2ª G, contando il poco tempo che resta, ho fatto un bilancio breve e asciutto, ho detto papale papale a che punto siamo, anzi, a che punto sono loro.

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Avevo portato gli ultimi compiti in classe corretti (analisi di due sequenze di due diversi capitoli dei Promessi sposi). Un compito annunciato, preparato, ma i risultati, ahimè, sono stati quelli che mi aspettavo. A un certo punto ho commesso un errore imperdonabile: ho fatto l’elenco di quelli che sanno scrivere e di quelli che non sanno scrivere. «Vedete» ho detto «a scrivere si impara molto presto. A usare frasi ben formate, concordanze, aggettivi appropriati, punteggiatura e tutto il resto, si impara quasi senza accorgersene nella prima scuola, in seguito ci si affeziona (anche senza saperlo) a un proprio stile. Chi non ha imparato le prime regole della scrittura, che è una tecnica – speciale, sì, ma pur sempre una tecnica –, arrancherà. Può salvarlo l’ostinazione: non a una ‘riuscita’ generica, ma a riuscire per piccoli passi, correggendo di volta in volta specifici errori, e soprattutto, parallelamente, interiorizzando modelli ‘alti’ di stile. Quindi» ho concluso «lettura, ascolto mirato e attento, scrittura e correzione minuziosa vanno di pari passo. Io vi suggerisco dove e come migliorare, il resto dovete, anzi... ormai è tardi, avreste dovuto farlo voi». Adesso mi pento di essere stata così crudele. Ma ero sotto l’influsso di una conversazione fatta il giorno prima con un anziano (e noto) psicoterapeuta, il quale diceva che la vera, l’unica efficace terapia è andare al nodo del problema senza creare illusioni: ce l’aveva con i ‘buonisti’, con chi alimenta nel paziente un falso ottimismo. Ma con i ragazzi, che stanno crescendo e hanno bisogno di rassicurazioni, si può fare? È morale? È morale quello che ho fatto io ieri, quando ho messo a nudo una (mia) verità, senza mezzi termini, per giunta alla fine dell’anno, quando non c’è modo né tempo di rimediare? Rosalba ***

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Firenze, 27 maggio Cara Rosalba, farò di tutto per non scriverti più lettere arrabbiate come l’ultima. Purtroppo il ricordo del dibattito politico era ancora troppo fresco perché la tensione non trasparisse nei toni. Torno con più calma sulle cose che mi scrivevi e che mi hanno fatto molto riflettere. Da domani a metà giugno gli scrutini mi terranno occupato tutto il giorno. In questa parte finale dell’anno ho cercato di mettere a punto le conoscenze sul linguaggio chimico dei miei alunni. Attendo sempre che i concetti siano ben assimilati per poi introdurre i termini esatti. Il linguaggio specifico semplifica, ma può dare agli alunni l’illusione di conoscere un argomento quando invece le idee sono ancora confuse. Concetti come atomo e molecola, elemento e composto, apparentemente semplici da insegnare, sono in verità ricchi di storia e di astrazione. Non possono essere proposti in una successione logica che prenda per buona la loro diversa complessità apparente. Sono concetti così intimamente legati alle conoscenze sperimentali e alle teorie accreditate da possedere una vera e propria ‘struttura nel tempo’, che va ricostruita se non si vuole che la padronanza del vocabolo nasconda l’ignoranza del concetto. È una parte del programma che mi piace moltissimo, e mi devo sorvegliare non poco per non cadere nell’errore, che tu spesso mi ricordi, di allargare sempre il discorso aprendo una finestra dentro l’altra. I miei alunni fanno fatica. Sono addestrati a ripetere a pappagallo le definizioni senza averle capite e seguono con mezzo orecchio (quando va bene) tutte le mie spiegazioni sul perché e sul percome gli scienziati arrivarono ad accettare quella teoria. Pensano che alla fine se mi dicono la definizione parola per parola il 6 non glielo negherò, e tanto gli basta. È inutile lamentarsene. Sono conservatori, nel senso che in essi è depositato il primato

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del ‘ricordare’ sul ‘dare significato’ – una scorciatoia per la sufficienza (quelli che almeno ci tengono ad averla) che noi, bene o male, accreditiamo. Faticano a dare importanza al Principio di Avogadro perché si esprime tutto con parole e «non ci sono formule da ricordare». Non possono cogliere da soli la portata ‘rivoluzionaria’ del dire che i gas sono fatti di molecole e non di atomi. Cannizzaro lo ritengono poco importante perché «fa solo dei calcoli e non scopre niente». Li stupisco quando gli racconto che fu il successo del suo lavoro, magnifico dal punto di vista del metodo, a far accettare quello di Avogadro, che peraltro nei libri di scuola è proposto prima e spesso separatamente. Con i ragazzi banalizzo un po’ per non complicare troppo le cose, mi accontento anche di piccoli passi purché siano nella direzione giusta. Di solito interrogo molto più a lungo quelli in difficoltà. Mi sembra che l’interrogazione sia un momento in cui imparano tanto. Gli tolgo la paura del voto perché, se non li vedo ben preparati, gli dico subito che comunque li richiamerò la settimana successiva. In questi casi l’interrogazione diventa un allenamento all’interrogazione che verrà: la tensione cala ma l’impegno si prolunga. Me lo posso permettere perché ho otto ore la settimana nella stessa classe e siamo in due: in queste condizioni sono quasi costretti a studiare. Gioco molto sul dargli la sensazione che mi basta poco, ma che quel poco devono saperlo, se vogliono liberarsi di me (e vedere finita l’interrogazione). Poi, quando raggiungono quel livello, cerco di fargli vedere quanto è vasto l’orizzonte che adesso hanno di fronte. Quella piccola scalata valeva la pena! Per amare la montagna bisogna desiderare la vetta, ma anche imparare a godersi ogni singola curva del sentiero. Le guide esperte non mettono mai fretta e ogni tanto, furbescamente, fermano il gruppo per fargli apprezzare quanto siano saliti. I bam-

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bini notano sempre che le persone viste dall’alto sembrano formiche, ma questa differenza, che sia gridata o meno, è per tutti la misura più efficace del territorio conquistato. Se è vero che i saggi sono quelli che ‘vedono le differenze’, allora imparare a vedere le differenze rende più saggi. Tornando ai miei alunni, vorrei che imparassero a usare correttamente termini come ‘atomo’, ‘molecola’, ‘peso atomico’ e ‘reazione chimica’ perché questo è già sapere di scienza e di scienziati, di teorie, di procedure e di strumenti. Beppe *** Firenze, 29 maggio Cara Rosalba, mi parlavi in una lettera di come la cura del contesto condiziona ciò che si fa. Tornando al laboratorio, ho sempre pensato che sia il contesto più adatto per percorrere la strada a doppio senso tra teoria e pratica. Il luogo dove si può scavare quel sentiero circolare e sottolineare alla lavagna la soglia, ogni volta che viene attraversata. Nel laboratorio ragazzi e ragazze, piano piano, dovrebbero scoprirsi in grado di progettare un esperimento, una reazione, valutarne i risultati e discuterne gli errori, in una parola diventare ricercatori. Chiaro che non basta: c’è chi non ha nessuna voglia di fare il ricercatore, nemmeno per finta. È un problema di cui abbiamo già discusso tanto. Ma io, come tu mi hai scritto, sono cocciuto e più loro vorrebbero essere lasciati tranquilli, più si nascondono dietro un compagno proponendomi lo scambio alla pari tra il loro diritto a non fare niente e il mio di bocciarli, più io li disturbo: insisto all’infinito finché trovano il loro rifiutare l’impegno più impegnativo del par-

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tecipare. Mi serve che facciano la loro parte nella storia che dobbiamo scrivere. Perché, per essere avventurosa e coinvolgente, la storia deve essere collettiva. Oggi bisogna dare ai nostri ragazzi un motivo per venire a scuola e un altro per restarci. Questa è una strada buona, perché fa di ogni studente una maglia del tessuto, un nodo di pertinenza e contesto, le due componenti di ogni storia ben scritta. Mio figlio Filippo è stato molto aiutato da queste trame: è entrato in prima liceo sentendosi in difficoltà di fronte ai compagni fiorentini. Se gli chiedevo come faceva a studiare perfino dopo cena, quando alle medie si era abituato a molto meno, mi rispondeva che voleva essere al livello dei suoi compagni di classe. Il desiderio di essere nel gruppo con pieno titolo è stato il legame che l’ha tenuto dentro. Essere ‘pertinente’. Noi ci preoccupiamo delle nostre discipline (e facciamo bene), ma ci dimentichiamo spesso – come scrivevi tempo fa – di tenervi dentro entrambi i piani: quello ‘relazionale’ e quello dei ‘compiti’. Alla fine il compito affonda solo nella disciplina e la valutazione nella relazione. Dovremmo essere più bravi a scrivere una ‘biografia collettiva’ stando dentro le discipline. Fare in modo che sia anche una storia di apprendimenti, dove quello che si com-prende si prende insieme (grazie anche) agli altri. Sono livelli da non separare e da non da confondere, hai ragione. Ma quanta energia ci tocca sprecare per colmare una distanza che noi stessi abbiamo stabilito! Noi, macchine che pretendono di analizzare i singoli ingranaggi del proprio funzionamento! Mi viene in mente la cabina di controllo del forno per ceramica di mio padre. Nella mia memoria di bambino è ‘la macchina’ per eccellenza. Un parallelepipedo enorme, grigio, con molte spie rosse e un ago che tracciava una linea su una striscia di carta. La carta girava continuamente, ma con una lentezza che la faceva sembrare ferma. La ‘macchina’ aveva il fascino di un monolite e

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il mistero di chissà quanti ingranaggi interni che garantivano quel moto perenne della carta. Quando chiedevo spiegazioni, mio babbo mi diceva che le spie servivano per avvertire se la temperatura interna scendeva o saliva fuori misura, e lo stesso si poteva vedere dalla riga del pennino sulla carta. Io non capivo perché non bastasse la spia rossa: in fondo si vedeva da lontano e se uno era voltato, c’era sempre l’allarme sonoro che lo faceva accorrere. Lui mi rispondeva che questo era vero, però, per capire cosa fosse successo, bisognava ricostruire cosa fosse accaduto prima, nel forno, e questa storia era scritta dal pennino. Credo che non sia una forzatura vedervi anche un esempio di incremento di conoscenza proprio delle «doppie descrizioni». Voglio dire che mio padre capiva di più del suo forno grazie a quella doppia interfaccia: ‘analogica e continua’ nel tracciato della variazione della temperatura nel tempo e ‘digitale e discontinua’ nella spia. Anche noi ne sappiamo di più sui nostri alunni quando impariamo a guardare l’esito del compito (digitale e discontinuo) insieme al tracciato (analogico e continuo) che i giorni comuni di scuola hanno lasciato. Ma dobbiamo farlo, è fondamentale, contemporaneamente e inconsciamente; senza un prima e un poi, e nella stessa maniera in cui, quando si guarda in un binocolo, non si è coscienti della visione di ogni singolo occhio. Allora, a proposito della tua ‘familiarità’ con Riotti che tempo fa ti ha impedito di dargli 4, non è l’aspetto relazionale che ha posto in secondo ordine quello del compito, bensì una seconda descrizione, che ci complica apparentemente il giudizio, ma che rende la nostra valutazione del sistema noi-alunno-compito molto più profonda. Ci metto anche ‘noi’, perché, come tu dicevi, in ogni prova è implicita non soltanto la loro, ma anche la nostra storia. ‘Familiarità’ è un termine che mi piace molto, perché non ha l’ambiguità di ‘simpatia’. Il significato etimologico di simpatia ri-

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manda alla condivisione di pathos tra individui; una condizione importante tra insegnante e alunno, ma ben diversa dal ‘fare il simpatico’ in classe o da ‘andare a simpatie’, di cui spesso si lamentano i ragazzi (specialmente nei confronti delle professoresse). Una parola che aveva un senso preciso quando indicava una qualità della relazione è diventata molto più ambigua perché usata come fosse una proprietà del singolo. La ‘familiarità’, invece, c’è per storia comune e non si presta a queste trasposizioni, non è, cioè, una dote individuale. Sarà anche vero che una volta raggiunta questa familiarità si perde la facilità del dare 4, ma è una perdita di ben poco conto, più o meno come l’abbandonare il giornale già letto sul treno. Il problema, forse, è che siamo macchine che pretendono di smontarsi completamente per capirsi; come se fosse possibile essere coscienti di ogni singolo ingranaggio. La ‘macchina’ di mio padre era pensata con molta saggezza: il segreto del suo funzionamento non ci doveva interessare e per questo lo celava dietro la sua spessa lamiera grigia. Beppe *** Roma, 11 giugno Caro Beppe, ieri gli scrutini. Nell’attesa che arrivasse il preside guardavamo il prospetto generale dei voti. Ora che le procedure sono computerizzate, la stampa del quadro dei voti viene data a tutti, con in allegato pure l’istogramma (la ‘classifica’ sulla base dei punteggi), così ognuno può farsi un’idea anticipata di come andranno le cose. C’è chi prende atto dello stato delle cose (dei voti nudi e crudi) per tirare le somme, del tipo: sei insufficienze è bocciatura automatica. C’è chi utilizza l’attesa per affilare gli argomenti che mo-

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tiveranno la proposta di una (improbabile) assoluzione. «Dobbiamo fare le giuste ingiustizie» ho detto al collega di inglese, uno con cui mi intendo, ma che a differenza di me si porta addosso la malinconica convinzione che la scuola non riuscirà mai a cambiare questi ragazzi. Lo scrutinio è andato liscio per la 1ª G: un solo bocciato, Fleuri. Se l’è voluta lui: impegnato solo a fare prove di murales, sempre immerso nelle sue cose, per non dire delle assenze. Intelligente sì, ma ignora tutto ciò che a scuola si è fatto. Molti gli 8 e i 9, a Gionfriddo, a Baldazzi... un 10 in storia a Carandini. Voti meritatissimi. Per la 2ª G altra musica: una classe mal riuscita è il commento unanime, una classe nata male in prima e vissuta male anche dopo. In 2ª G, per non bocciare metà dei ragazzi bisognava dare quattro debiti, e pure in materie ‘pesanti’. Cosa che fino allo scorso anno non si faceva nella mia scuola: il massimo dei debiti era tre. Alla fine sono stati bocciati solamente Andrea Demarco e Monica Cardelli. Che hanno di diverso Demarco e Cardelli rispetto a Proietti, Caravita, Mazzanti e Velati? Come questi, non hanno aperto libro per tutto l’anno, come questi hanno fatto casino tutto l’anno... ma a differenza di loro, Demarco e Cardelli, persone innocenti, non sanno ricorrere alle giuste furbizie, quelle che noi insegnanti ci aspettiamo, perché l’essere ingannati si accompagni al riconoscimento della nostra autorità. Demarco e Cardelli sono insomma ingenuamente e costantemente fuori-contesto – a scuola, s’intende, altrove se la cavano benissimo –, e per ragioni diverse lasciati soli a sbrigarsela con gli affari scolastici. La risposta alla domanda: «Che ne sa di fisica, di chimica, di storia?» non sta soltanto nei voti pieni o in quelli stiracchiati di chi alla fine ‘è passato’; la risposta va cercata nelle contingenze, nel combinarsi fortuito di situazioni che risulteranno favorevoli o no. Per loro due, sarebbe bastato che avessero colto quel dato giorno lo spiraglio che si apriva, affinché a una domandina seguisse la furbizia di una qualche rispostina.

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Il giorno del compito in classe, l’ultimo, Demarco era assente, perciò lo ha fatto a casa; me lo ha portato l’ultimo giorno di scuola; lo abbiamo letto insieme: nessun errore di ortografia. «Ho fatto due volte la brutta copia». Le classi erano scese in cortile per fare baldoria, un compagno viene a chiamarlo, lui invece si ferma a parlare con me: «Se vengo bocciato è tutta colpa mia. Ma se passo in terza, mi metto sotto dal primo giorno. Adesso ho capito come mi devo comportare». Era sincero – è sempre sincero, questo è un altro suo limite. Ha 18 anni e molte ripetenze alle spalle. La scuola, per lui e per Cardelli, specialmente per loro, è un luogo meravigliosamente organizzato, dove incontrano amici, dove gli adulti vengono pagati per fargli intendere cos’è la vita, quali sono le regole giuste. Adulti un po’ fissati sull’importanza delle cose che sanno e ostinati a volerle trasmettere e a farsele restituire tali e quali, anche da chi non ne afferra l’importanza. Adulti ostinati insomma, nell’idea che la cultura renda le persone migliori, che la cultura ci unisca, che solo chi padroneggia la propria cultura riesce ad apprezzarne altre. Non è forse così? Eppure, caro Beppe, quante volte ti ho confessato i miei dubbi a proposito di questa ‘nostra’ cultura: che ha costruito ‘monumenti’ accessibili soltanto a pochi, che è esclusiva ed escludente per come è fatta. Selettiva per sua natura, al di là delle migliori intenzioni di chi la possiede e vorrebbe utilizzarla per far crescere i giovani. Questi ‘monumenti’ mi appaiono, a tratti, così ben piantati e alti da produrre un’ombra su ciò che germina attorno: le culture che restano ai margini, perché la loro sostanza è fatta di altre parole, di altre ragioni. Ciò che oggi mi addolora non è quindi soltanto di aver fallito con tanti ragazzi, ma la sensazione che per insegnare ‘i monumenti della nostra scienza’ ho lasciato inascoltato il cammino del loro pensiero, perché, chissà, forse le parole di quel pensiero non mi appartengono. Rosalba

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Roma, 12 giugno Caro Beppe, tutti quanti noi stiamo mettendo i primi timidi passi per accogliere ‘le culture diverse’, comprese quelle dei giovani. Ci diciamo che le diversità – di linguaggio, di carattere, di visione del mondo... – sono una risorsa. Va bene. Ma dopo? Qual è un agire che sia coerente con queste premesse? E ancora: non servirà pure cercare con i ragazzi un punto di incontro, magari provvisorio, ma che venga riconosciuto e accettato anche da loro? In anni recenti, trovo che i messaggi in cui sono immersi certi nostri ragazzi – non ultime le lusinghe consumistiche che li catturano e li portano da tutt’altra parte – sono i veri ostacoli che dovremmo smuovere per cominciare a capirci. Se il luogo della condivisione fra noi e loro non è quella cosa così ineffabile che è la ‘cultura’, potrà esserlo il valore politico dell’istruzione: che a prenderne coscienza non fossimo solo noi ma anche loro. Io mi sono formata credendo nel valore politico dell’istruzione. Poi, con Bateson, ho appreso una solida teoria della vita e della conoscenza, che ha dato forma e sostanza al mio lavoro; ma se oggi lavoro meglio rispetto al passato – cosa che io tenderei a credere –, non lo devo alle sole teorie. So per certo che se in tanti anni sono riuscita a pensare qualcosa di buono e di utile, per me e per gli altri, lo devo ai ragazzi, specie a quelli che mi hanno fatto disperare: da questa lotta quotidiana, mi pare di capire che i vantaggi che ho ricavato io sulla bilancia pesano di più. E sì che di adulti che mi hanno fatto da maestri ne ho conosciuti, e di libri ne ho letti, ma non avrebbero cambiato una virgola. Questo penso oggi: che senza i ragazzi, dai libri e dai grandi maestri avrei imparato solo a fare i bei discorsi su come va il mondo. A fine anno resta in ognuno di noi il rammarico per ciò che non ci è riuscito di fare. L’«uno di meno» non è un numero ma un nome e cognome, perciò pesa come un macigno e dà valore a

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tutto il resto. Le percentuali alte di promossi mi interessano poco, quasi non li vedo nemmeno i promossi e i premiati con 8 e 9. Rosalba *** Roma, 13 giugno Caro Beppe, torno a parlare dello scrutinio. Quel giorno, per Cardelli non c’erano pezze d’appoggio (sette voti negativi), per Demarco, se solo io l’avessi portato in storia con il 6... Chiusa la seduta e messe le firme, la collega di diritto mi ha detto sottovoce che almeno Demarco poteva essere ripescato, allora ho proposto che si riaprisse il Consiglio, che fosse richiamato il preside, ma altri colleghi hanno fatto intendere che in quel caso avrebbero rimesso in discussione le tante promozioni immeritate. E così Cardelli e Demarco hanno ‘salvato’ quelli come loro, impreparati come loro (della 2ª G si diceva già da mesi che solo la metà sarebbe passata in terza). E per me l’essere riusciti a salvare Dall’Atti e Cossu, due ripetenti rassegnati, isolati dai compagni, anche derisi... insomma, ho avuto paura per loro. Avevo precedentemente perorato la loro causa presso il collega di chimica. Nei casi in cui l’unanimità non c’è, il suo voto è tenuto in gran conto dal preside, e se lui alza la mano per la promozione, altri lo seguono. Questi due ragazzi avevano scritto nell’ultimo tema (il resoconto dell’anno scolastico) che tre anni di scuola li hanno vissuti «come un tormento». Me li immaginavo, se nuovamente bocciati, nella loro grandiosa solitudine, dalla quale non avrebbero saputo alzare un dito, cercarsi una strada. Forse esagero a pensarli così, però io li conosco meglio degli altri, passo più ore con loro. Pur non conoscendone direttamente le questioni personali (non indago mai sulla vita privata dei ragazzi, se qualcosa so, la so per

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caso), Dall’Atti e Cossu me le comunicavano con messaggi di nonparole: quel non chiedere mai niente, il colpevolizzarsi semmai, e di tutto, e quelle spalle abbassate e gli occhi sbarrati. Ecco, io da loro due ho capito quest’anno che vuol dire la sofferenza del trovarsi, a quell’età, nel posto giusto con lo stato d’animo perennemente e irrimediabilmente sbagliato. Gli altri della 2ª G invece – bravi e non-bravi scolaretti –, tutto un trafficare comune, uno scambiarsi di posto, un coprirsi a vicenda, ridere, fare scherzi... esageratamente. Demarco era in testa al gruppo, preso a modello e amato, anche per le scarpe rosse e la cresta ondulante dei capelli. Dall’Atti e Cossu perennemente esclusi dalla bella e dalla cattiva sorte (nei giudizi collettivi sulla condotta si scriveva sul registro: «tranne Dall’Atti e Cossu», perché di fatto loro in mezzo alla baraonda restavano al loro posto come statue); alle gite, alle visite ai musei non sono venuti mai, forse perché impauriti dalla sfrenatezza dei compagni quando sono fuori della gabbia; non sono nemmeno alla moda, sono gli unici che vestono all’antica: per un film sugli anni Cinquanta non avrebbero dovuto passare nella sala trucco. Contenta, perciò, che si siano salvati. Oggi vedranno i quadri e so già che spalancheranno gli occhi come avessero preso un abbaglio. Poi se ne andranno a casa svelti svelti, con le loro spalle abbassate, e solo a casa faranno la danza, e il grido di liberazione si sentirà per tutto il quartiere. Rosalba *** Roma, 14 giugno Caro Beppe, oggi la collega di disegno incontrerà il padre di Demarco per

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convincerlo a non ritirare il figlio da scuola. Io mi ero offerta di parlare con Cardelli. Già prima mi aveva detto che sarebbe venuta a casa mia a sapere in anticipo il risultato. Oggi pomeriggio gliel’ho detto. Si mangiava le unghie. Io volevo dire: perché non ti sei mai preoccupata di giustificare per tempo le assenze? Perché ti assentavi proprio il giorno del compito in classe? E i compiti a casa, io lo so che li facevi – non sempre, ma qualcosa facevi –, e allora perché ti rifiutavi sempre di essere interrogata? Perché hai lasciato che crescesse nei professori l’idea che tu fossi una menefreghista? E poi, quell’entrare e uscire dall’aula ogni cinque minuti... non lo sai che a scuola si sta come si deve stare a scuola? Ma non ho detto niente di tutto questo. Del resto è tardi, e ormai sarebbe stato solo un danno buttarle addosso la colpa di essere come è: una ragazza che, come tante, insegue una socialità non irrigidita dalle regole, una che magari a scuola starebbe bene, se soltanto non le chiedessero a scadenze fisse quello che sa e come lo sa, se noi fossimo così bravi da fare a meno di chiedere conto e se dalla sua reticenza a seguire le nostre ragioni imparassimo a trovare la strada che incontra le sue. Dico questo con grande rammarico: Monica Cardelli, che è intelligentissima, poteva farlo davvero «il triplo salto mortale», poteva riscattarsi da un ambiente familiare disastroso... Forse anche per lei sarebbe bastato (ma è davvero facile oggi?) cogliere il lato politico dell’istruzione. «Adesso ci daremo da fare» le ho detto. «Domani vai agli uffici della Regione e prendi l’elenco dei corsi, poi faremo insieme la scelta, andremo a parlare con un funzionario. Tu già ti occupi dei figli di tua sorella, hai esperienza, puoi fare un corso da infermiera. E poi» ho aggiunto «le basi culturali le hai già avute, in tanti anni di scuola». Lei ha fatto un sorriso ironico: «Io?... la cultura, non so nemmeno che cos’è». Allora ho provato a dirle che cosa è la cultura, ma ho trovato difficile definirla. Quando vuoi definirla, ti accorgi che la cultura è fatta di piccole cose, che prese da sole non significano nulla.

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Avevo davanti a me un libro pubblicato nel 1988: Una provincia sulla Vistola, di Eustachy Rylski. È la storia di un generale dell’esercito polacco che combatte contro i bolscevichi. Lui, il protagonista, sta seduto su un carro accanto a un giovane tenente ferito e quasi morente, che lo segue nella ritirata verso una improbabile salvezza e gli chiede che ci fanno lì, perché quella guerra. Il generale sa in cuor suo che ciò per cui hanno combattuto «è solo ferraglia», eppure pensa che sarebbe bene trovare una parola di consolazione per quel giovane, qualcosa di meno distruttivo. E dice che una ragione c’è: hanno combattuto «per la civiltà e la cultura». «Parlare francese? Tenere le unghie pulite? Questa è cultura?» chiede ironicamente il giovane tenente. E l’altro gli risponde di sì, e che a questo si possono aggiungere poche altre cose: «Tenere la forchetta per il verso giusto, pulirsi il naso nel fazzoletto e non sulla manica, tenere un cane per passione e non solo per utilità, il gusto di non buttarsi su una donna e basta, ma conversare con lei, invitarla a teatro, saper suonare il pianoforte, saper distinguere le cose belle dalle brutte e se possibile circondarsi delle prime, e così via, così via». Queste righe le avrei volute leggere a Cardelli, e mentre le ricopio per te, penso che alla fin fine questo ho voluto dai ragazzi: che nella vita sociale, nel lavoro vengano riconosciuti come persone colte, al di là del fatto che loro sappiano di esserlo. A pensarci adesso, a conclusione di tante lettere e di tanto rimuginare su teorie e pratiche di scuola – le mie pignolerie: scrivere un tema lasciando margini regolari, la posizione dell’aggettivo, le giuste pause quando si legge una poesia ad alta voce eccetera –, forse è proprio questo ciò che volevo insegnare ai ragazzi: che la cultura non è un discorso da riversare su un altro per riceverne una medaglia da mettere in petto, ma è fatta di dettagli che l’altro inconsapevolmente afferra e non saprebbe dire che sono, dove sono. Come succede quando avvertiamo in una persona un che di raffinato, pure se in realtà non ha addosso niente di speciale.

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Oggi, sembra che solo la volgarità e il pressapochismo siano oggetto di ammirazione. E verrebbe da pensare che le cose a cui noi siamo legati, le nostre idee più care, rappresentino «solo ferraglia». Ma è un pensiero che lascio ai sociologi e agli apocalittici. Ora devo correre a scuola. I quadri sono usciti e alle 10.00 incontrerò i ragazzi. Intanto mi ha fatto bene condividere con te i pensieri. Rosalba *** Roma, 15 giugno Caro Beppe, ho incontrato le due classi per riconsegnare a ognuno il quaderno di scuola (l’avevo ritirato per portarlo al Consiglio e documentare come hanno lavorato durante l’anno). Facce distese, l’incubo è finito. Si fanno chiacchiere, progetti... Da parte mia raccomandazioni, accolte con il sincero proposito di tenerle in conto da chi è scampato alla bocciatura e ancora non si è ripreso dalla meraviglia. Demarco non si rassegnava alla bocciatura, ha girato come un pazzo per la scuola, inseguito dai bidelli che lo consolavano. Cossu è rimasto in disparte, quasi vergognoso; Dall’Atti, nel corridoio, immerso in una telefonata al cellulare, faceva «sì, sì» con la testa parlando, suppongo, a suo padre. Poi mi è venuto incontro e mi ha stretto la mano senza dire una parola. Era un’altra persona, un uomo, non un ragazzo. Rosalba ***

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Lastra a Signa, 22 giugno Cara Rosalba, da una decina di giorni sono finiti gli scrutini. È stato un anno difficile, con bocciature di nuovo in crescita dopo che erano rimaste stabili per anni. Non so dirti se significhi qualcosa oppure no. Certo la mia classe è uscita decimata. Dieci promossi su diciotto iscritti. Gli otto bocciati sono quasi tutti al secondo tentativo nelle superiori, quindi non so nemmeno se insisteranno. Mi dispiace, sebbene non abbia speso molte parole in loro difesa. La verità è che erano situazioni già molto compromesse – ma perché? Pochi erano persi in partenza – e io sono stanco delle battaglie di fine anno. In troppi consigli la discussione è finta, con parti già scritte e recitate secondo copione. A me e a Roberto lasciano la parte dei ‘buoni’, quelli che pretendono poco insegnando poco. Gli altri preferiscono assumere quella dei ‘cattivi’, perché ritengono che i 3 e i 4 che danno testimonino universalmente la loro competenza. Portano in diritto tre sufficienze su diciotto, poi aspettano che noi imploriamo clemenza per gli allievi. Loro per qualcuno cedono alle pressioni, per altri si impuntano perché, capisci, ne va della serietà della scuola e del nostro lavoro! Dietro c’è tutta l’ipocrisia di chi vuol darsi vanto e poi, comunque, bocciare ‘nella norma’, così da non dare nell’occhio e archiviare l’intero anno scolastico senza un minimo di riflessione in più. Questa volta abbiamo dato nell’occhio. Agli scrutini si ascoltano commenti che sono dei veri e propri ‘evergreen’. Fiumi di lamentazioni che evaporano nel caldo del giugno in sala insegnanti, come a testimoniare il bisogno di ‘resettare’ tutto per essere pronti a partire daccapo, senza neanche un capello bianco in più, l’anno venturo. Anno dopo anno, c’è sempre lo studente che ‘non ha voglia di far nulla, però è intelligente’, quello che ‘se vuole ce la fa’, quello che ‘più di questo non può dare’. Frasi che dovrebbero solleci-

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tare, esigere altre domande, ma che in quel momento servono come formula di chiusura del discorso. Dovrebbe essere naturale chiedersi perché un ragazzo o una ragazza intelligenti non abbiano voglia di fare nulla, a scuola, con la loro intelligenza. Non mi sembra una cosa tanto normale. Nel calcio, per esempio, chi gioca con intelligenza al pallone, non per questo gioca meno e con minor voglia degli altri. Sarebbe naturale domandarci perché quello che ‘se vuole ce la fa’ in realtà finora non abbia voluto. E cercare di capirlo con lui. Ti ho detto che anch’io da studente ero di quelli: 7 in condotta e 36 alla maturità, non so se mi spiego. Adesso sono convinto che se me lo avessero chiesto mi avrebbe fatto bene. Le domande a volte ti cambiano più delle risposte. Sarebbe anche giusto chiederci da dove ci viene la sicurezza che quello studente non possa dare di più di quello che ha dato: se i suoi confini sono stabiliti una volta per tutte, che ci fa a scuola? Siamo certi che non ci siano altre domande buone, né un altro modo possibile di porgliele? Le frasi fatte si moltiplicano nel caso degli alunni bocciati. Non vale la pena dilungarsi, ma ce ne sono alcune che oggi sono anacronistiche, eppure sentite così giuste in sé da non dover essere sottoposte a nessuna riconsiderazione. I classici, si sa, non hanno tempo. Per esempio tutti gli anni non mancano quelli che ‘vengono a scuola perché ce li mandano’. Alle volte verifico l’anno di nascita e scopro che hanno l’età giusta, quindi vengono a scuola perché ‘ce li obblighiamo noi’. Li chiamiamo, e poi ci lamentiamo che vengono. Poi c’è quello che la mamma vuole che prenda la qualifica ‘ma lui non è portato’. La qualifica, Rosalba, il livello d’istruzione più basso d’Europa. Nel ’68, quando si cantava Contessa, faceva scandalo che anche l’operaio volesse il figlio dottore. Ai nostri tempi, evidentemente, per qualche collega è pretenzioso anche l’operaio che vuole il figlio con qualifica di operaio!

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E poi ci sono gli alunni con le carenze di base. Una ‘x’ nella relativa colonna della motivazione dei debiti non si nega a nessuno. Passi per le solite discipline, ma che anche i 4 in esercitazioni pratiche delle prime classi dipendano dalle ‘carenze di base’ o dalla ‘scarsa motivazione’, o dalla miscela esplosiva delle due, è pura ipocrisia! Come si può iniziare una materia nuova, mai fatta prima, che dà solo voto di pratica già con carenze di base? E come si è potuto tenere in classe per un anno un alunno che non dimostra interesse per l’unica cosa che ha scelto liberamente? Sì, perché i nostri alunni non scelgono il sostantivo di ‘operatore’ ma l’aggettivo, che sia ‘elettrico’ o ‘meccanico’ o ‘idraulico’, o altro. Eppure, dopo pochi mesi avrebbero già perso la motivazione proprio nelle uniche ore dove fanno quello che avevano chiesto di fare? Ma è così difficile ammettere che qualcosa c’entriamo anche noi? Oppure dev’essere sempre colpa della scuola media, o dell’elementare, o della materna, o della famiglia, o (ultima spiaggia) dello spermatozoo? C’entriamo, c’entriamo, ma ci comportiamo come se credessimo possibile ascoltare il suono dell’applauso di una mano sola, nella speranza di trarci fuori e plastificare i nostri anni scolastici. Certo sarebbe bello – dico per dire – poter fare come i chimici, che predispongono le reazioni in provette di vetro, pulite e trasparenti; poi le alzano all’altezza degli occhi e osservano bene quello che avviene dentro, senza con questo ‘disturbare’ il sistema. Invece noi come guardiamo siamo guardati. Al chimico non succede (sarebbe una bella scena da film horror: due occhietti che lo osservano da dentro la provetta!), lui tratta delle trasformazioni adatte a essere studiate in laboratorio: sempre relativamente veloci e circoscrivibili. La maggioranza dei cambiamenti che avvengono nel corso della vita, non si fanno contenere in una provetta e non si lasciano osservare dall’inizio alla fine. Le cose che accadono a scuola hanno anche loro questa natura. Non sono asettiche, né veloci. Noi siamo più simili a dei chimici ‘fuori di testa’, che sono saltati den-

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tro le loro provette. Di conseguenza, per la teoria cinetica, che spiega le trasformazioni come urti efficaci tra le particelle, siamo particelle alla pari delle altre; sottoposti perciò a un ‘consumo’ analogo a quello dei reagenti, anche quando cerchiamo di proteggerci ritualizzando le pratiche più vive, come per negare il passare del tempo e la necessità di averne memoria. Beppe *** Lastra a Signa, 23 giugno Cara Rosalba, non voglio darti l’impressione di fare il ‘bravo’ di turno che dà i voti ai colleghi. Oltretutto i miei colleghi sono spesso ottimi professori e buoni amici. Sono io per primo a sentire la fatica del tenere connesso il momento dello scrutinio con il prima e con il poi del tempo scuola. Ho partecipato, peraltro, a tanti scrutini veramente ben fatti, di quelli che ti fanno sentire bene. Quasi sempre coincidono con le classi dove i prof si stimano e si ascoltano, si chiamano per nome; chiedono il parere agli altri per formarsi il proprio. Quella che le circolari chiamano ‘collegialità’, o è questo, o è poca cosa. Ledjon è un ragazzo rom che ha fatto la prima e abbiamo scrutinato in una di queste classi. È stato l’unico ragazzo rom che finita la scuola media ha chiesto di continuare a studiare. Io l’avevo già conosciuto perché era venuto a lamentarsi verso gennaio degli scherzi pesanti dei compagni. Mi aveva colpito la pacatezza dei suoi toni e la sua pazienza. Ledjon ha avuto un rendimento molto basso. Le carenze linguistiche erano e sono tuttora fortissime, e di conseguenza i voti allo scrutinio abbastanza disastrosi. Da un paio di mesi una associazione di volontariato si prende cura di lui, appunto perché è

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l’unico rom del campo che vuole andare a scuola. Lo vuole contro il parere del padre, che attendeva la sua bocciatura per mandarlo finalmente a lavorare. Ho chiesto all’educatore una relazione da leggere al Consiglio e te ne trascrivo alcuni pezzi. Inizia così: «Vorrei porre all’attenzione del Consiglio [...] la situazione di un vostro alunno, essendo entrato in contatto con lui nello svolgimento dell’attività del servizio Bar L’Approdo [...]. [Con Ledjon] si è avviato un rapporto continuativo di supporto scolastico tenuto quasi giornalmente per la durata di un’ora. Viste le carenze di base il recupero scolastico è stato lieve, anche se il ragazzo si è impegnato ed è riuscito ad apprendere una piccola parte del programma da voi svolto. Naturalmente se guardiamo il rendimento scolastico dell’alunno non si può far altro che non ammetterlo alla classe seconda, ma se teniamo conto del miglioramento avvenuto in quest’ultimo mese e mezzo, della difficoltà del ragazzo date le scarse conoscenze di base, del suo impegno, del fatto che se viene bocciato probabilmente abbandonerà gli studi, e soprattutto, dell’accordo preso con il ragazzo, con il professor Bagni e con la scuola professionale Cfp, che lo ammetterebbe al secondo anno anche se si portasse dietro quattro debiti formativi, si potrebbe prendere in considerazione il ragazzo come ‘caso più complesso’. Per questo ho deciso di scrivervi questa lettera per farvi valutare al meglio la sua possibile ammissione al secondo anno, tenendo anche conto che lo svolgerà al Cfp e che questa estate seguirà un corso di italiano per stranieri. Vi ringrazio per l’attenzione e spero che questa breve relazione vi sia di aiuto». L’ho trascritta quasi tutta perché, dietro la sua apparente normalità, dice molte cose belle e interessanti. Dice che ci sono persone che intercettano i ragazzi andandoli a prendere nei loro bar; dice che queste persone li aiutano a fare i compiti per un’ora al giorno tutti i giorni, invece di orientarli sulle strade senza compiti.

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La proposta che abbiamo fatto al Consiglio è stata di far prendere a Ledjon una qualifica che lo gratificasse e fosse già alla sua portata, mentre l’associazione lo aiuta a mettersi in pari per noi. Dopo Ledjon potrà entrare nelle nostre terze classi, frequentando i corsi estivi. Vero che si trattava pur sempre di allontanarlo dalla classe, ma farlo dopo una promozione avrebbe avuto per lui un significato del tutto diverso e avrebbe reso credibile il progetto successivo di rientro. Il Consiglio era in forte imbarazzo: come giustificare la promozione di Ledjon, rispetto ai compagni? Quali garanzie che poi non si sarebbe iscritto lo stesso in seconda? Con quale motivazione si può promuovere un alunno a una classe a cui, in verità, si ritiene non idoneo? Alla fine è stato deciso (all’unanimità) di promuoverlo, con materie ‘sollevate’ dai singoli professori, più quattro debiti, in deroga (motivata) ai criteri del collegio. Il Consiglio ha vincolato la sua decisione all’impegno della scuola (mio) di parlare di nuovo con Ledjon e con l’educatore. È stata convincente la relazione? Penso di sì, credo che abbia fatto buona impressione il suo tono non formale. Non era, cioè, una relazione di tipo medico o psicologico, ma la proposta di un criterio di giudizio che evitasse di chiudere strade. La lettura allo scrutinio della relazione, poi, ha imposto che, nel decidere, gli aspetti ‘processuali’ (quelli ‘qualitativi’ nel vocabolario della valutazione) stessero sullo stesso piano di quelli ‘quantitativi’, interrompendo per una volta il dominio dei voti. È stata una bella scelta, a mio parere, forse di quelle che in altre scuole praticano normalmente (anche se ne dubito), ma rara nella mia esperienza. Un modo di decidere che ha in sé qualcosa del mantenimento di ‘forme multiple’ di discorso di cui tanto abbiamo parlato insieme. Il Consiglio era consapevole che la rete delle sue conoscenze era piena di ‘buchi’, di non-conoscenza: buchi su quello che è stata la scuola di Ledjon finora, sul suo significato per lui;

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buchi su quello che sarà dopo. Le cose variano gradualmente, sono analogiche e continue come la traccia lasciata dall’ago della ‘macchina’ di mio padre di cui ti ho scritto qualche lettera fa. Le nostre descrizioni, invece, sono più simili alle spie rosse d’allarme: informazione che per trasmettersi deve trascurare informazione. Allora è nel passaggio dal dettaglio al gruppo di dettagli che si creano lacune. Inevitabilmente. Credo significhi questo il vincolo di ri-parlare con Ledjon. Dobbiamo fare «le giuste ingiustizie», scrivi. Noi non sapremo mai se la scelta fatta per Ledjon sia stata giusta. Ma così deve essere: il non-sapere serve al mantenimento dei confini, e non è buona cosa tentare di certificare (ri-conoscere, rendere certo) tutto. Però le strade vanno percorse tutte, perché il confine è una linea che separa, ma anche che unisce. ‘Che la tua sinistra non sappia quello che fa la tua destra, però sforzati di essere ambidestro...’. Beppe *** Lastra a Signa, 24 giugno Ti parlavo ieri dell’incontro con Ledjon: una di quelle cose che ripagano di un anno di fatiche (la torta al limone del mio Francesco è, però, a un altro livello!). Lui mi ha chiesto più volte se davvero quando avrà imparato meglio l’italiano potrà tornare da noi, in terza. Ho dovuto fargli vedere il calendario dei corsi estivi per gli otto alunni in ingresso dalla Formazione regionale per convincerlo a prendersi il tempo che gli occorre, quel tempo che quasi sicuramente la bocciatura avrebbe dichiarato scaduto. Ciampi, invece, ce l’ha fatta con tre debiti. È in seconda, ma

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per ora dice che non la vuole fare. Soffre i compagni di classe, si sente diverso e non accettato. Mi ha detto che preferisce gli adulti e allora vuole andare a lavorare. Io lo lascio parlare e non lo presso. Intanto gli ho prestato il mio vecchio computer portatile per l’estate. Sta scrivendo una storia fantasy che inserisce a capitoli in un sito internet e l’ho convinto a continuarla anche dalla montagna. Vedremo a settembre, intanto dovrà tornare a riportarmi il computer. Gerta, la ragazzina albanese di cui ti ho parlato, è passata in seconda con un solo debito. Vedrai che ne faremo qualcosa di molto buono. La Sonia di cui ti ho scritto durante l’occupazione è stata bravissima. La qualifica sopra il settanta dopo due anni con bocciature e tribolazioni. Mi ero accorto che era cresciuta in quella conversazione a suo dire «interessantissima». È cresciuta, per fortuna, nella scuola. Vedremo l’anno prossimo, in quarta. Balli, quello con la madre che non riusciva a scrivere la lettera al preside, ha smesso di frequentare. La sorella, che fa la quinta, mi ha detto che è in uno stato di depressione fortissima. Non si alza dal letto e le cure per adesso hanno avuto poco effetto. Ovviamente ho dato la nostra disponibilità ad aiutarlo per l’anno prossimo, ma al momento non so dirti se lo rivedremo. Marroncini, che mi fece passare tutto l’esame di stato con il 118 sul cellulare, è tornato a scuola. Farà l’esame di abilitazione a settembre e sta seguendo il corso estivo per gli alunni degli esami integrativi. Finora ha lavorato in maniera occasionale, sempre tra alti troppo alti e bassi troppo bassi. Non c’è dubbio che a scuola si sente protetto. Vedremo a settembre. Mi rendo conto di aver messo in fila molti ‘vedremo’. Mi dispiace, avrei preferito chiudere almeno qualcuna delle storie che, pezzetto dopo pezzetto, ti ho raccontato. Evidentemente non è possibile. La fine di un anno scolastico non è mai la fine delle sue storie. Tutto sommato è più giusto così.

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In fondo, nessuna storia finisce mai, forse si possono solo lasciare andare per avere il tempo di raccontarne altre. Beppe

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Gli autori

Giuseppe Bagni insegna chimica in un Istituto professionale di Firenze. Attualmente è presidente nazionale del Cidi, Centro di iniziativa democratica degli insegnanti. Autore di numerosi articoli di scienze, scrive su varie riviste riguardo al sistema scolastico ed educativo.

Rosalba Conserva ha insegnato italiano e storia in un Istituto tecnico di Roma. Ha dedicato molti anni allo studio del pensiero di Gregory Bateson, in particolare alle teorie relative al fondamento biologico della conoscenza. È tra i fondatori del Circolo Bateson, dove collabora a ideare e proporre incontri seminariali intorno e oltre l’epistemologia di Bateson.

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Indice

Prefazione Un epistolario nel labirinto di Pietro Lucisano

III

Premessa

IX

Il primo giorno di scuola

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Le lettere

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Gli autori

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2015 presso la tipografia O.GRA.RO. Vicolo dei Tabacchi 1, 00153 Roma

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