Immagini malgrado tutto 8870789543, 9788870789546

A partire da quattro foto strappate all'inferno di Auschwitz, questo libro sviluppa un'originale riflessione s

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Italian Pages 228 [114] Year 2005

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Immagini malgrado tutto
 8870789543, 9788870789546

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Immagini _ · J)lalgrado tutto _

INDICE

www.raffaeUocortina.it

PARTE PRIMA

IMMAGINI MALGRADO lUITO

1. Quattro pezzi di pellicola strappati all'inferno

'Ii1olo originale lmages malgré tout © 2003 Les Éditions de Minui1 Ouvrage publié avec le concours du Minis1ère français chargé de la Culture - Centre national du livre Pubblicato con il sostegno dd ministero ddla Cultura francese Traduzione Davide Tariuo Copertina Studio CReE ISBN 88-7078-954 -3

© 2005 Raffaello Conina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2005

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Per sapere, occorre immaginare. Auschwitz, agosto 1944: quattro immagini mal• grado tutto, malgrado i rischi, malgrado la nostra incapacità di sapere come guardarle oggi. Il Sonder!tommando al lavoro. Sopravvivenza e sollecitazione a resistere: trasmettere segnali al di fuori. L'immagine fotografica sorge all'incrocio tra la scomparsa ormai prossima dd testimone e l'irrappresentabilità della testimonianza: strappare un'immagine a questo reale. Organizzazione dello scatto clandestino. Prima sequenza: dalla camera a gas dd crematorio V, immagini delle fosse di incinerazione. Seconda sequenza: all'aria aperta, nd bosco di Birkenau, immagine di un "convoglio" di donne svestite. Il rullino della pellico• la, nascosto in un tubetto di dentifricio, giunge nelle mani ddla Resistenza po· lacca, per essere spedito "più lontano".

2. A dispetto di ogni inimmaginabile

33 Le fotografie del!'agosto 1944 si indirizzano all'inimmaginabile, per confutarlo. Prima epoca dell'inimmaginabile: la "Soluzione finale" come macchina di "disimmaginazione" generalizzata. Fare sparire la psiche delle vittime, la loro lingua, la loro esistenza, i loro resti, gli strumenti ddla scomparsa e perfino gli archivi, la memoria ddla scomparsa. La "ragione nella storia" sempre confuta• ta da eccezioni singolari: gli archivi della Shoah sono fatti di eccezioni simili. La panicolare predisposizione ddla fotografia a riprodursi e a trasmettersi m4/grado tutt-0: il divieto assoluto di fotografare i campi coesiste con l'attività di due laboratori fotografici ad Auschwitz. Seconda epoca dell'io.immaginabile: Auschwitz impensabile? Occorre ripensare le basi della nostra antropolo• gia (Hannah Arcndt). Auschwitz indicibile? Occorre ripensare le basi della te• stimonianza (Primo Levi). Auschwitz inimmaginabile? Prestare all'immagine la stessa attenzione che si presta alla parola dei testimoni Lo spazio estetiro dell'inimmaginabile disconosce la storia nelle sue concrete singolarità. Come Robert Antdme, Georges Bataille e Maurice Blancbot non vi hanno rinunciato: il simile e la specie umana.

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INDICE

!NDICE

3. Nell'occhio della storia

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Per ricordarsi, occorre immaginare. Immagine e testimonianza in Filip Miiller: immediatezza della monade e complessità dd montaggio. L'urgenza dd presente "fotografico" e la costruzione delle immagini nei Rotoli di Auschwitz. L'immagine come "istante di verità" (Arendt) e "monade" che sorge là dove il pensiero viene meno (Benjamin). Doppio regime dell'immagine: verità (le quanro foto nell'occhio dd ciclone) e oscurità (il fumo, i contorni sfocati, il valore lacunoso dd documento). Lo spazio storico dell'inimmaginabile disconosce il doppio regime dell'immagine, le domanda troppo o troppo poco, schiacciandola tra la pura esanezza e il puro simulacro. Le fotografie dell'agosto 1944 rese "presentabili" come icone dell'orrore (ritoccate) o "informative" come semplici documenti (reinqUlldrate), senza attenzione per la loro fenomenologia. Elementi di questa fenomenologia: la "massa nera" e la sovraesposizione, in cui nulla è visibile, CO• stituiscono le tracce visive ddla loro c-ondizione di esistenza e dd loro stesso gesto. Le immagini non dicono la verità, ne sono solo un lembo, un vestigio lacunoso. La soglia dd malgraM tutto tra l'impossibile di ditino e la necessità di fano. "Era impossibile. Sì. Bisogna immaginare.•

4. Simile, dissimile, sopravvissuto

61 Per una critica visiva delle immagini della storia: stringere il punto di vista (for• malmente) e aprirlo (antropologicamente). Le fotografie dell'agosto 1944 come dramma dell'immagine umana in quanto tale: l'"inseparabile" (Bataille) e il simile in questione. Quando il boia condanna l'umano al dissimile ("manichini", "colonne di basalto"), la vinima resiste serbando l'immagine malgraM tutto dd mondo, di sé, dd sogno e dell'umano (Levi: "tenerci dritti"). Serbare pure l'immagine dell'arte: inesanezza ma verità della figura dantesca dell'inferno (Lasciate ogni speranZIJ ... ). Il ricorso all'immagine come necessità lacunosa: difetto di informazione e di visibilità, necessità dd gesto e dell'apparizione. Le fotografie dell'agosto 1944 come cose soprawissute: il testimone non è sopravvissuto alle immagini che ha estratto da Auschwitz. Tempo dd lampo e tempo ddla terra, istante e sedimentazione: necessità di un'archeologia visiva. Walter Benjamin davanti all'"immagine autentica dd passato".

PARTE SECONDA MALGRADO 11J1TA L'IMMAGINE

5. Immagine-fatto o immagine-feticcio

73 La critica dell'inimmaginabile e il suo ritorno polemico. D pensiero dell'immagine come terreno politico. Le fotografie dell'agosto 1944, sintomo storico e teorico. "Non ci sono immagini della Shoah. • Assolutizzare tutto il reale per contrapporgli l'immagine tutta, o storicizzare il reale per scrutarne le immagini lacunose? Una controversia sul rapporto tra fatti singolari e tesi universali, immagini da pensare e immagini già pensate. L'inimmaginabile come esperienza non è l'inimmaginabile come dogma. L'immagine non è tutta. Immagini dei campi: mal viste, mal dette. "Ci sono troppe immagini della Shoah. • Ripudiare le immagini non significa criticarle. Tesi dell'immagine-feticcio, esperienza dd-

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l'immagine-fano. Il "contano" fotografico tra immagine e reale. D feticcio: il tutto, il fermo, lo schermo. Un dibattito filosofico sui poteri dell'immagine: vdo o strappo? Il doppio regime dell'immagine. L'immaginario non è riducibile allo spenacolare. Tra il primato delle immagini-vdo e la necessità delle immagini• strappo: Susan Sontag e I'•epifania negativa•, Ka-Tzetnik e il •rapimento• fotografico, Jorge Semprun e il momento etico dello sguardo. • Assistere bruscamente alla nostra stessa assenza."

6. Immagine-archivio o immagine-apparenza

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La "leggibilità• storica delle immagini si accompagna sempre a un momento critico. Dall'immagine-feticcio all'immagine-prova e all'immagine-archivio: "immagini senza immaginazione•. Il cineasta e il "perentorio". L'archivio fa). siJicato confuso con l'archivio verificato. L'ipotesi dd "film segreto" e la polemica tra Lanzmann e Semprun. Certezza iperbolica e impensato dell'immagine. Ripensare l'archivio: la breccia nella storia interpretata, la grana dell'evento. Contro lo scetticismo radicale in storia. Ripensare la prova con l'essere alla prova. Ripensare la testimonianza: né dissidio, né silenzio puro, né parola assoluta. Raccontare malgraM tutto ciò che è del tutto impossibile da raccontare. La testimonianza dei membri dd Sonderkomman® oltre la sopravvivenza dei testimoni. I Rotoli di Auschwitz, la moltiplicazione della testimonianza e il "rullino" fotografico dell'agosto 1944. Ripensare l'immaginazione oltre la contrapposizione tra apparenza e verità. Che cos'è un'"immagine senza immaginazione"? Jean-Paul Sartre o l'immagine come ano. La quasi-osservazione. Porta o finestra? Il "margine di immagine" e l'ordine delle due sequenze: rovesciare le inquadrature.

7. Immagine-montaggio o immagine-menzogna

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Quanro immagini, due sequenze, un montaggio. Immaginazione e conoscenza mediante il montaggio: un accesso alle singolarità dd tempo. L'immagine non è né nulla, né una, né tutta. Oaude Lanzmann e Jean-Luc Godard: montaggio centripeto e montaggio centrifugo. "Nessuna immagine" dice la Shoah, ma "tutte le immagini" non parlano che di questo. Dalla polarità alla polemica: i due sensi dell'aggettivo "mosaico". Una sola immagine tutta o un'orgia di immagini parziali? Momenti fondatori: memoria e presente in Alain Resnais, archivio e testimonianza in Marcd Ophuls. "Ciò che non si può vedere, occorre mostrarlo.• D montaggio-racconto di Lanzmann e il montaggio-sintomo di Godard. Quando mostrare non significa falsiJicare, ma far sorgere una "forma che pensa" e rendere l'immagine dialettica. "Tavola critica": il cinema mostra la storia, rimontanMla. Dachau montato con Goya, El.ixabcth Taylor e Giono. Angelo della resurrezione secondo San Paolo o angdo ddla storia secondo Walter Benjamin? Una dialettica senza compimento.

8. Immagine simile o immagine sembiante

189 Due punti di vista affrontati sono lo sguardo di un terzo. Montare non significa assimilare, ma far fondere le somiglianze, rendendo impossibili le assimilazioni. Simile non equivale a sembiante, e neppure a identico. Sosia e differenti: l'ebreo e il dinatore secondo Charlie Chaplin. Le iperboli speculative dell'irrappresen-

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INDICE

tabile e dell'inimmaginabile. "Per sapere, occorre immaginarsi.• L'immagine al cuore della questione etica. Hannah Arendt e l'immaginazione come facoltà po• litica. In che modo un'immagine può "salvare l'onore" di una storia? Redenzione non equivale a resurrezione. L'Endlosung e l'Erlosung: da Kafka e Rosenzweig a Scholem e Benjamin. "La vera immagine dd passato guizza via.• Il modello dd cinema: immagini sfuggenti eppure pregnanti. La redenzione filmi. ca secondo Siegfried Kracauer. Realismo critico: l'immagine smonta e rimonta i continui spaziali e temporali. Perseo di &onte alla Medusa: l'astuzia dello scu· do, il coraggio di conoscere e di affrontare malgrado tulio. L'immagine nell'epoca dell'immaginazione lacerata: la crisi della cultura. Aprire con l'immagine del passato il presente del tempo.

Fonti delle illustrazioni

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Dl loro, ai tuoi amici e conoscenti, che se non ritorni è perché il sangue ti si è gelato nelle vene vedendo queste terribili scene barbare e il modo in cui sono morti i figli innocenti e indifesi del mio popolo ormai lasciato solo. Dl loro che se il tuo cuore si tramuta in [pietra] , il tuo cervello in un freddo meccanismo e il tuo occhio in un semplice apparecchio fotografico, tu non andrai più da loro. [ ...] lieni stretta I~ mia mano, non tremare (lacuna] perché dovrai vedere cose ancor peggiori. Zalmen Gradowski, Rotoli di Auschwitr.

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PARTE PRIMA

IMMAGINI MALGRADO TUTTO

[. ..] anche se molto rigato un semplice rettangolo di trentacinque millimetri salva l'onore di tutto il reale. Jcan-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma

Nota bibliografica La prima parte di questo libro, Immagini malgrado tutto, è stata scritta da gennaio a giugno del 2000, per essere poi pubblicata a gennaio del 200 I sul catalogo

Mémoire des camps. Pbotograpbies des camps de concentration et d'extermination nazis (1933-1999), a cura di C. Chéroux, Marval, Paris 2001, pp. 219-241. La seconda parte, inedita, è stata oggetto di un seminario tenuto alla Freie Universitiit di Berlino, Ira maggio e giugno del 2003, al Centro interdisciplinare di scienza dell'arte e di estetica del dipartimento di Filosofia. Vorrei ringraziare in panicolare Erika Fischer-Lichte e Ludger Schwarte per la loro calorosa ospitalità, nonché il pubblico sempre promo a intervenire e molto interessato al problema. Ringrazio anche Oaude Laru:mann,Jcan-Luc Godard e Alain Resnais per avermi autorizzato a riprodurre alcuni fotogrammi dei loro film (e Florence Dauman, Oaudine Kaufmann e Stéphane Dabrowski per lo sviluppo del fotogramma di Nuti et brouillard). Clément Chéroux, Pascal Convert, Christian Ddage, Henri Herré e Manuela Morgaine mi hanno dato consigli preziosi dopo la lettura del manoscritto: a loro la mia sentita riconoscenza. Infine, un ringraziamento di cuore al professor David Bankier per l'accoglienza offertami in qualità di direttore dell'Intemational Institute for Holocaus1 Studies di Yad Vashem (Gerusalemme). Tra un testo e l'altro, ho omologato l'ortografia di certe parole (a cominciare da "Shoah", che talvolta si scrive cosl e talvolta si scrive "Shoa") e di alcuni nomi propri (ad esempio quello di Zalmen Lewental).

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1 QUATTRO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALL'INFERNO

Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l'inferno di Auschwitz nell'estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile. Non difendiamoci dicendo che immaginare una cosa del genere, in qualsiasi modo ci proviamo, è un compito che non possiamo assumerci, che non potremo mai assumerci - anche se in fondo è vero. Poiché comunque dobbiamo provarci, dobbiamo confrontarci con questa cosa difficile da immaginare. È come una risposta da offrire, un debito da saldare nei confronti delle parole e delle immagini che certi deportati hanno strappato alla loro spaventosa esperienza reale. Dunque, non parliamo di inimmaginabile. Le nostre difficoltà non sono nulla al confronto di quelle dei prigioniet_i che hanno sottratto ai campi questi pochi brandelli di cui noi oggi siamo depositari e il cui peso affligge i nostri sguardi, b randelli più preziosi e meno rassicuranti di qualsiasi opera d'arte, brandelli strappati a un mondo che li considerava impossibili. Immagini malgrado tutto allora: malgrado l'inferno di Auschwitz, malgrado i rischi corsi. E noi abbiamo il a:>mpito di contemplarle, di renderne conto, di assumerle. Immagini malgrado tutto: malgrado la nostra incapacità di guardarle come meriterebbero, malgrado il nostro mondo, un mondo rimpinzato, e quasi soffocato, da merce immaginaria.

* Tra i prigionieri di Auschwitz, quelli cui le SS vollero sottrarre a ogni costo la possibilità di testimoniare furono senza dubbio i membri del Sonderkommando, la "squadra speciale" di de15

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tenuti che gestiva a mani nude lo sterminio di massa. Le ss sapevano bene che una sola parola di un sopravvissuto del Sonderkommando avrebbe reso vani tutti i dinieghi, tutti i ricami successivi sul grande massacro degli ebrei di Europa.' "Aver concepito e organizzato le Squadre è il crimine più demoniaco del nazionalsocialismo", scrive Primo Levi. "Si rimane attoniti davanti a questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-uomini, si piegano a ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi. " 2 Il' primo Sonderkommanda fu creato ad Auschwitz il 4 luglio 1942, mentre si svolgeva la "selezione" per le camere a gas di un convoglio di ebrei slovacchi. Dodici squadre si succedettero a partire da allora: ognuna rimaneva in funzione qualche mese e "la squadra successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori".' Parte dell'orrore che dovettero affrontare questi uomini era dovuta al fatto che l'intera loro esistenza doveva restare copena da un segreto assoluto, fino all'inevitabile mone di tutta la squadra: i membri del Sonderkommando non dovevano avere alcun contatto con gli altri detenuti e ancor meno col "mondo esterno", neanche con le ss "non iniziate", cioè ignare del modo in cui funzionavano dawero le camere a gas e i forni crematori.◄ Quando si ammalavano, questi detenuti awolti dal I. E rutti i sofismi di cui, mi sembra, non è il caso di invaghirsi tanto sul piano fi. 1050fico. ar.J.-F. l#otard, Il dissidio (1983), tr. it. Fdtrinelli, Milano 1985, pp. 19-20 (che analizza così l'argomento negazionista: • [ ... ) per avere la certezza che un locale è una camera a gas, io accetto come testimone solo una vittima di questa stessa carnera; ora, secondo il convenuto, non devono esserci se non morte, altrimenti la carnera a gas non sarebbe quella che egli pretende sia; insomma, non c'è camera a gas"). 2. P. Levi,/ sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991, pp. 37-39. 3. Ibidem, p. 36. 4. F. Miiller, Trois ans dans une chambre ii gaz d'Auschwitz (1979), tr. fr. Pygmalion, Paris I 980, p. 61. Filip Miiller è un caso rarissimo, è cioè un membro dd Sonderkommando scampato a cinque liquidazioni successive. Sul funzionamento delle camere a gas e sul segreto da cui esso e.ra awolto cfr. G . Wellers, Le camere a gas sono esistite (1981), tr. it. Euredit, Torino 1997; E. Kogon, H. Langbein, A. Riickerl, Les Chambres ii gas secret d'État (1983), tr. fr. Le Seui!, Paris 1987;].-C. Pressac,Auschwitz: Technique and Operation of the Gas Chambers, tr. ingl. Beate Klarfdd Foundation, New York 1989; J.-C. Pressac, Les Crématoires d'Auschwitz. La machinerie du meurtrede masse, CNRS Éditions, Paris 1993, p. 35 ("[ ... ) uccidere col gas, in un luogo chiuso, centinaia di uomini in una volta sola era una cosa senza precedenti e il segreto da cui l'operazione era awoha colpiva ancor di più l'immaginazio-

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QUATTRO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALI:INFERNO

segreto non erano neppure ammessi all'ospedale del campo. Erano custoditi nell'asservimento totale e nell'abbrutimento - l'alcol era una delle poche concessioni - del loro lavoro nei crematori. Il loro lavoro? Bisogna pur ricordarlo: manipolare la mone dei propri simili, uccisi a migliaia. Essere testimoni degli istanti finali. Costretti a mentire fino all'ultimo (un membro del Sonderkommando che aveva voluto informare le vittime del loro destino fu gettato vivo nel fuoco del crematorio, coi compagni che dovettero assistere all'esecuzione).' Riconoscere parenti e conoscenti senza proferire parola. Veder entrare uomini, donne e bambini nelle camere a gas. Sentire le urla, i colpi, le agonie. Attendere. E poi, accogliere d'un tratto "l'indescrivibile pila umana" - una "colonna di basalto" fatta di carne, della loro carne, della nostra carne - che si rovesciava all'apenura delle pone. Tirare via i corpi uno a uno, svestirli (prima quantomeno che i nazisti si inventassero la soluzione del vestiario). Lavare via tutto il sangue, tutti gli umori, tutta la materia purulenta accumulata. Estrarre i denti d'oro per il bottino del Reich. Introdurre i corpi nella fornace dei crematori. Mantenere questo ritmo disumano. Alimentare il fuoco col carbone. Raccogliere le ceneri umane sotto forma di "materia informe, incandescente e biancastra che si rovesciava a rivoli [e] raffred:dandosi assumeva una tinta grigiastra" ... Frantumare le ossa, ultima resistenza opposta da questi miseri corpi,alla loro distruzione industriale. Ammucchiare e buttare tutto nel fiume vicino, oppure utilizzare il tutto come materiale di sterro per la costruzione di una strada nei pressi del campo. Camminare su centocinquanta metri quadrati di capigliature umane che quindici detenuti si affannavano a cardare su grandi tavoloni. Ritinteggiare talvolta il vestiario, pteparare siepi - utili per la mimetizzazione del campo - e scavare fosse di incinerazione supplementari per le esecuzioni straordinarie. Pulire e riparare i forni giganti dei crematori. Rine dei non-partecipanti, SS e detenuti, cui era stato formalmente vietato di osservarne lo svolgimento"); tr. it. Le macchine delle sterminio, Fdtrinelli, Milano 1994; U.D. Adam, "Les chambres à gaz•, in I.:Allemagne nozie et le génocide juif col/eque de l'EHESS, Paris, Juillet 1982, Gallimard-Le Seui!, Paris 1985, pp. 236-261; F. Piper, "Gas Chambers and Crematoria", in Y. Gutrnan, M. Berenbaum (a cura di), Ana• tomy of the Auschwitz Death Camp, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1994, pp. 157-182. 5. H. Langbein, Uomini ad Aus~hwitz (1975), tr. it. Mursia, Milano 1984, p. 216,

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IMMAGINI MALGRADO runo

cominciare ogni giorno, sotto lo sguardo minaccioso delle ss. Sopravvivere così per un tempo indeterminato, ubriachi, lavorando giorno e notte "come forsennati per finire al più presto". 6 "Non erano più volti umani, ma soltanto smorfie folli e stravolte", hanno detto i detenuti che hanno potuto vederli. 7 Sopravvivevano comunque, per il tempo che veniva concesso loro, nell'ignominia di questo lavoro. A una detenuta che gli chiese come poteva sopponare tutto ciò, un membro della squadra rispose: "Ceno, anch'io sarei potuto andare sul filo come hanno fatto _alcuni camerati. Ma io voglio sopravvivere [. .. ). Nel nostro lavoro, se non si impazzisce il primo giorno poi ci si abitua" .8 Parole senza peso. Alcuni, cpe pure credevano di essersi "abituati", si gettarono comunque tra le fiamme. Se una simile sopravvivenza sfugge a ogni giudizio morale (come ha scritto Primo Levi)' e a ogni conflitto tragico (come ha sostenuto Giorgio Agamben) 10 che significa allora, in condizioni così penose, resistere? Ribellarsi? Era senz'altro un modo dignitoso di suicidarsi, di anticipare l'eliminazione promessa. Alla fine del 1942 falll un primo tentativo di ribellione. Poi, al grande ammutinamento dell'ottobre del 1944 - almeno il crematorio IV fu incendiato e distrutto - non sopravvisse nessuno dei quattrocentocinquanta rivoltosi, trecento dei quali "soltanto" avrebbero dovuto essere gasati di ll a poco. 11 In realtà, a causa dell'eccessiva disperazione, la "spinta a resistere" si era probabilmente estinta in questi esseri condannati comunque a scomparire, per fissarsi invece sui segnali da lanciare al di là delle frontiere del campo: "Come informare il mondo delle atrocità che si commettevano laggiù, questa restava la nostra principale preoccupazione".12 Per tale motivo Filip Miiller, 6. F. Milller, op. crì., pp. 104, 136, 158-159, 169-180; H. Langbein, op. crì., pp. 204-216. 7. H. Langbein,op. cit., p. 207. 8. Ibidem, p. 208. 9. P. Levi, op. cit., p. 44: "[ ... ] credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto l'esperienza dei Lager, tanto meno chi non l'ha conosciuta". 10. G. Agarnben, Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998. · 1I. F. Milller, op. cri., pp. 209-222. I documenti sugli effetti della rivolta sono stati raccolti da J.-C. Prcssac, Les Crématoires d'Auschw,ìz, cit., p. 93; P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1989, pp. 132-133. 12. F. Milller, op.cii., p. 118.

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QUATTRO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALL'INFERNO

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nell'aprile del 1944, cominciò a raccogliere alcuni documenti una mappa dei crematori IV e V, una nota sul loro funzionamento, una lista dei nazisti in servizio, un'etichetta di Zyk.lon B - per trasmetterli a due prigionieri che di ll a poco avrebbero tentato la fuga. u Un tentativo del genere per la gente del Sonderkommando non aveva alcuna possibilità di riuscita. Ed ecco perché alcuni di loro affidarono la propria testimonianza ai segreti della terra: gli scavi effettuati nei pressi dei crematori di Auschwitz hanno ponato alla luce - il più delle volte molti anni dopo la liberazione - gli scritti sconvolgenti, e quasi illeggibili, di questi schiavi della mone.1• Come messaggi in una bottiglia, salvo che non sempre c'erano bottiglie in cui inserirli, tutt'al più delle gamelle, e non c'era il mare ad accoglierli, bensì la dura terra." Questi testi sono percorsi da due ossessioni complementari. Da un lato, la prossima e ineluttabile scomparsa del testimone stesso: "Le SS ci ripetono spesso che non lasceranno in vita un solo testimone". Dall'altro, il timore che la testimonianza fosse vana, anche qualora fosse riuscita a raggiungere il mondo esterno: non c'era il rischio che fosse giudicata incomprensibile, insensata, inimmaginabile? "Nessuno - confidava Zalmen Lewental sul pezzo di carta che si apprestava a seppellire sotto terra - avrebbe potuto immaginn precisione quello che sarebbe successo." 16

* È all'incrocio di queste due impossibilità -:- scomparsa prossima del testimone, non rappresentabilità della testimonianza che è sorta l'immagine fotografica. Un giorno d'estate del 1944 i membri dd Sonderkommando hanno sentito l'imperiosa necessità, quanto mai pericolosa per loro, di scattare qualche fotografia sul proprio infernale lavoro, foto capaci di testimoniare l'orrore e l'ampiezza del massacro. Strappare qualche immagine a 13. Ibidem, pp. 163-166. 14. Cfr. L. Poliakov, Auschwitz, Juillard, Paris 1964, pp. 62-65, 159-171; B. Mark, Des voix dans la nuit. La réristance j uive à Auschwitz-Birkenau (1%5), tr. fr. Plon, Paris 1982; N. Cohen, "Diaries of theSonderkommando", in Y. Gutman, M. Bercnbaum (a cura di), op. cit., pp. 522-534. 15. Sulla descrizione fisica dei Rotoli diAuschw,ìz rovinati dall'umidità e quindi parzialmente illeggibili, cfr. B. Mark, op. crì., pp. 179-190. 16. Citato da H . Langbein, op. cr"t., p. 11.

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QUATTRO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALL'INFERNO

questo reale. Ma anche - dato che un'immagine è fatta per esse-

interventi avevano il chiaro scopo di rendere perfettamente operative le installazioni preposte ali'annientamento" .'20 Ma soprattutto - per ordine dell'Hauptscha,fùhrer Otto Moll, una ss particolarmente temuta e detestata, che si era fatta carico personalmente della liquidazione del Sonderkommando a partire dal 194221 - si erano dovute scavare cinque fosse di incinerazione all'aria aperta, dietro il crematorio V. Filip Miiller ha raccontato nei dettagli l'allestimento e la gestione tecnica del cantiere da parte di Moll: dall'ideazione dei canaletti di scolo destinati a raccogliere il grasso al lastrone di cemento sul quale gli "operai" avrebbero dovuto polverizzare le ossa mescolate a ceneri umane,22 per nop parlare delle siepi utili a schermare e nascondere a ogni sguardo esterno quanto accadeva dentro il campo (figura 1). Vale la pena notare che del crematorio V, situato in un boschetto di betulle - donde proviene il nome Birkenau -, non esiste alcuna vista (a parte le distanti viste aeree) che non sia offuscata da qualche barriera vegetale2> (figura 2). Strappare un'immagine a questo inferno? Sembrava un'impresa doppiamente impossibile. Impossibile innanzitutto per difetto, ossia perché i dettagli delle installazioni erano mimetizzati e talvolta sotterranei. E anche perché, a parte le ore di lavoro passate sotto la stretta sorveglianza delle ss, i membri del Sonderkommando erano tenuti al segreto in una "cella sotterranea [e] isolata".24 Impossibile poi per eccesso, poiché la visione di

re guardata da altri - strappare al pensiero umano in generale il pensiero del "fuori", un immaginabile per qualcosa di cui nessuno fino ad allora intravedeva la possibilità (ma è già dire troppo, poiché tutto fu ben progettato prima di essere realizzato). È inquietante che un simile desiderio di strappare un'immagine sia emerso nel momento più indescrivibile - come lo si definisce spesso - del massacro degli ebrei: un momento in cui non c'era più posto, in coloro che assistevano inebetiti a tale orribile spet!acolo, né per il pensiero né per l'immaginazione. Tempo, spazio, sguardo, pensiero, pathos - tutto era ormai offuscato dall'enorme macchinario della violenza prodotta. Nell'estate del 1944 ci fu il "maremoto" degli ebrei ungheresi: in quattrocentotrentacinquemila furono deportati ad Auschwitz tra il 15 maggio e 1'8 luglio.17 Jean-Claude Pressac (che per scrupolo si astiene di solito da ogni aggettivazione e a fortiori da ogni formula empatica) scrive che fu questo "l'episodio più demente di Birkenau", svoltosi perlopiù nei crematori Il, m e V. 18 In una sola giornata ventiquattromila ebrei ungheresi furono sterminati. Verso la fine dell'estate finirono le scorte di Zyklon B. Di conseguenza, gli inetti dei convogli [vale a dire le vittime selezionate all'arrivo per la morte immediata] furono precipitati direttamente nelle fosse ardenti del crematorio ve del Bunker 2" ,' 9 furono cioè bruciati vivi. Per quanto riguarda i gitani, invece, furono gasati in massa a partire dal primo agosto. Come sempre, i membri del Sonderkommando di stanza ai crematori avevano dovuto preparare tutta l'infrastruttura di quest'incubo. Filip Miiller rammenta di come si provvide "a riempire le fessure delle pareti con terra refrattaria, a rivestire le porte in ghisa con uno strato protettivo di colore nero e a lubrificare i cardini[ ... ]. Le grate rovinate vennero sostituite e si verificò dal!'alto in basso lo stato dei sei camini, facendo ogni riparazione necessaria. Anche i ventilatori vennero controllati scrupolosamente con l'aiuto degli elettricisti. Infine, vennero ritinteggiate le pareti dei quattro vestiari e delle otto camere a gas. Tutti questi 17. A. Wieviorka. Déportation et génocide. Entre la mémoire et l'oubli. Plon, Paris 1995, pp. 255 -259. 18.J.-C. Pressac. LesCrématoires d"Auschwitz, cit., p. 90. 19. Ibidem, p. 91.

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20. F. Miiller, op. di., p. 169.

21.lbidem,p.170. 22.Ibidem,pp. 169-183. 23. Per la documentazione sul crematorio v cfr. J.-C. Pressac, "Étude et réalisation des Krematorien IV et v d'Auschwirz-Birkenau", in J.:Allemagne nave et /e gé• noa'de juif. eit., pp. 539-584; J.•C. Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o/ the Gas Chambers, cit., pp. 379-428. Léon Poliakov (op. cii., pp . .51-52) aveva già ci• mo una lettera del 6 novembre 1943 in cui le ss di Auschwitz ordinavano piante

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verdi per camuffare i crematori le o. Il 16 giugno 1944, Oswald Pohl accordava un altro credito per !'"edificazione di una seconda cintura interna, utile a dissimulare i fabbricati a vista dei detenuti" Q.-C. Pressac, Les Crématoires d'Auschwitz, cit., p. 91). Sul camuffamento del "budello" di Treblinka dr. la testimonianza precisa della SS Franz Suchomel in C. Lanzmann, Shoah, Fayard, Paris 1985, pp. 123-124; tr. it. Shoah, Bompiani, Milano 2000. 24. Testimonianza di Filip Miiller in C. Lanzmann, op. cii., p. 81. Continua cosl: "Eravamo ormai 'detentori di segreto', in attesa di motte. Non dovevamo parlare con nessuno, né entrare in contatto coi prigionieri. Neppure con le SS. Tranne quelle incaricate dcll'Aktion •.

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IMMAGINI MALGRADO TUTTO

Fìgura 1 Anonimo (tedesco), Siepe di mascheramento del crematorio v di Auschwitz, 1943-1944. Oswiecim, Mus«> di Stato di Auschwi12-Birkenau (negativo n. 860).

questa catena mostruosa e complessa sembrava oltrepassare ogni tentativo di documentazione. Filip Miiller scrive che "paragonato a ciò che [Otto Moll) aveva immaginato e cominciato a realizzare, l'inferno di Dante sembrava un gioco da ragazzi". 21 Alle prime luci dell'alba demmo fuoco alle fosse in cui avevamo ammucchiato circa duemilacinquecento corpi; due ore dopo erano irriconoscibili. Le fiamme incandescenti avvolgevano un'infinità di tronchi carbonizzati e disseccati. [ ... ] Contrariamente a quanto accadeva nei crematori, in cui il calore poteva essere mantenuto alto con l'aiuto dei venùlatori, nelle fosse, quando il materiale umano aveva ormai preso fuoco, la combustione poteva essere alimentata solo dall'aria che circolava tra i corpi. E siccome alla lunga il cumulo di corpi tendeva ad accanocciarsi se non giungeva aria dall'ester25. F. Miiller, op. cii., p. 181.

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QUATI'RO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALL'INFERNO

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Fìgura 2 Anonimo (tedesco), Il crematorio V di Auschwit1., 1943-1944. Oswiecirn, Mus«> di Stato di Auschwirz-Birkcnau (negativo n. 20995/508).

no, la squadra di fuochisti cli cui facevo pane doveva spargere di conùnuo olio, metanolo o grasso umano in ebollizione, raccolto nelle cisterne al fondo della fossa. Con lunghe spatole di ferro ricurve ali' estremità raccoglievamo dentro dei secchi il grasso bollente, proteggendoci le mani con dei mezzi guanti. Dopo aver rovesciato il grasso nella fossa, in ogni angolo, si alzavano dei getù cli fiamme che sibilavano e crepitavano. Le volute di fumo oscuravano l'aria diffondendo un odore d'olio, di grasso, di benzolo e di carne bruciata. La squadra del giorno composta di circa centoquaranta detenuti lavorava nel settore dei crematori IV e V. Circa venticinque portatori cli cadaveri erano occupati a evacuare i corpi dalle tre camere a gas del crematorio v e a trascinarli fino alle fosse. [. ..] Le senùnelle delle SS che stavano nei posti di osservazione al di là del filo spinato, nel settore delle fosse, [. :.] sembravano piuttosto turbate dallo spettacolo dantesco di cui erano testimoni e per molti era difficile sostenere la vista di queste terribili scene che si svolgevano sotto i loro occhi. [ ... ] Certi morti sembravano tornare in vita. Per effetto del calore intenso si torcevano, dando quasi

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QUATTRO PEZZI DI PELIJCOLA STRAPPATI ALI:INFERNO

l'impressione di soffrire mali intollerabili. Braccia e gambe si muovevano come in un film al rallentatore, i trondù si raddrizzavano [. ..].L'intensità del fuoco era tale che i cadaveri erano divorati su ogni lato dalle fiamme. Sulla pelle si formavano delle vesciche, che scoppiavano una dopo l'altra. Quasi tutti i corpi ricoperti di grasso erano cosparsi di cicatrici nere dovute a bruciature. Per effetto del calore ardente, l'addome scoppiava in quasi tutti i morti, mentre la carne si consumava con intensi sibili e crepitii. [. . .] L'incinerazione era durata cinque o sci ore. Il residuo della combustione riempiva ormai solo un terzo della fossa. La superficie, di una tinta bianco-grigia fosforescente, era cosparsa di innumerevoli teschi umani. Non appena la superficie di questa massa di cenere si era raffreddata, gettavamo delle assi rivestite di lamiera nella fossa. Alcuni detenuti scendeyano sul fondo e con delle pale buttavano fuori la cenere ancora calda. Erano equipaggiati con guanti e berretti di protezione; ciononost.a nte erano spesso colpiti dalle particelle di cenere che, alzate dal vento, cadevano senza tregua e provocavano gravi ferite al volto e agli ocdù. Ecco perché erano muniti anche di occhiali di protezione. Dopo aver sbarazzato le fosse di tutti i residui, i resti venivano trasponati di corsa con carriole fino al deposito delle ceneri e venivano ammassati in mucchi dell'altezza di un uomo.26

bein. "Tra gli sforzi fatti per difendersi dal terrorismo psicologico vanno annoverati chiaramente quelli che tendevano a rompere l'isolamento. E di anno in anno, a mano a mano che la situazione militare si evolveva, quest'ultimo fattore assunse sempre più importanza per i detenuti. nrr Dal canto loro, nel 1944, i capi della resistenza polacca chiesero delle foto. E fu cosl che, secondo una testimonianza raccolta da Langbein, un operaio civile riuscì a far avere di nascosto una macchina fotografica ai membri del Sonderkommando.u Nella macchina, probabilmente, restava solo un pezzo di pellicola vergine. Per scattare la foto ci fu bisogno di tutto un dispositivo di vigilanza collettiv~. Il tetto del crematorio V fu intenzionalmente danneggiato, facendo in modo che alcuni membri della squadra fossero inviati dalle SS a ripararlo. Da lassù David Szmulewski poteva osservare e controllare tutto: poteva osservare e controllare coloro che avevano per l'appunto il compito di osservare e controllare il lavoro del Sonderkommando. Nascosto in fondo a un secchio, l'apparecchio fotografico fini nelle mani di un ebreo greco di nome Alex - ancora oggi si ignora il suo cognome posto a un livello inferiore, davanti alle fosse di incinerazione, dove avrebbe dovuto lavorare come tutti gli altri. Terribile paradosso di questa camera oscura: per riuscire a estrarre la macchina dal secchio, a sistemare il visore, ad avvicinarla al viso e a scattarè una prima serie di foto (figure 3-4) il fo. tografo ha dovuto nascondersi nella camera a gas·appena svuotata - e forse non completamente - dei suoi cadaveri. L'uomo resta al riparo, nell'ombra. L'oscurità e la posizione angolata lo proteggono. Poi si fa coraggio, cambia asse e avanza: la seconda inquadratura è più frontale e leggermente più ravvicinata. Più arrischiata quindi. Ma anche, paradossalmente, più posata: più netta. Come se la paura fosse sparita per un istante dinanzi alla neces-



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* Strappare un'immagine a tutto questo, malgrado tutto questo? Sì. Bisognava a ogni costo dare forma a questo inimmaginabile. Le possibilità di evasione o di rivolta erano così ridotte ad Auschwitz che la semplice emissione di un'immagine o di un'informazione - una mappa, delle cifre, dei nomi - divenne la cosa più urgente, uno degli ultimi gesti d'umanità. Alcuni detenuti avevano potuto ascoltare la BBC negli uffici che erano stati incaricati di pulire. Altri erano riusciti a lanciare segnali di aiuto. "L'isolamento dal mondo esterno faceva parte delle pressioni psicologiche esercitate sui detenuti", scrive Hennann Lang-

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26. /bidem, pp. 183-189. Cfr. pt.rre, tra letame, la testimonwua di G. Wcllers, L'Étoile jaune à l'heure de Vichy. De Drancy à Auschwitz, Fayard, Paris 1973, pp. 286-287. E. Kogon, H . Langbein, A. Riickerl, op. cit., pp. 214-215, prttisanoche le fosse erano lunghe dodici metri, larghe sei metri e profonde un metro e mezzo. In un'ora vi potevano bruciare mille persone. Cfr. ancheJ.-C. Prcssac, "Érude et réalisation desKrematorien 1v e v•, cit., pp. 539-584. Va registrata una divergenza tra alcune testimonianze dei membri del Sonderltommando e le analisi di Pressac sul per• ché le fosse fossero state costruite: perché i forni del crematorio V erano difettosi oppure perché non bastavano più.

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27. H. Langbcin, La Résistance dans /es camps de concentration nationaux•soci4/istes 1938-1945 (1980), tr. &. Fayard, Paris 1981, p. 297 (e in generale pp. 297-315). H. Langbcin, Uomini ad Auschwitz, cit., p. 271: "Stanislaw Klodzinski attesta che il lavoratore civile polacco Mordarski, il quale doveva muoversi all'interoo dd Lager per il suo lavoro, era riuscito a introdurre clandestinamente una macchina fo. tografica. Essa fu portata al Sonderltommando in una gavetta nella quale era stato CO·

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struito un doppio fondo•. La ricostruzione di Langbein contiene alcune inesattezze e si può anche ipotizzare che la macchina fotog.ralìca fosse stata trafugata al • Kanda • di Auschwitz, il gigantesco deposito degli effetti personali sottratti alle vittime.

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QUATI'RO PEZZI 01 PELLICOLA STRAPPATI ALL'INFERNO

sità di questo compito - strappare un'immagine. Vi scorgiamo, appunto, il lavoro quotidiano degli altri componenti della squadra, che consiste nello strappare ai cadaveri, che giacciono ancora per terra, il loro residuo aspetto umano. I gesti dei vivi sono indici del peso dei corpi e del compito da svolgere con decisioni pre-

se sul momento: tirare, trascinare, buttare. Il fumo, dietro, è quello delle fosse di incinerazione: corpi disposti a quinconce su un metro e mezzo di profondità, crepitio del grasso, odori, la materia umana che si raggrinzisce, tutto ciò di cui parla Filip Miiller è lì, sotto quella coltre di fumo che la fotografia ha fissato per sempre.

Figure J-4 Anonimo (membro dd Somkrkommandc di Auschwitz), Cremazione di corpi gasali in fosse di indneravone all'aria aperta, davanti alla comera a gas del ere• matorio v di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz• Birkcnau (negativi n. 277-278).

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Figure S-' Anonimo (membro del Sonderkomm1Jndo di Auschwitz), Donne spinte verso I,, C1Jmer1J a gas del crematorio V di Auschwitr.. agosto 1944. Oswiccim, Musco di Stato di Auschwitz-Birkfflau (negativi n. 282-283).

QUATTRO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALL'INFERNO

29. Cfr.J.-C. Pressac, Auschwitr.: Technique1Jnd Operation o/the Gos Chombers, cit., pp. 422424, che ha realizzato una minuziosa ricootruzione di queste immagini. Egli precisa che tra i personaggi fotografati c'è anche una SS, voltata di spalle (equesta la dice davvero lunga sui pericoli corsi). 30. P. Levi, I sommersi e i s1Jl111Jti, cit., p. 60.

Dopo aver nascosto la macchina - tra le mani? nel secchio? sotto gli abiti? - l'"ignoto fotografo" si arrischia allora a uscire dal·crematorio. Costeggia il muro. Gira due volte a destra. Si ritrova cosl dall'altra parte dell'edificio, a sud, dopodiché si incammina verso il boschetto di betulle, all'aria aperta. Anche laggiù l'inferno continua: un "convoglio" di donne, già svestite, si appresta a entrare nella camera a gas. Sono circondate da ss. Non è davvero possibile tirar fuori la macchina fotografica, né tantomeno scegliere un'inquadratura. L'"ignoto fotografo" scatta due foto alla meno peggio, senza guardare, forse continuando a camminare (figure 5-6). Su una delle immagini - chiaramente priva di ortogonalità, di orientamento "corretto" - si scorge,

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Dietro c'è il boschetto di betulle. Il vento soffia a nord, forse a nord-ovest. 29 ("Nell'agosto del 1944 ad Auschwitz faceva molto caldo. Un vento torrido, tropicale, sollevava nuvole di polvere dagli edifici sconquassati dai bombardamenti aerei, ci asciugava il sudore addosso e ci addensava il sangue nelle vene.")'°

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QUATTRO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALL'INFERNO

nell'angolo inferiore destro, tutto un gruppo di donne che sembrano camminare oppure aspettare il loro turno. Altre tre donne, più vicine, si dirigono in senso inverso. L'immagine è sfuocata. Si può comunque riconoscere un membro del Sonderkommanda col suo berretto. Sul bordo a destra si intravede il carni-

no del crematorio IV. L'altra immagine è praticamente astratta: si scorgono appena le cime delle betulle. Col volto rivolto a sud, il fotografo ha la luce negli occhi. L'immagine è rovinata dalla luce abbagliante del sole che passa attraversi i rami. Poi Alex fa ritorno al crematorio, probabilmente dal lato nord. Restituisce velocemente la macchina a David Szmulewski, rimasto tutto il tempo sotto il tetto a spiare gli eventuali movimenti delle ss. L'intera operazione non è durata più di quindici, massimo venti minuti. Szmulewski ripone l'apparecchio fotografico nel secchio.>' Il pezzo di pellicola sarà poi estratto dalla macchina, riportato al campo centrale e_infine portato via da Auschwitz in un tubetto di dentifricio da Helena Dant6n, impiegata alla mensa delle ss.>2 Perverrà in seguito, il 4 settembre 1944, alla resistenza polacca di Cracovia, accompagnato da una nota scritta da due detenuti politici, J6zef Cyrankiewicz e Stanislaw Klodzinski (figura 7):

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Urgente. Inviate il più rapidamente possibile due rullini di pellicola in metallo per macchina fotografica 6x9. Possiamo fare foto. Inviamo foto di Birkenau che mostrano i detenuti inviati alle camere a gas. Una foto rappresenta uno dei rog}ù ali' aria aperta in cui si bruciano i cadaveri, poiché il crematorio non è grande abbastanza per bruciarli tutti. Davanti al rogo cadaveri che stanno per esservi gettati. Un'altra foto riproduce un luogo nel bosco in cui i detenuti si spogliano, cosl credono, per farsi una doccia. A ruota saranno inviati nella camera a gas. Inviate i rullini prima possibile. Inviate subito le foto a Teli pensiamo che foto ingrandite possano essere inviate più lontano."

Figura 7 J6ref Cyrankiewicz e Stanislaw Klodzinski, Messaggio indiriuato alla resistenZJJ po/am,, 4 settembre 1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau.

31. Cfr.J .-C. Pressac, Auschwi/2: Technique and Operati'on ofthe Gas Chambers, cit., p. 424, in cui è citata la tesrimoruanza dello stesso Szmulewski, sopravvissuto della squadra. 32. Or. H. Langbein, Uomini ad Auschwitz, cit., p. 272. 33. Citato da R Boguslawska-Swiebocb, T. Ceglowska, KLAuschwitz. Fotografie dokumentalne, Krajowa Agencja Wydawnicza, Warszawa 1980, p. 18. Dnome in codice "Tcll" sta per Teresa Lasocka-Estreicher, membro a Cracovia di un comitato clandestino di aiuto per i prigionieri dei campi di concentramento. Cfr. anche R Boguslawska-Swiebocka, T. Swiebocka, • Auschwitz in Documentary Photo• graphs", in T. Swiebocka (a cura di), Auschwitz. A History in Photographs, tr. ingl. Auschwitz-Birkenau Muscum-Ksiazb I Wiedza-Indiana University Press, Oswiecim-Warsaw-Bloomington-Indianapolis 1993, pp. 42-43, 172-176, in cui sono precisati i nomi di altri detenuti che presero parte a questa operazione: Szlomo Dragon, il fratcllo Josek e Alter Szmul Fajnzylberg (noto nel campo col nome di Stanislaw Jankowski). Secondo la testimonianza di Alter Fajnzylberg, la macchina fotografica potrebbe essere stata una Leica (Clémcnt Chéroux mi ha segnalato però che è impossibile, poiché il formato delle immagini è 6x6).

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A DISPETTO DI OGNI INIMMAGINABILE

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"Inviate più lontano... " Che cosa significa? Si può avanzare l'ipotesi che, al di là della resistenza polacca - perfettamente al corrente del massacro degli ebrei-, si intendesse inviare queste immagini in una zona più occidentale del pensiero, della cultura, della politica, in cui cose del genere potevano ancora essere considerate inimmaginab~. Le quattro foto strappate dai membri del Sonderkommando al crematorio V di Auschwitz prendono di mira l'inimmaginabile e lo confutano nella maniera più lacerante. Per confutare l'inimmaginabile, parecchi uomini hanno corso il rischio collettivo di morite e, peggio ancora, di subire la sorte riservata a gente che faceva tentativi del genere: la tortura - ad esempio, quella abominevole che la SS Wilhelm Boger chiamava per scherzo la "macchina da scrivere" .1 "Inviate più lontano": le quattro immagini strappate all'inferno di Auschwitz sono indirizzate in effetti a due spazi, a due epoche distinte dell'inimmaginabile. Ciò che esse confutano, innanzitutto, è l'inimmaginabile fomentato dall'organizzazione stessa della "soluzione finale". Se perfino un resistente ebreo di Londra - che lavorava in circoli ritenuti ben informati - ha dovuto ammettere che non poteva immaginarsi all'epoca Auschwitz o Treblinka,2 che dire allora del resto del mondo? Come ha giustamen1. H. Arcnd1 1 • Auschwitz soao processo• (1966), tr. it. in Re,ponsabilità e giudi• r.io, Einaudi, Torino 2004, p. 196. 2. Cfr. R Aron,Mémoires,Juillard, Paris 1983, p. 176: •n genocidio, che ne sapevamo noi a Londra? Al livdlo di chiara consapevolezza, la mia idea era la seguente: i campi di conccntraml!llto erano crudeli, erano di.retti da capi•ciunna selezionati non tra i politici ma tra i delinquenti comwù, con un alto tasso di mortalità; ma le ca•

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IMMAGINI MALGRADO nJTTO

A DISPETTO DI OGNI INIMMAGINA.BU.E

te ricordato Hannah Arendt, i nazisti "erano convinti che la migliore chance di successo di questa impresa risiedesse nel fatte che nessuno all'esterno avrebbe potuto ritenerla vera".' Ed è questo terribile fatto, il fatto cioè che le informazioni pervenute venissero respinte "per la loro stessa enormità", che avrebbe poi perseguitato Primo Levi e alimentato tutti i suoi incubi: subire, sopravvivere, raccontare - eppure non essere creduti, poiché il racconto è inimmaginabile-♦ Quasi che un'ingiustizia inestirpabile continuasse a perseguitare i sopravvissuti che pure avevano vocazione alla testimonianza. Molti studiosi hanno analizzato nel dettaglio il meccanismo di disimmagina1.ione che poteva far dire a una SS: "Forse vi sarannc sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove insieme con voi. E quandc anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi soprav• vivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti".' La "soluzione finale", com'è noto, fu coperta da un segreto assoluto: silenzio, informazione stroncata.' Ma siccome i dettagli sullo sterminio avevano cominciato a filtrare "fin quasi dall'inizio dei massacri" ,7 ci volle un discorso per te• nere il segreto: retorica, menzogna - tutta una strategia di parole che Hannah Arendt definì, nel 1942, "eloquenza del diavolo".8 Le quattro foto strappate ad Auschwitz dai membri del Sonderkommando furono dunque anche quattro confutazioni strap•

pate a un mondo che i nazisti volevano offuscato: cioè senza parole e senza immagini. Ogni analisi dell'universo concentrazionario converge, da lungo tempo, su questo fatto: i campi furono dei laboratori, delle macchine sperimentali di una scomparsa generalizzata. Scomparsa della psiche e disintegrazione del legame sociale, come disse quasi subito - nel 1943 - Bruno Bettelheim, appena reduce da diciotto mesi passati a Buchenwald e Dachau: "Il campo di concentramento era il laboratorio in cui la Gestapo imparava a disintegrare la struttura autonoma degli individui e a spezzare la resistenza civile" .9 Nel 1940 Hannah Arendt parlava dei campi come di altrettanti "laboratori in cui si sperimenta una dominazione totale[ ... ), un obiettivo che poteva essere attinto solo nelle condizioni estreme di un inferno fabbricato dall'uomo". 10 Inferno concepito anche per la scomparsa della lingua delle vittime. "Là dove si fa violenza all'uomo, la si fa anche al linguaggio", scrive Primo Levi. 11 C'è il silenzio imposto dall'isolamento stesso. C'è il gergo del campo, coi suoi effetti terrifìcanti. 12 C'è la distorsione perversa della lingua e della cultura tedesca. 0 E c'è infine la menzogna, la continua menzogna delle parole pronunciate dai nazisti: pensiamo all'innocenza dell'espressione Schut1.staffel, abbreviata in SS, che significa "protezione", "riparo", "salvaguardia" (Schut1.). Pensiamo alla neutralità dell'aggettivo sonde, - che significa "separato", "singolare", "speciale", oppure "strano", "bizzarro" - in espressioni come Sonderbehandlung, "trattamento speciale" (in realtà la morte nelle camere a gas), Sonderbau, "edificio speciale" (in realtà il bordello del campo, riservato ai "privilegiati"), e ovviamente Sonderkommando. Quando, nel mezzo di questo linguaggio in codice, una ss designa una cosa col suo vero nome - quando ad esempio l'amministrazione di Auschwitz, in una nota del 2 marzo 1943, lascia passare l'e-

mere a gas, l'assassinio industriale di esseri wna.ni, no, lo confesso, non me li sonc immaginati, e non riuscendo a immaginarmdi non ne sapevo nulla"; u. it. Memorie Mondadori, Milano 1984. 3. H. Arcndt, "Le tecniche dclh scienza sociale e lo studio dei campi di concen• tramenio• 0950), tr. it. in L'immagine dell'inferno. Scrilli sul totalitarismo, Editon Riuniti, Roma 2001, pp. 117-118. 4. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 3. Cfr. pure il racconto di Moché-le-Bcdeau col quale in pratica si apre il libro di É. Wicsel, La nuit, Minuit, Paris 1958, pp. 17-18; tr. it. La noi/e, La Giuntina, Firenze 1992. 5. Testimonianza di Simon Wiesenrhal citata da P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 3. 6. Cfr. W. Laqueur, Le Terrifiant Secret. La •Solution finale" et l'in/ormation étouf/ée (1980), tr. fr. Gallimard, Paris 1981; 1r. i1. Il terribile segreto, La Giuntina, Firenze 1983; S. Counois, A. Rayski (a cura di), Qui savait quoi? I.:extermination desju,/s, 1941-1945, La Découvene, Paris 1987, pp. 7-16. 7. W. Laqueur, op. cit., t~ fr. cit., p. 238. 8. H. Arcndt, "l:ane oratoria dd diavolo• (I 942), tr. it. in Antisemitilmo e identità ebraica, Edizioni di Comunità, Torino 2002.

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9. B. Bettclheim, "Componement individuel et componement de masse dans Ics situations exucmes" (1943), u. fr. in Survivre, Laffont, Paris 1989, pp. 70, 109; tr. it. "Componamento individuale e di massa in situazioni esueme", in Soprawive• re, Feltrinelli, Milano 1981. IO. H. Arendt, "Le tecniche dclh scienza sociale e lo studio dei campi di con• centramento•. cit., p. 123. li. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 76. 12. H. Langbcin, Uomini ad Auschwitz, cit., pp. 19-27. 13. V. Klemperer, LTI, LA lingua del terzo Reich. Taccuino/ilcso/ico (1947), tr. it. La Giuntina, Firenze 1998.

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IMMAGINI MALGRADO TUTIO

spressione Gaskammer, "camera a gas» - bisogna pensare a un autentico lapsus.14 Ciò che le parole intendono offuscare è, certamente, la scomparsa degli esseri programmata da questo vasto "laboratorio». Assassinare non bastava: poiché i morti non erano mai abbastanza scomparsi per la "soluzione finale». Ben oltre la privazione di una sepoltura - che pt!r gli antichi era il massimo oltraggio ai morti - i nazisti si impegnarono, razionalmente o irrazionalmente, a non "lasciare alcuna traccia», a/are span·re ogni resto ... Il che spiega la demenza dell'Aktion 1005, per esempio, in cui le ss fecero sterrare - dalle loro stesse vittime ovviamente - centinaia di migliaia di cadaveri ammassati in fosse comuni, per farli in seguito bruciare e fame disperdere (o riseppellire) le ceneri nella natura.1' La fine della "soluzione finale" - in ogni senso della parola "fine»: la fine ma anche il fine, lo scopo ultimo ma anche l'interruzione brutale con la sconfitta militare dei nazisti - richiedeva in ogni caso un'ulteriore prodezza, la scomparsa degli strumenti della scomparsa. Ed è per questo che il crematorio V fu distrutto nel gennaio 1945 dalle SS: ci vollero almeno nove cariche esplosive, di cui una di grande potenza posta nei forni refrattari. 16 Un modo, ancora una volta, per rendere Auschwitz inimmaginabile. Dopo la liberazione, ci si poteva recare nei luoghi in cui erano state strappate le quattro immagini di qualche mese prima senza vedere altro che rovine, quasi si trattasse di altrettanti "non-luoghi» 17 (figura 8).

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A DISPETTO DI OGNI INlMMAGINABILE

Flguta 8 Anonimo (russo), Rovine del crematorio v di Auschwil%, 1945-1946. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwiu-Birkenau (negativo n. 908).

Filip Miiller ha d'altronde precisato che, fino al momento della sua distruzione, il crematorio V continuò a "incinerare i cadaveri dei detenuti morti nel campo principale", mentre il gasaggio degli ebrei era stato già interrotto. In seguito, i membri del Sonderkommandc avevano dovuto "bruciare sotto stretta sorveglianza [... )tutti i documenti sui detenuti: dossier, verbali di decesso, atti di imputazione e altri documenti dd genere».18 Insomma, assieme agli strumenti della scomparsa bisognava anche far scomparire g/.i archivi, la memoria della scomparsa. Un modo, per l'ennesima volta, di renderla inimmaginabile. Esiste una perfetta coerenza tra il discorso di Goebbels, analizzato nel 1942 da Hannah Arendt seguendo il leitmotiv del "Non si reciterà nessun kaddish »19 - ossia vi stermineremo senza lasciare tracce né ricordi-e la distruzione sistematica degli archi-

14. Cfr.J.-C. Prcssac,Ausdnuitz: Techni,µ,eandOperation o/theGasChambm. cit., p. 446. Duplice lapsus, in effetti, poiché la SS ha scritto Gasskammer con due s. Cfr. an• che E. Kogon, H. Langbcin, A. Riikerl, Les Chambres ii ga:r. seCTrl d'Élat, cit., pp. 13-23. 15. Cfr. in particolare L. Poliakov, Auschwit:r., cit., pp. 49-52. Cfr. anche, tra i tanti esempi, Y. Arad, "Treblinka", in F. Bédarida, F. Gervcrcau (a cura di), La Déportation. Le systèmeconcmtrationnaire nazi, BDIC, Nantcrrc 1995, p. 154: "Tra la fine di febbraio e l'inizio dd mano 1943, Heinrich Hi.mmler visitò Treblinka. In seguito alla visita, fu lanciata un'operazione per incinerare il corpo ddle virtime. Le fosse comuni furono riapcne e furono recuperati i cadaveri per incinerarli in enonni bracieri (i 'roghi'). Le ossa furono frantumate e interrate poi nelle stesse fosse, assieme alle ceneri. Questa in• cincrazione dei cadaveri, per far sparire le tracce degli omicidi, pro!CgUl fino al luglio dd 1943 •. Su questo episodio cfr. la testimonianza, tecnica e in1ollcrabilc, della ss FranzSuchomcl, raccolta da C. Lanzmann,Shoah, tr. fr. cit., pp. 64-70, dovesi precisa che il Sonderkommandc di Treblinka veniva cambiato - cioè assassinato - 08Jli giorno. 16. J.-C. Prcssac, Auschwit:r.: Technique and Operation o/the Gas Chambm, cit., pp. 390-391. 17. Ciò rende tanto più prezioso l'approccio strettamente archeologico dei lavori condotti daJean-Oaude Prcssac, cui rende omaggio P. Vìdal-Naquet, "Sur une in•

1crprétation du grand massacre: Amo Mayer et la 'solution finale'" (1990), in Les Juzfs, la mémoire et k présent, D, La Découverte, Paris 1991, pp. 262-266. Sulla questione dd luogo "rovinato" e dd suo uso (anche archeologico) nd film Shoah, dr. G. Didi-Huberman, "Le lieu malgré tout" (1995), in Phasmes. Essais sur l'apparitùm, Minuit, Paris 1998, pp. 228-242. 18. F. Miiller, Trois ans dans une ehambre ii ga:r. d'Auschwil%, cit., pp. 225, 227. 19. H. Arendt, "Non si reciterà nessun kaddish" (1942), tr. it. in Antisemitismo e identità ebraica, Edizioni di Comunità, Torino 2002.

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vi della distruzione da parte delle SS alla fine della guerra. "L'oblio dello sterminio fa parte dello sterminio", in effetti.20 I nazisti hanno creduto senza dubbio di rendere invisibili gli ebrei, rendendo invisibile la loro distruzione. Si sono talmente dati da fare per raggiungere questo scÒpo che molti, perfino tra le vittime, ci hanno creduto, e molti ancora oggi ci credono.21 Ma "la ragione nella storia" subisce sempre la confutazione - per quanto minoritaria, per quanto dispersa, per quanto inconscia o disperata essa sia - di alcuni fatti singolari che-diventano allora la cosa più preziosa per la memoria: il suo potenziale immaginabile. Gli archivi della Shoah definiscono certo un territorio incompleto e frammentario - ma questo territorio comunque esiste. 22

piccolo da poterlo nascondere in un tubetto di dentifricio - può dar luogo a un numero infinito di sviluppi e di ingrandimenti d'ogni formato. La fotografia è legata mani e piedi all'immagine e alla memoria: ne possiede l'eminente potenz.a epidemica.2◄ E per questo fu così difficile sradicarla ad Auschwitz, almeno quanto fu difficile sradicare la memoria dai corpi dei prigionieri. La "ragione nella storia"? È il segreto di stato posto sullo sterminio di massa. È l'interdizione assoluta di fotografare le esazioni - pure gigantesche - degli Einsatzgruppen nel 1941.25 Sono le scritte nei dintorni dei campi: "Fotògra/ieren verboten! Vietato l'ingresso! Si verrà sparati [sic] senza preavviso! Vietato fotografare!" .26 È la circolare di Rudolf Hoss, il comandante di Auschwitz, in data 2 febbraio 1943: "Segnalo una volta ancora che è vietato scattare foto nei dintorni del campo. Punirò severamente coloro che non rispettano quest'ordine".27 Ma vietare significava arrestare un'epidemia di immagini che era già comin.ciata e non poteva più fermarsi: la sua espansione era sovrana come quella di un desiderio inconscio. Astuzia dell'immagine contro ragione nella storia: ovunque circolavano delle foto - queste immagini malgrado tutto - per le migliori e le peggiori ragioni. A cominciare dalle terribili inquadrature dei massacri commessi dagli Einsatzgruppen, immagini realizzate perlopiù dagli stessi assassini. 28 Rudolf Hoss non aveva esitato dal canto proprio - e malgrado la sua stessa circolare - a offrire al ministro della giustizia, Otto Thierack, un album di fotografie scattate nel

* Ora, da questo punto di vista, la fotografia manifesta un' atti tu• dine particolare - come illustrano esempi più o meno noti21 - a contraddire ogni volontà di scomparsa. E talmente facile scattare una foto. E lo si può fare per le ragioni più diverse, buone o catti• ve, pubbliche o private, palesi o celate, per violenza o per protesta contro la violenza ecc. Un semplice pezzo di pellicola - tanto 20.J.-L. Godard, His1oire(s) du cinéma, Gallùnard-Gaumont, Paris I998, r, p. 109. 21. Cfr. la testimonianza disperata dello storico ebreo ltzhak Schipper, poco prima della sua deponazione a Majdanek: "La storia è scritta, in generale, dai vincitori. Tutto ciò che noi sappiamo dei popoli assassinati è ciò che i loro assassini cc nevogliono dire. Se i nostri nemici ottengono la vittoria, se sono loro a scrivere la storia di questa guerra [ ... ] possono anche decidere di cancellarci completamente dalla memoria del mondo, come se non fossimo mai esistiti• (citalo da R Enel, Dans la langue de personne. Poésie yiddish de l'a11éa11lisseme11I, Le Seui!, Paris 1993, p. 23). Cfr. anche le tesi di S. Felman, • Al'iìge du témoignagc: Shoah dc Qaude Lanzmann". tr. fr. in Au sujel de Shoah, le film de Claude La11zma1111, Belin, Paris 1990, pp. 55-145. 22. Ed è su questa base che è stato possibile ricostrui.rc minuziosamente il meccanismo di sterminio nell'opera capitale di R Hilbcrg, La dislru1.ione degli ebrei d'Europa (1985), tr. it. Einaudi, Torino 1995. Cfr. più di recente}. Frcdi (a cura di), Les Archives de la Shoah, CDJC-L'Harmattan, Paris 1998. 23. Cfr. l'imponante bibliografia di U. Wrocklagc, Folografie u11d Holoausl. A111101ierte Bibliographie, Fritz Bauer Institut, Frankfun 1998. Tra i principali studi, cfr. R Boguslawska-Swiebocka, T. Ceglowska, KL Auschwiti. Folografie doltume11tal11e, cit.; T. Swiebocka (a cura di), Auschwi/1.. A History in Photographs, cit.; S. Milton, "Images of thc Holocaus1", in Holoaust a11d GmocideStudies, I, 1986, n. I, pp. 27-61; n. 2, pp. 193-216; D. Hoffinann, "Fotogralicnc Lager. Obcrlcgungcn zu ciner Fotogeschichtc deutscher Konzcntrationslager", in Fotogeschichte, n. 54, 1994, pp. 3-20. Segnaliamo il caso eccezionale dcU'"album d'Auschwitz": P. Hell-

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man, L'Album d'Auschwi/1., D'après un album dicouvert par Liii Meier, survivante ducamp de conce11tratio11 (1981), tr. fr. LcScuil, Paris 1983. 24. Cfr. G. Didi-Hubcnnan,Mémorandum de la peste. Le/léau d'imaginer, Christian Bourgois, Paris 1983. 25. Cfr. R Hilbcrg, op. cit., pp. 335,402. Hilberg cita diverse fonti, tra cui una lettera del 12 novembre 1941 in cui Hcydrich in persona "vietò ai suoi uomini di fa. re fotografie. Per le riprese ufficiali, le pellicole dovevano venire inviate al RSHA rv-A1, oon sviluppate e inoltrate come segreti del Reich (Geheime Reichssache). Hcydrich ordinava anche ai capi della Polizia d'ordine di ricercare tutte le fotografie che fossero in circolazione nelle loro zone•. 26. Iscrizione su un cartello di avvenimento situato nei dintorni del campo di Natzweilcr. 27. Citato da R Boguslawska-Swiebocka, T. Ceglowska, KL Auschwitz Fotogra• fie dokummtalne, cit., p. 17. 28. Cfr. la recente mostra Verbrechm der Wehrmacht. Dimensio11e11 des Vernich, tu11gslm'eges 1941-1944, Hamburger Edition, Hamburg 2002.

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campo di Auschwitz.i, Da un lato, quest'uso della fotografia sconfinava (privatamente) nella pornografia del massacro. Dal1'altro, l'amministrazione nazista era talmente ossessionata dall' abitudine di registrare tutto - era un punto d'orgoglio, una specie di narcisismo burocratico - che tendeva a fotografare tutto quanto si faceva nel campo, benché lo sterminio degli ebrei nelle camére a gas restasse un "segreto di stato". Ad Auschwitz entrarono in funzione due laboratori di fotografia, nientemeno. È stupefacente in un luogo del genere. Ma bisogna aspettarsi di tutto da una capitale come lo fu Auschwitz, la capitale della morte e della scomparsa di milioni di esseri umani. Nel primo laboratorio, alle dirette dipendenze del "servizio di riconoscimento" (Erkennungsdienst), dai dieci ai dodici prigionieri lavoravano in permanenza sotto la direzione delle ss Bemhardt Walter ed Emst Hofmann, e sembra che nl'attività fosse piuttosto intensa - si trattava essenzialmente di ritratti segnaletici di detenuti politici. Le foto di esecuzioni, di torture e di corpi arrostiti furono scattate e sviluppate direttamente dalle ss. Il secondo laboratorio, più piccolo, era quello dell'"Ufficio delle costruzioni" (Zentralbauleitung): aperto dalla fine del 1941 all'inizio del 1942, fu diretto dalla ss Dietrich Kamann, che mise su un intero archivio fotografico sulle installazioni del campo.io Né va dimenticata, naturalmente, tutta l'iconografia "medica" sui mostruosi esperimenti condotti da Josef Mengele e compari su donne, uomini e bambini di Auschwitz.li Quando, verso la fine della guerra, i nazisti bruciarono in massa tutti i loro archivi, i prigionieri che li servivano come schiavi approfittarono della confusione generale per salvare - sottrarre, nascondere, disperdere - quante più immagini possibile. Circa quarantamila cliché restano oggi di questa documentazione su Auschwitz,

che pure si è cercato di distruggere sistematicamente, il che la dice lunga sul numero probabilmente enorme di fotografie che riempivano i cassetti nel momento in cui il campo era ancora in funzione?2

* Basta aver posato una volta lo sguardo su questo resto di immagini, su questo erratico corpus di immagini malgrado tutto, per capire che non è più possibile parlare di Auschwitz nei termini assoluti - in genere ben intenzionati e apparentemente filosofici, ma in realtà pigri)) -dell'"indicibile" e dell'"inimmaginabile". Le quattro foto scattate nell'agosto del 1944 dai membri del Sonderkommando guardano all'inimmaginabile di cui si parla spesso ancora oggi non appena si cita la Shoah - seconda epoca dell'inimmaginabile - e lo confutano tragicamente. Si è detto che Auschwitz è impensabile. Ma Hannah Arendt ha giustamente insistito sul fatto che là dove il pensiero fallisce, proprio là il pensiero deve insistere e persistere, tentando magari vie diverse. Auschwitz scardina ogni pensiero giuridico esistente, ogni nozione di colpa e di giustizia? Allora bisogna ripensare daccapo la scienza politica e il diritto." Auschwitz scardina ogni pensiero politico 32. Cfr. R Boguslawska-Swicbocka, T. Ceglowska, Kl. Auschwitz. Fotografie dokumentalne, cit., p. 18, in cui è citata la testimonianza di Bronislaw Jurcczck: "Quasi all'ultimo momento, ci ordinarono di bruciare nella stufa in ceramica del laboratorio rutti i negativi e rune le foto sviluppate che si trovavano ncll'Erkennungsdiensl Ci mettemmo all'inizio runa la carta fotografica e le fotografie ancora immerse nd1'acqua, e poi una sfilza di negativi e positivi. Il fatto che ne avessimo una tale quantità impcdl al fumo di uscire. Quando accendemmo, eravamo convinti che solo una parte delle fotografie e dei negativi, quella più vicino allo sportello della stufa, sarebbe bruciata, e poi per mancanza d'aria il fuoco si sarebbe spento. [. .. ] Non solo, ma di proposito, col pretesto della frena, dispersi una parte di questo materiale nelle diverse stani.e del laboratorio. Sapevo che con una evacuazione così rapida nessuno avrebbe avuto il tempo di portare via ru1to e qualcosa si sarebbe conservato•. 33. Cfr. A. Wieviorka, Déportation et génocide, cit., p. 165: "In storia, la nozione di indicibile sembra denunciare più che altro pigrizia. Essa ha esonerato lo storico dal suo compito, che è appunto quello di leggere le testimonianze dei deportati, di interrogarsi su questa fonte capitale della storia della deportazione, importante anche per i suoi silenzi" - e da parte mia aggiungerei: per le sue immagini. 34. H. Arcndt, "L'immagine dell'inferno" (1946), tr. il. in Z:immagine dell'inferno. Scnìti sul totalitansmo, cit., p. 103; H. Arcndt, "Auschwi1z sotto processo•, cit., pp. 201 -216. Queste riflessioni sono s1a1e riprese poi da G . Agamben, "Che cos'è un campo?", in Mev.i senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 35-41.

29. Cfr. R Hilberg, op. cit., p. 1030. 30. Cfr. R Boguslawska-Swiebocka, T. Swiebocka, • Auschwitz in Documenta,y Photographs•, cit., pp. 35-42; U. Wrockla.ge, • Architektur zur 'Vcmichtung durch Arbeit'. Das Album der Bauleitung d. Waffen-ss u. Polizci K.L. Auschwitz", in Fotogeschichte, n. 54, 1994, pp. 31-43. Questo archivio della Baule,ìung costituisce la fonte principale dei lavori di J .-C. Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o/ the Gas Chambers, cit.; Le macchine dello sterminio, cit. Occorre prttisarc che, dei circa quarantamila cliché pervenutici, trentanovemila sono foto segnaletiche. 31. Cfr. RJ. Lifton, I medici na:,:isti. L, psicologia del genocidio (1986), tr. it. Riz. zoli, Milano 2003.

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esistente, o ogni antropologia? Allora bisogna ripensare e rifondare le scienze umane nel loro complesso." In tutto questo, il ruolo dello storico è ovviamente capitale. Non può e non deve "ammettere che ci si sbarazzi del problema posto dal genocidio degli ebrei confinandolo nell'impensabile. [Il ·genocidio] è stato pensato e dunque era qualcosa di pensabile". )6 In tal senso vanno rilette anche le critiche rivolte da Primo Levi alle speculazioni sull'"incomunicabilità" della testimonianza concentrazionaria.37 L'esistenza stessa e la possibilità di una te. stimonianza simile - la sua enunciazione malgrado tutto - confutano seccamente quest'idea, l'idea che Auschwitz sia indicibile. Semmai, è a lavorare nello scavo vuoto della parola che la testimonianza ci invita e obbliga: lavoro duro, dato che si t ratta di una descrizione della morte al lavoro, con le urla inarticolate e i silenzi che tutto ciò comporta.>8 Parlare di Auschwitz in termini di indicibile non significa avvicinarsi ad Auschwitz, al contrario significa allontanare Auschwitz in una regione che Giorgio Agamben ha giustamente descritto come adorazione mistica, ossia come ripetizione inconsapevole dello stesso arcanum nazista.19 Ora, con l'immagine bisogna fare, con grande rigore teorico, 35. H. Arendt, "L'immagine ddl'infemo", cir., p. 103; H. Arcndr, "Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di concentramento", cir., pp. 113, 13 I. 36. P. Vidal-Naquer, "Préface•, in G. Decrop, Des camps au génocide: la politique de l'impemable, Presses Univcrsitaires, Grcnoble 1995, p. 7. 37. P. Levi, I sommerfi e i salvati, cit., pp. 68-82. Sulle critiche - esagerate - di Levi all'"oscurità" di Paul Celan, cfr. E. Traverso, J.:Hùtoire déchirée. fasai sur Auschwitz et /es intellectuels, Cerf, Paris 1997, p. 153; C. Mouchard, "'lei'? 'Mainte• nant'? Témoign98es et crovres", in C. Mouchard, A. Wicviorka (a cura di), La Shoah. Témoignages, savoirs, ceuvres, Presses Universiraires dc V'mccnnes-Cercil Sainr-Dcnis 1999, pp. 225-260; F. Carasso, "Primo Levi, le pani pris dc la clané",;.; C. Mouchard, A. Wicviorka (a cura di), op. ai., pp. 271 -281. 38. Sulla testimonianza cfr. A. Wìcviorka, Déportation et génocide, cit., pp. 161166; A. Wieviorka, !.:era del testimone (1998), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1999. 39. Cfr. G. Agambcn, Quel che resta di Auschwit?, cit., pp. 29-30, 146: "Ma perché indicibile? Perché conferire allo sterminio il prestigio della mistica? [... ] Dire che Auschwitz è 'indicibile' o 'incomprensibile' equivale a euphèmein, ad adorarlo in sil~o, come si con un dio[ ... ]. Per questo, coloro che rivendicano oggi l'indicibilira di Auschwitz dovrebbero essere più cauti nelJe loro affermazioni. Se essi intendono dire che Auschwitz fu un evento unico, di fronte al quale il testimone deve in qualche modo sottoporre ogni sua parola alla prova di un 'impossibilità di dire, allora essi harmo ragione. Ma se, coniugando unicità e indicibilità, fanno di Auschwitz una realtà ~Iuram':°te sel:'arata dal lingu"8gÌo [. ..] allora essi ripetono inconsapevolmente il gesto de, nazisu, sono segretamente solidali con l'arcanum impeni~.

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ciò che già facciamo, senza dubbio più facilmente (Foucault ci ha aiutati in questo), col linguaggio. Infatti, in ogni produzione testimoniale, in ogni atto di memoria i due - linguaggio e immagine sono assolutamente solidali e si soccorrono a vicenda: un'immagine sorge spesso là dove mancano le parole, e una parola sorge spesso là dove sembra mancare l'immaginazione. La "verità" di Auschwitz, se questa espressione ha un senso, non è né più né meno inimmaginabile di quanto sia indicibile. 40 Se l'orrore dei campi sfida l'immaginazione, tanto più preziosa e necessaria sarà allora ogni immagine strappata a una simile esperienza! Se il terrore dei campi ha funzionato come un meccanismo di scomparsa generalizzata, tanto più preziosa e necessaria sarà allora ogni apparizione - per quanto frammentaria, per quanto difficile da guardare e interpretare - in cui si renda visibile una sola rotella di questo meccanismo i◄• Il discorso dell'inimmaginabile conosce due regimi differenti e strettamente simmetrici. Uno è quello di un estetismo che tende a misconoscere la storia nelle sue concrete singolarità. L'altro è quello di uno storicismo che tende a misconoscere l'immagine nelle sue specificità formali. Gli esempi abbondano. Va notato soprattutto, in proposito, che certe importanti opere d'arte hanno suscitato nei commentatori abusive generalizzazioni sull'"invisibi40. Qui sta, a mio avvi.so, il vero limite deJJe pur pregevoli ri.Oessioni di G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., pp. 8, 49: "Questa verità è[ ... ] inimmaginabile [... ].La Gorgona e colui che l'ha vista, il musulmano e colui che testimonia per lui, sono un unico sguardo, un'unica impossibilità di vedere". Parlare così significa, tra le tante cose, ignorare tutta la produzione fotografica di Éric Schwab: ebreo, catturato dai tedcS0

SIMILE, DISSIMILE. SOPRAVVISSlJl'O

Immagini inutili, allora? Niente affatto. Esse sono infinitamente preziose oggi. Ed esigenti oltretutto, poiché esigono da parte nostra lo sforzo di fare gli archeologi. Dobbiamo ancora scavare, infatti, nella loro fragile temporalità. "La vera immagine del passa- · to appare come un lampo. Immagine che sorge solo per eclissarsi nell'istante seguente, per sempre. La verità immobile che aspetta solo lo studioso non corrisponde affatto a questo concetto di verità in storia, che ha a che fare piuttosto col verso cli Dante: è un'altra immagine unica, insostituibile, del passato che svanisce in ogni presente che non ha saputo riconoscersi in essa. »>1 NuJ!e p~rt trace ~e vie, ditcs-vou~, pah, I~ belle affatre, unagmauon pas morte, s1, bon, unagination morte imagincz."

(2000-2001)

* 28. Z. Gradowski, citato da B. Mark, Des voix dons '4 nuit, cit., pp. 241-242. Nella sua introduzione Ber Mark segnala quest'altro fatto atroce: dopo la guerra "intere bande di saccheggiatori si avventarono sul campo abbandonato, frugando dappcnutto, cercando soldi, oro, oggetti di valore, illusi dalla leggenda secondo la quale gli ebrei si erano ponati ~ dei tesori. Scavando attorno ai crematori, trovarono i manoscritti, oggetti senza valore per loro, che dunque distrussero o genarono" (p. 180). 29. Molte altre non arrivarono mai: "Sfortunatamente, la maggior parte dclk fotografie spedite oltre il filo spinato si persero, e solo alcune ci sono giunte" (R Boguslawska-Swicbocka, T. Ceglowska, KL Auschwitz. Fotografie dokummtalne, cit.). 30. Cfr. D.S. Wyman, I.:Abandon des Jui/s. Les Américains et '4 solution finale (1984), tr. fr. Flammarion, Paris 1987, pp. 373-397.

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31. W. Bcnjamin,Su/ conce/lo di storia, cit., p. 65. 32. S. Bcckctt, Tetes-Mortes, Minuit, Paris 1972, p. 51.

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PARTESECONDA

MALGRADO TUTI'A L'IMMAGINE

Il problema è che si è giunti" all'immagine con l'idea di sintesi. [ ...] L'immagine non è una cosa, bensl un ano. Jean-Paul Sartre, L'immaginazione

5 IMMAGINE-FATTO O IMMAGINE-FETICCIO

Dato che deduceva dallo studio di un caso specifico una revoca in questione più generale dd doppio regime - storico ed estetico - dell'inimmaginabile, il testo che si è appena letto si prestava naturalmente a discussione. Ma se gli storici non hanno avuto troppo da ridire sull'archeologia visiva che veniva ll proposta, semplicemente perché la disciplina storica, oggi, riconosce essa stessa il suo notevole ritardo nd campo delle immagini ed è ben intenzionata a colmarlo,' la revoca in questione dell'inimmaginabile estetico - negatività sublime, assoluta, che sfocia in una contestazione radicale dell'immagine e dovrebbe riuscire per taluni a rendere conto della radicalità stessa della Shoah - ha scatenato invece una violenta reazione polemica, di cui si può trovare traccia in due lunghi articoli pubblicati su Les Temps modernes di marzo-maggio 2001 e firmati rispettivamente da Gérard Wajcman e da Elisabeth Pagnoux.2 Qual è il punto dd contendere? Per dare un'idea degli argomenti svolti e dd tono assunto dai miei critici non potrò fare a meno di basarmi sui loro testi, che contengono una vera e propria escalation di accuse nei miei confronti. Il "rischio di sovrainterpretazione", secondo Gérard Wajcman, è solo il difetto più trascurai. C&. ad esempio il recente numero speciale "Image et histoire• delJa rivista Vingtième Siècle, n. 72, 2001, a cura di L. Bertrand-Dorléac, C. Dclagc, A. Gunthert. Sui problemi teorici posti dal ruolo delJe immagini in storiografia, anche nella scuola delJeAnnales, e&. G. Dicli-Huberman, Devant le temps. Histoirede l'art et anachronisme des images, Minuit, Paris2000, pp. 9-55. 2. G. Wajcman, "De la croyance pbotographique", in Les Temps modemes, LVI, 2001, n. 613 , pp. 47 -83; É. Pagnoux, "Reporter photographe à Auschwitz", in Les Temps modernes, LVI, 2001, n. 613, pp. 84-108.

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MALGRADOnrITA L'IMMAGINE

IMMAGINE-FAITO O IMMAGINE-FETICCIO

bile della mia analisi. Assai più gravi sono • gli errori di pensiero", il "ragionamento fatale" e la "logica funesta" che confinano vuoi con la "fesseria" vuoi con la "menzogna rassicurante".' Per lanciare uno "slogan" del genere contro l'inimmaginabile della Shoah, io non avrei fatto che "negare tutto in blocco, le tesi e i fatti": la mia sarebbe l'opera di un "awenturiero del pensiero". Tutta questa "promozione dell'immaginazione" non sarebbe altro che un "appello all'allucinazione", una "macchina di fantasmi" che "spinge a una identificazione per forza di cose ingannevole" .4 In veste di psicologo, Wajcman ci tiene a sottolineare poi "l'esaltazione un po' infantile" di un'argomentazione che "crede di distruggere un tabù":

E questa perversità fondamentale Wajcman la definisce "pensiero intriso di cristianesimo", "china verso la cristianizzazione". La "passione dell'immagine" è infatti, a suo avviso, "intimamente cristiana": essa • infiltra e impiastra tutto ciò che dalle nostre parti concerne le immagini". Queste "litanie", questo "piagnucolio virtuoso" davanti alla quattro fotografie scattate dai membri del Sonderkommando, il "tono profetico" della loro descrizione, tutto ciò non fa che esprimere "un'elevazione dell'immagine a reliquia" tipica della religione cristiana.8 E ciò spiega forse perché Wajcman a un certo punto mi voglia imporre tutta una serie di orpelli agiografici:

Didi-Hubennan sembra come trascinato, assorbito, travolto da una sorta di oblio di tuno, sopranutto dell'essenziale[. ..). È come se fosse preso da un sonno ipnotico che non gli consente più di riflenere se non in termini di immagine, di simile. E si resta stupiti di fronte al valore, al potere quasi divino conferito all'immagine dell'uomo.'

Georges Didi-Huberman, sopra l'armatura di San Giorgio, sembra indossare la pelle di montone di un San Giovanni col dito puntato, e sopra ancora l'abito smesso di un San Paolo che annuncia al mondo la venuta dell'Immagine.'

In qualità di professionista - in qualità cioè di psicoanalista cli· nico - Gérard Wajcman precisa meglio ciò che intende per "oblio di tutto": la • regressione di questo discorso", egli sostiene, ha qualcosa di perverso. È una "feticizzazione religiosa" dell'immagine, "una sorta di diniego alla luce del giorno, quasi esibito, se non inconscio, quantomeno scervellato" ... Di qui l'idea che l'attenzione prestata alle quattro foto dell'agosto 1944 si apparenti al • diniego feticista" mediante il quale un soggetto perverso "espone e adora, come altrettante reliquie del fallo mancante, scarpe, calze o mutandine".6 Ma non basta. La perversione sessuale - una malattia dell'animo - si rivela in questo caso ancor più grave, poiché !'"incanto magico" del feticista si abbina anche alla perversità, cioè a un'autentica ciarlataneria del pensiero, a un "gioco di prestigio" intellettuale. Nell'esercizio di "gran volteggio sofistico" su Auschwitz si celerebbe un "inganno sulla merce", una "pubblicità menzo7 gnera" sulle immagini dei campi di stenninio nazisti. 3. G. Wajcrnan, "Ocla croyancc photographigue", cit., pp.51-53, 70, 80. 4. Ibidem, pp. 49-51, 70. 5. Ibidem, p. 75. 6. Ibidem, pp. 50, 81, 83. 7. Ibidem, pp. 54, 65-66.

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È già abbastanza, senza dubbio, ma non basta. Occorre anche insistere sul pericolo sociale, etico e politico di questa • fede nelle immagini", di questo• Annuncio dell'Immagine". Gérard Wajcman diagnostica nella mia analisi delle quattro foto dell'agosto 1944 - e nel mio "rifiuto aggressivo, bisogna pur dirlo, dell'idea che ci sarebbe Il qualcosa di irrappresentabile" - una "incoronazione del pensiero unico", una • giustificazione quasi insperata dell'amore generale per l'immagine" così diffuso nel mondo moderno. Ed ecco allora l'attenzione visiva ridotta a un "ideale televisivo": dopo aver "riscoperto le virtù dei bei ricordi degli album fotografici, [...) Georges Didi-Huberman si compiace nel lusingare le nostre inclinazioni più rudimentali,[ .. . ) così da soddisfare la voglia di non vedere nulla, di chiudere semplicemente gli occhi". '0 Culto generalizzato dell'immagine da una parte, capacità annullata di aprire gli occhi dall'altra. Il risultato, al di là di una "funesta confusione", è un pericolo politico e morale quanto mai dannoso: "una leggerezza dawero colpevole, funesta", "un pensiero piuttosto inquietante", "un controsenso totale e realmente pericoloso", che nasconde "un 8. Ibidem, pp. 51, .5.~. 57, 63-64, 70, 72, 83. 9. Ibidem, pp. 60-61. IO. Ibidem, pp.58, 60, 64, 72, 75-76.

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fondo inquietante di accecamento [di una] gravità evidente".' 1 Un pensiero dell'immagine è un pensiero del simile: Wajcman ne deduce che si tratta per questo di un pensiero che assimila tutto. Dinan~i alla situazione analizzata - quella del Sonderkommando di Auschwitz -egli vedrebbe affiorare l'" idea abietta" che, in nome dell'immagine, assimila il carnefice alla vittima e confina con la generale cristianizzazione, ossia con l'antisemitismo e il rovesciamento dei ruoli nell'attuale conflitto israelo-palestinese:

rifiutarsi di tradursi in [. .. ] interpretazione". Allo stesso tempo, l'analisi visiva può essere definita pure una iper-interpretazione (quella che Wajcman chiama una "sovrainterpretazione") poiché si tratta solo di "ricostruzione, finzione, creazione", che a sua volta - ennesimo rovesciamento di prospettiva - rivela un autentico "accanimento nel distruggere lo sguardo". L'attenzione per la storia, poi, si ribalta in un "annullamento della memoria" e in un "ostacolo all'awento del passato".1• Annullare la memoria: alla vacuità interpretativa si sovrappone nuovamente l'infamia politica e morale.L'analisi delle fotografie di Auschwitz sarebbe "totalmente fuori luogo", "nefasta e propizia solo alla riformulazione di discorsi deleteri" - antisemitismo o negazionismo. Per essere più precisi, il metodo di questa analisi, dai meccanismi difettosi, discredita la parola dei testimoni, per non fare altro che negarla alla fine: "sufficienza di un presente che cerca di soppiantare le testimonianze":1'

In questo walzer dei possibili in cui ciascuno è il simile dell'altro, era fatale che si giungesse all'idea abietta dello scambio infinito e reciproco dei ruoli tra il carnefice e la vittima.( ... ] In tutto questo c'è qualcosa di insopportabile, anche se si tratta solo di un errore, di una menzogna, di un'illusione - di un errore di pensiero, di una facile menzogna e di illusione alienante. [. ..] Non ci vedo necessariamente l'espressione di un antisemitismo rampante, quanto piuttosto l'effetto di un'inclinazione quasi irresistibile, che si registra anche tra gli ebrei confessi, a "cristianizzare" il dibattito sulle immagini in generale. [...] Si tratta senza dubbio della stessa pulsione che spinge a denunciare ( ... ] uno Stato di Israele che si comporta "peggio dei nazisti" coi palestinesi, i quali sarebbero i veri ebrei del nostro tempo."

Élisabeth Pagnoux aggiunge a queste accuse altre venticinque pagine dello stesso tenore. Esagera ancor di più sull'inganno che a questo punto diventa un "duplice inganno" - e fustiga "l'accanimento nel costruire il niente" correndo il rischio di "confondere tutto[ ...] per consolidare un vuoto". Insiste inoltre sulla "piroetta intellettuale", il "gioco di prestigio" e il "flusso narrativo che confonde i tempi, impone un senso, inventa un contenuto [e] si accanisce a colmare il niente, anziché affrontarlo". n Colmare il niente: il tentativo di ricostruzione storica delle 9uattro foto dell'agosto 1944 è dotato infatti solo, agli occhi di Elisabeth Pagnoux, di un'"apparenza di scientificità" ispirata al lavoro documentario diJean-Claude Pressac, con "vertici di vacuità tecnicizzante". Il suo carattere ipotetico è "senza fine" e si limita dunque a "circolare senza fine nella vanità della congettura [e a] li. Ibidem, pp. 50,53, 67, 72, 81. 12. lbidem, pp. 62-63, 70. L'ultima affermazione è ripe1u1a a p. 74: "Questa assenza di pensiero [. ..] è la stessa che oggi fa dei palestinesi gli ebrei dd nostro tempo e degli israeliani i nuovi nazisti•. ' 13. È. Pagnoux, "Reponer photographe à Auschwitz", cit., pp. 87, 90, 103, 106.

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Georges Didi-Huberman assume la posizione del testimone [. ..], usurpalo statuto di testimone. Scia fonte è perduta, la parola è negata. (. ..] Guardare la foto e credersi in essa. La distanza, ancora una volta, è negata. Rendersi testimoni di questa scena, oltre a essere una semplice invenzione (perché il passato non può essere rianimato), significa distorcere la realtà di Auschwitz, che fu un evento senza testimoni. Significa colmare il silenzio. [...] All'estremo della confusione, Georges Didi-Huberman, qualche riga prima della 6.ne del suo articolo, dà il colpo di grazia ai testimoni e alla parola dichiarando: "sono loro le sopravvissute". 16

Il diniego dei testimoni, ossia la perversità morale, completa cos1 l'opera di diniego della realtà, ossia la perversione feticista. Élisabeth Pagnoux scorge infatti anche lei nell'attenzione visiva prestata alle quattro foto del Sonderkommando una forma di "voyeurismo".e di "godimento dell'orrore", un "discorso fuori luogo", un fantasma perverso "pieno di ossessioni", una "finzione" del passato mescolata - va a sapere perché - col "presente umanitario". 17 Ed estendendo l'anatema al catalogo della mostra 14. lbidem,pp. 93-94, 98, 102-105. 15. lbidem, pp. 91, 93,103. 16. lbidem, pp.105-108. 17. lbidem, pp. 94,102, 106-107.

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in cui il mio saggio era stato pubblicato Élisabeth Pagnoux ribadisce ulteriormente la sua condanna morale, deprecando l'attenzione rivolta alla storia della fotografia dei campi:

mulo affatto l'"idea abietta" di cui egli parla- "lo scambio infinito e reciproco tra la vittima e il carnefice" -, ma semmai l'idea contraria? Basta rispondere a Élisabeth Pagnoux che la sua accusa di "arroganza" teorica sarebbe forse meno azzardata se, armata della sua domanda dirimente - "E d'altronde, che cosa signifi. ca sapere?" -, si fosse degnata di aprire i libri che ho dedicato a questo problema in riferimento al campo visivo, visto che lei, per quanto ne so, non ha nemmeno abbozzato una risposta? Per quanto mi riguarda, davanti alle quattro foto di Auschwitz, ho semplicemente tentato di vedere per sapere meglio. E che si può rispondere a coloro che vedono male ogni tentativo del genere? C'è comunque molto da dire, al di là di una semplice replica duale e del rischio concomitante e allettante di rinviare le accuse al mittente. Teniamo a mente quell'immagine di Goya in cui due lottatori irsuti si sfiancano l'un l'altro a colpi di bastone, senza accorgersi che sprofondano assieme nelle sabbie mobili. Quel che voglio dire è che bisognerebbe interrogarsi sui luoghi comuni e le trappole sotterranee di una simile controversia, cosl mobile, così sbieca, così insidiosa proprio perché sbieca. La sua violenza - notiamolo - attinge, nei suoi aspetti più offensivi e talvolta indegni, alla retorica delle dispute politiche, mentre in questione ci sono immagini e storia di sessant'anni fa: indice sicuro che il pensiero delle immagini, oggi, appartiene in larga misura al campo politico.20 Questa violenza polemica, tuttavia, è dovuta innanzitutto al suo stesso oggetto: come se alle immagini fotografiche del terrore nazista non potessero rispondere che sguardi tesi - per empatia o, viceversa, per rigetto -, interpretazioni inquiete fino alla violenza, fino alla crisi del discorso stesso. Se ho scelto di analizzare le quattro foto dell'agosto 1944, è proprio perché esse costituiscono, nel corpus conosciuto dei documenti visivi dell'epoca, un caso estremo, una singolarità che turba: un sintomo storico idoneo a rovesciare, e dunque a riconfigurare, il rapporto che lo sto-

[. .. ) siamo ai limiti dello scoop, cosi come siamo ai limiti dello sco~ento. [. .. ) siamo scandalizzati. Di che novità dovrebbe trat• tarsi? Che dovrebbe aggiungere una foto in più? Sappiamo assai di più di quanto possano dire le foto una ad una ... E d'altronde, che cosa significa sapere? Siamo scandalizzati perché è davvero chiaro che la presunta novità del contenuto e dello sguardo è intrisa di arroganza, di presunzione, per non dire di manipolazione. [ ... ) Auschwitz, un oggetto fotogenico? [. .. ) Siamo scandalizzati. Delle donne camminano verso la camera a gas. Salvo essere tra coloro che esultano dinanzi all'orrore, sarebbe già un motivo sufficiente per non recarsi alla mostra. Per chi custodisce la memoria del crimine l'idea di guardarne ancora un'immagine - l'idea di guardare ancora queste immagini che del resto erano perfettamente note - è insop• portabile e una foto non aggiunge nulla a quanto già sappiamo. [. .. ) Sulla negazione della distanza che separa l'oggi e lo ieri si edifica una menzogna davvero ignominiosa, che ostacola oltretu tto ogni auten• tico processo di trasmissione. Una duplice menzogna, una confusio• ne che pervade tutta questa impresa perversa: non possiamo entrare dentro una camera a gas. [ ... ) Non si riassume Auschwitz, non si feticizza, non si museifica, per metterci la parola fine. 1•

* Bisogna davvero rispondere? Si può discutere sulla base di una lettura del genere? Si deve obiettare a un attacco che sfigura gli argomenti e preferisce andarci pesante sul piano personale (ad esempio, come fa Wajcman, cercando di impormi d'autorità un quadro clinico di feticista e uno statuto morale di rinnegato, di ebreo "cristianizzato", oppure, come fa Pagnoux, reclamando, senza svolgerla, un'inchiesta sulle origini del mio discorso, a tal punto le sembra "piovuto dal nulla")?' 9 Di sicuro, posso discutere con qualcuno che dichiara "discutibile" la mia analisi, ma posso farlo se il contraddittore fa della mia persona l'incarnazione stessa dell'errore o, peggio, dell'infamia morale? Basta, ad esempio, ritorcere a Gérard Wajcman che io non for18. Ibidem, pp. 84-85, 89-90, 95. 19. lbidem, pp. 91, 105.

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20. Lo avevo già verificato dieci anni fa in occasione di un'altra polemica sullo statuto dell'anc contemporanea: d r. G. Didi-Hubcnnan, "D'un ressentimcnt en mal d'esthétique ", in Les Cahiers du Musée 11ational d'Art moderne, n . 43, 1993, pp. 102-118 (edizione ampliata con un "Post-scriptum du ressentiment à la Kunstpoliti!t", in Lig11es, n. 22, juin 1994, pp. 21-62). Cfr. anche, per una formulazione filosofica di questo problema, J. Rancière, Le Partage du sensib/e. Esthétique et politique, La Fabrique, Paris 2000.

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rico delle immagini intrattiene di solito coi suoi oggetti di indagine. In tal senso vi è allora anche, in questo caso estremo, qualcosa che mette in questione il nostro vedere e il nostro sapere: un sintomo teorico che, come la querelle stessa pone in evidenza, ci agita insieme-sullo sfondo della nostra comune storia. 21 Gérard Wajcman pensa che questa singolarità - visiva, fotografica - non ci insegni nulla che già non sappiamo e, peggio ancora, che essa induca lo spettatore alla captazione, all'errore, al fantasma, all'illusione, alla credenza, al voyeurismo, al feticismo ... Insomma, all'"idea abiettan. Ecco perché Wajcman ha bisogno, con le foto di Auschwitz sotto gli occhi, di ripetere ad alta voce ciò che in molti avevano già affermato tempo addietro: "Non ci sono immagini della Shoahn. Così comincia, o forse ricomincia, il suo testo polemico.22 Ma analizziamo meglio come stanno i fatti. Wajcman non dice una ma più cose - talvolta a sua insaputa - a panire da una sola frase chiave. Nel giro di qualche pagina, possiamo leggere: "Non ci sono immagini della Shoahn. Poi al singolare: "Non c'è immagine della Shoahn. Poi in maniera ellittica: "Non c'è immaginen. E infine metafisicamente: "Non c'è".n La prima affermazione dovrebbe denotare un/atto preciso (anche se rivedibile, ammette Wajcman) che concerne il sapere storico: "Non si ha notizia, sino a oggi, di foto o di filmati che mostrino la distruzione degli ebrei nelle camere a gas".24 Questa sarebbe la versione fattuale dell'inimmaginabile, di cui lo stesso Wajcman sembra dubitare in altre versioni della stessa ipotesi.2' Se la controversia venesse solo sulla fattualità, potremmo chiuderla fi: semplicemente non ci siamo intesi sull'immaginato de/l'immagi-

ne, vale a dire sull'estensione della parola "Shoah". Wajcman in-

21. Questa disputa è stata già, dd resto, resa oggeno di un'analisi sociologica: cfr. J. Walter, •Mémoire descamps: une exposition photographique exposéc", in I. Dragan (a cura di), Redéfinition des territoires de la communication, Tritonic, Bucarest 2002, pp. 367-383;}. Walter, "Un témoignage photographique sur la Shoah: des violences en retour?", in P. Lardcllie.r (a cura di), Violences médiatiques. Ccntenus, dispositi/s, ef/ets, L'Harmanan, Paris 2003, pp. 133-155. 22. G. Wajcman, "De la croyance photographique", dt., p. 47. 23. Ibidem, pp. 47-49, 54 ("il fatto accertato, il fatto reale, assolutamente al di là di ogni volontà, di ogni coscienu e di ogni inconsdo, che non c'è immagine[ ... ), fano reale che non c'è"). 24. Ibidem, p. 47. 25. G. Wajcman, "'Saint Paul' Godard contre 'Mo"ise' Lanzmann•, in L'ln/ini, n. 65, 1999, p. 122: "Chiaramente, non mi metto a discutere se esistano o meno immagini delle camere a gas. Non ne so nulla".

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tende parlare dell'operazione e del momento assolutamente specifico del gasaggio degli ebrei, di cui non esistono in effetti documenti fotografici. Dal canto mio, considero invece la "distruzione degli ebrei d'Europa", in linea con Raul Hilberg, come un fenomeno storico assai più largo, complesso, ramificato, multiforme. Ci sono state, nella storia del nazismo, un'infinità di tecniche per portare a termine la sinistra "Soluzione finale", oscillanti tra il male radicale e la banalità più sconcenante. In tal senso, si è autorizzati a dire che ci sono davvero - e in numero cospicuo - immagini della Shoah. Chiaramente, non ho mai sostenuto che le quattro foto dell'agosto 1944 mostrassero il gasaggio vero e proprio. Ma esse mostrano comunque due momenti essenziali del "trattamento speciale" (Sonderbehandlung), con le vittime condotte nude verso la camera a gas, mentre altre vittime, già gasate, bruciano nelle fosse di incinerazione esterne al crematorio V di Birkenau (figure 3-6). A Gérard Wajcman occorrevano alcuni errori storici per fondare la sua prima affermazione (fattuale, storica) trasformandola in verità universale. "Non c'è immagine della Shoah", egli scrive, perché "i nazisti si sono preoccupati di non lasciare traccia alcuna e hanno vietato con rigore ogni·immagine"; ma noi sappiamo che in realtà questo divieto fu aggirato dai nazisti stessi e in via eccezionale - nel caso in questione - dai membri del Sonderkommando. Wajcman offre poi una seconda ragione: "poiché non c'era luce nelle camere a gas"; ma ciò è semplicemente falso. 26 lnfine: "poiché a cinquant'anni di distanza si sarebbe già trovato qualche cosa";27 ma questo qualcosa sono appunto i quattro lembi fotografici noti sin dal 1945. Qui, Wajcman ha già abbandonato l'ordine dei fatti puri e semplici: un ordine "rivedibile" non è abbastanza ai suoi occhi. 26. Ibidem, p. 122. Cfr. a contrario le testimonianze raccolte per esempio in E. Klce, W. Dressen, V. Riess, Pour eux "e'était le bon temps•. La vie ordinaire des bourreaux nazis (1988), tr. fr. Plon, Paris 1990, p. 216; tr. it. "Bei tempi": lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l'ha subito e da chi stava a guardare, La Giuntina, Firenze I996. Cfr. anche i disegni di David Olère, in D. Oler, A. Oler, Witness. lmages o/ Auschwitz, West Wind Prcss, Ridùand Hills 1998, pp. 25-27, in cui il raggio della plafoniera è intenso tanto all'entrata nella camera a gas quanto al momento della gassificazione. 27. G. Wajcman, "'Saint Paul' Godard contre 'Mo'ise' Lanzmann", cit., p. 122.

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Non ci vuole "un fatto, ma una tesi, che non sia esatta, ma vera, che sia assoluta e non riveclibile" .28 Che significa allora la tesi "Non c'è immagine della Shoah"? Due cose. Da una parte, una trivialità cli buon senso, un'evidenza filosofica nota sin dall'alba dei tempi, ossia che "non tutto il reale è solubile nel visibile", che "l'immagine è impotente a trasmettere tutto il reale" .29 Ma chi ha mai detto il contrario? Se la controversia riguardasse solo questa verità, potremmo chiuderla Il: semplicemente non ci siamo intesi sull'immaginante dell'immagine, cioè sull'estensione delle parole "immagine" e "reale". Si tratta cli una doppia operazione intellettuale: Wajcman assolutizza il reale, "tutto il reale", per meglio rivenclicarne i cliritti; e poi assolutizza l'immagine come un'"immagine tutta", per meglio revocarla in questione. Da un lato, egli climentica così la lezione cli Bataille e cli Lacan, secondo il quale il reale, essendo "impossibile", esiste solo manifestandosi sotto forma di pezzi, cli lembi, cli oggetti parziali. Dall'altro, finge di ignorare che io stesso ho tentato cli riflettere sulla natura essenzialmente lacunosa delle immagini. Pur non esitando a utilizzare la mia critica del visibile nei suoi recenti commenti a Duchamp e Malévitch/ 0 quando si parla cli Shoah mi accusa invece cli nutrire una fiducia - una "fede" - allucinatoria nel visibile. Come non scorgere un venticello cli clisonestà in tutto questo? E come non scorgervi anche una grande ingenuità? Wajcman crede che un atto filosofico si misuri dalla sua "radicalità" o "assolutezza". Di conseguenza, egli assolutizza e raclicalizza tutto, infarcendo le sue frasi cli segnali così retorici e insistenti da risultare alla fine inconsistenti: "necessario", "integrale", "solo", "unico", "tutto", "assolutamente", "non riveclibile", "lo so", "è tutto" ecc. Ad alcune immagini particolari Wajcman vuole contrapporre il tutto indifferenziato cli un "solo oggetto [ ... ] , vero

oggetto, oggetto reale[ ... ], unico oggetto. Irriducibile. Il solo oggetto che non si possa clistruggere né climenticare. L'Oggetto assoluto [ ....] , impensabile [. .. ), senza nome e senza immagine" ... che egli battezza, con un gioco cli parole quantomeno cliscutibile, "O.A.S." vale a clire: "Oggetto-Arte-Shoah"." Ora, è proprio a questo punto, per un'entità del genere, che l'inimmaginabile cliventa irnprescinclibile. È per questa entità che l'inimmaginabile si assolutizza, senza più eccezioni, finendo per estendere la sua tirannia all'"irrappresentabile", all'"infigurabile", all'"invisibile" o all'"impossibile".'2 Ma allora, sulla Shoah, ci possono solo essere giudizi cli inesistenza oppure di totalità? Eccoci nel cuore della controversia. Tutto sta nell'espressione malgrada tutto che accompagna, nel mio titolo, la parola immagini: non si tratta cli immagini cli tutto (della Shoah intesa come un assoluto), ma cli immagini malgrada tutto. Il che significa: strappate, correndo rischi inauditi, a un reale che esse non avevano certo il tempo di esplorare- cli qui l'inanità del titolo di Élisabeth Pagnoux: "Reporter fotografo ad Auschwitz" - ma cli cui esse riuscirono in qualche minuto a catturare in maniera lacunosa e sfuggente qualche aspetto. Wajcman, invece, rifiuta in linea cli principio di situare questo malgrada tutto nella storicità della resistenza ebraica ad Auschwitz, decisa a emettere qualche segnale visivo sulla macchina assassina in cui si sapeva ormai perduta. Là dove l'espressione malgrada tutto tentava cli dire l'atto produttivo di queste stesse immagini- un atto cli resistenza ad Auschwitz nel 1944 - Wajcman preferisce prenderla per una semplice opinione sull'immagine in generale - un gesto cli arroganza teorica a Parigi nel 2001: "Malgrado tutto cosa? Malgrado il fatto che la Shoah sia inimmaginabile, malgrado tutto e malgrado tutti"." Questo malgrado tutto si riduce così subito alla formula stilistica cli uno "slogan", di un "incantesimo magico" o di una "soluzione miracolo" delle aporie della Shoah intesa come concetto filosofico dell'età postmoderna. 34 Questo rifiuto di comprendere il punto cli partenza si spiega, chiaramente, col rifiuto cli ammettere il punto cli arrivo. Parlando

28. G. Wajcman, "Dc la croyance photographique", cit., p. 47. 29. Ibidem, pp. 47, 63 (corsivo mio). 30. G. Wajcman, I:Objel du siècle, Verdier, Paris 1998, pp. 92-133 ("Ricn à voir") che si può mettere a confronto con Ce que nous voyons, ce qui nou, regartk, Minuit, Paris 1992, pp. 53-85 ("La dialectique du visuel, ou le jeu de l'évidcmcnt"); oppure pp. 171-187 ("La ressemblance moderne" comme "déchiremcnt de la res• semblance") che si possono mettere a confronto con La Re»emb/ance informe, ou le gai savoir visuel selon Georges Bataille, Macula, Paris 1995, pp. 7•30 ("Commcnt déchire+on la ressemblance?").

3 I. G. Wajcman, I:Objel du ,iècle, cit., pp. 25, 237-238. 32. G. Wajcman, "Dc la croyance photographique", cit., pp. 47-48. 33.G. Wajcman,p.48. 34. G. Wajcman, pp. 49, 54.

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di due "epoche dell'inimmaginabile", ho voluto prendere in esame, uno dopo l'altro, due contro-esempi che si stagliano contro entrambi questi esempi: anzirurto, il malgrado tutto della storia stessa, che denota la resistenza politica, eroica, di quanti riuscirono a scartare le quattro fotografie di Birkenau in pieno funzionamento; e poi, il malgrado tutto dd pensiero che ne interroga la memoria, quella che scorge nd fatto storico singolare un'eccezione teorica in grado di modificare l'opinione preesistente sull'"inimmaginabile". Se Gérard Wajcman propone la sua verità come "tesi non rivedibile", dimostrando tra l'altro una bella indifferenza per l'esattezza dei farti - dato che dichiara di "non saperne nulla", ma che poco importa in ogni casoH -, ciò significa che egli vuole dissociare a ogni costo la storia dal concetto. Ed è disposto a buttare al vento le singolarità ddla prima per salvare solo la generalità dd secondo. Non vede alcuna soluzione di continuità, alcuna trasmissione possibile, tra il tentativo dei prigionieri di Auschwitz di estra"e delle immagini per dare a vedere qualche cosa della macchina dello sterminio, e il tentativo storico, compiuto parecchi anni dopo, di estra"e da queste immagini qualche cosa da offrire alla nostra comprensione, mai completa, della Shoah. Il nodo della controversia sta dunque in una valutazione diversa dei rapporti tra la stona e la teoria (questione che spesso riemerge nei dibattiti sullo statuto epistemico delle immagini), così come sta in una valutazione diversa dei rapporti tra il singolare e l'universale. E perfino nelle sue conseguenze etiche ed estetiche questa querelle non cessa in fondo di riproporre la questione dei rapporti tra il fatto singolare e la tesi universale. Per Wajcman, le quattro foto dell'agosto 1944 sono magari un fatto storico, ma non possono comunque derogare alla verità generale di un'immagine già pensata: solo che l'immagine, per lui, non è che inganno, disconoscimento, captazione, alienazione, menzogna. E significativo che Wajcman non abbia voluto criticare l'articolazione interna della mia analisi delle quattro immagini di Auschwitz: se l'avesse fatto, avrebbe dovuto proporre un'interpretazione differente o divergente, un'analisi visiva o evenemenziale alternativa. Mentre egli si limita in effetti a contestare quest'analisi nel suo principio stesso, non solo, ma a contestare ogni sguardo rivolto a

tali immagini. Di modo che, alla fine, egli le annulla come fatti storici: "Il punto è che non c'era nulla da vedere" nella Shoah, leggiamo infarti.~ . lo sono partito da un presupposto differente e, senza dubbio, ancor più pessimista: c'era da vedere, eccome. C'era da vedere, da sentire, da capire, da dedurre da quanto si vede e da quanto non si vede (i treni che arrivavano pieni e che ripartivano vuoti, senza interruzione). Il che però, per lungo tempo, è rimasto curiosamente escluso dalla sfera dd sapere. Si vedevano, malgrado ogni censura, dei segmenti della "Soluzione finale": ma non lo si voleva sapere. Ora, così come la radicalità dd crimine nazista ci obbliga a ripensare il diritto e l'antropologia (sulla scia di quanto ha mostrato Hannah Arendt); e così come l'enormità di questa storia ci obbliga a ripensare il racconto, la memoria e la scrittura in generale (sulla scia di quanto hanno mostrato Primo Levi e Paul Cdan, ciascuno a modo suo); allo stesso modo !'"inimmaginabile" di Auschwitz ci obbliga, non a diminare, bensì a ripensare l'immagine quando un'immagine di Auschwitz, per quanto lacunosa essa sia, ci cade all'improvviso sotto gli occhi. Le quattro foto scartate nell'agosto 1944 dal Sonderkommando del crematorio V sono l'eccezione che ci impone di ripensare la regola, il fatto che ci impone di ripensare la teoria. J.:immagine risolta dalla propria regola o dalla propria "tesi non rivedibile" doveva fare spazio, ndla mia mente, a una questione nuova e irrisolta: questione che rivda tutta la posta in gioco teorica di una immagine npensata interminabilmente. Non è ingiusto e perfino crudde, in nome di un concetto autoritario, contestare il progetto - magari utopico - dei membri del Sonderkommando di Auschwitz? Se il rischio che hanno corso è indice della loro speranza in questa trasmissione delle immagini, non dobbiamo prendere sul serio questa stessa trasmissione, prestando la massima attenzione alle immagini in questione, non come se si trattasse per forza di un inganno, ma come se si trattasse di quegli "istanti di verità" di cui Arendt e Benjamin hanno sottolineato l'importanza? I miei due critici, a quanto pare, sono stati a tal punto offesi dalla mia obiezione alla "tesi dell'inimmaginabile" che hanno ri-

35. G . Wajcman, "'Saint Paul' Godard con1re ' Mo,se' Lanzmann", cit., p. 122.

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36. G. Wajcman, I.:Objet du siècle, cit., p . 239.

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fiutato di comprenderla e accettarla per ciò che essa è. Non ho contestato l'inimmaginabile con la stessa assolutezza con la quale loro hanno contestato il mio argomento. Entrambi confondono criticare con rigettare, rimanendo bloccati nella pseudo-radicalità del tutto o niente. Il mio tentativo - sapere qualcosa di specifico a partire• da talune immagini - muoveva esplicitamente dall'idea che "immaginare ciò comunque[ .. . ] noi non lo possiamo, non lo potremo mai fare fino in fondo" . Non ho dunque mai rigettato l'inimmaginabile come esperienuz. "Inimmaginabile" è stata anche una parola necessaria ai testimoni che si sforzavano di raccontare, come pure a quanti si sforzavano di ascoltarli. Quando Zalmen Lewental inizia il suo racconto del peggio, previene il lettore che nessuno può immaginarsi una simile esperienza: ecco perché la racconta malgrado tutto, finché la nostra anima sia definitivamente abitata dalle immagini - precise ma parziali, sovrane ma lacunari - che egli ha scelto di trasmettercU 7 "Inimmaginabile" è una parola tragica: concerne il dolore intrinseco del!' evento e la difficoltà concomitante di trasmetterlo. Wajcman, facendo seguito ad altri, ne fa una "tesi non rivedibile": la parola oramai segnala lo statuto ontologico, la "purezza" dell'evento. Evento "puro da immagini", poiché "non c'era nulla da vedere". È proprio a questo inimmaginabile, all'inimmaginabile come dogma, che era rivolta la mia obiezione. Precisiamo meglio il punto, poiché non è stato afferrato bene: la critica verte sul pretesto colto al volo da Wajcman per parlare sempre in termini di regola assoluta - che si tratti di immagini in generale, di storia in generale, di Shoah in generale o di arte in generale... Davanti a questa infatuazione teorica e a questa certezza tanto grande da sdegnare perfino l'argomentazione - "è una tesi [ ... ] assoluta e non rivedibile" - ho rammentato qualche fatto storico al quale Wajcman non aveva mai prestato attenzione: qualche eccezione malgrado tutto che ha un valore critico nei confronti dell'inimma-

ginabile imposto come regola assoluta. E b isogna adesso intendere questo malgrado tutto come un un'obiezione al tutto, come un fascio di argomenti e di fatti malgrado il tutto dell'inimmaginabile eretto a dogma. · Su questo punto, Gérard Wajcman ha ben ragione di sentirsi direttamente chiamato in causa. L'inimmaginabile della Shoah significa per lui: non immaginare nulla. Non soltanto, a suo parere, "non c'era nulla da vedere": il che è falso (rileggiamo ancora una volta le descrizioni dèi membri del Sonderkommando) e in ogni caso non arresta affatto il movimento dell'immaginazione. Ma per di più immaginare risulterebbe "impossibile", "assolutamente escluso per ogni volontà, ogni coscienza e ogni inconscio": il che suona davvero strano, detto da uno psicoanalista-3 8 Non sarebbe più giusto constatare fino a che punto la Shoah investa da cima a fondo il nostro mondo immaginario e simbolico, i nostri sogni e le nostre angosce, il nostro inconscio in generale? E fino a che punto, spesso, ci sia possibile solo immaginare, il che non vuol dire ovviamente inaridire la verità di quello che si immagina? Wajcman non ha mai sentito sorgere in lui le immagini del terribile ascoltando i testimoni, i parenti, i libri di storia, le liste in cui compaiono i nostri nomi, o scoprendo i primi grandi incubi, le prime immagini animate in Nuit et brouillard, le ricostruzioni archeologiche di Raul Hilberg, gli album di Yad Vashem, le testimonianze vissute nelle immagini, nei volti e nelle parole del film

37. Z. Lewental, citato da H. Langbein, Uom;ni ad Auschwitz, cit., p. 11. Dopo l'edizione di B. Mark (Des voix dans la nuit. La résistance juive à Auschwzii-Birleen,zu, Plon, Paris 1982) si dispone onnai di una traduzione francese più completa dei Rotoli di Auschwitz a cura di P. Mesnard, C. Saleni, in un fascicolo speciale (intitolato "Des voix sous les cendres. Manuscrits des Sonderleommandos d'Auschwitz") della Revue d'histoire de la Shoah. Le monde ju,f. n. 171, 200 I. È a quest'ultima edi• zione che farò riferimento d'ora innanzi.

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Shoah? L'esistenza stessa e la forma delle testimonianze contraddicono con forza il dogma dell'inimmaginabile. È proprio in quanto esperienza tragica che l'inimmaginabile richiama il suo contrario, l'atto di immaginare malgrado tutto. È perché i nazisti volevano rendere inimmaginabile il loro crimine che i membri del Sonderkommando di Auschwitz hanno deciso di scattare malgrado tutto queste quattro foto dello sterminio. È perché la parola dei testimoni sfida la nostra capacità di immaginare quello che ci racconta che noi dobbiamo tentare malgrado tutto di farlo, per cercare appunto di capire meglio la parola testimoniale. Se produrre un'immagine fu un atto di potenza affermativa, di resistenza politica da parte dei fotografi clandestini di Birkenau, rifiutare qualsiasi immagine si ri38. G. Wajcman, " Dc la croyance photographique", cit., p. 54.

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vela oggi un atto di pura impotenza, un sintomo di resistenw psichica di fronte al terribile che da queste foto ci guarda. Un tratto caratteristico di questa "resistenza all'immagine" è che in essa si riproducono spontaneamente le forme tradizionali dell'iconoclastia politica: rifiuto in blocco, retorica della censura morale; volontà di distruggere gli "idoli", ripetizione collerica delle stesse impossibilità di principio. Ora, noi sappiamo bene che l'iconoclasta odia tanto le immagini solo perché presta loro, in fondo, un potere assai maggiore di quello che si immagina perfino l'iconofilo più convinto: è la stessa storia che si ripete, dalle dispute bizantine e dai Padri della Chiesa fino alle più recenti "guerre dell'immagine" che accompagnano attentati, massacri e conflitti armati/' Così, quando Gérard Wajcman riassume la sua tesi sull'inimmaginabile dichiarando: "Non tutto il reale è solubile nel visibile","' suppone implicitamente che la tesi opposta - da lui attribuitami- reciti: "Tutto il reale è solubile nel visibile". Egli crede dunque che l'immagine, per il suo avversario fantasmatico, risolva il reale, o ne costituisca in un certo senso l'integrale. Se l'inimmaginabile corrisponde per lui a non immaginare nulla, l'immagine corrisponderà facilmente a immaginare tutto. Ma perché creare una chimera concettuale, solo per destituirla subito di ogni fondamento? Colui che, con questa violenza, solleva dei fantasmi non prova forse così di essere il primo a esserne realmente ossessionato? In una prospettiva fantomatica come questa, che ignora ogni sfumatura teorica - e a conti fatti trascura pure ogni osservazione sensibile - l'immagine, sul piano concettuale, può essere solo un'immagine tutta. Il che permette poi di disfarsene più facilmente, in nome di "tutto il reale". Ed è proprio contro questo presupposto che ho avanzato la mia obiezione teorica dell'immagine-lacuna, considerando legittima la ricerca archeologica sul ruolo delle vestigia visive nella storia, di cui le quattro foto del

1944 offrono un esempio particolarmente eclatante. L'immagine è fatta di tutto: altro modo per segnalare la sua natura di amalgama, di scoria, di cose visibili mischiate a cose confuse, di cose ingannevoli mischiate a cose rivelatrici, di forme visive mischiate a un pensiero in atto. L'immagine dunque non è né tutto (come teme segretamente Wajcman) né niente (com'egli afferma perentoriamente). Se l'immagine fosse "tutta", bisognerebbe senz'altro concludere che non ci sono immagini della Shoah. Ma è proprio perché l'immagine non è tutta che risulta legittimo constatare quanto segue: ci sono immagini della Shoah che, pur non dicendo tutto - e tantomeno "il tutto" - della Shoah, sono comunque degne di essere guardate e interrogate come fatti precisi e come testimonianze di questa tragica storia.

39. Sull'uso e il problema delle immagini nd mondo bizantino, dr. in pa.rticola, re H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell'icona dall'età imperiale al tarde Medioevo (1990), tr. it. Carocd, Roma 2001. Su Tenulliano e il suo odio comradditto• rio dd visibile, cfr. G. Didi-Huberman, "La couleur de chair, ou le paradoxe de Tenullien", in Nouvelle Revue de Prychanalyu, n. 3.5, 1987, pp. 9-49. Sulla sopravvivenza di questi problemi teologico-politici negli attuali dibattiti dr. in panicolare M.J. Mondzain, I.:Jmage peut-elle tuer?, Bayard, Pari.s 2002. 40. G . Wajcman, "De la croyance photographique", cit., p. 47.

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* È su questo valore storico dell'immagine che ci si è interrogati, sotto la supervisione di uno storico della fotografia, Clément Chéroux, quando si è progettata la mostra allestita poi nel gennaio del 2001 col titolo Mémoire des camps:41 oltre alla mia analisi - che chiudeva il volume pubblicato in quell'occasione - è stata la mostra stessa a "scandalizzare" Élisabeth Pagnoux. Già solo il fatto di andarci equivaleva per lei a fare atto, non solo di voyeurismo, ma peggio ancora di spietato sadismo: "Salvo essere tra coloro che esultano dinanzi all'orrore, sarebbe già un motivo per non recarsi alla mostra" .◄2 Le mostre di fotografie sui campi nazisti non sono mai mancate tuttavia da cinquant'anni a questa parte: basti ricordare, in Francia, il lavoro pedagogico costante del Centre de documentation juive contemporaine, i cui pannelli fotografici hanno circolato dappertutto senza sollevare, a quanto mi risulta, proteste morali dello stesso tipo. Paradossalmente, quindi, la controversia è dovuta non tanto al fatto di esporre immagini simili - lo si è fatto sovente, con immagini perlopiù già note-, quanto al fatto che lo stesso medium fotografico è stato messo in discussione da questa iconografia così 41. C. Chéroux (a cura di), Mémoire des camps. Photographies des camps de concentraticn et d'extermination nazis (19)3-1999), Marval, Paris 2001. 42. É. Pagnoux, "Reponer phorographe à Auschwitz", cir., p. 89.

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spaventosa. Questa è la "novità" che ha scioccato i due censori. È come se ci si scandalizzasse che un linguista osi prendere in esame le testimonianze scritte sulla Shoah. Ciononostante, questo genere di iniziativa corrisponde a una certa evoluzione attuale della storiografia sui campi di concentramento e di sterminio nazisti.•' Nel suo recente libro sulla questione delle "fonti", Raul Hilberg ha insistito sul problema cruciale dei materiali documentari, e in particolare dei "materiali visivi", parlando sia della ricorrente difficoltà nel "decifrare ciò che si vede" in una fotografia, sia della necessità di accostarsi a un tipo di documenti di cui "le parole restituirebbero male la ricchezza di contenuto".◄Era dunque abbastanza ovvio che gli storici del nazismo si confrontassero con alcuni esperti di fotografia nel progettare questa mostra.◄' Gli uni e gli altri hanno riflettuto assieme sullo statuto particolare della documentazione visiva relativa ai campi, partendo da due constatazioni principali: da una parte, le immagini esistenti - circa un milione e mezzo di cliché disseminati in vari archivi- sono immagini sopravvissute che costituiscono, malgrado il numero già abbondante, un'infima parte della documentazione che fu in gran parte realizzata, e poi sistematicamente distrutta all'arrivo degli alleati, dai nazisti stessi; dall'altra, queste immagini sopravvissute sono in genere immagini mal viste, e mal viste perché mal dette: descritte male, didascalizzate male, classificate male, riprodotte male, utilizzate male dagli storiografi della Shoah. Che la fotografia di Rovno in Ucraina - donne e bambini del ghetto di Mizocz condotti all'esecuzione - sia ancora utilizzata come documento sull'entrata delle camere a gas di Treblinka, o che i fotogrammi del bulldozer che spinge i corpi in una fossa di Bergen-Belsen siano ancora associati allo sterminio degli ebrei col Zyklon B, ecco i fatti per cui è necessaria "un'autentica archeologia dei documenti fotografici", come quella proposta da Clément

Chéroux - archeologia che potrà realizzarsi solo "analizzando le condizioni di realizzazione di questi documenti, studiando il loro contenuto e interrogandosi sulla loro utilizzazione" .◄6 Programma impegnativo. Occorre, ad esempio, avere accesso al retro delle immagini- cosa che le recenti campagne di informatizzazione trascurano spesso di fare - per cogliere il minimo indizio, la minima iscrizione in grado di situare meglio l'immagine e di meglio identificare, per quanto possibile, l'autore della fotografia: la questione del punto di.vista (di solito nazista, com'è facile intuire) in questo caso è capitale. La mostra Mémoire des camps e il suo catalogo, preciso e dettagliato, offrivano un modello tipologico per un lavoro del genere, tutto ancora da compiere. E attraverso di esso si capiva come la fotografia dei campi fosse al tempo stesso rigorosamente vietata e sistematicamente strumentalizzata dall'amministrazione concentrazionariat come i nazisti aggirassero essi stessi la censura e producessero "immagini da amatore" che esulavano dal quadro ufficiale;41 e come, infine, certi prigionieri riuscissero a realizzare anch'essi- dal loro punto di vista, ma a loro rischio e pericolo - queste immagini malgrado tutto, di cui le quattro foto dcli'agosto 1944 offrono senza alcun d ubbio l'esempio-limite.49 Se la parte della mostra dedicata al periodo della liberazione appariva più completa delle altre, è perché la produzione di immagini all'apertura dei campi conobbe una fioritura senza precedenti. Ed anche perché la storiografia di quel periodo ha già abbondantemente riflettuto sul ruolo essenziale delle immagini. Nel 1945, quando gli stati maggiori alleati iniziano ad accumulare le testimonianze fotografiche dei crimini di guerra per poter mettere in diffi. coltà gli imputati del processo di Norimberga, comincia davvero una nuova epoca della prova visiva.'0 Ma comincia pure allora una

43. Cfr. J. Fr~j (a cura di), Les Archives de la Shoah, CDJC-L"Hannanan, Paris 1998; D. Michman, Die Historiographie deT Shoah aus judischer Sicht, Dolling und Galitz, Hamburg 2002. 44. R Hilberg, Holccauste: /es sourcesde l'histoire (2001), tr. fr. Gallimard, Paris 2001 , pp. 18-19. In seguito, Hilberg affronta con pertinenza - ma senza scendere troppo nei dettagli- il problema dcll'inquadratura e della "composizione" (pp. 5556), consacrando anche un capitolo al problema dello "stile" (pp. 77-141). 45. Dscn About, Christian Dclagc, Amo Gisingcr, da una parte, Picrrc Bonhommc, Clément Chéroux, Katharina Menzcl, dall'altra.

ciL,p. 16. 47. I. About, "La photographie au scrv:icc du système concentrationnaire national-socialistc (1933-1945)", in C. Chéroux (a cura di}, op. dt., pp. 29-53. 48. C. Chéroux, "Pratiqucs amatcurs", in Mémoire des camps, cit., pp. 74-77. 49. C. Chéroux, "Photographics clandcstincs de Rudolf Cisar à Dacbau• e "Photographies dc la Résistance polonaise ìl Auschwitz", in Mémoire des camps, cit., pp. 78-83. 50. C. Dclagc, "L"imagc pbotograpbique dans le procès dc Nurcmbcrg", in C. Cbéroux (a cura di), op. dJ., pp.172-173. Cfr. i lavori di C. Bri.nk,Ikonen deT Vemicht-

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46. P. Bonhomme, C. Cbéroux, "Introduzione", in C. Chéroux (a cura di), Mémoire des C1Jmps, cit., p. 10; C. Cbéroux, "Du bon usage dcs imagcs", in Mémoire des C1J11tps,

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nuova epoca della prova di resistenza visiva: un'epoca di "pedagogia dell'orrore", che i governi alleati decidono di avviare e in cui giornali e cinegiornali del mondo intero si buttano subito a capofitto.11 Da quel momento, le immagini fotografiche divengono, nel bene e nel male, parte integrante della memoria dei campi.'2 Ora,' di tutta questa·memoria fotografica - e cinematografica, come vedremo in seguito - Élisabeth Pagnoux e Gérard Wajcman vogliono vedere solo il peggio. E, fino a un certo punto, li si può capire: il peggio domina, il main stream porta in auge il peggio. Un ragazzino del ghetto di Varsavia, con le braccia alzate, ossessionava i nostri incubi infantili;' 3 mentre oggi la sua immagine ricompare nella pubblicità di un gruppo rock.,. Ma Élisabeth Pa-

gnoux e Gérard Wajcman confondono ogni cosa: in primo luogo, quando se la prendono con la menzogna dello "scoop" o con la sconvenienza di una "rivelazione[... ] sulla Shoah", attribuendo agli organizzatori della mostra Mémoire des camps l'intenzione di compiere un annuncio che solo i giornali hanno avuto l'idea di compiere." L'altro elemento di confusione è ancor più grave, poiché pervade da cima a fondo la concezione che Wajcman e Pagnoux si fanno dell'immagine in·quanto tale: nessuna delle foto esposte in Mémoire des camps è davvero adeguata al proprio oggetto, la Shoah. È forse la prova che "non c'è immagine della Shoah"? Lo stesso ragionamento è stato ripreso daJacques Mandelbaum in un articolo dal titolo eloquente: "La Shoah e le immagini che ci mancano". Bisogna ammettere, egli sostiene, che "parlando della Shoah sono proprio le immagini che mancano". E a chi gli volesse contrapporre i tanti - e sconvolgenti - cliché riuniti nella mostra Mémoire des camps, egli risponderebbe: "Tutte le immagini note che trattano di questo crimine sono, se non false, quantome• no inappropriate"." Più radicali ancora, Wajcman e Pagnoux lasciano intendere che, essendo le immagini della Shoah inappropriate al loro oggetto, esse sono necessariamente false e perfino falsarie. Ecco perché "non c'è immagine della Shoah". Le immagini mancano perché le immagini mentono.11 Si tratta di una confusione teorica: si confonde un valore d'esistenza o uno statuto ontologico con un valore d'uso. Statuto ontologico? Sì, le immagini sono "inappropriate". Le immagini non sono "tutta la verità" - non sono la adaequatio rei et intellectus della formula tradizionale - e sono pertanto "inadeguate" al proprio oggetto. Ecco un'affermazione incontestabile, la cui generalità è talmente vasta, però, da fondare solo un principio di incertezza gnoseologica. L'inadeguatezza non è forse tipica di tutto ciò che utilizziamo per percepire e descrivere il mondo? I segni del

ung. 0/fentlicher Gebrauch von Fotogra/ien aus nationalsowlistirchen Konzentralionslagern nach 1945, Akademie Verlag, Bcrlin 1998, pp. 101-142; S. Lindepcrg, Clio de 5 ò 7. I.es actualités /ilmées de la Libération: archives du /utur, CNRS, Paris 2000, pp. 211-266, dov'è tradotto anche l'anicolo di L. Douglas, "Le film comme 1émoin •, pp. 238-255. 51. C. Chéroux, "L"épiphanie négative': production, diffusion et répection dcs photographics de la li~ration dcs camps•, inMémoiredes camps, cit., pp. 103-127; C. Chéroux, "1945: Ics seuils de l'horrcur", in Art Press, fuori serie, mai 2001 ("Représcnter l'horrcur"), pp. 34-39. Cfr. i lavori di S. CaJlegari, M. Guiuasd, C . Richez, "Le docurnent photographigue: une histoire à reconstruirc", in M.-A. Matard-Bonucci, E. ~eh (a cura di), La Libération des campset le retour des diportés. I:histoire en sou/france, Éditions Complexe, Bruxelles 1995, pp. 101-105; M .-A. MatardBonucci, "La pédagogie de l'horreur•, in M .-A. Matard-Bonucci, E. ~eh (a cura di), op. cii., pp. 61-73; C. Brink, Iltonen der Vernichtung, cit., pp. 23-99; S. Lindcperg, Cliode 5 à 7, cit., pp. 67-111, 155-209. 52. La tena parte della mostra, intitolata "Il tempo della memoria (19451999)", lasciava curiosamente da pane le ripercussioni sociali dclla fotografia dei campi, per dedicarsi invece a un'indagine estetica assai più discutibile. Questa parte è stata criticata soprattutto da M.B. Servin, • Au sujct de I'exposition Mémoire des camps", in Revued'histoirede la Shoah. Le mondefa,f. n. 72, 2001, pp. 340-342, e da C . Baron, •A propos d'une exposition (suite)", in Revue d'histoire de la Sho,:,h. Le mondeju,f. n. 72, 2001 , p. 342. Sarebbe forse bastato esporre i collage di Wladyslaw Strzeminski o l'Atlas di Gerhard Richter, di cui si parla brevemente nell'articolo di A. Gisinger, "La photographie: de la mémoire communicative à la mémoire cuhurclle", in C. Chéroux (a cura di), op. cit. , pp. 179-200. Per uno studio sistematico dd ruolo dell'immagine fotografica nella memoria tedesca della Shoah, dr. H. Knoch,

Die Tal als Bild. Fotogra/ien des Holocaust in der deu11chen Erinnerungsltultur, Hamburger Edition, Hamburg 2001. 53. Cfr. in panicolarc A. Bergala, Nul mieux que Godard, Cahiers du cinéma, Paris 1999, pp. 202-203; G. Walter, La Réparation, Aohics, Paris 2003. 54. Cfr. P. Mesnard, Consciences de la Shoah. Critique du dircours et de1 représentations, Kimé, Paris 2000, p . 35. Si tratta di una campagna pubblicitaria nella metropolitana di Paris, dd gennaio 1997, destinata a promuovere la tournée dd gruppo rock francese Trust.

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55. G. Wajcman, "Dc la croyance photographigue•, cii., pp. 64-65; É. Pagnoux, "Reponcr photographe à Auschwitz", cit., pp. 84-85 (dove le citazioni sono traile non dal catalogo stesso ma dal settimanale Télérama). 56.J. Manddbaurn, "La Shoah et ces images qui nous manguen1", in Le Monde, 25 janvier2001, p . 17. 57. Questi due argomenti messi assieme sono, beninteso, la delizia dei negazionisti: ecco perché Roben Faurisson ha recensito con gioia l'articolo di Jacgues Mandclbaum sul sito Aaargh il 25 gennaio 2001. 93

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linguaggio non forse altrettanto "inadeguati", anche se in maniera diversa? Non sappiamo da temeo che la parola "rosa" sarà sempre "l'assente da ogni mazzo"? E facile cogliere allora l'aberrazione di un argomento che vuole gettare nella spazzatura ogni parola e ogni immagine col pretesto che non sono tutte, che non dicono ·•tutta la verità". Ancora una volta, Wajcman avrebbe dovuto andarsi a rileggere Lacan - il famoso "semi-dire"18 - prima di credersi autorizzato a maledire un'intera classe di oggetti, con la scusa che non dicono tutto. Quanto al valore d'uso, i due polemisti si mettono nei guai da soli, sostenendo in pratica di voler sacrificare il linguaggio intero sull'altare di una sola menzogna. Come se, nonostante la miriade di menzogne proferite di continuo, la parola non restasse comunque quanto di più prezioso noi tutti abbiamo. E come se la stessa cosa non valesse per le immagini: sì, le immagini mentono. Ma non tutte, non su tutto e non in rutte le occasioni. Quando Gérard Wajcman fa notare che "siamo oggi in presenza di una bulimia di immagini"19 e di menzogne, non fa altro che ripetere una triste banalità con la quale tutti ci dobbiamo confrontare (e che io stesso evocavo parlando di un "mondo sazio e quasi soffocato di merce immaginaria"). È vero che il terribile di oggi- la guerra, i massacri di civili, i carnai - è diventato esso stesso una merce, e ciò per immagini interposte. Quando Wajcman scrive che "non ci sono immagini della Shoah", egli deplora allora tacitamente l'assenza di immagini vere - di immagini tutte - deplorando a gran voce la profusione di immagini false - immagini non tutte dellaShoah. Immagini false: sin dagli anni Cinquanta Roland Barthes ha criticato, nelle "foto-shock", il loro modo di "sovracostruire quasi sempre l'orrore", che rende queste immagini "false [e immobilizzate in) uno stato intermedio tra il fatto letterale e il fatto maggiorato" .60 In seguito, i sociologi dei media hanno analizzato le diverse procedure di manipolazione delle immagini, utili a indurre

questa o quell'altra credenza. 61 Barbie Zelizer, nella sua opera sulla fotografia nei campi, ha utilizzato un'espressione ricorrente nel mondo giornalistico: "covering atrocity", come se "coprire l'atrocità" consistesse tanto nel descriverla quanto nell'occultarla.62 Ma dalla copertura giornalistica al culto mediatico, dalla costituzione legittima di un'iconografia alla produzione abusiva di icone sociali, spesso non c'è che un passo. 6' Pierre Vidal-Naquet ha notato giustamente che il_negazionismo ha conosciuto il suo massimo splendore "solo dopo la diffusione in larga scala [della serie televisiva) Olocausto, cioè dopo la spettacolarizzazione del genocidio e la sua trasformazione in puro linguaggio e puro oggetto di consumo di massa". 64 Perfino la testimonianza audiovisiva dei sopravvissuti - cui Claude Lanzmann ha conferito titoli di nobiltà col film Shoah - conosce oggi una fase di industrializzazione. 61 Che fare allora? Si può cominciare a dubitare delle immagini, ossia a reclamare uno sguardo più esigente, uno sguardo critico che cerchi soprattutto di non lasciarsi corrompere dall'"illusione referenziale". Questa è stata la posizione difesa da Clément Chéroux e Ilsen About.66 Solo che ogni critica conseguente desidera serbare l'esistenza del suo oggetto. Si critica solo ciò di cui ci si in61. Cfr. L. Gcrvercau, ùs Images qui mentent. Histoire du visuel au XX siècle, Le Seui!, Paris 2000 (soprattutto pp. 20.3-219); L. Gcrvercau, Un sièck de manipulations par l'image, Somogy, Paris 2000 (soprattutto pp. 124-131). 62. B. Zeliz.cr, Remembering to Forge/. Holoazust Memory Through the Camera's Eye, Univcrsity of Cllicago Prcss, Qli~London 1998, pp. 86-140. Cfr. anche G.H. Hartman, The ùmgest S"4Jow. In the A/termath o/the Holoazust, Indiana Univcrsity Prcss, Bloomington-lndianapolis 1996; A. Liss, Trespassing Through Shadcws. Memory, Photography, and the Holocaust, Univcrsity of Minnesota Prcss, MinncapolisLondon I 998. 63. È quanto illustra bene l'opera di Y. Doosry (a cura di), Representations o/ Auschwitz. 50 Yean o/ Photographs, Paintings, and Graphicr, Auschwitz-Birkcnau

58. Cfr. J. Lacan, Il uminario. XX. Anrora (1972-1973), tr. it. Einaudi, Torino 1983, p. 91: "[... ) runa la verità è ciò che non può dirsi. Èqud che può dirsi alla sola condizione di non spingerla fino in fondo, di limitarsi a semi-dirla•. 59. G. Wajcman, "De la croyancc photographique•, cit., p. 58. 60. R Barthes, Mythologies, Le Seui!, Paris 1957, pp. 105-107; tr. it. Miti d'oggi, Einaudi, Torino I994.

State Muscum, Oswiccim 1995. 64. P. Vìdal-Naquet, Les Assassins de la mémoire. •un Eichmann de papier" et autres essais sur k révisùmnisme, La Découvcne, Paris 1991, p. 133. 65. Cfr. J. Walter, "Les archivcs dc l'histoire audiovisudlc des survivants dc la Shoah. Erme institution et industrie, une mémoire mosaique cn dcvcnir", in J.-P. Bertin-Maghit, B. flcwy-Vilattc (a cura di), ùs Institutions de l'image, Éditions dc l'EHESS, Paris 2001, pp. 187-200. Per una riflessione di ampio respiro su questa pro• blematica cfr. il periodico Cahier I111emational - Études sur k témoignage audiovi• sue/ des victimes des crimes et génocides nazis, Édition du Centrc d'Études et dc Documcntation-Fondation Auschwitz, Bruxdles 1996-2002. 66. I. About, C. Chéroux, "L'histoirc par la photographic", in Études photog,aphiques, n. 10, 2001, pp. 9-3.3.

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teressa: criticare non significa rigettare, e rigettare non significa criticare. Eppure, è proprio a un npudio delle immagini - che consiste nel non dubitare affatto che esse siano sempre "false" che si dedica Gérard Wajcman. Non facendo, d'altronde, che seguire C(?SÌ un altro main stream: lo scetticismo radicale del discorso postmoderno sulla s'toria (ci ritornerò) e sull'immagine, anche fotografica.67 C'è stato senza dubbio un tempo in cui si è abusato del criterio di "indizialità" e dell'"è stato" barthesiano: ogni volta che si guardava una foto si parlava subito di ontologia, divertendosi magari con le impasse formali di questo mezzo. Ma optare ipso facto per il punto di vista diametralmente opposto significa solo sostituire il niente al tutto. Significa solo perdere di vista la potenza fotografica stessa e il punto - problematico chiaramente - in cui l'immagine tocca il reale. Lungi dall'interrogarsi su tutto ciò, Gérard Wajcman si limita invece a declamare i suoi lunghi sermoni iconoclasti, in cui tutto si confonde per essere poi buttato via: foto d'archivio e volgarità hollywoodiane, scienza storica e "ideale televisivo", il tutto impregnato di "un certo spirito del cristianesimo":

visivo - è la televisione infatti il luogo in cui si congiungono la passione cristiana dell'immagine e la fede scientifica nella trasparenza reale del mondo, ottenuta grazie ai mezzi della tecnica) ...

Amiamo le immagini[... ]. È una passione umana divorante che anima la nostra epoca. [È] questa, ho timore, una delle molle essen• ziali che hanno scatenato una simile adesione pubblica alla mostra Images des camps [sic]. Dare un luogo e un'occasione a [. .. ) delle immagini per fare da sfogo [ .. .] e per consolare magari, diventando un visibile ostensorio del nostro amore per le immagini. [. . .) Come dimenticare, nel vasto commercio di immagini dei campi cui abbiamo assistito in questi ultimi tempi, che il successo mondiale e i pubblici riconoscimenti dei film di Spielberg e Benigni si basano sul sentimento comune, potente e incancellabile, che si possa e si debba rappresentare la Shoah [ ... ], [che) si possa dunque andare a vedere in tutta tranquillità LA vita è bella portandoci anche i figli, dato che si tratta di una buona azione condita per di più di un sano divertimento. [.. .) L'idea che tutto il visibile sia virtualmente visibile [sic], che si possa e si debba mostrare tutto e vedere tutto [. .. ] è un credo della nostra epoca (un credo non senza legami col fantasma di una scienza del reale che sarebbe interamente penetrabile e non senza legami con un certo spirito del cristianesimo, polarità queste che, lungi dal respingersi l'un l'altra, si annodano assieme nell'ideale tde67. È questa la posizione difesa di recente da Y. Michaud "Critique de la crédulité. La logique de la relation entre l'image et la réalité", in "f1udes photographiques, n. 12, 2002, pp. 111-12.5.

Amalgami, più che argomenti: in meno di tre pagine, un problema di conoscenza (analizzare le quattro foto realizzate dalla resistenza ebraica ad Auschwitz) viene rovesciato in un problema di mostra (come se l'impresa di Oément Chéroux fosse assimilabile a una qualsiasi altra esposizione di fotografie), che a sua volta viene rovesciato in un problema di divertimento ("il successo mondiale dei film di Spielberg e Benigni"), che a sua volta viene rovesciato in un problema di abbrutimento ("la televisione"). La verve polemica fa dimenticare cosl a Wajcman che, parlando di immagini fotografi.che realizzate dai membri di un Sonderkommandc votato alla morte e di immagini cinematografiche realizzate dai membri dell'équipe di Spielberg o di Benigni, non è delle stesse immagini che stiamo parlando. Se l'immagine non è tutta, l'immagine non è nemmeno sempre la stessa: è questo che Wajcman sembra voler ignorare a tutti i costi, coi suoi fantasmi su un "consenso" dell'immagine che avrebbe, in tutti i casi, l'unico valore - ossia l'unico difetto - di costituire una menzogna.

* Di qui il tema del feticismo generalizzato, questo potere perverso delle immagini sulle nostre coscienze e sui nostri inconsci. Élisabeth Pagnoux costruisce il motivo con una collana apotropaica di parole come "perversità", "finzione" - da cui deriva, come noto, anche la parola "feticcio"69 -, "voyeurismo" e "godimento dell'orrore". "La foto non rimpiazzerà mai lo sguardo",70 sembra la sua grande scoperta. E questa scoperta è sfruttata per vietarci le quat• tro fc;,to dell'agosto 1944. Poiché guardarle sarebbe una finzione (" accanimento nel costruire il niente") e cioè una menzogna ("pos• siamo entrare nelle camere a gas": allusione esplicita alla nauseante scena delle docce della Lista di Schindler). Sarebbe come andare troppo vicino, con uno sguardo "ossessionato dall'interno" e pro68. G. Wajcman, "Dc la croyance photographique", cit., pp. .58-60. 69. É. Pagnoux, "Reporter photographe à Auschwitz•, cit., p. 94. 70. lbidem, p. 91.

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cedendo alla "negazione della distanza". Ma sarebbe anche come andare troppo lontano ("ci si allontana da Auschwitz"), come vedere troppo, fino al "voyeurismo". E sarebbe allora come non vedere nulla, "accanendosi a distruggere lo sguardo" .71 Perché tutti questi rovesciamenti? Perché la semplice attività di "guardare le foto" serve solo, secondo Pagnoux, a "far tacere i testimoni" e addirittu· ra a perpetuare sadicamente l'opera di morte dei nazisti:

Al di là della questione del vedere e del sapere si pone dunque, in queste righe, la questione dell'immagine e della verità. La mia analisi delle quattro foto di Auschwitz supponeva in effetti che entrasse in gioco un certo rapporto - lacunoso, "a lembi", prezioso quanto fragile, evidente quanto difficile da analizzare - tra l'immagine e la verità. Ho prima guardato queste immagini come immagini-fatti. Cioè come un tentativo di rappresentazione visiva condotto dai membri del Sonderkommando immersi in questo mondo infernale in cui si sapevano condannati, e al tempo stesso come un gesto concreto, politico, clandestino, come l'atto di scat• tare quattro foto dello sterminio dall'interno del campo, per trasmetterle all'esterno, attraverso la resistenza polacca. In questa prospettiva, i cliché dell'agosto 1944 sono immagini della Shoah in atto - anche se estremamente parziali, come sono in genere le immagini-e al tempo stesso un/atto di resistenza storica composto di immagini. Per Wajcman, al contrario, queste quattro foto non sono che immagini-feticci. Il suo giudizio muove da due "tesi non rivedibili": in primo luogo, ogni verità si basa su una mancanza, un'assenza, una negatività non dialettizzabile (tesi di ispirazione lacaniana); in secondo luogo, "ogni immagine è una sorta di denegazione dell'assenza", ossia: "Nessuna immagine può mostrare l' assenza", poiché "l'immagine è sempre affermativa". 7' Conclusione: ogni immagine si rivela un "sostituto attraente" della mancanza, cioè un suo feticcio. Il ragionamento si chiude così in fretta su questa redibitoria immagine tutta che, in un contesto più nobile !'"opera d'arte", di cui Wajcman pretende, senza scherzare, di aver trovato la "defìnizione"75 - , il ragionatore è obbligato a domandarsi se non esistano malgrado tutto immagini di un altro genere: "Opere visive che si rifiutano a noi e ci ignorano. Quadri per i quali ogni sguardo sarebbe come un'effrazione".76 Certo che sì. Ma allora perché non proporre a Gérard Wajcman quest'altro

Una foto della camera a gas trasmette l'orrore allo stesso modo in cui lo perpetua. [. .. ] Perpetuarsi, cioè annientare, continuare ad annientare. [. . .] Per chi conserva il ricordo del crimine, l'idea di guar, dame ancora un'immagine [ ... ] è insopportabile e una foto non insegna nulla che già non sapessimo."

Questa concezione è dominata interamente, com'è chiaro, oltre che dal moralismo, da un antagonismo tra vedere e sapere (mentre uno storico delle immagini cerca, com'è non meno chiaro, di mettere in luce i loro punti di contatto). Le immagini, secondo Pagnoux e Wajcman, non ci insegnano nulla, peggio ci attirano in quella menzogna generalizzata che è 1a/ede. Il "feticista" è allora colui che crede di apprendere qualcosa da ciò che vede in una fotografia: egli sacrifica alle false divinità, agli idoli (senso tradizionale del concetto di feticcio) o alla merce spettacolare del capitalismo generalizzato (senso marxista, o situazionista, del feticismo). A questa autentica diaboliu.azione dell'immagine Wajcman tenta di offrire una cauzione psicoanalitica, connettendo d'ufficio il paradigma religioso della fede col paradigma psicopatologico della perversione sessuale: C'è [ ...] qualcosa in queste quattro immagini che ha a che fare con l'ostensione della sindone di Auschwitz. [ .. .]La verità è rivelata dall'immagine, attestata dall'immagine, perché queste immagini sarebbero quanto ci resta di visibile su Auschwitz. [Questa operazione obbedisce a] una feticizzazione religiosa [. .. ] di cui Freud ha smontato il meccanismo [ ...] feticista, quello che si impegna a ricoprire l'assenza, la mancanza a vedere di tutte quelle cose che egli esporrà e adorerà come altrettante reliquie del fallo mancante."

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71. Ibidem, pp. 87, 90, 94, 102-103. 72. Ibidem, pp. 89, 92-93. 73. G. Wajcman, "De la croyance photographique•, ci1., pp. 81-83.

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74. G. Wajcman, I.:Objet du siècle, cit., pp. 207, 243. 75. G. Wajcman, Collection, suwi de l'Alliance, Nous, Caen 1999, pp. 63-64: "Per defuuzione, lo spazio dcll'ane è l'universale e la sua unità, è l'opera singolare. [... ] Si chiama dunque opera d'ane un oggetto assolutamente singolare, insostituibile e irriproducibile[ ... ). I.:opera come ciò che non assomiglia a niente e non rappresenta niente. Essa presenta, e si presenta. Il modo d'essere nd mondo di qucst'oggetto è la presenza•. 76. Ibidem, p. 46.

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genere di eccezione: immagini che noi abbiamo la tendenza a rifiutare ma che tuttavia non ci ignorano e perfino supplicano uno sguardo da parte nostra? Non è forse questo il caso d elle foto di Birkenau, i cui autori hanno fatto di tutto per attirare la nostra attenzione, affinché noi potessimo comprendere visivamente qualcosa di quanto stava accadendo laggiù? Wajcman però si spinge troppo oltre con la sua logica d ella terra bruciata. E non può certo fare marcia indietro. Ciò che è bendisposto a concedere a taluni "quadri», di preferenza astratti, non lo concede comunque alla fotografia, a tutta la fotografia. E con la stessa serietà con la quale ci fornisce "la" definizione ddl'opera d'arte, si crede autorizzato a giudicare "la" fotografia in generale come "specialmente orientata al feticismo" , cosa in virtù della quale essa va espulsa, semplicemente, dal dominio dell'arte:

sogno di una particolare empatia con Barthes per sapere che malgrado tutto - cioè malgrado i loro limiti formali, la loro grana, la loro rdativa oscurità, la loro inquadratura parziale - le quattro immagini del Sonderkommando non costituiscono un "sostituto attraente" dello sterminio degli ebrei nelle camere a gas, ma semmai un punto di contatto possibile, reso praticabile dal mezzo fotografico, tra l'immagine e il reale di Birkenau nell'agosto 1944. Certo, è sempre possibile feticizzare un'immagine. Ma questo valore d'uso, una volta ancora, non dice nulla dell'immagine stessa, e in particolare del suo valore di verità. Quando il perverso sessuale scambia una scarpa per un sostituto del pene materno, la scarpa non per questo cessa di essere una scarpa, trasformandosi per tutti in un'illusione fallica. È solo ragionando per rovesciamenti continui dell'uso (possibile) in verità (necessaria) che Wajcman giunge alla sue aberranti conclusioni. D'altronde, egli non soltanto opera un diniego della realtà della fotografia, ma anche un diniego della realtà del feticcio - il che in fondo è ancor più sorprendente. Citando a suo sostegno la famosa formula introdotta da Octave Mannoni per definire il diniego per. punto per verso - "Lo so bene, eppure.. . » 19 - egli ne rovescia punto la struttura teorica, che è poi un modo di pervertirla. Per Mannoni, come per Freud, la costituzione feticista è originata da un'esperienza della realtà che contraddice una teoria immaginaria (quella del fallo materno). Il diniego interviene allora come un tentativo di serbare la teoria malgrado tutto ("lo so bene che non ha un fallo, eppure io adoro la sua scarpa, di modo che la mia fede reggerà ancora grazie alle virtù di quest'oggetto .. . "). Nella controversia che ci oppone, in questo caso frontalmente, Wajcman affianca la teoria immaginaria alle "immagini malgrado tutto" e l' espe.rienza della realtà alla propria "tesi non rivedibile". lo penso viceversa che la sua "tesi non rivedibile" sia una teoria immaginaria, una fede di partenza nell'inimmaginabile della Shoah, contraddetta dall'esperienza singolare delle quattro "immagini malgrado tutto". E bisogna chiedersi se, in un di. battito del genere, la nostra conoscenza progredirà grazie alla smentita di fatti singolari in nome di una tesi generale o grazie

[. ..] al di là di queste fotografie, è la fotografia come disciplina che sembra rivdarsi qui. Non soltanto si ha la sensazione che la fotografia susciti in misura speciale il feticismo, ma che ci sia qualcosa come un feticismo fotografico fondamentale (e l'estrema frenesia che anima il mercato ddla fotografia ne sarebbe un sintomo indubitabile). Aggiungo che questa logica feticista ddla fotografia non soltanto ai miei occhi rende difficile considerare la fotografia come un'arte, ma sembra addirittura panarla in una direzione contraria a quella dell'opera d'arte.n

In queste righe non c'è solo traccia di un disconoscimento. Gérard Wajcman deve ben aver visto una o due opere di Brassai, di Man Ray, di Kertesz. Il suo giudizio è così aberrante, nella sua radicalità, da sembrare dovuto non a ignoranza ma a un diniego, per l'appunto. Recidendo ogni possibile legarne tra la verità e la fotografia, Wajcman non fa che occultare il potere stesso - altri direbbero: l'irruzione, la specificità - di quest'ultima nella storia delle tecniche di rappresentazione visiva: parlo dd suo carattere di registrazione, di quella famosa indi1.ialità di cui i postmodemisti hanno avuto torto a stufarsi così in fretta.78 Non c'è affatto bi77. G. Wajcman, • De la croyance photograplùque •, cit., p. 82. 78. È questo un tema che, a causa di riferimenti troppo esclusivi a R Banhcs (L, Camera chiara. Nota sulla fotografa, [1980], tr. it. Ein.a udi, Torino 1980) e R lvaUS$ (Teoria e storia della fotografa, [ 1978-1985], tr. it. Bruno Mondadori, Milano 1996), s~è visto poi escluso troppo repentinamente dal dibattito.

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79. O. Mannoni, Cle/s pour l'imaginaire, ou l'autre scène, Le Seuil, Paris 1969, pp. 9-33.

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alla smentita della tesi generale sulla base di fatti precisi e degni di considerazione.80 Ma torniamo al feticcio, sona di ante-fatto. Quali ne sono le caratteristiche? Wajcman non lo precisa e si limita ad agitarne la triviale panbplia - "scarpe; calze e mutandine" 81 - come se la cosa andasse da sé. Sarebbe stato necessario tuttavia, a rigor di metodo, chiarirne le caratteristiche, per poi ricercarle e individuarle nella mia analisi delle quattro immagini in questione. Puntualizziamo meglio: Freud, forgiando il concetto di feticcio, intendeva dire che esso forma un'immagine totalitaria, in virtù della congiunzione che in esso si effettua tra il "sostituto" (Ersatz) e lo "schermo" (Decke). 82 Ecco perché, contrariamente a quanto afferma Wajcman, la nozione di feticcio e quella di reliquia non sono affatto equivalenti.0 Se i "lembi" fotografici di Birkenau sono davvero delle immagini e dei resti dell'esperienza vissuta dai membri del Sonderkommando, essi non per questo sono i "sostituti attraenti" e totalitari di una feticizzazione. Per quanto mi riguarda, mi rifacevo all'idea assai più modesta di una "necessità lacunosa". In secondo luogo, l'immagine-feticcio è un fermo immagine. Questa caratteristica fondamentale è stata più e più volte sottolineata da Jacques Lacan: "Il desiderio perverso si fa supporto di un oggetto inanimato", egli proclamava già nel primo seminario.84 E tre anni dopo, affrontando La relazione d'oggetto, precisava ulteriormente la sua idea del diniego della realtà come fermo sguardo, se così possiamo dire: "Infatti, ciò che sta al principio

dell'istituzione della posizione feticista è appunto il fatto che il soggetto si ferma a un certo livello della sua investigazione e della sua osservazione"." L'immagine-feticcio può dunque essere tutta - unica, soddisfacente, totalitaria, bella della bellezza dei "monumenti" e dei "trofei", e tale da non ddudere mai - solo a patto di essere inanimata dal suo esclusivo possessore:

80. Si tratta di un celebre dictum del metodo sperimentale, che si deve a Oaude Bcmatd: "Quando il fatto che si incontra è in contrapposizione con la teoria dominante, bisogna accettare il fatto e abbandonare la teoria, anche se quest'ultima, SO· stenuta da grandi nomi, è generahnente accettata". Secondo Octave Mannoni questo principio è all'origine anche della psicoanalisi freudiana: "Non era tanto per costituire la psicoanalisi, quanto per togliere degli ostacoli. [Freud] ha visto come Charcot mettesse da parte le teorie ("le teorie, va bene, ma bisogna pur esistere") per conversare con le isteriche, senza andare a cercare il loro segreto nei laboratori di istologia" (O. Mannoni, ç, n'empèche pas d'exister, Le Seui!, Paris 1982, p. 33). 81. G. Wajcman, "De la croyance photographiquc", cit. , p. 81. 82. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), tr. it. in Opere, Bollati Boringhicri, Torino 1989, voi. 4, p. 468 (nota del 1920). 83. È quanto ha dimostrato tempo addietro P. Fédida, "La reliquc et le travail du deuil", in Nouvelle Rl!Vtle de psychanalyse, n. 2, 1970, pp. 249-254. 84.J. Lacan, Il seminario I. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), tr. iL Einaudi, TQ,rino 1978, p. 274.

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Nel feàcismo, il soggetto stesso dice di trovare a conti fatti il proprio oggetto, un oggetto esclusivo, tanto più soddisfacente quanto più è inanimato. Cosi, almeno, sarà tranquillo, sicuro di non patirne delusioni. Amare una pantofola significa veramente avere l'oggetto dei propri desideri a portata di mano. Un oggetto sprovvisto di ogni proprietà soggettiva, intersoggettiva, o transsoggettiva, è più sicuro...

Ora, queste caratteristiche dd feticcio non rientrano affatto tra quelle delle immagini di Birkenau, né - credo - tra quelle dd mio commento: tali immagini non possono certo essere viste come supporti dell'"inanimato", o di "tranquillità", di "soddisfazione" integrale, di "bellezza", di oggetto manipolabile a piacere perché "sprovvisto di ogni proprietà soggettiva [e] intersoggettiva". Cosa ancor più importante forse- ci ritornerò, anche se Wajcman non ci fa attenzione, e a ragion veduta - le quattro foto di Auschwitz sono quattro appunto: in altre parole, se l'immagine tutta, l'immagine integrale o l'immagine-feticcio va concepita come l'immagine una, la serie dell' agosto 1944 è composta da più immagini, disposte una accanto all'altra, così da formare una sorta di montaggio elementare. Un montaggio che, come ho sottolineato, sarebbe disastroso - e senz'altro feticista - voler isolare o ritagliare a segmenti. Proprio Lacan ha insistito parecchio nel paragonare il feticcio a un fermo immagine, cioè alla scdta di un solo fotogramma in una serie in cui prevale il cambiamento, ossia la dimensione stonca: Ciò che costituisce il feticcio [...] è il momento della storia in cui l'immagine si ferma. [. ..] Pensate al modo in cui un movimento cinematografico che si svolge rapidamente si ferma all'improvviso in un punto, immobilizzando i personaggi. Questa istantanea è tipica 85. J. Lacan, ù Séminaire. IV. La relation d'objet (1956-1957), Le Scuil, Paris 1994, p. 91; tr. i1. Il seminario. Libro IV. La relazione d'oggetto, Einaudi, Torino 1996. 86. J. Lacan, ùSéminaire. IV, cit., pp. 85-86 (cfr. anche pp. 116-157 sul feticcio come "monumento" , "trofeo", "segno di trionfo").

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della riduzione della scena piena, significante, articolata tra soggetto e soggetto, a ciò che si ùnmobilizza nd fantasma."'

Forse Wajcman attribuirebbe questa immobilizzazi0ne della storia al mezzo fotografico in sé e al suo carattere di istantanea che immobilizza la "scena piena" della realtà. Ma l'immohilizzazi0ne di cui parla Lacan è proprio quella del fantasma: è il fantasma, a un tempo iperbole e necrosi dell'immagine, che ad esempio serba in vita la finzione di una vista che coglierebbe "il" momento assoluto della Shoah unicamente nel processo di gasaggio (un fantasma che, come si sarà capito, non è mio). È il fantasma -e non il mezzo - che riduce la sequenza delle immagini singolari per ipostatizzarle in una immagine tutta, cioè in una immagine vuota. Mentre, per quanto mi riguarda, mi sembra semmai di aver tentato di conservare il carattere seriale, plurale, movimentato, gestuale delle quattro fotografie di Auschwitz-impossibile da eliminare (come vedremo presto). La terza importante caratteristica del feticcio, secondo Lacan, è il fatto che esso forma una immagine-schermo (Freud stesso ne aveva subito sottolineato il nesso col "ricordo-schermo"). Si tratta di un velo, di un sipario, di un "punto di rimozione" che pone allo psicoanalista, e al filosofo, una grande questione: "Perché per l'uomo il velo è più prezioso della realtà? Perché l'ordine di questa relazione illusoria diventa un ingrediente essenziale, necessario, del suo rapporto con l'oggetto? Ecco la questione posta dal feticismo".88 Possiamo allora dire, seguendo il filo di questo discorso, che le quattro immagini di Birkenau forse fanno da "schermo" al gasaggi() degli ebrei, perché ne mostrano solo il momento giusto precedente e il momento giusto successivo? I membri del Sonderkommando potevano nutrire il benché minimo interesse - magari inconscio - a fare in modo che uno schermo del genere fosse interposto per la maggiore "soddisfazione" degli spettatori? Sembra dawero assurdo e terribilmente ingiusto ragionare cosl. Wajcman crede forse che io mi sia interessato a queste foto, sessant'anni dopo, solo per non pensare alla Shoah? Preferisco lasciare a lui questo pensiero.

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Ma c'è forse una ragione più filosofica nel tentativo di Wajcman di definire - di chiudere e di finire - una volta per tutte questa classe di oggetti chiamati "immagini", in cui egli scorge solo un inganno soggettivo, un "sostituto attraente", uno "spirito di cristianesimo" o un oppio del popolo. Egli parte da questa osservazione, del tutto legittima: la Shoah è un orrore eccezionale, è l'orrore estremo del "secolo". Per poi domandarsi in seguito: "Un'immagine ha il potere di farci vedere, veramente, l'orrore?"." La risposta - fortemente negativa - è già contenuta nella forma in cui è posta la domanda.90 Assolutizzando il reale (in cui l'orrore accade) e assolutizzando l'immagine (in cui hanno luogo solo, a suo parere, consolazione e negazione del reale), Wajcman finisce logicamente per assolutizzare il loro antagonismo. E cosi pretende di risolvere - semplificandone non poco le articolazioni teoriche - un dibattito di vecchissima data, filosofico e antropologico, sul potere delle immagini. In questo dibattito non si fronteggiano affatto, com'egli crede, un "pensiero intriso di cristianesimo" (quello che "scorge la salvezza nell'immagine")91 e un pensiero illuministico capace invece di porre fine alle ambiguità del mondo visibile. ll dibattito sussiste almeno da quando Aristotele si è confrontato con Platone, o Spinoza con Cartesio. Si tratta anche, è vero, di un dibattito fra teologie iconoclaste e teologie iconofile. Ma il problema è altrettanto presente in tutto il pensiero rinascimentale. È lo stesso problema che il romanticismo traduce in quello dell'immaginazione. È lo stesso problema che attraversa tutto il surrealismo. Un problema che la psicoanalisi non poteva certo ignorare. Semplificando in maniera drastica - dato che non è questo il luogo per ricostruirne la storia-, questo lungo dibattito scuote il pensiero ogni qual volta si tenti di oltrepassare o dialettizzare il tema platonico dell'immagine-velo. Wajcman, volendo ignorare questi tentativi, resta fermo all'idea di illusione mimetica, di "so-

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89. G. Wajcman, "'Saint Paul' Godard contre ' Mo'isc' Lanzmann•, cit., p. 122. 90. G. Wajcman, "De la croyance photographìque" , cit., p. 68: "Non ci può semplicemente essere immagine dell'orrore [ ... ). Non c'è da ragionare ulteriormente, se c'è orrore, esso lacera ogni immagine, e quando c'è immagine, allora c'è meno orrore. L'orrore non ha immagine, è senza doppio, è unico. L'immagine, invece, è un doppio• . 91. Ibidem, p. 55.

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87. Ibidem, pp.119-120, 157. -88. Ibidem, p. 158.

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stituto attraente" che "ricopre l'assenza" o l'essenza, e non è in grado dunque neppure di sfiorare l'orrore dei campi. Il mio lavoro si è orientato, sin dall'inizio, in senso diametralmente opposto: 92 cioè nel senso dell'immagine-strappo. 9' Non si trattava affatto di ipostatizzare una nuova definizione delle immagini prese come un tutto, ma di osservarne la plasticità dialettica o ciò che bo definito il doppio regime del loro funzionamento: visivo e visibile, dettaglio e "pezzo", somiglianza e dissomiglianza, antropomorfismo e astrazione, venustà e crudeltà ... Alla stregua dei segni linguistici, le immagini sanno a modo loro - e qui sta il problema - produrre un effetto attraverso la sua negazione. 94 Esse sono di volta in volta il feticcio e il fatto, il veicolo della bellezza e il luogo dell'insostenibile, la consolazione e l'inconsolabile. Non sono né una pura illusione, né tutta la verità, ma quel battito dialettico che agita assieme il velo e il suo strappo. Georges Bataille già aveva in mente questo doppio regime, a mio parere, quando tentava, di fronte all'uso lenitivo delle immagini familiari, di porre in luce quell'inconsolabile - quella "supplica", quella "violenza" essenziale - che le immagini sono capaci di suscitare. 9' In seguito, Maurice Blanchot ha sostenuto che era giusto, ma comunque non bastava, parlare dell'immagine come di quel qualcosa che "nega il niente": bisognava anche riconoscere il momento in cui l'immagine diviene, reciprocamente, "lo sguardo del niente su di noi". Di qui l'idea tanto p rofonda di una " doppia versione" dell'immaginario. 96 Questa lezione - fenome-

nologica - è stata poi ripresa da Lacan, il quale ba affermato, più o meno negli stessi anni, che "la funzione dell'immaginario non è la funzione dell'irreale" 97 e ba analizzato in seguito, in pagine memorabili che ricordano lo stile di Bataille, il "sorgere dell'immagine terrificante" nel più iniziatico dei sogni freudiani:

92. La nostra controversia costituisce da questo punto di vista un sintomo tanto più significativo, dal momento che i nostri percorsi, vent'anni fa, mossero da punti di riferimento comuni: la psicoanalisi, lo studio di quel mal d'immagini che è l'isteria, l'interesse per il teatro e le ani visive. Cfr. G. Wajcman, Le Maitre et l'hystérique, Navarin, Paris 1982; G. Didi-Huberman, Invention de l'hystérie. Charrot et l'lronographie photographique de la Salpètrière, Macula, Paris 1982. 93. G. Didi-Huberman, 1A Peinture incamée, Minuit, Paris 198.5, pp. 115-1}2; G. Didi-Huberman, Devanl l'image. Questions posées aux/ins d'une histoire de l'ari, Minuit, Paris 1990, pp. 169-269. 94. G. Wajcman, J;ObjeJ du siècle, cit., p. 24}, sostiene logicamente il contrario: "L'immagine è sempre affermativa. Per negare ci vorrebbe altro, ddle parole•. 9.5. G. Bataille, J;Expérience intérieure (194}), in CEuvres romplètes, Gallimard, Paris 197}, voi. V, pp. 119-120 e passim; tr. it. L'e,perien,:p inleriore, Dedalo, Bari 2002. Cfr. G. Didi-Huberman, "L'immagine aperta", tr. it. in J. Risset (a cura di), Georges Bataille: il pol1iico e il sacro, Liguori, Napoli 1987, pp. 167-188. %. M. Blanchot, "Le musée, l'art et le tcmps• (19.50·19.51), in L'Amitié, Gallimar La situazione sconfortante delle quattro immagini di Auschwitz - realizzate a costo di correre rischi notevoli, trafugate dal campo eppure mai trasmesse "all'esterno", cioè al di là della Polonia - è simile al destino delle testimonianze raccolte dai resistenti del ghetto di Varsavia: redatte e trasmesse, ma condannate a restare inascoltate da coloro che pure avrebbero potuto e dovuto intenderle:

[ .. .] La memoria storica non può ignorare, a parte i documenti "oggettivi", l'esperienza insostituibile dei testimoni, di coloro che hanno vissuto gli eventi. E questi testimoni, compiendo il loro dovere di memoria, non possono dal canto proprio trascurare quell'esigenza di verità che anima il lavoro dello storico. È solo rispettando questa duplice condizione che la memoria sociale potrà fare il suo lavoro di recupero del passato, evitando la mitologia e senza cadere nell'oblio.62

La descrizione del massacro di Chelmno è distribuita in molte decine di esemplari nel ghetto. Inviamo anche un rapporto ai paesi stranieri domandando che vi siano rappresaglie nei confronti della popolazione civile tedesca. Ma-i paesi stranieri non ci credono. Il nostro appello resta così senza risposta, benché il testo fedele del nostro messaggio sia letto anche a Londra dal compagno Artur Zygielbojm, rappresentante del nostro Consiglio nazionale, nel corso di un programma alla radio che raggiunge il mondo intero. 64

La sola posizione etica, in questa terribile trappola della storia, consisteva allora nel resistere malgrado tutto ai poteri del!'impossibile: creare malgrado tutto la possibilità di una testimonianza. Il "mussulmano" dei campi di concentramento o la persona in buona salute tirata fuori dal treno e sterminata nel quarto d'ora seguente sono entrambi esempi di questo dominio dell'impossibile, o della parola uccisa: impossibile, infatti, testimoniare dal didentro della morte.6' Quanto poi a coloro che, anco-

60.J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., pp. 19-52. 61. G. Agambcn, Quel che resta di Auschwitz, cit. Questa posizione è stata criticata da S. Levi Della Torre, "Il sopravvissuto, il musulmano e il testimone", in U"" dttà, n. 83 , 2000, pp. 16-17 (ripreso in P. Levi, I sommersi e i salvati: Nuova edizione, a cura di D. Bidussa, Einaudi, Torino 2003, pp. 214-223); F. Bcnslama, "La représentation et l'impossible", in Le Genre humain, n. 36, 2001, pp. 59-80; e soprattutto P. Mesnard, C. Kahan, Giorgio Agamben à l'épreuve d'Auschwitz. Témoig11agesl1itterprétations, Kimé, Paris 2001 (critica giustiJìcata quando mette in dubbio il mutismo come "sintassi spettacolare" o quando restituisce un ruolo di rango alle testimonianze dei membri dd Sonderkommandc; critica eccessiva e ingiusta quando fi. nisce per gettare un sospetto su ogni dettaglio- il tema della Gorgona ad esempioo per for2&re ogni sfumatura dd pensiero di Agambcn). 62. J.-P. Vemant, "Histoire de la mémoire et mémoire historienne", in F. BarretDucrocq (a cura di), Pourquoi se souvenir? Forum i11ternatio/lOI Mémoire et Histoire de l'Académie univenelle des cu/Jures, Grassert, Paris 1999, p. 27 (corsivo mio).

63. CTr. P. Levi, 1sommeme i salvati, cit., pp. 3-4; É. Wiesd, La Nuit, cit., pp. 1718; A. Wieviorka, "lndicible ou inaudible? La déportation: premiers récits (1944. 1947)",inPardès, n. 9-10, 1989, pp. 23-59. 64. M. Edelman, Mémoires du ghetto de ¼rsovie (1945), te. fr. Liana Levi, Paris 2002, p.42. 6,. Cfr. S. Feùnan, "Àl'age du témoignage", cit., pp. 81-87.

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ra in vita, potevano in effetti far uso della propria parola, non vollero (i nazisti dei campi) o non poterono (gli altri) testimoniare su nulla."" Ora, tra queste due posizioni estreme esiste poiché la storia offre sempre maggiori possibilità di quanto ritenga il pe06iero binario - una posizione terza, se così possiamo dire. Un posizione non per questo meno estrema. Essa testimonia dall'interno, ma non può essere tuttavia ridotta al silenzio: ed è questa la sua forza incomparabile. Si tratta della testimonianza formulata e trasmessa malgrado tutto dai membri del

dei roghi. Anche se non sopravviveremo, è nostro dovere fare in modo che il mondo conosca la crudeltà e la bassezza - inimmaginabili per un cervello normale - di questo popolo che si pretende superiore. Bisogna che di qui parta un messaggio rivolto al mondo intero. Che lo si ritrovi subito o tra diversi anni poco importa, sarà pur sempre un terribile atto d'accusa. Questo messaggio sarà firmato dai duecento membri del Sonderkommando del crematorio II, ben consapevoli della morte imminente. [. ..] D messaggio è stato scritto in tempo. Descrive in maniera dettagliata gli orrori che si sono compiuti qui negli ultimi anni. Vi sono i nomi dei boia del campo. Vi è il numero approssimativo delle persone sterminate, con la descrizione dei metodi e degli strumenti utilizzati per lo sterminio. D messaggio è stato scritto su tre grandi fogli di pergamena. È il redattore del Sonderkommando- un pittore di Parigi- che l'ha ricopiato in bella, con lettere belle e grandi e con inchiostro di china, affinché il testo non impallidisca. D quarto foglio contiene le firme dei duecento uomini del Sonderkommando. I fogli di pergamena sono stati rilegati con un filo di seta e poi arrotolati e infilati in una scatola cilindrica di zinco costruita apposta da un ex commerciante di casa- . linghi. La scatola è stata infine sigillata e saldata, per proteggere i fogli dall'aria e dall'umidità, ed è stata nascosta dai nostri falegnami in lana di borra. Un altro messaggio, identico in tutto e per tutto, è stato seppellito nel cuore del crematorio 11.68

Sonderkommando. Parlo in questo caso di una situazione assai particolare: non quella dei sopravvissuti che dopo parecchi anni di silenzio dalla fine della guerra hanno deciso di consegnarci una testimonianza tanto più impressionante e sconvolgente.67 No, parlo della situazione dei membri del Sonderkommando, immersi in una condizione atroce, in un lavoro da fare diventare pazzi, e sempre prossimi alla morte. I membri del Sonderkommando, come noto, erano vivi malgrado tutto, ossia erano sopravvissuti dallo statuto assai precario: le loro testimonianze, prodotte in segreto e nascoste dove potevano nel perimetro del campo, costituiscono dunque per l'appunto quelle testimonianze malgrado tutto - le sole prodotte dalle vittime - dal didentro della macchina dello sterminio (nell'occhio del ciclone, come avevo detto, o nell'"occhio della storia"). Tra qualche settimana, il Sonderkommando passerà ad altra vita. Moriremo tutti qui, lo sappiamo bene. Ci siamo ormai abituati all'idea, poiché sappiamo che non c'è modo di uscirne. Tuttavia, una cosa mi preoccupa. Undici Sonderkommando sono scomparsi, portandosi via, con l'ultimo respiro, il segreto orribile dei crematori e 66. Esiste ruttavia un diario segreto della SS Johann Paul Kremc.r sui tre mesi passati ad Auschwitz, ed esistono le deposizioni rilasciate in seguito da Pery Broad e, soprattuno, Rudolf Hoss, comandante del campo, che scrisse una sua versione dei fatti in prigioo$! prima dell'impica,gione nel 1947 (testi pubblicati in Auschwitz vu par ks SS, tr. fr. .td.itions du Musée d'Etat d'Auschwitz, Oswiccim 1974). Cfr. anche R Hoss, Comandante a Auschwitz. Memoriale autobiografico (1947), tr. it. Einaudi, Torino 1997. 67. Cfr. R Vrba (e A. Bestic),Je me suis évadéd'Auschwitz (1963), tr. fr. Ramsay, Paris 2001; F. Milller, Trois am dans une chambre à gaz d'Auschwitz, cit.; Y. Gabbay, "Témoignage (recucilli par Gideon Greif)", in Revue d'histoire de la Sh()(Jh. Le mondejuf[. n. 171,2001, pp. 248-291.

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In condizioni del genere, la testimonianza non è più nemmeno una "questione di vita o di morte" per il testimone stesso: è semplicemente questione di morte per il testimone e di eventuale sopravvivenza della sua testimonianza. Riducendo tutta la logica della testimonianza al dispositivo di Shoah, Gérard Wajcman si accontenta invece di identificare unilateralmente il testimone al sopravvissuto.69 Non solo, ma Élisabeth Pagnoux si indigna addirittura del fatto che le testimonianze possano sopravvivere ai testimoni.70 Questa era tuttavia la situazione di cui le vittime stesse erano perfettamente consapevoli, nei ghetti e nei campi. Che fare allora, se non costruire degli archivi capaci di 68. M. Nyiszli, •ss Oberstunnfùhrer Docteu.r Meogele. Joumal d'un médecin déponé au crématorium d'Auschwitz" (1946), tr. fr. in Les Temps modemes, VI, 1951, n. 66, pp. 1865-1866. 69. G. Wajcman, I:Objet du sièck, cit., p. 240: "Testimone, ossia [. .. ] colui in cui si sovrappongono il testimone e il soprawissuto•. 70. É. Pagnoux, "Reponer photographeà Auschwitz", cit., pp.107-108.

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soprawivere - nascosti, interrati, disseminati - allo sterminio dei testimoni?

Scrittura del disastro, scrittura dell'epicentro: i Rotoli di Auschwitz raccolgono le testimonianze dei sommersi non ancora ridotti al silenzio, capaci ancora di osservare e di descrivere. I loro autori "vissero vicino all'epicentro della catastrofe più di qualsiasi altro deportato. Assistettero, giorno dopo giorno, alla distruzione del proprio popolo, e vennero a conoscenza del processo complessivo al quale .le vittime erano destinate".n Il loro tentativo fu dunque quello di trasmettere la conoscenza, per quanto ciò fosse possibile, di questo processo. Conoscenza che si sarebbe dovuta cercare nella terra impregnata di sangue, sotto le ceneri o i mucchi d'ossa in cui i membri del Sonderkommando disseminarono - sperando così che potessero sopravvivere - le loro testimonianze.

Scrivevano tutti [. . .] i giornalisti e gli scrittori, ma anche insegnanti, le_ persone in vista,_giovani e persino i bimbi. La maggior parte cli costoro teneva diari nei quali i tragici avvenimenti di ogni giorno si riflettevano attraverso il prisma dell'esperienza personale. Venne a crearsi in tal modo una mole enorme cli scritti; ma la maggioranza andò distrutta con l'eccidio della comunità ebraica di Varsavia."

Ad Auschwitz accadde Io stesso di quanto accadde nel ghetto di Varsavia, tranne per il fatto che i membri del Sonderkommando erano li praticamente i soli - in virtù dei "privilegi" derivanti dal loro lavoro - a poter costruire un archivio del genere. Parecchi furono coloro che raccontarono i fatti, stilarono le liste, disegnarono le mappe, descrissero il processo di sterminio. Ma poche furono le testimonianze ritrovate, soprattutto perché dopo la guerra i contadini polacchi, persuasi che in questo campo della morte si celassero-i "tesori" degli ebrei, devastarono il campo e distrussero tutto ciò che non sembrava loro prezioso (così le pergamene di cui parla Miklos Nyiszli non sono mai state ritrovate). Anche se sono stati ritrovati sotto la terra di Birkenau i manoscritti di cinque membri del Sonderkommando: Ha.un Herman (manoscritto in lingua francese, scoperto nel febbraio 1945), Zalmen Gradowski (manoscritto in dialetto yiddish, scoperto nel marzo 1945), Leib Langfus (due manoscritti in yiddish, scoperti nell'aprile 1945 e nell'aprile 1952), Zalmen Lewental (due manoscritti in yiddish, scoperti nel luglio 1961 e nell'ottobre 1962) e Marce! Nadsari (manoscritto in lingua greca, scoperto nell'ottobre 1980). Questi testi formano queJli che ormai si chiamano - riferendosi alle megilot della Bibbia ebraica, e in particolare al rotolo delle "lamentazioni di Geremia" - i Ro-

toli di Auschwitz.12 71. E. Ringclblum, citato da A. Wievorka, J.:ertJ del te11imone, cit., p. 19 (più in generale pp. 19-21). 72. Cfr. G . Bcnsoussan, "Éditorial", in Revue d'hiltoire de /iJ Shoah. Le monde juif, n. 171, 2001, pp. 4•11. Questo numero speciale ("Des voix sous Ics cendres. ManuscritS des Sonderkommando1 d'Auschwitz") contiene la migliore edizione realizzata fino a oggi dei Rotoli, a cura di P. Mesnard, C. Saletti.

Il quaderno di appunti e altri testi sono restati nelle fosse impre• gnate di sangue, nonché d'ossa e carne spesso non dd tutto carbonizzata. Lo si capisce dall'odore. Ricercatore, fruga dappertutto, in ogni porzione di terreno. Sono, sono sepolti decine cli documenti, i miei e quelli cli altre persone, che gettano luce su quanto è accaduto qui. Vi sono sepolti tanti denti. Siamo noi, i membri dd Sonderkommando, che li abbiamo disseminati intenzionalmente su tutto il terreno affinché il mondo potesse trovarvi la traccia tangibile cli milioni di esseri umani assassinati. Quanto a noi, abbiamo perso ogni speranza di vivere fino alla liberazione." Continueremo a fare ciò che dobbiamo. Proveremo [a fare] di tutto e nasconderemo [per?] il mondo, ma solo nel suolo e in [lacuna] . Colui che però vorrà trovare [lacuna] ancora, troverete ancora [lacuna] dd cortile, dietro il crematorio, non verso la strada [lacuna] dall'altra parte, troverete molto laggiù [lacuna] poiché dobbiamo, come abbiamo fatto fin qui, fino a [lacuna] evento [lacuna] cli conùnuo fare sapere tutto al mondo sotto forma cli cronaca storica. A partire da oggi, nasconderemo tutto sotto terra." 73. C. Saletti, • A l'épicentre de la catastrophe", in Revue d'histoire de /iJ Shoah, cit., pp. 304,307. Cfr. anche P. Mesnard, "Écrire au dehors de la mort", in Revue d'histoire de /iJ Shoah, cit., pp. 149-161; N. Cohen, "Manuscrits des Sonderkommandos d'Auschwitz: tenir face au destin et contrela réalité" (1990), tr. fr. in Revue d'hi1/oire de /iJ Shoah, cit., pp.} 17-354. 74. Z. GradowslBisognerebbe allora scorgere in Histoire(s) du cinéma di Godard un'orgia di immagini composite, animate dal soffio idolatrico delle Muse, e in Shoah di Lanzmann una sola immagine, una Tavola della Legge cinematografica, che fa di tutte le altre, soprattutto di quelle di Godard, altrettanti vitelli d'oro. Shoah "si distingue radicalmente da tutto ciò che è stato fatto prima", e non ci vuol molto a vedere come nasce qui una nuova religione (monoteismo dell'immagine-tutta) diversa da ogni altra (politeismo delle immagini nulle); "Shoah resiste a tutto", così come resiste una fede; Shoah "dice la verità senza aggiungere nulla", così come il miglior testo di legge. 24 Lo stesso Lanzmann non esita a compiere questa rivendicazione:

16. Cfr. $. Lindcpcrg, Clio de 5 à 7, cit., pp. 266-269. 17. L. Saxton, "Anamncsis Godard/Lanzmann•, tr. fr. in Trafic, n. 47, 2003, pp. 48-66. 18. G. Wajcman, "'Saint Paul' Godard contrc 'Moise' Lanzmann", cit., pp. 121· 127. 19. G. Wajcman, "De la croyancc photographique", cit., pp. 60-61. 20. G . Wajcrnan, "'Saint Paul' Godard conrrc 'Moi'se' Lanzmann", cit., p. 127.

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Shoah vieta molte cose. Shoah priva la gente di molte cose. Shoah è un film arido e puro. [. ..]Il mio film è un "monumento" [ ...]. Shoah non è fatto per comunicare delle informazioni, ma insegna tutto." Il cerchio si chiude quando il film Shoah - montaggio di immagini realizzate a pattire da interviste coi sopravvissuti della Shoah 21. R Hilberg, La Politique de la mémoire (I 994), tr. fr. Gallimard, Paris I 996, p.182. 22. La versione inglese è più chiara, su questo punto, della traduzione: "Lanz• ~~ even found '!1ost ~f bis interviewees in sm_all places, and these pcople and localiues are shown lll a mne-and-half hour mosaJc" (R Hilberg, The Po/iJics o/ Memory. The Journey o/a Holocaust Historian, Ivan D. Ree, Chicago 1994, p. 191). 23. Cfr. M. Halbenal, A. Margalit, Idolatry, tr. ingl. Harvard Univcrsity Press Cambridge-London 1992, pp. 37-66. ' 24. J.-F. Forges, "Shoah: bistoire et mémoire", in Les Temps modernes, LV, 2000, n._608, pp. 30, 35, 40. Vincent Lowy osserva giustamente che, poiché Shoah assomiglia- pure per Lanzmann - a una cerimonia funebre, lo si poteva filmare una volta sola (V. Lowy, I:Histoire infi]mable. Les camps d'extermination naiis à /'écran L'Harmattan, Paris 2001, p. 80). ' 25. C. Lanzmann, "Holocauste, la représcntation impossible", cit., p. vn; C. Lanzmann, "Le monumeot contrcl'archive?", cit., pp. 275-276.

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si vede investito delle caratteristiche dell'evento di cui in realtà costituisce solo un'interpretazione après coup: "Shoah non è un film sull'Olocausto, non è un derivato, non è un prodotto, ma un evento originario. Che piaccia o meno, di questo parlerò dopo, il mio film non soltanto fa parte dell'evento della Shoah, ma contribuisce a costituirla ~ome evento".26 Vediamo qui un regista costruire l'identificazione del suo film con la realtà che esso documenta (per mezzo della parola dei testimoni) e interpreta (per mezzo del montaggio). Il ragionamento di Wajcman si illumina allora ulteriormente: "Non c'è immagine della Shoah", dice egli in sostanza, poiché c'è l'immagine di Shoah, che "insegna tutto", diventando coestensiva al fenomeno di cui restituisce così l'immagine tutta. È stato certo salutare, dopo la serie americana Olocausto, dopo la drammaturgia consensuale di Spielberg, dopo i maneggi emozionali di Benigni, rispondere con un'opera di grande rigore storico.n Ma ciò non sign.i.fica che Shoah sia un'"opera unica", che "invalida ogni impresa anteriore" ,28 o peggio invalida ogni "immagine a venire". Facendo di Shoah l'immagine tutta che manca a ogni altra immagine - quella dell'archivio e quella del cinema, quella del passato e quella del futuro -, non si fa che confondere questo film con la storia (politica) di cui esso tratta, e non si fa che esonerarlo dalla storia (estetica) in cui va comunque inserito. Non va dimenticato, infatti, che Shoah appartiene a pieno titolo alla storia del film documentario. A cominciare da Nuit et brouillard: trent'anni prima di Lanzmann, Alain Resnais ha costretto ogni spettatore del suo film a confrontarsi col ricordo, così difficile da tollerare, di un evento che era senz'altro meno conosciuto allora di quanto lo sarebbe stato poi negli anni Ottanta. Nuit et brouillard ha subito la censura in Francia (fu necessario truccare una sequenza in cui si scorgeva, nel campo di Pithiviers, il képi di un gendarme di Vichy) e in Germania (la cui ambasciata ottenne il ritiro dal festival di 26. C. Lanzmann, "Parler pour !es mons", cit., p. 15. 27. Sulla polemica tra Lanzmann e Spielberg cfr. in particolare J. Walter, • La Liste de Schindler au miroir de la presse", in Mots. Les langages du politique, n. 56, 1998, pp. 69-89; V. Lowy, Z:Histoire in/ilmable, cit., pp. 153-164. Per una critica di Benigni cfr. M. Henochsberg, "Loin d'Auschwitz", cit., pp. 42-59. 28. P. Sorlin, "La Sboah: une repr~tation impossible.?", in les Institutions de l'image, cit., p. 183.

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Cannes del 1956).27 Ma la ·s ua ricezione·nel mondo artistico e intellettuale prefigura esattamente il ruolo svolto da Shoah negli anni Ottanta e Novanta. Ado Kyrou scriveva nel 1956 che si trattava di un "film necessario" e che non riusciva a immaginare "un altro film sullo stesso soggetto".'0 In quel film si sono visti infranti "i limiti di quanto si reputava possibile r,.aJizzare", si è scorta una soluzione magistrale per "trovare le forme adatte alla trasmissione dell'esperienza intrasmissibile" ." Come accadrà in seguito con Shoah, il film di Resnais inizia nella pesantezza immobile dei paesaggi vuoti o, peggio ancora, banali: "Anche un paesaggio tranquillo, anche un prato con dei corvi che volano, dei covoni e dell'erba che brucia, anche una strada con delle macchine che passano, dei contadini, delle coppie, anche un villaggio di vacanza, con tanto di fiera e di campana, possono portare a un campo di concentramento. [. ..) Oggi, sulla stessa strada, è giorno e c'è il sole. La percorriamo lentamente, alla ricerca di che cosa?".' 2 Shoah ciha sconvolti con quella radura vuota di Chelmno ric~nosciuta da Simon Srebnik, il sopravvissuto.» Nuit et brouillard ci aveva sconvolti invece coi suo campi vuoti, percorsi da straordinari "travelling senza soggetto" (figure 22-23 ): 29. Cfr. in generale R Raskin, •Nuit et brouillard' by Alain Run11is. On the Making, Reception and Functions of a Major Doeumentary Film, Aarbus University Press, Aarbus 1987; C. Delage, "Les conuaintes d'une expéricnce collcctive: Nuit et brouillard", in C. Dclage, V. Guigueno (a cura di), Le Film et l'histon'en, Gallimard, Paris 2004. 30. A. Kyrou, • Nuil et brouillard: le film nécessaire" (1956), in S. Goudet (a cura di) Alain Resnais, Positif-Gallimard, Paris2002, p. 44. 31. M. Oms, Alain Resnais, Riv-ses, Paris 1988, p. 67. !:autore ricorda (pp. 2357) l'ampia rulessione di Resnais sulla mone nella storia, in Guernica (1950), Les Statues meurent aussi (1950-1953), Hiroshima mo11 amour (1959) e Stavisl,y (1974). 32. J. Cayrol, Nuit et brouillard (1956), Fayard, Paris 1997, pp. 17, 21. Ancora prima del testo di Cayrol, ceco l'inizio della sinopsi scritta dallo stesso Resnais: • Notte e nebbÌll. Colore. Un paesaggio neutro, calmo, banale. La camera indietreggia. Ci troviamo all'interno di un campo di concentramento smantellato e deserto. In panoramica, la =era scopre da lontano l'entrata del campo, affiancata da un posto di osservazione. (Forse si distinguono anche d(i turisti vestiti con colori chiari che enuano, seguendo una guida. Ci può essere il sole. Ma in seguito il ciclo dovrà restare sempre grigio e nuvoloso.) Una serie di panoramiche lentissim.e muovono ogni volta da un elemento 'esterno' per terminare su un elemento 'interno' (idealmente, ogni panoramica dovrebbe essere fatta in un campo diverso: Struthof, Mauthausen, Auschwitz-Birkenau, Majdanck)" (A. Resnais, citato da C. Del-se, 'Les contraintes d'une cxpéricncc collcctivc*, cit.). 33. C. Lammann, Shoah, tr. fr. cit., p. 18.

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Figura 22 Alain Resnais, Nuit et broui/'4rd, 1955. Fotogramma dell'inizio del film.

[. .. ) la camera si muove, con lenti travelling, solo in ambienti vuoti, certo reali e vivi - leggero sommovimento dei ciuffi d'erba ma vuoti d'essere e di una realtà pressoché irreale, a forza di appartenere a un mondo che è ancor di più quello di un'improbabile, impossibile sopravvivenza. La camera sembra spostarsi per nulla, priva del dramma, dello spettacolo che quei movimenti sembrano accompagnare, ma che sono ormai solo di fantasmi invisibili. Tutto è vuoto, immobile e silenzioso. Delle foto potrebbero bastare. Ma, per l'appunto, la camera si muove, è la sola a muoversi, è la sola vita, non c'è nulla da filmare, nessuno, c'è solo il cinema, di umano e vivente c'è solo il cinema, di fronte a poche tracce insignificanti, derisorie, ed è questo il deserto che la camera percorre, è su di esso che essa inscrive la traccia supplementare, subito cancellata, di traiettorie già molto semplici[. .. )."

Serge Daney ha ben compreso che quel travelling era agli antipodi del "travelling di Kapò", fustigato con violenza da Jacques Rivette nel 1961." Egli ha colto in Nuit et brouillard "l'obbligo

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Figura 23 Claude Lanzmann, Shoah, 1985. Fotogramma dell'inizio del film.

di non fuggire" dinanzi alla nostra storia, l'"anti-spettacolo" per antonomasia, l'ingiunzione a comprendere "che la condizione umana e il macello industriale non erano incompatibili, che il peggio si era appena verificato"; vi ha colto una "sismografia" anziché un'iconografia storica e, per finire, un'autentica "scrittura del disastro" nel senso di Maurice Blanchot.>6 Daney aveva ragione: la scommessa di Nuit et brouillard stava infatti nello scuotere la memoria facendo scoppiare una contraddizione tra i documenti inaggirabili della storia e i segni ripetuti del presente. I documenti della storia sono quelle famose immagini d 'archivio in bianco e nero - che lasciarono ammutoliti gli spettatori del!' epoca e che Lanzmann oggi intende ricusare per la loro mancanza di rigore storico. I segni del presente sono dati dallo "sguardo senza soggetto" che Resnais gettava sui paesaggi vuoti dei campi 36. S. Daney, "Resnais et l"écrirure du désastre' " (1983), in Ciné-jouma4

Il.

/98}-1986, Cahiers du cinéma, Paris 1986, pp. 27-30; S. Daney, "Le travelling de

34. A. Flcischer, L'Art d'A'4in Resnais, Centre Georges Pompidou, Paris 1998, p. 33. 35.J. Rivette, "Dcl'abjection",in Cahiersdudnéma, n. 120, 1961, pp. 54-55.

/Grpo" (1992), in Persévérance. Entretien avec Serge Toubùzna, POL, Paris 1994, pp. B-39. Cfr. più cli recente F. Niney, l'Épreuve du réel ii l'écran. fusai rur k principe de rialité documentaire, Dc Boeck Université, Bruxelles 2000, pp. 95-100; C. Neyrat, 'Horreur/bonheur: métamorpbosc", in A'4in Resnais, cit., pp. 47-54.

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filmati a colori. Ma sono dati pure dalla volontà di consegnare tutto lo spazio sonoro del film a due sopravvissuti della persecuzione nazista: non si tratta di testimonianze in senso stretto, quanto di scritture volutamente distanziate. Il commento di Jean Cayrol non racconta la sua esperienza personale dei campi, e la musica di Hanns Eisler oltretutto ostacola ogni parafrasi patetica delle immagini. Una decisione formale - soprattutto radicale - comporta sempre una correlativa impasse: quel che si guadagna da una parte, si perde dall'altra. Con le sue scelte relative alla durata e al montaggio, Resnais riesce a provocare un potente sentimento del presente che finisce per offrirci una rappresentazione sintetica di ciò che poteva essere "un campo" nella Germania tedesca. Col che, però, "i campi" non vengono distinti tra loro e la dimensione dell'analisi storica passa in secondo piano (ricordiamo che la distinzione tra campi di concentramento e campi di sterminio non era ancora corrente nella storiografia degli anni Cinquanta).>' L'immagine dei corpi scheletrici viene così a coprire "il massacro di donne e bambini in buona salute, condotti nelle camere a gas non appena scesi dai convogli".>8 Ma non si può rimproverare a un'opera di tradire una promessa che non ha mai fatto: il film di Resnais non pretendeva affatto di "insegnare tutto" sui campi, proponendosi solo, più modestamente, di dare accesso ali'inaccessibile: Di questa realtà dei campi, disprezzata da coloro che la fabbricano, inafferrabile da coloro che la subiscono, invano cerchiamo a nostra volta di scoprire i resti [. ..] . Ecco tutto ciò che ci resta per immaginare. )t

"Fingiamo ancora di credere che tutto ciò appartenga a un solo tempo", aggiungeva coraggiosamente la voce di Nuit et broui/37. Contro i giudizi severi di Georges Bcnsoussan (Auschwin en héritage? D'un bon usage de fa mémoire, Mille et Une Nuits, Paris 1998, p . 44) e di Annette Wieviorka (Diportation et génocide. Entre fa mémoire et l'oubli, Plon, Paris 1992, p. 223 ), Christian Ddage ha stabilito, sulla base degli archivi di Anatole Dauman, che il riconoscimento dd genocidio degli ebrei - e della sua specificità - era messo ben in evidenza nd progetto di Resnais (cfr. C. Ddage, "I.es contraintcs d'une cxpérience collective", cit.). 38. $. Lindcperg, Clio de .5 à 7, eit., p. 183. 39.J. Cayrol, Nuit et btouiliard, eit., pp. 23-24.

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fard. 40 Si trattava, nel parallelismo delle immagini di archivio e dei segni· del presente, di disegnare un tempo critico - ~ la ~recht propizio, non tanto all'identificazione, quanto alla rifless1on~ politica. Una soluzione più acuta fu trovata quando al parallelismo Marce! Ophuls sostitul, in Le Chagrin et la pitié, una so1:a di co_n: trattempo critico prodotto dallo shock incessante tra le lD'lffiaguu di archivio e le testimonianze al presente. Lanzmann deve certo a Resnais un particolare modo· di spezzare il racconto storico per meglio consentire - a noi spettatori - di affrontare la storia. Ma il suo vero maestro è Marce! Ophuls,◄ 1 col suo modo di condurre sempre l'interlocutore alla testimonianza, cioè all'impossibilità di evitare la faglia decisiva - il segno della Storia - nella storia che racconta. Shoah radicalizza ulteriormente le soluzioni di Ophuls con una tappa supplementare che consiste nel non utilizzare più il contrattempo delle immagini di archivio, a beneficio di una sola dimensione - la parola e i luoghi filmati al presente - che crea da sé, con la sua durata e il suo montaggio, le condizioni inesorabili di un'"impossibilità d'evitare". Benché Lanzmann non parli molto di Marce! Ophuls e sia esageratamente violento nei confronti di Alain Resnais,◄2 questa filiazione meriterebbe un'analisi più attenta. Essa mostra, se ce n'era ancora bisogno, che l'uso dell'archivio non è affatto "passato di moda" 0 e che, fra i tanti film dedicati alla Shoah dal 1985 al 1995, il montaggio delle immagini del passato con le testimonianze del 40. Ibidem, p. 43 . 41. Cfr. P. Mcsnard, "La m6noitt cin6natographique de la Shoah", in Parler Jts camps, penur /es génocides, eit., pp. 480-484; P. Mcsnard, Consciences de fa Sho.,h, cit., pp. 289-290. 42. "L'altra mattina sono andato nella sala col proiezionista per verificare le COD· dizioni della proiezione; se il suono era abbast~za forte, la qualità della copia ccc. poi sono passato davanti alla cassa, Shoa~ previsto per le 1~ e v~o alle 12: Nuit et brouilfard. Allora mi dico "È strano pero . Vado dal propnetano della ~ L .. ] e gli dico "Cos'è questa faccenda?". Mi risponde: "Sono obbligato a proiettare un 61m a mezzogiorno, ci sono dclle leggi". E gli replico: "Ma sta scherzando? Sta !Chcrzando vero?". E lui: "No, il mio programmatore ha pensato che dopo tutto l'argomento era lo stesso". Allora gli ho detto: "Bene, se proiettate Nuit ~t ":?uil1,,J non ci sarà Shoah, ritiro il 6.1m •. ( ..•] Penso che il paragone o la coottgwta tra due 6.1m non abbia senso. Anche se l'argomento è lo stesso, Shoah non ha nulla a cl,c vcderc con Nuit et brouilfard" (C. Lanzmann, citato da V. Lowy, I.:Histoire in/il111,ble, eit., pp. 85-86). 43. Come crede V. Sanchcz-Biosca, "Rcprésenter l'irrcpréscntable. Des abus de la rbétorique", in Les InstiJutions de l'image, cit., p . 177.

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presente copre un vasto spettro di soluzioni formali da cui non si può estrapolare alcuna regola formale ... Basta non essere troppo ingenui né con gli archivi né col montaggio che se ne produce: i primi non ci restituiscono affatto la verità "nud~ e cruda~ del passato e acquistano esistenza solo sulla base dei problerru che noi ci poniai:no al riguardo; il secondo è appunto ciò che dà ~a forma a questo insieme di problemi, da cui acquista la sua cruciale importanza -estetica ed epistemologica..,

puto costruire le loro figure come altrettanti dispositivi enunciativi; non si può "vedere il tempo", ma le immagini creano l'anacronismo che ce lo mostra all'opera; non si può "vedere il luogo", ma le fiabe topiche inventate dagli artisti ce ne mostrano bene con mezzi al contempo sensibili e intelligibili - la potenza di "svuotamento". L'intera storia delle immagini può dunque essere narrata come uno sforzo, un~ sforzo per oltrepassare visivamente le contrapposizioni triviali tra il visibile e l'invisibile. "Ciò che non si può vedere, bisogna mostrarlo": Gérard Wajcman pensa che solo un'eliminazione, una unificazione o una assolutizzazione dell'immagine - l'immagine nulla, l'immagine una o l'immagine tutta - potrebbero soddisfare questo imperativo. Per quanto mi riguarda, io penso invece che solo la moltiplicazione e la congiunzione delle immagini, sempre lacunari e relative, aprano una via per mostrare malgrado tutto ciò che non si può vedere. E la prima, la più semplice maniera per mostrare ciò che ci sfugge, è appunto quella di montare un profilo figurale con più viste o più tempi dello stesso fenomeno. La forma elementare - fredda, spaventosa - di questo profilo è possibile osservarla in un brevissimo filmato, realizzato da qualche tecnico nazista nel settembre 1941 a Mogilov (Bielorussia): un piano mostra uomini nudi, fa. melici, trasportati su un piccolo carro, di cui poi viene chiusa la porta; il piano seguente descrive semplicemente la traiettoria dei rubi attaccati alla marmitta di un'automobile; si tratta dunque di un film in cui non si vede ma si mostra, nel montaggio elementare delle due sequenze, un'esperienza di gasaggio - le cui vittime erano senza dubbio dei minorati - con ossido di carbonio. 48 All'altro capo di questo spettro troviamo Shoah, che non dà a vedere ciò che i testimoni hanno vissuto dello sterminio, ma mostra i sopravvissuti stessi, impegnati nella tragica prova della reminiscenza. Con un montaggio interamente basato sull'economia del racconto, Claude Lanzmann ci permette allora di strappare a queste parole - da cui esige egli stesso, parola per parola, la maggiore precisione possibile - un immaginabile. Jean-Luc Godard, in Histoire(s) du cinéma, sceglie invece di mostrare il cinema in sé

* "Ci sono sicuramente cose che non si possono vedere. E ciò che non si può vedere, bisogna mostrarlo. " 44 Ecco almeno una frase di Gérard Wajcman con la quale sono d'accordo. Purtroppo, però, la conclusione rovina tutto: "Ciò che tutto questo mostra è che non c'è immagine".◄7 Per fondare un'affermazione del gene.re sarebbe occorso, in via molto generale, ridurre al solo linguaggio la/orza di mostrare; e, in via più circostanziata, decretare che le nove ore e mezza di Shoah non sono immagini (insomma, se Lanzmann avesse voluto affidarsi solo alla parola, non avrebbe fatto un film, ma un libro o una trasmissione alla radio per esempio). Ciò che Wajcman trascura, in questo caso, è che la nozione stessa di immagine - tanto sul piano storico quanto sul piano antropologico- si confonde appunto col tentativo incessante di mostrare ciò che non si può vedere. Non si può "vedere il desiderio" in quanto tale, ma i pittori hanno saputo giocare con l'incarnato per mostrarlo; non si può "vedere la morte", ma gli scultori han: no saputo modellare lo spazio come porta di una tomba che "c1 (ri)guarda"; non si può "vedere la parola", ma gli artisti hanno sa44. Cfr. P. Mesoard, "La mémoire cinématographique de la Shoah", cit., pp. 473.490 (che contabilizza 1194 61m realizzati tra il 1985 e il 1995); P. Mesnard, sciences de la Shoah, cit., pp. 294-297 ("L'obstination des archives", in cw_si p_arla soprattutto dei 61m di A.Jauben, E. Sivan e R Br~uman)._Cfr. pure F. Morucclli, C. Saletti (a cura cli) Il racconto della catastrofe. Il anema dr fronte ad Auschwrl%, Società Letteraria-Cierre Edizioni, Verona 1998; W.W. Wende (a cura cli), Geschichte im Film. Mediale lnszenierung des Holocaust und kulturelles Gediichtnis, Metzler, Stuttgan-Weirnar 2002. 45. Cfr. F. Niney, L'Épreuve du réel à l'écran, cit., pp. 253-271 ("Les archives"). 46. G. Wajcman, "'Saint Paul' Godard contre 'Moise' Lanzmann", cit., p. 126. 47. Ibidem, p. 125.

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48. Queste iofonnaziooi proveogooo dall'lmperial War Museum (Londra), in rui il film è proiettato. Secondo Daoy Uzid, direttore ddl'archivio fotografico di Yad Vashem, il 61m si svolgerebbe a Minsk e non a Mogilov.

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e la sua reminiscenza cli se stesso in un montaggio interamente basato sull'economia del sintomo: gli accidenti, gli shock, il precipitare delle immagini le une sulle altre lasciano così sfuggire qualcosa che non si vede in questo o quel frammento del film, ma appare, in maniera differenziale, come la potenza stessa che assilla tutto. Ogni immagine "non è un'immagine giusta, è giusto un'immagine", come recita una frase celebre cli Godard.49 Ma essa permette "cli parlar meno e di clire meglio", o piuttosto cli parlarne meglio senza dovere dirlo.'° Godard, mi sembra, ha sempre inserito le sue riflessioni sui poteri e limiti del cinema nella sistole e cliastole dell'immagine stessa: la sua natura essenzialmente difettiva si alterna con la sua capacità cli cliventare, all'improvviso, eccessiva. È una pulsazione - il "doppio regime" dell'immagine cli cui parlavamo prima - in cui il limite sa trasformarsi in trasgressione, cioè in potere di dare più cli quanto ci si aspetta, cli sconvolgere lo sguardo, cli strappare il velo. Com'è possibile che un'immagine sia "giusto un'immagine", ossia il contrario cli un tutto, cli una captazione unitaria, cli un assoluto qualsiasi? Tutto ciò è possibile perché un'immagine non è mai "una":

pure della pittura, che egli definisce grande "montatrice", sulla scia cli Eisenstein - è proprio quella cli aver fatto fiorire questa essenziale pluralità nel tempo svolto del movimento. Ricorcliamo, a mo' d'esempio, la sua celebrazione cli Alfred Hitchcock:

Non c'è immagine, non ci sono che immagini. E c'è una certa forma di assemblagaio delle immagini: non appena ce ne sono due, ce ne sono tre. [. .. ] E il fondamento dd cinema."

Se Gérard Wajcman parla quasi sempre cli immagine al singolare - nulla, una oppure tutta-, se non prende mai in considerazione la natura sequenziale delle quattro foto cli Auschwitz, è perché l'immagine, ai suoi occhi, è un semplice "arresto" visibile sulle cose. L'immagine non possiede, secondo lui, quella fecondità che Lacan riconosce al significante nei suoi effetti "catena". Godard, al contrario, vede e costruisce l'immagine solo al plurale, cioè nei suoi effetti di montaggio. La grandezza del cinema - ma 49.J.-L. Godard, "Le groupe Dziga Vcrtov", in A Bcrgala (a cura di),Jean-Luc Godard par ]ean-Luc Godard, I. 1950-1984, Cahiers du cinéma, Paris 1998, p. 348. 50.J.-L. Godard (con Y. lshaghpour), Archéolcgie du cinéma et mémoire du siè• cle. Dialcgue, Farrago, Tours 2000, p. 81. 51. J.-L. Godard, "Jean-Luc Godard rencontrc Régis Debray" (1995), in A. Bcrgala (a cura di), ]ean-Luc Godard par ]ean-Luc Godard, Il. 1984-1998, Cahiers du cinéma,Paris 1998, p. 430.

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[Hitchcock] ha restituito [. ..] tutta la sua potenza all'immagine e ai concatenamenti di immagini.[.. .] Hitchcock faceva pane di una generazione che aveva conosciuto il cinema muto. In Hitchcock, la storia proviene veramente dal film, si sviluppa nel mentre si sviluppa il film, come il motivo si sviluppa nel pittore. [. ..] Egli ha scopeno il montaggio. La storia del cinema alla quale lavoro sarà proprio la storia ddla scopena di un continente sconosciuto, il montaggio. [ ...] Quando Eisenstein parla, nei suoi scritti, del Greco, non dice mai "questo pittore" ma "questo montatore" [ ...].12

Ora, l'effetto che Hitchcock produce col montaggio è quello di farcire l'immagine con la paura: "Hitchcock era il solo che potesse far tremare mille persone, non clicendo loro, come Hitler, 'Vi massacrerò tutti', ma mostrando invece, ad esempio in Notorius, una fila cli bottiglie cli bordeaux. Nessuno è riuscito a farlo, a parte lui. Solo i grancli pittori, come Ttntoretto".1' Con tutto ciò Godard non vuol certo contrapporre la paura politica (colpevole) cli Hitler alla paura estetica (innocente) cli Hitchcock, la paura reale cli Hitler alla paur a fittizia cli Hitchcock. Godard vuol dire in realtà che la paura, nelle immagini cli Notorius, può appartenere al registro della finzione, senza per questo appartenere al registro della falsificazione. Essa è fittizia - e perfino umoristica, dato che si spaventa lo spettatore con un'attraente sfilza cli buone bottiglie - ma riporta comunque una verità fenomenologica in cui diventa possibile pensare la paura in quanto tale. Il che è possibile perché il montaggio intensifica l'immagine e restituisce ali'esperienza visiva una potenza che le nostre certezze o abitudini visibili hanno la tendenza a sedare o a velare. Notiamo, en passant, che Godard non è il solo a clifendere questo genere cli posizioni. Un cineasta completamente cliverso come Robert Bresson enuncia idee assai simili quando rifiuta il 'valore assoluto cli un'immagine"; quando insiste a dire che "non 52. J.-L. Godard, "Alfrcd Hitchcock est mon" (1980), in Jean-Luc Godard par ],an-LucGodard, I . 1950-1984, ciL, pp. 412-415. 53. lbidem, p. 412.

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c'è tutto" in questo campo; quando impone alla rappresentazione una sorta di "frammentazione [che rende le parti] indipendenti allo scopo di conferire loro una nuova dipendenza"; quando invoca, assieme all'"onnipotenza dei ritmi", l'arte del montaggio grazie a cui "un'immagine si trasforma al contatto con altre immagini come un· colore al contatto con altri colori"; quando cerca, in profondità, tutto "ciò che accade nelle articolazioni" e osserva il fatto strano "che sia l'unione interna delle immagini che le carica di emozioni"; quando fa proprio il principio di "accostare le cose che non sono state mai accostate e non sembravano predisposte a esserlo"; tutto ciò per "smontare e rimontare fino all'intensità", dato che le immagini "si rafforzano trapiantandosi".,. Il montaggio conferisce dunque alle immagini lo statuto di enunciazione che le renderà, a seconda del loro valore d'uso, giuste o ingiuste: così come un film d'azione - questa l'idea che se ne fanno Hitchcock, Godard, Bresson e altri - può portare le immagini a un grado di intensità tale da fame sorgere una verità, allo stesso modo un semplice servizio televisivo può utilizzare le immagini documentarie per produrre una falsificazione della realtà storica che esse comunque archiviano. Si può capire allora come il montaggio finisca per trovarsi al centro della questione concreta - uso singolare, e non verità generale - delle immagini. È tanto ingenuo assimilare montaggio e menzogna, come faceva Georges Sadoul ad esempio," quanto restare ciechi di fronte alla presa costruttiva del montaggio sul materiale visivo che esso elabora e interpreta. Non è un caso se i servizi cinematografici dell'esercito americano, nel 1945, si rivolsero a John Ford per chiedergli di riflettere sull'uso - vale a dire sul montaggio - delle sequenze filmate da George Stevens all'apertura dei campi; e se, parallelamente, Sidney Bemstein incitò l'amico Alfred Hitchcock a riflettere sul montaggio delle sequenze girate nei campi, in particolare a Bergen-Belsen, dall'esercito britannico.'° Le reazioni del "maestro

della paura", riferite da più testimoni - tra cui Peter Tanner, il montatore dd film di Bemstein -, furono assai significative: non si poteva pensare a un montaggio in forma di investigazione, di inchiesta (cosa che Hitchcock sapeva fare molto bene) ma a un montaggio in forma di processo (cosa che egli, "camminando nervosamente", ammise di non saper fare troppo bene, soprattutto con immagini di questo tipo):'7 Hitchcock però comprese subito che questa forma esigeva un montaggio che non separi nulla: innanzitutto, non bisognava separare le vittime dai carnefici, bisognava cioè mostrare i cadaveri dei prigionieri sotto gli occhi dei responsabili tedeschi, per cui si decise di tagliare il meno possibile le lunghe panoramiche, di spaventosa lentezza; e poi, non bisognava separare il campo stesso dai suoi dintorni sociali, che si trattasse di dintorni normali, eleganti, rurali o bucolici. Sin dall'inizio, Hitchcock e Bemstein avevano capito che l'insostenibilità di questi archivi, in contrasto con tutto il resto - col resto dell'umanità al di là del filo spinato-, poteva suscitare il diniego, il rigetto di evidenze troppo pesanti. D'altronde, la negazione del genocidio è inscritta nella differenza stessa che separa il campo dai suoi dintorni più immediati. Ma non è proprio il montaggio che, in un film, si fa carico di mostrare le differenze? Ciò che non si può vedere, bisogna dunque davvero montarlo, affinché sia possibile pensare le differenze tra alcune monadi visive - separate, lacunari-, ossia conoscere malgrado tutto ciò che resta impossibile da vedere interamente, ciò che resta inaccessibile come tutto.

.54. R Bresson, Notes sur le cinématographe, Gallimard, Paris I 995, pp. 22, 30, 3.3, 3.5-36, .52, .56, 69, 93-94, 107; tr. it. Note sul cinematografo, Marsilio, Venez.ia 2003. .5.5. G. Sadoul, "Témoignages photographiques et cinématographiques", in C. Samaran (a cura di), I.:Histoire et us méthodes, Gallimard, Paris 1961, pp. 13921394. .56. Cfr. V. Sanchez-Biosca, • Hier ist luin Warum. Apropos de la mémoire et dc l'irnage des camps de la mon", in Protée. Théories et pratiques sémiotiques, XXV,

1997, n. I, pp . .57-.59; S. Lindeperg, Clio de 5 à 7, eit., pp. 231-23.5; M.Joly, "Leciné• ma d'archives, prcuvc de l'histoirc?", in Les lnstitutions de l'image, eit., pp. 201· 212. Cfr. anche C. Drame, "Rcprésenter l'irreprésentable: les Clllllps nazis dans Ics actualités françaises de 194.5 •, in Cinémathèque, n. 10, 1996, pp. 12-28. H. Sul ruolo delle immagini cinematografiche al processo di Norimberga, cfr. le mirabili analisi di C. Delage, "L'imagc comme prcuve. L'expérience du procès de Nurembcrg",in VingtihneSùcle. Revued'histoire, n. 72, 2001, pp. 6.3-78. 58.J.-L. Godard, • Allred Hitchcockest mon•, cit., p. 41,.

* Godard non dice altro: "Il montaggio [...] è ciò che fa vedere" .18 È ciò che trasforma il tempo del visibile parzialmente ricordato in costruzione reminiscente, assillo visivo, musicalità

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del sapere. In destino: "Nel montaggio, si incontra il destino".'9 Così, il montaggio è elevato al rango di pensiero. E Godard ricorda che "il cinema [fu) anzitutto concepito per pensare", che dovrebbe darsi anzitutto come una "forma che pensa". 60 Il montaggio è l'arte di·produrre questa forma che pensa. Esso procede, fi. losoficamente, come una dialettica (al pari di Benjamin e Bataille, Jean-Luc ~odard non ama citare Hegel, se non per traviarlo): il montaggio è l'arte di rendere l'immagine dialettica. Il che va inteso in diversi modi. In primo luogo, il montaggio rende ogni immagine la terza di due immagini già montate l'una con l'altra. Ma, precisa Godard - riferendosi a Eisenstein -, questo processo non assorbe le differenze, al contrario le esalta: non è dunque una sintesi o una "fusione" di immagini, anche nel caso delle sovrimpressioni utilizzate in Histoire(s) du cinéma:

L ..] l'immagine che proponete entra nel testo e infine il testo, a un ceno punto, emerge dalle immagini, non c'è più un rappono di semplice illustrazione e ciò vi pennette di esercitare la vostra capacità di pensare e di rillettere e di immaginare, cli creare. [. ..] Ecco, è un accostamento ed è un'immagine, come ce ne sono tante in Histoire(s) du cinéma. [. . .) Un giorno mi ba colpito come un'immagine il fatto che fossero due parole ad essere accostate."

Jean-Luc Godard. - Le Histoire(s) sono cinema, tecnicamente sono un manuale, cose semplicissime, tra le quaranta possibilità della regia ne ho uùlizzate una o due, soprattutto la sovrimpressione, che mi ba consentito di serbare l'immagine originale dd cinema L . .). Youssef Ishaghpour. -Il fatto che le due immagini si fondano l'una con l'altra ... Jean-Luc Godard. - La base è sempre due, presentare sempre all'inizio due immagini anziché una, è questo che io chiamo l'immagine, l'immagine fatta di due [ ... ).61

Le cose poi si complicano ulteriormente nella misura in cui Godard non cessa mai, nel proprio lavoro, di ricorrere a parole da leggere, da vedere o da ascoltare. In tal senso, la dialettica va intesa allora come una collisione moltiplicata di parole e di immagini: le immagini urtano tra loro affinché sorgano delle parole, le parole urtano tra loro affinché sorgano delle immagini, le immagini e le parole urtano tra loro affinché il pensiero abbia luogo visivamente. Le innumerevoli citazioni testuali utilizzate nei film di Godard sono appunto inseparabili da questa complessiva strategia di montaggio:

È allora che l'immagine acquista una leggibilità direttamente prodotta dalle scelte di montaggio: essa si fonda su un "accostamento degli incommensurabili", ma produce nondimeno un autentico "fraseggio della storia", come ba ben detto Jacques Rancière.6' Le Histoire(s) godardiane sono forse storia? Certo che no. E a Youssef Ishaghpour, che gli obietta che uno "storico non può permettersi di creare delle 'immagini', mentre voi potete farlo col montaggio", Godard risponde come segue: "Per me la Storia è, se vuole, l'opera delle opere, che le ingloba tutte, la Storia è il nome di famiglia, con tanto di genitori e di figli, con tanto di letteratura, pittura, filosofia ... , la Storia, diciamo, è l'intero insieme. Dunque, se l'opera d'arte è ben fatta, essa appartiene alla Storia [ ... ] . Mi sembrava insomma che la Storia potesse essere un'opera d'arte, cosa che è stata ammessa solo da Michelet".64 In Cinéma Cinéma, Godard definiva tavola critica al tempo stesso il suo tavolo di lavoro - cosparso di libri aperti, di appunti scritti, di fotografie - e il tavolo di montaggio: non era forse un modo per ribadire che il cinema mostra la storia, anche quella che non vede, nella misura in cui sa montarla?6' Non è forse la conoscenza storica del ruolo svolto dall'autore di Vertigo nel film di Bemstein che, ad esempio, pennette a Godard di accostare un piano di Norimberga e un piano di Hitchcock?

59.J.-L. Godard, "Le montsgc, la solitude et la libcné" (1989), in]ean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Il. 1984-1998, cit., p. 244. 60.J.-L. Godard, Histoire(s) du anéma, cit., ID, p. 55. 61.J.-L. Godard (con Y. Ishaghpour), Archéologie du anim,ut mimoire du siècle, cii., pp. Z6-27.

62. Ibidem, pp. 13, 82. 63. J. Rancièrc, "La phrase, l'imagc, l'histoirc" (2002), in Le tkstin des images, La Fabriquc, Paris 2003, p. 72. 64.J.-L. Godard (con Y. lshaghpour), Archiologie du dnéma et mi moire du siède, cit., pp. 21, 24-25. 65.J.-L. Godard, "Le cinéma est fait pour pcnser l'impensablc" (1995), in]eanL,,c Godard par Jean-Luc Godard, li. 1984-1998, cit., p. 2%;J.-L. Godatd, "Hisloirt(,) du dnéma: à propos dc cinéma et d'histoire" (1996), in Jean-Luc Godard par J,111-Luc Godard, li. 1984-1998, cit., p. 402: •[quando] François Jacob, il biologo, scrive: 'Lo stesso anno Copernico e Vesalio .. .', ebbene, in qud momento non sta fa. ctndo biologia,Jacob, sta facendo cinema. E la storia è appunto questo. È accosta• mento. È montaggio•.

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Oggi, in video, guardo più spesso documenti storici che film. Ma è la stessa cosa, non vedo differenze. Da questo punto di vista, un estratto del processo di Norimberga e una sequenza di Hitchcock raccontano entrambi ciò che siamo stati, sono entrambi cinema. - La storia è fatta allora di accostamenti? - È ciò"che vediamo, prima di dirlo, accostando due immagini: una giovane donna che sorride in un film sovietico non è esattamente uguale a quella che sorride in un film nazista. Mentre lo Charlot di Tempi moderni è esattamente uguale, inizialmente, all'operaio di Ford filmato da Taylor. Fare della storia significa passare delle ore a guardare queste immagini e poi ad accostarle, facendo scoccare all'improvviso una scintilla. Tutto ciò produce delle costellazioni, con stelle che si accostano e discostano, come diceva Walter Benjamin.66

Ed era finito quando non si erano filmati i campi di concentramento.

Eccoci allora ricondotti all'"immagine dialettica" di Benjamin e, di conseguenza, alla conoscenza tramite il montaggio.67 Non soltanto "l'epoca del cinema è l'epoca della storia nella sua accezione moderna", come affermaJacques Rancière, ma il cinema così inteso lavora inoltre con l'indimenticabile: in altre parole, si confronta di continuo con la questione della Vemichtung, dell'annientamento. 68 Scrivendo che "il cinema è fatto per pensare l'impensabile",69 Jean-Luc Godard è però costretto a constatare, tragicamente, che "il cinema non è stato all'altezza del . ": suo compito Ingenuamente, si è creduto che la Nouvelle Vague fosse un inizio, una rivoluzione. Invece, era già troppo tardi. Tutto era già finito. 66.J.-L. Godard, "Le cinéma a été l'an dcs amcs qui om vecu intimement dans l'Histoire (entretien avec Antoine de Baecque)", in Libération, 6-7 avril 2002, p. 4,. 67. Sul tenore benjaminiano delle Histoire(s) du cinéma cfr. soprammo A. Bergala, Nul mieux que Godard, cit., pp. 221-249 ("I:Ange de l'Histoire "); Y. Ishaghpour, "J..L. G. cinéastc dc la vie moderne. Le poétique et l'historique", in Archéologie du cinéma et mémoire du siècle, cit., pp. 89-118. Sulla "conoscenza anraverso il montag• gio" in Walter Benjamin cfr. G. Didi-Huberman, Devant le temps, cit., pp. 85-155. 68. J. Rancière, "L'inoubliable", in J.-L. Comolli, J. Rancière (a cura di), A"ét sur histoire, Centre Georges Pompidou, Paris 1997, pp. 47 ·70;]. Rancière, "I:his10rici1é du cinéma", in A. de Baecque, C. Delage (a cura di), De l'histoire au cinéma, IHTP•CNRS-Éditions Complexe, Paris-Bruxelles 1998, pp. 4,-60. Tuno ciò è smo avanzato - come nd dibattito già menzionato a proposito di C. Ginzburg - contro la postmoderna "fine della storia", illustrata ad esempio dall'articolo di A. Kaes, "Holocausl and the End of History: Postmodem His1oriography in Cinema•, in Probing the Lim1ìs oJRepresentation, cit., pp. 206-222. 69. J.·L. Qodard, "Le cinéma cs1 fait pour penser l'impensable", cii., pp. 294-299.

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In quell'istante, il cinema ha mancato totalmente al suo dovere. Ci sono stati sei milioni di persone, uccise o gasate, e il cinema non era là. Eppure, dal Dittatore alla Regola del gioco, aveva preannunciato ogni dramma. Non filmando i campi di concentramento, il cinema ha dato forfait. È come la parabola del buon servitore, morto a forza di non essere utilizzato. Il cinema è un mezzo di espressione da cui è scomparsa l'espressione. È restato solo il mezzo.'0

Le Histoire(s) du cinéma non costituiscono ovviamente una cronaca o un documentario sui campi. Ma uno dei loro leitmotiv più potenti consiste nel mostrare come uno straordinario "mezzo d'espressione", il cinema, si sia privato della sua stessa "espressione" - o del suo oggetto principale - il giorno in cui, una volta aperti i campi, "ha dato forfait". Che vuol dire Godard quando afferma che il cinema "non ha filmato i campi"? Non soltanto egli è a conoscenza dei filmati di George Stevens e di Sidney Bernstein, ma li utilizza addirittura nel suo film. Non soltanto ricorda che Chaplin e Lubitsch non hanno scansato il tema, ma si dice addirittura certo che i nazisti abbiano filmato le loro sinistre invenzioni, in documenti che riposano ancora al fondo di qualche archivio inesplorato.7' Dunque, perché dire che il cinema non ha filmato i campi? Perché tutto questo non basta a fare del cinema. Perché, secondo Godard, nessuno ha saputo montare - ossia mostrare per comprendere - le inquadrature esistenti, i documenti della storia. In apparenza, Godard non è soddisfatto dei consigli elargiti da Hitchcock, in qualità di treatment advisor, al montatore Sidney Bernstein. E non sembra nemmeno molto soddisfatto né dei travelling di Nuit et brouillard né di Shoah.72 70.J.-L. Godard, "Le cinéma n'a pas su remplir son ròle" (1995), in]ean-1..uc Godard par ]ean-LucGodard, Il. 1984-1998, cit., p. 336. 71. J.·L. Godard, "La légende du siècle (entretien avec Frédéric BoMaud et Arnaud Viviant)", in Les Inrockuptibles, 21 octobre 1998, p. 28: "Gli archivi, li si scopre sempre molto tempo dopo. [ ... J Non posso provare ciò che dico, ma credo che, i, mi ci menessi con un buon giornalista d'investigazione, troverei immagini delle camere a gas od giro di vent'anni. Si vedrebbero entrare i deponati e si vedrebbe in che condizioni ne escono•. 72. J.-L. Godard, "En1retien avec Marguerite Duras" (1987), in Jean-1..uc Go• J.,d par]ean-LucGodard, TI. 1984-1998, cit., pp. 144-146: "Jean-LucGodard. - Non si vuole vedere, si preferisce dire dd male. Faccio sempre l'esempio dei campi di

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Posizione, questa, al tempo stesso ingiusta e comprensibile in una logica come la sua: ingiusta perché Alain Resnais e Claude Lanzmann di sicuro non hanno "dato forfait" dinanzi al compito di cui Godard ha spesso parlato, ma che non ha mai assolto in prima persona;n comprensibile perché l'esigenza di Godard è coerente e concreta: bisognerebbe riesplorare gli archivi storici "Non li si mostra più oggi, nessuno sa che cosa è accaduto [ ... ]. A tratti, l'immagine non si ha voglia di vederla, l'immagine è diffi. cile" 74 - e bisognerebbe fare un grande film di questa esplorazione, al di là di quella "pedagogia dell'orrore" che veicolarono, alla liberazione, i nostri cinegiornali. Il cinema, in tal senso, ha "dato forfait" dawero, allora, nonostante il compito fosse essenziale. E alla colpa di non aver filmato i campi si aggiunge, per Godard, quella di aver lasciato campo libero a Hollywood: "JLG non è stato in grado di [. .. ) impedire al signor Spidberg di ricostruire Auschwitz". 71 Tuttavia, le Histoire(s) du cinéma si ostinano magnificamente nel montaggio malgrado tutto di questa grande questione sempre aperta: non aver paura degli archivi - evitando il duplice scoglio della sacralizzazione e della denegazione - ma non aver paura nemmeno di utilizzarli per creare un'opera, che è qui un'opera di montaggio. "È senza dubbio questo il paradosso più profondo di Histoire(s) du cinéma. Mostrare che il cinema ha tradito, oltre che la sua voca-

zione alla presenza, il proprio compito storico. Ma la dimostrazione della vocazione e dd tradimento è pure l'occasione per verificare l'esatto contrario. " 76 La domanda diventa allora: con cosa montare - per mostrarle - le immagini dei campi? La risposta di Histoire(s) du cinéma è ovviamente complessa, e serµpre dialettica: né "totalitaria" (non presuppone cioè una sola storia "tutta"), né dispersiva (non presuppone cioè molteplici storie senza alcun legame tra loro). Jacques Awnont ha analizzato con precisione il modo in cui Godard "ri-monta il tempo" in Histoire(s) du cinéma.11 Cammin facendo, egli osserva che dando ritmo alle immagini d'archivio non si corrompe mai, comunque, la loro natura di registrazione fotografica: "vale la pena notare che, pur nella loro brillantezza e complessità, le Histoire(s) non hanno mai fatto ricorso al ritocco dell'immagine, ma soltanto a tecniche che non corrompono l'indizialità". 78 Ecco perché montaggio non significa "assimilazione" indistinta, "fusione" o "distruzione" degli elementi che lo costituiscono. Montare un'immagine dei campi - o della barbarie nazista in generale - non significa perderla in un calderone culturale fatto di quadri, di estratti di film o di citazioni letterarie: significa semmai dare a intendere qualcosa di diverso, mostrando la differenza e il legame di questa immagine con ciò che la circonda per I'occasione. Masha Bruskina, giovane ebrea di diciassette anni, fu impiccata dai tedeschi a Minsk, nell'ottobre 1941: la corda ben tesa, sulla foto, è implacabile, così come è sconvolgente il volto dell'impiccata; Godard - il cui film è letteralmente ossessionato dalla scomparsa degli esseri, dei corpi - pone questa immagine in eco con una celebre fotografia di Hiroshima, in cui si scorgono l'ombra di una scala ancora in piedi e un corpo polverizzato contro un muro.79 La stessa immagine di impiccagione era stata associata, nella prima parte dd film, ad alcuni Disastri di Goya. E questi a loro volta prolungati in un dettaglio dei Capricci: sorta di angelo malefico - versione mostruosa dell' Angdo benjaminiano della Storia -

concentramento: si preferisce dire 'mai più' piuttosto che mostrare. [ ... ) Si preferisc~ scrivC;"e dei lib_~ per dire che ciò non è accaduto, ai quali replicheranno altri libn· per dire che CIO è accaduto. Ma basta mostrare, la visione es~te ancora. [ ... ) Marguerite Duras. - Shoah ha mostrato: le strade, le fosse profonde i sopravvissu• ti ... Jean-Luc Godard. - Non ha mostralo nulla•. • 73.J.-L.. Godard, "Feu sur LesC1Jrabiniers• (1963), in]ean-LucGodardpar]ean, LucGod4rd, I. 1950-1984, cii., p. 239: "Facciamo l'esempio dei campi di concentra• mento. L'unico vero 61m su cli essi - che non è mai staio girato e mai lo sarà. poiché sarebbe intollerabile- sarebbe quello in cui si 6lma un campo dal punto di vista dei !otturatori[. .. ]. Sarebbe insopponabile non 1an10 l'orrore di queste scene, quanto il loro aspetto perfe1tamcnte normale e umano". J.-L.. Godard, lntroduction à une véritable histoire du cinéma, Albatros, Paris 1980, pp. 269-270: "E si studiano i campi. . . è per questo che non è mai s1a10 fatto un vero film sui campi di concentramento, perché ci vedremmo il nostro stesso mondo, in una fonna chiara e netta"; tr. it. Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti, Roma 1992. 74. Ibidem, pp. 221 -222. 7'. J.-L. Godard, "Lettrc à un ami américain" (1995), in Jean-Luc Godard par ]ean-Luc Godard, Il. 1984-1998, cii., p. 344. È una delle ragioni invocate da Godard per rifiutare la. "ricompensa" offenagli dal New York Film Critics Circle.

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76. J. Rancière, La Fable cinématographique, Le Seuil, Par~ 2001, p. 236. 77. J. Aumont, Amnésies. Fictions du cinéma d'après Jean-Luc God4rd, POL, Paris 1999, pp. 9-32. 78. Ibidem, p. 241. 79.J .•L. Godard, Histoire(s)ducinéma, cit., IV, p . 103.

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Figura 24 Jean-Luc Godard, HiJtoire(s) du cinéma, 1988-1998. Fotogramma della prima pane, "Toutes les histoitcs".

che porta sulle ali alcune povere anime, ossia delle teste mozzate80 (figura 24). ll manoscritto della Biblioteca nazionale di Francia riporta un breve commento su questa tavola eh~ parla di "vizi che prendono il volo per il paese dell'ignoranza". ll manoscritto del Prado è ancora più esplicito: "Dove se ne andrà questa infernale coorte, che urla nell'aria attraverso le tenebre della notte? Se fosse giorno, già sarebbe diverso: a forza di fucilate si farebbe cadere a terra tutta questa calca. Ma siccome è notte, nessuno la vede" .11 Ecco, per Godard, il male politico, allegorizzato qui da una notte sghignazzante in cui "nessuno lo vede" (e dunque nessuno gli impedisce di agire). Si vede molto di più nelle immagini seguenti: si vedono, a colori - giacché il male reale è sempre a colori -, i cadaveri del convoglio Buchenwald-Dachau filmati alla fine dell'aprile 1945 da George Stevens con la sua camera da sedici millimetri e una pelli80. Ibidem, I, p. 130. 81. F. Goya,Les Caprices (1799), tr. fr. L'Insulaire, Paris 1999, p. 166.

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cola Kodachrome12 (figure 25-26). Mentre l'inquadratura seguente non è altro che un tipico esempio di erotismo hollywoodiano in cui si riconosce Elizabeth Taylor distesa, in costume da bagno, sul cui grembo riposa il volto dell'amante, Montgomery Clift (figura 27). La differenza è certo brutale. Ma dove sta il legame costruito dal montaggio?_ Sta innanzitutto nella forma, ossia nella libera scelta di Godard. O nella sua.finzione, se vogliamo. L'artista si concede quiin linea con la tradizione occidentale - la libertà sovrana del reimpiego: sceglie due fotogrammi di Dachau e vi associa la breve inquadratura hollywoodiana, assumendo come vettore dialettico i volti dei due uomini che si rispondono crudelmente l'un l'altro. Quello che è morto, inclinato a sinistra, sembra ancora gridare, in preda a una sofferenza senza fine; quello che è vivo, inclinato a destra, sembra riposare in una felicità definitiva. Ma ci si continua a domandare che cosa la virtima reale e l'amante fittizio abbiano da rispondersi l'un l'altro. Ed è qui che interviene il pensiero di Godard, un pensiero inerente a tutte le forme costruite nel film: voglio dire che ci troviamo, qui, dinanzi a un esempio, tra i tanti che costellano Histoire(s) du cinéma, di come le tensioni estreme confluiscano in una grande "immagine dialettica". Di fatto, noi non possiamo non comprendere, o almeno presentire, che nella successione di questi fotogrammi la felicità privata si staglia spesso sullo sfondo di sventure storiche; che la bellezza (dei corpi amanti, degli istanti) si staglia spesso sullo sfondo dell'orrore (dei corpi assassinati, della storia); che la tenerezza di un singolo per un altro singolo si staglia spesso sullo sfondo di un odio di un gruppo per un altro gruppo. E che questo contrasto filosofico può trovare, come accade in questo caso, la sua espressione cinematografica nel paradosso di una morte reale a colori - con Godard che fissa il film di Stevens in due fotogrammi - e di una vita fittizia in bianco e nero. · Ma non è tutto: Godard fa anche opera di storia. Il suo commento, con la voce o/1, giustifica con forza il legame che va stabili82.J.-L. Godard, Histoire(s)du cinéma, cit., I, p. 131. Su questo "convoglio" fo. tografato pure da Éric Schwab, Lee Miller e David Scherman, cfr. C. Chéroux, "Le 111in", in Mémoi,e des C4mps, cit., pp. 150-15 I. Sull'archivio a colori, cfr. C. Delage, ' La guerre, les camps: la couleur des archives", in Vertigo, n. 23, 2003, pp. 39-42.

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Figura 25 Jcan-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma, 1988-1998. Fotogramma della

Figura 26 Jcan-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma, 1988-1998. Fotogramma della

prima pane, "Toutes les histoires".

prima pane, "Toutes )es histoircs".

to tra queste immagini: il fatto è, semplicemente, che esse sono opera dello stesso uomo, George Stevens, ritornato a Hollywood dopo la guerra, che filmò tutto questo a cinque o sei anni di distanza, massimo: "Se George Stevens non avesse utilizzato la prima pellicola a colori in sedicesimi ad Auschwitz e Ravensbriick, probabilmente la felicità di Elizabeth Taylor non avrebbe mai trovato un posto al sole".8' Ciò su cui questo montaggio fa riflettere è dunque proprio il fatto che le differenze poste in gioco appartengono alla stessa storia della guerra e del cinema: bastò che gli Alleati vincessero la guerra reale perché George Stevens tornasse a Hollywood a filmare le sue storielle di pura fantasia. Così, è certo una "storia al singolare" che viene raccontata qui, poiché i cadaveri di Dachau restano inseparabili dallo sguard-0 di testimone che Stevens getta anche sul corpo di Elizabeth Taylor - pur muovendosi nel regno dell'impensato. Ma sono al tempo stesso "storie al plurale", poiché i due momenti tendono di continuo a

ignorarsi, mentre si dibattono nella stessa "tragedia della cultura". Godard lo spiegava già, con sufficiente precisione, nel 1988: C'è una cosa che mi ha sempre toccato in un cineasta che non amo troppo, George Stevens. In Un posto al sole rinvenivo un senso di felicità che ho ritrovato in ben pochi altri film, anche migliori di quello. Un senso di felicità laico, semplice, che a un certo punto af. fiora in Elizabeth Taylor. E quando ho saputo che Stevens aveva fil. mato i campi e che in quell'occasione Kodak gli aveva consegnato i primi rullini a colori in sedici millimetri, questa mi è sembrata l'unica spiegazione possibile per qud primo piano di Elizabeth Taylor, da cui si irradia una specie di felicità oscura.8'

Ed ecco che !'"irradiazione" di quella felicità si trova a sua volta composta da Godard all'interno di un quadro formato da una mano, due braccia tese e un viso di santa tipico del Trecento ita-

83. J .-L. Godard, Hiuoire(s) du cinéma, cit., l, pp. 131-13 3. Godard si sbaglia su • Auschwitz e ~vensbriick •, poiché si tratta di Dachau.

84. J.-L. Godard, • Histoire(s) du cinéma: Godard fait des histoires. Entreticn avec Serge Daney" (1988), in ]ean-Luc Godard par ]ean-Luc Godard, Il. 1984-1998, cit., p. 172.

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Figura 27 Jcan-Luc Godard, Histot"re{J) du cinéma, 1988-1998. Fotogramma della prima pane, "Toutcs Ics histoires".

Figura 28 Jean-Luc Godard, HiJtoire{s) du dnéma, 1988-1998. Fotogramma dclJa prima pane, "Toutcslcs histoircs".

liano (figura 28). Si tratta, a ben vedere, di un dettaglio del Noli me tangere di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, dettaglio che Godard fa ruotare di novanta gradi, in modo tale che la Maddalena diventi a sua volta un "angelo della Storia" che la mano di Cristo in basso - più umana che divina - non riesce a raggiungere. Commento off. "Trentanove quarantaquattro, martirio e resurrezione del documentario". 8' In un commento filosofico a queste immagini, Jacques Rancière ha parlato di un "angelo della Resurrezione che manifesta, alzandosi verso di noi, il potere immortale dell'Immagine capace di resuscitare da ogni morte". Così, la Maddalena di Giotto si impone a Godard nell'"uso ben determinato della pittura che completa e porta a compimento la dialettica dell'immagine cinematografica. [ ... ] Elizabeth Taylor che esce dall'acqua raffigura allora il cinema stesso, resuscitato dai morti. È l'angelo della Resurrezione". 86 85.J.-L. Godard, Histoire(J) du dnéma, cit., I, pp. 134-135. 86. J. Ranc(ère, La Fabfe cinématographique, cit., pp. 231-232.

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Si ha quasi la sensazione che Godard abbia seminato il panico tra i suoi commentatori ritornando più volte sul dictum cristiano, paolino: "L'immagine verrà al tempo della resurrezione".~ Ora, conviene senz'altro ricollocare questa frase nell'immensa trama di citazioni delle Histoire(s), anziché fame l'emblema di una professione di fede unilaterale o di un dogma teorico-teologico. Nel momento in cui del resto la parola "resurrezione" appare sullo schermo, Godard la mette in prospettiva col suo commento o/f, più freudiano che paolino: "Le due grandi storie sono state il sesso e la morte" .88 Ed ecco allora che Liz Taylor come "angelo della Resurrezione" diventa, perlomeno ai miei occhi, una faciloneria ermeneutica, suscitata capziosamente dalla potenza stessa -visiva e testuale-dei "cartelli" godardiani. Per quanto mi riguarda, non vedo alcun "angelo della Resurrezione" in Histoire(s) du cinéma, soprattutto nello spezzone di 87.J.-L. Godard, Histoire{s)du dnéma, cit., I, pp. 164-167, 214. 88. Ibidem, I, p. 166.

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montaggio di cui stiamo parlando (figure 24-28). Dire che il documentario contiene una potenza di "resurrezione" - "Che meraviglia poter guardare ciò che non si vede", afferma Godard89 - non significa parlare da teologo della fine dei tempi ma, più semplice~ente, da persona che continua a meravigliarsi del rapporto tra cinema e storia: fa sempre impressione, ancora oggi, vedere Adolf Hitler che si muove nei cinegiornali degli anni Trenta e Quaranta. D 'altronde, va notato pure che l'inquadratura in cuiJacques Rancière vede sorgere in Godard l' "angelo della Resurrezione" (figura 28) è anch'essa tesa, dialetticamente, tra immagini completamente contr~pposte: la santa cristiana e la star hollywoodiana, l'aureola che onge un capo coperto da un velo e l'aura che avvolge un corpo da ninfa pagana. Anche in questo caso, le differenze non sono "fuse", ma piuttosto esposte come tali nello stesso "quadro". Oltretutto, la rotazione di novanta gradi della scena evangelica ha per effetto visivo quello di avvicinare questa drammaturgia del contatto impossibile con un'allegoria dipinta da Giotto quasi accanto al Noli me tangere: si tratta di una rappresentazione della Speranza, che ricorda da vicino la scultura del tempo, in particolare la celebre versione di Andrea Pisano nel Battistero di Firenze. Ed è questa stessa drammaturgia - della speranza, non della resurrezione - che Walter Benjamin ha voluto commentare filosoficamente, da Strada a senso unico del 1928, in cui accenna proprio al bassorilievo di Pisano, fino alle tesi Sul concetto di storia del 1940, in cui parla invece dell'Angelus Novus di Paul Klee. Nel primo caso Benjamin scriveva: "Seduta, leva impotente le braccia verso un frutto che le rimane irraggiungibile. E tuttavia è alata. Nulla di più vero".90 Nel secondo: "Ha l'aria di allontanarsi da qualcosa su cui il suo sguardo sembra restar fissato". 91 Insomma, la funzione assegnata da Godard alla storia della pittura - anche cristiana, com'è destino inevitabile in Occidente perlomeno prima del Settecento - non si può ridurre a un movi: mento di chiusura sulla resurrezione e a un desiderio, come insinua Rancière, di "completare e portare a compimento la dialettica dell'immagine cinematografica". Non c'è nessun "angelo della 89. Ibidem, I, p. 135. 90. W. Benjamin, Strada a senso unico (1928), tr. it. in Opere 11. Seri/li 192)-1927 Einaudi, Torino 2001, p. 443. ' 91. W. ~jamin,Sul concellodistoria, cit., p. 67.

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Figura 29 Jcan-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma, l 988-1998. Fotogramma della prima pane, "Toutcs Ics histoircs".

Resurrezione", perché la Maddalena di Giotto non toccherà mai la mano di Cristo (figura 28); perché questa immagine non è una fine della storia, ma un quadro di intelligibilità per i corpi assassinati e per i corpi amanti filmati da George Stevens (figure 25-27); e perché, all'altro capo, insiste ancora !'"angelo della Distruzione" di Goya, con le immagini di Godard che qualche minuto dopo cominceranno a essere assillate dalla formula goyesca di Luis Buiiuel: "L'angelo sterminatore".92 Tutto ciò, semmai, sembra abbozzare il profilo di un "angelo della Storia" di ispirazione decisamente benjaminiana. 9' E l'angelo della Storia non può offrirci alcuna prospettiva sulla fine dei tempi, né - tantomeno - sul Giudizio finale dei giusti e dei dannati. Non c'è alcuna resurrezione, nel senso teologico del termine, perché non c'è alcun compimento dialettico. Il film, a questo punto, non fa che cominciare. E subito dopo che Liz Taylor è emersa, simile a una Venere, dai flutti - sullo sfondo di una tradizione iconografica ben riconoscibile-, è un'immagine lacerata, resistente a ogni lettura immediata, ad affiorare (figura 29). 92.J.-L. Godard,Histoire(s)ducinéma, cit., I, p. 191. 93. A. Bergala, Nu/Mieux que Godard, cit., pp. 221-249.

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Vi si leggono, in sovrimpressione, alcune lettere: innanzitutto End, come alla fine di ogni classico hollywoodiano. Eppure si capisce subito che la parola - come le Histoire(s), come la storia stessa e come la dialettica secondo Godard - non è affatto "finita". Facendo attenzione, non vi si legge forse endlos ("senza fine", "interminabile") e poi Endlosung ("Soluzione finale")? Non è al senza fine della distruzione dell'uomo da parte dell'uomo che Godard pensa con questa storia e questa pratica del montaggio?94

94. Come bo accennato poc'anzi, Godard non è chiaramente l'unico deposita• rio di questo rapporto con la storia, l'archivio e il montaggio: bisognerebbe anche analizzare, per limitarsi a due soli esempi, le opere di Chris Marker o di Harun Fa• roclci. Sul primo cfr. R. Bellour, I.:Entre-images 2. Mots, images, POL, Paris 1999. pp. 335-362. Sul secondo dr. R. Aurich, U. Kriest (a cura di), Der Arger mii den B11dern. Die Filme V()n Harun Farocki, UVK Mcdien, Kostanz I 998, e in francese C. Bliimlinger, "Harun Faroclci ou l'art dc traiter les enrre-deux", tr. fr. in H. Faroclci, Reconnaitre ~ poursuivre, Théatre Typographiquc, Montbard 2002, pp. I I•18.

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Ignorando il lavoro dialettico delle immagini, si corre il rischio di non capire nulla e di confondere ogni cosa: confondere il fatto col feticcio, l'archivio con l'apparenza, il lavoro con la manipolazione, il montaggio con la menzogna, la somiglianza con l'assimilazione ... L'immagine non è nulla, né tutta, né una così come non è due. Essa si dispiega secondo quel minimo di complessità che presuppongono due punti di vista che si affrontano sotto lo sguardo di un terzo. Quando Claude Lanzmann si dice "scioccato", nella mostra Mémoire des camps, "dal parallelo tra i volti tumefatti dei deportati pestati a sangue e i volti dei loro boia picchiati alla liberazione",1 rifiuta semplicemente di a_prire gli occhi sul fatto che l'archivio fotografico messo su da E.rie Schwab o da Lee Miller a Dachau e a Buchenwald non intendeva rendere conto del funzionamento dei campi ma della loro liberazione, con tutte le situazioni paradossali che una simile situazione comportava, le necessarie denunce, le comprensibili vendette, la felicità vera e falsa di prigionieri ancora straziati, ancora morenti ... Mostrando tutto questo, Éric Schwab e Lee Miller non avevano affatto l'intenzione di gettare luce sull'organizzazione del terrore, né sulla distanza necessaria per giudicare. Quanto alla mostra Mémoire des camps, l'idea era quella di interrogarsi sulle condizioni e la diffusione di queste testimonianze fotografiche, più che quella di spiegare in che modo funzio1. C. Lanzmann, "La question n'est pas celle du document", cit., p. 29. Cfr. C. Chéroux, "L"épipbanie négative': production, diffusion et réccption des photo• graphies de la libération des camps", in Mémoire des camps, cit., pp. 103-127.

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navano i campi. L'"inquadratura" morale, rivendicata da Lanz• mann, non consisteva quindi nel "parallelo" ma nel raffronto delle immagini; e non consisteva in fondo neppure nel raffronto in quanto tale, ma nel punto di vista gettato su di esso.2 Montare hon significa assimilare. Nel 1968, Jean-Luc Godard aveva già mostrato assieme le immagini dcl totalitarismo e quelle della pornografia: "In One plus One c'erano al tempo stesso immagini di sesso e un testo di Hitler: erano one più one". i In Histoire(s) du dnéma, una vittima dei campi è mostrata, mona, subito dopo l'estratto di un film pornografico, occasione questa per distinguere, nel commento o/I, la violenza dell'immagine inflitta allo spirito da "ogni atto creativo" e la brutalità reale estesa da un siste• ma totalitario alla vita intera: "Ogni atto creativo contiene una minaccia reale per l'uomo che osa compierlo, ed è così che un'opera tocca lo spettatore o il lettore. Se il pensiero si rifiuta di pesare, di violentare, corre il rischio di subire senza frutti ogni brutalità che la sua assenza ha liberato".◄ Se la morte è montata col sesso, non è per avvilire la morte, al contrario; e non è neppure per necrotizzare il sesso. In effetti, nei campi, capitò che lo stesso aggettivo sonder ("speciale") servisse a designare la morte (nella parola Sonderbehandlung, che indicava le "azioni speciali" di gasaggio) e il sesso (nella parola Sonderbau, che indicava il bordello). E un montaggio può ben aspirare a rendere conto di tutto questo. Ma spesso si dice: non bisogna fare amalgami. Non si tratta di amalgami, le cose sono messe assieme, la conclusione non è data subito. [ ... ] Le cose sono esistite assieme, e si ricorda dunque che sono esistite assieme.'

Montare non significa assimilare. Solo un pensiero triviale può insinuare che, se due cose vengono affiancate, allora devono essere simili. Solo una réclame pubblicitaria può provare a farci credere che un'automobile e una giovane donna sono di natura 2. I:unico "parallelo" stabilito da C. Chéroux nel suo catalogo (ibidem, pp. 108· 109) pone l'una a fianco dell'altra due fotografie di Buchenwald: la guardia picchiata è posta a confronto con dei resti umani bruciati.

3. J .-L. Godard, lntroduction à une véritable histoire du cinéma, cit., p. 308. 4. J .·L. Godard, Histoire(s) du cinéma, cit., IV, pp. 54·55. 5. J.-L. Godard (con Y. Jshaghpour), Archéologie du cinéma et mémoire du 1iè-

cle, cit., p. 7 I,

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identica, per la semplice ragione che sono viste assieme. Solo un'immagine propagandistica può provare a farci credere che una popolazione minoritaria allunghi i suoi tentacoli sull'Europa intera come una piovra fa con la sua preda.6 I maestri del montaggio - Warburg, Eisenstein, Benjamin, Bataille - hanno tutti accordato un posto centrale, nelle loro riflessioni critiche sull'immagine, al potere politico e alle immagini di fantaSia della propaganda. Ma, depurando l'immagine dalle immagini di fantaSia, hanno fatto fondere le somiglianze rendendo impossibili le assimilazioni: hanno "lacerato" le somiglianze, producendole; ci hanno fatto riflettere sulle differenze creando dei rapporti tra le cose.7 Ecco perché allora, volendo ridurre a "idea abietta" la mia analisi delle fotografie di Birkenau, Gérard Wajcman procede a un ribaltamento sistematico della somiglianza nell'assimilazione e del simile nel sembiante (che è poi il fittizio, il feticcio, la perversione, e infine l'abiezione). Cosi facendo, egli ripete scrupolosamente il discorso di Claude Lanzmann sulle "fotografie dei detenuti picchiati dalle guardie e [. .. ) delle guardie picchiate dai detenuti il giorno della liberazione". Vi aggiunge solo un sospetto politico: "è la stessa [identificazione) che tende a fare oggi dei palestinesi gli ebrei della nostra epoca e degli israeliani i nuovi nazisti". E protesta infine, con le ultime energie morali, che "no, i boia non erano simili alle vittime, e non sono neppure miei simili" .8 Insomma, ha talmente paura delle immagini da confondere somiglianza e identità - pur accusando ogni simile di non essere altro che un sembiante. I.:idea che• Auschwitz è inseparabile da noi" è un'idea terribile. Di primo acchito avrei semmai l'idea opposta, ossia che si tratta per noi della separazione stessa. Auschwitz come Altro assoluto [. . .]. Ed ecco allora dove ci porta la bella trovata di pensare Auschwitz contro l'impossibile: loro siamo noi, noi tutti siamo vittime e siamo carnefici. [. ..] In questo valzer dei possibili in cui ciascuno è il simile dell'altro, era fatale che si giungesse infine all'idea abietta di uno scambio infinito e reciproco tra la vittima e il carnefice.9 6. Cfr. M.-A. Matard-Bonucci, "I:image, figure majeure du discours antisémite?", in Vingtième riècle. Revue d'hiJtoire, n. 72, 2001, pp. 27-39. 7. Cfr. G. Didi-Huberman, La Rerumblance in/orme, cit. 8. G. Wajcman, "De la croyance photographiquc", cit., p. 74. 9. lbidem, pp. 73-74. .

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Dopo di che, ci mancava solo l'ultima deduzione - o quantomeno il forte sospetto - che questo punto di vista antropologico sull'immagine equivalga semplicemente al punto di vista nazista: "Fare dell'immagine il fondamento umano, ecco il grave danno prodotto dal pensiero delle immagini. [ .. .) Uccidendo sei milioni di esseri umani, non sono sei milioni di immagini a essere morte nei campi, sei milioni di Figuren, come i nazisti chiamavano appunto i cadaveri". 1° Ciò che Gérard Wajcman vuol dire con quest'ultima inferenza - e quest'ultima offesa - è che la posizione etica di fronte alla Shoah deve essere tanto semplice quanto radicale: basta porre un "Altro assoluto", una se• parazione senza residui, un impossibile senza malgrado tutto. E l'inimmaginabile appare allora come un modo tra i tanti di af. fermare questa posizione etica. Mentre la posizione avversa, che parla di "inseparabile" e "possibile" nel senso di Bataille, invocando l'immaginabile malgrado tutto, diventa subito una posizione perversa, vituperabile e "abietta". Ma è Wajcman che in effetti perverte con cura il senso delle parole che trova nella mia analisi. Quando io scrivo, ad esempio, che "di sicuro non si tratta di confondere le vittime e i carnefici", egli si accontenta di formulare, senza argomentazione di sorta, un dubbio unilaterale: "Non sono tanto sicuro di essere veramente rassicurato da questo 'di sicuro'"." Che rispondere allora, se non che prima di sbandierare il suo credo moralista egli avrebbe dovuto sollevare e porre la questione etica in sé? La questione infatti rimane: è in quanto simile che un essere umano diventa il carnefice di un altro. La tigre non sarà mai un carnefice dell'uomo, appunto perché è radicalmente diversa e perché l'uomo può rappresentare per essa, tutt'al più, una preda o un ghiotto boccone. Il rapporto tra il carnefice e la vittima si fonda sulla loro comune "specie umana", ed è proprio qui il problema etico dell'odio razziale, dell'umiliazione, della crudeltà in generale, e del totalitarismo nazista in particolare. Ora, in questa relazione tra simili non c'è nulla che permetta di dire - se non con una punta di perversione, è il caso di segnalare - che, essendo simili, la vittima e il carnefice sarebbero per

ciò stesso indiscernibili, sostituibili o perfettamente "intercambiabili". La migliore illustrazione di ciò è offerta da Charlie Chaplin nel Dittatore: l'ebreo e il dittatore sono più che simili, sono dei sosia; ma in nessun momento diventano indiscernibili. Tutto li oppone. E quando, per salvarsi la vita, l'ebreo deve indossare i panni del dittatore, questa stessa sostituzione non fa che dissociare gli elementi·di questa struttura, poiché è l'artista Chaplin a fare improvvisamente capolino di fronte alla camera, al di là dei due pe.rsonaggi, nelle vesti di cittadino del mondo che si assume la responsabilità di un discorso etico. 12

* Non ci si semplifica la vita etica respingendo il "male radicale" dalla parte dell'" Altro assoluto". L'estetica dell' inimmaginabile è una triviale "estetica negativa" - variante del sublime reinterpretato da 4'otard - nel senso che definisce il male radicale tramite ciò che esso non è; così facendo, essa lo allontana da noi e si legittima in virtù di questo allontanamento, in virtù di quest'astrazione. Vimmaginabz1e, viceversa, non rende certo "presente" il male radicale, e tantomeno lo controlla sul piano pratico, ma quantomeno ci avvicina alla sua possibilità, sempre aperta nell'aperto di un qualsiasi paesaggio familiare: Il crematorio è fuori uso. È passato il tempo delle furberie naziste. Nove milioni di morti abitano come spettri questo paesaggio. Chi di noi veglia in questo strano osservatorio per avvertirci della venuta dei nuovi carnefici? Hanno davvero un volto diverso dal nostro? Da qualche parte, in mezzo a noi, restano dei kapò opportunisti, dei capi rinvigoriti, dei delatori ignoti. E poi ci siamo noi che guardiamo sinceramente queste rovine come se il vecchio mostro concentrazionario fosse morto e sepolto sotto i detriti, noi che fingiamo di riguadagnare speranza davanti a questa immagine che si allontana come se si potesse guarire dalla peste concentrazionaria, noi che fingiamo di credere che tutto questo appartenga a un solo tempo e a un solo paese, noi che non ci curiamo di guardarci intorno e oon vogliamo sentire che si grida senza fine. 0 12. Sul film di Chaplin, cfr. C. Delagc, Chaplin: la grande histoire, Jean-Michel Piace, Paris 1998. 13.J. Cayrol, Nuit et brouillard, cit., pp. 42-43.

IO. Ibidem, pp. 74-7'5. I I. Ibidem, p. 73.

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Studiare un'immagine della Shoah non significa però "fingere di riguadagnare speranza davanti a questa immagine che si allontana". Significa semmai persistere nell'approccio malgrado tutto, malgrado l'inaccessibilità del fenomeno. Non significa consolarsi hell'astrazione: ma voler comprendere malgrado tutto, malgrado la complessità del fenomeno. Significa, in altri termini, sollevare senza posa la questione del come: "Troppo velocemente ci si chiede come tutto ciò sia stato possibile. [. .. ) Se invece diamo al motivo della inintelligibilità dei crimini nazisti il valore di un enunciato teorico, dovremo concludere che ogni tentativo intrapreso dalle scienze umane di spiegare eventi non comuni o unici è destinato a fallire sin dall'inizio", ha scritto Wolfgang Sofsky. 1' Non si deve insomma postulare unilateralmente l'indicibile o l'inimmaginabile di questa vicenda, ma si deve lavorare con esso e contro di esso: facendo del dicibile e dell'immaginabile un compito infinito e necessario, benché lacunoso.1' E perché viene mal posta che la questione dell'immagine finisce per complicare e avvelenare i tanti dibattiti sulla "specificità" o !'"universalità" della Shoah. 16 Jean-Luc Nancy e Jacques Rancière, di recente, hanno offerto qualche chiarificazione filosofica supplementare sul tema, davvero abusato, dell'i"appresentabile. Il primo vi scorge "un'idea imprecisa ma insistente" del discorso d'"opinione", una parola d'ordine "confusa", incapace pertanto di dare una risposta coerente all'"ultima crisi della rappresentazione" in cui la Shoah ci ha gettato. Il dogma dell'irrappresentabilità mescola l'impossibilità all'illegittimità, facendo di ogni immagine l' og-

getto di un divieto o di un interdetto. Nancy, invece, propo~e di decostruire questo stesso "interdetto", per trarne la conclus10ne che la rappresentazione si trova ormai, davanti alla Shoah, "in• terdetta nel senso di sorpresa, perplessa, stregata, confusa o sconcertata da questo vuoto che si scava nel cuore della presenza". Di modo che !'interdetto non segnala più la revoca o il bando, ma il gesto intrinseco da cui è animata - nel senso di sorpre. n sa - 1a rappresentazione stessa. Ora, il gesto dell'immagine costituisce senza dubbio l'oggetto per eccellenza del montaggio secondo Godard: montare delle immagini animate le une dalle altre - le mani di Hitler, il bombardiere in picchiata e la fuga dei civili, per esempio18 - non significa soltanto creare una sintesi astratta sul processo totalita• rio, ma significa anche produrre un gesto complesso quanto concreto, un gesto che non si può riassumere altrimenti. In tal senso Godard è davvero l'erede (consapevole) di Nietzsche e di Ei~enstein, nonché quello (inconsapevole) di Burckhardt e. di Warburg: la sua riflessione sulla storia contiene una energehca, che Jacques Aumont ha avuto ragione a ribattezzare una "nuova Pathos/ormer'.19 Come in Warburg, infatti, il gesto è compreso - e prodotto - da Godard come un sintomo, cioè come un montaggio di tempi eterogenei in cui la rappresentazione si "sorprende", si "sospende", ossia si "interdice" - nel senso di Nancy - nella misura stessa in cui la sua proliferazione disegna qualche cosa: non tanto una iconografia, quanto una sismografia

della storia.20 Il "disincanto postmoderno" ignora tutto di questa energetica. E Jacques Rancière ha visto sorgere il motivo dell'irrappresenta• bile da questa stessa ignoranza e dal nichilismo che le si abbina puntualmente: "Il postmodernismo è diventato il grande canto funebre dell'irrappresentabile/intrattabile/irrecuperabile che denuncia la follia moderna di un'auto-emancipazione dell'umanità

14. W. Sofsky, !:ordine del terrore (1993), tr. it. Latcrza, Roma-Bari 199,, p. 13. Cfr. anche G. Occrop, Des camps au génocide: la poli'tique de l'i'mpensable, Presses Univcrsitaircs, Grcnoblc 1995. 15. Cfr. C. Coquio, "Du malcntcndu", in C. Coquio (a cura di), Parler des camps, penser !es génocides, Albin Miche!, Paris 1999, pp. 17-86: Y. Thanassekos, "Shoah 'objei' métaphysique•, in Bulletin trimestriel de la Fondation Auschwitz, n. 73, 2001, pp. 9-14. 16. Cfr. J. Rovan (a cura di), Devant l'histoire. Les documents de la controverse sur la singularité de l'extermination des jui/s par le régime nazi, Ccrf, Paris 1988: C. Coquio, I. Wohlfanh, • Avant-propos", in Parler des camps, pemer !es génocides, cit., pp. I I•16; E. Traveno, "La singularité d'Auschwitz. Hypothèses, problèmcs et dérives de la recherche historique•, in Parler des camps, penser ler génocider, cit., pp. 128-140; S. Trigano, Z:Idéa/ démocratique à l'épreuve de la Shoa, Odilc Jacob, Paris 1999, pp. 9-20 epasrim.

17. J.-L. Nancy, "La représentation interdite", in Le Genre humain, n. 36, 2001, pp. 13-39. 18. J.·L. Godard, Histoire(s) du cinéma, cit., 1, pp. 79-83. 19.J. Aumont, Amnérier, cit., p. 98. . . . 20. Sulla Pathos/onne! di Warburg come s1n1omo, montaggio e sismografia della storia, cfr. G. Didi-Huberman, I.:Image rurvivante. Histoire de l'art et tempr des Jantomes selcn Aby Warburg, Minuit, Paris 2002, pp. 115-270.

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dell'uomo e del suo inevitabile quanto interminabile compimento nei campi di sterminio" .21 Più di recente, Rancière è poi tornato sulla questione dal punto di vista del "terrore sacro", in un brano in caj sembra pensare all'Objet abso/u di Wajcman:

stesso. Esistono solo scelte"." Sovrapponendo un "impensabile al cuore dell'evento" e un "impensabile al cuore dell'arte", secondo Rancière, non si fa altro che prolungare "l'iperbole speculativa dell'irrappresentabile" proposta da Jean-François Lyotard sulla base di una certa concezione del sublime e dell'"impensabile originario" .26 E al pari dell'irrappresentabile e dell'impensabile, l'inimmaginabile corrisponde in effetti troppo spesso a un semplice rifiuto di pensare l'immagine, che si auto-legittima a colpi di grandi iperboli.

[C'è] un uso inflazionato della nozione di irrappresentabile e cli tutta una serie cli nozioni alle quali questa è riconnessa spesso e volentieri: l'impresentabile, l'impensabile, l'intrattabile, l'irrecuperabile ccc. Quest'uso inflazionato fa cadere sotto uno stesso concetto, creando quasi un'aura cli terrore sacro, ogni sorta cli fenomeno, cli proc~o o cli nozione, che va dall'interdetto mosaico della rapprcsentaz1one alla Shoah, passando per il sublime kanùano, la scena primiùva freudiana, il Grand Verre cli Duchamp o il Quadrato bianco su sfondo bianco cli Malévitch.22

In questo paesaggio teorico confuso, la nozione di irrappresentabile, secondo Rancière, tende a produrre un "effetto ben preciso: essa trasforma il problema di regolare la distanza rappresentativa in una impossibilità della rappresentazione stessa. L'interdetto emerge così da questa impossibilità, pur negandosi, ossia proponendosi come semplice conseguenza delle proprietà dell'oggetto".2> Sembra di leggere un'analisi dei testi di Wajcman, quando ad esempio questi scrive: "Non rappresentare nulla della Shoah non è una scelta libera, ma obbligata. Non si tratta qui di interdetto[ ... ], semplicemente ci sono cose impossibili da vedere" ... E poi: "Essendoci Shoah, non c'è immagine a venire" .24 Rancière risponde: "Questa è una favola comoda, ma inconsistente" - ricordando che Shoah, come ogni opera che appartenga alla storia del cinema, si muove comunque nel regime della rappresentazione, regolato dal problema specifico del proprio oggetto: • Shoah pone solo problemi di irrappresentabilità relativa, di adeguamento tra mezzi e fini della rappresentazione. [ ... ] Non esiste un irrappresentabile che sia proprietà dell'evento

* La tesi dell'inimmaginabile pare dunque accompagnarsi a tre iperboli concomitanti. Prima iperbole: se si vuole sapere qualcosa della Shoah, bisogna sbarazzarsi delle immagini. "Anche se esistessero delle immagini delle camere a gas, bisognerebbe sapere in che misura esse potrebbero mostrare la verità•, scrive ad esempio Gérard Wajcman; contro quella che chiama la "promozione dell'immaginazione come strumento essenziale di sapere", egli sostiene che l'immagine è solo un "appello all'allucinazione"; contro l'esplorazione degli archivi, sostiene che con Shoah "sappiamo, sappiamo tutto, siamo in pieno nel sapere".27 Da una parte, dunque, Wajcman fa mostra di ignorare che un sapere che si deve trarre dall'esperienza altrui deve fenomenologicamente passare per l'immaginazione. 28 Dall'altra, lo ammette, ma solo per il film di Lanzmann, che in effetti sollecita potentemente l'immaginazione tanto dei testimoni (per riuscire a enunciare qualcosa della loro esperienza) quanto degli spettatori (per riuscire ad afferrare qualcosa di questa esperienza). Seconda iperbole: se si vuole fare appello a una memoria decente della Shoah, bisogna rinunciare a ogni immagine. Il che contraddice una lunga tradizione filosofica della memoria, che

21. J. Rancièrc, Le Partage du sensible, cit., pp. 43-44. 22. J. Rancière, "S'il y a de l'irreprésentable", in Le Genre bumain, n. 36, 2001 , p. 81. 23. Ibidem, p. 83. 24. G. Wajcrnan, "'Saint Paul' Godard contre 'Mo1sc' Lanzmann" cit. pp 126-127. ' ' ' .

25.]. Rancihc, "S'il y a de l'irrcpréscntable", cit., pp. 89, 94-96. 26. lbidem, pp. 97-102. ~7. G.•Wajcman, "De la croyancc photographique", cit., pp. 49-50, 66; G. Waicrnan, Oh Les Derniersjours", cit., pp. 20-21. 28. Per un approccio 61oso6co della questione, cfr. in panicolarc lo srudio recente di G. Deniau, Cagnitio lmaginativa. La phénoménologie berméneutique de Gadamer, Ousia, Bruxelles 2002.

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va da Aristotele a Bergson, Husserl, Freud, e ancora oltre.n È vero che Gérard Wajcman tenta - sinceramente e ingenuamente - di porre la sua memoria della Shoah all'altezza dell'evento stesso: la v_uole dunque assoluta, non relativa ai punti di vista, depurata da ogni immagine. E la terza iperbole intende appunto delineare le conseguenze morali di una simile esigenza: l'etica scompare, secondo Wajcman, là dove compare l'immagine. Donde quei penosi amalgami sulla "bulimia delle immagini" e la perversione "feticista", sull'"amore generalizzato della rappresentazione" e il "pensiero infiltrato di cristianesimo", il tutto fuso in un "ideale televisivo" riassunto dall"'idea che tutto [sarebbe] malgrado tutto rappresentabile" nella "chiesa universale delle immagini", ossia nelle cappelle successive di San Paolo, San Giovanni, San Luca - San Jean-Luc - e, ovviamente, San Georges ... ' 0 Il bersaglio principale di questo attacco resta la frase d' apertura della mia analisi delle quattro foto dell'agosto 1944: "Per sapere occorre immaginare", interpretata come se avessi scritto: "Per sapere basta immaginare". Accontentarsi delle immagini significherebbe, è chiaro, privarsi dei mezzi per comprenderle, ed ecco perché ho dovuto fare ricorso ad altre fonti, altre testimonianze, o a "tutta la biblioteca del Novecento" come mi rimprovera Wajcman con la solita esagerazione e incoerenza.li Le immagini diventano preziose per il sapere storico a partire dal momento in cui esse vengono messe in prospettiva in certi montaggi di intelligibilità. La memoria della Shoah non dovrebbe cessare di riconfigurarsi - e di precisarsi, nel migliore dei casi grazie a nuove relazioni da stabilire, nuove somiglianze da scoprire, nuove differenze da sottolineare. D'altronde, non mi sono limitato a dire: "Per sapere occorre immaginare". Ho detto: "Per sapere (per sapere e conoscere questa storia dal luogo e dal tempo in cui ci troviamo oggi) occorre immaginarsi". E mettere in gioco il soggetto nell'esercizio del vedere e del sapere significa anzitutto procedere con cautela epistemologica: non si può separare l'osservazione dall'osserva-

tore. Wajcman confonde - l'ho già messo in rilievo - immaginarsi e credersi in. Sicché le sue conclusioni etiche sulla "perversione" e l'"abiezione" di una simile attitudine si rivelano a conti fatti completamente prive di fondamento. Mi sembra utile, tuttavia, precisare ulteriormente perché lo sguardo posato sulle immagini e l'esercizio dell'immaginazione non abbiano niente della "passione" immorale o dello "sfogo" funesto di cui parla Wajcman.'2 I:immagine, nel senso antropologico del termine, sta al centro della questione etica. La cosa non è sfuggita a quanti, sopravvissuti alla Shoah, non hanno voluto cedere allo smarrimento, al semplice "deperimento della politica", e hanno tentato, per quanto difficile fosse il compito, di "pensare ciò che accade". Problema quanto mai attuale.)) La "singolarità esemplare" dei campi si riconosce dal fatto che l'umanità stessa vi è stata sistematicamente negata, distrutta, stritolata, abolita. Ma che fare adesso? "Di che cosa dobbiamo ricordarci affinché sia ancora possibile agire?" Questa è la domanda che si pone Myriam Revault d'Allonnes nel corso di una mirabile analisi filosofica della difficile questione - etica e antropologica - posta dal!'esperienza della disumanizzazione concentrazionaria e genocidiaria:" Non si può pensare alla condizione inumana dell'uomo sottomesso al terrore dei campi senza scorgervi "una crisi dell'identificazione e una sconfitta del riconoscimento del proprio simile"." Myriam Revault d 'Allonnes rievoca le testimonianze di Primo Levi, di Chalamov, e poi quel passo celebre di I.:Espèce humaine in cui Robert Antelme parla di questa spina conficcata crudelmente perfino nei rapporti tra prigionieri: Quando, arrivando a Buchenwald, abbiamo visto le prime tute a righe che portavano pietre o tiravano carretù ai quali erano legati con la corda, le teste rasate sotto il sole d'agosto, non ci aspettavamo che parlassero. Ci aspettavamo altro, forse un muggito o un pi•

29. Un sunto di questa tradizione è stato offeno da P. Ricoeur, La memoria, I,, storia, l'oblio, cit., pp. 15-81 ("Memoria e immaginazione"). 30. G. Wajcman, "De la croyance photographique", cit., pp. 55, 58, 60,61. 31. lbid~m. p. 72.

32. Ibidem, pp. 58-59. 33. Cfr. M. Revault d'Allonnes, Le Dépérissemen/ de la politique. Généalogie d'un lieu commun, Aubier, Paris 1999 (20022), pp. 249-255. 34. M. Revault d'Allonnes, "Une mémoire doit-elle en chasser une autre?" (1998), in Fragile humanité, Aubier, Paris 2002, p. 143. 35. M. Revault d'Allonnes, • A l'épreuve des camps: l'imagination du semblable" (1998), in Fragile humanité, cit., p . 148.

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golio. Tra noi e loro c'era una distanza incolmabile, che da lungo tempo le SS colmavano di disprezzo. Non pensavamo di avvicinarci a loro. Ridevano guardandoci, di un riso che non potevamo ancora riconoscere, nominare. Ma bisognava pur alla•fine farlo coincidere col riso dell 'uomo, che nd giro di poco non si sarebbe più riconosciuto. Il che è acca· duto lentamente, a mano a mano che diventavamo come loro.,.

mo intrattenere con l'esperienza dei campi.' 8 Un processo questo che è immaginazione, come Robert Antelme avvertiva all'inizio del suo libro:

Non soltanto il campo distrugge gli uomini e crea nel rap• porto tra il carnefice e la vittima una dissomiglianza radicale tra "uomini" e "sotto-uomini" - eliminando così ogni senso di colpa nei torturatori - ma per di più cerca di distruggere nei prigionieri la facoltà di riconoscere nei propri compagni altri uomini, loro simili. Quando ciò accade, la "condizione di possibilità dell'umano" svanisce realmente.n Le quattro immagini di Birkenau sono tanto preziose, allora, perché ci offrono l'immagine de/l'umano malgrado tutto, la resistenza con l'immagine un piccolo segmento di pellicola - alla distruzione dell'umano che vi si trova comunque documentata. Quasi che il gesto del fotografo clandestino ci inviasse una sorta di messaggio non formulato: guardate cosa sono obbligati a fare i miei (nostri, vostri) simili (figura 9); guardate come sono ridotti i miei (nostri, vostri) simili (figura 12); guardate come i già-morti e gli ancora-vivi che li trascinano nella brace sono pur sempre (miei, nostri, vostri) simili; guardate come vengono annientati assieme dalla "Soluzione finale"; possiate voi guardare e tentare di comprendere, quando la "Soluzione finale", dopo la nostra morte, sarà stata fermata; e possiate voi seguitare a protestare, sempre, contro questa vicenda. Ecco perché queste fotografie ci importano, ci riguardano, ci guardano dal luogo e dal tempo di cui esse testimoniano. Bisogna adesso precisare tutto questo dal luogo e dal tempo che sono i nostri, il luogo e il tempo di una sopravvivenza a questa vicenda. "Elaborare il terribile", dice bene Myriam Revault d'Allonnes. Non si tratta di "credersi nella vicenda", ovviamente. Ma di intraprendere un "processo di riconoscimento del simile" su cui si fonda l'etica stessa del rapporto che dobbia36. R. Antelme, I.:Espèce humaine, Gallimard, Paris 1957, pp. 100-101. 37. M.'Revaulc d'Allonnes, • A l'éprcuve des camps", cit., p. 151.

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Appena cominciavamo a raccontare, già soffocavamo. Quanto avevamo da dire cominciava a sembrare inimmaginabile a noi stessi. Questa sproporzione tra l'esperienza che avevamo vissuto e il racconto che era possibile farne non fece che confermarsi in seguito. Avevamo davvero a che fare con una di quelle realtà di cui si dice che vanno oltre l'immaginazione. Ed era chiaro ormai ·che sol- . tanto per scdta, cioè sempre con l'immaginazione, potevamo prova• re a dirne qualcosa."

L'immaginazione non ridà però "proporzionalità" all'evento. Essa lavora nel cuore stesso della sproporzione tra l'esperienza e il suo racconto. In tal senso anche Gilles Deleuze - prendendo a contropelo il celebre dictum di Adorno - rammentava un pensiero di Kafka: "La vergogna di essere uomo, c'è una ragione migliore pe.r scrivere?". 40 Quasi che l'immaginazione si animasse proprio quando si imbatte nell"'inimmaginabile", parola spesso utilizzata per esprimere solo il nostro smarrimento, la nostra difficoltà di comprendere: ciò che non comprendiamo e che pure non vogliamo rinunciare a comprendere - che non vogliamo in ogni caso respingere in una sfera astratta che ce ne sbarazzerebbe facilmente - siamo ben costretti a immaginarlo, ossia a saperlo malgrado tutto. Ma sappiamo anche che non lo coglieremo mai nella sua giusta proporzionalità. E che cosa ha a che fare tutto ciò con l'etica? La vera forza delle analisi di Myriam Revault d' Allonnes è quella di ricordarci sulla scia di Hannah Arendt e di una lunga tradizione di pensiero - che l'immaginazione "è anche una facoltà politica. [... ] Non ci troviamo qui nella fusione comunitaria,.o nella ve.rità consensuale, o nella prossimità sociologica. Tentiamo al contrario di immaginare a che cosa assomiglierebbe il nostro pensiero se fossimo al38. M. Revault d'Allonncs, "Pcut-on élaborer le tcrriblc?" (2000), in Fragile humanité, cit., pp. 180-182. · 39. R Antelmc, I.:Espèce humaine, cit., p. 9 (corsivo mio). 40. G. Ddcuze, Critica e clinica (1993), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1996, p.13. 201

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trove".41 Lo stesso tentativo arendtiano cli pensare al contempo la radicalità e la banalità del male si basa su quest'animazione ddl'immaginazione politica.42 Il giudizio su Adolf Eichmann - il giudizio della storia cli cui lei era una sopravvissuta - sprona Arendt a reinterpretare politicamente la • facoltà dd giudizio" kantiana, cli cui si dimentica spesso che tende a gettare un ponte tra l'etica e l'estetica, corrispondenti alle due grandi sezioni dell'opera.•' Ecco perché allora bisognava - malgrado tutto - gettare uno sguardo estetico sulle quattro foto di Auschwitz: proprio per chiarire meglio il tenore etico e antropologico che i membri del Sonderkommando attribuivano a queste immagini. Immagini fatte paradossalmente per mostrare, nell'organizzazione del massacro, l'abbattimento dd simile. Immagini fatte per mostrare, con una sconcertante crudezza - qualche luce e qualche ombra, qualche corpo nudo e qualche corpo vestito, qualche vittima e qualche "lavoratore", qualche ramo d'albero e qualche voluta cli fumo - ciò che l'ordine di Auschwitz voleva abolire definitivamente: il riconoscimento del simile su cui si basa il legame sociale e cli cui Arendt ha provato a rintracciare diverse espressioni filosofiche nella koinonia cli Platone, nella filantropia cli Aristotele, o nel similis a/fectus cli Spinoza... "' Ecco tutto ciò che Wajcrnan ignora quando, col pretesto cli 41. M. Revault d'AlloMes, "Le 'ccrur intelligent' dc HaMah Arendt" (1995), in Fragile humanité, cit., p. 56. 42. M. Revault d'AIIOMCS, Ce que l'homme fait à l'homme. Essai sur le mal po/itique, Le Seui!, Pari$ 2000, pp. 21 ,72; M. Revault d'Allonnes, "Hannah Arendt: le mal banal, la guerre totale" (1999), in Fragile humanité, cit., pp. 89-116. 43. I. Kant, Critica del giudiv'o (1790), tr. it. Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 43221 ("Criùca del giudizio estetico"); pp. 225-371 ("Criùca del giudizio teleologico"); H. Arendt, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant (1970), tr. it. Mclangolo, Genova 1990, pp. 119-127 ("L'immaginazione") e passim; R Beiner, "Il giudizio in Hannah Arendt", tr. it. in H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., pp. 139-213; M. Revault d'AlloMes, "Le courage de juger", in H. Arendt, Juge, Su, la philosophie pol1)ique de Kant, tr. fr. Le Seui!, Paris 1991, pp. 217-239; P. Ricoeur, "Giudizio esteùco e giudizio poliùco in Hannah Arendt" (1994), tr. it. in Il giusto, SEI, Torino 1998. 44. Cfr. M. Revault d 'Allonnes, •A l'épreuve dcs camps", cit. , pp. 151-167. Sul ruolo dell'immaginazione nell'Etica di Spinoza cfr. in parùcolare M. Benrand, Spinoza et l'imaginaire, PUF, Pari$ 1983, pp. 171-185. Sull'immaginaiione come legame sociale cfr. anche C. Castoriadis, J.:1stituiione immaginaria della società (1975), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995; A.M.S. Piper, "lmpanialiry, Compassion, and Moda! Irnagination", in Ethics, Cl , n. 4, pp. 726-757.

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un'"etica dd visibile", esige- armato dd solo riferimento a Shoah - che tutte le "immagini cli Auschwitz" siano, com'egli stesso dice, semplicemente rigettate; o quando afferma che la memoria della Shoah, al pari della Shoah stessa, va intesa come la "produzione cli un Irrappresentabile"; o quando insiste a scorgere in ogni immagine una "denegazione dell'assenza", una singolarità incapace cli rendere conto del terribile "tutto" dello sterminio.◄' Ma è appunto in quanto singolarità - lacunari, incapaci cli tendere al tutto - che le immagini restano malgrado tutto necessarie: E cosa sarebbero allora le immagini? Ciò che irripetibilmente, sempre di nuovo irripetibilmente hic et nunc viene percepito e ha da essere percepito (Wahrgennomene

und Wahn.unehmende).46

In realtà, un'immagine non è la "denegazione dell'assenza", ma la sua stessa attestazione. Tenere un'immagine cli Birkenau tra le mani significa sapere che quanti vi sono rappresentati non ci sono più. Quando Zalmen Gradowsk.i chiede allo scopritore del suo manoscritto cli unire al testo le foto della sua famiglia, non è per illudersi sulla presenza cli esseri umani che egli stesso ha visto andare in fumo: "Ecco la mia famiglia, bruciata martedl 8.12.1942 alle nove dd mattino". Ma è semmai, com'egli dice in quanto membro del Sonderkommando - , perché "ahimè, io, loro figlio, non posso piangere in questo mio inferno, in cui annego come in un oceano, un oceano cli sangue [in cui] devo seguitare a vivere", schiavo della morte. Firmato: "Colui che resta sulla soglia della tomba" .•1

* L'ultima critica portata ali' attenzione - storica e antropologica - verso le quattro immagini cli Birkenau consiste, in via molto generale, nell'invalidare ogni fiducia accordata ai poteri testi45. G. Wajcman, J.:Objet du siècle, cit., pp. 221-254. 46. P. Cclan, li meridiano (1960), tr. it. in i.A verità della poesia. Il meridiano e altre prose, Einaudi, Torino 1993, p. 17. 47. Z. Gradowski, Au caur de l'enfer, cit., pp. 40-41. Queste righe di "prefa• :Lione" sono reiterate poi, con qualche minima variante, alle pp. 53 -55, 119-120.

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moniali della fotografia. Questa fiducia non sarebbe altro che una "fede" oscurantista. E un paradigma religioso finirebbe così per regnare sull'intero dibattito. L'immagine consola, "allevia il nostro orròre di non vedère nulla, dandoci a vedere alcune immagini dell'orrore", scrive Gérard Wajcman. "La fotografia, anche la più cruda e la più esatta, di quanto è accaduto, ogni immagine dell'orrore, non è altro che un vdo dell'orrore; ogni immagine, essendo immagine, ci protegge dall'orrore. "48 Abbiamo detto, poc'anzi, che cosa si deve pensare della nozione unilaterale di immagine-velo. Ma eccoci adesso di fronte a un'altra metafora che va a rinforzare lo stesso argomento: è quella dell'immagine-specchio - cos'altro sarebbe la fotografia? - che è al contempo un'immagine-scudo:

ve? Una religione simile a quella professata da Jean-Luc Godard (a causa dell'esergo) - il che consente di raffigurarmi anche come San Giovanni (per l'apocalisse) e come San Paolo (per la resurrezione)." Non soltanto "ogni immagine è un appello alla fede", ma oltretutto "la passione cristiana dell'immagine infiltra e avvelena tutto" ... Gérard Wajcman, che rivendica un "ateismo originale e inveterato", pensa di diagnosticare "un antisemitismo rampante[. .. ] pure in ebrei confçssi" che, con la loro "passione per l'immagine", non fanno che "cristianizzare" la Shoah.12 In questo dibattito, quindi, immagine finisce per fare rima con "fede" o, peggio ancora, con "cristianesimo". Sul versante cultuale, ciò provoca "l'devazione a reliquia di un'immagine", con le "litanie" esegetiche e lo sfondo "feticista", ossia perverso - in senso clinico e morale -, che il tutto comporta." Mentre sul versante teologico, accusa Wajcman, "l'immagine diverrebbe davvero la Salvezza", in quanto "epifania della verità", di una verità "religiosa e, per dirla tutta, intimamente cristiana",,. Dal momento che la mia analisi delle fotografie di Birkenau non faceva ricorso ad alcun paradigma di carattere teologico, si può ipotizzare che la diagnosi avanzata da Wajcman si fondi su un semplice - ma potente - effetto di associazione, prodotto soprattutto dalla frase di Godard posta in esergo al mio saggio:

I greci inventarono un mito che metteva in evidenza il potere pacificante delle immagini rispetto al reale. È il mito della Medusa Gorgona, un mostro che non si poteva guardare in volto: tutù coloro che alzavano gli occhi su di lei venivano impietriti all'istante, si trasformavano veramente in sassi. Così quando Perseo, venuto per uccidere la Gorgona, si trovò di fronte a lei, fece attenzione a non incrociare mai il suo sguardo. Per osservare i suoi movimenti alzò lo scudo di metallo e, usandolo come uno specchio retrovisore, con gli occhi fissi sul suo riflesso, le tagliò la testa con un colpo di spada. Lo specchio, l'immagine, è uno scudo reale sollevato contro il reale inguardabile, ecco che cosa racconta questo mito."

Dato però che questa parabola pagana, inopportuna in un confronto ideologico sulla Shoah, andava subito abbandonata, Gérard Wajcman ha scdto allora di affibbiarmi un altro scudo, un'armatura diversa da quella di Perseo. Sfruttando con disinvoltura il mio nome, mi ha dunque raffigurato come un "San Giorgio [ ... ] che affronta il drago dell'Irrappresentabile": "santo laico" e "avventuriero dd pensiero", lanciato in una "crociata per la riconquista della Shoah", ma impotente a "piantarvi la sua bandiera•.1-0 E cosa c'è sulla bandiera? Una croce, ovviamente. E cosa tengo in pugno? Le immagini, e soprattutto la "Fotografia che annienta l'Irrappresentabile". E cosa mi muo48. G . Wajcman, "Dc la croyancc photographiquc•, cit., pp. 67-68. 49. IGìJem, p. 68. 50. Ibidem, pp. 51-52.

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[ ...] anche se molto rigato un semplice rettangolo di trentacinque millimetri salva l'onore di tutto il reale.''

L'idea di "onore" non è, in sé, religiosa; va piuttosto riferita al mondo etico o al paradigma politico della "resistenza". Ma dato che lo stesso Godard, in un momento ulteriore delle sue Histoire(s) du cinéma, cita un cdebre spunto paolino - "L'im51. Ibidem, pp. 60-61. 52. Ibidem, pp. 62-65. 53. Ibidem, pp. 81-83. 54. Ibidem, pp. 54, 56-57. 55.J.-L. Godard, Histoire(s) du dnéma, cit., I, p. 86.

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magine verrà al tempo della resurrezione"'6 - sembra possibile riunire i temi della redenzione attraverso l'immagine dell'"onore salvato" del reale e, infine, della resu"ezione dei morti. D'altronde, Gerard Wajcman non aveva già reperito in Godard "una politica delle immagini [rivendicata] per far passare altra paccottiglia, ossia un'autentica teologia [che] gli permette di presetvare un po' di fede in una resurrezione dell'Immagine"?'7 Riunire nella stessa "paccottiglia" teologica la redenzione della storia e la resu"ezione cristiana sembra una cosa che va da sé. Eppure si tratta di un controsenso filosofico. Per cominciare, Gérard Wajcman non è molto sensibile all'ironia godardiana. Dire che "l'immagine verrà al tempo della resurrezione", in un film melanconico come Histoire(s) du cinéma, significa forse che verrà il tempo della resurrezione? Non significa semmai che !'"immagine" - l'Immagine con la maiuscola, l'immagine una, l'immagine tutta - non ci è data, e nemmeno ci possiamo sperare? Quel che ci è dato è solo il "semplice rettangolo di trentacinque millimetri", che non forma l'immagine tutta, ma l'immagine-lacuna, il lembo - "molto rigato", cioè non ricostituibile nella sua integrità - di un aspetto del reale. Guardando questo lembo di immagine, non possiamo certo nutrire la speranza (e tantomeno l'illusione) di una resurrezione: mentre risuona la voce o/I - "anche se molto rigato ... " - sullo schermo delle Histoire(s) non vediamo che i resti bruciati di un uomo: opera di qualche Endlosung da cui quest'uomo, con milioni d'altri che rimangono fuori quadro, non resusciterà mai, sebbene il suo aspetto, la sua somiglianza in ceneri "tenga" ancora, sotto il nostro sguardo, e venga raccolta dal fotogramma (figura 30). I.;immagine-lacuna è un'immagine-traccia e un'immagine-sparizione al tempo stesso. Qualcosa resta, qualcosa che non è la cosa, ma un lembo del suo aspetto, della sua somiglianza. Qualcosa - pochissimo, una pellicola - resta del processo di annientamento: quel qualcosa, dunque, testimonia di una sparizione e al contempo resiste a essa, diventando l'occasione di

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Figura 30 Jean-Luc Godard, Histoire(s) du dnéma, 1988-1998. Fotogramma della prima pane, "Toutes les bistoires".

56. Ibidem, 1, p. 214. 57 . ~ Wajcman, "'Saint Paul' Godard contre ' Mo'ise' Lanzrnann", cit., pp. 121, 127.

un suo possibile ricordo, di una possibile memoria. Non si tratta di presenza piena, né di assenza assoluta. Non si tratta di resurrezione, né di morte senza resti. È la morte, in quanto fa dei resti. È un mondo in cui proliferano lacune, immagini singolari che, montate le une con le altre, provocano una leggibilità, un effetto di sapere, quello che Warburg chiamava Mnemosyne, Benjamin Passaggi, Bataille Documenti, e che Godard chiama oggi Histoire(s). Rovesciare completamente le Histoire(s) in una resurrezione significa insomma disconoscere completamente il lavoro del tempo: Wajcman ragiona sempre per alternative triviali, che confutano l'esistenza stessa delle immagini, dei segni in genere e del loro ricordo, della loro memoria. La morte fa dei resti, ho detto (benché ogni criminale sogni la morte senza resti delle proprie vittime, i nazisti, come sappiamo, non hanno potuto cancellare tutto). Non c'è dunque alcun bisogno di rifarsi alla resu"ezione per constatare la sopravvivenza di cui è intessuto il mondo della memoria, al quale contribuiscono pure le immagi-

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ni." Non contento di confondere ciò che andrebbe contrapposto, Wajcman dà prova inoltre di ignoranza nel campo della storia filosofica, in cui la parola redenzione ha finito per assumere un senso preciso nel contesto - Auschwitz - della nostra interrogazione. Che cosa fa sì che.un "semplice rettangolo di trentacinque millimetri" J?OSSll redimere, "salvare" qualcosa del reale di Auschwitz? E solo il senso di colpa per non esserci stati - il cartello che precede il fotogramma del corpo in ceneri, in Histoire(s) du cinéma, porta appunto l'iscrizione Dasein'9 - , è solo il senso di colpa del cinema in generale che Godard tenta di redimere col suo immenso lavoro di montaggio mnemotecnico? Non soltanto. La redenzione del reale si rivela in effetti una delle nozioni più profondamente significative in coloro che Walter Benjamin, includendosi 60 tra loro, definiva "la generazione degli sconfitti". Pensatori ebrei e pensatori rivoluzionari, tra i primi a essere perseguitati, spinti alla fuga o al suicidio, eppure decisi a ripensare la storia malgrado tu/lo, proprio nel momento in cui la storia si richiudeva su di loro dimostrando l'inanità del progresso, il crollo delle utopie, la potenza dei totalitarismi:61 l'Erlosung, o "redenzione", fu per questi pensatori di lingua tedesca la povera ma necessaria risposta alle grandi macchine del terrore, quelle macchine cui fa riferimento anche la parola tecnica Endlosung, "Soluzione finale". Basta dare qualche riferimento, citare qualche data. Franz Kafka cominciò a scrivere Il processo nel 1914 - nel 1912 aveva scritto Il verdello - che ruotava attorno alla grande questione dell'Erlosung, sebbene sotto forma di ostinata "utopia negativa".62 Franz Rosenzweig, che già nel 1910 aveva scritto "Ogni atto diventa colpevole nel momento in cui penetra nella storia" ,6} pubblicò nel 1921 La stella della redenzione, in cui ten-

tava di conferire all'Erlosung il senso filosofico di una "frattura violenta del tessuto storico, irruzione nel cuore del tempo di un'alterità assoluta, di una forma di esperienza radicalmente differente". La redenzione così intesa non concerneva più il rapporto tra l'uomo e Dio, ma un rapporto "estetico" tra l'uomo e la storia, nel momento stesso in cui quest'ultima dimostrava la sua incapacità di serbare l'illusione del progresso.~ Per Rosenzweig, la redenzione non rappresentava più il salvataggio definitivo, la "fine dei tempi", e tantomeno la resurrezione di alcunché. Era semmai uno sconvolgimento che può giungere in qualsiasi momento, o un momento di resistenza agli artigli della storia che si richiudono su di noi. Era, come dice lo stesso Rosenzweig, il "Sì, nel colpo d'occhio dell'attimo" ,6' mentre il No continua a spadroneggiare incontrastato nel regno del divenire. Nel 1931, Gershom Scholem definiva quello di Rosenzweig "un saggio sulla dialettica storica del concetto di redenzione".66 E cinque anni dopo, quando il sistema nazista ormai spadroneggiava, Scholem intraprendeva un'analisi storica del concetto di redenzione nella mistica ebraica, descrivendo in primo luogo la "redenzione col peccato" propugnata dall'eresia sabbatiana e dal nichilismo di Jacob Frank,67 e passando poi nel 1941 alla stesura di un saggio, che diventerà presto un classico, su "L'idea di redenzione nella Kabbalah", profondamente ancorato - l'amico Walter Benjamin si era appena tolto la vita, fuggendo dalla Gestapo - nella storia di quei giorni:

58. Anche in storia dell'anc ritroviamo questi due modelli conco"enti della resurrezione (Vasari) e della sopravvivenza (Warburg); dr. G. Didi-Hubcrman, I:Image survivante, cit., pp. 9-114. 59. J.-L. Godard, Histoire(s) du anima, cit., I, p . 87. 60. W. Bcnjamin, Sul conce/lo di storùz, cit., p. 43.

Di fronte al problema essenziale della vita, quello dello svincolamento dalle catene di qud caos che è la storia, si può esitare tra due opzioni. Si può dirigere l'attenzione sulla "fine" dei tempi, sulla redenzione messianica, riponendo ogni speranza in questa fine dei tempi, sforzandosi di accderarla, considerando la salvezza come una corsa verso la fine [....]. Oppure si può scegliere l'opzione contraria, cercando una via di uscita dalla sporcizia, dalla confusio-

61. Cfr. M. Lowy, Rédemption et utopie. Le judaisme libertaire en Europe centrale. Une étude d'affinité ilective, PUF, Paris 1988; tr. it. Retknzione e utopia. Figure della cultura ebraica mille/europea, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 62. M. Lowy, Ritkmption et utopie, cit., pp. 92-120. 63. F. Roscnzwcig, citato da S. Mosès, I:Ange de l'histoire. Rosenzweig, Benjamin, Schokm, Le Seuil, Paris 1992, p. 56; tr. it. La stona e il suo angelc. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Anabasi, Milano 1993.

64. F. Rosenzweig, La stella della retknzione (1921), tr. it. Marietti 1985, pp. 260-268 ("Redenzione come categoria estetica"). 65. lbidem, p. 271. 66. G. Scholcm, "Sur l'édition de 1930 dc I.:Étoile tk la rédemplion de Rosenzwcig" (19.31), tr. fr. in Le Messianisme Jui/. Essais sur la spiritualité du juda;: sme, Oamann-Lévy, Paris 1974, pp. 449-454. 67. G . Scholcm, "La rédcmption par le péché" (1937), tr. fr. in Le Messianisme juif. Essais sur la spiritualité du judaisme, cit., pp. 139-217.

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ne, dal caos e dai cataclismi della storia con una fuga verso l'inivo. [. . .] Di qui l'importanza del problema della creazione.68

sato (ein Bild der Vergangenheit /estzuhalten) nel modo in cui si impone imprevista nell'attimo del pericolo (im Augenblick der Gefahr). "7°Che significa? Anzitutto, che la "redenzione" è possibile solo entrando in un certo rapporto con la storia: si può inventare il futuro solo rimettendosi a una rimemorazione (Eingedenken), secondo quella ·strana legge dell'anacronismo che potremmo battezzare "inconscio del tempo": "Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell'aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c'è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un'eco delle voci ora mute?" .71 Ora, questo "soffio d'aria" e questa "eco", Benjamin li chiama immagini. Articolare storicamente il passato significa "trattenere" questo soffio e questa eco, sospendere questa "immagine del passato" che "si impone imprevista nell'attimo del pericolo". L'immagine va pensata inizialmente secondo la fenomenologia della sua apparizione, del suo pericolo, del suo passaggio. Ed è appunto questo che bisogna "trattenere" (festha/ten). Vi è dunque, in questo modello, un impossibile che assomiglia molto alla nostra incapacità, guardando un film, di trattenere le immagini che appaiono e che passano, che ci colpiscono e che sfuggono, cioè che ci toccano a lungo pur scomparendo nel lasso di un istante. "La vera immagine dd passato guizza via. È solo come immagine che balena, per non più comparire, proprio nell'attimo della sua conoscibilità che il passato è da trattenere. "72 Ovvio allora che, da questo punto di vista, l'immagine non resuscita alcunché, non consola affatto. Essa è "redenzione" solo nel secondo - così prezioso - in cui passa: è questo lo strappo del velo malgrado tutto, malgrado la rischennatura immediata di ogni cosa in quella che Benjamin definisce la "desolazione del passato".n Nella pratica godardiana, i fotogrammi di George Stevens (figure 25-26) "salvano l'onore di tutto il reale" solo

Scholem -ha mostrato che l'idea ebraica cli redenzione (ge'ulah) costituisce un contrappunto rigoroso all'idea - cristiana, e poi hegeliana o marxista - cli salvataggio storico. Si tratta di una risposta alla situazione dell'esilio, ma cli una risposta ispirata a un "pessimismo assoluto" circa la storia e il suo progresso. "La tradizione ebraica classica, - scrive Scholem commentando un capitolo del trattato Sanhedrin, - si compiace nel mettere in rilievo l'aspetto catastrofico della redenzione[ ... ]: la redenzione è una distruzione, un crollo titanico, una sovversione, una calamità; non c'è posto per un'evoluzione favorevole o un qualche progresso. Ciò deriva dal carattere dialettico della redenzione in questa tradizione. " 69 · Com'è noto, nel frattempo - nel 1940, poco tempo prima cli togliersi la vita - Walter Benjamin era riuscito a riformulare o a ri-montare tutte queste fonti, dalla Kabbalah a Kafka, da Karl Marx a Rosenzweig, in un'idea di Erlosung intesa per l'appunto come catastrofe priva di ogni "salvezza" storica (vittoria definitiva sulle forze del totalitarismo) o religiosa (resurrezione, vittoria definitiva sulle forze della morte). Le sue tesi "Sul concetto di storia" rappresentano al contempo una testimonianza su una certa esperienza storica e un'elaborazione filosofica assolutamente nuova, sconvolgente, della storicità in quanto tale. Si tratta senz'altro di una delle fonti delle Histoire(s) di Jean-Luc Godard, soprattutto quando questi dice di scorgere in un "semplice rettangolo di trentacinque millimetri" - cioè in un semplice fotogramma che appare e scompare nel lampo di un istante una possibilità di "redenzione" del reale storico. "Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo 'proprio come è stato davvero'. Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l'importante è trattenere un'immagine del pas68. G. Scholem, "L'idée de rédemption dans la Kabbale" (1941 -1955), tr. fr. in

u Mersianirmejuif. Essais sur la spiriJua/iJé dujudaisme, cit., pp. 74 -75.

69. Ibidem, pp. 78-79. La dialettica cui fa riferimento Scholcm (ibidem, p. 92) nella Kabbàlah si esprime in termini di "contrazione" (lsim-Jsum), di "rottura" (sht!Virah) e di "riparazione" (tikltun ).

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70. W. Benjamin, Sul concetto di swria, cit., p. 27. 71. Ibidem, p. 23. 72. Ibidem, pp. 25-27. 73. C&. M. Lowy, Walter Benjamin: avertissement d'incendie. Une ledure des thèses •su, le concept d'histoire' , PUF, Paris 2001, pp. 35-40; tr. it. Segnalatore d'incendio. Una /e/tura sulle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

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nell'istante in cui compaiono per "salvare" se stessi, ossia guizzare subito via dal nostro campo visivo. In tal modo, almeno, il montaggio crea le condizioni mnemotecniche di una pregnanz.a di queste immagini tanto sfuggenti. La finzione di felicità che avvinghia Elizabeth Taylor-e Montgomery Clift (figure 27-28) è mostrata solo in contrappunto a questa "desolazione del passato". E la "redenzione" si profila allora, più profondamente, come ciò che getta luce sul modo dialettico in cui ognuno di questi due stati esiste sullo sfondo di possibilità dell'altro. Nulla si può capire di questa idea anacronistica di "redenzione" se la si riduce a un salvataggio definitivo del passato in qualche avvenire radioso. Benjamin si esprime con durezza sull'idea che si fanno "la vecchia morale protestante" e il "marxismo volgare" del lavoro come Messia o "salvatore dell'epoca moderna".74 E se in fine parla delle pratiche ebraiche di rammemorazione, è perché esse, nelle principali feste del calendario religioso, rammentano gli "eventi redentori" come altrettanti ricordi dell'esilio." L'"estetica benjaminiana della redenzione", come l'ha chiamata Richard Wolin, è proposta malgradc tutto come una resistenza all'ultimo respiro - che per noi resta comunque una lezione di lungo respiro - opposta alla non-consolazione davanti alla storia: "Noi chiediamo a chi verrà dopo di noi, non gratitudine per le nostre vittorie, ma rammemorazione delle nostre sconfitte. Questa è consolazione: la sola consolazione concessa a chi non nutre più la speranza di essere consolato". 76

tempo impossibile da ricostituire come immagine tutta, restituisce malgrado tutto l'immagine-lacuna di una storia di cui noi siamo eredi. Non è che una singolarità, di cui il montaggio dovrebbe però permettere l'articolazione e l'elaborazione. Il compito che Benjamin assegna allo storico - Aby Warburg se l'era già assegnato, fino alla follia - è dunque impossibile in linea di principio: affinché "tuuo il reale" fosse redento, bisognerebbe che "tutto il passato" diventasse citabile:

* Il fotogramma "molto rigato" di George Stevens che filma l'apertura dei campi "salva" dunque !'"onore" del reale storico solo nel tempo stesso della sua fuga - una fuga che va di continuo rammemorata. Questo fotogramma, testimonianza di un 74. W. Bcnjamin, Sul conce/lo di storia, cit., pp. 39-41. 75. Ibidem, p. 57. . 76. W. Beni~. citato da M. Lowy, Walter Benjamin, cit., p. 99. Cfr. R Wolin, Walter Ben1am1n: An Aesthetic of Redemption, Columbia University Press, New York 1982. Per un contributo più recente sulla filosofia ebraica della reden• zione, cfr. P. Bouretz, Timoins du futur. Ph,1osophie et messianisme Gallimard Paris 2003. ' '

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere tra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto dev'essere mai dato per perso. Certo, solo a una umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti."

Ma di ciò che per il filosofo è impossibile in linea di prindpio, lo storico e l'artista sperimentano la possibilità malgrado tutto. Possibilità chiaramente parziale, erratica, sempre da riprendere, da ricominciare, da riconfigurare. Ed ecco perché le Histoire(s) du dnéma, nella molteplicità delle loro varianti, si propongono come un'opera mai realmente finita. Ed ecco perché, parimenti, la "r~denzione" non concerne affatto una "fine dei tempi", ma ogni istante del nostro presente apeno. Se il pensiero filosofico dell'Erlosung ha trovato una certa eco in alcuni dei contemporanei di Benjamin sfuggiti, con l'esilio, all'Endlosung - penso soprattutto a Emst Bloch e Karl Lowith78 - è però nell'opera di Siegfried Kracauer che le tesi concomitanti di Benjamin sulla storia e sull'immagine hanno conosciuto un destino ancora più "amichevole", se così possiamo dire. In questo caso, la prossimità dei problemi sfocia, né più né meno, in una teoria del cinema che Kracauer formula in termini molto simili a quelli utilizzati prima da Benjamin e poi da Godard: si tratta, infatti, della "redenzione della realtà fisica" (the redemption of physica/ rea/ity).79 77. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 23. 78. Cfr. E. Bloch, li principio speranuz (1938-1959), tr. it. Garzanti, Milano 1994; K. Lowith, Signi/ia,Jo e fine della storia. I presupp011i teolcgici della fi!cso/ia ·della storia (1949), tr. it. il Saggiatore, Milano 2004. 79. S. Kracauer, Film. Ritorno alla realtà fisica (1960), tr. it. il Saggiatore, Milano 1962.

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Siegfried Kracauer è noto soprattutto per essere stato il primo ad analizzare il nazismo come fenomeno di massa a partire dal cinema: quest'arte che, "da Caligari a Hitler", avrebbe a suo avviso anticipato, descritto, denunciato, e talvolta anche servito, il terrore na:i;ista. 80 Dagli anni Venti in poi Kracauer ha sviluppato un'analisi delle immagini che è parente tanto di una "estetica materiale" quanto di una antropologia dd visivo.31 Benjamin lo descrive come un eterno "scontento", un "brontolone" che protesta di continuo contro le innumerevoli nefandezze della storia - viene da pensare a Cari Einstein - ma anche come uno storico a tutto tondo, vale a dire uno storico degli oggetti parziali, dei lembi, delle immagini. Un "cenciaiolo" insomma: Non è un capo, un fondatore, ma un malcontento, un guastafeste. E se ce lo vogliamo rappresentare nella solitudine del suo mestiere e dei suoi sforzi, vediamo un cenciaiolo che alle prime luci del!'alba solleva col suo bastone gli stracci linguistici, per gettarli nel suo carretto brontolando, caparbio e un po' ubriaco, non senza agi80. S. Kracauer, De Caligari à Hitler. Une hittoire psycholcgÙJue du c,'néma allemand (1947), 1r. fr. Flammarion, Paris 1987; 1r. i1. Da Caligari a Hitler. Una stori4 psicolcgica del cinema tedesco, Lindau, Torino 2001. 81. S. Kracauer, Kino. Essays. Studien, Glcssen v,m Film (1926-1950), a cura di K. Wittc, Suhrkamp, Frankfun 1974; dr. anche l'cccdlente edizione inglese, S. Kracauer, The Mass ornament. Weimar Essays (1920-1931), 1r. ingl. Harvard Uni• vcrsity Prcss, Cambridge-London 1995; tr. i1. Lo massa come ornamento, Prismi, Napoli 1982. Su Kracauer cfr. in particolare M. Jay, "The Extratcnitorial Life of Siegfried Kracauer" (1975-1976), in Permanent Exiles. Essays on the Intellectual Migration /rom Germany IO America, Columbia University Press, New York 1985, pp. 152-197; H. Schlupmann, "Phcnomcnology of Film: On Siegfried Kracaucr's Writings of the 1920s", tr. ingl. in New Ger.man Critique, n. 40, 1987, pp. 97-114; I. Millder-Bach, "Négativi1é et retoumemeot. RéBexions sur la phénoménologie du superficid chez Siegfried Kracauer", tr. fr. in G. Raulet.]. Furnkiis (a cura di), Weimar: le tournant esthétique, Anthopos, Paris 1988, pp. 273-285; M. Kessb, T.Y. Lcvin (a cura di), Siegfried Kracauer. Neue lnterpretationen, Stauffcnburg, Tubingen 1990; M. Hansen, • Occcntric Perspectives: Kracaucr's Early Writings on Film and Mass Culture", in New German CritÙJue, n. 54, 1991, pp. 47-76; D. Bamouw, Criticai Realism. History, Photography, and the Work o/ Siegfried Kracauer, Johns Hopkins University Press, Baltimora-London 1994; E. Traverso, Siegfried Kracauer. Itinéraire d'un intellectuel nomade, La Découvene, Paris 1994; P. Ocspoix, ÉthÙfues du désenchantement. Essais sur la modemité allemande au début du siècle, L'Harmattan, Paris 1995, pp. 169-212; G. Koch, Siegfried Kracauer: an lntroduction (1996), tr. ingl. Princeton University Press, Princeton 2001 ; M. Brodersen, Siegfried Kracauer, Rowohlt, Reinbck 2001; P. Ocspoix, N. Perivolaropoulou (a cura di), Culture de masse et modernité. Siegfried Kracauer, sociolcgue, critique, écrivain, Éditions de la Maison des Sciences de l'Homme, Paris 2001.

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tare nel vento del mattino, ogni tanto, l'una o l'altra di queste mussole sbiadite - !'"umanità", !'"interiorità", !'"approfondimento". Un cenciaiolo alle prime luci del giorno -all'alba della rivoluzione."'

Kracauer non ha mai smesso di interrogarsi sulla questione che ci sta a cuore qui: la questione dei rapporti tra l'immagine e il reale, soprattutto quando il loro contatto tira in ballo la storia in ciò che ha di davvero cruciale. La sua riflessione ruota quindi costantemente attorno al problema del realismo: quale "valore critico" può vantare, allorquando ogni "teoria del riflesso" - ogni illusione referenziale - viene respinta sul piano filosofico come falso problema, circolo vizioso, pregiudizio idealista?8i Il punto di partenza di Kracauer è una veemente critica del continuo, che prende spunto in primo luogo da un'osservazione puntigliosa e caustica dei giornali illustrati e dei cinegiornali degli anni Venti e Trenta. Ed è in questa prospettiva che Kracauer se la prende poi anche con la fotografia, nel 1927, quando questa pretende di restituirci un continuum dello spazio e del tempo: allora essa diventa la filiale dello storicismo imperante; allora "sotto la fotografia di un essere umano la sua storia resta seppellita come sotto un manto di neve"; allora l'immagine caccia via l'idea e, "nelle mani della società regnante, [essa diviene) uno dei più potenti mezzi di sciopero contro la conoscenza"; allora la realtà che essa rappresenta viene definita da Kracauer • non consegnata", incapace cioè di memoria autentica; quando il mondo diventa fotogenico in siffatto modo, la storia si ritrova semplicemente mortificata, ridotta all'impotenza e all'"indi.fferenza nei riguardi di ciò che le cose vogliono dire". 84 Stesso discorso per i cinegiornali dell'Ufa, della Fox o della Paramount: essi pretendono di "abbracciare il mondo intero", ci abbuffano di catastrofi naturali e ·manifestazioni sportive, mentre "turti gli eventi davvero importanti vengono scartati". 82 . W. Benjamin, "Un isolato si fa notare. A proposito degli Impiegali di S. Kracauer• (1930), 1r. it. in Opere complete. N. Scritti 1930-1931, Einaudi, Torino 2002, p. 144. 83. Cfr. P. Despoix, • Avan1-propos", tr. &. in S. Kracauer, Le Voyage et la danse. Figures de la ville et vues de films, Presses Universitaires de V'mcennes, SaintOcnis 19%, p. 20. 84. S. Kracauer, "La photographie" (1927), tr. &. in S. Kracauer, Le Voyage et la danse, pp. 42-57 ; dr. B. Lindner, "Photo profane. Kracauer et la photograpbie", in Culture de masse et modernité, cit., pp. 75-95.

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.Kracauer, di tutto questo, fa altrettanti sintomi stonà che fendono la società, lacerano il consenso, risvegliano i sopravvissuti e rendono visibile il disagio della civiltà. Ma solo un'analisi, ossia una/rantumazione seguita da ncostruzione, è in grado di mostrarci un sintomo. Kracauer parla quindi dell'esperimento significativo ....: ma presto censurato - di una • associazione cinematografica" che sulla base del "materiale disponibile negli archivi di immagini" aveva raggiunto "una vista più acuta", semplicemente mostrando le immagini "composte in maniera diversa", cioè rimontate alla luce di una certa problematica." Il realismo critico cui mira Kracauer si ottiene così solo spezzando la continuità artificiale presentata dallo "storicismo" fotografico o cinematografico. Dei montaggi di Eisenstein o di Dziga Vertov, Kracauer ammira il modo in cui il reale storico si trova decostruito, per essere poi ricondotto alla sua vera "causa". "Questo film, - scrive a proposito della Corazzata Potemkin, non cattura l'attenzione come i film occidentali, con sensazioni dietro le quali si nasconde la noia. In esso è la causa che cattura l'attenzione, poiché è vero."86 Ciò che lo affascina nella Corsa ali'oro è il fatto che Charlot sia un personaggio kafkiano, del tutto spezzettato, ossia rivelato in quelle che sono le sue componenti più segrete: "Altri uomini hanno una coscienza del loro io e vivono rapporti umani; lui ha perso il suo io, ed ecco perché non può vivere quella che chiamiamo vita. È un buco in cui precipita tutto quanto; ciò che di solito è raccolto in un tutto qui si frantuma sbattendo sul fondo e andando in mille pezzi". 87 Ciò che ammira in René Clair o Jean Vigo è anzitutto la "logica del sogno" innestata sulla logica del reale (in Entr'acte e Sotto i tetti di Parigi); così come è il modo in cui (in I.:atalante ad esempio) la fiaba diventa "porosa", senza fine dichiarato, ma aperta tuttavia all'irruzione di una "causa" inavvertita, ben più profonda.88 85. $. Kracauer, "Lcs actualités cinémat0graphiqucs" (1931), tr. fr. in Le Voyage et la dame, cit., pp. 124-127. 86. $. Kracauer, "Lcs lampcs Jupiter rcstent allumécs. A propos du Cummi Potemkine• (1926), tr. fr. in Le Voyage et la danu, cit., p. 64; cfr. anche S. Kracauer, "L'hommc à la caméra" (1929), tr. fr. in Le Voyage et la danse, cit., pp. 89-92. 87. S. Kracaucr, "The Gold Rush" (1926), tr. fr. in Le Voyageet la danu, dt., p. 41. 88. S. Kracauer, "Sous /es to,is de Paris" (1930), tr. fr. in Le Voyoge et la danse, cit., pp. 101-103; S. Kracauer, "Jcan Vigo" (1940), tr. fr. in Le Voyage et la donse, cit., pp. 101-103, pp. 142-145.

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Dinanzi a Westf,ont 1918, realizzato nel 1930 da G.W. Pabst, Kracauer si trova invece alle prese con una difficoltà cruciale per giudicare il valore etico e memoriale di un "realismo di guerra" spinto all'estremo. Da un lato, egli critica la leggerezza di questo "genere" cinematografico, che tenta di abbellire la "monotonia di quell'inferno" che sono le trincee, deplorando anche l'incapacità del film di rappresentare i "segni precursori" della storia. Dall'altra, egli ammira "questo paesaggio di fili spinati [che] domina lo spazio [e al quale] tutta l'esistenza umana risulta subordinata". 89 Ma, soprattutto, riconosce a Pabst il merito di aver corso un rischio estetico che ha una certa ricaduta sul piano etico della memoria storica, ossia dell'attitudine politica dinanzi alla guerra:

Senza alcun dubbio, il film sul piano estetico corre un rischio rilevante. Distrugge, nei luoghi menzionati, i limiti impartiti all'imitazione e, come ogni figura panottica, crea l'apparenza contro natura di una natura extra-artistica. Il problema è di capire se ha ragione a compiere il salto nel tridimensionale. Tenderei a rispondere di sl in questo caso preciso, in cui si uatta di serbare a ogni costo il ricordo della guerra. [. . .] Durante la rappresentazione - il film viene dato al Campidoglio - molti spettatori se la sono data a gambe. "È assolutamente insopportabile", ho sentito dire dietro di me. E: "Come osano proporci una cosa del genere?". Possano questi spettatori dichiarare aluettanto insopportabile la guerra, e non dovranno più vedersi proporre cose del genere. Purtroppo, cosl come temono lo spettacolo della guerra, essi rifuggono anche dalla conoscenza che potrebbe impedirla.'° Tre anni dopo, .Kracauer dovrà affrontare l'avvento del nazismo e poi lo scoppio di una guerra che gli spettatori scandalizzati del 1930 non faranno nulla per impedire. Ciononostante, lasciando da parte il libro del 1947 sul valore sintomatico del cinema in tutta questa vicenda,91 Kracauer non rinuncerà per 89. S. Kracauer, "Westfront 1918" (1930), tr. fr. in Le Voyage et la danse, cit., pp. 108-109. 90. Ibidem, p. 110. 91. S. Kracauer, De c,Jigari à Hitler, cit., p. 12: "Cosl, al di là della storia manifesta dei mutamenti economici, delle esigenze sociali e dcllc macchinazioni politiche, esiste una storia segreta delle inclinazioni interiori dd popolo tedesco. La rivdazione di queste inclinazioni per m=o dd cinema tedesco può aiutarci a ca-

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questo a insistere sulle prerogative etiche dell'immagine nella prospettiva di una redenzione malgrado tutto - una speranza la sua che avrebbe dovuto incontrare, com'era già accaduto a Walter Benjamin, l'incomprensione di Adomo. 92 Uno dei grandi meriti di Theory o/ Film, che rappresenta il testamento estetico di Kracauer: consiste nel fatto che non rinuncia né al costruttivismo né al realismo: invece di giocarli l'uno contro l'altro (banalità, luogo comune della storia degli stili), Kracauer tenta di giocarseli l'uno e l'altro assieme, con l'obiettivo di elaborare una certa esperienza della storia nell'immagine. Per un verso, l'immagine decostruisce la realtà, e ciò grazie ai suoi stessi effetti di costruzione: oggetti inosservati all'improvviso invadono lo schermo, i mutamenti di scala cambiano il nostro sguardo sul mondo, i concatenamenti inediti prodotti dal montaggio ci fanno comprendere le cose altrimenti. Le situazioni familiari si svuotano di signilìcato, ma "all'improvviso questo vuoto esplode", e allora il caos empirico diventa la "realtà fondamentale". Con la sua costruzione di stranezze - quella che Kracauer chiama exterritorialità-, coi suoi "tagli trasversali" del continuum spaziale e temporale, l'immagine tocca un reale che la realtà stessa fin nci aveva velato. 9> Ed è così che l'immagine tocca il tempo: decostruendo i racconti e le cronache "storiciste", essa guadagna un " realismo critico", ossia acquisisce il potere di "giudicare" la storia, di far af. fìorare il tempo occulto delle sopravvivenze, di rendere visibile

il "ritorno dell'assente" nell' exterritorialità, nella stranezza del 94 cinema. Ecco perché allora Kracauer non esita a parlare di "funzioni rivelatrici" (revealing /unctions) del cinema: noi accediamo, grazie ai suoi artifici, alle "cose normalmente invisibili" (things normaliy unseen), alle "macchie cieche dello spirito" (blind spots o/the mina). Di che si tratta? Kracauer parla qui cli qualcosa che va dalle piccole "catastrofi elementari" (elemental catastrophes) della vita fisica o psichica alle grandi catastrofi della storia e della società, in cima alle quali egli pone le "atrocità di guerra" e gli "atti di violenza e di terrore" (atrocities o/ war,

pire l'ascensione e l'asccndcn1c di Hitler". Cfr. anche E. Traverso, Sieg/ried Kra-

cauer, cii., pp. 156-166. 92. Cfr. T.W. Adorno, "Das Wunderlichc Real.is1. Ùbcr Siegfried Kracauer" (1964), in Gesammelte Schnften, Xl. Noten zur Literalur, Suhrkamp, Frankfurt 1974, pp. 388-408; tr. i1. Note sulla lelleratura, 1961-1968, Einaudi, Torino 1979: M. Jay, • Adorno and Kracaucr: No1cs on a Troubled Fricndship" (1978), in Permanent Exiles, cii., pp. 217-236. 93. S. Kracaucr, Theory of Film, cit., pp. 285-311. Cfr. anche I. Mìildcr-Bach, "Négativi1é c1 re1ourncmcn1", cii., pp. 273 -285; K. Koziol, "Dic Wirklichkci1 is1 cinc Konstruktion. Zur Mcthodologic Siegfried Kracauers •, in Siegfried KraCJJuer. Neue Interpretationen, cii., pp. 147-158; P. Dcspoix, "Sicgfricd Kracaucr, cssayis1e c1 critique de cinéma", in Critique, XLVlll, 1992, n. 539, pp. 298-320; N. Pcrivolaropoulou, "l..cs mo1s dc l'his1oirc et Ics imagcs de cinéma", in Culture de masse et modernité, cir., pp. 248-261. Sul concetto di "extcrri1oriali1à" cfr. E. Traverso, Sieg/ried KraCJJuer, cii., pp. 178-189; E. Traverso, "Sous le signc de l'ex1erri1oriali1é. Kracaucr c1 la modcmi1é juivc", in Culture de masse et modernité, cit., pp. 212-232.

acts o/ violence and terror)."' Non è certo un caso se il libro di Kracauer accorda un ruolo di primo piano al "fìlm del fatto" (film o/ /act), ossia al documentario.96 E non è un caso neppure che esso si concluda con una riflessione che - parlando di "redenzione" - tenta cli formulare le conseguenze teoriche dello sconvolgimento provato alla vista dd Sangue delle bestie di Georges Franju, ma soprattutto dei "film sui campi nazisti", tra i quali bisogna includere senz'altro le pellicole girate alla liberazione, ma anche probabilmente Nuit et brouillard di Alain Resnais.97 Nella sua ultima opera sulla storia, eloquentemente sottotitolata The Last Things be/ore the Last, Kracauer paragonerà il "cercatore del tempo" al contempo cenciaiolo e montatore, ossia cineasta della storia a Orfeo che discende agli inferi per riportare, cosa di per sé impossibile, Euridice in vita. 98 È impossibile, infatti. L'immagine, al pari della storia, non resuscita nulla, non resuscita del tutto. Ma essa "redime": salva un sapere, recita malgrado tutto, malgrado il poco in suo potere, la memoria dei tempi. Kracauer sa bene che il realismo cli Pabst, 94. Cfr. G. Koch, "'Not Ye1 Accep1ed Anywherc'. Exilc, Mcmory, and lrnage in Kracauer's Conception of His1ory•, tr. ingl. in New Gennan Critique, n. 54, 1991, pp. 95-109; H. Schliipmann, "Tbc Subjcct of Survival: On Kracauer's Theory of Film", tr. ingl. in New German Critique, n . .54, 1991, pp. lll-L26; D. Banouw, CriliCJJI Realism, cii., pp. 200-264. 95. S. Kracauer, Theory o/Film, cii., pp. 46-59. 96. Ibidem, pp. 193-214. 97. Ibidem, pp. 30.5-306. 98. S. Kracaucr, History: usi Things be/ore the usi, Oxford Univcrsity Press, Oxford 1969, pp. 78-79. Cfr. D.N. Rodowick, " Thc Last Things before the Las1: Kracauer on His1ory", in New German Critique, n. 41, 1987, pp. 109-139.

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nd 1930, non ha potuto impedire nulla nd 1933. Sa bene che Nuit et brouillard non potrà far nulla per impedire che altre notti e altre nebbie calino su di noi. Ma l'immagine "redimen: in essa, egli dice, si dispiega tutta l'energia di Perseo. E il suo libro si conclude, o quasi, con la parabola della Medusa:

cinematografica raccontata, con toni quasi proustiani, all'inizio dd libro: si trattava ll di una realtà che si riflette in una pozzanghera, la cui superficie è però scossa a un certo punto da un soffio di vento che ne scompiglia l'immagine. ' 00 Che ci insegna allora questa parabola? Che l'immagine non è solo quella "dialettica dell'arresto" di cui parlava Walter Benjamin: a noi spetta, aggiunge Kracauer, di rimetterla sempre in movimento. E qui sta, se si afferra bene questo movimento, il senso di quella che possiamo definire un'etica delle immagini. Il mito di Medusa ci ricorda in primo luogo che l'orrore reale è per noi fonte di impotenza. Quanto è accaduto sotto gli occhi dd "fotografo clandestinon di Auschwitz non era altro che il terribile dispiegamento. dd potere dei carnefici, un potere che annienta la vittima e pietrifica, rendendolo muto o cieco, il testimone a occhi nudi. Ma l'orrore riflesso e ricostruito come immagine - non a torto Kracauer, come farà in seguito Godard, pensa soprattutto alle immagini d 'archivio - può essere invece fonte di conoscenza, a patto certo di assumersi la propria responsabilità nel dispositivo formale dell'immagine prodotta. La métis del riflesso, di cui Atena parla a Perseo, nell'agosto 1944 si trasforma nell'astuzia della "messa in scenan - che comporta un pericolo di morte - organizzata dalla squadra dd Sonderkommando affinché Alex potesse scattare le sue foto. Esiste davvero, spiega Kracauer a proposito di Perseo, un coraggio di conoscere: è il coraggio di "incorporare nella nostra memoria" un sapere che, una volta riconosciuto, elimina qud tabù che l'orrore, sempre paralizzante, seguita a far pesare sulla nostra intelligenza della storia. In questo coraggio risiede già la capacità dell'immagine di "salvare il reale", scrive Kracauer, dalla sua cappa di invisibilità. La "redenzione" in senso pieno sopraggiunge solo quando il coraggio di conoscere si trasforma in /onte d'azione. L'"onore" è salvato quando l'impotenza, la paralisi davanti al peggio, si trasforma in "resistenza", anche disperata (questo segnala l'espressione malgrado tutto). E l'impresa dd Sonderkommando, nell'agosto 1944, è caratterizzata proprio da questo ribaltamento dd-

Ci hanno insegnato a scuola la storia della Gorgona Medusa il cui volto, coi suoi enormi denti e la lingua protuberante, era talmente orribile da trasformare uomini e animali in pietre non appena incrociavano il suo sguardo. Incitando Perseo a uccidere il mostro, Atena gli raccomandò di non guardarlo mai direttamente in faccia, ma di farlo solo attraverso il riflesso dello scudo lucido che gli aveva dato. Seguendo il suo consiglio, Perseo tagliò la testa della Medusa col falcetto donatogli da Ermete. La morale di questo mito è, chiaramente, che noi non vediamo, non possiamo vedere gli orrori reali (actual ho"ors) che ci paralizzano con un terrore accecante (blindingfear); ma che sapremo (we shall know) a che cosa assomigliano soltanto guardando le immagini di essi (on/y by watching images o/ them) che riproducono la loro autentica apparenza [. . .] Lo schermo del cinema è lo scudo riflettente di Atena. Non è tutto, però. Il mito insinua anche che le immagini sullo scudo o sullo schermo sono mezzi per un 6ne (means to an emi); esse sono Il per permettere allo spettatore - o per convincerlo almeno della possibilità - di decapitare l'orrore che esse riflettono (to behead the horror they mirror). [ ... ] Le immagini invitano lo spettatore ad accettare e così a incorporare nella sua memoria (incorporate into bis memory) il volto reale delle cose (the real /ace o/ things), quelle cose che sono troppo terribili da contemplare nella realtà. Facendo esperienza delle schiere di teste decapitate, o delle barelle su cui giacciono i corpi umani torturati, nei film girati nei campi di concentramento nazisti, noi salviamo l'orrore dalla sua invisibilità (we redeem ho"or /rom its invisibility) dietro il velo del panico e del fantasma. Quest'esperienza è liberatrice, poiché rimuove il tabù più potente (it removes the most powe,fu/ taboo). L'impresa maggiore di Perseo forse non fu quella di decapitare la Medusa, ma quella di vincere la paura e di guardare il suo riflesso nello scudo. Non è proprio questo exploit che gli ha consentito di mozzare la testa al mostro?99

Per Kracauer questa parabola è davvero importante, poiché con essa torniamo - ma con tutto il peso della storia vissuta nd frattempo - alle condizioni infantili e incantate di un'esperienza 99. S. Kracauer, Theory of Film. cit., pp. 30.5-306.

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100. Ibidem, p. XI. C&. J.-L. Leutrat, "Comme dans un miroir confosément", in Culture de masse et modemité, cit., pp. 233-247.

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l'impotenza, cui fa cenno anche Maurice Blanchot quando, a proposito cli L'Espèce humaine, osa parlarci malgrado tutto dell'"inclistruttibile" umanità dell'uomo.101 È forse un caso che il libro cli Kracauer si concluda con un paragrafo intitolato The Family o/ Man? 102. L'"estetiq.1 della redenzipne" contrappone Benjamin e Kracauer ad Adorno, che resta invece ostile alle immagini. 10' Questa estetica non dice che il film "salva coloro che mostra", come crede Jean-Michel Frodon: 1°' non si tratta cli discolpare gli attori della storia o del cinema, ma semmai cli aprire il vedere stesso a un movimento del sapere e a un orientamento della scelta etica. Non si tratta neppure cli imparare a "guardare la Gorgona" con gli occhi della vittima, come spiega Giorgio Agamben a proposito del "musulmano" dei campi: noi non possiamo, in realtà, imparare nulla da uno sguardo paralizzato e pietrificato, da un'"immagine assoluta" - come la chiama Agamben - che inaridisce e mette a morte, abbandonandoci all'"irnpossibilità cli vedere". 1°' Noi dobbiamo piuttosto imparare a maneggiare il dispositivo delle immagini, per sapere che farcene del nostro vedere e della nostra memoria. Dobbiamo imparare, insomma, a maneggiare lo scudo: l'immagine-scudo. Ciò che Gérard Wajcman non ha capito, anche nel suo richiamo alla Medusa, è il fatto che lo scudo, in questo mito, non è lo strumento cli una fuga dal reale. Ogni immagine, per Wajcman, è "scudo" perché è velo, "copertura" o "ricordo cli copertura", dietro il quale ci si nasconde, in mancanza cli meglio. Mentre la favola e il commento di Kracauer dicono esattamente il contrario: Perseo non fugge via dalla Medusa, la affronta malgrado tutto, malgrado il fatto che un faccia a faccia non equivarrebbe a un semplice sguardo, a un sapere, a una vittoria, ma alla 101. M. Blanchot, L'infinito intrallenimento, cit., pp. 165-183. 102. S. Kracaucr, Theory 0JF11m, cit., pp. 309-311. 103. Cfr. P. Dcspoix, "Siegfried, essayiste et critique de cinéma•, cit., pp. 318319. 104. J.-M. Frodon, "L'ùnage et la 'rédcrnption mécanique', le récit et son conteur• , in J. Aurnont (a cura di), La Mise en scène, De Boeck Université, Bruxelles 2000, p. 318. 105. G. Agamben, Quel che resta di Auschwit,:, ci1., p. 49. Cfr. anche su questo punto la critica di P. Mesnard, C. Kahan, Giorgio Agamben ò l'épreuve de Auschwitz, cit., pp. 79-83.

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sua morte subitanea. Perseo affronta malgrado tutto la Gorgona, e questo malgrado tutto - questa possibilità cli fatto, a dispetto di una impossibilità cli principio - si chiama immagine: lo scudo il riflesso non sono soltanto la sua protezione, ma anche l'arm;, l'astuzia, il mezzo tecnico cli cui egli dispone per decapitare il mostro. All'impotente fatalità dell'inizio ("non si può guardare in faccia la Medusa") si sostituisce la risposta etica ("ebbene, affronterò comunque la Medusa, guardandola altrimenti"). Scorgere in questa favola un'illustrazione del "potere pacificante delle immagini nei confronti del reale" 106 è dunque un errore. La storia cli Perseo ci insegna piuttosto come affrontare questo stesso reale, tramite un dispositivo formale utilizzato nonostante e contro ogni fatalità dell'"inimmaginabile" - questo tabù col quale Wajcman, dal canto proprio, vorrebbe impietrirci tutti quanti. E non stupisce affatto che Aby Warburg abbia fatto cli Perseo che lotta con la Gorgona una personificazione esemplare dell'intera "storia intèllettuale europea", pensando alla lotta incessante dell'ethos contro i poteri cli quelle che chiamava i monstra, i mostri della barbarie. 107 Così come non stupisce neppure che Paul Celan abbia visto nell'atto poetico la "curva cli un respiro" (Atemwende) gettato in faccia all'"abisso della testa cli Medusa" celato in ogni pa,rola, in ogni momento dell'Endlosung. 108 · Ecco perché un "rettangolo cli trentacinque millimetri", anche se "molto rigato" per il contatto col reale (come testimonianza o immagine d'archivio), per poco che sia reso conoscibile mettendolo in rapporto con altre fonti (come montaggio o immagine costruita), "salva l'onore", cioè salva almeno dall 'oblio un reale storico minacciato dall'indifferenza. La dimensione etica non scompare nelle immagini: viceversa, nelle immagini essa si esaspera, nel senso che si spalanca in esse quel doppio regime che le immagini stesse autorizzano. Diventa allora una questione di scelta: noi dobbiamo, davanti a ogni immagine, scegliere come vogliamo farla partecipare, o non partecipare, alle no106. G. Wajcman, "De la croyance photog;aphique" , cit., p. 67. 107. A. Warburg, lettera a Mary Warburg del 15 dicembre 1923, cita~a da E.H. Gombrich, Aby Warburg. An lntellectual Biography, The Warburg lnsututc, London 1970, pp. 281-282. 108. P. Celan, Il meridiano, eit., p. 13.

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stre iniziative di conoscenza e azione. Potremo accettare o rifiutare questa o quella immagine; prenderla come oggetto che consola o che inquieta; usarla per porre domande o per formulare risposte. Su quest'ultimo punto, ad esempio, la riflessione di Adorno sul mondo in guerra tramutatosi in un grande documentario di.propaganda, che soffoca ogni esperienza e ogni domanda, resta di un'attualità sconcertante:

Quest'espressione indica la lacerazione: il tutto rinvia al potere delle condizioni storiche alle quali non riusciamo ancora a replicare; il malgrado resiste a questo stesso potere con la sola potenza euristica del singolare. E un "lampo" che fende il cielo quando tutto sembra ormai perduto. Ed è appunto questo che esemplifica, a mio parere, il gesto del fotografo clandestino di Auschwitz. Non meriterebbe allora un omaggio minimo: che ci si sporga un attimo sull'oggetto per cui ha rischiato tanto - queste quattro immagini strappate all'inferno? Noi oggi ne sappiamo di più su quanto è accaduto laggiù. E questo sapere ci priva di ogni consolazione. Ma deve per questo privarci di ogni considerazione per un simile gesto di resistenza? Noi viviamo l'immagine nell'epoca dell'immaginazione lacerata. Ciò che Gérard Wajcman, nei suoi attacchi, definisce spesso "feticismo", e dunque perversione, assomiglia molto a quella che Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, descrive come l'amarezza della "coscienza onesta" nei confronti della "coscienza lacerata" (ed è chiaro che Godard, nella storia del cinema, rappresenta la coscienza lacerata per antonomasia): "La coscienza onesta, che considera ogni momento come un'essenzialità permanente, è l'incolta assenza di pensiero che non sa di fare proprio l'inverso di ciò che crede di fare. La coscienza lacerata, invece, è la coscienza della perversione, e precisamente della perversione assoluta; al suo interno domina quel concetto che raccoglie i pensieri che per l'onestà si trovano a grande distanza gli uni dagli altri: il linguaggio della coscienza lacerata è perciò ricco di spirito (geistreich)" .' 12 In questa "perversione" va colta la peroersio latina, cioè l'atto di rovesciare, di mettere le cose sottosopra, come le Histoire(s) du cinéma fanno con la storia in generale. E nel "concetto che raccoglie i pensieri che si trovano a grande distanza gli uni dagli altri" una sorta di attività di montaggio, come quando ad esempio Godard ci chiede di pensare assieme un'allegoria di Goya, una vittima di Dachau, una star di Hollywood e un gesto dipinto da Giotto (figure 24-28). Questa • coscienza lacerata" è stata spesso rivendicata dai

Il totale travestimento della guerra a opera dell'informazione, della propaganda, dei commenti, gli operatori cinematografici nelle prime tan/es e la morte eroica dei reporters di guerra, la combinazione di opinione pubblica tenuta artificialmente al corrente e azione inconsapevole, tutto ciò non è che un'altra espressione del!' esperienza disseccata, del vuoto tra gli uomini e il loro destino, in cui il destino propriamente consiste. Il calco reificato e irrigidito degli awenimenti sostituisce, per così dire, gli awenimenti stessi. Gli uomini vengono ridotti al ruolo di attori di un documentariomonstre, che non conosce più spettatori, perché anche l'ultimo spettatore deve recitare la sua parte sulla tela. [. .. ) La guerra è effettivamente strana (phony), ma la sua stranezza (phonyness) è più orribile di tutti gli orrori, e quelli che ci ridono sopra contribuiscono in primo luogo alla calamità.'°'

Ma l'immagine non è solo questo. Esistono altri tipi di documentario. Altre scelte sono possibili, com'è possibile, parlando, orientarsi verso un pensiero interrogativo invece di restare trincerati dietro parole d'ordine consunte. Un'etica delle immagini, oggi così come nel 1944 - data in cui Adorno scrisse queste frasi -, deve tener conto di una situazione sempre sfaldata. Quando Robert Antelme tornò dai campi, dovette ammettere che quanto aveva da dire "cominciava a sembrava inimmaginabile\ ma è proprio per questo che enunciò malgrado tutto la necessità della "scelta, cioè sempre {del]l'immaginazione" }'0 Dopo di lui, Beckett dirà: "Immaginazione morta". Ma per richiamarci malgrado tutto all'ingiunzione: "Immaginate"."' Dunque, immaginare malgrado tutto. Perché malgrado tutto? 109. T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita o/fesa (1944-1951), tr. it. Einaudi, Torino 1994, pp. 54-55.

110. R Antelme, L'Erpèce humaine, ciL, p. 9. 111. S. Beckett, Teter-Mortes, Minuit, Paris 1972, p. 51 ; tr. it. Teste morte, Ei-

112. G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito (1807), tr. it. Rusconi, Milano 1995, p. 701 (traduzione leggcnncnte modificata).

naudi, Torino 1980.

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MALGRADOlVITA L'IMMAGINE

pensatori ebrei sopravvissuti alla Shoah, da Cassirer a Emst Bloch, da Stefan Zweig a Kracauer. Alla fine di Significato e fine della storia Karl Lowith constatava l'"indecisione" fondamentale di quello che chiama IQ "spirito moderno" nei suoi rapponi con la storia. 11> E Hannah Arendt si sarebbe spinta ancora oltre nel1'analisi di questa lacerazione storica: da un lato, scorgendo nel)' anista, nel poeta e nello storico altrettanti "costruttori di monumenti" senza i quali "la vicenda [che gli uomini o i "monali", come Arendt preferisce definirli] interpretano e raccontano non potrebbe sopravvivere";"• dall'altro, citando René Char - "Notre héritage n'est précédé d'aucun testament" - e sottolineando la difficoltà della nostra epoca a dare un nome al proprio "tesoro perduto". La "lacuna tra passato e futuro", come la battezza Arendt, sta allora tutta nell'impossibilità di riconoscere e mettere in gioco l'eredità di cui noi stessi siamo depositari: Il tempo manca di una continuità tramandata con un esplicito atto di volontà, e quindi, in termini umani, non c'è più né passato né futuro.'"

La questione delle immagini resta così al centro del disagio che affligge il nostro tempo - il "disagio della civiltà". Bisognerebbe imparare a guardare le immagini, imparare a scorgervi ciò cui esse sono sopravvissute. E questo affinché la storia, svincolata dal puro passato (quest'assoluto, quest'astrazione), ci aiuti ad aprire il presente del tempo. (2002-2003)

FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI

Figura I Anonimo (tedesco), Siepe di mascheramento del crematorio V di Auschwitz, 1943-1944. Oswiecim, Museo cli Stato cli Auschwitz-Birkenau (negativo n. 860). Figura 2 Anonimo (tedesco), Il crematorio v di Auschwitz, 1943-1944. Oswiecim, Museo cli Stato cli Auschwitz-Birkenau (negativo n. 20995/508). Figure 3-4 Anonimo (membro del Sonderkommando di Auschwitz), Cremazione di corpi gasati in fosse di incinerazione a/l'aria aperta, davanti alla camera a gas del crematorio v di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato cli Auschwitz-Birkenau (negativi n. 277-278). Figure 5-6 Anonimo (membro del Sonderkommandc di Auschwitz), Donne spinte verso la camera a gas del crematorio v di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato cli Auschwitz-Birkenau (negativi n. 282-283). Figura 7Jézef Cyrankiewicz e Stanislaw Klodzinsk.i, Messaggio indiriuato alla resistenza polacca, 4 settembre 1944. Oswiecim, Museo cli Stato cli Auschwitz-Birkenau. Figura 8 Anonimo (russo), Rovine del crematorio V di Auschwitz, 19451946. Oswiecim, Museo di Stato cli Auschwitz-Birkenau (negativo n. 908).

Figura 9 Dettaglio della figura 5. Tratto da Auschwitz. A History in Photographs, a cura cli T. Swiebocka, Oswiecim-Warsaw-Bloomington-lndianapolis, 1993, p. 173. Figure 10-11 Dettaglio e ritocco della figura 5. Tratto da Mémoire des camps, a cura di C. Chéroux, Parigi, 2001, p. 91. 113. K. Lowith, Significato e fine della stona, cit., p. 236. 114. H . Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), rr. it. Bompiani, Milano 2000, p. 125. 115. H. Arcndt, Tra passato e futuro (1954-1968), tr. ir. Garzanti, Milano 1991, p. 27.

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Figura 12 Dettaglio della figura 4. Tratto da Auschwitz. A History in Photgraphs, a cura cli T. Swiebocka, Oswiecirn-Warsaw-Bloomington-lnclianapolis, 1993, p. 174. Figura 13 Schema ricostruttivo dei posti occupati dai membri del Sonderkommandc per realizzare i due cliché delle fosse cli incinerazione nell' a-

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FONTI OEU.E Il.LUSTRAZIONI

gosto 1944. Tratto da J.-C. Pressac, Auschwiti: Technique and Operation of the Gas Chambers, New York, 1989, p . 422.

Figure 14-1.S Anonimo (membro dd Sonderkommando di Auschwitz). Donne spinte verso la camera a gas del crematono V di Auschwiti, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Slllto di Auschwitz-Birkcnau (negativi n. 282-283 ). Tratto da Mémoire . des camps, a cura . di C. Chéroux, Parigi, 2001, p. 88. Figure 16-17 Anonimo (membro dd Sonderkommando di Auschwitz), Cremai.ione di corpi gasati in fosse di incinerazione all'aria aperta, davanti alla camera a gas del crematorio v di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecirn, Musco di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 277-278). Tratto da Mémoire des camps, a cura di C. Chéroux, Parigi, 2001, p. 89. Figure 18-19 Anonimo (membro ddSonderkommando di Auschwitz), Cre-

mazione di corpi gasati in fosse di incinerazione all'aria aperta, davanti alla camera a gas del crematono v di Auschwiti, agosto 1944. Oswiecirn, Musco di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 277-278,,rovesciati). Figure 20-21 Anonimo (membro dd Sonderkommando di Auschwitz). Donne spinte verso la camera a gas del crematono v di Auschwiti, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 282283, rovesciati).

Figura 22 Alain Resnais, Nuit et brouillard, 1955. Fotogramma dell'inizio ddfìlm. Figura 23 Claude Lanzmann, Shoah, 1985. Fotogramma dell'inizio dd

film. Figure 24-30 Jean-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma, 1988-1998. Foto• grammi della prima parte, "Toutes !es histoires".

SAGGI

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