In Ghana. Etnografie dallo Nzema 2931022047, 9782931022047


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In Ghana. Etnografie dallo Nzema
 2931022047, 9782931022047

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In Ghana

Etnografie dallo Nzema A cura di Matteo Aria, Pino Schirripa ed Elisa Vasconi

Mincione Edizioni

Mincione Edizioni

Titolo In Ghana. Etnografie dallo Nzema © 2019 Mincione Edizioni, Roma I Edizione Maggio 2019 ISBN 9788885281363 Edizioni Ensemble Srls www.mincionedizioni.com

INDICE

Introduzione Elisa Vasconi

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Un terreno di lunga durata e plurale. Riflessioni sulla Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG) Mariano Pavanello 29 Parte I: La storia contesa Luoghi, storie e conflitti nel festival Kundum di Axim e Nsein Benedetta Lepore 103 Le retoriche del potere e della storia nella grande lite sul seggio dello Nzema unitario Stefano Maltese 137 Parte II: Salute e Salvezza La tubercolosi in Ghana: programmi nazionali, strategie distrettuali e percezioni locali di una piaga sociale. Verso un’antropologia performativa Elisa Vasconi 173 Tra cura e mercato. La psichiatria nell’arena della salute mentale in area nzema Cecilia Draicchio

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La disabilità in Ghana. Inclusività in ambito educativo, percezioni e concezioni locali Fabiana Pasquazzi 247 Prosperità e globalizzazione nel movimento carismatico ghanese. La teologia del dominio di Mensa Otabil Dario Scozia 275 Parte III: Nuove esplorazioni Nana Kwaku Bonsam, the great authentic man: spiriti, follower e media digitali tra secolarismo e democrazia Angelantonio Grossi 313 “Movin’ to the next level”. Popular music, circolazione digitale e mobilità sociale in area nzema Francesco Longo 341 Il signwriting in Ghana. Artisti, nuove tecnologie, cultura popolare Mariaclaudia Cristofano

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Postfazione Pino Schirripa e Matteo Aria

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INTRODUZIONE



Elisa Vasconi

Questo libro raccoglie le più recenti ricerche etnografiche condotte dagli antropologi della Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG) e mira a riflettere non solo sulle prospettive scientifiche adottate, ma anche sulle implicazioni di un campo condiviso e sulle modalità con cui si strutturano le etnografie in un terreno di lunga durata. In particolare, l’obiettivo del volume è quello di presentare gli attuali lavori che testimoniano un periodo di passaggio della Missione e soprattutto un profondo cambiamento del campo di ricerca. Gli antropologi italiani, che svolgono le proprie indagini in uno specifico tratto costiero di quella che fu la Costa d’oro, denominato area nzema, si trovano oggi dinanzi a rilevanti trasformazioni sociali, ambientali, economiche e politiche causate prevalentemente dalla scoperta di preziose risorse naturali e dagli interessi che ruotano attorno a esse. I saggi qui raccolti si presentano, dunque, come uno stato dell’arte delle etnografie della Missione che, dinanzi a un terreno in profondo mutamento, vede i propri ricercatori indagare su nuovi argomenti e interpretare i propri oggetti di studio attraverso innovativi orizzonti interpretativi. Situato nel quadrante sud-occidentale del Ghana, lo Nzema è una piccola regione che si affaccia sul Golfo di Guinea, delimitata a est dal fiume Ankobra (Siane),

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a ovest dal fiume Tano (Tanoε) e dal sistema lagunare che separa il Paese dalla Costa d’Avorio (Eby and TanoEhy lagoons). È un territorio abitato dall’omonima popolazione, appartenente al gruppo etnolinguistico Akan e caratterizzato da un sistema di discendenza matrilineare. Alla regione corrispondono due aree tradizionali la Western Nzema Traditional Area, con capitale Beyin, e la Eastern Nzema Traditional Area, con capitale Atuabo e tre assemblee di distretto, il Jomoro, l’Elemgbenle e lo Nzema East District Assembly. Da più di sessant’anni l’intera aerea è oggetto di studio della MEIG, che in un periodo così prolungato ha dato avvio a esperienze scientifiche e umane talmente profonde da essere considerata «una sorta di paradigma della storia dell’antropologia extraeuropea» (Pavanello, p. 32 in questo volume). Fondata nel 1954 da Vinigi Grottanelli, titolare della prima cattedra di etnologia in Italia, la MEIG è a oggi la più longeva Missione antropologica del nostro Paese. La sua storia, minuziosamente restituita nel saggio di Mariano Pavanello che apre il volume, è suddivisa in tre grandi fasi di ricerca, caratterizzate da diverse prospettive etnografiche, metodologiche ed epistemologiche e da differenti relazioni instaurate dagli studiosi con il campo etnografico. La prima fase (1954-1977), che ha visto come direttore Vinigi Grottanelli, aspirava alla costruzione di una ricerca etnografica universalistica e oggettiva, restituendo una fotografia delle popolazioni osservate e un quadro olistico della cultura locale. La seconda (1989-2013), diretta da 8

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Mariano Pavanello, si è invece prevalentemente focalizzata sugli aspetti relazionali, politici e scientifici che soggiacciono alla costruzione del dato etnografico. In linea con la svolta critico-riflessiva della nostra disciplina, l’obiettivo di questa fase è stato quello di realizzare un’esperienza originale che ponesse l’attenzione sulle modalità della conoscenza degli osservatori e sull’esperienza etnografica come strumento di definizione di un dialogo interculturale. Questo periodo, tuttavia, non si è solo distinto per l’adozione di nuovi paradigmi, ma anche per le riflessioni sulle implicazioni di un terreno così “lungo e condiviso”, che inducono ancora oggi i ricercatori a percepirsi imbrigliati nella rete di relazioni umane e politiche instaurate in decenni di frequentazione. Lavorare all’interno di una realtà come la MEIG richiede, d’altronde, l’assunzione di particolari responsabilità e il mantenimento di un rigore nello “stare sul campo”, per il rispetto di chi ci ha preceduti e soprattutto di chi continuerà a coltivare rapporti con quel determinato contesto. Questa duratura relazione con il terreno ha reso per l’appunto prioritaria la questione della restituzione etnografica e di una condivisione della conoscenza scientifica con gli interlocutori locali. Il bisogno di restituire qualcosa di empirico, che esulasse dalle pubblicazioni scientifiche, è emerso anche in seguito alla necessità di rispondere alle istanze avanzate da alcuni capi tradizionali con cui Mariano Pavanello, durante le sue indagini etnografiche, ha stabilito dei rapporti talmente rilevanti da essere annoverato egli stesso come un capo tra i capi. Un ruolo di particolare rilievo è stato interpretato

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da Annor Adjaye III, ɔmanhene (paramount chief) della Western Nzema Traditional Area, che oltre a padroneggiare il linguaggio dello sviluppo si è relazionato in maniera non subalterna con il sapere degli antropologi (Pavanello 2007; Cristofano, Maltese, Vasconi 2014). Prova di questo inedito dialogo sono stati i due viaggi in Italia intrapresi dal re e organizzati dallo stesso Pavanello nel 1996 e nel 1997, parallelamente ai quali il paramount chief ha iniziato a sottolineare l’obbligo degli studiosi italiani di rendere fruibili alla popolazione locale i loro studi e di mettere in atto forme di restituzione che avessero delle ripercussioni sostanziali sul territorio (Pavanello 2007). Proprio dinanzi alle continue richieste di “risarcimento” Mariano Pavanello si è fatto interprete di un nuovo ruolo divenendo promotore di processi di sviluppo e facilitando l’arrivo nell’area di alcune istituzioni e di organizzazioni non governative. In particolare, il coinvolgimento dell’Ong COSPE di Firenze ha portato nel 2005 all’approvazione e al finanziamento, da parte del Ministero degli Affari Esteri, del Fort Apollonia and the Nzemas, un progetto che individuava nella conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e naturale locale gli elementi centrali per lo sviluppo della popolazione nzema e per il miglioramento delle sue condizioni di vita. Sebbene l’intervento prevedesse diversi obiettivi, gli antropologi sono stati particolarmente coinvolti in quelli relativi alla realizzazione del Fort Apollonia Museums of Nzema Culture and History, museo-centro culturale inaugurato il 10

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30 ottobre 2010 e collocato all’interno di Fort Apollonia. Per anni utilizzato come guesthouse e come residenza esclusiva degli antropologi della MEIG, il Forte ha acquisito un ruolo centrale all’interno del percorso di restituzione nel momento in cui Pavanello, dai primi anni del 2000, ha incoraggiato per la prima volta la definitiva uscita dei ricercatori dal Forte e la loro dispersione sul territorio. Non più confinati all’interno di un edificio simbolicamente correlato alla dominazione europea e guidati da uno o pochi informatori dentro un rapporto privilegiato, gli antropologi hanno iniziato a modificare la loro relazione con le comunità locali e con il campo dando avvio al processo di “risarcimento” più volte richiesto dai capi locali. La realizzazione di un progetto così imponente induce ancora oggi a soffermarsi sulle implicazioni prodotte dal processo di patrimonializzazione condivisa (Aria, Cristofano, Maltese 2012, 2013, 2015) e dalla cooperazione culturale (Cristofano, Maltese, Vasconi 2014), di cui la MEIG si è resa protagonista, che ha inevitabilmente alterato le aspettative locali. Il ruolo di passeur culturel1 (vedi Aria, Cristofano, Maltese 2015) interpretato da Mariano Pavanello e il diretto coinvolgimento degli antropologi nei processi di sviluppo spinge attualmente la Missione a continuare a promuovere progetti che prevedono il museo come 1 Per un’analisi del concetto di passeur culturel de patrimoine vedi Bénat Tachot, Gruzinzki (2001); Aria (2007); Aria, Favole (2011); Ciarcia (2011). 11

main applicant, divenuto a tutti gli effetti un’istituzione culturale indipendente. Sono stati a tal proposito realizzati tra il 2012 e il 2016 altri interventi di cooperazione, che hanno visto protagonista il Fort Apollonia Museum, volti a censire, mettere in sicurezza e digitalizzare gli archivi dei Traditional Council dell’Eastern e Western Nzema Traditional Areas e delle altre aree tradizionali limitrofe2. Diversi autori dei saggi qui raccolti hanno attivamente partecipato alla scrittura e alla realizzazione dei progetti di archiviazione digitale, portando avanti il proprio impegno politico, realizzando il percorso di restituzione e soprattutto conducendo contemporaneamente le proprie ricerche, avvenute all’interno di questo complesso panorama. Da una prima fase caratterizzata da riflessioni scientifiche che miravano a valorizzare l’“autentico” e il “tradizionale”, a una seconda in cui i ricercatori hanno adottato una prospettiva meno essenzializzante, in grado di osservare il contesto locale attraverso i processi di mutamento e dinamismo culturale concentrandosi sul percorso di restituzione, si è giunti, quindi, a una terza e ultima fase 2 Il Fort Apollonia Museum si è fatto protagonista non solo del successo del primo progetto pilota finanziato dall’Arcadia Foundation nel quadro dell’Endagered Archives Programme della British Library, focalizzato sugli archivi di Eastern e Western Nzema, ma anche del successivo major project che ha visto estendersi l’intervento anche in altre aree tradizionali limitrofe. Per un’analisi approfondita del progetto pilota EAP569 Safeguarding Nzema History: Documents on Nzema Land in Ghanaian National and Local Archives, e del major project EAP722 - Safeguarding Nzema History. Towards an Archive of Chieftancy in South-West Ghana vedi Maltese (2017, 2018). 12

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della Missione (dal 2013), che si distingue, come emerge dai saggi di questo volume, non solo per le tematiche affrontate e gli innovativi dibattiti teorici, ma soprattutto perché frutto di osservazioni di una realtà caratterizzata da radicali cambiamenti che stanno letteralmente sconvolgendo il territorio, la situazione economica e le relazioni sociali. Da sempre descritta come una regione rurale, per anni considerata ai margini dei processi di sviluppo e di urbanizzazione, da alcuni tempi l’area nzema sta subendo importanti mutamenti, tali da modificare profondamente lo scenario locale. Nel 2004, grazie a un accordo tra la Ghana National Petroleum Corporation e altre compagnie straniere, sono state promosse alcune esplorazioni petrolifere nella zona a largo di Cape Three Points, nella regione occidentale del Ghana, che hanno condotto nel 2007 alla scoperta di alcuni giacimenti determinando la presenza di una riserva petrolifera, denominata Jubilee Field3. Dalla fine degli anni 2000, la scoperta dell’oro nero ha catalizzato l’attenzione governativa e soprattutto delle multinazionali e ha indotto all’istituzione di joint venture tra diversi soggetti nazionali e transnazionali che hanno iniziato a investire sul territorio, ad acquisire il controllo delle estrazioni e a realizzare un poderoso impianto di lavorazione e stoccaggio del gas. In pochi anni la percezione di una totale immersione in un paesaggio rurale e marginale, che si provava una volta giunti nello Nzema, è svanita dinanzi agli imponenti 3 Per un approfondimento sull’argomento vedi Pugliese (2012). 13

interventi di sviluppo infrastrutturale che stanno ancora oggi modificando l’urbanizzazione dell’area. Nonostante a livello nazionale la presenza di gas e petrolio abbia prodotto l’incremento del PIL, a livello locale la costruzione delle piattaforme e dell’impianto, e i relativi interventi di deforestazione, stanno generando delle sconvolgenti trasformazioni ambientali, economiche e politico-sociali, scardinando alcuni equilibri locali. La geografia della laguna, ad esempio, sta subendo delle mutazioni in seguito all’edificazione della piattaforma, diverse comunità sono state costrette ad abbandonare la propria terra, e le royalties e le cospicue compensazioni pecuniarie promesse a cospetto della concessione dei terreni destinati agli impianti hanno inasprito le liti all’interno del potere tradizionale, in quanto detentore delle terre. Per gli antropologi italiani che frequentano da tempo l’area, trasformazioni e disequilibri di un tale calibro, che influenzano inevitabilmente gli oggetti delle indagini etnografiche, rappresentano una sfida, la possibilità di un’apertura verso nuovi orizzonti e l’adozione di nuove prospettive. L’aumento delle liti tra i capi tradizionali, gli attacchi di stregoneria subiti da alcuni capi locali particolarmente coinvolti nelle azioni economiche e politiche che ruotano intorno al ritrovamento delle risorse naturali, il coinvolgimento di alcune multinazionali nella ristrutturazione di piccole cliniche decentrate e nel finanziamento di campagne sanitarie, che incentivano peraltro la demonizzazione della medicina tradizionale, 14

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l’incremento del numero di resort e il tentativo di uno sviluppo turistico dell’area, la modifica della rete stradale e di comunicazione, sono solo alcuni dei cambiamenti riscontrati nel territorio e correlati ai temi esaminati dalla Missione, soprattutto nella terza fase. Come emerge dai saggi qui pubblicati, le ricerche più recenti delineano un panorama locale in continuo cambiamento e immerso in reti transnazionali. Inoltre, i profondi mutamenti del territorio hanno indotto alcuni giovani ricercatori a inaugurare nuove linee di ricerca rispetto ai classici temi esaminati dalla Missione, come la religione, la medicina autoctona e il potere tradizionale. La disabilità, il rapporto tra guaritori e media, la popular music e la sua circolazione digitale o il signwriting, rappresentano le nuove tematiche indagate che hanno dato avvio a dibattiti mai affrontati dai lavori prodotti sullo Nzema, aprendo le porte a riflessioni che spaziano dalla società civile alla sfera pubblica, sino alla popular culture in Africa. Il saggio di Mariano Pavanello introduce il volume e i vari contributi attraverso «un ripensamento complessivo sul significato e sul valore di un’esperienza etnografica transgenerazionale», come quella della MEIG (Pavanello p. 31 in questo volume). Attraverso la ricostruzione storica della Missione, l’autore esamina le complesse relazioni intessute con il campo di ricerca in un periodo così prolungato da non avere precedenti nella storia dell’antropologia, relazioni che hanno dato avvio negli ultimi anni a processi di restituzione e condivisione

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inaugurando nuovi orizzonti epistemologici. Il lavoro riassume i più rilevanti risultati conseguiti durante le prime due fasi della MEIG e riflette sulla costruzione del sapere etnografico in quanto patrimonio culturale. La dettagliata ricostruzione degli intensi sessant’anni di lavoro permette di introdurre le più recenti esperienze etnografiche, intraprese tra la fine della seconda e l’inizio della terza fase della Missione, che si trovano a osservare un terreno mutato e particolarmente sconvolto dalle attuali dinamiche attivate prevalentemente dalle estrazioni petrolifere. Entrando a questo punto nel merito dei contributi qui pubblicati, le tre sezioni in cui è suddiviso il volume mirano a raccogliere in specifiche macro-aree le diverse tematiche affrontate dai giovani ricercatori. La prima parte, dal titolo Storia contesa contiene due saggi caratterizzati da un approccio storico-antropologico e incentrati prevalentemente sull’analisi del potere tradizionale, delle liti e della storia locale. Il saggio di Benedetta Lepore esamina il festival del Kundum, storicamente descritto nella letteratura antropologica come un capodanno agrario e individuato come momento di confronto tra diversi attori della politica e dell’economia locali, nazionali e transnazionali. A partire da tali interpretazioni, l’autrice avanza una prospettiva che apre nuovi scenari sul festival, considerandolo non solo come espressione del potere tradizionale e dei confini delle diverse Paramountcy, ma anche come un’arena in cui emergono narrative, conflitti, negoziazioni di potere, e come un sito di rielaborazione dello spazio storico. 16

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Un festival itinerante che è divenuto, oggi, materia di procedimenti giudiziari con frequenti casi di contestazione dei confini della giurisdizione dei seggi. Soffermandosi in particolare su quanto avviene nella cittadina di Axim, questo lavoro si concentra sulla costante competizione tra due delle aree tradizionali che insistono sul territorio, che ha portato più recentemente alla contestazione di alcuni momenti del calendario festivo, nonché a scontri nel corso delle cerimonie pubbliche. Il saggio di Stefano Maltese si concentra, invece, sulla ricostruzione della grande lite che ruota intorno alla figura di Kaku Aka, sovrano del Regno di Apollonia che vedeva unite le due aree nzema. L’autore ricostruisce la storia della caduta del sovrano, la successiva scissione del Regno unitario e la nascita delle due aree tradizionali nzema, per giungere a delineare la cornice retorica entro cui si gioca l’attuale lite avanzata da coloro che, dichiarandosi discendenti di Kaku Aka, hanno aperto un confronto sulla storia ancestrale sostenendo l’istallazione di un nuovo Re dello Nzema unitario. I due lavori raccolti in questa sezione rappresentano ovviamente una sintesi degli approfonditi e ampi lavori di ricerca dei due antropologi, accomunati non solo dalla doppia lente analitica della storia e dell’antropologia e, dunque, delle metodologie e degli strumenti interpretativi appartenenti alla due discipline, ma anche da un medesimo sguardo dialogico che vede i loro oggetti di studio immersi in costanti negoziazioni della storia e ridefinizioni del potere.

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Un panorama che continua a rinnovarsi soprattutto dinanzi alle radicali trasformazioni che stanno interessando l’area e che vedono direttamente coinvolto il potere tradizionale in un processo di costante conflitto e mutamento. La seconda parte, Salute e Salvezza, raccoglie quattro saggi che fanno riferimento alle recenti ricerche di antropologia medica e religiosa svolte dai ricercatori della MEIG. Nonostante la diversità degli argomenti, i contributi sono accomunati da un’analisi politicoistituzionale, dall’approfondita osservazione del pluralismo medico e religioso, e infine da un impegno politico correlato alla comprensione di quanto e in che modo l’approccio antropologico possa rappresentare uno strumento critico per il superamento delle disuguaglianze e per il miglioramento dei programmi di intervento. Il mio contributo esamina specificamente il caso della tubercolosi, definita dalle autorità sanitarie locali tra le patologie più gravi e diffuse dell’area nzema. Il saggio mira non solo a ricostruire la storia della diffusione della Tbc nel Paese e dei programmi di intervento, ma anche ad analizzare la mancata declinazione delle politiche nazionali all’interno di un contesto distrettuale, come quello del Jomoro. L’analisi proposta permette di riflettere sulla dicotomia tra il sistema sanitario nazionale e quello locale, sul modo in cui un’istituzione sanitaria decentrata prova a sopperire al mancato supporto statale, sulle strategie che il personale distrettuale adotta per limitare la diffusione di una tale 18

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piaga sociale, e infine sulle diverse interpretazioni e pratiche terapeutiche locali. Il lavoro di Cecilia Draicchio si focalizza, invece, sul tema della salute mentale, ancora oggi al centro di molti dibattiti che vedono coinvolte le istituzioni sanitarie ghanesi. A partire dall’approvazione nel 2012 del Mental Health Act 846, legge ideata per superare l’inadeguatezza delle istituzioni psichiatriche ghanesi, note per essere fortemente centralizzate e costantemente sovraffollate, l’autrice esamina la situazione dell’attuale decentramento dei servizi sanitari psichiatrici, con particolare riferimento al caso del Jomoro. Il presente contributo vuole evidenziare sia la distanza tra le pratiche psichiatriche discusse sul piano nazionale e le modalità con cui si declinano in una zona rurale come l’area nzema, sia focalizzare l’analisi sulle pratiche e le narrative degli attori locali, ponendo in particolare l’attenzione sui percorsi terapeutici dei pazienti e sulla collaborazione tra il personale medico e i terapeuti tradizionali. Il terzo saggio presente in questa sezione affronta un argomento mai trattato precedentemente dalla Missione, quello della disabilità. Il lavoro di Fabiana Pasquazzi si sofferma specificamente sulla disabilità fisica, con particolare attenzione a quella di tipo motorio, e alle questioni sociali, culturali, mediche e religiose che ruotano attorno a essa. Svolgendo la ricerca all’interno di una scuola secondaria professionale, situata in un villaggio del distretto di Elengbenle e rivolta alla formazione dei ragazzi con deficit motori, l’autrice riflette sia sul tema

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dell’educazione inclusiva facendo riferimento anche alle politiche che sta adottando il Ghana a livello nazionale sia sulle percezioni locali che ruotano attorno alla disabilità, al fine di comprendere l’eziologia della stigmatizzazione che un tale disagio comporta e lottare contro l’emarginazione delle classi più deboli. L’ultimo saggio della sezione esamina alcuni nuovi culti religiosi diffusi in tutto il Ghana. A partire dalle sue ricerche in area nzema sulle diverse tradizioni religiose, Dario Scozia nel suo contributo incentra l’analisi su un complesso di dottrine e pratiche cristiane conosciuto come vangelo della prosperità e annoverato tra le correnti del pentecostalismo globale contemporaneo. Con l’obiettivo di osservare il ruolo delle chiese pentecostali africane di ultima generazione nella mobilità ghanese verso l’Italia, l’autore focalizza l’attenzione sulla teologia dell’International Central Gospel Church (ICGC) – una delle più importanti chiese carismatiche indipendenti di origini ghanesi e sul suo fondatore, Mensa Otabil. Ispirandosi ai lavori di Pino Schirripa, Birgit Meyer, Simon Coleman e altri rilevanti autori, il lavoro esamina la versione della teologia della prosperità promossa dall’ICGC, per cui la salvezza sembra essere legata alla creazione di soggettività africane moderne in grado di muoversi autonomamente all’interno di un sistema transnazionale e di relazionarsi alla pari, se non addirittura da una posizione di superiorità, con qualsiasi interlocutore occidentale. 20

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L’ultima sezione raccoglie tre contributi che affrontano tematiche divergenti pur presentando similitudini e diverse sovrapposizioni teorico-interpretative. Nuove esplorazioni è il titolo di quest’ultima parte che vuole porre in evidenza il tentativo degli autori di indagare su argomenti innovativi rispetto ai classici temi affrontati dalla MEIG, ma soprattutto la volontà di leggere la propria etnografia attraverso prospettive teoriche inusuali per la letteratura prodotta sullo Nzema. Il saggio di Angelantonio Grossi esula solo apparentemente dall’area geografica che accomuna gran parte degli studi della Missione, in quanto anche il suo percorso di ricerca ha avuto inizio nello Nzema, da cui ha tratto ispirazione per indagare a livello nazionale e transnazionale l’uso dei media, in particolare declinato all’ambito magico-religioso. L’autore focalizza l’attenzione su uno specifico personaggio pubblico, Nana Kwaku Bonsam, un traditional priest famoso in Ghana e all’estero. Si tratta di un esponente di spicco della cosiddetta traditional religion che parla pubblicamente dei suoi poteri e cura i propri pazienti attraverso i media. Il saggio esamina il ruolo delle tecnologie che hanno concesso a Kwaku Bonsam la possibilità, da un lato, di trascendere i confini geografici tipicamente associati alla figura dei guaritori tradizionali giungendo a un pubblico più vasto, e dall’altro di prendere parte alla sfera pubblica del Paese enfatizzando temi come quello dei juju o della connessione con gli spiriti generalmente percepiti come pericolosi e appartenenti al mondo dell’occulto.

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L’analisi di questo caso etnografico permette all’autore di aprire delle riflessioni sul secolarismo, sul supposto disincanto di cui la modernità sarebbe principalmente costituita e sul dibattito che ruota intorno alla relazione tra media digitali e processi di democratizzazione e di sviluppo in Africa. Il secondo contributo della sezione, in un ambito diverso come quello musicale, esamina le modalità con cui la recente introduzione di tecnologie digitali abbia favorito lo sviluppo di pratiche che stanno modificando il paesaggio sonoro dell’area. Il saggio di Francesco Longo mira ad aprire una finestra su alcune dinamiche legate alla produzione e alla circolazione di popular music nello Nzema, con il duplice obiettivo di situare la regione all’interno dei movimenti transnazionali di popular culture e di includere le aree rurali nella letteratura sulla popular music contemporanea ghanese. L’autore focalizza la sua etnografia su un piccolo studio di registrazione, il De Bees Records di Aiyinasi, al fine di esplorare le vicissitudini dei giovani che lo frequentano e i loro desideri di mobilità geografica e sociale, la circolazione digitale e materiale, le identità, le autorappresentazioni, le aspettative, le delusioni riguardo lo sviluppo e le relazioni con le istituzioni. A partire dalla ricerca sul campo, il lavoro vuole comprendere quanto la diffusione delle tecnologie abbia incrementato il numero degli studi di registrazione casalinghi e degli appassionati di hiplife, una forma di rap vernacolare che mischia l’hip hop con espressioni ed estetiche locali. 22

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Proprio di estetiche parla l’ultimo contributo del volume, quello di Mariaclaudia Cristofano, che mira a restituire un quadro sui pittori di insegne del Ghana contemporaneo. Chiamati anche wayside artists, per la prossimità della loro bottega al ciglio della strada, per anni i signwriter hanno lavorato tra le vie delle grandi città del Ghana. Si tratta di artisti che vantano una formazione multiforme e che si trovano oggi ad affrontare il rilevante fenomeno della digitalizzazione e della diffusione delle nuove tecnologie. L’autrice, infatti, incentrando la sua ricerca prevalentemente in area nzema, dove ha seguito quindici artisti osservandone le storie di vita, la formazione, le pratiche quotidiane e il rapporto tra maestro e apprendista, riflette sul passaggio al digitale e su come i graphic designer continuano a farsi interpreti della cultura visuale del proprio paese. L’obiettivo è quello di interpretare il signwriting come un fenomeno in continua trasformazione, evitando classificazioni gerarchiche e reificazione della vecchia cartellonistica manuale a discapito di quella digitale, valorizzando la cultura di massa da cui entrambe le produzioni sono ispirate. Ciononostante, l’aspetto interessante di questo lavoro, già in parte emerso nel saggio di Francesco Longo, è il tentativo di ancorare la ricerca alle prospettive scientifiche afferenti ai cultural studies. Ispirandosi ai lavori di Fabio Dei, che recupera la prospettiva promossa da alcuni degli studiosi inglesi della scuola di Birmingham e soprattutto di Stuart Hall, l’autrice mira a osservare il signwriting in una dimensione 23

diacronica interpretandolo attraverso il concetto di cultura popolare, individuato non nell’insieme di particolari oggetti bensì nelle pratiche sociali di fruizione della cultura di massa e nel rapporto sempre conflittuale tra il subalterno e l’egemonico. È evidente, dunque, come i contributi qui raccolti non solo evidenzino un fermento teorico, ma anche un radicale cambiamento del terreno e, parallelamente, delle posture etnografiche adottate dai ricercatori della Missione. L’abbandono del Forte come residenza privilegiata ha indotto a modificare le modalità dello “stare sul campo”, invitando gli antropologi a perdersi nel terreno e a vivere a stretto contatto con i propri interlocutori. Il percorso di restituzione ha trasformato i ricercatori in promotori di progetti di cooperazione culturale rendendoli parte attiva della società civile e sottoposti a richieste costanti da parte degli interlocutori locali. La diffusione delle tecnologie e dei media, come dimostrano i saggi dell’ultima sezione, stanno modificando antropologicamente il panorama locale inducendo i ricercatori ad aprirsi a nuovi dibattiti teorici. Il ritrovamento di alcune risorse naturali e la presenza di soggetti governativi e transnazionali stanno innescando nuove dinamiche che indurranno alla costituzione di equilibri differenti nel territorio e apriranno linee di ricerca mai intraprese sino a oggi. Pertanto, la vitale attività etnografica, l’eterogeneità dei temi affrontati, l’introduzione di nuove prospettive interpretative e le trasformazioni dell’area inducono 24

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a considerare lo Nzema un campo vivo e in costante mutamento. Se, dunque, come osserva Pavanello, «una così prolungata avventura di ricerca nello stesso terreno, con la partecipazione di numerosi studiosi e molti studenti, come la MEIG, non ha precedenti nella storia dell’antropologia, e non poteva non suscitare, dopo sessant’anni, l’esigenza di voltarsi indietro e recuperare criticamente la memoria di quanto è stato fatto da noi, e da altri prima di noi» (Pavanello p. 31 in questo volume), questo lavoro vuole invece rivolgere lo sguardo al futuro. Dinanzi al timore di un terreno ormai interamente indagato e di una Missione troppo longeva, tanto da aver esaurito il proprio campo, i saggi qui raccolti permettono di valorizzare le ricerche ancora in fieri, di esaltare la presenza di ambiti e aree ancora sconosciuti ma soprattutto di definire l’area nzema e il lavoro della Missione come arene privilegiate di osservazione sulla contemporaneità africana.

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Bibliografia Aria, M. 2007. Cercando nel vuoto: la memoria perduta e ritrovata in Polinesia francese. Pisa, Pacini. Aria, M. & A. Favole, 2011. “Passeurs culturels: patrimonialisation partagée et créativité culturelle en Océanie francophone”, in Ethnologue et passeurs de mémoire, a cura di G. Ciarcia (ed.), pp. 213239. Paris, Karthala. Aria, M., Cristofano, M. & S. Maltese, 2012. Fort Apollonia. PrimaPersona, 26: 94-101. Aria, M., Cristofano, M. & S. Maltese, 2013. Patrimoni condivisi e patrimoni contesi a Fort Apollonia (Ghana sud-occidentale). AM. Antropologia Museale, 32-33: 35-45. Aria, M., Cristofano, M. & S. Maltese, 2015. “The Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History: development challenges and shared heritage-making processes in south-west Ghana”, in Museum, Heritage, Development, a cura di Basu, P. & W. Modest, pp. 150-169. London, Routledge. Bénat Tachot, L. & S. Gruzinski, 2001. Passeur culturels: Mécanismes de métissage. Paris: Presses Universitaires de Marne-la-Vallée, édition de Maison des Sciences de l’Homme. Ciarcia, G. 2011. Ethnologue et passeurs de mémoire. Paris, Karthala. Cristofano, M., Maltese, S. & E. Vasconi, 2014. “The Italian Ethnological Mission to Ghana and Cultural Cooperation: HeritageMaking Processes in the Nzema Area (South-West Ghana)”, in Imagining Cultures of Cooperation: Universities Networking to Face the New Development Challenges, Proceedings of the III Congress of the University Network for Development Cooperation (CUCS). Turin 19-21 September 2013, a cura di Dansero E., De Filippi, F., Fantini, E, & I. Marocco, (a cura di). JUNCO – Journal of UNiversities and International development COoperation, 1: 747-53. (http://www.ojs.

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Un terreno di lunga durata. Riflessioni sulla Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG) Mariano Pavanello Premessa Il progetto di questo libro è scaturito da un seminario che il Dipartimento di Storia, Culture, Religioni della Sapienza Università di Roma volle organizzare il 20 novembre 2014 per celebrare i sessant’anni della Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG)1, avviata nel 1954 da Vinigi L.

1 ‘Missione’ è il titolo che, nel lessico del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, si attribuisce alle iniziative di ricerca archeologica, antropologica ed etnologica in paesi stranieri finanziate nell’ambito della politica estera italiana. La genealogia del concetto di ‘missione etnologica’ partecipa in modo cospicuo della storia culturale europea e dell’eredità ideologica coloniale, e affonda le sue radici in una concezione fortemente oggettivista della ricerca etnografica. Il termine ‘missione’ è stato utilizzato ampiamente sin dal XVIII Secolo per denotare le imprese di esplorazione geografica, archeologica ed etnologica. Fu probabilmente la Société des Observateurs de l’Homme (1799-1804, v. Chappey 2002) a promuovere le prime spedizioni di conoscenza delle popolazioni native. Le missioni avevano una durata limitata ed erano finalizzate alla conoscenza dello stato dell’umanità precedente il progresso. Si realizzavano attraverso viaggi lontani nello spazio e, metaforicamente, lontani nel tempo. L’analogia è palese con le missioni etnologiche, come sono state concepite fino agli anni Settanta del secolo scorso, con l’obiettivo di conoscenza dei ‘primitivi’ da parte delle società civili, in quanto finalità intrinseca alla missione universalista della scienza. Già dalla seconda metà del XIX Secolo, le spedizioni geografiche, etnografiche e naturalistiche avevano perso molto dell’antico interesse filosofico e avevano assunto una veste più istituzionale e accademica, e finalità economico-politiche oltre che conoscitive. 29

Grottanelli e da me riaperta nel 19892. L’occasione venne offerta dalla presenza a Roma di molti studiosi responsabili di missioni etnologiche invitati dal Ministero degli Esteri per un incontro ufficiale. Era anche presente, in visita privata in Italia, l’Ɔmanhene (paramount chief) della Eastern Nzema Traditional Area3, Awulae Amihere Kpanyinli III. Circa dieci anni prima, per i cinquant’anni della MEIG, avevo organizzato un seminario all’Institute of African Studies della University of Ghana, a Legon (Ghana)4. Il desiderio di scandire il tempo decisamente lungo di questa impresa scientifica, nonché la necessità di fare il

2 La Missione Etnologica Italiana in Ghana è diretta dal 2014 da Pino Schirripa, curatore del presente volume, e organizzatore dell’incontro per i 60 anni della MEIG. A lui va la mia gratitudine per avere accettato di farsi carico della storica eredità di studi della Scuola Romana di Etnologia. 3 Gli Nzema sono stanziati nell’estremo lembo sud occidentale del Ghana, tra il basso corso del fiume Ankobra a est e il confine con la Costa d’Avorio a ovest. L’area è divisa in due Traditional Areas, quella orientale con capitale tradizionale Atuabo, corrispondente all’Elemgbenle District, e quella occidentale con capitale tradizionale Beyin, corrispondente al Jomoro District. Gli Nzema sono una popolazione Akan, gruppo etnolinguistico che copre una vasta area del Ghana centro-occidentale e della Costa d’Avorio sud orientale. In Ghana, il potere tradizionale (chieftaincy) ha, dall’indipendenza, rilevanza costituzionale e le Traditional Areas sono territori corrispondenti in massima parte ai regni e chiefdoms precoloniali. 4 Il seminario, che ebbe luogo il 19 gennaio 2005, aveva per tema «Changing Concepts and Practices in Anthropology: Fifty Years of the Italian Ethnological Mission to Ghana (1954-2005) and Research at the Institute of African Studies, Legon». L’incontro fu reso possibile grazie alla collaborazione dell’allora direttrice dell’Institute of African Studies, Takyiwaa Manuh, e dell’ospitalità della University of Ghana. 30

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punto sui risultati conseguiti e i problemi sollevati, anche in relazione alla pluralità dei punti di vista esercitati dai molti partecipanti alla Missione, mi aveva spinto a realizzare quel momento di riflessione e a celebrare il giubileo del rapporto dell’etnologia italiana con il Ghana. A dieci anni di distanza, si è colta l’occasione per un ripensamento complessivo sul significato e il valore di un’esperienza etnografica transgenerazionale. In questi incontri, accanto al tema della legittimazione della ricerca antropologica, si è sempre imposto anche il delicato argomento della restituzione del valore sociale del sapere prodotto. Entrambe le questioni, che ho trattato più volte nel recente passato5, sono aspetti ineludibili di una ricerca scientifica condotta con la collaborazione di comunità locali in un paese straniero, soprattutto se prolungata nel tempo. Inoltre, i processi di legittimazione e di restituzione determinano la costruzione della cornice di senso politico e sociale dell’impresa etnografica che altrimenti sarebbe destinata a rimanere prigioniera nella turris eburnea della sua pretesa scientifica. Una così prolungata avventura di ricerca nello stesso terreno, e con la partecipazione di numerosi studiosi e molti studenti, come la MEIG, non ha precedenti nella storia dell’antropologia, e non poteva non suscitare, dopo sessant’anni, l’esigenza di voltarsi indietro e recuperare criticamente la memoria di quanto è stato fatto da noi, e da altri prima di noi. 5 Vedi Pavanello (2007; 2010, pp. 66 e segg.; 2015). 31

Voltarsi indietro, un po’ come il simbolo adinkra dell’uccello sankɔfa6, significa recuperare il senso non solo della propria storia, ma anche della storia delle istituzioni cui si appartiene e della disciplina che si pratica e soprattutto della storia dei cambiamenti nel modo di conoscere il mondo. Mi riferisco alle profonde trasformazioni che il procedimento della conoscenza etnografica ha subito negli ultimi sessant’anni, per cui è cruciale riflettere sia sul senso molteplice che una prolungata presenza in un medesimo contesto etnografico può assumere, sia sul potere trasformativo e riflessivo di un’esperienza così particolare. La Missione Etnologica Italiana in Ghana, nei suoi sessant’anni di attività e di esperienze scientifiche e umane, può considerarsi come una sorta di paradigma della storia dell’etnologia extraeuropea. Noi riflettiamo, infatti, su un’esperienza avviata nel 1954, nella fase del colonialismo morente, in un’epoca in cui si coltivava attivamente la pretesa che la conoscenza della diversità culturale potesse essere conseguita attraverso un “essere là” e osservare la vita indigena, partecipando più o meno attivamente alle sue vicende quotidiane. Ne riflettiamo oggi, dopo che generazioni di etnologi si sono

6 Il sistema di simboli adinkra appartiene al mondo Akan e costituisce un insieme di rappresentazioni simboliche connesse a proverbi (Willis 1998), utilizzato anche nella tessitura (Mato 1987), con caratteristiche simili a un sistema di linguaggio e scrittura. L’uccello sankɔfa, rappresentato con la testa rivolta all’indietro, è un’immagine molto conosciuta nel mondo Akan, simbolo della memoria e della storia, e corrisponde al proverbio Twi «quando dimentichi qualcosa, torna indietro e raccogli» («se wɔ were fi na wɔ sankɔfa a yenkyi»). 32

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succedute in quel contesto, nella consapevolezza che quella pretesa poggiava su fondamenti incerti e ambigui, nella certezza che, in ultima analisi, le conoscenze prodotte sono soltanto il frutto dei nostri punti di vista, nonché nel dubbio e nel timore che la relatività delle costruzioni culturali, su cui abbiamo costituito l’epistemologia della nostra pratica di ricerca, si riveli il presupposto dell’inconsistenza dei saperi che abbiamo realizzato. Per quanto mi riguarda personalmente, dopo quarant’anni di esperienza africanista7, prima come operatore nella cooperazione allo sviluppo, e poi soprattutto come etnologo, e dopo trentacinque mesi di terreno in area Nzema, avverto l’esigenza di una profonda riflessione sul mio lavoro, particolarmente di questi ultimi decenni, sullo sfondo della crisi che ha investito l’antropologia e l’identità intellettuale dell’Occidente. È una crisi che viene da lontano, e a cui l’antropologia ha contribuito non poco. Dall’estemporanea riflessione di Radcliffe-Brown (1930), che si chiedeva fino a quando i popoli colonizzati avrebbero tollerato la dominazione europea, alle meditazioni di Lévi-Strauss in Tristi tropici, fino ai contemporanei dibattiti sulla trasversalità o inattualità (Remotti 2013, 2014), o sullo stato di sospensione dell’antropologia (Marcus 2008), e sulla sua

7 Dal maggio 1973, data della mia prima missione in Costa d’Avorio, all’ottobre 2013, l’ultima mia campagna in Ghana, ho trascorso circa 60 mesi in vari paesi africani (Algeria, Angola, Botswana, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea, Kenya, Mali, Mauritania, Somalia, Sudafrica, Uganda, Zambia, Zimbabwe). 33

irreversibile crisi epistemica (Clifford 2005, 2012), il tarlo critico che ha spinto gli Occidentali ad avvicinarsi alle culture degli altri si è rivolto contro di loro mettendone proficuamente in discussione il sapere e l’identità stessa. A partire dall’esigenza illuminista di conoscere i progressi della mente umana, passando per la necessità coloniale di conoscere e classificare i popoli soggetti, fino agli sviluppi dell’antropologia moderna, culturalista, marxista, strutturalista, la nostra disciplina si è nutrita di una prospettiva universalista. La cosiddetta “svolta postmoderna” degli anni Ottanta, definita con molteplici aggettivi (decostruzionista, dialogica, narrativa, riflessiva ecc.), ha spezzato quell’illusione e ha costretto l’etnografia a riflettere sui propri fondamenti in un orizzonte di soggettività recuperata e in una prospettiva particolarista. Parafrasando De Martino, si potrebbe dire che il naturalismo della vecchia antropologia stia lasciando il passo a una crescente consapevolezza storicista. La seguente citazione da un recente articolo di James Clifford può forse illuminare la percezione che alcuni etnografi contemporanei hanno di sé stessi: «Feeling historical can be like a rug pulled out: a gestalt change perhaps, or a sense of sudden relocation, of being seen from some previously hidden perspective. For Euro-American anthropology, the experience of a hostile identification as a Western science, a purveyor of partial truths, has been a 34

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troubling, alienating, but ultimately enriching process». (Clifford 2012, p. 420). La missione di Vinigi L. Grottanelli (1954-1977) Il primo incontro tra Vinigi L. Grottanelli e l’area Nzema, in quella che allora era la colonia britannica della Costa d’Oro (Gold Coast), avvenne nel settembre 1954, e il suo progetto di ricerca fu concretamente avviato due anni dopo. La Costa d’Oro non era ancora il Ghana8; Grottanelli non insegnava ancora alla Sapienza9, ma era direttore del Museo Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. Quel suo primo viaggio in Africa occidentale fu sostenuto dalla Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research per partecipare a una conferenza dell’UNESCO ad Abidjan su Social Implications of Industrialization and Urbanization in Africa South of the Sahara10. Sotto un profilo formale, non fu dunque l’inizio della Missione

8 La Costa d’Oro conseguì l’indipendenza dalla Gran Bretagna e mutò il nome in Ghana nel 1957. 9 Vinigi L. Grottanelli ottenne il suo primo incarico per l’insegnamento ufficiale di Etnologia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma soltanto nel 1960, e da allora diresse l’Istituto per le Civiltà Primitive che provvide poi a rinominare Istituto di Etnologia. In precedenza aveva ricoperto alcuni incarichi di insegnamento nella Scuola di Perfezionamento in Scienze Etnologiche fondata da Raffaele Pettazzoni. 10 Grottanelli colse l’occasione della sua presenza ad Abidjan per varcare il confine e recarsi nella Costa d’Oro per un sopralluogo di poche settimane tra gli Nzema. Sulla conferenza dell’Unesco ad Abidjan, vedi Forde (a cura di, 1956). 35

Etnologica Italiana in Ghana11, ed è solo per convenzione che diciamo così. Fu comunque l’avvio, piuttosto fortuito, di quella che sarebbe divenuta una tradizione di studi successivamente incardinata nella Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza e identificata come Scuola Romana di Etnologia. Grottanelli non era nuovo a esperienze organizzate di ricerca in Africa. Ricordiamo la sua prima escursione nel 1932 in Somalia, allora colonia italiana, per preparare la sua tesi in geografia economica. Ricordiamo soprattutto la Missione di studio nel bacino del lago Tana, in Etiopia, cui partecipò nel 1937, nonché la spedizione di tre mesi nella regione dello Uollega nel 1939 che diresse personalmente12. In quegli anni, la ricerca africanista della Social Anthropology britannica aveva già al suo attivo una matura serie di esperienze testimoniate dall’imponente serie di monografie prodotte quasi sempre da studiosi singoli. 11 Questa ebbe in realtà inizio solo con la prima erogazione di fondi da parte del Ministero degli Esteri due anni dopo nel quadro del programma di finanziamenti delle missioni archeologiche ed etnologiche all’estero (v. oltre). 12 La missione di studio nel bacino del lago Tana, diretta dal geografo fiorentino Giotto Dainelli, fu promossa e finanziata dal Centro studi per l’Africa Orientale Italiana della Reale Accademia d’Italia, presieduta allora da Guglielmo Marconi. Questa missione faceva parte di un programma del governo fascista di ricognizione delle popolazioni soggette dell’Etiopia. Anche la missione nello Uollega, che produsse vari contributi etnografici e un importante studio sui Preniloti, fu patrocinata dall’Accademia d’Italia. Per la bibliografia di Vinigi L. Grottanelli sul Corno d’Africa, vedi Pavanello (2012). 36

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In Francia, le missioni etnografiche di gruppo nel continente africano, sotto l’egida di Marcel Griaule, riscuotevano un notevole interesse13. In Italia, la politica coloniale suggeriva di percorrere strade analoghe, ma nel nostro paese, più che altrove, la ricerca etnologica era subordinata allo studio dei caratteri fisici delle popolazioni locali e dell’ambiente fisico-naturale. Per il centenario della sua nascita scrissi: «Fra il 1932, l’anno della sua prima spedizione etnografica, e il 1942, quando conseguì la libera docenza, Grottanelli costruì un patrimonio di conoscenza etnologica del Corno d’Africa, insieme a un bagaglio di pratica metodologica, che a buon diritto lo propongono come colui che ha profondamente innovato, nel nostro paese, il modo di accostarsi alle culture allora definite “primitive”. In un’Italia scarsamente ricettiva nei confronti delle correnti intellettuali più avanzate del mondo occidentale, immersa in un’esperienza coloniale piuttosto marginale, Grottanelli cercava di costruire un’etnologia che, alla pari di quelle delle potenze coloniali di più vecchia e robusta tradizione, fosse capace di proiettarsi scientificamente nella

13 Per esempio la Missione Dakar-Gibuti, celebre spedizione etnografica condotta da Griaule dal 1931 al 1933, cui parteciparono Michel Leiris e altri. A essa fecero seguito altre spedizioni scientifiche: la Missione Sahara-Sudan (1935), la Missione Sahara-Camerun (1936-1937), e infine la Missione Niger-Lac Iro (1938-1939). 37

modernità, recidendo il legame con l’antropologia fisica di stampo evoluzionista». (Pavanello 2012, p. 7). Nel 1951, dopo la tragica parentesi della Seconda Guerra Mondiale, Grottanelli tentò di organizzare una sua missione in Africa orientale, in quella Somalia che aveva percorso da laureando, ma il suo progetto per diverse ragioni non ebbe seguito14. Il suo ulteriore tentativo, questa volta in Africa occidentale tra gli Nzema del Ghana, società allora etnograficamente sconosciuta, ha avuto un esito migliore. Accogliendo un suggerimento del suo amico Meyer Fortes, volle imbarcarsi in un’indagine etnologica che lo avrebbe impegnato per oltre due decenni. La sua permanenza sul terreno, nell’arco di ventitré anni, fu all’incirca di ventidue mesi, ripartiti in otto diversi periodi15, e con la presenza intermittente di una decina tra collaboratori e allievi. La MEIG, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, si proponeva nel quadro della politica scientifica propugnata dai Congressi dell’IUAES (International Union of Anthropological and Ethnological Sciences) in cui Vinigi L. Grottanelli ricoperse posizioni di rilievo. In quella politica, era prioritaria la ricerca sulle culture in via di trasformazione secondo la prescrizione

14 Vedi Grottanelli (1976). 15 «[Dal 1954] ho personalmente dedicato finora ventun mesi fra gli Nzema in sette diversi periodi» (Grottanelli 1977, p. 7) «ai quali se n’è aggiunto un altro nel dicembre 1976-gennaio 1977» (Grottanelli 1978: xiii). 38

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di Evans-Pritchard16. La MEIG adempì questo scopo, e Grottanelli concluse la sua impresa con la pubblicazione per Boringhieri dell’opera Una società guineana: gli Nzema del Ghana (1977-1978), in due volumi17. Questa impegnativa monografia segnò la chiusura della Missione. La produzione scientifica complessiva di questa lunga fase è cospicua e rappresenta un monumento dell’etnologia italiana18. La seconda fase della MEIG (1989-2013): continuità, restudy o altro? Le attività di ricerca tra gli Nzema ripresero nel marzo del 1989 con una campagna effettuata dallo scrivente insieme a Berardino Palumbo, e proseguì nell’autunno di quello stesso anno19. Vide poi impegnati sul terreno alcuni 16 «C’è un’altra ragione per studiare le società primitive: esse si vanno rapidamente trasformando, e devono essere studiate ora o mai più». (Evans-Pritchard [1951] 1971, p. 14). 17 Il vol. 1, I fondamenti della cultura, a cura di Vinigi L. Grottanelli (1977), oltre all’ampia presentazione degli Nzema e un saggio sull’ordalia del veleno dello stesso Grottanelli, raccoglie scritti di Giorgio R. Cardona, Ernesta Cerulli, Vittorio Lanternari, Italo Signorini e Anthony WadeBrown. Il vol. 2, Ordine morale e salvezza terrena, è scritto interamente da Grottanelli (1978). 18 Per l’intera produzione scientifica di Vinigi L. Grottanelli, v. Pavanello (2012), mentre per la Cronologia della MEIG nonché l’elenco bibliografico delle pubblicazioni sugli Nzema scaturite dalla prima e dalla seconda fase della MEIG rimando all’appendice. 19 Sulle vicende che portarono alla riapertura della MEIG e sui primi 39

giovani ricercatori tra il 1991 e il 1994, mentre chi scrive riprese regolarmente la pratica di ricerca in Ghana dal gennaio 1995 fino all’ottobre 2013, trascorrendo in quel terreno complessivamente trentacinque mesi suddivisi in diciotto distinti periodi in cui sono stati spesso presenti collaboratori di ricerca e molti studenti20. Le ragioni che motivarono Grottanelli a frequentare, insieme a colleghi e allievi, per oltre vent’anni il contesto etnografico Nzema sono piuttosto diverse da quelle che spinsero chi scrive a riaprire quel fronte di ricerca nel 1989, e soprattutto poi a svilupparlo nei quasi venticinque anni successivi. Le due fasi della MEIG hanno in comune solo il terreno in cui si sono realizzate, mentre assai differenti sono le ragioni che hanno animato le due generazioni di ricercatori a indagare il medesimo contesto, nonché le modalità della loro presenza sul campo. Grottanelli era legato all’idea della necessità della ricostruzione oggettiva delle culture delle società senza scrittura. Inoltre, benché nella sua formazione fossero state fondamentali le teorie storiche di Graebner e Schmidt, insieme al diffusionismo di Boas e al anni della seconda fase della Missione, vedi Pavanello (1998). La Missione ripartì e si sviluppò negli anni con piccoli finanziamenti del Ministero degli Affari Esteri, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, del Ministero dell’Università e della Ricerca e delle Università di Pisa e Roma “La Sapienza”. 20 Nei venticinque anni della seconda fase della MEIG, hanno frequentato il terreno Nzema oltre cinquanta fra colleghi, collaboratori di ricerca e studenti che hanno svolto ricerche sulla vita sociale, economica e politica, nonché sull’ambiente e sulla storia dell’area. 40

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particolarismo storico di Kroeber, il suo sguardo teorico era ancorato alla percezione della primitività rappresentabile in un astorico presente etnologico secondo il modello della Social Anthropology britannica in contesti coloniali. Più che ricostruire una cultura tradizionale, a me interessavano le reti e le dinamiche economiche e politiche, le ragioni che muovevano individui e gruppi nei loro conflitti ricorrenti, i processi di popolamento del territorio, le gerarchie sociali e la schiavitù domestica, e, in definitiva, la storia, e come questa fosse percepita, costruita e raccontata. La MEIG è stata perciò, nella sua vicenda complessiva, un prodotto ibrido di vocazioni scientifiche diverse e di storie personali che si sono intrecciate in un orizzonte transgenerazionale. In un recente contributo, a proposito delle due fasi della MEIG, scrivevo: «Sono due storie molto diverse la cui apparente continuità è stata costruita attraverso strategie retoriche poste in essere, per motivazioni e finalità differenti, sia da me che dai miei interlocutori locali»21. Non parlerò di nuovo di quelle strategie che hanno occultato la complessità di un’esperienza storico-etnografica condotta sul medesimo terreno, ma affronterò due aspetti cruciali per la sua analisi. Il primo punto riguarda natura e obiettivi del ritorno programmato e prolungato in un terreno già frequentato da altri. Il secondo si riferisce invece al rapporto tra pratica di ricerca, riflessività e conoscenza etnografica in relazione a un’esperienza condotta su un 21 Pavanello (2007, p. 120). 41

arco temporale lungo sei decenni. Fare etnografia in un terreno frequentato in precedenza da altri può rivestire diversi significati. Può rappresentare il tentativo di completare ciò che altri non erano riusciti a concludere, e proprio questo è stato il senso della continuità che, a metà degli anni Ottanta, Italo Signorini22 aveva perorato con me per convincermi a collaborare alla riapertura della Missione ghanese. L’idea che molti altri aspetti della cultura tradizionale locale aspettassero di essere indagati rispondeva puntualmente alla concezione oggettivista e olistica della ricerca etnografica che dominava ancora l’orizzonte scientifico dell’etnologia italiana. Vorrei però anche aggiungere che questa idea mette in evidenza un atteggiamento che mira ad attribuire priorità etica, prima che scientifica, alle esigenze conoscitive del ricercatore, collocando solo sullo sfondo, se non occultando del tutto, gli interessi e le aspirazioni delle comunità indagate. Inizialmente, infatti, io mi dedicai allo studio delle locali pratiche e idee economiche, consapevole che si trattasse di un ambito che la vecchia etnografia aveva lasciato inesplorato, ma anche ben consapevole che quelle pratiche e idee fossero tutt’altro che “tradizionali”, e che proprio attraverso la loro osservazione e analisi fosse possibile recuperare una nuova legittimità della ricerca che potesse includere interessi e aspirazioni locali.

22 Allievo e successore di Grottanelli sulla cattedra di Etnologia nell’Università di Roma “La Sapienza”. 42

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Per altri versi, il ritorno nel medesimo terreno può rappresentare anche l’esigenza di testimoniare trasformazioni e resilienze culturali, affrontando cioè l’esperienza che l’antropologia anglosassone aveva definito con il termine restudy. Eppure, anche questa seconda idea è ancorata all’illusione di un’epistemologia non solo oggettivista, ma soggettivamente autoreferenziale, nella convinzione di poter costruire una teoria e una pratica del mutamento culturale sulla base delle percezioni dell’osservatore. Immaginare di poter procedere a un restudy implica, inoltre, illudersi di poter replicare un setting etnografico appartenente ormai al passato, proprio o di altri, e di applicare categorie di giudizio e modalità osservative perfettamente analoghe a quelle utilizzate dai predecessori. Ma si può immaginare anche una terza prospettiva, ovvero di calcare sentieri etnografici già esplorati con lo scopo di realizzare un’esperienza conoscitiva totalmente originale, capace di mettere in evidenza non solo e non tanto le trasformazioni del terreno (cioè degli osservati) quanto piuttosto quelle del modo di conoscenza (cioè degli osservatori) e, per mezzo di questo, costruire un punto di vista nuovo. Questa terza prospettiva, benché possa apparire comunque autoreferenziale, in realtà apre la strada a un’esperienza incondizionata e riflessiva. Inoltre, mentre rifiuta l’idea di una ricerca finalizzata a produrre la conoscenza di una parte dell’umanità a beneficio di un’altra, spinge alla ridefinizione dell’etnografia

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come modalità fondamentale di costruzione del dialogo interculturale. In genere, è sempre quest’ultima prospettiva a prevalere nei casi di rivisitazione di terreni già indagati da altri antropologi, al punto che, nella storia della nostra disciplina, le rivisitazioni hanno generato spesso aspre polemiche23. Sin dall’inizio, questa mi apparve come la prospettiva più opportuna per valorizzare sia la conoscenza etnografica costruita dai miei predecessori, sia la percezione che degli studiosi italiani era sedimentata in vari settori e nelle istituzioni della società locale. Rifiutai, infatti, di perseguire obiettivi di ricerca finalizzati a ottenere conferme o smentite delle conoscenze etnografiche, ovvero a produrre rappresentazioni aggiornate di istituzioni culturali già esplorate, e imboccai decisamente un’altra strada: lasciarmi guidare dalla realtà sociale in cui mi trovavo immerso. Per quanto poi riguarda il ricordo dei nostri predecessori che localmente affiorava, evocato dalla percezione della nostra presenza, compresi rapidamente che esso aveva prodotto memorie, atteggiamenti e rappresentazioni di cui la presenza mia e di coloro che mi accompagnavano non poteva non portare il carico e la responsabilità. Perciò

23 La rivisitazione di un terreno da parte di nuovi ricercatori è stata quasi sempre vista alla stregua di un’invasione di campo da parte di intrusi sulla base di un malinteso senso di territorialità degli antropologi. Talora, invece, è stata percepita come intenzionalmente finalizzata alla critica dei predecessori, come nei famosi esempi della polemica tra Redfield e il suo allievo Lewis, e di quella molto discussa di Freeman contro la Mead (v. Copans 2002, pp. 43-44; Dei 1991; Freeman 1983; Pavanello 2010, pp. 97-104). 44

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mi resi presto conto che la partecipazione etnografica poteva concretarsi esclusivamente assumendo quella responsabilità, ma anche adottando uno sguardo del tutto nuovo e disincantato. Ricordo che sin dai primi anni della mia presenza in quel terreno, anziani e meno anziani si rivolgevano a me e ai più giovani che mi accompagnavano come ai figli e ai nipoti di coloro che ci avevano preceduto. La percezione della nostra presenza che gli interlocutori locali hanno maturato, e di cui soprattutto negli ultimi anni chi è stato con me nello Nzema può testimoniare, è di una forte continuità, se non addirittura di un rapporto di filiazione, nel caso di Vinigi L. Grottanelli e dei suoi colleghi e allievi. Ma non solo noi eravamo diversi dai nostri predecessori, anche la teoria e la pratica della ricerca etnografica sul terreno erano profondamente mutate, e tuttavia la percezione della continuità ha catturato anche noi, nonostante la consapevolezza delle profonde differenze tra le rispettive etnografie. Lunga durata, posture etnografiche e restituzione Oggi, a distanza di molti anni, possiamo riconoscere alcuni aspetti salienti nella lunga e variegata esperienza della MEIG, che ci impongono di riflettere sulle ragioni e le modalità della nostra pratica scientifica e sulla sua trasformazione da scienza coloniale a scienza del dialogo interculturale. Innanzitutto, la lunga durata complessiva e, insieme, la sua frammentazione nel tempo. Un secondo, ma non meno essenziale aspetto, è la presenza continua di uno 45

stesso studioso percepito come responsabile dell’impresa e, al tempo stesso, il carattere di pluralità di questa presenza dovuto alla frequentazione del terreno da parte di un gruppo di ricerca non omogeneo e soprattutto scaglionato su più generazioni. Questi aspetti contraddicono il modello classico della ricerca etnologica per cui il fieldwork è sempre stato considerato una sorta di rito di iniziazione solitario, normalmente celebrato in un’unica soluzione di durata congrua. Malinowski suggeriva da uno a due anni, possibilmente senza interruzioni e, in linea di principio, senza successivi ritorni. Come ha osservato lo stesso Grottanelli: «Un frazionamento potrà essere giudicato poco ortodosso e comporta certo lo svantaggio di non consentire al ricercatore l’osservazione continuata di uno o due cicli annuali completi della vita sociale. In compenso, esso offre vantaggi per altri versi: il necessario invito a una prospettiva diacronica, con salutare messa in rilievo dei processi e mutamenti culturali; la ricorrente opportunità di controllare, integrare o correggere dati raccolti in anni precedenti; il graduale formarsi di durevoli relazioni d’amicizia con i nativi». (Grottanelli 1977, pp. 7-8). L’osservazione sistematica del ciclo della vita annuale risponde all’antico paradigma olistico della ricerca etnografica, nonché al pregiudizio che un solo osservatore 46

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possa cogliere l’interezza della cultura tradizionale locale. In questo pregiudizio erano implicite altre due idee: (i) l’etnografo doveva considerare conclusa la sua ricerca al termine del suo fieldwork; (ii) il ritorno nel medesimo terreno poteva essere suggerito unicamente a distanza di anni allo scopo di condurre un restudy per osservare il mutamento culturale. Il frazionamento temporale di un’etnografia, come riconosce Grottanelli, non facilita l’analisi funzionale e strutturale delle istituzioni sociali nei loro processi all’interno del ciclo annuale. Nondimeno, è senza dubbio molto utile alla comprensione delle modalità sempre diverse con cui le comunità locali adattano le loro pratiche e rappresentazioni alle mutevoli condizioni dei loro contesti di vita. Ha inoltre delle implicazioni politiche forti perché, da un lato, mette in evidenza il debito che si accumula nei confronti degli interlocutori locali; dall’altro, crea e consolida delle aspettative da parte di questi ultimi. Inoltre, un terreno prolungato nel tempo e plurale – quale una missione con gruppi di ricerca che si avvicendano nel corso di anni – implica, da parte dei suoi partecipanti, a differenza di una ricerca etnografica solitaria, la maturazione di un forte senso di identità collettiva. Non produce necessariamente obiettivi comuni o interdisciplinari, ma impone la consapevolezza di una responsabilità condivisa verso la comunità locale. Un terreno di lunga durata fonda, infine, quell’attitudine intellettuale che in alcuni miei scritti ho definito come la pratica della diversità, cioè la possibilità di pensare il proprio mondo con le categorie, i

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concetti e le idee degli altri, operazione opposta a quella che tradizionalmente hanno sempre fatto gli antropologi, cioè pensare il mondo degli altri con le proprie categorie di conoscenza. Quanto poi al «graduale formarsi di durevoli relazioni d’amicizia con i nativi» cui fa riferimento Grottanelli, non si tratta solo di un effetto collaterale della lunga durata del terreno etnografico, ma rappresenta una chiave fondamentale per la penetrazione degli universi locali intessuti di segreti, complicità, conflitti e intrighi che possono disvelarsi solamente col tempo e con l’intimità che si produce tra amici. La lunga esperienza di terreno ci impone, infine, di riflettere sui mutamenti della postura etnografica, nonché sull’uso del sapere prodotto, cioè sulla sua restituzione. Nel secondo dopoguerra, e soprattutto dopo la decolonizzazione, le iniziative scientifiche all’estero hanno cominciato ad assumere un carattere di cooperazione internazionale, anche se le missioni etnologiche hanno conservato a lungo un sapore coloniale. Le odierne missioni archeologiche ed etnologiche sono generalmente organizzate su un programma pluriennale e finalizzate a mettere in valore patrimoni culturali locali. Questo modello rappresenta una cooperazione internazionale di alta qualità che una politica estera nazionale è disposta a sostenere. Tra le circa 170 missioni scientifiche italiane presenti in oltre 60 paesi che il Ministero degli Esteri sostiene finanziariamente ogni anno, oltre il 90% sono missioni archeologiche, e soltanto 48

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una piccola percentuale è composta da iniziative di ricerca etnologica24. La notevole differenza dipende dal fatto che l’archeologia ha sempre suscitato maggiori consensi e ottenuto complessivamente maggiori finanziamenti rispetto all’etnologia. Il potere accademico e il capitale culturale di cui sono investite le corporazioni degli archeologi e degli storici dell’arte, fin dalla fine del XIX secolo, non sono paragonabili al molto più modesto status delle discipline etnoantropologiche. L’archeologia ci parla della nostra storia, contribuisce alla ricostruzione di quello che siamo abituati a considerare il cammino della civiltà umana e, insieme alla storia dell’arte, sollecita le nostre sensibilità estetiche. Ci sono però anche altre ragioni, come il patrimonio culturale tangibile rappresentato dai beni archeologici, architettonici e artistici, un enorme capitale che attrae curiosità e interessi intellettuali, economici e turistici. Al contrario, la prevalente immaterialità dei risultati dell’osservazione etnografica ha un impatto e un ambito di interesse assai più limitati. Gli stessi musei etnografici sono molto spesso semplici sezioni di musei preistorici e, comunque, costituiscono un patrimonio di conoscenze esotiche, retaggio di forme di umanità pre-civili, frutto della curiosità naturalistica e del collezionismo dell’età romantica e positivista.

2 4 ht t p ://w w w. e s t e r i . i t /m a e /i t /p o l i t i c a _ e s t e r a /c u lt u r a / a rc h e o l o g i a p a t r i m o n i o c u lt u r a l e . ht m l . 49

Infine, un po’ come un tempo si concepiva il rapporto ancillare dell’etnologia – in quanto studio di fossili viventi – nei confronti dell’antropologia fisica, anche oggi, in una certa misura, l’osservazione delle società esotiche viventi si ritiene utile non tanto per sé stessa, quanto ai fini della comprensione delle testimonianze lasciate dalle società del passato25. Perciò, mentre l’archeologia ci propone un percorso dagli albori della civiltà in avanti, l’etnologia sembra proporre il percorso inverso. Il confronto con le missioni archeologiche è obbligato, tuttavia, anche per altri motivi e, in particolare, per la tendenza ancora presente nella cultura della Pubblica Amministrazione di considerare l’etnologia una forma di ricerca oggettivista. La ricerca archeologica ha l’obiettivo di produrre elementi materiali appartenenti al passato di un determinato “sito”, insieme alla loro contestualizzazione storico-culturale, come patrimonio da restituire al paese legittimo proprietario. Anche l’indagine etnologica, un tempo, non si discostava granché da questo modello e, in conseguenza, il terreno etnografico veniva concepito come un mero contenitore di dati, informazioni e oggetti. Per una ricognizione presuntamente completa di un 25 Su questo punto specifico sarebbe necessaria una profonda riflessione in ragione dell’attuale reviviscenza di interesse nei confronti dell’etnologia da parte degli archeologi. Per quanto riguarda l’Italia, mi riferisco qui non solo agli sviluppi ormai pluridecennali della cosiddetta antropologia del Mondo Antico che, peraltro, trae le sue origini da studi classicisti più che archeologici (vedi, tra gli altri, Bettini 1988; Di Donato 1990), ma soprattutto al recente moltiplicarsi di incontri promossi generalmente da archeologi e antichisti per un proficuo dialogo con l’antropologia (v. Nizzo, a cura di, 2011, 2017; Nizzo e La Rocca, a cura di, 2012). 50

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sito, e analogamente di un terreno, la ricerca si è sempre articolata in “campagne”26, ovvero in periodi discreti di lavoro definiti in relazione alle condizioni fisico-climatiche, logistiche e finanziarie della missione. Perciò una missione archeologica o etnologica può snodarsi in un certo numero di campagne scadenzate normalmente di anno in anno. Una volta che il sito/terreno ha restituito tutti i materiali che si ritengono di interesse scientifico, artistico e culturale, la missione può essere sciolta. Cosa si ricava da un terreno etnologico, e come può essere eventualmente restituito alla società locale? Un tempo, gli etnologi, come zelanti funzionari coloniali, raccoglievano sia informazioni sugli usi e i costumi, sia oggetti come testimonianze etnografiche. La restituzione non può essere ridotta esclusivamente all’idea della cessione degli oggetti eventualmente rinvenuti. E neppure può ridursi alla scrittura etnografica, in quanto testimonianza scientificoletteraria destinata alla sola comunità scientifica. Quando Vinigi L. Grottanelli avviò la sua ricerca nella Costa d’Oro, un’ondata di predicazione millenarista nell’area Nzema da parte di profeti harristi27 aveva convinto

26 Campagna è un termine essenzialmente militare che tradisce il carattere teleologico e gerarchico della missione archeologica ed etnologica. Questa deve articolarsi su una serie di obiettivi rigorosamente identificati e disegnati che derivano da una strategia di ricerca il cui perseguimento implica un capo e un’organizzazione subordinata di funzioni. 27 Nella tradizione del predicatore liberiano William Wade Harris (18651929), fondatore delle chiese dei Twelve Apostles i cui seguaci sono noti anche con l’appellativo di Water Carriers. 51

molti operatori rituali a disfarsi dei loro altari. Egli poté quindi recuperare e salvare dalla distruzione alcuni asoŋu (statuette usate in pratiche rituali e terapeutiche) che riportò a Roma al Museo Pigorini28, seguendo l’antica consuetudine coloniale dell’appropriazione delle culture materiali locali allo scopo di prevenirne la scomparsa: in quel caso, l’interesse del direttore del Museo prevalse su altre considerazioni etiche. Non esisteva ancora il Ghana Museums and Monuments Board (GMMB)29, l’ente governativo ghanese che rilascia i permessi di ricerca archeologica ed etnologica, e pretende che gli oggetti ritrovati e raccolti siano consegnati. Ma la stessa odierna disposizione di denunciare e depositare i reperti non risponde solo al basilare principio della sovranità nazionale, ma anche all’antico criterio dell’indagine oggettivista e oggettuale che caratterizzava la ricerca etnografica nel passato. E seppure possa considerarsi come segnale di cooperazione, la consegna degli oggetti raccolti non ha niente a che fare con la restituzione del sapere etnografico che implica un rapporto di scambio profondo e reciproco. La restituzione del sapere etnografico deve includere il senso di mediazione e valorizzazione del rapporto di scambio culturale, come l’idea stessa di missione dovrebbe

28 Vedi Grottanelli (1961). 29 Il Ghana Museums and Monuments Board è l’ente governativo ghanese che custodisce e amministra il National Museum di Accra e i numerosi forti di costruzione europea (tra il XV e il XVIII Secolo) che sorgono sulla costa. 52

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suggerire con la sua impostazione pluriennale e la filosofia di cooperazione su cui ormai, oggi, si fonda. Il sapere etnografico come punto di vista Ma cos’è il sapere etnografico? Un terreno di lunga durata insegna che nell’etnografia come pratica scientifica si devono riconoscere due contraddizioni. La prima è epistemica e corrisponde alla pretesa della conoscenza dell’alterità culturale attraverso categorie di giudizio pertinenti un’identità storicamente determinata qual è quella di chi osserva. È una contraddizione che mette in evidenza il presupposto universalismo e oggettivismo della conoscenza scientifica contro il particolarismo e l’intersoggettività dell’incontro etnografico. La seconda, apparentemente di natura più etica che scientifica, ma le cui implicazioni teoretiche sono formidabili, è la contraddizione tra l’ineguaglianza dell’incontro etnografico, in cui osservatore e osservati si situano su piani differenti, e la pretesa di produrre una conoscenza legittima e valida per entrambi. L’osservatore è qualcuno che ritiene di disporre di un sapere specialistico ed è, esplicitamente o implicitamente, emissario di una istituzione scientifica o politicoamministrativa che, benché spesso non lo fornisca di credenziali, tuttavia lo legittima a operare. Gli osservati, al contrario, sono una comunità, o comunque un gruppo di persone, che, almeno in linea di principio, non dispone di quel sapere specialistico, non ha alcuna responsabilità per la presenza al proprio interno dell’osservatore partecipante, 53

né ha possibilità o capacità di utilizzarlo per propri scopi, ma si trova a doverne subire l’impatto. Varie correnti contemporanee di riflessione si propongono il superamento di queste contraddizioni attraverso rifondazioni teoriche dell’antropologia in chiave di analisi dei rapporti di potere, o nella dimensione ontologica del sociale e del politico30. È forse ancora prematuro discutere la legittimità di simili prospettive di studio, ma si tratta pur sempre di riedizioni della pretesa di pensare i mondi degli altri per mezzo di categorie costruite all’interno della storia dell’intellettualità contemporanea. Una pretesa che appare costitutiva dell’antropologia e che ne rivela la crisi definitiva nell’incapacità strutturale di liberarsi del suo peccato originale rappresentato dall’etnocentrismo teoretico mascherato da pensiero critico. Nella cornice di queste contraddizioni, il sapere etnografico è l’esito di una pratica di osservazione di una realtà sociale alla cui vita partecipa, come osservatore, un professional stranger31 cui le regole della sua disciplina impongono di riflettere criticamente le pratiche e i saperi locali. Nelle scienze sperimentali l’osservazione è un’attività metodologicamente controllata in cui un osservatore è separato dal suo oggetto (fenomeno, evento o processo), sia naturale che riprodotto artificialmente in laboratorio. 30 Vedi l’interessante Postfazione di Mancuso (2016) a un recente numero della rivista dell’Anuac. 31 Agar (1980). 54

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Perciò l’esito è una conoscenza che, malgrado il principio di indeterminazione di Heisenberg32, si suppone oggettiva e può essere falsificata da ulteriori osservazioni o esperimenti. L’etnografia, al contrario, è un’attività condotta da un osservatore che, per definizione, deve far parte della realtà osservata, e quest’ultima non può essere riprodotta sperimentalmente. Per conseguenza, il sapere che ne scaturisce non può considerarsi oggettivo, ma solo una specie di sapere scientifico riflessivo, prodotto dalla perturbazione introdotta nel campo di osservazione dall’osservatore partecipante. “Scientifico” perché frutto di un’osservazione basata su specifiche procedure, ancorché lasciate alla libertà dell’osservatore sul campo; “riflessivo”, perché è anche frutto di auto-osservazione, come Pierre Bourdieu ([1980] 2005, p. 57) ha messo in evidenza ne Il senso pratico, e Barbara Tedlock (1991) ha teorizzato alcuni anni dopo. Il sapere etnografico è perciò ibrido perché condivide la natura sia del sapere sociologico presuntamente oggettivo, sia dell’introspezione psicologica e, come quest’ultima, non può essere validato. Neppure può essere falsificato perché la realtà osservata non può essere riprodotta in 32 Il principio di indeterminazione, per cui la descrizione di un fenomeno nello spazio-tempo risulta dall’interazione dell’osservatore con gli strumenti di osservazione, segna la fine della descrizione della realtà fisica secondo il  determinismo meccanicista e preclude la validità rigorosa del principio di causalità (Heisenberg 1930). L’epistemologia della complessità ha da tempo messo in evidenza come il soggetto osservatore sia parte del sistema che osserva, le cui proprietà non sono dunque intrinseche e oggettive, ma risultano dall’insieme al cui interno vengono costruite (vedi anche Benkirane 2007; Prigogine 1997). 55

laboratorio, ma può essere contraddetto perché due osservatori possono costruire differenti punti di vista. Questa fragilità epistemica della conoscenza etnografica che non può essere falsificata né validata, insieme alle due contraddizioni che ho discusso sopra, rende palese la natura di “punto di vista” del sapere antropologico che perciò non ha legittimità a dichiararsi “trasversale”33 se non a patto di rinunciare definitivamente alla pretesa di oggettività. La presunta trasversalità del sapere può essere unicamente frutto dell’intersoggettività dell’incontro etnografico, e più questo incontro è prolungato nel tempo, più il sapere che ne scaturisce è probabilmente condiviso, anche se necessariamente soggettivo. E proprio in quanto eminentemente soggettivo, ma di natura sociale, il sapere etnografico condivide aspetti cruciali dell’empatia estetica e dell’esperienza storica. Esplorare e interpretare eventi/ fenomeni, processi e rappresentazioni è, in definitiva, un esercizio ermeneutico basato su percezioni empatiche di natura estetica. Ma è soprattutto frutto di un vissuto esperienziale, e quindi storico, secondo il famoso principio epistemologico di Vico34, perché è l’esito di un esercizio di apprendimento di categorie di conoscenza, pratiche e rappresentazioni altrui, in cui l’osservatore tenta di ricostruire l’esperienza storica locale. 33 Vedi Remotti (2013). 34 «Questo mondo civile è stato certamente fatto dagli uomini stessi, pertanto i suoi principi devono ricercarsi nelle modificazioni della nostra mente». (Vico [1744] 1976, p. 115). 56

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Un simile costante esercizio, insieme alla pratica della diversità nel senso indicato sopra, apre la via al pluralismo epistemologico teorizzato da Jewsiewicki (2001) che consente all’osservatore di gestire la continua transizione tra diversi regimi di verità. È un procedimento di difficile attuazione, a meno che la consuetudine con il contesto “altro” sia prolungata fino a rendere la “diversità” perfettamente familiare. È questo il grande valore aggiunto di una ricerca etnografica prolungata e frazionata nel tempo, per cui l’etnologo, da ego onnisciente, può trasformarsi socraticamente in qualcuno che sa di non sapere e disporsi all’ascolto. Il sapere etnografico come patrimonio culturale Da un’altra prospettiva, il sapere etnografico è un patrimonio immateriale che pretende di riflettere rappresentazioni e saperi non uniformemente condivisi all’interno di comunità locali e gruppi sociali (linguaggi, pratiche, know-how tecnici ecc.). In un senso molto generale, questa affermazione evoca la definizione di cultura di Edward B. Tylor (1871), e il vecchio concetto di folklore35, costituendosi come patrimonio tangibile nella 35 L’origine del termine  folklore  è attribuita all’inglese  William Thoms che, sotto lo  pseudonimo  di Ambrose Merton, pubblicò nel  1846  una lettera sulla  rivista letteraria  londinese Athenaeum, allo scopo di dimostrare la necessità di un vocabolo che potesse ricomprendere tutti gli studi sulle  tradizioni  popolari  inglesi. Il termine ebbe un immediato successo e fu applicato principalmente ai saperi e alle pratiche delle classi sociali contadine e marginali d’Europa. 57

“cultura materiale”. In questa sua declinazione, il sapere etnografico è tuttora oggetto e strumento delle politiche e delle pratiche di tutela e conservazione del patrimonio culturale. I musei etnografici del periodo coloniale apparivano come la giusta risposta all’esigenza intellettuale occidentale di conservazione delle culture primitive. I musei delle tradizioni popolari o del folklore (spesso definiti etnografici) testimoniavano l’obiettivo positivista e romantico di preservare le tracce delle pratiche popolari e contadine insieme alle superstizioni delle classi subalterne. Inoltre, in entrambi i casi le ideologie estetiche dominanti spingevano all’identificazione di connotazioni artistiche all’interno dei prodotti del folklore e dell’artigianato popolare o primitivo. Gli oggetti della vita sociale, economica e religiosa dei popoli primitivi e delle masse rurali europee divennero così la “cultura materiale”, testimonianza concreta della tyloriana “cultura primitiva” nonché del folklore come sapere o saggezza popolare, e i “pezzi” esteticamente valutati furono etichettati come “arte” primitiva o minore. La logica occidentale della patrimonializzazione ha iniziato così a distinguersi dall’esigenza scientifica e filologica della classificazione. La cultura materiale ha assunto la funzione di anello di congiunzione fra l’esperienza etnografica e la sensibilità del pubblico più vasto, proponendosi come materia prima su cui l’etnologo esercita le proprie capacità ermeneutiche e di empatia estetica. Non è qui possibile esplorare il campo della cosiddetta 58

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antropologia del patrimonio36, ma dobbiamo comunque chiederci se il sapere etnografico, nella sua declinazione come patrimonio, possa avere una funzione pubblica, oltre che quella di supporto alla cultura materiale musealizzata. La risposta non può che essere complessa e problematica. Dalla Convenzione UNESCO 200337 siamo abituati a pensare il campo dell’etnografia e del folklore come l’ambito dell’intangible heritage, il patrimonio culturale immateriale. Il sapere etnografico, tuttavia, per la sua stessa costituzione, mette continuamente in discussione la distinzione materiale >< immateriale. Un riflesso rilevante di questo aspetto è il Codice italiano per i Beni Culturali e del Paesaggio del 200438, emanato un anno dopo la firma della Convenzione UNESCO, ma prima della sua ratifica da parte italiana. Il Codice, all’art. 7bis, stabilisce che le «espressioni di identità culturale collettiva contemplate

36 Per utili panoramiche su questo ambito di studi, vedi Dei (2013); Iuso (2011); Palumbo (2009). 37 La Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, approvata il 17 ottobre 2003 dalla Conferenza Generale dell’UNESCO, entrata in vigore alla 40ma ratifica, il 30 aprile 2006. Ratificata dall’Italia il 27 settembre 2007 con Legge n. 167. Per il dibattito italiano sul patrimonio immateriale, vedi il n. 17 di AM Antropologia Museale (Aa. Vv. 2007) e il recente volume de “La ricerca folklorica”, n. 64, ottobre 2011, dedicato al tema “Beni immateriali. La convenzione Unesco e il folklore” (Bertolotti e Meazza, a cura di, 2011). 38 Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 Legge 6 luglio 2002, n. 137 con le modifiche introdotte dai  Decreti Legislativi 26 marzo 2008, n. 62, 7 gennaio 2016, n. 2, e 12 maggio 2016, n. 90. 59

dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (2003) e per la protezione e la promozione delle diversità culturali (2005)39 sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali». Di fatto, questo articolo conferma la disposizione della legge fascista del 1939 sulla “Tutela delle cose di interesse artistico o storico” in cui, nell’art. 1, si riconoscevano le cose inerenti le civiltà primitive accanto al patrimonio storico-artistico nazionale, equiparando i musei etnografici ai musei preistorici e archeologici40. La normativa italiana, tuttavia, non è basata sul rifiuto esplicito della distinzione fra tangible e intangible, ma sull’idea implicita che questa distinzione non possa essere assunta come un presupposto teorico necessario. La concezione della produzione culturale come contemporaneamente tangible e intangible è la premessa per la valorizzazione del sapere etnografico come patrimonio culturale universale, e non più soltanto come prodotto dello studio di una particolare categoria di umanità da parte di un’altra. Su questa prospettiva si stanno muovendo le risorse intellettuali e le iniziative più innovative della museologia

39 Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali conclusa a Parigi il 20 ottobre 2005. 40 La legge n. 1089 del 1939 all’art. 1 recita: «Sono soggette alla presente legge le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, compresi: a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà». 60

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occidentale più avvertita41. Sto pensando, per esempio, al processo di ristrutturazione del Musée Royal d’Afrique Centrale di Tervuren che da museo tipicamente coloniale si è trasformato in una rappresentazione dinamica della museologia coloniale in cui il sapere etnografico viene costituito in patrimonio culturale collettivo42. C’è anche un’altra prospettiva che trasferisce il sapere etnografico dalla materialità degli oggetti all’immaterialità della percezione estetica, ed è quella rappresentata dai musei d’arte che cominciano a fiorire in Africa e altrove, nonché dalle mostre e dai musei occidentali dedicati all’arte un tempo definita “primitiva”43. Quel sapere che aveva enucleato i reperti etnografici dai loro contesti, e aveva conferito loro una diversa dignità patrimoniale, cessa, quindi, di rimanere ancorato alla visione coloniale della primitività e del cammino della civiltà per trasformarsi in elemento di un nuovo universalismo estetico. Un percorso di restituzione Dalla mia prima missione in Ghana, gli esponenti del Ghana Museums and Monuments Board, ma anche i rappresentanti Nzema del potere tradizionale, nonché

41 Vedi anche Amselle (a cura di, 1999). 42 Vedi Lattanzi, Cossa, Bouttiaux (2008). 43 Vedi, per esempio, Bargna (2016); Ferracuti (2007). 61

alcuni personaggi influenti della locale società civile, mi avevano sollecitato a riflettere sulla necessità di tradurre in inglese le pubblicazioni etnografiche di Grottanelli e degli altri ricercatori della MEIG, prevalentemente scritte in italiano. Il segnale era evidente: nella società Nzema, oltre che negli ambienti intellettuali della capitale ghanese, maturava l’esigenza di vedere restituite le informazioni che gli studiosi italiani avevano ricevuto ed elaborato nel corso dei decenni. L’occasione di avviare un percorso di restituzione mi fu offerta concretamente con la visita all’Università di Pisa di Jerry John Rawlings (23 giugno 1998), allora Presidente del Ghana. Durante la sua visita ufficiale nel nostro paese, Rawlings venne nella mia Università proprio allo scopo di rendere omaggio alla tradizione di studi italiani in Ghana44. Feci stampare a cura dell’Università un volume in cui raccolsi tutti i contributi precedentemente pubblicati in inglese dai partecipanti alla MEIG45, e una copia elegantemente rilegata fu donata all’illustre ospite nel corso di una cerimonia nell’Aula Magna storica. Successivamente, un centinaio di copie furono distribuite tra i capi tradizionali. Negli anni successivi ripetei 44 Non posso tralasciare di menzionare che quando il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, restituì la visita nel 2008, lo speaker dell’Assemblea Nazionale ghanese, nel suo discorso di benvenuto, rammentò i meriti della Missione Etnologica Italiana fondata da Vinigi L. Grottanelli. Di questo ebbi comunicazione personale da parte dell’Ambasciatore italiano presente all’incontro. 45 Vedi Pavanello (a cura di 1998). 62

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l’operazione con una distribuzione, allargata a molti altri esponenti della locale società civile, di due diverse pubblicazioni contenenti rispettivamente la raccolta dei proverbi Nzema46 e i materiali della ricerca collettiva sulla medicina tradizionale locale47. Questo percorso di restituzione si è concluso con due eventi di maggiore rilevanza, la realizzazione del Fort Apollonia Museum of the Nzema Culture and History, inaugurato il 30 ottobre 2010, e del Digital Archive of the Nzema Chieftaincy il cui completamento è avvenuto nel 2016. Sono particolarmente illuminanti le vicende che hanno condotto alla creazione del museo all’interno di Fort Apollonia, un piccolo fortilizio eretto dalla Gran Bretagna sulla costa del golfo di Guinea, a Beyin48, nella seconda metà del XVIII Sec. (1765), nel quadro della sua politica di espansione commerciale nella Costa d’Oro. La realizzazione di questo piccolo e peculiare museo è l’esito più significativo del lungo dialogo etnografico fra gli antropologi italiani e le comunità locali dell’area Nzema. Non è possibile in questo scritto analizzare compiutamente le sue caratteristiche e le scelte teoriche e museografiche che sono state alla base della sua realizzazione, e mi limiterò a introdurre brevemente la storia del progetto. Il 46 Kwesi (2001, 2007). 47 Pavanello e Schirripa (a cura di 2011). 48 Capitale tradizionale della Western Nzema Traditional Area, corrispondente all’odierno distretto di Jomoro (Western Region). 63

forte, restaurato nel 1960, all’indomani dell’indipendenza del Ghana, è stato utilizzato come residenza dei ricercatori della Missione Etnologica Italiana fino al 2002. Nel 1998, nel prendere atto che il monumento faceva ormai acqua da tutte le parti, decisi di proporne al GMMB il restauro e la musealizzazione. Fu una presa di posizione audace, ma il GMMB mi diede fiducia e con gli anni sono stati reperiti i finanziamenti e le risorse intellettuali per realizzare questo progetto. Fort Apollonia ricorda i traffici precoloniali di schiavi e le compromissioni degli antichi re locali nella tratta e negli altri commerci. Proprio per questo i responsabili del distretto di Jomoro49 che si succedettero dal 1998 al 2002 avversarono fieramente la mia proposta preferendo puntare sulla realizzazione ad Half Assini – capoluogo del moderno distretto – di un Cultural Centre, ma il loro progetto non vide mai la luce. Inoltre, l’esistenza di una guest house all’interno del forte permetteva al Paramount Chief di Beyin di utilizzare il monumento per ospitare senza spese i suoi invitati durante le annuali celebrazioni del festival Kundum. Costui, pertanto, si dichiarò contrario alla proposta fondando le sue rivendicazioni (nei miei confronti, ma anche e soprattutto nei confronti del GMMB) sul fatto che Fort Apollonia sorge sulla terra dei suoi antenati. È paradossale che con tanti autorevoli pareri contrari 49 Jomoro ed Elemgbenle sono i due distretti amministrativi che corrispondono alle due aree tradizionali Nzema, rispettivamente la Western e la Eastern Nzema Traditional Area. 64

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la proposta alla fine sia stata realizzata. Un progetto di sviluppo sociale ed eco-turistico, redatto in collaborazione con lo scrivente dalla ONG COSPE (Cooperazione allo Sviluppo dei Paesi Emergenti) di Firenze, fu presentato nel 2006 al Ministero degli Esteri e ottenne un adeguato finanziamento. La proposta prevedeva il restauro del forte e la sua utilizzazione come centro di propulsione di attività turistiche, economiche e culturali, e sede di un museo di comunità. Il forte fu restaurato tra il 2008 e il 2010 e il museo, dedicato a Kwame Nkrumah, fu inaugurato il 30 ottobre 2010, dopo un lavoro di progettazione e allestimento durato quasi due anni in cui, insieme ad artisti, artigiani, tecnici e consulenti locali, hanno collaborato i ricercatori, i dottorandi e gli studenti della Missione Etnologica50. A questo risultato si è arrivati quando è apparso molto chiaro che l’ingente spesa per il restauro di Fort Apollonia sarebbe stata giustificata soltanto da un progetto di sviluppo capace di qualificarsi come restituzione alle comunità Nzema del sapere maturato dagli etnologi italiani in tanti decenni di collaborazione. Parte significativa ne era infatti la creazione di un museo destinato a rappresentare le comunità locali così come queste si percepivano e come noi le avevamo conosciute. 50 Qui non è possibile ricordare singolarmente i loro nomi che compaiono nel pannello dei credits all’interno del museo. Vedi Aria, Cristofano e Maltese (2011, 2012, 2013, 2015); Cristofano e Maltese (2008); Cristofano, Maltese e Vasconi (2013, 2014). 65

In questo modo risultò anche evidente che il monumento stesso, simbolo di un passato controverso, sarebbe stato restituito come luogo di una memoria ricomposta e partecipata. Proprio quest’ultima considerazione divenne un motivo ricorrente di discussione a livello del potere tradizionale locale51, nonché degli altri stakeholders (NGOs, rappresentanti delle istituzioni governative ghanesi, personalità politiche locali, intellettuali, ecc.). Gli esponenti della chieftaincy, in particolare, caldeggiarono la proposta di ospitare nel forte i loro stessi archivi, trasformando l’antica fortezza precoloniale in un luogo di memoria, un museo-archivio per conservare gli strumenti della storia e della coesione politica del territorio. Alla sua apertura, il 30 ottobre 2010, al termine del restauro, il museo fu aperto solo con le istallazioni iniziali che prevedevano l’illustrazione della cultura e della vita sociale, religiosa ed economica locale con sale dedicate alla storia e alla medicina tradizionale. L’archivio sarebbe stato realizzato più tardi. Non è stato facile far riconoscere a pieno titolo il Fort Apollonia Museum52, in quanto espressione di un 51 La maggior parte della documentazione prodotta dalle varie istanze del potere tradizionale, e in particolare dai Traditional Councils, è conservata in archivi privati dei Chiefs. 52 Il GMMB inizialmente rivendicava come sua mission il solo patrimonio tangibile storico-artistico, relegando la competenza sul cosiddetto intangible heritage (cultura popolare) ad altre istituzioni pubbliche ghanesi, come la National Commission on Culture. Il Fort Apollonia Museum è stato finalmente inserito ufficialmente nel patrimonio museale ghanese, e il suo staff incardinato nei ruoli del GMMB, solo nel 2013. 66

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sapere etnografico esplicitamente offerto in fruizione come patrimonio culturale. Il piccolo museo è stato proposto in aperto contrasto con l’ancora dominante cultura museale in Ghana – e vorrei dire in Africa – che, malgrado anche altri esempi innovativi in cui prevale la vocazione estetica, si perpetua nella distinzione tra musei storici (in cui campeggiano quelli sulla tratta schiavista) e musei etnografici di eredità coloniale53. In tutti i casi, la forma-museo è automaticamente correlata con l’idea di contenitore di oggetti. Il Fort Apollonia Museum non è un museo storico e neppure un museo etnografico; ha la pretesa di essere il prodotto e la rappresentazione di un incontro e di una collaborazione. È l’esito di un lavoro comune in cui etnologi italiani, intellettuali e artigiani locali, capi tradizionali, guaritori di diverse categorie, gente del popolo e bambini, hanno progettato e lavorato insieme. Si propone come luogo di dialogo e di memoria, con fotografie, immagini e istallazioni prodotte dagli abitanti stessi. È stato pensato in radicale contrapposizione al modello rappresentato dallo Smithsonian’s National Museum of the American Indians di Washington DC, che pur essendo anch’esso un esempio di critica della distinzione fra tangible e intangible, è stato realizzato dalle comunità 53 Sui musei africani e in genere sul patrimonio culturale materiale del mondo ex coloniale esiste una letteratura sterminata. Nello specifico dei problemi evocati in questa sede, e sulle nuove concezioni dei musei etnologici, vedi, tra altri, Amselle (a cura di, 1999); Bellagamba e Cafuri (a cura di 2001); i numeri 17 (Aa. Vv. 2007) e 20/21 (Aa. Vv. 2008) di “AM Antropologia Museale”. 67

di Native Americans nel rifiuto della partecipazione del sapere etnografico in una sorta di polemica negazione del dialogo. Ma il Fort Apollonia Museum è nato anche in radicale opposizione al modello del Musée du Quai Branly di Parigi, un museo realizzato non da etnologi, ma da architetti e storici dell’arte in cui molti oggetti provenienti dal vecchio Musée de l’Homme del Trocadéro, insieme ad altri, sono stati trasformati da reperti etnografici in opere d’arte. È il frutto di un’operazione intellettuale che ha estrapolato dal loro contesto storico ed etnografico oggetti provenienti dai più diversi mondi culturali e li ha inseriti in un discorso estetico che li ha smaterializzati mutandoli in icone della sensibilità occidentale. Il Fort Apollonia Museum ha quindi la vocazione di non proporsi come una messa in scena dell’ideologia museale occidentale – anche se la sua costituzione come museo sembrerebbe contraddire questa pretesa – ma di rispondere a un’istanza di conservazione e rappresentazione della memoria scaturita dalla società civile locale. In questa prospettiva si situa anche il recupero degli archivi dei Traditional Councils delle aree Nzema. Questa iniziativa prese le mosse nel 2002 con la riorganizzazione dell’archivio del Paramount Chief di Jomoro, realizzata da ricercatori e studenti della MEIG, e la conseguente espressione di interesse nel medesimo anno da parte dello Nzema Maanle Council54 finalizzata 54 Si tratta di un comitato informale che riunisce tutti i capi supremi delle 68

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all’estensione del programma a tutte le aree Nzema. Il progetto è stato concretamente avviato solo nel 2012, cofinanziato dal programma Endangered Archives della British Library e dalla Sapienza, e ha mirato alla digitalizzazione dei documenti conservati negli archivi dei Paramount Chiefs delle sette aree Nzema del Ghana. Il Fort Apollonia Museum ha figurato come soggetto promotore sostenuto da un comitato scientifico di cui hanno fatto parte il Dipartimento di Storia, Culture, Religioni della Sapienza, il Department of Information Studies e l’Institute of African Studies dell’Università del Ghana, Legon55. Il programma si è concluso nel 2016. La missione etnologica ha creato non solo l’incontro ma anche la restituzione del suo prodotto. Il programma di collaborazione tra le scuole dell’area e il Fort Apollonia Museum può garantire alle nuove generazioni un punto di riferimento per la preservazione e la valorizzazione della memoria che le generazioni passate hanno lasciato. Il Digital Archive, dal canto suo, è uno strumento che non soltanto conserva il patrimonio documentale del potere tradizionale, ma propone un modello a livello nazionale di fruizione di questo patrimonio per l’autogoverno della chieftaincy. La proiezione a livello nazionale del progetto potrebbe, infine, creare le condizioni per la realizzazione del compito sette aree tradizionali Nzema presenti in Ghana e degli Nzema Aduvlé della Costa d’Avorio. 55 Vedi Maltese (2015); Pavanello (2014). 69

che la Costituzione del 1992 affida alla National House of Chiefs di ordinare il corpus delle customary laws, compito finora disatteso anche per carenza di strumenti di conservazione, controllo e trattamento automatico della produzione giurisdizionale e giurisprudenziale dei Traditional Councils.

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Bibliografia Aa. Vv., 2007. “Dossier sul patrimonio intangibile”. AM Antropologia Museale, anno 5, n. 17. Aa. Vv., 2008. “Missione museo etnologico”. AM Antropologia Museale, anno 7, n. 20/21. Agar, Michael, 1980. The Professional Stranger: An Informal Introduction to Ethnography. Orlando FL: Academic Press. Amselle, Jean-Loup, a cura di, 1999. “Prélever, exhiber. La mise en musées”. Cahiers d’études Africaines, nn. 153-156, vol. XXXIX. Aria, Matteo, Mariaclaudia Cristofano, e Stefano Maltese, 2011. Un patrimonio di simboli. Testimonianze, n. 475-476, pp. 135-142. Aria, Matteo, Mariaclaudia Cristofano, e Stefano Maltese, 2012. Fort Apollonia. Un esperimento di museografia collaborativa che affonda le sue radici in oltre cinquant’anni di ricerche etnografiche in area Nzema e inaugura forme inedite di restituzione fondate sulla relazione e sulla condivisione. Primapersona, n. 26, pp. 94-101. Aria, Matteo, Mariaclaudia Cristofano, e Stefano Maltese, 2013. Patrimoni condivisi e patrimoni contesi a Fort Apollonia (Ghana sudoccidentale). AM. Antropologia Museale, n. 32-33, pp. 35-45. Aria, Matteo, Mariaclaudia Cristofano, e Stefano Maltese, 2015. “Development Challenges and Shared Heritage-Making Processes in Southwest Ghana”, in Museum, Heritage, and International Development, a cura di P. Basu e W. Modest, pp. 150-169. London, New York: Routledge. Bargna, Ivan, 2016. Collecting practices in Bandjoun, Cameroon. Thinking about collecting as a research paradigm. African Arts, vol. 49, n. 2, pp. 20-37. Bellagamba, Alice, e Roberta Cafuri, a cura di, 2001. “Musei dell’Africa contemporanea”. Etnosistemi. Processi e dinamiche culturali, anno VIII, n. 8. Roma: Cisu.

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Appendice I – Cronologia della MEIG 1a fase (Direttore Vinigi L. Grottanelli, 1954-1977) Anno Nomi dei ricercatori presenti sul campo

1954 Vinigi L. Grottanelli. 1956 Vinigi L. Grottanelli. 1960 Vinigi L. Grottanelli. 1961 Ernesta Cerulli, Stefano Natonek. 1963 Vinigi L. Grottanelli. 1969 Vinigi L. Grottanelli, Italo Signorini, Giorgio R. Cardona. 1970 Ernesta Cerulli, Italo Signorini, Anthony WadeBrown. 1971 Vinigi L. Grottanelli, Giorgio R. Cardona, Vittorio Lanternari, Anthony Wade-Brown. 1973 Veronica Lazzarini Viti, Italo Signorini, Elvira Stefania Tiberini, Anthony Wade-Brown. 1974 Vinigi L. Grottanelli, Veronica Lazzarini Viti, Carla Rocchi, Italo Signorini, Elvira Stefania Tiberini, Anthony Wade-Brown. 1975 Veronica Lazzarini Viti, Elvira Stefania Tiberini. 1976-77 Vinigi L. Grottanelli.

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2a fase (Direttore Mariano Pavanello, 1989-2013) Anno Nomi dei ricercatori presenti sul campo Eventi associati

1989 Mariano Pavanello, Berardino Palumbo, Daniela Borgogni. 1991 Laura Nieri. 1992 Laura Nieri. 1994 Alessandra Gribaldo. 1995 Mariano Pavanello, Matteo Aria, Pino Schirripa, Barbara Vatta. 1996 Mariano Pavanello, Matteo Aria, Pino Schirripa, Barbara Vatta. 1997 Mariano Pavanello, Elisabetta Savoldi (dottoranda EHESS di Parigi). Missione di studio dell’archeologo Claudio Arias dell’Università di Pisa. 1998 Mariano Pavanello, Elisabetta Savoldi. Missione di studio degli archeologi Claudio Arias e Carlo Tozzi dell’Università di Pisa, e dei naturalisti Giuseppe Messana del CNR e Paolo Emilio Tomei dell’Università di Pisa. Missione in Ghana ad aprile del Sindaco di Peccioli (Pisa), Renzo Macelloni, per la definizione del progetto di cooperazione con l’area Western Nzema e la creazione a Bawia di un’OfficinaScuola. Missione a ottobre del Direttore artistico del Teatro di Pontedera (Pisa), Roberto Bacci, per l’organizzazione di un festival dei tamburi parlanti a Beyin durante il Kundum 1998. 78

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Visita all’Università di Pisa del Presidente della Repubblica del Ghana, Jerry John Rawlings (26 giugno). Firma del primo accordo tra Mariano Pavanello (MEIG) e il Ghana Museum and Monuments Board (GMMB) su Fort Apollonia. 1999 Mariano Pavanello, Lorenzo Cappelli, Elisabetta Savoldi. Missione di due rappresentanti dell’Ordine dei Geometri di Brescia per le rilevazioni tecniche di Fort Apollonia. 2000 Mariano Pavanello, Lorenzo Cappelli, Elisabetta Savoldi, Lisa Zannerini. Accordo tra Comune di Peccioli, MEIG e COSPE di Firenze per la gestione dell’Officina-Scuola di Bawia. Installazione del COSPE in area Nzema. 2001 Lorenzo Cappelli, Elisabetta Savoldi. 2002 Mariano Pavanello. Il Traditional Council della Western Nzema Traditional Area concede a Mariano Pavanello le chiavi del regno. Scuola estiva con gli studenti Oliviero Andreussi, Alice Cirucci, Nicola Gigli, Tiziana Meciani, Maurizio Monge dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore di Pisa. Primo viaggio del gruppo Scout di Peccioli (Pisa). 2003 Mariano Pavanello. Missione del Comune di Peccioli e della Provincia di Pisa per la stipula del gemellaggio con i distretti Nzema. Missione a Pisa e Firenze delle delegazioni delle Nzema District Assemblies. 2004 Mariano Pavanello, Rosanna Gullà, Pino Schirripa. Missione a giugno di Serena Trimarchi (Università di Pisa) per il

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programma di ricerca sulle piante medicinali. Prima missione a settembre di una delegazione della ASL RM G per una collaborazione sanitaria (Dr. Pasquale Trecca e Dr. Ignazio Antonelli). 2005 Mariano Pavanello, Pino Schirripa, Rosanna Gullà, Barbara Quarta, Nicoletta Salvi, Elisa Vasconi. Secondo viaggio del gruppo Scout di Peccioli (Pisa). In agosto seconda missione della ASL RM G (Dr. Pasquale Trecca). 2006 Mariano Pavanello, Elisa Vasconi. Missione degli specializzandi in Igiene di Tor Vergata, Dr. Mauro Albore e Dr. Giuseppe Pontrelli. 2007 Mariano Pavanello, Elisa Vasconi, Perla Zanini. Missione della Prof. Elisabetta Franco, direttrice della Scuola di Specializzazione in Igiene di Tor Vergata. 2008 Mariano Pavanello, Matteo Aria, Chiara Occhipinti, Francesco Tommasi, Elisa Vasconi, Filippo Zandri. Scuola estiva con gli studenti Mariaclaudia Cristofano, Davide Gabrini, Maria Antonietta Maggio, Stefano Maltese, Fabrizio Scimonelli (Sapienza Università di Roma). 2009 Mariano Pavanello, Lorenzo Cappelli, Mariaclaudia Cristofano, Andrea Diana, Maria Antonietta Maggio, Stefano Maltese, Elisa Vasconi. 2010 Mariano Pavanello, Matteo Aria, Antonella Bellipario, Annalisa Canofari, Mariaclaudia Cristofano, Andrea Diana, Stefano Maltese, Elisa Vasconi. Apertura del Fort Apollonia Museum of the Nzema Culture and History (30 ottobre 2010). Scuola estiva con gli studenti Osvaldo Costantini, Benedetta

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Lepore, Michelangelo Pecoraro (Sapienza Università di Roma). 2011 Mariano Pavanello, Matteo Aria, Mariaclaudia Cristofano, Benedetta Lepore, Stefano Maltese, Francesca Pugliese, Elisa Vasconi. Scuola estiva con gli studenti Luca Di Bianca, Cecilia Draicchio, Matteo Gallo, Alessandro Scipioni (Sapienza Università di Roma) e Francesca Luciani (Slow Food). 2012 Mariano Pavanello, Matteo Aria, Mariaclaudia Cristofano, Benedetta Lepore, Stefano Maltese, Alessandro Scipioni, Elisa Vasconi. Scuola estiva (luglio) con gli studenti Camilla Carabini, Rossella Cascone, Alice De Spagnolis, Federica Giunta. Scuola estiva (ottobre) con gli studenti Livia Bigi, Camilla Carabini, Angelo Antonio Grossi, Valeria Luongo, Loredana Piacentino, Elisabetta Tinti Salati, tutti della Sapienza. Missione di Ilaria Pescini (Regione Toscana, Servizi Generali, Archivio generale) per la preparazione del progetto-pilota sugli archivi della Chieftaincy. 2013 Mariano Pavanello, Pino Schirripa, Matteo Aria, Livia Bigi, Mariaclaudia Cristofano, Cecilia Draicchio, Angelo Antonio Grossi, Benedetta Lepore, Stefano Maltese, Dario Scozia, Tommaso Tercovich, Elisa Vasconi. Scuola estiva con gli studenti Marianna Flumine, Tecla Genovese, Francesco Saverio Longo.

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Appendice II – Bibliografia della MEIG Prima Fase 1. Cardona, Giorgio Raimondo, 1973. Phonologie descriptive et comparaison historique: remarques sur les liens entre Nzema et Agni. Annales de l’Université de Abidjan, série H, n. 6, pp. 33-45. 2. Cardona, Giorgio Raimondo, 1977. ‘Profilo della lingua nzema’, in Una società guineana: gli Nzema. 1. I fondamenti della cultura, a cura di V. L. Grottanelli, pp. 95-142. Torino: Boringhieri. 3. Cerulli, Ernesta, 1963. La setta dei Water Carriers. Studi e Materiali di Storia delle Religioni, vol. 34, 1: 27-59. 4. Cerulli, Ernesta, 1970. ‘Coutûmes et rites de naissance chez les Nzema du Ghana’, in Actes du VIIIème CISAE (Congrès International des Sciences Anthropologiques et Ethnologiques), vol. 3 (Tokyo-Kyoto). 5. Cerulli, Ernesta, 1973. I Water Carriers nove anni dopo. Religioni e Civiltà, vol. 1, pp. 69-124. 6. Cerulli, Ernesta, 1977. ‘L’individuo e la cultura tradizionale: norma, trasformazione ed evasione’, in Una società guineana: gli Nzema. 1. I fondamenti della cultura, a cura di V. L. Grottanelli, pp. 143-212. Torino: Boringhieri. 7. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, a cura di, 1977. Una società guineana: gli Nzema. 1. I fondamenti della cultura. Torino: Boringhieri. 8. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1958. Nzema Proverbs. Afrika und Übersee, vol. 42, pp. 17-26.

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9. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1961a. Pre-Existence and Survival in Nzema Beliefs. Man, vol. 61, n. 1, pp. 1-5. 10. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1961b. Asongu Worship among the Nzema: A Study in Akan Art and Religion. Africa. Journal of the International African Institute, vol 31, n. 1, pp. 4660. 11. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1962. Emblemi totemici fra gli Nzema del Ghana. Anthropos, vol. 57, pp. 498-508. 12. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1964. Nome e anima fra gli Nzema. Actes du VIème CISAE, vol 2, t. 2 (Paris), pp. 389392. 13. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1965. ‘Leben, Tod und Jenseits in den Glaubenvorstellungen der Nzima’, in Réincarnation et vie mystique en Afrique Noire. Travaux du Centre d’Études Supérieures Spécialisées d’Histoire des Religions de Strasbourg, pp. 69-86. Paris: Presses Universitaires de France. 14. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1967. Nzema High Gods. Paideuma - Mitteilungen zur Kulturkunde, n. 13, pp. 32-42. 15. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1969a. Gods and Morality in Nzema Polytheism. Ethnology, vol. 8, pp. 370-405. 16. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1969b. ‘Researches on Nzima Traditional Culture’, in Annual Museum Lectures 19691970, pp. 8-9. Accra: Catholic Press. 17. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1971. ‘L’ordalia del veleno fra gli Nzema del Ghana’, in Studia Ethnographica et Folkloristica in honorem Béla Gunda, a cura di J. Szabadfalvi e Z. Ujváry, pp. 223-233. Debrecen: Kossuth Lajos Tudományegyetem Könyvtára. 18. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1974. ‘La stregoneria akan

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vista da un autore indigeno’, in Demologia e folklore: studi in memoria di Giuseppe Cocchiara, di I. Baumer et al., pp. 339-368; 449-453. Palermo: Flaccovio. 19. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1976. ‘Witchcraft: an Allegory?’, in Medical Anthropology, edited by F. X. Grollig and H. B. Haley, pp. 321-329. The Hague and Paris: Mouton (ristampato in L’Uomo Società tradizione Sviluppo, vol. 5, n. 1, pp. 176-183). 20. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1977. Personal Names as a Reflection of Social Relations. L’Uomo Società Tradizione Sviluppo, vol. 1, n. 2, pp. 149-175. 21. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1978. Una società guineana: gli Nzema. 2. Ordine morale e salvezza terrena. Torino: Boringhieri. 22. Grottanelli, Vinigi Lorenzo, 1988. The Python Killer: Stories of Nzema Life. Chicago: The University of Chicago Press. 23. Lanternari, Vittorio, 1972a. Appunti sulla cultura Nzima (Ghana). Bari: Adriatica Editrice. 24. Lanternari, Vittorio, 1972b. Gli Nzema del Ghana. Una società contadina africana fra passato e futuro. Problemi, n. 34, pp. 236-241. 25. Lanternari, Vittorio, 1973. Protezioni antifurto ed etica socioreligiosa fra i coltivatori Nzema (Ghana). Humana. Quaderni degli Istituti di Etnologia e Geografia dell’Università di Palermo, vol. 6. 26. Lanternari, Vittorio, 1974. ‘L’acculturazione tra gli Nzema del Ghana: aspetti economici ed etico-sociali’, in Antropologia e imperialismo, di Vittorio Lanternari, pp. 94-118. Torino: Einaudi.

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Parte I

La storia contesa

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Luoghi, storie e conflitti nel festival Kundum di Axim e Nsein Benedetta Lepore Un “festival tradizionale” tra contestazioni e trasformazioni Il Kundum è un appuntamento rituale osservato annualmente sulla costa occidentale del Ghana, annoverabile tra i numerosi “festival tradizionali” del Paese. Questi si compongono di celebrazioni pubbliche e private, dal carattere sacrale e politico, e sono spesso descritti come feste del raccolto. Tale rappresentazione appare in continuità con categorie già in uso nelle testimonianze europee dei “costumi” del Golfo di Guinea nei secoli XVII-XIX, nelle quali si rintraccia anche la prima attestazione del Kundum al principio del XVIII (Bosman [1705] 1967). Che siano di antica o recente introduzione, i festival – di cui sono stati più volte sottolineati il carattere composito e le trasformazioni nella contemporaneità (Odotei 2002; Arhin Brempong e Pavanello 2012) – costituiscono un foro d’elezione per l’incontro tra numerosi soggetti istituzionali afferenti ai mondi della politica e dell’economia locali, nazionali e transnazionali (Clark Ekong 1997; Lentz 2001). Il Kundum – la cui occorrenza è regolata da uno specifico calcolo calendariale (Valsecchi 1999) – è stato pertanto interpretato come un capodanno agrario, nonché 103

individuato come un teatro per il confronto tra diversi attori (Lanternari 1977; Wade-Brown 1982, 1989; Savoldi 2003; Valsecchi 2003: 73-79; Pichillo 2012). Tra gli altri, assumono un particolare rilievo le cosiddette “autorità tradizionali”, ampiamente riconosciute nel quadro normativo del Ghana contemporaneo e investite di una notevole visibilità sulla scena pubblica (v. Odotei e Awedoba 2006). La centralità della chieftaincy si esprime in numerosi momenti dell’architettura rituale in cui si esibisce l’ideale unità tra capi e sudditi, che rinnovano in questa occasione il rapporto collettivo con gli antenati. L’agenda del festival offre inoltre l’opportunità di plasmare l’immagine pubblica del chief, nonché di costruire le sue relazioni con altri segmenti della società, sottolineare i rapporti gerarchici all’interno della struttura del potere tradizionale e mettere in atto delle precise strategie politiche. La prospettiva dalla quale guarderò al Kundum nelle prossime pagine consente di caratterizzarlo non solo come una possibile arena di negoziazione delle relazioni di potere, ma anche come un sito di rielaborazione dello spazio storico, in cui vengono inscritti e attualizzati nodi sensibili della storia sociale e istituzionale della regione attraversata dalle celebrazioni. Il Kundum fa emergere una topografia peculiare, poiché ha luogo in successione in numerose “aree tradizionali”1 lungo la linea costiera che si estende a occidente di SekondiTakoradi, fino a valicare il confine con la Costa d’Avorio, 1 Le “aree tradizionali”, o Paramountcy, coesistono con la ripartizione 104

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percorrendo i territori noti come Ahanta e Nzema. Se da un lato il festival esprime un legame profondo tra le due macro-aree, che condividono molti tratti di un medesimo universo linguistico e culturale, dall’altro mette in scena – e talvolta contesta, come si vedrà più avanti – gli assetti territoriali che definiscono i confini delle attuali Paramountcy contigue. In questo scritto prenderò in considerazione alcune implicazioni della performance presso la cittadina di Axim, che si trova al centro del percorso del festival. Il territorio circostante Axim, correntemente indicato come “nzema-ɛvaloɛ” e situato lungo il margine orientale del fiume Ankobra, rappresenta una zona di transizione tra le dimensioni geografiche, umane e storicopolitiche costitutive dell’Ahanta e dello Nzema2. Ascritta ora all’una ora all’altra area, alla metà del XVII secolo Axim appariva piuttosto come il centro attorno del territorio in distretti amministrativi e sono individuate in relazione ai confini delle competenze dei Traditional Council. Questi organi riuniscono i chief sottoposti a un ɔmanhene (Paramount Chief), investito di un diritto giurisdizionale “allodiale” sulle terre dell’area. Le Paramountcy sono fittiziamente immaginate a rappresentare delle entità politiche precoloniali, derivando di fatto sotto il profilo istituzionale dalle ristrutturazioni del territorio e dalle trasformazioni dei sistemi politici locali elaborate dal potere coloniale nei primi decenni del Novecento. 2 Il fiume Ankobra è generalmente assunto quale limite orientale dell’area nzema, compresa tra questo e il fiume Tano a ovest, e al contempo come margine occidentale dell’Ahanta, a sua volta estesa tra i fiumi Ankobra e Pra. Come la stessa definizione di “nzema-ɛvaloɛ” lascia supporre, si tratta nondimeno di delimitazioni approssimative, più o meno inclusive e malleabili secondo diversi progetti identitari. I livelli che si sono mescolati nel tempo a definire i confini e le denominazioni di queste aree sono molteplici e spaziano dalla dimensione linguistica a criteri di tipo 105

al quale ruotavano le relazioni politiche e commerciali nella regione. Come mostrato dall’analisi di Valsecchi (2001; 2002: 111 e segg.; 2014), una comunità politica dall’ampio respiro territoriale, definita “Axiema” – antesignana dell’odierno Nzema nella sua accezione più vasta, che include appunto i territori ɛvaloɛ – delimitava, secondo fonti olandesi coeve, la potenziale estensione della giurisdizione di Axim alla metà del Seicento. Questa discendeva primariamente dall’egemonia commerciale esercitata dal forte Sant’Antonio, collocato all’incrocio tra le porzioni “bassa” e “alta” dell’abitato (Lower Axim e Upper Axim, o Bolᴐfo Aleze e Bolᴐfo Solo). Tra i primi forti costruiti in Costa d’Oro, la postazione fu presa dagli Olandesi nel 1642, dopo oltre un secolo di occupazione portoghese, e ceduta solo nel 1872 al governo britannico che avrebbe di lì a poco istituito la colonia (1874)3. Il forte continua oggi a catalizzare una serie di interessi, e insieme conflitti, e la sua potenziale rilevanza nel panorama politico contemporaneo viene riformulata proprio sulla scena del festival. Nei mesi di agosto e settembre l’intero complesso delle entità territoriali “nzema-ɛvaloɛ” – che include diverse aree tradizionali confinanti, tra cui Lower Axim, Upper Axim e

giuridico-politico (v. Valsecchi 2001; 2002: cap.1). 3 Sul forte S. Antonio e per la presenza olandese ad Axim si vedano anche Doortmont (2014) e Van Dantzig (2014). Oggi il forte è meta di turismo internazionale come parte del patrimonio monumentale del Paese, gestito dal Ghana Museums and Monuments Board. 106

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Nsein – è progressivamente interessato dai festeggiamenti, che prevedono un ciclo di tre settimane di preparazione e interdizioni rituali, seguito da sette giorni di celebrazioni.4 La cittadina di Axim vede svolgersi contemporaneamente i festival dei due Paramount Stool o mbia mgbole (sing. ebia kpole, seggio grande)5 che ospita, Lower Axim e Upper Axim; Nsein, villaggio situato a pochi chilometri nell’interno rispetto alla linea costiera e sede dell’omonima Paramountcy, celebra invece la settimana successiva. Non è possibile in questa sede rendere conto dell’intera sequenza di attività rituali; piuttosto metterò in evidenza i processi di costruzione e decostruzione di alcune pratiche che evocano – e addirittura riscrivono – il rapporto storicopolitico tra i seggi citati. Nel corso dell’ultimo secolo questi hanno intrattenuto una relazione contrassegnata da una costante competizione, particolarmente accesa tra le aree di Lower Axim e Nsein, che ha portato più recentemente alla contestazione di alcuni momenti del calendario festivo, nonché a scontri nel corso di cerimonie pubbliche. Di particolare rilevanza è quanto accade il mercoledì del festival ad Axim: quando non vi siano impedimenti dovuti a dispute interne alla gerarchia del potere tradizionale, entrambi i Paramount 4 Dal punto di vista amministrativo questi territori sono inclusi nella Nzema East Municipality, governata da una Municipal Assembly con sede ad Axim. 5 Simbolo per eccellenza del potere in area akan, raffigurato da un sedile di legno, il seggio, o stool, indica per estensione il territorio in cui si esercitano i diritti e poteri dell’autorità tradizionale. 107

Chief vengono condotti a spalla su una portantina per le strade della città e la popolazione si intrattiene in canti e balli nella piazza antistante il forte. Dalla letteratura disponibile si apprende invece che questo giorno aveva una veste diversa qualche decennio fa e vedeva coinvolto anche il seggio di Nsein. Davy-Hayford (1971: 27 e segg.) scrive che durante il Kundum del 1970 il Paramount Chief di Nsein avrebbe dovuto recarsi all’interno del forte S. Antonio per compiere una libagione6 su una tomba situata nel suo cortile, ma le celebrazioni furono sospese a causa del decesso di un membro della corte. Similmente Agovi (1979: 51) riferisce di una “processione politica” dell’ᴐmanhene di Nsein ad Axim nel quarto giorno del festival e ancora Wade-Brown (1989: 124 e segg.), rispetto all’anno 1983, afferma che subito dopo l’esibizione pubblica dei tre capi di Lower Axim, Upper Axim e Nsein, quest’ultimo sarebbe andato «da solo nella vecchia fortezza europea per eseguirvi una libagione in onore dei suoi antenati» se la sua partecipazione non fosse stata ostacolata dalla gente di Axim. Nelle cerimonie degli ultimi anni non c’è alcuna traccia della processione, né della libagione compiuta da Agyefi Kwame II, che siede sullo stool di Nsein dal 1967. Dalle narrative che ho potuto raccogliere in occasione del festival del 2015 è inoltre emerso che la percezione di ciò che si faceva o si sarebbe dovuto fare il mercoledì 6 Pratica generalmente svolta versando in terra gin o altre bevande, mentre vengono recitate delle invocazioni agli antenati. Sui caratteri della performance della libagione in area akan v. Adjaye (2001). 108

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è tutt’altro che unanime e calata in profondità nella storia della contrapposizione tra Axim e Nsein, cosicché l’esecuzione del Kundum appare ancora pervasa da un’aria di contestazione. A ben vedere, pratiche delle quali l’odierna performance sembra non ritenere memoria, ma ben radicate nell’immaginario collettivo, sono state alternativamente aggiunte e sottratte alla trama rituale in concomitanza con una complessa serie di vicende giudiziarie; si può pertanto affermare che se ne sia piuttosto conservata, per sottrazione, una “memoria negativa” frutto della lunga disputa di cui sono state il fulcro. Una pesante assenza rituale e una significativa presenza retorica inducono quindi a indagare la storia recente della celebrazione, che è a sua volta storia di una lite sulla giurisdizione di seggi limitrofi e apre uno spiraglio sulle più ampie dinamiche politiche che hanno attraversato l’area nell’ultimo secolo. Questo esercizio permette al contempo di guardare ai processi di formulazione di narrative storiche conflittuali e alla loro costruzione e contestazione nella cornice rituale. Breve cronaca di una lite La locuzione “Axim-Nsein dispute” è molto frequente nel discorso comune e ricorre costantemente, soprattutto negli ultimi cinquanta anni, negli incartamenti concernenti gli affari dei Traditional Council delle aree interessate7. 7 Per la ricostruzione degli eventi della lite faccio riferimento, oltre 109

Il Kundum ha avuto un peso notevole nella controversia, ancorché alimentata da diversi motivi di scontro, e una particolare rilevanza è stata attribuita proprio alla cerimonia della libagione all’interno del forte S. Antonio. Mentre Agyefi Kwame II dichiara di aver ereditato la pratica dai suoi predecessori, essa è stata aspramente contestata dagli esponenti dei due stool di Axim, in particolare Lower Axim. Questi ultimi non riconoscono che la cerimonia abbia mai avuto luogo prima dei tentativi avviati dall’ᴐmanhene di Nsein nel 1971, né condividono il racconto storico e lo scenario politico che avrebbe inscenato e legittimato. La disputa – che ha determinato da circa tre decenni la cancellazione del corteo che avrebbe portato la delegazione di Nsein al forte di Axim – è transitata attraverso numerose sedi di giudizio a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando Lower Axim e Nsein entrarono in conflitto per il controllo di un’area nota come “Ottupy Hill”. alle conversazioni intrattenute con i soggetti coinvolti e ai documenti reperiti negli archivi nazionali e regionali (Public Records and Archives Administration Department, PRAAD), ai record contenuti nelle collezioni del Traditional Council di Nsein (individuati dall’acronimo NTC). Questi ultimi sono stati messi in sicurezza, catalogati e digitalizzati dal progetto EAP 722. Safeguarding Nzema History. Towards an Archive of Chieftaincy in South-West Ghana realizzato nell’ambito dell’Endangered Archives Programme della British Library e implementato congiuntamente dal Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History e da La Sapienza, Università di Roma. I file digitali prodotti saranno disponibili alla comunità scientifica attraverso la piattaforma di British Library a conclusione dei lavori, mentre delle copie sono depositate presso i due partner. Ho avuto accesso a questa tipologia di materiali prendendo parte alle attività del progetto e negoziandone l’uso con i capi, custodi degli archivi. 110

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Dopo questo episodio, si aprì il confronto sulla celebrazione del festival, come dimostrato da un documento firmato nel 1974 dai due Paramount Chief di Axim in cui essi biasimavano l’ᴐmanhene di Nsein per aver esteso nei tre anni precedenti la celebrazione oltre la sua area tradizionale, entrando con il suo seguito nel forte e sfilando per le strade di Axim sulla portantina8. Una delle principali accuse rivolte ad Agyefi Kwame II era di aver compiuto dei movimenti provocatori con le braccia nel corso della parata. Secondo la prossemica che regola i movimenti della danza del capo mentre siede nella portantina, ben comprensibili a quanti ne conoscano il codice, questi gesti – ripetuti probabilmente in più di un’occasione e ancora ricordati ad Axim – equivalevano a degli insulti9. I tre anni successivi furono caratterizzati da un forte stato di tensione e in particolare durante il Kundum del 1977 ebbe luogo un episodio ancor oggi rievocato e popolarmente noto come “No way”. La gente di Axim si oppose al passaggio di Agyefi Kwame II creando un blocco e intonando un canto al suono di «No way, no way» cui 8 Lettera al District Chief Executive, “Celebration of annual Kundum festival”, 30 agosto 1974, in NTC/1/20 bis, Kundum festival (Vol. II), 1973-2011. 9 La parata nella portantina, che durante il festival vede protagonisti i capi della regione nelle rispettive aree di competenza, è diffusamente riconosciuta come un’importante espressione del potere. In particolare alcuni movimenti, come indicare le terre circostanti portando successivamente le braccia al petto, possono significare un’asserzione di sovranità sul territorio da parte dell’ɔmanhene. 111

il gruppo di Nsein avrebbe risposto «There should be a way» facendosi largo tra la folla. Al termine dello scontro, in cui intervenne anche la polizia, si sarebbero registrati molti feriti10. La discussione sulle forme che avrebbe dovuto assumere la cerimonia della libagione al forte accompagnò tutto lo sviluppo della controversia e in alcune sue fasi fu contestato finanche il carattere “tradizionale” della sfilata nella portantina, considerata da alcuni una pratica di recente introduzione nei festival locali11. La lunga “Axim-Nsein dispute”, che contrassegnò similmente il decennio successivo, apportò numerosi cambiamenti al calendario festivo, dal momento che il Kundum poteva facilmente essere sospeso o ritardato. Dal 1985 e per i quattro anni seguenti lo scenario della disputa fu dominato da una serie di disposizioni discordanti da parte dell’amministrazione regionale. La conclusione ufficiale della lite rispetto alla celebrazione del Kundum si può collocare nel 1989, quando l’allora Segretario Regionale del Provisional National Defence Council (PNDC) per la Western Region confermò la decisione che Axim e Nsein celebrassero esclusivamente nelle rispettive aree tradizionali, facendo cessare ogni forma di incontro nel corso del festival e portando a una tregua

10 V. NTC 1/63, The history of Axim (undated). 11 “Celebration of Kundum by Lower Axim and Nsein Traditional AreasIssue of police permit to Lower Axim in 1987”, 12 aprile 1988, in WRG 62/2/12, Festivals, 1975-1996, PRAAD, Sekondi. 112

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duratura12. Nondimeno otto anni dopo il caso riemerse: in una lettera indirizzata al Regional Minister, Agyefi Kwame II lamentava che in occasione del Kundum del 1997 la gente di Upper Axim avesse provocato un cambiamento nel tragitto solitamente segnato da Attibrukusu III, Paramount Chief di Lower Axim, nella sua sfilata sul palanchino e perciò questi avrebbe attraversato per la prima volta una parte del territorio della città appartenente al seggio di Nsein13. Questa ulteriore dichiarazione mostra come l’argomentazione avesse ormai percorso un giro completo, dalla contestazione del passaggio del corteo di Nsein sul territorio di Lower e Upper Axim al suo opposto. La possibilità che terre situate al di fuori del villaggio di Nsein siano ugualmente di pertinenza del seggio discende da un’istanza a lungo avanzata dai suoi rappresentanti, che a tutt’oggi rivendicano Axim come luogo originario dell’insediamento dei propri antenati14. 12 “Celebration of Kundum in Lower Axim and Nsein Traditional Areas”, 17 luglio 1989, in NTC/1/20 bis, Kundum festival (Vol. II), 1973-2011. 13 “Kundum celebration at Axim and Lower Axim’s Paramount Chief ’s claim to certain pieces of land in Lower Axim township”, 5 ottobre 1997, in NTC 1/16 Kundum festival (Vol. I), 1972-2000. 14 Questo aspetto della lite ha continuato a manifestarsi in varie forme, come fu possibile notare nel discorso di benvenuto tenuto al raduno pubblico del Kundum del 2014 da Agyefi Kwame II. Questi accusò la Nzema East Municipal Assembly di aver tentato di rinominare le strade di Axim, secondo un programma avviato a livello nazionale, senza consultare anche le autorità tradizionali di Nsein sui nuovi nomi che sarebbero stati assegnati. L’ᴐmanhene precisò che non sarebbe stato a guardare poiché buona parte dei territori interessati, pur situati ad Axim, ricadrebbe sotto 113

I limiti della giurisdizione correntemente esercitata dalle tre Paramountcy limitrofe sono stati infatti ripetutamente affermati o contestati alla luce dell’asserita profondità storica della rispettiva occupazione dell’area, messa in scena anche dai percorsi tracciati nel mercoledì del Kundum. Gli antecedenti della contesa Seguendo la cronaca degli eventi brevemente narrati, la lite può essere datata a partire dai primi anni Settanta del Novecento. I procedimenti giudiziari di quel periodo – come testimoniano la corrispondenza, le petizioni e i verbali prodotti – hanno costituito un foro eccezionale per la costruzione della “tradizione”, ovvero per la negoziazione delle sue qualità nel tentativo di fissarle in termini di ciò che è “corretto” o “sbagliato”, “autentico” o “inventato”. È tuttavia evidente che la contesa abbia interessato non soltanto l’esercizio delle prerogative rituali degli uni e degli altri, ma anche i rispettivi diritti su porzioni del territorio della cittadina di Axim. In questo senso la disputa tra i seggi di Lower Axim e Nsein appare come la manifestazione ultima di un conflitto di lunga durata. I suoi contorni generali sono infatti ravvisabili già all’inizio del XX secolo, in un contesto che vede all’opera i tentativi di razionalizzazione della geografia politica della regione condotti dagli amministratori coloniali. A cristallizzare la veste istituzionale dell’assetto politico la giurisdizione di Nsein e sarebbe infatti occupata da ben sei capi afferenti al suo Traditional Council. 114

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locale fu in particolare un’inchiesta portata a termine dal segretario e commissario coloniale Francis Crowther nel 191215, che collocava Nsein in una posizione di subordinazione rispetto ai seggi di Upper e Lower Axim, mentre accordava a quest’ultimo un grado di seniorità. Tuttavia, il memorandum prodotto da Crowther lasciava aperti degli spazi di ambiguità che produssero un immediato processo di revisione dei suoi risultati. L’occasione si presentò nel 1916 in seguito alla nomina del nuovo capo di Nsein, Nkruma Ababio II: in base al quadro delineato dal memorandum, la richiesta di riconoscimento dell’avvenuto enstoolment (intronizzazione) da parte del governo coloniale non poteva avvenire se non fosse stata presentata attraverso il consiglio di Lower Axim, ma questa opzione fu contrastata da Nsein. Nkruma Ababio II sostenne inoltre che originariamente il suo stool fosse collocato proprio ad Axim, dove le autorità olandesi avevano individuato i suoi antenati come interlocutori, nominandone alcuni “chief broker”. Intanto il commissario per la Western Province Maxwell riaprì l’indagine, che questa volta dichiarò lo stool di Nsein autonomo rispetto a Lower Axim, sebbene fosse ugualmente reputato il “minore” (junior) dei du16. I problemi sollevati agli inizi del secolo riemergeranno 15 ADM 11/1/1703, Ahanta Memorandum, 1912, PRAAD, Accra. 16 I documenti in cui si rintraccia il dibattito seguito all’inchiesta di Crowther negli anni 1915-1917 sono contenuti in ADM 11/1/418, Nsein Native Affairs, case 82/1912, PRAAD, Accra. 115

qualche decennio dopo continuando a fare da filo conduttore del conflitto tra le due aree, cosicché il baricentro della discussione oscillerà a lungo tra l’argomento dell’indipendenza o subordinazione di Nsein rispetto a Lower Axim e il piano di una sua rivendicata primazia storico-politica. Inoltre, l’inchiesta di Crowther e le vicende che la seguirono hanno attirato l’attenzione degli attori politici fino alla contemporaneità, divenendo dei cardini delle locali narrative storiche. Le rappresentazioni dei protagonisti dell’attuale scena politica appaiono nondimeno formulate su un orizzonte temporale più ampio e uno snodo fondamentale, come già anticipato, è rintracciabile nel contesto di interazioni di cui il forte S. Antonio è stato a lungo un centro primario. Nella prima metà del Novecento, al termine di quella che si può considerare la fase inaugurale della lite, si vede comparire anche il Kundum tra gli oggetti della contesa. Una petizione inviata dallo stesso Nkruma Ababio II al governatore Hodson nel 1940 sancì la veste conflittuale assunta dal festival17. Questa petizione si può considerare la base a partire dalla quale saranno operate le successive ricostruzioni e contestazioni nell’ambito della lite, non soltanto per il contenuto del testo e per le retoriche che presenta, ma soprattutto per i documenti che venivano allegati a testimonianza di quanto affermato, che avranno ancora una lunga carriera come materiale probante per entrambe le parti. 17 ADM 11/1/1813, Nsein Native Affairs, 1940-1950, PRAAD, Accra. 116

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L’appello dell’ᴐmanhene esprimeva innanzitutto la sua insoddisfazione nei confronti del District Commissioner, che avrebbe cercato di modificare la relazione tra i seggi di Nsein e Lower Axim – «stabilita storicamente e costituzionalmente secoli fa» – in modo da rendere il primo subordinato al secondo. Il Paramount Chief procedeva quindi a chiarire la sua posizione attraverso l’enunciazione sintetica di alcuni importanti “fatti storici”. A suo dire, prima che la popolazione e lo stool di Nsein migrassero verso l’interno occupando l’attuale sito della Paramountcy perché più adatto alle attività agricole, essi erano stabiliti ad Axim dove “da tempo immemore” possedevano porzioni di terra occupate da seggi minori sottoposti a Nsein. Per dimostrare l’indipendenza dello stool, Nkruma Ababio II presentò come prove delle lettere dattiloscritte tradotte dall’olandese e datate 1812 e 1847 in cui compaiono i nomi di Cobbina Ewee, Quamina Appree (Kwamina Appree) ed Essie Ama, designati chief broker di Axim e considerati tutti antenati del matrilignaggio Ntwea18 che detiene il seggio di Nsein. Kwamina Appree, che secondo i documenti allegati avrebbe trattato con gli Olandesi nel XIX secolo, veniva al contempo indicato come colui che sostenne gli Europei con uomini e materiali nell’originaria costruzione del forte S. Antonio 18 Il sistema di parentela in area akan è di tipo matrilineare e prevede che la discendenza sia trasmessa per via uterina. In area nzema-ɛvaloɛ le denominazioni claniche che individuano i diversi matrilignaggi presenti sul territorio sono sette, tra cui Ntwea e Nvavile citati in questo scritto. 117

nel XVI secolo e alla sua morte sarebbe stato seppellito al suo interno. Sebbene non facesse alcun riferimento alla libagione nei locali del forte, Nkruma Ababio II rivendicava già come inalienabile il diritto di Nsein a recarsi ad Axim nel mercoledì del festival. La gente di Nsein avrebbe infatti sostato davanti all’edificio per eseguire le danze e musiche del Kundum in memoria del proprio antenato. Secondo il capo, la prosecuzione di questa consuetudine, osservata sia quando la popolazione era ancora stabilita ad Axim che in seguito alla migrazione nel nuovo insediamento, doveva quindi essere garantita senza che fosse necessario ottenere alcun permesso preventivo da parte delle autorità di Lower Axim. Da quanto esposto, si può notare come in questa fase il festival occupasse il labile confine tra la sfera di esercizio di privilegi esclusivamente rituali, legittimati dall’osservanza della “tradizione”, e quella dei diritti politici e giuridici sul territorio, la cui inscindibilità si proporrà con forza nel momento della riapertura del dibattito nei decenni successivi. Storie a confronto Il confronto che si è sviluppato tra le istanze delle due parti in causa è particolarmente denso di contenuti, che non sarà possibile esaminare puntualmente qui di seguito; per tentare di districare i fili del discorso “storico” intessuto nell’ambito della contrapposizione proporrò piuttosto una sintesi delle due versioni della storia promosse dagli esponenti dello stool di Nsein (a) e di Lower Axim 118

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(b), ricostruite a partire dai documenti prodotti nello svolgimento della disputa e dai punti di vista raccolti nel corso della ricerca. Le ragioni degli uni e degli altri continuano infatti a riproporsi oggi in forme retoriche sostanzialmente immutate. Sebbene la competizione appaia sopita e non si alimenti più intensamente nelle corti ordinarie o tradizionali, essa ha lasciato il segno nelle rappresentazioni dei suoi protagonisti, in particolare Agyefi Kwame II e Francis K. Nokoe, quest’ultimo già segretario del seggio di Lower Axim nel corso dei dibattimenti degli anni Settanta e Ottanta e autore di un manoscritto sulla storia dell’area. (a): Quanto emerge dalla posizione sostenuta da Nsein nei procedimenti degli ultimi decenni ripercorre le linee già tracciate nel 1940, ma ne porta le conclusioni più lontano. Seguendo il racconto storico proposto dai suoi rappresentanti19, gli antenati del lignaggio reale Ntwea furono i soli riconosciuti regnanti di Axim fino all’introduzione dell’amministrazione inglese e dunque

19 Il punto di vista di Agyefi Kwame II è stato raccolto nel corso di alcune conversazioni condotte in diverse fasi della ricerca, dal 2014 al 2016. La sintesi che segue è tuttavia elaborata anche sulla base dei più dettagliati resoconti costruiti nel corso della lite e contenuti in alcuni dei fascicoli già menzionati, specialmente NTC 1/63, The history of Axim (undated). Inoltre: “Report on Commitee of Enquiry into celebration of the Kundum festival at Nsein and Axim”, luglio/agosto 1976 in WRG 62/2/12, Festivals, 1975-1996, PRAAD, Sekondi; Lettera di Agyefi Kwame II, “Celebration of annual Kundum festival at Axim. The case of Nsein Traditional Area” in NTC 1/58, Kundum festival (Vol. III), 20022015. 119

i primi ad aver popolato l’area. Il gruppo da cui deriva l’attuale stool di Lower Axim sarebbe invece giunto successivamente e vi si sarebbe stabilito con il permesso dei primi. La terra su cui sorge il forte fu concessa dal legittimo sovrano e primo occupante del seggio, Akpolley Kpanyinli, ai Portoghesi, i quali avevano già fatto vari tentativi fallimentari di erigere l’edificio. Infine si comprese che essi avevano infranto un tabù e pertanto si rese necessario il sacrificio di una donna incinta appartenente alla famiglia reale, sepolta nello stesso sito dove fu costruito il forte. In segno di riconoscenza, tutti i seguenti capi furono quindi nominati chief broker dagli Europei. I documenti del 1812 e 1847 proverebbero proprio che i soggetti individuati come partner commerciali dagli Olandesi altro non erano che i legittimi regnanti di Axim, nonché antenati del seggio di Nsein quando quest’ultimo villaggio non era stato ancora fondato. Insieme ai governatori e ufficiali bianchi anche i sovrani furono seppelliti nel forte, in particolare Akpolley Kpanyinli (Apree I), Akpolley Tsika (Apree II), Edifie Quarme (Agyefi Kwame I), Essie Ama e Kwamina Appree (Kwamina Akpolley). Sul finire del XIX secolo gli antenati dovettero affrontare l’ostilità del nuovo potere europeo che era subentrato ai loro storici alleati. La gente dell’odierna Lower Axim, sotto la guida di Kaku Kyina, cercò di contrastare il potere dei capi originari. L’alleanza tra gli Inglesi e Kaku Kyina portò a uno stato di tensione tale che il palazzo reale (ahenfie) fu bruciato e intorno al 1890, per proteggere quel che restava delle proprietà 120

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dello stool, Quasie Ingassah (Kwabena Nkansa I) decise di portarlo via dal sito di “Ntweakro” (che si può tradurre come “villaggio del matrilignaggio Ntwea”), situato nella parte bassa di Axim e di stabilirsi nell’attuale Nsein. Con l’inchiesta di Crowther si consumò la divisione dello stato unitario e Nkruma Ababio II, che fu infine dichiarato capo indipendente, perse il titolo di sovrano unico. (b): Anche la versione della storia di Axim ricostruita da Francis Nokoe20, in qualità di principale portavoce del seggio di Lower Axim, prevede che l’area fosse originariamente unita sotto un unico sovrano, che il sito di Nsein non esistesse fino alla fine del XIX secolo e che gli antenati del matrilignaggio Ntwea di Nsein avessero stabilito un rapporto privilegiato con gli Olandesi; tuttavia il significato attribuito a questi elementi è ben diverso da quello che assumono nella narrazione precedente. Nel corso del popolamento originario dell’area, il matrilignaggio Nvavile che governa Lower Axim si insediò dapprima ad Anyinam, finché alla fondazione di Axim, Attibrukusu, che entrò per primo in contatto con i Portoghesi, ne divenne “re”. Al tempo in cui gli Olandesi attaccarono i Portoghesi, il re di Axim – un regno allora molto più vasto, che sarà smembrato nei primi decenni del Novecento – si schierò con questi ultimi rifugiandosi nell’interno. Nel corso della rivolta che seguì, causata 20 Questa è tratta principalmente dal manoscritto di Nokoe, Axim History and the Unknown Facts, concessomi in visione dall’autore, nonché da numerose conversazioni occorse nel 2015 e 2016. 121

dall’imposizione di una tassa sul pescato, gli Olandesi fecero giungere nell’area numerose truppe dal Sefwi e da Elmina per combattere la gente di Axim. Il re perse molti dei suoi poteri non potendo giudicare i casi senza il consenso del governatore, mentre gli agenti degli Olandesi divennero “spokesmen”. Il gruppo Ntwea, guidato da Kobina Awia (Cobbina Ewee) e proveniente da Fanti Nyankumasi, era formato dai discendenti delle truppe che sostennero gli Olandesi nell’attacco ai Portoghesi e alla gente di Axim e si sarebbe stabilito solo alla fine del XVIII secolo su terra fornita dai legittimi sovrani a Nzelanu nel villaggio che fu nominato Awiasuazo (la città di Awia). Più tardi anche il seguito dal Sefwi, che aveva precedentemente lasciato Axim, raggiunse Awiasuazo sotto la guida di Nkansa e fu indirizzato verso un’area il cui nome venne cambiato in “Asasie Nsai” (Nsein) a indicare che “la terra non è finita”. Kobina Awia, Kwamina Appree e gli altri antenati di Nsein non furono quindi legittimi regnanti di Axim, bensì membri e leader di una compagine militare. In altri termini, fino ai cambiamenti occorsi al principio del XX secolo, l’ascendenza del seggio di Nsein fu rappresentata esclusivamente da detentori della carica di safohene21. Kwamina Appree, o Akpolley Kpanyinli, succeduto a Kobina Awia e a Essie Ama, come i suoi predecessori sarebbe stato nominato chief broker – una 21 Nella gerarchia militare è il capo dell’armata che comanda le sezioni minori guidate dal boma, ed è a sua volta sottoposto al supi. Nel panorama contemporaneo, il safohene supporta l’ᴐmanhene nel mantenimento dell’ordine pubblico. 122

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posizione che implicava un compenso, nonché il compito di trattare in schiavi – con una lettera di assunzione del 1812 rinnovata anni dopo. Questi documenti dimostrerebbero dunque la natura del rapporto intrattenuto con gli Europei da coloro che Nsein considera propri antenati e non la legittimità del loro presunto ruolo di capi di Axim. La nomina a chief broker fu poi utilizzata da Kwamina Appree per definirsi re di Axim, creando inizialmente molta confusione tra gli amministratori coloniali su chi fosse l’autorità principale nell’area, riconosciuta infine in Kaku Kyina. L’equivoco sarebbe sorto da un’errata equivalenza tra il titolo di chief broker, intermediario commerciale, e quello di sovrano, che in traduzione inglese può essere reso con chief o king. Nel 1917, quando furono ribaltati i risultati dell’inchiesta di Crowther circa la relazione tra Nsein e Axim, aree con meno di mille abitanti si resero indipendenti e così la politica del divide and rule inglese distrusse definitivamente l’unità di Axim. Sono molti gli elementi che meriterebbero di essere approfonditi nel quadro sin qui delineato, tuttavia mi soffermerò ancora brevemente solo su quelli che ritengo i principali nodi tematici sollevati dalla contestazione delle pratiche del festival. Antenati, Europei e la mappa del festival Come emerge dalla sintesi sopra presentata, la fondazione di Nsein è nelle due versioni il risultato di processi molto diversi: per Agyefi Kwame II essa è conseguenza di uno stato di guerra con gli Inglesi e l’attuale Lower Axim, un tempo 123

formata proprio dal seggio di Akpolley Kpanyinli; per la controparte l’esistenza del villaggio è invece imputabile all’insediamento di un segmento del matrilignaggio Ntwea in una porzione di territorio concessa dai discendenti di Attibrukusu, legittimi sovrani di Axim. In entrambi i casi si nota come l’avvicendamento delle diverse compagnie commerciali e amministrazioni straniere (Portoghesi, Olandesi, Inglesi) sia considerato uno dei principali catalizzatori dei mutamenti negli assetti di potere locali e della competizione tra diverse formazioni politiche e militari. Nel quadro ideale di uno spazio precoloniale i cui contorni sarebbero definiti dalla legittima occupazione del territorio da parte dei primi arrivati (v. Kopytoff 1987: 52 e segg.) e dalla conseguente instaurazione di una comunità politica unita (un “regno”), l’alleanza con l’una o l’altra potenza europea rappresenta una delle possibili linee storiche di divisione e distinzione tra i gruppi che afferiscono ai due seggi e diventa un elemento del discorso paradossalmente funzionale alla retorica della perduta unità. Similmente i risultati delle inchieste condotte dai funzionari britannici vengono assunti a testimonianza tanto dell’autonomia delle diverse entità territoriali quanto dell’originaria unitarietà della regione, rappresentando il fondamento di narrazioni che, in un senso o nell’altro, individuano nell’impresa coloniale un sostanziale momento di rottura degli equilibri politici. La natura delle relazioni stabilite con gli Europei 124

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costituisce infatti un argomento sensibile nelle rappresentazioni degli interlocutori locali e si congiunge all’ambizione di determinare lo statuto degli antenati, in quanto legittimi titolari della regalità in una dimensione territoriale sovraordinata alla frammentazione delle odierne aree tradizionali oppure detentori di cariche militari come quella di safohene. In particolare, le lettere che raccontano il rapporto tra il governo olandese e i notabili locali sono ritenute alternativamente prova di un assetto di potere – più tardi sovvertito dall’intervento inglese – legittimato dalla sua antichità, o al contrario testimonianza di un accordo di carattere esclusivamente commerciale da confrontare con il “vero” centro del potere. L’identità di Kwamina Appree – che Nkruma Ababio II sosteneva essere inumato nel forte, dove ci si sarebbe recati a rendere omaggio durante il Kundum – costituisce uno dei tasselli più problematici del discorso storico promosso nel corso della disputa. La ricostruzione delle vicende da questa evocate in rapporto alla storiografia dell’area esula dagli obiettivi della presente trattazione; tuttavia è opportuno sottolineare che un personaggio di nome Appree, o Akpole, intermediario per la Compagnia delle Indie Occidentali olandese, compare nelle cronache storiche dei primi decenni del Settecento. Nel 1711 si aprì una vertenza tra Akpole e Jan Conny, noto “principe-mercante” broker dei brandeburghesi, il cui potere politico-commerciale dominava la costa ahanta e rappresentava una minaccia per gli interessi di Inglesi e Olandesi. Lo scontro, che si accese quando il primo

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reclamò come schiava una donna che l’altro dichiarava essere parte del proprio gruppo familiare, si inseriva quindi in una più vasta lotta per il controllo dei traffici nella regione (v. Welman 1930: 33 e segg.; Daaku 1970: 127 e segg.; Valsecchi 2002: 227 e segg.). Nel resoconto di Nokoe, in cui Kwamina Appree è identificato con Akpolley Kpanyinli e collocato con decisione nel XIX secolo, si fa riferimento a questo episodio, di cui vengono considerevolmente rielaborati gli assi temporali. Sulla base delle date riportate nelle lettere che conferiscono a Kwamina Appree il titolo di chief broker, nonché di altra corrispondenza tra il primo e l’amministrazione inglese, il segretario del seggio di Lower Axim sposta l’intera vicenda di Conny avanti di un secolo, concludendo che le date fornite da Welman (op. cit.), sua principale fonte sull’argomento, siano errate22. Nokoe contesta inoltre il contenuto della petizione del 1940, “dimostrando” l’inesattezza dello scenario delineato e in particolare l’impossibilità che Kwamina Appree abbia aiutato nella costruzione del forte per poi essere nominato chief broker tre secoli dopo. La petizione di Nkruma Ababio II caratterizza infatti questo personaggio da un lato come il primo interlocutore degli Europei tra il XV e il XVI secolo, dall’altro come loro intermediario nel XIX. 22 Le lettere che Nokoe considera prova dello statuto di Kwamina Appree, datate tra il 1812 e il 1885, indicherebbero inoltre che questi sia vissuto per un periodo di tempo piuttosto prolungato. Molti dei documenti analizzati nel testo manoscritto già citato (Nokoe, s.d.), di cui alcuni provenienti dal PRAAD, sono stati incorporati nell’archivio conservato presso il Traditional Council di Lower Axim. 126

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L’incongruenza tra l’epoca in cui la figura di Kwamina Appree è situata nel racconto di Nkruma Ababio II e la datazione della lettera di nomina allegata alla petizione non costituisce un problema, del resto, nell’ambito di una strategia retorica che intenda dare prova della legittimità di una linea di successione, in cui possono alternarsi più antenati con il medesimo nome, con il ricorso a un documento che ne attesterebbe la continuità nel tempo. Sembrerebbe questa l’opzione seguita da Agyefi Kwame II: nella più recente ricostruzione storica proposta da Nsein, Kwamina Appree è indicato come Kwamina Akpolley e differenziato dal suo predecessore, Akpolley Kpanyinli o Appree I. Non viene affermata, quindi, una corrispondenza diretta tra Kwamina Appree e colui che per primo aiutò i Portoghesi nella costruzione del forte, al cui interno sarebbero piuttosto sepolti entrambi insieme ai capi che si avvicendarono tra l’uno e l’altro. Le possibili collocazioni temporali di Appree continuano tuttavia a sovrapporsi e in momenti diversi della lite accade che siano presentate liste dinastiche variabili e cronologie opportunamente spostate avanti e indietro nei secoli. In ogni caso, la visita dell’ᴐmanhene al forte durante il Kundum assume legittimità per il seguito di Nsein alla luce del “fatto storico” che vede un antenato del seggio aiutare con uomini e mezzi nella sua fabbricazione ed esservi sepolto, ed è sostanziata ancor meglio dall’affermazione che al suo interno si trovi ben più di una sepoltura reale. Questi elementi, accompagnati dall’ipotesi di un’originaria concessione della terra su cui il forte si erge

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e dal compimento del sacrificio di una donna del gruppo all’atto della sua costruzione, sembrano potenziare il contenuto storico, politico e sacrale della cerimonia della libagione. La possibilità di avere accesso al forte rappresenta in ultima analisi il momento più importante dell’architettura rituale immaginata dal gruppo di Nsein, perché consente di congiungere la mappa politica del territorio e quella sacra, onorando gli antenati del seggio presso il luogo che ne ospiterebbe le sepolture. La portata simbolica di questo atto consiste principalmente nel mettere in scena uno schema che riproduce i caratteri distintivi dell’Apatwa (o Akpazo), cerimonia generalmente svolta nel martedì del festival, giorno dedicato all’offerta di cibo rituale (afᴐtᴐ, composto di igname o platano, uova e olio di palma) e bevande agli antenati, tanto nelle case dei diversi capofamiglia del villaggio quanto presso l’ahenfie23. Al forte verrebbe così replicata la pratica svolta presso il palazzo reale, dove viene asperso l’afᴐtᴐ e versata una libagione all’interno della stanza che contiene i seggi appartenuti ai predecessori del capo in carica, così da garantire il benessere e la prosperità di tutto lo stato (maanle, o ᴐman, comunità politica).

23 La cerimonia del mercoledì era appunto definita “Apatwa at Axim fort” e prevedeva la partecipazione di tutti i capi sottoposti, come si può leggere nei pamphlet che descrivono il programma completo del festival di Nsein così come si svolgeva alcuni anni fa (v. NTC 1/16, Kundum festival, Vol. I, 1972-2000). 128

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Si tratta di un momento chiave nell’economia del Kundum in cui, similmente ad altri festival del mondo akan analizzati dalla letteratura antropologica e storiografica (v. Rattray [1923] 1969: 92 e segg.; Gilbert 1994; McCaskie 1995: 144 e segg.), viene rinnovata la relazione tra vivi, morti e non ancora nati. In questo senso la presenza degli antenati nella topografia politico-sacrale del festival è una condizione indispensabile a riaffermare la continuità storica del seggio, del lignaggio reale che lo occupa e dell’intero maanle. La mappa così disegnata acquisisce a sua volta la potenzialità di riscrivere la storia dell’area, esprimendo attraverso la rielaborazione dello spazio storico presunte capacità giurisdizionali odierne. Gli esponenti del seggio di Lower Axim non sono tuttavia inclini a reputare la libagione una “tradizione condotta da tempo immemore” non soltanto perché giudicata un’innovazione apportata da Agyefi Kwame II e dedicata a soggetti che non furono i legittimi regnanti di Axim, ma anche in considerazione del fatto che la pratica si svolgerebbe piuttosto presso la sepoltura di un bianco: come più volte sottolineato nel corso dei dibattimenti, una tomba ancora visibile nel cortile del forte ospita infatti il corpo di un governatore olandese deceduto nel 1657. L’errore risiederebbe perciò non soltanto nell’identificare il gruppo di Kwamina Appree come quello intitolato al governo dell’area, ma anche nel ritenere che questi possa essere stato seppellito in un luogo riservato piuttosto agli Europei. Contestare che il forte rappresenti il sito delle

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sepolture degli antenati, situandovi unicamente quelle europee, significa sbarazzare il campo da una buona parte delle pretese giurisdizionali inscritte nella performance, negando che dalle fondamenta dell’edificio derivino i diritti “rituali” di Nsein e svuotandoli del loro contenuto di legittimazione politica. Conclusioni: storia e performance La lite tra Lower Axim e Nsein, di cui ho voluto mettere in evidenza soltanto alcuni momenti cruciali, rappresenta il contesto all’interno del quale si colloca la trasformazione delle pratiche del festival in questa porzione della regione all’incrocio tra le aree ahanta e nzema. L’insieme delle rivendicazioni espresse nell’ambito della disputa permette inoltre di intuire il rapporto tra le conflittuali rappresentazioni del passato che è possibile leggere nelle sue maglie e la costruzione dello spazio rituale. L’asserito diritto di Nsein a compiere la libagione all’interno del forte S. Antonio – giudicata dalla controparte una mera innovazione, tutt’altro che “tradizionale” – ha costituito uno dei nodi più sensibili della contrapposizione, partecipando alla costruzione di un preciso orizzonte storico, retorico e performativo con notevoli implicazioni di carattere giurisdizionale. Recandosi al forte durante le celebrazioni del Kundum, l’ᴐmanhene di Nsein avrebbe l’occasione di dichiarare la posizione occupata dai propri antenati nello scacchiere politico locale e quindi la primazia del seggio nel governo dell’area. Il percorso tracciato dalla sua parata nella 130

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portantina – a partire da quello che viene considerato il palazzo reale dei predecessori di Agyefi Kwame II presso Ntweakro – esibirebbe inoltre l’estensione delle competenze territoriali di Nsein, inverandone la presunta dimensione storica. L’affermazione di un simile scenario, o al contrario la sua confutazione da parte del seguito di Lower Axim, sono state perseguite sia attraverso forme di competizione espresse nell’ambito della performance (canti, danza nella portantina, scontri nel corso delle celebrazioni), sia tentando di avvalorare la posizione dei due seggi nelle aule dei tribunali ordinari e tradizionali. Il Kundum stesso è così diventato materia di procedimenti giudiziari, frequenti nei casi di contestazione dei confini della giurisdizione dei seggi, e al contempo ha rappresentato un sito privilegiato del confronto dando luogo a una peculiare “ritualizzazione della storia”24 nelle forme conflittuali promosse dai soggetti coinvolti. La scena rituale si presenta più in generale come luogo di negoziazione del peso relativo di diverse componenti del maanle, ad esempio capi e capitani, dinamica che occupa un posto centrale nei tentavi di definizione delle relazioni di potere e nelle ricostruzioni storiche delle due parti. Questo insieme complesso di luoghi dal forte carico simbolico, di storie riscritte, inscenate o contestate e di conflitti giurisdizionali di lunga durata costituisce in 24 Per una trattazione dei processi di ritualizzazione della memoria storica in un contesto caratterizzato da una spiccata competizione giurisdizionale si veda l’interessante caso analizzato da Palumbo (2013). 131

definitiva il contenuto che affiora dall’apparente fissità dell’attuale sequenza rituale del Kundum di Axim e Nsein.

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Le retoriche del potere e della storia nella grande lite sul seggio dello Nzema unitario1 Stefano Maltese Poteri L’attuale configurazione politico-territoriale dell’area nzema2 è frutto di processi storici di lungo corso, che hanno avuto come protagoniste le popolazioni indigene e le cangianti espressioni del potere politico e commerciale europeo. Benché la formalizzazione di un assetto propriamente coloniale sia avvenuta solo nel tardo Ottocento a opera degli Inglesi, la porzione di territorio che coincide con le coste dell’attuale Ghana è stata il crocevia di attraversamenti e traffici sin dal tardo Quattrocento; da allora Portoghesi, Olandesi, Inglesi, Francesi, 1 Il presente saggio condensa alcuni esiti della ricerca dottorale svolta in Ghana tra il 2011 e il 2014, e costituisce una rielaborazione del capitolo 4 della tesi che ne è scaturita (Maltese 2016), cui rimando per ulteriori approfondimenti. 2 L’area nzema, situata nel settore sudoccidentale del Ghana, è delimitata dai bassi corsi dei fiumi Tano a ovest e Ankobra a est. È amministrativamente divisa in due distretti, Jomoro ed Ellembele, i cui territori coincidono con le Traditional Areas di Western ed Eastern Nzema rispettivamente, sottoposte alla giurisdizione di due paramount chief. Questo assetto sottende la compresenza di due diverse tipologie di autorità, i cui complessi rapporti sono costituzionalmente regolati: quella statale, consolidatasi in epoca postcoloniale, e quella tradizionale (chieftaincy), espressione contemporanea dei poteri che reggevano le entità politico-militari precoloniali. 137

Brandeburghesi, Danesi e Svedesi hanno imperversato nell’area dapprima stabilendo rapporti informali con le popolazioni locali, quindi negoziando forme di controllo del territorio e delle rotte mercantili grazie alla realizzazione di avamposti fortificati e alla stipulazione di alleanze con le élite politiche locali. In questa prospettiva, il consolidamento del protettorato britannico lungo la fascia costiera e la successiva creazione della Colonia della Costa d’Oro (1874) costituiscono gli esiti di una secolare storia di contatti, durante la quale i confini e i rapporti di vicinato tra le entità politico-militari indigene si sono adattivamente modificati anche in funzione di alleanze, programmi di espansione territoriale e di consolidamento di posizioni strategiche nell’ambito dei traffici dalla costa verso le aree interne e viceversa. In questo quadro lo Nzema non fa eccezione. Impostosi come importante centro politico nel corso del Settecento, il regno di Apollonia3 ha raggiunto nei primi decenni del secolo successivo l’apice della sua influenza nello scacchiere regionale sotto la guida del sovrano Kaku Aka, dai più riconosciuto come appartenente a un matrilignaggio del clan Nvavile4, che la tradizione 3 Sin dall’epoca precoloniale e fino ai primi del Novecento l’area nzema era conosciuta come Apollonia. La tradizione vuole che i Portoghesi giunsero presso le sue coste il 9 febbraio del 1471, giorno di S. Apollonia appunto, e che intitolarono alla santa il promontorio che per primo riuscirono a scorgere da mare. Per una ricostruzione storiografica delle vicende del regno di Apollonia si vedano i contributi di Baesjou (1998) e Valsecchi (1986; 1994; 1999; 2002; 2011). 4 La popolazione nzema è divisa in sette matriclan: Nvavile, Ntweafoᴐ, Adahonle, Alᴐnwᴐba; Azanwule, Ezohile, Mafolɛ. Ciascuno di essi 138

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vuole fondatore dello stato nzema. Una posizione, questa, guadagnata “sul campo” grazie ad aggressive campagne militari contro le popolazioni confinanti e a una riottosa opposizione alle mire espansionistiche inglesi. Alcuni contributi storiografici sull’area (Valsecchi 1986, 2002, 2011, 2016) hanno evidenziato come l’espansione coloniale in questi territori sia stata profondamente influenzata dai patti di mutuo appoggio contratti dai funzionari coloniali e dalle élite locali, mostrando al contempo come le rivalità politiche interne e le fratture nelle gerarchie di potere indigene abbiano spesso innescato offensive mirate a detronizzare i sovrani più refrattari all’accettazione di accordi commerciali o politici tra le due parti. Ciò era accaduto già nel 1838 con la deposizione di Baido Bonso I, re dell’Ahanta; e accadde nuovamente dieci anni dopo, con la rimozione di Kaku Aka a opera di un contingente guidato dal comandante George Maclean e appoggiato da truppe provenienti dalle aree limitrofe, interessate a indebolire il regno costiero di Apollonia per agevolare l’apertura di vie mercantili verso l’interno. La caduta di Kaku Aka ebbe conseguenze laceranti per l’assetto politico locale dello Nzema di metà Ottocento. Valsecchi (2016) rileva come essa sancì primariamente il tramonto di una struttura di potere che aveva potuto prosperare fino ad allora grazie a un rapporto privilegiato è segmentato in un numero di matrilignaggi variamente distribuiti sul territorio. L’appartenenza al clan e l’ereditarietà all’interno del matrilignaggio sono governate da un sistema di discendenza matrilineare (Pavanello 1995; 2000: cap. 4; 2007: capp. 4 e 5). 139

con le comunità ashanti dell’interno e soprattutto a vincoli di dipendenza rispetto al re e alla sua corte tanto stringenti da configurare uno scenario socio-politico di grande solidità. Tale crisi, oltre ad allargare la sfera di influenza inglese e a indebolire l’ultimo potente impero costiero che si frapponeva alla realizzazione di una politica imperiale, condusse giocoforza all’affermazione di nuovi gruppi di potere, finalmente liberi di esprimere una progettualità politica svincolata dal giogo della deposta dinastia reale. Corollario dello sfaldamento dell’ordine politico sostenuto da Kaku Aka fu la più tarda scissione del regno unitario in due entità politiche indipendenti, i regni di Western e Eastern Apollonia, la cui guida venne assunta con il benestare degli inglesi da due ex capitani del sovrano. Per un breve periodo, Apollonia venne retta nella sua interezza da Ebanyenle, che le tradizioni orali raccolte da Ackah (1965) e in tempi più recenti anche da chi scrive qualificano alternativamente come membro del clan Ntweafoᴐ o Adahonle. Questi, costretto dalle vessazioni patite sotto il regno di Kaku Aka a nascondersi nell’area di Dixcove, si offrì di affiancare le truppe di Maclean mettendo al loro servizio la sua conoscenza delle aree di foresta presso cui Kaku Aka aveva trovato riparo durante l’offensiva. Dopo pochi anni Ebanyenle avrebbe deciso di affidare il governo della porzione occidentale del regno a un altro ex capitano di Kaku Aka, Amakyi, mantenendo per sé il controllo dei soli territori orientali: si concretizzò così, con il decisivo appoggio degli Inglesi, la scissione amministrativa del regno in due tronconi. 140

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Nella seconda metà del XIX secolo si andò dunque definendo nello Nzema un nuovo sistema politico; finita l’epoca dei grandi re cominciava quella di oligarchie vieppiù impegnate nella negoziazione dei loro poteri con la potenza inglese. Nel breve volgere di pochi lustri questo ordine sarebbe stato tuttavia messo alla prova da una sanguinosa guerra civile, scatenata nel 1868 dalle rivendicazioni di Avo – succeduto al seggio reale di Ebanyenle nell’Eastern Apollonia – sui territori del regno occidentale (Ackah 1965: cap. 3). La deposizione di Kaku Aka e le successive vicende della guerra civile costituiscono un referente di grande potenza simbolica del discorso storico nello Nzema contemporaneo. I chief Ntweafoᴐ che siedono oggi sui paramount stool5 di Eastern e Western Nzema individuano in quelle circostanze le condizioni necessarie e sufficienti a giustificare l’instaurazione di un nuovo ordine. D’altra parte non manca chi, dichiarandosi erede legittimo dell’antica dinastia Nvavile di Kaku Aka, parteggia per la restaurazione dell’antico assetto e per la riunificazione dei due regni in un’unica entità politico-territoriale. Sin dai primi anni del secolo scorso gli Nvavile stanziati tra Atuabo e Awiaso6, mal digerendo la destituzione del loro clan dal 5 Lo stool – un seggio ligneo finemente decorato – è uno dei simboli della regalità akan. Nel linguaggio giuridico ghanese la parola stool indica anche il territorio su cui si esercita la giurisdizione di un chief. 6 Atuabo è la capitale tradizionale dell’Eastern Nzema Traditional Area; nella stessa area si trova il piccolo villaggio di Awiaso, che molte tradizioni identificano come il luogo in cui avrebbe riparato la diaspora del lignaggio reale Nvavile dopo la caduta di Kaku Aka. 141

vertice del potere consuetudinario, hanno cominciato a contestare la legittimità dei chief intronizzati in luogo di Kaku Aka, rivendicando l’antica primazia nell’area. Così facendo hanno dato avvio a un magmatico processo di history-making, traghettandolo nel nuovo millennio all’interno di una contesa giudiziale che mette in scena diverse versioni dalla storia, le manipola e le attualizza mediante il ricorso a fonti eterogenee7. In altri termini, gli Nvavile hanno dato corpo e rilevanza pubblica alle rivendicazioni connesse con la loro antica sovranità istituzionalizzando il conflitto politico sulla storia all’interno di una vera e propria lite, ossia quel dispositivo giuridico entro cui i chief negoziano la loro collocazione all’interno della gerarchia tradizionale, risolvono le controversie relative al controllo della terra e ribadiscono le loro prerogative sacrali e secolari mediante la performance retorica della storia ancestrale (Pavanello 2000). Antenati La lite sul seggio di Apollonia si articola primariamente attorno alla controversa personalità di Kaku Aka, alla sua appartenenza clanica e alle tradizioni relative alla

7 Tra queste figurano i resoconti dei funzionari inglesi, i documenti di epoca precoloniale e coloniale presenti negli archivi nazionali, la produzione di intellettuali locali e non ultime le tradizioni orali, costantemente impegnate a rievocare scenari ancestrali, ridisegnare confini politici, sacri e geografici, rafforzare o viceversa contestare gli assetti di potere consolidatisi nel tempo. 142

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composizione della sua eventuale linea di discendenza. Rispetto al primo punto, le fonti storiche ci restituiscono un’immagine piuttosto inquietante di Kaku Aka. Cruickshank (1853: 197-205) lo dipinge come un tiranno dispotico e sanguinario, odiato dai sudditi per il carattere violento. Il Secretary for Native Affairs della colonia Francis Crowther addita il re come il mandante di spedizioni nei confronti dei villaggi costieri della zona di Axim mirate alla cattura di individui destinati a essere sacrificati per scopi rituali8. Altri autorevoli contributi hanno dato risonanza e spessore a queste narrative, ora inscrivendone l’analisi nelle pratiche e nelle credenze locali (Nana Annor Adjaye 1931: 10-15), ora enfatizzando retoricamente gli sforzi compiuti dagli Inglesi per instaurare forme di governo pacifiche nell’area (Metcalfe 1962, 1965). Man mano che la riflessione sul regno di Kaku Aka si è arricchita anche dei contributi di studiosi locali si è spogliata delle valenze etnocentriche tipiche delle scritture dei funzionari europei, divenendo centrale nella costruzione delle rivendicazioni degli Nvavile. L’attenzione è passata così dalla brutalità dei metodi di governo del re a quella che lo storico locale James Y. Ackah ha definito la sua “attitudine verso l’imperialismo” britannico (1965: 118123), improntata al sistematico boicottaggio delle politiche inglesi e al monopolio dei traffici commerciali nell’area. Insieme ad Ackah – i cui contributi sono ampiamente

8 Public Records and Archives Administration Department (PRAAD), ADM 11/1/1767, Report on Native Affairs of Appolonia, 1914. 143

diffusi e dibattuti tra i capi tradizionali nzema – anche Alibah (2005) e Valsecchi (2016) sono propensi a sostenere che i reali motivi della destituzione del re non siano da rintracciare tanto nell’afflato umanitario dei funzionari coloniali, quanto proprio nella sua scarsa inclinazione a cedere quote di sovranità politica e commerciale. I sostenitori contemporanei della causa Nvavile non hanno tardato a valorizzare questo scenario, riqualificando il tiranno – lo vedremo a breve – come strenuo difensore della sua gente dalle ingerenze della potenza coloniale inglese. Su un piano certamente più sostanziale, le proposizioni delle parti in causa si sono appuntate sin dai primordi della lite sulla reale appartenenza di Kaku Aka a un matrilignaggio Nvavile, nonché sull’eventualità che qualche membro della sua famiglia sia sopravvissuto all’epurazione seguita alla spedizione in forze del 1848. Nonostante il senso comune lo qualifichi come elemento terminale della linea dinastica Nvavile degli antichi fondatori dello stato Nzema, alcune fonti riportano tradizioni che mettono in discussione questo assunto, rendendo assai incerto l’inquadramento della sua figura storica. La ricognizione più dettagliata su questi temi è a tutt’oggi quella operata da Ackah (1965), che mettendo insieme record d’archivio, fonti storiche e tradizioni orali da lui raccolte ha documentato ben sei possibili configurazioni del gruppo famigliare di Kaku Aka. Di esse, almeno cinque riportano l’esistenza di una o più sorelle germane, ammettendo in linea teorica la possibilità che parte della discendenza uterina da queste generata 144

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possa aver continuato la dinastia reale. Il già citato Report di Crowther, che di fatto costituisce la pietra angolare di tutto lo svolgimento novecentesco della lite, sembra tuttavia non ammettere questa eventualità, riferendo di una tradizione che vorrebbe morte tutte le sorelle e tutti i nipoti uterini del re negli anni immediatamente successivi alla sua cattura. Il funzionario lasciò infatti ben poco spazio alla speranza di un ritorno degli Nvavile sulla scena: «The ancient stools were taken and probably destroyed. Hence the old line of Apollonian chiefs became extinct». Nondimeno, ancora Ackah (1965) e Alibah (2005) accennano a dei racconti che vedrebbero l’intera famiglia di Kaku Aka dispersa o suicidatasi all’indomani della sua cattura per timore di ritorsioni da parti dei sudditi vessati dal tiranno. In mancanza di ulteriori riscontri, queste testimonianze sembrerebbero dunque escludere ogni possibilità che la dinastia reale Nvavile sia sopravvissuta al suo ultimo rappresentante: mancando le donne del lignaggio, verrebbero meno i vettori attraverso cui questo si popola di individui maschi dello stesso matriclan adatti a succedere allo zio materno nel ruolo di chief. Eppure alcune fonti d’archivio – evidentemente precipitate in narrazioni sulla storia che io stesso ho avuto modo di raccogliere dai miei interlocutori Nvavile ad Awiaso – sembrano suggerire che la dinastia reale degli Nvavile non si sia esaurita con Kaku Aka. Essa potrebbe essersi perpetuata anche dopo la sua morte attraverso la cooptazione per via matrimoniale di linee servili all’interno

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del lignaggio9. Alcune tradizioni sembrerebbero addirittura dimostrare che questo stesso meccanismo sia stato alla base dell’intronizzazione di Kaku Aka, il quale non sarebbe appartenuto al lignaggio reale ma a una linea spuria, pur all’interno dello stesso matriclan. Questa versione della storia è contenuta nel documento che segna l’avvio giudiziario della disputa sulla successione al seggio di Apollonia: una petizione inviata nel 1924 dagli Nvavile del sedicente lignaggio reale al Secretary for Native Affairs del governo coloniale per sottoporre alla sua attenzione la questione dell’occupazione dello stool di Atuabo da parte di una linea illegittima Ntweafoᴐ10. In questo documento gli estensori, facendo appello alla memoria genealogica conservata dagli anziani del lignaggio, individuano in Amihere Kpanyinli l’antenato fondatore del regno, ovvero il primo re stabilitosi nell’area. Alla sua morte, il comando sarebbe passato prima al fratello mezzano, Annor Assima11, quindi al fratello minore, Annor Blay. Questi avrebbe acquistato e sposato una schiava di nome Efie Neka, dalla quale avrebbe avuto durante il suo regno numerosi figli: Annor Blay Aka, Annor Bromann, 9 Contrariamente a quanto avviene nei matrimoni tra linee paritarie e libere, dove l’identità clanica viene trasmessa per via uterina, tale pratica produce infatti la nascita di figli appartenenti allo stesso clan del padre. 10 PRAAD, ADM 11/1/81, Petition, 1924. 11 Di questa controversa figura, contesa tra il dominio dello storico e quello del leggendario, ha trattato diffusamente Perrot in rilevanti contributi (1974; 1982: 40-50). 146

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Amihere Kpanyinli II, Bua Kpanyinli e infine Bozoma Kokole, l’unica donna del gruppo. Alla morte di Annor Blay i tre figli maschi maggiori si avvicendarono sul seggio, mentre la figlia Bozoma sposò un tale Yanzu, dal quale ebbe tre figli: Kwasi, Ezua Ekyi e Yanzu Aka. In qualità di nipoti uterini di Annor Blay Aka e dei suoi fratelli, anche Kwasi e Ezua Ekyi occuparono lo stool dopo la morte di Amihere Kpanyinli II, in ordine di seniorità. Dal documento non emerge con chiarezza se Yanzu Aka sia succeduto a Ezua Ekyi, ma c’è da dire che la quasi totalità delle altre fonti scritte e orali cui ho avuto accesso sono concordi nel collocare questi sul seggio proprio tra Ezua Ekyi e Kaku Aka. I produttori della petizione qualificano Kaku Aka come figlio di un tale Kaku Ekyi e di una schiava chiamata Amanzule Hale, di proprietà di Yamike Ehinnya, un “royal nephew” di Annor Blay. Si evince dunque che Kaku Aka non fosse nipote uterino degli ultimi re saliti al trono nella generazione precedente, ma figlio di una schiava cooptata nel lignaggio reale, la qual cosa da sola sarebbe comunque bastata ad accreditarlo come candidato allo stool del regno in assenza di eredi più titolati12. Sono state documentate tuttavia delle tradizioni 12 Alibah (2005: 85-86) enumera un esiguo numero di fonti d’archivio in cui sembrerebbe essere accreditata l’ipotesi di una discendenza matrilineare tra Yanzu Aka e Kaku Aka, in virtù della quale il seggio sarebbe passato dal primo al secondo senza impedimenti di sorta. La stessa posizione è espressa da Kwesi (2005: 12), fervente sostenitore della causa Nvavile. Tanto Alibah che Ackah fanno poi riferimento a un’interessante testimonianza di Charles Gordon (1874: 66) – medico al servizio della Corona Britannica durante la spedizione del 1848 contro il re di Apollonia – il quale afferma che questi, figlio di Yanzu Aka, sia succeduto al padre 147

alternative, che mettono in discussione questi aspetti e addirittura prefigurano la possibilità che Kaku Aka non fosse Nvavile. Sanderson (1925: 96-97) rende conto di una tradizione orale che individua in Kaku Aka l’ultimo in ordine cronologico di una serie di re Ntweafoᴐ avvicendatisi sul seggio di Atuabo dopo aver rinnegato le loro origini Nvavile. A questa versione della storia è legato l’aneddoto, riportato anche da Ackah (1965: 76, 2012: 27), che descrive gli Nvavile del lignaggio reale, incapaci di affrontare l’onta derivante dalla negazione del loro antico diritto sull’area, estinguersi volontariamente facendosi seppellire vivi all’interno di un profondo pozzo scavato alle porte di Atuabo, nell’area conosciuta oggi come Mowazo; o quello ancora più cruento – ma del tutto equivalente dal punto di vista simbolico – che vede lo stesso Kaku Aka impegnato nello sterminio mediante seppellimento di tutti gli Nvavile che contestavano il suo potere. Pur volendo sorvolare sulle possibili origini servili di Kaku Aka – che gli stessi autori della petizione del 1924 non sembrano considerare in contraddizione con la rivendicazione dell’antica primazia nell’area – rimane il fatto che il re emerge da tutte queste fonti come l’anello ultimo di una fumosa catena di avvicendamenti di lignaggi o addirittura di clan alla guida del regno, che peraltro trova riscontro nella spiccata variabilità delle fonti orali contemporanee su questi temi. Non è forse un caso, in questa prospettiva, che nello Nzema sia ampiamente subito dopo la sua morte con un colpo di mano. 148

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diffusa una leggenda su Kaku Aka; chi scrive l’ha potuta udire dalle parole di Amihere Kpanyinli III, paramount chief in carica dell’Eastern Nzema Traditional Area. Essa narra che il piccolo Kaku, ancora in fasce, un giorno fosse stato affidato dai genitori alla custodia della sorella maggiore Ebasokwa, affinché se ne prendesse cura mentre loro si occupavano del lavoro nei campi. Mentre Kaku ed Ebasokwa erano distesi all’ombra di un grande albero, un essere soprannaturale di dimensioni gigantesche sarebbe apparso d’improvviso dalla foresta per sottrarre Kaku alle cure della sorella e sostituirlo con un altro bambino, che alcune versioni della storia descrivono decisamente mostruoso nelle fattezze e insolitamente aggressivo negli atteggiamenti. Alibah (2005) ipotizza che questo racconto costituisca una sorta di allegoria del burrascoso temperamento e della leggendaria forza fisica del personaggio; è però significativo che a me sia stato riferito nel quadro di una conversazione che esplorava le tante incognite che gravano sull’identità dell’ultimo re dello Nzema unitario. Retoriche della storia Gli elementi sin qui presentati concorrono a delineare la cornice retorica entro cui la grande lite sul seggio di Apollonia è emersa come terreno preferenziale del confronto politico sulla storia ancestrale. In tempi recenti, tuttavia, la disputa si è imposta anche come oggetto di attenzione pubblica a seguito del tentativo da parte degli Nvavile di procedere in maniera unilaterale all’installazione 149

di un nuovo re dello Nzema unitario, in aperto contrasto con la gerarchia tradizionale al potere13. Non possono essere descritte in questa sedele vicende giudiziarie che hanno accompagnato tale impresa, né discuterne nel dettaglio le fasi e gli esiti; ci si può limitare perciò a presentare le retoriche della storia locale messe in campo dai protagonisti contemporanei della lite, per evidenziare come nella sua cornice siano continuamente all’opera pratiche di manipolazione e costruzione del passato in cui fonti scritte e orali interagiscono fino a delineare orizzonti storici alternativi e fornire alle parti in causa nuove opzioni discorsive per agire nell’agone politico. Come abbiamo visto, le fonti storiche lasciano in dubbio la collocazione genealogica di Kaku Aka nello scacchiere della dinastia Nvavile al potere prima della scissione del regno. Su questo elemento le tradizioni orali raccolte da chi scrive14 imbastiscono architetture alternative, ora 13 Joseph Nwia Ackah è stato intronizzato con lo stool name di Kaku Aka II nel 2005. La sua elezione al seggio di Nzemahene, re dello Nzema, è stata sostenuta – in maniera più o meno esplicita a seconda della convenienza politica – da un’alleanza trasversale di king-maker formata da chief e altri individui titolari di cariche tradizionali in aperto dissidio con i paramount chief Ntweafoᴐ al potere. Alla sua morte, avvenuta nel 2014, un nuovo Kaku Aka, il terzo, è stato individuato nella persona di Isaac Ettie Amihere. 14 Le retoriche della storia locale che agiscono nella cornice della lite tra gli Nvavile e gli attuali paramount chief Ntweafoᴐ di Eastern e Western Nzema sono state l’oggetto principale della mia ricerca dottorale. Tra il 2011 e il 2014 ho trascorso circa quattordici mesi sul campo, raccogliendo le testimonianze degli attori coinvolti nella lite e di una quantità di interlocutori – titolari di cariche tradizionali e non – latori di peculiari visioni della storia nzema. Nello stesso periodo ho reperito e analizzato una buona parte della documentazione relativa alla lite disponibile presso 150

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fondate sulla legittimazione derivante da una discendenza matrilineare diretta, ora su quella scaturita dal passaggio della carica di re dai padri ai figli in assenza di eredi più adatti. Allo stesso tempo, tali testimonianze mirano a riabilitare la memoria di Kaku Aka attraverso l’iscrizione della sua figura in un orizzonte proto-nazionale caratterizzato dalla più ferrea opposizione alla potenza coloniale inglese. Paul Ainlimah e Daniel Asmah, esponenti anziani e autorevoli del lignaggio Nvavile che oggi rivendica il governo dello Nzema, hanno ripetutamente sostenuto durante i nostri incontri che Yanzu Aka fosse lo zio materno di Kaku Aka, e quindi che il passaggio della carica dal primo al secondo sia pienamente rientrata all’interno delle regole dell’ereditarietà in regime di matrilinearità. Nell’identificare la cifra caratteristica del regno di Kaku Aka, gli interlocutori hanno strategicamente glissato sugli aspetti più truci della sua personalità, sottolineando invece come il re abbia agito per la crescita e l’indipendenza del regno. In maniera simile George B. Kwesi, in qualità di “segretario” del gruppo dei king-makers che avrebbe gli archivi regionali e nazionali (PRAAD – Public Records and Archives Administration Department, sedi di Sekondi e Accra), nonché presso gli archivi dei Traditional Council di Eastern e Western Nzema. Questi ultimi, insieme agli archivi delle aree tradizionali nzema-evaloe di Upper e Lower Axim, Apateim e Nsein, sono stati oggetto di due progetti di conservazione e digitalizzazione finanziati dall’Arcadia Foundation nel quadro dell’Endangered Archives Programme della British Library, che ho coordinato tra il 2011 e il 2016 in collaborazione con Samuel Nobah, direttore e curatore del Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History (Maltese 2017, in pubblicazione). 151

unilateralmente intronizzato il successore dell’antico re Nvavile nel 2005, ha più volte sottolineato come Kaku Aka si sia distinto dagli altri sovrani a lui coevi per aver evitato che i suoi sudditi venissero deportati come schiavi nella tratta atlantica e al contempo per aver ostacolato l’espansione degli Ashanti verso sud e l’ingerenza degli Inglesi negli affari del regno. Ciascuna di queste argomentazioni, pur rimandando a visioni e narrative piuttosto interne al gioco politico locale, pone in realtà lo Nzema al centro dell’intricata rete di relazioni tra impero Asante e governatorato britannico che ampio spazio ha trovato anche nella letteratura storiografica sull’area. Valsecchi (1986) ha messo in luce come negli anni del regno di Kaku Aka l’area fosse effettivamente teatro di un acceso confronto tra poteri politico-militari – quello ashanti e quello inglese appunto – ugualmente impegnati in programmi di espansione sulla fascia costiera. Egli rileva tuttavia come l’attitudine delle due potenze nei confronti dello Nzema fosse sostanzialmente differente. Mentre per gli Inglesi l’atteggiamento riottoso di Kaku Aka costituiva un impedimento oggettivo al consolidamento della zona di influenza britannica, per l’Asante lo Nzema rappresentava un prezioso alleato, in quanto garantiva uno sbocco sicuro sulla costa per i traffici tra le comunità dell’entroterra e i commercianti europei. Alla luce di ciò, l’ipotesi che Kaku Aka si sia opposto con fermezza alla sottomissione del regno alla potenza europea appare più che plausibile, soprattutto considerando che il 152

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re nzema rifiutò di ratificare il Trattato del 184415 con cui gli Inglesi formalizzarono la loro influenza sull’area fante (nell’odierna Central Region) e su una serie di altri stati più a occidente, aprendo di fatto la via alla creazione di un Protettorato lungo la fascia litoranea. Meno convincente sul piano storiografico, ma non per questo meno rilevante sul piano retorico e simbolico, appare invece l’ipotesi secondo cui la mancata firma del Bond da parte di Kaku Aka trovi riscontro nella sua volontà di perseguire l’autodeterminazione politica ed economica del regno attraverso il boicottaggio del commercio degli schiavi nell’area. Rispetto a questo punto, c’è infatti da rilevare che nel 1844 l’Impero Britannico aveva già da tempo abolito la tratta (Abolition of the Slave Trade Act, 1807) e la schiavitù (Slavery Abolition Act, 1833) nei territori sotto la sua giurisdizione; e che l’analisi storiografica del contesto restituisce l’immagine di uno Nzema tutt’altro che defilato nella determinazione degli equilibri geopolitici del tempo16. Al di là delle asincronie e delle aporie tra le narrazioni proposte dagli Nvavile e la storiografia “ufficiale”, è utile sottolineare il modo in cui i

15 Sui caratteri e la rilevanza storica del Bond del 1844 si vedano tra gli altri i contributi di Sarbah (1904) e Danquah (1957). 16 Valsecchi (1986) mostra come le imprese belliche di Kaku Aka siano risultate decisive nell’incanalare i traffici da e per l’Asante su certe rotte commerciali piuttosto che altre, e come esse siano state in certa misura tollerate dagli stessi Inglesi, in quanto sul fronte occidentale avevano contribuito al sistematico sabotaggio dei traffici dei concorrenti francesi stabiliti ad Assini. 153

miei interlocutori hanno dato prova di saper connettere conoscenze e memorie largamente condivise17 con l’evocazione di elementi indubbiamente efficaci dal punto di vista retorico, allo scopo di individuare nel loro ultimo re l’archetipico profilo dell’“eroe nazionale” impegnato nella costruzione di un’entità politica, economica e militare autonoma da ingerenze esterne. La netta opposizione alla potenza coloniale inglese risulta essere, in questo quadro, l’elemento centrale di una strategia discorsiva atta a delegittimare il nuovo ordine politico seguito alla deposizione di Kaku Aka; quell’ordine che si sarebbe instaurato – nella visione degli Nvavile – con l’ascesa ai seggi di Eastern e Western Apollonia di due capi Ntweafoᴐ grazie alla decisiva intromissione dei funzionari coloniali negli affari dell’antico regno unitario. Il discorso sulla storia diviene così mezzo per la contestazione dell’attuale architettura del potere tradizionale nell’area. Sul versante opposto, le retoriche promosse dai paramount chief attualmente al potere mirano a screditare la figura storica di Kaku Aka sottolineandone la brutalità, l’attitudine guerrafondaia e paventando perfino una sua origine non nzema. Laddove gli Nvavile sostengono la discendenza diretta di Kaku Aka da Yanzu Aka, gli Ntweafoᴐ tendono infatti oggi a privilegiare la versione

17 Nonostante i tanti interrogativi che circondano la sua figura, Kaku Aka è comunemente annoverato nel ristretto gruppo degli “eroi” che avrebbero reso grandi i regni costieri del Ghana Occidentale nel passato ancestrale. La sua figura è spesso accostata nei discorsi pubblici a quella di personaggi del tutto simili, come Kaku Kyina ad Axim e Baido Bonso I nell’Ahanta. 154

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che egli sia un “figlio” di Yanzu, e cioè che abbia ereditato il seggio in qualità di reggente temporaneo. Questa posizione mi è stata presentata tanto da Amihere Kpanyinli III che da Annor Adjaye III, quest’ultimo paramount chief della Western Nzema Traditional Area, ed è argomentata con abbondanza di dettagli in un dossier redatto nel 2007 dallo stesso Annor Adjaye e da Blay VIII (allora capo dell’Eastern Nzema) in risposta a una petizione prodotta nel 2006 dagli Nvavile per vedere riconosciuta l’intronizzazione di Kaku Aka II quale re legittimo di tutto lo Nzema18. In questo documento, l’asserzione degli Nvavile secondo cui il loro antenato Annor Blay – uno dei primi re Nvavile dello stato nzema – sarebbe migrato nella regione dal villaggio di Mpohor, nella più orientale regione Ahanta, viene presentata come la prova inconfutabile dell’estraneità del lignaggio di Kaku Aka al contesto nzema. Anche Armah Kanga, ex tufuhene19 di Beyin, ha sostenuto nei nostri incontri l’alloctonia del matrilignaggio del re Nvavile, indicandomene però l’origine nell’Aowin, a nord ovest dello Nzema. Paradossalmente, l’ipotesi dell’origine ahanta di Annor Blay è stata sostenuta dagli stessi Nvavile nel tentativo di conferire profondità storica e continuità 18 Response to petition of the so-called King Kaku Aka II and his Nvaville Matriclan of Awiaso near Aiyinase by the Eastern and Western Nzema Traditional Councils as by law established. 5th November 2007. La copia di questo documento mi è stata concessa da Annor Adjaye III. 19 Si tratta di un’antica carica militare preposta al comando delle difese cittadine e al mantenimento dell’ordine. Oggi il tufuhene rappresenta un importante consigliere del chief. 155

genealogica al loro lignaggio20; quella della provenienza della linea dall’Aowin mi è stata proposta invece solo dagli oppositori di Kaku Aka, e risulta attestata in un documento del 184421 che individua in Annor Assima, fratello maggiore di Annor Blay (al quale questi succede in tutte le liste dinastiche proposte dagli Nvavile), non già il re dello Nzema ma quello di Anwemoaya e quindi di Brissam, nell’Aowin appunto. Nel già citato dossier del 2007 gli estensori Ntweafoᴐ formulano altre considerazioni rilevanti in ordine alla possibile estraneità al contesto nzema dei predecessori di Kaku Aka. Riportando e mettendo a confronto le liste dinastiche proposte dagli Nvavile in tre diverse petizioni (quella già citata del 1924, una del 1945 e l’ultima del 200622) nell’iter giudiziario della lite, i paramount chief di Eastern e Western Nzema evidenziano come le genealogie fornite nelle due petizioni più recenti presentino l’inserzione di stool name a loro dire palesemente non nzema23. 20 PRAAD, WRG 24/1/559, 1935. 21 PRAAD, CO 872/19, Western Apollonia and Ashanti Relationships, 1844, pp. 282-286. 22 Nzema Chieftaincy Affairs: Petition for Regularization of the Paramountcy and the Official Re-Instatement of King Kaku Aka II as Overlord & King, 14th February 2006. La copia di questo documento mi è stata concessa da Annor Adjaye III. 23 Tra questi Alumorohin, Adumorrowa/Adamorawa, Asare, Essel e Andonya. 156

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Questo dato viene retoricamente presentato come la chiara dimostrazione del fatto che gli Nvavile non conoscono la storia dei loro antenati, e quindi non possono avanzare alcuna pretesa sul seggio dello Nzema: «[…] if these Petitioners were given the opportunity to submit a new/fresh list of Kings, different names are likely to emerge. […]. It seems preponderantly clear from these three lists that the Petitioners do not know their History and or know next to nothing about how their Ancestors came to usurp the Ancient Ntweafoᴐ Royal Stool of Nzemaland from the then reigning King, Kɛma Kpanyinly»24. Da questo breve passaggio emergono i due elementi decisivi della strategia retorica messa in campo dagli Ntweafoᴐ attualmente al potere: l’idea che il potere promani direttamente dalla conoscenza della storia ancestrale; e il riferimento alla figura di Kɛma Kpanyinli, il quale implica – come vedremo a breve – che gli Nvavile che oggi lamentano la sottrazione dello stool siano stati a loro volta usurpatori. Per chiarire dettagliatamente quali siano le retoriche dell’usurpazione alternativamente proposte da Nvavile e Ntweafoᴐ bisogna naturalmente volgere lo sguardo al tempo degli antenati, e precisamente ai canonici momenti della migrazione ancestrale e della fondazione della nuova entità politica Nzema. È opinione piuttosto diffusa – attestata tanto nelle fonti storiche quanto in quelle orali 24 Sic. Si noti che in questo brano l’ortografia del termine Kpanyinli (lett.: grande; per estensione: anziano, venerabile) non è corretta. Response to petition of the so-called King Kaku Aka II and his Nvaville Matriclan…, p. 15. 157

che personalmente raccolte – che la fondazione del regno nzema sia stata opera di individui del clan Nvavile; ciò è senz’altro vero tra le fila di quanti vorrebbero restaurato l’ordine politico in essere durante il regno di Kaku Aka, ma non è affatto raro che anche gli Ntweafoᴐ e autorevoli esponenti di altri matriclan concordino su questa visione della storia. Nei racconti degli Nvavile spiccano su tutti i nomi di Amihere Kpanyinli e Annor Blay, chiamati in causa dagli interlocutori ogni qualvolta fosse necessario rimandare agli snodi fondamentali della storia locale. Il primo compare nelle tradizioni orali come guida della migrazione ancestrale che avrebbe condotto gruppi umani dalle sponde dell’alto corso del Nilo25 fino alle coste dell’attuale Ghana in un passato piuttosto remoto (Sanderson 1925: 95-96; Kwesi 2005: 13). Ad Annor Blay è invece riconosciuto il merito di aver fondato il regno nella prima metà del XVIII secolo, avviando l’unificazione degli antichi stati di Jomoro (l’attuale Western Nzema Traditional Area), Abripiquiem (l’Eastern Nzema) e le aree intorno al basso corso del fiume Ankobra (Ackah 2012). In alcune tradizioni degli Ntweafoᴐ documentate da Ackah (1965: App. 1, 2, 3 e 5) il ruolo di guida della migrazione ancestrale dal nord alle zone lagunari prospicienti la costa è tuttavia assegnato a Kɛma Kpanyinli, che peraltro viene individuato come predecessore di Annor Blay (Valsecchi 25 Nei secoli XVIII e XIX il fiume Niger era considerato un ramo del Nilo. Questa tradizione non è dunque in contrasto con quelle che individuano le origini delle popolazioni akan nell’antico regno del Ghana. 158

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2002: 251). I rappresentanti del matriclan che attualmente governa le due aree tradizionali Nzema sostengono infatti che Annor Blay sia arrivato nello Nzema a seguito di poderose ondate migratorie dall’Aowin proprio sotto il regno di Kɛma, il quale avrebbe suggellato l’alleanza con il nuovo arrivato e il suo gruppo concedendogli in sposa una sua sorella di nome Adwo Manza26. A questo punto della storia si verifica la biforcazione che determinerebbe la generazione di linee di discendenza diverse. Le tradizioni Nvavile riportano che Annor Blay, stabilitosi nell’area, prese in sposa una schiava di nome Efie Neka e da questa ebbe quattro figli e una figlia: Annor Blay Aka, Annor Bromann, Amihere Kpanyinli II, Bua Kpanyinli e Bozoma Kokole. Tutti questi, in virtù della condizione di schiava della madre, sarebbero appartenuti al clan del padre e avrebbero costituito quindi discendenza utile alla replicazione di una linea dinastica Nvavile. Gli Ntweafoᴐ sostengono invece, come abbiamo visto, che la madre di questi cinque figli non sia la schiava Efie Neka, ma proprio Adwo Manza. Se questo fosse il caso i figli generati dall’unione di Adwo e Annor Blay apparterrebbero al lignaggio reale di Kɛma Kpanyinli, e quindi garantirebbero la continuità della sua linea dinastica. La narrazione degli Ntweafoᴐ attribuisce dunque a Kɛma Kpanyinli il merito di aver cooptato popolazioni non indigene nel regno, favorendo così la sua crescita

26 Response to petition of the so-called King Kaku Aka II and his Nvaville Matriclan…, pp. 21-24. 159

demografica, economica e militare. Tuttavia, essa qualifica la graduale assunzione di potere di Annor Blay – realizzata dapprima attraverso l’alleanza matrimoniale e poi con vere e proprie azioni militari – come l’odioso tradimento da parte di un usurpatore alieno al contesto. Ackah (2012: 29) non esclude che Kɛma possa aver ricoperto una qualche posizione di comando, ma sottolineando come gli Nvavile non lo includono mai nelle loro liste dinastiche sembra implicitamente sostenere che la reale identità clanica degli antenati fondatori non fosse certa già nel passato più remoto, prima cioè del regno di Annor Blay. Rimuovendo Kɛma Kpanyinli dalle loro liste dinastiche, gli Nvavile farebbero fronte a questa indeterminatezza cercando di delineare un percorso di discendenza uterina lineare in tutte le fasi canoniche della formazione del regno, dalla migrazione ancestrale in un passato mitico (Amihere Kpanyinli) alla fondazione politica, territoriale e militare della nuova entità statale (Annor Blay). Sostenendo l’appartenenza di Annor Blay al clan Nvavile e collocando la sua comparsa nella linea temporale dopo Kɛma Kpanyinli, gli Ntweafoᴐ hanno invece gioco facile nell’accreditare quest’ultimo, e non Annor Blay, come il vero fondatore dello stato. In ciascuno di questi casi, l’enfasi sul cambio di dinastia e sulla legittimità o meno dei poteri in campo rappresenta in chiave discorsiva ciò che in realtà costituisce una cifra caratteristica del sistema di parentela nzema, cioè la continua tensione tra l’ortodossia della discendenza uterina e il passaggio di uffici e cariche – in special modo 160

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militari – da padri a figli. In tale cornice la coloritura del termine “usurpatori”, usato da Annor Adjaye III, Blay VIII e oggi anche da Amihere Kpanyinli III per definire ora Annor Blay ora Kaku Aka e i loro discendenti, deve essere valutata nella sua dimensione di artificio retorico più che come elemento di assoluta verità. Bisogna cioè riconoscere che la lite per il potere nello Nzema si nutre di retoriche dell’usurpazione e della restaurazione di un potere rappresentato come originario, che trovano la loro ragion d’essere nella tutt’altro che improbabile alternanza di lignaggi “padri” e “figli” sul seggio del regno unitario sin da tempi molto antichi. In realtà, chiedersi quale dei due clan sia oggi legittimato a governare lo Nzema introduce una distorsione nell’inquadramento del problema – storiografico ed etnografico allo stesso tempo – della ricostruzione delle linee dinastiche, perché presuppone un’originalità e un’unicità del potere che le stesse tradizioni orali nzema sembrano essersi incaricate di demolire mediante il riferimento ampio e variegato a una serie di personaggi e di cronologie che, come rileva Valsecchi (2002: 289), non può trovare sintesi in un quadro storiografico coerente se non ignorando deliberatamente la presenza di altre versioni della storia. La singolare conseguenza di questo scenario così incerto e sfumato è che Nvavile e Ntweafoᴐ finiscono per richiamarsi praticamente allo stesso novero di antenati, salvo declinarne l’appartenenza clanica in maniera diversa. Fatta eccezione per Kɛma Kpanyinli (non citato nelle

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liste dinastiche degli Nvavile) da una parte, e Annor Blay e Kaku Aka (tendenzialmente identificati come Nvavile dagli Ntweafoᴐ) dall’altra, la successione sul seggio dello Nzema prima della scissione risulta praticamente identica per entrambe le fazioni. Per queste ragioni, non sembra illogico che nel corso dei nostri colloqui, i paramount chief di Eastern e Western Nzema abbiano sostenuto con forza che Yanzu Aka e molti dei suoi predecessori appartenessero in realtà al clan degli Ntweafoᴐ. Tantomeno può sorprendere il fatto che nella lista dinastica dei chief ascesi al seggio dei territori occidentali dopo la scissione del regno figurino degli stool name esplicitamente ispirati ai regnanti dell’età precedente alla frattura. Tale lista è stata stilata da Annor Adjaye III e Solomon Amihere, fratello classificatorio del primo e capo del lignaggio reale di Beyin, capitale della Western Nzema Traditional Area. A parer loro, dopo un breve periodo di reggenza immediatamente successivo alla cacciata di Kaku Aka e all’insediamento di Ebanyenle ad Atuabo, l’originaria dinastia reale Ntweafoᴐ avrebbe riconquistato il potere. Il seggio sarebbe stato quindi occupato nell’ordine da: Amakyi I, Erzuah Kpanyinli, Yanzu Aka II, Aka Anyima, Annor Adjaye I, Kyina Assuah27, Annor Adjaye II, Kwasi Amakyi II, ancora Annor Adjaye II (precedentemente destituito e poi tornato a sedere sul seggio) e infine Annor Adjaye III. Si noterà come in questa lista figuri tra gli altri 27 Ɛkyenle Asua, membro di un lignaggio spurio Ntweafoɔ del paramount stool di Beyin localizzato nel piccolo villaggio di Ngelekazo e amministratore della corte reale (gyaasehene) sotto Annor Adjaye I, resse 162

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anche il nome ormai familiare di Yanzu Aka, a segnalare in maniera chiara il tentativo, da parte del paramount chief del Western Nzema, di costruire retoricamente la continuità tra il passato mitico e quello più recente. Ma ancora più emblematica sotto questo profilo è la vicenda dello stool name del paramount chief dell’Eastern Nzema in carica, Amihere Kpanyinli III. Il nome da questi acquisito è infatti lo stesso dell’antenato che gli Nvavile eleggono a protagonista della migrazione ancestrale da nord. Questa circostanza ha sollevato tensioni e forti malumori nelle fila degli Nvavile, che non a caso hanno concentrato verso il chief, proprio negli anni in cui ho condotto le mie ricerche, una sequela interminabile di attacchi in sede giudiziaria. In maniera del tutto analoga a quanto osservato sinora per il periodo precedente all’ascesa al seggio di Kaku Aka, anche riguardo agli sviluppi successivi della storia locale le fonti che ho raccolto intessono trame complesse. Gli attuali protagonisti della lite concordano sostanzialmente sulle modalità attraverso cui si è consumato il passaggio di potere dopo la destituzione di Kaku Aka; rimane tuttavia divisiva la definizione che essi danno della natura intrinseca di quel potere in relazione alle strutture parentali e alle consuetudini che dovrebbero garantirne la trasmissione. A porre problema in questo frangente è l’avvicendamento dinastico ai vertici della struttura di potere locale, che ha visto il passaggio del brevemente il regno all’indomani della destituzione di quest’ultimo. 163

comando da un re Nvavile a due individui non legati a questi per via ereditaria. Secondo l’ipotesi avanzata da Valsecchi (2016), Ebanyenle e Amakyi sarebbero stati precedentemente vincolati al matrilignaggio reale Nvavile da legami di dipendenza e lealtà. Potrebbero esser stati discendenti di schiavi, di prigionieri di guerra, o ancora aver acquisito prestigio grazie ad alleanze matrimoniali; in ciascuno di questi casi si tratterebbe comunque di individui che al più, in ragione del rango derivante dalle cariche militari ricoperte in precedenza, avrebbero potuto svolgere funzioni di reggenza in attesa che un nuovo sovrano venisse individuato nelle fila del matrilignaggio reale e finalmente intronizzato. Nelle retoriche promosse dagli Nvavile, Ebanyenle viene additato come un traditore della peggior specie, lo strumento di cui gli Inglesi si sarebbero serviti per rovesciare Kaku Aka e stabilire un nuovo ordine politico. Asmah afferma che Ebanyenle sia stato mosso dalla sete di ricchezza, e che gli Inglesi lo abbiano ricompensato per i servigi offerti in occasione della decisiva campagna del 1848 permettendo che acquisisse la carica di caretaker del regno. Una posizione del tutto analoga è sostenuta da Kwesi (2005: 16) e dagli estensori delle varie petizioni sin qui citate. C’è però un elemento che differenzia le offensive degli Nvavile della prima metà del secolo scorso da quelle più recenti, seguite all’enstoolment di Kaku Aka II nel 2005. Le petizioni Nvavile presentate all’autorità coloniale affermano chiaramente che Ebanyenle apparteneva al clan Adahonle; le testimonianze che ho raccolto dalla viva voce di Kwesi, Asmah e Ainlimah 164

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nel corso delle mie indagini, accreditano invece l’ipotesi che egli fosse un esponente del clan degli Ntweafoᴐ, e conseguentemente che l’usurpazione del trono mediante sostituzione della linea dinastica di Kaku Aka con quella degli attuali regnanti coincida proprio con l’accessione al seggio dell’ex capitano del re. La presentazione di questa versione della storia ha il duplice obiettivo di associare retoricamente la figura di Ebanyenle all’illegale instaurazione di un ordine alieno per mano inglese e di minare, mediante l’onta del tradimento, i presupposti stessi del potere degli Ntweafoᴐ. Sostenere oggi che Ebanyenle sia un antenato dei paramount chief che occupano i seggi di Eastern e Western Nzema equivale in definitiva a identificare gli esponenti apicali della chieftaincy nzema contemporanea con l’espressione più nefanda e corrotta dell’imbroglio, dell’attaccamento al potere e dello spregio della tradizione. Dal canto loro, Annor Adjaye III e Amihere Kpanyinli III continuano a sostenere decisamente l’ascrizione di Ebanyenle al clan Adahonle; e non potrebbe essere altrimenti, giacché se si dà per certo che egli abbia avuto funzioni di reggenza, affermare che fosse uno Ntweafoᴐ sarebbe per loro come ammettere la natura transitoria e non originaria del potere ereditato dagli antenati. Conclusione La secolare disputa per il potere nello Nzema mette in evidenza la singolare “competenza storiografica” dei suoi protagonisti, basata sulla disinvolta capacità di intrecciare i domini della tradizione orale e delle fonti d’archivio per

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delineare orizzonti storici alternativi. Nella cornice della lite, gli attori hanno costruito ascendenze mitiche, rivendicato diritti originari sulla terra, contestato o viceversa legittimato le posizioni di potere nella gerarchia tradizionale contemporanea; il tutto ponendo la documentazione d’archivio al vaglio delle potenzialità generative dell’oralità, in un osmosi continua che addirittura rende difficile ricostruire i percorsi intrapresi da certe narrazioni per arrivare finalmente a palesarsi nelle retoriche che oggi si offrono all’attenzione del ricercatore. È indicativo di ciò il fatto che molte delle tradizioni personalmente raccolte durante l’indagine dimostrino una stupefacente aderenza nei dettagli a documenti e testi da tempo penetrati nell’immaginario storico locale (tra questi il testo di Nana Annor Adjaye, la dettagliata ricostruzione di Ackah e non ultime le petizioni prodotte dagli Nvavile) e che nuovi documenti continuino a essere regolarmente prodotti in sede giudiziale grazie alla trascrizione di deposizioni orali variamente impegnate a mescolare tradizioni consolidate e narrazioni inedite. La stratificazione di documenti e tradizioni orali avvenuta in oltre un secolo e mezzo – dalla deposizione di Kaku Aka ai giorni nostri – appare dunque destinata a durare ancora a lungo, rendendo oggettivamente arduo e scivoloso il sentiero di una ricostruzione storiografica ampiamente condivisa a livello locale. Questa circostanza, che a primo acchito sembrerebbe il limite ultimo e invalicabile per chi volesse risolvere la disputa grazie a evidenze storiche certe, costituisce in 166

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realtà la linfa vitale di un processo di negoziazione del potere continuamente rinnovato e attualizzato grazie alla performance retorica della storia degli antenati. In questo quadro, le narrative del potere e dell’usurpazione, le tradizioni sugli avvicendamenti di dinastia alla guida del regno e le strumentalizzazioni retoriche orientate a porre gli Europei nel gioco della politica locale costituiscono gli elementi portanti e ineludibili del discorso storico nzema, che lasciano intravedere in filigrana la complessa e sfuggente tessitura dei rapporti tra “padri” e “figli” e tra lignaggi reali e servili tipica del sistema di parentela locale.

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Parte II

Salute e Salvezza

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La tubercolosi in Ghana: programmi nazionali, strategie distrettuali e percezioni locali di una piaga sociale. Verso un’antropologia performativa Elisa Vasconi Sin dai suoi esordi, la Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG) ha dedicato parte del proprio interesse ad argomenti di carattere medico-terapeutico. Diversi sono gli antropologi della Missione che hanno svolto le proprie ricerche indagando sulle conoscenze e le pratiche terapeutiche tradizionali. La mia stessa etnografia, avviatasi nell’agosto del 20051, si è inizialmente focalizzata su questi temi, seppur arricchita di un impianto teorico notevolmente diverso rispetto a quello appartenente ai lavori della prima fase della MEIG. Solo successivamente gli interessi si sono spostati su argomenti di natura politico-istituzionale, con particolare riferimento ai processi di democratizzazione sanitaria. Un percorso che ha permesso non solo di ricostruire la genealogia del sistema sanitario, ma anche di esaminare i discorsi e le pratiche di alcuni organismi sovranazionali e le modalità con cui le istituzioni sanitarie ghanesi hanno incorporato negli ultimi decenni le direttive internazionali 1 La mia ricerca in area nzema si è svolta nei seguenti mesi: agosto-ottobre 2005; luglio – settembre 2006; agosto-settembre 2007; aprile-maggio 2009; marzo-aprile 2010; ottobre-novembre 2012; febbraio-marzo 2014; dicembre 2016. 173

declinandole nei contesti distrettuali. Tuttavia, nonostante nelle ricerche di chi scrive siano state a lungo esaminate la gestione e la realizzazione di alcuni specifici programmi sanitari, come quelli relativi all’assicurazione e al decentramento, sino al 2014 non sono mai stai indagati gli aspetti epidemiologici, politici e antropologici di specifiche patologie. Solo in seguito alle preoccupanti dichiarazioni del Direttore sanitario del distretto di Jomoro, che durante alcuni dei nostri colloqui avvenuti nei diversi periodi trascorsi sul campo ha definito la tubercolosi come una delle più dilanianti piaghe dell’area nzema, ho ritenuto necessario studiare le politiche nazionali e distrettuali relative alla gestione della TBC e la percezione locale della malattia. D’altronde, lo stesso personale sanitario del distretto ha più volte evidenziato non solo la grave assenza di una empirica implementazione delle politiche nazionali ma anche l’elevato e diffuso abbandono della terapia da parte dei pazienti. È iniziata così un’indagine sui diversi programmi relativi alla tubercolosi finanziati in Ghana, su cosa accade in un contesto rurale come il Jomoro, dove nonostante il decentramento i piani nazionali e globali sono realizzati solo parzialmente, sulle modalità con cui le autorità locali affrontano una simile emergenza e sulle motivazioni che inducono i pazienti ad abbandonare la terapia. La ricerca etnografica intrapresa in questi ultimi tre anni e qui presentata mira a riflettere sulla dicotomia tra il sistema sanitario nazionale e locale, sul modo in cui un’istituzione sanitaria prova a sopperire all’assenza di un supporto 174

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statale, sulle strategie che il personale distrettuale adotta per limitare la diffusione della TBC e sulle interpretazioni e le pratiche terapeutiche locali. In questi ultimi anni il distretto sta tentando di affrontare il diffuso problema della non compliance ai trattamenti farmacologici attraverso strategie politiche alternative che, come emergerà nei prossimi paragrafi, mettono in evidenza come il personale sanitario tenda a individuare nella cultura e nei significati locali della malattia i maggiori “ostacoli” al miglioramento dello stato di salute e alla diffusione delle cure ortodosse. Infine, la lunga e variegata esperienza della MEIG, i diversi campi di ricerca e la descrizione di quanto accade nel Jomoro, hanno spinto chi scrive a interrogarsi su come l’approccio antropologico possa rappresentare uno strumento critico per il superamento delle disuguaglianze e per il miglioramento dei programmi di intervento. In un contesto in cui la relazione tra antropologi e comunità locali vanta una storia così temporalmente profonda e in cui da anni si è dato avvio a un percorso di restituzione da parte della MEIG (vedi articolo di Pavanello nella presente pubblicazione), è importante concludere aprendo una riflessione su quanto e in che modo il metodo etnografico, come osservano Parker e Harper (2006: 2) nel loro volume dedicato alla salute pubblica, possa rappresentare una lente di ingrandimento che permette di individuare le connessioni tra il locale e il globale e di aprire delle strade tra politiche, istituzioni e pratiche nel contesto sanitario.

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La tubercolosi in Ghana: una prospettiva storica Diverse sono le fonti storiche che testimoniano come in Ghana la tubercolosi fosse già ampiamente diffusa nel periodo coloniale2 (Amo-Adjei 2014). L’arrivo degli Europei e la penetrazione dai confini settentrionali dei gruppi nomadi di origine arabica o semitica furono tra le principali cause della diffusione di tale malattia nel territorio (Koch 1960: 284). I primi servizi sanitari di assistenza sorsero nel 1953, quando il dottor Pointon-Dick, il primo specialista della tubercolosi nella colonia britannica, inaugurò una clinica specializzata ad Accra. Fu così che l’amministrazione inglese si rese gradualmente conto di quanto la TBC fosse divenuta una minaccia sia per la popolazione locale che per gli Europei. Nel 1954 fu istituita la Society for the Prevention of Tuberculosis che iniziò a raccogliere dati per esaminarne la diffusione nella colonia3. L’esiguo numero di personale sanitario, le scarse strutture mediche – soprattutto nelle zone rurali – e le grandi distanze che dividevano i pazienti dai centri di assistenza furono alcuni tra i fattori che condussero all’assenza di un trattamento di cura adeguato 2 Per un’analisi approfondita delle politiche coloniali, delle reti commerciali, delle attività lavorative e dei diversi fattori che facilitano la diffusione di virus in Africa Occidentale vedi Hughes & Hunter (1970); Hartwig & Patterson (1978); Patterson (1981); Twumasi (1981); Vaughan (1991); Feierman & Janzen (1992). 3 Nel 1957 su 7.400 casi esaminati in 45 località diverse della Gold Coast il 55% risultò positivo, e nel 1958 si contarono circa 35 morti su 1.000 per problemi respiratori causati dalla TBC (Kock 1960: 284). 176

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(Addae 1997). Nel 1960, subito dopo l’indipendenza, il Ministero della Salute decise di distribuire una serie di Mobile X-Ray Vans per esaminare la popolazione e individuare gli eventuali casi di TBC. Tra il 1965 e il 1968, il Direttore del Medical Services iniziò ad analizzare attentamente le modalità di cura in alcuni specifici ospedali per studiare una eventuale strategia preventiva e curativa a livello nazionale (AmoAdjei 2014). Nel 1971 fu approvato l’Hospital Fees Act (Act 387), che divenne effettivo solo il 19 luglio del 1985 e rese totalmente gratuite le cure per la tubercolosi. Nonostante l’approvazione di un’assistenza terapeutica gratuita, dalla seconda metà degli anni Ottanta i casi incrementarono in ogni regione del paese. Fu così che nel 1993, in seguito alla dichiarazione dell’OMS, che definì la tubercolosi un’emergenza globale, la Danish Internation Development Agency (DANIDA) stabilì un accordo con il governo del Ghana per supportare finanziariamente un progetto di prevenzione, chiaramente ispirato alle linee-guida della International Union Against TB and Lung Diseases4. Il progetto, conclusosi nel 2000, prese avvio nel 1994 in tre regioni del paese, lo stesso anno in cui in Ghana venne istituito il National Tuberculosis Control Program (NTP), un’istituzione gestita dal Ministero della Salute per garantire un più efficace accesso ai trattamenti terapeutici e limitare la diffusione dell’infezione. 4 Vedi www.ghanahealthservice.org. 177

Nel 2002, il Global Fund to Fight AIDS, Tuberculosis and Malaria (GFTM) iniziò a distribuire nel paese farmaci, strumenti e materiale per supportare laboratori e strutture sanitarie (Amo-Adjei 2014: 302). Contemporaneamente, dai primi anni del 2000 l’NTP iniziò a implementare i WHO Directly Observed Treatment, Short-course Strategy, i cosiddetti DOTS5, e a promuovere dal 2005 i più recenti STOP TB Strategy dell’OMS, ispirati ai Millennium Development Goals6, da realizzare entro il 2015. Attualmente, in linea con le nuove strategie internazionali, le istituzioni sanitarie sono orientate a realizzare nel paese la End TB Strategy, promossa dall’OMS nell’era dei Sustainable Development Goals, che mira a debellare la TBC entro il 20357. Inoltre, negli ultimi anni il Ministero, con l’ausilio di USAID e OMS, ha promosso una serie di linee guida nazionali (GHS 2006, 2007) indirizzate a combattere la TBC e l’HIV. A tal proposito, nel 2005 USAID si impegnò a investire 150 milioni di dollari in 25 paesi (compreso il Ghana) per realizzare a livello globale il Tuberculosis Control and

5 I DOTS, inizialmente definiti “Framework for Effective Tuberculosis Control” sono stati promossi dall’OMS, vedi http://www.searo.who.int/ tb/topics/what_dots/en/. Per un approfondimento vedi anche Ogden, Walt & Lush (2003: 180). 6 Vedi http://www.ghanahealthservice.org/about_programmes.php. 7 Per un maggior approfondimento vedi: https://www.ncbi.nlm.nih. gov/pmc/articles/PMC4755423/; http://www.who.int/tb/End_TB_ brochure.pdf 178

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Assistance Program (TB CAP) (USAID 2011). In Ghana, l’obiettivo principale del sussidio USAID8 è ancora oggi quello di migliorare la preparazione del personale sanitario al fine di implementare le linee guida internazionali, potenziare il controllo epidemiologico, distribuire farmaci e strumenti da laboratorio per eseguire i test, imporre i DOTS nelle strutture distrettuali e coinvolgere le comunità per monitorare i pazienti. Malgrado la promozione di programmi e strategie sanitarie di respiro internazionale, i dati relativi alla diffusione dell’infezione non sembrano registrare notevoli miglioramenti (Dodor & Kelly 2009). Nel 2010, i malati di tubercolosi individuati nel paese furono circa 47.632, con una mortalità pari all’8,7% (AmoAdjei 2014: 302). Tuttavia, nonostante in quell’anno la percentuale di casi individuati sul territorio nazionale passò dal 26% al 35% (PABC 2011: 28), nel 2011 fu stimata ancora un’elevata e preoccupante percentuale di malati non dichiarati, come sostenne l’OMS (WHO 2012a). Per tale motivo il tema della “case detection” o della “TB case funding” divenne una priorità nel piano nazionale 2009-2013 National Tuberculosis Health Sector Strategic Plan (Ministry of Health 2009-2013)9, un programma di intervento supportato dall’OMS che nel 8 Vedi USAID (2011) per un approfondimento sugli obiettivi, la metodologia, le azioni e i risultati che l’organizzazione ha messo in atto in Ghana. 9 Vedi PABC (2011). 179

2009, in collaborazione con la Canadian International Development Agency (CIDA), finanziò un progetto ad Accra con l’obiettivo di migliorare le modalità con cui individuare i casi di TBC10. A questo punto ci si domanda quali aspetti di questi programmi sia possibile riscontrare nei distretti del paese. In Ghana i progetti e le politiche nazionali sono gestiti attraverso un sistema ramificato,11 in cui le direttive sono trasmesse al livello regionale, e da quest’ultimo a quello distrettuale. Ciononostante alcuni territori marginali vivono un isolamento politico e sanitario tale da rallentare o talvolta negare la realizzazione di alcune direttive nazionali. La situazione riscontrata nel Jomoro è particolarmente esemplare in quanto la lenta implementazione dei programmi e delle politiche relative alla tubercolosi, nonché l’assenza di risorse induce il personale sanitario a proporre una serie di strategie alternative che esaltano i limiti del decentramento.

10 Vedi WHO (2012b). 11 Il Ghana presenta un decentramento sanitario strutturato su una già avviata decentralizzazione amministrativa. La costituzione dei Distretti Sanitari avvenne nel 1996 con l’approvazione dell’Act 525, Ghana Health Service and Teaching Hospitals, che istituzionalizzò la Ghana Health Service (GHS) come agenzia del Ministero della Salute a cui venne affidata la gestione delle strutture politico-sanitarie e terapeutiche del paese. Nel 1988 venne approvata la legge 207 The Local Government Law che introdusse nel sistema politico nazionale le cosiddette District Assemblies (DA) - il cui territorio corrisponde talvolta alle cosiddette Traditional Areas. Per un’analisi approfondita vedi Oquaye (2004). 180

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Sistema decentrato e tubercolosi nel distretto di Jomoro12 Il Direttore sanitario del distretto di Jomoro, con il quale è sorta una collaborazione sin dall’inizio della ricerca, nei nostri ripetuti colloqui ha più volte accennato alla gravità della diffusione della TBC e alle difficoltà gestionali di una tale epidemia nel territorio. «La tubercolosi è da tempo una delle malattie più diffuse e gravi del distretto, ma i casi ancora oggi non dichiarati sono molti. Facciamo del nostro meglio ma tutto resta a livello nazionale. Dov’è il Ministero? Dov’è lo Stato?». (24 febbraio 2014, Half Assini). Le significative e quanto mai pungenti dichiarazioni del Direttore evidenziano la gravità dell’attuale diffusione della TBC, la divergenza tra le politiche globali, nazionali e locali e soprattutto la mancanza di servizi distrettuali adeguati. D’altronde, sin dai primi anni del 2000 la tubercolosi è stata definita dalle autorità sanitarie nzema come una delle più gravi malattie del territorio,13 sia a causa 12 Questa ricerca è stata presentata in un altro lavoro in via di pubblicazione: “Where is the State? Tuberculosis strategies in Ghana”, in Antrhopological and Ethnographic Approaches to Understanding Tuberculosis and Its Control, a cura di I. Harper e H. McDonald. Tuttavia in questa sede è presentato in forma rivisitata e arricchito di dati raccolti durante la ricerca avvenuta a dicembre 2016. 13 Secondo le politiche del NTP, parte del personale dell’Health Regional e District Coordinate Directorate va rispettivamente a costituire il Regional 181

della diffusione dell’infezione, sia dell’alta percentuale di casi non individuati e di abbandono del trattamento terapeutico. La difficile situazione del distretto indusse nel 2013 l’International Organization for Migration Medical Health Division in Ghana a realizzare un intervento in cinque distretti della Western Region, incluso il Jomoro. Il progetto mirava a testare 347.000 persone attraverso una struttura mobile con la tecnologia del GeneXpert: nel Jomoro gli esiti furono abbastanza positivi tanto da individuare 12.850 casi14. Ciononostante, la tubercolosi resta attualmente una delle più gravi piaghe sociali. Il Direttore e il personale sanitario attribuiscono diverse cause a un’emergenza di tale levatura. La presenza di due medici in tutto il distretto (che conta circa 180.000 persone), le scarse risorse farmacologiche, le difficoltà di distribuzione di farmaci e di comunicazione con il personale dislocato nell’area, la distanza dalla capitale sono alcuni dei fattori che rallentano o talvolta rendono del tutto assente la realizzazione locale di politiche e programmi nazionali e incrementano la percezione di una forte marginalità da parte degli operatori sanitari. Nel caso specifico dei programmi relativi alla tubercolosi, ad esempio, durante la mia permanenza nel 2014 il e il District TB/HIV coordinating committees, al fine di garantire la realizzazione dei programmi nazionali. 14 Per una descrizione approfondita del progetto e dei risultati vedi IOM (2013); http://www.iom.int/cms/en/sites/iom/home/news-and-views/ press-briefing-notes/pbn-2014/pbn-listing/iom-screens-over-347000for-tb-i.html. 182

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personale sanitario non fece mai cenno ai DOTS, come se si trattasse di strategie quasi completamente sconosciute; i farmaci e gli strumenti di analisi erano collocati solo ad Half Assini, nell’unico ospedale governativo del territorio15, difficilmente raggiungibile dalla maggior parte della popolazione, e non vi era traccia di corsi di formazione e aggiornamento per il personale sanitario. Nel dicembre del 2016, a distanza di due anni, la situazione era pressoché invariata. Sebbene alcuni rappresentanti del District Tb Group durante i nostri incontri tendessero a enfatizzare miglioramenti di natura tecnologica ed epidemiologica, i dati raccolti continuarono a evidenziare una percentuale di casi non dichiarati estremamente elevata. L’unico cambiamento riscontrato fu nei servizi dislocati nel territorio. Nel villaggio di Elubo e Tikobo1 furono infatti inaugurati due piccoli laboratori per svolgere i test preliminari, i quali tuttavia devono ancora oggi essere inviati ad Half Assini, dove è presente 15 L’ospedale governativo ubicato ad Half Assini, capoluogo distrettuale, vanta delle condizioni igieniche alquanto precarie e vede la presenza di soli due medici, supportati dal personale infermieristico. Nel distretto vi sono poi 4 Health Centers, gestiti da infermiere e ostetriche; 1 Community Clinics e 27 Community Health Planning and Service (CHPS), piccole strutture decentrate dedite all’assistenza medica di base ma spesso prive di risorse farmacologiche e di personale specializzato. Per una descrizione delle strutture e dei programmi vedi Vasconi (2010, 2011, 2012). A ogni modo negli ultimi anni il numero delle strutture sanitarie è incrementato notevolmente soprattutto grazie al supporto finanziario e operativo dell’ENI Foundation che collabora con il distretto sanitario di Jomoro dal 2013 (vedi ENI 2013-2016), e sono aumentate anche gli operatori sanitari presenti nelle strutture. Oggi ogni CHPS conta dalle due alle quattro infermiere.

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l’unico laboratorio in grado di analizzarli ‒ struttura che peraltro durante la mia permanenza sul campo si trovava in condizioni inagibili. A novembre del 2016, a causa di un trasferimento interno, la strumentazione fu infatti spostata in una nuova stanza dell’ospedale al fine di garantire una migliore accoglienza per i pazienti. Ciononostante alla fine del mese di dicembre, quando fu possibile visitare la struttura, la tecnologia GeneXpert si trovava ancora chiusa in una scatola sotto un tavolo e completamente inutilizzata. Alla domanda sul motivo per cui la strumentazione fosse in quelle condizioni la risposta fu che nei precedenti quattro mesi il distretto aveva completamente esaurito i farmaci per la TBC e che, quindi, l’individuazione dei malati non sarebbe stata supportata dalla somministrazione di una terapia farmacologica. Una situazione gravissima che denota l’assenza di un empirico decentramento di risorse e di un isolamento dei territori più distanti dai centri urbani. Tuttavia, oltre all’assenza dello Stato, un ulteriore e interessante aspetto su cui riflettere, emerso sia dai colloqui intercorsi che dall’osservazione dei piani di intervento messi in atto dal distretto, è la negativa percezione del personale sanitario nei confronti di alcuni specifici fattori culturali locali. Le interpretazioni della malattia, le pratiche e le conoscenze terapeutiche autoctone furono definite più volte dagli operatori biomedici incontrati come “ostacoli” al miglioramento delle condizioni sanitarie e individuate come fattori a cui attribuire una parte rilevante delle responsabilità della non-compliance ai trattamenti 184

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ortodossi. Nei paragrafi successivi verranno pertanto esaminate le strategie sanitarie messe in atto nel Jomoro per affrontare una piaga sociale come la tubercolosi, e soprattutto le relazioni intrattenute con la medicina tradizionale e con alcuni terapeuti locali. Strategie sanitarie alternative e medicina tradizionale Dinanzi all’assenza di una empirica assistenza nazionale, nei primi anni del 2000 il personale del distretto sanitario di Jomoro decise di promuovere una serie di azioni alternative per limitare la diffusione della TBC e per modificare alcune pratiche terapeutiche locali. Nello specifico implementò due strategie: 1. l’organizzazione di incontri formativi, o training, dedicati ai guaritori tradizionali e ai chemical sellers (il personale dei drugshop); 2. l’assistenza farmacologica gratuita e il rimborso delle eventuali spese relative ai mezzi di trasporto16. Fu così che nel 2006, come venne riferito dal Direttore e come è stato possibile riscontrare dai documenti presenti negli uffici distrettuali, furono organizzati per la prima volta tre incontri con i guaritori tradizionali dell’area. Il personale sanitario preparò le lettere di convocazione affidate alle infermiere delle cliniche (CHPS) che le consegnarono direttamente ai guaritori. I terapeuti convocati furono quaranta, residenti in differenti villaggi, 16 Si trattava di strategie messe in atto anche in altri distretti del paese ma non direttamente gestite e promosse dal Ministero della Salute. 185

anche se ai tre incontri intercorsi tra il 3 ottobre e il 19 novembre 2006 se ne presentarono trenta. Avendo avuto in questi anni l’opportunità di visionare i verbali di tali riunioni conservati negli archivi di Half Assini, è stato possibile constatare come il distretto avesse rivolto l’attenzione esclusivamente a una delle diverse categorie di guaritori presenti nel territorio, i Nakcaba esofo.17 Il titolo dei verbali è infatti esemplificativo: Report on Visitation to “Nankaba” Gardens, definiti come «uno dei luoghi in cui la popolazione si reca quando ritiene di essere affetta da una malattia spirituale». Se dunque durante i nostri primi colloqui i rappresentanti distrettuali dichiarassero di aver rivolto gli incontri a tutti i guaritori tradizionali, dai verbali emerse in realtà un coinvolgimento esclusivamente dedicato ai profeti e alle profetesse. Richiesto in diverse occasioni il motivo di una tale scelta, lo stesso Direttore rispose che i Nakcaba esofo erano da loro considerati i detentori del maggior numero di pazienti affetti da tubercolosi e con i quali era più semplice instaurare un rapporto di collaborazione. I rappresentanti distrettuali dichiararono infatti di voler rispettare gli aspetti simbolici e spirituali della medicina tradizionale stabilendo una relazione pacifica con i guaritori. «I guaritori possono svolgere i loro rituali e sacrificare gli animali se ritengono che i loro pazienti

17 Per un’analisi delle diverse categorie di guaritori dell’area nzema vedi Grottanelli (1977, 1978); Pavanello & Schirripa (2008); Schirripa (2005). 186

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siano affetti da malattie spirituali, ma se vogliono salvarli devono in seguito inviarli nelle strutture ortodosse per gli adeguati trattamenti». (23 agosto 2007, Direttore sanitario, Half Assini). Il Direttore, pertanto, affermò di non voler ostacolare l’operato dei terapeuti, consigliando ai pazienti di continuare il percorso “tradizionale” intrapreso con il proprio guaritore dopo aver concluso il trattamento terapeutico ortodosso. Nonostante tali dichiarazioni, è evidente come i linguaggi istituzionali tendessero a ridurre la complessità della medicina autoctona, non solo in quanto si riferirono solo a una delle diverse categorie di guaritori, ma anche perché mirarono a costruire una relazione didattica unidirezionale con i terapeuti. Gli incontri furono infatti tenuti dal personale sanitario che illustrò i sintomi, la terapia, la diffusione e la pericolosità della tubercolosi ai guaritori che parteciparono in qualità di meri uditori. A ogni modo, l’esito di tale strategia si rivelò abbastanza positivo. Nel 2007, come dimostra la Tabella 1, i casi di TBC sembrarono lentamente diminuire e incrementò il numero di pazienti che decise di sottoporsi al test. Proprio dinanzi a tale miglioramento il distretto propose di continuare a organizzare i training incrementandone il numero e migliorando le tecniche comunicative. Nonostante i buoni risultati ottenuti e gli ottimi propositi, dalla fine del 2007 per motivi di natura economica i training furono gestiti diversamente.

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Il progetto, che prevedeva l’organizzazione di un numero elevato di incontri nell’ospedale di Half Assini con la partecipazione dei profeti provenienti da tutto il territorio distrettuale, fu impossibile da realizzare in quanto la mancanza di fondi non permetteva l’erogazione dei rimborsi per i trasporti a tutti i partecipanti. Dinanzi a una tale barriera, il Direttore decise alternativamente di individuare un periodo piuttosto breve (di massimo dieci giorni l’anno) in cui il personale si sarebbe recato di villaggio in villaggio direttamente nei compound degli esofo. Nei primi mesi del 2008, il District Tb coordinator e l’assistente del Direttore sanitario, come mi è stato da loro approfonditamente descritto, iniziarono a relazionarsi individualmente con i terapeuti incontrati nel loro setting di cura. La formazione di carattere biomedico la organizzarono attraverso una piccola lezione durante la quale mostrarono dei poster in lingua inglese non solo dedicati alla TBC ma anche ad altre malattie presenti nel territorio distrettuale del Jomoro. Durante il periodo dedicato ai training, lo staff ebbe l’opportunità di formare anche alcuni chemical sellers: lavoratori dipendenti e/o proprietari dei drugshops, attività private in cui è possibile acquistare farmaci ortodossi, senza prescrizione medica, e rimedi tradizionali ben confezionati (alcuni dei quali privi della certificazione del Food and Drug Board)18. 18 Nel 1997 il Ministero della Salute ha istituito il Food and Drug Board in seguito all’approvazione della legge Food and Drugs Law 1992 P.N.D.C.L. 305B. Si tratta di un istituto di ricerca che rilascia le licenze 188

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Lo staff di queste piccole attività non vanta una formazione medica e farmacistica precipua, pur trovandosi spesso a consigliare prodotti farmaceutici ai propri clienti. Per tale motivo il distretto, come mi è stato più volte riferito, decise di rivolgere la formazione anche a queste figure, che rivendicano un rilevante ruolo medico-assistenziale. I training, oltre a diffondere conoscenze tra i terapeuti, miravano anche a informare le comunità in merito all’assistenza terapeutica e farmacologica gratuita per i malati e al rimborso degli spostamenti necessari per raggiungere l’unico laboratorio presente nell’ospedale di Half Assini. Il distretto decise infatti di istituire i cosiddetti “Enablers Packages”, un sussidio economico e alimentare sia per i casi sospetti sia per quelli dichiarati. Questi pacchetti includevano: 1. il kit farmacologico completo, consegnato direttamente al paziente che doveva poi affidarlo all’infermiera della clinica più vicina al proprio villaggio, dedita quotidianamente alla sua cura; 2. il rimborso dei trasporti; 3. una quota mensile (dai 50 agli 80 Ghana cedis) sufficiente per i mesi del trattamento e necessaria per le spese alimentari e per il sostentamento del nucleo familiare; 4. la donazione di alimenti, come riso o farina di legumi, offerti settimanalmente dall’infermiera. Quelle appena descritte sono strategie purtroppo sospese da maggio del 2016 a causa della mancanza di per la vendita di cibi, cosmetici e prodotti farmaceutici dopo aver eseguito i test per verificare le componenti chimiche, erboristiche e le condizioni igieniche, di preservazione e di impacchettamento dei manufatti (Vasconi & Owoahene Acheampong 2010). 189

sussidi economici, ma definite ancora oggi come rilevanti strumenti preventivi e curativi. A distanza di diversi anni dall’attivazione di questi programmi i dati epidemiologici del distretto, purtroppo, sono ancora molto preoccupanti. Nonostante le campagne di informazione, i training, le relazioni intrattenute con i guaritori tradizionali e il tentativo di modificare le pratiche locali, la tubercolosi continua a essere negata e l’abbandono del trattamento farmacologico una pratica diffusa. Nel prossimo paragrafo verranno così riportati alcuni esempi etnografici che permetteranno di riflettere sulle strategie realizzate dal distretto e sull’efficacia degli interventi mirati alla modificazione dei cosiddetti fattori culturali, mettendo in evidenza la complessità dell’esperienza della malattia e dei sistemi medici locali. Dalle interpretazioni locali alla negazione della malattia: “cultura” come ostacolo? Attraverso la ricerca etnografica e l’analisi qualitativa dei programmi realizzati, è chiaramente emerso come i fattori culturali non possano essere considerati gli unici ostacoli per la compliance ai trattamenti biomedici e come il coinvolgimento dei guaritori non possa rappresentare uno strumento risolutivo per una piaga sociale che continua a dilaniare il territorio. Per esaminare e riflettere sui programmi sino a ora descritti, è importante soffermarsi sulle interpretazioni della malattia espresse sia dai guaritori già sottoposti al training che dai terapeuti ancora non contattati dal personale distrettuale. 190

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Per rilevare la differente percezione che questi ultimi avanzano nei confronti della sintomatologia e del trattamento ortodosso della TBC, e per evidenziare la complessità dell’esperienza di malattia, verranno qui di seguito messe a confronto le testimonianze di un Nackaba esofo istruito dal distretto con quelle di uno non ancora formato. L’infermiera del CHPS di Kengen – uno dei villaggi in cui nel febbraio del 2014 furono organizzati i training – si offrì di accompagnarmi da alcune guaritrici da lei ben conosciute19. La presenza di un rappresentante biomedico, sebbene inizialmente potesse rappresentare un fattore discriminante, si rivelò invece strategico sia in quanto utile alla traduzione nella lingua locale, sia in quanto permise di osservare la relazione tra gli operatori e i guaritori. Nourita, questo il nome dell’infermiera, mi condusse nella casa di Elisabeth Ama, un’anziana guaritrice ancora non formata dal distretto. Quando varcammo la soglia notai immediatamente la croce bianca, il recinto e il pozzo di acqua santa, i classici simboli che contraddistinguono i compound dei Nackaba asofo. Fui accolta dall’assistente20 19 D’altronde uno dei servizi offerti dalle infermiere dei CHPS è quello delle visite domiciliari che permette di conoscere tutti gli abitanti del villaggio, compresi i guaritori. Inoltre in area nzema numerosi guaritori hanno l’assicurazione sanitaria. 20 Gli assistenti sono gli aspiranti guaritori che hanno intrapreso il training, che consiste nell’affiancare un guaritore per un periodo che può variare da 3 a 7 anni con l’obiettivo di acquisire conoscenze e pratiche della medicina tradizionale. Per un maggiore approfondimento vedi Schirripa (2005). 191

della guaritrice che mi fece gentilmente sedere su una panca in attesa dell’arrivo della profetessa. Quando Elisabeth arrivò si sedette accanto a Nourita, che salutò affettuosamente, in attesa della mia presentazione. Dopo aver introdotto la mia missione21 iniziammo a discutere della sua relazione con la medicina ortodossa. Pur pagando l’assicurazione sanitaria nazionale, dichiarò di inviare raramente i propri pazienti nelle strutture biomediche. Le chiesi quali fossero le malattie da lei più curate e rispose elencando una serie di disturbi, dichiarandosi specializzata nella cura delle malattie spirituali per cui è solita individuare le cause e il trattamento terapeutico attraverso strumenti di cura che variano dall’acqua santa, alla preghiera, alla visione, al sogno e alla Bibbia. Le domandai poi se conoscesse la tubercolosi descrivendone la più comune sintomatologia. Rimase inizialmente basita e con aria interrogativa chiese nuovamente all’infermiera di descriverle i sintomi. A quel punto con un’espressione affermativa disse ovviamente di conoscerla e di classificarla in lingua nzema come adahonle fofole, “tosse nuova”. Elisabeth ne restituì un’interpretazione differente da quella ortodossa: pur confermando la presenza di una forte tosse con emissione di sangue, la descrisse come una malattia quasi sempre spirituale, causata sia dagli awozonle, 21 Ogni volta che si va a trovare qualcuno in area nzema lo si deve informare della ragione della visita, della propria missione. Amanee vuol dire infatti messaggio, visita, ed è la parola che si pronuncia a ogni incontro (Pavanello 2000). 192

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le divinità locali22, che da attacchi stregoneschi. Affermò infine di non essere a conoscenza delle strategie messe in atto dal distretto. Il giorno seguente Nourita mi accompagnò da un altro Nackaba esofo, la profetessa Awube che era stata sottoposta al training qualche mese prima del mio arrivo. La guaritrice, definita dall’infermiera come una delle più potenti dell’area, ospitava nel suo ampio compound una decina di pazienti. Mi accolse calorosamente comunicandomi di essere appena rientrata da una visita presso l’ospedale di Half Assini. Discutemmo a lungo sulla distanza della struttura ospedaliera, sull’elevato costo dei trasporti e sull’importante presenza del CHPS, sebbene spesso privo di corrente elettrica e munito di pochi farmaci, non sufficienti a curare la popolazione dei cinque villaggi a cui la clinica deve dare assistenza. Dichiarò di consigliare ai propri pazienti l’uso dei rimedi ortodossi in caso di disturbi naturali e curabili dalla biomedicina. Le chiesi allora se conoscesse la tubercolosi e quale fosse il suo trattamento terapeutico. Definendola con il termine inglese, attestò non solo di conoscerla ma di averla inserita nel proprio universo nosologico: ne descrisse infatti con un preciso linguaggio biomedico le modalità di contagio e i sintomi e dichiarò di inviare al termine della cura i propri pazienti nelle strutture mediche, sia nel caso in cui l’eziologia della 22 Gli awozonle (sing. bozonle), sono garanti dell’ordine, benefattori, o inattesi persecutori (Grottanelli 1977, 1978; Lanternari 1988). Per un’analisi sull’ideologia della malattia e della salute vedi Schirripa (2005); Pavanello & Schirripa (2008). 193

malattia fosse di origine naturale che spirituale. «Puoi prenderti la TBC se non hai particolare cura dell’igiene personale e se entri in contatto con una persona già malata […]. Ma quando un paziente ha la tubercolosi devo capire innanzitutto se si tratta di una malattia naturale o spirituale. Se è naturale posso somministrare delle erbe specifiche con del miele per bloccare la tosse, e spesso questo cura completamente. Se invece è spirituale o derivante da un attacco di stregoneria, devo eseguire un sacrificio animale e poi usare le erbe. Alla fine del trattamento invio il paziente al laboratorio e lo informo sull’aiuto del distretto. Ma durante l’ultimo anno ho avuto solo due pazienti con questa malattia, anche se è molto comune». (1 marzo 2014, Kengen). La testimonianza di Awube rappresenta di certo un esito positivo delle strategie distrettuali in quanto il training le ha permesso di conoscere l’importanza del trattamento biomedico. Ciononostante, l’alta percentuale di casi non dichiarati (circa il 40%),23 soprattutto nei villaggi distanti dall’ospedale, rileva come gli interventi distrettuali non siano sufficienti a migliorare la situazione sanitaria nel territorio. La ricerca etnografica ha permesso inoltre di affermare che i training sono stati rivolti solo a una minima parte 23 Dato dichiarato dal Tb coordinator. 194

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dei terapeuti locali: i Nackaba asofo24. Il coinvolgimento dei profeti e delle profetesse evidenzia un atteggiamento riduzionista da parte delle istituzioni sanitarie poiché rivolge la formazione solamente a una delle differenti categorie di guaritori, oltretutto l’unica non appartenente alla Ghana Psychic and Traditional Healers Association (GHPTHA), l’associazione più importante dell’area. Tuttavia, la questione di maggiore urgenza e gravità sollevata da Awube è l’individuazione di un numero così esiguo di malati che induce a riflettere sulla negazione della malattia. Intervenire sulle conoscenze e sulle pratiche locali non ha di certo ridotto le ineguaglianze e migliorato la percentuale di casi non dichiarati. Nonostante le infermiere dei CHPS continuino ancora oggi a individuare nelle proprie aree un numero elevato di persone probabilmente malate, pochissimi sono i pazienti che si recano nelle strutture sanitarie a causa della tubercolosi. Nourita, ad esempio, affermò che nel 2013 furono solamente quattro le persone che si presentarono al CHPS, due delle quali abbandonarono il trattamento farmacologico. È possibile quindi dedurre che tra gli nzema vi sia da un lato una scarsa conoscenza della malattia e dall’altro una comune pratica locale che vede l’autocura e la medicina tradizionale come gli strumenti terapeutici per eccellenza. Resta così da spiegare il motivo per cui la strategia dei training, messa in atto ormai da anni, stia lentamente 24 Probabilmente scelti dal distretto come rappresentanti tradizionali poiché appartenenti al mondo cristiano e dunque apparentemente distanti dal pantheon locale e più facilmente controllabili. 195

cambiando la classificazione nosologica dei guaritori ma non la grave percentuale di casi non dichiarati. E allo stesso tempo resta da comprendere perché, nonostante i training, l’uso del trattamento farmacologico è quasi pari a zero, soprattutto in alcuni villaggi particolarmente distanti dall’ospedale. Questa spiccata reticenza nel riconoscere la malattia, nell’intraprendere il percorso terapeutico e nel portarlo a termine non può essere attribuita solamente ai fattori culturali. Gli aspetti economici, ad esempio, rappresentano certamente ancora oggi una barriera, nonostante le istituzioni per molto tempo abbiano rimborsato le spese sostenute. Ma vi sono anche altri motivi che inducono alla negazione della malattia: il difficile accesso alle risorse, la distanza dal laboratorio e dalle cliniche e la lunga durata del trattamento provocano una serie di cambiamenti tali da influenzare i rapporti tra il malato e il proprio contesto e da condurlo ai margini della società. Si tratta di fattori che implicano l’abbandono dell’attività lavorativa, il deterioramento delle relazioni familiari o talvolta l’esclusione da alcune cariche pubbliche. La paura di essere esclusi, di perdere il lavoro o l’impossibilità di spostarsi spinge la maggior parte della popolazione a negare la malattia. L’atteggiamento negazionista e il conferimento di uno stigma è stato trattato da diversi intellettuali25, alcuni dei quali hanno svolto la propria 25 L’indeterminatezza o l’ambiguità che contribuiscono alla definizione dello stigma associato alla malattia sono state descritte molto bene da Erwin Goffman (1963). Per un’analisi della produzione dello stigma in 196

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ricerca in Ghana e in particolar modo nell’Ahanta, l’area confinante con quella nzema (Dodor & Kelly 2009, 2010). Oltre a ricostruire la letteratura riguardante l’analisi dello stigma in Ghana e lo sviluppo di interventi appropriati per combattere simili forme di isolamento, questi studi evidenziano alcune delle maggiori difficoltà vissute dai malati, indotti quindi a negare la malattia26. Nell’articolo pubblicato nel 2010, Dodor e Kelly presentano, ad esempio, alcuni dati relativi alla paura dell’infezione diffusa anche tra il personale ortodosso: un timore che spinge gli operatori a interagire limitatamente con i pazienti, a isolarli e ad acquisire una serie di atteggiamenti di stigmatizzazione della tubercolosi. L’analisi antropologica si presenta, dunque, come uno strumento utile a indagare i molteplici fattori che ruotano intorno ai disagi. Il rischio di contagio e i meccanismi attraverso cui si effettua la trasmissione contribuiscono alla costruzione sociale della malattia, che deve sicuramente essere tenuta in considerazione in quanto incorpora i valori e i giudizi di una collettività e traduce i rapporti tra gli altri contesti vedi ad esempio Mull (1989), che ha esaminato il caso della verifica di un programma di controllo della lebbra in Pakistan; Long, et al. (2001) per il Vietnam; Macq, et al. (2005) per il Nicaragua; per il Ghana invece vedi Lawn (2000). 26 Uno dei fattori di isolamento da loro indicati riguarda l’atteggiamento degli operatori sanitari nei confronti dei malati di TBC. Nel loro studio, pubblicato nel 2010 e incentrato sul Distretto di Sekondi-Takoradi, osservano come gli stessi rappresentanti ortodossi interagiscano poco con i malati dichiarati, indicando loro di restare segregati nelle proprie abitazioni per evitare la diffusione della TBC. 197

individui e al tempo stesso di questi con la società. L’analisi culturale e storica di significati, immagini, metafore costruite a partire dalle malattie, come la tubercolosi, ci permette di valutare la compatibilità delle strategie di intervento e le problematiche derivanti dalle interpretazioni e dai valori locali. A maggior ragione, dinanzi alle barriere economiche, all’inefficace accesso ai servizi, alla mancata distribuzione di risorse e al difficile decentramento politico-sanitario, i fattori culturali non possono di certo essere considerati l’ostacolo per eccellenza alla compliance dei trattamenti biomedici27. A partire dal caso etnografico dell’area nzema, mi preme pertanto cercare di comprendere come il sapere e la ricerca antropologica possano contribuire a cambiare la disastrosa condizione sanitaria, a migliorare il coinvolgimento della popolazione locale e a diminuire la negazione della malattia, soprattutto in un territorio come lo Nzema, che vanta una così duratura relazione tra antropologi e comunità locali.

27 Eppure nello stesso distretto non mancano casi in cui la diffusione di conoscenze biomediche, farmaci e assistenza sanitaria abbia modificato le pratiche locali. La malaria, l’anemia, l’asma sono alcune delle categorie nosologiche oggi conosciute dai guaritori, inserite nel loro universo terapeutico e spesso affrontate dalla comunità attraverso la terapia biomedica o talvolta una cura integrata tra le diverse risorse offerte dal contesto sociale. Tali cambiamenti avvennero dopo i processi di decentramento, l’inaugurazione dei CHPS e la distribuzione delle infermiere che iniziarono a curare queste malattie includendole nell’assistenza di base. 198

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Verso un’antropologia performativa «Tutto resta a livello nazionale. Dov’è il Ministero? Dov’è lo Stato?». Le parole del Direttore sanitario ben riassumono la percezione di isolamento geografico, politico, finanziario e sanitario che vive il distretto di Jomoro. Il trasferimento di risorse, poteri e competenze al livello comunitario è stato promosso sin dalla fine degli anni ’80 dagli organismi internazionali e definito come uno strumento di accrescimento della partecipazione popolare, dello sviluppo rurale, dell’efficienza dei servizi pubblici e soprattutto della diffusione della democrazia (Crawford & Hartmann 2008; Larson & Ribot 2004; Olowu & Wunsch 2008; Ribot 2002, 2003; World Bank 2000). Eppure, dinanzi alle disastrose condizioni mediche in cui riversa la maggior parte della popolazione nei territori rurali, come nel caso del Jomoro, le domande più frequenti che le autorità locali rivolgono ai funzionari governativi riguardano la presenza dello Stato, cosa si intenda per democrazia, e di quale decentramento si parla se le risorse restano al livello nazionale. Il personale distrettuale definisce le strategie governative distanti dalle proprie problematiche, dalla promozione di una salute equa e di una democratica distribuzione delle risorse. Gli attori locali pongono l’accento sulla dicotomia tra “locale” e “nazionale”, ruralità e urbanità, centro e periferia, tanto da rendere attuale la definizione dello “stato biforcato” di Mamdani (1996). Alcuni autori osservano, infatti, come il sistema sanitario postcoloniale riproponga le medesime 199

dinamiche coloniali e soprattutto le stesse disuguaglianze celate dalle retoriche della democrazia (Arhinful 2003). Il caso etnografico qui presentato evidenzia come nonostante i numerosi finanziamenti e i programmi internazionali e nazionali relativi alla TBC approvati in Ghana, alcuni distretti si trovino a dover affrontare autonomamente la piaga della tubercolosi e ad arginare la marginalità attraverso la realizzazione di strategie rivelatesi oltretutto sino a oggi poco efficaci. I limiti del processo democratico e di decentralizzazione determinano una distribuzione dei servizi inefficace per affrontare una grave malattia come la TBC. Lo stesso Farmer (1999, 2006) osserva come l’accesso ai servizi sia un nodo centrale per la risoluzione di una tale piaga e per il raggiungimento del benessere e di una giustizia sociale. Non a caso negli ultimi anni la tubercolosi è stata oggetto di alcune riflessioni antropologiche che ruotano intorno al tema della sofferenza sociale (vedi Das et al. 2001; Kleinman, Das & Lock 1997; Kleinman 2006)28. Eppure gli operatori sanitari del Jomoro continuano a porre l’accento sulla non compliance rimandando questo aspetto alla dimensione 28 Definita come qualcosa che «accomuna una serie di problemi umani la cui origine e le cui conseguenze affondano le loro radici nelle devastanti fratture che le forze sociali possono esercitare sull’esperienza umana. La sofferenza sociale risulta da ciò che il potere politico, economico e istituzionale fa alla gente e, reciprocamente, da come tali forme di potere possono esse stesse influenzare le risposte ai problemi sociali. A essere incluse nella categoria di sofferenza sociale sono condizioni che generalmente rimandano a campi differenti, condizioni che simultaneamente coinvolgono questioni di salute, di welfare, ma anche legali, morali e religiose» (Kleinman, Das & Lock 1997). 200

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sociale e soprattutto culturale del fenomeno, intervenendo quasi esclusivamente sui guaritori tradizionali. Ma quali sono i limiti di un tale approccio? Farmer (1999) ha evidenziato come nel dibattito sulla salute pubblica porre l’attenzione sulla “cultura” potrebbe indurre a ostacolare la comprensione dei processi politici, economici e sociali che sono alla base delle disuguaglianze nella distribuzione di alcune patologie, nell’accesso alla cura e nella promozione di fenomeni sociali che producono malattia e morte. Anche Melissa Parker e Ian Harper nel loro volume del Journal of Biomedical Science (2006) notano con preoccupazione come la maggior parte degli articoli pubblicati nella rivista definiscano le determinanti socio-culturali come fattori responsabili della diffusione di alcune patologie. I due autori osservano come questo tipo di ricerche rischia non solo di definire la cultura come barriera, ma di esaltare la separazione tra il concetto di “scienza” e quello di “cultura”, come se la conoscenza scientifica fosse separata dal suo contesto sociale29. Questo approccio conduce sia alla riduzione degli aspetti sociali a dati quantificabili, sia alla definizione delle credenze e delle pratiche locali come ostacolo alla compliance dei beneficiari dei programmi di salute. Le affermazioni degli operatori sanitari del Jomoro e gli interventi implementati sembrano sposare questo atteggiamento. Il coinvolgimento dei guaritori nei training rappresenta una strategia che mira 29 La conoscenza scientifica è invece anch’essa il prodotto di un processo di costruzione di significati informati da una realtà complessa (Cerbini 2014; Franklin 1995). 201

a modificare la “cultura” locale attraverso la promozione di una formazione ortodossa dei terapeuti. Tuttavia nel distretto, come evidenziano i dati epidemiologici ed etnografici, le capacità di diagnosi e le strategie di intervento dedite a limitare la tubercolosi sono insufficienti se paragonate alle necessità locali. Il caso etnografico qui presentato rileva infatti il bisogno di redigere programmi e interventi che integrano in modo differente le pratiche locali con le politiche sanitarie (Amo-Adjei 2014: 300). Alcuni autori affermano che per promuovere strategie efficaci sia necessaria la collaborazione e l’individuazione di obiettivi comuni tra ONG, società civile, guaritori, operatori sanitari, esperti di salute pubblica e autorità politiche (Amo-Adjei 2014: 308). Proprio dinanzi all’esigenza di una collaborazione tra diversi esperti, mi preme riflettere su quanto e in che modo in un contesto come il distretto di Jomoro, dove gli antropologi lavorano da sessant’anni, si potrebbe auspicare un coinvolgimento della nostra disciplina negli interventi sanitari. Gli etnografi italiani con la loro duratura ricerca sul campo potrebbero esaminare i processi di intervento, le interazioni, gli effetti a cui danno luogo nelle pratiche quotidiane, e a partire da queste riflessioni promuovere il miglioramento dei processi stessi. D’altronde, come osserva Olivier de Sardan (2010), non può esserci una buona ricerca applicata alle politiche pubbliche senza una ricerca sulle politiche pubbliche. La profonda conoscenza antropologica della MEIG potrebbe non solo far 202

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incrementare la partecipazione delle comunità locali alla salute pubblica, ma promuovere un miglioramento degli stessi interventi superando la dicotomia cultura-scienza, problematizzando le strategie biomediche. A ogni modo, tutto ciò richiederebbe non solo l’uso di un’antropologia concretamente impegnata nello spazio pubblico, ma di un’antropologia applicata che risolve problemi pratici, seppur nella consapevolezza dei numerosi compromessi a cui gli antropologi impiegati nella promozione della salute devono scendere (Pavanello 2010). Nel caso specifico della tubercolosi, l’approccio antropologico potrebbe esaminare da un lato gli aspetti sociali ma dall’altro aiutare a realizzare interventi che riducano la negazione della malattia e la diffusione dello stigma (Dodor & Kelly 2009: 171; Heijnders & van der Meij 2006). Le strategie per combatterlo non solo dovrebbero essere orientate al miglioramento dell’accesso ai servizi e alla comprensione delle interpretazioni locali della malattia, ma anche mirate alla riduzione della paura dell’infezione da parte degli operatori sanitari30. Il ruolo dell’antropologia dovrebbe dunque andare oltre l’esame delle condizioni sociali della produzione del sapere, acquisendo un ruolo performativo per intervenire nella salute pubblica, ergendosi a strumento di critica politica

30 Per questo motivo è importante sviluppare interventi non solo finanziari ma che possano anche contribuire a motivare e migliorare la qualità del lavoro degli operatori sanitari (Dodor & Kelly 2010: 200). La recente legge Public Health Act (Act 851, 2012) non ha tuttavia proposto metodi preventivi per il personale biomedico. 203

e di azione trasformativa (Quaranta 2006). Lo sguardo antropologico medico dovrebbe, quindi, essere in grado di “riconfigurare” (Parker & Harper 2006) i limiti entro cui si colloca l’oggetto analizzato, ampliando il campo della ricerca alle forze macrosociali che riproducono le disuguaglianze e le ingiustizie: solo indagando gli aspetti culturali, sociali, politici, epidemiologici ed economici di un determinato contesto potrebbe essere possibile creare una rete tra cultura, istituzioni e attori (Parker & Harper 2006: 2). Al fine di declinare il lavoro qui presentato all’interno del processo di restituzione della MEIG alle comunità locali nzema, è opportuno osservare come gli antropologi medici dovrebbero lavorare con le istituzioni locali per ripensare in ottica antropologica non solo il concetto di cura ma anche i programmi sanitari, includendovi il tema dei diritti umani, civili, politici, sociali ed economici, promuovendo equità e giustizia. Il valore aggiunto delle riflessioni e delle indagini antropologiche nella Salute pubblica dell’area potrebbe essere quello di sviluppare un approccio storicamente profondo capace di calare l’“etnograficamente visibile” in quella rete di processi che lo informano e che lo connettono alle più ampie strutture del potere (Farmer 1999, 2006). L’obiettivo sarebbe di acquisire un ruolo propositivo attraverso un’antropologia performativa che possa esaminare i complessi meccanismi radicati nell’economia tentando di cambiare la stessa volontà politica che, come sostiene Farmer (2006: 43), è il problema centrale della 204

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perseveranza di una malattia come la tubercolosi che non ha neanche bisogno di un ospite umano per la sua diffusione. Se è quindi vero che non possiamo singolarmente modificare i meccanismi sociali dell’oppressione, in qualità di antropologi dobbiamo allora almeno provare ad agire e interagire, ognuno impegnandosi nell’ambito della propria capacità di azione e della propria sfera d’influenza: «non basta cambiare atteggiamento, ma gli atteggiamenti fanno sì che altre cose accadono» (Farmer 2006: 44).

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Tabella 1

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Tra cura e mercato. La psichiatria nell’arena della salute mentale in area nzema Cecilia Draicchio Introduzione Negli ultimi anni la salute mentale è stata al centro di molti dibattiti in Ghana, soprattutto in relazione al Mental Health Act 846: la legge approvata nel 2012 con l’obiettivo di superare l’inadeguatezza delle istituzioni psichiatriche ghanesi, note per essere fortemente centralizzate e costantemente sovraffollate, nonché strutturalmente carenti (cfr. Kpobi, Osei, Sefa-Dedeh 2014; Roberts et al. 2013; Doku et al. 2011). Il provvedimento aveva come obbiettivo dichiarato un rinnovamento – tuttora in fase di difficile attuazione (cfr. Walker & Osei 2017, Walker 2015) – soprattutto sul piano del decentramento dei servizi sanitari, del rispetto dei diritti umani, della lotta allo stigma e della collaborazione con i terapeuti definiti “non ortodossi”, ovvero i guaritori che si collocano al di fuori della biomedicina1. In questo contributo, tenterò di analizzare come le pratiche psichiatriche discusse e ridefinite sul piano 1 Questo termine è utilizzato in antropologia medica per riferirsi alla cosiddetta “medicina occidentale”, che – pur nella sua eterogeneità – “tende a privilegiare l’aspetto biologico e a ridurre, o addirittura a negare, la dimensione socioculturale della malattia” (Pizza 2005: 125). 213

nazionale si declinano in una zona rurale come l’area nzema della Western Region, piuttosto lontana dai centri decisionali di Accra e dai tre ospedali psichiatrici del Paese2. L’intervento è il frutto di un periodo di ricerca etnografica di circa cinque mesi (ottobre-novembre 2013; luglionovembre 2014) nell’area3: la mia indagine si è concentrata su una specifica istituzione locale, il reparto psichiatrico di un ospedale distrettuale4 e sulle pratiche dei diversi attori che lo animano e lo attraversano quotidianamente. Il reparto si configura come un’istituzione porosa, caratterizzata da un continuo – e allo stesso tempo frammentario – tentativo di negoziare il proprio rapporto con l’esterno. In questa sede, dunque, tenterò di analizzare le pratiche degli infermieri psichiatrici in particolare in relazione a uno degli elementi chiave del Mental Health Act e dei discorsi che lo hanno accompagnato: il complicato rapporto tra istituzioni e “guaritori spirituali”. Nel discorso pubblico ghanese la psichiatria è spesso presentata in aperta opposizione alle altre risorse 2 Le tre istituzioni sono: lo storico Accra Psychiatric Hospital, istituito nel 1906, e il più recente (1975) Pantang Psychiatric Hospital entrambi situati nella capitale, cui si aggiunge l’Ankaful Psychiatric Hospital di Cape Coast, fondato nel 1965. 3 La ricerca è stata condotta per la mia tesi di laurea magistrale in Discipline Etno-antropologiche presso l’Università di Roma La Sapienza (Draicchio 2016). 4 Per ragioni legate alla confidenzialità di alcune delle informazioni contenute in questo articolo, il nome dell’ospedale non sarà indicato e ai miei interlocutori saranno attribuiti degli appellativi fittizi. 214

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terapeutiche esistenti: se da un lato, nel testo del Mental Health Act, si invoca la cooperazione tra personale biomedico e terapeuti “non ortodossi”, come li definisce la legge (Mental Health Act: 7, 16) dall’altro le pratiche di questi guaritori – che rappresentano la principale alternativa alle cure psichiatriche – sono frequentemente demonizzate e descritte come incompatibili con la medicina ufficiale. Tuttavia, in area nzema, dove l’entrata in vigore della riforma non ha (ancora) provocato alcun cambiamento dal punto di vista istituzionale, le pratiche degli operatori dell’ospedale distrettuale mettono fortemente in discussione questa presunta incompatibilità. Gli infermieri, infatti, intrattengono o cercano di stabilire costantemente delle relazioni con alcuni dei “guaritori spirituali” che operano nell’area. Si tratta di relazioni complesse e spesso intermittenti che testimoniano però la possibilità, anzi l’esistenza, di un dialogo tra le due sfere di cura. Relazioni che mettono in crisi un’interpretazione dualista dell’offerta terapeutica per chi soffre di disturbi mentali e che, allo stesso tempo, fanno emergere ambiguità, contraddizioni e nuovi quesiti. Tra legittimazione e delegittimazione: operatori psichiatrici e profeti nell’arena della salute mentale Quella della salute mentale in Ghana si configura, in un certo senso, come una storia a parte rispetto a quella più generale del sistema sanitario nel Paese. In effetti, alcuni aspetti promossi dalla riforma psichiatrica del 2012, come 215

il decentramento e il rapporto con le risorse terapeutiche non biomediche, sono stati al centro delle politiche sanitarie nazionali già a partire dagli anni Ottanta, in linea con i precetti dell’OMS (cfr. Schirripa 2005; Vasconi 2012, 2011). In particolare, il processo di legittimazione delle medicine tradizionali – culminato sul piano legale nel 2000, con l’approvazione del Traditional Practice Act 5755 – affonda le sue radici addirittura nei primi anni Sessanta, con l’istituzione della Ghana Psychic and Traditional Healers Association voluta dal presidente Kwame Nkrumah (Vasconi & Owoahene-Acheampong 2010; Schirripa 1993, 1998; Twumasi e Warren 1988). Il processo di legittimazione delle medicine tradizionali è un percorso complesso in cui si intrecciano diverse dimensioni: legittimazione vuol dire allo stesso tempo riconoscimento e regolamentazione, professionalizzazione e burocratizzazione. Come emerge chiaramente nei lavori citati sopra, tale processo ha attraversato fasi alterne e non può in alcun modo considerarsi armonicamente compiuto. Quello che è importante sottolineare, però, è che il doppio imperativo integrare-normare alla base di questo processo fa sì che l’altra faccia della legittimazione sia lo screditamento o addirittura la demonizzazione di figure o pratiche terapeutiche che non si prestano a essere incluse

5 Il decreto legge sancì una volta per tutte le modalità di identificazione e registrazione dei guaritori tradizionali, così come quelle di rilascio delle licenze. Il provvedimento, inoltre, istituì il Traditional Medicine Practice Council, cui venne affidato il compito di gestire, organizzare e regolamentare le pratiche terapeutiche locali (Vasconi 2012: 174-176). 216

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nel quadro istituzionale, organizzato intorno al principio dell’oggettività scientifica (cfr. Vasconi 2012: 183-184). Nell’ambito della salute mentale – in cui il tentativo di istituire su un piano formale dei percorsi di collaborazione tra psichiatria e risorse terapeutiche non biomediche sembra arrivare, appunto, “in ritardo” – l’ambiguità intrinseca che caratterizza la pratica della legittimazione è, come vedremo, un elemento cruciale. Ma, prima di tutto, quali sono le risorse terapeutiche che si affiancano/ contrappongono alla psichiatria? Descrivere le diverse pratiche di guarigione in campo è sempre un’operazione delicata e necessariamente imperfetta, perché impone di ridurre una realtà plurale, fluida, eterogenea e complessa alla rigidità della tassonomia. Tuttavia, nella piena consapevolezza della arbitrarietà di questo come di qualunque altro tentativo di “classificazione”, possiamo operare una divisione macroscopica in tre categorie: quelle di guaritori tradizionali, profeti e operatori biomedici (cfr. Schirripa 2005, Mullings 1984). In area nzema, nella prima categoria rientrano due diverse figure di terapeuti: gli ahɔmenle (sing. kɔmenle), i sacerdoti ispirati, e i ninsinlima (sing. ninsinli), gli erboristi. Gli ahɔmenle sono individui capaci di curare per intercessione degli spiriti (awozonle, sing. bozonle) che li possiedono; i ninsinlima sono invece guaritori che curano con erbe e prodotti naturali e in alcuni casi praticano la divinazione6. 6 Come sottolinea Pino Schirripa (2001), anche i ninsinlima, hanno 217

La seconda categoria, invece, è quella degli asofo (sing. esofo), profeti carismatici afferenti a chiese cristiane spesso anche molto diverse tra loro, che curano i pazienti con la preghiera e, quando necessario, il digiuno. Come nel caso delle altre due figure terapeutiche citate, il potere di guarigione degli asofo può agire su un ampio spettro di patologie. In particolare, come avviene anche con gli ahɔmenle, sono molte le persone affette da follia (nz. εzεlε) che i familiari scelgono di portare al cospetto di questi profeti-guaritori, nella speranza che riescano a salvarli, a guarirli in modo definitivo. Sia per i “guaritori tradizionali” che per i profeti, la sofferenza mentale, la follia e la terapia richiesta per queste condizioni sono legate a una dimensione sovrannaturale, quella di una realtà abitata da poteri invisibili che intervengono attivamente nelle vicende umane: gli awozonle – spiriti potenzialmente sia buoni che malvagi – per i “guaritori tradizionali”; il Dio cristiano (Nyamenle), il Diavolo (Abonsam) e i suoi delegati per i profeti. rapporti con gli spiriti, ma ciò che li distingue dai sacerdoti ispirati è il fatto che le loro relazioni con gli awozonle non sono continue, ma intermittenti. È importante ricordare, inoltre, che esiste una terza categoria di guaritori, non cristiani e non biomedici, che appartiene alla sfera della “medicina tradizionale”: quella dei mallam, guaritori musulmani, le cui pratiche di cura si fondano sul Corano. Nella mia esperienza etnografica in area nzema, queste figure sono sembrate piuttosto marginali rispetto alle altre risorse in campo ed è principalmente per questa ragione che non se ne discute qui nel dettaglio. Per una descrizione puntuale delle figure e delle pratiche che rientrano nella definizione di “medicina tradizionale” in area nzema si rimanda al volume curato da Pino Schirripa e Mariano Pavanello (2008).

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Questa dimensione sovrannaturale è apparentemente assente nella terza categoria, quella della biomedicina, che nel campo della salute mentale in area nzema è rappresentata da due diverse tipologie di professionisti: gli infermieri psichiatrici e i community mental health officer7, infermieri che hanno lo specifico compito di gestire i rapporti con la popolazione locale con l’obiettivo di “decentrare” la presa in carico dei pazienti affetti da disturbi mentali. Considerato l’esiguo numero di psichiatri e psicologi attivi sul territorio nazionale – nel 2011 se ne contavano rispettivamente 18 e 19, concentrati per lo più nei tre ospedali psichiatrici del paese (Roberts et al. 2013) – non stupisce il fatto che queste figure non siano presenti in area nzema, ma è importante notare che la loro assenza complica molto il ruolo degli infermieri, che devono di fatto occuparsi di tutti gli aspetti, dalle diagnosi alle prescrizioni, dall’assistenza psicologica alle visite di controllo: «Qui noi facciamo tutto. […] In un certo senso, qui…noi facciamo quasi lo stesso lavoro degli psichiatri». (Francis, infermiere psichiatrico, 7 agosto 2014). Le categorie elencate, benché artificiali e “difettose”, sono evocate quotidianamente nei discorsi istituzionali sulla salute mentale, a livello sia nazionale che locale. È proprio a partire da esse, dunque, che è possibile mettere a fuoco conflitti interni, differenze e relazioni. Nell’arena della salute mentale, in questo spazio concreto di intersezione 7 Questa nuova figura di professionista della salute mentale è stata creata nel 2011, nell’ambito dello stesso processo di riforma che ha portato all’elaborazione del Mental Healh Act (vedi Roberts et al. 2014). 219

e scontro tra istituzioni e campi diversi e diversificati al loro interno (cfr. Olivier de Sardan 2008: 194-195; Pizza 145-154), pazienti, infermieri, guaritori si relazionano gli uni agli altri – in modo più o meno diretto – mettendo in gioco concezioni, esperienze, eziologie, interpretazioni e pratiche terapeutiche molto diverse tra loro. Nel corso della ricerca, ho scelto di concentrarmi in particolare sulle relazioni tra infermieri psichiatrici e guaritori cristiani, non perché queste siano le uniche esistenti o rilevanti – il rapporto spesso conflittuale tra profeti e “guaritori tradizionali”, ad esempio, lo è altrettanto – ma in ragione del fatto che i terapeuti “non ortodossi” a cui guarda il Mental Health Act, quelli al centro del dibattito pubblico, sembrano essere essenzialmente loro: i profeti cristiani. Essi, infatti, sono rappresentati nel discorso pubblico come la principale alternativa alle cure biomediche, in una competizione che si consuma in larga parte, almeno dal punto di vista delle rappresentazioni, sui luoghi in cui questi terapeuti operano: i prayer camp. I prayer camp sono dei luoghi di culto annessi a chiese cristiane – variamente definite come “carismatiche” o “pentecostali”8 – in cui persone che hanno bisogno di

8 Il termine “carismatico” è solitamente riferito all’esperienza delle “chiese africane indipendenti”, mentre il termine pentecostale dovrebbe essere utilizzato per descrivere quelle chiese la cui storia è esplicitamente connessa a quella del Pentecostalismo nord-americano. Tuttavia, in letteratura i due termini sono spesso utilizzati come sinonimi, poiché si tratta di due storie fortemente interconnesse e le differenze tra chiese difficilmente possono essere ascritte a un modello fisso di “Pentecostalismo” o “Carismatismo” (cfr. Schirripa 2012). 220

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aiuto in diversi ambiti (non solo sanitario, ma anche sentimentale, economico/lavorativo) si rivolgono all’esofo, il pastore che vi risiede, affinché risolva i loro problemi per intercessione di Dio. Spesso le persone arrivano nei prayer camp accompagnate da uno o più familiari che si prendono cura di loro durante la permanenza presso il campo, permanenza che può durare mesi, a volte anche anni. In area nzema, come in tutto il Ghana, i prayer camp sono numerosissimi e il loro successo sembra essere in costante crescita, anche a scapito – come sostengono alcuni – dei cosiddetti “guaritori tradizionali”. Negli ultimi anni, con l’aiuto dei media nazionali e internazionali (cfr. Taylor 2016), i rappresentanti del governo e in particolare i rappresentanti delle istituzioni psichiatriche si sono occupati molto dei prayer camp, definendoli spesso in termini fortemente critici: «La schizofrenia è molto comune in Ghana, ma il problema è che molte persone non la riconoscono e anche se lo fanno, molta gente decide di mandare i malati di schizofrenia in luoghi inappropriati […] molti pazienti si ritrovano in centri di cura tradizionale e prayer camp, dove vengono incatenati, fatti morire di fame, rinchiusi, sottoposti ad abusi sessuali o messi ai lavori forzati. […] Curiosamente, la schizofrenia potrebbe essere curata in modo molto efficace, ma sfortunatamente [nel]la nostra società […] per colpa della superstizione… molte persone che soffrono di schizofrenia – come altri pazienti con

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disturbi mentali – sono considerate vittime della stregoneria, del diavolo o loro stessi/e possono essere [considerati/e] il diavolo o delle streghe». (Dr. Akwasi Osei, Chief Psychiatrist, Accra Psychiatric Hospital, Discorso pubblico in occasione del Mental Health Day, Accra,15 ottobre 2014). Queste parole esprimono bene la natura del rapporto tra istituzioni e prayer camp: un rapporto piuttosto complicato e ambiguo, in cui la ricerca di collaborazione prescritta dal Mental Health Act9 è spesso affiancata dalla ferma denuncia di una inconciliabilità, un rapporto in cui si oscilla tra legittimazione e delegittimazione. In particolare, nel discorso del direttore dell’ospedale psichiatrico di Accra, il pensiero “tradizionale”/religioso – etichettato come “superstizione” – viene descritto come un ostacolo fondamentale alla salute delle persone affette da disturbi mentali ai quali la psichiatria potrebbe offrire invece delle cure «molto efficaci», almeno nel caso della schizofrenia. Come tenterò di mostrare, questa rappresentazione è per molti versi un esempio di quello 9 «La [Mental Health] Authority dovrà […] (m) collaborare con il Traditional and Alternative Medicine Council e altri operatori che forniscono cure non-ortodosse per la salute mentale nel miglior interesse delle persone affette da disturbi mentali» (Mental Health Act: 7). Durante lo stesso evento, solo pochi minuti prima dell’intervento del dottor Osei, Nana Oye Lithur, l’allora Ministra per il Gender, l’Infanzia e i Diritti Sociali, pur avendo parlato di «violazioni dei diritti umani» nei prayer camp, aveva evocato esempi di «lavoro fianco a fianco» con i guaritori dichiarando: «il nostro approccio non è quello di giudicare».

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che Paul Farmer ha chiamato «impudente affermazione di causalità» (immodest claim of casuality, Farmer 1999 cit. in Duncan 2017: 43): una spiegazione che, focalizzandosi sul ruolo della “cultura tradizionale” e della religione, finisce colpevolmente per distogliere l’attenzione dalle complesse disuguaglianze strutturali che condizionano profondamente l’esperienza delle persone affette da disturbi mentali. L’arena della salute mentale in area nzema è, in effetti, uno scenario molto più complesso di quello che traspare dai discorsi pubblici che – come quello citato – insistono sull’educazione e sulla lotta allo stigma, spesso criminalizzando il pensiero “tradizionale” e religioso. Si tratta di uno scenario in cui gli unici rappresentanti della psichiatria sul territorio, gli infermieri, lottano per legittimare il proprio ruolo e tentano di affrontare l’inadeguatezza del sistema sanitario in cui sono inseriti, ma allo stesso tempo sembrano muoversi con facilità tra più orizzonti di senso. Uno scenario in cui un ruolo chiave è giocato dalle condizioni materiali e dalle difficoltà di accesso ai servizi psichiatrici, sia dentro l’ospedale che fuori. Infermieri in cerca di riconoscimento «[Con il] Mental Health Bill, il governo […] sostiene che grazie alla psichiatria di comunità gli ospedali psichiatrici si possono decongestionare […] d’ora in avanti il governo aprirà sempre più reparti psichiatrici». (Francis, infermiere psichiatrico, 7 novembre 2013). 223

Sin dalle nostre prime conversazioni nel 2013, il personale del reparto ha sempre dimostrato di essere informato sulle caratteristiche principali del Mental Health Act, pur non avendo mai avuto l’opportunità di leggere il testo integrale della legge. Il processo di decentramento in corso – come appare evidente dalle parole di Francis – chiama in causa direttamente le competenze degli infermieri psichiatrici che lavorano presso i reparti distrettuali: il loro ruolo dovrebbe diventare sempre più centrale, capillare e riconosciuto sul territorio. In effetti, quello che gli operatori lamentano e che rappresenta una delle loro maggiori preoccupazioni – anche nel pianificare le proprie attività – è l’assenza di un riconoscimento del loro lavoro nell’area. Questo problema si articola in tre differenti questioni. Un primo aspetto pratico riguarda la mancanza di informazione sull’esistenza e le prerogative del reparto: in molti villaggi, anche vicini, la possibilità di rivolgersi all’ospedale distrettuale per disturbi mentali è – secondo gli infermieri – completamente ignorata: più ci si allontana dall’ospedale, più la disinformazione aumenta. Un secondo discorso, frequentemente evocato nel corso delle nostre conversazioni, è quello del cosiddetto stigma. La lotta allo stigma è uno dei temi chiave del dibattito pubblico sulla salute mentale. Questa espressione, però, è solitamente usata per indicare la condizione dei pazienti, mentre quello che mi hanno segnalato spesso gli infermieri è la notevole discriminazione cui loro stessi sono sottoposti: 224

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«Sai… se sei un infermiere psichiatrico o un paziente sei stigmatizzato. Ti chiamano infermiere abodam [parola twi per ɛzɛlɛ, pazzo]. Alle persone non piaci. Ecco perché questo ambito dell’assistenza infermieristica è carente. […] Quando cominciamo il corso alla fine del semestre dobbiamo fare un tirocinio. E lì capita di incontrare altri studenti di scienze infermieristiche […] li incontri al reparto e loro ti dicono «hey, abodam nurse!» […] secondo me [questa cosa] è un fatto storico, perché quando le persone hanno una malattia mentale si pensa che sia qualcosa di spirituale. E per questo motivo, tradizionalmente loro pensano che tu abbia lo stesso problema all’interno della tua famiglia […]: pensano che ci sia una maledizione su quella famiglia. Le persone attribuiscono un sacco di cose alla malattia mentale. Ecco perché quando vedono che sei un infermiere psichiatrico o che il tuo ambito è legato a pazienti con problemi mentali… stigmatizzano». (Francis, infermiere psichiatrico, 7 agosto 2014). Una delle ragioni del distacco, della ritrosia e della mancanza di fiducia nei confronti degli infermieri psichiatrici – atteggiamenti che condizionano la loro vita anche al di fuori del contesto lavorativo – risiederebbe dunque, ancora una volta, nel “pensiero tradizionale”. A questo discorso si collega la terza e più importante questione, quella della mancanza di legittimità rispetto ai guaritori “tradizionali” e “spirituali”, cui ci si rivolge quando

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si è convinti che l’eziologia della malattia sia “spirituale”. Questi ultimi sono spesso rappresentati come dei rivali, dei terapeuti che veicolano una visione della malattia mentale contraria a quella scientifica in cui gli infermieri “credono”. Non a caso, le interpretazioni “tradizionali” o religiose della malattia sono spesso narrate come credenze altrui, non condivise. In realtà, gli operatori psichiatrici stessi, in alcune occasioni, fanno riferimento allo stesso orizzonte di senso, sia in relazione alla loro vita privata – spiegando, ad esempio, la loro scelta di allontanarsi dal luogo di origine con la necessità di sfuggire al rischio di invidie familiari e pratiche stregoniche – sia in relazione al loro mestiere – chiamando in causa, nel caso di alcuni pazienti su cui i farmaci psicotropi sembravano non avere effetto, la dimensione “spirituale” della malattia. È per questo che, pur rappresentando – non differentemente dalle voci nazionali – il proprio ruolo in opposizione a (e in competizione con) quello dei guaritori, gli infermieri psichiatrici ritengono quella dialogica un’opzione non solo percorribile, ma fondamentale per legittimare il proprio ruolo sul territorio e, allo stesso tempo, dare un senso al lavoro per cui si sono formati. Il mezzo migliore per intraprendere questa strada dialogica è, nelle stesse narrazioni degli infermieri, la pratica dell’outreach. Il termine outreach, generalmente tradotto in italiano con “sensibilizzazione”, può essere utilizzato per indicare un insieme di azioni messe in atto da un’organizzazione o da un’istituzione al fine di 226

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“raggiungere” porzioni di popolazione che tendono a rimanere escluse dalla fruizione dei servizi offerti. Si tratta di un’espressione molto presente nel gergo delle ONG e delle organizzazioni internazionali che in ambito sanitario, e in particolare nella psichiatria di comunità, viene impiegata per definire le funzioni che le istituzioni sono tenute a svolgere fuori dai reparti. In effetti, per il personale psichiatrico, l’attività di outreach si concretizza in delle visite periodiche nelle diverse comunità del distretto. Gli outreach, dunque, hanno principalmente due obbiettivi: informare gli abitanti dei villaggi circostanti dell’esistenza di un reparto specifico per chi è affetto da disturbi mentali e, allo stesso tempo, svolgere una pratica terapeutica decentrata, effettuando i controlli periodici necessari con coloro che sono già pazienti dell’ospedale direttamente nelle località di provenienza. Queste visite, inoltre, possono rappresentare delle occasioni per condurre un’opera di sensibilizzazione sulla concezione biomedica di “malattia mentale”: in questo caso, si tratta di vere e proprie lezioni (talk), tenute in spazi comunitari o addirittura all’interno di prayer camp. Durante questi eventi si elencano le possibili cause della malattia mentale da un punto di vista strettamente psichiatrico, dando la possibilità ai presenti di intervenire e fare domande riportando la propria esperienza diretta. Gli outreach, infine, sono il mezzo più efficace per provare ad avviare le caldeggiate collaborazioni con i guaritori «non ortodossi» dei prayer camp: 227

«Ieri stavo dicendo a quell’uomo [l’assistente del profeta di un prayer camp che avevamo visitato il giorno precedente] che dovremmo tutti collaborare… perché se uno ha i segni e i sintomi della psicosi, come quella persona aggressiva incatenata [un paziente del prayer camp], lo si può gestire con le medicine invece che incatenarlo… quindi anche se si tratta di una maledizione c’è bisogno dell’ospedale, c’è bisogno dei farmaci psicotropi per affrontarla. Poi magari si possono aggiungere delle preghiere […] la nuova legge dice che dovremmo collaborare con i prayer camp e quel genere di cose… quindi noi ci occupiamo della malattia, ma se loro pensano [che sia una] maledizione e pregano per la persona, noi non possiamo certo impedire loro di farlo, ecco. Noi crediamo che Dio possa fare ogni cosa». (Francis, infermiere psichiatrico, 7 agosto 2014). «Quello che ci aspettiamo è che mentre se ne prendono cura [i guaritori] siano disponibili a mandare le persone qui per prendere le medicine. Non ci interessa… se alla fine si prenderanno loro i meriti […] tutto quello che vogliamo è che le persone prendano e continuino a prendere le medicine dell’ospedale […] molte persone si fidano di più dei guaritori […] se loro consigliano alle persone di venire all’ospedale è più facile che queste lo facciano…». (Mary, infermiera psichiatrica, 7 novembre 2013). 228

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In tutte le occasioni in cui mi è capitato di parlare con loro della collaborazione con altri terapeuti, gli infermieri hanno sempre operato una distinzione piuttosto chiara. Con i profeti – in alcuni casi – è possibile lavorare fianco a fianco, perché la preghiera non interferisce con la somministrazione di medicinali psicotropi. Con i terapeuti tradizionali, invece è molto più difficile, perché sia ahɔmenle che ninsinlima tendono a somministrare delle sostanze che possono combinarsi in modo dannoso con i farmaci biomedici. A prescindere dai rischi, la somministrazione simultanea di sostanze diverse non permetterebbe ai guaritori tradizionali di rivendicare l’efficacia indiscussa dei propri rimedi. Lo stesso però – al contrario di quanto traspare dalle parole di Mary – vale per gli operatori dell’ospedale. In effetti, come appare evidente anche nel discorso di Francis, i medicinali sono descritti come il punto di forza dell’approccio psichiatrico alla malattia. I farmaci psicotropi con la loro immediata azione calmante – in particolare nel caso di episodi “aggressivi” – rendono manifesta, provano, la superiorità e la necessità della biomedicina: «anche se si tratta di una maledizione c’è bisogno dell’ospedale, c’è bisogno dei farmaci psicotropi per affrontarla». Da un lato, questa visione è parzialmente condivisa anche dagli utenti e dai loro familiari – che sono quasi sempre coloro che decidono i molteplici percorsi terapeutici delle persone affette da disturbi mentali – e permette di comprendere le ragioni dell’effettivo ricorso alle terapie psichiatriche anche quando si è convinti che la causa

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dell’ɛzɛlɛ sia spirituale: mentre si cerca una guarigione completa, una salute-salvezza per dirla in termini carismatico-pentecostali, si ricorre alle cure psichiatriche come palliativi. Dall’altro lato, però, il ruolo dei farmaci psicotropi è molto problematico: la loro accessibilità è fortemente compromessa in area nzema e, a causa degli effetti collaterali di queste medicine, raramente la loro efficacia rimane indiscussa nel caso di condizioni croniche. Servizi psichiatrici, denaro e farmaci psicotropi dentro e fuori il reparto Il denaro è stato un tema ricorrente nelle mie conversazioni con i familiari di ex-pazienti (dell’ospedale distrettuale o dell’ospedale psichiatrico di Cape Coast) e di coloro che più in generale vivono il proprio malessere in uno stato di «abbandono sociale» (Biehl 2005): persone che non sono (o non sono più) pazienti, perché non c’è nessuno a prendersi cura di loro a parte i familiari. Persone come Kaku, un uomo che in giovane età si era trasferito in Costa d’Avorio, dove conduceva una vita tranquilla fino a quando improvvisamente – come mi ha raccontato sua sorella Patricia – non era tornato nel suo villaggio di origine. Nessuno sa perché. Ma tutti si ricordano che di lì a poco Kaku aveva cominciato a non essere più lo stesso, a comportarsi in modo strano, a passare le sue giornate senza fare niente, vagando per il villaggio. La causa della sua condizione è rimasta oscura: i familiari avevano chiesto a uno zio, che era con lui in Costa d’Avorio, se avesse rubato qualcosa o si fosse macchiato di qualche 230

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altro crimine che avrebbe potuto scatenare una punizione divina, ma nessuno sapeva niente in proposito. Dopo qualche tempo, pur continuando a sospettare che l’origine della malattia fosse spirituale, per tentare di migliorare la sua condizione, lo avevano portato all’ospedale psichiatrico di Cape Coast dove gli avevano prescritto alcune medicine. In effetti – raccontava la sorella – nel periodo in cui prendeva i farmaci dell’ospedale, Kaku sembrava stare meglio: dormiva troppo forse, ma i suoi comportamenti erano meno “bizzarri”. Tuttavia, a causa della mancanza di denaro, «because of money», Kaku era stato costretto a interrompere il trattamento che aveva cominciato. Era da tanti anni, ormai, che la situazione dell’uomo era stazionaria e – sembrava dirmi la sorella, con le sue risposte pacate e rassegnate – ormai forse non c’era più niente da fare. Patricia non avrebbe mai accettato di portarlo da un ninsinli o da un kɔmenle, perché era cattolica e non credeva nel potere degli awozonle, ma avrebbe voluto fare di più: era per i soldi, because of money, che non si poteva fare altro che accettare quella situazione. A prescindere dall’interpretazione della malattia e dalle convinzioni che si hanno su di essa, dunque, il fattore economico gioca nei racconti dei familiari un ruolo fondamentale. Ma fino a che punto? Quanto sono accessibili i servizi psichiatrici in area nzema? In Ghana il ricovero psichiatrico e la maggior parte dei farmaci psicotropi (antipsicotici, ansiolitici, antidepressivi, stabilizzatori dell’umore) sono per legge gratuiti (Mental Health Act: 35). 231

Questo è ritenuto uno dei principali punti di forza del sistema psichiatrico ghanese (Roberts et al. 2013), ma in realtà – almeno in area nzema – la gratuità dei farmaci presso gli ospedali risulta essere quasi sempre virtuale: «[I pazienti] devono pagare ma io non prendo niente da loro […] a meno che noi non abbiamo usato i nostri soldi per comprare le medicine, le cure psichiatriche non si pagano. […] Quando sono andato ad Accra ho usato i miei soldi […] ecco, se prendiamo dei soldi da un paziente, vuol dire che quel farmaco che gli stiamo dando… l’abbiamo comprato noi, con i nostri soldi. Se gli fai una prescrizione perché comprino [i farmaci] da soli, loro non sono in condizioni di farlo. Quindi siamo noi a doverglieli dare». (Michael, community mental health officer, 22 ottobre 2014). In questi termini piuttosto complessi, Michael mi spiegò il meccanismo che di fatto annulla la presunta gratuità dei farmaci psicotropi presso l’ospedale. Nel corso delle tante giornate passate in reparto, io stessa mi ero accorta che le transazioni tra operatori e pazienti erano spesso di natura monetaria, ma inizialmente non riuscivo a comprenderne il motivo. Da un punto di vista legale, è compito dello stato rifornire regolarmente gli ospedali di psicofarmaci e altre sostanze definite “essenziali”. Questo però, almeno nel contesto in cui è stata condotta la mia 232

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etnografia, non avviene con la frequenza necessaria e spesso presso il reparto i medicinali di cui i pazienti hanno bisogno semplicemente non sono disponibili. Mi è capitato spesso di assistere a situazioni in cui persone arrivate da villaggi anche piuttosto lontani – affrontando una spesa a volte non indifferente – si presentavano per avere un farmaco e dovevano tornare indietro a mani vuote perché quello che avevano chiesto non c’era. È per compensare queste gravi e frustranti carenze che, di tanto in tanto, gli infermieri si occupano di reperire in prima persona le medicine necessarie, grazie a una vasta rete informale di conoscenze diffusa su tutto il territorio nazionale. Gli operatori acquistano questi farmaci da privati e, dunque, non possono fare altro – come ammettono loro stessi – che rivenderli ai pazienti che ne hanno bisogno, pur essendo consapevoli che molti di loro non potranno disporre delle cifre necessarie a (ri)comprarli. Dunque, nella realtà, lo scenario è molto più complicato di quello descritto dalla legge. Chi arriva al reparto psichiatrico si sottopone a una visita – spesso un colloquio molto breve, in cui l’anamnesi si materializza come un “rito dell’interrogatorio” di foucaultiana memoria10 – e dopo la diagnosi gli/le vengono prescritti dei farmaci: a seconda del tipo di sostanza, si chiede al/alla paziente di versare una 10 Il rito dell’interrogatorio “si risolve essenzialmente in questa transazione: dammi dei sintomi, fabbrica per me, con la tua vita, dei sintomi, e farai così di me un medico” (Foucault 2004: 240). 233

somma di denaro stabilita dagli stessi infermieri, che può oscillare tra i 4 e i 30 Ghana Cedi11 per confezione. Al costo dei farmaci, bisogna aggiungere anche una sorta di “mancia” fissa di 2 cedi, richiesta come contributo a un fondo comune che serve a coprire le spese “autonome” del reparto come, ad esempio, i viaggi necessari al reperimento di farmaci o gli outreach che vengono organizzati indipendentemente dall’ospedale. Non tutti, dunque, possono permettersi di accedere ai servizi psichiatrici. Questo è ancor più vero se si prende in considerazione un ultimo importante fattore di spesa, che spesso – nelle testimonianze delle persone – diviene addirittura quello determinante: la copertura dei costi del trasporto dal luogo di provenienza all’ospedale. Il viaggio di andata e ritorno dal villaggio di Kaku all’ospedale, ad esempio, costa circa 14 cedi a testa. Se si calcola che, almeno per la prima visita, è necessario che il paziente si presenti all’ospedale ed è improbabile che possa muoversi senza che qualcuno lo/la accompagni, il costo del trasporto raddoppia, diventando una cifra davvero ragguardevole per una persona comune, come la sorella di Kaku che si sostenta vendendo generi alimentari al dettaglio, per esempio. Affrontare i costi dei servizi psichiatrici non è, dunque, una cosa di poco conto e sono davvero pochi coloro che possono permettersi di farlo con continuità, come dimostrano – secondo gli stessi infermieri – i numerosissimi casi di ricadute di pazienti che 11 Un Ghana Cedi corrisponde a circa 0,20 Euro. 234

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interrompono i trattamenti farmacologici. Come segnala Ursula Read (2012) il fenomeno della discontinuità nell’assunzione di psicofarmaci è molto frequente in tutto Ghana: nel sondaggio del 2003 citato dall’antropologa, su 1.290 pazienti psichiatrici, più dell’80% dichiara di aver abbandonato o interrotto le terapie. Come abbiamo visto, sia a livello nazionale sia a livello locale, il discorso sull’importanza della sensibilizzazione insiste molto sull’opposizione tra biomedicina e concezione “tradizionale”/“spirituale” della malattia mentale. La seconda viene descritta come il principale ostacolo alla diffusione del ricorso ai servizi psichiatrici e ai farmaci psicotropi, presentati a volte come panacea di tutti i mali. Read, nell’articolo citato, sottolinea invece due aspetti fondamentali: innanzitutto, smentisce l’idea che la maggior parte dei ghanesi ignori la possibilità di ricorrere a rimedi di tipo biomedico per patologie mentali; in secondo luogo, sostiene che «la preferenza per un certo tipo di trattamento rispetto a un altro sembra essere guidata non tanto dalle idee relative alla natura della malattia o alla sua eziologia, ma piuttosto dalle conseguenze pratiche sulla lunga durata» (Read, 2012: 13). L’antropologa si riferisce in particolare agli effetti collaterali dei farmaci psicotropi che molto spesso sembrano opporsi in maniera evidente alla concezione locale di salute: nella vita quotidiana di chi vive e, soprattutto, lavora nel Ghana rurale, le sensazioni prolungate di debolezza e sonnolenza – tipici effetti collaterali dei farmaci antipsicotici – sono percepite come opposte all’idea di

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salute e possono trasformarsi addirittura in condizioni invalidanti a loro volta. Il problema della percezione degli effetti collaterali dei farmaci psicotropi, nei termini in cui lo descrive Read, è profondamente presente e rilevante anche nell’esperienza delle tante persone che ho sentito lamentarsi con il personale del reparto – e a volte rifiutare i farmaci – perché dormivano troppo, non riuscivano a fare nulla o vedevano i propri familiari affrontare il susseguirsi dei giorni in uno stato di quieta prostrazione. La percezione locale degli effetti collaterali dei farmaci psicotropi è un elemento importante perché complica le narrazioni che vorrebbero spiegare tutto nei termini di una opposizione tra psichiatria e medicina “tradizionale”/“spirituale”, ma allo stesso tempo ci ricorda quanto può essere rischioso ridurre le scelte dei pazienti e dei loro familiari a una mera dimensione economica. D’altro canto, però, questa dimensione – senza mai essere esaustiva – rimane centrale anche quando si sposta l’attenzione più in particolare sul rapporto concreto tra infermieri e guaritori. In accordo con l’importanza che gli operatori conferiscono loro, gli outreach nei prayer camp si configurano come delle situazioni fondamentali per riflettere sul rapporto con i profeti. Durante la mia permanenza in area nzema, ho avuto la possibilità di assistere a diversi incontri con i singoli asofo o con la loro comunità di fedeli. In una particolare occasione, ho partecipato a un outreach mirato specificamente a “visitare” i pazienti di un prayer camp che intratteneva relazioni piuttosto stabili con il reparto: l’esofo consigliava 236

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ai suoi pazienti di rivolgersi agli infermieri quando lo riteneva opportuno e li chiamava in caso di emergenza. Era la prima volta che entravo in quel prayer camp: era uno spazio piuttosto grande e pieno di pazienti. Mentre cercavo di orientarmi, Michael, l’infermiere che era con me, si muoveva in modo rapido e deciso. Riconobbe subito un ragazzo seduto all’ombra di un albero, nel centro del campo, e lo salutò: si trattava di un ex-paziente che aveva smesso di prendere le sue medicine e, a quanto diceva Michael, aveva avuto un’evidente ricaduta. In realtà, come avrei notato solo più tardi, quel ragazzo non era semplicemente seduto, era incatenato all’albero che gli faceva ombra. Come lui, altre due persone: un uomo magrissimo e seminudo, che di tanto in tanto lanciava delle urla lancinanti, e una ragazza ben vestita e dall’apparenza sana, originaria della Costa d’Avorio, con cui mi ero fermata a chiacchierare appena arrivata, senza accorgermi del piccolo lucchetto verde che la teneva legata al grosso albero alle sue spalle. Tornando in quel prayer camp nei giorni seguenti avrei parlato a lungo con alcune delle persone che ci vivevano. Quella mattina però mi guardavo intorno, cercando di comprendere le dinamiche che attraversavano quel luogo abitato da pazienti e familiari intenti nelle loro attività quotidiane: c’era chi sembrava essere in attesa di qualcosa, chi parlava tra sé e sé, chi urlava, chi cucinava, chi stendeva i panni appena lavati... nel frattempo Michael aveva cominciato a fare dei brevi colloqui con ognuno dei presenti, compilando un foglio prestampato per la diagnosi. Mentre parlava con una delle donne, dall’albero

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accanto si sentì la voce di Ama – la ragazza con cui avevo chiacchierato appena arrivata – commentare ad alta voce, con tono lapidario: «C’est l’argent qui parle». Quella frase mi lasciò interdetta. Non sapevo bene che significato darle e non ricordo nemmeno se in quel momento avessi già capito che la ragazza era una delle pazienti. A ogni modo, Michael non sembrava affatto turbato e continuò per tutta la mattinata a fare colloqui e diagnosi. Ogni colloquio di valutazione si concludeva con la prescrizione di uno o più farmaci. Michael, infatti, non era arrivato a mani vuote. Aveva portato con sé una valigetta piena di pastiglie. Il costo dei medicinali prescritti oscillava tra i 15 e i 40 cedis, cifre importanti. «Ci sono tanti casi qui, è una buona cosa per noi» mi disse a un certo punto preso da un vivo entusiasmo. Senza voler cadere nel cliché del “matto che dice la verità”, quell’affermazione decisa e provocatoria è stata fondamentale per me per mettere a fuoco il ruolo del binomio denaro-farmaco nella pratica dell’outreach a cui avevo partecipato. «È il denaro che parla»: senza dubbio la nostra visita al prayer camp si configurava per Michael anche come una sorta di investimento di natura economica. In effetti, il ruolo attivo degli infermieri nel reperimento e nella rivendita dei farmaci psicotropi – che lo stato dovrebbe fornire gratuitamente – si colloca in modo problematico tra due estremi. Due estremi pensati nel senso etico comune come opposti, ma che nell’ordine neoliberista si sovrappongono: la cura, da un lato, e il mercato, dall’altro (cfr. Biehl 2012). 238 238

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Come sostiene Biehl nel suo lavoro, negare, sulla base di un dualismo irreale, le relazioni che intercorrono tra universo della cura e universo del mercato, significa ignorare un aspetto fondamentale del mondo contemporaneo. Significa inoltre esimersi dalla possibilità di riflettere, attraverso l’etnografia, su quelle condizioni di abbandono, di indigenza e di povertà che sono spesso cruciali nella vita di chi fa esperienza della sofferenza mentale in area nzema. In quest’ottica, l’ambigua posizione degli infermieri psichiatrici, che da un lato cercano di combattere l’inadeguatezza strutturale dei propri servizi e la frustrazione che ne deriva per «aiutare i pazienti», e dall’altro investono nella vendita di medicinali – medicinali che i loro pazienti, nella maggioranza dei casi, non possono permettersi con continuità – emerge in modo particolarmente evidente in una situazione come quella descritta. Conclusioni Analizzare la natura delle relazioni che gli infermieri psichiatrici instaurano concretamente con i “guaritori spirituali” nei prayer camp, in un contesto specifico come quello nzema, può essere proficuo per diversi motivi. In primo luogo, può aiutarci a escludere qualunque ipotesi di incompatibilità tra orizzonti di senso e pratiche di cura sia dal punto di vista dei pazienti – come appare evidente anche dai loro complessi percorsi terapeutici fatti di tentativi, deviazioni e spostamenti tra risorse differenti – sia dal punto di vista dei terapeuti. 239

In secondo luogo, guardare a queste relazioni da un punto di vista etnografico è utile per sottrarre i prayer camp a quell’aura di “disumanità” che spesso li avvolge nei discorsi delle istituzioni nazionali e internazionali (Taylor 2016) e che finisce per descrivere la scelta delle tante persone che decidono di rifugiarvisi come irrazionale12. Inoltre, il fatto che la collaborazione auspicata sul piano nazionale in alcuni casi esista già non ci permette solo di ridimensionare la contrapposizione tra psichiatria e prayer camp nell’arena della salute mentale, ma anche di comprendere meglio i limiti e le ambiguità di questi tentativi di lavoro fianco a fianco. In un recente studio inter-disciplinare, condotto ad Accra, sulle possibilità di collaborazione tra personale biomedico e “guaritori spirituali” nei prayer camp (Arias et al. 2016), gli autori affermano che, nonostante alcuni ostacoli – in particolare, lo scetticismo dei profeti sull’uso dei farmaci psicotropi sul lungo periodo e il ricorso a pratiche come la contenzione fisica e il digiuno nei prayer camp – vi è da entrambe le parti, in termini generali, la disponibilità e la volontà di collaborare nel rispetto delle reciproche posizioni: «I tentativi di collaborazione che dovessero cercare di separare completamente la prospettiva spirituale da quella biomedica nella presa in carico dei pazienti affetti da gravi malattie mentali si dimostrerebbero probabilmente

12 Vedi anche B. Goldstone, A Prayer’s Chance, in «Harper’s Magazine» May 2017: https://harpers.org/archive/2017/05/a-prayers-chance/3/ 240

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infruttuosi […]: sia lo staff dei prayer camp che gli operatori biomedici [intervistati nel corso della ricerca] hanno sottolineato che – per molti pazienti, ma anche per loro stessi – spesso l’esperienza della malattia mentale avviene attraverso una lente che è sia biomedica che spirituale». (Arias et al. 2016: 13) Questa conclusione appare condivisibile anche alla luce degli esempi di collaborazione cui ho assistito e dei dialoghi che ho avuto io stessa in area nzema. Tuttavia, quando nello stesso articolo, gli autori parlano di «monitoraggio regolare dei pazienti cui sono stati prescritti dei trattamenti psichiatrici» o di «consegna dei farmaci» presso i prayer camp da parte del personale biomedico, non fanno riferimento alla dimensione economica di queste operazioni. Come ho tentato di sostenere in questo articolo, la mancata gratuità dei servizi psichiatrici è un elemento fondamentale per comprendere l’esperienza di sofferenza di molti pazienti ed ex-pazienti psichiatrici, ma anche il modo in cui la sfera della cura e quella del mercato si sovrappongono in un’arena così complessa e delicata come quella della salute mentale. C’è, inoltre, un altro aspetto chiave su cui è necessario soffermarsi: il fatto che le relazioni tra reparto psichiatrico e prayer camp si strutturino proprio attraverso lo psicofarmaco. Al di là della dinamica della compravendita all’interno dei prayer camp – che mostra su un piano micropolitico le contraddizioni e i limiti della cura professionale nella società neoliberista ghanese – l’”efficacia” manifesta del

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farmaco psicotropo rivendicata dagli infermieri è il mezzo principale che questi ultimi usano per avviare il dialogo con i prayer camp. Nei tentativi di collaborazione che ho osservato, infatti, l’apporto degli infermieri si riassume principalmente nella somministrazione di sostanze che agiscono sugli effetti della malattia come forma di controllo. Da questo punto di vista, le posizioni di operatori psichiatrici e guaritori rimangono ben definite: i primi si dichiarano convinti che quella che propongono sia l’unica vera cura, mentre i secondi si ritengono i soli a poter intervenire in modo duraturo sulla radice spirituale della malattia, estirpandola senza limitarsi ai soli effetti. Se l’inaccessibilità effettiva dei farmaci è un primo elemento che fa emergere i limiti di una ipotesi di collaborazione così strutturata, la percezione locale degli effetti degli psicofarmaci discussa da Ursula Read nell’articolo citato sopra (2012) richiama la nostra attenzione sulla necessità di porre seriamente in questione la maniera stessa in cui la psichiatria si presenta come “soluzione” nell’arena della salute mentale, problematizzando il dispositivo del farmaco su cui fonda la sua pratica terapeutica. Dall’esperienza etnografica, dunque, emerge un panorama molto più complesso di quello descritto nelle parole dei rappresentanti delle istituzioni che attribuiscono alla “cultura tradizionale” la sofferenza e l’abbandono a cui molte persone affette da un malessere mentale sembrano condannate. Lungi dal poter fornire delle conclusioni definitive sulle questioni trattate, si vuole qui sostenere 242

Saggio Ghana

la necessità di intrecciare più sguardi e prospettive nella ricerca sulla salute mentale in Ghana: un contributo al dibattito pubblico su questo tema non può che partire dal riconoscimento dell’ambiguità delle relazioni che si inscrivono nei corpi di chi soffre e di chi cura e, allo stesso tempo, dalla convinzione che le esperienze di dolore e di abbandono, oltre a meritare attenzione, rispetto e impegno, abbiano più di altre, parafrasando João Biehl (2007: 81), il potere di rivelare il modo in cui stanno cambiando – nell’Africa contemporanea in questo caso – le relazioni familiari (e di cura), la biomedicina e lo Stato.

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Leggi Act 575, Traditional Medicine Practice Act, 2000 Act 846, The Mental Health Act, 2012

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Un’indagine sulla disabilità motoria nell’area nzema del Ghana. Risultati preliminari di un progetto di ricerca Fabiana Pasquazzi Quest’elaborato è il risultato di una ricerca ancora in itinere sulla disabilità – prevalentemente motoria – nell’area nzema della Western Region del Ghana, dunque i dati raccolti – tra il 2016 e il 2017 – non sono del tutto esaurienti. Lo scopo principale è quello di fornire un resoconto generale sull’argomento preso in esame, attraverso una narrazione esplicativa della condizione locale rilevata. Al momento l’incompletezza delle informazioni non permette di avanzare teorizzazioni di carattere generale definitive. La prima ricerca sul campo si è svolta in parte in una scuola per persone con disabilità motoria situata a Eikwe, villaggio costiero del distretto Elengbenle della Western Region. L’istituto è un Inclusive Catholic Vocational/ Technical Institute, ciò significa che si tratta di una struttura privata e religiosa nata con lo scopo di insegnare materie tecnico-professionali a ragazzi con disabilità motoria. Al fine di creare un ambiente educativo inclusivo, la scuola consente e promuove l’iscrizione di studenti normodotati. Ciò che è emerso durante questa prima fase di ricerca ha riguardato principalmente dati quantitativi, il movimento autoctono per i diritti delle persone con disabilità, il ruolo svolto dai distretti amministrativi in relazione alle politiche

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a sostegno dei disabili, la “scuola speciale” di Eikwe, i diritti acquisiti e negati da questa parte della popolazione e le percezioni e concezioni locali inerenti alla disabilità. Partendo da alcuni dati discordanti sulla percentuale di persone con disabilità presenti sul territorio, si arriva alla descrizione della civil society organitation denominata Ghana Federation of Disability Organitations (GFD), evidenziandone l’operato a livello locale e nazionale. La GFD è promotrice dei diritti delle persone con disabilità e sostiene fortemente il diritto all’istruzione, spesso negato – per via di circostanze non controllabili (povertà, percezioni negative ecc.) – a questa parte della popolazione. In Ghana le “scuole speciali”, come quella di Eikwe, sono state per molto tempo gli unici poli di formazione – o quasi – ai quali le persone con disabilità hanno avuto accesso. In questa sede saranno descritti alcuni dati raccolti in questa struttura, per fornire un quadro della situazione rilevata all’interno di un istituto per disabili. Il tema dell’istruzione ha sollevato una serie di quesiti che interessano l’ambito amministrativo, ciò ha reso necessaria la comprensione del ruolo dei distretti nell’attuazione delle leggi sulla disabilità. Un distretto ha a disposizione un fondo comune. Di questo fondo il 2% è stanziato dallo Stato per questioni riguardanti la disabilità. La diseguaglianza educativa esperita dalle persone con disabilità è sintomo della negazione di alcuni diritti fondamentali, diritti che in qualche modo la ratifica di nuove leggi e convenzioni tenta di sostenere con molta difficoltà. 248

In Ghana

Difficoltà dovuta non solo alla lentezza con cui gli atti legali sono messi in pratica, ma anche dalle attitudini negative di gran parte della popolazione nei confronti di questa minoranza. L’ultima parte di questo elaborato tratta delle percezioni e delle concezioni locali riguardanti la disabilità, allo scopo di comprendere dove nasce e perché perdura la stigmatizzazione. Dati numerici discordanti. Una minoranza neanche troppo esigua Nel 2011 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) rileva che il 15% della popolazione del Ghana presenta disabilità. In un articolo dell’International Journal of Inclusive Education (Singal N. et al. 2015: 2-3) vengono riportati i dati del report della Ghana Statistical Service (GSS) – desunti dal Population and House Census del 2010 –, secondo i quali il 2,99% della popolazione presenta disabilità – all’incirca settemila persone –. Questi dati, affermano gli autori, sono sottostimati se si considera il resoconto dell’OMS del 2011. La discordanza numerica è ulteriormente enfatizzata dalla dichiarazione della Ghana Federation of Disability Organizations (GFD) di rappresentare oltre tre milioni di persone all’interno del paese. La tavola trentadue (GSS 2012: 81) del report della GSS indica che: il 3% della popolazione presenta disabilità (per un totale di 737.743 persone), le menomazioni visive sono la forma di disabilità più diffusa (1,2 %, corrispondente a 249

295.720 persone), lo 0,8% presenta una disabilità di tipo motorio (187.522 persone) – seguono altre tipologie di disabilità – e che il tasso di disabilità è similare tra gli uomini e le donne. Nella Western Region del Ghana – regione all’interno della quale è situata l’area nzema oggetto della seguente ricerca – 66.016 persone presentano disabilità su 2.310.005 abitanti, di cui 16.654 con disabilità motorie – definite physical (disability) nel report –. Pur non coincidendo i dati numerici delle fonti, si può comunque affermare che si tratta di un numero considerevole di individui sul totale della popolazione regionale e nazionale. Di quali tutele e organi di rappresentanza questa minoranza, neanche troppo esigua, può usufruire? La Ghana Federation of Disability Organizations Il 21 agosto 2012 l’ufficio degli affari legali delle Nazioni Unite annuncia la ratificazione da parte del Ghana della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con la quale il Ghana si impegna a rispettare i diritti umani di tutti i cittadini, inclusi quelli con disabilità. La realtà mostra una situazione più complessa, che prescinde l’ambito legale e che è possibile in parte desumere dalla dichiarazione dell’associazione Human rights watch, rilasciata dopo la ratifica della convenzione poc’anzi menzionata: «While Ghana was one of the first countries to sign the Disability Rights Convention, in March 2007, it took the government more than five years to complete the ratification process. During this delay, people with 250

In Ghana

disabilities, and especially people with mental disabilities, have continued to experience severe violations of their human rights, including the rights to liberty, access to healthcare, and freedom from discrimination» (Human Rights Watch, August 22, 2012, www.hrw.org). L’esempio del Ghana evidenzia come, nonostante la diffusione internazionale del movimento dei diritti per la disabilità e le pressioni esercitate da enti intergovernativi come le Nazioni Unite, è possibile registrare un ritardo e una distanza tra atti ratificati e attuazione – pratica – degli stessi nei singoli contesti locali e distrettuali ghanesi. Questo ritardo è imputabile all’assenza di una valutazione, da parte degli organi rappresentativi occidentali, dei singoli contesti «quali quelli degli enti locali africani che hanno risorse limitate e vivono in relazione di dipendenza e di fragilità» (Sidibe 2008: 61). Ingstad e Whyte (2007), nel volume Disability in Local and Global Worlds, documentano, attraverso diversi casi di studio, la diffusione internazionale del movimento dei diritti per la disabilità. Gli autori affermano che negli ultimi venti anni, la propagazione planetaria di questo movimento abbia migliorato le vite delle persone con disabilità e la loro inclusione sociale, sebbene in maniera discontinua. Sostanzialmente i “buoni propositi” da parte del governo ghanese sono espressi dalle leggi e dai documenti ratificati, il problema, come afferma anche Sidibe, è che mancano i mezzi per attuarli. Ciononostante è possibile affermare che l’influenza del movimento internazionale dei diritti

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per la disabilità abbia esercitato il suo potere nel contesto nazionale – e locale – considerato, influsso riscontrabile nella presenza capillare sul territorio della Ghana Federation of Disability Organizations. La GFD rappresenta oltre tre milioni di persone in Ghana; è una civil society organitation che raggruppa tutte le principali associazioni che si occupano di disabilità nel paese. Precedentemente conosciuta come Ghana Federation of Disabled (GFD), era composta dalla Ghana Society of the Physically Disabled (GSPD), Ghana Blind Union (GBU), Ghana National Association of Deaf (GNAD) – questo fino a inizio 2016 – . Durante il corso dell’anno (2016) è stata costituita la nuova federazione, che ha incluso anche la Ghana Association of Persons with Albinism (GAPA) e Inclusion Ghana (IG), associazione per le persone con disabilità intellettive, oltre alla Mental Health Society of Ghana (MEHSOG), che lavora con persone che presentano disabilità mentali e psico-sociali, e la Sharecare Ghana, che si occupa di persone con disabilità multiple. Quest’organizzazione promuove il diritto all’istruzione, al lavoro, alla salute, al benessere economico; lotta per un regime legislativo che sia sensibile alle problematiche e ai diritti delle persone con disabilità. Si pone spesso come garante e come intermediario tra il singolo e le varie istituzioni con le quali ci si destreggia, come ad esempio i distretti, gli enti sanitari, le istituzioni scolastiche; sostanzialmente si batte per ottenere leggi, politiche e programmi inclusivi per le persone con disabilità, 252

In Ghana

per cercare di estirpare la stigmatizzazione alla quale è sottoposta questa parte della popolazione. La GFD è capillarmente diffusa sul territorio – come già detto in precedenza – ; in linea generale1 è costituita da branch locali presenti in ogni distretto e ogni associazione appartenete alla federazione è rappresentata. Ogni regione ha un coordinatore generale e un coordinatore per ogni associazione della federazione. Ogni branch distrettuale ha un direttore e un segretario, e a sua volta ogni associazione distrettuale ha un direttore (chairman) e un segretario; è presente anche la figura del vice direttore, presuppongo a partire dal livello regionale fino ad arrivare a livello delle singole associazioni. Le singole associazioni hanno dei referenti locali disseminati sul territorio: ad esempio la GSPD del distretto Jomoro ha referenti a Egbazo, Ahobrè, Takinta, Bonyere e diversi ad Half-Assini. Questa struttura piramidale permette di gestire la realtà regionale, espandendo il suo raggio d’azione dal distretto fino al più piccolo villaggio. Distretti Il ruolo governativo dei distretti è cruciale a livello locale, poiché la Costituzione del 1992 ha effettivamente delegato l’autorità politica e amministrativa alle assemblee distrettuali, decentralizzando il potere statuale 1 Ad esempio nel distretto Jomoro, non essendo alto il numero di persone con disabilità uditive e non essendo presente un direttore per questa specifica branch locale, la GNAD è stata accorpata alla GSPD. Dunque nel distretto Jomoro è presente la GBU e la GSPD a livello formale. 253

e istituzionalizzando il potere decisionale a livello delle grassroot.2 Le assemblee di distretto prendono e attuano decisioni e s’impegnano in attività richieste per far fronte alle necessità della popolazione nelle aree sotto la loro giurisdizione, si occupano di servizi economici, educativi, servizi riguardanti la salute, l’igiene ambientale, servizi ricreativi e di pubblica utilità. È dovere delle assemblee distrettuali pianificare e assicurare l’implemento dei servizi attraverso l’assistenza fornita da agenzie governative specializzate e dalle ONG, per permettere alle persone con disabilità di andare a scuola, avere accesso a cure sanitarie di qualità, garantire la formazione professionale, le opportunità lavorative e di partecipare alla vita sociale delle loro comunità. Il processo di decentralizzazione ha dunque trasferito gran parte delle responsabilità legate all’erogazione dei servizi a livello distrettuale. A questo spostamento di responsabilità non è corrisposto un effettivo dislocamento delle risorse per i costi di gestione o di controllo. Le risorse finanziarie riservate alle assemblee distrettuali sono chiamate fondo comune e sono divise tra i distretti in base al numero di indicatori che riflettono il tasso di povertà, numero della popolazione, l’ammontare dei fondi generati internamente e il “fattore di bisogno”, che

2 Un movimento grassroots o di base è un movimento guidato dalla politica di una comunità. Il termine implica che la creazione del movimento e del gruppo che lo sostiene siano naturali e spontanee, evidenziando le differenze tra questo e un movimento che è orchestrato da strutture di potere convenzionali. 254

In Ghana

è stato introdotto per ridurre i correnti sbilanciamenti nello sviluppo. In questo modo i distretti con alti livelli di povertà ottengono più fondi. Le linee guida fornite per l’utilizzo del fondo comune stabiliscono che il 2% dei fondi dovrebbe essere destinato a questioni riguardanti la disabilità. Le assemblee distrettuali hanno lamentato una mancanza di linee guida chiare nella gestione del 2%. La scuola di Eikwe Il St. Luke’s Inclusive Catholic Vocational/Technical Institute è una scuola secondaria professionale per ragazzi con disabilità motoria, l’unica presente in tutta la Western Region; si trova a Eikwe, paese costiero del distretto Elengbenle. La scuola è di proprietà della diocesi cattolicoromana di Takoradi-Sekondi; è stata aperta nel 1997 per volere di Padre John Adade e ristrutturata e nuovamente inaugurata nel 2010 grazie al contributo della ONG Africa action / Deutschland e.V. Lo scopo dell’istituto è quello di fornire una preparazione di tipo tecnico; possiede dipartimenti di sartoria, calzoleria, elettricista, batik tie & dye,3 gioielleria, parrucchiere, artigianato con il bamboo e carpenteria. Le discipline sono tutte di tipo pratico, poiché il fine formativo è quello di permettere alle persone con disabilità motoria e anche normodotate di acquisire competenze utili alla ricerca di un’occupazione lavorativa o all’apertura 3 Tecniche tradizionali e manuali di stampa e colore dei tessuti. 255

di una propria attività. Il programma didattico prevede anche l’insegnamento dell’inglese e della matematica, per sopperire alla mancata alfabetizzazione della maggioranza degli studenti diversamente abili, come ho potuto riscontrare durante la prima ricerca sul campo, rilevando il dato secondo il quale su 17 studenti disabili solo 6 sapevano leggere e scrivere, mentre i restanti 11 non avevano frequentato alcuna scuola prima di arrivare al St. Luke’s. Durante il 2015 la ONG che ha partecipato al progetto di sviluppo ha iniziato a diminuire i sovvenzionamenti, non pagando più gli stipendi degli insegnanti e non fornendo più alcun supporto finanziario, fino ad arrivare alla decisione di ritirare definitivamente il suo impegno nei confronti della scuola, ritenendo che dopo tutti questi anni la diocesi, in quanto proprietaria, dovesse iniziare a impegnarsi attivamente nel mantenimento dell’istituto. I problemi dovuti alla cattiva gestione della scuola da parte del precedente direttore e il ritiro della ONG hanno condotto la scuola al collasso. Nei mesi seguenti la scuola è stata riaperta ed è stata assunta una nuova direttrice, ma a causa di fraintendimenti con i distretti d’appartenenza degli ex-studenti – riguardanti la falsificazione dei conti delle quote scolastiche da parte del precedente direttore –, di problemi di approvvigionamento e lo scarso interesse da parte della popolazione locale, ci sono state difficoltà che hanno rallentato il riavviamento della scuola. Annelis Kusters (Kuster A. 2015), in una ricerca svolta 256

In Ghana

nel 2009 ad Adamorobe,4 villaggio agricolo situato nella Eastern Region del Ghana, dove 41 abitanti su 3500 erano non udenti, ha rilevato che sono state le ONG, le chiese e i benefattori privati a occuparsi in qualche misura di fornire supporto alle persone non udenti del paese, mentre lo Stato è risultato quasi assente nell’assistenza alle persone con disabilità – nonostante il Ghana abbia firmato la Disability Rights Convention nel 2007 e abbia ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità nell’Agosto 2012. Un’agenda politica che testimonia una volontà di cambiamento, volontà che fatica a essere attuata – . La situazione rilevata a Eikwe non differisce di molto da quella descritta dalla Kusters: la scuola di Eikwe è privata ed è di proprietà di un ente religioso, è stata ristrutturata da una ONG straniera ed è l’unico istituto per disabili in tutta la Western Region. L’assenza dello Stato manifesta la sua evidenza allorquando il ministro dell’istruzione non ottempera alla promessa di inserire nel circuito scolastico nazionale l’istituto St. Luke’s – non sobbarcandosi così l’onere di stipendiare gli insegnanti come promesso –. L’assenza dello Stato è segnalata anche nello studio di Morley et al. (Morley L. F. et al. 2010). In riferimento alle persone con disabilità iscritte a un istituto d’istruzione

4 La presenza di un gran numero di persone non udenti nel villaggio di Adamorobe ha portato allo sviluppo di un linguaggio dei segni specifico (Adamorobe Sign Language, AdaSL), condiviso all’interno dell’intera comunità e dunque utilizzato e conosciuto anche da gran parte della popolazione udente. 257

superiore, gli autori evidenziano alcuni problemi, che spaziano dalle difficoltà nell’accedere agli edifici, alla mancanza di appropriate fonti di apprendimento – come ad esempio il Braille –, alle attitudini negative, all’ignoranza e al pregiudizio. Il St’Lukes è interamente progettato senza barriere architettoniche, ma presenta la problematica di essere situato lontano dalla strada principale, dopo una lunga distesa di sabbia; anche se la scuola possiede un pick-up, non è sempre possibile avere a disposizione una persona che guidi il veicolo. In merito all’apprendimento, le questioni riscontrate sono state la difficoltà di approvvigionamento di materiali educativi con i quali esercitarsi (è una scuola tecnica) e la mancanza negli ultimi anni di un insegnante di inglese e matematica. Dunque, l’assenza totale dello Stato – più che evidente – e la dipendenza creata dai sovvenzionamenti delle ONG non ha portato all’elaborazione di un piano di sviluppo adeguato che permettesse alla scuola di sostenersi da sola. Le problematiche riscontrate I diritti acquisiti e quelli negati Dopo aver presentato alcuni dati e gli enti coinvolti è possibile procedere con il reportage della situazione rilevata sul campo. In Ghana l’istruzione e le cure mediche sono a titolo parzialmente gratuito per le persone con disabilità, è lo Stato che in diverse modalità copre queste spese. Nel caso dell’istruzione, è l’istituto che deve presentare il conto al 258

In Ghana

distretto di appartenenza dello studente, per ricevere il pagamento della retta scolastica. Tale importo proviene dal 2% del fondo comune, stanziato per questioni riguardanti la disabilità; il dipartimento distrettuale di competenza è quello del Social Welfare. Spesso i direttori delle branch locali (distrettuali) della GFD si pongono da intermediari tra la scuola, la famiglia e il distretto, raccogliendo le ricevute delle rette scolastiche e presentandole all’ufficio del Social Walfare del distretto d’appartenenza. Nel caso dell’assistenza sanitaria, il paziente può recarsi in un ospedale o in un ambulatorio per visite, analisi, prescrizioni e medicinali con il proprio tesserino sanitario. Tutte queste prestazioni non sono coperte nella loro totalità: ad esempio nel caso di una terapia permanente viene fissato un dosaggio mensile oltre il quale il paziente, in caso di necessità, deve provvedere di tasca propria, lo stesso vale per altri medicinali e prestazioni non coperti dal servizio assicurativo. La questione dell’assicurazione sanitaria in generale è molto complessa, poiché le prestazioni e i medicinali inclusi nel pacchetto base – che è quello maggiormente diffuso – sono limitati; per tutto il resto il singolo deve pagare, anche in caso di operazioni chirurgiche. Non è stato ancora possibile appurare se solo le cure di base siano a titolo gratuito per i portatori di disabilità e quali costi l’assicurazione sanitaria copra; è ipotizzabile che ci siano delle liste di riferimento alle quali gli enti sanitarie si rifanno. Per accedere al 2% del fondo comune è necessario presentare istanza presso il distretto, specificando l’importo

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e lo scopo della richiesta, successivamente vengono vagliate le domande e, in caso di esito positivo, il distretto procede con un assegno. Il denaro arriva da un conto bancario separato dal resto del fondo comune, nel quale viene versato il 2%, al quale solo il distretto può accedere. Molto spesso la burocrazia fa sì che le tempistiche siano molto lunghe e di frequente le richieste vengono rigettate per mancanza di fondi. Un esempio di tipologia di domanda presentata è la richiesta di una sovvenzione per avviare una piccola attività commerciale. Un’altra tipologia di richiesta è quella per coprire i costi di formazione come apprendista presso un artigiano o simili – ad esempio presso una sartoria –, oppure una sovvenzione per acquistare un triciclo. Di base il distretto elargisce parte di questo fondo a un numero limitato di persone, con lo scopo di poter dimostrare allo Stato centrale che i soldi stanziati a tal proposito siano stati impiegati. Parte del 2% rimane nelle casse del distretto ed è utilizzato per altro – secondo alcuni dei miei informatori –. Dunque un disabile in Ghana non percepisce alcuna pensione di invalidità e l’unica maniera per condurre una vita dignitosa è cercare di essere sovvenzionato dal distretto per aprire una piccola attività commerciale, oppure cercare un lavoro dipendente. Nel primo caso, come già spiegato, non è semplice, nel secondo, oltre alle capacità acquisite dal singolo, entra in gioco l’attitudine del datore di lavoro, difficilmente disposto ad assumere una persona con disabilità fisiche, poiché ritenuta meno efficiente di un normodotato; a tal proposito porto ad esempio due storie di vita: 260

In Ghana

Patrick è un ragazzo di Takoradi-Sekondì sulla sedia a rotelle, ha frequentato per due anni il St’Lukes seguendo il corso di Electronics (riparazione di elettrodomestici quali tv, radio ecc.), ha sostenuto degli esami intermedi ma non ha mai conseguito il diploma finale (National Vocational Training Institute Certificate, N.V.T.I. Certificate). Aveva abbandonato la scuola da parecchi mesi e aveva provato a chiedere in un negozio di riparazioni di elettrodomestici di fare praticantato, il proprietario gli ha risposto che nelle sue condizioni non sarebbe mai stato in grado di sollevare un televisore o di muoversi agilmente per andare a casa dei clienti. Mr. Kwasi è un uomo di mezza età non vedente di Half-Assini, è il direttore della branch locale della GFD del distretto Jomoro e chairman della GBU dello stesso distretto. Lavora all’ufficio postale, conosce a memoria tutte le strade di Half-Assini attraverso le quali ti trascina con un passo veloce e deciso. Ogni giorno trasporta a mano enormi sacchi pieni di posta dalla stazione dei taxi di HalfAssini fino all’ufficio postale. Ho riportato due storie di vita differenti solo per far riflettere su quanto sia indispensabile la buona attitudine del datore di lavoro – nei confronti delle persone con disabilità – al fine di ottenere un impiego. In Ghana non vi sono in atto politiche inclusive in questo settore che obblighino un dato ente o una società ad assumere una percentuale di dipendenti con disabilità. Il tasso di disoccupazione tra i ghanesi con disabilità è al 45%, mentre quello della popolazione in generale è al 23%

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(GSS, 2008); una differenza notevole che urge colmare attraverso politiche efficaci che incrementino l’occupazione delle persone disabili. Il lavoro non genera solo reddito, ma fornisce anche opportunità di partecipazione sociale, che accrescono il benessere psicologico e migliorano le condizioni di vita (Cfr. Naami, Hayashi 2014: 3). Percezioni e concezioni locali La questione dell’attitudine personale nei confronti dei portatori di disabilità e il dato rilevato, seppur nel piccolo della scuola St. Luke’s, sulla mancanza di alfabetizzazione tra i giovani di questa classe sociale – confermato da molti dei miei informatori esterni alla scuola –, solleva interrogativi sulle percezioni locali. Se l’istruzione è gratuita, perché la maggior parte dei ragazzi con disabilità non è in grado di leggere e di scrivere? Soprattutto nel caso di persone con disabilità motoria, che non necessitano di una metodologia educativa differente da quella di un normodotato, per quale motivo la grande maggioranza non è alfabetizzata? Sicuramente il fattore economico gioca un ruolo importante nella scelta di intraprendere un percorso di formazione; nonostante le rette scolastiche siano pagate dal distretto, mantenere un figlio al di fuori della famiglia ha un costo: beni di prima necessità, alimentazione, quote d’iscrizione alla scuola (di 180 Ghana Cedis nel caso del St. Luke’s), quote da versare per sostenere gli esami intermedi e finali (200 Ghana Cedis), soldi per comprare materiali didattici – libri o altro previsti dall’indirizzo dell’istituto 262

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che si frequenta –, ecc.5 Un impegno molto pesante per la maggioranza della popolazione sostanzialmente povera. Vista la problematica, la GFD ha da sempre posto tra i suoi obiettivi primari l’istruzione, facendo propaganda in ogni villaggio e discutendo con i genitori della sua importanza. La mancanza d’istruzione rilevata porta a riflettere sulla posizione svantaggiata dalla quale una persona con disabilità parte in ambiente scolastico e lavorativo. La percezione e l’attitudine negativa nei confronti della disabilità, in diversi ambiti del vivere quotidiano – famiglia, scuola e lavoro –, fa riflettere sulla forte stigmatizzazione che affligge questa parte della popolazione – ulteriormente vessata dall’assenza di tutele importanti –. Le percezioni sociali negative sono state descritte in vari studi, come ad esempio quello svolto da Baffoe, che ha riportato le esperienze personali di palese discriminazione, stigmatizzazione ed etichettatura in negativo subita da persone disabili (Baffoe M. 2013: 187–198). Un altro esempio è il lavoro di Appiagyei-Atua, il quale rileva come le credenze religiose e culturali portino a considerare la disabilità una sorta di punizione per i peccati commessi dagli individui, dai loro genitori o dagli antenati, con il risultato di essere esclusi socialmente (AppiagyeiAtua K. 2006).

5 Ho riportato i costi dell’istruzione rilevati al St’ Lukes Institute di Eikwe. Essendo un istituto professionale, gli studenti necessitano di acquistare materiali con i quali lavorare, il risultato di tale lavoro deve essere sottoposto alla visione degli esaminatori durante la prova finale per ottenere la certificazione N.V.T.I. 263

Nell’area presa in esame, medicina e religione tradizionale sono indissolubilmente legate alla cultura e ai valori sociali di riferimento; sebbene la diffusione principalmente del cristianesimo nelle sue diverse confessioni, e in secondo luogo dell’islam, abbia prodotto sincretismi e mutamenti, i valori tradizionali dominati rimangono operativi (Cfr. Twumasi 1975: XV), come conferma anche Pavanello: «Nonostante la capillare influenza di confessioni cristiane e dell’Islam, l’area nzema è caratterizzata – come d’altronde l’intera Africa sub-sahariana – da una straordinaria persistenza di credenze e forme di culto pre-europee che coesistono con le confessioni religiose di origine esterna. È frequente il caso di individui, o di intere comunità familiari, professanti esclusivamente culti “tradizionali”. È anche usuale trovare persone che ufficialmente frequentano una Chiesa, ma privatamente seguono le antiche pratiche in relazione a particolari necessità, e non ravvisano alcuna contraddizione nel loro comportamento ambivalente» (Pavanello 2012: 834). Per comprendere le cause della marginalizzazione a cui sono sottoposte le persone con disabilità nell’area nzema del Ghana – e generalmente in tutto il Ghana –, è necessario analizzare in maniera più approfondita cosa genera la stigmatizzazione. Nel contesto locale esaminato la stretta connessione tra religione e medicina tradizionale è tale da determinare e influenzare le percezioni e le concezioni culturali in generale e della malattia in specifico (Grottanelli 1978; Schirripa 2008: 25-38, Pavanello 2012: 834). Comprendere il senso 264

In Ghana

del male – strettamente connesso alla cultura dominante tra gli nzema – permette di capire meglio ciò che può situarsi alla base dello stigma attribuito alla disabilità. Tra gli akan6 del Ghana – di cui gli nzema fanno parte –, la spiegazione di molte malattie è da ricercare in comportamenti antisociali adottati da parte del singolo o del gruppo familiare: « [...] la spiegazione del male risiede, in molti casi, in precise cause di ordine “morale”, che il più delle volte coinvolgono la responsabilità della vittima o del suo parentado. Essa è vista come l’effetto di una colpa dell’individuo o di un membro del suo gruppo parentale, che ha infranto il giusto codice di comportamento sociale o ha omesso di tributare le offerte in onore degli antenati e degli spiriti (infrangendo così il corretto comportamento religioso). Altre cause dell’insorgere del male sono considerate uno stato di tensione nei rapporti sociali dell’individuo, o l’azione malefica di una strega o di un fattucchiere (si noterà come anche in questi casi si fa riferimento o a comportamenti antisociali, strega e fattucchiere, o a una situazione di tensione che può influire negativamente sull’equilibrio della comunità)» (Schirripa 2014[2005]: 49). La valenza morale negativa, che caratterizza le percezioni e le concezioni della disabilità nella cultura esaminata,

6 Con il termine akan si indica un gruppo di popolazioni culturalmente omogenee che condividono la stessa cultura, hanno un sistema di discendenza matrilineare e appartengono allo stesso gruppo linguistico. Il gruppo akan rappresenta un’alta percentuale della popolazione ghanese (Cfr. Twumasi P. A. 1975: 14). 265

è collegata al discorso sulla spiegazione del male. Trasponendo ciò che ha affermato Schirripa poc’anzi al caso specifico, è possibile formulare la seguente ipotesi: se la disabilità viene considerata l’effetto di una colpa commessa dal singolo o dal gruppo familiare, ammettere di non essere socialmente integrato equivarrebbe ad ammettere di essere il segno evidente e permanente di una colpa commessa dalla propria famiglia o da se stesso – ciò implica inoltre che non è possibile ristabilire alcun ordine sociale in caso di disabilità permanente – . Anche nel caso in cui il male sia il risultato di un attacco stregonico, la disabilità sottolineerebbe in maniera visibile e duratura una situazione di tensione pregressa presentificandola con la sola vista della persona colpita.7 Quest’ipotesi doterebbe di senso alcuni dati raccolti – o perlomeno indicherebbe la strada da seguire nell’interpretazione di alcune testimonianze rilevate, per poi procedere con un’analisi più approfondita sull’argomento –, tra i quali uno abbastanza curioso rilevato a Egbazo (distretto Jomoro), dove un gran numero d’intervistati (con disabilità motoria) ha affermato di avere buoni rapporti con il resto del villaggio e di non sentirsi discriminato – 15 persone con disabilità motorie su 15 mi hanno fornito questa risposta –.

7 Ad esempio, nel caso di un contenzioso familiare sul diritto di una terra, uno degli antagonisti coinvolti potrebbe decidere di rivolgersi a una strega per sferrare un attacco ai danni del suo concorrente; in questo caso, se l’attacco stregonico causasse una disabilità permanente, questa sarebbe il segno di una tensione mai risolta tra le due parti. 266

In Ghana

Le affermazioni degli intervistati hanno sollevato alcune perplessità, le opzioni possibili potevano essere due: Egbazo rappresentava l’eccezione che confermava la regola, oppure gli intervistati avevano preferito omettere delle informazioni; la seconda è sembrata la più plausibile. Il caso di Egbazo non è l’unica incongruenza rilevata: durante le interviste preliminari – con informatori con disabilità motoria – ho notato una ritrosia diffusa nel parlare – oltre che delle cause sovrannaturali collegate alla loro condizione – dei rapporti con il resto della popolazione locale; situazione che si è risolta mano a mano che si è instaurata una maggiore confidenza con l’interlocutore. Ad esempio, gli studenti con disabilità motoria dell’istituto St. Luke’s di Eikwe inizialmente hanno risposto in maniera molto vaga quando ho domandato loro perché non avessero frequentato le scuole ordinarie – la maggioranza degli studenti con disabilità motoria del St. Luke’s non è alfabetizzata –. Con il tempo, il rapporto di familiarità che siamo riusciti a creare, ha permesso una riapertura del dialogo: alcuni degli studenti mi hanno confidato che si vergognavano ad andare a scuola perché scherniti dai compagni per via della loro disabilità, altri affermavano che erano stati i genitori a non farli studiare. Questi dati preliminari – indicando la possibilità che l’esclusione sociale sia un elemento rilevabile in ambito educativo (studenti del St. Luke’s) e in altre sfere del vivere quotidiano (abitanti di Egbazo) – hanno condotto alla formulazione dell’ipotesi esposta poc’anzi e hanno costituito il punto d’inizio dell’investigazione sulle

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percezioni e concezioni locali della disabilità. Nell’area nzema è stato possibile rilevare una serie di etichette – come le ha definite Agbenyega (2008) – utilizzate per riferirsi alle persone diversamente abili: per rivolgersi o indicare in maniera dispregiativa una persona con disabilità motoria solitamente è utilizzato l’epiteto pozo, parola non appartenente alla tradizione linguistica locale e derivante dal nome inglese di una della malattie che può causare disabilità motoria (poliomyelitis, poliomielite). L’alta diffusione in quest’area di una malattia infettiva come la poliomielite, che può lasciare segni permanenti ben visibili sul corpo, ha fatto sì che l’epiteto pozo entrasse a far parte del linguaggio comune e fosse utilizzato in maniera denigratoria per riferirsi alle persone con disabilità motoria. In seguito ho tentato di esaminare l’ambito semantico in cui la disabilità potrebbe essere posta, analizzando alcuni vocaboli che vengono utilizzate per indicare in maniera dispregiativa una persona con disabilità motoria. Un’altra parola impiegata, oltre a pozo, in questo caso specifico per riferirsi a persone sulla sedia a rotelle, è abubua (pl. mbubua). Cercando di ricostruire il significato di questo termine – non pervenuto nel dizionario nzema Nzema Nee Nrelenza Edwɛbohilelɛ Buluku – è possibile trovare abububɛ che significa paralisi, invece se si cerca il termine paralisi (dall’inglese allo nzema sullo stesso dizionario) esso viene tradotto con abuburayɛlɛ. Abubua, abububɛ, abuburayɛlɛ hanno tutte in comune la radice bubu, che significa rompere, spezzare, rompersi, ma anche paralizzare. 268

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Se si traduce paralizzare dall’inglese allo nzema (sullo stesso dizionario), esso viene indicato sia con la parola bubu che con ewule, quest’ultima significa morte, malattia (death, disease tradotta dallo nzema all’inglese). Sostanzialmente il significato di abubua ruota intorno a termini come paralisi, spezzarsi, rompersi, morte, malattia. Per indicare tutte le persone disabili (non è chiaro se si riferisce solo alle persone con diverse tipologie di disabilità motoria, oppure ai disabili in generale: non-vedenti, nonudenti ecc.) si usa la parola wuliravolɛ (wuliravolɛma, awuliravolɛ), plurale di wuliravo. Wuliravo significa persona malata. L’aggettivo wulira significa debole, disabile, morte. Il prefisso wu viene tradotto con morte. Dunque il termine wuliravolɛ (disabili) contiene al suo interno concetti come disabile, morte, debolezza, malattia. Anche in questo caso la negatività semantica è totale. Osservazioni similari sono state proposte anche in uno studio sulla percezione della disabilità tra gli universitari ghanesi: «Disability in Ghana is usually associated with evil, magical powers (juju), sorcery, and witchcraft (Agbenyega 2002, 2008; Avoke 2002; Kassah 2008). Many believe that disability is a curse from the gods for sins committed by a parent or some ancestors. Often derogatory labels are attached to disability. For example, among the Akan, one of the major Ghanaian tribes, people with developmental disabilities are referred to as ‘‘Nea wanyin agyan’adwene ho,’’ which means ‘‘someone who has outgrown their mind.’’Within the Nchumburun community, a person with a physical disability is called

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‘‘kejabo,’’ which means ‘‘cripple,’’ and those who are hard of hearing are called ‘‘kpawu,’’ which means dumb» (Naami, Hayashi 2012: 101). Il termine politicamente corretto di lingua inglese utilizzato in Ghana per riferirsi a questa categoria di persone è people with physical challenges o physically challenged people, che equivale al termine italiano persone diversamente abili. Soprattutto tra i membri più anziani e istruiti ho rilevato l’enfasi nell’uso di questo termine, quasi a volere cancellare il valore negativo dei vari appellativi utilizzati e ristabilire una neutralità classificatoria. Uno dei miei informatori, durante un’intervista, mi ha corretto perché ho usato il termine disabled, facendomi notare che ora “loro” si definiscono physically challenged people, episodio che fa riflettere su quanto un termine, una classificazione sia importante e tenti di mutare la concezione locale negativa, restituendo a questa parte della popolazione fortemente stigmatizzata un valore neutro, “normalizzandoli” almeno a livello terminologico e in secondo luogo sulla presa di auto-coscienza generale che la disabilità non è inabilità – come recita il motto della GFD –; in questo caso una definizione può essere esemplificativa di un qualcosa che sta cambiando e della mobilitazione delle persone diversamente abili per il riconoscimento di più diritti e tutele.

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Prosperità e globalizzazione nel movimento carismatico ghanese. La teologia del dominio di Mensa Otabil Dario Scozia Introduzione Nel presente saggio verrà brevemente descritto un complesso di dottrine e pratiche cristiane conosciuto come vangelo della prosperità, una corrente del pentecostalismo globale contemporaneo che sembra riscuotere notevole successo tra i più recenti movimenti di rinnovamento della fede africani. Presentando l’International Central Gospel Church (ICGC) – una delle più importanti chiese carismatiche indipendenti di origini ghanesi – e la figura del suo fondatore, Mensa Otabil, si prenderanno in considerazione gli elementi del vangelo della prosperità che conferiscono alla cristianità africana un carattere globale ed estroverso. Attraverso numerose congregazioni africane, europee e americane, l’ICGC promuove una versione della teologia della prosperità in cui la salvezza, sia individuale sia collettiva, è legata in maniera esplicita alla creazione di soggettività africane moderne in grado di muoversi autonomamente all’interno di un sistema di relazioni transnazionali. Tali soggettività, secondo il pensiero religioso di Otabil, permetterebbero agli africani di relazionarsi alla pari, se non addirittura da una posizione di 275

superiorità, con qualsiasi interlocutore occidentale, nonché di varcare liberamente qualunque confine geografico. Il presente capitolo si basa su una prima fase di ricerca sul campo svolta in Ghana, ad Accra, tra luglio e agosto del 2017, preliminare a uno studio di lunga durata sul ruolo delle chiese pentecostali africane di ultima generazione nella mobilità ghanese verso l’Italia. Durante il soggiorno ad Accra l’ICGC e i suoi membri si trovavano nel pieno delle celebrazioni del mese di enfasi spirituale che sarebbero culminate nella trentesima edizione di Greater Works (GW), una delle due conferenze organizzate annualmente in città dall’ICGC. La descrizione di alcuni aspetti organizzativi di GW e delle attività che lo hanno preceduto, delle tecnologie per la comunicazione impiegate nell’allestimento della conferenza, nonché degli ospiti invitati a parlare durante le cinque giornate in cui si è svolto l’evento, permetteranno di illustrare le pratiche e le idee che contraddistinguono la teologia della prosperità e del dominio sviluppata da Otabil. In particolare, si farà riferimento agli elementi che sembrano concorrere alla ridefinizione dei rapporti tra i born again e il mondo, inteso sia come spazio geografico che come l’insieme delle culture e degli uomini che lo abitano. Nonostante costituiscano il settore della cristianità africana attualmente di maggior successo – per crescita in termini di sedi e di fedeli, per visibilità pubblica e influenza sulle altre tradizioni cristiane presenti in Africa – le chiese che predicano il vangelo della prosperità sono solo un 276

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segmento di un più ampio ed eterogeneo movimento pentecostale e carismatico. L’introduzione del pentecostalismo nel continente africano, infatti, precede di quasi cinquant’anni la comparsa delle chiese carismatiche indipendenti; inoltre nel caso del Ghana l’attuale panorama pentecostale emerge da una tradizione di rinnovamenti carismatici indigeni e autonomi che nel corso del Novecento hanno rivitalizzato la fede cristiana con forme e contenuti più vicini ai sentimenti religiosi, nonché ai bisogni spirituali e materiali degli africani. Il movimento pentecostale-carismatico in Africa Il movimento pentecostale oggi costituisce a livello globale uno dei più rigogliosi segmenti della cristianità e presenta una crescita considerevole sia in termini di seguaci che di località raggiunte. A circa cento anni di distanza dagli episodi di risveglio spirituale con cui convenzionalmente viene fatta coincidere la nascita del pentecostalismo1, il 1 Per quanto riguarda gli Stati Uniti vanno ricordate le esperienze del 1901 a Topeka (Kansas) e del 1906 a Los Angeles (California) importanti rispettivamente per avere associato glossolalia e battesimo con lo Spirito – elemento da cui «[scaturisce] quella che poi diventerà la dottrina pentecostale per eccellenza» – e per l’esperienza del risveglio di Azusa Street – dal nome della strada che ospitava la congregazione nata attorno a William J. Seymour in cui «cominciarono una serie ininterrotta di riunioni che avviarono la diffusione del pentecostalesimo in tutti gli Stati Uniti e anche in altre parti del mondo». Altri importanti episodi di risveglio dello Spirito considerati alle origini del Pentecostalismo sono quelli del 1903 in Corea del Nord, del 1904 in Galles e del 1906 in India (Napolitano C., Nella forza dello spirito. Una lettura “interna” del pentecostalesimo, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», 82/1, «Religioni in 277

movimento è presente in tutto il mondo e la sua espansione nei prossimi decenni non sembra destinata ad arrestarsi2. Se consideriamo l’enfasi posta dalle prime congregazioni sul ruolo e sull’influenza dello Spirito santo in quanto loro guida, il pentecostalismo presenta un carattere fortemente ispirato e, in conseguenza di ciò, gli aderenti mostrano una spiccata propensione al proselitismo e all’attività missionaria, quest’ultima incoraggiata anche dal dono del parlare in lingue come evidenza del battesimo nello Spirito. Ciononostante il movimento non costituisce un fenomeno unitario; spesso, infatti, gli studiosi che si sono occupati della sua rapida diffusione nel mondo hanno parlato di pentecostalismo facendo riferimento a movimento. I pentecostalismi nella dimensione transnazionale», 2016, pp. 28-71, cit. pp. 36-9). 2 Nel report Christianity in its Global Context, 1970-2020. Society, Religion and Mission prodotto dal Center for the Study of Global Christianity (consultabile all’indirizzo http://www.gordonconwell.edu/ ockenga/research/documents/ChristianityinitsGlobalContext.pdf), il pentecostalismo, definito come un insieme di movimenti di rinnovamento interconnessi che seppure variamente enfatizzano l’esercizio dei doni spirituali come il parlare in lingue, nel 2010 contava complessivamente 582 milioni di aderenti. Riprendendo categorie largamente utilizzate nella letteratura scientifica sul pentecostalismo, gli autori suddividono il movimento in tre grandi gruppi. Il primo, chiamato semplicemente pentecostale, include le chiese “classiche”, cioè quelle immediatamente riconducibili ai risvegli spirituali nordamericani, che contavano quasi 92 milioni di fedeli. Gli altri due gruppi, invece, includono vari tipi di carismatici, cioè pentecostali che rimangono all’interno di altre tradizioni cristiane (cattolica, protestante, anglicana, ortodossa) o che, nel caso degli indipendenti, si associano a chiese e movimenti autonomi o ne cominciano di nuovi. Nell’arco degli ultimi quarant’anni i carismatici sono cresciuti in maniera esponenziale arrivando nel 2010 a contare complessivamente più di 490 milioni di aderenti. 278

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forme di religiosità cristiana con origini storiche, modelli organizzativi nonché orientamenti politici differenti3. Nonostante migliaia di chiese e gruppi sparsi in tutto il mondo non riconoscano tra le proprie origini le esperienze di rinnovamento della fede occidentali, né tantomeno si definiscano pentecostali, il cristianesimo da loro professato si fonda su dottrine e pratiche simili a quelle delle prime chiese pentecostali. Durante gli anni Sessanta del secolo scorso, infatti, le principali denominazioni cristiane (cattolici, protestanti, anglicani, ortodossi), inizialmente ostili alla dottrina e al culto pentecostale, ammettono al loro interno la formazione di gruppi carismatici, chiamati così per l’importanza che attribuiscono all’esperienza dello Spirito santo e all’esercizio dei doni spirituali o carismi. Tuttavia, a partire dal decennio successivo i movimenti carismatici crescono e si moltiplicano in maniera esponenziale, soprattutto nel Sud globale, grazie a una generazione di giovani predicatori indigeni che danno vita a chiese e gruppi indipendenti dalle tradizioni cristiane in cui sono cresciuti. Entrati in contatto con le dottrine fondamentali del pentecostalismo attraverso le scuole bibliche, la letteratura, gli eventi internazionali e, ancora, le registrazioni dei messaggi dei predicatori occidentali, nonché le loro trasmissioni radiofoniche e televisive, 3 Droogers A., Globalisation and Pentecostal Success, in Corten A., Marshall-Fratani R., a cura di, Between Babel and Pentecost. Transnational Pentecostalism in Africa and Latin America, Hurst & Company, Londra 2001, pp. 41-61. 279

tale generazione di predicatori ha svolto un’opera di contestualizzazione e diffusione che ha trasformato il pentecostalismo contemporaneo in un fenomeno prevalentemente non occidentale. Oggi, infatti, alcune delle più importanti chiese e movimenti pentecostali nel mondo sono di origini coreane, brasiliane, filippine, nigeriane, nonché ghanesi4. Alla luce delle affinità teologiche che accomunano esperienze religiose altrimenti molto differenti, Allan Anderson suggerisce di utilizzare il termine “pentecostale” per descrivere globalmente tutte le chiese e i movimenti che attribuiscono un’importanza fondamentale alla presenza e al potere dello Spirito santo e incoraggiano l’esercizio dei carismi5. Nel caso dell’Africa, la diffusione del pentecostalismo è avvenuta all’interno di un più generale clima di rinnovamento della fede cristiana che ha permesso ai movimenti pentecostali e carismatici di proliferare e assumere forme inedite rispetto al panorama globale. Infatti, come nota anche Johnson Kwabena AsamoahGyadu, nel corso del Novecento il cristianesimo in Africa è stato profondamente trasformato dalla comparsa di diversi movimenti di rinnovamento della fede, tra cui i carismatici indipendenti costituiscono solo l’espressione più recente6. 4 Corten A., Marshall-Fratani R. 2001. 5 Anderson A., An Introduction to Pentecostalism. Global Charismatic Christianity, Cambridge University Press, Cambridge, 2004, p. 13. 6 Asamoah-Gyadu J. K. (2015), Sighs and Signs of the Spirit. Ghanaian 280

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Quasi contemporaneamente alle esperienze di risveglio dello Spirito occidentali, infatti, in diversi paesi africani erano attivi profeti itineranti indipendenti che facevano proseliti, strappando seguaci alle religioni tradizionali; lo stile carismatico della loro predicazione, inoltre, avvicinava il messaggio cristiano alle visioni del mondo indigene più di quanto non fossero riusciti a fare i missionari occidentali, preparando così il terreno su cui avrebbe successivamente prosperato il pentecostalismo7. Tuttavia, tra gli esiti immediati e più importanti dell’opera di evangelizzazione condotta dai profeti itineranti vi è la nascita di un nuovo tipo di chiese in cui gli elementi cristiani vengono combinati con le tradizioni religiose autoctone. Conosciute con diversi nomi8, tali chiese si sono formate attorno a figure carismatiche che, in seguito a esperienze religiose personali, hanno iniziato

Perspectives on Pentecostalism and Renewal in Africa, Regnum Africa, Akropong-Akuapem. 7 Kalu O., African Pentecostalism. An Introduction, Oxford University Press, New York, 2008. 8 Le varie definizioni mettono in evidenza diverse caratteristiche di queste esperienze religione. Nella letteratura anglosassone, ad esempio, ricorre la formula Africa Initiated/Independent/Inspired Churches (AICs) per fare riferimento alle loro origini africane indipendenti. Dall’importanza che queste chiese attribuiscono all’azione dello Spirito deriva, invece, l’appellativo di chiese “spirituali” con cui sono conosciute in Ghana. Nel caso della Nigeria, invece, si parla di Aladura, estendendo il nome di una delle prime chiese del genere all’intero movimento. Infine, quando vengono chiamate chiese sincretiche l’accento cade sulla combinazione di elementi cristiani e tradizioni autoctone. 281

a esercitare i doni dello spirito, principalmente compiendo guarigioni e profetizzando9. All’interno di tale panorama religioso, che vedeva le chiese sincretiche crescere rapidamente sottraendo fedeli alle missioni cristiane storiche, si inserisce la formazione delle chiese pentecostali “classiche” in Africa. Le principali chiese pentecostali dell’attuale Ghana vengono istituite a partire dagli anni Trenta e in larga parte sono riconducibili all’iniziativa di Peter Anim, un predicatore locale. Mentre la Assemblies of God (AoG), una delle chiese pentecostali nate dal risveglio spirituale di Azusa Street, viene introdotta in Costa d’Oro nel 1931 da missionari americani, le altre tre chiese principali – Church of Pentecost (CoP), Apostolic Church of Ghana e Christ Apostolic Church – hanno origine dall’intensa attività di proselitismo condotta dal ghanese Peter Anim e dal suo rapporto con il missionario irlandese James McKeown10. 9 Nel caso dell’attuale Ghana, ad esempio, due importanti chiese “spirituali” sono la Twelve Apostles Church (TAC) e la Musama Disco Christo Church, fondate rispettivamente nel 1918 e nel 1923 da ghanesi convertiti al cristianesimo. 10 Anim, considerato il padre del pentecostalismo in Ghana, inizia la sua carriera di predicatore indipendente nel 1922 in seguito alla lettura di pubblicazioni cristiane provenienti dagli Stati Uniti e a una guarigione miracolosa. Nel 1935 la congregazione nata attorno ad Anim si associa all’Apostolic Church inglese e due anni dopo dietro sua richiesta la chiesa madre invia in Ghana James McKeown e sua moglie Sophia in qualità di missionari. Attraverso due scismi dall’Apostolic Church, Anim e McKeown fondano rispettivamente la Christ Apostolic Church nel 1939 e la Gold Coast Apostolic Church nel 1953. Quest’ultima dopo l’indipendenza del Ghana ha assunto il nome di Ghana Apostolic Church, cambiato ancora dopo il 1962 in CoP. Come ricorda Anderson, nonostante l’attuale CoP 282

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Seppure in forme differenti e contrapponendosi reciprocamente11, sia le chiese spirituali che le chiese pentecostali “classiche” durante la prima metà del Novecento hanno contribuito in maniera fondamentale al processo di rinnovamento del cristianesimo. Contestualizzando il messaggio e le pratiche cristiane in versioni che rispondevano alle aspettative degli africani, questi movimenti hanno dato avvio ai processi di “carismatizzazione” delle diverse scene religiose locali portando le principali denominazioni cristiane missionarie a ripensare le loro strategie di evangelizzazione. Infine, le chiese carismatiche comparse in diverse parti dell’Africa nell’ultimo quarto del secolo passato, in particolare quelle indipendenti, sono riconducibili all’impegno nella diffusione del vangelo sostenuto da una nuova generazione di predicatori indigeni. Durante gli anni Sessanta, infatti, numerosi studenti delle scuole superiori e universitari cresciuti nelle principali chiese missionarie hanno provato a rivitalizzare la fede delle denominazioni di provenienza e a convertire nuovi fedeli attraverso la creazione di gruppi di preghiera e studio biblico, nonché alle sue origini fosse guidata da McKeown, tutti gli altri vertici della chiesa e i fedeli responsabili della sua diffusione erano ghanesi (Anderson 2004:117-8). 11 Ad esempio, nel 1938 la TAC ritirò la sua richiesta di affiliazione alla Apostolic Church inglese in seguito all’insistenza di McKeown affinché gli strumenti musicali tradizionali da loro impiegati durante la liturgia fossero sostituiti con dei tamburelli, una richiesta che fu interpretata come un tentativo di privare i fedeli del potere di difendersi dagli spiriti ostili (Anderson 2004:116). 283

attività come la predicazione porta a porta. Mentre in una prima fase simili iniziative hanno portato alla formazione dei movimenti di rinnovamento carismatico nelle missioni cattoliche, protestanti e anglicane, nel decennio successivo l’incompatibilità con le dottrine e i modelli organizzativi delle chiese di appartenenza ha spinto molti di questi giovani a intraprendere la carriera di predicatori indipendenti12. In Ghana il ciclo di rinnovamenti carismatici è cominciato con la formazione di gruppi di preghiera all’interno delle principali chiese protestanti e dalla fine degli anni Settanta ha assunto un carattere indipendente, moderno e internazionale con la comparsa di movimenti indigeni riconducibili al vangelo della prosperità. Il vangelo della prosperità e la globalizzazione del pentecostalismo Conosciuto con diversi nomi13, il vangelo della prosperità è un movimento carismatico indipendente cominciato nell’area sud-orientale degli Stati Uniti d’America dalla predicazione di diversi evangelisti autonomi. Alla base del Movimento vi è l’idea di un Dio buono

12 Kalu 2008:88-9. 13 «Faith, Faith Formula, Prosperity, Health and Wealth o Word Movement» (Coleman S., The Globalisation of Charismatic Christianity. Spreading the Gospel of Prosperity, Cambridge University Press, New York, 2000, cit. p. 27), «Movimento ’Word of Faith’, […] ‘faith message’ [o] ‘vangelo della prosperità’» (Anderson 2004:157). 284

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che benedice i cristiani spiritualmente, fisicamente e materialmente elargendo loro salute e prosperità fuori dal comune. Secondo il vangelo della prosperità, con la crocifissione Gesù ha pagato per i peccati degli uomini annullando il potere del diavolo sul popolo di Dio e redimendo i cristiani dalla povertà, dalle malattie e dalla morte eterna. Per questa ragione i cristiani hanno un diritto divino inalienabile a godere di una buona salute fisica, di ricchezze materiali e di numerosi altri successi in tutti i campi della vita. Inoltre, come ricorda Katherine Attanasi14, la fede, che costituisce la premessa a tali benedizioni, si configura più nei termini di un atto creativo che non come una credenza. Attraverso pratiche come le dichiarazioni (declarations) e le impartizioni (impartations) delle promesse bibliche, nonché di sogni e visioni ispirate dallo Spirito, il fedele può esercitare un’autorità divina che gli permette di conformare qualsiasi circostanza materiale alla propria fede. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, le iniziative evangeliche promosse dai rappresentanti del Movimento della Fede hanno permesso a molti dei giovani predicatori carismatici attivi in diverse parti del mondo di assimilarne gli insegnamenti sulla prosperità15.

14 Introduction. The Plurality of Prosperity Theologies and Pentecostalisms, in Attanasi K., Yong A., a cura di, Pentecostalism and Prosperity. The SocioEconomics of the Global Charismatic Movement, Palgrave Macmillan, New York, 2012, pp. 1-12. 15 Anderson 2004:158. 285

Riprendendo le dottrine del vangelo della prosperità e rielaborandole costantemente per adattarle ai contesti in cui operano, i leader religiosi di nuova generazione hanno contribuito in maniera fondamentale alla crescita globale del Movimento16. Attualmente, infatti, i centri di maggiore diffusione e punti di riferimento mondiali per gli sviluppi della teologia della prosperità sono le chiese e i leader religiosi localizzati nei paesi latinoamericani17, asiatici18, africani e, in misura nettamente minore, europei19. In un volume che esamina la diffusione globale del vangelo della prosperità a partire dall’etnografia di una chiesa svedese riconducibile al Movimento della Fede, Simon Coleman sostiene che il successo della cristianità carismatica contemporanea andrebbe interpretato alla luce delle affinità che presenta con tre dimensioni interrelate dei processi di globalizzazione: 1) le tecnologie per la comunicazione attraverso cui passano i flussi culturali; 2) le forme di organizzazione sviluppate per dirigere tali flussi 16 Sempre secondo i dati forniti dal report citato in nota 2, Word of Faith negli ultimi quarant’anni è stato il movimento carismatico indipendente che ha conosciuto la più rapida crescita. Dai 100 mila aderenti conteggiati nel 1970 il movimento è arrivato, nel 2010, a contare quasi 4 milioni di membri. 17 Corten, Marshall-Fratani 2001. 18 Wiegele K. L. (2005), Investing in Miracles: El Shaddai and the Transformation of Popular Catholicism in the Philippines, University of Hawai’i Press, Honolulu. 19 Coleman 2000. 286

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e altri tipi di mobilità; 3) l’impatto delle due dimensioni precedenti sulle coscienze, identità ed esperienze individuali e collettive20. I movimenti carismatici contemporanei e in particolare il vangelo della prosperità, infatti, fanno ampio ricorso alle più recenti tecnologie per la comunicazione di massa sia nell’elaborazione dei messaggi che nella loro diffusione. In stretta relazione con l’uso di tali mezzi, inoltre, la cristianità carismatica si è dotata di strutture e organizzazioni globali, cioè con una portata spaziale, temporale e linguistica che trascende i confini dei loro contesti di origine. Le cosiddette “megachiese”, infatti, funzionano come delle vere e proprie multinazionali che, sotto la guida dei fondatori, dirigono le diverse congregazioni sparse in patria e nel mondo, producono e distribuiscono una sconfinata produzione letteraria e multimediale, sviluppano network di associazioni e allestiscono eventi internazionali. Questi aspetti, infine, sembrerebbero contribuire alla formazione di una cultura carismatica globale. Nonostante, emicamente, le somiglianze tra gli stili di culto dei carismatici vengano spesso attribuite all’azione del medesimo Spirito santo, secondo Coleman tali affinità sarebbero riconducibili ai complessi legami sociali e comunicativi che connettono reti dinamiche di individui e gruppi21.

20 Ivi, p.55. 21 Ivi, pp. 66-9. 287

Nel caso del continente africano, e specificamente del Ghana, uno degli studiosi che si è interessato alla rapida diffusione del vangelo della prosperità è Paul Gifford, che in più occasioni ha dedicato spazio all’argomento22. Mentre nel suo resoconto della crociata pan-africana condotta da Reinhard Bonnke23 Gifford tende a sottolineare l’influenza nordamericana esercitata sulla cristianità carismatica africana attraverso il vangelo della prosperità24, in lavori successivi l’autore focalizza la sua attenzione sui fattori indigeni alla base del successo di una simile teologia in diversi paesi dell’Africa. Per quanto riguarda il Ghana, la diffusione del vangelo della prosperità sarebbe stata favorita dall’importanza attribuita localmente al concetto di “potere”, che nella predicazione delle nuove chiese carismatiche viene largamente trattato tanto in riferimento alle persone individuali, quanto a soggetti collettivi come le nazioni25. Infine, in un più recente lavoro dedicato esclusivamente al panorama religioso ghanese, Gifford riconosce il carattere 22 “Africa Shall Be Saved”. An Appraisal of Reinhard Bonnke’s Pan-African Crusade, in «Journal of Religion in Africa», Vol. 17, Fasc. 1, 1987, pp. 6392; African Christianity. Its Public Role, Hurst & Company, Londra, 1998; Ghana’s new Christianity: Pentecostalism in a globalizing African economy, Indiana University Press, Bloomington & Indianapolis, 2004. 23 Reinhard Bonnke è il fondatore di Christ for All Nations, un’organizzazione religiosa di origini sudafricane. 24 Gifford 1987, p.85. 25 Gifford 1998, p. 86. 288

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mutevole della cristianità carismatica26 e l’esistenza di una varietà di stili e temi nella predicazione dei movimenti riconducibili al vangelo della prosperità27. La teologia della prosperità e del dominio di Mensa Otabil e l’ICGC All’interno del panorama pentecostale ghanese contemporaneo, Mensa Otabil, fondatore e General Overseer dell’International Central Gospel Church (ICGC), è considerato comunemente il più autorevole dei predicatori della prosperità, sia per i risultati conseguiti in campo religioso e imprenditoriale che per l’eccentricità della sua predicazione rispetto ai toni generalmente assunti dagli altri predicatori della prosperità ghanesi, Mensa Otabil nasce nel 1959 a Sekondi e all’età di 6 anni si trasferisce a Tema, una delle aree periferiche di Accra, assieme ai suoi genitori e ai quattro fratelli. Come lui stesso ha ricordato in diverse occasioni28, la perdita di entrambi i

26 Gifford 2004, p. 27. 27 Ivi, pp. 138-9. 28 Ad esempio, in una sua intervista inclusa nel documentario di James Ault dal titolo African Christianity Rising. Christianity’s explosive growth in Africa. O, ancora, nelle interviste rilasciate a Emmanuel Kingsley Kwabena Larbi per la sua tesi di dottorato (The Development of Ghanaian Pentecostalism: A Study in the Appropriation of the Christian Gospel in Twentieth Century Ghana Setting with Special Reference to the Christ Apostolic Church, the Church of Pentecost, and the International Central Gospel Church, tesi di dottorato, University of Edinburgh, 1995). 289

genitori, avvenuta durante gli anni dell’adolescenza, segna l’inizio delle difficoltà economiche che lo porteranno ad abbandonare momentaneamente gli studi e rivolgersi a Dio. Nel 1972, infatti, Otabil abbandona la chiesa anglicana, in cui era stato cresciuto dalla famiglia, e comincia a frequentare diversi ambienti carismatici associandosi inizialmente alla Tema Fellowship, il gruppo dove tre anni dopo avrebbe ricevuto il battesimo con lo Spirito santo. Tuttavia le esperienze decisive per l’avvio della carriera religiosa di Otabil sono state l’incontro con Nicholas Duncan Williams e la sua chiesa – Christian Action Faith Ministries –, che lo ha incoraggiato a istituirne una propria, nonché il servizio nella Kanda Fellowship, dove organizza seminari sulla fede, sui doni dello Spirito e sui poteri curativi della preghiera. Nel 1983, durante un raduno della Kanda Fellowship, Otabil annuncia la sua intenzione di fondare una nuova chiesa e l’anno successivo, grazie al supporto di alcuni membri del gruppo carismatico di cui nel frattempo era diventato presidente, istituisce l’ICGC. Negli stessi anni, inoltre, Otabil, la cui formazione religiosa dal 1980 era proseguita sui testi e sulle audiocassette di Kenneth Hagin e altri predicatori occidentali, si emancipa dai messaggi di provenienza prevalentemente nordamericana e inizia a sviluppare una propria teologia che, come vedremo più avanti, integra gli insegnamenti sulla prosperità con idee sulla personalità degli africani e sul loro ruolo nel mondo contemporaneo29. 29 Ivi, pp. 300-2. 290

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Oltre all’ICGC, e attraverso essa, negli ultimi tre decenni Otabil ha dato vita a diverse iniziative nel campo dell’istruzione e della cultura fondando una scuola biblica – che oggi, in seguito a un ampliamento dell’offerta formativa, è una delle più importanti università private ghanesi –, programmi di borse di studio, un istituto per la formazione dei missionari (St. Daniel Institute) e, ancora, l’orchestra sinfonica di Accra con coro (Lumina); tutt’oggi, inoltre, non perde occasione di ribadire l’importanza dell’educazione e del pensiero critico per lo sviluppo individuale e collettivo degli africani. Come mi ha ricordato Asamoah-Gyadu nel corso di una conversazione avuta poco dopo il mio arrivo in Ghana30, i predicatori della prosperità sviluppano stili e teologie originali che declinano variamente i temi complessivamente riconducibili al Movimento della Fede. Mentre il più comune, chiamato “nomina e reclama” (name it and claim it), si fonda sull’idea che Dio soddisfi automaticamente tutte le richieste dei fedeli elargendo miracoli in virtù della loro fede, lo stile adottato da Otabil, meno comune del precedente, pur mantenendo l’idea di una generosità divina illimitata attribuisce altrettanta importanza alla coltivazione dei talenti individuali come elemento necessario al raggiungimento del successo e della prosperità. Il perfezionamento della persona e l’eccellenza delle opere sono due temi ricorrenti nella predicazione di Otabil che si riflettono nell’immagine pubblica della 30 17-07-2017. 291

sua vita e, in particolare, delle sue scelte imprenditoriali, presentatemi come modelli di successo positivi sia dai fedeli e dai pastori dell’ICGC che da interlocutori esterni alla chiesa, e in alcuni casi scettici rispetto alla bontà e all’onestà di simili figure, con cui ho avuto modo di parlare. Secondo la teologia della prosperità elaborata da Otabil, la cui preoccupazione principale sembra essere lo sviluppo dell’Africa e il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali, tale salvezza richiede la creazione di una mentalità moderna e critica che permetta agli africani di utilizzare al meglio le risorse economiche, fisiche e intellettuali di cui pure sono ricchi. Pertanto, oltre alla prosperità e all’abbondanza, nel pensiero religioso di Otabil un posto altrettanto centrale è occupato dal tema del dominio. In uno dei suoi libri più recenti Otabil cerca di aiutare i lettori a individuare e realizzare i propri obiettivi nella vita presentando loro ciò che chiama «il mandato di dominio di Dio», vale a dire un’interpretazione di alcuni versi della Genesi che «parla più profondamente al [suo] spirito ed è alla base della [sua] prospettiva, filosofia e mentalità»31, con cui coincide totalmente la teologia promossa dall’ICGC32. Nella Genesi, in quanto libro delle origini, Dio rivela di voler fare l’uomo a sua immagine affinché domini sul mondo e per portare a termine tale compito crea Adamo 31 Le traduzioni dall’inglese nel presente saggio sono a opera dell’autore. 32 The Dominion Mandate. Finding & Fulfilling Your Purpose in Life, Kairos Books, Accra, 2013, cit. p. 2. 292

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ed Eva con una natura differente da quella di tutte le altre creature e fornisce loro istruzioni ben precise. Riprendendo i versi della Genesi in cui viene illustrata la creazione dell’uomo, infatti, Otabil sostiene che la somiglianza con Dio non vada intesa in riferimento alla componente terrena, cioè materiale e visibile, con cui è stato creato Adamo, ma a quella divina, spirituale e invisibile di cui pure è partecipe33. Come ho accennato nel paragrafo precedente, il prerequisito fondamentale per sviluppare le capacità spirituali di cui Dio ha dotato gli uomini è la fede, cioè la certezza dell’intervento divino e del suo potere trasformativo e creativo nei confronti del mondo34. Tale duplice natura, divina e terrena al tempo stesso, quando viene utilizzata al suo pieno potenziale permette agli uomini di operare al di fuori di qualsiasi logica terrena ed entrare in un regno di possibilità illimitate. Al di là della capacità divina di compiere prodigi agendo spiritualmente, tra gli strumenti che Dio ha fornito all’uomo per esercitare il dominio sul mondo vi sono anche delle istruzioni ben precise. Con le prime parole rivolte ad Adamo ed Eva, Dio ha stabilito che, per esercitare il dominio, gli uomini 33 Ivi, p. 4. 34 «[La] Fede è la certezza che abbiamo quando non possiamo credere a ciò che ci sta di fronte. È la sicurezza che ciò che vediamo sarà presto differente. Che la realtà davanti a noi è destinata a cambiare. La fede è una lente differente che mette a fuoco le speranze e sfuma la realtà. In sostanza, la fede è l’uso dello spirito di Dio, che risiede in noi, allo scopo di sospendere la vista dei nostri occhi naturali in modo da poter vedere attraverso lo sguardo di Dio possibilità più vaste, ampie, profonde e alte di quanto la mente o l’occhio possano immaginare» (ivi, p. 207). 293

devono essere fecondi, moltiplicarsi, riempire la terra e soggiogarla. Nella teologia della prosperità e del dominio una comprensione limitata o un uso scorretto di tali strumenti, o peggio il disinteresse per essi, sono alla base della maggior parte dei problemi che affliggono l’umanità35. Nei prossimi brevi paragrafi, l’approfondimento dei quattro ordini dati da Dio agli uomini mi permetterà di illustrare più dettagliatamente alcuni aspetti che contraddistinguono la teologia della prosperità e del dominio elaborata da Mensa Otabil. Inoltre, presentando tale ideologia religiosa con riferimenti all’edizione 2017 di Greater Works36, a cui ho avuto modo di assistere durante la mia ricerca sul campo, descriverò alcune idee e pratiche, particolarmente rilevanti per la definizione del carattere internazionale del vangelo della prosperità.

35 Ivi, pp. 10-1. 36 GW è una conferenza internazionale organizzata annualmente ad Accra dall’ICGC come momento conclusivo del mese di enfasi spirituale, di cui parlerò più avanti. Il nome della conferenza richiama i versi del Nuovo Testamento in cui Gesù dice: «chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste» (Giov. 14:12, CEI 2008). L’edizione di GW a cui ho assistito è stata la trentesima e si è svolta lungo cinque giornate durante le quali sull’altare-palco del Christ Temple – sede centrale dell’ICGC situata ad Accra – e Independence Square si sono alternati alcuni dei più importanti predicatori della prosperità di origini africane – oltre allo stesso Otabil, sono intervenuti Matthew Ashimolowo (Kingsway International Christian Centre, Londra), Tudor Bismark ( Jabula New Life Ministries International, Harare), Enoch Adejare Adeboye (Redeemed Christian Church of God, Lagos) e Mike Okonkwo (The Redeemed Evangelical Mission, Lagos) –, i pastori in carica e i cori di diverse congregazioni ghanesi dell’ICGC, nonché musicisti cristiani africani e internazionali. 294

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Essere fecondi Quando Dio ordina ad Adamo ed Eva di essere fecondi non fa riferimento solamente alla capacità riproduttiva degli uomini. Secondo Otabil, infatti, il primo comando di Dio agli uomini «significa semplicemente crescere, sbocciare ed essere produttivi; […] produrre risultati che siano benefici e vantaggiosi»37. Infatti, al di là della procreazione, gli uomini possono essere fecondi producendo frutti della mente (pensieri), della bocca e delle labbra (parole), delle mani (opere) e dello spirito (virtù). Inoltre, come nella parabola omonima che fornisce anche un modello di ricompense e punizioni per la produttività o la sua mancanza38, Dio ha fornito a ogni uomo un talento che costituisce il “seme” da cui comincia un processo produttivo personale. Identificando il proprio talento-seme, prendendone coscienza e controllo, piantandolo nel giusto ambiente, permettendogli di crescere, contemplandone la grandezza, nonché utilizzando i suoi frutti a beneficio del prossimo, gli uomini diventano fecondi e innescano un 37 Ivi, p. 19. 38 Nella parabola dei talenti, infatti, i due servitori produttivi ricevono l’approvazione del padrone e le loro ricchezze vengono raddoppiate, mentre il terzo, che ha nascosto il suo talento, viene punito, maledetto e spossessato dei suoi averi. Tale sistema di ricompense, secondo Otabil, è automatico e spiega «perché possiamo vedere una nazione di credenti che parlano in lingue, pregano e digiunano, continuare a lottare con la povertà e il sottosviluppo, mentre una nazione di adoratori di idoli gode di prosperità e produttività» (ivi:27). Ciò non significa che gli “adoratori di idoli” andranno in Paradiso, ma semplicemente che qui sulla terra stanno obbedendo all’ordine divino di essere fecondi con ciò che è stato dato loro. 295

circolo virtuoso di semina, coltivazione e raccolta che ne accresce esponenzialmente la produttività e prosperità. Parlando della sua carriera come ministro di Dio, Otabil ricorda che il seme con cui ha iniziato era l’abilità di spiegare le cose e aiutare la gente a comprendere39. Tuttavia, l’uso del concetto di “seme” in riferimento alle qualità individuali è un tratto specifico della teologia di Otabil che trova scarsi riscontri nel pensiero e nella pratica di altri predicatori della prosperità. Più comunemente, il “seme della fede” non è altro che una donazione in denaro offerta dal fedele su chiamata del predicatore. Tale donazione è come un seme che dopo essere stato coltivato da Dio, garantisce al fedele un raccolto abbondante e fuori dal comune sotto forma di beni materiali o di altri benefici – come, secondo alcune delle testimonianze riportate da Adeboye40, promozioni e scalate aziendali a velocità inverosimili. Nonostante la declinazione originale data da Otabil al concetto di seme, anche nell’ICGC vengono piantati semi di quest’ultimo tipo sebbene, da quanto ho potuto osservare al di fuori di GW, senza troppa insistenza o enfasi. Durante la prima serata, infatti, Ashimolwo, tradizionalmente ospite inaugurale della conferenza41, ha invitato i fedeli a piantare un seme e il suo appello è stato ripreso anche dagli altri predicatori intervenuti nelle giornate successive. 39 Ivi, p. 50. 40 Sessione serale del 26/07/17. 41 Mensa Otabil, 24/07/17. 296

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Ognuno dei semi proposti aveva un nome, un importo esatto – annunciato prima in dollari statunitensi (USD) e poi in cedis ghanesi (GHC) –, nonché una scadenza precisa entro cui seminarlo e che, a seconda della risposta del pubblico, veniva estesa al giorno, alla settimana o ai mesi successivi42. Una grafica riepilogativa dei semi proposti trasmessa dalla regia dell’ICGC durante la diretta streaming della terza mattinata ha suscitato sui social media critiche che, nel caso di quelle cristiane, accusavano l’ICGC e gli ospiti intervenuti di vendere il vangelo, peraltro a prezzi proibitivi per molti, mentre altre, di carattere più laico, lanciavano accuse di sfruttamento della credulità popolare per mero tornaconto economico. Tali accuse hanno spinto il pastore Albert Ocran, amministratore delegato dell’ICGC, a rispondere personalmente con un lungo messaggio, circolato prontamente anche nelle chat di gruppo di diverse congregazioni, in cui: 1) ribadiva l’impegno costante dell’ICGC in numerose opere caritatevoli; 2) paragonava i semi incriminati ad altre tecniche di raccolta fondi considerate indispensabili e legittime per l’allestimento di eventi di tale portata; 3) precisava che anche tutti i vertici della chiesa sono chiamati a dare il loro contributo economico. In conclusione, secondo Ocran «l’immagine non era una pubblicità per raccogliere soldi; il vangelo non 42 Alcuni dei semi sono stati: status del milionario (5000 USD/21500GHC); il seme delle mille volte in più (1000 USD/4250 GHC); il seme del compimento (520 USD/2200 GHC); il seme della perfezione (70 USD/300 GHC). 297

è in vendita e non lo sarà mai» e, comunque, insistere sulle donazioni e sulla raccolta di fondi non fa parte del focus né dello stile di Otabil e dell’ICGC. Moltiplicare Io sono fecondo e moltiplicherò, perché il mio Dio è il Grande Moltiplicatore, e io sono fatto a Sua Immagine. Avrò successo e sosterrò la mia crescita. Diversificherò i miei doni e accumulerò benessere attraverso la saggezza, la comprensione e la conoscenza, perché così è scritto e così dovrà essere43. Nella teologia di Otabil la coltivazione dei talenti innesca un processo produttivo virtuoso, per cui da un seme scaturiscono numerosi frutti che a loro volta sono portatori di altrettanti semi. Tuttavia, tale circolo rischia la stagnazione nel momento in cui la fecondità iniziale viene considerata un risultato soddisfacente e non qualcosa su cui lavorare e da accrescere ulteriormente aggiungendovi nuovi strati e livelli di produttività44. Una volta raggiunto il successo, come si legge nell’affermazione che Otabil invita a fare sulle proprie vite45, il compito previsto da Dio per i fedeli è di rendere 43 Ivi, p. 102. 44 Ivi, pp. 74-7. 45 Le dichiarazioni e le impartizioni a cui ho fatto riferimento nel paragrafo precedente sono due tipi di affermazioni con cui i fedeli introducono nella dimensione terrena qualcosa di positivo che sanno essere già accaduto sul 298

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la propria crescita sostenibile, diversificando i talenti – vale a dire la produttività – e accumulando il benessere che inevitabilmente ne scaturirà. In tal senso, la trasmissione in diretta dell’ultima edizione di GW attraverso piattaforme online (Facebook, Youtube) ha permesso di assistere all’evento a un numero di persone maggiore di quelle che potevano essere ospitate dalle sale del Christ Temple durante le sessioni mattutine o a Independence Square in quelle serali. Per lo stesso principio, al termine di ogni sessione di GW, vicino alle uscite e ai parcheggi circolavano volontari dell’ICGC che vendevano “parole fresche” (fresh words), cioè CD su cui era registrato l’intervento appena terminato. L’impiego delle dirette durante le funzioni della chiesa, la registrazione dei sermoni e la loro diffusione su supporti e in contesti differenti – per radio, televisione o in rete –, nonché la pubblicazione di libri, opuscoli e articoli sui giornali permettono a Otabil di moltiplicare esponenzialmente la propria presenza sulla scena pubblica e la portata della sua voce, sfruttando a pieno ogni singolo messaggio che elabora. Inoltre, Otabil nel tempo ha moltiplicato i suoi frutti

piano spirituale. Nella spiegazione fornitami da Richard Aidoo, il pastore a capo dell’Adabraka Community Assembly dell’ICGC, entrambe queste affermazioni implicano una gerarchia spirituale che vede l’emittente in una posizione di superiorità rispetto al ricevente. Mentre le dichiarazioni devono necessariamente essere fatte ad alta voce e funzionano anche come promemoria, le impartizioni, come nel caso dell’imposizione delle mani (laying on of the hands), possono essere fatte anche solo spiritualmente (11/08/17). 299

dando vita a numerose iniziative in campi tanto differenti come l’istruzione, la sanità, l’editoria, la cultura, nonché, più recentemente, lo sport. Riempire la terra Come nel caso della fecondità, anche l’ordine di riempire la terra dato da Dio ad Adamo ed Eva può avere diverse sfumature. È infatti possibile sia occupare gli spazi disponibili sovraccaricandoli con la propria presenza – cioè proiettando sé stessi al di là della località geografica e della sfera di influenza di origine per arrivare a occupare spazi vuoti e territori inesplorati –, sia riempire spazi già occupati da altri con elementi improduttivi, pratiche e credenze che non servono i propositi di Dio e vanno quindi sostituiti con sostanze benefiche e vantaggiose; tuttavia, in quest’ultimo caso, riempire la terra si configura nei termini di una vera e propria battaglia per estendere la gloria di Dio e la Sua conoscenza a tutti gli spazi geografici, le culture e gli uomini che la abitano46. Tale movimento, inoltre, deve procedere secondo il programma di espansione sancito da Gesù47 che prevede un inizio locale, un’espansione nazionale e, infine, un’estensione regionale e un impatto globale48.

46 Ivi, pp. 106-11. 47 At. 1:6-8. 48 Ivi, pp. 146-9. 300

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Per quanto riguarda l’occupazione degli spazi fisici della terra, soprattutto attraverso la sostituzione di elementi improduttivi con altri cristiani, se consideriamo l’attuale scarsità di terre inesplorate, il Christ Temple49 ad Accra fornisce un caso esemplare. Dopo la sua fondazione, avvenuta il 26 febbraio del 1984 in una classe di Kanda, il nucleo originario dell’ICGC inizia a riunirsi in differenti località di Accra a seconda della disponibilità finché, nel 1996, non arriva a occupare l’attuale sede eretta a ridosso della discarica di Agbogbloshie, una zona della capitale che per le condizioni di estrema povertà in cui vivono gli abitanti e l’alto tasso di criminalità è soprannominato Sodoma e Gomorra. Al momento della mia prima visita il Christ Temple si presentava come una struttura decisamente ricca e in espansione. Il compound, al cui interno sorgono l’edificio dedicato al culto – che dall’esterno ricorda un complesso di uffici e la cui sala principale sembra più un moderno auditorium che non una chiesa –, due altre costruzioni destinate alle attività dei giovani e dei bambini, nonché un giardino rigoglioso con palme e una grande fonte battesimale, sembra non essere più sufficiente alle iniziative

49 Christ Temple è il nome della sede centrale dell’ICGC, ma anche quello della congregazione che vi si riunisce sotto la guida diretta di Otabil. Le congregazioni di cui si compone l’ICGC adottano nomi biblici che rispecchiano la loro missione specifica o, nel caso delle congregazioni più giovani come quella di Adabraka, la loro localizzazione geografica. Così, ad esempio, la sede centrale per l’Italia, situata a Roma, ha adottato il nome di Elim Temple richiamandosi all’oasi in cui il popolo ebraico ha sostato durante la sua fuga dall’Egitto (Eso. 15:27). 301

locali promosse da Otabil attraverso la sua congregazione. Infatti, appena all’esterno delle mura che ne delimitano il perimetro, sorge il Body Temple, una struttura sportiva all’avanguardia con palestra, campi da basket e da tennis inaugurata nel settembre del 2013, che ha sottratto dell’altro spazio alla discarica circostante. Durante la visita al Christ Temple Kojo, uno dei miei più assidui informatori e membro del Faith Temple di Ofankor (Accra), mi presentava il contrasto tra la ricchezza di tale complesso e la miseria di Sodoma e Gomorra come l’esempio lampante dei risultati che è possibile conseguire quando si è guidati da principi cristiani, a prescindere dalle condizioni di partenza o dal contesto in cui si opera50. Una seconda interpretazione dell’ordine di riempire la terra fa riferimento «alle culture, industrie, istituzioni e ideologie che definiscono il funzionamento del mondo» che in alcune aree sembrano sature di violenza, ingiustizia, immoralità e corruzione che le disallineano dagli obiettivi di Dio51. In tal senso Harry, uno dei giovani pastori in servizio a tempo pieno presso il Christ Temple52, durante una lunga 50 15/07/17. 51 Ivi, p. 111. 52 Alla carriera religiosa, che costituisce la sua occupazione principale, Harry affianca un’attività imprenditoriale nel settore immobiliare e contemporaneamente studia per conseguire un secondo master in studi religiosi con una ricerca sulla diversa diffusione delle chiese pentecostali e carismatiche nelle aree urbane e in quelle rurali del Ghana. 302

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conversazione sulle «radici locali e [l’] agenda globale» dell’ICGC sosteneva che, al livello attuale di diffusione nel mondo, una delle principali sfide che la chiesa deve affrontare nella sua «missione inversa»53 consiste nello slegarsi dalla cultura ghanese; una relazione che se in patria può essere utile per attrarre nuovi fedeli, all’estero rischia invece di isolare le congregazioni dai contesti ospitanti con cui sono invitate a confrontarsi, anche per trasformarli se necessario54. Il terzo e ultimo modo per adempiere all’ordine di riempire la terra consiste nell’eliminazione di pensieri e credenze dannose (paure, atteggiamenti negativi e insicurezze) che appartengono alla componente terrena con cui sono stati creati gli uomini; tali elementi impoveriscono la mente dell’uomo impedendogli di vivere al pieno delle sue capacità spirituali55. Attraverso la diffusione di messaggi incoraggianti56 e sollecitando 53 Quando Harry parla di missione inversa fa riferimento al movimento che vede gli africani percorrere le rotte classiche delle missioni cristiane invertendone il senso per riportare il vangelo nei contesti occidentali che sembrano averlo dimenticato a favore di ideologie e pratiche diaboliche – come, ad esempio, il consumo di alcol, tabacco e droghe, o ancora i diritti civili per gli omosessuali e pratiche come l’aborto e l’eutanasia. 54 10/08/2017. 55 Ivi, pp. 114-6. 56 Durante GW 2017, ad esempio, alcuni dei messaggi pronunciati dagli ospiti avevano per tema: troppo carichi per fallire (Ashimolowo); un tocco per un miracolo (Ashimolowo); la benedizione del dominio (Bismark); osare credere (Okonkwo). 303

sessioni di preghiere e digiuni, Otabil cerca di instillare nei membri della sua chiesa, e più in generale negli africani, un senso di fiducia in sé stessi fondato sulle promesse bibliche sopra descritte. A questo scopo da trent’anni l’ICGC consacra luglio come il mese dell’enfasi spirituale, un periodo durante il quale i fedeli intensificano la loro ricerca di un contatto con Dio attraverso la preghiera e il digiuno per ricevere nuove forze e indicazioni con cui affrontare i restanti mesi dell’anno57. Nel 2017, presso il Christ Temple, durante le ore suggerite per il digiuno era possibile pregare in una sala allestita con dodici stazioni, che guidavano i fedeli in un itinerario spirituale attraverso i temi specifici della predicazione di Otabil58. Ogni sessione di digiuno terminava alle 6 del pomeriggio con una funzione di due ore presieduta dallo stesso Otabil e trasmessa in diretta in rete. I modi di riempire la terra con la gloria di Dio e la Sua conoscenza sopra descritti, infine, devono inevitabilmente seguire un progetto di espansione che procede dalla 57 Daily Graphic Special Supplement, 24/07/17, Welcome address by Pastor Mensa Otabil, p.3. 58 Fatta eccezione per la Dichiarazione di Leadership ‒ cioè la formula recitata durante le funzioni del 2017, anno dedicato dall’ICGC a questo tema dalle varie congregazioni sparse nel mondo – che era riportata sull’ultima stazione, i temi di preghiera proposti ai fedele erano: le lodi al Signore; la consacrazione individuale; il perseguimento dell’eccellenza; la fecondità; la perfezione; la benedizione generazionale; l’incontro divino; il raggiungimento di traguardi divini; la crescita della chiesa; l’influenza; la leadership. 304

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dimensione locale per arrivare ad avere un impatto globale passando per i livelli nazionali e regionali. Per tale motivo Otabil, nella sua predicazione, invita costantemente gli ascoltatori a non abbandonare i loro paesi di origine per cercare fortuna altrove, peggio ancora se intraprendendo percorsi ai limiti della legalità e pericolosi, ma a rimanere per migliorarne le condizioni. A questo proposito, la posizione ufficiale dell’ICGC è favorire l’eccellenza in Ghana e scoraggiare le migrazioni che non rispondono agli standard di qualità della chiesa, in quanto alla base di queste ultime vi sarebbe la scarsa fiducia nelle doti personali e nelle possibilità di successo in patria che la chiesa cerca di sradicare59. Movimenti simili, infatti, sarebbero inevitabilmente destinati al fallimento dato che sovvertono gli ordini divini per il raggiungimento del dominio e cercano di riempire la terra prima di avere raggiunto la fecondità e moltiplicato i propri talenti. Sottomettere la terra L’ultimo ordine di Dio, sottomettere la terra, «mira ad assicurare […] il controllo su ciò che abbiamo ottenuto e a mantenere il nostro successo»60. Nonostante gli uomini possano essere fecondi, moltiplicare i propri frutti e riempirne la terra, il loro dominio su di essa è portato a compimento solo nel momento in cui riescono 59 Edem, dirigente uffici accoglienza del Christ Temple, 18/07/17. 60 Ivi, p. 169. 305

a conquistare le diverse barriere (culturali, etniche, di genere, religiose o geografiche) e a controllare gli elementi selvaggi della terra che ne ostacolano l’azione, nonché a reimpiegarli per propositi utili. Per raggiungere tale obiettivo gli uomini devono imparare a padroneggiare i propri campi d’azione sviluppando una presenza autorevole e originale che permetta loro di trasformare le norme e le pratiche dominanti e crescere a un ritmo costante, reprimere gli impulsi della carne e limitare la propria celebrità condividendo i meriti del successo, assumendo atteggiamenti modesti e, infine, costruendo sistemi e strutture in grado di sopravvivere al loro creatore61. In tal senso, coltivando la sua capacità di spiegare le cose, Otabil ha sviluppato uno stile di predicazione e dei contenuti che oggi lo rendono facilmente riconoscibile all’interno dell’affollato panorama pentecostale e carismatico ghanese. Il tono pacato, la chiarezza espositiva, i numerosi riferimenti a episodi storici internazionali, una quasi totale assenza di toni sensazionalistici e miracolistici, una spiccata auto-ironia, che tuttavia lascia trasparire poco o nulla della sua vita privata, e una sicurezza che sembra fondarsi sull’ampiezza e sul successo delle attività intraprese sono alcuni degli elementi che rendono la voce e i messaggi di Otabil immediatamente distinguibili da quelli di altri predicatori della prosperità. Infine, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, allo scopo di reprimere gli impulsi della carne, Otabil invita 61 Ivi, pp. 180-90. 306

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i membri della sua chiesa e i cristiani più in generale a privilegiare la connessione con la propria natura spirituale invece che con quella terrena, attraverso pratiche come il digiuno e consacrando parti dell’anno all’intensificazione di tale connessione. Conclusioni Nel presente saggio ho illustrato alcuni aspetti del pensiero religioso sviluppato e promosso da Mensa Otabil attraverso l’ICGC. Riprendendo gli insegnamenti del Movimento della Fede e adattandoli al contesto ghanese, la teologia della prosperità e del dominio prospetta ai fedeli la certezza di un benessere fisico e, soprattutto, di successi economici e professionali fuori dal comune in quanto diritti inalienabili dei figli di Dio. Su questa idea si basano le tecniche per la raccolta dei fondi come i semi della fede e le altre tipologie di donazioni che testimoniano un atteggiamento disinvolto nei confronti del desiderio, dell’accumulazione e dell’ostentazione di denaro e beni di lusso. Tuttavia, mentre l’importanza attribuita al denaro e alle donazioni sembra riscuotere l’approvazione dei fedeli, prevalentemente studenti universitari e giovani lavoratori qualificati appartenenti alle classi medie, che rispondo con entusiasmo alle chiamate dall’altare, altrettanto non si può dire per parti dell’opinione pubblica che attaccano aspramente la chiesa e, più in generale, tale settore della cristianità carismatica. Uno dei modi in cui la chiesa e Otabil rispondono alle accuse di sfruttamento dei fedeli passa per le iniziative 307

non immediatamente religiose che, nelle intenzioni dei promotori, mirano a trasformare la società ghanese, e più in generale quelle africane, rimpiazzandone gli elementi considerati improduttivi. Alla luce della missione di trasformare l’Africa in un continente moderno e sviluppato, a cui Otabil e la sua chiesa sentono di essere stati destinati, l’importanza attribuita all’intervento divino, che potrebbe scoraggiare l’iniziativa dei fedeli, sembra essere controbilanciata dalla chiamata all’azione implicita nel tema perfezionamento della persona e delle opere. In maniera apparentemente paradossale per un movimento religioso con una propensione all’internazionalismo e obiettivi globali come l’ICGC, lo staff e i pastori con cui ho avuto modo di interloquire immancabilmente criticavano le migrazioni, riducendole ai flussi che dall’Africa vanno verso l’Europa passando per il Mediterraneo. Anche nella predicazione di Otabil tali movimenti vengono costantemente deprecati, in quanto alla base vi sarebbe l’incapacità degli africani di immaginare e modellare condizioni di vita migliori per il loro futuro in patria, vale a dire l’atteggiamento pessimista che l’ICGC cerca di sradicare. Infatti, nella teologia della prosperità e del dominio i movimenti, soprattutto quelli al di fuori del paese di origine, vengono incoraggiati a condizione che mantengano gli standard di eccellenza di cui lo stesso Otabil e i pastori della sua chiesa costituiscono un modello e, anzi, sono prescritti da Dio come dovere di ogni cristiano.

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Parte III

Nuove esplorazioni

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Nana Kwaku Bonsam, the great authentic man: spiriti, follower e media digitali tra secolarismo e democrazia Angelantonio Grossi A bordo di un treno partito da Brescia, scorrono veloci le immagini tra le finestre aperte sullo schermo di un computer portatile. Si susseguono l’una dopo l’altro aggiornamenti, conversazioni, notizie. Tra queste un’agenzia ghanese riporta di un incidente stradale che ha visto coinvolti esponenti del partito di governo, alcuni dei quali sarebbero rimasti feriti. La timeline è quella di Nana Kwaku Bonsam, un traditional priest ghanese che in viaggio verso Roma ha appena effettuato il login al suo account Facebook. La notizia dell’incidente è stata condivisa sul suo profilo, collegata a un’altra dichiarazione1 di qualche mese prima in cui lui stesso annunciava di aver mobilitato Kofi oo Kofi, il suo spirito principale, in quella che definiva una lotta alla corruzione dilagante nel paese: chiunque avesse approfittato di una posizione di potere, appropriandosi di una consistente somma di denaro, avrebbe affrontato la collera degli spiriti.

1 L’articolo pubblicato da PeaceFM riportava dichiarazioni di Bonsam durante un suo intervento in radio: «Any other politician who has stolen more than 20.000 Ghana cedis from government coffers will suffer from the wrath and the curse of the gods». http://www.peacefmonline.com/ pages/politics/politics/201402/189399.php (ultimo accesso 20 maggio 2017). 313

Ora, seduto attorno al tavolino di un treno veloce mi invita con entusiasmo a leggere i dettagli dell’accaduto: l’auto su cui viaggiava la delegazione aveva perso il controllo finendo fuori strada e i passeggeri avevano riportato lievi ferite. La notizia aveva un valore importante perché rappresentava una conferma del potere e della possibilità di intervento posseduta da entità altre adeguatamente mobilitate. Le reazioni sulla sua pagina Facebook erano infatti entusiaste, mostravano rispetto a Kofi oo Kofi, salutavano Nana Kwaku Bonsam “the great authentic man” e chiedevano informazioni su come poter mettersi in contatto direttamente con lui. Questo breve aneddoto è utile a entrare all’interno di un dibattito, quello attorno al secolarismo e al supposto disincanto di cui la modernità sarebbe principalmente costituita, partendo dal contesto ghanese e dialogando con l’universalismo tipico della tradizione europea. L’operazione di Kwaku Bonsam infatti mira a mobilitare una sfera, quella degli spiriti, all’interno di una dimensione politica tipicamente secolare, quella della lotta alla corruzione, attraverso dei media, quelli digitali, che sono stati al centro negli ultimi decenni di un grande investimento retorico da parte delle molte voci che compongono il paesaggio della democrazia liberale. Organizzazioni internazionali, ONG ed esponenti della società civile hanno perciò considerato i media digitali in Africa come strumenti utili alla partecipazione all’interno del dominio della sfera pubblica (Wasserman, 2011). Nonostante in molti si siano mostrati scettici riguardo a un collegamento 314

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diretto tra media digitali e processi di democratizzazione (Hindman 2009; Lovink 2005; Morozov 2011; Rossiter 2007), è ancora forte la narrazione che considera i media come agenti di democrazia e sviluppo, assegnando loro un ruolo normativo nella riproduzione dell’ordine liberale (cf. Cheema, Popovski 2010). La traiettoria di diffusione delle tecnologie digitali su scala globale è stata decisamente ampia e ha segnato l’ultimo decennio. È questo un processo fortemente legato a fattori economici e sociali che ha chiaramente investito anche l’Africa Sub-Sahariana (Slater 2013), e ha fatto sì che un sempre più consistente numero di persone abbia avuto accesso a strumenti con cui poter comunicare (Porter et al. 2016) e praticare connessioni (de Bruijn, van Dijk 2012). Mentre policy makers e professionisti dei media hanno generalmente accettato l’ideale della discussione razionale e disincantata, il ruolo dei media digitali nel caso di Nana Kwaku Bonsam è invece esemplificativo di una relazione che devia dagli assunti tipici sulla circolazione delle tecnologie digitali. Bonsam è infatti un traditional priest molto popolare non solo in Ghana ma anche all’estero, che fa ampio affidamento sulle potenzialità dei media digitali non solo nel creare connessioni ma anche nel costituire una percezione e un ordine estetico (Meyer, Verrips 2008) capace di veicolare una presenza, quella dell’invisibile e del trascendentale, nell’immediatezza del mondo materiale. Questa costante relazione con i social network, unita all’attenzione di cui gode da parte dei media mainstream ghanesi quali radio e giornali, gli ha conferito una grande

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visibilità all’interno della sfera pubblica del paese e oltre. Così, se in Ghana risiede per la maggior parte del tempo nella regione dell’Asante2, come ha più volte dichiarato le sue capacità di operare in quanto traditional priest non sono affatto limitate da restrizioni geografiche. Le persone possono certamente visitare le sue abitazioni in Ghana per chiedere consulti, spiegare problemi e difficoltà, ma allo stesso tempo hanno la possibilità di ricevere servizi e aiuto3 a distanza. I media digitali hanno un ruolo centrale nel suo lavoro, e gli hanno dato l’opportunità di plasmare un’identità che trascende i confini tradizionali e geografici tipicamente associati alla figura di traditional priest nel contesto dell’Africa Occidentale4. Considerato un esponente di spicco della cosiddetta traditional religion, Kwaku Bonsam parla pubblicamente dei suoi poteri, sia in radio e TV che attraverso podcast su YouTube e Facebook. È, in questo senso, impegnato nell’affermare la legittimità delle sue pratiche in un contesto come quello Ghanese in cui la radicata presenza di Chiese Pentecostali e Carismatiche ha egemonizzato 2 Le sue due residenze si trovano poco fuori Kumasi e ad Afrankyo, un villaggio molto vicino alla regione del Brong-Ahafo. Quest’ultima è anche sede del principale shrine di Kofi oo Kofi. 3 Come dichiara sul suo sito Internet, in quanto traditional priest è in grado di fornire supporto per questioni molto diverse, siano finanziarie, di lavoro, di salute o più propriamente spirituali (www.nanakwakubonsam. guru, ultimo accesso 21 maggio 2017). 4 Per una breve prospettiva storica sul ruolo e la posizione sociale dei traditional priest in Ghana vedi, tra gli altri, Maier, 1981; Twumasi, 1979. 316

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la rappresentazione della tradizione, dipinta come una demoniaca eredità del passato, qualcosa di arretrato di cui liberarsi o da cui proteggersi (de Witte 2015; Meyer 2015). Anche quando è in viaggio, chiamate su Skype, messaggi attraverso WhatsApp e Viber, e condivisioni su Facebook raggiungono continuamente il tablet Samsung bianco perla e i diversi smartphone da lui posseduti. Sotto forma di brevi avvisi sonori e silenziose vibrazioni, le richieste di contatto arrivano da una molteplicità di paesi. Che sia il caso di un giovane ghanese residente in Svezia alla ricerca dell’aiuto di un traditionalist per risolvere il malessere che da tempo affligge la sua giovanissima figlia, o quello di un uomo d’affari nigeriano che chiede di poter essere ricevuto nel suo shrine di Afrankyo, Bonsam ha creato con successo uno spazio dove le persone possono interagire con lui in una relazione di intimità e fiducia, colmando distanze fisiche e rispondendo a un bisogno di connessione con la dimensione del potere magico. Il suo sito internet, unito alla presenza su diversi social media come Facebook, YouTube e Instagram, rappresenta un’estensione della sua identità dove aggiornamenti quotidiani, condivisione di immagini, video collegamenti in diretta streaming ne rendono costante la presenza nella quotidianità delle persone con cui è in contatto. In questo senso le tecnologie digitali gli offrono una cornice essenziale al raggiungimento di un pubblico più vasto, permettendogli di entrare in quello che è stato definito un «mercato della religione mediaticamente costituito» (de Witte 2012).

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Questo processo – lo sfumare dei confini tra religione, intrattenimento e commercializzazione – è diventato una tendenza diffusa nel contesto postcoloniale, dove sembra essere più evidente che altrove5. Inoltre, grazie alla sua continua presenza mediatica, Nana Kwaku Bonsam prende parte alla sfera pubblica del Paese portando alla luce un dominio che è stato per lungo tempo rappresentato come pericoloso, occulto e popolato da forze invisibili. Non ha infatti alcuna remora a parlare in pubblico di juju e della sua connessione con gli spiriti, che anzi viene enfatizzata in performance condivise sui social media stessi. Come ad esempio nel caso di Cristiano Ronaldo, quando Kwaku Bonsam rivendicò pubblicamente l’infortunio che vide coinvolto il calciatore della nazionale portoghese alla vigilia dei mondiali di calcio del 2014 in quanto frutto di un suo juju lanciato mesi prima. Notizia che fece il giro delle principali testate mondiali, dal Washington Post al Guardian6, mostrando ancora una volta l’efficacia e la potenza dei suoi spiriti. Media, disincanto e spazio pubblico In questo senso, la figura di Nana Kwaku Bonsam 5 Per quanto concerne il Nord America si veda Bobby (1997), Chidester (2003). 6 Del 4 Giugno 2014, l’articolo del Washington post titolava:«Ghana witch doctor claims to have caused Ronaldo’s injuries». https://www. washingtonpost.com/news/early-lead/wp/2014/06/04/ghana-witchdoctor-claims-to-have-caused-cristiano-ronaldos-injuries/?utm_term=. f3e956fa030e (ultimo accesso 25 maggio 2017). 318

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rappresenta un punto di ingresso all’interno della modernità Ghanese da cui trascendere le retoriche dell’ideologia secolarista, secondo le quali formazioni come religione e spirituale sarebbero destinate ad arretrare nel dominio del privato (Taylor 2007). Una prospettiva, questa, già ampiamente criticata, in quanto infusa di una visione figlia del pregiudizio Protestante Post-Riforma (Meyer, Morgan, Paine, Plate 2010), ma che continua a influenzare policy makers, giornalisti e figure pubbliche che normativamente riproducono un ideale di sfera pubblica razionale e disincantato come obiettivo e principio della moderna democrazia. Lo stesso stato ghanese, al termine di un processo di riassetto e stabilizzazione economica sotto un governo militare durato 11 anni7, ha adottato una costituzione democratica a partire dal 1992. La nuova costituzione, muovendo da un paradigma secolare, garantisce la libertà religiosa ma ne regola anche pratiche e rappresentazioni pubbliche8. Nonostante ciò, l’attuale presenza di Kwaku Bonsam in qualità di riconosciuto leader religioso sui differenti media – giornali,

7 J. J. Rawlings prese il potere con un secondo colpo di stato nel 1981, inizialmente seguendo un’agenda socialista per far fronte alla crisi economica che coinvolse il paese, ma finendo poi per attivare una stretta collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale nel contesto dei piani di aggiustamento strutturale. 8 Espliciti richiami alla tutela della libertà di religione e alla non ingerenza della fede nell’amministrazione dello Stato sono presenti in numerosi articoli: 12 (2), 17 (2;3), 21 (1c), 26 (1), 35 (5), 55 (4;7). 319

radio, televisione, Internet – che compongono il paesaggio del paese è indicativa dell’ampio spazio occupato da religione e spiritualità nella sfera pubblica ghanese. Paradossalmente, infatti, compiacere i dettami del capitalismo neoliberista attraverso la liberalizzazione economica e l’avvento del libero mercato ha comportato in Ghana come in altre regioni dell’Africa l’emergere di nuove forme di consumo ma anche una consistente crescita e diffusione delle Chiese Pentecostali e Carismatiche (Asamoah-Gyadu 2005; Gifford 2004; Meyer, 1998) che hanno fin da subito utilizzato canali televisivi e frequenze radiofoniche (Shipley 2009; de Witte 2012) come un’estensione delle loro pratiche religiose. Dotandosi di programmazioni televisive e trasmissioni radio hanno così potuto autorappresentarsi, promuovendo un’immagine vincente e moralmente giusta di sé stesse, a discapito però dell’insieme di pratiche “tradizionali” cui Nana Kwaku Bonsam fa riferimento. Questo insieme non sistematizzato di pratiche, che era stato già interessato sia da un’operazione di traduzione nell’idioma della cristianità (Meyer 1999) che dalla regolamentazione dei governi coloniali (Vasconi 2016), ha così subito un progressivo slittamento all’interno di narrative demonizzanti che hanno fatto ampio uso di media popolari come video e film. Medium per eccellenza del “rendere visibile”, il cinema in Ghana ha avuto un ruolo di primo piano nel mostrare e portare in superficie l’“occulto” che, terreno fertile di poteri tanto efficaci quanto pericolosi, va affrontato e combattuto con la “luce” 320

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di cui la Cristianità è portatrice (Meyer 2015: 192). In contrasto con le precedenti politiche culturali governative del Sankofa9, i gruppi carismatici si sono posti come una forza di «completa rottura con il passato» (Meyer 1998) e con la tradizione a esso associata. Egemonizzando i media locali a partire dagli anni Novanta, hanno quindi moralmente ridefinito la posizione occupata da quell’insieme di pratiche, operatori e credenze “tradizionali” che non erano strettamente formalizzate secondo i termini dell’accezione asadiana di tradizione religiosa10. È stato questo un processo di “pentecostalizzazione” della sfera pubblica che ha portato alla demonizzazione e screditamento dell’universo spirituale comunemente definito tradizionale e ha fatto della matrice cristiana – seppur africanizzata (Meyer 2004) – il paradigma dominante all’interno della scena pubblica. Chiaramente sarebbe riduttivo spiegare il successo dei 9 Rielaborando le idee di Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente, sulla realizzazione dell’African Personality in un’ottica Pan-Africanista, Rawlings avviò una serie di iniziative sotto il nome di Sankofaismo nell’intento di rivalutare selettivamente la tradizione in quanto forza positiva essenziale al progresso del paese (Meyer, 2015). 10 Talal Asad (2009: 20) considera le tradizioni religiose come discorsi che mettono in relazione specifiche pratiche con un passato (quando hanno avuto inizio), un futuro (come difenderle e preservarle), un presente (come sono collegate ad altre pratiche, istituzioni e condizioni sociali). In questo senso l’insieme di pratiche a cui la definizione di ATR (African Traditional Religion) fa riferimento non erano state, prima della stigmatizzazione a opera di missionari, amministratori coloniali e chiese pentecostali, percepite e formalizzate in termini di tradizione. 321

movimenti pentecostali con la sola dimensione mediatica; come infatti ha notato Piot (2010: 105), l’attrattiva con cui si sono guadagnati il successo, non solo in Ghana ma in Africa Occidentale, risiede nell’originalità della loro proposta, che ha fatto leva sulla rottura dei sistemi di potere preesistenti, la promozione di nuove narrative di successo e ricchezza, la liberazione dal peso psicologico della paura evocata dalla stregoneria. L’attenzione alla presenza e all’utilizzo dei media è però motivata dal considerare l’esperienza religiosa come da essi intrinsecamente costituita (Engelke 2010), una prospettiva che conduce a prendere in esame le pratiche di mediazione e mediatizzazione senza le quali nessuna esperienza altra, capace di rendere il soprannaturale sensibile nel mondo materiale, potrebbe in primo luogo manifestarsi (Vries et al. 2001). Un posizionamento di ricerca, questo, che potenzialmente consente di andare oltre il paradigma stigmatizzante secondo cui religione è prima di ogni altra cosa una questione immateriale, di credenza e intima devozione11. In tempi recenti la presenza di Bonsam, che rivendica senza remore legittimità e spazi per la “tradizione”, è allora non soltanto conflittuale nei confronti dei movimenti cristiani, ma anche una messa in discussione dell’ideologia secolarista così come è stata concepita in ambito euroamericano.

11 Questo approccio, teso all’immaterialità dell’esperienza, ha motivato il pregiudizio verso pratiche altre dismesse sotto l’ombrello del feticismo (Pietz, 1988). 322

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Secolarismo dei poteri magici Si potrebbe osservare che in Ghana la dimensione del magico e il paradigma secolare non siano nettamente distinti, ma aggrovigliati e tra loro interconnessi (Meyer 2012). Nel corso degli ultimi decenni molti studi hanno di fatto indagato come nel quadro dell’Africa Sub-Sahariana la resilienza di pratiche riconducibili all’occulto, quella che la tradizione antropologica ha sistematizzato come “stregoneria”, lungi dallo scomparire sotto la marcia della modernizzazione, sarebbero in realtà riemerse sotto nuove e virulente forme, in risposta al nuovo ordine neoliberale (Comaroff, Comaroff 2000)12. Tuttavia, nonostante l’indiscutibile seduzione esercitata dall’adozione di una simile cornice, il rischio è quello di rafforzare il binarismo tra secolare e spirituale, in cui quest’ultimo reagirebbe o resisterebbe al primo. Al cuore della secolarizzazione ci sarebbe infatti un inesorabile arretramento della sfera trascendentale, uno slittamento dagli spiriti in quanto presenze tangibili alla spiritualità, considerata parte di un vissuto privato, non pubblico (Habermas 1991; Taylor 2007). Ma è questa una visione decisamente eurocentrica, fortemente debitrice della concezione Protestante della sfera pubblica, da cui

12 È stato questo un filone che, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ha cercato di storicizzare pratiche comunemente note come stregoneria, riconducendole a un discorso sulla modernità (Comaroff, Comaroff 1993), da osservare non in quanto anti-moderne (Geschiere 1997) ma come espressione e critica della stessa modernità (Meyer, Pels 2003) e dei suoi idiomi (West, Sanders 2003). 323

religione ed esperienze altre sarebbero destinate a essere escluse. Come però molte voci hanno rilevato (Asad 2003; Casanova 2011; de Vries 2008) quella che potrebbe sembrare una contraddizione, una fallace declinazione di una modernità che si vorrebbe disincantata, è in realtà una caratteristica intrinseca della cosiddetta secolarizzazione: religioso e secolare, piuttosto che opposti, sono da sempre stati mutualmente costituiti, come mostra l’esperienza coloniale in cui conquista “secolare” e missioni religiose procedevano parallelamente (Lynch 2011). Non è questa una dinamica osservabile e limitata al solo contesto delle colonie, ma riscontrabile anche nella stessa Europa. Come ha mostrato Saba Mahmood (2016) la supposta separazione della vita pubblica da quella religiosa, mobilitata nei termini di una neutralità secolare o laica, è in realtà profondamente radicata nei cosiddetti valori cristiani, tanto che si potrebbe parlare di una «congiuntura tra cittadinanza e religiosità» (ibid.:7). Declinare nello spazio postcoloniale il concetto di cittadinanza – nelle forme che ha assunto nel contesto europeo – pone allora davanti non solo agli evidenti limiti nell’afferrare le pratiche e il coinvolgimento delle persone nella vita politica, ma rende anche evidenti i caratteri normativi tipici dei discorsi sulla democratizzazione. In particolare il riferimento alla cittadinanza risulta problematico perché, nei piani di organizzazioni governative e internazionali, è stato tacitamente articolato «secondo una configurazione strettamente secolare» (Calhoun 2011: 75) emanata dai processi storici che 324

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hanno investito l’Europa. Per questa ragione il mondo rappresentato da Nana Kwaku Bonsam – in cui gli spiriti non sono presenze metaforiche ma materialmente presenti nel quotidiano – seppur escluso dagli spazi dell’agire politico comunemente accettato dalle istituzioni secolari sia locali13 che internazionali, dimostra come in realtà soggettività politica e agentività possano essere veicolate attraverso il ricorso a una dimensione soprannaturale. È questa una riflessione che in anni recenti è stata articolata anche dal cosiddetto filone post-secolare (Braidotti 2008), nell’intento di riconsiderare il ruolo della spiritualità per rileggere e superare posizionamenti anti-religiosi nel quadro, ad esempio, dei movimenti sociali. Se si sceglie allora di seguire Talal Asad (2003), secondo cui per secolarismo andrebbe inteso, piuttosto che la separazione tra un privato e un pubblico dominio, il potere sovrano dello Stato di riorganizzare la dimensione della vita religiosa, bisogna allora rilevare se e come questo esercizio di controllo riesca o meno. Nello specifico del caso ghanese, la liberalizzazione dei media classici prima, e la diffusione dei media digitali poi, ha creato le premesse per l’insorgere di uno spazio non omogeneo, in cui si esprimono una molteplicità di dimensioni diverse che sembrano ricollegarsi a una visione già espressa da Achille Mbembe (1992) sulla natura dello 13 Sarebbe comunque suggestivo ripercorrere la genesi del sistema di potere tradizionale (chieftancy) che, come sostiene Kallinen (2014), ha visto in Ghana la sua forma mutare in accordo all’emergere di categorie separate quali quelle di religione e politica. 325

spazio pubblico postcoloniale. Secondo Mbembe, infatti, lo spazio della postcolonia non sarebbe costituito da una singola, coerente e omogeneizzata sfera pubblica (ibid.: 5) ma da una pluralità di sfere e arene, che rifiutano di rispondere a un singolo principio organizzatore. Come si è qui visto infatti, discorsi “secolari” come la lotta alla corruzione non sono limitati alle iniziative delle associazioni della società civile ma, Bonsam lo dimostra, possono essere declinate in accordo con idiomi altri che deviano dalla cornice della razionalità disincantata. Le diverse traiettorie di diffusione delle tecnologie digitali hanno perciò offerto nuovi spazi per l’articolazione di questi posizionamenti. E infatti, aggirando il discorso popolare sulla stregoneria, Bonsam associa i suoi poteri e il culto di cui è rappresentante sotto il dominio della categoria religiosa, evitando però di reiterare l’approccio intellettualista che in Ghana era stato adottato da altre iniziative come Afrikania14, rompendo infine le barriere di quello che precedentemente era stato visto come «un antagonismo tra poteri tradizionali e moderne tecnologie» (Meyer 2006: 443). Il ricorso alla categoria di religione, facendo leva sullo status a essa accordato dal paradigma secolare, garantisce almeno sulla carta la legittimità della libertà di culto e il diritto a esprimerlo.

14 Riguardo questa tendenza, che Peel (1994) aveva definito “culturalizzazione”, si veda il dettagliato lavoro di Marleen de Witte (2008) e Schirripa su Afrikania e la sua missione di conferire una forma quasi-normativa a un insieme di pratiche individuate dall’espressione ATR (African Traditional Religion). 326

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Il suo viaggio in Italia, nell’aprile del 2014, si inserisce proprio in questa cornice. Spesso impegnato in viaggi all’estero, Nana Kwaku Bonsam ha visitato negli ultimi anni molte comunità ghanesi in Europa15 e Nord America16 che seguono le sue attività e nutrono interesse nei suoi servizi. Similmente, il suo soggiorno in Italia è avvenuto nel contesto di una comunità nel bresciano che da tempo chiedeva una sua visita17. Perciò, dopo circa una settimana passata dispensando servizi, ascoltando e operando con le persone che si recavano nell’appartamento in cui era ospitato, Nana Kwaku Bonsam si mosse verso la sua tappa successiva: Roma. “NANA Kwaku Bonsam in Vatican City ROME ITALY WOOOOOOOOOO” A me, che lo accompagnavo durante il viaggio in treno, aveva a più riprese manifestato l’entusiasmo di vedere da vicino Roma e il Vaticano. Perciò, raggiunta la stazione 15 Nel 2010, durante un soggiorno ad Amsterdam, è stato impegnato in diverse occasioni pubbliche in cui ha offerto i suoi servizi di guaritore alle comunità della diaspora. Molti video sul suo profilo YouTube seguono questi eventi fin dal suo arrivo all’aeroporto di Schiphol: https://www. youtube.com/watch?v=f YRmo5zYf Uw (ultimo accesso 28 maggio 2017). 16 Molteplici anche i viaggi negli Stati Uniti, tra cui un soggiorno di un anno nel Bronx a New York, di cui si trovano resoconti tra le pagine del New York Times: http://www.nytimes.com/2013/07/21/nyregion/ feared-traditional-priest-from-ghana-spends-a-year-in-the-bronx. html?mcubz=1 (ultimo accesso 28 maggio 2017). 17 Comunicazione personale, aprile 2014. 327

Termini, la direzione principale era Città del Vaticano, tempio della Cristianità e residenza del Papa. In quanto traditionalist, impegnato pubblicamente nel rivendicare l’autorevolezza dei culti tradizionali, il suo interesse per una figura all’apparenza tanto distante come quella del Papa è a suo modo ambiguo. Ma come lui stesso spiegava, riconoscendone l’autorità religiosa, è l’interlocutore ideale con cui discutere dei pastori carismatici e delle loro “false profezie”, potendo anche usare il suo potere per richiamare all’ordine personaggi come T.B. Joshua18 che «di spirituale non hanno nulla, ma solo buoni curatori che montano e caricano le sue cose su YouTube e altre stazioni televisive»19. Bonsam era stato chiaro fin da subito su questo punto, fin dalla vigilia del suo viaggio, quando in numerose dichiarazioni rilasciate alle radio ghanesi aveva annunciato la sua imminente visita in Vaticano proprio per aprire una discussione sulla condotta di pastori carismatici e pentecostali in Ghana. Uno dei luoghi più mediatizzati al mondo, costantemente seguito da corrispondenti dei più noti canali televisivi, Città del Vaticano rappresenta forse l’esempio più lampante del

18 T.B. Joshua è un controverso pastore televangelista con base a Lagos, fondatore della “Synagogue, Church of All Nations”, una delle più grandi chiese in Africa. Bonsam ha attaccato T.B. Joshua in molte occasioni, tra queste nell’aprile del 2017, quando annunciò di voler portare il suo caso all’attenzione del Papa: Pope must call T.B. Joshua to order – Kwaku Bonsam:http://citifmonline.com/2014/04/15/pope-must-call-t-bjoshua-to-order-kwaku-bonsam/ (ultimo accesso 29 maggio 2017). 19 Comunicazione personale, aprile 2014. 328

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ruolo dei media nella spettacolarizzazione della pratica religiosa, nonché della sovrapposizione tra religione e stato. Una passionate machine (Napolitano, 2015), capace di articolare insieme attaccamento emozionale e razionalità politica, produttrice di passioni e affetti importanti sia nelle singole esperienze delle persone che nell’orientare scelte e decisioni politiche. Sempre più meta di traiettorie “di ritorno”20 che allo stesso tempo ne cambiano e rafforzano i poteri (ibid.). Nella cornice di piazza San Pietro, fatta di fedeli, turisti, venditori di oggetti sacri prodotti in serie, giornalisti, videoperatori, guardie e transenne, l’arrivo di Nana Kwaku Bonsam poteva passare del tutto inosservato. Non diversamente dai tanti altri visitatori che riempivano la piazza, Bonsam dopo una buona mezz’ora ha infatti preso una delle tante strade della città, che lo avrebbero poi portato nuovamente in stazione ferroviaria, e di lì ancora più a sud, verso Napoli, dove altri incontri e comunità attendevano di averlo tra loro. Il suo essere lì però aveva lasciato una traccia, creato un collegamento, amplificato la sua figura nonostante l’incontro faccia a faccia con il Papa non si fosse mai verificato. Prima di lasciare la vista della Basilica, Nana Kwaku Bonsam aveva registrato un messaggio video in lingua inglese in cui mostrava di trovarsi a San Pietro spiegando il perché di quella sua visita. Nel filmato, caricato qualche 20 Valentina Napolitano scrive della centralità di Roma, in quanto cuore del Cattolicesimo, nelle traiettorie dei lavoratori migranti americani che raggiungono l’Italia in quello che è un processo di rafforzamento e parallelamente di mutamento della Chiesa stessa. 329

settimana dopo sul suo canale YouTube, condiviso sui suoi profili Facebook, ripostato da altri suoi seguaci, rilanciato su radio e televisioni ghanesi con il titolo “NANA Kwaku Bonsam in Vatican City ROME ITALY WOOOOOOOOOO”21, così si esprimeva: «Il mio nome è Nana Kwaku Bonsam, the great authentic man, ho attraversato tutto il mondo, dall’Africa Occidentale per arrivare qui, a Roma. Volevo vedere Roma. Ma da quando sono qui è (stato) molto difficile per me vedere il Papa, incontrarlo. Sono assieme al mio amico, Antonio […]. Stiamo facendo assieme delle ricerche. [...] Così ora, in questo momento, vi parlo direttamente da Roma […] e (perciò) in ogni video in cui mi vedrete su internet, in TV, su Youtube, ovunque (saprete) che Nana Kwaku Bonsam è in Vaticano. Le persone che sono qui arrivano da tutto il mondo, sono rispettabili e buone […]. (Ma) voglio che tutti sappiano come noi africani veneriamo e preghiamo il nostro dio. Alcuni dicono che noi siamo i traditionalist, e il modo in cui veneriamo il nostro dio è sbagliato, che lo facciamo come fosse un fantasma. No! Guardate qui, le persone si inginocchiano, pregano, benedicono, fanno il segno della croce, eccetera. E in Ghana? Loro dicono che noi veneriamo fantasmi. Ma (quello che

21 https://www.youtube.com/watch?v=bFBqkTMa8l4 (ultimo accesso 29 maggio 2017). 330

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facciamo) è lo stesso. Lo stesso (che fanno) anche qui! Lo stesso che facciamo noi, i traditionalist, in Ghana. È la stessa cosa. […] Mettiamo allora insieme queste cose e lasciamo che sia il dio onnipotente a decidere cosa è giusto e cosa no. Perciò ora noi siamo a Roma, qui (dietro) c’è il Vaticano e il Papa, il vero Papa. Quando guardate questo video sappiate allora che Nana Kwaku Bonsam si trova proprio a Roma, in Vaticano. Quando vedrete il video su Youtube, sulla televisione in Ghana, in ogni televisione nel mondo, bene Nana Kwaku Bonsam è in Vaticano». La registrazione è tutt’ora disponibile su YouTube accanto alle altre centinaia di filmati che lo ritraggono nelle occasioni più svariate: celebrazioni pubbliche, interviste, momenti di vita quotidiana. In molti di questi Nana Kwaku Bonsam è impegnato in lunghe e articolate critiche ai pastori delle chiese cristiane ghanesi. Un motivo ricorrente anche durante le nostre chiacchierate e che fa da sfondo al messaggio di supporto ai culti tradizionali lanciato dal Vaticano. È interessante notare che in questa contestazione Bonsam tracci una connessione forte tra le pratiche a cui fa riferimento – notoriamente dipinte come una minacciosa presenza sia nell’immaginario Occidentale che nelle retoriche Pentecostali in Africa – e il culto cattolico. Con la sua narrazione sembra sovvertire la contrapposizione tipica della geografia post-coloniale tra religione cristiana e tradizioni africane, mettendo al contrario in evidenza la materialità e genesi della presenza che accomuna i due

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discorsi. Un punto su cui Bonsam incede a più riprese è infatti quello del “we are the same”, che pronunciato in piazza San Pietro suona quasi trans-ecumenico. Curiosamente in questa operazione di avvicinamento, intesa a legittimare la propria posizione, Bonsam finisce per confermare l’associazione dei Pentecostali che, come sostiene Annalisa Butticci (2016), accusano le pratiche cattoliche di condividere con le “religioni tradizionali africane” un eccessivo attaccamento al materiale e un proliferare di culti che sconfinano nell’idolatria. In quest’ottica Città del Vaticano diventa una zona di contatto, uno «spazio tumultuoso e creativo abitato da soggettività transculturali [...] che attraversano e destabilizzano i confini di identità e soggettività», «mettendo in discussione gerarchie e divisioni consolidate nel tempo» (Butticci 2016: 45). Seguendo le iniziative di Bonsam, un ulteriore e importante aspetto da tenere in considerazione riguarda la centralità della componente mediatica, che non rappresenta solamente una possibilità di espressione, ma una forza che struttura e trasforma pratiche e relazioni. Difficile infatti sarebbe immaginare la sua figura privata del rapporto che nutre con i media digitali. Per comprendere le sue pratiche e la relazione che le persone instaurano con lui diventa allora importante riconoscere il ruolo ricoperto dal fattore digitale. Gabriella Coleman (2010: 495) ha usato la definizione di “prosaiche dei media digitali” per guardare alle modalità con cui i media digitali alimentano, riflettono, danno forma e si intersecano con altre pratiche 332

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sociali, tra cui quella religiosa. Gli spazi online allora, oltre a essere costitutivi della sua persona, permettono anche a molte altre di accedere a un ordine di senso rimediato dalla modernità tecnologica e di partecipare attivamente alla sua riproduzione in quanto utenti e follower22 dei diversi social network da lui abitati. Una relazione, questa, decisiva nell’alimentare la sua autorità carismatica di rappresentante di una tradizione condivisa. Del resto già Fabian (1979)23 aveva messo in evidenza come l’autorità carismatica non vada ridotta alle sole qualità della personalità di un leader, ma è soprattutto un processo performativo, intersoggettivo e collettivo. Proprio per questo il seguito globale di cui gode Bonsam è il risultato di un ampio e diffuso sentire comune, tanto rispetto a un modo alternativo di guardare alla tradizione quanto al fare i conti con le presenze che abitano il mondo. In conclusione, fare i conti con la dimensione su cui le attività di Nana Kwaku Bonsam ci proiettano non può che richiedere una riconsiderazione e messa in discussione degli assunti tipici della visione liberale euroamericana, specie riguardo le forme dell’ordine democratico. In particolar modo a essere posta in questione è la dimensione della società civile, in quanto spazio privilegiato di partecipazione alla vita politica. Utilizzata per normare contesti e movimenti assai diversificati secondo i canoni 22 Follower o seguaci dei suoi profili su Facebook, Instagram, Snapchat e altri. 23 Citato in Csordas (1997). 333

del disincanto e della razionalità, finisce per mostrarsi incapace di fare i conti con la modernità di cui tecnologie e media digitali sono participi. La componente emozionale del rapporto con il trascendente, il religioso, l’oltre o il “resto di quel che è” (Van de Port 2010) è infatti resiliente e smentisce le previsioni, anche autorevoli (Castells 2011), sull’emergere delle “società della rete”. Una prospettiva non limitata all’altrove a cui il Ghana potrebbe essere assimilato ma che risuona anche nel contesto Occidentale. Come approfonditamente rilevato da Robert Orsi (2016), secondo il disciplinamento della modernità europea, presenze altre, come spiriti e manifestazioni del divino, sarebbero relegate fuori dal mondo del sensibile, in cielo e “tra le nuvole”24. In favore di una riconsiderazione del ruolo della dimensione religiosa Orsi, affrontando la genesi della presenza nel contesto cattolico, nota come se è vero che in molte situazioni le divinità sono state agenti di conformismo e sottomissione, in particolari momenti hanno anche «messo in discussione norme sociali, contestato agende politiche e deluso le aspettative dei potenti» (Orsi 2016: 5). Ragione questa del moderno disciplinamento, operato da istituzioni religiose e non, di un mondo in cui spiriti e divinità sono materialmente presenti e sensibili. Nel caso qui presentato, attraverso il ricorso agli spiriti – lanciare pubblicamente i juju – Nana Kwaku Bonsam

24 Si pensi alle visioni miracolari che, nel cattolicesimo, caratterizzano siti sacri come Medjugorie. 334

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porta avanti un’azione che potenzialmente interferisce con la vita politica e va a inserirsi tra il dominio dello stato e quello della società civile. Mobilitando l’immaginazione collettiva dei suoi seguaci – la possibilità che un’entità spirituale possa materialmente agire – esercita un contropotere nei confronti dei politici corrotti. Una missione che, a discapito dei metodi, è decisamente secolare. Parte dei suoi rituali hanno infatti i caratteri tipici delle iniziative politiche, e spingono perciò a riformulare lo stesso concetto di politico. Come osservato da David Graeber, infatti, se si considera l’iniziativa politica nei termini di «un’azione intesa a influenzare altre persone non fisicamente presenti», da un certo punto di vista l’atto magico è potenzialmente una delle forme più pure di azione politica (2007). Necessaria infatti, tanto all’iniziativa politica quanto ai juju lanciati da Bonsam, è la dimensione pubblica digitale e il rapporto con i suoi follower che ne garantiscono circolazione e riproduzione necessarie a raggiungere un contesto più ampio di narrazione e discussione.

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“Movin’ to the next level”. Popular music, circolazione digitale e mobilità sociale in area Nzema Francesco Longo In chiusura al suo lavoro monografico sui Kabre del Togo settentrionale, l’antropologo statunitense Charles Piot scrive: «For anthropologists, the remote village has long been the site par excellence of traditional culture – an outside, a place in which to locate the Other, a site of redemption at some remove from the metropole and the global system [...] I prefer to see the village as a site – and also, in many ways, an effect – of the modern. One that is as privileged as any other, one that has shaped the modern as much as it has been shaped by it, and one that brings to the modern – that always uneven, often discordant, ever refracting, forever incomplete cultural/political project – its own vernacular modernity». (Piot, 1999, pag. 178). Allo stesso modo, in questo contributo vorrei presentare l’area nzema non solo come luogo informato dalle dinamiche della modernità, ma anche come arena in cui la modernità è prodotta e riprodotta nell’agire quotidiano e nei discorsi delle persone che lì abitano. L’arcipelago di villaggi e cittadine che costituiscono 341

lo Nzema, connessi tra loro da un reticolo di sentieri e strade solo recentemente asfaltate, è collegato alle aree metropolitane del Ghana e alla vicina Costa d’Avorio da sistemi lagunari e autostrade, attraverso cui persone e merci si muovono incessantemente. Le infrastrutture dell’informazione, come la televisione, internet, la radio e le telecomunicazioni, contribuiscono alla circolazione di immaginari e ideologie, nutrendo le rappresentazioni, le pratiche e gli orizzonti di senso tramite cui gli abitanti dell’area interpretano ed esperiscono il loro essere nel mondo. Il mio intervento prenderà in considerazione la popular culture (Barber, 1997; Hall, 2006) come luogo privilegiato per guardare alle dinamiche politiche, economiche e sociali che caratterizzano la modernità nzema. La musica, in particolare, si dimostra, rispetto ad altre forme espressive, più ricettiva verso i cambiamenti nella società, ed è capace di convogliare i significati più profondi, le ansie e le speranze di chi la produce e di chi la consuma (Turino, 2008). In Ghana, la popular music è stata, sin dal periodo coloniale, un’arena in cui differenti rappresentazioni del passato, del presente, e soprattutto del futuro si sono confrontate e scontrate. La musica highlife, ad esempio, come sottolineato da Nate Plageman (2013), ha costituito un terreno in cui poste in gioco politiche rilevanti nel nation-building sono state negoziate e messe in atto, non senza tensioni e frizioni, anche nella quotidianità della vita notturna del Paese. 342

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Dopo aver tratteggiato un quadro generale dell’impatto del digitale sull’industria musicale e il consumo in Ghana, presenterò il De Bees Records, un piccolo studio di registrazione sorto a Aiyinasi, nel distretto di Ellembelle1, che farà da sfondo alle vicende di un gruppo di ragazzi impegnati nello stabilire una scena musicale hiplife nell’area nzema. Analizzando questo caso etnografico, cercherò di riportare le speranze e le frustrazioni, i progetti e le tattiche (de Certeau, 1984) di coloro che giornalmente vivono le disconnessioni e le potenzialità derivanti dal fare musica in un’area geografica marginale. La rapidità con cui le infrastrutture digitali stanno prendendo piede nelle zone rurali e semi-rurali e la volatilità dell’economia ghanese rendono ogni rappresentazione etnografica necessariamente precaria. Il De Bees Records, almeno nella forma in cui l’ho conosciuto durante un soggiorno in area Nzema nel 20142, oggi infatti non esiste più, mentre le vite delle persone che lo hanno animato hanno preso strade diverse, spesso legate alla necessità di trovare opportunità di mobilità sociale lontano da Aiyinasi. La storia che racconterò in queste pagine, dunque, avrà la funzione di documentare solo un momento effimero, 1 Il distretto di Ellembelle è una delle tre unità amministrative in cui è diviso lo Nzema ghanese, insieme al distretto di Jomoro (con cui confina a ovest) e la Nzema East Municipality (a est). 2 Questo contributo è il prodotto di una ricerca sul campo effettuata tra luglio e novembre 2014 nei distretti di Jomoro e Ellembelle, sebbene parte delle informazioni siano state raccolte grazie alle relazioni a lunga distanza che continuo a intrattenere tutt’oggi con alcuni dei soggetti interessati. 343

seppur rilevante, nel contesto di una modernità rurale nzema, sempre più visibilmente inserita in un intreccio transnazionale di reti economiche, culturali e ideologiche. Musica e tecnologie digitali nel contesto ghanese Nel panorama contemporaneo, la musica digitale caratterizza l’esperienza musicale quotidiana in molti paesi africani: kwaito sudafricano, coupé decalé ivoriano, afrobeats nigeriano, bongo flava tanzaniano, hiplife ghanese e kuduro angolano sono solo alcuni esempi, probabilmente i più conosciuti a livello internazionale, della miriade di stili differenti che si fondano sull’utilizzo di tecnologie elettroniche. Durante gli scorsi decenni, infatti, i cambiamenti globali nei mercati e nelle infrastrutture della comunicazione si sono riflessi su pratiche musicali locali, modellando nuove estetiche e tracciando solchi per inedite culture della circolazione (Lee & LiPuma, 2002). Quando si parla di musica e lavoro culturale, la svolta digitale genera sentimenti contrastanti, poiché incarna le opportunità e le ansie della modernità: la versione mp3 di una canzone può raggiungere quasi istantaneamente luoghi mai immaginati prima, ma la materialità stessa del medium ne rende difficile il controllo da parte di chi l’ha prodotta. Infatti, come evidenziato da Brian Larkin, ogni infrastruttura «crea le condizioni per la sua stessa corruzione e parassitismo» (2008, pag. 217). I paesaggi sonori del Ghana urbano testimoniano come la circolazione digitale abbia preso piede in vari aspetti della vita quotidiana: la musica mediata da apparati elettronici è 344

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ubiqua, su uno spettro che va dagli altoparlanti dei sound system a quelli dei telefoni cellulari. Se nelle metropoli meridionali come Accra, Takoradi e Kumasi e nei centri urbani del nord come Tamale e Bolgatanga, l’esperienza musicale delle persone è sempre più mediata da tecnologie digitali, le aree rurali stanno accorciando rapidamente le distanze attraverso la capillare diffusione di hardware di seconda mano (Burrell, 2012). A causa di importanti cambiamenti nei discorsi estetici e nelle infrastrutture economiche, quindi, le pratiche musicali sono sempre più determinate dall’accesso e la padronanza tecnica di dispositivi digitali prodotti in massa nel Nord del mondo. Secondo Paul Greene, «le tecnologie musicali tendono a creare una sfocatura (nel senso di una perdita di distinzione) tra le sfere della produzione musicale e del consumo». Egli sostiene che «i musicisti sono diventati non solo produttori di musica, ma anche rilevanti consumatori di tecnologia» (Greene, 2005, pagg. 6-7). La forma musicale ghanese più discussa e controversa degli ultimi decenni, nonché il genere elettronico per eccellenza, è sicuramente l’hiplife3. Si tratta di una versione vernacolare dell’hip hop, che arrivò in Ghana tra gli anni Ottanta e Novanta insieme ai cittadini che tornavano da esperienze di lavoro o di studio all’estero. Nei quartieri popolari di New York e Londra, i giovani immigrati africani conobbero il rap e la breakdance, forme espressive 3 La paternità del termine, sincrasi tra hip hop e highlife, va attribuita al pioniere del genere Reggie Rockstone. L’hiplife è infatti definito dall’unione tra rap, ritmiche indigene e padronanza della retorica akan. 345

che si focalizzavano sul controllo del corpo e la destrezza linguistica (Shipley, 2013, pag. 52). L’hip hop statunitense celebrava il successo individuale del sottoproletario nero all’interno di una nazione costruita su diseguaglianze economiche e oppressione razziale. Questo ambiguo equilibrio tra critica sociale e etica individualista parlava con forza ai giovani dei centri urbani del Ghana post-aggiustamenti strutturali. La neoliberalizzazione dell’economia aveva portato maggiori opportunità di arricchimento per il singolo a fronte di un crescente impoverimento collettivo; l’hiplife forniva alla gioventù uno strumento per orientarsi all’interno di questa realtà. A livello particolare, i mutamenti estetici cui la musica ghanese è andata incontro negli ultimi decenni, e di cui l’hiplife rappresenta una chiara manifestazione, sono il prodotto di recenti sconvolgimenti strutturali che hanno influenzato i modi di produzione e distribuzione della musica. Verso la fine del ventesimo secolo il Ghana ha perso la sua vivace industria discografica, colpita gravemente dalla crisi economica di fine anni Settanta, soffocata dal regime militare degli anni Ottanta e infine seppellita dall’esplosione della pirateria nei Novanta (Collins, 2012). La popular music ghanese è riuscita a sopravvivere a questa situazione adattandosi a un complesso sistema circolatorio basato principalmente sulla diffusione del digitale. L’assenza formale di un’industria discografica ha originato una situazione che si discosta sensibilmente dal modello di organizzazione del lavoro proprio del sistema euro346

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americano, in cui i confini tra artista, ingegnere del suono, produttore, manager e agente di marketing sono (almeno ufficialmente) chiaramente definiti (Le Seigneur, 2014, pag. 61). È esattamente per questa ragione che l’“estetica imprenditoriale” è diventata un carattere imprescindibile della musica hiplife (Shipley, 2013). Secondo la ricostruzione etnografica di Shipley, la scena hiplife nazionale si sostiene economicamente grazie agli sponsor: le grandi aziende, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni, utilizzano l’immagine di cantanti e rapper famosi per pubblicizzare i loro prodotti sul mercato nazionale4. Gli artisti, dunque, vengono incoraggiati a condividere gratuitamente la loro musica nella speranza di ottenere l’attenzione dei media5 e contratti pubblicitari. La celebrità diventa così «una moneta per convertire valore estetico in valore economico» (Shipley, 2013, pag. 267). La circolazione digitale attraverso telefoni cellulari, social network e dispositivi di archiviazione dati definisce sempre più l’esperienza musicale della gioventù in Africa e 4 La studiosa afroamericana Halifu Osumare ha rilevato la pericolosa ambiguità intrinseca a questa situazione: «On the one hand, hiplife corporate sponsorship has advanced many artists’ careers as well as the infrastructure of Ghana’s developing music industry. On the other hand, multinational corporate control, particularly by Ghana’s telecom companies, is far too great and poses a threat to hiplife’s ultimate autonomy to be counter-hegemonic in its artistic and social purposes» (Osumare, 2014, pag. 207). 5 Una payola (pagamento sottobanco) è spesso richiesta da conduttori televisivi e radiofonici in cambio di passaggi on air, v. Duwuona (2007). 347

non solo6. I cellulari, in particolare, giocano oggi un ruolo fondamentale nel fare e consumare musica: dato che sono relativamente in pochi coloro che possono permettersi un computer, i telefoni portatili forniscono accesso a nuove canzoni, uno spazio per conservarle e un mezzo per riprodurle. L’incessante movimento di file audio è intrecciato inesorabilmente con i destini delle persone che li producono, gli immaginari e le aspirazioni degli ascoltatori che lo rendono possibile (Weiss, 2002). La popular music in Ghana è oggi legata a ambizioni e fantasie di mobilità, sia geografica che sociale: la circolazione digitale diventa così un modo per realizzare parzialmente questi desideri. Le eredità delle relazioni tra Nord e Sud del mondo, infatti, «hanno plasmato [...] una concezione di successo definita dai legami che si hanno con l’estero e dalla propria mobilità globale» (Burrell, 2012, pagg. 6-7). In questo modo suoni elettronici e dispositivi digitali, oltre a essere economici ed efficienti, sono anche esteticamente rilevanti nel proiettare immagini di successo e dinamismo cosmopolita. Queste proiezioni, tuttavia, non sempre riflettono la quotidianità dei musicisti ghanesi, che si trovano spesso a sperimentare dolorose discrepanze tra immagine pubblica e condizioni di vita reali. La tendenza dei discorsi accademici contemporanei a riprodurre visioni troppo ottimistiche della mobilità è stata recentemente criticata, tra gli altri, dall’etnomusicologo

6 Sull’influenza crescente del telefono cellulare in Africa, v. de Bruijn et al. (2009). 348

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sudafricano Gavin Steingo (2015). L’esperienza musicale degli abitanti delle township di Johannesburg sarebbe difatti ben lontana da rappresentazioni che mettono al centro «la crescente ubiquità, accessibilità e fluidità della musica» (Steingo, 2015, pag. 103): le cose a Soweto tendono a rompersi ripetutamente, e le persone rimangono bloccate mentre infrastrutture e disuguaglianze ostacolano i loro movimenti. Steingo usa il termine obduracy, controparte concettuale di circolazione, per descrivere i limiti intrinseci alla mera materialità degli artefatti elettronici. Questa tensione tra il miraggio di una crescente libertà di movimento e gli attriti prodotti da limiti infrastrutturali e fallimenti istituzionali è un elemento chiave nell’esperienza e nella produzione musicale in area nzema. Hiplife, circolazione e lotte quotidiane: il De Bees Records di Aiyinasi Attraverso una stratigrafia sonora (Feld, 2012, pag. 5; 249n7) si possono rendere evidenti le dinamiche della modernità che informano la vita all’interno di una comunità nzema. Al canto del gallo, la mattina presto, si sovrappongono le hit musicali del momento o i sermoni religiosi dei predicatori mediatici trasmessi dalle stazioni radio locali e rilanciati a tutto volume dagli altoparlanti di negozi e spot; i suoni ritmati del lavoro artigianale e i richiami delle venditrici ambulanti vengono talvolta sovrastati dal ruggito degli enormi camion che trasportano materiali per i cantieri aperti in tutta l’area o noci di cocco dirette in Nigeria. 349

La grande trasformazione che il terreno di ricerca sta subendo può essere percepita già soltanto attraverso l’ambiente acustico: da un lato c’è la radio, manifestazione mediatica di un’economia di mercato in cui star musicali e spirituali competono per conquistare fan e fedeli7; dall’altro il rumore derivante dal traffico pesante che ha seguito la riconversione dell’area in uno dei principali siti energetico del Paese8, apre uno squarcio sulle speranze e le delusioni che si condensano intorno al discorso dello sviluppo. In questo scenario composito, tra aspettative di progresso e delusioni generate dal persistere di enormi disuguaglianze, si situava l’esperienza del De Bees Records di Aiyinasi, uno dei pochi studi di registrazione esistenti 7 «The parallel appeals of hip-hop and charismatism in marketizing Africa reveal them as two sides of a moral argument about self-making. They represent opposing models for imagining success: the sacred and the profane. While charismatism promotes conservative business modesty, hiplife rejects normative ideas of public respectability. Ghanaian neoPentecostals and hiplifers represent a moral opposition played out in everything from lyrics and sermons to hairstyles and modes of walking. But they both celebrate “prosperity doctrines” and a morality of personal aspiration and miraculous wealth accumulation» (Shipley, 2013, pag. 76). Per un approfondimento sul rapporto tra chiese carismatiche e radio in Ghana v. anche, tra gli altri: De Witte (2004) e Shipley (Shipley, 2009). Per un discorso più generale riguardo il medium radio in Africa v. Gunner et al. (2011), Fardon e Furniss (2000). 8 Nel 2007 la scoperta di giacimenti di gas naturale e petrolio al largo del distretto di Jomoro, ribattezzati Jubilee Field per la coincidenza con il cinquantesimo anniversario della nazione, ha dato il via a un processo di industrializzazione che sta avendo un notevole impatto sull'ambiente e sull'economia locale. Su questo tema, v. Ackah-Baidoo (2013); Asamoah (2014); Bybee e Johannes (2014); Pugliese (2014). 350

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tra Jomoro e Ellembelle nel 2014. Questo era il prodotto tangibile delle dinamiche circolatorie che informano lo Nzema contemporaneo. A livello locale, infatti, testimoniava l’esistenza di un continuum tra città e villaggio, invitandoci a rigettare un’idea di “rurale” romantica ed essenzializzante. Sul piano transnazionale, invece, il De Bees Records si situava idealmente all’interno di quelli che John Collins e Halifu Osumare chiamano, rispettivamente «feedback musicali trans-Atlantici» (Collins, 1989, pag. 221) e «arco di mutua ispirazione» (Osumare, 2012, pag. 1). Analogamente, le persone che ho conosciuto presso lo studio, per lo più giovani maschi, utilizzavano la musica hiplife per negoziare il loro posizionamento all’interno della società locale attingendo creativamente a immaginari globali. Arrivai al De Bees Records seguendo la rete di conoscenze di Kalley, un mio coetaneo di Ngelekazo che si era reso disponibile ad assistermi nel corso della ricerca. Attraverso di lui conobbi 4mula e Kingsberg, che avevano da poco avviato uno studio di registrazione a Aiyinasi. Il primo si presentava come uno dei più promettenti artisti dell’area, mentre il secondo era un ballerino che aspirava a diventare tecnico del suono e produttore. Il De Bees Records sorgeva proprio all’interno del compound della famiglia di quest’ultimo, poco distante da una delle strade più trafficate di Aiyinasi. La cittadina è posta sulla N1, la strada principale che attraversa longitudinalmente il sud del Ghana estendendosi da Elubo nel Jomoro ad Aflao nella Volta Region.

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A dispetto di altre zone dell’area nzema, quindi, questo centro di circa diecimila abitanti9 si trova in una posizione particolarmente favorevole per il transito di persone e merci tra Ghana e Costa d’Avorio. Aiyinasi è infatti sede di uno dei mercati più grandi e trafficati dello Nzema, nonché di una grande quantità di negozi e officine. Le strade sterrate, polverose o fangose a seconda delle condizioni meteorologiche, sono costantemente attraversate da motociclette, taxi, auto private, trotro, furgoni, aboboya10 e talvolta anche camion e autocisterne. La famiglia di Kingsberg, trasferitasi dalla Central Region, viveva in un compound spazioso a poca distanza dal mercato, dove entrambi i genitori gestivano un banco di abbigliamento. Alle spalle di una fila di chioschi e esercizi commerciali di vario genere adiacenti alla strada carreggiabile un murale dipinto sulla cinta esterna del compound forniva le indicazioni per raggiungere lo studio. Sulla porta c’era il listino prezzi di ogni servizio che il De Bees Records poteva offrire. Come sosteneva lo stesso Kingsberg, si trattava di un semplice ornamento: erano pochi i rapper in grado di investire più dei 25 GHS necessari alla registrazione di una demo. La maggior parte dei “clienti”, poi, facendo leva sull’esistenza di relazioni amicali, riusciva ad accedere gratuitamente allo studio. 9 Per la precisione 10.136 secondo il censimento del 2010 (Ghana Statistical Service, 2014, pag. 76). 10 Tricicli a motore dotati di pianale, usati principalmente per il trasporto di prodotti agricoli. 352

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Lo scopo di Kingsberg e 4mula, infatti, manifesto nel nome stesso del De Bees Records, era quello di creare un luogo di condivisione volto al consolidamento di una scena musicale locale: «If your dad is not having money how can you do music? It’s very hard. So I made up my mind that we all organize and we unite to be one, as de bees, as dada bees [“figli di papà”] that we wanted to be before... Whether you have a dad or you have no dad, if you come here, we all live like brothers and sisters [...] That’s the reason why I chose Dada Bees Records. That’s the full name of De Bees Records»11. Il De Bees Records era poco più uno stretto sgabuzzino di cemento che si sviluppava in profondità. Il lato destro dello studio era occupato dalla postazione dell’ingegnere del suono: un computer desktop abbastanza datato, un modesto impianto stereo, una serie di piccoli altoparlanti e un grande ventilatore che pendeva dalla parete, in modo da aiutare l’hardware, e soprattutto chi ci sedeva davanti, a sopportare il caldo opprimente. L’assenza di uno strumento fondamentale per la produzione in studio come la tastiera era compensata almeno esteticamente dall’esposizione di una chitarra classica scordata e una batteria elettronica da tavolo non funzionante. Curiosamente, in veste di tappetino per il mouse c’era il menu plastificato di un 11 Anthony Adjei Sakyi (Kingsberg), Aiyinasi, 31 ottobre 2014. 353

noto e costoso ristorante spagnolo di Beyin. In fondo alla saletta c’era la cabina di registrazione, solo parzialmente separata dal resto del locale e non isolata acusticamente, con microfoni e cuffie. Le pareti erano tappezzate di nomi d’arte e slogan, tra un poster di Bob Marley e uno dei Black Stars, la nazionale di calcio ghanese. La gran parte degli oggetti presenti, a cominciare dal computer, provenivano dal mercato dell’usato. Il Ghana, difatti, rappresenta oggi uno snodo rilevante nei movimenti globali di manufatti elettronici. La manifestazione più evidente e drammatica di tali commerci è la discarica di Agbogbloshie, ad Accra, dove migliaia di persone lavorano tra le esalazioni tossiche per ricavare materiali utili dai rifiuti elettronici dell’Occidente. Malgrado ciò, l’importazione, lo smistamento e il ri-assemblaggio di scarti provenienti principalmente da Europa e Nord America hanno permesso agli abitanti di luoghi relativamente remoti come Aiyinasi di partecipare alla rivoluzione digitale. Kingsberg e i gli altri compravano quasi tutto in loco, tra il mercato e i rivenditori di elettronica della zona. Dietro queste attività economiche ci sono spesso interi gruppi familiari che sfruttano l’accesso alle risorse e la mobilità di parenti residenti all’estero, popolarmente conosciuti come bɔga12 (v. Burrell, 2012, pagg. 164-173). 12 Bɔga è un termine colloquiale, una metonimia usata per indicare i ghanesi che sono riusciti a trasferirsi oltremare. Si tratta della versione akan di burgers, derivante da Hamburgers. Molti furono gli artisti che si trasferirono a Amburgo quando la crisi economica di fine anni Settanta e il regime militare di J. J. Rawlings misero in ginocchio l’industria musicale ghanese (Burrell, 2012, pag. 165; Collins, 2012, pag. 213). 354

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Analogamente, anche se in maniera meno sistematica, tecnologie e dati digitali raggiungono le aree rurali seguendo i movimenti di coloro che per ragioni di lavoro o di studio si trovano a visitare frequentemente le grandi città. Attorno al De Bees Records, un ampio ed eterogeneo gruppo di ragazzi si riuniva per fare musica insieme. Per semplicità, in questo contributo faccio riferimento all’hiplife, pur nella consapevolezza di rischiare di corroborare narrazioni egemoniche in ambito accademico e non (Clark, 2012, pag. 25). In realtà, i musicisti di Aiyinasi si identificavano con una molteplicità di stili più o meno affini tra loro (Collins, 2012, pagg. 218–223), a seconda dell’ispirazione del momento e delle inclinazioni del singolo artista. Le tracce strumentali erano talvolta composte nello studio, anche se più spesso venivano scaricate direttamente da internet. Esiste una molteplicità di siti web, infatti, come ad esempio GhXclusives o Ghanamotion, in cui vengono condivise versioni strumentali di canzoni famose per cover o remix. La propensione a preferire simili risorse rispetto a composizioni totalmente originali era dettata in parte dall’impossibilità di accedere a software e strumentazioni competitive. In teoria, la diffusione delle tecnologie digitali avrebbe dovuto portare a una democratizzazione della produzione musicale, permettendo a un numero crescente di persone di produrre musica di qualità a basso costo. Nella pratica di uno studio di registrazione come il De Bees Records, invece, queste potenzialità erano ancora limitate da una serie di barriere materiali.

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Anche per questo motivo, il mio interesse verso la loro musica costituiva una posta in gioco rilevante per gli interlocutori del De Bees Records. Una volta tornato a Roma, infatti, mi trovai a fare da broker, approfittando della migliore infrastruttura internet a mia disposizione per scaricare e poi inviare fisicamente – tramite Kalley, che nel frattempo si era trasferito in Italia – alcuni software e plug-in di difficile reperibilità per Kingsberg. Lo stato delle apparecchiature circolanti nell’area nzema, poi, le rendeva soggette a guasti frequenti. Inoltre, il De Bees Records doveva fare i conti con il dumsor13, ovvero un regime di razionamento dell’energia elettrica imposto dal governo per far fronte a un eccesso insostenibile di domanda. La somma di questi due fattori influiva sensibilmente sui ritmi dello studio. I sogni di mobilità dei rapper di Aiyinasi, inestricabilmente legati al valore che erano in grado di produrre attraverso la circolazione della loro musica, dovevano scontrarsi con una condizione di obduracy (Steingo, 2015) prodotta dagli attriti delle infrastrutture in cui erano costretti a muoversi. Come ho anticipato, i ragazzi del De Bees Records negoziavano il loro posizionamento all’interno delle dinamiche locali anche attraverso la mia presenza. Ho avuto modo di notare questo aspetto in almeno due occasioni, significativamente all’inizio e alla fine del mio soggiorno. La prima volta, durante il lancio ufficiale dello studio, mi fu riservato un tavolo ben decorato a margine dell’area 13 Dall’akan dum (spento) + sɔ (acceso). 356

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che ospitava l’avvenimento. Ho avuto l’impressione che questo particolare riguardo nei miei confronti in uno spazio pubblico rivelasse un tentativo di legittimazione davanti al resto della popolazione di Aiyinasi, secondo la logica già menzionata per cui il successo in Ghana si produce e si articola anche attraverso la manifestazione di intimità globali. In modo analogo, non fui sorpreso quando Kingsberg e altri due frequentatori dello studio, Don Hero e Asino, mi chiesero di accompagnarli presso la residenza del belemgbunli di Aiyinasi, per discutere la loro proposta di organizzare le celebrazioni natalizie di quell’anno. La presenza di un ricercatore europeo avrebbe accordato loro un certo status di rispettabilità davanti a un’autorità politica, garantendo la serietà delle loro intenzioni. Le gerarchie tradizionali erano d’altronde degli interlocutori altamente ricercati dai giovani musicisti locali. Se nelle grandi città come Accra, Takoradi e Kumasi gli artisti hiplife possono rivolgersi a un’infrastruttura di sponsor, i giovani dello Nzema devono necessariamente arrangiarsi all’interno di un contesto meno organizzato. Per i miei interlocutori, le relazioni di patronato con personaggi di rilievo rappresentavano una possibile alternativa per accedere a network redistributivi informali. Questi progetti, tuttavia, erano adombrati da una manifesta disillusione verso i notabili locali, sintetizzata così da Don Hero: «Big men and society... they don’t even tune in their ears to listen to us! They might see you and

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say: “look at these guys, they’re not serious: all your mates are in the city hustling and you are here rapping”. Nobody is going to support you, so you just have to do your own thing»14. Naturalmente, ogni artista del De Bees Records aveva i propri progetti e un’idea personale di come attuarli. Tra i più intraprendenti e lungimiranti c’era 4mula. Fu lui che, saputo del mio interesse verso la nascente scena musicale, ruppe gli indugi e venne a trovarmi direttamente a Ngelekazo una domenica mattina. Già in quel periodo, 4mula godeva di una discreta fama tra la gioventù locale. Nel corso degli anni, tuttavia, ho notato come la sua produzione musicale stia maturando notevolmente. Al di là di valutazioni estetiche circa la ricercatezza dei suoni o le sue impressionanti abilità espressive, 4mula rappresenta un caso particolarmente interessante per il modo in cui tutt’ora riesce a navigare, attraverso la musica, la realtà sociale in cui è immerso. Prima di altri, infatti, egli ha capito che rivendicando una specificità locale avrebbe potuto sovvertire i limiti intrinseci alla marginalità dello Nzema. 4mula guarda a un pubblico e a dinamiche politiche locali. La sua musica spicca all’interno di uno sforzo, sempre più condiviso, di costruzione della località: l’area nzema diventa “West Side”, tra le memorie di un passato glorioso (Kaku Aka e Kwame Nkrumah vengono citati frequentemente nei testi in lingua nzema) e la prospettiva 14 Daniel Nana Yaw Frimpong (Don Hero), Aiyinasi, 31 ottobre 2014. 358

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di una membership globale (Ferguson, 2002) alimentata dai combustibili fossili (Aiyinasi assume il nickname “Oil City”, come Takoradi). Si potrebbe ipotizzare che la volontà di far emergere attraverso la musica un discorso identitario – come ad esempio succede da decenni in Costa d’Avorio15 – risponda direttamente agli sviluppi economici e politici degli ultimi anni. Di fronte a promesse di benessere infrante sul nascere, in una situazione in cui dalle ricchezze estratte dal sottosuolo sembrano trarre beneficio solo élite cittadine e compagnie straniere, parte della gioventù locale reclama il proprio diritto di accesso a una redistribuzione equa. Rimarcando l’unicità della nzema edwɛne (musica) e del West Side Nzema come segmento a sé di una più vasta scena musicale nazionale, gli artisti nzema sottolineano il proprio legame con il territorio e, di conseguenza, le risorse che esso contiene16. Un discorso musicale esplicitamente rivolto al contesto locale, dunque, si rivela doppiamente ingegnoso. Nel breve periodo, infatti, favorisce l’instaurazione di rapporti di mecenatismo con politici del luogo, autorità tradizionali e quelli che i musicisti stessi definiscono big

15 Le politiche dell’identità appolo (come gli nzema sono chiamati in Costa d’Avorio) nel panorama frammentato della popular music ivoriana meriterebbero un contributo a parte. Basti notare, in questa sede, che Meiway, «l'artista ivoriano più famoso» (Bensignor, Wentz, & Solo, 2006, pag. 93), ha fatto dell’identità appolo il suo cavallo di battaglia. 16 A questo proposito v. Bybee e Johannes (2014, pagg. 136-137) sulla dispute tra associazioni giovanili dello Nzema e dell’Ahanta circa il possesso del Jubilee Field. 359

men17. In una prospettiva di lungo periodo, invece, la valorizzazione di sonorità e discorsi originali potrebbe aiutare i musicisti nzema a emergere nell’affollato panorama ghanese. In un articolo comparso recentemente sulla rivista di teoria antropologica HAU (Harms et al., 2014), gli autori presentano una varietà di casi etnografici per cui la remoteness, cioè la distanza reale o percepita di un luogo o di una comunità da un supposto centro, sia esso politico, economico o geografico, andrebbe intesa come una condizione positiva per lo sviluppo di pratiche sociali “all’avanguardia”. Nel caso della musica nzema sembrerebbero esserci le potenzialità per degli sviluppi originali, vista anche una condizione sì marginale ma allo stesso tempo al centro tra due centri, Abidjan e Accra, che esercitano un’influenza culturale rilevante su due Afriche molto diverse fra loro: quella anglofona e quella francofona. La marginalità che gli artisti lamentano potrebbe invece diventare il loro punto di forza. L’immagine dei rapper di Aiyinasi sulla scena locale e nazionale era, ed è tutt’ora, negoziata anche per mezzo dei social network. Ampliando l’idea di expansive realization formulata da Miller e Slater (2000, pagg. 174–178) – ovvero la possibilità che internet offre alle persone del Sud

17 L’affiliazione a queste figure viene ricercata e espressa attraverso la composizione di canzoni dedicate (praise song). Esse possono sostenere la campagna elettorale di un amministratore locale, ravvivare il festival tradizionale di un determinato villaggio (o di un’intera paramountcy), o magnificare i celebrare successi di un personaggio influente. 360

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del mondo di trascendere le contraddizioni dell’ambiente in cui vivono e di avvicinarsi alla versione idealizzata di sé stessi – Julie S. Archambault (2013) sostiene che l’attrazione esercitata dai social network trova spiegazione non tanto in ciò che si può mostrare, quanto in ciò che può essere nascosto. Come ho potuto riscontrare attraverso i profili Facebook di vari amici e interlocutori ghanesi, tra cui i musicisti del De Bees Records, la pratica di pubblicare foto (o fotomontaggi) che li ritraggono accanto a macchine costose, personaggi famosi o in locali di lusso, è un modo per tenere nascosta una quotidianità fatta spesso di rinunce e di privazioni. Un social network può anche essere uno strumento per contattare amici e conoscenti al di là dell’oceano, in modo da chiedere soldi e favori lontano da occhi e orecchie indiscrete. L’accurata composizione dell’immagine che si vorrebbe proiettare all’esterno sembra essere, allora, un modo per immedesimarsi in un futuro possibile e, allo stesso tempo, una tattica per accedere a opportunità di mobilità sociale. Gli utilizzi di internet non si limitano però solo a Facebook. Alcuni degli artisti emergenti che orbitavano intorno al De Bees Records, come ad esempio Kin Monster, avevano un profilo su social network dedicati alla promozione musicale come ReverbNation.18 L’uso frequente e efficace di internet e dei social network è comunque un’attività costosa e complicata: poche ore 18 In un interessante esempio di reciprocità etnografica, Kin Monster ha deciso di caricare sul suo profilo, a scopi promozionali, una foto che ci ritrae insieme. 361

di navigazione tra timeline e feed potevano prosciugare un pacchetto dati economico, mentre la copertura di rete lascia spesso a desiderare, tanto da rendere estenuante, in certi giorni e a seconda della distanza dal ripetitore di riferimento, il download di un video di medie dimensioni. Per questo motivo, una percentuale considerevole della condivisione di contenuti digitali avviene principalmente per mezzo di supporti fisici come chiavi USB e memory card, oppure attraverso il bluetooth dei cellulari. A metà strada tra le possibilità di internet e l’intimità degli scambi di dati via dispositivi di archiviazione c’è la messagistica istantanea. Attraverso di essa sono riuscito a tenermi in contatto con i ragazzi del De Bees Records e con altri interlocutori e amici ghanesi. Applicazioni per smartphone come WhatsApp permettono la costituzione di conversazioni di gruppo a tema musicale, dove possono riunirsi diverse decine, anche centinaia, di cantanti, beatmakers, tecnici del suono e appassionati. Rapidi ed economici, questi gruppi possono connettere persone provenienti da una stessa regione o area tradizionale, aiutando aspiranti star e studi emergenti a collaborare e a promuoversi reciprocamente. I giovani artisti usano abilmente lo spazio fornito dalle conversazioni di gruppo per creare aspettativa e interesse intorno alla loro musica. Il titolo di una canzone, con annessi dettagli della produzione e immagini promozionali, viene annunciato ben prima che questa sia pronta per la pubblicazione. Amici e conoscenti presenti nella chat riproducono e amplificano queste comunicazioni all’interno di un flusso 362

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continuo che include la condivisione di notizie, preghiere, rumors e produzioni di artisti famosi, confondendo le carte e creando così l’illusione di una celebrità in realtà ancora tutta da costruire. Conclusioni In apertura ho accennato a come quella del De Bees Records fosse oggi un’esperienza conclusa, sottolineando che il mio resoconto etnografico era condizionato dall’incertezza che governa le vite dei miei interlocutori. Kingsberg, ad esempio, è tornato inaspettatamente nello Nzema dopo aver lavorato presso una stazione radio, Rich FM 98.7 di Assin Fosu, nella Central Region, ed essersi lì diplomato come conduttore radiofonico drive time19. Al momento lavora in uno studio di registrazione a Samenye, un villaggio poco distante da Aiyinasi. Kin Monster, che durante la mia ricerca sul campo si divideva tra un lavoro di guardia giurata presso una banca di Esiama (Ellembelle) e un’attività da ingegnere del suono freelance, si è in seguito trasferito ad Accra per migliorare le sue condizioni di vita. Nella capitale ha continuato ad affinare le sue abilità professionali in uno studio registrazione nella parte orientale della città, lavorando anche come musicista presso una chiesa pentecostale. Una sfortunata congiuntura economica e famigliare ha

19 Nel mondo anglosassone, per drive time si intendono le ore di punta nel traffico cittadino, quando il maggior numero di ascoltatori è sintonizzato alla radio, e, di conseguenza, gli spazi pubblicitari rendono di più. 363

costretto anche lui a tornare nello Nzema, e oggi continua a produrre la sua musica e a lavorare a quella di altri da uno studio casalingo a Mpataba, nel distretto di Jomoro. Più che in altri casi, questi ritorni esemplificano la tensione tra mobilità e immobilità, partecipazione ed esclusione che informa l’esperienza musicale quotidiana della gioventù nzema. Abbiamo visto come la popular music in Ghana (e non solo) giochi un ruolo importante nell’interpretazione e nella risemantizzazione dei mutamenti socio-economici di cui è il prodotto. L’avvento del neo-liberismo e delle tecnologie digitali hanno dato una nuova forma alle infrastrutture che sostengono la produzione e distribuzione della musica, generando così nuove estetiche, come quella dell’hiplife, che a loro volta hanno contribuito a ridefinire l’agire sociale di alcuni strati di popolazione nel Ghana contemporaneo. L’estetica imprenditoriale cara agli artisti hiplife non è che una delle possibili manifestazioni di una società sempre più permeata dall’ideologia del mercato. Spostando l’attenzione dalla dimensione nazionale a quella particolare di una realtà geograficamente, economicamente e politicamente decentrata come lo Nzema, ho descritto i modi in cui gli artisti musicali locali si sono adattati a condizioni poco favorevoli. I musicisti dell’area nzema si trovano in una condizione di marginalità rispetto ai flussi di capitale e informazione che si concentrano nei centri urbani. Le possibilità di accesso a tecnologie di qualità sono relativamente inferiori e l’infrastruttura che dovrebbe 364

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permettere la circolazione digitale di contenuti musicali è affetta da carenze importanti. Nonostante ciò, artisti locali come quelli che ho incontrato presso il De Bees Records stanno cercando di costruire una scena musicale, sfruttando tatticamente le opportunità offerte loro da quello stesso ambiente. Facendosi portavoce e interpreti della trasformazione che interessa lo Nzema, alcuni di essi si stanno lentamente ritagliando un posto all’interno di dinamiche redistributive locali, cercando nel frattempo di capitalizzare quel poco che l’infrastruttura offre loro. È difficile prevedere cosa succederà in futuro nell’area Nzema, se la tendenza sarà verso una normalizzazione e un assorbimento entro una scena nazionale più vasta o se, invece, la musica locale svilupperà dei caratteri e un’organizzazione propri, esteticamente riconoscibili all’interno del panorama ghanese ed economicamente sostenibili nel loro contesto sociale. Di certo si tratta di una situazione che merita di essere seguita ed esplorata attentamente nel corso dei prossimi anni.

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Il signwriting in Ghana. Artisti, nuove tecnologie, cultura popolare Mariaclaudia Cristofano Obiettivo generale di questo testo è fornire un quadro sui pittori di insegne del Ghana, nel tentativo di poter meglio comprendere la loro produzione contemporanea come un fenomeno in continua trasformazione1. I cosiddetti signwriter per oltre un cinquantennio si sono occupati della comunicazione pubblicitaria dell’intero paese, producendo coloratissime insegne dipinte per negozi di parrucchiere, barbieri, drinking spot. Per anni diverse migliaia di signwriter – chiamati anche wayside artists per la prossimità della loro bottega al ciglio della strada – hanno operosamente lavorato tra le vie del Ghana e, specialmente nelle grandi città come Accra e Kumasi, spesso si sono associati in gruppi per soddisfare grandi commissioni. 1 Questo testo è in parte tratto dalla tesi di dottorato in etnologia ed etnoantropologia discussa nel dicembre 2014 presso la Sapienza Università di Roma. Il lavoro si è basato su una ricerca etnografica cominciata nell’ottobre 2011 e conclusa nel gennaio 2013, che ha avuto principalmente luogo tra Accra, Kumasi e soprattutto in area Nzema, mettendo a confronto le realtà di centri urbani e zone più periferiche del paese. Nel corso dell’indagine sono entrata in contatto con circa una ventina tra signwriter e graphic designer, seguendone la vita, il mestiere, l’apprendistato e cercando di comprendere le ragioni che spingono oggi un signwriter ad abbandonare pennelli e colori acrilici per convertirsi alla cartellonistica digitale e stampata.

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Non si tratta di pittori “minori”, come hanno sembrato dimostrare il generale scarso interesse della comunità accademica oppure i severi giudizi degli artisti colti ghanesi. La formazione di questi artisti è infatti multiforme, a volte realizzata solo a bottega presso un maestro, altre attraverso un’educazione scolastica più istituzionalizzata. Ancora oggi, nonostante gli sviluppi di tecniche digitali, i nuovi signwriter-graphic designer continuano a farsi interpreti della cultura visuale del proprio paese, elaborando con l’aiuto dei propri PC nuove insegne ricche di immagini prese dalla rete, con una maestria diversa rispetto a quella dei vecchi colleghi che facevano uso esclusivo del pennello, ma non per questo meno rilevante. Il mio contributo cercherà di interpretare il signwriting in Ghana attraverso la nozione di cultura popolare come suggerito dai cultural studies. Il tentativo è quello di inquadrare il fenomeno nel suo divenire storico, evitando classificazioni gerarchiche e ogni reificazione della vecchia cartellonistica manuale a discapito di quella digitale, valorizzando la cultura di massa da cui entrambe le produzioni sono ispirate. Ipotizzando un’origine del signwriting In Africa la nascita dei signwriter è comunemente individuata tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, in stretta relazione con i processi di inurbamento e “modernizzazione” che caratterizzarono le città africane dell’epoca (Beier, 1971; Fabian, 1978; Barber, 1986; 1987; 1997; 2014; Jewsiewicki, 1992; Vogel, 1991; Lerat, 1986; Moner-Illouz, 1996; Coquery-Vidrovitch, 2006). 372

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Uno tra i primi studiosi a scrivere dell’argomento è stato Ulli Beier (1959; 1966; 1971; 1976; 2008 [1964b]), che ha analizzato e interpretato le produzioni dei pittori di insegne nigeriani, parallelamente ai suoi studi trentennali sulla letteratura popolare del paese (Beier, 1964a). In un breve articolo pubblicato nel 1971 su African Arts e intitolato Signwriters Art in Nigeria, riferendosi a osservazioni degli anni Sessanta, l’autore individuava nei pittori di strada della città nigeriana di Onitsha una prima generazione di artisti “commerciali”. Si trattava di individui emigrati dalle campagne e dai propri villaggi per fare fortuna nei centri urbani. Artisti autodidatti che nella città avevano trovato un luogo per reinventarsi e creare un nuovo mestiere, assecondando i bisogni di visibilità dei suoi abitanti e delle migliaia di piccole imprese commerciali che in quegli anni vi fiorivano. Nel comporre i loro signboard questi pittori non traevano ispirazione dalla scultura e pittura “tradizionali”, quanto piuttosto da film, televisione, fotografia, pubblicità occidentale, immagini di giornali, illustrazioni di riviste, fumetti. I signwriter che Beier descriveva leggevano in questi nuovi elementi dei simboli della vivacità e del fascino della nuova vita urbana, con le sue belle donne, gli abiti occidentali, la musica Highlife, le acconciature alla moda. La libertà culturale, commerciale e relazionale descritta da Beier era in quel periodo comune ad altre metropoli africane, attraversate da una crescita generale sia dal punto di vista demografico sia, a seconda delle aree, industriale ed economico.

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Anche nel caso del Ghana, particolarmente nelle città di Accra e Kumasi, l’urbanizzazione fu legata al crescere dell’economia nel periodo immediatamente precedente e successivo all’Indipendenza (1957), alle riforme economiche degli anni Sessanta e al conseguente incremento delle attività commerciali all’interno del paese (Acquah, 1958). Il contesto in cui i signwriter ghanesi iniziarono a lavorare era dunque quello di una nuova società in crescita, che per prima in Africa subsahariana aveva raggiunto l’Indipendenza e mirava a migliorare sostanzialmente le condizioni di vita dei suoi abitanti. A oggi ancora non esiste un corpus letterario consistente sui signwriter in Africa, né un tentativo di inserimento di questi ultimi nel quadro della storia dell’arte del continente. Rare sono infatti le pubblicazioni che analizzano in maniera organica la produzione di questi artisti, spesso così lontani dal mainstream dell’arte contemporanea africana, e del tutto assenti sono gli studi teorici sull’argomento. Molti dei testi disponibili sui wayside artist si presentano come cataloghi fotografici (Von Keirchendorf, 1970; Clauzel e Ferrari, 1971; Lerat, 1986; Coyle, 2009; Floor e van Zanten, 2010; Weller, 2011), oggetti interessanti per amateur e curiosi, ma strumenti poco utili allo studioso che intende affrontare questo tema con interesse scientifico. Un’eccezione significativa è però rappresentata dagli studi sulla “pittura di strada” congolese (Fabian e SzombatiFabian, 1976; 1980; Fabian, 1978; 1996; Jewsiewicki e Mathieu, 1985; Jewsiewicki, 1986; 1989; 1991; 1992; 2003; Biaya, 1989), sbocciata alla fine degli anni Sessanta 374

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del Novecento nelle città di Kinshasa (Léopoldville) e Lubumnashi (Élisabethville), nel cui contesto artisti quotati internazionalmente come Chéri Samba e Moke si sono formati ( Jewsiewicki, Lefebvre e Sewald, 1995; Magnin, 2005). La peculiarità di queste ricerche risiede nel fatto che sono state tra le sole in grado di ricostruire una storia della produzione pittorica non accademica di un paese africano, inquadrandola nel contesto della “cultura popolare” del continente. Sebbene le analisi precipuamente dedicate al signwriting in Ghana raramente sembrano avere alle spalle una specifica ricerca sul campo, tra i contributi che la mia ricerca ha potuto identificare si ricordano: Chernoff, 1977; Kristen, 1980; Ross, 2004; Coyle, 2009; Cosentino, 2009; Baffoe e Asimeng-Boahene 2012; Cristofano 2013; 2014. Decisamente meno sommari e eccezionalmente analitici sono invece gli studi condotti su due artisti come Almighty God (Falgayrettes-Leveau, 2003, pp. 333-352; Marignoli e Mascelloni, 2007), abile signwriter di Kumasi noto al pubblico occidentale sin dai primi anni Ottanta (Kristen, 1980) e Marc Anthony, artista Fante nato nella cittadina di Agona Swedru, in Central Region, e acclamato come il migliore pittore di pannelli per i concert party (Gilbert, 1998; 1999; 2000; 2003). Il mestiere del signwriter Nella scarsa letteratura disponibile i signwriter del Ghana vengono descritti come informal artist, artisti talvolta autodidatti che non ricevono un’educazione accademica, si 375

formano l’un l’altro per imparare i soggetti convenzionali e gli stili del loro genere, ed apprendono il mestiere a bottega sotto la guida di un maestro (Vogel, 1991; Svašek, 1997; Cristofano, 2013). Fino a un quindicennio fa nelle grandi città del paese come Accra e Kumasi gli atelier di questi artisti ospitavano anche cinque apprendisti contemporaneamente; oggi, a parte delle eccezioni, tale numero appare minore2. Gli allievi sono spesso ragazzi appartenenti a famiglie poco abbienti, che intraprendono un apprendistato di circa tre anni, nel corso del quale, sebbene siano mantenuti dal proprio maestro, non ricevono alcun salario. Terminata la formazione, i giovani artisti possono iniziare a lavorare ufficialmente presso la bottega oppure aprirne un’altra per conto proprio. Tuttavia, la presente ricerca etnografica ha dimostrato che accanto agli insegnamenti dei propri maestri, molti signwriter hanno la possibilità di frequentare i corsi d’arte presso i tanti istituti superiori nazionali del paese (Senior High School). In Ghana infatti sin dal periodo coloniale l’istruzione all’arte ha rappresentato un elemento chiave dei programmi educativi sia a livello accademico sia – dopo l’Indipendenza – scolastico (Svašek, 1997; Steiner-Khamsi e Quist, 2000). In area Nzema3 si 2 La mia costatazione si basa sulle rilevazioni effettuate nel corso della mia ricerca sul campo durata 10 mesi dalla fine del 2011 al principio del 2013, così come sulle osservazioni raccolte nei soggiorni successivi: nell’ottobre 2013, gennaio, febbraio e ottobre 2014. 3 L’area Nzema è un territorio a sud-ovest della Western Region del Ghana, che corrisponde alle due aree tradizionali locali (Western Nzema 376

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può contare oggi almeno una quindicina di artisti attivi, tra coloro che lavorano a bottega e a casa. Essi si concentrano principalmente nei villaggi dove i flussi commerciali sono più consistenti: Half Assini, capoluogo costiero del distretto di Jomoro; Elubo, villaggio di frontiera principale per i transiti con la Costa d’Avorio; e infine Aiyinaseε, nel distretto di Ellembelle, sede del mercato più rilevante dell’area così come di moltissime piccole imprese commerciali. Nel corso della ricerca sul campo è stato possibile ricostruire una mappatura degli atelier e degli artisti attivi oggi, così come recuperare preziose informazioni relative ai maestri che hanno lavorato in questo territorio tra gli anni Sessanta e Novanta. Aspetti affascinanti delle vite di alcuni maestri oggi scomparsi sono tornati in molte delle narrazioni dei signwriter intervistati, così come testimonianze della loro arte, ancora visibili tra le mura di un compound o sulla facciata di qualche edificio. Tali figurazioni in alcuni casi sono state commissionate a scopi agiografici e commemorativi tra i trenta e i cinquanta anni fa al noto pittore Nzema Akulu detto Adjenkwa. Tra i più prolifici artisti dell’area, egli ha lasciato una enorme quantità di decorazioni murali ancora oggi ben visibili Traditional Area, con capitale a Beyin ed Eastern Nzema Traditional Area, con capitale ad Atuabo) e in parte ai due distretti regionali ( Jomoro District ed Ellembele District). È delimitata a sud dall’Oceano Atlantico, a est dalla foce del fiume Ankobra (Siane) e a ovest dal fiume Tano (Tanoε) e dal sistema lagunare che separa il Ghana dalla Costa d’Avorio (Eby and Tano-Ehy lagoons). 377

nel distretto di Jomoro. Ricordato come di bell’aspetto, stravagante e dai lunghi capelli, Adjenkwa era nato a Ellonyi, piccolo villaggio sulla litoranea tra Ngelekazo e Tikobo 1, nel distretto di Jomoro. Sempre in movimento, sembra abbia lavorato un po’ dappertutto nello Nzema – Tikobo 1, Kemgbuli, Awiane, Jaway Warf, Essiama, Avoleεnu – e in Costa d’Avorio – Adjekε, Abidjan-Kumasi (quartiere di Abidjan) – dove è morto circa una ventina di anni fa. Molte delle persone intervistate durante la ricerca non hanno avuto dubbi nell’esprimere il carattere eccezionale di questo artista la cui professione di signwriter era strettamente correlata a quella di asofo, guaritore appartenente al gruppo dei Water Carriers. D’altro canto Adjenkwa – niente più che un nickname scelto dal medesimo artista-guaritore – in Twi significa “salvatore” (ngoanedievolɛ in Nzema) ed è ovviamente allusivo alle sue capacità terapeutiche. Adjenkwa l’arte sembra non l’avesse imparata da nessuno, perchè era un’abilità che gli veniva direttamente da Mami Wata4, la più potente degli spiriti. Egli era un 4 Mami Wata è una divinità marina (mami water) di bell’aspetto, con i capelli neri e fluenti, la pelle chiara e molto simile alle sirene che in passato adornavano le prore delle navi europee. Il suo culto è testimoniato in molti paesi costieri dell’Africa, nei Caraibi e in Brasile. Entità pericolosa e temuta, Mami Wata è legata alla forza distruttrice del mare di cui è regina, ed è spesso circondata di serpenti, anch’essi creature foriere di morte. Come viene spesso riportato nella sterminata letteratura su questa affascinante sirena, il suo spirito viene evocato principalmente da popolazioni costiere che praticano il Vodu oppure da altri guaritori che intendono risolvere i più svariati problemi di ordine naturale e spirituale. Viene ricordata da alcuni come dea della fertilità, avida ammaliatrice e anche terribilmente severa nei confronti dei suoi seguaci al punto che questi sono costretti 378

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maestro sui generis che, a parte seguaci spirituali, non aveva apprendisti perché nessuno poteva realmente imparare i trucchi del mestiere da lui che dipingeva spesso di notte seguendo le direttive della sua divinità marina. Secondo la sua quinta moglie, la guaritrice asofo Mary Nyonga, la vita dell’asofo-signwriter era letteralmente scandita dalla presenza di Mami Wata. Quest’ultima assumeva la forma di due diverse entità differenti che, alternandosi, comandavano al maestro talvolta di guarire, talaltra di dipingere. Adjenkwa non aveva avuto un normale apprendistato come gran parte dei wayside artist ghanesi; sembra però che per perfezionare la tecnica si fosse recato per alcuni mesi dal più anziano maestro Antony Amihere Kaku di Half Assini, per poi lasciarlo e continuare per il suo destino di artista-asofo. Più anziano e non “straordinario” quanto Adjenkwa, a seguire rigide regole se vogliono controllarne lo spirito. Secondo l’antropologo tedesco Tobias Wendl (2001) la diffusione dell’iconografia e del culto di Mami Wata si può datare alla fine del XIX secolo. La sua storia inizia infatti con fotografia scattata in un teatro di posa di Amburgo intorno al 1885. L’immagine rappresentava un’incantatrice di serpenti probabilmente di origine samoana chiamata Maladamajaute che lavorava in uno dei circhi di Carl Hagenbeck o in qualche spettacolo popolare. La fotografia negli anni è stata ristampata in diversi poster e cartoline e l’immagine ha subito qualche cambiamento: l’inquadratura è diventata a mezzo busto e la posizione del serpente è diventata ancor più dominante. Questi poster sono stati portati in Nigeria dal personale coloniale inglese nel 1901. A partire dagli anni Trenta Wendl osserva che l’immagina stampata sul poster ha iniziato a essere associata a Mami Wata. Riprodotta in Inghilterra e India e distribuita nei mercati dell’Africa occidentale – e in seguito nelle Americhe – l’icona ha perso il suo legame con l’incantatrice samoiana e ha acquisito un valore religioso. Per un quadro generale su Mami Wata cfr.: Salmons 1977; Drewal, 1988; Tiberini, 1992; Gore e Nevadomsky, 1997; Brivio, 2010. 379

Kanawo5 non era tuttavia meno popolare del profetaartista sopra descritto; nello Nzema ancora oggi sono in molti a ricordarlo e gran parte dei suoi lavori sono tuttora esposti lungo le strade o in case private. Per anni egli ha insegnato e lavorato a Half Assini dove è stato il maestro di numerosi wayside artist quali VC Nana, Ben Ndoli ma soprattutto Kaku detto Wonder, che con Kanawo ha condiviso quindici anni della sua esistenza; proprio lui mi ha raccontato molti aspetti chiave della vita del maestro. Rimasto per la maggior parte della sua vita a Half Assini – a parte brevi parentesi in Costa d’Avorio per trovare la famiglia e vendere i dipinti – Kanawo dovrebbe essere morto tra il 2006 e il 2008, quando aveva tra i 65 e i 67 anni e nella sua lunga carriera ha prodotto signboard, dipinti, decorazioni per bar e molti cartelloni elettorali. Tuttavia, oltre alle produzioni materiali, questo artista di Half Assini era anche un musicista di concert party molto popolare nello Nzema. Gli artisti Nzema oggi Diversamente da quanto riportato dalle descrizioni degli anni Settanta e Novanta che rappresentano il Ghana (e 5 Il nome di questo maestro non è meno altisonante di quello di Adjekwa, e significava letteralmente “speck and die”, in riferimento a una persona coraggiosa che non ha timore delle conseguenze che spesso dire la verità porta con sé, ovverosia è libera di denunciare i potenti malvagi senza paura delle ripercussioni infami che questi possono infliggere a livello spirituale. In nzema ka significa parlare; nee solitamente è il giusto modo di scrivere la congiunzione “e”, ma in questo caso diventa na, probabilmente per questioni di suono; wo significa morire. 380

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soprattutto Kumasi) come un pullulare di wayside artist e di loro apprendisti, in area Nzema la maggior parte dei signwriter che ho conosciuto raramente ha tanto lavoro da permettersi il mantenimento di praticanti. Nel corso della mia ricerca sul campo ho registrato almeno quindici artisti attivi tra i distretti di Jomoro ed Ellembelle, solo tre dei quali possiedono degli apprendisti a bottega. Inoltre, ci sono casi in cui, specialmente nelle zone più lontane dai mercati o dai flussi commerciali, gli artisti non possiedono nemmeno un proprio spazio e svolgono le commissioni da casa aspettando di poter risparmiare abbastanza denaro per aprire un giorno un proprio negozio. Tuttavia molti di questi giovani signwriter hanno investito sia a livello teorico sia pratico nel loro mestiere seguendo i corsi d’arte in scuole superiori pubbliche (Senior High School) che da anni offrono strutturati programmi in visual art6. Tra questi ultimi vi è certamente Wonder, artista quarantenne di Half Assini e allievo diretto di Kanawo. Wonder ha iniziato il proprio apprendistato intorno ai dodici anni, quando ancora frequentava la Junior High School della città, ed è rimasto con il suo maestro per quindici anni. Nel tempo la sua formazione si è trasformata in una sorta di attività in società con il maestro, da cui Wonder traeva qualche modesto guadagno. Ancora oggi gli non riesce a fare del suo mestiere una professione stabile e molto spesso deve compensare prendendo lavori di altro genere, come imbianchino o muratore. 6 Particolarmente 11 artisti su 20, di cui 13 provenienti dall’area Nzema. 381

Al momento l’artista più stimato e conosciuto dello Nzema è Zico, signwriter di Aiyinaseε. È difficile trovare la sua bottega chiusa, a meno che il maestro non si trovi fuori città impegnato in qualche particolare lavoro. Originario del vicino villaggio di Basake, Zico è un uomo di circa cinquant’anni che ha compiuto la propria formazione artistica in Liberia e in Costa d’Avorio, dove ha passato oltre cinque anni imparando il mestiere presso tre maestri differenti. Tornato in Ghana a metà degli anni Novanta, Zico ha aperto una bottega ad Aiyinaseε, iniziando ad avere anche lui i propri allievi. Fino a oggi, e con sorprendente precisione, Zico ne ricorda quarantotto, molti dei quali, seppur talentuosi, hanno dovuto abbandonare il mestiere per carenza di lavoro. Tra questi mi piace ricordare Ernesto che oggi vive a Tema, importante centro nei pressi di Accra, dove si è trasferito nel 2002 appena terminata la formazione di quattro anni e mezzo con il suo maestro. Tra i motivi del trasferimento si contano sia maggiori opportunità lavorative, sia la possibilità di entrare maggiormente in contatto con le nuove tecniche digitali. I nuovi graphic designer: tra innovazione e riconversione Camminando tra le vie della capitale, nei quartieri di Adabraka, Asylum Down, New Town, Osu, Laboni, James Town e molti altri, è ormai difficile imbattersi in insegne dipinte a mano. La maggior parte degli esercizi commerciali espongono infatti signboard stampati su fogli adesivi di grandi dimensioni o su flexy cloth (tessuto 382

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plastico) montati su supporti di legno quadrangolari. Tra i quartieri menzionati, New Town è quello specificatamente votato a ogni tipo di stampa, dai libri ai volantini, dai prodotti in grande formato alla riparazione di stampanti. Sede delle più antiche house press della città, è questo oggi il luogo da cui proviene la maggior parte dei nuovi signboard della capitale. Tutti i graphic designer di Accra, e non solo, accorrono in questo paradiso per stampare a costi concorrenziali qualsiasi creazione digitale. Nella metropoli ghanese è ormai quasi impossibile riuscire a fotografare un’insegna dipinta a mano, segno evidente che qui i vecchi signwriter hanno trovato strade diverse in parte abbandonando il mestiere, in parte riconvertendosi loro stessi al digitale. I risultati raccolti nel corso delle indagini hanno suggerito una ripartizione di coloro che oggi producono cartellonistica pubblicitaria a livello locale in tre categorie: 1. Graphic designer che hanno una limitata o del tutto assente formazione artistica; 2. Artisti universitari; 3. Signwriter nel senso più “tradizionale” del termine, che si riconvertono al digitale per cercare di non rimanere esclusi dal mercato. Nella prima categoria ricade per esempio John Ofort Mensah Aka, detto Nyansa (wisdom in Twi), un graphic designer che da circa tre anni ha aperto un piccolo studio di grafica nella Community 2 di Tema, importante centro nei pressi di Accra. Sebbene Nyansa abbia studiato visual art a Takoradi, egli non ha mai né realizzato un signboard dipinto, né seguito alcun apprendistato presso un maestro

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a bottega. Terminati gli studi ha iniziato a frequentare i laboratori di grafica apprendendo i rudimenti del mestiere. Appena ne ha avuto l’occasione ha aperto una sua impresa chiamandola Anything You Print, che oggi fornisce lavoro a tre persone. Talvolta nei grandi centri urbani come Accra e Kumasi i direttori dei negozi di grafica sono ex laureati in arte che hanno individuato nel nuovo graphic design un investimento utile. In questa seconda categoria ricade Emmanuel Ocran che ha completato i suoi studi presso il College of Fine Arts della Kwame Nkrumah University e oggi, quasi quarantenne, dirige un piccola impresa di progettazione grafica ad Accra chiamata Harmonic Impressions, ai confini di New Town, non lontano da Circle. Emmanuel si colloca all’interno di un contesto cittadino dove lo stesso senso comune ha declassato l’insegnistica pubblicitaria manuale; se essa poteva aver senso ancora fino a metà degli anni Novanta, oggi è divenuta old-fashioned e completamente superata. A conferma di ciò vi è la testimonianza di Isaac, un modernissimo graphic designer che lavora con i suoi soci a Osu, il quartiere della capitale dove si trovano grandi magazzini e locali trendy frequentati dalle élite locali così come dagli occidentali (Quayson, 2014). Isaac ha studiato arte all’Università di Kumasi e, come per Emmanuel, anche nelle sue parole si legge una certa distanza e superiorità nei confronti dei signwriter classici, riscontrando come la loro professione sia giunta al capolinea, completamente spazzata via dal digitale. 384

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Tra i produttori dei nuovi printed sign si contano anche signwriter “tradizionali” che cercano di aggiornarsi per non restare completamente emarginati. Essere in grado di dominare questa nuova tecnica rappresenta per loro non solo un’apertura a un più ampio mercato, ma anche il raggiungimento di un nuovo status. A Tema, anche un artista raffinato come Ernesto, estremamente legato alla manualità del suo mestiere, deve riuscire ad assecondare il cambiamento di gusto del pubblico verso la comunicazione stampata. Nonostante non ami affatto la nuova tecnica egli cerca di apprenderla per non rimanere indietro e settimanalmente prende lezioni di computer grafica. Sempre a Tema, Robert ha mostrato un maggiore senso pratico e molta meno nostalgia per l’arte manuale del suo amico e coetaneo Ernesto. Egli lavora in una piccola bottega sul ciglio della strada nella Community 2, dove fino a qualche anno fa affiancava suo padre Bob, stimato signwriter della zona oggi scomparso. Il mestiere dell’artista è in questo caso una sorta di tradizione di famiglia, ma con molte differenze generazionali. Se il padre era un wayside artist nel senso “classico” del termine, il figlio invece ha quasi perduto queste abilità, ormai esclusivamente concentrato sul digitale, che lui stesso si vanta di aver introdotto a bottega. Robert ha probabilmente una buona formazione artistica, avendo frequentato il Ghanatta College of Art and Design di Accra e seguito suo padre a bottega da quando aveva 9 anni. Ma a lui l’arte handmade interessa poco e tutta la sua attenzione è concentrata sull’apprendimento delle potenzialità dei programmi di grafica.

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Kojo Prince Hilton è invece un ex-signwriter di Accra che non ha voluto cedere troppo alla conversione al digitale e ha trovato le sue modalità per continuare il proprio mestiere trasformandolo. Oggi egli è uno dei principali soci fondatori e insegnanti della Hilton School of Creative Arts, istituto privato di arti decorative ubicato in Adabraka non lontano da Circle. Nel suo interessante atelier da alcuni anni Prince lavora alla realizzazione di scenografie per il teatro – spesso per gli spettacoli che hanno luogo al National Theatre di Accra –, per il cinema e per filmati a scopi pubblicitari. Cultura popolare Nel tentativo di fornire un inquadramento teorico solido alle mie indagini, sin dall’inizio ho deciso di ancorare la mia ricerca a quelle prospettive scientifiche che hanno letto il signwriting attraverso la categoria della cultura popolare (Beier, 1971; 1976; Barber, 1987; 1999; Fabian, 1978; 1980; Jewsiewicki, 1986; 1989; 1991; 1992; Vogel, 1991). È con la seconda metà degli anni Ottanta del Novecento infatti che in Africa le produzioni culturali non classificate come “tradizionali” o “occidentali” iniziano a essere definite “popolari”, soprattutto grazie alle riflessioni di Karin Barber (1987; 1997). Tali produzioni, secondo la studiosa, sono identificate per la loro non ufficialità perché non diffuse da canali generalmente riconosciuti come ministeri, dipartimenti universitari o poteri tradizionali. Proprio in questa loro informalità risiede l’originalità, la vivacità e la modernità di tali produzioni culturali. 386

In Ghana

A una lettura attenta, il limite più grande che si riscontra in Karin Barber è a mio parere il suo approccio all’arte popolare come una categoria descrittiva, fondamentalmente percepita come un insieme di repertori. Al fine di inquadrare il signwriting nella sua trasformazione contemporanea ed evitare di creare gerarchie posticce tra la produzione di insegne dipinte – tanto amata in Occidente – e quella digitale ormai imperante in Ghana, il mio lavoro necessitava di un quadro teorico che respingesse ogni reificazione della vecchia cartellonistica manuale, valorizzasse la cultura di massa da cui entrambe le produzioni sono ispirate e fosse in grado di cogliere il fenomeno signwriting nel suo divenire storico. La soluzione al mio problema interpretativo mi è stata suggerita dalle recenti riflessioni italiane sulla cultura popolare e in particolare dalle analisi di Fabio Dei (1992; 2002; 2007; 2008; 2011; 2012; 2013a; 2013b; 2014). Nelle sue ricerche Dei recupera la prospettiva dei cultural studies promossa da alcuni degli studiosi inglesi della scuola di Birmingham (Hall, Fiske) per i quali la cultura popolare non coincide con dei particolari oggetti, ma va individuata nelle pratiche sociali di fruizione della cultura di massa e nel rapporto sempre conflittuale tra il subalterno e l’egemonico. Muovendo il centro del discorso dai prodotti alle relazioni, Stuart Hall (1981) giunge ad affermare che «ciò che conta non sono gli oggetti in sé, o storicamente fissati, ma il loro grado di azione nelle relazioni culturali, in parole povere, il conflitto di classe nella e sulla cultura» (Hall, 1981, trad. it. Mora 2005, p. 168).

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Solo alcune recenti pubblicazioni sulla popular culture in Africa (Falola e Agwuele, 2009; Newell e Okome 2014) si inseriscono nel quadro di un generale aggiornamento che risente dell’eredità dei cultural studies. Questi studi si concentrano infatti sulle pratiche sociali di creazione e fruizione delle culture popolari, problematizzando e in parte superando il concetto di classe. Le “cose” hanno lasciato il passo all’analisi dei processi di risignificazione della cultura di massa, della interconnessione culturale dovuta alle tecnologie digitali e delle conseguenze che tutto questo ha sui “pubblici” che ne usufruiscono. La cultura popolare non è dunque più una serie di manufatti da esporre nelle nuove vetrine di un museo postmoderno, l’attenzione si è spostata definitivamente sui suoi fruitori. Tuttavia, in nessun caso gli autori fanno diretto riferimento agli studi pionieristici e di Hall (1981) e Fiske (1989a; 1989b), dando invece l’impressione di volerne prenderne le distanze pur essendone profondamente influenzati. Personalmente ritengo che una rilettura attenta dei contributi della Scuola di Birmingham sulla popular culture possa essere estremamente preziosa per inquadrare la cultura popolare africana. In questa direzione il già citato rifiuto della cultura popolare come un insieme di oggetti rappresenta un elemento chiave, che evita le essenzializzazioni e contribuisce a focalizzare l’attenzione maggiormente sulle pratiche di reinterpretazione e uso creativo da parte dei pubblici che sugli aspetti sostantivi della produzioni. 388

In Ghana

La cultura popolare come viene interpretata da Stuart Hall non è una lunga enunciazione di ciò che la gente fa, la vera distinzione si gioca sull’opposizione popolare/ non popolare, ma non può essere formulata in modo descrittivo perché da un periodo all’altro i contenuti di ciascuna categoria cambiano. Non sono gli inventari a essere importanti, «ma le relazioni di potere che costantemente suddividono e separano il dominio della cultura in categorie privilegiate e marginali» (Hall, 1981, trad. it. Mora, 2013, p. 167). Dunque secondo questa logica l’attenzione sugli artefatti della cultura popolare ha senso fino a un certo punto, e molta più rilevanza deve essere attribuita al divenire di queste forme culturali. La cultura popolare deve essere studiata tenendo conto della sua trasformazione storica, in cui tutto – in primis il conflitto che genera le diverse forme della cultura popolare – va considerato all’interno di un processo: «Le forze emergenti all’avanguardia perdono il loro potere anticipatorio e diventano semplicemente antiquate; le innovazioni culturali di oggi possono essere recuperate come sostegno per il sistema di valori e di significati dominanti di domani. […] Mi sembra che il processo culturale – il potere culturale – nella nostra società dipenda prima di tutto da questa linea di confine, collocata diversamente a seconda del periodo, tra ciò che è incorporato nella “tradizione alta” e ciò che non lo è». (Hall, 1981, trad. it. Mora, 2013, p. 169).

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Il caso del signwriting del Ghana analizzato in questo elaborato può a mio avviso essere letto nella prospettiva suggerita da Stuart Hall. La produzione di insegne ha una sua recente “tradizione” che ha la sua origine in Africa occidentale negli anni Cinquanta del Novecento. Allora il signwriting dipinto mescolava insieme stili, modelli comunicativi e immaginari provenienti dall’Occidente ed elementi locali, sulla scorta di un entusiasmo creativo tipico delle città africane di quegli anni. Questa produzione dipinta fino agli anni Ottanta è stata lo specchio attraverso cui la popolazione locale vedeva e convogliava i propri desideri di modernità e progresso. Per dirla alla Hall, sia i grandi cartelloni pubblicitari dipinti esposti per le strade di Accra, sia i signboard prodotti per i piccoli negozi delle periferie appartenevano alla cultura di classi cosiddette escluse o comunque identificate in opposizione alla cultura dominante. Verso la fine degli anni Novanta questo processo inizia a capovolgersi: le insegne dipinte cominciano lentamente a essere sostituite da quelle stampate. Il signwriting dipinto diviene sempre più oggetto di collezionismo da parte delle élite occidentali e quello che rientra – definitivamente con i primi anni Duemila – nell’ambito del popolare sono ormai i nuovi signboard digitali stampati e realizzati a livello locale attraverso i programmi di computer grafica. È questa l’ultima frontiera della segnaletica ghanese: una miriade di nuovi cartelloni digitali, veloci da realizzare e “brillanti” spazzano via la forma precedente ed entrano a far parte dell’ambito della cultura popolare del Ghana 390

In Ghana

contemporaneo. Proprio sotto questa luce ho provato a presentare il signwriting come un prodotto della cultura ghanese in costante trasformazione. Questa prospettiva prova a escludere ogni cristallizzazione e gerarchizzazione del tema della ricerca; non esistono produzioni più “belle”, più “originali” o più “tradizionali” di altre perché l’oggetto della cultura popolare muta nel tempo, non c’è necessità di identificarlo in una lista e di fissarlo per sempre. Per Hall non ha valore interrogarsi sul grado di autenticità della cultura popolare, né in generale su divisioni binarie della cultura: alto-basso, resistenzaincorporazione e – chiaramente – autentico-inautentico. Un ulteriore elemento nella mia ricerca che può essere letto alla luce delle osservazioni di Hall è la relazione, spesso conflittuale, tra artisti ghanesi che hanno una formazione universitaria e i signwriter, che per anni hanno appreso il mestiere a bottega con il loro maestro e solo recentemente anche attraverso una formazione scolastica istituzionalizzata. Gli artisti accademici – specialmente a Kumasi, sede dell’unica università del paese con un dipartimento d’arte – hanno sempre definito i wayside artist come informal artist, denigrandone spesso le capacità o giudicandoli per la loro cialtroneria. A mio parere questa relazione può essere pienamente interpretata con gli strumenti che ci fornisce Stuart Hall. Per l’intellettuale inglese, infatti: «Essenziale è la relazione capace di definire la cultura popolare in continua tensione (di rapporto,

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influenza, antagonismo) con la cultura dominante: è una concezione polarizzata attorno a questa dialettica culturale, che tratta il campo di azione delle forme e attività culturali come un terreno costantemente mutevole e che identifica il processo con cui le relazioni, articolandosi tra loro, strutturano costantemente il campo in forme dominanti e subordinate. Questa definizione considera infatti le relazioni come processo in base al quale alcuni aspetti sono privilegiati e altri detronizzati e pone al centro i rapporti di forza mutevoli e irregolari che delimitano il campo della cultura». (Hall, 1981, trad. it. Mora, 2013, p. 167). Questa definizione di cultura popolare in senso relazionale sembra cucita intorno ai signwriter del Ghana e alle loro insegne – siano esse dipinte o digitali – sempre considerati subordinati rispetto ad altri pittori e produzioni culturali, da artisti accademici e istituzioni governative. Infine, un’ulteriore linea di riflessione a cui è stato solo fatto cenno nelle presenti ricerche e che merita di essere approfondita, riguarda lo studio di un eventuale processo di patrimonializzazione delle insegne dipinte. Sebbene in Occidente si possa oggi riscontrare un crescente interesse per queste produzioni da parte di musei e collezionisti, in Ghana la situazione è del tutto differente e le insegne dipinte sono sempre più identificate con qualcosa di superato e old-fashioned. Ma nonostante la maggior parte della popolazione sia ormai orientata verso la moderna 392

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cartellonistica digitale, i vecchi signboard non sono stati completamente abbandonati e sono tuttora impiegati nei casi in cui non si possa o ancora non si voglia ricorrere al digitale. L’handmade signwriting ghanese sta dunque vivendo una fase di trasformazione in cui l’antico splendore sta meramente tramontando e nessuno si è ancora reso conto delle sue possibili “qualità”, della sua “bellezza” e “rappresentatività”. Con questo non si vuole affermare che lo scenario preveda come unico esito necessario la patrimonializzazione del signwriting dipinto. La situazione potrebbe benissimo trasformarsi al punto che nessuno nel giro di pochi anni ricorderà le vecchie insegne e i loro produttori. Tuttavia, la crescente attenzione dei collezionisti e delle istituzioni occidentali, unita a un parallelo interesse della comunità scientifica, conduce a ipotizzare un’analogia con ciò che è avvenuto con la cosiddetta coffin art. Questa popolare produzione di bare dipinte, del tutto simile al signwriting per tipologia di artisti (creativi falegnami che hanno la propria bottega sulla strada) e più o meno nata nello stesso periodo (anni Cinquanta del Novecento), a causa dell’interessamento di studiosi e musei internazionali è diventata nel giro di un trentennio un elemento ineludibile e rappresentativo dell’arte ghanese. Non si può certo prevedere il futuro, ma data la situazione vale la pena continuare a monitorare il campo, non abbandonare lo studio del signwriting e continuare a promuovere ricerche in questo ambito per comprendere come il quadro si trasformerà in Ghana nei prossimi anni.

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POSTFAZIONE

Un campo lungo e gli scenari nuovi Pino Schirripa e Matteo Aria In Ghana. Etnografie dallo nzema è nato con l’intento di presentare alcuni dei recenti lavori etnografici intrapresi all’interno della Missione Etnologica Italiana in Ghana. Come è emerso nel saggio introduttivo e nell’articolo di Mariano Pavanello, quello della MEIG si configura come un campo lungo, che ormai va avanti da più di 60 anni. Il libro è quindi un altro tassello della ormai notevole produzione bibliografica degli antropologi che, di volta in volta, hanno fatto dello Nzema il proprio terreno di ricerca. Naturalmente è una produzione composita, attraversata da approcci teorici e punti focali di interesse assai differenti. Non intendiamo certo, in conclusione, ripercorrere la storia della Missione, cosa già fatta nel testo dai due contributi citati più sopra. Ci sembra più utile, da un lato, concentrarci su alcune tematiche che emergono dai vari saggi e che trovano riscontro in una letteratura più ampia, a partire da una prospettiva in grado di mettere in luce la dinamicità dell’area in questione e più in generale del continente africano. Dall’altro, provare invece a delineare ulteriori campi di investigazione in cui sarà necessario impegnarsi negli anni a venire, per comprendere quali fenomeni sociali, economici e culturali siano in atto in un momento, come quello attuale, che vede un profondo

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mutamento nel territorio nzema, veicolato principalmente, ma non solo, dalla costruzione delle piattaforme offshore di estrazione di gas e petrolio e dalla loro trasformazione negli impianti costruiti proprio nei villaggi in cui la MEIG continua a operare. Agency versus dipendenza Riflettere oggi su alcuni degli aspetti economici, sociali, politici e culturali che stanno attraversando i paesi affacciati sul golfo di Guinea non può esimersi dal confrontarsi con le entusiastiche narrazioni del cosiddetto rinascimento africano e del boom economico di un continente in movimento (Bonaglia e Wegner 2014) capace di invertire la rotta della marginalità e dell’isolamento imposta nei tre decenni finali del ventesimo secolo. Diversi economisti, esperti e consulenti delle istituzioni internazionali sono infatti sempre più convinti della necessità di sovvertire le visioni dell’afropessimismo che, ponendo in luce i mali inesorabili di una modernità mancata perché troppo segnata dal cronico imperversare di povertà, conflitti, guerre civili e da quel malsano groviglio tra corruzione, clientelismo e politique du ventre (Bayart 1993), hanno a lungo dominato lo sguardo sui mondi a sud del Sahara. Le incoraggianti riletture dei sostenitori delle potenzialità e dell’originalità della contemporaneità africana si presentano per certi versi in sintonia con le interpretazioni critiche di alcuni storici, sociologi e antropologi orientati ad andare oltre le rappresentazioni dominanti della passività 400

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africana che, nel denunciare i ripetuti guasti della relazione con l’Occidente – dalla tratta schiavistica al colonialismo – finiscono per essenzializzare un’immagine degli africani come vittime di una storia fatta da altri e relegati in una condizione di radicale e “invincibile” dipendenza. D’altronde, il problema delle strutturali “mancanze” e arretratezze del continente africano continua ad attraversare il dibattito storiografico e antropologico, tanto che ancora nel 2011 l’importante storica francese Catherine Coquery Vidrovitvicth ha posto come tema centrale del suo Breve Storia dell’Africa il famigerato “enigma africano”: perché se l’umanità è nata in Africa e se l’Egitto è il padre del mondo, gli africani sono stati gli ultimi a conoscere un’economia d’investimento e di produzione? Perché tanti grandi commerci transcontinentali (sale, oro, ferro, avorio), fiorenti anche in Africa per diversi secoli, sono oggi crollati invece di dare luogo a ulteriori e diversificate attività produttive? Perché la situazione attuale è così tragica, perché l’avvenire è così inquietante? Perché la storia dell’Africa è andata via via realizzando una serie di fallimenti a vantaggio di tutti coloro che dall’esterno ne hanno approfittato (la consolidata immagine dell’Africa alla periferia del mondo e alla periferia della storia)? Un enigma a cui si accompagna una domanda altrettanto complessa: «come si può uscire dal circolo vizioso di senso d’inferiorità, denigrazione e vittimismo?» (Coquery Vidrovitvicth 2011: 149). Per smarcarsi da simili immaginari e interrogativi in molti hanno posto l’attenzione sull’esistenza di “un’altra Africa”

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(per usare la celebre espressione di Serge Latouche) ben viva e vitale, e sulla cosiddetta cultura dell’arrangiarsi alla base dell’economia e della politica popolare informale composta da un insieme alquanto variegato di affiliazioni etniche e culturali, associazioni, cooperative, poteri tradizionali, chiese e moschee capaci di reinventare legami comunitari, modelli di vita e pratiche sociali (Gentili 2012). Ossia su quelle dimensioni non riducibili ai modelli occidentali di Stato democratico ed economia di mercato che se negli ultimi anni un’abbondante letteratura ha enfatizzato attraverso il concetto di società civile1, alcuni autori – particolarmente critici verso certe ortodossie neoliberiste e mitologie sviluppiste e inclini a riscoprire gli insegnamenti di Karl Polanyi e Marcel Mauss – hanno invece descritto

1 È all’interno delle trasformazioni degli anni Novanta che il concetto di società civile ha cominciato a imporsi nel contesto africano, divenendo parte integrante del vocabolario degli organismi internazionali intenti a promuovere il libero mercato e la democrazia come binomio fondamentale per lo sviluppo del continente. Identificata con un’eterogenea e complessa varietà di forme ‒ dalle organizzazioni non governative e reti associative alle chiese e movimenti pentecostali fino ai capi tradizionali ‒ o intesa come espressione dei movimenti rurali e della cittadinanza, questa nozione si è affermata quale strumento utile per interpretare e guidare i processi politici e di trasformazione dell’Africa contemporanea supportando l’idea di un coinvolgimento attivo della comunità e di un cambiamento dal basso. La società civile è stata così presentata come forza progressista in grado di contrastare l’autoritarismo, la corruzione e le incapacità amministrative dello Stato africano contemporaneo. In questa ottica inoltre, rideclinare in Africa ciò che Habermas (1989) ha teorizzato in termini di spazio pubblico consente non solo di mettere in evidenza il ruolo trainante delle componenti urbane nei confronti del mondo rurale sottosviluppato ma anche «di far trasparire il ruolo attivo delle aristocrazie indigene come cinghie di trasmissione per l’inclusione delle etnicità nella società civile nazionale» (Pavanello 2016: 40-41). 402

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riscoprendo la teoria del dono, o ricorrendo alla nozione di Human Economy2, o ancora valorizzandole come forme di autorganizzazioni spontanee e creative degli esclusi del Sud. Il tentativo di disincagliarsi dai rischi insiti nel concentrarsi unicamente nello svelamento delle dinamiche di assoggettamento e delle ripetute disparità prodottesi nell’interazione con l’Occidente ricorre anche in quegli studi volti a ripensare la storia delle interazioni tra l’Africa e l’Europa per mettere in evidenza la costante agency degli africani e loro capacità di creare nuove forme risignificando ed elaborando gli elementi provenienti dall’esterno (come mostrato ad esempio dallo storico John Thornton con i suoi lavori sulla tratta atlantica e sull’importante contributo svolto dagli africani nella costruzione del mondo atlantico3). Prospettive queste che, pur consapevoli dei rapporti di potere disuguali e delle condizioni di sfruttamento dei “dannati della terra”, tendono però a mettere in risalto la fecondità dei contatti, delle contaminazioni e delle relazioni culturali. I contributi del libro si inseriscono negli ampi scenari e nei quadri teorici qui delineati attraverso la particolare lente dell’etnografia con cui osservano il territorio nzema. 2 La Human economy è tra l’altro al centro di un programma di ricerca portato avanti dall’Università di Pretoria e interessato ai diversi modi con cui le persone si confrontano con l’economia e rispondono alle forme istituzionali che producono strutture di disuguaglianza. Lo scopo del programma è sostenere gli studi accademici e i movimenti sociali dell’Africa e del sud globale impegnati nell’espandere la democrazia economica. 3 Vedi Thornton 2010. 403

A nostro avviso, tra i tanti fili rossi che, sia pur nella diversità di argomenti, possono essere rintracciati nel testo, si pone proprio la centralità di una ricerca sul campo capace di mettere in chiaro i microcontesti e le relazioni locali senza dimenticare altri livelli di analisi. Talvolta esplicitamente, talaltra implicitamente, nei vari saggi presentati è evidente che la comprensione dei particolari mondi indagati, di volta in volta, dal ricercatore, sarebbe monca se si fermasse alle sole dinamiche interne. Appare infatti con forza la necessità di non perdere di vista le complesse articolazioni istituzionali, politiche e culturali che legano lo Nzema allo stato Ghanese, sia a livello regionale che centrale, nonché il più ampio panorama globale in cui vanno inserite. È allora opportuno soffermarsi, se pur brevemente, anche su altri aspetti ugualmente ricorrenti nella letteratura contemporanea che permettono di cogliere meglio simili intersezioni. Il neoliberismo e il reincanto del mondo Occorre sottolineare come l’esperienza sul campo in questi mondi in divenire porti a imbattersi nelle impreviste forme che hanno accompagnato e stanno accompagnando il pieno dispiegamento del capitalismo neoliberista e dei più recenti fenomeni di democratizzazione e decentramento amministrativo come proposti dagli Obiettivi di Sviluppo del Millennio del 2001 e più recentemente dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Il ritirarsi dello stato, quale motore principale di sviluppo e artefice di politiche pubbliche, e il diffondersi delle organizzazioni non 404

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governative, delle imprese private e del libero mercato – sostenuto dalle istituzioni finanziarie internazionali con piani di aggiustamento strutturale degli anni Ottanta e rideclinato nei decenni successivi in termini di lotta all’esclusione sociale e promozione della partecipazione, della good governance e del multipartitismo – non ha più di tanto sancito l’anelato trionfo della trasparente e razionale modernità weberiana. Piuttosto, sembra aver favorito il reincanto del mondo dove rifioriscono i poteri tradizionali e si moltiplicano le chiese carismatiche e pentecostali che competono con l’altrettanto dilagante proliferare degli operatori dell’occulto4 nell’offrire solidi punti d’ancoraggio di fronte ai malcontenti del nuovo ordine neoliberale (Comaroff e Comaroff 1993; 2001). Uno scenario in cui, come osservato tra gli altri da Asad (2003), de Vries (2008), Casanova (2011) e Meyer (2012), le dimensioni del magico/religioso e il paradigma secolare, anziché contrapporsi, si intrecciano e alimentano a vicenda. Così la tanto declamata separazione dei poteri, pilastro delle democrazie occidentali del Novecento, viene messa in discussione dal protagonismo delle vecchie e nuove confessioni religiose che si inseriscono negli spazi lasciati liberi dallo Stato in settori chiave come l’istruzione, la sanità e la previdenza sociale e si promuovo come agenti di sviluppo e di modernizzazione anche attraverso le cosiddette Faith-based organizations (FBO) 4 Il cosiddetto ritorno della stregoneria che ha destato una grande attenzione all’interno della riflessione antropologica degli ultimi venticinque anni. 405

che combinano il discorso umanitario, il proselitismo e le attività di promozione dello sviluppo (Comaroff 2009). In tal merito è stata da più parti messa in evidenza la stretta relazione tra le retoriche neoliberali dell’individualismo imprenditoriale e la dilagante dottrina pentecostale, soprattutto nella sua versione del vangelo della prosperità dove la crescita spirituale si sposa con l’affermazione economica individuale5. Con il neoliberal turn si assiste a una cospicua circolazione di merci e al delinearsi di inedite forme di prosperità e benessere accessibili a pochi e precluse alla maggior parte di una popolazione sempre più impoverita e al contempo sempre più attraversata dal desiderio di ciò che non può avere. A risolvere questa tensione sopraggiungono allora da una parte il cosiddetto ritorno della stregoneria (intesa come strumento per conseguire il potere e al contempo combattere chi se ne appropria a spese altrui stringendo patti con il diavolo) e dall’altra la fede e la conversione in nuovi credi che considerano il successo (e il disporre di denaro e beni di consumo) non più un segno dell’elezione del fedele (a differenza dall’etica protestante) ma al contrario come ricompensa immediata e terrena per la forza con cui si sono seguiti gli insegnamenti divini. I due temi qui sollevati hanno attirato l’attenzione dei ricercatori della MEIG, e ricorrono in diversi autori del libro. Non è un caso. La presenza delle chiese pentecostali e

5 Cfr. ad esempio Meyer (2007), e per lo specifico del Ghana Gifford (2003). 406

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carismatiche nello nzema si è affermata da più di un secolo, da quando cioè W. W. Harris, il fondatore della chiesa dei dodici apostoli, percorse a piedi le coste della Costa d’Avorio e dell’allora Costa d’Oro convertendo circa quattrocentomila individui6. Le analisi della stregoneria, d’altronde, attraversano l’intera storia della missione, mostrando così non solo l’attualità dell’argomento, ma soprattutto come essa sia un fenomeno flessibile e che ben si adatta a fornire un idioma per leggere la realtà, soprattutto nei suoi mutamenti, e a costruire un orizzonte di senso in cui le sue pratiche possono essere pensate come un modo per intervenire concretamente sugli eventi7. Altrettanto emblematica del mancato secolarismo delle modernità africane, nonché delle capacità generative e innovative delle tradizioni, appare anche la straordinaria reviviscenza (Arhin, Pavanello 2006; Valsecchi 2007; Pavanello 2016) delle Native Authorities, che con l’affermarsi dei processi sopramenzionati si fanno artefici di progresso e cambiamento. Combattute dai movimenti di liberazione e dai governi indipendenti perché strumenti del potere coloniale, espressione di particolarismi e tribalismi antistatali e

6 Tema molto presenta nella produzione della MIEG: ricordiamo i due contributi sulle chiese harriste di Ernesta Cerulli (1963, 1972) e quelli di Lanternari (1988) e Schirripa (1992) 7 Tra i lavori sulla stregoneria in area nzema cfr. Grottanelli (1988), Pavanello (2007). 407

fautori d’immobilismo politico e culturale ostacolo alla modernizzazione, le chieftaincies/chefferies africane, favorite in particolare dalla decentralizzazione politico amministrativa degli anni Novanta, tornano sulla scena politica, sociale ed economica di diversi paesi subsahariani. Tutt’altro che confinate nel recinto del folklore, si articolano in varo modo con la governance democratica dando vita a sistemi ibridi8 nei quali, sebbene rappresentino la tradizione, vengono usate dallo Stato per sostenere i processi di modernizzazione (Geschiere 1996). Continuando a mantenere funzioni rituali, gran parte dei re africani del nuovo millennio si rivelano così particolarmente abili nel mediare il carattere sacro della tradizione affidata alla loro custodia9 e i più diversi obbiettivi di natura politica ed economica. Inserendosi anch’essi nei vuoti lasciati dallo stato e nelle possibilità offerte dalle nuove forme di sviluppo, che li mettono 8 Tali formazioni ibride si configurano come prosecuzione di quelle trasformazioni dello stato indigeno prodottesi con il colonialismo che hanno generato un sistema di potere duale o stato biforcato (Mamdani 1996) caratterizzato dalla distinzione tra cittadini, sottoposti all’amministrazione e giurisdizione inglese o francese, e sudditi regolati dalle norme consuetudinarie. Come sostiene Pavanello (2016) discutendo le prospettive di Mamdani, questa separazione ha fatto sì che l’inclusione/ coinvolgimento delle masse rurali nei processi di democraticizzazione e modernizzazione degli ultimi decenni passi necessariamente attraverso le figure dei capi tradizionali. 9 Come fanno notare, tra gli altri, Pavanello (2016) e Geschiere (1996), il loro prestigio è ancora basato sul loro presunto potere antistregonico di proteggere i sudditi contro azioni maligne provenienti dall’esterno e sul loro ruolo di garanti contro l’ingiustizia di poteri percepiti come estranei e contro le calamità. 408

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spesso direttamente in contatto con le organizzazioni non governative internazionali, sono stati descritti come opinion leaders, catalizzatori di consenso, rappresentanti e interpreti di vasti interessi locali, intermediari politici e broker di sviluppo (Knierzinger 2011), nonché autorità sincretiche in grado di passare rapidamente dal proprio apparato tradizionale a un corredo europeo e viceversa (Ray e Rouveroy van Nieuwaal 1996: 25). Sul “ritorno dei re” in Ghana, e in area nzema, si è scritto molto in questi anni. Mariano Pavanello e Pierluigi Valsecchi hanno prodotto lavori importanti che mettono in luce come tale riemersione non debba essere intesa come un volgersi verso il passato. Al contrario, è prova che la loro autorità è flessibile e sa quindi come modellarsi sui mutamenti in corso. Così, se i re tornano è perché hanno qualcosa da dire e sanno come intervenire per governare la modernità, come ben dimostrano anche le vicende degli ultimi anni, di cui discutono alcuni dei lavori qui presentati. Scenari Futuri Notava Lanternari nel suo volume dedicato al Ghana (Lanternari 1988) scriveva di come il paesaggio costiero nzema fosse via via mutato. Frutto delle interazioni tra l’uomo e l’ambiente, esso cambia attraverso le azioni concrete dei gruppi umani; in qualche modo ne tiene la storia. In quel caso Lanternari vedeva come le piantagioni di palme da cocco, specie non autoctona e per molti decenni

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fondamentale nell’economia nzema10, avessero per larga parte soppiantato le coltivazioni per l’autoconsumo alimentare. In effetti la metafora del paesaggio può darci suggestioni importanti non solo rispetto ad alcuni mutamenti ma anche al sedimento di altri. Se si procede da Axim verso lo Nzema, utilizzando i mezzi di trasporto locali, si è dapprima investiti dall’acre e pungente odore proveniente dalle piantagioni degli alberi della gomma, ultime vestigia dell’effimero boom che ci fu nella prima metà del secolo scorso. Pian piano poi lo scenario muta e, come osservava già Lanternari negli anni Ottanta, a farla da padrone è il cocco, da cui si ricavano le noci e l’olio esportati nel resto del paese e in Costa d’Avorio. Talvolta però, tra le palme ancora attive, è possibile scorgerne molte secche o morenti, a causa di un parassita, che non sono state rimpiazzate. Quasi un segno che altri sono gli obiettivi su cui puntare per ottenere ricchezza. In effetti il paesaggio stesso offre ampie testimonianze dei significativi cambiamenti in atto: nuove strade asfaltate per il transito dei grandi camion che trasportano verso i grandi centri il GPL ottenuto dalla trasformazione del petrolio; resort di extra lusso in riva al mare, emblemi di un dirompente modo di immaginare la regione come una redditizia e costosa attrazione turistica, più adatta però a soddisfare le esigenze dei funzionari delle compagnie petrolifere e delle loro famiglie, che non a sfruttare la 10 Pavanello (2007). 410

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patrimonializzazione di Nzulezo e dell’ambiente naturale. Infine, la grande fabbrica di trasformazione del petrolio, che arriva, improvvisa, lungo la strada che conduce alle capitali dello Nzema est e dello Nzema ovest. Il gas, il suo indotto e il turismo: sono questi oggi i volani dell’economia dello Nzema, dove lo Stato e le grandi compagnie petrolifere, come Eni o Tullow, tessono l’ordito a maglie più o meno larghe dello sviluppo mainstream e dello sfruttamento delle risorse, lasciando un certo margine di negoziazione a quei capi tradizionali che abbiamo visto essere al centro della scena degli ultimi decenni, ma dissolvendo di fatto i processi di patrimonializzazione naturalistica e culturale del territorio e delle comunità locali iniziati nei primi anni del 2000 con il progetto Fort Apollonia and the Nzemas. Community-based Management of the Natural and Cultural Heritage11. Un progetto che aveva avuto tra i protagonisti anche il paramount chief dello Nzema ovest nonché gli stessi antropologi della MEIG, prefigurando una serie di opportunità e orizzonti di ricchezza svaniti però già dal 2011 con l’intensificarsi delle trivellazioni delle piattaforme offshore e la costruzione del Gas plant di Atuabo da parte della Ghana Gas Company. Quella stagione, segnata dall’arrivo delle prime ONG internazionali e nazionali impegnate nella difesa dell’ambiente e nella promozione di un turismo sostenibile e attento a valorizzare le esigenze delle comunità locale, 11 Su tali tematiche vedi Aria, Cristofano, Maltese (2014). 411

come attestato anche dalla realizzazione del Museo di Fort Apollonia, sembra essere ormai un ricordo lontano. Camminando lungo la spiaggia che collega i vari villaggi costieri è possibile cogliere le macerie e l’abbandono, ma anche i fermenti e i nuovi splendori propri di uno Nzema carico di speranze e timori, dove coesistono mondi che collassano, altri che emergono con forza e altri ancora che restano come sospesi, in attesa di cedere alle intemperie trasformandosi in rovine o di rilanciarsi connettendosi alle nuove possibilità offerte dall’oro nero. In tale cornice le nuove infrastrutture, i piani di sviluppo delle piccole città, la diversa organizzazione dei trasporti si delineano allora come temi che – uniti a quelli già al centro dell’attenzione dei ricercatori, quali la sanità, le espressioni estetiche più recenti, il ruolo delle autorità tradizionali, la stregoneria e le nuove religioni che per molti versi costituiscono due poli complementari – dovranno essere affrontati nel prosieguo delle ricerche. La tumultuosa crescita degli ultimi anni pone diversi problemi: dalla minaccia ecologica alla riconsiderazione delle proprietà fondiarie. Non si tratterà di concentrarsi unicamente sullo sviluppo economico, ma al contrario riconsiderare, senza perderle di vista, le articolazioni che già questo libro fa notare: quelle tra scenari globali e realtà locali, per come si andranno a declinare in quel tumultuoso riorganizzarsi delle relazioni di potere, delle possibilità economiche e delle trasformazioni della vita quotidiana, a differenti livelli, che le estrazioni petrolifere fanno già presagire. 412

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Illustrazione di Paolo Assenza https://paoloassenza.com/ Stampato da Cimer SNC - Roma