153 1 2MB
Italian Pages 64 [67] Year 2023

Il
I
giorgio manganelli il vecchio gioco di esistere
el ricordo di Augusto Frassineti, Giorgio Manganelli arriva a definirlo "delibatore cli parole". Questo è stato, soprattutto, Manganelli. E la conferma arriva da questi squisiti "Obituaries", un genere - giornalistico e letterario - che impone asciuttezza, intelligenza, deferenza, rispetto ma anche una sana consapevolezza di sé. Manganelli, in questi veloci ritratti "in morte di", non cessa di essere "il Manga". Ma non se ne compiace: dà, a ciascuno dei suoi protagonisti, quel che spetta. Eccellenze e miserie, debolezze e vertigini. Da Borges a Eliade ("camminatore di labirinti"), da Melotti a Novelli: una rassegna di umani e umanità, all'insegna della verità della letteratura. E delle parole: da delibare, in silenziosa ammirazione.
- Stefano Salis
104
HACCA
giorgio manganelli il vecchio gioco di esistere
8
HACCA
Con dolore e letizia Lietta Manganelli
Con dolore e letizia. Con questa frase che sembra riecheggiare i suoi ossimori più famosi, Giorgio Manganelli saluta la dipartita di una cara amica, Giuliana Benzoni, ma con lo stesso stato d'animo saluterà altre morti più o meno illustri e altri amici più o meno fraterni. Qyesto delizioso libretto raccoglie quelli che in gergo giornalistico si chiamano "coccodrilli", che mio padre scrisse per vari quotidiani. A volte si tratta di dipartite che l'hanno toccato profondamente, diciamo da amico, qualsiasi cosa questa parola volesse dire per lui, a volte invece è il letterato che parla. In un caso particolare, e qui i "ricordi" si moltiplicano, è l'amicopaziente ad esprimersi, alternando in modo indissolubile l'amico e il paziente. E proprio da questo vorrei cominciare: Ernst Bernhard, tedesco, ebreo, ma soprattutto psicanalista junghiano, che raccolse un Manganelli ai minimi termini, inseguito da angosce, incubi, e "una gran voglia di farla finita", e riuscì, forse non sapremo mai come, a rendergli sopportabile la vita. Anzi fece molto di 7
lietta manganelli
più, trasformò "un timido professore di inglese in un genio", dalle ceneri del Manga, non ancora Manga, sorse, come Araba fenice, l'autore di quel libercolo assurdo, strepitoso e, del tutto fuori dagli schemi che era l'Hilarotragoedia, il quale dette l'avvio a tutta la carriera "letteraria" di mio padre. E non lo ricorda solamente ma lo onora, saltabeccando tra l'Elogio a Socrate e l'Orazione di Bruto sul cadavere di Cesare, afferma "Costui, o Signori io ho intenzione di lodarlo", e, certamente lo loderà, ma non solo, cercherà di spiegare l'inspiegabile e finirà col dargli l'unico merito che forse non aveva: lo definirà "l'uomo che mi ha insegnato a mentire". Ma vi assicuro che il Manga sapeva benissimo "mentire" per conto suo. Il Manga ricorda e saluta il "gran guaritore" o il "gran mentitore · " - a d.1screz1one · de11cttore - con "dolore e letizia", e questo ci riporta all'inizio del nostro discorso, ci riporta a Giuliana Benzoni. Perché mai utilizza una simile espressione? Un ossimoro, appunto? È presto detto: perché la vita di Giuliana era stata "una vita che ha avuto un significato, una buona, giusta vita" e la sua morte "concludeva un lungo, geniale, fantasioso capolavoro". Era una buona amica Giuliana, come era un grande amico fraterno Augusto Frassineti, un "timido, un peritoso, un poco ingenuo", il quale però, insieme con l'amico Giorgio, rispolverava il suo animo guascone e goliardico, scatenandosi in scherzi degni di "Amici 8
con delizia e dolore
miei", ma in fondo non era lui l'uomo di lettere con "la predilezione per i fabbricatori di insulti, i virtuosi del turpiloquio"? "Si esce da un labirinto, solo per entrare in un altro labirinto", questa frase del Manga si adatta perfettamente a un altro "camminatore di labirinti", a Mircea Eliade per la cui dipartita il Manga scrive uno degli interventi più brevi ma certamente più sentiti. Olianto si riconosce in questo "dissipatore di false allucinazioni", lui che di allucinazioni e di sogni significanti è sempre vissuto! Dopo l'intervento più breve ecco l'intervento più lungo. Borges, il grande vecchio, si è lasciato tentare dal "vecchio gioco di esistere cessando di esistere", quel vecchio gioco che temo e credo abbia sempre tentato anche mio padre. Ma Borges è poi davvero morto? O, semplicemente, è diventato eterno? E nella sua eternità continua a dire nulla, anzi a dire "il nulla". E il Manga "sacerdote del nulla", non poteva non riconoscere in Borges quasi un fratello. Dopo il grande vecchio ecco l'artista divenuto famoso solo da vecchio, Fausto Melotti. Assolutamente sconosciuto per gran parte della sua vita, a settant'anni viene riconosciuto come autore fiabesco, favoloso e mitico. Di lui non mancheranno le opere, quelle saranno e resteranno eterne, mancherà a tutti e mancherà al Manga il suo sorriso e la grazia sommessa dei gesti. 9
lietta manganelli
È risaputo che mio padre ha fatto parte del gruppo 63, sia pure in modo defilato e contrastante, e non è un segreto per nessuno che avesse un rapporto privilegiato con i pittori. Con alcuni fu legato da vero affetto; Gastone Novelli, ad esempio. Fu Gastone a inventare le splendide mappe per l'Hilarotragoedia, invenzione su invenzione. Mio padre amava molto quelle "mappe", quelle schegge che contenevano un mondo, se non addirittura "il mondo". Era una presenza ingombrante Gastone, una presenza plastica, gestuale, forte. Gastone doveva essere "visto", e questa fu proprio la cosa che mancò di più sia al Manga che a tutti gli altri amici: il non poterlo vedere.
Se nel ricordare la morte di amici o di illustri personaggi il Manga non ha mai espressioni di disperazione, di rabbia o di dolore inestinguibile, la morte fa parte della vita, anzi è la sua naturale conclusione, naturale e in fondo, non inattesa, tutt'altro sentimento impregna l'ultimo scritto di questo libretto, uno scritto pressoché inedito e sconosciuto. Abbandonando i morti più o meno illustri, ma comunque umani, il Manga si concentra sulla morte di un capodoglio. Un gigantesco capodoglio si è spiaggiato sulle spiagge adriatiche, un mostro del mare, nato per solcare gli oceani è venuto a morire sulla sabbia, in un luogo a lui totalmente estraneo. Un signore del mare, ucciso da quello stesso mare che avrebbe dovuto cullarlo e accoglierlo, si è
con delizia e dolore
arreso, si consegna, non combatte più, non ne ha né la forza né probabilmente la voglia. Gli uomini, intorno, si stringono uno all'altro, tentano anche un assurdo salvataggio e, soprattutto, si interrogano: come è morto, perché è morto questo essere poderoso, questo mostro che poteva sembrare immortale? Il capodoglio in mezzo alla folla curiosa è totalmente solo, in fondo indifferente, come il mare dal quale viene, quel mare che l'uomo non può né placare né rendere umano, ma può, certo che può, colmare di veleni, trasformando in un labirinto di tombe i fondali marini. Forse il capodoglio è solo un simbolo, un emblema, e noi tutti continuiamo a tenere in mano il coltello dell'uccisore.
11
Il vecchio gioco di esistere
Ha sfiorato la storia con dolce distrazione su Giuliana Benzoni
Alcune settimane fa, 1'8 agosto, moriva a Roma Giuliana Benzoni. Scrivo queste parole con dolore e letizia; allo stesso modo, quando mi dissero: "Giuliana è morta", non provai in primo luogo dolore, ma una sorta di pace, di accettazione, e dissi a me stesso: "Una vita che ha avuto un significato; una buona, giusta vita". In qualche modo, la morte di Giuliana Benzoni concludeva un lungo, geniale, fantasioso capolavoro; e insieme, un capolavoro esatto, che non si sapeva se lei stessa aveva creato, o le era stato donato da quello Spirito che nella sua vita aveva recato altezza di dolore e vastità di gioia. Giuliana Benzoni ha avuto una biografia lunga e appassionante; ma di rado ne parlava, ma non per modestia, giacché non era né modesta né altezzosa, ma semplicemente distratta; dimenticava molte cose, dimenticava anche la propria vita. Antifascista, legata al gruppo che fu poi del «Mondo», del «Ponte», di «Nord e 15
giorgio manganelli
Sud», ebbe care amicizie - mai rapporti socievoli - con Raffaele Mattioli, Angelo Saraceno, Giorgio Amendola, Parri e Salvemini; ebbe parte essenziale nella preparazione di quel 25 luglio che portò al licenziamento di Mussolini; e, allora, tenne i contatti con il cardinal Montini, per assicurarsi il benevolo atteggiamento del Vaticano. Ripensandoci, pare incredibile che una persona così casuale e scattante e svagata nei suoi rapporti personali, fosse, d'istinto una diplomatica perfetta, cauta, precisa, e pronta a dimenticare tutto, non appena quel che andava fatto era stato fatto. Molto lavorò nel Sud, sulla strada di Giustino Fortunato ... Ma tutto questo è biografia, e non sono certo che la biografia possa dire molto di Giuliana Benzoni. Eccetto forse la storia che la segnò profondamente. Durante la prima guerra mondiale, conobbe ed amò Milan Rastislav Stefanik, uno degli eroi della indipendenza cecoslovacca; poco prima delle nozze Stefanik morì in un incidente aereo. La sciagura non fece di lei una "vedova", men che meno la "vedova dell'eroe". Semplicemente, si comportò come se avesse avuto ciò che supremamente le spettava, e l'avesse avuto subito, perfetto, ed intero. Non c'era altro da aggiungere. La Cecoslovacchia di Benes, di Masaryk le fu amica; ma anche questo è biografia.
16
il vecchio gioco di esistere
Tutti gli eventi, anche straordinari, della vita di Giuliana Benzoni sembrano poca cosa rispetto a quello che lei "era"; il suo modo di portare addosso come un vestito un poco sgualcito - la sua dolce distrazione il proprio "essere"; ma portarlo addosso senza saperlo, pensando ad altro, come sempre. Non vorrei dare l'impressione che Giuliana Benzoni fosse una persona solenne; la sua essenza era leggera e ingannevole come un gioco, un velo, qualcosa di inafferrabile, ventoso, perfetto; definirla intensamente religiosa è esatto ed impreciso; ma l'essenziale è questo: che il culmine del suo gestire religioso era il riso. La sua figura magra, sottile, alacre, il suo parlare spezzato, un insieme di astuzia e di candore, la sua dovrei dire implacabile dolcezza, il natural tener conto non della fatica altrui ma del significato altrui, esattamente come aveva fatto nella propria vita, danno all'immagine di questa stupenda creatura un fascino, che chi ha avuto la sorte di conoscerla non dimenticherà mai. Negli ultimi anni, si aveva ogni giorno più chiara la sensazione che ciò che noi chiamiamo la sua anima fosse più solo appoggiata al suo fragile corpo; poi, che quel corpo fosse un posatoio provvisorio; e che infine l'anima prese a spogliarsi di quel corpo, a sopravvivere come vagabonda fiamma.
17
giorgio manganelli
Se al centro della sua essenza era la letizia, bisogna aggiungere che era una letizia occulta, misteriosa, ed insieme un poco infantile, come di chi sappia un grande segreto, ma non voglia misurarne la grandezza. Il fascino di Giuliana stava in questa mirabile sproporzione tra la grandezza dell'immagine che offriva, e il modo esile e casuale di donarla, come se tutto facesse parte di una cerimonia ma, soprattutto, di un gioco.
18
Era uomo di rara eleganza linguistica su Augusto Frassineti
Con la morte di Augusto Frassineti taluni hanno perso un singolare amico, ma tutti hanno perso uno scrittore assai singolare. È difficile, per chi l'ha frequentato per molti anni, non mescolare i connotati della sua biografia mentale con i connotati della sua pagina. Era uno scrittore che un tempo si sarebbe definito "attico", asciutto, schietto, di rara ma schiva eleganza linguistica, di grande pulitezza; uno impensabile senza un uso assennato e proprio del congiuntivo, delle proposizioni dipendenti. Maneggiava una ironia secca e sommessa senza riso, senza ira, senza espressioni di voce; quell'ironia che gli ispirò gli indimenticabili Misteri dei ministeri. Un ironico, dunque, ma anche un timido, un peritoso, un poco ingenuo; per cui l'ironia, questa sicura retorica intimidatoria, acquistava nella sua prosa una strana e umbratile gentilezza; il sapore di un delicato gioco, un gioco insieme infantile ed estremamente rigoroso. 19
giorgio manganelli
Nella sua pagina, che aveva un pudore pariniano, si nascondevano tuttavia altri, strani e inquieti umori: giacché Frassineti, tranquillo artefice della propria discrezione, amava la stravaganza. Oserei fantasticare un Parini invaghito dell'Aretino. Letterato già di età provetta, Frassineti, oscuro bizzarro, si scoprì una vocazione inedita e mirabile: prese a tradurre; ed ceco che lo scrittore attico, il pariniano, il delicato ed elegante delibatore di parole, si scoperse affascinato e lucidamente irretito nelle meravigliose beffe, nelle gigantesche mostruosità, nelle invenzioni badiali di un Rabelais; si dedicò alle fantasie erratiche e maligne di uno Scarron, agli umori agri di un Diderot. Lo scrittore sobrio e quieto, il calligrafo ostinato, il compulsatore accorto di vocabolari rivelò la sua predilezione dotta per scrittori che avevano del canagliesco, per parolai - la parola vuol essere nobile - fantasmagorici, per fabbricatori di insulti, per virtuosi del turpiloquio. L'uomo pudico, ma savio uomo di lettere, amò scrittori scurrili ed ebbri, talora ebbri di angoscia, di quel cruccio che Frassineti ospitò alla propria tavola, nella propria vita; quietamente, sempre. Qyelle traduzioni sono assolutamente dei classici, sono testi perenni. Forse ho toccato la parola che spetta a :Frassineti; disperso l'effimero orrore della morte, di Augusto Frassineti resta una pietra dura lavorata, qualcosa di esatto e infrangibile, una dolcezza fattasi perfetta durezza, la concisa lucentezza del classico. 20
Camminatore di labirinti su Mircea Eliade
È morto Eliade; e la notizia avvampa, ci affronta con un nodo di messaggi. Eliade è tra le non molte immagini cui ci si può legare di riconoscenza, della gratitudine oscura che si prova per i guaritori, gli indagatori dell'ombra, coloro che dissipano le false allucinazioni, e al loro posto istituiscono il governo dei sogni significanti. Eliade era un frequentatore di miti, di simboli, di incantesimi; un camminatore di labirinti; un discenditore, un geografo di cunicoli, un cartografo di terre incognite. E tutto questo lavoro - se così si può chiamare, ma forse non è esatto perché vi ineriva una dura pazienza - compiva con una ilare lucidità, nelle sue mani un gioco diventava l'indizio di un gestire prodigioso. Nella sua strana serenità, nella devozione all'ordine, alla pregnanza degli ieroglifici del mondo si è visto il segno di una conversione orientale; ma in realtà Eliade 21
giorgio manganelli
sapeva rintracciare i segni sbiaditi della grafia segreta dell'universo ovunque essi trasparissero. Ebbe in comune con Tucci, con Petazzoni, col quasi dimenticato Macchioro la riluttanza ad una lettura storica dell'uomo; professava un ritmo lento, lentissimo, proprio dell'uomo come una scansione cardiaca di un mostro millenario. Forse appunto in lui trovò soprattutto verifica e senso una V1S1one dell'uomo come mostro, insieme prodigio e terrore, esigenza del senso, e arcaica afasia a dare, a codesto senso, un significato definitivo. L'omo di Eliade è salvo se indaga i segni della follia, impazzisce se la rifiuta, l'interezza lo uccide, la frammentazione lo descrive.
22
Una piaga sul volto della storia su ]orge Luis Borges
Dunque Borges è morto; il vecchio gioco di esistere cessando di esistere ha tentato il grande vecchio scrittore. Il gioco millenario dell'occultamento della metamorfosi in puro nome; la tentazione di dare un volto al nulla. L'insidia del definitivo nascondiglio della morte, ascoltarsi ma non quietarsi, gridare messaggi, ma rifiutarsi di riceverli; ascoltare senza rispondere, trasformarsi in una furba, forse ironica imitazione di Dio. Non riesco a pensare alla morte di Borges come a un evento ovvio, naturale, qualcosa che accomuna il tiranno e la sua vittima, il poeta e il lettore. La morte mi sembra una figura retorica tra le molte cui Borges fece ricorso, una battuta felice, una di quelle astute elusioni, quei rovesciamenti di tema e tono che danno un brivido ai suoi lettori. Borges è qui, dov'è Borges? Borges non c'è più. Ma no, non è Borges, questo? Ecco: che cos'è, questo Borges? Il Borges che ora resta con noi, per sempre e con coloro che verranno 23
giorgio manganelli
dopo di noi? Dal momento in cui Borges, diventando eterno cessa di essere quotidiano, che cosa è mai? Non lo sappiamo, non solo perché è naturale e inevitabile che non si sappia nulla di un'opera che è or ora giunta alla sua conclusione editoriale, ma per una ragione più specifica, una ragione borgesiana per cui non possiamo sapere chi era Borges. Il fascino di questo scrittore è stato per molti suoi lettori legato ad un'impresa cui molti, alti e umili, diedero mano potrei dire all'incirca a questo modo: l'opera di Borges fu tesa alla demolizione della figura retorica che diciamo realtà; fu, questo scrittore, una piaga sul volto della storia, una cicatrice tenuta deliberatamente aperta sul corpo mentitamente liscio della socialità quotidiana; suo compito fu questo appunto: dove signoreggiava la vanitosa e crudele ambizione delle certezze, riportare la quiete, l'ombra e insieme l'angoscia dell'enigma; un'angoscia che va tollerata e amata sebbene sia connaturale alla struttura dell'enigma che non si dia né risposta né soluzione. Borges operò per restituire alla letteratura il suo spazio specifico, fatale, che è per l'appunto il silenzio che circonda l'enigma, l'incantesimo che agisce in guise occulte tanto che il cosiddetto scrittore non ne sa, non ne saprà mai nulla. Non v'è dubbio che Borges fu un 24
il vecchio gioco di esistere
pronunziatore di carmina, di evocazioni e incantamenti; per un momento ho pensato di scrivere "invocazioni", poi ho cancellato la parola che ora riscrivo per negarla. Borges non poteva "invocare", perché questo gesto presuppone un destinatario, una meta nota, e dunque in qualche modo un rifiuto dell'enigma: una intolleranza del silenzio della letteratura. Non sto ora alludendo alla teologia atea di Borges, giacché le persuasioni concettuali di uno scrittore sono del tutto irrilevanti a ciò che egli in effetti scrive; il culto del silenzio, il rifiuto dell'"invocazione" discendono semplicemente dal modo in cui Borges professava la letteratura dell'enigma, e soprattutto dal modo con cui la tollerava giacché la letteratura può essere una condizione intollerabile. Borges riuscì ad invaghirsi del silenzio, coltivò una tenerezza ironica per il deserto e tesaurizzò l'assenza di risposte con un sistema arguto, malizioso, sottile di ecco, non so quale parola aggiungere; forse Borges, il cieco, si compiacque della frequentazione delle ombre; scoperse ed apprezzò la compagnia delle lacune; e seppe, musicologo ateo, distinguere varie qualità di silenzio; seppe, in modo straordinariamente o accurato e perfino accademico, perseguire quell'assenza, quel vuoto, quella lieta desolazione che appartiene naturalmente alla letteratura.
25
giorgio manganelli
Ci fu molta ironia nell'opera di Borges, ma non fu ironia scettica e perfezionista, fu quella particolare ironia che è propria della letteratura, l'arte di sopravvivere dentro l'ingegnosa struttura delle parole, la folla delle proposizioni; sopravvivere in quella maniera trionfante e marginale che Borges sperimentò in guise estreme. Venerato in modi anche incauti, cui egli consentiva con una recitazione che pareva gioco e burla, Borges rappresentò una sorta di scrittore per il quale in realtà non c'è indulgenza: lo scrittore che sa che egli non ha nulla da dire nel duplice senso; non dice nulla e dice il nulla.
Il "nulla da dire" è il destino della letteratura, ed è un destino periglioso e arduo, giacché è quasi impossibile non dire qualche cosa, magari per pura distrazione. Segno dell'intensità di Borges fu forse proprio l'uso dell'ironia per vietarsi l'accesso alla profondità; Borges sapeva che il suo destino, il destino dello scrittore, è percorrere superfici, nient'altro; perché al di sotto non c'è nulla, l'imperscrutabile nulla.
26
Luminose schegge d'aria su Fausto Melotti
La morte di Fausto Melotti mi tocca di affettuoso turbamento; non è scomparso solo un uomo geniale, è scomparso un sorriso, un modo di parlare, un sistema di miti sintomi: la grazia sommessa dei gesti, la mite vecchiaia, un poco di sordità, furbizia infantile, genio. La sua storia gli somiglia in modo incredibile: un altro sintomo del suo modo di esistere. La lunga oscurità, una vita pressoché ignota; poi, a settant'anni, la rivelazione. Da allora, Melotti è stato rapidamente riconosciuto come un inventore di forme straordinarie, un catturatore di immagini che non sembra paragonabile ad alcuno. Qyesto tardivo successo fu per Melotti un'altra forma di astuzia, una trovata, una estrosità geniale; non vi era in lui traccia del vittimismo e del narcisismo non rari anche in grandi artisti. Tutta la vita si era divertito in modo incredibile a fare quei suoi giochi rarefatti e astrusi, ilari e magati; ed era accaduto che altri lo 27
giorgio manganelli
avessero poi scoperto e si fossero messi ad ascoltare la sua squisita fabulazione. Ho detto ascoltare: infatti c'era nell'umore di Melotti un che di fiabesco, di favoloso, di mitico; e insieme, il raro diletto cli collocare le fiabe, il mito in un gioco squisito, un'invenzione estrosa, leggera, un rapido riso tra infantile e antico. Ho detto della sua furbizia: Melotti aveva indosso un modo arguto, un mantello che non rende invisibile, ma leggero, aereo, rapido. Qpesta furbizia credo sia necessaria al raccontatore di fiabe; una capacità mimetica, che fa sì che egli capisca insieme la vocazione del re e la magia del mago e l'innocenza del principe; e tutto consegni all'astuzia e al gioco del narratore. Melotti non fu un narratore; ma le sue opere mi sembrano frammenti di una storia di delicata, inquietante grazia; forse raccontata in una lingua cui abbiamo accesso nei sogni, nei giochi. Melotti catturava schegge luminose d'aria, istanti di vento, coglieva lucentezze temporalesche, rapide trasparenze, alacri lampi; costruiva dentro un frammento di cielo le occulte e seducenti strutture, i suoi incantevoli ideogrammi di metallo, giocosi ieroglifici filiformi. Dovunque premeva la vocazione alla favola, gli ieroglifici alludevano a un racconto segreto e tuttavia esplicito. O erano forse personaggi, 28
il vecchio gioco di esiste1·e
quei lunghi fili oscuri che si arrampicavano nell'aria? Non avevano una qualche memoria delle "ombre", le sculture nuragiche di esseri umani affilati come lame? Melotti era senza dubbio un manipolatore di ombre, e per toccare quelle lacune di luce, quelle grazie frammentarie di notte, occorre avere una mano amorosa, cauta, esatta. Il fabulatore Melotti era un uomo della esattezza, un geometrico descrittore di spazi; e a questa meticolosa precisione si aggiungeva una innocenza di tocco da mùsico. Se ripenso tutt'insieme all'agire di Melotti, m1 sento irretito dalla grazia di un sorriso, che si muta nell'affabulazione di un narratore occulto, un quieto e stupendo incantatore di colma letizia, un creatore di immagini e di ombre, un sognatore di sogni filiformi, colui che scrive nell'aria, e lo scritto rimane per sempre.
29
Privilegio di un frammento su Gastone Novelli
La voce concitata di Alfredo Giuliani, un lontano giorno di dicembre 1968. «È morto Gastone!». La voce si rompe: «Hai capito? Non lo vedremo più». Già, vederlo. Gastone Novelli era una presenza plastica, gestuale, impetuosa, forte. Bisognava vederlo. Eravamo suoi amici: Giuliani, Perilli, Scialoja, Pagliarani: nel 1964 avevamo fatto una rivista, «Grammatica», che per qualche numero fu divisa tra scrittori e pittori, poi passò tutta ai pittori. Ma il numero "uno", ancora lo ricordo, fu un bel numero; si parlava di ciò che ci stava a cuore, di ciò che indicava il nome della rivista: si parlava del linguaggio, del momento assolutamente inventivo che allora, e poi sempre, coglievamo nella invenzione linguistica. Non esiste nessun universo, esiste solo il linguaggio; quello, e non altro, è ciò che noi crediamo di abitare; anzi, appunto lo abitiamo; abitiamo i segni, le lettere, la pagina del linguaggio. 31
giorgio manganelli
Novelli era al centro di questa avventura dell'invenzione; e la sua fu invenzione pittorica, come quella dei Novissimi fu invenzione verbale. L'ossessione linguistica condusse Novelli ad una creatività singolare, difficile, frammentata; era una sua convinzione, che il frammento fosse privilegiato, perché naturalmente ambiguo, estraneo a qualsivoglia totalità comprensiva e conclusiva. Ecco la pittura di Novelli evitò sempre di riposarsi nella conclusione, era una pittura che agiva, che faceva gesti, depositava segni. I quadri di Novelli non di rado si atteggiano come pagine mentali, o forse muri calcinati, muri adoperati, distese su cui posare i segni; Novelli scriveva lettere, e le lettere erano talora delle frasi, ma quel che contava era sempre la presenza di un alfabeto, non i "concettf' espressi dalla frase; tutto veniva ricondotto al momento nativo iniziale, in cui tutti i significati erano ancora, irreparabilmente scomposti nelle sillabe, nei segni irriducibili. Da un viaggio in Grecia - il luogo per definizione dell'opera, dell'immagine completa - Novelli riportò una serie di disegni minimi, di frammenti, ritratti di schegge; era la dichiarazione di una poetica del tutto estranea alla prosa del raccordo visivo. Era bello chiamare "Grecia" una serie di appunti meticolosamente ignari di storia e "cultura". Ma naturalmente quel che faceva Novelli era estremamente colto; solo che si trat32
il vecchio gioco di esistere
tava dell'unica possibile cultura dell'artista, un modo di vivere, di abitare, di essere un linguaggio. Novelli intento a questa linguistica iniziale era affascinato dal tema del catalogo; molte delle sue opere più eccitate ed eccitanti - vorrei che i due aggettivi andassero sempre insieme, parlando di Novelli - sono assoluti modelli di cataloghi, che tuttavia evitano l'esauriente ambizione del catalogo. Penso a Forme immature, quasi un dizionario dei possibili; al misterioso, purissimo Il fare della luna; e non a torto si pensò a Beckett, al primato di una nascita tutta e solo dei segni, un deserto riscattato dal gesto della mano che dipinge, dal gesto della mano che scrive. In Novelli i gesti che noi pensiamo scissi erano tornati ad unirsi, come all'inizio - non un inizio storico, ma mentale; Novelli, irretito nell'infinito e inconclusivo labirinto del linguaggio non tollerava distinzioni tra scrivere e dipingere, giacché all'origine scrivere è per l'appunto obbedienza alla legge dei segni, non diversamente del dipingere. Un critico definì Novelli "un progettatore di gioia"; e certamente è difficile immaginare un pittore più felicemente intento a inventare frammenti di mondo, un mondo che non sarebbe esistito senza gioia, l'ilarità della scoperta dell'immagine. Il dipingere di Novelli aveva sempre il ritmo di una scoperta; come se la figura fosse sempre 33
giorgio manganelli
stata lì; bastava illuminare la pagina mentale, scoprire il muro per trovare allineati tutti gli sgorbi virtuosistici che disegnavano un mondo. Novelli appartiene a quel gruppo di pittori che ebbe il suo centro in Pollock, De Kooning, Cy Twombly - che allora venne a vivere e lavorare in Italia - e in Italia, in modi diversi Manzoni e Perilli; pittori di straordinario coraggio, mossi da una sorta di devozione per le proprie mani per l'accadimento del quadro, la sua oggettività feroce. "Novelli" ha scritto Giuliani, "era talvolta feroce con se stesso e con gli amici. E com'era nobile la sua ferocia. Un ragazzo, un signore del segno ... "
34
Amante degli enigmi ancora su Gastone Novelli
Molti tratti ammiravo e rammento nella qualità mentale di Gastone Novelli: la febbrile alacrità inventiva, la velocità dell'intelligenza tattile, la capacità di fissare in un gesto apparentemente precipitoso e in realtà sottilmente predisposto i frammenti di una impetuosa visione. Novelli sembrava procedere da una abbagliante epifania, e su questa operare decomponendola, scheggiandola, sottoponendola ad una pressione centrifuga; così che la visione scissa e dilatata non si poneva più come una compatta e minatoria presenza, ma come una immagine rotta e riflessa, in dialogo con se stessa, restituita alla propria iniziale drammaticità, anche alla propria naturale, o innaturale ironia. Nel gesto di Novelli si mescolavano singolarmente una accanita rapidità di invenzione, e una meticolosa labirintica elaborazione, una catastrofe attenta, un'esplosione meticolosa.
35
giorgio manganelli
Della Hilarotragoedia - di cui rivedo con turbamento gli antichi disegni - lo divertirono gli aspetti fatuamente orrorosi; gli piacque giocare con parole che generavano immagini insieme ridevoli e mostruose; amando il gioco - il suo rigore, la sua avventurosa libertà - Novelli amava gli indizi del mostruoso, del deforme, di tutto ciò che univa teratologia e ironia; ma, ancora, la sua ironia nulla aveva di calcolatamente conversativo, ma piuttosto il sapore di uno scherno e scherzo, l'indizio di una sapienza fatale e infantile. Non v'è immagine disegnata da Novelli, tra quante ricordo, nelle quali non si riconosca questa stravagante e impetuosa vocazione ludica, e insieme una difficile e alacre saggezza, una intuizione ingegnosa e ardua, allusiva cd enigmatica. Novelli amava gli enigmi, perché richiedono astuzia e fulminea intelligenza, sono antichi e infantili: e Novelli era appunto arcaico e iniziale, un esempio affascinante di puerizia sapiente. Irrequieto, ilare e disagevole a se stesso, inseguito da una dinamica mercuriale, Novelli era destinato e condannato e privilegiato da una definitiva giovinezza, un perenne stupore iniziale, stupenda cicatrice di una intelligenza pittorica folgorante.
36
La metamorfosi del gran guaritore su Ernst Bernhard
"Costui, o Signori, io ho intenzione di lodarlo a questo modo: per immagini ... io dico questo, che egli è somigliantissimo a quei Sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, che gli artisti atteggiano con zampogne e flauti, e se tu l'apri, dentro vedi i simulacri degli dèi. E poi dico ch'egli assomiglia ancora al Satiro Marsia ... " Nel suo dionisiaco elogio di Socrate, il torbido e candido Alcibiade scopre in primo luogo, affascinato e inorridito, l'emblema centrale del suo intollerabile insegnamento: il mite e inalterabile segno di una antica mostruosità; una furba, sottile deformità, una complicità di più che umano e ferino. Difficilmente codesti Marsia possono sperare in una e non molestata ospitalità, che essi d'altronde non chiedono, fiduciosi piuttosto in una complicata e affettuosa omertà; pertanto, si proteggono con connotazioni esotiche ed arcaiche; consapevoli della loro estraneità e insieme della fatalità della loro presenza, ricorrono a 37
giorgio manganelli
virtù perente e un poco losche: l'astuzia, il frodolento ossequio, una inveterata vocazione alla clandestinità, una condizione di vita tra ubiquitaria e discontinua; infine, una pazienza che mima la pigrizia, il genio dell'itinerario indiretto, favoloso, la lenta dissimulazione del carovaniere, del nomade sardonico. Nel 1936 giungeva a Roma Ernst Bernhard, lasciandosi alle spalle, da esule, la Germania, e in tal modo verificando in sé la vocazione dello sradicato, dell'errante, costretto a vivere le proprie tradizioni in travestimenti e invenzioni simboliche e mentali. A Roma, molle "madre mediterranea", si concludeva la prima fase di una faticata ascesa che l'aveva condotto ad esercizi intellettuali singolari e difficili: i quali tutti si erano in qualche modo saldati nell'esperienza della psicoanalisi junghiana, periglioso e drammatico agglomerato di ritrovate mitologie, formule nuovamente tentate dopo un silenzio di secoli, simboli riposti a fuoco davanti ad occhi disavvezzi e diffidenti. Dal suo arrivo a Roma, fino al 1965, anno della sua morte, Ernst Bernhard esercitò con ingegnosa ubbidienza il suo destino, che della professione aveva solo il travestimento sociale. Era un destino incongruo, un "errore" in un contesto intellettuale estraneo anche se maternamente complice. Con lentezza, insieme alacre e calcolatamente neghittoso, percorse il suo singolare labirinto, scoperse e insieme disegnò l'imprevedibile disegno della sua vita; linee 38
il vecchio gioco di esùtere
sinuose, schegge di ardue geometrie, misti intrichi di segni e colori simbolici; memorie fioche riemergevano intense incapsulate nell'eloquenza criptica dei grandi sogni; riti intellettuali che avevano i modi della cerimonia, della cantilena con cui l'illetterato nomade custodisce le tradizioni, anche solo i nomi, distorti, mera polvere fonetica, ma ancora efficaci, dei Padri e dei Re consumati. Aiuterà a ritrovare gli indizi del passaggio di questo straordinario Errante il libro che ora esce da Adelphi: Mitobiogra.fia. Irreparabilmente brenhardiano, questo singolare oggetto, che, propriamente, libro non è, né di Bernhard, sebbene scritto da lui. Con devota pazienza, frammenti, appunti, note di sogni, meditazioni tentate e lungamente protratte, parte scritti parte trascrizioni di conversazioni registrate, Hélène Erba-Tissot ha composto il libro postumo di Bernhard: un testo che, del tutto naturalmente, non ha, né può o vuole avere, inizio e fine, un discorso frammentario e sincrono, che costantemente scivola oltre i limiti dei propri margini. Che Bernhard non abbia pensato e scritto un suo libro, è fatto che va interpretato. Non lo scrisse non solo perché, come diceva, era impossibile "chiudere in un quarto" la sua esperienza; ma perché, come il Marsia, il Sileno taciturno nel mezzo del banchetto terrestre e filosofico, Bernhard era l'uomo di una dimensione in cui la letteratura, lo scrivere ignoravano la cristallizzata 39
giorgio manganelli
oggettualità del libro. Più ancora: apparteneva a quel tempo, quel luogo, in cui l'uomo avverte di essere testimone e portatore di una scrittura totale, pervasiva, modulata negli eventi, nei gesti, nei moti e accadimenti casuali, negli ierogrammi delle viscere, nella elaborata bizzarria di una pietra, la linea involontariamente araldica di una foglia, nel pelame di belva. L'esperienza percorre un paziente labirinto di segni, graffi armoniosi, minacciosi stemmi. I frammenti significanti o allusivi si compongono nella pagina di un destino. Ma come trascrivere un destino, per quale arguzia di discorso restituire la contraddittoria interezza dei diversi destini? Qyesto universo è segnato da piaghe, da chiazze in cui il grumo dei significati si addensa ed oscura; sono i luoghi privilegiati e angosciosi dell'ombra; per lo psicoterapeuta, della malattia; per il decifratore, delle proposizioni "prive di senso" e che tuttavia non possiamo impedirci di pronunciare. Ma di quale malattia si tratta, di quale dissennatezza? Bernhard scrive: "Il sintomo nevrotico ha ragione"; la malattia non vuole essere "guarita" ma decifrata; e appunto il nonsense di una coazione, di un errore, di una disperazione, di una morte possono custodire la scheggia bilingue che introduce ad una ulteriore intelligenza dei segni; dunque, il ''guaritore" è dalla parte dell'ombra, l'alleato operoso della malattia; la sofferenza può essere nevrosi e iniziazione ma forse tra i due termini la continuità 40
il vecchio gioco di esistere
è assoluta. Bernhard scrive che il paziente deve venire "contagiato" dalla sanità del terapeuta; squisita ambivalenza, che chiude tutto il senso tragico di quella lenta operazione maieutica: altrove leggiamo che da un labirinto si esce solo per trapassare ad un altro labirinto; ci si sveste di una morte che ci si è fatta estranea, e si lavora ad intesserne un'altra che sola ci appartenga. In nessun momento vi è tregua; la menzognera pace e coerenza dell'adulto viene smentita da una costante, lacerante coazione alla rinascita. È il passaggio di fase che ha nella morte il suo emblema, giacché neppure essa risolve, né conclude, né pacifica. Il lavoro di Erncst Bernhard fu di tranquilla, ostinata, anche lieta eversione; consapevole del fatto che nessuno è peggiore del buon cittadino, e che una legge giusta è più vessatoria di una legge ingiusta perché ti vuole suo complice, aveva trovato a Roma una sua seconda patria, o piuttosto quel luogo complice, levantino, che gli consentiva il suo solitario esperimento ermeneutico. Da uomo dell'ombra, lo ispirava una rapinosa violenza tangenziale, che egli amministrava in modo da non ustionare il dialogante, ma suggerirgli il presentimento, avido e sgomento, di un nuovo itinerario. Fu un alleato della naturale immoralità e illegalità del mondo, di ciò che egli chiamava il "buon Dio"; un raro discendente di quei Grandi Mentitori che smentiscono definitivamente il povero mondo della veridicità. 41
giorgio manganelli
Forse, a conclusione del suo destino, Bernhard aspirava a sciogliere la sua personalità, il suo volto da trickster, in una condizione equorea, insinuante, capace di tutte le forme, e insieme semplice, come gli antichi fantasticavano semplici il fuoco, la terra, l'aria. Qyalcosa di ignaro di storia, sotterraneo e solare. "Entro in una specie di teatro, dove vengono distribuite le diverse parti. A me viene assegnata la parte che devo rappresentare, di non rappresentare cioè ,, a1cuna parte . Bernhard, "uomo senza parte", impersonò i ruoli drammatici e fatali: fu l'uccisore, l'ucciso, il guaritore; volta a volta l'uno e l'altro, senza conclusione né tregua.
42
Comunicazione personale ancora su Ernst Bernhard
Mi è stato chiesto un breve contributo, un ricordo di Ernst Bernhard; questo potrebbe già essere singolare, ma assai più singolare mi pare il fatto che mi sia stato chiesto ripetutamente, che ogni volta io abbia risposto, con mentita adesione, di sì, e che ogni volta me ne sia totalmente dimenticato come - ecco, mi si sono affacciati alla mente tre "come", e voglio trascriverli: la data di nascita di un nonno che non ho mai conosciuto, il numero di una camera di albergo in cui ho trascorso una notte, un numero di telefono di una casa in cui vivevo anni fa. Ognuno di questi "come" è duplice, è offensivo e allusivo ad una qualche intimità; ognuno nasconde un racconto. La data di nascita del nonno certamente è stata dimenticata perché voglio espellere quella figura grave dalla mia vita; ma che cosa potrò mai espellere, se quel nonno non l'ho mai conosciuto? Nella mia autentica biografia, io non ho conosciuto nessuno dei miei nonni; dunque io non ho mai frequentato questo misterioso alleato nell'arduo 43
giorgio manganelli
dialogo con i genitori, quest'uomo sapiente e infantile, indulgente e oscuramente sfregiato e illuminato dalla vita. Dunque, quella "data di nascita" è scritta su una lapide depositata, con tragica lievità, nel fondo della mia vita. Luogo inospite, distratto ed ostile è la camera di un albergo in un luogo che non ci appartiene; il letto non è complice del nostro corpo, nulla in quel luogo mi parla, mi conosce, mi frequenta. La mattina mi sveglierò insolitamente presto, farò di furia la valigia e fuggirò, non senza un fremito d'ira. Ma come sono finito in quella stanza d'albergo? Forse ero troppo lontano da casa, o non volevo tornare a casa, e quella estraneità punitiva mi proteggeva, insieme, da un luogo "cattivo"? Ma era estranea? Posso supporre che quella stanza fosse semplicemente umile, schiva; consapevole di essere effimera, generica e tuttavia capace di tenere a bada una intera notte. Che fosse anche disponibile a diventare una casa, non ne avessi io già avuta un'altra, lontana, impervia, di cui avevo tutte le chiavi, ma che era il problema della mia vita. E poi, perché quel tremito d'ira, nel momento appunto in cui lasc!avo quella stanza estranea? Non doveva essere, quello, piuttosto, il momento glorioso della liberazione? O forse l'ira era il rovescio di un'angoscia, giacché la stanza non poteva ripararmi per sempre dal mio problema, dal mistero di quelle chiavi, di quelle porte pervie e vietate? Forse io ero l'unico elemento veramente provvisorio in quella stanza che simulava il casuale, il perituro? 44
il vecchio gioco di esistere
In una casa in cui non vivo più da molti anni, in cui altri vivono, sopravvive un telefono, che probabilmente non porta più il numero che fu mio; dunque, si è reincarnato, ed ha dimenticato tutto quanto dovette ascoltare nella precedente esistenza. Nulla è più inutile di quel numero antico; e infatti io l'ho dimenticato. Un telefono è molte cose: un ruffiano, un nunzio di lutti, un amico che incrina la solitudine, una bestia che ti disturba i sonni e il lavoro, una voce misteriosa che s'accende maliziosamente su un tavolo, una parete; talora è una cosa più sarcastica, vile e fuggiasca: un "contatto". Disinnescato il telefono, le parole vengono incenerite, disperse. Sono pattume. O forse posso immaginare una storia diversa: quella era la casa aperta e chiusa che dovevo affrontare; una delle sue forme imperiture; quello era l'irrespirabile deposito degli enigmi, il posto in cui avevo per qualche tempo collocato il mio bagaglio di interrogazioni e immagini. Di quegli enigmi era stranamente complice la misteriosa voce del muro. In quel tempo, in quegli anni, tutte le voci enigmatiche, le voci erratiche, smarrite aggressive spaventate perdute, sono passate per quel doganiere sardonico e indifferente, ma profondamente consapevole. È possibile che quel telefono sapesse, di quelle voci, cose di cui io non avevo mai potuto sapere? O che forse le custodisse, fatte da mortali eterne, sempre fruibili, liete, indifese, mai stremate dall'unica costanza che conosciamo - la distanza? I Io dimenticato quel numero, perché è un 45
giorgio manganelli
truciolo della mia vita, o perché mi sgomenta il carico occulto di voci, e quali voci, che ha raccolto, e forse pazientemente custodisce, in vista di cose che ignoro? A queste tre serie di contrastanti ipotesi c'è qualcosa da aggiungere. Il nonno "mai conosciuto" è da sempre tutt'uno con la morte in cui abita; io esco da una stanza terrestre e provvisoria, per andare verso ciò che ho chiamato una casa, e che comunque è qualcosa che non mi difende da altro, giacché oltre a quella nulla esiste da cui difendersi, e che è un luogo non provvisorio. Infine il telefono: che cosa è veramente; essenzialmente, di che materia sono impastate quelle voci che ho ascoltato e ascolto? Che significano quei "contatti", quelli squilli perentori e intraducibili? Ho abbandonato quel telefono: o forse sto cercando di andare "dall'altra parte", dal luogo da dove provenivano, proverranno sempre quelle voci? In ogni caso i tre "come" mi hanno portato a parlare della morte. Qyando, vari anni fa, mi accadde di partecipare alla presentazione di Mitobiograjìa di Bernhard, morto qualche tempo prima, definii il mio rapporto con l'autore all'incirca in questo modo: «È l'uomo che mi ha insegnato a mentire». Dissi anche: «Era un uomo che voleva essere frainteso». È forse inutile proporre un elogio della menzogna. Qyalcuno certamente disse: «La menzogna vi farà liberi», e venne, come era indispensabile - altrimenti la menzogna non avrebbe agito - frainteso e trascritto "la verità vi farà liberi". 46
il vecchio gioco di esistere
O forse il trascrittore era un più raffinato mentitore. Io vivo in un universo: tutti gli altri sono gli universi della menzogna. Io maneggio un oggetto che, a suo modo, è "vero" ed è "uno"; tutto il percorso attorno e dentro l'oggetto, e in tutti gli spazi che quell'oggetto non sono, appartengono alla menzogna. Diffido della verità, ma la menzogna mi rallegra come un antico, inesauribile prestigiatore. Il nulla delle origini era vero; ma 1·1 mon d o "e 1e sue pompe" sono menzogne. L a storia non nacque dall'ira del Dio veritiero, ma dalla menzogna di Caino; e prima ancora un Qyalcuno simile e dissimile a noi aveva mentito con la sapiente lingua biforcuta. La strada della menzogna è la strada dell'amore; la sapienza si nutre di favole e di metafore. Tutto ciò che luccica è oro; ma non tutto l'oro luccica. Dal momento in cui si toccano le parole sapendo che esse continuamente mentono, se ne scopre l'infinita fecondità e inafferrabilità. Il mentitore è il proprietario di tutte le favole possibili. Egli è anche furbo, è un antico nomade sospetto, sospettoso, dai molti nomi, anonimo, perseguito, inseguito, riconosciuto, denunciato, catturato, perduto, "lontano" in qualunque luogo si trovi, di sonno leggero e sogni profondi; ringrazia, perché è umile; è devoto, perché la sua vita è improbabile; fugge, perché ha paura; si schernisce, perché è orgoglioso; tutti i suoi documenti sono falsi; dispone di molte biografie, val la pena di ascoltarle perché sono divertenti; non è neppure certo che egli sappia il proprio nome originario, o quello 47
giorgio manganelli
dei suoi padri, della moglie, dei figli. La sua somma di slealtà è infinita, perché solo per quella strada egli è totalmente, irrevocabilmente fedele. L'Ulisse Ebreo ha la sua Itaca, la terra promessa; anche quella naturalmente è una menzogna; per che altro potrebbe vivere e morire? Ma non basta: la menzogna è necessaria al compito che gli è toccato; egli deve essere insinuante perché è totalmente ostinato; e le contorte ambagi del suo itinerario per taciturne sabbie nascondono una linea totalmente retta; egli sa esattamente che cosa vuol dire che, per salvare la sua anima deve perderla; solo che, da incallito giocatore, non lascia vedere quando gioca la sua anima; o forse ha più anime da giocare, tutte decisive, da perdere e salvare. In ogni caso può essere candido, non mai un innocente. Certo, ha bisogno di essere "frainteso"; una menzogna presa alla lettera è inerte e intollerante come una qualsiasi verità; una menzogna può mentire su se stessa; può, come una volatile scintilla di una pirotecnia, aprirsi in infiniti illusori disegni; inoltre, a differenza della "verità" che si esenta da ogni responsabilità e si finge statica, e che è sempre e solo contemporanea, la menzogna deve affrontare i secoli, l'eterno; dunque deve chiudere in sé tutte le vesti e tutte le parlate future; sa che verrà continuamente interrogata, e catturata, e denunciata, e che ogni volta dovrà fuggire. Per questo sarà così attenta ad essere "fraintesa", a non tradire la propria natura di parola, di verbo. Sa che proposizione 48
il vecchio gioco di esistere
fondamentale di tutte le proposizioni è quella "impossibile" degli antichi sofisti: "Crizia cretese afferma che tutti i Cretesi sono dei mentitori". Non ho ancora risposto alla domanda che io ponevo a me stesso all'inizio di questo autosermone - "perché io mi sia tanto a lungo, ripetutamente, dimenticato di qualcosa che io volevo fare" - ma forse, per la consueta strada sghemba, mi ci sono avvicinato. Ho interroga· 1a camera d'alb ergo to tre "come": 1·1 nonno ignoto, disertata, il telefono dimenticato. Ho intravisto dove mi conducevano. Ho rammentato una immagine che, molti anni fa, mutò il gioco delle mie carte. Perché quell'immagine, ora, si lascia eludere? Ho detto che la menzogna ha il futuro, l'eterno; e che dunque vuole essere fraintesa; e che non esiste modo né di perderla, né di cancellarla dalla nostra vita. Dunque, devo presumere che quella stessa menzogna che mi fece percorrere una strada mia da sempre e da sempre ignota, che è diventata parola sulle mie labbra, questa menzogna, questa immagine, questo enigma, infine, sia ancora con me; e forse io fatico a riconoscerlo. Fatico? O semplicemente ho paura? Mi sono dunque scisso entro me stesso, e la mia menzogna è in me ma io non voglio essere la menzogna? Inesorabile, sorridente, leggero, infinitamente esperto e infinitamente infantile, il mio beduino mi accompagna di miraggio in miraggio, di allucinazione in allucinazione, di oasi in oasi, attraverso il mio deserto, affollato di demoni, 49
giorgio manganelli
di pietre magiche, di tracce di altri, forse mai esistiti viaggiatori. In che cosa è diverso il mio antico compagno di viaggio? Il suo sorriso è mite, ma nulla può nascondere la sua totale ostinazione; la sua mano è leggera, ma non consente distrazioni. È ora, ora come non mai, che mi ordina di essere fedele alla mia infedeltà, di perdermi e salvarmi. I pittori medievali raccontavano e raccontano che vi è un punto nel nostro itinerario in cui raggiungiamo un ponte angusto e senza ripari; un ponte che ai lati ha abissi di tenebre. A quel guado si perviene affidati ad un'immagine luminosa, travestita da essere umano. È una immagine nota da tempo, da sempre, e che abbiamo infinite volte incontrato e tuttavia non riconosciamo. Oliesta ultima trasformazione ci sgomenta. Man mano che procediamo, avvertiamo che in essa la pietà e la crudeltà si saldano, sono il medesimo volto. Dove sono? Verso quale guado mi dirigo? Come potrò percorrere col mio passo erratico ed incerto quell'angusto tragitto? Oliesto è il momento in cui l'errore e l'esattezza debbono coincidere, la spirale del serpente svelarsi identica alla sua linea retta. È difficile, rilutto. È un ultimo gioco? È l'autentico bersaglio di me freccia, è la schietta freccia di mc, spirale di bersaglio? Scruto il lene e spietato psicopompo, lo riconosco; è così esiguo e trasparente, un suono pensato, il soggetto della proposizione definitivamente perfetta: Crizia cretese.
50
Appendice
Morte di un capodoglio
Sulla spiaggia adriatica sta approdando qualcosa di oscuro, un essere moribondo e terribile. L'apparizione di questo vascello di argentea carne è un portento, e ciò che lentamente, con stordita sofferenza, va avvicinandosi alla spiaggia è un mostro. Le sue dimensioni sono enormi, la sua forma strana, inquietante, qualcosa di poderoso, qualcosa di nato per abitare il mare e tuttavia un destino occulto lo sta spingendo a morire su di una spiaggia, un luogo umano. Vedete la pinna del poderoso timone che tenta di disegnare un percorso, ma la nave di tre tonnellate di carne va solo in cerca di una tomba. La gente è accorsa sulla spiaggia: è un giorno ventoso, aspro, acremente salino, come certo erano tutti i giorni della vita del mostro. 53
giorgio manganelli
La gente guarda l'argenteo morituro, la cosa uscita dall'abisso, la bestia che ha memoria di un itinerario ormai perduto. Altrove, questa belva è consueta, ma non qui. Il capodoglio non frequenta spiagge né conosce uomini. Lo stesso mare che il capodoglio va navigando sembra stupito ed iroso, è spaventato e tracotante, aggredisce il mostro, lo spinge, lo ferisce, forse per la prima volta lo lacera e colpisce. Dunque, noi abbiamo un mare infuriato, spaurito e abbiamo degli umani che guardano qualcosa che non hanno mai visto. Lo stupore, l'apprensione, una sorta di ilarità inasprita da un segreto spavento turba coloro che guardano, che vedono, ciò che forse non vedranno mai più, la testimonianza che il mare è una abitazione in cui soggiornano i mostri. Scrutato da questi occhi che hanno ritrovato un gesto antico, forse segretamente devoto, inseguito da un mare litigioso, la bestia che abitava altrove non procede, ma va abbandonandosi alla propria fine. Una sottile apprensione turba i testimoni di questa morte.
54
il vecchio gioco di esfrtcre
L'antica vocazione alla salvezza della vita spingerà gli uomini del mare ad un gesto che ha del sacro, ma è vano, essi vogliono stornare il sacrificio, la solenne conclusione di un rito cruento; con una leggera barca di nome Abramo questi uomini tentano di restituire la belva alle porte di una dimora che misteriosamente lo respinge. Ma la morte continua. Non è possibile alcun ritorno, la barca Abramo è un gesto pio e impotente. La bestia oscura non s1 volge, insiste m questa misteriosa consegna di sé. Ha molta pazienza, è dignitosa. Ci possiamo chiedere perché questa regale opulenza, sovrana nel cuore dell'oceano, stia ora cercando riparo, o almeno una sorta di quiete ferale su una breve spiaggia, affollata di minuscoli esseri a lei ignoti e che la ignorano. Man mano che si consegna alla morte, il capodoglio acquista la forma di una statua argentea; l'essere vivo diventa una cosa, ma è una cosa preziosa, cui la morte non toglierà compattezza. Il capodog] io ha abdicato, vediamo che un uomo 55
giorgio manganelli
ignaro, forse un poco orgoglioso, può cammmare su questa cosa gigantesca. I bambini un po' si divertono, un po' hanno bisogno di essere rassicurati. Belve così fatte si incontrano nelle fiabe e nei sogni. Vi è qualcosa che accentua la potenza dell'immagine: il capodoglio è intensamente solo, di una solitudine che forse lo colse di sorpresa e poi divenne la sua sorte, il suo destino. Tra il tumultuare delle onde e il chiacchierio della folla, è l'unico essere totalmente solo, quasi fosse un esemplare unico di una fauna scomparsa da secoli. Visto accanto agli uomini, con le loro vesti allegre di vita, il nudo capodoglio è un animale antico, immutabile da millenni. Ci hanno detto perché è morto, questo navigatore per mari senza rive; qualcuno lo ha ferito di inutili armi da fuoco; il mare inquinato lo ha intossicato, lo ha ucciso con velenosi stracci di nailon. L'Adriatico è inquinato, lo sappiamo, ma non sapevamo che lo era al punto da poter uccidere una belva tanto poderosa. Mentre guardiamo questo mare che non è solo furioso ma tossico, scopriamo la strana qualità dell'acqua, luogo ancora ignoto all'uomo, l'uomo dalle ambizioni lunari. Non si può far nulla per rendere umano il mare; non si può lavorare il mare, non dargli una forma, non placarlo, con il mare non si parla; questo possiamo fare, o facciamo, possiamo colmarlo di veleni, e tra56
il vecchio gioco di esistere
sformare in un labirinto di tombe i fondali marini, dove vivono gli animali misteriosi che ci parlano di mostri antichi. Ciò che ha inseguito il capodoglio lungo i suoi mari, le sue illimitate praterie d'acqua, è stato un fantasma, il fantasma predatore dell'uomo. Chi ha sparato quegli inutili colpi di arma da fuoco contro quel corpo potente? Un fantasma che voleva ferire, che fantasticava una impossibile uccisione. Non si può uccidere il mostro con colpi di minuscole armi da fuoco; forse chi sparò era un uomo spaventato; forse l'aveva colto la follia di fronte quella immagine che aveva del sacro e dell'abissale. Il navigatore paziente non sarebbe morto, ma forse da quando un fantasma ignoto lo ha ferito, il navigatore prese a trasformarsi in naufrago. Qyalcosa che non capiva lo voleva colpire. Il naufrago forse imparò il dolore e la paura; cercò di alleare la pazienza e l'astuzia; fu ostinato; oscuramente sapeva di essere enorme ma qualcosa che mai sapremo dové tradirlo; forse l'enigma di quelle ferite lo disorientò; navigò mari che non erano stati creati per lui. Con tutta la sua forza illimitata entrò nel centro del mare avvelenato. Che il mare fosse iroso, lo sape57
giorgio manganelli
va da sempre; forse lo sorprese la paura che le onde avevano di lui; ma non conosceva i veleni. Fu come un antico sovrano circondato da cortigiani infedeli, sleali, che di giorno in giorno andavano fiaccando il suo corpo insinuando veleni, intossicando l'aria che respirava, degradando la sua reggia. Forse si accorse che egli abitava non più un gigantesco luogo del trono, ma un cumulo di macerie, misteriose, incomprensibili macerie d'acqua. Dové avvertire che la vita gli veniva sottratta non in una leale battaglia, ma con una oculata e lenta frode, da un'infinita anonima folla di omicidi. Ma non il mare uccideva la belva, ma un mare a sua volta malato, un mare piagato, un mare lebbroso, un mare impazzito dalle pozioni malefiche che la sapienza degli uomini aveva iniettato nelle sue vene immutabili nei secoli. Ora il mostro è morto, cd è approdato. Piace all'uomo pensare che sia una resa, questo consegnarsi alla violenza scientifica del minuscolo intossicatore del mondo. Una resa, una sfida? Un approdo, uscendo da un mare velenoso, per approdare a un terra velenosa? Ora la statua argentea diventerà un corpo non terrestre, un essere alieno; verrà squartato, scorticato, scrutato nelle viscere; ne toglieranno lo scheletro.
58
il vecchio gioco di esistere
Ma la grandezza di questo evento, la sua penosa imponenza sta in ciò che abbiamo visto e forse non rivedremo: l'apparizione dal mare di ciò che noi chiamiamo mostro; il disvelamento di una potenza non terrestre e insieme abbiamo assistito agli ultimi momenti di un delitto; un assassinio di tanta grandezza che è impossibile dargli un nome; abbiamo visto la lenta agonia di un essere che pareva progettato per una vita senza timori. Abbiamo insieme visto, ammirato, forse venerato la figura ignota di un signore dei mari; e insieme abbiamo partecipato alla sua uccisione. Lo abbiamo sacrificato, come si usava con gli dei millenari; ma è difficile pensare che siano un altare questo mare tossico e livido, o questa spiaggia irta e indifferente. Ma possiamo dire che noi tutti teniamo in pugno il coltello dell'uccisione. E sono stati necessari molti coltelli.
59
Indice
Con dolore e letizia Lietta Manganelli
7
Il vecchio gioco di esistere
Ha sfiorato la storia con dolce distrazione su Giuliana Benzoni
15
Era uomo di rara eleganza linguistica su Augusto Frassineti
19
Camminatore di labirinti su Mircea Eliade
21
Una piaga sul volto della storia su forge Luis Borges
23
61
Luminose schegge d'aria su Fausto Melotti Privilegio di un frammento su Gastone Novelli
31
Amante degli enigmi ancora su Gastone Novelli
35
La metamorfosi del gran guaritore su Ernst Bernhard
37
Comunicazione personale ancora su Ernst Bernhard
43
Appendice
Morte di un capodoglio
53
HACCA ADERISCE ALLA CAMPAGNA «LIBRI AMICI DELLE i'ORESTE» LANCIATA DA GREENPEACE. NESSUNA FORESTA È STATA DISTRUTTA PER PRODURRE ~ESTO LIBRO, STAMPATO SU CARTA RICICLATA SENZA USO DI CLORO E CON ALTE PERCENTUAI.I DI FIDRE l'OS'l'-CONSUMO.
0
HACCA Finito di stampare nel mese di aprile 2023 presso Micropress - Fermo per conto di KINDUSTRlA
Gi orgi o Manganelli (Milano 1922 - Roma 1990) , scrittore prolifico - tra i più innovativi ed eccentrici del Novecento - fu anche traduttore, critico letterario, autore di programmi radiofonici. Tra le sue opere più importanti si ricordano: Hilarotragoedia (1964), Agli dei ulteriori (1972), Pinocchio: un libro parallelo (1977), Centuria (1979), Angosce di stile (1981) , Laboriose inezie {1986), Improvvisi per macchina da scrivere (1989) , Esperimento con l'India (1992), Il rumore sottile della prosa (1994), La notte (1996), L'infinita trama di Allah. ½aggi nell'Islam 1973-1987 (2002).
ART OIRECTION. COVER. LOGO DESIGN: MAURIZIO CECCATOj lFIX
J, • • ..,
·_
~ . ....
~~~*
Dunque Borges' è morto; il vecchio gioco di esistere cessando di esistere ha tentato il grande vecçhio scrittore.