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Italian Pages 532 [654] Year 2002
LE SCIE
Tom Segev
IL SETTIMO MILIONE
Come l'Olocausto ha segnato la storia di Israele
MONDADORI
Traduzione di Carla Lazzari Il nostro indirizzo Internet è: http://www.mondadori.com/libri ISBN 8804-48955-3 Copyright © 1991 by Domino Press Ltd. Translation copyright © 1993 by Haim Watzman Originally published in Hebrew 2001 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell'opera originale: The Seventh Million I edizione settembre 2001
********** Il settimo milione riporta per la prima volta in luce alcune delle pagine più sconvolgenti e meno note della storia contemporanea, il cui filo conduttore è costituito dall'influenza determinante che lo sterminio di sei milioni di ebrei sotto il giogo nazista ha esercitato sull'identità di Israele, sulla sua ideologia e sulle sue scelte politiche, anche attuali. Sulla scorta di diari, interviste e migliaia di documenti soltanto ora disponibili, Tom Segev ricostruisce l'atteggiamento tenuto dallo yashuv (la comunità ebraica presente in Palestina prima della fondazione dello Stato) nei confronti della Germania nazista. E affronta i temi più delicati e dolorosi della storia israeliana: la posizione dei sionisti di fronte al genocidio; il drammatico incontro fra i superstiti dell'Olocausto, simboli viventi dell'atroce violenza subita dal popolo ebraico, e una società che andava costruendo se stessa intorno al culto dell'eroismo e dell'«uomo nuovo»; i progetti di vendetta contro gli ex nazisti, fra cui quello di avvelenare gli acquedotti delle grandi città tedesche; i negoziati segreti con la Germania per giungere a un accordo sulle riparazioni di guerra.
Nell'analizzare il rapporto della nazione con il proprio passato, in un clima segnato da una costante tensione emotiva e da accanite lotte politiche, Segev rivela in che modo questa pesante eredità sia stata manipolata e distorta a scopo ideologico o per calcolo politico: dalla vicenda dell'Exodus, la nave carica di profughi abbordata dagli inglesi, al processo Eichmann, alla guerra dei Sei giorni contro l'Egitto e i suoi alleati, al più recente caso di John (Ivan) Demjanjuk, il presunto «boia di Treblinka». Ne emerge un quadro inedito e per certi aspetti sconcertante in cui, accanto alle figure in primo piano come David Ben Gurion, Menahem Begin o Nahum Goldmann, viene descritta la vita quotidiana degli israeliani, con i loro obiettivi comuni e i conflitti che ne hanno lacerato i legami sociali, una dimostrazione di quanto i tragici eventi del passato continuino a condizionare non soltanto la biografia dei singoli, ma quella di un'intera nazione. Sovraccoperta: Arrivo via mare dei rifugiati ad Haifa, 1948. Tom Segev, figlio di profughi tedeschi, vive a Gerusalemme, dove è nato nel 1945. Dopo gli studi di storia e scienze politiche all'università ebraica di Gerusalemme, è stato corrispondente dalla Germania per il giornale israeliano «Maariv» e caporedattore del settimanale «Koteret Rashib; attualmente è editorialista di «Haaretz», uno dei più prestigiosi quotidiani del paese. E' autore di un best-seller molto controverso sulla fondazione dello Stato di Israele e di uno studio sui comandanti dei campi di concentramento nazisti.
********** IL SETTIMO MILIONE
Prologo IL VIAGGIO DI KATZETNIK Un giorno, all'inizio del 1987, ho telefonato allo scrittore Yehiel DeNur per chiedergli che cosa pensasse del processo contro John Demjanjuk allora in corso a Gerusalemme. Demjanjuk, un ucraino estradato in Israele dagli Stati Uniti, era accusato di avere ucciso 870.000 persone, in maggioranza ebrei, nel campo di sterminio di Treblinka. Ventisei anni prima DeNur era stato uno dei testimoni d'accusa al processo contro Adolf Eichmann. Appena udii quella voce fioca, incrinata, mi tornò subito alla mente il racconto di quello che aveva vissuto ad Auschwitz. Era una voce inconfondibile, la voce di un uomo di un altro pianeta. Le poche frasi che era riuscito a pronunciare in tribunale non le avevo più dimenticate: Sono stato «là» per quasi due anni. Là il tempo era diverso da com'è qui sulla terra. Ogni singolo istante era scandito in base a un ciclo temporale diverso. E gli abitanti di quel pianeta non avevano nome. Non avevano né genitori, né figli. Non si vestivano come ci vestiamo qui. Non erano nati là, e mai nessuno è venuto alla luce, là. Persino il loro respiro era regolato da altre leggi. Non vivevano, né morivano secondo le leggi di questo mondo. Per nome avevano un numero.... Mi lasciavano e mi lasciavano ... per quasi due anni hanno continuato a lasciarmi, a lasciarmi sempre indietro. ... Li vedo, mi guardano, li vedo.... Parlava con voce roca, con l'intensità del profeta, dimentico del luogo in cui era, «come leggesse la pagina di
un suo libro» ha scritto Haim Curi, che seguiva il processo per conto della stampa. La sua voce, le sue parole colmarono l'aula del tribunale di una tensione quasi insopportabile. Il pubblico ministero e il giudice cercarono di richiamarlo al presente. De-Nur perse i sensi e scivolò lentamente, quasi teatralmente, a terra. Tutta Israele trattenne il respiro. Fu il momento più drammatico del processo e uno dei più drammatici di tutta la storia del paese: un episodio che la radio e la televisione hanno continuamente riproposto. A quell'epoca De-Nur aveva quarantacinque anni. Era nato e cresciuto in Polonia, nella fattoria del nonno. Si chiamava Yehiel Feiner. Aveva studiato nella yeshivah Chochmei di Lublino ed era musicista, scrittore e poeta. «Era ancora un ragazzo, uno studente della yeshivah, quando è venuto in redazione la prima volta» ricordava il direttore di un giornale yiddish della Polonia d'anteguerra. «Mi porse un plico di manoscritti. Non saprei dire perché, ma quel giovane con i lunghi cernecchi e gli occhi sognanti mi colpì. Alla sera mi misi a leggere un suo racconto e una poesia. Rimasi incantato dalla bravura, dal talento. Fu il mio giornale a pubblicarlo per primo.» Dopo Auschwitz, De-Nur aveva fatto di tutto perché i suoi lavori giovanili venissero dimenticati, fino al punto di andarli a ritirare di persona dalle biblioteche. Aveva poi cambiato nome, sì, perché, strappandogli la famiglia, Auschwitz gli aveva sottratto anche l'identità, lasciandogli soltanto quella di prigioniero. Cominciò a scrivere sull'Olocausto subito dopo la liberazione, mentre riprendeva le forze in un campo dell'esercito britannico vicino a Napoli. Aveva la sensazione che la fine fosse vicina, che forse non avrebbe fatto in tempo a raccontare tutto. Ma aveva giurato ai morti che sarebbe stato la loro voce, il loro cronista. Una quarantina di anni dopo ricordava: «Mi sono seduto al tavolo e per due settimane e mezzo non mi sono quasi più alzato. Affidai il manoscritto a un soldato perché lo spedisse in Palestina. Lui lesse il titolo sulla prima pagina, Salamandra, si chinò verso di me e mi sussurrò: "Ha dimenticato di scrivere il nome dell'autore". Io gli gridai: "Il nome dell'autore? Questo libro l'hanno scritto quelli che sono finiti nei forni crematori. Scriva il loro nome: Katzetnik"». Nei lager i prigionieri venivano chiamati «Ka-tzetnik numero...», con riferimento al numero di matricola che portavano tatuato sul
braccio sinistro: De-Nur era il Ka-tzetnik 135633, ed è così che cominciò a firmare le sue opere. Quindi, come tanti altri israeliani, ha assunto un nome nuovo, De-Nur, che significa «colui che viene dal fuoco». Salamandra fu uno dei primi libri sull'Olocausto pubblicati in Israele. Seguirono La casa delle bambole, Piepel e La fenice venuta dal lager, che formano una trilogia autobiografica intitolata Cronaca di una famiglia ebrea nel XX secolo. In essa, come in molte sue opere, De-Nur racconta la vita dei prigionieri ad Auschwitz e descrive, anche nei particolari più atroci, gli atti di sadismo di cui fu testimone, compresi gli abusi sessuali sui bambini. Quel giorno del 1987 composi il suo numero di telefono con molta trepidazione. Ero giovanissimo quando avevo scoperto Piepel: niente di tutto ciò che ho letto in seguito sull'Olocausto mi ha tanto turbato. Rileggendolo anni dopo, vi ho trovato non pochi elementi kitsch e parecchia pornografia, e tuttavia appartengo a quella generazione di israeliani che si sono formati un'immagine dell'Olocausto leggendo da adolescenti i libri di Ka-tzetnik. Quasi nessuno sapeva chi si nascondesse dietro lo pseudonimo. Al processo Eichmann il giudice chiese a De-Nur la conferma che egli fosse Ka-tzetnik. Era svenuto per questo, mi ha confessato. Da allora erano passati ventisei anni, durante i quali aveva cercato in ogni maniera di cancellare qualsiasi indizio che collegasse Ka-tzetnik a De-Nur. I suoi libri venivano tradotti in molte lingue, ma gli editori avevano il divieto di pubblicare la fotografia dell'autore. Riceveva messaggi da lettori di tutto il mondo, ma non aveva mai concesso un'intervista, né parlato in pubblico. Non poteva però sfuggire alla fama. In Israele, ogni due anni si assegna un premio letterario alla migliore opera sull'Olocausto: il premio è intitolato a Ka-tzetnik e viene consegnato dal presidente della Repubblica. L'ha istituito in segno di gratitudine un padre, il cui figlio tossicomane era stato così profondamente trasformato dalla lettura dei libri di Ka-tzetnik da rinunciare per sempre alla droga. Ka-tzetnik non partecipa mai alla consegna del premio. Una volta aveva deciso di andarci, ma per strada aveva cambiato idea ed era tornato indietro. Non ce l'aveva fatta, mi disse, a comparire in pubblico, anche perché temeva che la sua presenza accanto al presidente potesse essere interpretata come un modo per farsi pubblicità. «Mentre mi recavo a prendere il
tassi per venire a Gerusalemme» scrisse al presidente «mi sono fermato e sono tornato sui miei passi con il cuore oppresso al pensiero che parlassero di Ka-tzetnik e vedessero me: come avrei potuto guardare negli occhi quelli che mi hanno lasciato ad Auschwitz, il cui sguardo non mi abbandona mai?» All'epoca in cui gli telefonai, De-Nur aveva settant'anni. Alla mia richiesta di un'intervista rispose come faceva sempre con i giornalisti che lo interpellavano in quel periodo: non seguiva il processo Demjanjuk e non aveva la forza di ritornare sul caso Eichmann. Qualche mese dopo seppi che De-Nur aveva appena scritto un libro su una terapia molto radicale cui si era sottoposto in Olanda. Gli telefonai, chiedendogli un'intervista. De-Nur esitò. Nelle settimane successive ci scambiammo una serie di lunghe e strane telefonate, e il ghiaccio si ruppe. A volte era lui a chiamare, in un paio di casi a notte fonda. Le sue parole parevano affiorare dalla tempesta che gli imperversava dentro, erano lunghi monologhi, in parte incomprensibili e in parte terrorizzanti: ricordi delle atrocità di Auschwitz mescolati a visioni mistiche, apocalittiche. Altre volte faceva il mio numero e poi restava muto. Una notte, all'improvviso, mi disse che voleva mostrarmi il suo nuovo manoscritto. Al mattino mi recai a casa sua a Tel Aviv, ritornandovi la settimana dopo. Ma non per intervistarlo. «Non sono in grado di rispondere alle domande» mi disse. Il manoscritto che mi mostrò spiegava: «Questo trauma ha origine nella camera di tortura della Gestapo, a Katowice». I nazisti l'avevano torturato in seguito alla scoperta di un nascondiglio di armi nel ghetto. Mi raccontò come fosse stato convocato nell'ufficio del comandante cittadino della Gestapo, Alfred Dreyer. Un amico era riuscito a procurargli un passaporto honduregno e glielo aveva inviato attraverso i canali ufficiali: l'ambasciata svizzera a Berlino e il quartier generale della Gestapo a Katowice. Dreyer non sapeva come regolarsi con quell'ebreo che all'improvviso era diventato di nazionalità straniera. Mentre rifletteva, era entrato nella stanza un suo superiore. Aveva dato un'occhiata ai documenti e senza dire una parola li aveva stracciati. Mentre i pezzetti di carta cadevano lentamente nel cestino, sentii, mi confidò De-Nur, di aver perso il passaporto per la vita. Quell'ufficiale, aveva saputo in seguito, era Adolf Eichmann. Quando
se l'era trovato davanti nell'aula del tribunale di Gerusalemme, aveva tentato di guardarlo negli occhi, ma non aveva retto. Mi imposi di non fare domande. Ascoltai. A volte i ricordi erano così lancinanti che il volto gli si rigava di lacrime. Temevo svenisse di nuovo. Altre volte si comportava come un padrone di casa premuroso e sorridente, ma un istante dopo era di nuovo ad Auschwitz, smarrito in un silenzio straziante. Poi, con la stessa repentinità, tornava con me nella stanza di Tel Aviv, e scherzava... rapidi voli da un pianeta all'altro. Una situazione paradossale. Non dovevo rivelare la sua identità, mi ammonì, se non volevo che svanisse nel nulla come l'immagine di una pellicola fotografica esposta alla luce. A un tratto acconsentì a posare per un fotografo. Era la prima volta. Il manoscritto che mi consegnò era stupefacente: conteneva un messaggio umanistico e un severo monito. Descriveva il caleidoscopio di visioni che De-Nur aveva avuto una decina di anni prima, quand'era in cura da Jon Bastiaans, il direttore del Centro per i traumi di guerra di Leida, in Olanda. Bastiaans si occupava soprattutto di pazienti affetti da quella che chiamava la «sindrome KZ», ossia la sindrome da campo di concentramento, un disturbo post-traumatico già noto in varie forme fin dai tempi della prima guerra mondiale ma comparso con particolare virulenza fra i superstiti dei campi di concentramento nazisti. Per quegli uomini e per quelle donne, mi ha spiegato il professore, l'adattamento alla vita normale, se e quando avveniva, richiedeva a volte persino trenta o quarant'anni e comportava sempre un terribile sforzo fisico ed emotivo. Anche quelli che sembravano ben integrati attivavano in realtà potenti meccanismi di difesa, che spesso li rendevano estremamente introversi, «come se vivessero in un campo di concentramento interiore». Di quel campo difendevano i recinti, avevano paura ad aprire i cancelli, e sopportavano in solitudine le continue torture che vi subivano. I parenti, gli amici e gli stessi medici erano convinti che avessero superato l'esperienza del lager, che la loro vita quotidiana fosse davvero «normale» come appariva. La finzione era conveniente per tutti, compresi a volte gli stessi superstiti. La medicina aveva impiegato molto tempo a capire che i sopravvissuti dei lager avevano a disposizione riserve emotive troppo esigue per durare un'intera vita. La corda si spezzava talora
anni e anni dopo l'Olocausto, e all'improvviso si ammalavano nell'anima o nel corpo, oppure si toglievano la vita. Era proprio questo crollo che Bastiaans si proponeva di prevenire con la sua terapia. Lo psichiatra olandese aveva cominciato a somministrare l'LSD ai suoi pazienti all'inizio degli anni Sessanta. In una conferenza tenuta a Gerusalemme aveva confessato di avere scoperto lentamente l'uso corretto della droga. Occorrevano soggetti abbastanza forti, perché altrimenti la terapia li avrebbe distrutti. A differenza degli stupefacenti che inducono sonnolenza e annebbiano i sensi, l'LSD acuisce la coscienza, fa riaffiorare i terrori del passato e costringe a riviverli. Mentre, nello stato di trance indotto dalla droga, il paziente parla, il medico registra, e a volte filma, la scena. Poi analizza le registrazioni, in genere occorrono cinque o sei sedute perché i pazienti imparino a convivere con i propri traumi. Inizialmente la terapia aveva suscitato forti perplessità sul piano scientifico, etico e giuridico, tanto che Bastiaans aveva ottenuto l'autorizzazione ad applicarla solo dopo che numerosi sopravvissuti ebbero indirizzato una petizione alla regina. La prima volta che gli fu proposta la terapia di Bastiaans, DeNur rifiutò. La moglie cercò di convincerlo. «Capivo benissimo il suo entusiasmo» ha scritto. «Tutta la sofferenza che aveva patito immedesimandosi con me, la sofferenza che si era tenuta dentro per tanti anni, si era trasformata in euforia di fronte alla prospettiva della mia guarigione. L'abbracciai stretta. Non sapevo come spiegarle che il professor Bastiaans non poteva aiutarmi. Lui non era mai stato ad Auschwitz, e Auschwitz non lo conoscevano neppure quelli che c'erano stati, neppure quelli come me che c'erano stati per due lunghi anni.» Ma lei continuò a insistere. Si erano incontrati nel 1947, dopo la pubblicazione di Salamandra. La moglie di De-Nur, Nina Asherman, era figlia di un eminente chirurgo. Era un'adolescente quando aveva letto il libro. Ne era rimasta così colpita da decidere di rintracciare l'autore che si nascondeva dietro lo pseudonimo di Ka-tzetnik. De-Nur si era trasferito da poco a Tel Aviv. Abitava in uno scantinato buio, ma trascorreva quasi tutto il giorno, e buona parte della notte, su una panchina in Rothschild Avenue. Nina riuscì a scovarlo e se ne innamorò. Si sentiva investita di una missione, cosa abbastanza rara
fra la sua generazione, più propensa a evitare i superstiti dell'Olocausto, se non a disprezzarli. La poetessa Nina Elia («Nike») De-Nur ebbe una vita difficile con il marito. «Non dimenticherò mai la sua pena silenziosa durante i miei incubi, lo sforzo per nascondere i suoi sentimenti» ha scritto De-Nur. «Mi svegliavo al suono delle mie grida strozzate, febbricitante e madido di sudore. Nike, al mio fianco, mi asciugava con una salvietta, con gli occhi colmi di muta paura e compassione.» E lei: «E rifiutavi ancora di dirmi il tuo nome». Anche i loro figli soffrivano. La figlia Daniela mi ha detto: «Ogni anno, nel Giorno dell'Olocausto, la televisione ritrasmette la scena del suo svenimento al processo Eichmann. Così sono diventata la figlia dello svenuto. E alla mia bambina i compagni dicono: "Tuo nonno è svenuto" come se fosse successo ieri». Alla fine De-Nur si arrese. Il manoscritto racconta le sue cinque sedute terapeutiche a Leida. Si stendeva sul lettino, nudo, coperto soltanto da un lenzuolo. Bastiaans gli si sedeva accanto, lo confortava, poi gli iniettava l'LSD. De-Nur cadeva in trance e cominciava a parlare, in inglese e qualche volta in ebraico. Raccontava le sue visioni: un compagno picchiato a morte sulle natiche nude, un amico risparmiato soltanto perché nella sua infelicità divertiva le SS, o meglio, risparmiato fino al giorno in cui gli spalmarono la faccia di marmellata e chiamarono i prigionieri affamati a leccarla. Gli si buttarono addosso a centinaia: in pochi istanti fu tutto un groviglio di mani, di gambe e di bocche che mordevano e leccavano. I tedeschi si sbellicavano dalle risate. Alla fine non rimase a terra che un corpo insanguinato, smangiucchiato, come fosse stato roso dai topi. Descriveva una SS che, dopo avere sfogato le sue perversioni su un bambino, l'aveva ucciso, arrostendolo allo spiedo e divorandolo con avidità. Vedeva sua sorella Daniela fra le prostitute del campo, e sua madre nuda che, in fila con tutti gli altri derelitti, andava verso il crematorio. Le aveva viste uscire dal camino. E descriveva se stesso, durante la «selezione» del dottor Mengele; il medico nazista muoveva appena un dito per indicare a chi toccava la vita e a chi la morte. Ogni volta a lui era toccata la vita. Ebbe visioni psichedeliche che gli ricordavano i dipinti di Dali. Vide angeli e demoni. Vide Dio, nei colori del verde, del rosa e del giallo. Vide anche il fungo atomico, «il re del mondo». Era torturato dagli incubi
e dalle allucinazioni, dall'enigma della sua identità: chi era Katzetnik? E chi era De-Nur? Il passato continuava a ossessionarlo anche quando l'effetto della droga era scomparso. Un paio di giorni prima della seconda seduta andò sulla spiaggia. Si sentiva come un condannato a morte. Era piena estate e c'erano molti bagnanti, quasi tutti provenienti dalla Repubblica federale tedesca. «Notai un gruppo di tedeschi giovani e allegri con bizzarri tatuaggi sul petto e sulle braccia» ha scritto. Divertiti e affascinati, guardavano il numero semplice, spoglio, che avevo sull'avambraccio. Quel numero azzurro era per loro una novità, e lo fissavano, cercando di capirne il significato. Infine uno mi si avvicinò. Mi martellavano le tempie. Era la prima volta che esponevo quel numero. Per trent'anni, da quando mi era stato impresso a fuoco nella carne, avevo sempre cercato di tenerlo nascosto. Per trent'anni nel mio guardaroba non c'era mai stata una camicia con le maniche corte. Non avevo mai imparato a convivere con quelle sei cifre marchiate sulla mia carne e sulla mia anima. Ancora oggi quel numero non lo so a memoria, devo guardarmi il braccio. E per causa sua non riesco a ricordare i numeri. Su quella spiaggia di Noordwijk l'avevo finalmente esposto al sole. Forse ero riuscito a farlo perché non mi conosceva nessuno. Lì non era Israele, dove ogni scolaretto sa che cosa significa un semplice numero azzurro sul braccio, sa dov'è stata quella persona. Sono certo che non lo facevo per vergogna o per senso di colpa. No. Ma perché allora? Lo sa soltanto il Satana di Auschwitz. E ora lì, a Noordwijk, dove la mia mente si preparava a liberarsi dalla maledizione della mia vita, c'era, figuratevi un po', proprio un tedesco che, piantato davanti a me, fissava il numero sul mio braccio e bofonchiava qualcosa. Non lo sentivo, non sapevo più dov'ero. Stava per succedere una cosa terribile, ne ero sicuro. Dentro di me si stava risvegliando una bestia impazzita, pronta ad affondare gli artigli nella gola di quell'individuo che incombeva su di me. Balzai in piedi e, imprecando, scappai. Rivedo ancora la faccia sorridente di quel giovane tedesco, che trovava così semplice, e perciò così originale, il tatuaggio sul mio braccio. Mi chiedo se le generazioni future non considereranno l'epoca della storia tedesca che fu la mia un semplice, originale tatuaggio. Durante una delle ultime sedute di trance, De-Nur si vide vestito con l'uniforme delle
SS e sulla testa il berretto con l'insegna del teschio. Sperimentò in quel momento «l'orrore supremo»: seppe che, in quanto uomo, anch'egli aveva la sua parte di colpa. Fu questa verosimilmente la verità più profonda che apprese a Leida: l'SS che l'aveva spedito all'inferno avrebbe potuto essere De-Nur e De-Nur avrebbe potuto essere quell'SS. Allora si rivolse a Dio: «O Signore, Signore misericordioso e compassionevole, sono io, sono io quello che ha creato Auschwitz?». Un giorno capì di non avere più bisogno di Bastiaans. Aveva colmato il vuoto fra Ka-tzetnik e De-Nur: la terapia di Leida l'aveva portato alla consapevolezza che Ka-tzetnik era DeNur e De-Nur era Ka-tzetnik, una sola e unica persona. Auschwitz non era un luogo su un altro pianeta, ma un luogo di questo mondo: era opera dell'uomo. L'altro pianeta lo lasciò a Leida. L'inferno, le tenebre di Auschwitz appartenevano al passato. Ora poteva dormire: la notte non era più torturato dai ricordi. Ma gli incubi ripresero di giorno. Ad angosciarlo non era più il passato, bensì il futuro: era la paura dell'olocausto nucleare. «Dove c'è l'uomo, c'è Auschwitz» ha scritto «perché Auschwitz non l'ha costruito Satana, ma io e te, così come non è stato Satana a creare il fungo [atomico], ma io e te. L'uomo.» Era andato da Bastiaans come Saul a Endor, in cerca di una spiegazione dell'Auschwitz notturna. Ma ora dove poteva andare in cerca di una spiegazione dell'Auschwitz diurna? Gli ci erano voluti dieci anni prima di riuscire a raccontare l'esperienza di Leida, ma una volta presa in mano la penna, l'aveva scritta in due settimane e mezzo, com'era accaduto con Salamandra, il suo primo libro-testimonianza. Quando mi mostrò il manoscritto, DeNur era ancora incerto. Forse l'avrebbe riposto nel cassetto, mi disse, perché, a pensarci bene, nessuno l'aveva eletto a profeta. Forse avrebbe fatto meglio a bruciarlo. Aveva bruciato due volte La casa delle bambole, prima di pubblicarlo. Ma alla fine decise di darlo alle stampe, e quando il libro, intitolato Shivitti, uscì, Ka-tzetnik fece qualcosa di inimmaginabile in passato. Rilasciò una lunga intervista alla televisione. Come la storia di Ka-tzetnik, anche quella del doloroso confronto di Israele con l'Olocausto è una storia di identità incerta. La visione dell'Olocausto ha modellato l'immagine che gli israeliani hanno di sé, e il mutato senso di sé ha a sua volta alterato la visione e la comprensione del significato dell'Olocausto. Come la
storia emblematica di Ka-tzetnik, anche questa storia racchiude un profondo dramma umano, in cui si mescolano la rimozione, la consapevolezza e uno spasmodico confronto con il retaggio del passato. Il settimo milione racconta questa seconda, più ampia storia. Prendendo le mosse dalla risposta sionista all'ascesa del nazismo e dall'arrivo dei primi profughi in Palestina, documenta l'atteggiamento poco compassionevole dello yishuv, la comunità ebraica in Palestina, verso il massacro degli ebrei in Europa e i suoi primi, penosi e ostili incontri con i superstiti. Nel dopoguerra, sullo sterminio degli ebrei è calato un grande silenzio. Poi sono venuti i conflitti etico-politici e il lacerante dibattito sulle relazioni con la Germania, e pian piano gli israeliani hanno cominciato a capire il significato profondo dell'Olocausto. Il caso Eichmann è stato una terapia per l'intera nazione e ha innescato un processo di identificazione con la tragedia delle vittime e dei superstiti che non si è ancora concluso. Tutte le decisioni fondamentali nella storia di Israele, dalla massiccia immigrazione degli anni Cinquanta alla guerra dei Sei giorni, al progetto nucleare, sono state prese all'ombra dell'Olocausto. Tutte, a eccezione della fondazione dello Stato. Nel corso del tempo l'Olocausto è stato talora distorto, ridotto a un bizzarro culto della memoria, della morte e del kitsch, sfruttato, cavalcato, svenduto, volgarizzato e politicizzato. E più il tempo passa e l'Olocausto si allontana nella storia, più esso diventa il centro della lotta politica, ideologica ed etica. Il settimo milione analizza le modalità con cui i tristi eventi del passato continuano a influenzare la vita di una nazione. Sì, perché l'Olocausto, così come ha conferito un'identità collettiva postuma ai sei milioni di vittime, ha anche modellato l'identità collettiva del nuovo paese, agendo non soltanto sui superstiti immigrati nel dopoguerra, ma su tutti gli israeliani, quelli di allora come quelli di ora. Ecco perché li ho chiamati «il settimo milione».
Parte prima HITLER: ARRIVANO GLI YEKKE
CAPITOLO I «LE STRADE SONO LASTRICATE DI SOLDI» All'ombra dei pini in Prophets Street, nel centro di Gerusalemme, c'era negli anni Trenta una casetta in pietra dall'aria romantica. Era il consolato tedesco, inaugurato alla fine dell'Ottocento. Un giorno di primavera del 1933, poco dopo l'ascesa al potere di Hitler, un dipendente salì sul tetto e issò una bandiera rossa con la croce uncinata nera racchiusa in un cerchio bianco. Ogni tanto i militanti del Betar, movimento giovanile di destra, facevano sparire quell'ingiurioso drappo, ma subito i tedeschi lo rimettevano al suo posto e la svastica continuò a sventolare nel cuore di Gerusalemme per sei dei dodici anni in cui esistette il Terzo Reich, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, quando il consolato fu chiuso. A quell'epoca la Palestina era governata dagli inglesi e i consolati tedeschi (ce n'era un altro a Jaffa) rimasero aperti finché la Gran Bretagna non ruppe le relazioni diplomatiche con la Germania nazista. A Gerusalemme la rappresentanza tedesca, come quelle delle altre nazioni, non svolgeva soltanto le normali attività consolari, ma fungeva anche da ambasciata, favorendo gli interessi tedeschi e tenendo contatti stretti e regolari con gli organismi politici arabi ed ebraici. Il mandato della Società delle Nazioni, che aveva affidato il governo della Palestina alla Gran Bretagna, prevedeva la creazione di una «Agenzia ebraica» con il compito di
consigliare le autorità mandatarie e cooperare con loro in tutte le questioni riguardanti «l'istituzione di un focolare nazionale ebraico» in quella terra. La creazione dell'Agenzia fu affidata all'Organizzazione sionista, poi Organizzazione mondiale sionista, una federazione internazionale fondata da Theodor Herzl alla fine dell'Ottocento e in seguito presieduta da Chaim Weizmann. Negli anni Trenta l'Agenzia ebraica divenne in pratica una sorta di governo ufficioso dello Stato ebraico in gestazione. Vari partiti politici si contendevano la leadership dell'Agenzia ebraica e di altre organizzazioni. Il Mapai, la coalizione in cui David Ben Gurion aveva riunito le due maggiori formazioni social-laburiste, vi ebbe quasi sempre la maggioranza, soprattutto a partire dal 1935, quando Ben Gurion ne divenne il presidente. Il principale avversario politico del Mapai era l'Unione dei sionisti revisionisti di Zeev Jabotinsky, fondata nel 1925. La sua opposizione era così radicale che l'Unione uscì almeno una volta dall'Organizzazione sionista e da tutti gli altri organismi di governo durante i tumultuosi anni che precedettero la fondazione dello Stato di Israele, avvenuta nel 1948. Anche i revisionisti lottavano per assicurare agli ebrei il diritto a una patria in Palestina, ma osteggiavano la posizione ufficiale dell'Organizzazione sionista nei confronti dell'Inghilterra, che giudicavano troppo legalitaria, debole ed esitante. Rifiutavano inoltre l'etica socialista del Mapai, nella convinzione che gli investimenti privati fossero il mezzo più rapido per portare grandi masse di ebrei in Palestina a popolare lo Stato «massimalista», che avrebbe dovuto estendersi su entrambe le rive del Giordano. Il Betar era il movimento giovanile del partito revisionista ed erano i suoi militanti che ogni tanto strappavano la bandiera nazista dal tetto del consolato tedesco di Gerusalemme. Ma, a parte questi episodi marginali, i rapporti dello yishuv con la Germania nazista d'anteguerra furono normali. I due paesi erano collegati per posta e per telefono e avevano anche legami finanziari: molti ebrei tedeschi, cacciati dai posti di lavoro nel Reich, ricevevano regolarmente la pensione in Palestina. C'erano poi scambi commerciali e si poteva viaggiare da un paese all'altro per nave e, più raramente, con l'aereo. Alcuni ebrei tedeschi si recavano in Palestina per farsi un'idea della vita che vi si conduceva, prima di decidere se
trasferirvisi; altri andavano per affari e altri ancora in vacanza. Arrivarono anche alcuni alti burocrati tedeschi. Il ministro degli Interni hitleriano Wilhelm Frick, per esempio, trascorse la luna di miele a Gerusalemme. La comunità ebraica di Palestina aveva una stampa molto vivace, che seguiva le vicende tedesche desumendo per lo più le notizie dalle agenzie internazionali, ma a volte anche inviando propri corrispondenti in Germania. Nei mesi che precedettero l'ascesa del nazismo, i servizi da Berlino occuparono quasi costantemente le prime pagine dei giornali sionisti. Le informazioni non erano sempre precise, ma il quadro generale era abbastanza corretto. Il 31 gennaio 1933, il giorno dopo la nomina a cancelliere di Hitler, un quotidiano progressista, l'indipendente «Haaretz», denunciò «l'estrema gravità di questo evento storico» e dieci giorni dopo titolò: Giorni bui in Germania. Il giornale continuò a seguire da vicino «gli orrori antisemiti», ma in quei primi giorni la sua preoccupazione, come quella dei quotidiani inglesi, fu di rassicurare i lettori: «Si prevede che ora l'hitlerismo rinuncerà ai metodi terroristici, perché governare comporta un'assunzione di responsabilità». Anche il giornale di destra «Doar Hayom» era sulle stesse posizioni: «L'Hitler cancelliere sarà sicuramente diverso dall'Hitler dei raduni oceanici». Pessimista fin dal primo momento fu invece «Davar», il giornale di sinistra della Histadrut, la Confederazione del lavoro: «E' stato un giorno ben triste e sventurato quello in cui il nuovo vandalo è arrivato al potere» scriveva all'avvento del Terzo Reich, definendo Adolf Hitler l'uomo dell'odio e della demagogia, che avrebbe «estirpato gli ebrei». La stampa percepiva che nella lunga storia dell'antisemitismo, dal Medioevo al regime zarista russo, il nazismo rappresentava qualcosa di nuovo, ma non riusciva a metterne esattamente a fuoco la diversità. Hitler era cancelliere già da diverse settimane e un editorialista paragonava la Germania nazista al mondo primitivo del Libro della giungla di Kipling, mentre un altro definiva il nazionalsocialismo «un esempio plateale di psicosi di massa», di cui avrebbe dovuto occuparsi la psichiatria. Cominciavano però già in quei primi giorni a delinearsi le caratteristiche del dibattito che avrebbe lacerato lo yishuv: quale atteggiamento bisognava assumere nei confronti della Germania? Le risposte variavano a
seconda della posizione politica. «Hapoel Hatsair», il settimanale del Mapai, dichiarava: «La nostra lotta contro questo nemico ignobile e folle è una lotta contro un certo regime ... ma non è una lotta contro il popolo tedesco». La stampa di destra andava meno per il sottile: diciassette milioni di tedeschi, tanti sono quelli che hanno votato per Hitler, non sono una minoranza, affermò il leader revisionista Jabotinsky, mettendo così sotto accusa l'intera nazione. Poi c'era la posizione intermedia: il fatto che la maggioranza dei tedeschi appoggiasse Hitler, dichiarò «Haaretz», dimostrava soltanto che il nazionalismo più ottuso, rozzo e meschino aveva radici più profonde in Germania che altrove. Ma concludeva: «Neppure tutti gli Hitler del mondo possono radiare dalla storia tedesca i Kant, i Goethe e gli Schiller». Fu allora che questo giornale coniò le espressioni «l'altra Germania» e «la Germania diversa», che entrarono poi nel lessico della politica israeliana. L'ascesa del nazismo sembrò soprattutto confermare la visione sionista della storia. «Hapoel Hatsair» interpretava la persecuzione antisemita in Germania come «una punizione» degli ebrei che avevano tentato di integrarsi nella società tedesca, anziché emigrare in Palestina quand'era ancora possibile: ora potevano soltanto fuggire spinti dal panico, «come topi che scappano». Il foglio revisionista «Hazit Haam» fu anche più duro: «Gli ebrei tedeschi sono perseguitati non malgrado i loro sforzi per assimilarsi, ma proprio per essi». L'Olocausto sarebbe diventato in seguito la principale giustificazione per la creazione dello Stato di Israele e delle guerre per difenderne l'esistenza. I leader dello yishuv e i capi dei partiti politici seguirono con molta attenzione la crisi tedesca e ne colsero ben presto il significato. «I piani antiebraici di Hitler sono parte integrante della sua ideologia ed egli cercherà probabilmente di realizzarli» dichiarò Jabotinsky all'inizio del 1933. E due anni dopo scrisse: «La politica del Terzo Reich verso gli ebrei porta alla guerra di sterminio. C'è qualcosa di disumano nelle sue manifestazioni»." Nel 1934, dopo aver letto Mein Kampf, David Ben Gurion affermò: «La politica di Hitler è un pericolo per l'intero popolo ebraico». Tutti si chiedevano quali sarebbero state le conseguenze per lo yishuv delle persecuzioni in Germania. I giornali profetizzavano «lutti e rovine irreparabili» e definivano gli eventi di Berlino «una
danza macabra», ma prevedevano anche che «l'ora della sofferenza e dell'angoscia» avrebbe costituito un'occasione storica impareggiabile, perché avrebbe accelerato l'immigrazione. Ben Gurion sperava che la vittoria nazista diventasse «una forza fertile» per il sionismo. Lo scrittore e militante del Mapai Moshe Beilinson, di ritorno da una visita in Germania, riferì a Beri Katznelson, direttore di «Davar» e dirigente del Mapai: «Le strade sono lastricate di soldi, come non ci saremmo mai sognati nella storia della nostra impresa sionista. Si presenta un'occasione irripetibile per costruire e prosperare». Qualche mese dopo l'ascesa di Hitler, un alto dirigente sionista si recò a Berlino per negoziare con i nazisti, in quelle che venivano giudicate circostanze favorevoli, l'immigrazione in Palestina degli ebrei tedeschi e il trasferimento dei loro beni. L'uomo era Arthur Ruppin, uno dei fondatori di Tel Aviv e fra le personalità più prestigiose del movimento sionista; economista e giurista, era nato in Russia cinquantasette anni prima, ma viveva in Palestina da venticinque. Ruppin arrivò a Berlino nell'estate del 1933. Migliaia di ebrei tedeschi erano già stati espulsi dai luoghi di lavoro: impiegati statali, insegnanti, docenti universitari, medici, avvocati e giudici. I picchiatori delle SA, le truppe d'assalto naziste, sostavano davanti ai negozi degli ebrei con aria minacciosa, ogni tanto aggredivano qualche ebreo per strada e bruciavano nelle pubbliche piazze i libri di autori ebrei. Erano già stati aperti i primi campi di concentramento, di cui uno vicino a Berlino. Benché la Germania vivesse sotto il regno del terrore, Ruppin non scorse segni visibili della rivoluzione nazista. «Se non avessi saputo dai giornali e dai contatti personali com'era peggiorata la situazione economica e politica degli ebrei in seguito ai decreti del governo, non me ne sarei affatto accorto per strada, perlomeno non a Berlino» annotò nel diario. 181 negozi ebraici erano aperti e lungo il Kurfurstendamm, l'elegante viale nel centro della città, i caffè accoglievano ancora i clienti ebrei e li servivano come sempre. Georg Landauer, esponente dell'Agenzia ebraica ed ex leader del movimento sionista in Germania, suggerì a Ruppin di recarsi a Jena, la famosa città universitaria patria di Schiller, Hegel e di altri grandi intellettuali tedeschi, per incontrare Hans F.K. Gùnther, uno dei massimi teorici del razzismo nazista. Ruppin, che
aveva effettuato alcuni studi sulle origini della «razza ebraica», alla ricerca in particolare di un eventuale nesso fra l'aspetto fisico e le caratteristiche mentali degli ebrei, accolse il suggerimento. Ebbe con Gùnther un colloquio di due ore, nel corso del quale questi negò di essere l'ideatore della dottrina della razza ariana: gli ebrei non erano inferiori agli ariani, disse a Ruppin, erano soltanto diversi. Bisognava dunque trovare «una soluzione equa» al problema ebraico. Il professore fu molto cordiale, annotò soddisfatto Ruppin. Altrettanto cordiale gli sembrò l'accoglienza che gli riservarono due ministri nazisti, quello degli Esteri e quello delle Finanze. Nel pomeriggio del 7 agosto 1933 negoziò con il ministero delle Finanze il seguente accordo: ogni ebreo che fosse emigrato in Palestina avrebbe potuto portare con sé 1000 sterline (circa 4000 dollari) in valuta estera e merci per il valore di 20.000 marchi tedeschi (circa 5000 dollari), o anche più. Tutte le transazioni sarebbero state svolte da società fiduciarie ebraico-tedesche. Le 1000 sterline erano la cifra minima che la Gran Bretagna richiedeva per concedere il permesso di trasferirsi in Palestina in qualità di «capitalista», com'era chiamata questa categoria di immigranti. A quell'epoca era una somma considerevole: una famiglia di quattro persone poteva vivere agiatamente con meno di 300 sterline all'anno. L'accordo sulla haavarah, «il trasferimento» - così chiamato anche nei documenti nazisti, era il frutto della complementarità fra gli interessi del governo nazista e quelli del movimento sionista: il primo voleva cacciare gli ebrei dalla Germania, il secondo voleva accoglierli in Palestina. Ma i desideri dei sionisti non coincidevano con quelli degli ebrei tedeschi, la maggior parte dei quali avrebbe preferito restare nel proprio paese. Il contrasto fra gli interessi dello yishuv (in seguito Stato di Israele) e quelli dell'ebraismo mondiale avrebbe avuto un ruolo determinante nell'atteggiamento assunto dagli israeliani nei confronti dell'Olocausto. Non si sa chi sia stato il primo a suggerire di negoziare con il Terzo Reich un accordo sull'emigrazione degli ebrei in Palestina e il trasferimento dei loro beni. Certo è che la proposta non era nuova. Già Theodor Herzl, nel suo libro Lo Stato ebraico, aveva consigliato qualcosa del genere. Pare comunque che l'idea l'abbiano avuta simultaneamente in parecchi. Uno di questi era Sam Cohen, nativo di Lòdz, in Polonia,
che si era stabilito a Berlino e aveva accumulato una tale fortuna in campo immobiliare da diventare socio di una piccola banca e di una miniera di carbone. Possedeva anche un castello. Quest'uomo d'affari agguerrito, metà avventuriero e metà filantropo, aveva acquistato grandi appezzamenti di terreno in Palestina e fondato una società, la Hanotea (il Piantatore), che affittava i campi ai nuovi coloni. Quando i nazisti salirono al potere, Cohen pensò che se si fossero potuti trasferire in Palestina i beni degli ebrei sotto forma di merci, ne avrebbero tratto giovamento sia gli interessi sionisti, con l'incremento dell'immigrazione e dei capitali in Palestina, sia quelli della Hanotea, attraverso le vendite e le commissioni. Cohen, che aveva buone entrature a Berlino, si era procurato i primi permessi per fare emigrare come «capitalisti» gli ebrei tedeschi. Presumibilmente la Hanotea sarebbe riuscita a trasferire anche le loro proprietà. Sembrava un buon affare per tutti. Alla haavarah pensò pure Haim Arlosoroff, direttore dell'ufficio politico dell'Agenzia ebraica, che arrivò a Berlino nel giugno del 1933 con la speranza di intavolare negoziati con i nazisti, probabilmente ignorando l'accordo di Cohen. Del resto, anche Arlosoroff si muoveva con molta segretezza. La stessa soluzione la propose Felix Rosenblùth, avvocato ed ex leader del sionismo tedesco, conversando con alcuni dirigenti sionisti appena giunti dalla Germania, fra cui Arthur Ruppin. Le diverse iniziative, non coordinate, si misero in moto nel 1933 e proseguirono per diversi mesi. Hans Hartenstein, responsabile della valuta estera presso il ministero delle Finanze tedesco, fu stupito di scoprire che gli ebrei seduti intorno allo stesso tavolo non rappresentavano interessi comuni, ma erano in competizione fra loro e rischiavano di far saltare l'accordo. I dirigenti dell'Agenzia ebraica volevano impedire all'imprenditore privato Cohen di assumere il monopolio dell'operazione, anche perché ritenevano la sua Hanotea una filiazione del partito revisionista. Proposero perciò che a condurre la haavarah fosse la Yachin, una compagnia che faceva parte della Histadrut ed era rappresentata a Berlino da Levi Shkolnik, il futuro premier Levi EshkoL. Per impedire il fallimento dei negoziati fu necessario l'intervento del console tedesco a Gerusalemme, Heinrich Wolff (sostituito di lì a poco perché sposato con un'ebrea).
Il console, però, non potè far molto, perché pare che Cohen l'avesse corrotto e che l'Agenzia ebraica lo ricattasse. Ad avere la meglio furono infine l'Agenzia e Ruppin, ma Cohen, la Histadrut, il Mapai e il Jewish National Fund (la branca dell'Organizzazione sionista che si occupava dell'acquisto e della bonifica delle terre incolte) ricevettero ciascuno la propria parte e impiegarono una percentuale dei profitti nell'acquisto di terreni per gli insediamenti ebraici. (La haavarah ebbe varie fasi, in alcune delle quali furono coinvolti anche quattro futuri primi ministri. David Ben Gurion e Moshe Shertok (poi Sharett) si batterono a favore dell'accordo nei congressi sionisti e nel direttivo dell'Agenzia ebraica. Golda Meyerson (poi Meir) ne prese le difese a New York. Menahem Begin si schierò invece con Zeev Jabotinsky quando questi si oppose.) Le clausole dell'accordo subirono piccole modifiche nel corso degli anni, ma nel complesso la haavarah operò attraverso società fiduciarie in Germania e in Palestina. Gli emigranti, prima di lasciare il paese, depositavano i propri averi presso la compagnia tedesca, che con il denaro pagava i fornitori tedeschi di merci destinate alla Palestina. I clienti che dalla Palestina ordinavano merci in Germania effettuavano i pagamenti tramite una fiduciaria locale, che restituiva il denaro agli ebrei arrivati nel frattempo dalla Germania. Era un sistema complesso, che richiedeva competenze finanziarie, sottigliezza giuridica e una grande quantità di lavoro burocratico e di pazienza. L'accordo conveniva a tutte le parti interessate: i nazisti si liberavano degli ebrei, incrementavano le esportazioni e, pur non incassando valuta pregiata, aggiravano il boicottaggio proclamato da diverse organizzazioni ebraiche, soprattutto americane. Il movimento sionista reclutava coloni fra persone che, se non avessero avuto la possibilità di trasferire i loro capitali, forse non sarebbero mai andate a vivere in Palestina. Gli emigranti, a loro volta, potevano portare via dalla Germania una quantità di beni superiore a ogni più rosea speranza. Soltanto con il tempo capirono che a quell'accordo dovevano anche la vita. Il sistema della haavarah continuò a funzionare sotto varie forme fino alla metà della seconda guerra mondiale. Se ne giovarono circa 20.000 ebrei, che trasferirono dalla Germania in Palestina quasi 30 milioni di dollari. Non era una grande cifra neppure a quell'epoca, ma
sicuramente servì a dare impulso all'economia del paese e all'impresa sionista. Una volta arrivati in Palestina, gli immigrati dovevano attendere a lungo per riavere il denaro, a volte anche due o tre anni, e ci rimettevano circa il 35 per cento del capitale, ma ne avrebbero perso molto di più, così almeno sostenevano gli organizzatori della haavarah, se avessero svolto le stesse operazioni seguendo altre vie legali. La haavarah, tuttavia, era un patto con il diavolo e suscitò discussioni e scontri molto aspri, che videro fronteggiarsi i dirigenti nazionali di sinistra e l'opposizione di destra (la cui retorica non doveva sottostare alla prova dei fatti); l'attivismo pragmatico e il populismo emotivo; la necessità di salvare gli ebrei e costruire gli insediamenti e il desiderio di difendere l'onore nazionale; gli interessi sionisti in Terra di Israele e la solidarietà ebraica mondiale. Nessun'altra questione provocò a quell'epoca lacerazioni altrettanto profonde, disse Ben Gurion. La haavarah fu al centro di tutte le lotte per il prestigio e la supremazia ideologica, tutti gli intrighi e le accuse, le minacce, gli inganni, l'ostruzionismo, i ricatti, le estorsioni e persino un omicidio, che segnarono la vita pubblica israeliana per cinquant'anni. A quell'epoca la strategia sionista in Palestina era fortemente influenzata dalle correnti ideologiche europee di destra e di sinistra. Quasi tutti gli articoli dei giornali di sinistra dedicati all'ascesa del nazismo erano improntati alla solidarietà socialdemocratica e ai timori ispirati dalla caduta della Repubblica di Weimar. Il settimanale «Hapoel Hatsair», per esempio, non si concentrava soltanto sui pericoli che minacciavano gli ebrei, ma definiva il nazismo «la più bieca reazione, che avrebbe riportato la Germania ai tempi più bui del Medioevo». La destra revisionista, invece, vedeva di buon occhio il fascismo mussoliniano e persino il nazismo hitleriano, a eccezione, ovviamente, del suo antisemitismo. Il Betar, il movimento giovanile di Jabotinsky, coltivava idee e modelli parafascisti. Nel 1928 Abba Ahimeir, un noto giornalista revisionista che teneva su «Doar Hayom» una rubrica intitolata «Taccuino di un fascista», annunciò così l'imminente visita di Jabotinsky in Palestina: «L'arrivo del nostro Duce». Quattro anni dopo, e precisamente nel 1932, Ahimeir fu processato insieme ad altri per avere interrotto una conferenza all'Università ebraica.
L'episodio, di per sé marginale, è però interessante per un aspetto. L'avvocato difensore, Zvi Eliahu Cohen, in risposta all'arringa dell'accusa, che aveva paragonato il gesto ad analoghe azioni di disturbo compiute in Germania dai nazisti, affermò: «Le critiche ai nazisti hanno passato il segno: se non fosse per l'antisemitismo, noi non avremmo nulla contro l'ideologia di Hitler. Il Fùhrer ha salvato la Germania». Non si trattava di uno sfogo incontrollato: il giornale revisionista «Hazit Haam» elogiò il «brillante discorso» di Cohen. Quando si trattava di scegliere fra i nazisti e i comunisti, la stampa conservatrice in Palestina non aveva dubbi con chi schierarsi. Ahimeir aveva salutato la nomina a cancelliere del Fùhrer con un articolo in cui accostava Hitler ad altri «magnifici personaggi»: Mustafa Kemal Atatùrk, Jòzef Pitsudski, Eamon de Valera e Benito Mussolini. «Hitler non ha ancora fatto tanti danni quanto Stalin» sosteneva «Hazit Haam» qualche settimana dopo il passaggio dei poteri in Germania. Il giornale ci teneva a distinguere l'atteggiamento dei revisionisti nei confronti del nazismo da quello della sinistra sionista: «I socialdemocratici d'ogni specie ritengono che il movimento hitleriano sia un guscio vuoto, noi invece siamo convinti che dentro il guscio ci sia anche il gheriglio. Bisogna buttar via la scorza antisemitica, ma non il nocciolo antimarxista». In conclusione, i revisionisti avrebbero avversato i nazisti per il loro antisemitismo, ma non per altro. Jabotinsky, però, era meno entusiasta di alcuni suoi seguaci. Criticò aspramente la redazione di «Hazit Haam» e definì gli articoli su Hitler «una coltellata alla schiena», «una vergogna», «una forma di prostituzione verbale», ordinando che simili affermazioni non comparissero mai più sul giornale. La distinzione fra guscio e gheriglio fu ben presto abbandonata anche dalla stampa conservatrice. La haavarah costituì, nell'estate del 1933, l'argomento principale della campagna per l'elezione dei rappresentanti al XVIII Congresso sionista. I revisionisti rifiutavano qualsiasi contatto con la Germania nazista, considerandolo lesivo dell'onore degli ebrei: Jabotinsky definì l'accordo «ignobile, vergognoso e spregevole». La stampa revisionista tacciava ora l'Organizzazione sionista e l'Agenzia ebraica di essere «alleati di Hitler»; accusava i loro dirigenti di avere «calpestato l'onore ebraico, la coscienza ebraica, l'etica
ebraica... personaggi loschi, che lucrano sulle disgrazie degli ebrei e della Terra di Israele ... personaggi equivoci che si sono assunti il ruolo di agenti di Hitler in Palestina e in tutto il vicino Oriente ... traditori ... mistificatori che sbavano per il regime hitleriano». Per i dirigenti sionisti non fu facile trovare argomenti con cui controbattere all'opposizione tutta emotiva dei revisionisti. L'esecutivo del Mapai, che era su posizioni più moderate di gran parte della base, cercò, come avrebbe fatto più volte in futuro, di non entrare nei dettagli riguardo ai negoziati sulla haavarah, ma le indicazioni della stampa lo costrinsero a cambiare strategia. Nella lotta spietata fra la destra e la sinistra, i leader dei vari partiti insultavano spesso gli avversari chiamandoli «nazisti». Il nome di Hitler finì per diventare nella coscienza collettiva non soltanto un pericolo, ma anche un'ingiuria buona per tutte le occasioni. Il 14 settembre 1930, giorno in cui si tennero le elezioni per il quinto Reichstag, all'indomani delle quali i nazisti divennero il secondo partito al Parlamento di Weimar, David Ben Gurion era a Berlino per una conferenza. In una lettera del 15 scrisse che «la schiacciante vittoria dei "revisionisti tedeschi" era andata al di là delle previsioni più fosche». Leggendo il giornale del partito nazista gli era sembrato di leggere le parole di Zeev Jabotinsky in «Doar Hayom»: «le stesse cose, lo stesso stile, e lo stesso spirito». Quell'anno il leader sionista Chaim Weizmann, che fu poi il primo presidente di Israele, tuonò contro l'isteria politica di «stampo hitleriano» e affermò che il revisionismo ricordava «l'hitlerismo nella sua forma peggiore». L'anno prima il direttore del settimanale del Mapai aveva definito i revisionisti «bambini che si trastullano con la svastica ebraica». Jabotinsky restituì di lì a poco il complimento, soprannominando il Mapai «la svastica rossa». In un comizio a Tel Aviv due mesi dopo l'ascesa di Hitler, Ben Gurion chiamò Jabotinsky, il cui vero nome era Vladimir, «Vladimir Hitler». Lo scambio di contumelie proseguì per tutta la durata del Terzo Reich e negli anni successivi. Anche quando l'Olocausto era ormai noto da tempo in tutti i suoi agghiaccianti particolari. Ben Gurion continuò a paragonare Menahem Begin a Hitler. Beri Katznelson, invece, disapprovava recisamente l'accostamento fra revisionisti e nazisti. ma le indicazioni della stampa lo costrinsero a cambiare strategia. I
leader si giustificarono con molto pragmatismo, senza ammantare di gloria le loro proposte, né appellarsi all'orgoglio nazionale. Parlarono di obiettivi realistici, di cose possibili, fattibili. Ai revisionisti però rammentarono, nel caso se ne fossero dimenticati, che Jabotinsky aveva trattato con il governo anticomunista di Simon Petijura per istituire una polizia ebraica, benché i seguaci di Petijura avessero massacrato gli ebrei ucraini. E non mancarono neppure di citare le parole del loro leader, il quale aveva affermato che per la Terra di Israele sarebbe stato pronto a firmare un patto anche con il diavolo. Ben Gurion suggerì al Mapai di pubblicare un libretto con tutte le clausole dell'accordo fra la Hanotea revisionista e le autorità tedesche, per smascherare l'ipocrisia delle denunce contro la haavarah. Nella fase più accesa della campagna per l'elezione del XVIII Congresso sionista il giornale revisionista «Hazit Haam» scrisse che l'onore, i diritti, la sicurezza e la posizione nel mondo della nazione ebraica «erano stati svenduti a Hitler per un piatto di lenticchie», senza condizioni e senza contropartite. Ma il popolo ebraico, ammoniva, «saprà rispondere a questo atto odioso». Fra i reprobi accusati di aver preso parte all'accordo c'era anche Haim Arlosoroff. Era il 16 giugno 1933. Quel giorno Arlosoroff, che era appena tornato dalla Germania dov'era stato impegnato nei negoziati per la haavarah, pranzò con l'alto commissario britannico per la Palestina, Sir Arthur Wauchope. Alla sera, mentre passeggiava con la moglie sul lungomare di Tel Aviv, gli si accostarono due uomini. Uno gli puntò in faccia una torcia, l'altro estrasse la pistola e fece fuoco. Arlosoroff fu trasportato d'urgenza all'ospedale Hadassah e spirò sotto i ferri poco dopo la mezzanotte. Il Mapai accusò dell'assassinio i revisionisti e la morte di Arlosoroff avvelenò i rapporti fra i due partiti per molti anni.' I revisionisti sostenevano che non solo non bisognava trattare con la Germania, (Note: Una delle decisioni più strane prese dall'amministrazione Begin fu di nominare, nel 1982, una commissione d'inchiesta per stabilire quale fondamento avesse l'accusa, lanciata per l'ennesima volta dal biografo di Ben Gurion, Shabtai Teveth, secondo cui all'attentato contro Arlosoroff avevano partecipato due militanti del movimento revisionista. La commissione decretò che i due uomini
non erano né esecutori, né complici del delitto, ma affermò nello stesso tempo che non c'erano prove sufficienti per identificare gli attentatori e stabilire se si fosse trattato di un omicidio politico. Il mistero restò quindi insoluto.) ma bisognava bandirla dalla famiglia delle nazioni e isolarla sul piano economico e diplomatico. L'appello al boicottaggio l'avevano lanciato gli ebrei d'America: era un progetto bellicoso e orgoglioso, che non aveva tuttavia alcuna possibilità di incidere sul regime hitleriano. I nazisti, però, che temevano la capacità degli ebrei di danneggiarli, non lo sottovalutarono. Minacciarono di morte i leader ebraici statunitensi e organizzarono una giornata di controboicottaggio dei negozi gestiti dagli ebrei in Germania. Accelerarono anche le trattative per la haavarah allo scopo di creare una spaccatura all'interno del mondo ebraico fra i sostenitori dell'accordo e i sostenitori del boicottaggio. E raggiunsero il loro obiettivo. Il Congresso sionista, che si riunì a Praga nel mese di agosto del 1933, pur aggiornandosi, approvò di fatto la strategia della haavarah; ciononostante molti delegati si recarono a Ginevra per partecipare alla Conferenza internazionale ebraica convocata dal rabbino Stephen Wise dell'American Jewish Congress allo scopo di preparare il piano di boicottaggio della Germania. I fautori del boicottaggio speravano di costringere i nazisti a interrompere le persecuzioni antisemite e permettere così agli ebrei di continuare a vivere in Germania; Ben Gurion e i suoi compagni volevano invece portare gli ebrei in Palestina e nella haavarah scorgevano un mezzo per raggiungere tale obiettivo. Anche in Palestina si discuteva. «Cosa vi è preso a tutti?» scattò Ben Gurion quando, a una seduta del Vaad Leumi, qualcuno contestò la haavarah. «Avete perso il lume della ragione?» Dov'erano andati a finire il pragmatismo e il buon senso del giudaismo? domandò Ben Gurion. Il Consiglio voleva forse dare una mano a Hitler? Interrogativi analoghi, a volte addirittura identici, sarebbero riecheggiati molti anni dopo in occasione degli accordi fra Israele e la Repubblica federale tedesca sulle riparazioni di guerra. Ben Gurion tenne un discorso appassionato: bisognava correre in aiuto degli ebrei tedeschi, «una
delle tribù d'Israele», e trasferirli in Palestina, anziché prendere iniziative contro Hitler, perché «noi non siamo in grado di rovesciarlo e a me interessa salvare quei 500.000 ebrei». Nel dibattito fra salvataggio e boicottaggio Ben Gurion vedeva il dibattito fra sionismo e assimilazione, fra gli interessi nazionali delle colonie ebraiche in Palestina e la guerra internazionale contro l'antisemitismo. Il postulato implicito nelle sue parole era che la guerra contro l'antisemitismo non rientrava nella missione sionista. «La differenza fra l'Esilio e Sion, è che l'Esilio nella sua lotta per l'esistenza si propone di sconfiggere lo spietato Aman Ester nel paese in cui si trova» spiegava un noto commentatore, Yehoshua Radler-Feldman, che si firmava con lo pseudonimo di Rabbi Benyamin. L'Esilio, continuava, «vuole che gli ebrei restino in Germania a dispetto di tutte le difficoltà, le persecuzioni e le vittime. ... Sion vuole sradicarli. Se ne lava le mani della guerra contro Aman, che considera un'impresa di Sisifo, e concentra tutte le sue energie sull'immigrazione legale e illegale, nonostante l'angoscia e i sacrifici di cui è costellata la strada che porta a Sion». In ogni ebreo, diceva Ben Gurion, c'erano un sionista e un assimilazionista. La lotta fra i due «era la questione morale e nazionale più urgente» che l'ebraismo doveva affrontare in quel momento. «Gli assimilazionisti hanno sempre dichiarato guerra all'antisemitismo» affermò. Ora la loro guerra assume la forma del «boicottaggio» di Hitler. Il sionismo ha sempre propugnato l'indipendenza del popolo ebraico nella sua Terra. Adesso alcuni sionisti si sono uniti al coro degli assimilazionisti: «guerra» all'antisemitismo. Ma noi dobbiamo dare una risposta sionista alla catastrofe che incombe sull'ebraismo tedesco, così da trasformarla in un'opportunità di sviluppo per il nostro paese, salvando la vita e i beni degli ebrei tedeschi nel nome di Sion. E' questo salvataggio che ha la precedenza su tutto il resto. Impegnarsi in quel momento nel boicottaggio, concludeva Ben Gurion, significava andare incontro a uno «scacco morale» di proporzioni inusitate. Le affermazioni di Ben Gurion sollevarono aspre polemiche. «La sinistra non sarebbe così entusiasta se le istituzioni legate al Mapai non traessero benefici [dalla haavarah}» si risentiva «Doar Hayom». Il conservatore «Haboker», più moderato, definiva «insulso e banale» il discorso di Ben Gurion,
irresponsabile e offensivo a un tempo. Ci sarebbero sempre stati ebrei in paesi diversi dalla Palestina, proseguiva il giornale, e chiamarli «assimilazionisti» significava fare della «bieca demagogia». Non tutti i dirigenti sionisti condividevano le idee di Ben Gurion. Alcuni esponenti dell'Agenzia ebraica sostenevano che l'accordo con i tedeschi avrebbe potuto spingere i polacchi ad aggredire gli ebrei. Yitzhak Gruenbaum, che faceva parte dell'esecutivo ed era stato uno dei leader della comunità ebraica in Polonia, chiedeva di interrompere le trattative per la haavarah: «Dobbiamo passare alla guerra aperta contro la Germania nazista, senza preoccuparci del destino degli ebrei in quel paese» affermò. E lanciò la proposta di «fracassare i vetri di tutte le ambasciate tedesche» e di organizzare grandi cortei di protesta. Sapeva che «naturalmente gli ebrei tedeschi pagheranno per questo, ma non ci resta altro da fare. Se non agiremo ora, domani gli ebrei della Polonia e della Romania subiranno la stessa sorte toccata oggi agli ebrei della Germania». Gruenbaum era anche contrario a incrementare gli insediamenti: «Avremo bisogno dell'Esilio per almeno altri cinquant'anni» dichiarò. E ammonì i colleghi a non incoraggiare la fuga degli ebrei dai paesi di residenza: «Una nazione che scappa non può costruire una patria». Altri leader dell'Agenzia ebraica sostenevano invece che non esisteva alcuna contraddizione fra il boicottaggio e la politica della haavarah: entrambi svolgevano un ruolo all'interno di un'unica strategia. Era una posizione a dir poco illogica. Ben Gurion aveva ragione: il movimento per il boicottaggio era chiaramente l'espressione del tentativo piuttosto patetico di preservare i diritti degli ebrei nei luoghi in cui risiedevano, compresa la Germania nazista. Ben Gurion difese la propria tesi con asprezza, pronunciando parole che in futuro gli sarebbero state più volte rinfacciate dagli antisionisti: «Se sapessi di poter salvare tutti i bambini della Germania portandoli in Inghilterra o soltanto metà di loro portandoli in Palestina, opterei per la seconda soluzione, perché noi non dobbiamo considerare soltanto il destino di quei bambini, ma di tutto il popolo ebraico». Dopo i pogrom della «Notte dei cristalli» Ben Gurion, temendo che «la coscienza umana» potesse spingere alcuni paesi ad aprire le porte agli ebrei tedeschi, ammonì: «Il sionismo è in pericolo». Il
dibattito sull'accordo della haavarah provocò dunque nello yishuv un esame di coscienza collettivo e una profonda crisi di identità. Chi siamo? si chiedevano gli ebrei di Palestina. Siamo esseri umani, ebrei o sionisti? Quali sono i nostri privilegi e quali i nostri doveri? E per rispondere, tutti cercavano giustificazioni alle proprie tesi nel passato dell'ebraismo. Il quotidiano «Haboker» scrisse: «La storia racconterà sempre con orgoglio e ammirazione le vicende di una donna straordinaria. Dona Gracia Mendes, che nel XVI secolo organizzò il boicottaggio dei nemici del popolo ebraico. Se ora potesse sentire i discorsi di personaggi come David Ben Gurion, arrossirebbe di vergogna». Ma non tutti la pensavano così: perché non negoziare con Adolf Hitler se questo significava salvare gli ebrei tedeschi e portarli in Palestina? Mosè aveva forse esitato a trattare con il faraone per liberare dall'Egitto i figli di Israele? A vincere, in questa lotta per il controllo del movimento sionista, furono i sostenitori della haavarah. Il Congresso di Lucerna del 1935 boicottaggio. L'accordo sulla haavarah fu una boccata d'ossigeno per l'Agenzia ebraica, ormai sull'orlo della bancarotta, ma non si trattò di una vittoria incruenta. Lo yishuv si trovò isolato: le sue posizioni nei confronti del nazismo non erano condivise dal resto del mondo ebraico. I pragmatisti rimasero tuttavia convinti che fosse più utile trattare, che il boicottaggio della Germania non avrebbe giovato agli interessi dello yishuv. I loro leader cercarono perciò di mantenere relazioni il più possibile normali con il Terzo Reich. Due mesi dopo l'ascesa di Hitler, l'esecutivo dell'Agenzia ebraica inviò un telegramma a Berlino per assicurare che lo yishuv non partecipava al boicottaggio. Certo, il messaggio era stato sollecitato dagli ebrei tedeschi nella speranza di evitare altre (Nota: Shabtai Teveth, il biografo di Ben Gurion, ha fatto il possibile per proporre un'interpretazione più benevola delle parole del leader sionista. Ha ricordato che due anni prima aveva detto il contrario; che era nel suo stile oratorio ricorrere a iperboli, esporre le idee in maniera paradossale; che sapeva di non avere alcuna possibilità di portare in salvo quei bambini, né in Palestina né in Inghilterra; che non intendeva dare alla sua frase l'atroce connotazione che le avrebbero conferito gli eventi futuri. Voleva
soltanto dire che la Palestina costituiva l'unica strada possibile per la liberazione degli ebrei. E comunque, conclude il biografo, la condizione imprescindibile della haavarah era che gli ebrei andassero in Palestina.) persecuzioni, ma rientrava anche nella strategia dell'Agenzia, che cercava di mantenere aperti i canali di comunicazione con il governo nazista. Menahem Begin rivelò negli anni Sessanta che l'Organizzazione sionista aveva inviato a Hitler un telegramma di condoglianze per la morte del presidente Hindenburg. Nel corso degli anni ci furono altri contatti con i nazisti. L'Agenzia ebraica continuò a tenere i suoi agenti per l'immigrazione nella Berlino nazista con il consenso delle autorità tedesche. Uno di questi era Georg Landauer, munito di una lettera in tedesco con l'autorizzazione dell'Agenzia ebraica a condurre trattative con il Terzo Reich per la formazione professionale di aspiranti immigrati e per il trasferimento dei loro capitali in Palestina. Il documento era firmato da Arthur Ruppin e David Ben Gurion. I sionisti intrattenevano anche relazioni pubbliche con la Germania nazista. Nella primavera del 1933 invitarono il barone Leopold Itz von Mildenstein, ingegnere e giornalista di origini austriache, fra i primi a aderire alle SS, a recarsi in Palestina con la moglie per scrivere una serie di articoli da pubblicare sul giornale di Joseph Goebbels, «Angriff». I Mildenstein giunsero accompagnati da Kurt Tuchler e signora. Tuchler era membro dell'Organizzazione sionista berlinese ed era incaricato delle relazioni con il partito nazista. «Con questa visita» ricordò in seguito «ci proponevamo di creare, tramite un importante giornale nazista, un clima favorevole agli insediamenti sionisti in Palestina» con la piena approvazione, a suo dire, delle «autorità» sioniste. L'obiettivo fu centrato in pieno: Mildenstein percorse il paese da un capo all'altro, incontrò molti arabi ed ebrei e fu ospite di diversi kibbutz, ricavandone un'ottima impressione. I suoi articoli, pubblicati in una rubrica intitolata «Un nazista visita la Palestina», trasudavano simpatia per il sionismo. «Angriff» attribuiva alle corrispondenze del barone molta importanza, tanto che per ricordarne il viaggio coniò una medaglia: su una faccia c'era la croce uncinata, sull'altra la stella di Davide. Mentre era in
Palestina, Mildenstein registrò diversi canti popolari ebraici, che portò con sé in Germania. Un giorno, entrando nel quartier generale della Gestapo, Tuchler fu accolto proprio da uno di questi canti. Mildenstein non si limitò a promuovere la causa del sionismo fra l'opinione pubblica tedesca, ma passò di tanto in tanto qualche preziosa informazione a Tuchler, con il quale mantenne i contatti anche dopo che la sua famiglia si era trasferita in Palestina. Tutti gli anni inviava gli auguri in ebraico per Rosh ha-Shanah, il Capodanno ebraico. Mildenstein dirigeva a quell'epoca l'Ufficio per gli affari ebraici e aveva come collaboratore l'uomo che ne avrebbe preso il posto: Adolf Eichmann. Nel 1937 anche Eichmann partì per la Palestina, ma gli inglesi lo fermarono e gli concessero soltanto un visto di transito, valido per un'unica notte a Haifa. Allora egli proseguì per il Cairo e chiese a un ebreo di Gerusalemme, un certo Feibi Folkes, di raggiungerlo. Dal rapporto che Eichmann scrisse sul viaggio e dai verbali del suo interrogatorio da parte della polizia israeliana si intuisce che Folkes lavorava per la Haganah e contemporaneamente faceva la spia per i nazisti. Con Eichmann si era incontrato anche a Berlino. Ai nazisti forniva per lo più valutazioni politiche ed economiche piuttosto generiche. Folkes, riferì Eichmann durante il processo, gli aveva detto che i leader sionisti erano contenti della persecuzione degli ebrei in Germania perché così si incrementava l'immigrazione in Palestina. Durante il loro incontro al caffè Groppi del Cairo Eichmann chiese a Folkes informazioni sull'inserimento degli ebrei tedeschi in Palestina. Nel 1938, dopo l'Anschluss, Eichmann divenne il responsabile dell'Ufficio per gli affari ebraici in Austria e in questo nuovo ruolo ebbe svariati incontri con rappresentanti delle comunità ebraiche e con delegati sionisti, fra cui Teddy Kollek, che fu poi uno dei più stretti collaboratori di Ben Gurion e sindaco di Gerusalemme. Kollek andò a Vienna, dove era nato, nella primavera del 1939 e si recò nell'ufficio di Eichmann, situato in un'ala di palazzo Rothschild. E' difficile stabilire con esattezza quale sia stato il ruolo di Folkes nella Haganah, ammesso che ne abbia avuto uno. Folkes ha sempre sostenuto di non essere una spia, e di aver incontrato Eichmann e i suoi collaboratori per affari e di propria iniziativa. Negli archivi della Haganah figura una nota scritta da Shaul Avigur, uno dei capi
dell'esercito clandestino, a Yehuda Slotzki, lo storico ufficiale dell'organizzazione: le indagini condotte con la collaborazione dei servizi di sicurezza israeliani, afferma Avigur, hanno dimostrato che rincontro Folkes-Eichmann è stato «un episodio passeggero e privo di importanza». «Non ero mai entrato nella residenza dei Rothschild» raccontò Kollek in seguito. «Attraversai un grande salone, molto elegante, con le pareti rivestite di legno, ed ecco laggiù in fondo, dietro una scrivania, un giovane ben vestito, perfettamente rasato, con l'uniforme nera e la svastica sul braccio. Aveva l'aria di un piccolo burocrate, non aggressivo, né grossolano o scortese. Però mi fece rimanere in piedi per tutto il colloquio.» Kollek informò Eichmann di avere ottenuto il visto d'ingresso in Inghilterra per alcuni giovani ebrei che si trovavano in quel momento in un campo di addestramento all'agricoltura. Chiese l'autorizzazione a farli partire dall'Austria con destinazione finale la Palestina. «Eichmann venne subito al sodo e mi pose alcune domande di tipo tecnico.» Voleva sapere, scrive Kollek, «quanti visti per l'Inghilterra potevo fornire, quando era prevista la partenza, se i visti erano per giovani di entrambi i sessi». Eichmann firmò l'autorizzazione in pochi minuti e congedò Kollek. «Non mi ha fatto una grande impressione» conclude Kollek, che rivide Eichmann soltanto ventun anni dopo, quando ebbe l'incarico di preparare le carte per il processo di Gerusalemme. Alla vigilia della guerra, mancava meno di un mese, alcuni rappresentanti dell'Agenzia ebraica erano ancora in trattative con Eichmann per ottenere il permesso di espatrio dal porto di Amburgo di diecimila ebrei. Quella partenza non avvenne mai. Anche altri dirigenti sionisti ebbero contatti con la Gestapo e con il suo comandante supremo, Rudolf Diels. Non ottennero grandi risultati, ma riuscirono a liberare qualche prigioniero e a facilitare il compito dell'Organizzazione centrale degli ebrei tedeschi, che era stata istituita per ordine dei nazisti e includeva anche alcuni sionisti. A volte si sfruttarono le vecchie conoscenze di prima del nazismo, spesso ex compagni di scuola: Haim Arlosoroff dell'Agenzia ebraica, per esempio, prese in considerazione l'idea di rivolgersi a Magda Friedlànder, la moglie di Goebbels, che aveva frequentato il suo stesso istituto. Per quanto possa sembrare paradossale, anche i
revisionisti ebbero parecchi contatti con i nazisti. Cinque o sei mesi prima dell'ascesa di Hitler al potere, il direttivo del loro movimento giovanile, il Betar, che era attivo a Berlino e in diverse altre città tedesche, distribuì ai suoi militanti una serie di consigli ispirati al buon senso e alla cautela. Bisognava trattare i nazisti con gentilezza e riserbo, i militanti dovevano tenere un contegno pubblico corretto, evitare le discussioni e le critiche, e non pronunciare mai parole che potessero suonare offensive per il popolo tedesco, le sue istituzioni e l'ideologia dominante. I nazisti permisero al Betar di continuare a svolgere le sue attività: riunioni, congressi, campeggi estivi, escursioni, sport, vela e lavoro nei campi. Gli iscritti potevano indossare la loro divisa con la camicia bruna e ciclostilare il bollettino improntato allo stile nazionalista, parafascista del tempo. Il giornaletto del Betar tedesco si occupava soprattutto dei fatti della Palestina e sferrava attacchi violentissimi contro gli inglesi, gli arabi e la sinistra sionista. L'unica cosa che lo distingueva dalle pubblicazioni dei movimenti giovanili nazionalisti, inclusi quelli nazisti, era il silenzio totale sulla situazione politica in Germania. Jabotinsky accusò il Betar di essere succube dell'hitlerismo. Ma quando i revisionisti si schierarono a favore del boicottaggio della Germania, non poterono più sostenere apertamente il Betar tedesco, il quale perciò cambiò nome e diventò Herzlia. Naturalmente, per continuare a esistere nel Terzo Reich doveva avere l'autorizzazione della Gestapo, e in sostanza agiva sotto la sua protezione. Quando una squadra di SS attaccò un campo estivo del Betar, il capo del movimento se ne lagnò con la Gestapo, che annunciò di lì a poco di averne punito i responsabili. E quando la Gestapo chiese cosa potesse fare per riparare ai danni, l'unica cosa che il Betar domandò fu la revoca della recente norma che proibiva ai suoi militanti di indossare la camicia bruna. Fu accontentato. Il Betar era attivo pure in Austria. I suoi iscritti continuarono a riunirsi anche dopo l'Anschluss, ma ciò richiedeva contatti regolari con la Gestapo e con Adolf Eichmann. I dirigenti del movimento inviarono alla polizia segreta tedesca un memorandum con la proposta di organizzare l'emigrazione degli ebrei austriaci. Il presupposto era che i nazisti e il Betar avessero obiettivi comuni, analogamente a quanto accadeva fra i nazisti e l'Agenzia ebraica. I
nazisti concessero al Betar di aprire un ufficio per l'emigrazione e procurarono addirittura la valuta estera agli emigranti, che avrebbero raggiunto la Palestina clandestinamente, su imbarcazioni noleggiate dal Betar. Nella seconda metà degli anni Quaranta alcuni militanti dell'Irgun Zvai Leumi (Organizzazione militare nazionale), il gruppo terroristico antibritannico sponsorizzato dai revisionisti, che gli inglesi chiamavano semplicemente Irgun, si misero in contatto con i fascisti italiani, ai quali proposero azioni comuni contro gli inglesi. L'Irgun subì ben presto una scissione e il gruppo capeggiato da Avraham «Yair» Stem costituì il Lehi, così chiamato dalle iniziali del suo nome ebraico, Lohamei Herut Yisrael (Combattenti per la libertà di Israele), noto anche come «la banda Stem». Un rappresentante del Lehi incontrò un funzionario del ministero degli Esteri tedesco, al quale propose una collaborazione fra la sua organizzazione e i nazisti nella guerra contro la Gran Bretagna. Dal colloquio i tedeschi ricavarono l'impressione che il Lehi volesse fondare uno Stato indipendente con un governo totalitario di tipo fascista o nazista. Molti anni dopo un ex dirigente del Lehi, che aveva partecipato all'incontro, spiegò le motivazioni del comportamento suo e dei suoi compagni: «Il nostro dovere era combattere il nemico. Perciò era giusto accettare aiuti dall'oppressore nazista, che in quel caso era il nemico dei nostri nemici, gli inglesi». I revisionisti non erano dunque meno pragmatici dei sionisti: erano semplicemente più cinici. Le durissime condanne che pronunciavano contro qualsiasi rapporto con la Germania nazista avevano come unico scopo quello di favorire i loro interessi di parte. Allo stesso fine miravano anche i raduni, i cortei e persino il «referendum» contro la haavarah, che in realtà era soltanto una petizione di massa per condannare l'accordo. L'Agenzia ebraica rispose con giganteschi manifesti non firmati, che invitavano i cittadini a comportarsi con maturità politica e accusavano i revisionisti di cavalcare la tragedia dell'ebraismo tedesco. «Ebrei,» proclamava il manifesto dell'Agenzia ebraica «volete aiutarli a sacrificare gli ebrei tedeschi? Volete collaborare al loro sterminio» proprio ora che per la prima volta lo yishuv aveva la possibilità di «salvare un'intera tribù perseguitata»? L'ideologia sionista sosteneva che gli ebrei avevano
bisogno di un loro Stato indipendente perché in qualsiasi altro paese sarebbero stati sempre discriminati e perseguitati. Il sionismo sognava un «uomo nuovo» in una società nuova, un uomo che andasse nella Terra di Israele in cerca della salvezza personale e nazionale. Ma quelli che giunsero in Palestina perché non avevano nessun altro luogo dove rifugiarsi non corrispondevano a quell'immagine e spesso furono trattati con condiscendenza e disprezzo. Questo paradosso era connaturato all'ideologia sionista e sotteso alla mentalità dello yishuv. «C'è stato un tale in Germania, un certo Hitler» commentò un giorno con sarcasmo Ben Gurion. «E' comparso Hitler e gli ebrei hanno cominciato ad arrivare.» Benché molti ebrei tedeschi, e i loro figli, restassero poi definitivamente in Israele, era innegabile che i più vi erano giunti perché non avevano scelta. E dunque erano profughi e non sionisti. Per questo si trovarono subito in conflitto con i valori fondamentali dello yishuv. Erano chiamati «i sionisti di Hitler».
CAPITOLO II «UN FIGLIO DELL'EUROPA» All'inizio del 1933 gli ebrei in Germania non superavano il mezzo milione, erano cioè circa l'uno per cento della popolazione; altri duecentomila vivevano in Austria. Di tutti questi, quasi un terzo fu assassinato, gli altri fuggirono negli Stati Uniti, in Inghilterra o in qualche altro paese. Soltanto uno su dieci si rifugiò in Palestina: i primi profughi dell'hitlerismo furono fra i cinquanta e i sessantamila. Alla fine della guerra essi costituivano il 20 per cento di tutti gli immigrati giunti durante i dodici anni del Terzo Reich, ma nel 1938-1939 erano soltanto il 50 per cento. Arrivavano confusi e traumatizzati, sradicati da quella che consideravano la loro patria. La consapevolezza di aver commesso un errore nel ritenersi tedeschi e la necessità di emigrare in una terra lontana avevano avuto su di loro effetti devastanti: il ritorno in Israele non era l'ascesa che suggerisce la parola ebraica aliyah, era una discesa. Una storia triste. In Palestina li chiamavano yekke, un termine di origine incerta, che pare fosse già in uso fra gli ebrei dell'Europa orientale prima di diffondersi nella Terra Promessa. Forse discendeva da Jacke, la giacca da camera che tanto amavano indossare gli ebrei in Germania, oppure dal tedesco Geck, che significa «bellimbusto», «clown», ed è strettamente imparentato con «giullare». In Palestina però si diceva anche che la parola derivasse dalle iniziali di un'espressione ebraica il cui significato è «ebreo dalla testa dura». I profughi la consideravano giustamente un insulto, e tuttavia se ne servivano essi stessi per descrivere la propria condizione. Nel 1979 la televisione israeliana inserì nel suo palinsesto un documentario sugli ebrei tedeschi, intitolato Gli yekke. Un israeliano, nato in Germania, si sentì offeso e si rivolse alla Corte suprema chiedendo di vietare quel titolo insultante. La sua richiesta fu respinta: la parola yekke, sentenziò la Corte, non era affatto ingiuriosa, era anzi rispettosa, quasi affettuosa. Uno dei tre giudici che emisero la sentenza era Haim Cohen, ex procuratore generale, uno dei pochi
yekke a occupare un posto di prestigio in Israele. A eccezione del filosofo Martin Buber, della poetessa Else Lasker Schùler e dell'architetto Erich Mendelsohn, nessuna delle personalità più celebri o più ricche della comunità ebraica tedesca andò a vivere in Palestina. Lo scrittore Lion Feuchtwanger, il compositore Kurt Weill, la filosofa Hannah Arendt (non ancora famosa), il fisico Albert Einstein e altri prestigiosi scienziati, artisti e intellettuali presero tutti altre strade. Quando Hitler salì al potere, in Germania c'erano sette scienziati ebrei insigniti del premio Nobel: ne emigrarono sei, ma nessuno andò in Palestina. «La mia patria è la Germania» disse a Chaim Weizmann il chimico Richard Willstatter. Morì in esilio in Svizzera. Albert Einstein espresse, allo stesso Weizmann e in varie interviste ai giornali, molte riserve nei confronti dell'Università ebraica e si trasferì a Princeton. Uno dei primi yekke ad arrivare in Palestina fu uno scrittore che, pur non essendo fra i maggiori della sua generazione, era molto apprezzato nei circoli letterari tedeschi. Si chiamava Arnold Zweig e i suoi romanzi erano tradotti in molte lingue. I primi mesi da profugo li trascorse in una pensione di Haifa, Wollstein House. Si lagnava continuamente: la stanza era angusta, la scrivania troppo piccola per disporvi i manoscritti. Aveva appena finito di fumare l'ultimo sigaro che si era portato dall'Europa. Era il gennaio del 1934 e il riscaldamento non funzionava. Il vento fischiava fra le imposte. Era depresso. Zweig si sfogò in una lettera indirizzata a un altro intellettuale ebreo, che risiedeva ancora a Vienna. Il tecnico che aveva installato il riscaldamento, scriveva, non si era neppure preso la briga di consultare l'impresa edile, la quale si era dimenticata di costruire la canna fumaria e l'aveva aggiunta in un secondo momento. Il camino, naturalmente, si era rivelato troppo stretto e avevano dovuto allargarlo sotto una pioggia battente. Ma nonostante tutto continuava a far fumo ogni volta che tirava vento. «Lei troverà, caro padre Freud, che dedico troppe righe al riscaldamento» proseguiva Zweig «ma queste questioni della vita pratica, il funzionamento scricchiolante della macchina della civilizzazione è il problema principale in questo paese. Noi non siamo disposti ad abbandonare i nostri standard di vita e il paese non è disposto a soddisfarli. E poiché gli ebrei di Palestina sono giustamente fieri di quanto già esiste e noi
giustamente irritati per tutto ciò che ancora manca, c'è un tacito attrito.» Lo squallore quotidiano costituì un elemento tutt'altro che trascurabile nella tragedia che gli ebrei tedeschi si trovarono ad affrontare al loro ritorno nella «terra dei padri» scrisse Zweig, mettendo la locuzione fra virgolette. Quanto a lui, sarebbe vissuto in Palestina senza le illusioni del sionismo, guardando la realtà a occhi aperti, senza infingimenti ma anche senza disprezzo. L'idea di dover vivere soltanto fra ebrei non lo entusiasmava. La Palestina non era la sua patria e mai la sentì tale. Non mise radici: per tutto il tempo che vi rimase non disfece mai davvero i bagagli. Era come passare una vacanza nel sud della Francia, scrisse a Freud. Zweig corrispondeva con Freud da sette armi. Zweig aveva un'adorazione per Freud e Freud aveva rispetto per Zweig. Nelle lettere si scambiavano manoscritti e opinioni, parlavano dei loro ultimi lavori, della salute e delle tribolazioni quotidiane. Zweig aveva quarantasette anni quando arrivò in Palestina. C'era già stato da turista e gli era piaciuta. Aveva anche collaborato, per un certo periodo, con il quotidiano sionista «Jùdische Rundschau» di Berlino. Le sue lettere a Freud sono spesso improntate al buonumore: scriveva molto e pubblicava molto, amava il paesaggio palestinese, le montagne, il sole, il mare e aveva fatto amicizia con altri yekke. Aveva anche una sua rivistina in tedesco, «Orient», che distribuiva in parte stampata, in parte ciclostilata. Però continuava a lamentarsi. Se la prendeva con l'arretratezza asiatica, era angustiato dalle tensioni crescenti fra ebrei e arabi e aveva il problema della lingua. Zweig faticava molto a imparare l'ebraico e politicamente era una «colomba»: il terrorismo lo spaventava. Le sue lettere non raccontano una vita felice. Il direttore del teatro Habima, al quale aveva mandato un suo dramma, non si era neanche degnato di rispondergli. Zweig l'aveva sollecitato una, due volte, ma inutilmente. «Non appartengo a questo luogo» scrisse nel 1935. Era irritato: aveva tenuto un discorso in tedesco a una manifestazione contro la guerra e gli organizzatori avevano voluto a ogni costo tradurlo in ebraico benché tutti i presenti parlassero fra loro in yiddish. «Cominciamo perciò a pensare di andare via» scrisse a Freud. La sua influenza politica e culturale era inesistente: «La gente chiede il suo ebraico, e io non glielo posso fornire. Sono uno
scrittore tedesco, e un europeo tedesco». «Faccio resistenza contro l'essere stesso in Palestina. Mi sento nel posto sbagliato. Condizioni limitate, rese tali ancor più dal nazionalismo ebraico degli ebrei, che non permettono che si stampi in nessun'altra lingua.» Sognava la fine del regime nazista e un governo guidato da un partito liberale, capeggiato magari dal nipote del deposto kaiser Guglielmo. Sapeva però che quel tempo non era vicino. E tuttavia, ragionava, se proprio doveva arrabattarsi con una lingua che non era la sua, perché non imparare l'inglese, in Inghilterra o in America? Il suo passaporto tedesco stava per scadere. Non voleva chiederne il rinnovo al Terzo Reich, ma non voleva neppure essere lui a tagliare i ponti con il proprio paese d'origine. Però non aveva ancora ottenuto il passaporto palestinese. Erano i dilemmi dell'esiliato. Sì, certo, era ebreo, ma non aveva un forte senso patriottico. I figli studiavano l'ebraico a scuola, ma lui, l'intellettuale tedesco, non era soddisfatto: «Non apprendono quasi nulla» brontolava. «Scuole misere, orizzonti piccoli.» Parlava sempre più spesso di problemi finanziari. Esagerava, possedeva l'automobile, aveva la cameriera e poteva permettersi di viaggiare in Europa, ma quelle difficoltà immaginarie gli fornivano un altro pretesto per andarsene. Freud si mostrò molto comprensivo. Quando seppe che Zweig le aveva lasciate a Berlino, gli inviò le proprie opere nella serie completa in dodici volumi. Non era la prima volta, gli disse, che sentiva parlare della povertà culturale della Palestina: la storia non aveva preparato gli ebrei a creare un loro Stato. Però consigliava all'amico di resistere, a dispetto delle difficoltà finanziarie, della solitudine e del nazionalismo imperante: in Palestina era almeno al sicuro e godeva dei diritti civili. In America la vita sarebbe stata molto più dura; («dovrebbe spogliarsi della sua stessa lingua, non di un vestito, della sua stessa pelle»). Un giorno il nazismo sarebbe stato sconfitto; certo la Germania non sarebbe mai più stata la stessa, ma almeno avrebbero potuto contribuire alla sua riabilitazione. Sì, è vero, concordava Zweig, sarebbe stato orribile dover rifare i bagagli. Se almeno, andandosene, avesse potuto tenere l'appartamento in Palestina dove tornare nel momento del bisogno! Il suo dissenso politico intanto cresceva. «E ora ieri a Gerusalemme è stata lanciata una bomba nel shuk arabo» scrisse a Freud nel
1938. «Di venerdì, quando il traffico è particolarmente denso e i fellahim dei villaggi vicini, comunque bersaglio dei terroristi, fanno le loro compere.» L'attentato era opera dell'Irgun, che intendeva così vendicarsi per l'esecuzione di un suo militante, Shlomo BenYosef, avvenuta qualche giorno prima. «L'intero paese, per la vigliaccheria nei confronti del nazionalismo ebraico, si è inchinato a un attentatore di diciotto anni, (purtroppo) impiccato» scrisse Zweig. «Noi subiremo una terribile vendetta... Gli ebrei, venuti nel paese contro la volontà degli arabi, incapaci dal '19 di guadagnare la benevolenza degli arabi, avevano un solo vantaggio: la posizione morale, la resistenza passiva. La loro aggressione come immigranti e l'aggressione dei terroristi arabi si neutralizzavano a vicenda. Se adesso gettano bombe, vedo molto nero per tutti noi.» Aveva i nervi a pezzi ed era sempre più depresso. Lo prendeva il panico, si sentiva minacciato, temeva per la propria famiglia. Il fratello della sua cameriera, fuggito appena due settimane prima dalla Germania di Hitler, era stato ucciso su un autobus. Soltanto Freud, con le sue teorie, poteva spiegare quella psicosi di massa, diceva Zweig, che intanto si premuniva, riponendo tutti i suoi manoscritti in un baule. Anche Freud, che aveva da poco compiuto ottant'anni ed era malfermo di salute, era in difficoltà. Con l'arrivo dei nazisti fu costretto a rifugiarsi a Londra. Da quel momento si scrissero da esiliato a esiliato. Zweig mandò a Freud una critica del giornale ultraortodosso «Agudat Yisrael» al suo libro L'uomo Mosè e la religione monoteistica con il seguente commento: «E' indescrivibilmente funerea e comica». Freud sconsigliò all'amico di trasferirsi in Inghilterra, che definì un paese strano, in cui era difficile ambientarsi. Poco tempo dopo morì. Poi scoppiò la guerra e Zweig rimase intrappolato in Palestina per tutta la durata del conflitto. «Mi accusano di sentirmi ancora un immigrato» scrisse nel 1942 su «Orient» e, quasi si trattasse di un insulto, cominciò a giustificarsi: non era lui a essere estraneo alla Palestina, era la Palestina a trattarlo da estraneo. Viveva lì da dieci anni e nessuno dei suoi libri era stato ancora tradotto in ebraico; gli unici guadagni erano i compensi per gli articoli che scriveva sul «Palestine Post». Nessun giornale ebraico gli aveva offerto una collaborazione regolare. No, dichiarava Zweig (in tedesco), non aveva nessun
disprezzo per la lingua ebraica; purtroppo stentava a impararla perché non aveva più la vista buona e aveva subito un grave incidente automobilistico. Zweig faceva di tutto per convincere i lettori che desiderava integrarsi. Forse ci provava, ma non ci riusciva, o era combattuto. Finita la guerra, lo scrittore fece le valigie e si trasferì nella Germania Est. Sotto la protezione della dittatura comunista divenne infine un eroe della cultura nazionale. L'Agenzia ebraica, che era la rappresentante ufficiale dello yishuv, deteneva il diritto a distribuire, in base a criteri concordati, la quota di certificati di immigrazione assegnata ogni semestre dalle autorità mandatarie britanniche. L'immigrazione, naturalmente, accresceva le tensioni fra gli ebrei e gli arabi palestinesi. Di conseguenza, più si rafforzava il nazionalismo arabo e si moltiplicavano le violenze in tutto il paese, più gli inglesi tendevano a limitare il numero dei permessi. A distribuirli non erano quasi mai i consolati britannici, ma i funzionari dell'Agenzia ebraica in Palestina, che li suddividevano fra i vari paesi. L'assegnazione delle quote comportava spesso lunghe mediazioni e patteggiamenti fra i partiti politici presenti nell'esecutivo sionista, che erano più o meno gli stessi esistenti fra gli ebrei della Diaspora. Ogni partito cercava di aggiudicarsi il maggior numero possibile di certificati per i propri iscritti e simpatizzanti: a scegliere i destinatari erano i rappresentanti dell'Agenzia ebraica all'estero. Le richieste di immigrazione aumentavano man mano che peggiorava la situazione in Europa e la scarsità dei permessi si fece acuta. La loro distribuzione assunse il carattere di una selezione darwiniana: ottenere il certificato significava vivere, non ottenerlo significava probabilmente morire. C'erano poche speranze che la situazione migliorasse. Lo yishuv dibattè due questioni fondamentali sia in linea teorica che pratica: l'immigrazione illegale, o haapalah, e la scelta degli immigrati, o selektsia. Nel luglio del 1934 salpò dalla Grecia un traghetto, il Vilos, con 350 passeggeri provenienti dall'Europa, tutti privi di permesso di immigrazione. La nave attraccò di nascosto e depose il suo carico nel cuore della notte. Erano i primi immigrati illegali in Palestina, i maapilim. Da allora, fino alla fondazione dello Stato di Israele, avvenuta quattordici anni dopo, ne arrivarono altri 100.000 su 140 navi, di cui quasi la metà
dopo l'Olocausto, fra il 1945 e la Dichiarazione d'indipendenza del 1948. In alcuni periodi i clandestini furono più numerosi degli immigrati regolari. David Ben Gurion fu in genere contrario all'immigrazione illegale, anche quando essa costituiva l'unica possibilità di salvezza per molti ebrei d'Europa. Prima della fine della guerra i leader del Mapai consideravano infatti l'Agenzia ebraica un organismo nazionale, quasi un governo, la cui legittimazione dipendeva dalla Gran Bretagna. Pertanto la sua capacità d'azione era strettamente vincolata alla collaborazione con le autorità mandatarie. L'Agenzia era però anche uno strumento di potere e di sottogoverno del Mapai. Per tutti questi motivi Ben Gurion e gli altri dirigenti tendevano in genere a rispettare la legalità e a cercare di raggiungere gli obiettivi del movimento sionista negoziando con il governo britannico. La loro strategia riscuoteva il consenso della maggioranza dello yishuv. A favorire l'immigrazione clandestina e illegale era soprattutto l'opposizione interna al Mapai, in particolare il movimento dei kibbutz, e quella esterna dei revisionisti di Jabotinsky. E infatti a provvedere ai mezzi di trasporto per i maapilim furono soprattutto i militanti radicali del movimento dei kibbutz e del Betar, i quali naturalmente tendevano a privilegiare i profughi con cui avevano affinità personali o politiche. E benché giustificasse la sua posizione con motivazioni etiche, gli immigrati illegali, diceva, toglievano il posto a chi attendeva pazientemente il proprio turno, Ben Gurion aveva anche un interesse politico, che del resto non nascondeva. Il Mapai rischiava di perdere il controllo sulla selezione degli immigrati. E proprio sulla selektsia era in atto un altro scontro fra il Mapai e i revisionisti, che ruotava intorno al dilemma immigrazione indiscriminata o immigrazione selettiva. Jabotinsky sosteneva fin dal 1932 che occorreva «evacuare» tutti gli ebrei europei per metterli in salvo e creare una maggioranza ebraica in Palestina. La scelta del termine non era casuale: l'evacuazione suggeriva l'emergenza. Jabotinksy, tuttavia, non formulò mai un piano preciso. Continuò a modificare il progetto, che nella sua versione più audace prevedeva di portare in Palestina un milione di ebrei in due anni. Il termine «evacuazione» aveva anche una valenza politica. I revisionisti accusavano l'Agenzia di discriminare, nell'assegnazione
dei certificati, i loro simpatizzanti, che appartenevano in genere ai ceti medio-bassi urbani. «Oggi la Terra di Israele esiste soltanto per una classe di eletti» dichiarò Jabotinsky nel 1939. «Sono giovani il cui colore è il rosso» intendendo con ciò riferirsi ai socialisti della classe operaia. Dopo l'Olocausto alcuni esponenti dell'Herut, il partito di Menahem Begin nato dal movimento revisionista, accusarono il Mapai di avere sabotato l'evacuazione. «Avremmo potuto salvare milioni di ebrei o almeno centinaia di migliaia di ebrei» dichiarò Yohanan Bader, uno dei leader dell'Herut. Eppure all'inizio del Terzo Reich, quando le restrizioni erano molto minori e sarebbe stato possibile condurre in Palestina un gran numero di immigrati, gli ebrei d'Europa si erano dimostrati poco entusiasti e tutti i tentativi di persuaderli erano caduti nel vuoto. Poi la situazione era precipitata e molti avrebbero voluto andarsene, ma le autorità britanniche avevano chiuso le porte della Palestina. Per tentare di salvarli non restava che l'haapalah, soprattutto prima della guerra e forse anche durante il conflitto, ma le possibilità erano molto limitate e non si sarebbero mai potute condurre in Palestina le masse di cui parlava Bader. Naturalmente, se l'Agenzia ebraica l'avesse appoggiata, l'haapalah avrebbe potuto salvare un numero molto maggiore di ebrei, ma l'immigrazione clandestina non rientrava fra le sue priorità, anche perché Ben Gurion l'osteggiava. Una strategia che, oggi, appare disastrosamente sbagliata. Ovviamente, anche l'Agenzia ebraica voleva che gli ebrei diventassero la maggioranza degli abitanti della Palestina, ma non con l'evacuazione di massa bensì attraverso l'immigrazione selettiva. I sionisti laburisti, che controllavano l'Agenzia, sognavano di fondare una società nuova, radicalmente diversa dalle comunità ebraiche della Diaspora. Volevano che gli ebrei diventassero un popolo di agricoltori. Consideravano la vita urbana socialmente e moralmente degradata. Il ritorno alla terra avrebbe contribuito a generare l'«uomo nuovo» che speravano di creare in Palestina. Così, nell'assegnare i certificati, privilegiavano quanti avrebbero potuto contribuire a realizzare il loro progetto di costruzione del paese. La preferenza andava a sionisti giovani e sani, possibilmente già esperti di agricoltura o comunque disposti a imparare. Non ignoravano le sofferenze degli ebrei in Europa e di tanto in tanto
nelle loro riunioni si dicevano che avrebbero dovuto concedere qualche permesso anche a persone in condizioni di necessità. senza preoccuparsi se avrebbero giovato alla causa sionista; ma quando arrivava il momento di scegliere, il primo pensiero andava sempre ai bisogni della società nuova. Ben Gurion si era schierato invece dalla parte giusta in un'altra disputa fra il Mapai e i revisionisti. Nel 1937, quando esplosero le tensioni fra gli ebrei e gli arabi, una commissione britannica propose di spartire la Palestina fra le due nazionalità, come avrebbe fatto un decennio dopo l'ONU. Ben Gurion era favorevole, mentre i revisionisti e alcuni dei suoi colleghi del Mapai si opposero, ritenendo fra l'altro insufficiente la parte di territorio riservata allo Stato ebraico. (La proposta fu respinta anche dagli arabi.) Resta una terribile domanda: quanti degli ebrei uccisi nell'Olocausto avrebbero potuto salvarsi, se lo Stato di Israele fosse nato due anni prima della guerra anziché tre anni dopo? I coloni ideali erano dunque gli halutzim, i «pionieri», disposti a fondare nuovi insediamenti agricoli o a inserirsi in quelli già esistenti. La parola halutzim possedeva inoltre una precisa connotazione politica: il movimento halutz in Europa non si limitava a insegnare i rudimenti dell'agricoltura ai giovani ebrei che intendevano coltivare la terra, ma inculcava loro anche le dottrine socialiste. Nello yishuv i pionieri avrebbero dovuto incrementare l'agricoltura e insieme rafforzare il movimento laburista. Anche i dirigenti del Betar, radicato soprattutto nelle città, distribuivano i certificati in base a criteri politici, privilegiando quanti erano disposti e adatti a militare nell'Irgun, e, al pari dell'Agenzia ebraica, rifiutavano di aiutare chi desiderava emigrare in paesi diversi dalla Palestina. Il problema era dunque che farsene dei rifugiati che non erano né sionisti, né portati a contribuire alla costruzione della nuova società. «Lo sa solo Dio come farà la povera, piccola Terra di Israele ad assorbire questa marea di gente e conservare una struttura sociale sana» scrisse Chaim Weizmann. L'Associazione immigrati tedeschi si lagnava che a Berlino i funzionari dell'Agenzia ebraica concedessero i certificati anche agli invalidi: «Il materiale umano proveniente dalla Germania peggiora ogni giorno di più» protestava nel dicembre del 1933. E proseguiva: «Non sanno e non vogliono lavorare e hanno bisogno di assistenza sociale». Un anno
dopo l'Associazione inviò a Berlino un elenco di persone che non avrebbero mai dovuto essere mandate in Palestina. Henrietta Szold, che dirigeva l'Ufficio assistenza sociale dell'Agenzia ebraica, protestò più volte per la presenza fra gli immigrati di malati e indigenti, e ogni tanto chiedeva che qualcuno di quei «casi», i quali costituivano un peso per lo yishuv, venisse rispedito nella Germania nazista. La sede dell'Agenzia ebraica a Berlino aveva fra i suoi compiti anche quello di accertare la moralità e la fede politica degli immigrati che inviava in Palestina. La famiglia Bornstein, lamentava un collaboratore di Werner Senator, uno dei dirigenti dell'Agenzia, aveva aperto un bordello a Jaffa, senza nessun rispetto per gli ideali sionisti. Nel 1937 il Joint Distribution Committee, l'organizzazione americana che assisteva gli ebrei bisognosi, riuscì a ottenere dalle autorità tedesche la liberazione di 120 prigionieri da Dachau. «Non sono certo» scrisse in quell'occasione un funzionario dell'Agenzia a un collega «che dal punto di vista politico sia auspicabile che tutte le persone liberate vengano in Palestina» (non erano in maggioranza sionisti e forse fra loro si nascondeva anche qualche comunista). Senator, che si occupava dell'immigrazione in Palestina degli ebrei tedeschi, sollecitò l'ufficio dell'Agenzia a Berlino perché migliorasse la qualità del «materiale umano», altrimenti la quota dei certificati destinati alla capitale tedesca sarebbe stata ridotta. Gli immigrati provenienti dalla Germania godevano di molti privilegi, scriveva. Ricevevano il permesso di immigrazione dopo appena sei mesi di addestramento all'agricoltura, mentre quelli di altri paesi dovevano a volte aspettare fino a due anni. Anche le domande di ricongiungimento con i familiari in Palestina venivano evase molto rapidamente. Bisognava perciò badare alla qualità degli immigrati, accertarsi che fossero veri pionieri. Non mi riferisco, precisava Senator, a qualche errore di valutazione, ma a una vera e propria linea di tendenza: dalla Germania arrivavano sempre più spesso persone «bisognose di assistenza» e troppi «uomini d'affari» con bambini piccoli, anziché giovani non sposati. A un certo punto fu deciso di assegnare ai candidati con più di trentacinque anni il certificato «soltanto se non vi è alcun motivo di ritenere che possano costituire un peso quaggiù». Il primo requisito era che avessero un mestiere: «Non verrà in nessun caso rilasciato il
permesso a chi lavora nel commercio o in attività analoghe, a meno che non si tratti di vecchi militanti sionisti». Era il 1935. «In tempi di abbondanza» spiegò Yitzhak Gruenbaum «potevamo accettare questo materiale, ma in tempi di carestia e disoccupazione ci creerà molti problemi. ... Dobbiamo avere la possibilità di scegliere fra i rifugiati quelli degni di immigrare, senza accettarli tutti.»* Gli ebrei tedeschi che ottenevano il permesso di immigrare in Palestina «soltanto come profughi» erano considerati «materiale umano indesiderabile» da Eliahu Dobkin, dirigente del Mapai e membro dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica. «Mi rendo conto della situazione eccezionale in cui si trovano a operare le istituzioni d'oltremare che si occupano di rifugiati, ma sarai d'accordo con me che dobbiamo affrontare la questione non dal punto di vista filantropico, bensì partendo dalle necessità del paese» scrisse Dobkin a un collega. «Ritengo che si debbano portare qui soltanto i profughi che rispondono a queste esigenze.» Dello stesso parere erano anche alcuni leader degli immigrati tedeschi in Palestina: «A mio avviso il 90 per cento di loro non è indispensabile qui» scrisse uno di loro. Quando l'esecutivo dell'Agenzia ebraica discuteva di assegnazione delle quote, non era infrequente udire proteste contro i privilegi concessi agli ebrei tedeschi. La stessa cosa succedeva per la distribuzione degli aiuti finanziari. Alla notizia che a Londra era stato istituito un fondo speciale a loro favore, qualcuno scattò: «Perché gli ebrei russi non sono più dei privilegiati e lo sono invece diventati gli ebrei tedeschi?» (Nota: Nel 1939 i giornali di tutto il mondo seguirono il dramma della St Louis, la nave carica di diverse centinaia di profughi provenienti dalla Germania. Nessun paese volle accoglierli. Il Joint Distribution Committee chiese all'Agenzia ebraica di assegnare a quei profughi i certificati che aveva in quota. L'Agenzia rifiutò. Alla fine fu loro concesso di sbarcare ad Anversa.) Il fondo speciale, com'era già accaduto con l'accordo sull'haavarah, spinse l'Agenzia ebraica ad aumentare la quota di certificati da assegnare alla Germania, perché, come spiegò Arthur Ruppin, soltanto così si sarebbe potuta incentivare la raccolta di denaro.
«Ma ci sono tre milioni di ebrei che soffrono in Polonia e soltanto 400.000 in Germania» protestò un dirigente, chiedendo che i permessi venissero distribuiti in base al numero degli ebrei di ciascun paese. Un altro invece, di origine tedesca, protestò che gli ebrei del Terzo Reich, la cui situazione era gravissima, venivano discriminati. Qualcun altro ribattè che la situazione polacca era ancora più grave. La tragica lotta per conciliare esigenze contrastanti, eppure tutte legittime, proseguì senza interruzione. «La situazione in Polonia è tale da far ritenere sempre più vicino il giorno di Hitler» profetizzò nel 1936 Yitzhak Gruenbaum. Due anni e mezzo dopo l'Ufficio immigrazione dell'Agenzia ebraica presentò le proprie scuse a tutti i suoi rappresentanti all'estero: «La terribile sorte degli ebrei austriaci e tedeschi ci ha costretto ad assegnare a loro quasi metà della quota. ... Speriamo che gli altri paesi accettino quest'indispensabile sacrificio a favore degli ebrei dell'Austria e della Germania». Era una realtà spietata: ogni ebreo che riusciva a immigrare in Palestina era consapevole che qualche altro ebreo, il quale non aveva ottenuto il certificato, era stato ucciso al posto suo. Così nascevano i sensi di colpa che avrebbero oppresso tanti israeliani sfuggiti all'Olocausto. Alcuni ebrei provenienti dalla Germania andarono a vivere nelle colonie agricole già esistenti, o ne fondarono di nuove, creando decine di kibbutz e di villaggi agricoli. Quasi nessuno di loro aveva mai coltivato i campi: venivano dalle grandi città ed erano medici, avvocati, insegnanti e impiegati statali. Qualcuno aveva scoperto il sionismo e aveva deciso di andare a dissodare la terra dopo l'ascesa del nazismo. Qualcun altro era arrivato in Palestina da bambino con il progetto «Aliyat Hanoar» (L'immigrazione dei giovani). Quelli che concepivano il lavoro manuale come un ideale, lo svolsero con successo: gli insediamenti e le fattorie da loro fondate fiorirono e produssero una seconda e una terza generazione di agricoltori. L'Agenzia ebraica, tuttavia, aveva seri dubbi sulla fedeltà ideologica degli aspiranti all'immigrazione. Diede istruzione ai suoi uffici all'estero affinchè i candidati sottoscrivessero l'impegno a coltivare la terra in Palestina, nei luoghi assegnati, per almeno due anni. E' questa la ragione per cui tanti immigrati tedeschi andarono a lavorare nei campi al loro arrivo. Ma alcuni dei firmatari non tennero fede alla
promessa e rifiutarono di fare gli agricoltori. La vita di campagna era molto dura. Leggendo il «Jùdische Rundschau», il giornale sionista in lingua tedesca, i profughi sapevano già prima che avrebbero trovato condizioni «primitive» in confronto a quelle della Germania e sarebbero diventati bravi agricoltori soltanto se avessero «rinunciato completamente» al loro stile di vita. Nel corso degli anni, quasi la metà di loro se ne andò dalle campagne. Molti si stabilirono fin dall'arrivo nei centri urbani più popolosi, come Haifa, Tel Aviv e Gerusalemme. Gli ebrei tedeschi giungevano con grandi casse di legno, che divennero poi ripari per gli attrezzi o addirittura rifugi provvisori per i senza tetto. Dentro quei grandi contenitori c'erano pesanti mobili di mogano, pianoforti a coda e frigoriferi elettrici che, messi a dura prova dal caldo levantino, si ruppero nel giro di pochi giorni e furono degradati al rango di semplici ghiacciaie. C'erano anche la cristalleria e le porcellane, i copriletto, i cuscini e gli asciugamani di pizzo, gli abiti su misura e tutta una serie di articoli che avevano reso piacevole la vita in Germania: la macchinetta per tagliare la punta ai sigari, lo snocciolaciliege, bilancini per pesare le lettere prima di affrancarle, forbici speciali con cui regolare lo stoppino delle candele per evitare che facessero fumo, lo spazzolino e la paletta per raccogliere le briciole dalla tovaglia. I medici e gli artigiani portavano attrezzature sofisticate e strumenti professionali difficili da trovare in Palestina, se non addirittura ignoti. Speravano di riuscire a mantenere il tenore di vita che avevano avuto in Germania, di avere una casa con i domestici e l'automobile. E poi c'erano i libri, intere biblioteche, con i classici e gli scrittori moderni. Gli yekke che erano già in Palestina si affrettavano a mettere in guardia i parenti e gli amici che si apprestavano ad andarvi. Non dovevano assolutamente mangiare la frutta e la verdura crude, se non dopo averle tenute a bagno per almeno venti minuti in una soluzione di permanganato. Dovevano bere soltanto l'acqua bollita. Non dovevano acquistare né bibite sfuse, né gelati dagli ambulanti. Non dovevano, insomma, né mangiare né bere niente fuori di casa. Dovevano indossare vestiti comodi e scarpe di tela bianca, portare sempre le calze, che potevano anche essere corte se non c'erano zanzare. Non dovevano andare a capo scoperto: il cappello di paglia andava bene, ma
l'ideale era il casco tropicale. Guai a seguire la moda: poteva rivelarsi molto pericoloso, perché a volte induceva a indossare abiti inadatti al clima. Niente compromessi.) : Molte delle edizioni tedesche di allora si sono conservate proprio in Palestina, perché in Germania i nazisti ne confiscarono e bruciarono tutte le copie. Parecchi anni dopo, quando gli yekke erano ormai vecchi o già morti, e i loro discendenti, nati in Palestina, non conoscevano più il tedesco, arrivarono dalla Germania gli antiquari per acquistare e riportare in patria i preziosi volumi.) «Nel nostro paese gli indumenti devono essere semplici, pratici e razionali». I bambini dovevano proteggersi dal sole con grandi cappelli, evitare di calzare i sandali e comunque indossare sempre le calze, meglio ancora se con comode scarpe di cuoio. Non dovevano fare il bagno in mare senza il permesso del medico. Durante i periodi più caldi era bene restare in casa il più possibile con le porte e le finestre chiuse e fare una siesta fra le due e le quattro del pomeriggio. L'igiene personale doveva essere scrupolosissima, la biancheria e la casa pulitissime: i pavimenti andavano lavati ogni giorno con il kerosene o il liscio, facendo bene attenzione ad asportare le briciole che attiravano le mosche, le formiche e altri insetti portatori di malattie. Alcuni di questi consigli erano saggi. Altri invece erano lo specchio delle paure che ispirava quella lontana terra asiatica in cui qualcuno di loro aveva già imparato a vivere. I bambini che vi erano nati calzavano i sandali sui piedi nudi, si tuffavano in mare e comperavano le bibite dagli ambulanti: i figli degli yekke saltavano subito all'occhio. Fra i nuovi arrivati c'erano anche ragazzi soli, che all'inizio furono ospitati negli ostelli per immigrati o nei campeggi senza servizi igienici adeguati. Ma quasi la metà degli ebrei venuti dalla Germania erano uomini e donne sui trent'anni, professionisti sposati e «capitalisti», gente che aveva soldi. Molti si stabilirono in città, ma parecchi, come accadeva a chi aveva deciso di lavorare i campi, furono costretti a cambiare mestiere e ad accontentarsi in genere di un'attività meno prestigiosa di quella che avevano svolto in Germania. Tanti trovarono lavoro nell'edilizia. Un architetto diventò carpentiere, un giudice aprì una lavanderia, un dentista una drogheria. Fra le mille
storielle sugli yekke che cominciarono subito a circolare, ce n'era una su una partoriente colta dalle doglie mentre viaggiava in autobus. I suoi vicini si misero a gridare «Un dottore! Un dottore!». Accorsero in sei, tutti immigrati tedeschi. L'autista, anche lui tedesco e medico, li cacciò via, dicendo; «Mi spiace, signori, ma sul mio autobus i bambini li faccio nascere io!». Metà dei medici emigrati in Palestina negli anni Trenta, circa 1200, proveniva dalla Germania. Da un'inchiesta del 1946 risultò che il 35 per cento dei medici dello yishuv era nato in Germania. Centinaia di loro furono costretti a cambiare mestiere. Ma perché tanti dottori? I nazisti avevano vietato agli ebrei di praticare la medicina, mentre in Palestina era stata approvata una legge che riconosceva il titolo di studio a tutti gli immigrati giunti prima del 1936. Fra l'ottobre e il novembre del 1935 arrivarono quasi 500 medici dalla Germania. «Sono sempre stato un buon ebreo» scrisse Hermann Zondek, il celebre medico che dirigeva l'ospedale di Berlino, «ma non sono anche sempre stato un buon tedesco? E un europeo leale?» Una squadraccia di picchiatori delle SA aveva fatto irruzione nel suo studio e l'aveva cacciato. Zondek si era rifugiato a Manchester. Chaim Weizmann e Sir Louis Namier l'avevano persuaso ad andare in Palestina. Altri gli avevano invece detto che la Palestina era troppo primitiva per uno specialista del suo valore. E in effetti, benché con gli anni fosse diventato direttore di un piccolo ospedale di Gerusalemme, pare che non sia mai stato convinto di avere fatto la scelta giusta. La sanità in Palestina era di livello molto inferiore rispetto a quello della Germania, e diverse specializzazioni erano del tutto ignote. La Repubblica di Weimar, invece, era stata un centro mondiale della medicina moderna. Molti dei medici provenienti dalla Germania avevano lavorato negli ospedali pubblici, ma contemporaneamente svolgevano anche attività privata. Avevano una precisa connotazione politica e di classe, tipica della loro professione. In Palestina furono costretti a lavorare come dipendenti nelle piccole cliniche pubbliche della cooperativa medica della Histadrut, la Kupat Holim, sparse per tutto il paese. Non esistevano centri universitari, né grandi ospedali, e la pratica privata era vietata dall'ideologia socialista della Histadrut. I pazienti pagavano una cifra molto modesta per le cure che ricevevano, ma
erano costretti a lunghe attese e non potevano scegliersi il medico. Era un sistema pesantemente burocratico, che costringeva i medici a compilare un'infinità di moduli e faceva a pugni con la loro visione della società. Alcuni raggiunsero incarichi di responsabilità nelle cliniche della Kupat Holim, ma quando tentarono di modificarne il funzionamento si trovarono coinvolti in uno scontro ideologico, una lotta per il controllo politico della cooperativa, che vedeva contrapposti i medici ai burocrati, l'individualismo liberale al collettivismo socialista. Nel 1946 i medici del Beilinson Hospital, quasi tutti di origine tedesca, rivolsero alle autorità una petizione chiedendo che fosse loro concesso di abitare fuori dell'ospedale e di aprire uno studio privato. Volevano anche il «diritto di possedere un'automobile e dei quadri», cosa contraria agli austeri princìpi del movimento laburista. La vertenza provocò non poche tensioni e le parti si scagliarono bordate di insulti. I medici si lagnavano della dittatura della Histadrut; i funzionari della Histadrut replicavano sarcasticamente: «In Germania sì che si stava bene!». Alcuni aprirono ambulatori offrendo terapie mai praticate in Palestina. Poi fondarono un'assicurazione sanitaria, una cooperativa in concorrenza con la Kupat Holim, ospedali e aziende farmaceutiche. Il servizio medico pubblico e privato migliorò rapidamente e ben presto si avvicinò agli standard europei e statunitensi. I medici non furono gli unici a trovare difficoltoso l'adattamento a una struttura collettivistica: molti yekke se ne andarono dai kibbutz per le stesse ragioni e stentarono a trovare lavoro attraverso l'ufficio di collocamento della Histadrut. La dipendenza dalla burocrazia collettivistica costituiva per loro un «pesante fardello emotivo». Un funzionario protestò che «i tedeschi» iscritti all'ufficio di collocamento mostravano un atteggiamento «insoddisfacente»: volevano privilegi speciali. Eppure gli yekke, con il loro tenace individualismo e i modi europei, furono una forza feconda. Gli architetti progettarono e costruirono case, alcune nell'allora modernissimo stile funzionale del Bauhaus, che contribuirono a mutare il volto delle città. Altrettanto fecero gli imprenditori in campo economico. Essi furono fra i fondatori della Borsa di Tel Aviv, aprirono negozi e boutique con grandi vetrine ai due lati dell'ingresso, un'assoluta novità per la Palestina, cartolerie e
rivendite di elettrodomestici, pelletterie e profumerie, e i primi, rari supermercati. Spuntarono ovunque caffè all'europea. Gli yekke organizzarono conferenze e concerti di musica da camera, fondarono un'orchestra di profughi, l'antenata dell'Orchestra filarmonica israeliana. Venne a dirigerla anche Arturo Toscanini per protesta contro il fascismo. Sono i paradossi della storia: l'ascesa del nazismo in Europa, così distruttivo e sanguinario, contribuì a migliorare notevolmente la qualità della vita in Palestina. I dirigenti dello yishuv non ignoravano l'apporto degli yekke, ma questo non impediva che li considerassero una spina nel fianco sul piano ideologico, politico e culturale. «Quelli che vengono da noi non sono ebrei nutriti di cultura ebraica» osservò nell'agosto del 1935 Beri Katznelson al XIX Congresso sionista di Lucerna. «Sono persone che hanno reciso le loro radici con la cultura della nazione e con la sua esistenza, persone prive del collante culturale che ha tenuto unita la Diaspora per lunghi periodi, facendone un'unica entità.» Katznelson distingueva fra «noi» e «loro», come del resto facevano tutti a quell'epoca: «Ci viene chiesto di costruire la Terra d'Israele con questi ebrei estenuati e sradicati» dichiarò. «Ebbene, ora la vera domanda è: "Come possiamo farne una nazione?". Queste masse non hanno radici ebraiche, molti non hanno nessuna cultura [ebraica]. Che cosa possiamo fare perché non siano un peso per noi? Che cosa possiamo fare perché si assimilino e si uniscano ai costruttori?» Le barzellette sugli yekke, conservatori, testardi e freddi, erano un'infinità. «Non capiscono l'umorismo ebraico» si diceva. Del resto, anche in Europa i rapporti fra gli ebrei tedeschi e gli ebrei orientali erano sempre stati tesi. Si ironizzava sull'atteggiamento degli yekke verso la tradizione ebraica, eppure fra i loro critici c'erano molti non osservanti, così come c'erano molti yekke religiosi e alcuni persino ultraortodossi. Ma lo stereotipo secondo cui gli ebrei tedeschi si erano allontanati dal giudaismo era difficile da sradicare. «Un lato positivo nella loro tragedia c'è» affermò Menahem Ussishkin a una riunione dell'esecutivo sionista «ed è che Hitler li ha oppressi come razza, non come religione. Se avesse fatto il contrario, metà degli ebrei di Germania si sarebbe semplicemente convertita al cristianesimo.» Un giornale riportava con stupore il fatto che alcuni immigrati
tedeschi avessero festeggiato il genetliaco del kaiser Guglielmo. Lo scrittore Moshe Yaakov Ben-Gabriel (Eugen Hoflich), nato a Vienna, suggeriva agli immigrati di «integrarsi con umiltà» nella Buona Terra; David Ben Gurion, al contrario, chiedeva loro «una rivoluzione spirituale». Un pioniere si offriva di «educarli ad assumersi la responsabilità del bene comune». Ovviamente gli yekke non aspiravano affatto a essere rieducati, anzi, si consideravano i più idonei a tale compito: «Vogliamo partecipare anche noi alla ricostruzione della cultura del nostro popolo» dichiarò uno dei loro rappresentanti. Martin Buber li ammonì a non scambiare la Palestina per il melting pot americano. La grande questione era stabilire chi dovesse assimilare e chi essere assimilato. Gli yekke saltavano subito all'occhio perché erano diversi da tutti gli altri immigrati. Conoscevano molto meglio la cultura europea. Molti, forse i più, rifiutavano di adottare le usanze locali: il loro atteggiamento irritava profondamente i pionieri, i quali si aspettavano che gli ultimi venuti facessero di tutto per imitarli. La loro cultura, identificata in parte con Hitler, fu vista subito con sospetto, tanto che gli yekke venivano a volte considerati semplicemente «tedeschi», con tutte le caratteristiche dei tedeschi. Bastava che scoppiasse una lite, un alterco o anche un insignificante diverbio, che subito li chiamavano «Hitler». Taluni li biasimavano in blocco, per come erano e perché rifiutavano di cambiare, di amalgamarsi alla società locale. Quel rifiuto era ritenuto la prova che gli yekke si sentivano superiori. «C'è un gruppo che pensa di avere meriti particolari, che ha paura del melting pot: è fra noi da dieci anni e pensa ancora di essere "nuovo" perché resta aggrappato a un'identità ormai informe, la germanicità» accusava il celebre giornalista Azriel Karlebach, di origine tedesca. «Si accalcano ai bordi dello yishuv, ne lambiscono l'acqua e poi si allontanano con aria disgustata, mormorando educatamente che emana cattivo odore.» Gli yekke, si lamentava un altro giornalista, «stanno erigendo un grande muro fra noi e loro». Si chiamavano tutti «Adolf, Richard, Arthur, Hermann, Wilhelm e Philipp». «Il loro approccio alle questioni dello yishuv non è ebraico»; «il loro atteggiamento verso la Terra di Israele non ha un briciolo di spiritualità» affermava un altro, attaccandoli chiaramente da destra.
Mentre la stampa laburista se la prendeva con l'individualismo egoista degli yekke, quella revisionista li accusava di condividere la mentalità laburista. Scriveva un editorialista: «I tedeschi sono sempre un collettivo, mai degli individui. Non hanno autonomia, nessuna caratteristica personale o privata, è come se fossero nati tutti insieme. Un tedesco non fa in tempo a venire al mondo che è già una società». Occorreva, proseguiva l'articolo, che si avvicinassero di più alla «gente semplice, al popolo della Terra di Israele, che sente su di sé le sofferenze della nazione e ne piange la distruzione». A volte gli yekke erano derisi per i modi troppo formali, per la preparazione professionale meticolosa, per la pignoleria nel lavoro: lo yishuv privilegiava l'attività manuale e l'improvvisazione. Gli si rinfacciava anche il tenore di vita troppo alto, non conforme all'ideologia dominante, per la quale il benessere equivaleva alla decadenza morale. Erano criticati per «tutto quel lusso, così fuori posto e "le comodità", di cui non c'è alcun bisogno qui, che porteranno alla corruzione e alla degenerazione». Il risentimento contro gli yekke si intensificò con l'accordo sulla haavarah, che accrebbe le importazioni dalla Germania. Anche queste furono interpretate come un banco di prova della fedeltà alla nazione e al sionismo: la haavarah stava «distruggendo consapevolmente la giovane industria ebraica» al solo scopo di fare profitti e soddisfare i capricci degli immigrati tedeschi che rifiutavano i prodotti locali. Così si chiudevano le fabbriche, si gettavano sul lastrico gli operai e si indeboliva il progetto sionista, denunciavano gli industriali. Ogni tanto un gruppo spontaneo, che si autodefiniva Comitato congiunto per il boicottaggio dei prodotti tedeschi, ammoniva che non sarebbe riuscito ancora per molto a tenere a bada i suoi militanti, i quali ben presto sarebbero passati dalle parole ai fatti. Negli archivi municipali di Tel Aviv sono conservate molte lettere di ebrei tedeschi. Parlano di condutture dell'acqua rotte e mai aggiustate, di tasse troppo alte e di tanti altri piccoli problemi quotidiani che i nuovi residenti della prima città ebrea, appena arrivati, non sapevano come affrontare e sottoponevano al sindaco. Uno cercava lavoro, un altro aveva bisogno di operarsi, uno voleva rintracciare un familiare rimasto in Europa, un altro era senza casa. Sono tutte
lettere tristi, pervase di impotenza, solitudine e alienazione. Si ha l'impressione che le abbiano vergate per lo più persone non giovani. Scrivono in tedesco, perché non conoscono nessun'altra lingua. Si rivolgono al sindaco chiamandolo «Sua Eccellenza», come si usava in Germania, con un linguaggio molto formale, di grande rispetto, con espressioni di umiltà, come sudditi che si rivolgano al loro sovrano. Ma quelle lettere il sindaco non le lesse mai: il suo segretario, Yehuda Nedivi, le archiviò. Altre invece le rispedì al mittente, allegando una nota breve e molto formale con la quale lo scrivente era pregato di formulare le sue richieste alla città «nella lingua ufficiale di Tel Aviv e del suo governo municipale, l'ebraico». Negli archivi di Tel Aviv c'è anche la corrispondenza fra il sindaco Meir Dizengoff e Haim Bograshov, preside del liceo Gimnasio Haivrit. Alcuni studenti della scuola, infuriati perché i gestori del caffè Rivoli non parlavano l'ebraico, avevano spaccato le vetrine del locale e inviato una lettera minatoria ai proprietari. Il sindaco condanna il gesto e mette in guardia il preside sui pericoli di una sommossa. Contemporaneamente, però, promette il suo appoggio alla lotta contro «il nuovo germanesimo» ed esprime la necessità di un fronte unito «per soffocare qualsiasi tentativo di trapiantare fra noi usanze e lingue straniere». Qualche anno dopo la municipalità di Tel Aviv inviò alcune lettere molto dure, quasi minacciose, a cittadini di lingua tedesca. «Ci è stato segnalato che nella vostra casa, in Allenby Street 21, l'Associazione Austria libera organizza balli e intrattenimenti, con programmi estranei allo spirito della nostra città, durante i quali si parla soltanto tedesco» scrive il vicesegretario comunale. E conclude: «Vi sarò grato se troverete il modo di spiegare a questa gente che una cosa del genere non verrà tollerata a Tel Aviv e che tali attività devono cessare». Gli yekke continuarono a parlare tedesco in famiglia, tanto che molti dei loro figli divennero bilingui: il tedesco, che usavano in casa, era la prima lingua; l'ebraico, che imparavano a scuola, la seconda. L'Associazione immigrati tedeschi organizzava corsi di ebraico e a parole tutti riconoscevano la necessità di adottare la lingua del paese in cui vivevano. Ma per molti l'ebraico era troppo difficile e pian piano scoprirono che se ne poteva anche fare a meno. D'altra parte, però, l'incapacità, e a volte il rifiuto, di imparare la lingua di
Israele era il segno più evidente della loro estraneità e alienazione, l'elemento che confliggeva nel modo più profondo e doloroso con l'etica sionista dello yishuv. La lotta per ,il primato della lingua ebraica in generale, e contro l'uso del tedesco in particolare, era precedente l'arrivo degli yekke: la prima «battaglia delle lingue» si era combattuta all'inizio del secolo. Questo lungo conflitto faceva parte di un più ampio sforzo per la rinascita dell'identità ebraica della nazione in vista dell'indipendenza nella Terra di Israele. I fautori dell'ebraico erano riusciti a limitare, con ordinanze municipali, l'uso delle lingue estere nelle insegne dei negozi, nelle conferenze e in altre attività culturali, compresi i sottotitoli dei film. Il Consiglio centrale per la supremazia dell'ebraico, l'organizzazione ufficiale sionista diretta da Menahem Ussishkin, era molto orgoglioso del lavoro svolto nelle cooperative degli agricoltori di origine tedesca in Palestina. Durante una riunione un suo rappresentante raccontò un episodio rivelatore. Il direttore di una cooperativa di Naharia doveva inviare una lettera al sindaco, ma siccome non conosceva bene l'ebraico, l'aveva scritta in tedesco e la sua segretaria l'aveva tradotta in ebraico. Purtroppo, però, nemmeno il sindaco conosceva l'ebraico, sicché si era fatto ritradurre la lettera in tedesco dalla sua segretaria. Il Consiglio centrale per la supremazia dell'ebraico era soddisfatto: l'archivio della cooperativa e l'archivio municipale avrebbero conservato soltanto le lettere in ebraico. Tuttavia, man mano che nello yishuv cresceva il numero dei germanofoni, si moltiplicavano anche i giornali in lingua tedesca. Erano iniziative perfettamente legali, ma poco gradite sia all'Associazione immigrati tedeschi sia alla concorrenza. I giornali ebraici, naturalmente, si guardarono bene dal confessare i veri motivi della loro opposizione e posarono a difensori dell'ebraicità della nazione. Nel marzo del 1939 «Haaretz» lanciò una campagna contro l'edizione gerosolimitana dello «Judische Rundschau»: definì la stampa tedesca «un'aggressione contro l'anima dello yishuv» che «non sarà tollerata». Nel 1941 in Palestina i giornali in lingua tedesca erano oltre una decina. «Haaretz» ripartì all'attacco. Certo, c'erano paesi che ammettevano giornali in altre lingue, ma quello che era accettabile in nazioni consolidate, la cui indipendenza non era in discussione, non poteva
essere permesso in una comunità che lottava strenuamente per i propri diritti politici. «Basta con le parole» proclamava il giornale, sollecitando i leader dello yishuv a passare ai fatti per contrastare il potere distruttivo della stampa in lingua estera. Scesero in campo alcuni dirigenti. Intavolarono lunghe trattative con gli editori di quattro quotidiani in tedesco, cercando di persuaderli a sospendere le pubblicazioni. I negoziati fallirono. Il presidium del Consiglio centrale per la supremazia dell'ebraico si occupò allora della ricerca dei mezzi per costringere gli editori ad accettare «la disciplina nazionale» in modo da «eliminare dalla nostra vita i giornali tedeschi». Qualcuno dei presenti osservò che una simile affermazione equivaleva a una dichiarazione di guerra. Un altro suggerì di convincere le aziende a non fare pubblicità sulla stampa non ebraica e i giornali ebraici a rifiutare gli annunci di chi non si adeguava. Bisognava inoltre persuadere i caffè, le barbierie e gli alberghi a mettere a disposizione dei clienti soltanto i giornali in ebraico. Ma quando si arrivò alla decisione se vietare la stampa in tedesco, qualcuno obiettò che allora si sarebbe dovuto fare altrettanto per quella yiddish e quella inglese. Fu subito zittito: «L'inglese è la lingua del governo e l'yiddish è la lingua del cuore» decretò Menahem Ussishkin. E così finì il dibattito. Evidentemente lo yishuv esigeva dagli yekke più patriottismo di quello che chiedeva a se stesso. Più crescevano le pressioni per recidere le radici linguistiche e culturali degli yekke, più cresceva la loro alienazione. «Gli yekke» disse un immigrato tedesco a Ben Gurion «hanno la sensazione che tutti li odino perché sono yekke; si sentono discriminati sotto ogni punto di vista.» L'Associazione immigrati tedeschi riferiva nel suo bollettino che il numero di suicidi in seno alla comunità germanica era molto più alto che altrove. La ragione, spiegava, risiedeva nelle difficoltà materiali e psicologiche in cui molti versavano, cui si aggiungeva l'angoscia per la sorte dei familiari rimasti in Europa. Un editorialista di «Davar», il quotidiano della Histadrut, tentò di risvegliare nei suoi lettori la pietà per la sorte degli yekke: Ogni giorno incontro qualche membro di questa tribù nelle strade tranquille di Gerusalemme: scienziati e artisti che vivono fra noi come su un'isola deserta, separati, silenziosi, senza chiedere né esigere nulla, uomini e donne
solitari, curvi, timorosi del destino dei loro figli, rimasti fra gli artigli del diabolico nemico senza nessuno a confortarli; uomini e donne che combattono una guerra di sopravvivenza e stanno aggrappati alla vita con l'ultima goccia di energia per non cadere e perdere la loro umanità. Li ho visti vendere una a una tutte le loro cose: candelabri del Shabbat, un cucchiaio o una forchetta d'argento, un orologio portato in salvo dalla terra del nemico. Li ho visti vendere le sole anime che li amano e li confortano un poco, i loro cuccioli, perché non hanno di che pagare la tassa. Li ho visti suicidarsi per la solitudine, la paura, la fame, il dolore e l'angoscia ormai intollerabili, anime delicate, sensibili, che a una vita degradata preferiscono la morte. Li ho visti e mi sono detto: va' alle porte della città e grida; «Fratelli miei, non macchiatevi di questa colpa!». Alcuni yekke se la prendevano con se stessi per l'ostilità che li circondava e si scusavano. «Siamo viziati,» scriveva nel suo bollettino l'Associazione immigrati tedeschi «continuiamo a pensare ai grandi eventi della storia europea e a confrontarli con ciò che vediamo intorno a noi in Palestina.» Poi scoppiò la guerra. Ora la loro lingua aveva un suono molto più sgradevole di prima, ammoniva l'Associazione: «Gridiamo le ultime notizie trasmesse per radio da un balcone all'altro in un tedesco chiaro e scorrevole. Sugli autobus ci salutiamo a voce alta sopra le teste degli altri passeggeri. E sulla spiaggia di Tel Aviv ci sono punti in cui un cartello invisibile sembra proclamare "Vietato parlare ebraico"». E siccome molti immigrati non conoscevano nessun'altra lingua, il bollettino consigliava di tacere nei luoghi pubblici o almeno di parlare sommessamente. L'Associazione immigrati tedeschi reclamizzò in tutti i modi i suoi corsi di ebraico. Fondò una sorta di università per adulti, alla quale collaboravano alcuni degli studiosi più prestigiosi del paese, come Martin Buber e Gershom Scholem. Molte lezioni si svolgevano ancora in tedesco, ma costituivano comunque un tentativo per avvicinare gli yekke al giudaismo, alla Terra di Israele e alla sua lingua. «Questo paese ha una sola lingua ufficiale, l'ebraico» dichiarò l'Associazione, invitando i suoi iscritti a adeguarsi. Con il passare degli anni, però, gli yekke rialzarono la testa e cominciarono a rispondere alle critiche con risentimento, con sarcasmo e una buona dose di disprezzo. Si convinsero che
l'ostilità e lo scherno con cui erano stati accolti in Palestina erano dettati, come già in passato, dall'invidia. «Ficcano il naso dappertutto, collezionano tutti i dati negativi che riescono a scovare su un qualsiasi gruppo etnico e creano il mostro di cui hanno bisogno al momento», proprio come nella Germania nazista. «J'accuse» scriveva Gustav Krojanker, militante sionista di origine tedesca, protestando che le ingiurie scagliate contro gli yekke non erano poi così diverse da quelle cui ricorrevano gli antisemiti. Il bollettino dell'Associazione immigrati tedeschi pubblicò, sia pure dissociandosi, l'attacco durissimo di un lettore contro lo sciovinismo insito nella «battaglia delle lingue»: «Abbiamo visto impazzire il nazionalismo tedesco e abbiamo tremato. Ora qui siamo incamminati sulla stessa strada». L'intolleranza e il fanatismo che avevano ispirato la campagna per la promozione dell'ebraico offendevano molte persone, ammoniva il giornale. Citava come ammirevole il comportamento di una studentessa di Gerusalemme di quattordici anni. Una compagna di scuola le aveva detto «Torna da Hitler» e lei, ragazza orgogliosa e coraggiosa, aveva risposto con una sberla. Pian piano gli yekke cominciarono ad andare fieri del loro contributo allo yishuv, a sentirsi ambasciatori della cultura europea, investiti di una missione: «La nostra attività culturale deve mirare alla creazione di un nuovo umanesimo ebraico, fondato non soltanto sulla grandezza dell'uomo, ma anche sull'umiltà, un umanesimo che non produca un egoismo sfrenato, ma privilegi e difenda i rapporti con il prossimo, con la nazione e con l'umanità intera, in modo da ridare nuova linfa al passato e, attraverso questo rinascimento, aprire il presente all'avvenire» dichiarò uno dei loro leader. Era un messaggio di apertura umanistica, che sottintendeva una critica velata e molto cauta all'isolazionismo nazionalistico alimentato dallo yishuv. «Anche un ebreo dell'Europa orientale ha qualcosa da imparare su che cosa voglia dire essere ebreo» scrisse Ernst Simon, pedagogista di origine tedesca. Nella vita di tutti i giorni gli yekke desideravano invece poter avere una grande varietà di wurstel e brezein, librai che avessero letto i libri che vendevano e vicini che non tenessero la radio a tutto volume. Volevano insomma una migliore qualità della vita, un paese meno «primitivo». Ma lottavano anche per entrare a far parte dell'elite. «Dica al governo
britannico]» scrisse Georg Landauer a Moshe Shertok «che gli avvocati provenienti dall'estero innalzano il livello della professione. I tedeschi, per esempio, che sono venuti qui, hanno superato tutti gli esami e sono molto più bravi di quelli che hanno studiato da noi.» Nel 1941, neppure dieci anni dopo la prima grande ondata migratoria dalla Germania, uno yekke scriveva: «Il problema non è se essi si siano adeguati allo yishuv, ma se lo yishuv, di cui fanno parte, abbia a sua volta effettuato l'adattamento necessario». Pochi mesi dopo il solito bollettino dichiarava: «La questione della nostra appartenenza allo yishuv non si pone neppure. Noi siamo per buona parte lo yishuv». «Gli immigrati tedeschi» sintetizzò David Ben Gurion «soffrono allo stesso tempo di un complesso di superiorità e di un complesso di inferiorità. Il loro complesso di superiorità consiste in questo: "Noi ci siamo nutriti della cultura tedesca, abbiamo Kant e Beethoven, i migliori romanzi, la filosofia e la cultura tedesche. ... Qui tutto proviene dall'Europa orientale". Ma in loro c'è anche un senso di inferiorità. Capiscono che questa gente ha fatto qualcosa. ... E c'è la gelosia: "Guardate questi ebrei [dell'Europa orientale]: hanno arraffato tutto".» Quanto a lui, concludeva Ben Gurion, aveva qualche dubbio sul fatto che i tedeschi avessero scritto i più bei romanzi del mondo. Gli yekke organizzarono un loro sistema di volontariato e di mutuo soccorso, ma la causa che più di ogni altra li unì, almeno fino a quando non fondarono un partito politico, fu la battaglia a favore dell'accordo sulla haavarah. Erano i loro interessi a essere in gioco e per fortuna coincidevano con quelli politici del Mapai. Essi sostenevano che l'accordo rifletteva il vero spirito e i bisogni del sionismo, sottolineando che la Germania ne traeva soltanto un piccolo vantaggio. I revisionisti, accusavano i leader degli yekke, sfruttavano ai propri fini gli «istinti più bassi» dell'opinione pubblica, l'odio per tutto quello che era tedesco. Alle elezioni per il consiglio municipale di Tel Aviv del 1935, l'Associazione immigrati tedeschi presentò un proprio candidato, Felix Rosenbluth, il quale prometteva impiegati statali più cortesi, una città meglio pianificata, strade più pulite, un sistema scolastico migliore e servizi sociali simili a quelli degli altri paesi. Fu eletto. Da quel momento l'Associazione assunse il carattere di un partito e partecipò alle
elezioni di vari organismi della comunità con il nome di «Aliyah Hadasha» (Nuova immigrazione). Alle elezioni del 1944 per il Consiglio nazionale degli ebrei di Palestina, il Vaad Leumi, ottenne più di 20.000 voti, vale a dire circa il 10 per cento del totale, e con i suoi diciotto rappresentanti diventò il quarto partito del paese. Qualche mese prima delle elezioni Ben Gurion aveva convocato una riunione di militanti di origine tedesca a Kfar Yedidya, una cooperativa agricola nella valle di Hefer, fondata una decina di anni prima da immigrati provenienti dalla Germania. Voleva convincerli a impostare la loro campagna elettorale sulla lotta contro Aliyah Hadasha. Nel corso del dibattito, però, si levarono diverse voci di yekke a lamentare che lo yishuv non li aveva mai accettati, che tutti sognavano di tornare in Germania alla fine della guerra. Eppure, ricordarono a Ben Gurion, molti pionieri, così orgogliosi del loro nazionalismo, erano anch'essi arrivati in Palestina non da sionisti, ma da profughi, compresi i leggendari Biluin che, in fuga dai pogrom russi, avevano fondato le prime colonie ebraiche alla fine dell'Ottocento. Ben Gurion, che era lì per compiacerli, disse che capiva le loro ragioni. Parlò a lungo della dialettica fra il sionismo della «redenzione» e il sionismo del «soccorso»; dichiarò che l'impresa sionista in Palestina si basava su entrambe le forze, sull'ideale nazionale della Terra di Israele così come sulla realtà della sofferenza ebraica. Gli yekke potevano sentirsi soddisfatti: Ben Gurion li aveva inseriti nell'alveo della storia sionista. Non li avrebbe mai più chiamati yekke, promise. Tuttavia non nascose la convinzione che gli ebrei dell'Europa orientale fossero dei sionisti migliori. E, conversando con gli ebrei di origine tedesca, continuò a parlare di «noi» e di «voi»: «noi» dell'Europa orientale, il vero Israele, e «voi», gli yekke, stranieri che dovete ancora dimostrare quello che valete. Utilizzò nei loro confronti quasi tutti gli stereotipi negativi in circolazione. Ironizzò sulla nostalgia per la cultura tedesca e li punzecchiò riguardo al loro legalitarismo. In Germania, disse, la legge era legge: «Là, prima di fare la rivoluzione, si chiede il permesso al Polizeimeister». Era stata proprio la tipica obbedienza dei tedeschi a permettere l'ascesa al potere dei nazisti. E lasciò intendere che, se in Germania gli ebrei non fossero stati perseguitati in quanto ebrei, sarebbero diventati anch'essi
filonazisti. «Chi di noi viene dalla Russia ... ha assorbito una parte dello spirito della Rivoluzione russa» dichiarò con orgoglio, come se lui fosse nato in Russia anziché in Polonia e come se le masse sovietiche si fossero ribellate alla dittatura stalinista. Il luogo comune dei tedeschi ossequenti alla legge era duro a morire. Su un treno che andava da Haifa a Nahariya c'era uno yekke, raccontava una barzelletta. Soffriva perché era seduto in senso contrario al movimento del treno. Arrivò in stazione con il mal di testa e le vertigini. Era stato malissimo, si lamentò con gli amici di Nahariya. Ma perché, gli domandarono, non hai chiesto al passeggero che ti stava di fronte di scambiare il posto? Era proprio questo il punto: di fronte non c'era nessuno! Molti yekke erano davvero estremamente ligi alle regole. Nel 1938 i nazisti obbligarono tutti i cittadini tedeschi di origine ebraica ad assumere un nome ebreo. Era una misura che, come la stella di Davide sul vestito e il timbro speciale sul passaporto, serviva a identificarli e a isolarli. Chi non avesse già uno dei nomi pubblicati nell'elenco stilato dalle autorità, doveva aggiungere al suo Israel se era di sesso maschile e Sarah se era di sesso femminile. L'Associazione immigrati tedeschi fece osservare che alcuni dei nomi elencati dai nazisti, come Feibi per esempio, non erano ebraici, mentre la lista non comprendeva alcuni nuovi nomi ebraici, come Uri, e ne includeva invece altri chiaramente ridicoli, come il biblico Hamor, che in ebraico significa asino. Negli archivi del consolato tedesco a Gerusalemme ci sono diverse lettere degli yekke locali, alcuni dei quali erano ancora cittadini tedeschi, che comunicavano al Reich l'intenzione di rispettare la legge adottando il nome Israel o Sarah, a seconda dei casi. «Ho aggiunto come di dovere il nome Israel al mio» scrisse al consolato tedesco Fritz Israel Stein da Kfar Yedidya. Il consolato gli notificò il cambiamento e Stein ringraziò. Ma siccome la lettera che ricevette era indirizzata a «Isidore Stein», Stein scrisse di nuovo al consolato per chiedere se il suo nome fosse Isidore o Israel. Forse Stein, e come lui molti altri, desiderava semplicemente conservare la cittadinanza tedesca o il diritto alla pensione. Certo è però che nella storia dolorosa dei rapporti fra gli yekke e la loro antica patria è difficile imbattersi in un episodio più grottesco. Molti yekke erano turbati dallo scarso rispetto per l'autorità che vigeva nello yishuv:
forse, si dicevano, era colpa dell'oppressione che gli ebrei avevano subito nei paesi da cui provenivano, come quelli dell'Europa orientale, dove erano stati costretti a imparare l'arte di arrangiarsi per sopravvivere in un mondo di latifondisti. Ma cercavano anche delle giustificazioni: le organizzazioni sioniste erano obbligate a svolgere numerose attività illegali, come l'immigrazione clandestina, in violazione delle norme imposte dal mandato britannico. Non sospettavano, gli yekke, che di lì a poco i leader dello yishuv avrebbero sferrato l'offensiva per cacciare gli inglesi dalla Palestina ricorrendo anche al terrorismo. «Uno dei nostri compiti fondamentali in questo paese» scrivevano gli yekke nel loro bollettino «è modificare a poco a poco quest'atteggiamento, sostituendolo con uno più positivo nei confronti delle istituzioni.» Ben Gurion cercò comunque di coinvolgerli nella lotta contro il regime britannico. Se soltanto fosse riuscito a liberarli da quella loro tendenza teutonica a obbedire a qualsiasi legge e a qualsiasi regime, anche se oppressivo e malvagio, si diceva. Se soltanto gli yekke avessero capito un po' più a fondo la realtà della Palestina, si sarebbero sicuramente resi conto che era arrivato il momento di cacciare gli inglesi e di fondare uno Stato ebraico anche a prezzo della guerra con gli arabi. Per Ben Gurion tutto si riduceva a una questione di mentalità. Non lo sfiorava neppure il pensiero che gli yekke potessero avere idee politiche diverse dalle sue. Poteva tutt'al più «rispettare» i fondamenti etici in base ai quali rifiutavano di compiere attività che avrebbero potuto concludersi con un'ingiustizia nei confronti degli arabi. In Germania gli ebrei si erano in genere riconosciuti nel movimento nazionale centrista e liberale, che era entrato in crisi durante la prima guerra mondiale e aveva cessato di esistere immediatamente dopo. In terra tedesca gli stessi sionisti avevano propugnato un nazionalismo moderato e nonviolento, ben diverso dallo sciovinismo allora trionfante in Europa. Anche in Palestina gli yekke erano favorevoli a un compromesso fra il sionismo e il nazionalismo arabo-palestinese. Molti di loro, alcuni dei quali erano immigrati nel paese prima dell'ascesa del nazismo, si battevano attivamente per promuovere la collaborazione fra ebrei e arabi. La Lega per l'amicizia araboebraica, Brit Shalom, Bar-Kochba, Ihud e altre minuscole
organizzazioni pacifiste sostenevano che gli ebrei e gli arabi potevano vivere insieme nella stessa terra sotto un regime straniero, britannico o internazionale. Le soluzioni che proponevano, dall'autonomia alla «cantonizzazione», erano diverse fra loro, ma tutte prevedevano in genere la coesistenza fra arabi ed ebrei e rifiutavano la divisione del paese in due Stati indipendenti, com'era invece nella volontà dei sionisti e del movimento nazionale palestinese." La loro posizione centrista si dimostrò insostenibile in Palestina esattamente come lo era stata in Germania. Paradossalmente, la massiccia immigrazione tedesca ebbe l'effetto di rafforzare il nazionalismo di entrambi i fronti. Nel suo primo discorso dopo le elezioni Rosenblùth accettò, con sorpresa dei suoi compatrioti e colleghi di partito, l'ipotesi di fondare uno Stato ebraico «purché questo non ci trascini in una "guerra dei Trent'anni" con il mondo arabo». L'Associazione immigrati tedeschi nel suo bollettino e l'Aliyah Hadasha nei documenti interni si erano fino ad allora battute perché venissero ridotte le pressioni nazionaliste della leadership sionista, cessassero gli attentati terroristici contro il regime britannico e si raggiungesse un compromesso con gli arabi sul controllo della Palestina. Aliyah Hadasha aveva sempre parlato di un «focolare nazionale» e mai di uno «Stato». I contrasti in seno ad Aliyah Hadasha esplosero quando il partito decise di appoggiare il progetto di spartizione proposto dall'ONU nel 1947. L'opposizione interna attaccò Felix Rosenblùth, sostenendo che la spartizione sarebbe stata possibile soltanto espellendo con la forza gli arabi dalla Palestina. Il dibattito fu violentissimo. «E' stato un trauma scoprire che la nostra corrente è favorevole alla spartizione e alla creazione di uno Stato ebraico» scrisse a Rosenblùth un militante di Gerusalemme, Erich Goldstein. Non era il solo a essere sconvolto, ma il partito non ne tenne conto. «Dobbiamo abituarci all'idea che non si può dire in pubblico tutto quello che pensiamo» annotò Rosenblùth. Parlava a ragion veduta. Con la fondazione del loro partito, gli yekke si esposero ad attacchi molto più violenti di quelli subiti in precedenza. Si difesero sostenendo che la creazione di Aliyah Hadasha rientrava nel loro sforzo per integrarsi, ma furono accusati di partigianeria etnica e bollati come traditori per la posizione conciliante assunta verso gli
arabi. Il bollettino dell'Associazione immigrati tedeschi riferì che un giornale in lingua ebraica aveva definito Aliyah Hadasha il partito della «razza padrona», approvato da Hitler. Poiché la spartizione del paese era ormai inevitabile, ragionava Felix Rosenblùth, era inutile opporsi. Tanto valeva difendere Aliyah Hadasha lottando dall'interno. Quando Israele dichiarò l'indipendenza, egli fondò il partito progressista e fu ministro della Giustizia nel governo diretto da Ben Gurion. Poco dopo cambiò nome, assumendo quello di Pinhas Rosen. Un compromesso del genere era inconcepibile per Georg Landauer: uno Stato ebraico conquistato al prezzo di una guerra interminabile con gli arabi significava la fine del sionismo. Landauer era ancora convinto che fosse possibile raggiungere un compromesso con gli arabi, purché intervenisse una forza esterna, internazionale, a imporre una soluzione alle due parti. In una lettera privata a Rosenblùth, egli scrisse con tono accorato e atterrito: vedo infrangersi davanti ai miei occhi il sogno di un sionismo umanistico, lo vedo trasformarsi in una forza violenta, nazionalista, distruttiva. In un clima politico così cambiato non c'era posto per lui. Rassegnò le dimissioni dal partito e fu ben presto dimenticato. «Non eravamo né carne né pesce» sintetizzò Shimon Sigfried Kanowitz, uno dei fondatori di Aliyah Hadasha e del partito progressista, che in Germania era stato vicepresidente dell'Organizzazione sionista. «Non stavamo né di qua, né di là, eravamo un ponte.» Kanowitz, che era medico, fu in seguito eletto deputato alla Knesset. Il suo nome diventò proverbiale nel Parlamento israeliano: una «legge alla Kanowitz» è una buona legge, però inattuabile, come quella contro l'inquinamento acustico e di altro genere, che riuscì a far approvare con grande sforzo. La sua storia è emblematica di quella di tutti gli yekke: possedevano i valori giusti, ma non furono in grado di imporli nella politica israeliana. La loro forza non si tradusse mai in strutture collettive in alcun campo: né politico, né economico, né militare. Ebbero pochi ministri e tanti banchieri, imprenditori, generali e ambasciatori. I personaggi davvero influenti furono rari e si trattò in genere di giudici (compresi diversi presidenti di tribunale), di direttori di giornali, di qualche alto burocrate, artista e accademico. Come gruppo, perciò, gli immigrati tedeschi non realizzarono tutte le loro potenzialità, ma contribuirono fortemente
a plasmare la società, la cultura e la mentalità dello Stato emergente. Fra l'isolazionismo nazionalista del sionismo israeliano e l'apertura verso l'ebraismo mondiale, gli yekke scelsero in maggioranza l'apertura e i valori dell'umanesimo universale. Fra la religione e il liberalismo laico, optarono per il liberalismo. Fra i bisogni del paese e i diritti dell'individuo, privilegiarono i diritti dell'individuo. Fra l'improvvisazione pressappochista e la professionalità, vollero essere professionisti. Fra l'illegalità e la legge e l'ordine, si schierarono per la legge e l'ordine. Fra la violenza, il militarismo, l'estremismo, l'ostilità verso gli arabi e la ricerca della pace, sposarono la tolleranza e il compromesso. La lotta per determinare il carattere etico e ideologico di Israele era cominciata prima del loro arrivo, ma dagli yekke ricevette nuovo impulso. Furono fra i protagonisti: uscirono sconfitti e forse la vittoria era impossibile. Israele nacque dal terrore, dalla guerra e dalla rivoluzione; forse la sua creazione richiedeva una certa misura di fanatismo e crudeltà. Nei suoi primi giorni di vita fu uno Stato ben diverso da come l'avevano sognato gli yekke, ma i valori che insieme a loro erano fuggiti dalla Germania nazista sopravvissero alla loro morte. La lotta per conservarli è diventata una costante nella vita israeliana. Gli yekke furono i primi profughi ad arrivare in Palestina dall'Europa nazista. Georg Landauer, che era uno di loro, registrò con fedeltà e distacco la reazione dello yishuv ai fatti della Germania e dell'Austria. «Le notizie dall'Europa hanno sconvolto tutti» scrisse nel 1938 dopo la Notte dei cristalli «ma lo yishuv è impegnato nei problemi locali: il destino politico di Israele, l'immigrazione, la sicurezza. La stampa reagisce con grande veemenza agli avvenimenti europei, ma l'opinione pubblica non è molto interessata.» Quando si diffuse la notizia dello sterminio degli ebrei, Landauer osservò: Via via che appare più chiaro che lo yishuv è impotente, che non ha nessuna possibilità di salvare gli ebrei d'Europa, si infittiscono le manifestazioni di cordoglio e di protesta. Gridano al cielo. Le loro grida diventano un'abitudine e l'effetto si smorza, perde vigore, cessa di essere una reazione naturale e spontanea. Il lutto e la collera diventano una sorta di dovere nazionale, gli oratori e i commentatori fanno a gara fra chi suscita più emozione. E' orribile vedere la tragedia degli ebrei trasformarsi
in una «questione». Soltanto il primo grido è stato un grido vero, sgorgato da dentro. Queste parole furono scritte nel 1943: lo sterminio degli ebrei era al culmine.
PARTE SECONDA L'OLOCAUSTO: «C'ERA SCRITTO SUL GIORNALE» CAPITOLO III «ROMMEL, ROMMEL, COME VA?» In un teatro di Tel Aviv, appena qualche giorno dopo l'invasione della Polonia e lo scoppio della seconda guerra mondiale, si tenne la centoventicinquesima replica di una celebre commedia antimilitarista, Il buon soldato Svejk, tratta dalle Avventure del buon soldato Svejk di Jaroslav Hasek. La recita ebbe un enorme successo, ma il dolce, maldestro soldato suscitò le ire di un celebre critico, che sul suo giornale lo definì un cretino, un disfattista, un disertore, un essere spregevole e pericoloso. «Se, il cielo non voglia, gli eserciti dei paesi democratici avessero nelle loro file tanti Svejk, Hitler avrebbe già conquistato il mondo intero» tuonò. Non capiva perché mai «quel pacifista ridicolo e rozzo» fosse tanto amato in un momento simile, in cui dall'esito della guerra dipendeva tutto: «il nostro futuro, la nostra esistenza di esseri umani e di ebrei». A quell'epoca la stampa ebraica sapeva essere molto patriottica. La guerra della Gran Bretagna contro la Germania nazista veniva vissuta come la guerra degli ebrei di Palestina. Nel settembre del 1940 gli italiani, che combattevano contro gli inglesi, bombardarono il centro di Tel Aviv, provocando più di cento morti. Venne immediatamente imposto l'oscuramento: furono spenti i lampioni, i fari delle macchine, le luci dei negozi e chiuse le imposte delle finestre. Fu anche introdotto il razionamento come in Europa, e si fece appello ai cittadini perché preparassero le conserve e dessero il loro contributo al fondo per l'emergenza. Migliaia di giovani si arruolarono nell'esercito britannico. La Palestina diventò cosmopolita: le vie si affollarono di soldati inglesi, australiani, neozelandesi, africani, francesi delle Forze libere, polacchi e cechi.
Le vetrine dei negozi esibivano cartelli con su scritto: «Si parla portoghese», «Si parla serbo», «Si parla senegalese». «Una vera torre di Babele» annotò nel suo diario un poliziotto. La Palestina equipaggiò le truppe britanniche di tutto il Medio Oriente, rifornendole di munizioni, mine, carburante, pneumatici e pezzi di ricambio. Vestì e calzò i soldati, li nutrì, li alloggiò e li intrattenne nei giorni di licenza. «Hanno tutti le tasche piene di soldi» scrisse, con stupore e una punta di moralistico disprezzo, un osservatore a un amico. I caffè, i bar e le sale da ballo vendevano sogni inebrianti popolati di soldati e avventurieri, mercanti e imbroglioni, profughi, poeti, sognatori, agenti segreti e prostitute al servizio di tutti. Era un'industria che dava lavoro a diecimila persone. Il passaggio dall'economia di pace a quella bellica non fu indolore, ma nel complesso il paese ne trasse beneficio. Alla vigilia della guerra la Palestina non era ancora uscita dalla depressione in cui era piombata nel 1936: l'immigrazione era diminuita, il conflitto araboebraico si era radicalizzato e il terrorismo intensificato. L'economia araba era rimasta a lungo paralizzata dalla grande rivolta palestinese contro il sionismo e la guerra aveva ridotto le esportazioni di agrumi e bloccato l'edilizia. Nell'agosto del 1940 i disoccupati avevano toccato la cifra record di 27.000 unità, quasi il 15 per cento della forza lavoro ebraica. Poi, però, la Gran Bretagna cominciò a sfruttare il potenziale industriale palestinese e l'economia rifiorì, tanto che non solo diminuì la disoccupazione, ma si ebbe scarsità di manodopera. Nacquero allora le prime vere industrie: stabilimenti metallurgici, tessili, calzaturieri, alimentari, gommifici e cementifici. Il censimento del 1943 rivelò che in un quinquennio erano sorte oltre cinquecento fabbriche: il triplo di quelle esistenti in precedenza con il doppio di addetti. Decine di migliaia di persone lavoravano alle difese del paese, soprattutto nel nord, dove furono costruite tra l'altro numerose caserme di polizia fortificate. Il 15 per cento della forza lavoro ebraica era impiegato nell'industria bellica. I nuovi insediamenti, per lo più kibbutz, si moltiplicavano: durante la guerra ne spuntarono una cinquantina, quasi uno al mese. Mentre l'esercito tedesco dilagava in Europa e Africa settentrionale, anche la Palestina cominciò a temere per la propria sorte. Il pericolo sembrò imminente nell'estate del 1940,
nella primavera del 1941 e poi di nuovo nell'autunno del 1942. Lo yishuv sprofondò nel panico: se fosse avvenuta l'invasione, sarebbe stato l'Olocausto. «Ieri le campane delle chiese di Gerusalemme hanno suonato per ore e il giorno prima, Shabbat, sembrava che tutti gli ebrei fossero venuti a gemere al Muro del pianto» annotò nel diario il solito poliziotto, Haviv Canaan. «Una fiumana di gente affluiva al Muro, premeva, pregava, lo baciava e bagnava di lacrime il muschio bruno fra le fenditure delle sacre pietre.» Gli ebrei di Palestina erano certi che i nazisti li avrebbero sterminati tutti, proseguiva il diarista. Correva voce che la Gestapo avesse pronta la lista degli oppositori al regime nazista immigrati in Palestina: sarebbero stati loro i primi a morire. Parecchi cercarono di andarsene, ma non era un'impresa facile. Si mormorava che in caso di occupazione la città vecchia, quella racchiusa dentro le mura, sarebbe stata risparmiata, perché posta sotto la protezione della Croce rossa internazionale o del Vaticano e dichiarata città aperta. Cominciarono allora ad affluire a Gerusalemme ebrei da ogni parte del paese, fra cui anche molti che si erano rifugiati in Egitto. Angosciati e confusi, bussavano a ogni convento, a ogni chiesa, in cerca di asilo. Alcuni suoi amici, scriveva Canaan, portavano sempre con sé una fialetta di cianuro: non volevano correre rischi. Nel mese di giugno del 1941 l'esercito britannico distribuì un questionario ai soldati ebrei in Palestina, chiedendo se desideravano trasferire i familiari in Sudafrica. Alcuni risposero di sì, altri rifiutarono, altri ancora nell'incertezza si rivolsero all'Agenzia ebraica. Moshe Sharett si consultò con Ben Gurion e rispose che l'Agenzia disapprovava l'iniziativa, ma lasciava ciascuno libero di decidere. Nel contempo, però, espresse il proprio disappunto al comandante delle truppe britanniche in Palestina, lamentando che il questionario seminava inquietudine fra la popolazione. Si cominciò a discutere di evacuare i civili: alcuni proponevano di trasferire soltanto le donne e i bambini dalle zone di frontiera all'interno del paese; altri sostenevano che occorreva portare via tutta la popolazione, inviandola in India o negli Stati Uniti; altri ancora suggerivano che i giovani si unissero all'esercito britannico in ritirata, preparandosi a combattere per la liberazione della Palestina. Fu presa in considerazione l'idea di inviare all'estero
alcuni dirigenti dell'Agenzia ebraica, «un pugno di personalità» dichiarò Zaiman Aran, un nucleo sionista che garantisse la continuità e istituisse un governo in esilio analogamente a quanto avevano fatto altri paesi occupati dai nazisti. L'estensore di una memoria indirizzata a Moshe Sharett affermava: «Occorre discutere seriamente se non sia il caso di mandare in America o in Sudafrica l'intera direzione sionista, con tutte le istituzioni e la cassa, in modo da garantirne il funzionamento. Altrimenti si rischia di mettere a repentaglio le forze sioniste più preziose e importanti». Nel frattempo, però, si preparavano anche i piani per contrastare l'invasione tedesca. Alcuni, prevedendo l'occupazione, propendevano per la guerriglia e il terrorismo. Altri chiedevano che tutte le azioni militari fossero compiute da soldati in divisa per non offrire ai tedeschi il pretesto di vendicarsi sui civili. Qualcuno suggerì di cercare di ottenere lo status di prigionieri di guerra per tutti gli abitanti dello yishuv. Moshe Dayan propose di allestire una rete segreta di ricetrasmittenti per spiare il nemico e di addestrare al sabotaggio e alla guerriglia gli immigrati tedeschi dall'aspetto «ariano», che avrebbero potuto compiere le loro azioni vestiti con la divisa del Reich. Da questo suggerimento nacque l'«unità tedesca» del Palmach (le truppe speciali della Haganah): a generarla furono la paura dell'invasione e il timore che gli arabi si schierassero con gli occupanti.* Nell'esecutivo dell'Agenzia ebraica un dirigente consigliò di arrendersi ai tedeschi: finché c'era anche un solo filo di speranza, sostenne, preferiva vivere, sia pure rinchiuso in un ghetto, e perciò era contrario alla guerriglia. Un altro gli diede ragione: in fondo, osservò con amarezza, sarebbero bastate poche ore per spazzare via l'intera organizzazione sionista. Fu un lungo dibattito, che ruotò intorno alla contrapposizione fra il valore della vita a ogni costo e la morte onorevole. «Io, da sionista, dico: se siamo destinati a cadere, cadiamo qui, con le donne e i bambini e tutto quello che abbiamo. Intendiamoci, non voglio vederci morire, ma non voglio neanche vederci partire, non finché siamo vivi» dichiarò Yitzhak Tabenkin, uno dei leader dell'Hakibbutz Hameuhad, la più grande federazione dei kibbutzim. Le sue parole esprimevano il patriottismo estremo dell'elite sionista, che si considerava l'avanguardia nazionale e temeva l'ignominia della resa
almeno quanto l'invasione. «La bandiera ebraica nella Terra di Israele non avrà più alcun valore se gli ebrei di Palestina non si leveranno in un ultimo eroico sforzo a difenderla» proseguì Tabenkin. Il poeta Natan Alterman aveva già pronta un'ode sulla loro fine gloriosa: «Non ci sono traditori fra loro, non c'è paura, e domani periranno fino all'ultimo uomo». Erano versi ispirati alla concezione eroica di Masada, alla lotta fino alla morte, al suicidio come scelta d'onore.** «Che cosa farai, quando verranno qui e ti ordineranno ... qui nella Terra degli ebrei, di portare la stella gialla di Davide?» chiede nell'ode un esponente del kibbutz Ramat Hakovesh. «La mia risposta è semplice: non mi lascerò condurre al macello. Andrò incontro alla morte, ma combattendo fino allo stremo. Non ho scelta, non ho un rifugio, perché questo è l'unico, l'ultimo pezzo di terra. Masada non è soltanto una battaglia all'ultimo sangue, è anche lo spirito combattivo degli ebrei, il nostro rifiuto della resa.» Quelli che invece erano favore * Negli archivi sionisti è conservata quella che si sostiene essere la copia di ima lettera inviata da un esponente della comunità ultraortodossa e antisionista di Gerusalemme all'Alto commissariato arabo. In essa si legge: «Ci sono persone tranquille della vecchia generazione che non si sono mai occupate di politica, sono sempre state contrarie alla linea sionista e hanno trattato la nazione araba con rispetto e cortesia». Queste persone, prosegue lo scrivente, devono essere risparmiate all'arrivo dei nazisti. Moshe Sharett, da parte sua, annotava che non tutti gli arabi erano filotedeschi. (Nota: «Yonatan Maccabeo costruì una rocca sull'altura di Masada, sul Mar Morto, che Erode il Grande ampliò e rafforzò. Alla morte di Erode la fortezza passò ai romani, ma fu conquistata nel 66 d.C. dagli ebrei zeloti durante la rivolta contro l'impero. Essi vi si asserragliarono e resistettero per tre anni, poi, piuttosto che arrendersi, si suicidarono in massa. (NdT) I favorevoli ad arrendersi sostenevano che l'onore degli ebrei aveva la sua espressione più alta nei valori etici, nel fatto che essi non erano «una razza padrona». Ancora nel 1942 lo yishuv agitava la bandiera della morte eroica per condannare i fratelli d'Europa che
non erano insorti contro i nazisti. «Il problema degli ebrei dell'Esilio è che preferiscono la vita del cane bastonato alla morte con onore» dichiarò Yitzhak Gruenbaum. Convinto che del progetto sionista non si sarebbe salvato nulla se ci fosse stata l'invasione tedesca, sosteneva che l'unica soluzione era «cercare di lasciarci alle spalle una leggenda degna di Masada». La minaccia dell'invasione generò un fantasma, il Piano Nord. Il progetto prevedeva che gli ultimi combattenti, e forse quel che restava della popolazione ebraica, si raccogliessero a settentrione, sul monte Carmelo o in Galilea, per morirvi con le armi in pugno. «Un'idea straordinaria» la definì in una lettera alla moglie uno dei comandanti della Haganah, un'idea che sembrava assommare in sé lo spirito di Masada, di Musa Dage, insieme, di Stalingrado. E' quasi certo, tuttavia, che il Piano Nord non raggiunse mai la fase operativa. Anche l'Irgun era consapevole del valore simbolico del suicidio di massa: pensò di infiltrare un migliaio di guerriglieri nella città vecchia di Gerusalemme, dove avrebbero istituito uno Stato autonomo dentro le mura e lo avrebbero difeso fino all'ultimo uomo. Un documento anonimo, conservato negli Archivi centrali sionisti, testimonia che non tutti pensavano alla morte: c'era anche chi si preoccupava di come sopravvivere all'invasione tedesca. «E' difficile prevedere l'atteggiamento degli occupanti nei confronti dello yishuv ebraico» affermava l'estensore del memorandum. Egli ipotizzava, però, un governo militare d'occupazione simile a quelli già esistenti in Europa, che con il tempo avrebbe dato vita a un'amministrazione civile controllata dalla Gestapo. La soluzione presentava se non altro un vantaggio: per mantenere l'ordine, i tedeschi avrebbero tenuto a bada gli arabi. Ben difficilmente, tuttavia, avrebbero tollerato l'Agenzia ebraica. Egli suggeriva perciò che l'Agenzia cessasse ogni attività politica e si presentasse come un'istituzione comunitaria, con il compito di organizzare l'immigrazione in Palestina degli ebrei europei e insegnare l'ebraico ai nuovi arrivati. Bisognava quindi eliminare alcuni uffici dell'Agenzia e trovare lavoro ai dipendenti licenziati. Naturalmente, proseguiva il documento, la Gestapo avrebbe cercato di smantellare la Histadrut, il sindacato confederale dello yishuv, le cui idee socialiste erano ben note alla polizia segreta nazista. Occorreva perciò dare anche alla
Histadrut l'aspetto esteriore di un'istituzione comunitaria di tipo economico e sopprimere le associazioni che si occupavano degli immigrati provenienti dalla Germania, dall'Austria, dalla Cecoslovacchia e dalla Polonia, per impedire che i nazisti ne utilizzassero gli elenchi per la loro caccia alle streghe. Anche in Palestina, proseguiva l'anonimo relatore, «ci sarebbero state, come in tutti gli altri paesi, persone disposte a collaborare con la Gestapo. Le conosciamo una per una e bisogna internarle in appositi campi lontano da qui, all'estero». Ovviamente lo yishuv avrebbe dovuto essere rappresentato presso gli occupanti. Il suo suggerimento era di scegliere subito i candidati e porli ai vertici della Histadrut e di altri organismi: «E' essenziale una nomina immediata che li renda autorevoli agli occhi degli invasori e impedisca che vengano considerati traditori qui e all'estero». Raccomandava infine di passare al setaccio gli archivi e le biblioteche, per distruggere tutto il materiale compromettente, comprese le fotografie dei leader marxisti e i loro manifesti con i relativi slogan. Che cosa avrebbe scelto lo yishuv? La morte onorevole, lasciando in eredità alle future generazioni la leggenda dell'eroismo sionista e la gloria eterna, oppure la sottomissione allo Judenrat locale, come avevano fatto gli ebrei nei ghetti dell'Europa nazista, lasciandosi alle spalle una scia di vergogna e ignominia? Non lo sapremo mai: i tedeschi non arrivarono a Gerusalemme. Alla fine del 1942, dopo la sconfitta di Stalingrado e del Sahara, la Palestina capì che il pericolo era cessato e il buon soldato Svejk riprese a calcare le scene nei teatri gremiti. Sepolto in uno dei tanti volumi della raccolta di «Hapoel Hatsair», il settimanale del Mapai, c'è un editoriale nel quale è espressa con grande chiarezza l'importanza che la classe dirigente sionista attribuiva alla comunità ebraica di Palestina rispetto alle comunità della Diaspora: «Se il nemico fosse riuscito a colpirci qui, ci avrebbe colpito al cuore. La devastazione sarebbe stata sicuramente minore dal punto di vista quantitativo di quella che hanno subito gli ebrei d'Europa, ma sarebbe stata maggiore dal punto di vista qualitativo, per la sua importanza storica». Era questo il clima in Palestina quando giunsero le prime notizie sullo sterminio degli ebrei. Trapelarono goccia a goccia e da principio non suscitarono grandi reazioni. Il 30 giugno 1942 «Davar», il prestigioso giornale della
Histadrut, riferì che in Europa era stato assassinato un milione di ebrei. L'articolo era in prima pagina, ma di spalla. Tutto sommato non rivelava niente di nuovo, né di sorprendente: titoli analoghi erano già comparsi in precedenza. Le notizie sulla sorte degli ebrei filtravano regolarmente in Occidente da varie fonti e venivano diffuse senza troppe difficoltà o ritardi per posta, per telegrafo e per telefono. Arrivavano anche informazioni di prima mano, fornite a volte da testimoni oculari fuggiti dai paesi occupati: profughi, diplomatici, uomini d'affari, messaggeri, giornalisti e spie. Non tutte le fonti erano affidabili, non tutto quello che si sapeva altrove era noto in Palestina e non tutte le notizie giunte ai leader dell'Agenzia ebraica venivano rivelate immediatamente all'opinione pubblica. Tuttavia, sommando i dati a disposizione, il direttore di un giornale di Tel Aviv era giunto alla conclusione che i nazisti stavano sterminando sistematicamente gli ebrei, anche con le camere a gas. Gli articoli sulla sorte degli ebrei in Europa venivano di solito pubblicati accanto ai grandi servizi dal fronte, come se si trattasse di un aspetto particolare di quella che era la vera tragedia. La stampa si lasciò così sfuggire una delle più grandi storie del secolo. Ogni tanto i giornali accusavano le testate concorrenti di esagerare. «Abbiamo denunciato più di una volta la deplorevole tendenza di alcuni quotidiani a gonfiare tutte le voci catastrofiche sullo spargimento di sangue ebraico, a moltiplicare il numero delle vittime e dei morti, a tracciare un quadro a tinte fosche per rendere ancora più nero quello che è già nero e impressionare ancora di più i lettori» lamentava un giornalista. «A che prò? Gli ebrei non hanno già abbastanza guai?» E non era il solo a pensarla così. «La spaventosa notizia proviene dalla fonte menzionata» precisava «Davar» con tono distaccato, pubblicando in seconda pagina la testimonianza di una persona che nei pressi del villaggio di Chetmno, in Polonia, aveva visto uccidere con il gas gli ebrei stipati dentro i camion. Il giornale aveva già riferito qualche mese prima, senza riserve ma anche senza enfasi, la notizia che i tedeschi utilizzavano gli automezzi come camere della morte mobili. Quel giorno il titolo principale l'aveva riservato alla guerra sottomarina e l'editoriale alle critiche del sistema sanitario palestinese, controllato dal governo britannico. Articoli analoghi erano
comparsi anche su altri giornali. «Haaretz», per esempio, aveva parlato delle atrocità commesse a Kharkov, in Ucraina: «Gli schiavisti nazisti hanno costretto masse di ebrei seminudi a sfilare per le strade della città, frustandoli e picchiandoli con le canne dei fucili. Vecchi e bambini, sfiniti, stramazzavano a terra». L'articolo era nella seconda pagina in basso con un titolo a una sola colonna, preceduto dall'annuncio della grande vittoria della squadra di calcio dello yishuv a Damasco («Schachewitz ha segnato due goal fantastici»). Alla fine della guerra i giornalisti si giustificarono dicendo che non erano certi dell'autenticità di informazioni tanto atroci e inaudite: «Non ci credevo e dicevo anche agli altri di non crederci» ha scritto un redattore di «Davar». Tuttavia, dal momento che avevano paura di lasciarsi sfuggire qualche notizia importante a tutto beneficio della concorrenza, pubblicavano le informazioni, accompagnandole con tutta una serie di distinguo. Spesso ricorrevano al punto di domanda, come «Davar» quando titolò: Mezzo milione di ebrei sterminati in Romania? Una delle fonti principali sul massacro degli ebrei era l'agenzia di stampa dell'Organizzazione sionista, Palcor. I giornali dello yishuv ritenevano i suoi comunicati semiufficiali e perciò non molto affidabili. Li pubblicavano ugualmente perché, tutto sommato, si sentivano anch'essi parte del sistema sionista, ma non amplificavano mai le notizie, quasi temessero di ledere la propria indipendenza. Verso la fine di novembre del 1942 l'esecutivo dell'Agenzia ebraica rilasciò un comunicato: esisteva un piano per sterminare gli ebrei d'Europa ed era stato istituito un apposito apparato statale per attuarlo. «Sono stati uccisi senza pietà moltissimi bambini fino ai dodici anni e anche i vecchi sono stati eliminati» diceva la nota, aggiungendo che grandi masse di ebrei venivano deportate verso destinazioni ignote e sparivano nel nulla. Il comunicato era stato stilato durante una normale riunione dell'esecutivo: Ben Gurion non era presente e Moshe Sharett si era allontanato subito dopo l'esame degli sviluppi diplomatici, senza attendere la discussione del secondo punto all'ordine del giorno, che riguardava «la situazione degli ebrei in Europa». Tre settimane prima erano rientrati dall'Europa alcuni ebrei liberati in seguito a uno scambio di prigionieri effettuato dalla Gran Bretagna. Si erano
recati in Polonia prima dell'invasione tedesca del settembre 1939 per affari o per visitare i parenti ed erano rimasti intrappolati nei ghetti. Al loro arrivo in Palestina avevano informato le autorità che i nazisti stavano massacrando sistematicamente le comunità ebraiche. Dal macchinista di un treno, di ritorno dalla frontiera russa, avevano saputo che venivano rinchiusi in edifici particolari e uccisi con gas venefici. in un piccolo villaggio chiamato Oswiecim, Auschwitz in tedesco, erano già in funzione tre forni per bruciare gli ebrei e altri due erano in costruzione. La testimonianza confermava un rapporto segreto che l'Agenzia ebraica aveva ricevuto qualche settimana prima. Una spia di nome Eduard Schulte, un industriale tedesco antinazista, aveva informato il rappresentante del World Jewish Congress in Svizzera, Gerhart Riegner, che i nazisti avevano preparato un piano per annientare tutti gli ebrei d'Europa: la «Soluzione finale». Quando le informazioni dei viaggiatori furono comunicate all'esecutivo dell'Agenzia ebraica, i dirigenti si mostrarono incerti sul da farsi. «Forse dovremmo rilasciare una dichiarazione» suggerì qualcuno, ma alla fine decisero di nominare una commissione. Poi, dopo aver parlato brevemente del bilancio dell'Agenzia, passarono al punto successivo all'ordine del giorno, un contenzioso sindacale allo scatolificio Assis. Ben diverso fu il comportamento del rabbino Stephen Wise, presidente del World Jewish Congress: quarantott'ore dopo la pubblicazione del comunicato stampa dell'Agenzia ebraica, egli convocò una conferenza. Dopo il comunicato dell'Agenzia ebraica, i leader dello yishuv organizzarono manifestazioni di protesta e veglie funebri, che proseguirono per tutta la durata della guerra. I vari organismi rappresentativi convocarono riunioni straordinarie. Ci furono raduni e preghiere pubbliche nelle sinagoghe e davanti al Muro del pianto. Il rabbino capo proclamò un giorno di digiuno. Le scuole dedicarono alcune ore di lezione allo sterminio degli ebrei. Ai balconi delle case furono esposti drappi neri. Le prime pagine dei giornali uscirono listate a lutto (ma il necrologio di qualche leader locale aveva un rilievo maggiore). Di tanto in tanto i negozi tiravano giù le serrande in segno di protesta, teatri e cinema chiudevano; verso la fine della guerra ci fu una giornata di sciopero generale e tutti rientrarono a casa al crepuscolo. Ogni decisione comportava
come sempre discussioni estenuanti. «Lo yishuv deve fare qualcosa» proclamò un dirigente dell'Agenzia ebraica, proponendo lo sciopero generale e la sospensione di tutti i mezzi di trasporto pubblico. Ma un suo collega protestò subito. L'astensione dal lavoro si sarebbe trasformata in una giornata di festa: «Hitler sarebbe contento se scioperassimo, perché così danneggeremmo l'economia nazionale». Un altro suggerì allora di manifestare il cordoglio per l'Olocausto lavorando due ore in più ogni giorno come contributo allo sforzo bellico. Nel dopoguerra molti si convinsero che con il suo comunicato l'Agenzia ebraica avesse concorso a modificare sensibilmente l'atteggiamento dell'opinione pubblica nei confronti dell'Olocausto. Vari studiosi hanno sostenuto che in precedenza lo yishuv non era bene informato sulla sorte degli ebrei nei paesi occupati e che, anche nel caso lo fosse stato, non aveva comunque «introiettato» la notizia. Poi di colpo aveva capito che esisteva un piano per sterminare tutti gli ebrei d'Europa, ne era rimasto sconvolto e aveva reagito di conseguenza. La realtà era piuttosto diversa. Il comunicato dell'Agenzia ebraica conteneva poche novità, tant'è vero che il giorno dopo «Haaretz» dedicò il titolo principale di prima pagina alle notizie dal fronte di Stalingrado. E' vero che nelle settimane successive i giornali ritornarono più volte sull'argomento, talora con titoli a nove colonne e parole di lutto e di protesta. Poi pian piano lo sterminio scivolò nelle pagine interne. (Nota: Il «segreto più gelosamente custodito» di tutto il Terzo Reich filtrò quasi immediatamente per opera, si dice, dei più stretti collaboratori di Hitler. L'Agenzia ebraica non rivelò la sua fonte, mentre Wise fu autorizzato a citare il dipartimento di Stato americano. Il rabbino disse che i nazisti intendevano annientare l'ebraismo europeo e avevano già cominciato ad attuare il loro programma. La sua dichiarazione uscì sui giornali, ma a parte un breve commento del presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt e del primo ministro britannico Winston Churchill, non provocò nessuna reazione. Lo sterminio degli ebrei proseguì secondo i piani.)
A partire dalla seconda metà del 1943 l'Olocausto smise di fare notizia. «Non sono sicuro che i lettori vogliano sentir parlare di queste cose» osservò il direttore di «Davar», Beri Katznelson. «Vi siete mai seduti in qualche bar ad ascoltare il giornale radio? Non appena finiscono le notizie dal mondo e cominciano le "nostre", la gente si mette a parlare d'altro. Non la biasimo. Forse non ha la forza di ascoltare.» Evidentemente le informazioni sull'Olocausto non erano molto richieste. «Leggiamo, sospiriamo e tiriamo avanti» osservò un dirigente dell'Agenzia ebraica. «Tutti sanno che dovrebbero commuoversi alle notizie del genocidio» disse Katznelson. «Tutti sanno che la situazione è orribile, però fanno fatica a vivere quegli eventi come se facessero parte della loro esperienza personale.» Ma non per tutti era così. Alla vigilia della guerra gli ebrei in Palestina erano circa mezzo milione. Due su tre erano arrivati una decina di anni prima, uno su cinque era nel paese da un quinquennio o anche meno. La maggioranza proveniva dall'Europa centrale e orientale. Molti, forse i più, non avevano ancora reciso i legami con i luoghi di nascita. Per loro le città e i villaggi conquistati dai tedeschi non erano soltanto dei nomi letti sul giornale o ascoltati alla radio, e i campi di sterminio non appartenevano a un lontano pianeta. Ricevevano notizie di amici e parenti deportati, dispersi, uccisi: fratelli, sorelle, mariti, mogli, figli. Per loro l'Olocausto era una tragedia personale ed essi vivevano nella paura e nel lutto. Molti si erano ribellati contro «la casa paterna», come chiamavano le comunità ebraiche dell'Europa orientale, e l'avevano abbandonata, condannandola spiritualmente e ideologicamente alla distruzione. Ora che quella casa veniva davvero distrutta, erano attanagliati dal rimorso. In una poesia, il nipote Shmuel così si rivolge a Uri Zvi Greenberg: Zio, oh zio, ti ho amato sempre! Eppure ci hai lasciato in mano a un assassino e sei andato a Gerusalemme, tu, mio zio. E non hai svegliato per noi il re Davide... Come puoi vivere senza di noi, zio? Come puoi mangiare e bere e vestirti? E il poeta risponde: «Ho peccato, ho mancato, ho trasgredito, mio martire!». E, facendosi portavoce dei sentimenti di molti, conclude: «Come possiamo vivere la nostra vita? Là da voi l'inferno, qui da noi il paradiso». Eppure, nonostante tutto, nello
yishuv la vita continuava. I giornali dell'epoca restituiscono l'immagine di una società in fermento: avvenimenti sportivi, sfilate di moda, saldi di fine stagione, divertimenti di ogni genere, il tutto all'ombra degli orrori che si consumavano in Europa. Bambini ebrei uccisi con le canne dei fucili annunciava in prima pagina «Haaretz», poi però nell'ultima reclamizzava la prima dei Pagliacci con la Compagnia operistica popolare di Tel Aviv. Nel mese di marzo del 1943 lo stesso giornale pubblicò un articolo listato a lutto, come fosse un necrologio. Secondo alcune fonti, diceva «Haaretz», gli ebrei uccisi in Europa erano ormai tre milioni. Accanto c'era un servizio intitolato Briciole per Purim. Quest'anno, scriveva il giornalista, bisognava celebrare con molta sobrietà la festa di Purim, «in segno di lutto», e non con la solita sfrenata allegria. Ci fu come sempre il tradizionale ballo degli studenti, ma fu necessario il permesso speciale del Vaad Leumi. Un cinema di Tel Aviv proiettò Pinocchio di Walt Disney. Il film piacque al critico cinematografico di «Davar», che scrisse: «Gli spettatori di lingua ebraica approfitteranno certamente di quest'indimenticabile occasione per godersi il viaggio in una piacevole terra di fiaba e dimenticare per un poco un mondo nel quale gli incubi più spaventosi sono diventati realtà». Qualcuno sfruttò la guerra a scopi commerciali. La grande fabbrica di lucido da scarpe Kiwi si scusava per la temporanea scomparsa del prodotto dal mercato con queste parole: «Siamo tutti disposti a fare questo sacrificio, che è il nostro contributo allo sforzo bellico» e invitava tutti a «lottare per la vittoria, per i giorni in cui ci sarà di nuovo abbondanza di Kiwi». Nei negozi di giocattoli si vendeva un gioco che si chiamava «La strada della vittoria»; una compagnia teatrale di Tel Aviv presentava una rivista satirica in dieci quadri intitolata Rommel, Rommel, come va? Erano già usciti i primi libri sull'Olocausto ma, a differenza di quelli sul corso della guerra, non andavano a ruba. Beri Katznelson, autore di una serie di brevi saggi sul conflitto, riferì che mentre quello sul blitz londinese era andato subito esaurito, un altro contenente le lettere dal ghetto giaceva invenduto nei magazzini. «Questo la dice lunga sulla realtà della nostra vita» affermò. Golda Meir si indignò per la scarsa generosità con cui lo yishuv contribuiva alla raccolta di fondi per gli ebrei d'Europa. La gente, dichiarò, era così avara anche perché non
credeva che il denaro sarebbe arrivato a destinazione: «Vogliono la ricevuta dal ghetto per mettere mano al portafoglio» protestò. Gli avversari del Mapai accusavano l'Agenzia ebraica di imbrigliare le emozioni dell'opinione pubblica per timore che chiedesse più di quello che essa poteva o voleva fare e criticasse l'esecutivo. Era per questo, denunciavano, che l'Agenzia aveva fatto di tutto per incanalare il lutto in manifestazioni ufficiali, fredde, senz'anima. Si era decisa, polemizzavano i revisionisti, a rilasciare le prime dichiarazioni sull'Olocausto mesi dopo aver ricevuto le informazioni e aveva tenuto deliberatamente all'oscuro la comunità. Quel silenzio era lo schermo dietro cui i dirigenti dell'Agenzia nascondevano il proprio fallimento. Se avessero dato ascolto al leader revisionista Zeev Jabotinsky, avrebbero evacuato tutti gli ebrei d'Europa prima della guerra, portandoli in Palestina. Invece avevano fatto uscire soltanto i probabili simpatizzanti del Mapai. Il comunicato dell'Agenzia ebraica era in effetti incompleto: non accennava alle camere a gas, di cui essa era già al corrente. Forse l'Agenzia dubitava dell'esattezza dell'informazione; forse temeva che la notizia rendesse meno credibile l'annuncio dello sterminio, o forse aveva paura di pregiudicare la possibilità di salvare altri ebrei. Non è escluso, però, che mantenesse il silenzio nel tentativo di controllare le reazioni dell'opinione pubblica. Comunque sia, l'accusa di insabbiamento suscitò polemiche violentissime. I dirigenti del Mapai si misero sulla difensiva: «Non è vero che [l'opinione pubblica] non sapeva delle sofferenze degli ebrei europei. Sapeva tutto!» disse un leader, e un suo collega elencò tutte le notizie che erano state divulgate per iniziativa dell'Agenzia. David Ben Gurion dichiarò che non c'era bisogno degli annunci ufficiali per sapere che Hitler voleva sterminare tutti gli ebrei: bastava leggere Mein Kampf. Il guaio era, disse, che gli ebrei sono per natura sadici: anziché concentrare le energie sulle cose da fare per il futuro, preferiscono dedicarsi alla ricerca di un capro espiatorio.* Se i leader invitavano a manifestare, la popolazione scendeva in piazza, ma la disponibilità al lutto non era infinita. Gli ebrei dello yishuv avevano una caratteristica che avrebbe poi costituito uno dei fondamenti della democrazia israeliana: la tendenza a non idealizzare i dirigenti e a considerarne con
scetticismo, se non con cinismo, i discorsi infiammati. Se li invitavano a firmare una petizione, la firmavano. Se li invitavano a scioperare, scioperavano. Ma il tentativo di orchestrare il lutto collettivo riuscì soltanto in parte. La reazione composta dell'opinione pubblica aveva anche un'altra motivazione, più concreta: l'inclinazione, così profondamente radicata nella tradizione ebraica, ad aspettarsi sempre il peggio, da cui però, paradossalmente, discende anche l'ottimismo intrinseco degli ebrei. Ottimismo e pessimismo sono il frutto di una lunga storia di persecuzioni, di espulsioni e persino di sterminio di intere comunità, e di una storia altrettanto lunga di sopravvivenza e rinascita. (Nota: In realtà, né la classe dirigente, né lo yishuv che essa aveva il compito di informare sapevano tutto. Le notizie erano parziali, alimentate da voci e supposizioni. Durante una riunione del comitato centrale del Mapai, Eliahu Dobkin, dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica, dichiarò di aver parlato poche ore prima con un uomo che aveva visto con i propri occhi un ordine, firmato da Hitler, in cui si intimava di sterminare tutti gli ebrei entro il 1° gennaio 1943. Nessuno dei suoi colleghi, neppure Ben Gurion, mise in dubbio che Dobkin avesse davvero parlato con qualcuno che aveva visto «con i propri occhi» l'ordine impartito da Hitler. Eppure, di quell'ordine non si è scoperta finora la minima traccia.) Le notizie che filtravano dai paesi occupati dai nazisti non sembravano molto diverse dalle tante sofferenze che erano impresse nella memoria collettiva del popolo ebraico. Confermavano inoltre quello che ci si aspettava dal regime nazista e gli ebrei di Palestina impararono a convivere passo dopo passo con gli orrori di cui venivano a conoscenza: ogni passo preparava a quello successivo. Le manifestazioni di cordoglio persero a poco a poco di intensità: rientrarono nella routine quotidiana e diventarono un dovere civico più che un grido sgorgato dal cuore. I proprietari delle sale cinematografiche cominciarono a protestare per la chiusura dei cinema. «Con la presente esprimiamo la nostra ferma opposizione alla suddetta proposta, che priverebbe dei mezzi
di sussistenza le migliaia di persone impiegate in quest'industria» telegrafarono all'Agenzia ebraica. Ci furono lunghe trattative e si raggiunse un compromesso: le sale sarebbero rimaste aperte, ma «in segno di cordoglio» sarebbe stata soppressa la musica nell'intervallo. Alla fine del 1942 gli spettacoli di cabaret furono sospesi per trenta giorni. La popolazione fu invitata a ridurre al minimo qualsiasi festeggiamento, a non ballare e a non giocare. Il rabbinato chiese di limitare i rinfreschi e i ricevimenti in occasione delle circoncisioni e del bar-mitzvah. Più o meno nello stesso periodo una ventina di scrittori, storici e intellettuali, fra cui il filosofo Martin Buber e il romanziere Shemuel Josef Agnon, formarono un gruppo allo scopo di diffondere la consapevolezza dell'Olocausto e chiedere ai leader dello yishuv di concentrare tutte le energie nel salvataggio degli ebrei d'Europa. Scelsero di chiamarsi «Al Domi» (Non tacere), dal primo versetto del Salmo 83: «O Dio, non tacere, non startene muto non rimanere inerte, O Dio». Al Domi si rivolse ai leader dello yishuv e ai giornali, rilasciò dichiarazioni e sollecitò la solidarietà di note personalità all'estero. Nella seconda metà del 1943 contattò diversi scrittori famosi, invitandoli a firmare un appello per la salvezza degli ebrei ungheresi. George Bernard Shaw telegrafò: «Non posso far niente per aiutare gli ebrei d'Ungheria. Mi credete l'imperatore d'Europa? Ovviamente sto dalla parte degli ebrei, ma legare il mio nome alla loro causa susciterebbe un'ostilità pregiudiziale forte almeno quanto la simpatia». Al Domi non ottenne grandi risultati e il suo contributo pratico fu scarso, ma i suoi membri avevano il cuore gonfio di rabbia e la lingua affilata. Attaccarono l'apatia, l'acquiescenza, l'indecisione della comunità ebraica di Palestina: lo yishuv non stava facendo tutto quello che avrebbe dovuto e potuto fare per gli ebrei d'Europa. Invocarono un «governo di salute pubblica». Yehoshua Radler-Feldman, il polemista che si firmava Rabbi Benyamin, interruppe una commemorazione ufficiale, saltò sul tavolo della presidenza e incominciò a gridare che i dirigenti dello yishuv dovevano fare pressione sugli alleati perché bombardassero i campi di sterminio. Fu il primo, pare, a formulare questa richiesta. La sua era la voce della coscienza ma, come spesso succede, quello di cui discussero i giornali fu la collera con cui la
espresse. Il dibattito, anziché concentrarsi sul contenuto delle sue parole, ruotò tutto intorno alle maniere di Benyamin. Il quale, fra parentesi, smentì di essere saltato sul tavolo. Per le classi dirigenti il radicalismo di Al Domi fu semplicemente una seccatura. Il resto dello yishuv non se ne accorse neppure.
CAPITOLO IV «BEATA LA SCINTILLA...» La storia dei leader dello yishuv durante l'Olocausto fu sostanzialmente una storia di impotenza. Salvarono alcune migliaia di ebrei d'Europa. Forse avrebbero potuto salvarne di più, ma certo non milioni. «E' uno di quei casi, questo, in cui lo storico ha la tentazione di buttare nel cestino tutte le regole che gli sono state impartite, il linguaggio controllato, l'esame scrupoloso delle fonti, le conclusioni ponderate e documentate, e di sedersi e mettersi a piangere» ha scritto la studiosa israeliana Dina Porat a proposito di un fallito tentativo di salvare trentamila bambini. Nella seconda settimana di guerra si riunì a Tel Aviv il comitato centrale del Mapai. Dal momento che, disse Ben Gurion, il partito non aveva nessuna possibilità di influire sugli eventi d'Europa, era inutile sprecare tempo a parlare di etica. Bisognava considerare quegli eventi alla stregua di «catastrofi naturali» e vedere che cosa si poteva fare. Il trattato di Versailles, stipulato dopo la prima guerra mondiale, aveva tolto la Palestina ai turchi e l'aveva affidata al governo britannico. Gli inglesi avevano concesso ai sionisti la «dichiarazione Balfour», che riconosceva agli ebrei il diritto a istituire «un focolare nazionale» in Palestina. La seconda guerra mondiale doveva concludersi con la concessione agli ebrei di un loro Stato. Era questa, affermò Ben Gurion, la bussola che doveva guidare il movimento sionista durante il conflitto. La posizione assunta dal movimento ha lasciato dietro di sé una scia di dubbi, paradossi, ambivalenze e soprattutto di inquietanti domande. I leader del futuro Stato ebraico ritenevano che non fosse compito loro salvare gli ebrei d'Europa. Il compito dell'Agenzia ebraica, sentenziò Ben Gurion in pieno Olocausto, era edificare la Terra di Israele. Non intendeva esprimere giudizi, proseguì, stabilire che cosa fosse più importante, se costruire il paese o salvare anche un solo bambino, un bambino di Zagabria, poniamo il caso. A volte, precisò, poteva essere più importante salvare il bambino di
Zagabria. Ma il compito dell'Agenzia era salvare gli ebrei portandoli in Palestina: soccorrerli nei luoghi in cui vivevano oppure trasferirli altrove spettava ad altri organismi, come il World Jewish Congress, l'American Jewish Congress e il Joint Distribution Committee, che erano tutte organizzazioni filantropiche, non sioniste. Mai la distanza fra i dirigenti sionisti in Palestina e gli ebrei nel resto del mondo era stata così grande. Nel 1939, poco prima dello scoppio della guerra, Londra aveva promulgato una serie di leggi filoarabe, antisioniste, passate alla storia come il «Libro bianco». Le disposizioni limitavano il numero degli ebrei autorizzati a stabilirsi in Palestina nei successivi cinque anni, alla fine dei quali l'immigrazione ebraica sarebbe stata soggetta al consenso arabo. Le restrizioni imposte dalla Gran Bretagna all'immigrazione significarono la condanna a morte per moltissimi ebrei, forse per milioni, eppure, nel commentare la nuova politica britannica al comitato centrale del Mapai, così si espresse Ben Gurion: «Combatteremo questa guerra a fianco della Gran Bretagna come se non esistesse nessun Libro bianco, e combatteremo il Libro bianco come se non esistesse nessuna guerra». La sua tesi, peraltro rivelatasi giusta, era che Londra avrebbe permesso agli ebrei di Palestina di arruolarsi nel suo esercito; con il tempo il movimento sionista, forte di quest'esperienza, avrebbe costituito una propria forza armata, che sarebbe diventata il nucleo del futuro esercito israeliano. In quel dibattito, che si svolgeva a porte chiuse, un dirigente suggerì di inviare di rinforzo sul fronte francese alcune unità di questo «esercito ebraico». Ben Gurion lo ammonì immediatamente a non ripetere mai in pubblico quella proposta. Naturalmente, disse, gli ebrei volevano la vittoria dell'Inghilterra e la sconfitta di Hitler, e tutti dovevano fare il possibile per abbattere il regime nazista. Ma l'invio di truppe sul fronte francese non avrebbe portato alcun beneficio allo yishuv, mentre il compito di questo «esercito ebraico» era proprio quello di rafforzarlo, come primo, indispensabile passo verso l'indipendenza nazionale. «Ogni soldato ebreo è un futuro membro dell'esercito ebraico» dichiarò Moshe Sharett. L'arruolamento nell'esercito britannico fu perciò fin dall'inizio interpretato come un servizio reso alla nazione, non diversamente dalla militanza nella Haganah, nel Palmach e in tutte
le altre organizzazioni militari dello yishuv. I giornali si riempirono di appelli ad arruolarsi: alla fine della guerra i volontari erano circa trentamila. La Legione ebraica, che durante la prima guerra mondiale aveva combattuto a fianco dell'esercito britannico, aveva permesso al movimento sionista di avere un ruolo al tavolo dei negoziati di pace. Consapevoli di questo, i leader dello yishuv fecero di tutto per persuadere gli inglesi a istituire una brigata ebraica anche nella seconda guerra mondiale. L'obiettivo era ottenere per lo yishuv il riconoscimento di paese belligerante, status che avrebbe consentito al movimento sionista di partecipare alle decisioni sull'Europa postbellica. Ma gli inglesi, intuendo le finalità politiche celate dietro la proposta, la respinsero. La brigata fu istituita soltanto negli ultimi mesi di guerra. Vi militavano cinquemila uomini che avevano una loro bandiera e per insegna la stella gialla di Davide, simbolo della lotta contro la stella gialla imposta agli ebrei dai nazisti. La brigata fece appena in tempo a sentire gli ultimi spari. Nelle poche settimane prima della resa partecipò a qualche azione in Italia settentrionale. Dopo la guerra alcuni dei suoi soldati rimasero in Europa come rappresentanti del sionismo nei campi profughi ebrei. Molti entrarono poi nelle forze armate israeliane, dove alcuni raggiunsero posizioni di comando. Durante la guerra arrivarono in Palestina circa cinquantamila profughi; di questi, almeno sedicimila sbarcarono clandestinamente. Tutte le navi che li trasportavano entrarono nella leggenda. Ogni viaggio era un'odissea di audacia, abilità, intrighi internazionali, frustrazioni e, soprattutto, una testimonianza perenne della volontà di vivere. Bisognava procurarsi l'imbarcazione, metterla a punto, trovare l'equipaggio, i viveri e i medicinali, i documenti e la bandiera. Occorreva radunare i passeggeri nel luogo d'imbarco, spesso passando frontiere, valicando monti e attraversando foreste, tutto mentre il conflitto era al culmine. I nazisti volevano impedire agli ebrei di partire e gli inglesi di entrare in Palestina. Ogni operazione richiedeva fiducia, coraggio, capacità organizzativa, contatti, inventiva e soldi... soldi per corrompere i funzionari di polizia, i capi delle reti di spionaggio, i ministri dei vari governi e i consoli stranieri. Il Mediterraneo era un campo di battaglia pericoloso per qualsiasi nave civile e i profughi viaggiavano molto spesso su
vecchie carrette, ammassati sui ponti, in condizioni terribili di sovraffollamento, fame, scarsità d'acqua e di servizi igienici. A volte, invece, erano piccole barche a vela a solcare il mare con un pugno di persone: una salpò dalla Romania con a bordo appena una decina di passeggeri. Alcune navi riuscivano a giungere a destinazione: i profughi sbarcavano su spiagge deserte nel cuore della notte o con il mare in tempesta. Chi riusciva ad approdare in Palestina otteneva in genere il permesso di restare. Ma se le imbarcazioni venivano individuate al largo, erano costrette a invertire la rotta: alcune furono dirottate verso Cipro e i profughi internati, altre furono scortate dalla marina britannica fino al litorale palestinese e i passeggeri trasferiti su altre navi e deportati. La guerra dell'impero britannico contro i rifugiati fece le sue vittime. La Patria, una nave inglese che si accingeva a deportare alcune centinaia di clandestini catturati in mare, fu sabotata prima della partenza dalla Haganah con un'operazione frettolosa e male organizzata. Le vittime furono quasi trecento. La Struma, alla quale era stato vietato l'approdo in Palestina, affondò con il suo carico di settecentocinquanta passeggeri vicino a Istanbul. Anche altre navi colarono a picco. Più della metà dei sedicimila maapilim arrivò in Palestina per merito del movimento revisionista e di altre organizzazioni, comprese alcune agenzie di viaggio private. Quasi ottomila giunsero su navi allestite dalla Haganah, che aveva istituito una sezione speciale, chiamata Mossad l'aliyah bet, per l'immigrazione illegale. Il Mossad, che fu l'antenato dei servizi segreti israeliani, spese quasi due milioni di dollari, ossia circa 250 dollari per ogni clandestino. Ma fra il marzo del 1941 e il marzo del 1944, vale a dire nel periodo in cui il conflitto e lo sterminio degli ebrei erano al culmine, non riuscì a far approdare in Palestina neppure una nave di profughi. Non ci riuscì non soltanto per le difficoltà della navigazione clandestina in un mare su cui infuriava la guerra, o per la crisi economica in cui versava ancora la Palestina, ma anche per la riluttanza dell'Agenzia ebraica a violare la legge. L'Agenzia si era mossa unicamente a causa delle pressioni interne, provenienti dai kibbutz e dai circoli del Palmach, e per contrastare l'attivismo frenetico dei revisionisti. La guerra aveva infatti rafforzato, se possibile, la sua tendenza a collaborare con le autorità mandatarie, rispettando le quote di
immigrazione. Gli inglesi minacciavano infatti di bloccare l'immigrazione legale, se non fosse cessata quella illegale. L'Agenzia ebraica continuò anche nel periodo bellico a ribadire il proprio diritto a scegliere gli immigrati in base alle necessità dello yishuv e nel rispetto delle quote concordate fra i partiti. L'afflusso dei clandestini minacciava di far saltare il sistema: «Non c'è nessun controllo» si lagnava Moshe Sharett nel diario «i lupi [vale a dire i revisionisti] hanno ripreso la loro attività e la proseguiranno». Accettavano tutti, anche i ciechi, gli storpi «e un intero ospizio di vecchi». Sharett non chiedeva di interrompere l'immigrazione illegale, ma, persino nella fase più tragica dell'Olocausto, protestava perché gli organizzatori della haapalah non si preoccupavano di portare in Palestina il «materiale umano» più idoneo. Quale fosse il criterio per scegliere gli immigrati, Sharett l'aveva indicato all'inizio della guerra: bisognava far emigrare «i buoni» e lasciare in Europa «la feccia», indipendentemente dagli eventi. Verso la fine del conflitto, quando la Haganah riprese a occuparsi attivamente di immigrazione clandestina, non lo fece soltanto perché erano diminuite le difficoltà pratiche. Lo fece anche perché i dirigenti dell'Agenzia ebraica volevano dimostrare ai superstiti dell'Olocausto che il movimento sionista non li aveva abbandonati. Era già cominciata la lotta per impadronirsi dell'anima dei sopravvissuti. L'Agenzia ebraica temeva che alla fine della guerra i superstiti, anziché andare in Palestina, preferissero rientrare nelle loro case. Eliahu Golomb, il leader della Haganah, metteva in guardia contro il «veleno antisionista», che i superstiti avrebbero potuto spargere se si fossero accorti di non essere stati aiutati. Era dunque necessario riprendere immediatamente l'immigrazione illegale. E David Ben Gurion, con l'occhio rivolto anche alla raccolta di fondi destinati alle casse del movimento sionista, dichiarò: «Il fatto che gli ebrei di Palestina abbiano diretto le operazioni di salvataggio è un argomento importante a favore del nostro movimento». Durante la guerra l'Agenzia ebraica chiese più volte agli inglesi di aiutarla a infiltrare alcuni commando dello yishuv nei paesi occupati dai nazisti per organizzarvi la resistenza ebraica: un migliaio di uomini che avrebbero potuto sabotare, per esempio, le ferrovie su cui viaggiavano i convogli diretti ai campi di sterminio.
Ben Gurion era scettico: «Dei commando ebrei a combattere in Polonia! Ridicolo! Per avere dei commando bisogna avere uno Stato». Gli inglesi erano contrari per diverse ragioni: non credevano nell'utilità dell'operazione e non volevano rafforzare il potere dell'Agenzia o avere debiti di riconoscenza nei suoi confronti. E così tutte le proposte finirono nel cestino o si persero nei meandri della burocrazia. Moshe Sharett affidò a Randolph Churchill, perché lo illustrasse al padre, un piano per paracadutare alcuni agenti dello yishuv fra i partigiani di Tito in Jugoslavia. Il primo ministro britannico parve apprezzare il progetto, ma poi anch'esso naufragò. L'Agenzia ebraica non si arrese: fra il marzo e il settembre del 1944 riuscì finalmente a far paracadutare dalla RAF trenta suoi agenti, di cui tre donne, dietro le linee nemiche in Romania, Ungheria, Jugoslavia e altrove. Le loro missioni entrarono nella leggenda. Scelti fra più di duecento candidati, i para erano quasi tutti kibbutznik ventenni, arrivati di recente in Palestina dall'Europa, dove ora si offrivano di tornare. Avevano seguito un corso di addestramento, ma erano privi di esperienza e una volta paracadutati avrebbero potuto contare soltanto su se stessi e sulla loro fede nella missione. Quasi tutti erano stati arruolati nell'esercito britannico: gli inglesi, sperando che fornissero informazioni sul nemico, li avevano dotati di radio e istruiti a collaborare con i partigiani. Alcuni avevano il compito di liberare i piloti di caccia alleati catturati dal nemico. Alla vigilia della partenza i para furono ricevuti dai leader dello yishuv, fra cui c'erano Beri Katznelson, David Ben Gurion e Golda Meir. I volontari si aspettavano di ricevere istruzioni di tipo operativo e invece ebbero soltanto discorsi ispirati e parole di incoraggiamento. Per Ben Gurion dovevano far sì che «il popolo ebraico riconoscesse nella Terra di Israele la sua terra e il suo bastione», affinché vi accorressero a migliaia dopo la guerra. Per Eliahu Golomb essi dovevano insegnare al popolo ebraico a «tenere alta la testa». Per un dirigente dell'Agenzia ebraica dovevano portare «il Messia» fra gli ebrei dell'Esilio. Golda Meir, invece, scoppiò in lacrime, come ha raccontato il para Yoel Palgi. Gli inglesi si erano finalmente decisi ad attuare il piano dell'Agenzia ebraica quand'era troppo tardi per salvare gli ebrei e con un numero di para troppo esiguo. Restava
ben poco da fare, ma l'Agenzia non poteva più tirarsi indietro. A ispirare l'operazione, così come la ripresa dell'immigrazione clandestina, era la percezione che ben presto lo yishuv avrebbe avuto la necessità di persuadere i superstiti dell'Olocausto di non averli abbandonati. Più che di una missione militare si trattò di una missione che aveva come obiettivo il risveglio nazionale, sionista, di quel che restava del popolo ebraico. «Beata la scintilla che accende la fiamma» scrisse la più famosa di quel gruppo di para, Hannah Senesh, una poetessa ventitreenne di origini ungheresi che dopo il lancio fu catturata, torturata e giustiziata. «Beata la fiamma che bruciava nascosta nel cuore.» I paracadutisti non furono accolti ovunque a braccia aperte. Haike Grossman, che a quel tempo militava nella resistenza a Bialystok e in seguito sarebbe diventato deputato alla Knesset, scrisse: «Mi è stato chiesto che cosa avrei fatto se i para provenienti dalla Palestina fossero arrivati nella zona in cui operava la guerriglia partigiana. Ho risposto che "per prima cosa avrei cercato un posto dove nasconderli"». Egon Rott, un comandante partigiano della Slovacchia, li apostrofò con queste parole: «Che cosa siete venuti a fare? Credevate che si trattasse di un gioco? Volevate fare gli eroi? ... Siete venuti a giocare alla guerra? ... Non avete pensato alla responsabilità che ci accollavate? Fino a ora rispondevamo soltanto della nostra vita, adesso voi siete un peso sulla nostra coscienza». E li consigliò di salire sul primo volo disponibile e tornarsene in Terrasanta. Nella postfazione alle memorie di Yoel Palgi, lo storico ufficiale della Haganah ha scritto: «La missione dei paracadutisti rivelò tutto il volontarismo che aveva caratterizzato il movimento pionieristico ebraico e la Haganah fin dalle origini, che li portava a sacrificarsi, a combattere e, se necessario, anche a morire per il popolo. ... La missione dei paracadutisti diventò un esempio e uno stimolo per la gioventù: le loro gesta, lettere e memorie entrarono negli annali dell'eroismo israeliano. I caduti di quella missione diedero il nome a nuovi insediamenti. Essi divennero un anello nella catena dell'eroismo ebraico di tutte le generazioni». Yoel Palgi fu molto più sobrio: «La gente aveva bisogno di leggende eroiche» annotò con riluttanza nel suo libro.
(Nota: La guerra sorprese in Polonia sette esponenti della Hakibbutz Hameuhad. Riuscirono a rientrare tutti in Palestina nel giro di tre mesi. Beri Katznelson non gradì il loro ritorno: «Avrei preferito dieci martiri nei territori occupati». Lo yishuv aveva bisogno di simboli.) La leggenda superò di gran lunga gli eroi che l'avevano ispirata. Alcuni para combatterono con i partigiani, altri svolsero azioni di spionaggio e sabotaggio. Alcuni si misero in contatto con le comunità ebraiche, soprattutto nelle ultime fasi della guerra, altri furono coinvolti nella politica locale: i sionisti si giovarono del loro aiuto per combattere i comunisti. Quasi metà del commando fu catturata e sette di loro furono giustiziati. L'Agenzia ebraica e altri organismi dello yishuv inviarono missioni di soccorso in Turchia. Operazioni analoghe furono intraprese da Ginevra, da Teheran, dalla Svezia e, quando ormai era troppo tardi, dalla Spagna e dal Portogallo. Chaim Weizmann e altri leader sionisti fecero alcuni tentativi da Londra. Gli agenti che operavano a Istanbul, quasi tutti molto giovani, assistevano i profughi che passavano per la Turchia diretti in Israele, aiutandoli a volte a valicare le frontiere e inviando anche messaggeri nei paesi occupati. «Le giornate più belle erano per noi quelle in cui i corrieri tornavano dai territori nemici» rammentava Teddy Kollek. Alcuni di quei corrieri erano ebrei, altri no; i più erano doppiogiochisti, che lavoravano più o meno scopertamente per la Gestapo. Kollek ha lasciato una descrizione un po' romanzata delle spie che operavano allora a Istanbul, eternamente sedute al bar dell'albergo a intessere trame internazionali e a tenersi d'occhio a vicenda. Ma in realtà, ha concluso, «abbiamo salvato soltanto un pugno di persone, una goccia nel mare dei morti». Quando Dina Porat chiese a un agente in Turchia, Venya Pomerantz, che cosa avessero fatto a Istanbul, la sua risposta fu: «Niente». Allo scoppio della guerra, l'Agenzia ebraica aveva istituito a Gerusalemme un comitato per assistere i rifugiati provenienti dalla Polonia con l'aiuto del governo polacco in esilio a Londra. Si trattava del Comitato per gli affari polacchi, o Comitato dei quattro, e lo dirigeva Yitzhak Gruenbaum dell'Agenzia ebraica, il quale era stato a suo tempo deputato in Polonia e leader della
comunità ebraica locale. Nel 1941, allorché la Germania attaccò l'Unione Sovietica, il Comitato cercò di evacuare gli ebrei polacchi che si erano rifugiati in Russia. Nel novembre del 1942, quando l'Agenzia emanò il suo comunicato ufficiale sull'Olocausto, nacque l'esigenza di creare un nuovo organismo che si dedicasse a tempo pieno al salvataggio degli ebrei. Intorno alla sua composizione, alla sua affiliazione o non affiliazione all'Agenzia ebraica, e persino riguardo al nome, si combattè una lotta politica durissima. Quando il nuovo organismo vide finalmente la luce, venne battezzato Comitato di salvataggio e a dirigerlo fu chiamato Yitzhak Gruenbaum, un burocrate dogmatico e sarcastico, senza un briciolo di autorevolezza, di influenza o di talento. Un commissario definì l'ente una pura finzione. Il Comitato di salvataggio tenne qualche riunione, produsse un fiume di parole, ma nessuna decisione operativa. Inviò denaro, pacchi e lettere alle varie comunità ebraiche d'Europa e a volte anche oro, diamanti e carte d'identità false. Cercò di procurare permessi di uscita dai paesi occupati, documenti di viaggio e certificati di immigrazione per gli ebrei d'Europa, si sforzò di sensibilizzare l'opinione pubblica in Palestina e all'estero. Gruenbaum ospitò il console generale statunitense e gli chiese che l'aviazione americana bombardasse i campi di sterminio. «Se dicessi che il nostro lavoro ha prodotto qualche risultato, sia pure minimo, direi una bugia» scrisse in seguito. Quanto a Ben Gurion, aveva altro da fare. Durante la guerra ci furono tre occasioni in cui, pagando, forse sarebbe stato possibile salvare la vita a migliaia di ebrei. I tre episodi, passati alla storia come Operazione Transnistria, Piano Europa e «camion contro sangue», sono stati indagati a fondo innumerevoli volte e da tutte le angolazioni possibili; ogni indizio, anche il più piccolo, è stato analizzato con la lente di ingrandimento. Ma il risultato è sconfortante: nessuno è riuscito a stabilire se avessero davvero qualche possibilità di successo. Un'unica cosa è certa: in tutte e tre le circostanze sarebbero occorse un'abilità e un'immaginazione che né Ben Gurion, né gli altri leader dello yishuv possedevano. La Transnistria è una regione dell'Ucraina meridionale a nord di Odessa, tra i fiumi Dnestr e Bug, concessa dai nazisti alla Romania in cambio della sua collaborazione durante l'invasione dell'Unione Sovietica.
Nell'ottobre del 1941 il governo rumeno vi deportò circa duecentomila ebrei. In pochi mesi ne morirono centotrentamila, in parte di stenti, in parte uccisi. Un anno dopo un leader della comunità ebraica di Bucarest telefonò a un rappresentante dell'Agenzia ebraica a Istanbul preannunciando l'arrivo di un messaggero con una proposta per salvare gli ebrei della Transnistria. Molti particolari della vicenda non sono mai stati chiariti, ma in sostanza il governo rumeno si diceva disposto a liberare i settantamila ebrei superstiti dietro il pagamento di un riscatto che, a seconda dei calcoli, andava dai 14 ai 28 milioni di dollari, vale a dire tra i 200 e i 400 dollari a persona. Sebbene giudicasse eccessiva la somma e non fosse molto convinta dell'operazione, l'Agenzia fece il proprio dovere, ordinando ai suoi rappresentanti a Istanbul di controllare l'autenticità dell'offerta. Poi informò le autorità britanniche. E l'occasione sfumò: gli inglesi si opposero e così pure i tedeschi, che erano i veri padroni della Romania. Gli inglesi subivano le pressioni degli arabi, i quali temevano un rafforzamento dello yishuv a spese del proprio popolo: un funzionario britannico definì «spaventosa» la prospettiva che gli ebrei della Transnistria giungessero in Palestina, imponendo alla Gran Bretagna un fardello ancora più pesante di quello che già sopportava. Per di più Londra era contraria in linea di principio a introdurre nel paese cittadini provenienti dai paesi nemici, una posizione che nel corso della guerra costò la vita a molti ebrei. E si opponeva anche, appoggiata in questo dagli americani, al trasferimento di denaro nei paesi occupati, cosa che rendeva assai difficile assistere gli ebrei in Europa. Gli alleati adottarono una linea molto ferma, nonché ipocrita, rifiutandosi di cedere ai ricatti. Non restava che una possibilità del tutto remota: che l'Agenzia ebraica raggiungesse un accordo segreto con i rumeni alle spalle degli alleati. A quel punto, tuttavia, si verificò una fuga di notizie e il progetto naufragò. A Bratislava, capitale della Slovacchia, Stato fantoccio dei nazisti, un uomo e una donna diversissimi fra loro concepirono un piano di salvataggio molto più ambizioso. L'uomo era un rabbino ultraortodosso, celebre per l'erudizione e l'antisionismo viscerale; la donna era una ricca vedova, che militava nella WIZO, l'organizzazione internazionale delle donne sioniste.
Michael Dov-Ber Weissmandel e Gisi Fleischmann, così si chiamavano i due, hanno lasciato molte lettere commoventi, piene di appelli disperati. Avevano bisogno di soldi. Nell'estate del 1942 riuscirono a stringere un accordo con un ufficiale delle SS vicino a Adolf Eichmann, Dieter Wisliceny. Gli versarono, con il beneplacito, a quanto pare, dei suoi superiori, decine di migliaia di dollari, ottenendo in cambio che fosse sospesa l'espulsione degli ebrei dalla Slovacchia. Ne erano già stati cacciati sessantamila, quasi tutti mandati a morire ad Auschwitz. Ne restavano ancora trentamila: il riscatto pagato ai nazisti ne ritardò la deportazione per due anni. Le SS, sempre convinte che gli ebrei governassero il mondo, credevano che il denaro provenisse dalla Svizzera per ordine dell'«ebraismo mondiale». In realtà a raccogliere i soldi erano Weissmandel e Fleischmann, che a volte arrivarono a stirare le banconote perché sembrassero nuove, come si addiceva a dollari provenienti dalla Svizzera. Il primo successo convinse Rabbi Weissmandel, Gisi Fleischmann e diverse altre persone che collaboravano con loro a intavolare una seconda tornata di trattative con i nazisti. Usando una macchina da scrivere svizzera e la carta intestata di un albergo elvetico dove aveva alloggiato prima della guerra, il rabbino indirizzò a se stesso una lettera che, con linguaggio criptico e in nome dei «rappresentanti dei rabbini di tutto il mondo», lo autorizzava a negoziare con i nazisti allo scopo di arrestare l'espulsione e l'assassinio degli ebrei nei territori da essi controllati in cambio di diversi milioni di dollari. Si trattava del Piano Europa. I nazisti parvero credere all'autenticità delle credenziali del rabbino e condussero trattative serie. Adolf Eichmann era al corrente di ogni decisione e, a quanto pare, lo era pure il capo delle SS, Heinrich Himmler. Ci sono buoni motivi per ritenere che Himmler, prevedendo la sconfitta della Germania, considerasse l'operazione una buona carta da giocare per negoziare la pace separata delle SS con gli alleati. I nazisti chiesero un anticipo di 200.000 dollari. Weissmandel si rivolse al rappresentante del Joint Distribution Committee, il quale informò New York. La direzione respinse la richiesta e altrettanto fece il movimento sionista. Nei mesi seguenti le trattative, con alti e bassi, fecero il giro del mondo, rimbalzando da Bratislava a Ginevra a Gerusalemme, da Gerusalemme a Ginevra
a Londra, da Bratislava a Berlino, da Ginevra a New York a Washington. Weissmandel e Fleischmann bombardavano l'Occidente di appelli disperati, l'uno nell'ebraico dello studioso della Torah, l'altra in tedesco. Si stava avvicinando la scadenza imposta dai nazisti per il pagamento dell'anticipo. I loro corrispondenti a Gerusalemme e a Ginevra, a Londra, a New York e a Washington non riuscivano a stabilire con certezza se si trattasse di una vera offerta o di un bluff. Tutti temporeggiavano, adducendo scuse politiche, giuridiche o burocratiche, e si muovevano con una flemma che era in stridente contrasto con il disperato grido di aiuto che promana ancora dalle lettere di Weissmandel e Fleischmann. Ben Gurion dichiara che l'Agenzia ebraica non può contribuire al riscatto, perché si prepara ad accogliere cinquemila bambini con un'operazione molto costosa: «Ci sono ebrei anche in Palestina» spiega. Due funzionari dell'American Jewish Congress riescono a ottenere da Roosevelt un consenso di massima a versare l'anticipo in una banca svizzera, su un fondo fiduciario fruibile dopo la guerra. Quelli di Bratislava replicano che non possono andare a discutere con i nazisti offrendo simili giochi di prestigio. E intanto il tempo passa. Cinque o sei mesi dopo essere stata informata, finalmente l'Agenzia ebraica si decise a mandare un corriere a Bratislava con una parte consistente della somma richiesta, più di 150.000 dollari. Il resto l'avrebbe fornito in contanti la filiale del Joint Distribution Committee di Ginevra. Da questo punto in poi non si sa bene che cosa sia accaduto. Il denaro, tutto o in parte, arrivò probabilmente a destinazione. Nel frattempo, però, i nazisti avevano sospeso le trattative e ripreso le deportazioni. Anche Gisi Fleischmann e Rabbi Weissmandel finirono ad Auschwitz. Lei morì, lui riuscì a saltare dal treno in corsa e dopo la guerra emigrò negli Stati Uniti, dove pubblicò un terribile atto d'accusa contro il movimento sionista. Incolpò i suoi leader di avere abbandonato lui e la sua gente perché erano ultraortodossi, quasi che la sionista Gisi Fleischmann non avesse collaborato con lui. Scagliò i suoi fulmini citando a memoria lettere di cui non si è mai trovata traccia in nessun archivio, lettere forse andate perdute, distrutte o forse mai esistite. Non si saprà mai se il Piano Europa avesse qualche possibilità di riuscita. Una cosa però si sa con certezza. Se i dirigenti dell'Agenzia ebraica fossero
stati più solleciti nell'inviare il denaro a Bratislava, avrebbero conquistato il diritto di guardare negli occhi le nuove generazioni e di affermare senza esitazione: abbiamo fatto il possibile, non abbiamo niente da rimproverarci. Il 19 maggio 1944 atterrò all'aeroporto di Istanbul, nella neutrale Turchia, un ebreo inviato dall'Ungheria come emissario dei nazisti. Recava con sé una proposta concordata in una serie di incontri fra Adolf Eichmann e altri rappresentanti del governo tedesco a Budapest, uno dei quali era quel Dieter Wisliceny coinvolto nel Piano Europa. I nazisti si dicevano di nuovo disposti a risparmiare la vita a un certo numero di ebrei, forse un milione. Questa volta, però, non chiedevano denaro, ma diecimila automezzi e diverse tonnellate di merci, fra cui caffè, tè, cacao e sapone. Anche in questo caso, come con il Piano Europa, i nazisti speravano di aprirsi uno spiraglio verso la pace separata fra le SS di Himmler e le potenze occidentali senza informare Hitler, o forse soltanto dopo la sua morte, e senza i sovietici o forse contro di loro. Era l'infame proposta «camion contro sangue», che nel giro di pochi giorni fu al centro di una fitta corrispondenza ai massimi livelli fra Gerusalemme, Londra, Washington e Mosca. Poi la notizia arrivò ai giornali e di nuovo tutto sfumò. Forse non ci fu mai la possibilità concreta di salvare delle vite umane. «Una questione dolorosissima e tristissima» la definì Moshe Sharett. Il messaggero arrivato da Budapest si chiamava Joel Brand, aveva trentotto anni e si occupava delle vendite nella fabbrica di guanti della moglie. Nato in Germania, si era iscritto molto giovane al partito comunista e aveva viaggiato per il mondo come agente del Comintern. La guerra lo sorprese a Budapest. Sfruttò i suoi contatti con gli agenti di diversi servizi segreti per organizzare una rete attraverso la quale portare in Ungheria gli ebrei polacchi in collaborazione con il movimento sionista magiaro. Brand fu un personaggio tragico, coraggioso e ingenuo, che parve non capire mai l'effettiva portata del dramma di cui fu uno dei protagonisti. Andò tutto storto fin da principio. A Istanbul non trovò ad attenderlo, come nella sua ingenuità si aspettava, Chaim Weizmann, bensì alcuni funzionari dell'Agenzia ebraica, dei poliziotti turchi e degli agenti segreti britannici. Passò i primi giorni in attesa di un visto che gli consentisse di restare in
Turchia. Poi la situazione si ingarbugliò e tutte le persone coinvolte cominciarono ad accusarsi a vicenda. Brand fu arrestato dagli inglesi, portato in Egitto e rinchiuso in prigione. Incolpò dei suoi guai l'Agenzia ebraica, accusandola di avere gestito malissimo la faccenda e di avere fatto di tutto perché la sua missione fallisse. L'esecutivo dell'Agenzia discusse la proposta tedesca una settimana dopo l'arrivo di Brand a Istanbul: l'aveva portata a Gerusalemme, nascosta in un tubetto di dentifricio, uno dei suoi funzionari che aveva atteso Brand all'aeroporto. Gruenbaum, il presidente del Comitato di salvataggio, definì il piano «una provocazione diabolica». La cosa aveva dell'incredibile, dichiarò Ben Gurion, ma questo non significava che non andasse presa sul serio. Suggerì perciò di mandare in Turchia Moshe Sharett e di informare le autorità britanniche. Qualcuno obiettò che forse non era saggio mettere al corrente gli inglesi, ma Ben Gurion lo zittì dicendo che non si potevano prendere iniziative senza l'aiuto del governo mandatario. L'Agenzia consegnò dunque una relazione dettagliata all'alto commissario britannico, Sir Harold MacMichael, ma in realtà sia gli inglesi sia gli americani sapevano già tutto. Winston Churchill e Franklin Roosevelt ritenevano la proposta un tentativo di sabotare l'alleanza dell'Occidente con l'Unione Sovietica. E in effetti Brand non era arrivato solo a Istanbul. I nazisti gli avevano messo alle calcagna un agente ebreo, un avventuriero e mistificatore, il quale diceva a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo che le trattative per il riscatto erano soltanto un aspetto secondario dei negoziati per la pace separata fra i nazisti e l'Occidente. Gli ambasciatori americano e inglese a Mosca ricevettero l'ordine di riferire tutto ai russi. Il Cremlino naturalmente si oppose a qualsiasi tentativo di negoziare una pace separata con i nazisti: l'Armata Rossa si stava preparando a conquistare l'Ungheria. «L'iniziativa di Brand ricevette il colpo di grazia a Mosca» dichiarò in seguito un dirigente dell'Agenzia ebraica. A questo punto l'unica preoccupazione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna era di predisporre le cose in modo che in futuro non potessero essere accusati di avere lasciato cadere la possibilità di salvare gli ultimi ebrei d'Europa. Tutte le parti in causa, Gerusalemme, Berlino, Londra e Washington, si diedero un gran daffare a prepararsi l'alibi
per il giorno del giudizio, alla fine della guerra. Gli angloamericani finsero di essere interessati all'offerta per tirare in lungo i negoziati. Ma se la proposta, come quella di vendere gli ebrei della Transnistria all'Agenzia ebraica, fosse diventata realtà, ci sarebbe stato un massiccio esodo di ebrei verso ovest, addirittura un milione. Nessuno sapeva come sistemarli. E così gli inglesi si comportarono esattamente come nel caso Transnistria: fecero trapelare la notizia sulla stampa, dando il colpo di grazia all'operazione. Anche se, naturalmente, può darsi benissimo che i tedeschi non avessero alcuna intenzione di condurre in porto le trattative. Il cinismo e la malvagità di alcuni funzionari del governo britannico possono essere paragonati soltanto a quelli dei nazisti. Per impedire a qualsiasi costo l'ingresso di clandestini in Palestina, l'Inghilterra arrivò al punto di chiedere al governo iugoslavo di stampigliare sul passaporto degli ebrei la «J» di jew (ebreo), esattamente come facevano i nazisti. Prima che la nave Struma affondasse con i suoi 750 e più profughi, l'alto commissario britannico aveva raccomandato a Londra di non far attraccare la nave in Palestina perché fra i passeggeri potevano esserci agenti nemici, ma anche perché gli ebrei a bordo erano in maggioranza professionisti. La Palestina, spiegava, non poteva assorbire altri immigrati improduttivi: i viveri scarseggiavano e c'era la minaccia di un'invasione di cavallette. L'Agenzia ebraica si considerava ancora una branca del governo mandatario: neppure la prospettiva di salvare gli ebrei ungheresi bastò per convincerla a muoversi autonomamente, non foss'altro che per guadagnare tempo. Quando Brand fu arrestato, l'esecutivo prese in considerazione l'idea di inviare a Budapest un delegato per riprendere le trattative. Chaim Weizmann e Moshe Sharett contattarono il ministro degli Esteri britannico Anthony Eden e gli illustrarono il progetto. Eden consultò i suoi collaboratori, che gli consigliarono di respingerlo: nessun suddito britannico doveva avere contatti separati con il nemico. L'Agenzia ebraica chinò il capo e non mandò nessuno a Budapest. Certo, l'Agenzia non era in grado con le sue sole forze di consegnare diecimila camion ai nazisti e di accogliere un milione di ebrei senza il consenso degli alleati. E' difficile affermare, però, che abbia fatto tutto il possibile per cercare di negoziare con i tedeschi
all'insaputa della Gran Bretagna. I sionisti sapevano già che agli inglesi non interessava salvare gli ebrei e che non dovevano aspettarsi nessun aiuto da quella parte. Avrebbero dovuto giocare d'azzardo. Lo yishuv avrebbe potuto condurre trattative segrete con i nazisti, affidando l'incarico a un negoziatore di un paese neutrale. Avrebbe potuto proporre ai tedeschi soldi anziché camion, almeno un anticipo, qualunque cosa pur di guadagnare tempo, visto che i russi erano già alle porte dell'Ungheria. Pare che se ne sia discusso, ma poi non se ne fece nulla.* Da tutta questa vicenda i vertici dell'Agenzia escono come personaggi miopi, privi di immaginazione, uomini incapaci di prendere iniziative spregiudicate e illegali perché calati nel ruolo di statisti rispettabili. La vicenda «camion contro sangue» non è che una postilla nella storia dell'Olocausto, ma ha occupato la scena della politica israeliana per molti anni e continua tuttora a incombere sul paese come un incubo. Durante il processo, Adolf Eichmann dichiarò che la proposta inviata all'Agenzia ebraica tramite Brand era assolutamente seria. Pare che l'idea di liberare gli ebrei dietro pagamento di un riscatto non fosse del tutto estranea allo stesso Hitler. In un rapporto redatto il 10 dicembre 1942 Heinrich Himmler scriveva che Hitler acconsentiva a trattare lo scambio, a condizione che portasse nelle casse tedesche un'enorme quantità di valuta pregiata. Le trattative con i tedeschi proseguirono attraverso altri canali, a cominciare dall'incontro del rappresentante svizzero del Joint Distribution Committee, Saly Mayer, con diversi ufficiali delle SS sul ponte di Sankt Margarethen che collega l'Austria alla Svizzera. Seguirono altri colloqui. Mayer tentò con successo di guadagnare tempo. Riuscì persino a procurarsi qualche trattore da consegnare ai tedeschi come segno di buona volontà. Himmler diede ordine di sospendere la deportazione degli ebrei da Budapest. Il merito fu tutto di Mayer: Eliahu Dobkin ha sostenuto che dietro le sue trattative c'era l'Agenzia ebraica, ma Mayer non agiva in nome dell'Agenzia e non era neanche sionista. Alla vigilia della guerra vivevano in Europa circa nove milioni di ebrei. Sei furono uccisi: dei tre milioni che sopravvissero, molti dovettero la vita alla disfatta tedesca. I rimanenti furono salvati dall'intervento di vari governi e organizzazioni, fra cui il Joint Distribution Committee, e di migliaia
di persone di buon cuore di quasi tutti i paesi, «i gentili giusti», come li chiamavano. Ci furono operazioni di salvataggio rocambolesche, quali la fuga dalla Francia in Spagna attraverso i Pirenei e i convogli che dalla Danimarca salparono per la Svezia. Soltanto pochi si salvarono per intervento del movimento sionista.
CAPITOLO V A VARM YIDDISH HARTZ, «UN CALDO CUORE EBRAICO» All'inizio del 1943 David Ben Gurion si recò a Haifa per incontrare una giovane donna appena arrivata dalla Polonia e ascoltarne di persona le sofferenze. Il racconto lo turbò profondamente, quasi fino alle lacrime. «Non riesco a liberarmi dall'incubo» scrisse. La ragazza parlò per tre ore, narrando orrori che «neppure un Dante o un Poe» sarebbe riuscito a immaginare. Si era sentito del tutto impotente, disse Ben Gurion. Fu un raro momento di commozione, quasi mai il leader sionista parlava delle sofferenze individuali, e anche questa volta ritrovò subito l'autocontrollo: «Il sole sorge in tutto il suo splendore e il lavoro ci aspetta» concluse. Il lavoro cui allude è la creazione dello Stato ebraico ed è questa la chiave che permette di capire da quale prospettiva egli vedesse lo sterminio degli ebrei. L'Olocausto era per Ben Gurion anzitutto un crimine contro il sionismo. Certo, era anche un crimine contro l'umanità e contro il popolo ebraico, ma la cosa che più temeva era che l'eccidio degli ebrei impedisse la costruzione dello Stato d'Israele. «Lo sterminio dell'ebraismo europeo è una catastrofe per il sionismo. Non resterà più nessuno con cui erigere il paese» dichiarò nel dicembre del 1942 e ribadì il suo pensiero più volte in altre occasioni. I padri fondatori del movimento sionista non avevano immaginato i forni di Treblinka, benché la loro ideologia prevedesse in qualche modo l'estinzione dell'ebraismo della Diaspora. «Le nazioni in cui vivono gli ebrei si assomigliano tutte: sono tutte, più o meno scopertamente, antisemite» aveva affermato Theodor Herzl nel 1896. «I sionisti non intendono sfruttare l'orribile tragedia degli ebrei d'Europa» dichiarò un giorno Moshe Sharett, battendo sul solito tasto, «ma non possono non ricordare che la storia ha dimostrato la validità della soluzione del problema ebraico suggerita dal sionismo, il quale aveva predetto l'Olocausto decenni fa.» In un articolo apparso sul quotidiano «Davar», Sharett definì il genocidio un «castigo divino» perché gli ebrei non erano andati in
Palestina. In realtà l'Olocausto segnò la sconfitta del sionismo, il suo fallimento. In sostanza non era riuscito a convincere la maggioranza degli ebrei d'Europa a recarsi in Palestina finché erano ancora in tempo. Poi, nel momento del bisogno, il movimento era stato troppo debole per aiutarli davvero. L'Olocausto affossò anche il sogno del pioniere sionista, il sogno di un ebreo diventato «nuovo» per scelta e ideologia e non sotto la spinta della necessità e della fuga. Dietro il tono di rimprovero che si coglie spesso nella voce di Ben Gurion quando parla delle vittime dell'Olocausto c'è lo sgomento per questo scacco. «Non hanno voluto ascoltarci» si lamentava. Con la loro morte avevano sabotato il sogno sionista. Per Ben Gurion salvare gli ebrei significava quasi esclusivamente portarli in Palestina ed egli si rendeva conto che era impossibile aiutarne molti. Per questo, e in parte anche perché parlava di rado del genocidio, fu in seguito accusato di indifferenza. Diversa è la spiegazione data dal suo biografo: «Ben Gurion non aveva nulla da proporre per alleviare le sofferenze o salvare delle vite, per questo forse preferiva il silenzio alle chiacchiere vuote, senza costrutto». E tuttavia il motivo di quel silenzio potrebbe essere un altro. Dal momento che i tentativi di soccorso erano destinati a fallire, Ben Gurion, da politico scaltro, lasciava ad altri il compito di occuparsene: «Il disastro che incombe sull'ebraismo europeo non mi riguarda direttamente» affermò un giorno. Ribadì più volte che bisognava «fare il possibile» per salvare gli ebrei, ma le sue parole avevano il sapore dello stanco ritornello continuamente ripetuto dai giornali. «A quell'epoca non ero ben informato sulla questione del salvataggio degli ebrei della Germania nazista» scrisse in seguito. «Benché fossi presidente dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica, mi occupavo soprattutto di arruolare ebrei che volevano uno Stato ebraico» si giustificò.* Ben Gurion non era il solo a concentrare ogni energia nella costruzione dello Stato a scapito di tutto il resto. Quando un cronista comunicò a Dov Yosef, un dirigente dell'Agenzia ebraica, che il sindacato dei giornalisti aveva invitato le principali organizzazioni mondiali della stampa a dare la massima pubblicità alle atrocità dell'Olocausto, egli l'ammonì, così riferisce nel suo diario, «a non esagerare il numero delle vittime, perché se cominciamo a dire che i nazisti hanno massacrato milioni
di ebrei, ci chiederanno giustamente dove sono i milioni per i quali noi sosteniamo che occorre una patria in Palestina alla fine della guerra». Secondo il suo biografo, anche il segretario del partito laburista. Beri Katznelson, non si occupò di operazioni di salvataggio e mantenne un silenzio quasi totale sull'Olocausto. Negli archivi del Comitato di salvataggio è conservato un memorandum di cinque pagine, intitolato Osservazioni sugli aiuti e il salvataggio, che si ritiene sia stato compilato all'inizio del 1943 da Apolinari Hartglass, un militante sionista polacco, coordinatore degli interventi del Comitato. L'estensore, del quale il documento esprime le opinioni, ritiene sostanzialmente che si possa fare ben poco per gli ebrei d'Europa: il loro destino è segnato e non è possibile salvarne molti. «Avevo la sensazione che fossimo stati nominati per essere testimoni della morte» dichiarò Yitzhak Gruenbaum, il presidente del Comitato. Nella sua memoria, riservata ai soli sionisti, Apolinari Hartglass si domanda se lo yishuv non possa almeno trarre qualche beneficio dall'Olocausto, se non altro a livello di relazioni pubbliche. Nelle regioni d'Europa coinvolte nella guerra, in Germania, nei paesi occupati e in quelli dell'Asse, potrebbero essere sterminati oltre sette milioni di ebrei.... Ormai è chiaro che non possiamo pensare di salvarne più di diecidodicimila. ... Ciò che questo Comitato è in grado di fare non è che una goccia d'acqua nel mare: un'illusione, un tentativo di salvarsi l'anima, non una vera azione. Possiamo soltanto sperare che, nonostante tutte le atrocità, buona parte degli ebrei d'Europa, molti più di quanti ne possa salvare il Comitato, sia salvato dalla volontà di vivere.... Pertanto, se gli sforzi del Comitato apporteranno, come pare probabile, solamente risultati infinitesimali, bisogna almeno che producano qualche vantaggio politico. Il sionismo potrà giovarsene a queste condizioni: a) se tutto il mondo saprà che l'unico paese disposto ad accogliere gli ebrei scampati è la Palestina e che l'unica comunità che desidera integrarli è lo yishuv; b) se tutto il mondo saprà che l'iniziativa per salvare gli ebrei d'Europa proviene dai circoli sionisti; c) se gli ebrei salvati dai campi di sterminio sapranno, durante il corso della guerra o al suo termine, che il movimento sionista e lo yishuv hanno cercato di salvarli. Se gli ambienti politici e l'opinione pubblica ebraica e non ebraica di
ogni paese libero sapranno tutto questo, l'immagine della Palestina sionista uscirà rafforzata a livello internazionale ... come il paese in cui inviare le moltitudini di ebrei espulsi dall'Europa. Questo farà sì che si intensifichi il contributo del mondo ebraico alla costruzione della Terra e che l'esodo degli ebrei sfuggiti al massacro mondiale si diriga verso la Palestina.... Chi salvare: ... Si devono aiutare tutti i bisognosi, indistintamente, senza tener conto delle loro qualità? O non si deve piuttosto dare a quest'attività un'impronta sionista, cercando di salvare anzitutto quelli che possono essere utili alla Terra di Israele e all'ebraismo? Capisco che possa sembrare crudele porre la domanda in questi termini, ma purtroppo siamo costretti a dichiarare che, se riuscissimo a salvare anche soltanto 10.000 dei 50.000 ebrei che possono contribuire alla costruzione del paese e alla rinascita nazionale del popolo, anziché salvarne un milione che saranno un fardello o tutt'al più una massa inerte, dobbiamo imporci di salvare quei 10.000, a dispetto delle accuse e delle implorazioni del milione. Mi consola il fatto che sarà impossibile applicare al cento per cento questo durissimo criterio e che anche al milione toccherà qualcosa. Attenzione che non sia troppo. Partendo da questo principio, dobbiamo anzitutto salvare i bambini, perché costituiscono il materiale più prezioso per lo yishuv. Poi bisogna salvare i giovani pionieri, in particolare quelli già addestrati e spiritualmente preparati a svolgere il lavoro sionista. E bisogna salvare i leader sionisti, perché meritano un riconoscimento da parte del movimento per quello che hanno fatto.... La filantropia pura e semplice, qual è stato il salvataggio degli ebrei tedeschi,... può soltanto essere dannosa da un punto di vista sionista, in particolare quando le possibilità sono limitate e il disastro così immenso. E' stato possibile utilizzare questo metodo [filantropico] nel caso degli ebrei tedeschi perché presentava dei vantaggi, in quanto essi arrivavano con le loro proprietà. Ma gli attuali profughi non arrecano alcun beneficio perché giungono a mani vuote. Di conseguenza non hanno niente da offrire allo yishuv e da loro ci si può soltanto aspettare quello che si è già verificato con buona parte degli ebrei tedeschi: un senso di alienazione totale rispetto alla Terra di Israele, sconfinante a volte nell'ostilità, e un atteggiamento irriguardoso verso tutto ciò che è ebreo ed ebraico.... I profughi
giunti da Teheran sono un'ulteriore riprova dei risultati disastrosi cui conduce l'immigrazione indiscriminata. Insieme ai pionieri e ai dirigenti sionisti è arrivata una moltitudine di persone che non hanno nessun legame con il sionismo e nessun attaccamento alla nazione. ... Vogliono mandare i figli nelle scuole polacche e inglesi, mentre i militanti sionisti, che vivono nelle stesse condizioni, sono contenti della loro situazione, sopportano pazientemente le numerose difficoltà e ringraziano per l'aiuto che ricevono da noi. Se avessimo i mezzi per salvarli tutti, dovremmo sicuramente accettare questo stato di cose. Ma purtroppo non abbiamo i mezzi neppure per salvare tutti gli elementi positivi e perciò non ci resta che rinunciare agli elementi negativi. Sulla necessità di selezionare i pochi ebrei che si potevano salvare in base alle esigenze dell'impresa sionista in Palestina concordava in genere la maggior parte dei dirigenti dell'Agenzia ebraica. I contrasti riguardavano soltanto i dettagli. Quasi tutti erano d'accordo di privilegiare i giovanissimi, perché c'erano più probabilità che restassero nel paese. Ben Gurion era contrario a favorire i militanti sionisti. Ogni tanto si levava qualche protesta contro la prassi di mettere in salvo soltanto gli ebrei ritenuti utili alla causa sionista, come per esempio i bambini, che potevano essere cresciuti nello spirito del Mapai: «Se ne infischiano della sorte dei vecchi ebrei» accusava un giornale dell'opposizione. Erano decisioni davvero tragiche. Dover scegliere chi salvare e chi abbandonare al proprio destino era il segno più evidente dell'impotenza dello yishuv. Intorno a tale questione si svolsero trattative frenetiche, in Palestina e nelle comunità ebraiche all'estero, in un clima di intrighi politici, accuse e inganni reciproci. A un certo punto si arrivò alla risoluzione di aiutare tutti: «In guerra non si può scegliere. Abbiamo portato quelli che siamo riusciti a portare» disse a Ben Gurion un esponente dell'Agenzia. Golda Meir dichiarò che di fronte all'Olocausto l'unico sionismo valido era quello che salvava gli ebrei. Le sue parole suscitarono l'ennesimo dibattito. Era giusto utilizzare i finanziamenti destinati allo sviluppo dello yishuv per soccorrere gli ebrei d'Europa? Sì, fu la risposta del rabbino Yitzhak Itshe Meir Levin, leader del movimento ultraortodosso Agudat Yisrael: «Prendete i soldi del Jewish National Fund.... Non siete disposti a sospendere le attività in Palestina in un
momento del genere, quando centinaia di migliaia, addirittura milioni di ebrei vengono uccisi? Non è il tempo questo per pensare ai nuovi insediamenti: usate i soldi per quelle necessità». Yitzhak Gruenbaum dissentiva: «Credo occorra ribadire qui che il sionismo ha la precedenza su tutto». Ma Yosef Sprinzak obiettava: «Non è di un programma sionista che c'è bisogno in questo momento, ma di una cosa molto semplice: a varm yiddish hartz, un caldo cuore ebraico. E' questo che ci vuole. E' inutile fare tanti discorsi. Quello che serve in ognuna delle nostre case, nell'Agenzia ebraica, nella Histadrut e in qualsiasi luogo è a varm yiddish hartz». «Mi accuseranno di antisemitismo» ribattè Gruenbaum «diranno che non voglio salvare l'Esilio, che non ho a varm yiddish hartz. ... Che dicano pure. Io non chiederò all'Agenzia di destinare 300.000 sterline, o anche soltanto 100.000, per aiutare l'ebraismo europeo. E credo che chiunque lo chieda compia un gesto antisionista.» Così si discuteva in Palestina nel gennaio del 1943, mentre moltitudini di ebrei venivano sterminate. Gruenbaum era allora lacerato fra il rigido rispetto dell'ideologia, che riteneva un dovere per un leader sionista, e la tragedia personale: suo figlio era scomparso in Polonia e Gruenbaum seppe soltanto dopo parecchio tempo che si trovava ad Auschwitz. Ironia della sorte: durante una riunione dell'esecutivo egli chiese all'Agenzia ebraica 100 sterline palestinesi, vale a dire circa 400 dollari, per pagare i telegrammi che aveva spedito in Europa allo scopo di avere informazioni sulla condizione degli ebrei. Il tesoriere dell'Agenzia replicò che per questo bastavano 50 sterline e tale fu la somma che gli venne concessa. E' difficile stabilire quanto abbia speso lo yishuv nelle operazioni di salvataggio: si parla di diversi milioni di dollari, quasi un quarto dell'intero bilancio dell'Agenzia ebraica. Ma una somma ben più consistente fu spesa nell'acquisto dei terreni per i nuovi insediamenti. Fin dai primi giorni di guerra, e per tutta la sua durata, lo yishuv manifestò la tendenza a occuparsi delle necessità future più che di quelle presenti. Quattro settimane dopo l'invasione nazista della Polonia, il comitato politico del Mapai si riunì per discutere la questione di cosa fare «dopo l'Olocausto che si è abbattuto sull'ebraismo polacco». Non era un lapsus. Già allora, ai primi di novembre del 1939, si parlava spesso dell'Olocausto al
passato. Forse soltanto in questo modo lo yishuv riusciva a sopportare il proprio senso di impotenza di fronte alle notizie sull'eccidio degli ebrei. Il qui e ora avrebbe richiesto un'azione rapida ed efficace, e di conseguenza si relegava il genocidio nella storia. Fu ciò che accadde anche con le prime notizie sugli ebrei uccisi dentro le «camere a gas mobili». I giornali ne parlavano come se si trattasse di un lontano passato: «Li caricavano su un camion, l'autista immetteva del gas velenoso nei tubi già pronti. ... Dal camion giungevano per un poco voci e tonfi, poi tutto taceva. ... Uno degli autisti prendeva una torcia e guardava dentro. ... Poi veniva il turno dei becchini ebrei». L'Olocausto infuriava ancora e già i leader dello yishuv e gli opinionisti avevano cominciato a fustigarsi, a rimproverarsi l'apatia e l'impotenza. «Il nostro silenzio è una colpa che peserà sull'educazione delle giovani generazioni» scriveva un giornale, mentre un altro proclamava: «Siamo tutti colpevoli». Un dirigente del Mapai dichiarò: «Avevamo sentito parlare delle atrocità, lo sapevamo ... ma non vi abbiamo prestato attenzione». Un suo collega rincarò la dose: «Non abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo creduto che le difficoltà fossero così grandi da essere insormontabili; abbiamo creduto che non ci fosse nessuna possibilità di stabilire contatti e di recare soccorso. Soltanto così forse si spiega perché non abbiamo fatto nulla, o quasi, per tanto tempo». Un giornale scrisse: «Ci siamo chiesti un'infinità di volte: "Abbiamo veramente fatto tutto il possibile?"». No, fu la risposta di un dirigente del Mapai, la stampa non aveva fatto il proprio dovere. «Davar», per esempio, non aveva riferito il suo discorso. E altri giornalisti ammisero: «E' vero, non abbiamo fatto il nostro dovere». «Abbiamo commesso molti peccati» riassunse un dirigente della Histadrut, e un suo collega profetizzò che alla fine della guerra l'Agenzia ebraica sarebbe stata messa sotto accusa. «Vergogna!» sentenziò Golda Meir. Era chiaro che lo yishuv preferiva incolparsi di inazione e negligenza piuttosto che confessare la propria impotenza. Reuven Shiloah, uno dei fondatori dei servizi segreti israeliani, così meditava l'anno precedente la fine della guerra: «Il destino degli ebrei d'Europa sarebbe stato diverso se ci fosse stata resistenza al primo tentativo dei nazisti di sterminarli?». Parlavano tutti come se i giorni della tragedia fossero già alle spalle. Questo
desiderio, quasi una voluttà, di confessare collettivamente le proprie colpe conteneva, naturalmente, un elemento purificatore: tutti colpevoli, nessun colpevole. La stessa tendenza a trascendere l'Olocausto, relegandolo nel passato, traspariva anche da altri segnali. Il più evidente era il tentativo di trarre insegnamenti da una tragedia non ancora del tutto consumata per applicarli a un futuro incerto. C'era già chi pensava ai monumenti in memoria delle vittime. E c'era chi, come Ben Gurion, pensava alle riparazioni. Non si sa chi sia stato il primo ad avere l'idea di chiedere alla Germania un risarcimento per i beni strappati agli ebrei tedeschi e per le sofferenze loro inflitte. Pare che fosse nell'aria già nei mesi iniziali della guerra, forse per analogia con le riparazioni che la Germania aveva dovuto pagare dopo il primo conflitto mondiale. Ben Gurion ricevette un memorandum sulla questione già nel 1940, mentre Beri Katznelson ne parlò in pubblico qualche mese dopo. Nel dicembre del 1942, a Tel Aviv, nacque una società privata, chiamata Justicia: offriva consulenze alle vittime del nazismo che desideravano chiedere i danni alla Germania. Nel mese di settembre del 1942 Mordecai Shenhabi, più volte delegato al Congresso sionista, propose che il Jewish National Fund erigesse un monumento «ai caduti in guerra e agli eroi di Israele», come chiamò le vittime dell'Olocausto. Poco dopo diede anche un nome al suo progetto, Yad Vashem, che diventò poi quello definitivo. La proposta di Shenhabi suscitò un vivace dibattito e fu costituito un comitato. Non poteva esserci un'indicazione più chiara, e più grottesca, per non dire macabra, della tendenza della comunità ebraica di Palestina a considerare l'Olocausto un evento del passato. Mentre si discuteva sul modo migliore di onorarle, la maggior parte delle future vittime erano ancora vive. Anche i giornali, a modo loro, frapposero uno schermo tra l'opinione pubblica e il genocidio. Anziché mettere i lettori davanti ai fatti, costringendoli a guardare in faccia la realtà, si abbandonavano a lamentazioni bibliche, costellate di citazioni poetiche: «Piangi, Gerusalemme, per i caduti del tuo Esilio; grida, Sion: salva i tuoi figli e le tue figlie, sii il rifugio dei miei piccoli» scrisse un quotidiano. I luoghi in cui si consumava il genocidio erano «la valle delle lacrime», «la valle della morte», «la valle del dolore». L'Olocausto avveniva nella geenna, all'inferno,
non qui e ora, nel clima politico di cui i giornali riportavano la cronaca: Complotti satanici e opere del Maligno titolava «Davar». L'Olocausto veniva così sottratto alla vita quotidiana e i lettori non avevano più l'obbligo di considerarlo parte della realtà. Nel dibattito politico lo yishuv aveva sempre la precedenza sugli avvenimenti europei. In una riunione del comitato centrale del Mapai, che si tenne nel mese di dicembre del 1938 subito dopo la Notte dei cristalli, Moshe Sharett parlò dell'Olocausto che stava annientando l'ebraismo tedesco. Ben Gurion chiese la parola. «Confesso la mia colpa» disse. «In questi giorni terribili, in cui il disastro minaccia l'ebraismo europeo, io sono più preoccupato per le elezioni della sezione [del Mapai] di Tel Aviv.» Lo sterminio degli ebrei d'Europa era al culmine quando Ben Gurion si dimise dall'esecutivo dell'Agenzia ebraica per una polemica che definì «infernale». Ma non era il solo ad angustiarsi per il partito: anche i suoi colleghi erano tutti presi dall'estenuante dissidio interno che si sarebbe concluso con la scissione del Mapai prima della fine della guerra. C'era poi la lotta senza quartiere fra il movimento laburista e la destra revisionista. La Haganah rapiva i terroristi di destra e li consegnava alle autorità britanniche; «Davar» pubblicava i manifesti degli inglesi con le fotografie dei ricercati e la taglia offerta a chi ne avesse facilitato la cattura. Uno di questi era Yitzhak Jezernitzky, che avrebbe poi assunto il nome di Yitzhak Shamir e sarebbe diventato primo ministro. La battaglia che si combatteva non era soltanto ideologica e politica, era anche una contesa per il controllo del futuro Stato. In questo contesto l'Olocausto e i tentativi di salvataggio furono degradati a motivo di scontro. «Davar» accusava i revisionisti di sabotare la raccolta di fondi per soccorrere gli ebrei. Il giornale revisionista «Hamashkif» ribatteva: «Siete arrivati tardi e vi siete lasciati sfuggire l'occasione» alludendo, per l'ennesima volta, al piano di evacuazione di Jabotinsky. Già in precedenza l'altro quotidiano revisionista, «Herut», si era lamentato: «Salvare è possibile, ma mancano i salvatori», perché «la cricca che dirige lo yishuv nega che sia urgente combattere una guerra vera, incessante, affinchè vengano aperte immediatamente le porte del paese». La guerra che il giornale invocava era quella contro la Gran Bretagna. I profughi
furono al centro di una delle prime polemiche tra le fazioni religiose e quelle laiche, scontro che negli anni successivi avrebbe assunto toni sempre più aspri. (Nota. Anche i contrasti fra David Ben Gurion e Chaim Weizmann, che viveva a Londra, agitarono non poco lo yishuv. Weizmann sapeva già della «soluzione finale» quando, dimentico di tutto, stilò una lunga lettera in cui definiva Ben Gurion «un piccolo dittatore». La lettera, mai spedita, era indirizzata all'esecutivo dell'Agenzia ebraica di Gerusalemme. Weizmann non nominava Adolf Hitler, ma non lasciava dubbi su chi fosse la pietra di paragone: «Sono tutti della stessa risma, senza un briciolo di umorismo, dogmatici, moralmente deformi, cocciuti, sicuramente frustrati, e nulla è più pericoloso di un uomo piccino che nutre i suoi rancori». E aggiungeva: «Sarebbe una calamità essere costretti a combattere contro un tipo di fascismo nuovo e più pericoloso capeggiato da Ben Gurion».) Nella prima metà del 1943, i politici dello yishuv lanciarono una grande campagna per accaparrarsi «l'anima dei bambini di Teheran». Si trattava di alcuni dei bambini che erano riusciti a fuggire dalla Polonia all'arrivo dei tedeschi, valicando la frontiera sovietica e raggiungendo l'Iran senza l'aiuto dello yishuv. Avevano quasi tutti vissuto esperienze spaventose. Un ragazzo raccontò che tutti gli uomini del suo villaggio, incluso il padre, erano stati riuniti nella scuola ed erano stati uccisi dai tedeschi, che sparavano dalle finestre. All'epoca lui aveva nove anni. Sua madre aveva preso i tre figli ed era riuscita ad attraversare con loro la frontiera. Avevano freddo, fame e paura. Avevano camminato nei boschi per settimane e settimane. I due fratellini più piccoli erano morti uno dopo l'altro e la madre li aveva sepolti nella neve. Poi nemmeno lei ce l'aveva più fatta a proseguire. Con l'ultimo respiro aveva raccomandato al figlio di rifugiarsi in un orfanotrofio cristiano di Samarcanda, nell'Asia centrale, e di non rivelare mai a nessuno di essere ebreo. Il bambino era riuscito a trovare l'orfanotrofio e vi era stato accolto, tuttavia gli era difficile nascondere la sua condizione di ebreo, soprattutto al momento della doccia. I compagni non lo lasciavano
in pace. Aveva passato così quasi due anni: quando era arrivato al campo profughi di Teheran, di anni ne aveva ormai undici. In quel campo c'erano settecento ragazzi ebrei: tutti avevano visto in faccia la morte. A Teheran i giovanissimi profughi seguivano corsi organizzati dai consiglieri dell'Agenzia ebraica per prepararsi a immigrare in Palestina. Gli istruttori già si accapigliavano sulla cucina kasher, le preghiere e il rispetto dello Shabbat. Alcuni, in particolare quelli provenienti dai kibbutz, erano violentemente antireligiosi, mentre altri erano osservanti. Passavano molto tempo a litigare e ad accusarsi a vicenda di voler imporre le proprie convinzioni ai bambini. Gli ortodossi rimproveravano ai laici di costringere i ragazzi a tagliarsi i cernecchi, i laici accusavano i religiosi di instillare nei giovani l'antisionismo. I ragazzi di Teheran partirono verso la fine del 1942. Viaggiarono via terra fino in India, quindi raggiunsero per mare l'Egitto. Qui salirono sul treno per la Palestina e finalmente dopo sei mesi, nel febbraio del 1943, arrivarono a destinazione. Erano settecento ragazzi di entrambi i sessi, vestiti con l'identico pullover di lana, i pantaloncini troppo larghi e il casco coloniale. Erano tutti deboli, taluni malati, profondamente depressi e traumatizzati. Nel frattempo i politici, divisi sull'educazione laica o religiosa da impartire a questi giovani ebrei, continuavano ad accapigliarsi. Si tennero riunioni su riunioni, alle quali a volte partecipava anche Ben Gurion. Ci furono polemiche molto accese, che occuparono a lungo le prime pagine dei giornali, provocarono cortei e almeno un incidente grave. Uno degli amministratori del campo di Teheran fu aggredito per strada a Tel Aviv da alcuni sconosciuti, che lo accusarono di aver costretto i bambini osservanti ad andare a capo scoperto. Fu tratto in salvo dalla polizia: intorno al luogo dell'incidente la folla commentava che era quello il modo in cui i nazisti assalivano gli ebrei in Germania. I leader della comunità ultraortodossa minacciarono di chiedere al rabbinato di vietare la raccolta di fondi a favore del movimento sionista negli Stati Uniti, se l'Agenzia ebraica non avesse affidato i bambini a loro. Quella che si combatteva era una lotta ideologica sul carattere religioso e culturale dello yishuv, ma era anche una contesa politica per cercare di assicurarsi il controllo del sistema educativo delle future generazioni di votanti. I protagonisti dello
scontro erano consapevoli che l'esito della battaglia avrebbe costituito un precedente per l'arrivo dei superstiti dell'Olocausto. Finalmente fu raggiunto un accordo: i bambini sarebbero stati educati in base alla loro tradizione familiare. Furono condotti uno a uno davanti a una commissione speciale che li interrogò sulle abitudini dei genitori. Il padre pregava ogni mattina? chiedevano i commissari. E la mamma accendeva le candele per lo Shabbat? Nei casi dubbi i giovani venivano mandati nelle scuole religiose. Gli adolescenti con più di quattordici anni avevano libertà di scelta. I giovani profughi furono dunque sottoposti a pressioni contrastanti ancora prima di uscire dai campi di raccolta dell'Agenzia. I consiglieri cercavano di convincerli, di persuaderli, allettandoli con promesse o intimorendoli con minacce, sempre in nome delle ideologie che laceravano lo yishuv. Niente di strano, sembrava dire «Haaretz»: «Se fossero riusciti a integrare i bambini senza faziosità, sarebbe stato davvero un miracolo». Prigionieri della politica, i dirigenti dello yishuv continuarono imperterriti ad azzuffarsi per ragioni di partito, di corrente e anche personali, che risalivano per lo più a prima della guerra. Non pensavano mai in grande. Una riunione del comitato centrale del Mapai, convocata per discutere come effettuare i tentativi di salvataggio, si trasformò quasi subito in una lite sulle procedure. Uno dei presenti accusò i colleghi di non essersi mai preoccupati della questione fino ad allora. «Non ne ho mai sentito parlare nelle nostre sedute» si difese un altro. «Sì, se n'è parlato, ma al diciannovesimo punto dell'ordine del giorno» ribattè il primo. Golda Meir lo zittì, quasi fosse un chiodo fisso del compagno: si erano incontrati solo la settimana prima e lui non aveva detto niente, osservò. Poi aggiunse che le era stato chiesto di occuparsi della questione dei soccorsi, ma che aveva rifiutato perché sospettava che il comitato fosse poco serio. «Cercatevi un altro alibi» aveva risposto. Nella seduta del comitato esecutivo della Histadrut svoltasi nel maggio del 1943 «i tentativi di salvataggio» erano il sesto punto dell'ordine del giorno su un totale di otto e venivano dopo «gli insediamenti sul Mar Morto» e «i festeggiamenti per il primo maggio». Persino chi era impegnato direttamente nelle operazioni di soccorso dedicava molto tempo alle lotte di partito. «Fu una delle più grandi delusioni della mia vita» scrisse un
commissario. Ma non si riferiva, come ci si potrebbe aspettare, agli scarsi risultati raggiunti dal Comitato, bensì al fatto che i suoi compagni di partito non godevano del prestigio che riteneva meritassero e che gli agenti di Istanbul non avevano rispetto per i commissari di Gerusalemme. Gli agenti in questione, anziché essere solidali fra loro, rappresentavano interessi partitici contrastanti. Litigavano in continuazione su come spartire i pochi soldi di cui disponevano, sì, perché persino il denaro e i pacchi, così come accadeva con i certificati di immigrazione, erano lottizzati: prima di inviarli ai bisognosi dietro le linee nemiche, venivano suddivisi in quote in base al peso delle varie organizzazioni politiche. Anche a Ginevra si odiavano tutti, commentò un commissario. L'ostilità esacerbava la competizione già esistente fra l'Agenzia ebraica e gli altri organismi, per lo più americani, che si occupavano dei soccorsi. Negli archivi è conservata una lunga relazione sui contrasti fra l'Agenzia ebraica e il Joint Distribution Committee di Teheran, che inviava ai profughi pacchi con il tè, il sapone, il burro e, a volte, le caramelle. Discutevano persino su chi dovesse firmare il biglietto di accompagnamento, e intanto i pacchi restavano per mesi nei magazzini. «I profughi renderanno l'anima a Dio prima che arrivino» si legge nel documento. Tanta faziosità, tante lotte intestine testimoniano non soltanto l'incapacità dello yishuv di salvare gli ebrei dai nazisti, ma anche l'abisso spirituale che separava la Palestina dai tragici avvenimenti d'Europa. Gli ebrei di Palestina si consideravano sicuramente parte del popolo ebraico, del quale non rinnegavano né la storia né la tradizione, e certo si sentivano solidali con gli ebrei della Diaspora e volevano aiutarli. Continuavano a ribadire che il progetto sionista in Palestina era per tutti gli ebrei, manifestavano grande amore per Beth Abba, «la casa del padre», nell'antica terra. Ma accanto a questa tendenza c'era anche una controtendenza molto forte a «rinnegare l'Esilio» e l'aspirazione a creare una stirpe ebraica nuova e orgogliosa, inserita in una società nazionale nuova, sana e retta, capace di andare per il mondo a testa alta e di difendersi. Durante gli anni dell'Olocausto maturarono una seconda e poi una terza generazione di giovani cresciuti in questo spirito, educati a essere «orgogliosi e generosi e crudeli», come ebbe a dire Jabotinsky. Il ripudio dell'Esilio assunse
la forma di un disprezzo che a volte rasentava il disgusto per il modello di vita degli ebrei della Diaspora, in particolare quelli dell'Europa orientale, ritenuto degenerato, degradato, umiliante e moralmente corrotto. Nella loro tragedia quegli ebrei apparvero ancora più ripugnanti. «I nostri bambini leggono e ascoltano molte cose sulla distruzione dell'Esilio, sulle atrocità commesse contro i nostri fratelli e sulle sofferenze degli ebrei sotto l'occupazione, eppure i lori cuori rimangono chiusi e indifferenti» scriveva un maestro sulla rivista degli insegnanti. Ogni tanto, proseguiva, assegnava ai suoi scolari un tema sull'Olocausto: le loro parole esprimevano estraneità più che immedesimazione con coloro che soffrivano. «La nostra gioventù è orgogliosa e retta nel corpo e nello spirito. Crede nella propria forza e ne conosce il valore. Ama la libertà e gli spazi aperti, non tollera né umiliazioni né repressione.» Beri Katznelson ammetteva, a malincuore, che la Terra di Israele aveva prodotto «una tribù del tutto diversa»: era «l'uomo nuovo» di cui s'era fatto profeta il sionismo. L'Olocausto finì per essere considerato una sconfitta degli ebrei. Le vittime venivano biasimate per essersi lasciate uccidere dai nazisti senza lottare per la vita o almeno per il diritto «a una morte onorevole». A poco a poco quest'atteggiamento di riprovazione si trasformò in una sorta di fantasma psicologico e politico, che prese ad aggirarsi per lo Stato di Israele: un coacervo di disprezzo e vergogna, di superbia e paura, di ingiustizia e follia. Che gli ebrei polacchi «non avessero trovato dentro di sé il coraggio» di difendersi, dichiarò Yitzhak Gruenbaum in pieno Olocausto, lo colmava di «una lancinante mortificazione». Lui, che era originario della Polonia, usò nei confronti dei suoi ex connazionali un tono sprezzante: «Migliaia di ebrei hanno atteso quieti» di essere caricati sui treni che li portavano a morire. Mai avrebbe immaginato che «in circostanze simili» non si sarebbero difesi, che neppure un leader si sarebbe fatto avanti per spronarli a morire con le armi in pugno. Non contento di avere detto che gli ebrei polacchi avevano preferito «una vita da cani a una morte onorevole», sei mesi dopo commentò: «Sono diventati delle pezze da piedi». Giudizi altrettanto sprezzanti circolavano ancora quando ormai si sapeva tutto e Auschwitz era entrato a far parte del lessico quotidiano. Perché gli ebrei ungheresi non si difendono? chiedeva
«Davar» in prima pagina nel giugno 1944. E un altro giornale: «Ci disgusta il pianto degli oppressi che sono incapaci di ribellarsi». Sembrava di sentire l'eco del risentimento già presente nei versi che alcuni poeti sionisti, come Haim Nahman Bialik, avevano dedicato in altre epoche alle vittime dei pogrom: «Sono filati via come topi, si sono nascosti come scarafaggi e sono morti come cani là, dove li hanno scovati». Già allora l'accento cadeva su là, a sottintendere che se fossero venuti qua prima, non sarebbero stati perseguitati. Nel mese di dicembre del 1941 un altro poeta, Abba Kovner, distribuì ai compagni del ghetto di Vilnius un volantino implorandoli di non andare incontro alla morte «come agnelli al macello», citando il versetto di Isaia 53,7 già ricordato da altri prima di lui. Quel versetto, con cui si intendeva sottolineare la diversità fra l'eroismo sionista nella Terra di Israele e l'umiliazione degli ebrei nella Terra dell'Esilio, diventò l'emblema del trauma di un'intera nazione. Ironie della storia: i nuovi ebrei, così orgogliosamente insediati in Palestina, fecero ciò che gli ebrei perseguitati della Diaspora avevano sempre fatto, con la stessa impotenza. Presentarono petizioni alle autorità mandatarie, badando bene a non ribellarsi apertamente, e «levarono alti lai» nei loro giornali: «Accorrete a fermare il massacro perpetrato dai banditi armati» incitava un manifesto del Comitato nazionale. Inviarono messaggi alle comunità ebraiche del mondo, chiesero donazioni ai filantropi, pregarono, digiunarono in segno di lutto e festeggiarono sobriamente le ricorrenze familiari, proprio come avevano chiesto alle loro comunità nel Settecento i rabbini al tempo dei pogrom in Ucraina. I sionisti della Palestina si comportarono esattamente come le altre comunità ebraiche del mondo. L'unica diversità era che erano più fortunati e più superbi. Il verbale di una delle tante riunioni dell'epoca riferisce le parole di un rappresentante dell'Agenzia ebraica a Istanbul, impegnato nelle operazioni di soccorso. Sono riusciti a salvarne pochissimi in confronto al numero sterminato dei morti, diceva l'uomo. Una cosa però lo consolava: da quell'inferno i superstiti emergevano sionisti e riconoscevano in Israele la loro patria. «Ne abbiamo salvato l'anima» concordava un altro. Con un'autoironia rara a quel tempo,
un editorialista di «Yediot Aharonot», Uri Kesari, scrisse: «Abbiamo pianto i nostri morti. Ora possiamo andare avanti».
PARTE TERZA ISRAELE: GLI ULTIMI EBREI CAPITOLO VI «HO CREDUTO CHE FOSSERO ANIMALI» Nel settembre del 1944 la sconfitta tedesca era ormai data per certa. «Siamo a un passo dalla fine della guerra» dichiarò David Ben Gurion «e la maggior parte degli ebrei è stata annientata. Tutti ci chiediamo: dove troveremo gli uomini e le donne per la Palestina?» Diversi anni dopo scrisse: «Hitler non ha fatto del male solo al popolo ebraico, che conosceva e odiava, ma anche allo Stato ebraico, di cui non prevedeva la nascita. Ha distrutto le fondamenta del paese. Lo Stato è sorto e non ha più trovato la nazione che l'aveva atteso». I leader dello yishuv erano tormentati dall'idea che al termine del conflitto gli ebrei disposti a emigrare in Palestina fossero troppo pochi: per Ben Gurion era addirittura «un incubo». Ora più che mai temevano che il tempo del sionismo stesse per finire, che ogni occasione persa non si sarebbe più ripresentata. Negli ultimi giorni di guerra Ben Gurion chiese al movimento sionista di portare «subito» in Palestina un milione di ebrei, il doppio di quelli che già vi risiedevano: «Un altro milione di ebrei e il conflitto con gli arabi sarà chiuso». Quella di Ben Gurion era più una dichiarazione di intenti che un piano concreto, ma l'esecutivo dell'Agenzia ebraica si allarmò: il paese non era in grado di assorbire in un sol colpo tutti quegli immigrati. Un'operazione simile, osservò un dirigente, la si poteva compiere solo «alla maniera di Hitler», ossia con l'organizzazione militare e i metodi di una dittatura. Un altro dichiarò che un'ondata migratoria di tale portata implicava l'espulsione degli arabi, il loro «trasferimento», come lo chiamò. Ben Gurion riconobbe che gli immigrati avrebbero avuto una vita dura, ma la cosa non lo turbava: «Non è un problema.
Hanno sofferto tanto in Europa». Ben Gurion non bocciò in teoria l'idea di cacciare gli arabi con il cosiddetto «trasferimento volontario», cioè in accordo con i loro leader ma anche senza il consenso degli interessati. «Non sono contrario al trasferimento per motivi etici o politici, se la cosa è fattibile. ... Ma la proposta non deve venire dagli ebrei.... Se saremo noi a farla, gli arabi la bocceranno e i "gentili" diranno che non c'è posto per gli ebrei in Palestina.» Parecchi mesi dopo, nel dicembre del 1944, Ben Gurion si recò in Bulgaria e incontrò i superstiti dell'Olocausto. «Orrore, vergogna,... terrore» annotò nel diario. E l'8 maggio 1945 scrisse: «Giorno della vittoria. Triste, molto triste». Qualche tempo dopo, mentre tornava in Europa dagli Stati Uniti a bordo della Queen Elizabeth, tirò le somme, stendendo un «bilancio sionista postbellico». Il diario di quel giorno sembra la pagina di un libro mastro, fitta com'è di numeri: tot ebrei vivevano in Europa prima della guerra, tot sono stati assassinati, tot sono sopravvissuti. Ben Gurion li elenca paese per paese: non una delle cifre che riporta è esatta. Divide gli ebrei del mondo in cinque blocchi per un totale di circa dieci milioni e conclude: «Dobbiamo portare subito tutto il blocco 5 (circa 855.000 ebrei dei paesi islamici); buona parte del blocco 4 (i 253.000 dell'Europa occidentale, esclusa la Gran Bretagna) e i pionieri del blocco 2 (circa 6 milioni provenienti dai paesi anglofoni e dall'America Latina)». Tornato in Europa, visitò alcuni campi profughi in Germania. Fra i superstiti raccolti a Bergen-Belsen «si respira un clima di demoralizzazione, come se fossero ancora rinchiusi nei lager» annotò. Trascrisse nel diario due canzoni che aveva ascoltato al campo, un canto partigiano in ebraico e La città brucia in yiddish. Incontrò un suo cugino di Lòdz e prese nota del numero della baracca. Con la stessa meticolosità stilò un minuzioso elenco del contenuto dei pacchi viveri inviati ai profughi. A Dachau scrisse: «Ne hanno bruciati 238.000 nel crematorio. ... Ho visto il crematorio, le camere a gas, i reticolati, i patiboli, i campi dei prigionieri e delle SS. Ora vi sono rinchiuse circa 10.000 SS». La mattina dopo sfuggì per un pelo alla morte, come annotò con il consueto distacco: un camion investì la macchina su cui viaggiava da Monaco verso Francoforte. Nel pomeriggio giunse a Heidelberg. «Abbiamo alloggiato allo Schloss
Hotel» scrisse. «E' la prima volta che in Germania ho una stanza grande con il bagno e, cosa ancora più meravigliosa, degli asciugamani.... Mi hanno detto che i libri greci sono introvabili. Tutti venduti». Neppure nella sua prima visita in Germania dopo l'Olocausto Ben Gurion riuscì a resistere alla passione per i libri antichi. Ruth Klieger Aliav, che lo accompagnava nel viaggio e si trovava in Germania per organizzare l'immigrazione in Palestina degli ebrei, ricordava di aver percorso in jeep con Ben Gurion tutta Francoforte in macerie, evitando i blocchi della polizia militare americana, per andare in cerca di libri. In una libreria Ben Gurion aveva scovato alcuni «tesori»: antiche haggadah [termine ebraico che significa «racconto» e indica un genere letterario tipico del giudaismo rabbinico], una Bibbia dell'Ottocento e fogli sparsi di antichi libri. Frugava con mano esperta, dicendo «questo sì, questo no», e caricando tutto sulla jeep. «Intanto era cominciato a piovere» prosegue Aliav. «Alcune tedesche, vestite di nero, si sedettero sui mucchi di macerie e cominciarono a posare una pietra sull'altra, un mattone sull'altro. Lui chiese: "Che cosa sta succedendo?". "E' il nuovo futuro della Germania" gli risposi.» I primi esponenti dello yishuv ad approdare in Europa dopo la guerra furono i soldati della Brigata ebraica, che aveva combattuto con le forze armate britanniche. In Palestina si erano già rifugiate diverse migliaia di ebrei perseguitati dai nazisti, ma neppure gli orrori narrati dagli scampati erano stati sufficienti a prepararli a quello che videro. Trovarono i superstiti dello sterminio nazista ancora per la maggior parte nei campi liberati di Buchenwald, Bergen-Belsen e Dachau, dietro gli stessi reticolati percorsi fino a poco tempo prima da una corrente elettrica tanto potente da uccidere. In quei luoghi alcuni dei soldati della Brigata seppero della sorte toccata ai loro cari, altri rintracciarono familiari che credevano morti. Agli occhi degli internati l'arrivo dei soldati della Palestina assunse i contorni di una visione: «Se quei militi avessero ordinato ai superstiti di camminare sulle acque, essi l'avrebbero fatto, certi che le acque si sarebbero aperte davanti a loro» dichiarò un emissario dell'Agenzia ebraica. I superstiti morirono a migliaia nelle settimane immediatamente successive alla liberazione. «La situazione nei campi è spaventosa» scrisse il maggiore Sakharov, che poi assunse
il nome di Yehezkel Sahar e divenne il capo della polizia israeliana. «Non ci sono coperte né vestiti pesanti per questa gente che vive quasi tutta in baracche di legno, senza riscaldamento. Il clima qui è invernale, di notte gela ... ci sono molte donne incinte e bambini, e nessuno fa niente per loro. Le autorità fingono di non vedere. In tutti gli uffici che si occupano dei profughi si è creata negli ultimi tempi un'atmosfera antisemita e ho l'impressione che si cerchi di rendere la vita dei superstiti più dura possibile, per convincerli a rientrare in Polonia.» Il rancio era scarso e cattivo. Dormivano sugli stessi tavolacci, nelle stesse baracche sovraffollate in cui li avevano costretti a vivere i nazisti. Molti avevano per letto la nuda terra. Le docce e i servizi igienici erano insufficienti. Che le condizioni nei campi fossero difficili lo dicono anche altre fonti. Quella più nota è la relazione stesa da Earl G. Harrison, del dipartimento di Stato americano. Decano della facoltà di legge dell'Università della Pennsylvania e rappresentante statunitense del Comitato intergovernativo per i rifugiati, Harrison riferì al presidente Truman che l'unica differenza fra il trattamento riservato agli ebrei nei campi profughi dall'esercito americano e quello nazista consisteva nel fatto che gli americani non li sterminavano. I superstiti raccontavano storie da gelare il sangue. Aharon Hoter Yishai, ufficiale della Brigata ebraica e poi celebre avvocato, incontrò alcune donne che erano state tirate fuori vive dalle camere a gas. Dissero che i nazisti le avevano rinchiuse là dentro con uomini e bambini, tutti nudi, ad aspettare la morte. Siccome però erano troppo pochi, i tedeschi, per risparmiare il gas, li avevano fatti uscire in attesa che arrivasse un altro convoglio di ebrei, ma nel frattempo il campo era stato liberato. Nel settore russo di Berlino Ruth KliegerAliav trovò quarantasette bambini nascosti nella cantina di un edificio della Grenadierstrasse, dove un tempo c'era una sinagoga: i topi avevano già cominciato a divorarli. In un campo nel sud della Germania, raccontò un giornalista di «Haaretz», i profughi stavano facendo i preparativi per il matrimonio di un superstite, un ebreo che aveva perso la moglie e due figli ad Auschwitz. Anche la donna che si accingeva a sposare era sola al mondo: «Come sempre in questi casi, nella baracca della futura sposa c'era un gran trambusto. Era tutto pronto per la cerimonia.
Ma lo sposo non si presentò. Lo rintracciarono che vagava per il campo, con lo sguardo perduto nel vuoto, mormorando: "Hanele, mia Hanele, non ce l'hai con me, vero, perché ti ho tradito, perché mi sposo?"». Fu ricoverato in un ospedale psichiatrico. A uno dei primi inviati dello yishuv i campi profughi parvero dei cimiteri. «Ho visto i bambini di Teheran. Ho visto altri rifugiati, ma non ho mai visto un simile orrore» riferì all'esecutivo dell'Agenzia ebraica Eliahu Dobkin. «Larve umane, lacere e sfinite, tormentate dai pidocchi, dalle pustole e dalla congiuntivite.» Un bambino, raccontò Dobkin, aveva rubato lo spazzolino e il dentifricio a un uomo che dormiva nella stanza accanto: «"Non ti vergogni?" gli ho chiesto. E lui mi ha risposto: "Tanto lo portano al crematorio. E' vecchio"». L'uomo non doveva avere più di trentacinque anni, ed era «l'incarnazione dell'orrore». Gli emissari dello yishuv inviavano rapporti frequenti. Quei resoconti non rispecchiavano soltanto la realtà dei superstiti, ma anche i valori sociali e politici della classe dirigente socialista e sionista di cui gli estensori erano i rappresentanti, valori che orientavano le loro aspettative sul «resto». Ben presto, allo shock iniziale subentrarono le critiche. In questi documenti i superstiti sono spesso descritti come una massa informe, senza volto, «detriti umani», «un'immensa comunità di accattoni», degeneri, arretrati, menomati non solo nel fisico e nella psiche, ma anche nel morale. Gli inviati dello yishuv sono stupiti che tanti abbiano così fretta di sposarsi e di mettere al mondo dei figli. Nei campi, dichiara uno di loro, Haim Yahil, c'è un tasso di natalità che è il più alto del mondo. Uno psicologo, che condusse un'indagine sui superstiti dell'Olocausto, parlò di «matrimoni della disperazione»: i prigionieri reagivano così al tentativo nazista di negarne l'umanità. (Nota: L'espressione «il resto» (sheerit hapeletah) è biblica. «Dio mi ha mandato dinanzi a voi, perché sia conservato di voi un resto sulla terra, e per salvarvi la vita con una grande liberazione» si dice in Genesi 45,7; e in Isaia 37,31-32: «Ciò che scamperà della casa di Giuda continuerà a mettere radici in basso e a fruttificare in alto. Poiché da Gerusalemme uscirà un resto e dei superstiti dal monte
Sion». La parola «resto» fu usata per la prima volta subito dopo l'ascesa nazista per indicare gli ebrei perseguitati in Europa.) Molti dei matrimoni contratti allora non furono felici e tuttavia pochi divorziarono, come se avvertissero che separarsi avrebbe significato concedere a Hitler la vittoria finale. Ma per gli inviati dello yishuv quella voglia di vivere, così come lo sterminio, era qualcosa di incomprensibile. «Ho creduto che fossero animali, quando li ho visti la prima volta» si legge in un rapporto. «Vivevano in cinque, sei coppie in un'unica stanza, ogni cosa in comune, vita sessuale e tutto il resto.» Ma per loro, che stavano «da tanto tempo nei campi» e avevano tanto sofferto, «era naturale» conclude. Giudizi altrettanto aspri non sono infrequenti fra gli osservatori provenienti dalla Palestina. I superstiti hanno perso il rispetto di sé, la fiducia nel prossimo e nell'altruismo, sono diventati cinici, nichilisti, non hanno più alcuna considerazione per la legge. La colpa non è soltanto dei lager e della degenerazione da cui è pervasa l'Europa del dopoguerra, ma anche della Diaspora, del modo di vivere degli ebrei europei prima dell'Olocausto. Molti di questi inviati dello yishuv si imbatterono per la prima volta nella «mentalità dell'Esilio», una concezione della vita che in quanto sionisti e socialisti trovavano ripugnante. L'incontro li sconvolse. I superstiti non hanno voglia di lavorare, riferisce un emissario. Alcuni se ne vanno dai campi profughi, si sposano con le tedesche, aprono negozi e trafficano con il mercato nero. Trionfa «un vuoto materialismo» si lamenta Haim Yahil, la gente si è abituata ai «guadagni facili», a un «tenore di vita molto più elevato di quello che aveva prima della guerra» e si concede dei «lussi», in particolare gioielli e abiti di seta. E, «peggio ancora dei lussi», erano le cameriere e le balie tedesche nelle case dei profughi ebrei che si erano stabiliti in Germania: la situazione era di «evidente pericolo morale» ammoniva Yahil. E i suoi timori non finivano qui: se i superstiti si fossero abituati a condurre un'esistenza agiata in Germania, non sarebbero più riusciti a adattarsi alla vita dura della Palestina. Quegli ebrei, proclamò, «dissacrano l'onore di Israele», come se nello yishuv non fosse esistito il mercato nero e nessuna donna avesse portato abiti di seta. «Rifiuti» li chiamò e li accusò del
delitto più grave: quello di appoggiare le organizzazioni terroristiche di destra, nemiche del Mapai. David Shaltiel, che in seguito fu generale dell'esercito israeliano e ambasciatore, accompagnò in Palestina diversi superstiti. Durante il viaggio assistette a «scene orribili»: i giovani cercavano di cacciare dalle cuccette i vecchi, i ragazzi e le ragazze volevano soltanto divertirsi. «Sono demoralizzati» dichiarò. «Abbiamo dovuto trasformarci in poliziotti. I ragazzi andavano nelle stanze delle ragazze durante la notte. Li sbattevamo fuori, ma loro ritornavano. Le ragazze se la spassavano con i marinai e con i soldati, senza il minimo pudore, e non è stato facile cercare di mantenere un po' di decoro, com'era nostro dovere.» Al comitato centrale del Mapai espose la sua teoria: «Ritengo che siano stati i più egoisti a sopravvivere, quelli che pensavano prima di tutto a se stessi». Molti, continuò, avevano avuto tempo di «fare un mucchio di soldi» con i tedeschi. E concluse: «Il fatto che qualcuno sia stato in un lager non è una ragione sufficiente perché venga mandato in Palestina». Il presidente del comitato centrale cadde dalle nuvole: nessuno li aveva mai informati di tutto questo. Non era esatto. Shaltiel aveva soltanto usato un linguaggio più brutale. La sua teoria che per campare bisognasse essere corrotti era condivisa da altri emissari dello yishuv e faceva parte del sentire comune. «Fra i superstiti dei campi di sterminio tedeschi» affermò Ben Gurion «c'era gente che se non fosse stata quello che era, dura, malvagia, egoista, non sarebbe sopravvissuta, e i patimenti subiti hanno estirpato dalla loro anima il concetto del bene.» «Bisogna guardare in faccia la realtà» scriveva «Haaretz». «I pochi rimasti in Europa non sono necessariamente la parte migliore del giudaismo. I gioielli della nazione sono stati i primi a essere distrutti» e la «moralità» di molti scampati era «dubbia». Haim Yahil cercò di essere obiettivo: I prigionieri ebrei che sono sopravvissuti non erano gli eletti e non sono stati salvati per le loro doti superiori. Commetteremmo tuttavia una grande ingiustizia nei loro confronti se pensassimo ... che il «resto» sia «il risultato di una selezione negativa», composto per lo più dagli elementi peggiori del popolo ebraico. Quest'ipotesi è smentita dai fatti. ... Ammesso, e non concesso, che ci sia stato un criterio selettivo, si può dire che sono sopravvissute le persone con
un carattere forte e un grandissimo istinto vitale, indipendentemente dal fatto che l'istinto vitale si sia incanalato in senso positivo o che abbia invece trovato un'espressione negativa e asociale. E' vero però che le persone più sensibili sono state le più a rischio, perché incapaci di reggere ai terrori della mente. E anche vero che il nemico ha perseguitato gli intellettuali con più spietatezza di qualsiasi altro gruppo. Ciononostante sono sopravvissute persone di ogni genere, con valori umani e sociali differenti. Lo yishuv, consapevole del fatto che senza di loro non sarebbe mai riuscito a fondare lo Stato, si considerava moralmente e ideologicamente responsabile dei superstiti. Un giorno, in un ex campo di prigionia tedesco vicino a Francoforte, una bambina dalle lunghe trecce bionde di nome Malkele si avvicinò a Ben Gurion in visita e gli chiese in yiddish: «Sei il re d'Israele?». Ben Gurion le fece una carezza e disse di no. «Sì,» insistette la bambina «mi hanno detto che sei il re. Portami subito nella Terra di Israele.» Ben Gurion incontrava ovunque persone che volevano andare in Palestina: erano, calcolò, circa il 60-70 per cento dei profughi nei campi di raccolta. A tutti chiedeva se erano disposti ad affrontare la lunga attesa dei certificati di immigrazione e tutti rispondevano sempre in modo affermativo. Al suo ritorno in Palestina egli riferì all'esecutivo dell'Agenzia ebraica che i profughi erano quasi tutti «buoni sionisti».* I leader dello yishuv ricevettero altri rapporti analoghi. Alcuni riferivano che per i superstiti l'Europa era ormai un solo, sterminato, cimitero in cui non era più possibile ricostruirsi una vita o una casa. Altri sottolineavano i rigurgiti di antisemitismo in ogni angolo del continente, in particolare a est, che spingevano gli ebrei ad andarsene. Ma la meta più ambita non era la Palestina. «La maggioranza non desidera stabilirsi qui» dichiarò un inviato all'esecutivo dell'Agenzia ebraica. «Vogliono la quiete, il riposo. Non sono adatti a combattere per gli ideali» e soprattutto, disse un altro osservatore, «sono stanchi, non hanno la forza di sradicarsi di nuovo». I superstiti, d'altra parte, non costituivano «il materiale umano ideale» per lo yishuv, che lo dichiarava apertamente. Uno dei suoi emissari ammoniva che cinquemila ebrei come quelli che aveva visto in Europa avrebbero fatto della Palestina «un unico grande manicomio». Qualcun altro temeva che i superstiti
avrebbero «avvelenato» il sionismo, la democrazia e il progresso, distrutto la struttura socialista fondata sul lavoro della terra, trasformando tutto il paese «in una sola, sterminata Tel Aviv», come aveva già detto Meir Yaari quando l'Olocausto non si era ancora concluso. Alcuni si preoccupavano anche per il futuro del Mapai. Fino a quando la selezione degli immigrati avveniva in base alla forza dei vari partiti, il Mapai era certo di avere la maggioranza. Ma l'immigrazione incontrollata avrebbe potuto provocare «un grande olocausto» nel partito, affermò un dirigente. Uno degli osservatori inviati nei campi di raccolta riferì a Ben Gurion che, se fossero arrivati in Israele centomila di quei profughi, che definì «feccia», sarebbe stata davvero la catastrofe. Ben Gurion era di altro avviso. e' meglio che la "feccia viva in Palestina, replicò. Avremo qualche grattacapo, ma almeno saranno gli ebrei a procurarlo. (Nota: Durante la sua visita in Germania Ben Gurion ebbe un colloquio con il generale Dwight Eisenhower, al quale propose di concentrare tutti i profughi nei villaggi della Baviera, espellendone i residenti e concedendo l'autogoverno agli ebrei. I superstiti avrebbero così fatto pratica di agricoltura e imparato a usare le armi, prima di emigrare in Palestina. (Ai suoi colleghi Ben Gurion riferì di avere proposto a Eisenhower la fondazione di uno Stato ebraico in Baviera.) Il generale era rimasto sorpreso, perché «l'idea era nuova», ma comunque si era detto favorevole in linea di massima a concentrare tutti gli ebrei in un unico luogo, perché così sarebbe stato più facile averne cura e avrebbero creato minor turbamento alla popolazione tedesca. Lo Stato ebraico della Baviera non vide mai la luce, ma Eisenhower si impegnò a migliorare le condizioni di vita nei campi e mise persino a disposizione del movimento sionista un aereo per trasportare i libri in ebraico da distribuire ai profughi. Soprattutto permise che decine di migliaia di ebrei dell'Europa orientale si trasferissero nella zona d'occupazione americana. «Eisenhower è davvero una persona perbene» annotò Ben Gurion. «Non aveva l'aria del generale, ma di un uomo molto probo.»
Anche dopo il conflitto gli emissari dello yishuv si sforzarono di incoraggiare l'emigrazione del «materiale umano» desiderabile e di scoraggiare gli indesiderabili, soprattutto a ridosso della guerra di indipendenza, quando inviarono in Israele quasi soltanto giovani abili alle armi. Il dibattito riprese negli anni Cinquanta e per un certo periodo venne persino reintrodotta la selektsia, vale a dire la scelta degli immigrati in base al paese di origine, all'età, alle qualifiche professionali, alla situazione familiare e, come per il passato, all'appartenenza politica. Ma il sogno che aveva ispirato il movimento sionista prima dell'Olocausto era ormai morto. Lo sterminio degli ebrei d'Europa costrinse i sionisti ad ammettere che bisognava portare subito in Palestina tutti i superstiti. Uno degli organizzatori dell'immigrazione disse che avrebbero dovuto «prendere tutto quello che passa il convento», escludendo soltanto «gli asociali e i criminali incalliti». I leader sionisti, costretti dall'Olocausto a rinunciare al principio della selezione, scoprirono gli ebrei del mondo islamico, quelli dell'Africa settentrionale e dei paesi arabi, che avevano sempre ignorato prima dello sterminio in Europa. «Degli ebrei orientali si occupavano in genere soltanto gli studiosi di storia e di antropologia» dichiarò un dirigente. Il movimento sionista era nato in Europa e i suoi militanti «non facevano caso» agli ebrei del mondo arabo, come ebbe a dire Ben Gurion. Poi, però, c'era stato l'Olocausto e la loro visione era cambiata. Subito dopo aver concluso la sua relazione sullo sterminio nazista, un dirigente dell'Agenzia ebraica aveva fatto osservare che in Medio Oriente e in Africa settentrionale c'erano circa settecentomila ebrei. Era quello il serbatoio da cui d'ora in poi il sionismo avrebbe attinto i suoi immigrati. I contatti con gli ebrei del mondo mussulmano in vista della loro immigrazione in Palestina si intensificarono quando lo yishuv si rese conto delle vere dimensioni dell'Olocausto. Durante la guerra c'era stato qualche timore anche per le comunità del mondo arabo, per esempio dopo il pogrom di Baghdad del 1941, ma in generale gli ebrei dei paesi islamici vennero presi in considerazione soprattutto quando si trattò di sostituire la forza lavoro che era stata sterminata in Europa. Fu questa una delle conseguenze dell'Olocausto che si ripercosse con più forza sulla composizione
sociale, la cultura e la politica israeliane. L'ascesa di Hitler aveva portato in Palestina gli ebrei tedeschi, lo sterminio degli ebrei europei portò in Israele gli ebrei del mondo arabo. I leader del movimento sionista manifestarono qualche rammarico, come testimoniano i verbali delle riunioni, per non avere scoperto prima gli ebrei orientali, ed espressero l'intenzione di fare per loro più di quanto non avessero fatto per salvare quelli europei. «Non c'è bisogno di aspettare che li massacrino» dichiarò Ben Gurion a proposito della comunità irachena. «Non è necessario attendere un'altra "Polonia".» Non era il solo a pensarla così. «Questi ebrei, al più piccolo rovescio di fortuna, rischiano di diventare delle vittime come è accaduto in Europa» affermò Moshe Shapira, allora membro dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica e in seguito ministro degli Interni di Israele. Bisognava muoversi subito, ammonì. «In Europa siamo arrivati troppo tardi» rincarò un altro. «Non abbiamo saputo guardare abbastanza lontano, accorrendo in aiuto di milioni di ebrei e salvandoli finché eravamo ancora in tempo.» La massiccia immigrazione degli orientali soddisfece il bisogno di «braccia per lavorare e per combattere», come ebbe a dire un leader israeliano. Non consisteva in questo il sogno sionista? Dietro l'operazione, però, c'erano anche i sensi di colpa dei dirigenti per non essere riusciti a salvare le vittime dell'Olocausto. Grandi moltitudini di ebrei orientali furono portate in Israele in brevissimo tempo, senza nessuna selezione e senza sapere dove metterli. La fretta fu così grande non tanto perché vi fosse un immediato pericolo, quanto perché i politici israeliani non volevano un giorno essere chiamati a rispondere della scomparsa di altre comunità ebraiche. Un comportamento analogo lo ebbero verso gli ebrei rimasti ancora in Europa. Il governo di Israele pagò centinaia di dollari per ogni ebreo del blocco sovietico che otteneva il permesso di emigrare in Israele. Nella seduta dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica in cui si discusse dei costi, un dirigente disse: «Dobbiamo convivere con la nostra coscienza. Per questa ragione dobbiamo essere certi di avere fatto tutto il possibile».
CAPITOLO VII «UN CERTO DISTACCO» Alla fine della guerra l'Europa divenne un unico grande ingorgo. Quattordici milioni di profughi cercavano di ritornare alle loro case. Viaggiavano con il treno e l'automobile, in carri trainati da cavalli e da buoi, in bicicletta, a cavallo, a dorso di mulo e di asino. E milioni andavano a piedi, interminabili carovane che valicavano una frontiera dopo l'altra. Fu un periodo buio e caotico. Vaste regioni erano sotto l'amministrazione di eserciti stranieri, ciascuna con le sue procedure. L'Europa diventò il paradiso dei contrabbandieri, dei truffatori, dei commercianti, degli speculatori, degli avventurieri, dei farabutti di ogni risma e nazionalità, che si gettavano come corvi sui profughi. Nei territori un tempo controllati dai nazisti c'erano ancora un milione di ebrei, quasi tutti in cammino sulle strade della Romania, dell'Ungheria, della Cecoslovacchia e della Polonia. Si trattava di una migrazione spontanea, che non seguiva alcun piano. Quando i nazisti erano stati sconfitti e le porte dei lager si erano spalancate, gli internati erano partiti alla ricerca dei propri familiari. Era stata la speranza di ricongiungersi con loro a tenerli in vita durante la prigionia. Molti si diressero a oriente, mentre quelli che si erano rifugiati in Unione Sovietica durante la guerra si spostavano verso occidente. Avrebbero potuto restare dov'erano, e così fecero, almeno all'inizio, alcune decine di migliaia di ebrei, persino in Polonia, perché non correvano rischi seri, a parte qualche sporadica manifestazione di antisemitismo. Fra quelli che riuscirono a tornare a ovest, molti trovarono le case e le proprietà distrutte, saccheggiate o passate ad altre mani. Alcuni paesi presero in considerazione l'idea di restituire agli ebrei i loro beni, ma le prospettive di successo erano scarse. I regimi comunisti non vedevano di buon occhio le botteghe e le piccole imprese private, che costituivano una delle occupazioni tradizionali degli ebrei inurbati, e per di più questi ultimi erano in gran parte anticomunisti. «Un certo distacco» Il trauma più terribile
per i profughi era tornare a casa e non trovare i loro cari che avevano sperato di riabbracciare. Quando scoprivano di essere ormai soli al mondo, non c'era più nulla a trattenerli nei luoghi in cui avevano vissuto prima della guerra. Allora molti riprendevano la strada verso occidente, per costruire una nuova vita lontano dalla devastazione. Tanti si incamminarono insieme alle moltitudini di tedeschi espulsi dalle regioni orientali. Quasi tutti i profughi ebrei che da oriente raggiunsero l'Europa centrale furono costretti a valicare clandestinamente le frontiere. Alcuni viaggiavano di notte percorrendo foreste e sentieri montani. Quell'esodo, pericoloso e quasi sempre illegale, passò alla storia con il nome di berihah (fuga), una parola ebraica che indica sia la migrazione sia il meccanismo che ben presto si mise in moto per organizzare e aiutare i profughi. Nella storia di Israele la berihah è circondata da un alone eroico, quasi fosse servita a salvare gli ebrei durante lo sterminio nazista; la guerra era finita già da due anni e «Davar» scriveva che l'Olocausto continuava ancora. In realtà erano stati i profughi a dare inizio alla berihah e i suoi primi leader avevano combattuto con i partigiani. Nessuno sa quanti fossero, fra le moltitudini che muovevano verso occidente, quelli che fin da principio intendevano raggiungere la Palestina: decine di migliaia emigrarono negli Stati Uniti, in America Latina e in altri paesi. I soldati della Brigata ebraica stanziati in Italia al seguito dell'esercito inglese convinsero molti ebrei a stabilirsi nelle vicinanze delle loro basi oppure a raggiungere i campi profughi dell'Austria e della Germania. Gli agenti inviati dallo yishuv arrivarono alcuni mesi dopo e si incaricarono di accelerare la fuga degli ebrei verso ovest. Si trattava di quattrocento persone che per due anni si occuparono quasi solamente della berihah. Lo yishuv voleva dimostrare al mondo intero che il futuro dei rifugiati era strettamente intrecciato a quello della Palestina e che esisteva una sola soluzione ai loro problemi: uno Stato indipendente per gli ebrei. Più si infittivano i profughi nei campi, più crescevano le pressioni sulla Gran Bretagna perché li autorizzasse a recarsi in Palestina. Giungevano pressioni da New York e da Washington, dagli organi di stampa, dalle lobby delle associazioni ebraiche e dall'interno dei campi. Una commissione anglo-americana, che all'inizio del 1946 era andata in
Palestina a controllare la situazione, si recò poi nei campi profughi in Europa. Nelle sue raccomandazioni, pubblicate nell'aprile dello stesso anno, la commissione raccomandò di concedere il permesso di emigrare in Palestina a 100.000 rifugiati. Un dirigente dell'Agenzia ebraica rivendicò alla berihah, che nei cinque mesi precedenti aveva condotto da oriente ai campi profughi in occidente quasi 68.000 espatriati, il merito principale delle conclusioni raggiunte dalla commissione. «Se nei campi ci fossero state soltanto 40.000 persone, dubito che la richiesta di 100.000 certificati [di immigrazione] sarebbe stata esaudita» dichiarò. Prima che i profughi potessero incamminarsi verso ovest, occorreva tracciare gli itinerari e individuare i valichi più sicuri non soltanto fra i vari paesi, ma anche fra una zona di occupazione e l'altra. E, una volta in moto, la carovana doveva evitare i numerosi controlli alle frontiere e i blocchi dei militari, istituiti apposta per impedire l'uscita o l'entrata dei rifugiati. Eppure i profughi trovarono ovunque guardie e poliziotti compiacenti, alcuni perché convinti che tutto fosse regolare, altri perché corrotti; alcuni perché mossi da compassione, altri perché volevano liberarsi di loro o perché semplicemente indifferenti. Il successo della berihah dipendeva dalla capacità di afferrare al volo qualsiasi occasione e di saperla sfruttare. Occorrevano guide fidate. Bisognava trovare bravi falsari: nacque così una vera e propria industria della contraffazione dei documenti. Di un certificato rilasciato dalla Croce rossa a un profugo che rientrava al suo paese d'origine vennero fatte decine di migliaia di copie in ungherese, in inglese e in russo, munite di tutti i timbri necessari. Dai documenti falsi risultava che i profughi rientravano in Grecia dall'oriente. La scelta della Grecia non era casuale: per raggiungerla si doveva passare dall'Austria e dalla Germania, ossia i paesi in cui si trovavano i campi profughi. Prima che il viaggio potesse iniziare, bisognava radunare i profughi in un unico luogo. Il punto di raccolta, di solito comunicato con il passaparola, era in genere un magazzino o una fabbrica in rovina nelle regioni centrali della Polonia industriale. I convenuti venivano suddivisi in gruppi chiamati «kibbutz», ricevevano istruzioni sul bagaglio da portare con sé e sulle precauzioni da osservare lungo il percorso. Poi venivano condotti fino alla frontiera in automobile o
per ferrovia. Bisognava rifornirli di biglietti, di effetti personali, di viveri, di indumenti, di coperte e in molti casi anche di medicinali, perché fra loro c'erano vecchi, donne incinte e neonati. Gli agenti della berihah avevano spesso difficoltà a imporre la disciplina. A volte assegnavano a ogni profugo un numero di identificazione. L'uscita dalla Polonia richiedeva talora diversi giorni. C'erano due rotte, quella a nord che conduceva a Berlino passando da Stettino, e quella a sud che attraversava la frontiera slovacca. (Nota: La cifra di 100.000 certificati pare sia saltata fuori la prima volta durante un colloquio fra Chaim Weizmann e Winston Churchill nel novembre del 1944, cinque o sei mesi dopo la celebre richiesta di «un milione subito» fatta da Ben Gurion. Weizmann disse a Churchill che si prevedeva l'emigrazione di un milione e mezzo di ebrei in Palestina nell'arco di quindici anni, al ritmo di 100.000 all'anno. Nel 1945, di ritorno da una visita ai campi profughi, anche Earl Harrison, il rappresentante del dipartimento di Stato americano, suggerì di concedere 100.000 permessi. La raccomandazione venne accolta dal presidente Truman, ma fu respinta dagli inglesi.) Dalla seconda riuscivano a passare anche mille persone al giorno, che poi proseguivano in treno per Bratislava e da qui fino a Vienna, attraverso la zona occupata dai russi. Nella capitale austriaca i profughi venivano visitati in un centro gestito dalla comunità ebraica locale, situato nell'ex ospedale Rothschild. Infine raggiungevano le zone occupate dagli americani in Austria e in Germania, viaggiando su treni militari con il beneplacito delle autorità statunitensi. Al loro arrivo venivano in genere sistemati in due tendopoli, una nei pressi di Hamm, nella Germania centrale, e un'altra vicino a Landshut, nella Germania meridionale, che potevano ospitare dalle 6000 alle 8000 persone. Poi venivano smistati verso altri campi, inizialmente controllati dall'esercito americano, poi dall'agenzia profughi delle Nazioni Unite, l'UNRRA. Nella primavera del 1947 gli espatriati ebrei erano circa 250.000: di questi, quasi 160.000 si trovavano nella parte della Germania sotto controllo americano, 40.000 in Austria e circa 20.000 in Italia. Per
tutto questo occorreva molto denaro. Durante la guerra i prigionieri del campo di Sachsenhausen avevano stampato sterline false per i servizi segreti tedeschi. Alla fine della guerra molte di quelle banconote erano finite in Olanda, nelle mani di un industriale ebreo, che le mise a disposizione della berihah. In Polonia, invece, l'esodo fu finanziato dagli ebrei che durante il conflitto erano riusciti a nascondere oro e gioielli, oppure si erano arricchiti con il mercato nero. Non tutti, però, erano disposti a contribuire, tanto che in alcuni casi il denaro fu confiscato dagli agenti della berihah. In seguito cominciarono ad arrivare soldi dalla Palestina e dagli ebrei d'America, in parte attraverso il Joint Distribution Committee. Il successo della berihah dipendeva quasi sempre dall'intelligenza, dal coraggio e dall'audacia degli agenti, come nell'episodio raccontato da Dov Gur, che a quel tempo si chiamava Robert Grossman e aveva militato nella Brigata ebraica. Il compito del gruppo cui apparteneva era di portare i profughi clandestinamente dall'Austria in Italia, per inviarli poi in Palestina. Grossman e i suoi compagni mandavano i loro camion in Austria, in un campo profughi controllato dagli inglesi, dov'erano riuniti gli ebrei che avevano attraversato la frontiera russa, li prelevavano e li trasportavano al campo di raccolta della Brigata. «Avveniva tutto alla luce del sole, con il consenso degli inglesi, perché il loro comandante non sapeva che era proibito affidarci gli internati.» Un giorno, però, giunse l'ordine di non consegnarli. Riuscirono comunque a portar via altre quattrocento persone. Una settimana dopo Grossman fu convocato dal comandante della Brigata ebraica, il quale gli comunicò che era stato accusato di avere prelevato i rifugiati dal campo senza l'autorizzazione. L'ufficiale gli domandò che cosa avesse da dire a sua discolpa. «E io gli replicai: "Li ho trafugati perché non potevo fare altro".» Alla domanda se sapevo che avrei potuto essere spedito davanti alla corte marziale, dissi di sì e aggiunsi: «Ma anche lei sapeva delle mie attività e ha contribuito a mantenerle segrete». Il comandante si tolse il monocolo e mi chiese: «Come si scrive Grossman, con una o con due esse?». «Con due» risposi. Guardò il foglio che aveva davanti e disse: «Allora non è lei. Qui c'è scritto Grosman, con una esse sola». Poi informò i superiori che al suo comando non c'era nessun ufficiale con quel nome. Quando gli
inglesi cominciarono a smobilitare la Brigata ebraica e rispedire i soldati in Palestina, alcuni decisero di rimanere in Europa per continuare a svolgere l'attività di organizzazione e propaganda fra i rifugiati. Per impedire che gli inglesi se ne accorgessero, scambiavano la propria identità con dei veri profughi i quali prendevano il loro posto nella Brigata. Non era un'impresa facile. Bisognava prima di tutto scovare persone con un forte spirito di iniziativa e una certa somiglianza con i soldati che dovevano sostituire. Occorreva poi dargli un'infarinatura di addestramento, presentat'arm, arma in spalla, sissignore, nossignore, per evitare che gli ufficiali britannici mangiassero la foglia. Era necessario trovare le uniformi giuste, né troppo nuove né troppo vecchie, e infine trasferire i finti soldati dai campi in Germania alla base della Brigata, che nel frattempo si era trasferita in Belgio. Era questa l'operazione più delicata. Un giorno morì un soldato della Brigata ebraica che si trovava per caso nella zona di occupazione britannica in Germania. Il comandante del reggimento ordinò di trasportare la salma alla base belga e assegnò il compito a tre soldati. Era l'occasione che gli agenti della benhah aspettavano da tempo. Per prima cosa trasformarono il tre in trenta, in modo da introdurre in Belgio trenta volontari, che trovarono fra i superstiti di BergenBelsen. Poi scoprirono che si poteva attraversare la frontiera con il Belgio in cinque punti diversi, per cui organizzarono cinque cortei funebri, che superarono contemporaneamente i cinque valichi, ciascuno con un picchetto di trenta finti soldati e una bara con dentro un finto morto, per lo straordinario totale di 154 falsi soldati e un morto vero. Lo stratagemma permise a oltre cento uomini della Brigata ebraica di rimanere in Europa. Ognuno di loro figurava come profugo, mentre i veri profughi, in divisa da soldato, viaggiavano verso la Palestina, dove arrivarono nell'estate del 1946. Ruth Aliav ha raccontato un altro episodio, che si situa in quella zona grigia fra il coraggio e la scorrettezza, o forse fra la realtà e l'immaginazione. Durante la sua visita in Germania, Ben Gurion incaricò Aliav di prendere accordi per un incontro con Eisenhower. Alla base americana la donna fu fatta accomodare nell'ufficio del generale e mentre aspettava lo sguardo le cadde su un documento posato sulla scrivania. Era la copia «top secret» del rapporto
Harrison: «Non so come, finì nella mia borsetta» dichiarò molti anni dopo. Quando gli consegnò quel documento, Chaim Weizmann le stampò un bacio sulla fronte e Ben Gurion le disse: «La nostra storia non ti dimenticherà». Nel dicembre del 1945 giunse in Europa dalla Palestina una delegazione dell'Agenzia ebraica. Haim Yahil, che la guidava, raccontò come in origine essa si proponesse di «assistere i pochi fuscelli che si erano salvati dal fuoco dei forni» e fosse organizzata alla stregua di «un'unità di soccorso». Ben presto, però, il suo capo si convinse di aver ricevuto dalla storia l'incarico di arruolare i profughi per la grande rivoluzione ebraica. Ma per realizzare questa missione egli doveva fare in modo che i rifugiati, anziché cercare una sistemazione in Europa, aspettassero pazientemente il momento di emigrare in Palestina. Per trasformare i profughi in «un grande movimento popolare», in «una forza ebraica attiva», occorrevano, ragionava Yahil, «una certa dose di tensione, di fermento e di inquietudine». Non poteva lasciarsi sfuggire quell'occasione, perché, ne era certo, «il varco si sarebbe probabilmente richiuso molto presto». Era necessario dunque accelerare subito l'esodo dall'Europa orientale alla zona di occupazione americana e da qui ai punti di imbarco per l'immigrazione illegale in Palestina. Sulla sorte dei profughi si erano formati due schieramenti contrapposti. Uno, con il quale si identificava Yahil, sosteneva che occorresse a tutti costi impedire ai rifugiati di insediarsi nei paesi dove si trovavano in quel momento, come la Germania o l'Austria. L'altro riteneva invece che fosse necessario ricostruire le comunità ebraiche distrutte durante la guerra. Il Joint Distribution Committee, per esempio, era oggetto di continui attacchi da parte dell'esecutivo sionista perché aiutava gli ebrei a rifarsi una vita in Europa. «C'è il rischio che quei vermi dei comunisti facciano lega con il Joint Committee» dichiarò Ben Gurion, per il quale gli ebrei filocomunisti dell'Europa orientale erano «la feccia del giudaismo». Un altro leader aveva già espresso il timore di un «fronte comune» antisionista fra comunisti e Joint Committee. Ben Gurion dettò le regole alle quali l'Agenzia ebraica doveva attenersi: «1) L'Agenzia non si occupa degli aiuti e della ricostruzione nella Diaspora; essa lavora per rafforzare il movimento sionista in Palestina. 2) Nei limiti del possibile, bisogna
impedire al Joint di spadroneggiare e di rafforzare, attraverso il controllo della distribuzione degli aiuti, le tendenze antisioniste presenti nel giudaismo. 3) Occorre concentrare l'immigrazione e tutte le attività assistenziali nell'ambito dell'Agenzia ebraica». A uno degli agenti inviati fra i profughi Ben Gurion disse: «Il dovere del sionismo non è salvare "il resto" di Israele in Europa, bensì salvare la Terra di Israele per il popolo ebraico e lo yishuv». Eliahu Dobkin ricordò ai colleghi che i profughi si sarebbero ben presto trovati a dover decidere che cosa fare. Il loro desiderio di andare in Palestina «era appeso a un filo» e molto dipendeva dalla capacità del movimento sionista di rendersi visibile «in tutta la sua forza». Un anno dopo la fine della guerra gli agenti dello yishuv erano ormai presenti in quasi tutti i campi profughi. Lavoravano come insegnanti, consiglieri, infermieri, dottori, conferenzieri, propagandisti e amministratori. Aprirono ben presto degli uffici, quasi delle ambasciate del futuro Stato, per attirare fra le file del movimento sionista il maggior numero possibile di profughi e distribuire i pochi certificati di immigrazione disponibili. Decine di migliaia di rifugiati divennero maapilim, ossia immigrati illegali. Venerdì 18 luglio 1947, qualche istante prima che sulla Palestina calasse il crepuscolo dello Shabbat, arrivò a Haifa una nave carica di passeggeri, l'Exodus 1947. Anch'essa, come molte altre imbarcazioni della haapalah, era stata acquistata negli Stati Uniti e si chiamava President Warfield. Prima della guerra la President Warfield percorreva la rotta Baltimora-Norfolk, trasportando turisti e coppie in luna di miele. Allo scoppio delle ostilità gli americani l'avevano ceduta alla marina britannica in base all'accordo LendLease (Affitti e prestiti). Paradossalmente erano stati proprio gli inglesi a corazzarla, preparandola così alla missione sionista. La nave stava per essere messa in disarmo, quando fu acquistata per 50.000 dollari attraverso un prestanome dal Mossad, che ne fece il simbolo dell'haapalah, ossia dell'immigrazione illegale. Avvenne tutto alla luce del sole: l'acquisto, l'allestimento, il giuramento dell'equipaggio. La stampa americana fu messa al corrente anche dei particolari della missione. Prima che la nave salpasse ci furono cerimonie e festeggiamenti: il movimento sionista utilizzò fin da principio il viaggio come uno strumento di propaganda.
L'ambasciatore britannico negli Stati Uniti inviò al suo governo i ritagli di giornale. Quando la nave arrivò a Port-de-Bouc, vicino a Marsiglia, per imbarcare i passeggeri, gli inglesi sapevano tutto sull'Exodus e sulla sua rotta e conoscevano persino i nomi dei componenti l'equipaggio formato quasi esclusivamente da volontari della comunità ebraica americana. (Nota: Warfield era il nome dell'armatore che l'aveva costruita, non del presidente James A. Garfield, come scrissero equivocando parecchi giornali. Il nuovo nome, Exodus 1947, che Moshe Sharett definì «geniale», era stato suggerito da Moshe Sneh, comandante della Haganah e futuro leader del partito comunista israeliano. Accanto alla scritta in inglese avrebbe dovuto figurare anche quella in ebraico, che però non fu mai dipinta sulla fiancata. Nei cartelli innalzati dai passeggeri compariva soltanto il nome Exodus: quello in ebraico, che si scorge nelle fotografie, fu aggiunto con un ritocco.) Londra aveva cercato di impedirne il varo tramite i canali diplomatici: era intervenuto persino il ministro degli Esteri Ernest Bevin. Nel frattempo il Mossad aveva prelevato quasi 4500 profughi dai campi tedeschi e li aveva portati in Francia con la connivenza delle autorità francesi, che a volte collaboravano attivamente e altre chiudevano un occhio. Alcuni profughi avevano certificati di immigrazione falsi. Sull'Exodus i «pionieri» politicamente preparati erano una minoranza, mentre in compenso vi erano donne incinte e centinaia di bambini, perché era mancato il tempo per selezionare i passeggeri, ha affermato la studiosa Aviva Halamish, e non perché, come accusavano alcuni, i militanti della haapalah li avessero imbarcati apposta, per accentuare con la loro presenza la drammaticità del viaggio e il suo valore simbolico. Eppure ci sono buoni motivi per ritenere che i sionisti tenessero d'occhio le reazioni della stampa. Quando nacque il primo bambino a bordo, tanto per fare un esempio, la notizia fu immediatamente telegrafata in tutto il mondo. Gli inglesi commisero tutti gli errori possibili. Ben Gurion aveva detto un giorno: «La migliore propaganda degli inglesi a favore del sionismo è il campo [profughi] di Bergen-Belsen. Si comportano come i nazisti». E ora, con la loro inflessibilità nei
confronti dell'Exodus, fecero di nuovo il gioco dei sionisti. La nave non era ancora entrata nelle acque territoriali palestinesi, che fu circondata da sei corazzate della Royal Navy e abbordata. I marines inglesi l'assaltarono, salendo a bordo come fosse una nave nemica. I passeggeri tentarono di resistere, lanciando dai ponti bottiglie e lattine, agitando sbarre di ferro e asce, e rovesciando olio bollente sugli assalitori. Gli inglesi aprirono il fuoco: ci furono tre morti, fra cui un ragazzo di quindici anni, e decine di feriti, alcuni gravi. Non furono le ultime vittime. Prima che il viaggio si concludesse, ce ne furono molte altre, compreso un neonato di un solo giorno, il quale fu sepolto nelle acque del golfo di Biscaglia dentro una cassettina di stagno e diventò un eroe sotto la penna del poeta Natan Alterman. Ad attendere l'arrivo dell'Exodus nel porto di Haifa c'erano anche due membri della commissione che le Nazioni Unite avevano inviato in Palestina per proporre una soluzione al conflitto araboebraico. Attaccando l'Exodus, gli inglesi, scrisse in seguito Golda Meir, diedero un contributo non piccolo alle raccomandazioni formulate dalla commissione. La Gran Bretagna avrebbe potuto attenuare gli effetti propagandistici dell'Exodus anche dopo l'assalto, effettuato fra l'altro in violazione delle consuetudini vigenti, se l'avesse dirottata su Cipro. Trasferì invece i passeggeri su tre navi della Royal Navy e li rispedì a Port-de-Bouc, da dove erano salpati. I francesi rifiutarono di farli scendere con la forza e quasi nessuno volle sbarcare. Le vicissitudini dell'Exodus durarono tre settimane e il movimento sionista fece in modo che il mondo non le dimenticasse. Gli inviati dei giornali internazionali scrissero che i profughi erano prigionieri su un'«Auschwitz galleggiante». Tutto il mondo fu scosso e percorso da un'ondata di commozione per la sorte degli ebrei, paragonabile soltanto a quella che si era verificata quando i primi giornalisti erano entrati nei campi liberati.* Poi, quando l'interesse dei mezzi di informazione cominciava a scemare, gli inglesi commisero un altro errore: annunciarono che avrebbero rispedito tutti i profughi privi di permesso nella zona d'occupazione britannica in Germania. Era una follia e l'Agenzia ebraica seppe sfruttarla al meglio. Il ritorno in Germania avrebbe costituito un trauma per i profughi, ma nessuno dei dirigenti dello yishuv tentò di risparmiarglielo. L'unico fu Chaim Weizmann. Angosciato dalle
sofferenze che avrebbero patito, chiese che i passeggeri fossero sbarcati in Francia. Fu messo a tacere da Ben Gurion durante uno dei violentissimi scontri che ogni tanto scoppiavano fra i due. La deportazione in Germania avrebbe avuto un impatto emotivo e simbolico fortissimo, a tutto vantaggio dell'Agenzia ebraica. Due mesi dopo essersene andati dai campi di raccolta, i profughi dell'Exodus si ritrovarono rinchiusi in due campi recintati sulla costa baltica, non lontano da Lubecca, sulle rive del paese «maledetto», come chiamavano la Germania. Era il mese di settembre del 1947. Ufficialmente David Ben Gurion e i dirigenti dell'Agenzia ebraica continuavano a essere contrari alle violazioni delle norme mandatarie sull'immigrazione. Ora, però, erano costretti ad appoggiare la haapalah, sia per evitare l'accusa di incapacità, indifferenza e scarso patriottismo, sia per incanalare i sentimenti nazionali rivoluzionari, così forti in quei giorni di creazione dello Stato, verso la Haganah, che organizzava gran parte della berihah e della haapalah. Ma era anche un modo per contrastare l'attivismo delle fazioni clandestine di destra: l'immigrazione illegale creava infatti fermento fra i profughi e ammirazione per la lotta sionista, in particolare per gli agenti della haapalah. Nei tre anni fra la fine della guerra e la Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele, dall'Europa salparono circa 140 navi con 70.000 maapilim a bordo, ma moltissime furono intercettate dagli inglesi che le sequestrarono e inviarono i passeggeri nei campi profughi di Atlit (vicino a Haifa), e di Cipro. (Nota: Fra i profughi di ognuna delle tre navi britanniche c'erano anche gli agenti dello yishuv. Alcuni erano riusciti a intrufolarsi a bordo dopo l'approdo della nave a Port-deBouc. Uno si era travestito da garzone di fornaio, un altro si era nascosto in una cassa di viveri pronta per essere caricata. Gli agenti della haapalah continuavano a girare intorno alle tre navi con barche a motore prese a noleggio, lanciando con i megafoni messaggi di solidarietà e istruzioni, e trovando la maniera di scambiarsi quasi ogni giorno anche comunicazioni scritte.)
La metà circa degli internati potè poi immigrare in Palestina, ma i loro permessi furono detratti dalle quote assegnate normalmente, sicché in conclusione lo yishuv non si procurò con la haapalah molti più immigrati di quelli che avrebbe potuto ottenere per vie legali. Da questo punto di vista l'operazione non fu un grande successo e sicuramente non servì a ottenere «materiale umano» migliore. Le autorità britanniche lasciavano in genere la scelta degli immigrati all'Agenzia ebraica, la quale perciò avrebbe potuto condurre in Palestina le persone che desiderava. L'Agenzia ebraica e la Haganah non si opposero mai con la forza al sequestro delle navi e i passeggeri deportati a Cipro venivano custoditi nei campi nel pieno rispetto delle convenzioni internazionali. La cattura delle navi non ebbe grandi ripercussioni sui rapporti fra i leader dell'Agenzia ebraica e le autorità mandatarie, che rimasero in genere cordiali. Il vero scopo della haapalah, in realtà, non era più l'immigrazione illegale: essa era ormai diventata un'arma nella lotta per la creazione dello Stato ebraico e per il suo controllo. Il Mossad, che dirigeva la haapalah, era un braccio della Haganah come il Palmach, e come il Palmach aveva ormai sviluppato canoni e metodi operativi suoi propri, che non sempre erano in linea con le istruzioni emanate dall'Agenzia ebraica e dal comando della Haganah. I militanti della haapalah acquistavano le imbarcazioni, le equipaggiavano, effettuavano tutte le operazioni tecniche e legali necessarie per la navigazione, radunavano i profughi nei porti di imbarco tramite la rete della berihah, fornivano le istruzioni per il viaggio, conducevano a bordo i passeggeri, li accompagnavano e li proteggevano durante la rotta, comandavano le navi e a volte le pilotavano. Sbarcavano il loro carico su qualche spiaggia remota della Palestina e, se venivano scoperti dagli inglesi, seguivano i profughi nei campi d'internamento. Collaboravano con il Palmach, con cui però non sempre andavano d'accordo. I nomi delle imbarcazioni erano scelti con molta cura: dovevano essere suggestivi, ispirare speranza e tenere alto il morale soprattutto nello yishuv. Si chiamavano AA, Pi Chen (Nonostante tutto). Lo Tafihidunu (Non ci fate paura) e Lanitzahon (Fino alla vittoria). Altri nomi evocavano la guerra arabo-israeliana per il controllo del paese, come Yerushalaim Hanetzurah (Gerusalemme assediata);
nessuna aveva un nome religioso o biblico, soltanto pochissime ricordavano il mondo della Diaspora, e anche in tal caso celebravano eroi del sionismo come Theodor Herzl. Masada, uno dei simboli dell'eroismo israeliano, spiccava per la sua assenza. Ma c'era una ragione: le navi dovevano comunicare un messaggio di lotta e di vita, non di sconfitta e di suicidio. Neppure l'Olocausto era presente, come se non fosse mai avvenuto o fosse qualcosa di cui vergognarsi. C'era invece una nave che si chiamava Mordei Haghetaot (I ribelli del ghetto). I fondatori e leader del Mossad provenivano quasi tutti dai kibbutz: erano uomini e donne (poche) fortemente idealisti, che si offrivano volontari per svolgere missioni di interesse nazionale nella certezza che i compagni avrebbero avuto cura delle loro famiglie. Avevano per lo più fra i quaranta e i cinquant'anni: erano dunque molto più vecchi degli agenti del Palmach, da cui si differenziavano anche perché erano nati tutti all'estero ed erano venuti in Israele come giovani pionieri sionisti. Erano sposati e molti svolgevano attività politica nei kibbutz, nei partiti o nella Histadrut. Non possedevano un alto grado di istruzione, ma avevano esperienza, conoscevano le lingue e sapevano tenere la bocca chiusa. Il capo del Mossad era Shaul Meirov (nome di battaglia Avigur) del kibbutz Kvutsat Kineret. Nato in Russia, era stato uno dei primi agenti segreti della Haganah ed era un fedelissimo di Ben Gurion. Uomo di poche parole, totalmente privo di senso dell'umorismo, Meirov si sentiva investito di una missione, aveva il culto della segretezza ed era dotato di grande carisma. I militanti della haapalah si conoscevano tutti (l'arruolamento avveniva per cooptazione) ed erano molto legati fra loro: li univano la fede nel movimento laburista e l'etica spartana, la lealtà reciproca e un forte spirito di servizio. Oltre a organizzare la berihah, legale e illegale, arruolavano i volontari e acquistavano le armi di cui Israele aveva bisogno per la guerra di indipendenza, tutte operazioni che spesso richiedevano contatti segreti e buone coperture. Fu dai loro ranghi che emersero le classi dirigenti del futuro Stato, i manager, i diplomatici, i generali, e anche i fondatori dei servizi di sicurezza e di controspionaggio (un ramo dell'intelligence israeliana si chiamò proprio Mossad). La berihah e il traffico d'armi a ridosso della Dichiarazione di indipendenza
costituirono un'ottima scuola per i compiti che questi uomini e queste donne si sarebbero trovati a svolgere alla nascita di Israele. Shaul Avigur voleva che Ben Gurion chiedesse ai profughi dell'Exodus di opporsi allo sbarco sulle coste tedesche. Ma Ben Gurion rifiutò: avevano già fatto abbastanza, disse, non era il caso di istigarli a compiere gesti che avrebbero potuto avere un esito cruento. La haapalah aveva raggiunto lo scopo che egli si era prefisso: convincere il mondo che il popolo ebraico aveva bisogno di uno Stato. Ora che la Commissione speciale dell'ONU per la Palestina (CSONP) stava redigendo le proprie raccomandazioni, era bene starsene molto tranquilli. Ma qualcuno dei capi della haapalah la pensava diversamente. Una delle tre navi cariche di deportati fu sabotata con una bomba introdotta di nascosto in Francia. Ben Gurion sollecitò un'inchiesta: considerava l'attentato e, a questo punto, la stessa haapalah una sfida alla sua autorità e un danno per gli interessi politici del movimento sionista. Il leader era infatti impegnato in quel momento nel tentativo di persuadere la Commissione speciale dell'ONU che gli ebrei di Palestina volevano soltanto la pace e la stabilità e che, se ne avessero avuto la possibilità, avrebbero saputo governare saggiamente il loro paese. Alla fine dell'agosto 1947 la Commissione propose la spartizione della Palestina in due Stati, uno per gli ebrei e uno per gli arabi. Il 29 novembre l'assemblea generale dell'ONU approvò le raccomandazioni. Per la prima volta si apriva la strada verso la realizzazione del sogno sionista. Non era stato facile ottenere la maggioranza necessaria alle Nazioni Unite: l'attività lobbistica, le pressioni, gli allettamenti e gli intrighi prima della votazione avevano messo a dura prova l'abilità diplomatica del movimento sionista. Nel frattempo si era saputo che la haapalah stava per mettere in mare altre due navi, la Pan York e la Pan Crescent, chiamate rispettivamente in ebraico Kibbutz Galuyot (Riunione degli esiliati) e Atsmaut (Indipendenza). Su di esse avrebbero viaggiato circa 15.000 emigranti, vale a dire il triplo di quelli deìl'Exodus (che già ne aveva trasportati più di ogni nave precedente) e quasi un quarto di tutti i maapilim che erano partiti per la Palestina dalla fine della guerra alla proclamazione dell'indipendenza. Su pressione del dipartimento di Stato
americano il varo fu rinviato in attesa del voto all'ONU. Ma anche dopo l'approvazione della risoluzione, l'esecutivo dell'Agenzia ebraica si oppose al viaggio. «Non abbiamo ancora in tasca lo Stato» obiettò Ben Gurion a Shaul Avigur, che invece voleva far salpare le navi. Lo scontro fra i due fu durissimo. Quindicimila persone erano state strappate alle loro case, dichiarò Avigur, e aspettavano di partire, sedute sui loro miseri fagotti. Fuggivano dalla fame e dal freddo, non si poteva rispedirle indietro. Erano arrivate con treni speciali da ogni angolo della Romania e aspettavano nei campi che era stato possibile organizzare dopo lunghissime e complesse trattative con il governo rumeno e quello bulgaro. Se si fosse ritardata ancora la partenza, sarebbero probabilmente scoppiate delle sommosse con conseguenze imprevedibili. La berihah ne sarebbe uscita distrutta. Ben Gurion non cedette: nessuno gli aveva dato retta quando ammoniva a non radunare grandi moltitudini di immigrati illegali. Non voleva stabilire una scala di priorità fra l'immigrazione in Palestina e la lotta politica, di cui il movimento per l'immigrazione il legale era una componente. Nell'uno come nell'altro caso, l'obiettivo era sempre quello di sconfiggere gli inglesi e tante piccole imbarcazioni potevano dare più fastidio di poche grandi navi. Nessuno si era alzato a contestarlo, si lamentò Ben Gurion, poi però avevano fatto di testa loro. Il futuro Stato si trovava ora in una fase cruciale: stava per cominciare la guerra. «Non so che cosa succederà fra una settimana» affermò Ben Gurion. Non era il momento delle sfide: non potevano permettersi tensioni o lotte interne. Poi lanciò l'affondo: «In questo momento delicato, in cui la nostra stessa esistenza in questo paese è in pericolo, arrivi tu con questa provocazione. Sei disposto ad assumertene la responsabilità?» chiese ad Avigur. «La tua sfrontatezza mi lascia allibito!» Avigur replicò che egli rappresentava il punto di vista del suo kibbutz, Kineret: ognuna delle due navi avrebbe trasportato un numero di persone sufficienti a fondare dodici-tredici nuovi Kineret. Ben Gurion gli rispose con parole che ben riassumono il suo modo di pensare: «La sicurezza è ancora più importante dell'immigrazione». D'altra parte, non si potevano abbandonare 15.000 persone ormai sradicate. Questo lo capirono anche gli inglesi, che perciò autorizzarono immediatamente le navi a dirigersi
verso Cipro. Lo yishuv assistette quasi con indifferenza alle traversie dei maapilim. Pochi parteciparono alle manifestazioni di protesta contro la deportazione dei profughi a Cipro e pochissimi contribuirono a finanziare la lotta. La raccolta di fondi si risolse in un fiasco. I maapilim appartenevano quasi tutti alle categorie di immigrati che lo yishuv desiderava, ma ogni certificato di immigrazione concesso agli illegali sarebbe stato detratto dalle quote assegnate, proprio mentre migliaia di ebrei di Palestina chiedevano alle autorità il ricongiungimento con i propri familiari che erano nei campi profughi. Le loro domande venivano respinte perché, dicevano gli inglesi, erano costretti a concedere i certificati a quanti si erano introdotti illegalmente nel paese. Gli agenti sionisti e quelli della berihah non si erano recati a centinaia in Europa al solo scopo di servire la Terra di Israele. Moltissimi l'avevano fatto per il loro partito e nei superstiti dell'Olocausto vedevano non soltanto potenziali soldati e futuri cittadini, ma anche possibili elettori. Ognuno di loro perciò tirava l'acqua al proprio mulino in una lotta senza quartiere, che a volte degenerava nella violenza. Ciascun partito cercava di inserire i propri rappresentanti nei comitati che dirigevano i campi per assumerne il controllo, presumendo che i profughi avrebbero conservato la loro fede politica anche dopo l'arrivo in Palestina. «I movimenti distribuiscono denaro, razioni supplementari, regali, per accaparrarsi la gente» dichiarò Eliahu Dobkin al comitato del Mapai. Parlò di pugni e coltellate, e persino di scontri a fuoco. I profughi venivano mandati in certi campi anziché in altri allo scopo di modificarne la composizione politica. «C'è un solo dio, il partito» affermò. «Non c'è nient'altro, nessun interesse comune.» Neanche Dobkin, del resto, era sempre stato un paladino dell'unità ebraica. In quel momento, tuttavia, essa era di importanza vitale per il Mapai. Nel marzo del 1944 le tensioni interne erano diventate insostenibili e il partito si era scisso. I dissidenti avevano fondato Ahdut Haavodah (Lavoratori uniti), una formazione più radicale, più ribelle e più militante. Il nuovo partito aveva un atteggiamento di maggiore durezza nei confronti del conflitto con gli arabi e della politica sionista, ed era più a sinistra del Mapai sul piano ideologico. La sua base era formata soprattutto dal più grande movimento dei
kibbutz, Hakibbutz Hameuhad. Il Mapai definì la scissione «un tradimento». La passione partitica degli ebrei di Palestina non si era spenta neppure con la guerra. Ogni discussione diventava una questione di vita o di morte: l'Olocausto non era servito a dare allo yishuv il senso delle proporzioni e a fornirgli nuovi criteri di giudizio. I movimenti in competizione fra loro si scagliavano accuse violentissime. I militanti di Hashomer Hatsair accusavano quelli del Mapai di ostacolare i loro agenti nei campi profughi e di discriminare i loro simpatizzanti nella distribuzione degli alloggi e dei viveri: «Erano i degni eredi dei metodi totalitari tedeschi» affermavano. In una lettera alla moglie Paula, Ben Gurion scrisse che effettivamente erano stati commessi «alcuni errori» e che le accuse di Hashomer Hatsair non erano del tutto infondate. Militanti del Mapai, a loro volta, temevano il carisma dei «consiglieri» di Hashomer Hatsair: uno li chiamò «piccoli Stalin», un altro disse che i profughi li consideravano altrettanti «Fùhrer». Gli uni e gli altri si accusavano di «rapire i bambini», vale a dire di cercare di mettere le mani sul sistema scolastico. Quando si accorsero che i sionisti stavano estendendo la loro rete di potere nei campi profughi, anche i partiti religiosi reclamarono la propria parte. Come già avevano fatto al tempo dei bambini di Teheran, chiesero l'educazione religiosa, le preghiere, l'osservanza del sabato e il cibo kasher per i profughi. Divamparono le polemiche. «Insegnano ai bambini l'ipocrisia e la menzogna» sbottò Golda Meir. I partiti religiosi si impegnarono a fondo nella ricerca dei piccoli ebrei che durante la guerra erano stati affidati dai genitori a famiglie cristiane oppure nascosti nei conventi: anche «la redenzione dei bambini» poteva servire a procurarsi voti in futuro. La maggior parte degli agenti provenienti dalla Palestina apparteneva al movimento laburista. Quando la berihah assunse una patina semiufficiale, anche il movimento revisionista volle parteciparvi e organizzò alcuni convogli di maapilim. L'ostilità fra i due movimenti assunse a tratti il carattere di una guerra fra bande rivali. Nel settembre del 1947 diverse decine di giovani, guidati da esponenti del movimento giovanile revisionista, il Betar, si introdussero nel campo profughi di Gnadewald, vicino a Innsbruck, con l'intenzione, si dice, di conquistarlo e assumere così il controllo di una delle rotte della
berihah. Ma non è escluso che volessero semplicemente vendicarsi: qualche tempo prima alcuni residenti del campo avevano fermato e picchiato un gruppetto di persone sospettate di utilizzare le rotte orientali della berihaah per il contrabbando. (Nota: Hashomer Hatsair: gruppo sionista socialista con una propria federazione di kibbutz e, a partire dal 1948, un proprio partito, il Mapam. Più marxista e con un'ideologia socialista più marcata del Mapai, Hashomer Hatsair si riconosceva parzialmente nella linea dell'Internazionale comunista.) Forse i malmenati non appartenevano al Botar, ma i militanti del movimento li avevano presi a pretesto per intrufolarsi nel campo profughi. Una volta dentro, erano andati verso la sala radio, avevano abbattuto la porta e catturato i radiotelegrafisti che si erano immediatamente arresi. Uno di loro però dormiva: fu svegliato, ma non capì quello che stava succedendo e quando gli ordinarono di alzare le mani, rispose con voce impastata: «Lasciatemi in pace». Fu ucciso con un colpo di pistola. Quel giovane era Eitan Avidov, veniva da Nahalal ed era il figlio di un noto esponente del movimento laburista. L'omicidio diede la misura del grado di tensione esistente fra la destra e la sinistra. I campi profughi, secondo Haim Yahil, erano sull'orlo della guerra civile. Pochi mesi dopo la fine del conflitto, nei campi esisteva già una rete di gruppi politici con propri rappresentanti e comitati. I comitati, che erano elettivi, parlavano a nome dei profughi, li rappresentavano presso gli eserciti occupanti e le organizzazioni umanitarie. Mantenevano anche l'ordine, tanto che in alcuni casi i partiti si accordarono per istituire tribunali interni. Alcuni organizzavano attività culturali e educative, funzioni religiose, corsi professionali, addestrando altresì i «pionieri» alla coltivazione della terra nelle fattorie tedesche circostanti. A poco a poco tutta la vita dei profughi, dall'assegnazione dei posti e dei letti nelle baracche alla distribuzione delle coperte, degli indumenti, del cibo, della posta e persino dei farmaci, fu interamente controllata dai partiti in base a un sistema proporzionale: ogni tanto infatti si tenevano elezioni e referendum, più o meno democratici, come richiedeva la
politica sionista. Anche i campi di Cipro erano interamente lottizzati. Sull'isola c'erano circa ventimila profughi. All'arrivo ognuno aveva dovuto dichiarare a quale partito apparteneva o voleva appartenere. Da quel momento la sua vita dipendeva interamente dal partito: viveva nelle baracche con gli altri iscritti al partito, mangiava il cibo cucinato dal partito, partecipava alle attività culturali del partito ed eleggeva i rappresentanti del partito negli organismi amministrativi. David Shaari, un emissario dell'Agenzia ebraica, raccontò che a Cipro, come nei campi profughi europei, era impossibile evitare di schierarsi. (Nota: Forse fu la grande politicizzazione, oppure il senso della storia, o ancora l'importanza attribuita al morale della collettività ciò che indusse i rappresentanti dei vari partiti a prestare particolare attenzione agli aspetti simbolici del loro lavoro in Germania. Tennero per esempio un'assemblea nella birreria in cui Hitler aveva ideato il suo fallito putsch e si riunirono nel villaggio di Berchtesgaden, ai piedi del «nido d'aquila» del Fuhrer. E non fu certo un caso se alcuni profughi vennero inviati ad apprendere il mestiere di agricoltore nella fattoria che era stata un tempo di Juhus Streicher, il direttore di «Der Stùrmer».) Quelli che si rifiutavano erano chiamati "solitari" e avevano vita durissima. Venivano trattati come alieni: «Vivono chiusi nel passato» osservò un agente dello yishuv. «Come faranno in Israele? Non hanno contatti diretti con nessuno. ... Non hanno più niente da dare al prossimo. Vogliono soltanto ricevere.» «Più che da motivi umanitari, il nostro atteggiamento verso "il resto" era dettato dalla valutazione del ruolo che esso avrebbe potuto avere nella lotta» affermò Haim Yahil. «E perciò non siamo stati sempre gentili. Nonostante la comprensione per la sorte dei superstiti e per i loro bisogni primari, abbiamo mantenuto un certo distacco fra noi e loro.... Non abbiamo mai detto che "il resto" e la Terra di Israele sono una cosa sola, abbiamo anzi sottolineato che "il resto" deve compiere un grande sforzo intellettuale e fisico per unirsi allo yishuv.»
CAPITOLO VIII «SEI MILIONI DI TEDESCHI» Un giorno, appena qualche mese dopo la fine della guerra in Europa, giunse in Palestina un superstite dell'Olocausto con un piano di vendetta. Abba Kovner aveva ventisette anni, era stato uno degli insorti del ghetto di Vilnius, aveva combattuto con i partigiani, militava in Hashomer Hatsair ed era un poeta e un visionario. Kovner era un giovane piccolo di statura, con il volto affilato, ascetico e malinconico, due occhi lucenti e i capelli ricci: «Il prototipo dell'intellettuale ebreo» lo definì un conoscente. Aveva fama di essere un grande persuasore e per molti rappresentava l'incarnazione della resistenza ebraica al nazismo, un'autorità morale e spirituale. Era stato lui a scrivere che gli ebrei non dovevano farsi condurre al macello come agnelli. Molti anni dopo Abba Kovner ammise che qualsiasi persona normale avrebbe dovuto capire che c'era della follia nel suo progetto. E folle lo era davvero: con un gruppo di giovani superstiti dell'Olocausto egli intendeva avvelenare gli acquedotti di diverse grandi città della Germania per uccidere sei milioni di tedeschi. «E' il desiderio di vendetta che li tiene in vita» riferì un leader dell'Agenzia ebraica di ritorno da una missione fra i sopravvissuti all'Olocausto. E che così fosse lo confermano molte testimonianze. Otto superstiti su dieci ricordavano anni dopo di essere stati posseduti dal desiderio di vendetta: era questo il sentimento dominante alla fine della guerra, non la sofferenza, né l'angoscia, non la felicità, o la speranza. Tzivia Lubetkin, una dei leader dell'insurrezione nel ghetto di Varsavia, rimase allibita nel sentire che i quindicimila ebrei di Lublino, scampati all'Olocausto, non sapevano più cosa fare ora che la guerra era finita. «Noi lo sapevamo bene» dichiarò. «Se avessimo trovato le persone e avessimo avuto i mezzi, avremmo fatto una cosa sola: ci saremmo vendicati. In noi in quel momento non c'era l'impulso a costruire, ma la voglia di distruggere, distruggere tutto quello che potevamo, quanto più potevamo.» E fu a Lublino, alla cui periferia si
trovava il campo di sterminio di Majdanek, che Abba Kovner e i suoi compagni costituirono la loro banda di vendicatori. L'idea era nata fra gli ebrei che combattevano con i partigiani ucraini. «Discutemmo a lungo» ricordava Yitzhak Avidov, che aveva scelto come nome di battaglia Pasha Reichman. Si domandavano: cosa succederà il giorno dopo? Non avevano ancora in mente nessun piano grandioso, che coinvolgesse l'intero popolo tedesco, pensavano piuttosto a vendicarsi della popolazione locale. Qualcuno si arruolò nella polizia segreta sovietica, la NKVD, per liquidare i collaborazionisti; altri organizzarono invece la fuga degli ebrei dall'Unione Sovietica. Un giorno incontrarono a Lublino altri ex partigiani. Uno di loro era Abba Kovner. Kovner era entrato nelle file della resistenza dopo che era stata domata la rivolta nel ghetto di Vilnius, di cui era uno dei capi. Negli ultimi mesi di guerra aveva presentato alla Brigata ebraica un piano per paracadutare gruppi di guerriglieri dietro le linee nemiche, in Prussia, per esempio. Tuttavia la Brigata non aveva voluto saperne e anche i suoi compagni della resistenza erano contrari: ritenevano che occorresse concentrare tutte le energie nell'evacuazione degli ebrei dall'Europa orientale, portandoli prima in Occidente e poi in Palestina. Kovner collaborò per un poco alla berihah, aiutando i superstiti «a fuggire dalla terra del genocidio alla terra dei vivi», ma poi l'idea della vendetta si impossessò di lui. Reichman e i suoi compagni, che avevano già sentito parlare di Kovner prima di arrivare a Lublino, ne furono immediatamente conquistati: «Fu amore a prima vista» ricordava Reichman, ormai tornato a essere Avidov. Kovner era più maturo di loro e aveva il carisma del leader. Una sera, mentre erano tutti seduti a bere intorno al tavolo, i componenti del gruppo, che abitavano insieme, cominciarono a parlare di vendetta. «Accadde all'improvviso, così, senza pensarci» dichiara Avidov nella sua testimonianza incisa su nastro dall'Istituto per la documentazione orale dell'Università ebraica. «Ce ne stavamo lì con il bicchiere in mano e saltò fuori quest'idea. A un tratto l'idea non fu più nell'aria ma sul tavolo.... tutti volevamo la vendetta.» Poi qualcuno osò pronunciare la parola: sterminio, sterminio dei tedeschi, di milioni e milioni di tedeschi. Quel qualcuno disse che in India c'era una pianta da cui si distillava un
veleno. «Eravamo molto eccitati» racconta Avidov. «Eravamo giovani e incoscienti.» Kovner accolse con gioia il progetto. Nacque così Nakam (Vendetta), una cellula segreta formata da cinque elementi, ognuno dei quali aveva il compito di arruolare altri terroristi. Il gruppo si trasferì a Bucarest. Un giorno, prosegue Avidov, ci riunimmo clandestinamente quasi volessimo celebrare la nascita della nostra organizzazione e ci ritrovammo in più di quaranta. Prese la parola Kovner e, come sempre, trascinò tutti con sé. «Nessuno ebbe più dubbi: l'azione che intendevamo compiere era ciò che Dio stesso avrebbe fatto, se ci fosse stato un Dio» conclude Avidov. L'idea divenne un'ossessione e i componenti di Nakam vi si «votarono». Si consideravano messaggeri del destino. Kovner descrisse così il loro stato d'animo: «La distruzione non era intorno a noi. Era dentro di noi. ... Non immaginavamo di poter ritornare alla vita, né di avere il diritto di farlo, di venire nella Terra di Israele, di mettere su famiglia, di alzarci al mattino e lavorare come se ci fossimo pacificati con i tedeschi». L'operazione era in sostanza un regolamento di conti fra due nazioni: la vendetta, per essere tale, doveva avere le stesse dimensioni del crimine perpetrato. E dunque bisognava uccidere sei milioni di tedeschi. Kovner ragionava in termini apocalittici: la vendetta era un dovere divino che avrebbe redento e purificato gli ebrei. Il gruppo si suddivise in cellule, ciascuna con un comandante. Il piano A prevedeva «l'avvelenamento del maggior numero possibile di tedeschi», mentre nel piano B le vittime dovevano essere diverse migliaia di ex SS rinchiuse nei campi di prigionia americani. Reichman riuscì a infiltrare alcuni dei suoi uomini nelle aziende che gestivano gli acquedotti di Amburgo e di Norimberga. Kovner si recò in Palestina per procurarsi il veleno e, così almeno sperava, la benedizione della Haganah. In Palestina Kovner era già noto e fu invitato a tenere un discorso al comitato centrale della Histadrut. Parlò di Olocausto e di superstiti, ma non accennò al proprio piano, che confidò a pochissime persone, nessuna delle quali parve condividere il suo entusiasmo per la vendetta. L'idea non piacque neppure al movimento cui apparteneva, Hashomer Hatsair. Kovner e la sua cellula erano convinti che dopo l'Olocausto le divisioni politiche d'anteguerra non avessero più senso. Non rinnegavano la
militanza di un tempo, ma si identificavano con i superstiti invece che con gli attivisti di questa o quella formazione. Adesso il loro partito era il «partito dei testimoni» disse Kovner, un partito che aveva il dovere di proclamare instancabilmente che il popolo ebraico era ancora in pericolo. L'antisemitismo presente in Unione Sovietica stava lì a ricordare che fuori dai confini della Palestina gli ebrei non avevano un futuro. La cosa più importante era dunque l'unità nazionale. L'enfasi posta su questo tema irritò il leader di Hashomer Hatsair, Meir Yaari, il quale aveva intenzione di trasformare il movimento in un partito indipendente. Non sopportava l'idea che Hashomer Hatsair si sciogliesse proprio in Polonia, dove era nato e dove egli riteneva che la formazione politica avesse ancora molte possibilità di espandersi. Non gradì neppure le critiche all'Unione Sovietica. Con il suo passato di terrorista e partigiano, le vendette clandestine e il carisma che lo circondava, Kovner lo insospettiva. Gli disse che soffriva della stessa sindrome dei reduci della prima guerra mondiale, la «coazione a ripetere», che lo portava a vivere in tempo di pace come se fosse ancora al fronte e in clandestinità, impedendogli di imparare ad apprezzare di nuovo «l'eroismo della quotidianità». Kovner e i suoi uomini, continuò, erano tornati dalla macchia con una visione del mondo improntata a idee «parafasciste»: avevano bisogno di essere «rieducati». Poco dopo l'arrivo in Palestina, Kovner informò Pasha Reichman (Avidov) che la Haganah non avrebbe mai approvato il piano A, ma che forse avrebbe finto di non vedere e di non sapere se avessero attuato il piano B. Kovner riuscì comunque a procurarsi una grande quantità di veleno. Pare che ad aiutarlo sia stato Chaim Weizmann, leader dell'organizzazione sionista e futuro primo presidente di Israele, che era laureato in chimica. Weizmann, così raccontò Kovner, l'aveva ascoltato con molta attenzione. Era rimasto a lungo in silenzio. Poi si era alzato e aveva detto: «Se fossi più giovane [Weizmann aveva allora settantuno anni] e fossi nei suoi panni, forse anch'io farei la stessa cosa». Kovner non specifica quale piano avesse illustrato a Weizmann, se quello per uccidere sei milioni di tedeschi, o se invece quello «minore», che prevedeva l'avvelenamento delle ex SS. Weizmann l'aveva mandato da uno scienziato cui aveva chiesto di preparare il veleno. Nella sua
testimonianza registrata, sulla quale Kovner chiese fosse mantenuto il segreto, egli specifica che il ricercatore era Ernst David Bergman. Il futuro padre del progetto nucleare israeliano sapeva soltanto che la sostanza serviva per un'azione contro i nazisti e non volle ulteriori dettagli. Kovner nascose il veleno dentro scatole di latte condensato. Weizmann lo mandò anche, stando sempre a Kovner, da Hans Moller, il fondatore dell'Afa, una grande azienda tessile, che gli diede del denaro, con il quale comprò dell'oro che nascose in tubetti di dentifricio. Poi cominciò a prepararsi per il ritorno. Su questo episodio Kovner è l'unica fonte. Nell'archivio Weizmann non esiste alcun documento che accenni a un colloquio con Kovner: fra l'altro, in quel periodo Weizmann era all'estero. Non è escluso perciò che l'incontro non sia mai avvenuto, così come non è escluso che a posteriori Kovner abbia voluto imprimere un sigillo ufficiale al proprio piano di vendetta. Il resto della sua testimonianza è invece confermato da altre fonti. Nel dicembre del 1945 Kovner si infilò l'uniforme della Brigata ebraica e con l'aiuto della Haganah si imbarcò per l'Europa su una nave della flotta britannica, fingendosi un soldato che rientrava alla sua unità dopo un periodo di licenza. Nella testimonianza egli afferma che il comando della Haganah conosceva la sua identità e la natura della sua missione, ma non chiarisce, e nessuno del resto glielo chiede, se si accingeva a realizzare il piano «maggiore» o il piano «minore». Cita due nomi: Yitzhak Sadeh, il leggendario comandante del Palmach, e Shaul Avigur, del Mossad. Anche Yisrael Calili, che avrebbe diretto uno dei ministeri più importanti nel governo di Golda Meir, era al corrente del progetto. Kovner aveva ricevuto dalla Haganah documenti falsi, la divisa della Brigata ebraica e una scorta in caso di pericolo. Se perciò fosse riuscito a realizzare il suo piano, non si sarebbe certo potuto dire che aveva agito da solo. Il viaggio ebbe una fine ingloriosa. Mentre la nave stava per entrare nel porto di Telone, l'altoparlante invitò Kovner a presentarsi dal comandante. «Il nome fu ripetuto più volte» racconta. «Andai immediatamente dalla mia scorta della Haganah e gli chiesi: "Che cosa vorranno?". "Sarà per il turno di guardia, come al solito" mi rispose. Io conoscevo appena qualche parola di inglese, ma il tono della voce all'apparecchio non mi persuadeva.» Il miliziano della
Haganah sapeva soltanto che l'uomo da proteggere non era un soldato della Brigata, ma non conosceva nulla della missione. Kovner decise di metterlo al corrente. Gli mostrò il veleno e gli indicò a chi consegnarlo se gli fosse capitato qualcosa. Gli affidò anche l'oro. Poi, però, ci ripensò. Non si fidava e così, prima di andare dal capitano, rovesciò in mare metà del veleno dall'oblò del bagno. Non appena salì sul ponte venne arrestato. Fu trasferito in una prigione militare del Cairo, dove rimase per quattro mesi, durante i quali nessuno lo interrogò riguardo al piano di vendetta. Gli inglesi ignoravano la storia del veleno e, a quanto pare, anche il motivo dell'arresto. La sua cattura resta un mistero. Kovner è rimasto convinto fino al giorno della morte che l'avessero consegnato alle autorità britanniche per sabotare la sua missione. Quanto al veleno, anche la metà rimasta andò perduta. Il milite di scorta, Impaurito, lo gettò in mare, mentre portò a destinazione l'oro. Ora Pasha Reichman era rimasto solo. Sentiva il peso della responsabilità di fronte alla storia e al proprio popolo. I suoi uomini erano in pericolo. Lavoravano ancora per gli acquedotti di Amburgo e Norimberga, fingendo di appartenere a una società, quella tedesca, che aborrivano mentre tramavano per distruggerla con il rischio di essere scoperti da un momento all'altro. Avevano già scelto il punto in cui immettere il veleno nelle condutture e a Norimberga avevano anche individuato le valvole dei tubi che portavano l'acqua ai quartieri residenziali degli ufficiali americani, per poterle chiudere prima dell'azione: la vendetta non doveva colpire loro. Tutto era pronto. Mancava soltanto il veleno. Quando Reichman seppe che Kovner era stato arrestato e il veleno gettato via, decise di passare al piano B. Non fu facile persuadere i suoi uomini: si erano preparati a uccidere sei milioni di tedeschi e adesso scoprivano di doversi accontentare di qualche migliaio. «Fu una tragedia» raccontò Reichman. Giurò loro che il «grande piano» non era stato accantonato, ma soltanto rinviato. Chiese a Yitzhak «Antek» Zuckerman, uno dei leader della rivolta del ghetto di Varsavia e marito di Tzivia Lubetkin, di assumere la guida del commando al posto di Kovner. Zuckerman rifiutò. «Se avessi pensato che avremmo potuto distruggere i tedeschi, nazione contro nazione, avrei accettato» dichiarò in seguito. «Ma avvelenare i pozzi
dell'acqua o un fiume? Provocare un'epidemia? Anche se ne avessimo uccisi diecimila, che senso aveva? ... Nonostante tutto, in noi c'era ancora una goccia della nostra umanità di ebrei, anche dopo tutto quello che ci avevano fatto.» Nella banda di Kovner egli scorgeva «un romanticismo artificioso», «un messianesimo fittizio» e non poca follia. Il 13 aprile 1946 alcuni uomini della banda si intrufolarono nella panetteria che riforniva il campo profughi Stalag 13 vicino a Norimberga e cosparsero su alcune pagnotte una polvere di arsenico bianca come la farina. Poi però sentirono dei rumori e si diedero alla fuga. La polizia pensò che a forzare la porta fossero stati degli scassinatori; nessuno si accorse del veleno e il pane fu consegnato regolarmente. Qualche giorno dopo la Associated Press riferì che circa duemila dei quindicimila internati nel campo erano rimasti vittime di un'intossicazione alimentare, alcuni in forma grave. Ma non ci furono morti. Erano informazioni molto vaghe, ma rallegrarono ugualmente Kovner. «Giungevano notizie contrastanti da fonti militari e dalla stampa» affermò molti anni dopo. «Comunque erano stati costretti a chiamare centinaia di ambulanze dell'esercito americano. Si parlava di quattrocento morti e di intossicati in gravi condizioni, chi diceva duecento, chi mille. Altri invece affermavano che quasi tutti erano fuori pericolo.» Forse il veleno, che Reichman si era procurato a Parigi, non era molto efficace, ipotizzò Kovner. E comunque l'attentato non destò grande clamore in Occidente e passò del tutto inosservato in Palestina. Non era dunque l'«azione sconvolgente» che Kovner e la sua banda avevano sognato. Kovner, che nel frattempo era stato rilasciato, convocò in Palestina i suoi uomini. Il fallimento dell'operazione li aveva profondamente demoralizzati. Qualcuno pareva meditasse addirittura il suicidio; quasi nessuno voleva rinunciare al piano e c'era chi sospettava Kovner di avere tradito l'idea della vendetta, di volerli ricondurre alla normalità, cosa che ai loro occhi costituiva un peccato gravissimo. Erano andati in Palestina di malavoglia. Furono ospitati nel kibbutz Ein Hahoresh e il collettivo cercò di convincerli a coltivare bietole e banane. «L'agricoltura non significava nulla per loro» osservò Avidov. Bramavano la vendetta e volevano tornare in Europa. Kovner cercò di convincerli che ormai non avevano più la forza psichica necessaria per vendicarsi, che in Europa le condizioni
erano cambiate, che non si poteva più attuare il piano A, anche perché si rischiava di fare del male ai molti ebrei tornati a vivere nelle città tedesche. Parecchi si rifiutarono di ascoltarlo e rientrarono in Europa, alcuni così delusi e amareggiati per il «tradimento» dell'uomo che consideravano il loro capo che non misero mai più piede in Israele. Altri svolsero un ruolo in quello che fu chiamato «piano C», conducendo attentati contro i criminali di guerra nazisti insieme ad alcuni soldati della Brigata ebraica. Anche il comando della Haganah ne era al corrente. Molti membri della Brigata ebraica avevano perso i familiari nell'Olocausto. Alcuni di loro erano stati fra i primi a entrare nei campi di sterminio nazisti appena liberati e al ritorno al quartier generale avevano raccontato gli orrori di cui erano stati testimoni. Qualcuno di loro, che conosceva Abba Kovner e ne ammirava la sete di vendetta, aiutò la sua banda a procurarsi il veleno per l'operazione Stalag 13 e a portarlo da Parigi a Norimberga. Lo scrittore Hanoch Bartov ha ricostruito i pensieri di quei soldati: Non una gran cosa ... un migliaio di case bruciate. Cinquecento morti. Centinaia di donne violentate. ... E' per questo che siamo qui. Non per le libertà di Roosevelt. Non per l'impero britannico. Non per Stalin. Siamo qui per vendicare il sangue. Per una feroce vendetta ebraica. Una sola. Una volta tanto come i tartari. Come gli ucraini. Come i tedeschi. Tutti noi, tutti noi con il cuore sanguinante. ... andremo in una città e appiccheremo il fuoco, strada dopo strada, casa dopo casa, tedesco dopo tedesco. Perché dovremmo essere solo noi a ricordare Auschwitz? Che anche loro ricordino quell'unica città che distruggeremo. Alla fine della guerra speravano di essere mandati in Germania a fianco dell'esercito d'occupazione. Così doveva essere, sosteneva Moshe Sharett, non per ragioni militari ma «prima di tutto» per ragioni morali e simboliche, «per dare soddisfazione al popolo ebraico». La Brigata arrivò in Italia quando le sorti della guerra erano ormai decise. Partecipò soltanto a qualche scaramuccia. Poi, più niente. Fu una grande amarezza per i soldati. Alcuni sfogarono la propria rabbia sui prigionieri di guerra tedeschi e devastarono le proprietà dei civili, riducendo così le probabilità di essere mandati in Germania. Più restavano in Italia e più si annoiavano. «La nostra pazienza è al lumicino» scrisse un
soldato. «Esploderà la rabbia, temo. E ci danneggerà, perché non sarà facile incanalarla nella direzione giusta.» I più giovani si unirono, decisi ad andare in cerca degli agenti della Gestapo e delle SS nelle zone di confine fra l'Italia e l'Austria: «un atto di ribellione», lo definì un soldato. I comandanti lasciarono fare, scorgendovi probabilmente un'utile valvola di sfogo per la loro frustrazione. Quei giovani, dichiarò in seguito un ufficiale, Yisrael Karmi, erano «gli uomini migliori della Brigata, i più leali». Ebbero fortuna: scovarono quasi subito un pezzo grosso della Gestapo, che collaborò, fornendo una lista di nomi. L'elenco, osservò Karmi, era compilato con una precisione esemplare: di ciascuno forniva una breve biografia con le attività passate e l'indirizzo. Ogni nome diventò un obiettivo. «Abbiamo scovato una fonte» riferì a Moshe Sharett, membro dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica, un ufficiale della Brigata, Meir Grabovski. «Possediamo tutte le informazioni che ci servono. Ci siamo procurati lo schedario: sappiamo chi sono e dove sono.... Siamo i soli a poterli scovare e consegnare [ai vendicatori], senza dipendere dalle complicazioni della politica mondiale, ma considerando soltanto il diritto a vendicare il sangue versato.» Grabovski, il quale assunse in seguito il nome di Argov e divenne uno dei leader del Mapai, riteneva la vendetta il compito più importante per la Brigata. Nella sua lettera a Sharett, egli specificava che non si trattava di «un linciaggio», bensì della punizione delle SS che avevano partecipato al massacro degli ebrei. Il metodo adottato dai soldati della Brigata era semplice. Vestiti con l'uniforme della polizia militare britannica, si presentavano a casa della vittima a bordo di un camion militare con la targa coperta di fango. Bussavano, controllavano i documenti dell'uomo che cercavano e lo invitavano a seguirli per un controllo. Di solito filava tutto liscio. Poi lo conducevano in un luogo appartato, dichiaravano la propria identità e lo fucilavano. A volte lo giustiziavano sul posto. «Il cassone del camion era interamente coperto da un telone» raccontò un soldato. «Sul fondo c'erano dei materassi. Un paio di noi aspettava dentro al buio. Non appena spuntava la testa del tedesco, lo si afferrava ben stretto per la gola e ci si buttava all'indietro sul materasso. Il tedesco soffocava e la caduta gli spezzava all'istante l'osso del collo.» Uno dei vendicatori era
Shimon Avidan, che aveva comandato l'unità tedesca del Palmach. Era partito apposta dalla Palestina per rintracciare Adolf Eichmann. Secondo Kovner, era riuscito a introdursi nel nascondiglio del nazista, ma aveva ucciso la persona sbagliata, «uno che aveva detto di essere Eichmann», cosa confermata dalla donna che era con lui. L'uomo assomigliava molto a Eichmann e i vendicatori erano convinti di averlo ucciso, finché nel 1960 non fu rapito in Argentina dagli agenti israeliani. Secondo Kovner, tuttavia, Avidan era sicuro soltanto a metà di avere eliminato il criminale nazista. Michael BenGal, l'ufficiale della Haganah che comandava la Brigata ebraica, era costretto suo malgrado a punire i vendicatori, pur essendo favorevole alla vendetta, che riteneva desiderabile e giusta contro coloro che avevano contribuito all'assassinio degli ebrei. Dissentiva però sui metodi. Nella sua testimonianza registrata egli così si espresse: «Era un'operazione di guerriglia. La guerriglia è insita nel carattere ebraico e gli uomini della Haganah giunti dalla Palestina avevano molto dei guerriglieri». Ogni volta che andavano a chiedergli l'approvazione per eliminare qualcuno, Ben-Gal domandava le prove della sua colpevolezza e quando la vittima veniva uccisa senza il suo consenso ne deduceva che le prove erano insufficienti. Alcune azioni erano «puri e semplici atti di teppismo», come il giorno in cui i vendicatori si nascosero ai margini di una strada e cominciarono a sparare su tutto quello che si muoveva, o come quell'altra volta che uccisero anche un'ebrea scampata all'Olocausto. Bisognava fra l'altro decidere come liberarsi dei cadaveri. I vendicatori avrebbero voluto lasciarli bene in vista, perché venissero scoperti, ma Ben-Gal temeva che fosse pericoloso per i soldati della Brigata e perciò aveva ordinato di gettarli in qualche lago profondo. Non sempre però gli uomini gli ubbidivano ed egli si lamentava della scarsa disciplina. Da buon soldato, BenGal voleva che ci fossero istruzioni precise prima di compiere un'azione. Un giorno chiese a Moshe Sharett di dargli delle direttive: si sentì rispondere che la vendetta doveva essere «degna del popolo ebraico» in nome del quale veniva consumata; che si dovevano scegliere obiettivi importanti, di grande risonanza «nel mondo intero, affinchè tutti sappiano che il sangue ebreo non è a buon mercato». La conclusione di Ben-Gal fu che Abba Kovner e il
suo gruppo, «con quel loro zelo tutto particolare», sarebbero stati più adatti dei soldati della Brigata a svolgere missioni del genere e perciò acconsentì ad aiutarli. Diversi vendicatori fecero poi carriera nell'esercito israeliano: alcuni divennero generali e uno di loro, Haim Laskov, assurse al rango di capo di Stato maggiore. Diversi anni dopo Laskov ricordava: «Non sono state delle "belle" azioni. Sono state delle vendette. Insomma, abbiamo perso la guerra. Abbiamo perso sei milioni di ebrei. Chi non ha mai visto quei luoghi, i campi di sterminio e i crematori, non potrà mai capire quello che ci hanno fatto. E siccome eravamo deboli, non avevamo una nazione nostra e non avevamo potere, siamo ricorsi alla vendetta. Non è stata una cosa bella». In ogni caso, anche la vendetta fu una piccola cosa. «Purtroppo» concludeva Laskov «non ne abbiamo ammazzati molti.» Le grida di vendetta, che cominciarono a risuonare in Palestina durante la guerra, si moltiplicarono con il diffondersi delle notizie sull'eccidio degli ebrei. I giornali facevano spesso da cassa di risonanza con slogan, editoriali e con le dichiarazioni di varie organizzazioni. Erano tentativi patetici di fermare la mano dei nazisti. La guerra contro Hitler, scrivevano i giornali, era «una guerra per l'onore e la vendetta»; l'arruolamento nell'esercito britannico era un modo per manifestare «la rabbia repressa e la furia vendicativa». «Haaretz» scrisse: «Ognuno di noi avrebbe potuto essere là e chiunque si sia salvato sa che la sua vita è votata alla guerra e al castigo. Né lutti, né lacrime: vendetta!». Qualche giorno prima lo stesso quotidiano aveva affermato: «Siamo consapevoli che nessun grido servirà a fermare la mano degli assassini. Sappiano però costoro che verrà la vendetta, così come sta scritto: "Occhio per occhio, dente per dente"» Il comitato centrale dell'Associazione scrittori proclamò: «Possano tutte le mani di Israele impugnare audacemente l'arma della vendetta». L'Irgun annunciò la costituzione di battaglioni di vendicatori «che rinnoveranno la tradizione della vendetta dei tempi di Sansone»: la redenzione per mezzo del sangue. «L'Irgun della Terra di Israele si vendicherà sui tedeschi ovunque essi si trovino. ... Un Dio geloso e vendicatore sarà al nostro fianco. Amen.» Nel momento culminante del genocidio, «Haolam», il giornale più prestigioso dell'Organizzazione sionista mondiale, la World Zionist
Organization, allora pubblicato a Gerusalemme, invocò «una vendetta vera», «un castigo concreto». Bisognava, disse, uccidere un nazista prigioniero degli alleati per ogni ebreo che essi avevano assassinato. Il richiamo alla vendetta suscitò forti reazioni e l'editorialista, il direttore Moshe Kleinman, fu costretto a precisare: il desiderio di vendetta «è un'emozione sacra, come tutte le emozioni umane», ma il suo non era un piano d'azione. Era piuttosto l'espressione di una disperazione abissale, «il grido disperato dei miseri e degli oppressi, di coloro che non possono difendersi, che chiedono alla coscienza del mondo di vendicarne il sangue e l'umiliazione e anelano, almeno nell'immaginazione, ad assistere alla vendetta del "sangue dei tuoi servi"». Se essi avessero la possibilità di vendicarsi, non lo farebbero: «Possiamo affermare con assoluta certezza che nessuno di noi, neppure quelli che gridano più forte "Vendetta!", spaccherebbe un cranio con le sue mani, mutilerebbe i giovani e i vecchi, sventrerebbe una donna incinta.... No, mai gli ebrei hanno fatto cose simili e mai le faranno. Un ebreo è incapace di farle, anche quando grida e urla "Vendetta! Vendetta!" giorno e notte». Bisognava distinguere, proseguiva l'editorialista, fra il singolo tedesco e la nazione tedesca: «Non spaccherei mai il cranio a un tedesco che fosse alla mia mercede. Però sono pronto a infliggere alla nazione tedesca un infinito cumulo di sofferenze e torture per centinaia di anni finché i suoi terribili peccati non saranno consumati dal fuoco e purificati.» (Nota: Nella Bibbia il Dio di Israele è un Dio vendicatore {Salmi 94,1), un Dio che «si vendica degli avversari e serba rancore per i nemici» (Nahum 1,2). Ma è anche un Dio che dice: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Levitici) 19,18). Il midrash così risolve, parlando nel nome dell'Altissimo, questa apparente contraddizione: «Ho scritto nella Torah "Non ti vendicherai, né serberai rancore contro i figli del tuo popolo", ma io mi vendico e serbo rancore contro i pagani» (Bereshit Rabbah 55,3). Gli oppositori della vendetta contro i nazisti citavano proprio quest'interpretazione per affermare che essa è nelle mani di Dio e non dell'uomo.)
Il desiderio di vendetta è un'emozione primaria, al pari della paura, della felicità e, forse, della fame e della sete, scrisse un giornalista di «Davar», ma «la morale giudaico-europea più elevata la situa fra gli istinti peggiori che vanno estirpati dal cuore dell'uomo». Una risposta adeguata ai crimini nazisti, affermò «Haaretz», non poteva limitarsi a un singolo atto di castigo o di vendetta, ma doveva essere «una punizione completa e giusta» dopo un regolare processo. Il quotidiano socialista «Mishmar» dichiarò: «La vendetta per il sangue ebraico è già stata in gran parte attuata dall'Unione Sovietica con la sua Armata Rossa e la vittoria nella guerra». Pasha Reichman aveva cercato inutilmente di convincere Ben Gurion della bontà della vendetta, ma il leader sionista l'aveva interrotto ' dopo qualche istante, dicendo: «Sì, certo, la vendetta è molto importante nella storia, ma se noi potessimo riportare in vita sei milioni di ebrei, anziché uccidere sei milioni di tedeschi, sarebbe ancora più importante», e aveva rifiutato di sostenere il suo gruppo. Durante la guerra lo yishuv era dunque generalmente orientato a reprimere l'impulso a vendicarsi. La tendenza si accentuò alla fine del conflitto, allorché la missione più urgente divenne quella di accelerare la berihah dall'Europa orientale verso la zona di occupazione americana in Germania, in modo da costringere la Gran Bretagna ad aprire all'immigrazione le porte della Palestina. I sogni di vendetta dei superstiti appartenevano, come l'Olocausto, a un mondo diverso, profondamente estraneo allo yishuv. La morte di milioni di tedeschi non solo non avrebbe giovato alla lotta sionista, ma, come l'avventurismo dell'haapalah, sarebbe stata di ostacolo alle manovre dell'Agenzia ebraica per creare un clima favorevole alla realizzazione del suo obiettivo prioritario, la creazione dello Stato. La posizione dello yishuv non cambiò neppure dopo la Dichiarazione di indipendenza. Nel corso di un dibattito sulle relazioni di Israele con la Germania, il deputato della Knesset Meir Argov, che quando si chiamava ancora Grabovski aveva militato nella Brigata ebraica, citò queste parole di Haim Nahman Bialik: «Neppure il demonio ha saputo trovare la vendetta giusta per lavare il sangue di un bambino». Niente poteva cancellare lo sterminio di milioni di ebrei, disse. In un'altra occasione Argov
sostenne che se Hitler avesse visto sventolare la bandiera ebraica a Bonn, sarebbe rabbrividito: ecco la vera vendetta, affermò. E anche Rozka Korczak, che aveva militato nella resistenza accanto a Kovner, riteneva che la vittoria dei vivi in Israele fosse la migliore risposta: «Costruire, l'idea stessa e il valore del costruire, saranno la nostra vendetta». Persino Menahem Begin, che capeggiò il partito avverso al riconoscimento della Germania, affermò che ormai non era più tempo di una guerra di vendetta. Quasi tutti i vendicatori tennero per sé i propri segreti. Alcuni si lasciarono intervistare a patto che il loro nome non venisse rivelato, altri depositarono le loro memorie negli archivi storici, ma anch'essi in forma anonima. La maggior parte tenne la bocca cucita e ormai non è più possibile sapere che cosa volessero nascondere: se quello che hanno fatto, per quanto poco fosse, o il rincrescimento di non avere fatto di più. Alcuni approfittarono dell'anonimato per raccontare, più che le loro testimonianze, le loro fantasie. La missione dei vendicatori, da qualunque angolatura la si guardi, era impossibile sul piano pratico e dubbia sul piano etico. Le loro azioni furono nel complesso limitate e poco significative. Quegli uomini non hanno trovato posto nel pantheon di Israele, in cui figurano i ribelli del ghetto, i paracadutisti, i contrabbandieri d'armi e i protagonisti della haapalah e della berihah. Si consideravano il braccio armato della storia, ma per la maggioranza dei leader sionisti erano una seccatura, una palla al piede. I vendicatori volevano giustizia, i dirigenti sionisti volevano uno Stato. I vendicatori parlavano in nome degli ultimi ebrei, il futuro apparteneva ai primi israeliani.
CAPITOLO IX «UNA BARRIERA DI SANGUE E SILENZIO» Miriam Weinfeld aveva diciassette anni. Qualche giorno prima che la Germania si arrendesse, fu costretta a compiere la marcia della morte da Auschwitz a Bergen-Belsen. L'angoscia, soprattutto per non avere potuto aiutare la madre, fu più forte persino della sofferenza fisica, ricordava in seguito. A Bergen-Belsen, nelle ultime settimane prima della liberazione, le condizioni erano anche peggiori del passato. La madre le morì davanti agli occhi. Quando finalmente arrivarono gli inglesi, con il viso coperto dalle maschere antigas per proteggersi dal lezzo delle migliaia di cadaveri sparsi fra le baracche, il primo pensiero di Miriam fu: «Peccato che siano arrivati troppo tardi». Non c'era più niente da salvare. Poi vennero la speranza, l'odio, il trauma e la lotta per riprendere a vivere. La speranza più grande era ritrovare il fratello. Erano fuggiti da casa insieme quando lui aveva diciassette anni e lei quattordici, e si erano persi di vista in un bosco intorno a Leopoli (l'odierna Lwov). Miriam continuava a tormentarsi: perché lei era viva e lui no? Ma poi, dopo Bergen-Belsen, quando si riprese un poco, ricominciò a sperare. Ogni volta che da lontano intravedeva un giovane, aveva un tuffo al cuore. Restava aggrappata ai ricordi: il fratello era un ragazzo forte, intelligente. Sì, forse era ancora vivo: perché non avrebbe dovuto esserlo? Quella speranza la riscaldò durante i primi giorni della liberazione. Era la sua unica forza: pesava meno di trenta chili ed era malata di tubercolosi. Le erano caduti tutti i capelli e aveva il corpo ricoperto di piaghe. Era ancora disorientata, ma pensò che fosse giunto il momento di saldare i conti. Era ossessionata dalla sete di vendetta: bisognava sterminare tutti i tedeschi, vecchi, donne, bambini, senza pietà per nessuno. Qualche tempo dopo fu trasferita insieme ad altri sopravvissuti in Svezia, per la convalescenza. Lì si accorse che la vita continuava come se nulla fosse accaduto: i ragazzi della sua età, sani e ben vestiti, andavano a scuola. Fu un nuovo trauma. Aveva immaginato che il
mondo si fosse fermato quando aveva scoperto BergenBelsen e invece la terra seguitava come sempre il suo corso. Gli svedesi facevano di tutto per aiutare i profughi, ma per Miriam Weinfeld il ritorno alla vita non fu facile. Dormiva fra lenzuola di carta, fredde, fruscianti, in cui era impossibile avvolgersi. La sua vicina di letto passava da una crisi all'altra: rideva e piangeva, rideva e piangeva, giorno e notte. Miriam era completamente ripiegata su se stessa. Scriveva poesie in polacco. Ma nonostante la depressione e l'indifferenza verso il mondo circostante, le sarebbe piaciuto essere graziosa. E invece si sentiva uno scheletro ambulante, nessuno l'avrebbe mai desiderata. Non avrebbe mai avuto un figlio: forse non era neppure in grado di concepirlo. Poi conobbe Hanan Yakobowitz. Un giorno, mentre lavorava in officina, Hanan si ferì a una mano e perse due dita. Miriam lo curò e il loro legame si fece più stretto. Lui era ungherese e lei polacca: la lingua del loro amore era il tedesco, che entrambi avevano orecchiato a Bergen-Belsen. Nel campo profughi c'erano dei consiglieri venuti dalla Palestina, che regalarono ai due giovani un sogno: vivere in una terra libera. Hanan e Miriam ottennero il certificato di immigrazione. Miriam era esultante e insieme atterrita: anelava a rinnovarsi, ma temeva di non averne la forza. Si sentiva tagliata fuori dal resto del mondo. Sulla nave che andava in Palestina c'erano dei consiglieri del kibbutz Degania Bet. Erano gentili. Miriam Weinfeld e il fidanzato li seguirono. Nella seconda metà del 1945 arrivarono in Palestina circa 90.000 profughi. Avevano tutti conosciuto l'occupazione tedesca e alcuni erano stati nei campi di concentramento. Nei tre anni seguenti ne giunsero altri 60.000 e quasi 200.000 fra il 1948 e il 1949. All'inizio del 1950 in Israele vivevano all'incirca 350.000 superstiti dell'Olocausto, più o meno un israeliano su tre. Una vita molto dura attendeva Miriam Weinfeld e Hanan Yakobowitz. Nei bananeti della valle del Giordano in cui si trovava il loro kibbutz faceva molto caldo. Dormivano all'aperto, protetti dalla zanzariera. Nella notte l'ululare degli sciacalli risvegliava le sofferenze di Bergen-Belsen. I ricordi e la nostalgia di casa erano più forti della volontà di adattamento di Miriam. Il kibbutz non incoraggiava l'introspezione: la parola d'ordine era dimenticare il passato e inserirsi nella collettività. Miriam si sentiva emarginata, i suoi
coetanei di Degania Bet la evitavano. Non capiva l'ebraico, ma percepiva l'arroganza e a volte anche il dileggio e l'ostilità di quel loro stare sempre tutti insieme, come un clan. Gli anziani erano più disponibili, cercavano di metterla a suo agio, ma non sapevano bene che cosa fare per alleviarle la fatica di vivere. Nella loro gentilezza intuiva un senso di colpa, quasi di vergogna. Miriam avrebbe voluto che le chiedessero del passato: la sua storia era l'unico contributo che in quel momento lei potesse dare al nuovo paese. Nessuno però le faceva domande. Nel primo dopoguerra, per molti superstiti raccontare era un dovere patriottico: avevano la sensazione di essere gli ultimi ebrei rimasti in vita, gli unici a sapere quello che era successo alle loro comunità. Sentivano l'obbligo, morale e storico, di conservare la memoria di tutti gli scomparsi. Ma era anche un bisogno personale, un modo per condividere con gli altri un fardello insostenibile. Gli altri, tuttavia, come i sopravvissuti scoprirono ben presto, non volevano, o forse non potevano, ascoltarli. E spesso erano increduli. Nel 1943, nel campo nazista di lavoro forzato vicino a Przemysl, in Polonia, il diciassettenne Michael Goldman fu condotto davanti al comandante, Franz Schwammberger, che lo frustò e lo percosse. Il ragazzo svenne. Non appena riprese i sensi, l'uomo afferrò di nuovo lo scudiscio e gli inferse ottanta colpi, lasciandolo esanime a terra. Michael Goldman aveva la schiena lacerata e sanguinante, ma era ancora vivo. Quando arrivò in Israele e raccontò quello che gli era successo, i suoi parenti scossero la testa con aria scettica. Dicevano che esagerava, che forse si era immaginato tutto. «La loro incredulità fu l'ottantunesimo colpo» disse Goldman. La sua storia diventò un simbolo. «Non mi hanno creduto!» scrisse Yaakov Kurtz, arrivato in Palestina alla fine del 1942. «Mi hanno fatto l'interrogatorio come se fossi un criminale, quasi volessi imbrogliarli.» Era il primo ostacolo che i superstiti incontravano nel nuovo paese. Quanto a Miriam Weinfeld, la vita nel kibbutz diventò un vicolo cieco, una trappola. Sposò il suo Hanan, con una cerimonia dimessa, celebrata dentro una roulotte sulle rive del mare di Galilea. L'anello le fu prestato. Ricevette tre regali: una tovaglia, un vaso e una Bibbia. Non era così che aveva immaginato il suo sposalizio quand'era una bella bambina nella sua casa borghese in Polonia. Cosa avrebbe detto sua madre? Poi
Miriam e Hanan Yakobowitz attraversarono il bananeto e passarono la loro prima notte di nozze in casa di alcuni parenti, che vivevano nel kibbutz più vicino. Anni dopo Miriam disse che si era sposata troppo presto, quando non era ancora pronta e in fondo forse non lo desiderava neppure. Ma non aveva nessuno con cui consigliarsi. (Nota: The Eighty-first Blow è il titolo di un film famoso, diretto da Haim Curi e Zako Eriich. Quindici anni dopo la liberazione Michael Gilad (Goldman), che era diventato ufficiale di polizia, partecipò all'interrogatorio di Adolf Eichmann e assistette alla sua esecuzione. Nel 1987 Franz Schwammberger, ricercato dalla fine della guerra e ormai vecchio, fu arrestato in Argentina ed estradato in Germania. Gilad, che nel frattempo era diventato un dirigente dell'Agenzia ebraica, leggendo la notizia dell'arresto commentò: «Mi spiace che sia riuscito a campare tanto».) Il primo figlio le morì appena nato: un altro segno dei traumi subiti nei lager. Poco dopo il matrimonio Miriam e il marito si trasferirono nel kibbutz Ginegar. Ma neanche qui lei si sentì a casa sua. Si rimboccò comunque le maniche, partecipò alla vita sociale della comunità, imparò a usare il fucile e fece i turni di guardia durante la guerra di indipendenza. Aveva l'impressione di ricevere dal kibbutz meno di quanto le spettasse. Poi arrivarono alcuni superstiti che aveva conosciuto durante la convalescenza in Svezia: venivano da Cipro, dove avevano vissuto internati per due anni, dopo che la nave dei maapalim su cui viaggiavano era stata intercettata dagli inglesi. L'esperienza comune li aveva affratellati e anche se in quei due anni si era creato un certo distacco, Miriam e Hanan avevano il vantaggio di conoscere meglio Israele. Insieme decisero di fondare un kibbutz sulla costa nei pressi del monte Carmelo, dove un tempo c'era il villaggio arabo di Tantura. Lo chiamarono Nahsholim. Hanan ne divenne il tesoriere. Miriam e Hanan non resistettero a lungo neppure a Nahsholim. Acquistarono un minuscolo appartamento a Neve Amai, vicino a Herzlia: era senza porte, senza stipiti e senza persiane. Miriam e Hanan non erano più una coppia di sposini e perciò non avevano diritto al contributo che lo Stato dava a chi
metteva su casa: una pentola a pressione, una scopa e qualche altro piccolo utensile. Nel quartiere vivevano parecchi immigrati provenienti dallo Yemen e dalla Persia, e anche qualche superstite dell'Olocausto. Erano tutte coppie giovani e in difficoltà, e si aiutavano a vicenda. Miriam e Hanan facevano la doccia dai vicini che avevano l'acqua calda e si costruirono dei mobili usando le cassette per le arance. Non avevano invece nessun amico fra i «pionieri», anche se ne conoscevano qualcuno. Infine, dopo una gravidanza difficile dal punto di vista medico e psicologico, nacque Ronit. Non appena la vide, Miriam pensò: «Assomiglia alla mamma». E all'improvviso la colpì il pensiero che sua madre, quand'era morta, era più giovane di lei. Qualche anno dopo la coppia ebbe un'altra figlia. Miriam lavorava come infermiera nel collettivo sanitario della Histadrut; Hanan invece era stato assunto nei servizi di sicurezza. Entrambi furono inviati all'estero un paio di volte per lavoro e perciò dovettero ebraicizzare il loro cognome, come richiedeva la legge dello Stato di Israele. Oggi, quarant'anni dopo Bergen-Belsen, Miriam Akavia scrive libri per bambini che vengono tradotti in molti paesi europei, comprese la Germania e la Polonia. Scrive in ebraico, ma quando parla si sente ancora l'accento polacco e in lei c'è sempre qualcosa dell'emarginata, della sopravvissuta all'Olocausto. Come Miriam Akavia, migliaia di superstiti hanno vissuto nelle città, nei villaggi e nei kibbutz di Israele, hanno fatto il soldato, imparato un mestiere, lavorato, si sono sposati, hanno comperato la casa, avuto figli e imparato l'ebraico: una testimonianza della volontà di vivere che li aveva sorretti durante la guerra. Molti desideravano ardentemente diventare cittadini di Israele e perciò adottarono subito i costumi e lo stile di vita del nuovo paese. A migliaia ebraicizzarono il proprio nome, assumendo, per così dire, una nuova identità. Per certi versi il loro incontro con Israele è stato un successo straordinario. Uomini e donne che ad Auschwitz, a Bergen-Belsen, a Dachau e in tutti gli altri campi, ghetti e nascondigli, erano come morti per il mondo, sono tornati alla vita. E' questa rinascita che «Maariv» racconta in un articolo del gennaio 1949. Rivka Waxman stava andando a fare la spesa in Herzl Street, a Haifa. Era appena arrivata dalla Polonia. Vicino al cinema Ora vide all'improvviso un giovane soldato scendere da una jeep e dirigersi
verso la biglietteria. Rimase come paralizzata. «Haim?» chiamò. Il soldato si girò e per qualche istante i due si guardarono, increduli. Poi Rivka spalancò le braccia e si abbandonò, quasi svenuta, sulla spalla del giovane. Era suo figlio. Non lo vedeva da otto anni, da quando Haim ne aveva quattordici. Aveva sempre pensato che fosse morto. Come Rivka e Haim, migliaia di persone erano state separate dai loro familiari nei ghetti, durante le deportazioni, nei campi di sterminio e nelle foreste, e ora in Israele si cercavano e si ritrovavano, a volte per caso, a volte con gli annunci sui giornali e a volte attraverso uno straziante programma radiofonico, intitolato «Chissà». Erano tutti neoimmigrati, all'alba di una nuova vita. Tuttavia capitava spesso che qualcuno, o per una sua difficoltà a ricominciare da capo, oppure perché non voleva perdere l'identità precedente, entrasse in conflitto con la patria che l'aveva accolto. Israele guardava con apprensione i profughi e desiderava cambiarli, voleva che assumessero una nuova identità e nuovi valori. «Devono imparare ad amare la loro Terra, devono imparare l'etica del lavoro e la moralità» dichiarò un leader del Mapai; bisognava, disse un suo collega, inculcare in loro «i concetti fondamentali dell'umanità»; occorreva, disse un altro, «modellarne il volto», quasi si trattasse di un blocco di creta. E all'esecutivo del Mapai qualcuno affermò che era necessario «rieducarli». Dietro tutti questi giudizi e altri ancora non c'era soltanto la vecchia visione negativa, ormai stereotipa, dei superstiti, ma anche la paura di trovarsi faccia a faccia con le vittime, con le loro infermità fisiche e psicologiche, le sofferenze e i terrori. Come faremo a vivere insieme? ci si domandava in Israele. Non era un timore irragionevole. Quegli uomini e quelle donne venivano da un altro mondo e ne sarebbero stati prigionieri per sempre. Quattro mesi prima della fine della guerra, Rozka Korczak raccontò all'assemblea del kibbutz Hashomer Hatsair la storia del villaggio lituano di Punar, nei pressi di Vilnius. I nazisti avevano ucciso tutti gli abitanti e ne avevano bruciato i cadaveri. Fra i morti c'era anche una donna incinta: con il calore del fuoco il feto era stato espulso ed era arso insieme alla madre. In quell'episodio Korczak scorgeva «un simbolo»: i nazisti avevano condannato allo sterminio non soltanto le vittime del presente, ma anche i loro discendenti. Effettivamente la liberazione era arrivata troppo tardi
per molti sopravvissuti all'Olocausto, che non riuscirono mai più a riprendersi. Migliaia di loro abbandonarono Israele, soprattutto negli anni Cinquanta. Molti dovettero ricorrere a terapie psicologiche, a volte per periodi assai lunghi. Il passato continuava a ritornare come un incubo. I superstiti scrissero migliaia di libri sull'«altro pianeta», quello che avevano lasciato e insieme non lasciato, ma tutto ciò che riuscirono a fare fu enumerarne le atrocità. Era la parte della loro storia che potevano raccontare. Il resto lo tenevano chiuso nel profondo. «Anche se studiaste tutta la documentazione,» ha dichiarato Elie Wiesel «anche se ascoltaste tutte le testimonianze, visitaste tutti i campi e tutti i musei e leggeste tutti i diari, non riuscireste neppure ad arrivare sulla soglia di quella notte eterna. E' questa la tragedia della missione del superstite. Egli deve raccontare una storia che non può essere raccontata. Deve trasmettere un messaggio che non può essere trasmesso. ... In un certo senso il nemico ha paradossalmente raggiunto il suo obiettivo. Poiché egli ha valicato ogni limite con il suo crimine, e poiché non vi è altro mezzo per superare quel confine se non il linguaggio, è impossibile raccontare la storia completa di quel crimine.» Ogni tanto qualcuno chiedeva a Miriam Weinfeld che cosa fosse il numero che recava inciso sul braccio. Erano domande casuali, senza un vero interesse. Lei non rispondeva. Sapeva di superstiti che erano ricorsi alla chirurgia plastica per cancellare quel numero. Lei no, ma in genere lo nascondeva agli estranei ed evitava di guardarlo, tanto che non lo imparò mai a memoria. Michael Gilad, al figlio che gli chiedeva cosa fosse, rispose che era il numero di telefono dell'ufficio. Nel periodo che avevano trascorso nei campi profughi prima del viaggio in Palestina, i sopravvissuti avevano ripreso le forze. Al loro arrivo non erano più quegli scheletri ambulanti che gli alleati avevano scoperto nei lager. Avevano avuto anche il tempo di pensare al futuro. Il desiderio più grande era ritornare alla normalità: «E' difficile descrivere la loro voglia di una vita normale» osservò uno degli inviati dello yishuv. Ma continuavano a essere tormentati dall'angoscia, dagli incubi, dalle crisi depressive, dalla rabbia e dall'apatia, facevano fatica a concentrarsi e a instaurare nuovi rapporti, erano sospettosi, introversi, insicuri sul piano economico
e professionale. Nutrivano grandi paure e grandi ambizioni per i loro figli. Molti padri e molte madri avevano la sensazione che la vita non valesse la pena di essere vissuta, che l'unico scopo dei genitori fosse quello di garantire il benessere e il futuro dei figli. Alcuni li caricavano del peso dei ricordi, raccontando le storie dei parenti morti nell'Olocausto. Altri, forse i più, non potevano e non volevano narrare ai figli le loro esperienze e questi non osavano chiedere, come se si trattasse di un segreto di famiglia terribile e minaccioso. A volte le angosce dell'Olocausto irrompevano all'improvviso nella quotidianità, innescate da qualche piccolo avvenimento in casa o sul lavoro, oppure dalle notizie lette sui giornali. Bastava una malattia, la perdita del posto, un incidente alle frontiere per riportarli «là». Quel passato continuò a riaffiorare per anni e anni dopo la fine della guerra. Alcuni divennero ambiziosi e duri, in grado di sopportare la sofferenza e adattarsi alle crisi. Altri invece rimasero incapaci di fronteggiare anche la più piccola sconfitta. Molti temevano la dipendenza, l'insuccesso e la separazione. Erano spesso malati, o credevano di esserlo. Erano oppressi da una tristezza e una rabbia che non si placavano mai. Si vergognavano di non essersi ribellati ai loro aguzzini. Accusavano i genitori di averli abbandonati e si sentivano colpevoli per essere sopravvissuti ai loro cari. «Sono tormentato dai rimorsi» disse un superstite. «Ho abbandonato i miei figli lungo la strada e sono finiti in mano ai tedeschi.» Erano sentimenti condivisi da molti sopravvissuti e benché la loro salvezza fosse stata quasi sempre dovuta al caso e non al sacrificio degli altri, si sentivano ugualmente in colpa. I rimorsi avevano una funzione psicologica ed etica: permettevano alle vittime di mascherare l'impotenza, di immaginare di avere avuto la possibilità di scegliere e di avere optato per la vita. Ma avevano anche un'altra funzione: erano una sorta di patto di fedeltà ai valori etici dell'umanesimo e un modo per contrastare a posteriori il tentativo di spogliarli della loro umanità. I pochi che avevano lottato contro i tedeschi erano meno angosciati e tendevano a sottolineare la loro diversità dagli altri superstiti, fino a sconfinare a volte nell'arroganza. Anch'essi però si angustiavano: forse avrebbero potuto fare di più. «Se ci fossimo subito accorti del pericolo quando i tedeschi invasero la Polonia e
fossimo passati all'azione,» disse Tzivia Lubetkin «forse tutto sarebbe stato diverso.» Nell'agosto del 1949 il procuratore di Stato richiamò l'attenzione del ministro della Giustizia sul preoccupante numero di suicidi fra gli ultimi arrivati, molti dei quali erano superstiti dell'Olocausto. In realtà tutto il paese era stretto nella morsa di una profonda crisi emotiva. Migliaia di immigrati, giunti in Palestina prima della guerra, avevano perso i loro familiari: anch'essi dunque erano in lutto e spesso schiacciati dagli stessi sensi di colpa che tormentavano i superstiti. Non avrebbero dovuto morire al posto loro? si chiedevano. Molti correvano ad aiutare gli scampati, come se fossero stati i fratelli, le sorelle, i nonni che non avevano più. Altri invece li guardavano con astio, come se fossero sopravvissuti a scapito dei loro parenti e fossero in parte responsabili della loro morte. Un superstite, Simha Rotem, ha scritto: «In ogni conversazione con la gente di qui, prima o poi saltava sempre fuori la domanda su come avevamo fatto a restare vivi. Ce lo chiedevano continuamente e non sempre con garbo. Avevo la sensazione che mi incolpassero di non essere morto». E così le vittime di un trauma entravano in conflitto con le vittime di un altro trauma. I primi immigrati passarono solo qualche giorno nei campi di transito, quelli successivi vi trascorsero settimane e mesi. L'Agenzia ebraica provvedeva «ai loro bisogni essenziali» finché restavano nei campi di accoglienza o negli ostelli gestiti dalla stessa Agenzia e non trovavano lavoro. Ognuno riceveva una piccola somma, da 7 a 10 lire (circa 40 dollari), un letto di ferro e un materasso. I «letti dell'Agenzia» divennero un simbolo di Israele. Spesso, in attesa di mettere su casa, gli immigrati abitavano da parenti, ma non sempre la convivenza era facile. I funzionari che si occupavano di sistemarli si lamentavano della scarsa disponibilità degli israeliani a ospitare i propri consanguinei. Alcuni, temendo di doversene assumere per intero il carico, consigliavano ai nuovi arrivati di non rivelare di avere parenti in Israele per evitare che l'Agenzia smettesse di occuparsene. Le autorità presero in considerazione l'idea di lanciare una campagna nazionale per persuadere tutte le famiglie ad accogliere un immigrato, ma Ben Gurion la bocciò, convinto che si sarebbero fatti avanti in pochi. Pensarono anche a una legge che permettesse di confiscare le
stanze negli alloggi privati, ma vi rinunciarono perché sarebbe stato molto facile aggirarla. Numerose famiglie, d'altra parte, vivevano già in condizioni di sovraffollamento e non avevano spazio sufficiente neppure per se stesse. L'Agenzia ebraica e altre organizzazioni statali cominciarono a costruire case popolari, destinando a ogni famiglia di immigrati un monolocale con cucina, a volte spartanamente ammobiliato. Ma l'offerta non riusciva a tenere il passo con la domanda e la fame di alloggi continuava a crescere. E non c'era posto per tutti né nel mondo del lavoro, né nelle scuole, né negli ospedali. La scarsità di strutture era dovuta non soltanto alla mancanza di denaro, ma anche al fatto che lo yishuv non amava pianificare. Gli ebrei, vissuti per secoli sotto la dominazione straniera, avevano imparato a muoversi fra le maglie della legge e a improvvisare. Erano due atteggiamenti che lo yishuv apprezzava molto e in cui si riconosceva. «Basta sparpagliare qua e là gli immigrati e troveranno il modo di integrarsi» dichiarò un dirigente. D'altra parte, nessuno aveva previsto un'immigrazione così massiccia: un fenomeno del genere non si era verificato prima del conflitto e tutto lasciava prevedere che non si sarebbe verificato neppure dopo. Perché mai costruire le case prima che ce ne fosse bisogno? Poi scoppiò la guerra di indipendenza e all'improvviso si liberarono decine di migliaia di case. Fu, disse Shaul Avigur, «il miracolo arabo»: centinaia di migliaia di arabi fuggirono o furono espulsi dalle loro abitazioni. Intere città e tanti piccoli villaggi si svuotarono e furono subito ripopolati dagli immigrati appena arrivati in Palestina. Nell'aprile del 1949 erano già 100.000, quasi tutti superstiti dell'Olocausto. Al dramma della guerra si intrecciò una lotta molto più domestica, che aveva per obiettivo la casa e il mobilio. Gli arabi, che fino ad allora erano stati persone libere, se ne andarono in esilio come miseri profughi e altri miseri profughi, gli ebrei, si impadronirono delle loro case e cominciarono a vivere da persone libere. Gli uni persero tutto ciò che avevano, gli altri trovarono tutto quello di cui avevano bisogno: tavoli, sedie, armadi, pignatte, padelle, piatti e a volte persino i vestiti, gli album di famiglia, i libri, la radio e gli animali domestici. La maggior parte degli immigrati occupò le case abbandonate senza autorizzazione, in modo spontaneo e disordinato. Per diversi mesi fu una corsa
frenetica per arrivare primi ad arraffare tutto quello che si poteva. Quando intervennero le autorità per porre fine al saccheggio e distribuire le case in base a una graduatoria, era ormai troppo tardi. Gli immigrati si presero anche i negozi e le officine abbandonate, e in breve tempo interi quartieri arabi cominciarono ad assomigliare alle città ebraiche dell'Europa d'anteguerra, con i loro sarti, calzolai e droghieri, tutti mestieri tradizionali degli israeliti. A rimorchio arrivarono però quasi subito la disoccupazione, la penuria e la fame. I quartieri arabi erano stati devastati dalla guerra e i servizi municipali e sociali non funzionavano ancora. Scarseggiavano l'acqua e l'elettricità; le fogne erano a cielo aperto, non c'erano telefoni, né ospedali, né scuole. I villaggi erano organizzati meglio, perché il governo aveva un interesse strategico a ripopolare le campagne, affidando i centri più remoti ai coloni ebrei. Le case svuotate, bombardate o saccheggiate durante la guerra avevano bisogno di essere riparate. Molte erano isolate, senza acqua corrente, elettricità e fognature. Le abitazioni degli arabi vennero tutte occupate nei primi mesi dopo la guerra d'indipendenza. Nel frattempo la vita degli immigrati nei centri di raccolta peggiorava di giorno in giorno. «Nei nostri campi profughi le condizioni oggettive, dal punto di vista dell'alloggio, del vitto e della vita familiare, sono peggiori di quelle di Bergen-Belsen» dichiarò il dirigente dell'Agenzia ebraica Giora Yoseftal. «A Bergen-Belsen vivevano 3000 persone in un campo costruito per contenerne 13.000, mentre nel nostro campo previsto per 8000 ne sono ospitate 10.000.»21 In quel momento nei centri di accoglienza israeliani sostavano 22.000 immigrati. Nel giro di qualche mese salirono a 100.000, metà dei quali erano sopravvissuti al nazismo. Non è vero, come si è sostenuto in seguito, che le sofferenze degli immigrati sono cominciate con l'arrivo degli ebrei provenienti dal mondo islamico: erano già cominciate al tempo dei superstiti dell'Olocausto. In qualche centro li trattavano con più cortesia, ma dovevano comunque seguire la solita trafila, sopportare le stesse umilianti disinfestazioni con il DDT, il sovraffollamento, il cibo scarso, le coperte fetide, le latrine senza porta, comuni per uomini e donne. Come aspettarsi che non fossero depressi e timorosi del futuro? I funzionari dell'Agenzia ebraica, della Histadrut e del Mapai si
angustiavano di non avere risolto il problema degli alloggi per gli "Immigrati. Più il tempo passava, più avevano la sensazione di essere venuti meno al loro compito e si disperavano. La situazione in cui versavano i campi era «un crimine», «una catastrofe», «gridava vendetta al cospetto di Dio». Se la prendevano, e a ragione, con i leader del partito, primo fra tutti Ben Gurion, che non avevano dato la precedenza su tutto al benessere degli immigrati. Ben Gurion rispondeva che purtroppo non aveva tempo per occuparsi di questi "problemi. E poi non era il caso di viziarli, disse un giorno. «Si può vivere sotto una tenda per anni. Chi non se la sente di farlo non deve venire qui.» Negli archivi dell'Ufficio immigrazione dell'Agenzia ebraica, della Histadrut, dei municipi, del Mapai e degli altri partiti ci sono montagne di rapporti che documentano le sofferenze degli immigrati. Nei moduli che compilavano e nelle lettere che scrivevano per cercare di aiutare qualche superstite, i funzionari tracciavano in genere qualche breve annotazione sul passato dei postulanti, scrivendo, accanto al nome, il campo di concentramento da cui provenivano, quasi si trattasse del paese d'origine. L'Olocausto era una ragione più che sufficiente per esaudire le richieste, dicevano le lettere. Ma, da bravi burocrati, i funzionari erano ligi alle procedure e tendevano a pensare che gli immigrati fossero troppo esigenti. «Pretendono che lo yishuv ricrei le condizioni in cui vivevano prima dell'arrivo dei nazisti» si lamentò uno dei corrispondenti di «Haaretz», giudicando del tutto irragionevole la richiesta. Regina Hitter, «immigrata da BergenBelsen», aveva trentun anni quando arrivò in Palestina nel settembre del 1945. Era vedova e aveva una bambina piccola. Venne ospitata in un ostello per immigrate a Haifa, Beit Hahalutzot. La direttrice. Genia Shvadron, scrisse per conto di Regina all'ufficio locale per l'immigrazione dell'Agenzia ebraica, il quale inoltrò una copia della lettera alla sede principale di Gerusalemme. «La donna in questione vorrebbe imparare un mestiere», quello di cinturaia, di cui aveva appreso i primi rudimenti in Belgio, subito dopo la liberazione di Bergen-Belsen. L'ufficio dell'Organizzazione femminile internazionale sionista di Tel Aviv le aveva già concesso 40 lire (circa 160 dollari), ma ora aveva bisogno di altre 50 lire per mantenere se stessa e la figlia durante i quattro mesi di corso. La
Histadrut gliene aveva date 20. Beit Hahalutzot faceva domanda, a nome di Genia, per avere altre 30 lire che le avrebbero permesso di concludere l'apprendistato e guadagnarsi dignitosamente da vivere. La prima richiesta alla sede centrale, che reca impresso un grande bollo dall'aria molto ufficiale, è dell'11 novembre 1945 ed è contrassegnata dal numero 6253 del dossier E-914. A Gerusalemme il documento fu archiviato con il numero 218/28098. Passarono tre settimane. Gerusalemme mandò un questionario a Haifa. Haifa lo compilò e lo rispedì a Gerusalemme. Gerusalemme chiese altre informazioni sulla situazione della donna. Chi badava alla bambina? Chi provvedeva ai suoi bisogni? Haifa rispose: Regina Hitter aveva ricevuto 22 lire e 5 centesimi. Sua figlia era al nido. Gerusalemme controllò le informazioni e consultando i suoi dossier scoprì che Regina aveva diritto a un supplemento di 10 lire per sé e altre 10 per la figlia. Passarono altre quattro settimane. La compagna Regina aveva forse ricevuto un anticipo? A ogni modo Gerusalemme diede ordine di versarle altre 10 lire, dichiarò che la somma le sarebbe stata di grande aiuto e che «la questione era chiusa». Nel frattempo il numero progressivo assegnato alla corrispondenza riguardante Regina era arrivato a 7142/5/405/914. E qui finisce la storia: Regina Fertig-Hitter di Bergen-Belsen è una delle tante migliaia di immigrati che riuscirono a ritagliarsi un angolino in qualche città della Palestina. Golda Meir li chiamò «gli scomparsi»: nessuno si accorgeva di loro, nessuno sapeva che cosa facessero. Se poi Regina Fertig-Hitter abbia ottenuto il sussidio di cui aveva bisogno e abbia trovato in Israele la felicità come cinturaia non lo sapremo mai. Chissà. Una parte dell'assistenza agli immigrati, fra cui la scuola, le cure mediche e l'alloggio, era gestita dai partiti politici mediante appositi uffici. Il Mapai, che controllava quasi interamente le procedure di integrazione dei nuovi arrivati, era in teoria quello che poteva guadagnarci di più e, naturalmente, anche quello che poteva rimetterci di più. Nei dibattiti al vertice le preoccupazioni per il futuro del partito andavano di pari passo con un forte senso di responsabilità verso la nazione, come sempre senza distinzione fra le due cose. «Credo» scrisse al capo dell'ufficio per l'immigrazione del Mapai il direttore del centro d'accoglienza di Bnei Brak «che tutti i dirigenti dei campi, i quali hanno a cuore il bene del paese e
del partito, debbano alleviare le difficoltà degli immigrati e migliorare, nei limiti del possibile, le loro condizioni abitative. Questo gioverà sicuramente al partito e al governo, che sono responsabili di tutto ciò che viene fatto nel paese.» Il direttore del centro di Bnei Brak si domanda in tutta serietà se si debba avere un occhio di riguardo per gli iscritti al partito, «perché il nostro lavoro è questo ed è per questo che siamo stati mandati qui», o se invece si debba evitare qualsiasi favoritismo perché potrebbe nuocere al partito. Era una missione impossibile. In tempi di penuria, affidare la cura degli immigrati a persone che la ritenevano un dovere di partito non poteva che condurre a pratiche di sottogoverno e di discriminazione, alla protektsia, come si diceva allora. Negli archivi del partito laburista c'è un dossier contenente decine di biglietti con cui i funzionari del Mapai chiedevano ai compagni di partito di aiutare «i nostri». Era il «sistema delle note di servizio», come venivano chiamate le raccomandazioni. A volte nelle «note di servizio» si accennava anche al passato del «raccomandato»: «Il latore di questa lettera, il compagno Aharon Kutzik (Kameinitzki), uno dei superstiti e leader dei combattenti del ghetto di Varsavia, chiede un alloggio e merita di essere accontentato». La maggior parte delle «note» era indirizzata a un comitato speciale dell'Agenzia ebraica, il Comitato dei funzionari. «Vogliate concedere un appartamento al compagno Baruch Vinograd della Polonia. Il soggetto è un attivista del nostro partito ed è stato membro del comitato centrale polacco.» I militanti dei partiti sionisti all'estero godevano di particolari privilegi. A volte era sufficiente essere un tesserato di lunga data. La richiesta veniva inviata direttamente al Comitato veterani dell'Agenzia ebraica: «Vogliate concedere un appartamento nella zona di Tel Aviv al compagno Shmuel Brenner, veterano del nostro partito in Polonia». Era la 1715'ma nota contenuta nello stesso dossier. (Nota: E impossibile stabilire chi abbia tratto maggiore vantaggio da queste pratiche di sottogoverno. L'analisi di un campione dei risultati elettorali non autorizza nessuna conclusione. Circa 200.000 cittadini parteciparono alle elezioni per l'assemblea costituente del 1944. Il Mapai riportò il 36 per cento dei voti. Alle elezioni per la
prima Knesset nel 1949, votarono oltre 400.000 persone e il Mapai riportò ancora il 36 per cento. Alle elezioni successive, quelle del 1951, i votanti furono circa 700.000 e il Mapai ottenne il °7 per cento. Anche gli altri partiti conservarono in linea di massima le percentuali precedenti. I nuovi elettori erano per la maggior parte superstiti dell'Olocausto: si direbbe dunque che abbiano votato più o meno come il resto della popolazione.) Il 15 ottobre 1932 una piccola folla di ebrei si raccolse alla stazione ferroviaria Anhalter di Berlino. Erano venuti a salutare dodici ragazzi che partivano per il villaggio della gioventù Ben Shemen, in Palestina. Erano tutti molto emozionati, i genitori piangevano. «Frau Freier,» disse uno dei capi della comunità ebraica, rivolto a colei che aveva propagandato e organizzato il viaggio, «questo è un momento storico.» Dieci settimane dopo i nazisti salivano al potere: senza saperlo, Recha Freier aveva salvato quei giovani. Quando scoppiò la guerra, Frau Freier aveva già fatto uscire dalla Germania 5000 bambini e adolescenti ebrei. Altri 10.000 partirono durante il conflitto. Fra la fine delle ostilità e la Dichiarazione di indipendenza di Israele, ne arrivarono in Palestina altri 15.000, per un totale di 30.000. Quell'organizzazione si chiamava Aliyat Hanoar, che significa «Immigrazione della gioventù». La maggior parte dei ragazzi partiva senza i genitori; molti erano orfani. Recha Freier era la moglie di un rabbino, amava la musica e il folclore. Aliyat era per lei una missione, circondata da un alone quasi mistico. I primi adolescenti che le avevano chiesto aiuto, soleva dire, non erano venuti da lei, le erano stati «mandati», quasi che a guidarli fosse stata la mano del destino. Sembrava una donna fragile, così pallida e diafana, e invece era resistente come l'acciaio, una straordinaria combinazione di romanticismo umanistico, visioni celesti, determinazione, capacità organizzative e solido buon senso. «Una sera» scrisse nelle sue memorie «ebbi un'illuminazione, un'idea semplice e chiara, la soluzione del problema: i bambini dovevano andare in Palestina, nelle colonie del movimento laburista, a fare esperienza di lavoro e di vita.» In realtà, la prima volta che Aliyat Hanoar intervenne fu per salvarli dai nazisti e i giovani non furono tutti inviati in Palestina, ma anche in altri paesi d'Europa disposti ad
accoglierli. Aliyat Hanoar era rispettosa delle leggi e cercava sempre di ottenere i certificati di immigrazione per i suoi protetti. L'organizzazione attribuiva grande importanza all'istruzione, ma puntava più sulla scuola professionale che sulla formazione agricola, alla quale andavano invece le simpatie dei leader sionisti. I volontari che vi lavoravano erano in genere persone cresciute nello spirito liberale dell'ebraismo tedesco: anch'essi yekke ai margini della cultura dello yishuv. I dossier sugli assistiti, conservati negli archivi dell'organizzazione, sono improntati a compassione, a una sollecitudine di matrice borghese per il benessere dei singoli e non soltanto per il collettivo dei kibbutz. Gli organizzatori conoscevano uno a uno i loro protetti e le vicende che li riguardavano. «Il bambino avrà sicuramente ricevuto tutto quello che gli spettava» scrive un collaboratore di Aliyat Hanoar a un collega «ma abbiamo scoperto che ha bisogno urgente di un altro paio di sandali per due ragioni: primo, perché le sue vecchie scarpe sono ormai troppo strette e gli fanno male; secondo, per motivi igienici. Suda moltissimo.» Un'annotazione analoga la si legge in un altro fascicolo: «Abbiamo spedito un pacco per Moshe. Contiene un impermeabile e degli stivaletti. Gli stivaletti sono troppo piccoli per lui, ma non ne abbiamo di più grandi, perciò vi preghiamo di cambiarli in qualche negozio. Ci impegniamo a pagare la differenza». Spesso Aliyat Hanoar seguiva i suoi assistiti anche quando erano in Palestina da anni. Uno di essi, per esempio, si arruolò nell'esercito. Nel 1952 disertò, fu arrestato e processato. Il direttore di Aliyat Hanoar scrisse al comandante della compagnia e spiegò che il comportamento di quel giovane soldato era tipico dei superstiti dell'Olocausto. Non c'era nessuna certezza che il nome e l'età fossero quelli indicati sui documenti di identità. Forse non era neppure abbastanza grande per arruolarsi. «Non sa quasi niente del suo passato. Non ha nessuno al mondo, né un parente, né un tutore. Non lasciate che questo frutto dell'Olocausto venga stritolato dagli ingranaggi della vita.» L'esercito accolse la raccomandazione: il disertore fu trasferito a un'altra unità. In seguito Aliyat Hanoar fu assorbita dall'Agenzia ebraica: Recha Freier fu a poco a poco estromessa dall'ente che aveva creato e al suo posto subentrò Henrietta Szold. Con gli anni l'organizzazione si interessò sempre
meno al benessere dei singoli e sempre più alla realizzazione del progetto sionista. Un suo dirigente invitava a adottare «un approccio nazionale che favorisca gli insediamenti», perché Aliyat Hanoar non era un'organizzazione di mutuo soccorso. «Le nostre motivazioni non sono esclusivamente umanitarie» dichiarò, quasi che le motivazioni umanitarie fossero di qualità inferiore. «Il compito di Aliyat Hanoar» proclamò un altro dirigente «è preparare i giovani a lavorare negli insediamenti agricoli e non preoccuparsi di chi non vuole integrarsi.» Sei su sette dei giovani condotti in Palestina da Aliyat Hanoar furono mandati nei kibbutz. I più piccoli andavano a scuola, poi, a partire dall'età di quindici anni e mezzo, trascorrevano metà della giornata sui banchi e l'altra metà nei campi. Molti facevano fatica ad abituarsi al lavoro: la verità è che erano troppo deboli. I membri dei kibbutz cercavano di aiutare i figli dell'Olocausto nell'unico modo che conoscevano: facendo di tutto per cancellarne il passato e annullarne la diversità, affinchè diventassero persone migliori, vale a dire israeliani. Gli insegnavano l'ebraico, li imbevevano di idee sioniste e socialiste, li portavano in gita e organizzavano giochi. Un consigliere di nome Tsvi annotò nel diario le sue prime impressioni: «I bambini hanno un odio profondo per la Russia, la bandiera rossa e il socialismo. Del kibbutz non vogliono neanche sentir parlare, perché gli ricorda il kolchoz». Tsvi si propose di indurli ad amare il kibbutz. Il guaio, però, era che i bambini «non avevano la giusta concezione» dei rapporti fra l'individuo e la collettività. Il mondo da cui provenivano non li aveva educati alla vita sociale e anzi li aveva imbevuti di individualismo. Non volevano lavorare. Rubavano il cibo ai compagni e lo nascondevano sotto il materasso. Erano «corrotti». Volevano tutti gli occhiali da sole, un'altra richiesta che trovava strana. Forse invece una ragione c'era: i loro occhi non sopportavano quella luce che Aharon Appelfeld ha definito «tagliente». Erano sempre in attesa di lettere dai familiari e quando non le ricevevano si mettevano a piangere. Molti avevano crisi profonde. «E' estremamente faticoso occuparsi di loro» annota Tsvi. «La distribuzione degli indumenti è sempre un momento difficile. Vogliono vestiti belli e scarpe della misura giusta. Non siamo abituati a questo tipo di richieste da parte dei bambini del kibbutz.»
Erano piccoli per la loro età, osservò un altro consigliere, indipendenti, prematuramente adulti, egoisti e asociali. Racchiudevano in sé gli orrori del passato e li imponevano a tutto il kibbutz. Una consigliera assistette a un gioco inquietante: un gruppetto di quattordicenni scavò una piccola fossa, la ornò di fiori e vi seppellì una bambola.» Nove ragazzi su dieci erano scappati dalle loro case, quasi sempre insieme ai genitori, ma durante la fuga sei su dieci avevano smarrito il padre o la madre. Nove su dieci avevano visto malmenare o torturare i genitori, i fratelli e le sorelle. La metà di loro sapeva di avere perso un genitore o entrambi. Molti avevano visto il padre, la madre, i fratelli morire di malattia, di fame o di freddo. Li avevano visti picchiati a morte, fucilati, arsi vivi, annegati nei fiumi. Il 25 per cento dei bambini assistiti da Aliyat Hanoar proveniva dai campi di concentramento. Molti avevano vissuto con estranei, alcuni erano stati maltrattati, parecchi erano soli al mondo. Molti anni dopo l'80 per cento di loro ricordava ancora di avere avuto un'infanzia felice prima dell'Olocausto. Venivano da famiglie borghesi, i genitori erano in genere commercianti o liberi professionisti. Parlavano la lingua del paese in cui erano nati, pochissimi sapevano l'ebraico. Otto su dieci erano fra i sette e i diciassette anni al loro arrivo in Palestina; più della metà aveva fra i dodici e i diciassette anni. I loro fascicoli raccontano storie tristi, di malinconia e depressione, difficoltà di socializzazione e di apprendimento, solitudine, incubi, ansia, balbuzie, incontinenza, onigofagia, violenze su piccoli animali e altri sintomi di angoscia. Diverse centinaia di bambini furono inviati a Gerusalemme in un centro specializzato per essere sottoposti a una visita psichiatrica. Alcuni degli specialisti erano americani e parlavano soltanto l'inglese, altri sapevano soltanto il tedesco. Erano tutti freudiani ortodossi. Diagnosticarono «complessi di Edipo», «complessi di inferiorità», «io debole», «omosessualità latente» e così via. Spesso, più che diagnosi erano impressioni: «E' un tembel [testardo] e pare un grande orsacchiotto» scrissero di un ragazzo; di un altro dissero che «si diverte a fare scherzi sadici; ha buon cuore, ma è ottuso, come il Lenny di Uomini e topi». Di un altro ancora, il quale aveva perso la mamma durante la guerra, scrivevano che aveva «un attaccamento morboso alla madre».
Definiscono «disturbato» un ragazzo perché parla troppo spesso in polacco. Di un altro dicono che ha «una scarsissima capacità di ascolto», e subito dopo annotano di non essere riusciti a comunicare con lui perché, purtroppo, sapeva soltanto l'ungherese. I consiglieri dei kibbutz, che non avevano nessuna preparazione psicologica, parlavano spesso di bambini «ritardati, disturbati», con comportamenti «bizzarri e diversi dagli altri». La stranezza, almeno in un caso, consisteva nel fatto che il bambino non mostrava interesse per l'agricoltura e gli animali. Yosef è classificato «isterico» perché «ha pretese eccessive sulla vita di qui, che confronta con l'esistenza comoda condotta insieme ai genitori». Alcuni ragazzi, che provenivano dalla Germania ed erano tutti nati nel 1934, venivano chiamati continuamente «i tedeschi». «C'è speranza di educare questa gioventù, impregnata di ideologia nazista?» si domandavano. Un altro consigliere descrive, non senza una certa ironia, il prototipo del bambino affidato alle sue cure: «Gli occhi rifiutano di vedere, le orecchie di sentire e imparare. Non accetta la mano che gli viene tesa, né l'amicizia che gli viene offerta. Arriva a labbra strette, con il cuore chiuso, gli occhi bassi, lo sguardo ostinatamente rivolto di lato; a volte porta con sé un carico non piccolo di cinismo verso tutto ciò che per noi è sacro, persino per la nostra mano tesa. Né l'avventura, né la bellezza lo smuovono, né il profeta Amos, né il paesaggio». I consiglieri israeliani descrivono il loro incontro con i figli dell'Olocausto come «una guerra a tutto campo fra il vecchio e il nuovo», una lotta mitica fra i figli della luce e i figli delle tenebre. L'obiettivo verso cui tendono è «gettare le basi di una nuova personalità di ebreo pioniere partendo dal caos, dalla deturpazione, dalla castrazione fisica e spirituale». Quello che occorre è «un cambiamento radicale di valori: spezzare abitudini, idee e regole morali malsane ed egoiste, e sostituirle con valori positivi». Al loro arrivo nei kibbutz i bambini venivano tenuti separati dai coetanei, ma faticavano ugualmente a adattarsi, o forse si rifiutavano di farlo. Il loro comportamento era definito «deviante» e «regressivo» e il loro atteggiamento «ingrato». Se criticavano la scuola o il kibbutz, diventavano subito «nichilisti» o «relativisti». Leggendo i documenti negli archivi di Aliyat Hanoar si intuisce anche che spesso non c'era alcun rapporto fra le
aspirazioni dei giovani e le necessità del kibbutz. Molti avrebbero voluto studiare: il kibbutz li costringeva a lavorare la terra, temendo che, se avessero imparato una professione, se ne sarebbero andati in città. Un giorno tre ragazzi chiesero di essere trasferiti dall'istituto di agraria di Ayanot a una scuola professionale. «Siamo giovani,» scrivevano «non abbiamo nessuno, a parte voi, che possa aiutarci. Ci rivolgiamo a voi perché non abbiamo nessun altro a cui rivolgerci. I nostri genitori sono rimasti nei campi della Transnistria e voi fate le loro veci.» La direzione del kibbutz sentì puzza di ribellione. «Naturalmente non abbiamo nessuna intenzione di esaudire la preghiera, tanto più che ha assunto la forma di una richiesta collettiva» scrisse un funzionario a un collega della scuola di agraria, chiedendogli un giudizio sui ragazzi. «Sono dei gran lavativi» replicò quello. «Fumano!» I tre studenti furono convocati per un «chiarimento» e ammisero di avere sbagliato a chiedere di imparare un mestiere. Com'è ovvio, il kibbutz propose di separarli. Due furono trasferiti altrove. Un altro episodio del genere si verificò a Givat Haim. Alcuni ragazzi chiesero di essere trasferiti a Kfar Vitkin per studiare metallurgia all'istituto professionale ORT. Le domande di ammissione erano molto numerose e non c'era posto per tutti. Ma la richiesta di questi giovani, fu respinta, e la cosa non sorprende, anche per motivi ideologici. I diplomati dell'ORT potevano infatti trovare lavoro in città come artigiani. Così commentò un funzionario: Nello yishuv cominciano a delinearsi delle tendenze che mettono in discussione il primato dell'istruzione agricola e cooperativistica. ... Un giovane educato dal movimento Aliyat Hanoar impara necessariamente a bruciarsi molti ponti alle spalle. Finora noi gli abbiamo insegnato a recidere i legami con l'ambiente sociale in cui la professione è la cosa più importante. Se un giovane capisce di poter accedere alla formazione professionale, liberandosi dalla fatica di adattarsi alla ... vita rurale, egli non compirà lo sforzo morale necessario ... e non conseguirà alcuna rivoluzione psicologica.... Penserà che per essere un buon cittadino di questo paese sia sufficiente essere un buon professionista e si accontenterà di questo. Ma se così sarà, noi cesseremo di essere quello che siamo. Quarant'anni dopo, quasi tutti i diplomati di Aliyat Hanoar espressero un giudizio molto
positivo sul programma che avevano seguito. Manifestarono apprezzamento per gli insegnanti e i consiglieri, con i quali avevano spesso mantenuto i contatti. Dissero che quel tipo di educazione li aveva aiutati ad acquisire il senso dell'appartenenza e ne aveva fatto degli israeliani. Una ricerca di statistica comparata dimostra che pochi di loro sono diventati ufficiali o militari di carriera, che i dirigenti e i laureati si sono rivelati meno numerosi che fra il resto della popolazione, ma che la loro vita è stata molto stabile, con pochi cambiamenti di residenza e di lavoro. Nove su dieci hanno dichiarato di avere avuto una vita matrimoniale felice. I figli tendevano a vivere non lontano dai genitori, ai quali rimanevano legati. Molti avevano alle spalle vicende tragiche. Il bambino gettato nel Danubio insieme al padre, che era annegato, diventò capofficina in una fabbrica della Galilea. Quello che era stato definito asociale e avrebbe dovuto essere espulso dal programma, ottenne il grado di tenente colonnello. L'altro che era stato qualificato «ritardato» nel dossier, occupò il posto di preside. Il sogno israeliano era diventato realtà. La capacità e la disponibilità dei kibbutz a integrare i sopravvissuti dipendeva dalla capacità e dalla disponibilità dei sopravvissuti a cambiare. Chi voleva conservare la propria identità era costretto a cercare una comunità più aperta e tollerante. La struttura del kibbutz richiedeva che tutti si uniformassero a un unico sistema di valori, di norme e di sensibilità. Il kibbutz non poteva esaudire i bisogni individuali, né rispondere alle angosce personali. Animati da elitarismo ideologico e sociale, i membri del kibbutz rinunciavano agli agi e ai propri guadagni per aiutare i nuovi immigrati. Nel contempo, però, esigevano che costoro rinunciassero al proprio passato diasporico o che addirittura lo censurassero, e che riconoscessero la superiorità etica del modello di vita collettiva. Per crescere e conservare il prestigio economico e politico del loro movimento, i kibbutz avevano bisogno di moltiplicarsi e perciò si contendevano i nuovi arrivati, giungendo fino al punto di «rapirli». Il kibbutz Givat Brenner protestò presso la Histadrut che nei centri di raccolta qualcuno stava spargendo «voci terribili» sul suo conto, con la conseguenza che il kibbutz Degania gli aveva «scippato» un gruppo di immigrati. Per i leader del Mapai il rafforzamento del sistema collettivistico rappresentava «il
desiderio più profondo» del partito e li preoccupava l'esiguità delle adesioni fra gli ultimi arrivati. «La più grande tragedia di quest'ondata migratoria è che non contribuisce a irrobustire il movimento dei coloni» affermò uno di loro. L'esecutivo del partito era alla ricerca di metodi per convincere gli immigrati a vivere nei kibbutz. «Siamo consapevoli che questi ultimi immigrati non hanno un atteggiamento positivo nei confronti degli insediamenti rurali» dichiarò un altro dirigente «ma se sapremo parlare al loro cuore, se li metteremo di fronte ai dati di fatto ed essi vorranno essere attivi e assimilarsi al paese, dovranno per forza arrivare alla conclusione che l'unica scelta giusta è vivere in una colonia agricola.» Ci vuole altro che la persuasione, ribattè Shmuel Dayan: bisogna «costringerli». «Dopotutto» concluse «non li mandiamo in Siberia.» L'Ufficio immigrazione della Histadrut suggerì numerosi espedienti burocratici per impedire agli immigrati di abbandonare i kibbutz. Nel 1949 David Ben Gurion accarezzò l'idea di impiegare gli immigrati nei progetti di sviluppo del territorio, sottoponendoli a un regime militare o «paramilitare». Questo sistema avrebbe permesso di liberarsi «del materiale umano demoralizzante» e avrebbe offerto agli altri un buon addestramento, la possibilità di apprendere l'ebraico e «la disciplina civica», nonché di costituire delle «cellule sociali» per i futuri insediamenti agricoli. Il piano, più volte discusso, non fu mai attuato. Da un sondaggio effettuato nel 1949 risultò che otto israeliani su dieci ritenevano che la concentrazione degli immigrati nelle città fosse pericolosa per la struttura economica e sociale del paese; nove su dieci pensavano che gli immigrati dovessero essere «indirizzati» verso le colonie agricole, mentre soltanto poco più della metà era favorevole a «costringerli» al lavoro nei campi. Il rifiuto degli immigrati a dedicarsi all'agricoltura suscitava molte critiche. «In città, in città, là dove ci invitano le luci dei caffè e ci chiamano i manifesti dei cinema» ironizzava «Haaretz». Gli immigrati, scriveva il giornale, «non prendevano sul serio gli obblighi che si erano assunti prima di venire in Israele» e non dimostravano alcun senso di «responsabilità verso l'impresa sionista». E pensare che, a quell'epoca, almeno il 90 per cento degli israeliani viveva nei centri urbani. I kibbutzim si consideravano l'elite sociale di Israele e del
sionismo, l'avanguardia ideologica. Impegnati a realizzare la rivoluzione nazionale, avevano un altissimo senso del dovere. Provvedevano all'alloggio, al vitto, agli indumenti e a volte anche alle spese mediche e di viaggio dei nuovi arrivati. I kibbutz erano ancora poveri allora, e gli immigrati costituivano un peso. A Ein Harod alcuni si occupavano dei nuovi membri nel tempo libero e si prendevano cura dei bambini anche per mesi interi. A Shaar Haamakim i vecchi residenti cedettero le loro stanze agli immigrati e dormirono all'aperto, in attesa che l'Agenzia ebraica mandasse le tende. Dicevano: «Ci siamo assunti il compito di integrarli e non ci tireremo indietro». Le lettere inviate all'Ufficio immigrazione della Histadrut e a quello dell'Agenzia ebraica raccontano la storia delle difficoltà pratiche che comportava l'integrazione degli immigrati. I kibbutz lamentavano di non ricevere aiuto dalle istituzioni: «Il nostro collettivo non è in grado di sostenere tutte le spese necessarie per permettere agli immigrati, che hanno bisogno di tutto, di sentirsi a loro agio e di assimilarsi» scrissero da Ayelet Hashahar all'Agenzia ebraica. Quelli del kibbutz Elon, alle prese con quarantadue nuovi arrivati dalla Romania, avevano esaurito le risorse e la pazienza: Sono sorti molti problemi complicati che non possiamo risolvere da soli. ... Queste persone arrivano senza niente. Non hanno neppure le cose più indispensabili. Dobbiamo rifornirli subito di indumenti, di scarpe e trovargli un alloggio. Da voi non abbiamo ricevuto nessun aiuto, soltanto due lire e mezzo [10 dollari] per persona. Quasi tutti gli immigrati, esausti e indeboliti dalle dolorose prove che hanno subito nell'inferno nazista, non sono in grado di lavorare. Abbiamo dovuto curarli e lasciarli a riposo. Fra loro ci sono dieci malati cronici gravi, che non solo non possono fare nulla, ma hanno bisogno di cure speciali. Fedeli al ruolo che ci siamo assegnati, finora ci siamo fatti carico di tutti questi problemi. Ma le nostre possibilità sono limitate. Siamo una comunità montana non ancora del tutto consolidata e il fardello che dobbiamo reggere è troppo pesante ... e pur con tutta la comprensione e la volontà di assorbire l'immigrazione, non ce la facciamo. L'inverno è alle porte. Qui fa freddo e occorrono indumenti pesanti e coperte per resistere. Come faremo a cavarcela da soli? Alla lettera erano allegate alcune ricevute delle spese
mediche sostenute per curare gli immigrati. I contrasti erano soprattutto di natura finanziaria. I kibbutz chiedevano un aumento del sussidio che ricevevano per ciascun immigrato e l'autorizzazione a tenersi i «beni di prima necessità», compreso «il letto dell'Agenzia», consegnati agli immigrati al loro arrivo, anche quando questi decidevano di andare a vivere altrove. Si lamentavano che, una volta mandati nel kibbutz, nessuno si prendeva più cura di queste persone, come se bastasse trovargli un posto in cui stare. I kibbutz dovevano preoccuparsi della salute dei nuovi arrivati, insegnargli l'ebraico, integrarli nella comunità, aiutarli a superare il trauma dell'Olocausto. I compiti erano troppi e le forze insufficienti. I kibbutz erano comunità piccole, molto isolate, nelle quali si viveva a contatto di gomito. Il kibbutz Afikim non vuole Yehudit Kahane, «un'immigrata di Bergen-Belsen», perché ha bisogno di cure particolari. Il kibbutz Usha solleva una questione di principio: d'ora in avanti, informa la Histadrut, rispedirà indietro chiunque gli venga inviato senza il suo consenso. Ma la Histadrut risponde che «in alcuni casi particolari» è autorizzata a mandare «temporaneamente» degli immigrati anche senza il parere favorevole del kibbutz. E censura l'atteggiamento di Usha, definendolo indegno di un kibbutz, «che è fondato sul principio della disponibilità a collaborare all'integrazione dei nuovi immigrati». Usha non si lascia intimidire: «Sappiamo che non avete mandato nessuno, o quasi, al kibbutz più vicino a noi, al massimo un paio di persone, non una ventina come da noi. Perciò non avete il diritto di rimproverarci». Ma non era soltanto una questione di soldi o di autonomia: le divergenze riguardavano anche «la qualità del materiale umano». I kibbutz, come gli altri insediamenti agricoli, non volevano i malati, i «disadattati», i bambini piccoli e i vecchi. Malka Shiein, dell'insediamento agricolo di Kfar Kish, reclama che il Centro per l'immigrazione le ha mandato gente di cinquant'anni, «sull'orlo della vecchiaia». La sua comunità, formata da giovani fra i ventotto e i trent'anni, ha bisogno di coetanei, in grado di integrarsi e di rafforzarla: non intende metter su una casa di riposo. Ma non erano soltanto i kibbutz e le colonie agricole a voler selezionare: Israele, disse Levi Eshkol, «non può accogliere tutti i pazzi del mondo». Alcuni superstiti dell'Olocausto partivano per Israele con
l'idea di andare a vivere in un kibbutz. Molti arrivavano addestrati e si adattavano subito. Il kibbutz diventava spesso la famiglia che non avevano più: vi ritrovavano la speranza e la sicurezza, a volte anche persone con cui condividere i ricordi. Per gli ebrei che prima dell'Olocausto avevano militato nel movimento della gioventù socialista sionista la vita nel kibbutz costituiva una sorta di rivincita sul nazismo. Se poi la comunità prosperava e i figli diventavano ufficiali dell'esercito israeliano, era un'altra rivincita sulla sconfitta e le umiliazioni che avevano subito in Europa. Paradossalmente il kibbutz, così tipicamente israeliano, così diverso dalla Diaspora, assomigliava nella sua insularità ai villaggi ebraici dell'Europa orientale spazzati via dai nazisti. La somiglianza era particolarmente forte nei collettivi in cui la maggioranza dei coloni aveva conosciuto l'Olocausto. Anche alcuni di quelli che arrivavano in Israele senza nessun addestramento si adattavano facilmente alla vita collettiva. Ma tutto sommato erano pochi. Alla fine del 1949, nei kibbutz c'erano circa 10.000 immigrati: metà di loro non vi rimase a lungo. Molti rifiutavano l'idea stessa della comune. Dopo aver passato anni e anni nei campi di concentramento, nei campi profughi, nei campi di detenzione britannici, nei campi di raccolta israeliani, la cosa che più desideravano era uno spazio privato e la possibilità di occuparsi di se stessi. «Hanno una reazione negativa a priori verso qualsiasi luogo in cui vivano insieme molte persone» spiegò un dirigente del Mapai ai suoi colleghi. «Dicono che le comuni ricordano i campi di concentramento. E perciò non riescono a adattarsi e cercano un modo per vivere isolati.» Il kibbutz non bastava a proteggerli dall'angoscia: gli incubi, l'ansia, la vergogna e i sensi di colpa continuavano a opprimerli. Un immigrato, che era stato mandato nel kibbutz Mishmarot, raccontò: «Ogni volta che mi sedevo in sala mensa, in attesa che mi servissero il pasto, ero scosso da un tremito. Temevo che il cibo non bastasse e che non restasse più niente per me». In parecchi casi la depressione subentrava dopo due o tre anni, quando i superstiti si convincevano che i familiari erano morti, che non li avrebbero rivisti mai più. Molte volte a scatenare la crisi e a provocare allucinazioni e tentativi di suicidio era la nascita del primo figlio. Spesso l'arrivo degli immigrati sconvolgeva la vita dei residenti. «Non riusciamo più a vedere i
nostri compagni tanti sono gli immigrati» si lagnava uno. Qualcuno suggerì di creare due mense distinte, «per mettere un po' di distanza fra noi e loro, in modo da vivere la nostra vita». Il kibbutz Alonim distribuì un questionario in cui si chiedeva di spiegare perché i rapporti fra i due gruppi erano così difficili. Molti elencarono le seguenti ragioni: gli immigrati non volevano integrarsi nella vita del kibbutz; fra loro c'erano poche ragazze; non desideravano vivere nel kibbutz; non sapevano affrontare i momenti critici; erano soli. Alcuni riconobbero di essere in parte responsabili della situazione. Pochi accusarono il kibbutz di non dedicare agli immigrati l'attenzione necessaria. Pochissimi dissero che c'era un'atmosfera poco cordiale nei confronti dei nuovi arrivati e che il kibbutz non provvedeva ai loro bisogni essenziali. La stragrande maggioranza attribuiva dunque la colpa delle difficoltà agli immigrati, considerati spesso una seccatura. E tuttavia ne volevano altri, perché così insegnava la loro ideologia e perché erano indispensabili per il futuro della comunità. I kibbutz comunque assorbirono meno immigrati rispetto al resto del paese. Un anno e mezzo dopo la Dichiarazione di indipendenza, il 7 per cento della popolazione israeliana viveva nei kibbutz, ma gli immigrati erano soltanto il 4 per cento. La seconda guerra mondiale era finita da un anno e mezzo quando il comandante della Haganah in Europa, Nahum Shadmi, cominciò a girare per i campi profughi reclutando volontari da addestrare alle armi. Il primo obiettivo che si proponeva non era tanto di arruolare soldati in vista dell'indipendenza di Israele, quanto di trasformare quei «relitti umani» in giovani «sani e robusti», identici ai loro coetanei nati in Palestina, i sabra. Non era stato facile convincere i superiori, fra cui Ben Gurion, ad autorizzare il gahai, ossia il reclutamento all'estero: i dirigenti tuttavia cambiarono parere alla svelta quando scoppiò la guerra. Un paio di mesi prima della Dichiarazione di indipendenza, nella fase più acuta della lotta. Ben Gurion scrisse a uno dei reclutatori in Europa: L'esito della guerra dipende dall'immigrazione, poiché il potenziale umano di Israele è insufficiente. Gli arabi hanno riserve enormi e noi abbiamo bisogno di uomini dall'estero. L'immigrazione che non sia interamente finalizzata alle esigenze belliche non serve. E' essenziale
comprendiate che la vostra attività, così come la vita dello yishuv, deve adattarsi a queste esigenze, il che significa mandarci soltanto uomini di età compresa fra i 18 e i 35 anni, 40 in casi eccezionali, addestrati all'uso delle armi. «Per primi [mandateci] tutti i giovani che possano aiutarci nella guerra» chiedeva un dirigente dell'Agenzia ebraica. Un militante della haapalah, non molto entusiasta dell'ordine appena ricevuto, disse ai colleghi che l'Agenzia aveva minacciato di «interrompere i finanziamenti se l'immigrazione non fosse servita alla guerra». Entrare nell'esercito era un dovere per tutti, uomini e donne, andavano predicando i delegati dello yishuv. «Chiedo agli ebrei dei campi di arruolarsi. Sono anch'essi in un certo senso cittadini di Israele» affermò Shadmi. Nei campi, ha osservato Haim Yahil, c'era «un'atmosfera favorevole all'arruolamento»: i genitori dei giovani che si offrivano volontari erano circondati da grande rispetto, mentre gli altri venivano guardati con disprezzo. A volte chi non aveva firmato non era più libero di girare per il campo. «L'arruolamento spontaneo del "resto" fu probabilmente l'episodio più straordinario di tutta la storia della guerra di indipendenza» ha commentato Yahil. Fra i sopravvissuti i volontari furono 22.000, vale a dire un soldato su tre. La maggior parte proveniva dai campi profughi o da quelli di internamento di Cipro. Alcuni effettuarono un breve periodo di addestramento prima della partenza, ma moltissimi furono mandati a combattere senza alcuna preparazione e senza neppure conoscere il paese che erano chiamati a difendere. Poiché quasi nessuno di loro parlava l'ebraico, non potevano essere impiegati negli uffici o nelle retrovie, e perciò venivano spediti subito al fronte. Fra le vittime della guerra d'indipendenza, una su tre aveva conosciuto l'Olocausto. I sopravvissuti erano in genere più vecchi degli altri soldati e i sabra li consideravano forestieri, gente dell'«Esilio». L'esercito non era preparato ad accoglierli. Per i nuovi arrivati fu una grande amarezza. La demoralizzazione preoccupava gli psicologi militari, che ne temevano gli effetti negativi sugli altri soldati. Caporali e sergenti insultavano e umiliavano spesso i volontari europei, che avevano la fama di essere malinconici, pavidi, prigionieri del passato. «Sono scappati nel momento decisivo» hanno scritto di loro. «Sono uomini difficili, ostinati e codardi.» Ben
Gurion riportò nel diario il commento di Yitzhak Rabin, che attribuiva agli immigrati la colpa della demoralizzazione del suo battaglione. Molti superstiti si erano arruolati anche perché allettati dalla promessa che nella nuova terra sarebbero stati accolti a braccia aperte. Ma non fu così: la leggendaria fratellanza delle armi era troppo israeliana e troppo chiusa. Entrarvi era difficile. I sopravvissuti erano molto diversi non solo dai sabra, ma anche dagli stranieri venuti a combattere con le Forze di difesa israeliane, che erano per lo più americani, parlavano inglese e non yiddish, e godevano di grande stima. Gli arruolati nei campi vivevano nell'angoscia, tormentati dai ricordi dell'Olocausto e dal pensiero di non avere avuto il tempo di rintracciare i familiari prima di partire per la Palestina. Anche il futuro era incerto: non sapevano quale sarebbe stata la loro sorte dopo la smobilitazione. In un rapporto riservato delle Forze di difesa, il relatore riferisce con preoccupazione che molti si consideravano «carne da cannone». L'espressione entrò nell'uso comune e si trasformò ben presto in un mito: Ben Gurion ha preso dei detriti umani e li ha scagliati in faccia al nemico. Sulle ossa dei ragazzi dell'Olocausto è stata costruita una nuova strada per Gerusalemme. Ma le cose non andarono affatto così, come dimostrano chiaramente i dati statistici. L'esercito israeliano era consapevole che i soldati sopravvissuti all'Olocausto avevano bisogno di assistenza sul piano pratico e su quello psicologico, ed elaborò vari progetti per aiutarli a ricercare i familiari, a imparare l'ebraico, a conoscere il paese e a frequentare altri israeliani. Nel mese di luglio del 1948 il comandante addetto al reclutamento ordinò agli ufficiali delle varie unità di riunire tutti i loro soldati, per «spiegare come devono comportarsi verso i nuovi immigrati che provengono dall'inferno nazista e da lunghi anni nei campi di concentramento. ... Gli immigrati vanno trattati con generosità e considerazione, accolti in modo che si sentano a casa propria». Un altro documento afferma che per risollevare il morale di quei soldati «è essenziale liberarli dalla sensazione di essere soltanto carne da cannone». La vittoriosa guerra d'indipendenza compensò almeno in parte i superstiti dell'Olocausto di tutte le sofferenze patite in Europa. Sotto le armi impararono a conoscere un poco la terra in cui vivevano e i suoi abitanti, nonché ad
acquisire il senso dell'appartenenza. Ma l'esercito non fece molto per facilitarne l'integrazione sociale. L'opinione generale era che i sabra avessero qualità umane superiori a quelle degli immigrati e che la rivoluzione israeliana fosse merito loro. Era questo convincimento a creare «lo strano muro», che separava i superstiti dell'Olocausto dai nativi di Israele, di cui parlò un dirigente dell'Agenzia ebraica, il muro che Ben Gurion definì «una barriera di sangue e silenzio, d'angoscia e di solitudine». E, come se non bastasse, c'erano i contrasti ideologici. Lo yishuv era imbevuto di una fede profonda, quasi mistica, nella propria superiorità, simboleggiata dal tenace cactus. Il sabra era come il suo frutto, il fico d'India, acuminato all'esterno e dolce all'interno. Lo scrittore Yehudit Hendel dichiarò un giorno alla televisione israeliana: Diciamolo pure: in questo paese c'erano quasi due razze. C'erano quelli che si credevano dèi: coloro che avevano avuto l'onore e il privilegio di nascere a Degania o nel quartiere Borochov di Givataim, e io appartenevo, per così dire, agli dei. Sono cresciuto in un quartiere operaio vicino a Haifa. E c'era, lo si può dire con certezza, una razza inferiore: persone che consideravamo inferiori, come se avessero delle malformazioni, che so io, la gobba, ed erano quelli arrivati dopo la guerra. A scuola mi hanno insegnato che la cosa più brutta, la più vile non era l'Esilio, ma gli ebrei che venivano dall'Esilio. «Sono brutti, immiseriti, di dubbia moralità e difficili da amare» dichiarò Leah Goldberg in un incontro degli scrittori con Ben Gurion. Ma come Dostoevskij e Gor'kij, che non avevano paura della bruttezza, del lezzo e della bassezza, anche gli artisti israeliani, aggiunse la poetessa, dovevano saper scorgere nei superstiti dell'Olocausto l'immagine umana e non soltanto la persona che nascondeva i dollari nella cintura. Certo, concluse, il compito richiedeva «uno sforzo terribile». Yitzhak Sadeh, comandante del corpo d'elite del Palmach, è autore di un libro spesso citato. La mia sorellina, in cui descrive l'incontro con una ragazza appena giunta dall'Europa. Sul corpo recava tatuata la scritta «Riservata agli ufficiali». I nazisti l'avevano non solo costretta a prostituirsi, ma anche sterilizzata. «Perché sono qui?» chiede a Sadeh. «Merito forse di essere salvata da questi ragazzi sani e forti, che rischiano la vita per me?» Sadeh replica: «Sii nostra sorella, nostra sposa, nostra
madre». E conclude: «Per amore delle mie sorelle sarò coraggioso. Per amore delle mie sorelle sarò anche crudele. Sarò tutto! Tutto!». Non è casuale, tuttavia, che come simbolo dell'Olocausto sia stata scelta una prostituta. La metafora non faceva che riprendere lo stereotipo secondo cui l'Esilio era debole, passivo, femminile e lo yishuv forte, attivo e maschile. Il sabra incarnava l'ideale nazionale, il sopravvissuto il suo opposto. E per di più rappresentava una minaccia per quell'ideale in un momento storico in cui nella società israeliana era in atto una lotta generazionale per l'egemonia. Lo yishuv alimentava il mito del sabra, nel quale vedeva la realizzazione della rinascita nazionale e della struttura sociale «sana», che era nei sogni del movimento sionista socialista. Ma la maggior parte degli ebrei della Palestina non rispondeva a questo ideale: molti erano arrivati di recente e non si erano ancora liberati dalla «mentalità della Diaspora». I superstiti dell'Olocausto costringevano gli immigrati precedenti a fare i conti con un vissuto che forse non erano riusciti a superare. Il disprezzo con cui i vecchi immigrati reagivano nei confronti dei nuovi tradiva spesso la volontà di prendere le distanze da se stessi e dal proprio passato europeo. La presenza dei sopravvissuti era anche la testimonianza che il sogno dell'«uomo nuovo» non si sarebbe mai realizzato: gli ultimi arrivati erano quasi tutti profughi, non visionari sionisti. «Molti di loro sono soltanto immigrati. Sono qui perché non hanno nessun altro posto dove andare» scrisse sprezzante un giornalista di «Haaretz». Il discorso, naturalmente, valeva anche per molti di quelli che li avevano preceduti. La discrepanza fra il sogno e la realtà accentuava la durezza degli israeliani verso le ultime ondate migratorie. Pretendevano che i nuovi venuti si identificassero con lo stereotipo del sabra e lo imitassero, in segno di lealtà e come rito di ingresso nella tribù. Aharon Appelfeld racconta di un ragazzo appena giunto dalla Polonia, picchiato dai compagni perché non si abbronzava. Egli si difese sostenendo che faceva di tutto per prendere il sole, ma gli altri replicarono che non era vero, perché altrimenti ci sarebbe riuscito già da un pezzo. Il suo pallore li costringeva a pensare alla Diaspora e all'Olocausto, e così lo maltrattavano. Persino Rozka Korczak, che aveva combattuto contro i nazisti nel ghetto di Vilnius ed era stata accolta come
un'eroina, non sfuggì agli attacchi. Arrivò in Palestina nel dicembre del 1944 e poco dopo partecipò al congresso della Histadrut. Parlò in yiddish. David Ben Gurion si lamentò che «la compagna rifugiata» parlava «in una lingua straniera» (secondo un'altra fonte, aggiunse anche «sgraziata»), anziché in ebraico. Ogni nuovo arrivato ricordava ai sionisti che il loro movimento era stato sconfitto con l'Olocausto. I dirigenti si affannavano a ripetere che lo sterminio degli ebrei si era consumato prima che il sionismo fosse abbastanza forte per salvarli; che l'Olocausto era la prova della necessità di uno Stato ebraico; che la colpa era degli inglesi che avevano chiuso le porte del paese; che la colpa era degli arabi che avevano convinto gli inglesi a farlo; che la colpa era del mondo intero che era rimasto a guardare anziché soccorrere gli ebrei. Esaltavano e glorificavano i pochi tentativi di salvataggio che lo yishuv aveva effettuato. Ma tutto questo non serviva a cancellare il fatto che il movimento sionista aveva dimostrato la propria impotenza. Non solo lo yishuv non era corso in aiuto degli ebrei d'Europa, ma la sua stessa esistenza e il suo futuro dipendevano dalla disponibilità dei superstiti a stabilirsi nel paese e a rafforzarne l'esercito per respingere la minaccia araba. Qualcuno arrivava ad accusare gli ebrei d'Europa di essersi fatti sterminare. Se soltanto avessero riconosciuto che il sionismo aveva ragione. «Non li avevamo forse avvisati?» si chiese lo scrittore Moshe Smilansky. Non avevano forse detto: «Costruitevi un focolare nel vostro paese, nella vostra terra, subito, e non vi perderete»? Ma tutti gli avvertimenti erano stati inutili: «Hanno udito, ma non hanno ascoltato». Avraham Shionsky scrisse: La tempesta li investì con una pioggia di lapilli, con una runa infuocata, presagi, presagi, presagi, e l'inferno aveva già inghiottito la foresta ed essi si tapparono le orecchie, chiusero gli occhi. Haim Yahil si spinse ancora più in là: «Dopotutto non possiamo dimenticare che la guerra agli ebrei fu per i nazisti il grande trampolino di lancio per la conquista e il mantenimento del potere». Quasi a dire che, se gli ebrei si fossero recati a Sion, non ci sarebbe stata l'ascesa dei nazisti. E una ventina di giorni prima della resa della Germania, «Haaretz» si chiese: «Gli ebrei hanno forse avuto un ruolo nell'orribile massacro commesso contro la nostra nazione?». I nati in Palestina cercavano in questo modo di
difendersi dalle accuse dei superstiti e di mettere a tacere i rimorsi per l'impotenza, il disinteresse e soprattutto il distacco psicologico che avevano dimostrato verso gli ebrei d'Europa durante l'Olocausto. A loro volta molti superstiti rimproveravano lo yishuv, anche aspramente. «Voi ballavate mentre noi bruciavamo nei crematori» accusò Yosef Rosensaft, uno dei leader dei profughi di Bergen-Belsen, poi emigrato in America. Di solito erano critiche espresse soltanto in privato, ma avvelenavano comunque i rapporti fra i superstiti e lo yishuv. «Nei nostri cuori si annida una domanda» disse Dov Shilansky, che divenne in seguito presidente della Knesset. «Che cosa facevano i nostri fratelli qui, fuori dell'inferno?» Al Congresso sionista di Londra Yitzhak «Antek» Zuckerman si lamentò che i primi delegati dello yishuv in Polonia erano arrivati molti mesi dopo la fine della guerra. «Come avremmo fatto ad arrivare in Polonia?» si difese Moshe Sharett. Seguendo a ritroso la via da cui uscivano i profughi, replicò Zuckerman. E aggiunse: «Sono disposto a perdonarvi qualsiasi cosa, ma non di non esservi fatti vivi in quegli ultimi otto mesi». Zuckerman aveva lasciato la Polonia a trentadue anni, però aveva sognato fin da bambino di andare a vivere in un kibbutz in Israele. E in Israele rimase fino al giorno della sua morte, avvenuta nel giugno del 1981: trentaquattro anni durante i quali continuò a vivere l'Olocausto, come se non fosse mai finito. Al suo arrivo si stabilì nel kibbutz Lohamei Haghetaot (Combattenti del ghetto) e si dedicò a scrivere le memorie della rivolta nel ghetto di Varsavia. Zuckerman era stato il braccio destro di Mordecai Anielewicz, il leader dell'insurrezione. I suoi compagni dicevano che «Antek» riusciva sempre a tirarli su di morale. «Era un gigante alto come una torre,» ha scritto Haim Guri «una rara combinazione di forza e bellezza. ... Più di una volta qui in Israele, durante qualche riunione, lo rivedo all'improvviso con le persone che erano e non sono più. Lui e la forza dei suoi silenzi, come se rifiutasse di dire quello che un giorno o l'altro avrebbe detto, quello che ricacciava continuamente indietro.» Zuckerman ne aveva di cose da dire allo yishuv, ma siccome era un militante leale, le tenne per sé. Soltanto quando ebbe il presentimento della fine rilasciò una testimonianza registrata, ponendo come condizione che fosse resa pubblica soltanto dopo la sua morte. «Israele non ci ha cercati. Ci
siamo sentiti abbandonati» disse. E «Israele», per Zuckerman, significava la federazione dei kibbutz, Hakibbutz Hameuhad. Lo indignava che durante la guerra il movimento non avesse neppure tentato di mandare un suo rappresentante a Varsavia per portare i saluti e qualche parola di incoraggiamento. Eppure in Polonia arrivavano con i soldi e qualche lettera i contrabbandieri inviati dalla missione di salvataggio ebraica di Istanbul. Quelli però non erano ebrei, non erano compagni, non avevano consigli da dare. Se avesse voluto, anche il movimento avrebbe potuto far arrivare i suoi emissari. Che non l'avesse fatto era la prova dell'abisso che separava la segreteria del partito in Palestina dai suoi militanti in Polonia. Haim Curi chiese un giorno a Zuckerman che cosa sarebbe successo se il partito avesse paracadutato cinquecento uomini nel ghetto. «Quattrocentonovanta sarebbero stati uccisi» fu la risposta «e gli altri dieci avrebbero costituito un peso.» «Quando "Antek" dice che il movimento li aveva abbandonati» conclude Guri «non si riferisce al piano operativo. Il suo è un grido metafisico. Non avevano bisogno di cinquecento paracadutisti. Bastava un solo uomo che portasse una parola di buona volontà dalla Terra di Israele. Uno solo. E non venne.» Nel giugno del 1945 il paracadutista Yoel Palgi si recò al circolo dei reduci di Tel Aviv. Era appena tornato dalla missione in Ungheria. Fu accolto con calore e ammirazione, ma nessuno volle ascoltare la storia delle sofferenze degli ebrei. Erano altre le cose che volevano sentirsi raccontare: volevano sentirsi dire che si erano battuti come leoni. «Ovunque andassi mi facevano sempre la stessa domanda: perché gli ebrei non si sono ribellati? Perché si sono lasciati condurre al macello come agnelli? A un tratto capii che si vergognavano dei torturati, degli assassinati, degli arsi vivi. C'era come un tacito accordo: i morti dell'Olocausto erano persone senza valore. Inconsciamente, abbiamo fatto nostra la concezione dei nazisti, che giudicavano subumani gli ebrei. ... La storia ci sta giocando un brutto tiro: stiamo anche noi mettendo sotto processo quei sei milioni?» Nel lessico dello yishuv entrò un'espressione particolarmente brutale legata a questo modo di sentire: sabon (sapone), così cominciarono a essere chiamati i superstiti. Non si sa chi l'abbia usata per primo, ma certo è che si diffuse con grande rapidità. Gli ebrei di Palestina erano
convinti che i nazisti avessero fatto il sapone con le vittime. L'accusa, ribadita continuamente, finì per diventare una verità accettata da tutti, fino a insinuarsi anche nei discorsi alla Knesset, nei manuali scolastici e nella letteratura israeliana («Sullo scaffale del droghiere, avvolta nella carta gialla con il disegno dell'ulivo, giace la famiglia Rabinowitz» ha scritto Yoram Kaniuk in Uomo, figlio di cane). E' difficile trovare un'altra parola che esprima con altrettanta forza il disprezzo dei sabra verso i superstiti dell'Olocausto. (Nota: Molti israeliani, che avevano ancora pezzi di sapone del tempo di guerra, hanno scritto al Museo dell'Olocausto di Gerusalemme, Yad Vashem, per chiedere informazioni, per offrire il sapone, per sapere se sotterrarlo. Yad Vashem ha sempre risposto che i nazisti non avevano fatto il sapone con gli ebrei. Nel periodo bellico in Germania i grassi scarseggiavano e la produzione del sapone era controllata dal governo. Su ogni pezzo era impressa la sigla RIF, dalle prime iniziali tedesche di «puro grasso industriale». Alcuni la scambiarono per RJF e la interpretarono come real jewish fat (puro grasso ebraico). La voce si diffuse rapidamente soprattutto nei ghetti. Ci sono indizi che anche alcuni alti ufficiali nazisti, fra cui il governatore della Polonia, Hans Frank, fossero persuasi che si fabbricasse il sapone in questo modo. Effettivamente, poco prima della fine della guerra un laboratorio di Danzica condusse delle ricerche per stabilire se fosse possibile utilizzare il grasso umano nella produzione alimentare. Yad Vashem è arrivato alla conclusione che non era questo lo scopo per cui gli ebrei venivano assassinati. Si trattava dunque di un mito.) La resistenza degli ultimi ebrei del ghetto di Varsavia, decisi a «morire con onore» e a lasciarsi alle spalle un retaggio di eroismo ebraico, portando con sé anche qualche tedesco, contraddiceva il luogo comune secondo cui gli ebrei della Diaspora andavano incontro alla morte passivamente e toglieva a Israele il monopolio dell'eroismo. La verità assai imbarazzante era che i rivoltosi non avevano ricevuto il minimo aiuto dallo yishuv. I delegati giunti in Polonia prima della guerra erano tutti tornati in Palestina. Lo
yishuv risolse il problema appropriandosi delle rivolte nei ghetti come se fossero state opera sua e inglobandole nella propria mitologia. «E' stato il nostro movimento a prendere l'iniziativa dell'autodifesa attiva» dichiarò con orgoglio Moshe Sharett. Certo, gli insorti militavano quasi tutti nei movimenti giovanili sionisti, ma questo non autorizzava a trasformare la loro resistenza nella «nostra resistenza», come fece in seguito Israele. Qualcosa di analogo accadde con la missione dei para. I giovani lanciati dietro le linee naziste provenivano effettivamente dai kibbutz e alcuni militavano nel Palmach. Tuttavia, quasi tutti erano arrivati in Palestina quando la guerra era già scoppiata ed essi avevano più di vent'anni. Il loro coraggio non era il frutto dello yishuv, bensì della Diaspora. Anche il ruolo svolto dai profughi nell'haapalah ha ricevuto soltanto raramente il riconoscimento che avrebbe meritato. Il poeta Natan Alterman esalta il valore dei «nostri ragazzi, che sorreggono la nazione», mentre i maapilim sono i sarti, i ciabattini, i cambiavalute della Diaspora, «una folla rattrappita e disperata», in mezzo alla quale non si intravede «una sola faccia d'uomo o un volto di donna». Furono innalzati inni pure all'eroismo della Palestina durante la guerra. Yitzhak Gruenbaum raccontò a un gruppo di superstiti come il paese si fosse protetto e avesse rafforzato le proprie difese per prepararsi all'ora fatale: «Non crediate che sia stato facile» disse. Lo yishuv aveva bisogno di convincersi che era questa la verità per poter guardare negli occhi i sopravvissuti, e forse anche per potersi guardare allo specchio. Ben presto, dopo l'arrivo dei primi superstiti, si instaurò una sorta di tacito patto fra gli israeliani e «il resto». Esso poggiava su quattro presupposti fondamentali, che ressero alla guerra del 1948, alla depressione degli anni Cinquanta e alla massiccia ondata migratoria dai paesi islamici. Il primo, iscritto nella Dichiarazione di indipendenza, era che l'Olocausto aveva dimostrato per l'ennesima volta che l'unica soluzione del problema ebraico era la creazione di uno Stato indipendente in Israele. Il secondo era che tutto il mondo, senza esclusione alcuna, era ostile e non aveva fatto niente per salvare gli ebrei durante l'Olocausto: «E' questa forse la lezione più terribile che la nostra generazione ha appreso» scrisse «Haaretz». Il terzo era riassunto nello slogan «Olocausto ed eroismo», che
equiparava i due concetti («due fiamme che ardono in un solo cuore») e costituì il fondamento ideologico del successivo culto della memoria. Il quarto era che quanto meno si parlava dell'Olocausto, tanto meglio era. Nacque così il grande silenzio, che si protrasse per anni, finché non fu interrotto nel 1951 dal processo Kastner. Non si trattò di una scelta deliberata, ma piuttosto di una reazione spontanea, nata dalla consapevolezza che senza una qualche forma di consenso la convivenza sarebbe stata probabilmente impossibile. La composizione dei nuovi immigrati cominciò a cambiare nel 1949. Ad arrivare non erano più i superstiti dell'Olocausto, bensì gli ebrei dell'Asia e dell'Africa settentrionale. A un tratto quelli che erano fuggiti dall'Europa si trovarono a ricoprire il ruolo che era stato di quanti li avevano preceduti: diventarono «veterani». Gli ebrei provenienti dal mondo islamico, com'era già accaduto agli yekke e ai superstiti dell'Olocausto, dovettero anch'essi affrontare non soltanto le difficoltà pratiche ma un clima ostile. «Bisogna insegnargli le cose più elementari, a mangiare, a dormire, a lavarsi» si lagnava un funzionario dell'Agenzia ebraica. Al loro arrivo in Israele molti furono lasciati soli in condizioni penose, senza un tetto, senza scuole per i figli, senza assistenza sanitaria, senza lavoro. Bivaccarono nei cortili, nei parchi, persino nelle strade, spesso patendo la fame. Erano in condizioni così tragiche da strappare a un leader del Mapai la dichiarazione più difficile per un sionista convinto: «Se avessi saputo quello che li aspettava qui, avrei votato per lasciarli in Siria». Queste sofferenze sono durate anni e anni; si sono trasmesse ai figli e ai nipoti, diventando uno dei problemi più gravi e dolorosi nella storia di Israele. Eppure, la loro esperienza è stata sostanzialmente molto simile a quella dei superstiti dell'Olocausto. Con l'arrivo degli immigrati dai paesi arabi nacque un nuovo tipo di lotta sociale: non più i pionieri contro i superstiti (i sabra contro i relitti umani), bensì gli ebrei occidentali contro gli ebrei orientali, gli ashkenaziti contro i sefarditi. I sopravvissuti entrarono ben presto a far parte delle élite di governo. Nel 1949, in previsione dell'arrivo di altri immigrati dalla Polonia, la direzione dell'Agenzia ebraica pensò di ospitarli negli alberghi, riservando i campi agli ebrei dei paesi arabi. Dopotutto, spiegò uno degli
intervenuti, gli europei appartengono alla nostra tribù. Poi i superstiti dell'Olocausto cominciarono a ricevere dalla Germania le riparazioni di guerra: il divario con gli ebrei dei paesi islamici aumentò ancora di più ed essi furono finalmente accolti nella tribù.
PARTE QUARTA LE RIPARAZIONI: «QUANTO CI DARANNO PER IL NONNO E LA NONNA?» CAPITOLO X «AGGIUNGIAMOCI QUALCHE CONSIDERAZIONE DI CARATTERE MORALE» Un giorno di novembre del 1951 un aereo di linea della SAS, proveniente dall'Europa e diretto in Estremo Oriente, fece scalo all'aeroporto di Tel Aviv. Fra i passeggeri c'era un tedesco, salito a bordo all'ultimo momento in seguito a un cambiamento di programma. La sua prima intenzione era infatti di volare con la KLM e fare sosta al Cairo. Quando si ritrovò in Israele, fu preso da una grande agitazione e anche la moglie si turbò notevolmente. Temevano di essere arrestati. L'uomo era Hjalmar Schacht ed era stato ministro dell'Economia durante il regime nazista. Il tribunale internazionale di Norimberga l'aveva assolto; un tribunale per la denazificazione l'aveva condannato a otto anni di carcere. Poi, però, era stato rilasciato quasi subito. Quindici mesi prima del suo imprevisto atterraggio a Tel Aviv, la Knesset aveva approvato la legge sui nazisti e i collaboratori dei nazisti, che prevedeva la pena di morte per i criminali di guerra. Ma all'aeroporto nessuno chiamò la polizia, benché avessero riconosciuto Schacht alla caffetteria, gli avessero rivolto la parola e persino chiesto un autografo. Erano arrivati anche i giornalisti per domandare all'esperto di economia se la Germania avrebbe risarcito i superstiti dell'Olocausto. «In un aeroporto pieno di centinaia di ebrei, alcuni dei quali armati, non uno se la sentì di ripetere il gesto di Schwarzbart e Frankfurter», accusò alla Knesset il deputato di destra Yohanan Bader. Era una riluttanza «strana», aggiunse sospettoso. David Ben Gurion, che era a capo del governo, si alzò per replicare. Certo, disse, non poteva
condividere il suggerimento di uccidere Schacht, ma non poteva negare di essere rimasto stupito e turbato per come era stato accolto il gerarca, e si impegnò a far modificare immediatamente le norme sui passeggeri in transito. (Nota: Shalom Schwarzbart assassinò a Parigi, nel 1926, Simon Petijura, i cui uomini avevano massacrato migliaia di ebrei in Ucraina; David Frankfurter uccise il leader dei nazisti svizzeri Wilhelm Gustloff nel 1936.) Eppure quell'episodio non fu isolato. Benché tutti concordassero sul fatto che l'Olocausto imponeva certe regole di comportamento, era difficile stabilire caso per caso cosa fosse lecito e cosa non lo fosse. Molti israeliani identificavano ancora la Germania di Adenauer con quella di Hitler e rifiutavano qualsiasi contatto, come se si trattasse di stringere la mano al diavolo. Così imponevano il lutto, il desiderio di vendetta e l'onore nazionale. Era questo il loro dovere di superstiti. Con il cuore gonfio di dolore, il sangue che ribolliva nelle vene, la rabbia che saliva alla testa, gridavano: attenti, la Germania nazista potrebbe risorgere. «Qualsiasi contatto o comunicazione con gli assassini è impensabile» dichiarò il deputato Mordecai Nurok del partito nazional-religioso Mizrahi. «Sarebbe un orribile tradimento della memoria dei nostri santi martiri.» Ai suoi occhi i tedeschi erano ancora e sempre «gli assassini». Il rabbino Nurok, un vecchio signore distinto ed elegante, fu per qualche settimana ministro delle Poste nel gabinetto di Ben Gurion. Proveniva dalla Lettonia, dov'era stato un leader della comunità ebraica di Riga, nonché membro del Parlamento lettone, lo Sjem. Nei suoi interventi allo Sjem, Nurok parlava in tedesco, un diritto riconosciuto ai rappresentanti delle minoranze etniche, e anche alla Knesset cominciava sempre i suoi discorsi con le parole «Eminente Camera», com'era consuetudine in Germania. Nei quattordici anni in cui fu deputato, egli intervenne quasi esclusivamente sui temi legati all'Olocausto, ripetendo, con qualche rara eccezione, lo stesso ritornello: bisognava boicottare la Germania, ora e sempre. Nurok era il fustigatore della Knesset, il suo Catone: nella seconda guerra mondiale aveva perso la moglie e i due figli. In ogni angolo del paese
risuonavano l'odio per i tedeschi e gli appelli all'ostracismo. «I tedeschi possono essere redenti soltanto con la distruzione totale o con la sterilizzazione» scrisse al primo ministro il cittadino Yermiah Yafeh. «Dobbiamo instillare l'odio per i tedeschi nei nostri figli e nei figli dei nostri figli» proclamò un editorialista di «Yediot Aharonot», un giornale popolare indipendente, per poi chiedere che in Israele non entrassero «neanche uno spillo o una stringa fabbricati in Germania». E aggiunse: «Ogni volta che nei nostri viaggi incrociamo su una nave o su un treno un tedesco, dobbiamo sputargli in faccia perché non dimentichi». Il direttore di «Haaretz», Gershom Schocken, invocava una legge speciale che vietasse qualsiasi contatto degli israeliani con i tedeschi, compresi quelli casuali, per esempio fra turisti alloggiati nello stesso albergo, e che proibisse a tutti gli israeliani, tranne ai rappresentanti del governo, di mettere piede nel loro paese. Poco dopo il ministero degli Esteri impose che su tutti i passaporti fosse apposto un timbro, in inglese, con l'avvertenza che il documento non era valido per la Germania e l'Ufficio stampa del governo annunciò che chiunque vi si fosse trasferito non sarebbe più stato riammesso in Israele. Nei suoi primi mesi di vita lo Stato di Israele parve davvero intenzionato a proibire qualsiasi contatto con la Germania e a continuare a boicottarla per generazioni, come avevano fatto, secondo la leggenda, gli ebrei con la Spagna dopo la loro cacciata nel 1492. Era una reazione quasi sempre istintiva e condivisa dalla maggioranza degli israeliani, che la consideravano un dovere civico. Nel novembre del 1949, ossia un anno e mezzo dopo la Dichiarazione di indipendenza, la posizione ufficiale di Israele era ancora improntata all'inflessibilità: il governo, dichiarò un dirigente del ministero degli Esteri a un rappresentante israeliano in Europa, «non intraprenderà nessuna trattativa né legale, né economica con le istituzioni tedesche». Questo in teoria, perché nella pratica era assai più difficile, e controproducente, boicottare la Germania. Le eccezioni erano numerose, sebbene, fino a quando il principio fu riconosciuto, ogni deroga venisse considerata un fatto unico ed eccezionale. «Le esportazioni in Germania costituiscono un legame commerciale con quel paese e sono, di norma, indesiderabili» confermò ai ministri degli Esteri e delle Finanze la Commissione per
il commercio estero. In seguito, tuttavia, si presentò la possibilità di esportare agrumi, come si era fatto prima della guerra anche sotto il regime nazista. I tedeschi erano disposti a pagare in valuta pregiata e perciò «la questione andava esaminata a parte». Le eccezioni erano assai frequenti. Molti israeliani, inclusi i politici, si sentivano vincolati a un atteggiamento antitedesco dai sentimenti e dalla coscienza, dalla morale e dalla storia. Ma quando erano costretti a decidere, privilegiavano in genere gli interessi statali, economici e personali. A dare l'esempio era Ben Gurion: freddo, pragmatico e potente, egli costrinse Israele a rappacificarsi con «l'altra Germania», come amava definire la Repubblica federale. Lo fece con determinazione e forse troppo presto. Portò Israele nel blocco occidentale guidato dagli USA quando ancora molti altri paesi si trastullavano con l'idea di restare neutrali fra Oriente e Occidente. Inizialmente gli Stati Uniti non furono entusiasti alla prospettiva di includere Israele nella loro sfera di influenza. Ma Ben Gurion aveva capito che la guerra fredda e la situazione in cui si trovava il paese gli imponevano di schierarsi: se avesse potuto, sarebbe entrato nella NATO. Egli perciò si battè per rafforzare le relazioni sia con la Francia, sia con la Germania, e perseguì il suo obiettivo senza lasciarsi distogliere da scrupoli morali o emotivi. La sua etica e i suoi sentimenti erano in effetti determinati quasi esclusivamente da quelli che egli riteneva gli interessi dello Stato d'Israele, che spesso si identificavano con quelli del Mapai e viceversa. Così era stato prima dell'Olocausto, così era stato durante l'Olocausto, e dunque era più che naturale che Ben Gurion si mantenesse fedele alla propria linea anche dopo la proclamazione dell'indipendenza. Di tanto in tanto la giovane nazione sembrava traballare sotto il peso delle lacerazioni create dalla politica tedesca di Ben Gurion. Ma era più apparenza che realtà: la maggioranza degli israeliani era compatta dietro il suo primo ministro. Le aspirazioni internazionali di Israele mal si conciliavano con il boicottaggio. Gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali si adoperavano per ricondurre la Germania nella grande famiglia delle nazioni proprio mentre Israele lottava per ottenere il riconoscimento internazionale contro i tentativi dei paesi arabi di isolarlo. Lo Stato ebraico non poteva dunque permettersi di autoescludersi dagli organismi internazionali che
accoglievano la Germania. Pur votando contro l'ammissione della Repubblica federale in tali organismi, una volta che essa era stata ammessa Israele non poteva evitare i contatti. E non poteva neppure proporsi come paese ospite di varie conferenze internazionali ed escludere la partecipazione tedesca. I diplomatici israeliani si trovavano spesso faccia a faccia con i loro colleghi tedeschi ai ricevimenti e in svariate occasioni pubbliche, e ogni volta dovevano decidere se rispondere al saluto o far finta di niente. E se il diplomatico tedesco tendeva la mano? Si poteva ignorarlo senza offendere il padrone di casa? E se attaccava bottone, che cosa doveva fare il funzionario israeliano? Le istruzioni del ministero degli Esteri erano precise: «Deve porgere educatamente la mano, conversare per un paio di minuti e alla prima occasione mettersi a parlare con qualcun altro». E se invece si trattava di una telefonata? Il consiglio era di negarsi una, due o anche tre volte. Ma se l'altro insisteva e continuava a chiamare? «Gli va cortesemente detto che, non essendoci relazioni fra i due paesi, il console israeliano non è disponibile» ordinava il ministro. La stessa disposizione valeva nel caso che il rappresentante tedesco si fosse recato di persona al consolato israeliano, ma era bene che «la comunicazione gli venisse data da un funzionario di rango più basso e comunque mai dal console». Fu così che andarono le cose a New York. Quando tuttavia il rappresentante israeliano era il decano del corpo diplomatico, come nel caso di un'altra capitale, non poteva esimersi dal ricevere il collega tedesco. Alla nascita dello Stato di Israele l'ufficio dell'Agenzia ebraica di Monaco diventò un consolato, accreditato presso le potenze occupanti. Nel mese di dicembre del 1949, quando la Germania occupata aveva di fatto quasi conquistato l'indipendenza, gli israeliani decisero di tenere ancora aperto il consolato, almeno «per il momento». Il console ricevette istruzioni di non avere contatti con nessuna istituzione tedesca, ma soltanto con le autorità d'occupazione. Gli ordini, naturalmente, erano poco realistici. Eliahu Kurt Livneh era un diplomatico a tutti gli effetti, ma si muoveva con molta discrezione e poneva quasi sempre come condizione inderogabile che i contatti fossero segreti. Un giorno Livneh informò il ministero degli Esteri che un eminente studioso di Gerusalemme, Gershom Scholem, era in trattative per ottenere il
trasferimento degli archivi degli ebrei tedeschi dalla Germania agli Archivi centrali sionisti di Gerusalemme e che probabilmente «l'occasione sarebbe stata accompagnata da una cerimonia pubblica, semiufficiale». Egli suggeriva pertanto di omettere dal nome dell'istituzione che avrebbe accolto i documenti il riferimento al sionismo, troppo scopertamente nazionalista. La sua proposta fu respinta. (Nota: I primi film tedeschi proiettati in Israele vennero fatti passare per svizzeri o austriaci. Lo stesso accadeva a volte con i giornali e le riviste Alla fine del 1950 l'Ufficio censura del governo vietò a una famosa stella dell'opera straniera di cantare le arie di Mozart, Schubert e Brahms in tedesco. ) Dai documenti conservati negli archivi del ministero degli Esteri i primi diplomatici israeliani appaiono uomini riflessivi, dotati di notevole professionalità ma anche di parecchio snobismo intellettuale. Scrivevano relazioni lunghe, ampollose, infarcite di citazioni erudite e di sofisticate perifrasi. Molti erano originari dell'Europa centrale, alcuni della Germania e altri ancora dei paesi anglosassoni. Erano quasi tutti laureati, avevano spiccate capacità linguistiche e parlavano diverse lingue. Fra loro spesso corrispondevano in inglese o in francese, forse perché il loro ebraico non era altrettanto fluente o forse perché ritenevano che la vera diplomazia la si potesse condurre soltanto in una lingua europea. Oppure semplicemente perché non avevano a disposizione una macchina da scrivere e un telex con i caratteri ebraici. La loro esperienza diplomatica si limitava a quel poco che avevano acquisito durante il periodo del «futuro Stato», quando la forza del movimento sionista dipendeva dalla buona volontà e dal sostegno che riusciva a trovare presso l'opinione pubblica mondiale. I diplomatici dello yishuv erano inclini a stabilire una corrispondenza biunivoca con le aspirazioni del movimento sionista, prima fra tutte la fondazione dello Stato, e l'immenso debito morale che il mondo libero aveva nei confronti del popolo ebraico, soprattutto dopo l'Olocausto. Per mantenere viva la percezione di tale corrispondenza occorreva una diplomazia accorta, realistica,
razionale, che desse di sé un'immagine colta, democratica e amante della pace. Fu a questo modello che si ispirarono i primi diplomatici dello Stato di Israele: si consideravano persone di mondo, aperte, liberali, esenti da qualsiasi forma di estremismo. E, almeno in pubblico, erano tutti sostenitori del Mapai. Con questa mentalità affrontarono anche i rapporti con la Germania, rapporti che essi contribuirono ampiamente a stabilire, modellare e promuovere. Alla fine del 1950 Gershon Avner, direttore del dipartimento per l'Europa occidentale presso il ministero degli Esteri israeliano, pose a diversi alti funzionari il seguente quesito: «Quale atteggiamento deve tenere il nostro governo nei confronti della Germania in vista del suo imminente ingresso nella famiglia delle nazioni con l'appoggio dell'Occidente? Dobbiamo proseguire con il boicottaggio oppure cambiare strategia? La realtà politica richiede un cambiamento di strategia?». Iniziò così un lungo dibattito, caratterizzato in parte dall'ansia esistenziale e da un'ostilità che sconfinava nella vendetta, in parte dalla storiografia e dall'etica, ma soprattutto da un freddo pragmatismo. «Dobbiamo decidere immediatamente» scrisse al suo superiore a Gerusalemme Shlomo Ginossar, incaricato d'affari di Israele in Italia, «perché in questo momento sono i tedeschi a bussare alla nostra porta, ma fra poco non avranno più bisogno di noi e se vorremo la riconciliazione, allora saremo noi a doverli inseguire.... Se continueremo a tentennare, finirà che prima o poi ci rappacificheremo comunque con i tedeschi, e a quel punto non solo non ne ricaveremo alcun beneficio, ma saremo costretti a chiederlo come un favore dopo aver respinto le aperture odierne.» Mordecai Reginald Kidron, l'incaricato d'affari a Londra, aveva già espresso il suo parere qualche mese prima. Citando Karl Maria von Clausewitz, egli prevedeva che lo Stato libero di Israele avesse i giorni contati, che entro dieci-quindici anni la Germania avrebbe di nuovo «sguinzagliato i suoi cani» contro il popolo ebraico, completando l'opera di Hitler. La cosa triste, osservava, era che tutti ritenevano esatta la previsione, ma tutti tacevano e nessuno muoveva un dito. Toccava a Israele parlare: «Il mondo ha bisogno di un nuovo Geremia e dove possiamo trovarlo se non in Israele?». Anche Gideon Rafael, consigliere della delegazione israeliana presso le
Nazioni Unite, era oppresso dalla paura: lo spaventavano in particolare gli aiuti concessi alla Germania dagli Stati Uniti. «La politica americana nei confronti dei tedeschi ci porterà tutti alla distruzione» scrisse al proprio superiore, l'ambasciatore Abba Eban, «e noi, come rappresentanti di Israele, non abbiamo il diritto di chinare la testa di fronte a questo olocausto.» Eiyashiv BenHorin, del dipartimento per l'Europa occidentale presso il ministero degli Esteri, espresse la sua «repulsione a qualsiasi contatto con gli eredi dei nazisti» e sostenne che un ammorbidimento della politica di Israele verso i tedeschi sarebbe servito soltanto a incoraggiarli a non pagare le riparazioni di guerra. «Il professor [Louis] Namier ha intuito una verità profonda sul carattere tedesco, che non dobbiamo mai dimenticare: un tedesco, preso da solo, non è probabilmente molto diverso da un inglese, da un americano o da un cittadino di qualsiasi altra nazione civile. Il vero pericolo è quando si presenta come gruppo.» Questo paragrafo della lettera di Ben-Horin è stato omesso nella raccolta ufficiale dei documenti del ministero degli Esteri pubblicata nel 1988. A quell'epoca Ben-Horin era già stato ambasciatore israeliano in Germania. L'analisi più realistica dei rapporti con la Germania arrivò da Bruxelles, dall'incaricato d'affari israeliano nei paesi del Benelux, Michael Amir. «Poiché sono un eretico» esordì «esprimerò apertamente la mia opinione: la nostra politica nei confronti della Germania è sbagliata.» Vorrei esporre il mio pensiero senza riserve, e mi scuso se sarò troppo franco. Persistere nella linea dei paria e del boicottaggio significa persistere in una condotta nobile e altamente morale, ma donchisciottesca. Una lotta contro i mulini a vento. E' una strategia bella e coerente, che però non arreca nessun beneficio, ma soltanto danni. Non intendo dire che vadano stabiliti rapporti senza una contropartita. Quello che intendo dire è che la Germania, per espiare i crimini del regime di Hitler, ha interesse a negoziare con noi una dichiarazione che condanni l'ingiustizia perpetrata in nome del popolo tedesco contro il popolo ebraico nella sua interezza e che valuti le responsabilità morali e materiali del popolo tedesco nelle atrocità commesse dai suoi leader nei confronti del popolo ebraico. Sulla base di una simile dichiarazione, la Germania sarà certamente disposta a condurre trattative per un risarcimento completo. Non
mi si dica che vendo il sangue e mercanteggio su crimini di una crudeltà di cui non si è mai visto l'eguale.... Non prendo affatto alla leggera le riparazioni di una nazione nei confronti di un'altra, di uno Stato nei confronti di un altro. Nella fase decisiva che stiamo attraversando, le riparazioni potrebbero dare un grande contributo all'edificazione della nostra Terra. Scrivo queste note con animo molto combattuto. Rivedo con gli occhi della mente le tragiche file che marciano verso le camere a gas e mi chiedo, naturalmente, se io non stia prendendo le distanze da quei milioni di vittime. Ma alla fine torno sempre al pensiero espresso da [Ernest] Renan: «Chi vuole fare la storia, deve dimenticare la storia». Io non dimentico, ma lo Stato di Israele ha l'obbligo di adottare una politica realistica. ... Confesso senza alcuna vergogna che essa stride con le mie emozioni più profonde, tuttavia la politica non è una questione di emozioni. Walter Eitan, direttore generale del ministero degli Esteri, era dello stesso parere. Non si sarebbe raggiunto alcun risultato senza legami diretti con Bonn, scrisse. E' difficile stabilire la data esatta dei primi contatti ufficiali fra i due paesi. Alcuni storici la fissano al 30 dicembre 1951, giorno in cui il governo israeliano deliberò di intavolare le trattative per le riparazioni. Ma in realtà quella decisione era stata preceduta da una serie di contatti informali e semiufficiali. Le organizzazioni ebraiche statunitensi avevano cominciato dal 1941 a esaminare gli aspetti giuridici e politici implicati nella richiesta alla Germania delle riparazioni e dei risarcimenti. Alla fine della guerra, anche i dirigenti dell'Agenzia ebraica iniziarono a studiare la questione, valutando le proposte, i memorandum e i documenti che avevano ricevuto nel corso degli anni da giuristi ed economisti quasi tutti di origine tedesca, alcuni dei quali negli anni Trenta si erano specializzati nei negoziati per gli accordi sulla haavarah. Taluni scrivevano in tedesco e durante la guerra uno di essi aveva coniato un nuovo termine giuridico, dal suono complicato e dal significato conciliante: Wiedergutmachung, che letteralmente significa «rendere di nuovo buono», ossia raddrizzare i torti, rettificare. L'Agenzia ebraica era interessata soprattutto ai beni dei privati rimasti senza eredi e a quelli delle comunità scomparse: sinagoghe, yeshivah, miqweh (bagni rituali), scuole, biblioteche con manoscritti preziosi, gallerie d'arte,
ospedali, case di riposo, istituzioni caritatevoli, appartamenti, uffici. Non era facile trovare le motivazioni giuridiche per chiederne la restituzione, dal momento che quasi tutti erano stati espropriati in base alle leggi dell'epoca. Reperire i documenti per comprovare il diritto a certe proprietà era spesso un'impresa molto ardua e nessuno sapeva come valutarne il prezzo. Ma c'erano anche altri problemi. Gli ebrei non erano un'entità riconosciuta dal diritto internazionale e paradossalmente, siccome non figuravano fra le nazioni belligeranti, era difficile chiedere una restituzione collettiva durante le trattative di pace. Non si sapeva bene chi avesse l'autorità per avanzare le rivendicazioni dei danneggiati, per rappresentarli e ricevere l'indennizzo a loro nome. Su tale questione si arrovellarono dapprima l'Agenzia ebraica e poi lo Stato di Israele. Nel settembre del 1945 Chaim Weizmann chiese alle quattro potenze occupanti di assegnare all'Agenzia ebraica il diritto a tutte le proprietà degli ebrei rimasti senza eredi. Aveva calcolato che valessero 2 miliardi di sterline, circa 8 miliardi di dollari. Ma il denaro non era l'unica preoccupazione di Weizmann: egli voleva che gli alleati riconoscessero all'Agenzia il diritto di parlare a nome di tutto il popolo ebraico, dei vivi e dei morti, dei sionisti e dei non sionisti. (Nota: La distinzione fra i due termini riveste grande importanza. La parola ebraica che indica le riparazioni, shillumim, fu introdotta da Moshe Sharett, il quale la trasse dalla tradizione giuridica in cui il termine indicava il pagamento di un'ammenda a scopo punitivo. La parola ebraica che indica il risarcimento, pitsuim, denota invece il pagamento di un debito e il soddisfacimento della legittima richiesta a vedere corretta un'ingiustizia. Alcuni hanno ritenuto intercambiabili i due termini, ma in questo contesto il primo indica il denaro ricevuto dallo Stato di Israele, mentre il secondo riguarda l'indennizzo ricevuto dai singoli. Esiste poi un terzo termine, che viene usato per entrambi i casi, ed è «restituzione».) Le richieste non furono ben accolte: alla vigilia della battaglia decisiva per la Palestina, era impensabile che gli inglesi alzassero anche soltanto un dito per aumentare il potere dell'Agenzia ebraica.
La pretesa sionista di rappresentare tutti gli ebrei non piacque neppure ad altre organizzazioni ebraiche, in particolare a quelle statunitensi. Gli alleati approvarono solamente lo stanziamento di 25 milioni di dollari, da dividere fra l'Agenzia e le altre istituzioni benefiche ebraiche, a titolo di finanziamento delle loro attività umanitarie. E anche quella cifra fu erogata solo dopo molti anni. Finita la guerra, nello yishuv molti cominciarono a riallacciare i rapporti personali con i paesi d'origine. Gli yekke, in particolare, si recarono in Germania non appena fu possibile viaggiare, alcuni per affari, altri per andare a trovare gli amici. Dodici anni di regime nazista non erano bastati a cancellare i ricordi dell'infanzia e della giovinezza.* Alcuni yekke tornavano in Germania per restarci; altri invece volevano rintracciare le loro proprietà, riscuotere vecchi debiti, dare disposizioni per il pagamento della pensione o dell'assicurazione e chiedere i danni di guerra. Anche fra gli ebrei dell'Europa orientale ci furono alcuni che ignorarono l'invito al boicottaggio. Svolgevano i loro affari in lingua tedesca, a volte utilizzando contatti che avevano stabilito quand'erano nei campi profughi. Però chiedevano anche il risarcimento. E così la prima legge sui crimini nazisti discussa alla Knesset fu una legge di carattere tecnico, che mirava a facilitare le richieste di indennizzo. Era la legge sulla certificazione dei documenti (a scopi specifici): in base a questo provvedimento, i funzionari dell'Associazione immigrati dell'Europa centrale e di altre organizzazioni analoghe erano autorizzati ad autenticare i documenti personali dei richiedenti. Il ministro della Giustizia, Pinhas Rosen, stimava che la legge interessasse fra i 30.000 e i 50.000 israeliani, ciascuno dei quali avrebbe avuto bisogno nei quattro mesi seguenti di autenticare almeno tre documenti. «Il problema che dobbiamo risolvere è come affrontare questa enorme mole di carte nel più breve tempo possibile e con il minor costo per gli aventi diritto» spiegò. Un parlamentare dichiarò: «Se non fossimo così poveri, non saremmo costretti a raccogliere le briciole che ci vengono gettate». E un altro: «Nessuna somma di denaro e nessuna ideologia possono mondare dal sangue le mani dei tedeschi: i nostri conti con la Germania nazista non si chiuderanno con la richiesta e la concessione di un indennizzo». E tuttavia, nonostante le numerose
obiezioni, la legge fu approvata all'unanimità in dieci giorni nel dicembre del 1949. (Nota: Il filosofo Martin Buber accettò il premio Goethe assegnatogli dall'università di Amburgo. Spiegò che lo faceva per rispetto verso quei tedeschi che avevano combattuto per i princìpi dell'umanesimo. La sua decisione scatenò una tempesta sulla stampa e alla Knesset, tanto che Buber rinunciò ad andare in Germania a ritirare il premio. ) Nello stesso periodo Walter Eitan, direttore generale del ministero degli Esteri, scrisse al primo ministro: «Ho la sensazione che l'atteggiamento verso la Germania, imposto dall'onore israeliano, stia diventando meno fermo». Nel marzo del 1950 il ministro delle Finanze, Eliezer Kaplan, scrisse al ministro degli Esteri, Moshe Sharett: «Ritengo ... che dovremmo mandare qualcuno in Germania per i negoziati preliminari» sulle riparazioni e i risarcimenti. «Non credo che lo Stato possa affidare ad altri questo compito o rinviarlo, perché si tratta di proteggere gli interessi suoi e dei suoi cittadini.» La missione fu affidata a Kurt Mendelsohn, direttore del dipartimento delle dogane presso il ministero delle Finanze. Ufficialmente l'iniziativa partiva da Levi Eshkol, che a quell'epoca faceva parte dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica e non era ancora ministro. Il governo preferiva infatti non esporsi in prima persona, per non dare l'impressione di avere tradito l'onore israeliano. «Quando verrà il momento di trasferire fondi o beni, sarà l'Agenzia ebraica a esserne incaricata» dichiarò il ministro degli Esteri. Ma Mendelsohn arrivò a Bonn in missione ufficiale, la prima di questo genere, come rappresentante di Israele e incontrò il ministro delle Finanze tedesco, Fritz Schaffer. Mendelsohn presentò un memorandum molto dettagliato, ma i tedeschi gli diedero del filo da torcere. Per giunta sorsero dei contrasti con le altre organizzazioni ebraiche, che erano già arrivate a Bonn per chiedere le riparazioni. Qualche mese dopo, nell'estate del 1950, il presidente di Israele, Chaim Weizmann, si recò in vacanza a Bùrgenstock, sul lago di Lucerna, e prese alloggio nello stesso albergo in cui si trovava il cancelliere tedesco Konrad Adenauer. I due statisti si incrociarono
in giardino ma, con disappunto di Adenauer, Weizmann non aprì bocca. Il presidente, dichiararono i suoi collaboratori, quel giorno era indisposto. Parlarono invece l'assistente di Adenauer, Ernst Ostermann, e l'incaricato d'affari israeliano Shmuel Tuikowsky. L'israeliano voleva ragguagli sull'iter delle riparazioni e accennò, pare, al memorandum di Kurt Mendelsohn e ai successivi contatti fra i rappresentanti del World Jewish Congress e l'ufficio del cancelliere a Bonn. Ostermann promise di tenerlo informato. Passò qualche mese e Tuikowsky gli ricordò la promessa, scrivendo che «il governo israeliano, non appena ricevuta la risposta del governo della Repubblica federale tedesca, intendeva affrontare la questione direttamente con il cancelliere del vostro governo». La risposta di Ostermann fu evasiva. Il ministro degli Esteri Moshe Sharett non voleva credere ai propri occhi quando gli capitò fra le mani questa corrispondenza. «Ero sconvolto» scrisse a un funzionario del ministero. «Avevo davanti agli occhi una comunicazione ufficiale israeliana con la Germania e anche l'annuncio esplicito che eravamo disposti a intavolare negoziati diretti. Ma quando mai era stata decisa una cosa del genere?» Gli fu risposto che non ne era stato informato perché a quell'epoca si trovava all'estero. La lettera di Tuikowsky era stata inviata con l'avallo del direttore generale del ministero degli Esteri e con l'approvazione del ministro delle Finanze, Kaplan. Non c'era tuttavia stato nessun dibattito ufficiale sull'iniziativa. Non è escluso, però, che Sharett, superato lo sbigottimento iniziale, fosse contento. Qualche mese prima aveva infatti espresso le sue preoccupazioni in una lettera a Kaplan: «Ogni giorno si sente parlare dei progressi della Germania: politici, economici e morali. Il tempo gioca a nostro sfavore in questa faccenda e temo che il momento giusto sia già passato». Alla fine di dicembre del 1950 Moshe Sharett suggerì al governo di inviare in Germania una delegazione ufficiale con il compito di occuparsi delle riparazioni di guerra e dei risarcimenti. All'interno del gabinetto si delinearono due posizioni: il ministro dei Trasporti, Dov Yosef, era contrario a qualsiasi contatto con i tedeschi, anche a costo di rinunciare alle riparazioni. (Poco prima il cancelliere Adenauer, intervistato da un giornale tedesco in lingua ebraica, aveva parlato di una cifra ridicola, circa 10 milioni di marchi, vale a dire appena 2
milioni di dollari.) Il ministro degli Interni, della Sanità e dell'Immigrazione, Moshe Shapira, dichiarò invece che tutto dipendeva dalla somma in palio: non valeva la pena sporcarsi le mani per una miseria, ma se l'ammontare fosse stato consistente, allora forse ci si poteva pensare. Il dibattito si stava surriscaldando. All'improvviso intervenne Ben Gurion: perché, chiese, non dichiariamo guerra alla Germania, con valore retroattivo, a partire dal giorno della proclamazione dello Stato di Israele (fondato nel 1948, tre anni dopo la resa della Germania)? Naturalmente era una delle sue tante provocazioni, ma servì a scuotere il direttore generale del ministero degli Esteri, il quale tentò subito di persuadere il premier a riporre l'ascia di guerra in attesa che venissero chiariti gli aspetti giuridici della questione. Il gabinetto bocciò la proposta di inviare una delegazione in Germania e diede invece istruzioni al ministro degli Esteri di rivolgere la richiesta delle riparazioni alle potenze occupanti. Nel gennaio del 1951 Israele fece appello agli Stati Uniti, all'Unione Sovietica, alla Gran Bretagna e alla Francia perché imponessero alla Germania il pagamento di un miliardo e mezzo di dollari per i danni di guerra. Washington, Londra e Parigi risposero cortesemente che stavano facendo il possibile e suggerirono a Israele di mettersi in contatto diretto con la Germania. Mosca tacque. In marzo Israele scrisse di nuovo alle tre potenze occidentali, ma a luglio, quando finalmente arrivò la risposta, le relazioni fra gli ebrei e i tedeschi avevano subito una svolta. Nel pomeriggio del 19 aprile 1951 giunsero all'Hotel Crillon di Parigi due funzionari del governo israeliano. David Horowitz, che era allora direttore generale del ministero delle Finanze e fu poi governatore della Banca di Israele, e Maurice Fischer, l'incaricato d'affari israeliano in Francia, arrivarono e se ne andarono separatamente per non dare nell'occhio. La persona con cui erano venuti a colloquio si impegnò, in conclusione della riunione, a rispettare la condizione posta da Israele, ossia a smentire la notizia dell'incontro qualora la stampa ne avesse avuto sentore. Sempre per questioni di riserbo, Fischer consigliò ai propri superiori di non pretendere una relazione scritta, ma di aspettare che tornasse Horowitz a riferire di persona. L'incontro era stato approvato dal governo, ma Ben Gurion, stando alla testimonianza
lasciata da Horowitz nelle sue memorie, gli aveva chiesto di non rivelare ai ministri del suo gabinetto il contenuto delle conversazioni. Come sempre, ci fu una fuga di notizie. «Tutte le voci che circolano sulla questione sono false» mentì Moshe Sharett, e la stampa non insistette. La storia aveva dell'incredibile: l'uomo con cui David Horowitz e Maurice Fischer si erano incontrati al Crillon era il cancelliere Konrad Adenauer. Era la prima riunione a così alto livello fra i rappresentanti dei due paesi e costituì un passo decisivo verso la riconciliazione fra la nazione ebraica e quella tedesca. Gli israeliani chiesero un miliardo e mezzo di dollari per le riparazioni. I colloqui si svolsero in lingua tedesca, in un'atmosfera tesa, ricorda Horowitz. Adenauer disse di volere in qualche modo rimediare alla grande ingiustizia commessa dai tedeschi contro gli ebrei. Non esisteva compensazione che potesse cancellarla, fu la replica di Horowitz. Durante tutto il colloquio egli mantenne, come gli era stato ordinato, un atteggiamento calmo, riservato, non ostile. Prima che i due paesi potessero avviare le trattative finanziarie, dichiarò, la Germania doveva condannare i crimini nazisti. Il cancelliere rispose che quei crimini li aveva condannati già diverse volte, ma Horowitz voleva un atto di contrizione ufficiale «in un contesto solenne». Adenauer non fece resistenza: «Sarà fatto» dichiarò, e aggiunse che il suo paese desiderava aiutare Israele. Ma Horowitz lo interruppe. Non era venuto a chiedere aiuto: era venuto a chiedere la restituzione dei beni sottratti agli ebrei, che avevano un valore ben superiore alla somma richiesta da Israele. I tedeschi avevano già manifestato la loro disponibilità a trattare sulla base della cifra indicata dagli israeliani. Adenauer non si tirò indietro, però evitò di pronunciarsi apertamente. Fischer ebbe la sensazione di avere di fronte un uomo freddo, calcolatore. Il vecchio tedesco cercò, tuttavia, di dare una dimostrazione di buona volontà: invitò diverse volte gli ospiti a non avere fretta di andarsene; disse che alcuni dei suoi migliori amici erano ebrei e che lui personalmente ne aveva salvato uno. Horowitz reagì con un gelido silenzio. «Avevo ricevuto istruzioni di mantenere un atteggiamento orgoglioso e onorevole, di lottare in difesa delle nostre richieste, ma di non umiliarci e di evitare che i negoziati degenerassero in patteggiamenti» ha scritto nelle sue memorie, Il 27 settembre 1951 il cancelliere Adenauer
rese una dichiarazione di portata storica. L'opinione pubblica mondiale, disse al Bundestag di Bonn, continua a interrogarsi sull'atteggiamento della Repubblica federale nei confronti degli ebrei. «Sono stati sollevati qua e là dei dubbi riguardo al fatto che il nuovo Stato sia stato guidato, in tale questione di importanza fondamentale, da princìpi che rendano giustizia agli spaventosi crimini del passato e pongano su una base nuova e integra le relazioni degli ebrei con il popolo tedesco.» In Germania gli ebrei erano cittadini come tutti gli altri: così voleva la Costituzione, che vietava discriminazioni di tipo etnico, razziale, religioso e di qualsiasi altro genere. La Repubblica federale aveva firmato la Convenzione europea sui diritti umani, ma le leggi da sole non bastavano, dichiarò il cancelliere. Bisognava educare il popolo alla tolleranza umana e religiosa. Per impedire che questo processo educativo venisse turbato, il governo aveva pertanto deciso di combattere «i circoli ancora impegnati in manifestazioni antisemite». Adenauer parlava da una decina di minuti ed era più o meno a metà del suo discorso, quando dichiarò: Il governo della Repubblica federale, e con esso la stragrande maggioranza del popolo tedesco, è consapevole delle incommensurabili sofferenze inflitte durante l'epoca del nazionalsocialismo agli ebrei in Germania e nei territori occupati. La stragrande maggioranza del popolo tedesco aborriva i crimini di cui gli ebrei erano vittime e non vi ha partecipato. Durante il regime nazionalsocialista molti tedeschi hanno dimostrato la loro disponibilità ad aiutare i connazionali ebrei a proprio rischio e pericolo, spinti dalla religione, dalla coscienza, dalla vergogna per come veniva deturpato il buon nome della Germania. Ma in nome del popolo tedesco sono stati commessi crimini inenarrabili, che richiedono una riparazione sul piano morale e materiale, sia per il male subito dai singoli ebrei, sia per i danni apportati alle proprietà per le quali non esistono tuttora eredi legittimi. I primi passi in questo senso sono già stati compiuti, ma resta ancora molto da fare. La Repubblica federale si adopererà affinchè la legislazione sulle riparazioni venga al più presto approvata e applicata con equità. Una parte dei beni ebraici identificati è stata restituita; altre riparazioni seguiranno. Poi il cancelliere formulò una riserva. Non si
poteva considerare soltanto la grande ferita inferta ai «valori del giudaismo»: bisognava tener conto anche della capacità della Germania di pagare, poiché ora il paese doveva prendersi cura delle vittime della guerra e dei tantissimi profughi ed esiliati che avevano trovato rifugio sul suo territorio. La Repubblica federale era disponibile a trovare una soluzione al problema della restituzione materiale «congiuntamente ai rappresentanti del popolo ebraico e dello Stato di Israele, che ha accolto tantissimi rifugiati ebrei». Era l'atto di contrizione ufficiale «in un contesto solenne», che Horowitz aveva chiesto a Adenauer cinque mesi prima. Il Bundestag espresse il proprio assenso alzandosi in piedi e osservando qualche istante di silenzio in memoria delle vittime del nazismo. Adenauer aveva scelto le parole una a una e, come si seppe una generazione dopo, quando vennero aperti gli archivi diplomatici israeliani, non le aveva scelte da solo. Alcune le aveva dettate Gerusalemme. Il cancelliere aveva inviato la bozza del suo discorso a Maurice Fischer, a Parigi, tramite un messaggero speciale, Jacob Altmeier, un deputato socialdemocratico ebreo, che aveva collaborato a organizzare l'incontro fra Adenauer, Fischer e Horowitz. Fischer, a sua volta, aveva trasmesso la bozza a Nahum Goldmann, il presidente del World Jewish Congress. Goldmann aveva chiosato il documento con la matita rossa, come un insegnante con i compiti degli allievi, e poi l'aveva inviato a Gerusalemme, dove aveva subito altre correzioni per essere infine restituito a Bonn da Fischer. Ovviamente Gerusalemme attribuiva grande importanza alla dichiarazione. «E' ormai fuor di dubbio che il governo opterà per i negoziati diretti, se appena la dichiarazione offrirà qualche appiglio che gli permetta di non perdere la faccia» scrisse all'ambasciatore israeliano a Washington il direttore del dipartimento per l'Europa presso il ministero degli Esteri. «Il primo ministro, il ministro delle Finanze, il ministro degli Esteri e anche altri sono certi che la decisione verrà presa, ma soltanto dopo la dichiarazione. E' pertanto essenziale che la dichiarazione sia la migliore possibile.» L'ambasciatore israeliano a Washington ricevette istruzioni perché chiedesse agli americani di esercitare pressioni su Adenauer. David Ben Gurion aveva assolutamente bisogno della dichiarazione di Adenauer per giustificare agli occhi dell'opinione pubblica
l'apertura delle trattative con la Germania. Egli chiese perciò che il cancelliere riconoscesse le colpe del popolo tedesco e annunciasse esplicitamente la volontà della Germania di indennizzare lo Stato di Israele e il popolo ebraico. Adenauer rifiutò di dichiarare che la nazione tedesca era colpevole dello sterminio degli ebrei: in una delle prime bozze aveva già respinto con decisione la tesi della colpa collettiva. L'unica concessione che gli israeliani riuscirono a strappargli fu che i tedeschi erano responsabili dei crimini «commessi in [loro nome». Nella stessa bozza Adenauer aveva anche affermato che la Repubblica federale collaborava alla difesa dell'Occidente contro il comunismo. Il ministro degli Esteri israeliano suggerì di annacquare l'affermazione. «Ci metterà in difficoltà qui in patria» osservò un alto funzionario, pensando ai partiti della sinistra stalinista, il Mapam e il Maki. La frase fu espunta dalla versione definitiva, nella quale Adenauer si diceva pronto a intavolare negoziati con «rappresentanti del popolo ebraico», senza nominare Israele, riferimento che fu inserito a Gerusalemme. Ogni parola fu soppesata attentamente: Adenauer parlava dell'uccisione di persone, Gerusalemme e il World Jewish Congress chiesero che si dicesse di «persone innocenti». Adenauer affermava che la maggioranza del popolo tedesco «non aveva voluto partecipare in alcun modo» ai crimini dei nazisti, come sapeva «chiunque non ragionasse in base a preconcetti»; Gerusalemme cancellò entrambe le frasi, e anziché «non aveva voluto» suggerì un'espressione più vaga, «aveva aborrito» i crimini nazisti, che fu accolta. Gerusalemme non desiderava che Adenauer parlasse genericamente di «circoli» ancora coinvolti in manifestazioni antisemite, ma che dicesse esplicitamente che si trattava di «gruppi». Bonn respinse la richiesta ma rinunciò a usare l'espressione «cerchie ristrette», com'era nelle sue intenzioni. Una delle bozze giunte a Gerusalemme parlava di crimini commessi nei «territori occupati dall'esercito tedesco»: le parole «esercito tedesco» furono cancellate (per venire incontro, secondo il ministro degli Esteri israeliano, al desiderio di quanti volevano minimizzare le colpe dell'esercito nazista). Gerusalemme chiedeva le riparazioni non soltanto per le proprietà degli ebrei, ma anche «per il male che era stato fatto in generale al popolo ebraico». La richiesta fu
respinta. Adenauer affermava che purtroppo il suo paese avrebbe potuto pagare soltanto in base alle proprie capacità, che erano limitate, ma Israele ottenne l'espunzione dell'aggettivo «limitate». Bonn suggeriva che restava ancora «molto da fare» nella restituzione dei beni ai loro legittimi proprietari, Gerusalemme proponeva «quasi tutto da fare». Alla fine si accordarono su «moltissimo». Ci furono versioni su versioni, ciascuna corretta, riformulata e ancora corretta: «Spero che il "Grande Capo" a Bonn l'accetti» scrisse Nahum Goldmann a Moshe Sharett. In agosto cominciò a delinearsi un testo che a un funzionario del ministero degli Esteri parve migliore del previsto. Ormai si riteneva imminente la dichiarazione del cancelliere: Gerusalemme aveva già preparato la bozza del comunicato, in gran parte favorevole, da rilasciare alla stampa subito dopo il discorso di Adenauer al Bundestag. Ma anche il «Grande Capo» subiva pressioni e la versione del suo discorso sembrò peggiorata a Israele. Due giorni prima che Adenauer si rivolgesse al Bundestag, Ben Gurion annotò nel diario: «C'è una modifica nella dichiarazione di Adenauer. Non intende parlare di colpa e di responsabilità». Walter Eitan inviò d'urgenza un cablogramma al console israeliano a Monaco: «La prego di attenersi alla prima bozza e notificare che, se la dichiarazione non sarà rivista, non possiamo garantire una reazione favorevole da parte del governo israeliano e dell'ebraismo mondiale. Tutto sommato, una reazione favorevole è nell'interesse dei tedeschi». Anche il ministero degli Esteri israeliano cominciò a redigere una nuova versione: «Aggiungiamoci qualche considerazione di carattere morale» suggerì il direttore generale del dicastero. Le pressioni dell'ultima ora ebbero effetto. Adenauer tornò alla posizione precedente. Israele reagì con freddezza: il ministero degli Esteri, disse con un tocco di ironia, avrebbe, forse, «studiato la dichiarazione». «Vi è qualche dubbio sul fatto che la dichiarazione sia improntata a un vero pentimento» scrisse «Haaretz». All'inizio del dicembre 1951, a Londra, Nahum Goldmann e Adenauer si incontrarono per la prima volta. Goldmann era il presidente della Conference on Jewish Material Claims, vale a dire la Conferenza ebraica per la richiesta dei danni materiali nei confronti della Germania, una federazione di associazioni che agiva
in collaborazione con il governo israeliano. La Claims Conference, come finì per essere chiamata, si proponeva di rappresentare presso il governo tedesco i diritti dei singoli cittadini ebrei di qualsiasi parte del mondo. Goldmann non era dunque lì per sostenere le richieste di Gerusalemme, ma ottenne comunque da Adenauer una lettera in cui si dichiarava che la Germania era disposta a negoziare sia con la Claims Conference, sia con il governo israeliano: «L'onore del popolo tedesco esige che esso faccia tutto il possibile per compensare il popolo ebraico delle ingiustizie perpetrate nei suoi confronti» diceva il documento, alla cui stesura aveva collaborato lo stesso Goldmann. La Germania avrebbe accolto con favore la possibilità di contribuire alla costruzione dello Stato di Israele fornendo merci, scrisse il cancelliere, e aggiunse che i negoziati fra i due paesi sarebbero avvenuti sulla base delle lettere presentate da Israele alle potenze occupanti all'inizio del 1951 (vale a dire a partire dalla richiesta di un miliardo e mezzo di dollari di indennizzo). Adenauer, così riferisce Goldmann, sentiva alitare su di sé il vento della storia. Il cancelliere tedesco, che era un cattolico fervente e non era mai stato nazista, si trovava nella posizione invidiabile di uno statista la cui coscienza e i cui principi etici coincidevano perfettamente con gli interessi politici del paese che rappresentava. I trattati sulle riparazioni e il risarcimento con Israele e il popolo ebraico avrebbero aiutato la Germania a reinserirsi nella famiglia delle nazioni. Molti israeliani si trovavano nella situazione esattamente opposta: gli interessi del paese erano in conflitto con la loro coscienza. Il 13 dicembre si riunì a Tel Aviv il comitato centrale del Mapai. Tutto era pronto per i negoziati con la Germania. Mancava soltanto il consenso degli israeliani, che ovviamente non poteva essere ottenuto con il silenzio. «E' il costo che si è costretti a pagare per l'inefficienza della democrazia» commentò in seguito Moshe Sharett. Gli esponenti del comitato centrale erano arrivati già convinti a votare in maggioranza a favore dei negoziati e nessuno cambiò opinione dopo il dibattito. Qualcuno espresse preoccupazione per il giudizio delle generazioni future: «Non voglio che nella storia ebraica e mondiale si scriva che la Germania ci ha indennizzati, così come non accetto la legge della Torah che prevede un risarcimento al padre se la figlia viene
violentata» dichiarò il presidente della Knesset, Yosef Sprinzak. «E' un'assurdità morale.» Temeva che i negoziati danneggiassero anche l'immagine del partito. Il Mapai, disse, avrebbe fatto una figura migliore se i suoi rappresentanti alla Knesset avessero avuto la libertà di votare secondo coscienza e non soltanto a favore delle riparazioni. Altri guardavano con timore a quanto la stampa avrebbe detto su quel dibattito, che in teoria avrebbe dovuto essere segreto. Ben Gurion li tranquillizzò: non era il caso di preoccuparsi dei giornali, tanto quasi tutto quello che scrivevano non era altro che «demagogia». E invece avrebbero fatto bene a preoccuparsi. Alcuni giornali, in particolare il conservatore «Herut» e il comunista «Kol Haam», erano vicini ai partiti di opposizione, contrari ai negoziati con la Germania. Ma anche altri quotidiani, come gli indipendenti «Yediot Aharonot» e «Maariv», condussero una violentissima campagna antitedesca. «Che cosa dirò ai miei cari, bruciati nei forni, assassinati, quando verranno a visitarmi la notte, come fanno sempre?» si chiedeva Azriel Karlebach, caporedattore di «Maariv». I giornalisti infarcirono i loro articoli di richiami biblici, come ai tempi dell'Olocausto; citarono poesie, raccontarono scene della vita nei villaggi dell'Europa orientale e fecero ricorso a tutti i trucchi del mestiere per fomentare i sentimenti antitedeschi. «Come farò a sopportare la vergogna quando il mio paese mostrerà a tutte le nazioni il suo vero volto: un negozio dagli scaffali vuoti, con soltanto un'urna contenente le ceneri dei martiri in un angolo, e anche quella in vendita?» scrisse lo stesso Karlebach. «E dove nasconderò la mia vergogna quando quell'unico cliente, entrato per caso, esiterà a comperare le ceneri di mio padre e una mano lesta estrarrà da sotto il banco le polverose tavole della Legge, ne toglierà il frammento su cui sta scritto "Tu non ucciderai!" e lo porgerà con mano tremante al goy ubriaco, pregandolo di avere pietà e di acquistarlo?» E il direttore di «Maariv»: «Sorgerà nel mondo un vero movimento per la pace, che garantirà la pace in Europa, cancellando la Germania dalla faccia della terra». Il dibattito al comitato centrale del Mapai andava avanti da ore e molti si stavano spazientendo. Alcuni chiesero di votare subito, altri se ne andarono. Eppure fu un dibattito franco ed esauriente. Tutti gli intervenuti espressero liberamente i loro pensieri e le loro emozioni.
Sollevarono questioni politiche ed etiche, considerarono le necessità del paese e le esigenze della coscienza, l'onore e l'utilità, il sentimento e la ragione. Tutti citarono la Bibbia, chi ricorrendo al versetto del Deuteronomio «Ricordati di ciò che ti ha fatto Amalec», chi al versetto del primo libro dei Re «Hai assassinato e ora usurpi?». Su un piatto della bilancia c'era la loro identità di ebrei e sull'altro la loro identità di israeliani. Alcuni si interrogarono sul da farsi scavando nella propria esperienza di vittime del nazismo. Ma si scontrarono con un'altra antitesi: il passato chiedeva alle vittime sia l'impegno a ricordare, sia l'impegno a garantire un futuro agli ebrei. Il Mapai era un partito di centro: il dibattito che si svolse nel suo comitato centrale era lo specchio delle opinioni della maggioranza degli israeliani. I due avversari più decisi dell'accordo sulle riparazioni, Meir Dworzecki e Arieh Sheftel, erano entrambi superstiti dell'Olocausto. Il deputato Sheftel ricordò ai colleghi della Knesset la vita nel ghetto: Nel ghetto di Vilnius, quando la temperatura d'inverno scendeva a meno 39 gradi, quando gli ebrei morivano per strada di freddo e di fame, i tedeschi ci portarono i vestiti di centinaia di migliaia di assassinati e ci dissero: Su, prendeteli e coprite la vostra nudità. I rappresentanti degli ebrei rifiutarono quegli indumenti macchiati del sangue dei loro fratelli. C'ero anch'io alla riunione, e c'erano Dworzecki e molti altri, e abbiamo detto: non accetteremo questo ... perché approfitteranno di noi quando ci daranno i vestiti. ... Volevano fotografarci con addosso i panni dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. ... Sì, lo so, è irrazionale. Dopo la guerra c'è stato un altro evento irrazionale. Nel campo di Treblinka i cercatori d'oro cominciarono a frugare fra i resti umani in cerca di anelli. Gli ebrei di Polonia andarono a protestare presso il governo polacco, e Treblinka fu recintato e l'oro sepolto nella terra non fu toccato. (Nota: Il profeta Samuele ordinò in nome di Dio al re Saul di uccidere tutti gli amaleciti per quello che avevano fatto ai figli di Israele: «Va' dunque e colpisci Amalec e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini». Ma Saul e il suo popolo ebbero pietà di Agag, il re degli
amaleciti, e, desiderandone la ricchezza, risparmiarono «il meglio del bestiame minuto e grosso, gli animali grassi e gli agnelli, cioè tutto il meglio». Samuele uccise Agag con le sue mani, mentre Saul, per il suo peccato, fu privato del regno. Il peccato di Saul, la disobbedienza dettata dall'ingordigia, e l'ammonimento «Ricordati di ciò che ti ha fatto Amalec» risuonarono spesso durante il dibattito sull'apertura delle relazioni con la Germania, così come l'accusa «Hai assassinato e ora usurpi?», che il profeta Elia scagliò contro re Acab, il quale, dopo aver ucciso Nabot di Izreel, ne prese la vigna (Deuteronomio 25,17; Samuele, 15; I Re, 21). Mentre l'ordine di Samuele veniva usato per invocare vendetta, l'ingiunzione di Elia stava a significare: ora che i tedeschi hanno ucciso tutti gli ebrei, si dovrà permettere che ne traggano anche profitto, tenendosi tutte le loro proprietà?) E' il massimo dell'irrazionalità, ma è una vicenda storica e morale. Dworzecki, medico e storico, era stato prigioniero in un lager in Estonia ed era uno dei partigiani del ghetto di Vilnius. Quasi tutta la sua famiglia era stata sterminata. «Se mi chiedete che cosa voglio dai tedeschi» disse «la mia risposta è: una madre per ogni madre, un padre per ogni padre, un figlio per ogni figlio. La mia anima sarebbe in pace se sapessi che ci sono sei milioni di tedeschi morti come sono morti sei milioni di ebrei. Se non siamo in grado di fare questo, allora dobbiamo compiere un gesto simbolico che susciti un dolore pari al dolore del sangue: sputiamogli in faccia.» David Ben Gurion perse la pazienza. Il suo sfogo fu rivelatore: avete la mentalità del ghetto, disse a chi era contrario alle riparazioni. Gli Stati sovrani si occupano della sicurezza, del potere economico e del benessere dei loro popoli e «non sputano in faccia a nessuno». Poi affrontò una a una tutte le questioni controverse. L'onore della nazione: Io vedo l'onore della nostra nazione nell'esistenza dello Stato d'Israele. Vedo l'onore della nostra nazione nell'avere portato qui dal loro fosco e spaventoso esilio 50.000 ebrei yemeniti. E' questo l'onore nazionale. Se l'onore nazionale consiste nello sputare e protestare, quell'onore io lo disprezzo. Konrad Adenauer: Non intendo essere il garante di Adenauer. Può darsi che ci imbrogli. Volete da me la garanzia della sua onestà? Ma perché
dovremmo rinunciare a ciò che è nostro? La vendetta: Se potessi impadronirmi dei beni dei tedeschi senza sedermi un solo istante con loro, andando nei magazzini con le jeep e le mitragliatrici, lo farei; se avessimo per esempio cento divisioni da mandare, dicendo «prendeteli». Ma non le abbiamo, e anche se ce le avessimo, le userei per prima cosa contro l'Iraq. Ma non posso fare neanche questo. Non si può fare tutto. Nemmeno i russi e gli americani possono fare quello che vogliono. L'opposizione: I nostri avversari politici... vogliono far cadere il governo, ma io so che faranno cadere anche il paese. Però a loro non importa che cada il paese, purché cada il governo. Amalec: Se la nazione degli amaleciti esistesse ancora e avesse le università, gli ebrei ci andrebbero a studiare. Io non intendo mettermi a discutere con il profeta Samuele per stabilire se Agag aveva ragione o torto. Ma «cancellate la memoria di Amalec» è un versetto senza senso per noi. Credete che siano questi gli esempi che ci servono adesso? La memoria: Quello che dobbiamo dire su ciò che ci hanno fatto lo diremo se sarà necessario. E non credo che ne sentiremo il bisogno giorno e notte. E comunque ... meglio stare zitti per un po', perché ... se lo ripeterete troppo spesso, il mondo si stancherà di voi, e il mondo include anche gli ebrei. Se nascerà un nuovo Geremia, dirà quello che deve dire. Alcuni chiesero di lasciare libertà di voto ai deputati della Knesset, indipendentemente dalle deliberazioni del comitato centrale. Il presidente, Meir Argov, si accorse subito del pericolo. «Sono contrario» dichiarò. «Fino alla decisione [del comitato centrale], libertà. Dopo la decisione, no.» E motivò la sua opposizione: «Se non imponiamo a noi stessi la disciplina di partito, la nostra mozione non passerà alla Knesset». Ben Gurion aveva lo stesso timore, ma si dimostrò più pragmatico. Pur non condividendo «assolutamente», come affermò, quei sentimenti, era suo dovere rispettarli, perché nascevano dal cuore. Perciò lasciò liberi i compagni di partito di non partecipare alle sedute in Parlamento, purché con la loro assenza non mettessero a repentaglio l'esito finale. Non avrebbe permesso a nessuno, dichiarò, di sconfiggere il popolo ebraico, il paese, il governo. Con quarantadue voti favorevoli e cinque contrari, il comitato centrale approvò i negoziati con la Germania. Alla fine di dicembre, anche il
Consiglio dei ministri diede il proprio assenso e la questione passò all'esame della Knesset.
CAPITOLO XI «GAS CONTRO GLI EBREI» Nelle settimane successive il paese fu percorso da ondate di dissenso. Forse la coalizione di governo, guidata dal Mapai, sarebbe riuscita a ottenere la maggioranza alla Knesset, ma era impossibile averne la certezza. Molti partiti erano divisi al loro interno e cresceva continuamente il numero dei parlamentari che chiedevano di essere lasciati liberi di votare secondo coscienza. In un simile contesto le lobby e i gruppi di pressione spuntavano come funghi e si moltiplicavano i comizi, i raduni e le manifestazioni di protesta. I muri erano tappezzati di manifesti e i giornali di pagine pubblicitarie a pagamento. Fioccavano gli appelli agli intellettuali perché si schierassero. Il partito di sinistra, il Mapam, invitò i partigiani e i combattenti del ghetto, fra cui personaggi mitici come Antek Zuckerman, Tzivia Lubetkin e Haike Grossman, a opporsi alle trattative con la Germania, avversate anche da alcuni poeti e scrittori come Moshe Shamir e Avraham Shionsky. Una delegazione di scrittori e personalità di spicco fu ricevuta da Ben Gurion, il quale dichiarò di non avere con loro alcun dissenso sul piano etico, ma soltanto su quello pratico. Il poeta Natan Alterman corse a dar manforte ai sostenitori dei negoziati e anche Martin Buber giudicò benefici i legami fra i due paesi. Nessuno dei due intellettuali, tuttavia, pareva del tutto convinto di essere nel giusto. Entrambi riconoscevano la necessità delle trattative, ma non la loro validità sul piano morale. Un'ambivalenza analoga si coglieva nelle pagine del quotidiano moderato e indipendente «Haaretz» e persino in «Davar», che era finanziato dalla Histadrut e di solito esprimeva il punto di vista del Mapai. Poco prima del dibattito alla Knesset, «Maariv» condusse un'inchiesta per contrastare la richiesta di plebiscito avanzata dal partito di destra, l'Herut. Il giornale allegò alle sue pagine un questionario, pregando i lettori di compilarlo e consegnarlo all'edicolante o di spedirlo alla redazione in una busta già affrancata, specificando nome e indirizzo. Il questionario era
composto da un'unica domanda, ripetuta due volte affinchè potesse partecipare «il coniuge o un'altra persona»: chiedeva se erano favorevoli o contrari ai negoziati diretti con la Germania. Arrivarono, a detta di «Maariv», 12.000 risposte: le negative erano l'ottanta per cento. Una settimana prima del dibattito in aula, il deputato Menahem Begin invitò con un comunicato gli elettori dell'Herut ad «arruolarsi per lottare» contro i negoziati: «Siamo decisi a bloccare questo spaventoso complotto con l'aiuto delle masse». Il grande scenografo della politica israeliana organizzò con molta cura la battaglia, studiando ogni mossa, ogni intervento e riservando a se stesso il ruolo del protagonista. Recitò la scena madre il giorno in cui, sotto una pioggia torrenziale, tenne un comizio davanti a una grande folla a Gerusalemme , e definì Ben Gurion «un piccolo despota e un grande maniaco». Begin era un uomo relativamente nuovo nella politica israeliana: era giunto nel paese soltanto nel 1942, mentre Ben Gurion viveva in Palestina dal 1906, cioè da sette anni prima che Begin nascesse. Ben Gurion era stato uno dei primi pionieri socialisti, mentre Begin era semplicemente un soldato dell'Esercito libero polacco ed era poco più di un rifugiato. Aveva studiato legge a Varsavia, diretto il Betar in Polonia ed era stato rinchiuso per due anni in un campo di prigionia sovietico. Prima della nascita dello Stato di Israele era stato a capo dell'Irgun e aveva partecipato a numerosi attentati terroristici contro gli inglesi. Dopo l'indipendenza, l'Irgun si era trasformato in un partito, l'Herut, che era il portabandiera del movimento revisionista di Jabotinsky, la nemesi dei sionisti laburisti. Begin era un grande oratore, I parlava con la scioltezza e i modi suadenti della borghesia polacca e aveva la mentalità del leguleio. Però sapeva anche infiammare gli animi con arringhe populiste e viaggiava sempre circondato da guardaspalle in divisa. Faceva appello al patriottismo del suo uditorio e ne sfruttava gli istinti sciovinistici. Era insomma un demagogo, che amava il gesto solenne e il simbolismo storico, ma non era un fascista, come invece l'accusavano i suoi avversari e come qualche volta dava lui stesso l'impressione di essere. Al tempo in cui ricoprì la carica di primo ministro, Begin aveva già dato un contributo importante al consolidamento della democrazia parlamentare israeliana.
Condurre un'opposizione leale contro Ben Gurion non era facile: nel Mapai molti non distinguevano fra il partito e lo Stato, e consideravano qualsiasi tentativo di strappare il potere al primo un attacco al secondo. Nel periodo di cui ci stiamo occupando, Begin non costituiva affatto una minaccia politica o ideologica per il Mapai, riteneva però di sapere difendere meglio degli avversari l'onore della nazione. Per il Mapai e per tutta la generazione dei padri fondatori dello Stato di Israele una simile pretesa equivaleva a una bestemmia e costituiva il peggiore insulto. Begin, d'altra parte, non andava troppo per il sottile: tacciava di «collaborazionismo con gli inglesi» l'egemonia del Mapai nello yishuv e di collaborazionismo con i nazisti la haavarah. Accusava il Mapai di avere svenduto agli arabi, dopo la fondazione dello Stato, luoghi che erano sacri a tutti gli ebrei, come il Muro del pianto e la città vecchia di Gerusalemme. E aveva già cominciato a mettere le mani sulla memoria dell'Olocausto: il Mapai, affermava, non aveva salvato gli ebrei d'Europa. A dire il vero, in Palestina durante il genocidio c'era anche Begin, il quale però riuscì, non si sa bene come, a dare l'impressione di essere venuto da «là». E ogni tanto alludeva al padre annegato nel fiume Bug dai nazisti. Ben Gurion lo disprezzava. Qualche giorno prima del dibattito alla Knesset, l'Herut rilasciò alla stampa un comunicato nel quale definiva «traditrici» tutte le mani che si sarebbero alzate per votare a favore dei negoziati con la Germania. «Qualunque decisione venga presa» minacciò «la nazione non si riconcilierà» con chi avrebbe votato per la Germania. In un comizio a Tel Aviv, Begin gridò: «L'avviso, signor Ben Gurion, l'avviso pubblicamente! Se oserà fare questo, sappia che ogni ebreo penserà: "Se in Israele è permesso questo, tutto è permesso"». Fra le righe dei suoi discorsi serpeggiava l'invito alla rivolta, cosa di cui Begin era perfettamente consapevole. Il suo obiettivo era ricreare il clima dei tempi in cui era comandante dell'Irgun e, per raggiungerlo, doveva portare l'opinione pubblica a identificare il governo di Israele con il disprezzato regime britannico, che egli era solito paragonare a quello nazista. In seguito cominciò a chiamare nazista anche il Mapai e definì i negoziati con la Germania un «olocausto». I manifesti del suo partito gridavano dai muri: «Le ossa dei nostri genitori martiri al mercato del sangue
Nazi-Mapai». I soldi impuri del «branco di lupi teutonici», profetizzava Begin, sarebbero serviti a rimpinguare le casse del Mapai, com'era accaduto con la haavarah negli anni Trenta. «Agendo nel nome di tutti noi,» urlò nella piazza di Tel Aviv «nel nome di mio padre, nel nome di vostra madre, nel nome di suo figlio, nel nome dei sei milioni massacrati e bruciati, loro, gli uomini del potere, dicono a Adenauer e al suo governo: dateci il cinque per cento delle proprietà ebraiche [per fondare] un'altra Solel Boneh [una società di proprietà della Histadrut].» Le riparazioni tedesche erano concepite come un indennizzo per le proprietà strappate agli ebrei dai nazisti e per i danni fisici ed economici subiti dai superstiti dell'Olocausto, ma Begin voleva far credere che fosse una sorta di ammenda per i massacri compiuti: «Il denaro per le riparazioni e' intriso di sangue ebraico.» proclamò l'herut. (Nota: Begin amava dire che il padre era alla testa di un corteo di cinquecento ebrei della città e che il loro sangue aveva arrossato le acque del fiume. Ma che le cose fossero andate così non era affatto certo. La sorella del leader politico, Rachel Halperin, ha detto a Eric Silver, il biografo di Begin, che Menahem si era inventato tutto, che il padre era stato ucciso da un soldato e la madre assassinata in un ospedale. Begin, invece, sosteneva che tutti e due i genitori erano stati uccisi «davanti ai suoi occhi», mentre all'epoca della loro morte egli non era già più in città. Era riuscito a fuggire in tempo.) L'omonimo quotidiano del partito prese a pubblicare sopra la testata slogan allarmanti e funerei come si usava al tempo dell'Olocausto. La mattina del 7 gennaio 1952, giorno in cui era previsto l'inizio del dibattito alla Knesset, sulla prima pagina di «Herut» era riportato, in alto a destra, un passo del codice legale di Maimonide dedicato all'omicidio: «Non si accetti mai il riscatto da un assassino, anche se offre tutto il denaro del mondo e anche se chi deve vendicare il sangue è disposto ad assolverlo, perché l'anima della vittima non appartiene al vendicatore ma al Santissimo, Benedetto sia il suo nome». A sinistra compariva una scritta che, a detta del giornale, era stata fotografata da un soldato della Brigata ebraica in un lager. Erano due parole in yiddish, tracciate, sempre
secondo il giornale, con il sangue: Yidn, nekome (Ebrei, vendetta). Trasversalmente, da un angolo all'altro della pagina, campeggiava l'ammonimento «Ricordati di ciò che ti ha fatto Amalec». L'articolo di fondo denunciava che la dichiarazione conciliante di Adenauer era stata stilata d'accordo con Israele. Il sottotitolo associava i due simboli del male: «Pressioni inglesi per la normalizzazione delle relazioni fra Israele e la Germania». Nella colonna di destra il giornale proclamava «la fine del governo dell'Agenzia britannica di ieri, diventata l'Agenzia nazitedesca di oggi» e chiamava «giorno del giudizio» il giorno della votazione alla Knesset. Nella colonna di sinistra c'era un appello in versi a tutti i parlamentari: «Vi guardano dalle grandi, profonde fosse comuni, rosse di sangue. Dai camini dei forni della morte, da Majdanek, Mauthausen e Auschwitz, Vi guardano: dodici milioni di orbite vuote». In fondo alla pagina un annuncio invitava a partecipare alla grande manifestazione del pomeriggio in Sion Square, a Gerusalemme. La polizia aveva preso tutte le precauzioni possibili, ma ben presto si rivelarono insufficienti. Erano arrivati a Gerusalemme centinaia di poliziotti, armati di pistole, elmetti d'acciaio, scudi, manganelli e maschere antigas. Erano stati messi in stato d'allerta le ambulanze e i pompieri, e l'esercito era pronto a inviare rinforzi. La Knesset, che a quell'epoca aveva sede nel centro della città, a poca distanza dal luogo della manifestazione, era stata transennata e circondata dal filo spinato. Le vie circostanti erano bloccate e potevano accedervi soltanto i residenti e i negozianti locali. Sembrava di essere tornati ai tempi dell'assedio di Gerusalemme durante la guerra di indipendenza. Nelle prime ore del pomeriggio molti gerosolimitani salirono sul monte Sion, il luogo più sacro della città, su cui era stato eretto il primo monumento alle vittime dell'olocausto. (Nota: In quello stesso giorno il parlamentare Moshe Sneh del Mapam rivelò che, dieci giorni prima del discorso di Adenauer, egli ne aveva visto il testo in mano a Nahum Goldmann a Parigi. Perciò, affermò Sneh, «il pentimento di Adenauer è soltanto una menzogna».)
Rispondevano all'appello del capo rabbino, il quale aveva dedicato alle vittime il dieci di Tevet, giorno di digiuno secondo la tradizione. La coincidenza fra il digiuno e il dibattito alla Knesset era troppo preziosa perché l'Herut se la lasciasse scappare. Dal monte molti scesero direttamente in piazza ad ascoltare Menahem Begin. La seduta della Knesset cominciò qualche minuto dopo le sedici. Il Parlamento era quasi al completo; la galleria riservata al pubblico e i banchi della stampa erano gremiti: c'erano spettatori in piedi nei corridoi e altre centinaia sostavano davanti all'ingresso nella speranza di ottenere un lasciapassare. Prima di affrontare il problema delle riparazioni, la Knesset dovette assolvere alcuni impegni di carattere amministrativo, fra cui il giuramento del deputato Menahem Begin, che non metteva piede in Parlamento da cinque mesi. «Giuro di restare fedele allo Stato di Israele e di adempiere fedelmente alla mia missione alla Knesset» lesse il presidente. «Lo giuro» rispose Begin. Seguirono alcune interrogazioni, poi prese la parola David Ben Gurion. Il primo ministro parlò per una ventina di minuti. Elencò ancora una volta, con voce lievemente roca e tono asciutto, le richieste di Israele alla Germania e spiegò che il governo sentiva il dovere di fare il possibile per recuperare rapidamente tutto quello che poteva delle spoglie che i tedeschi avevano strappato ai singoli ebrei e alla nazione ebraica nel suo insieme. Ben Gurion si espresse con pacatezza, senza pathos, tranne che nella conclusione: «Non lasciate che gli assassini della nostra nazione ne siano anche gli eredi». L'aula ascoltò in silenzio. Poi cominciò un dibattito carico di tensione. Il primo a prendere la parola fu Elimelech Rimalt, deputato centrista del partito dei sionisti generali, il quale raccontò un episodio personale. «Il mio bambino è venuto da me e mi ha chiesto: "Quanto ci daranno per il nonno e la nonna?".» Entrambi i suoi genitori, spiegò Rimalt, erano stati uccisi dai nazisti. E questo non fu che il principio. Nel frattempo Menahem Begin era uscito dalla Knesset e si era affacciato al balcone dell'Hotel Aviv in Sion Square. Migliaia di persone si erano riunite per ascoltarlo. Erano giunti in pullman da ogni angolo del paese. Portavano al braccio la stella di Davide, quella che i nazisti avevano imposto agli ebrei dei ghetti. Sotto la parola Jude c'era scritto: «Ricordati di ciò che ti ha
fatto Amalec». Begin attaccò con l'annegamento del padre, poi continuò: «Dicono che è nato un nuovo governo tedesco con il quale possiamo parlare, intavolare trattative e concludere un accordo. Prima che Hitler prendesse il potere i tedeschi l'avevano votato. Dodici milioni di tedeschi servirono nell'esercito nazista. Non c'è un solo tedesco che non abbia assassinato i nostri padri. Ogni tedesco è un nazista. Ogni tedesco è un assassino. Adenauer è un assassino. ... Tutti i suoi collaboratori sono assassini». A metà discorso agitò all'improvviso un foglietto, come se gli fosse stato appena consegnato. L'avevano informato, disse, che la polizia schierata intorno alla piazza si preparava a lanciare gas lacrimogeni di fabbricazione tedesca. «Gli stessi gas che hanno asfissiato i nostri genitori!» gridò. Incitò il suo uditorio alla protesta fiscale, a non pagare le tasse. Noi, disse, che lottiamo contro le riparazioni tedesche, non ci faremo spaventare neppure «dalle camere di tortura». La nostra è «una lotta all'ultimo sangue». Infine chiese a tutti di alzare la mano e giurare, in puro stile biblico, «nel nome di Gerusalemme, nel nome di quanti sono saliti sul patibolo, nel nome di Zeev Jabotinsky: "Se dimenticherò lo sterminio degli ebrei, che mi si secchi la mano destra; che la lingua mi si incolli al palato se non vi ricorderò, se non metterò al di sopra di tutti i miei dolori lo sterminio degli ebrei"». Faceva molto freddo e pioveva. Il giorno dopo tutti si chiesero se Begin non avesse incitato la folla ad assaltare la Knesset. Secondo «Davar», avrebbe detto: «Ribellatevi alla Knesset, circondatela e, se non vi lasceranno entrare, entrate con la forza!». Secondo «Haaretz»: «Oggi darò l'ordine: sangue!». Secondo «Herut», il giornale del suo partito, avrebbe invece detto: «Oggi dico sì alla resistenza. Andate, fratelli, non abbiate paura dei gas lacrimogeni. Dite ai poliziotti ebrei che anche voi siete ebrei. Non accetteremo mai questa cosa. ... Non lottiamo per il pane. ... Lottiamo per l'anima del popolo e per l'onore della nazione. Andate, portando nel cuore la bandiera della purezza della nazione». In seguito Begin ammise di aver pronunciato le parole: «Andate, prendete posizione e circondate la Knesset», ma precisò che intendeva incitare la folla a fare come «al tempo degli antichi romani. Quando il loro governatore aveva cercato di introdurre un idolo nel tempio, gli ebrei erano venuti dai quattro angoli del paese,
avevano circondato il tempio e proclamato: "Passerete soltanto sui nostri cadaveri"». Ai suoi seguaci, dichiarò Begin, egli aveva chiesto unicamente «un silenzio assordante», raccomandando di non interrompere la seduta. Alla fine del comizio, però, Begin si era messo alla testa del corteo e si era diretto verso la Knesset. In BenYehuda Street, a metà del percorso, la strada era sbarrata. I manifestanti avevano rimosso la barriera sotto gli occhi dei poliziotti immobili e poi avevano ripreso la marcia. Un corrispondente del «Jerusalem Post» scrisse che alcuni erano arrivati da Tel Aviv e da Haifa con lo zaino pieno di sassi. Quanti fossero i manifestanti è impossibile stabilire, ma certamente erano meno numerosi della folla che aveva ascoltato il comizio di Begin. Il corteo era formato in maggioranza da giovani, ex militanti dell'Irgun, attivisti dell'Herut, e non tutti erano superstiti dell'Olocausto. Dall'elenco dei fermati pubblicato sulla stampa si direbbe che molti fossero ebrei orientali. Ai contestatori dell'Herut si unirono in seguito i partecipanti a un altro comizio, organizzato dal Comitato per la pace, un gruppo sponsorizzato dal Mapam, dal partito comunista, il Maki, e da militanti del movimento studentesco. A quell'epoca il Mapam e il Maki erano rigidamente filosovietici. Per uno dei leader del Mapam, Yaakov Hazan, l'URSS di Stalin era la sua «seconda casa». I due partiti accettavano perciò la distinzione sovietica fra le due Germanie, secondo cui quella occidentale era impura e quella orientale pura. Per loro i milioni di tedeschi della Germania Est che avevano parteggiato per Hitler e tutta la burocrazia che il regime comunista aveva ereditato dal Terzo Reich non erano mai esistiti. Le colpe del nazismo ricadevano soltanto sulla Repubblica federale tedesca e lei sola doveva essere messa al bando. Nell'ottobre del 1951 il Mapam aveva inviato due suoi delegati a una conferenza internazionale a Berlino Est; uno era Hanan (Hans) Rubin, che aveva militato nel partito socialdemocratico tedesco durante la Repubblica di Weimar. Fu uno dei primi israeliani a mettere piede nella Repubblica democratica tedesca. Rubin, schizofrenico come il suo partito, votò disciplinatamente contro i negoziati con Bonn. Ben Gurion lo chiamò «vile». Durante la manifestazione la polizia salì sui tetti e lanciò bombe fumogene e lacrimogeni sulla folla. Il vento, però,
risospinse il gas verso le forze dell'ordine e verso la Knesset. I contestatori, armati di bastoni, avanzarono scagliando pietre e, secondo Ben Gurion, anche candelotti lacrimogeni. Rovesciarono le macchine parcheggiate e ne bruciarono almeno una. Spaccarono le vetrine dei negozi. Ci furono anche dei feriti, alcuni coinvolti nei tafferugli, altri calpestati dalla folla. Un ferito fu tirato giù dall'ambulanza e malmenato. Alla Knesset intanto il dibattito continuava. Ma durante il secondo intervento, quello di Yaakov Hazan del Mapam, nell'aula si cominciò a percepire chiaramente lo strepito esterno: urla, schianti, sirene. All'improvviso Yohanan Bader dell'Herut gridò: «Gas contro gli ebrei!». Il presidente richiamò la camera all'ordine. Mentre parlava il terzo oratore, Yitzhak Rafael del partito nazional-religioso Hapoel Hamizrahi, due deputati. Meir Vilner e l'ex moglie, Esther Vilenska, entrambi comunisti, entrarono di corsa gridando: «Noi ce ne stiamo qui seduti a chiacchierare mentre fuori c'è gente che muore assassinata!». Nello stesso istante andarono in frantumi i vetri dell'aula, che era a pianterreno ed era adiacente alla strada. I sassi e le schegge volarono fin sui banchi dei deputati. Il presidente fece mettere a verbale: «L'unica cosa che posso fare è constatare che sono state lanciate delle pietre dentro la Knesset e che la Knesset non sta rispondendo all'attacco». Tutti urlavano, gli stenografi smisero di prendere appunti. Il giorno dopo Shalom Rosenfeld scrisse su «Maariv» di avere sentito gridare «assassino, pazzo, porco e fascista», mentre dai vetri rotti entravano nuvole di gas lacrimogeno. «All'inizio» raccontò Rosenfeld «si sente soltanto un lieve prurito agli occhi, ma l'effetto del gas aumenta lentamente e dopo un po' tutti tirano fuori il fazzoletto.» E' una corsa affannosa verso le uscite. Un grande caos. All'improvviso risuona un grido: un ferito! Un sasso ha colpito alla testa Hanan Rubin del Mapam. BenZion Harel, del partito dei sionisti generali, di professione medico, accorre. Fra i poliziotti e i dimostranti i feriti furono decine. Molti vennero portati dentro la Knesset. La moglie di Ben Gurion, Paula, che era infermiera, prestò le prime cure. Il figlio di Ben Gurion, Amos, che era vicecomandante della polizia, dirigeva le forze all'esterno. Fu chiamato l'esercito per impedire alla folla di irrompere nell'aula. I dimostranti arrivarono a pochissimi metri
dall'ingresso, ma Ben Gurion, che era anche ministro della Difesa, vietò alle forze dell'ordine di aprire il fuoco. Yohanan Bader scrisse nelle sue memorie: «Io e Begin restammo al nostro posto e, mentre volavano le pietre a destra e a manca, Begin mi disse in polacco: "Yashu, siediti. La mamma sarebbe stata molto contenta"». Poi toccò a Begin parlare. Non disse niente di nuovo, a parte l'appello ad astenersi rivolto ai rappresentanti arabi della Knesset, alcuni dei quali militavano nei partiti satelliti del Mapai: «Questa faccenda riguarda noi. E' del sangue delle nostre madri, dei nostri fratelli e sorelle che si tratta. Lasciate che siamo noi a decidere». Quando Begin stava per concludere. Ben Gurion gli gridò qualcosa sui «teppisti» davanti alla Knesset. Per tutta risposta Begin replicò: «Il teppista sarà lei». Il presidente dell'assemblea gli chiese di scusarsi. Begin disse che toccava a Ben Gurion scusarsi. A quel punto i deputati del Mapai si misero a gridare in coro: «Non lasciatelo parlare! Non lasciatelo parlare!». E Begin di rimando: «Se non parlerò io, non parlerà nessuno. Mi porterete via solo con la forza». Il presidente sospese la seduta. La Knesset si riunì di nuovo quando ormai era buio e i manifestanti se n'erano tornati a casa. C'erano stati 200 feriti fra la folla e 140 fra gli agenti di polizia; decine di persone erano state ricoverate in ospedale; 400 erano state fermate. Begin ritirò l'insulto a Ben Gurion e potè terminare il suo discorso. «Non è escluso che questo sia il mio ultimo discorso alla Knesset» cominciò. Poi attaccò con il martirio. Glielo aveva insegnato suo padre, disse: «Ci sono cose nella vita più preziose della vita stessa. Ci sono cose nella vita che sono peggiori della morte stessa. E questa è una di quelle cose per le quali noi daremo la vita, per le quali siamo pronti a morire. Lasceremo le nostre famiglie, diremo addio ai nostri figli e non ci saranno negoziati con la Germania.» (Nota: Il giorno precedente Ben Gurion, molto preoccupato, aveva calcolato quale sarebbe stato l'esito delle votazioni se avessero votato a favore anche gli arabi e quale se si fossero astenuti. Ma alla fine i loro voti non furono determinanti.)
La Knesset ascoltò in silenzio. Mai era risuonato, né sarebbe risuonato mai più, un discorso del genere in quell'aula: Nazioni degne di questo nome hanno fatto le barricate per molto meno. Su questa questione, noi, l'ultima generazione di schiavi e la prima dei redenti, noi, che abbiamo visto trascinare i nostri padri nelle camere a gas; noi, che abbiamo sentito lo sferragliare dei treni della morte; noi, che abbiamo visto spingere nel fiume il vecchio padre e cinquecento ebrei della gloriosa comunità di Brisk in Lituania e colorarsi di rosso le acque; noi, che abbiamo visto uccidere l'anziana madre in ospedale; noi, che abbiamo visto con i nostri occhi svolgersi tutti questi avvenimenti eccezionali, noi dovremmo aver paura di rischiare la vita per impedire le trattative con gli assassini dei nostri genitori? ... Noi siamo pronti a tutto, a tutto pur di impedire che su Israele ricada quest'onta. ... E' l'ultimo appello che rivolgo alla Knesset: impedite questo nuovo genocidio degli ebrei! So che siete voi ad avere il potere. Avete le prigioni, i campi di concentramento, l'esercito, la polizia, i servizi segreti, l'artiglieria, le mitragliatrici. Che importa. Tutta la vostra forza andrà in mille pezzi come vetri che si infrangono contro una roccia. Noi combatteremo fino alla morte. La forza fisica è inutile: è pura vanità, è come stringere il vento. Il mio è un monito, non una minaccia. Chi potrei minacciare? So che mi trascinerete in un campo di concentramento. Oggi ne avete arrestati centinaia. Domani forse ne arresterete migliaia. Non importa, andranno in prigione. Ci resteranno. Noi saremo al loro fianco. Se sarà necessario, ci faremo uccidere con loro. Ma non ci saranno «riparazioni» tedesche. Che Dio ci soccorra e impedisca quest'olocausto del nostro popolo in nome del nostro avvenire, in nome del nostro onore. Alla fine del discorso Begin informò «le autorità dello Stato» che avrebbe rinunciato all'immunità parlamentare, ritenendo la legge «nulla». La Knesset ha pianto, titolava la mattina successiva «Yediot Aharonot»; Ben Gurion annotò nel diario: «Il colpo di Stato di Begin» ha avuto una fine «tragicomica». Il giorno dopo Ben Gurion tenne un discorso alla radio: «Si è verificato il primo tentativo di distruggere la democrazia in Israele, di strappare il controllo della politica dalle mani dei rappresentanti eletti dalla nazione» dichiarò. Definì l'attacco alla Knesset «criminale», «un complotto proditorio», i
manifestanti «una folla scatenata», «una banda di rivoltosi». Il capo e l'organizzatore della «ribellione» era Menahem Begin, dietro il quale marciavano «gli ex esponenti dell'Irgun», appoggiati e finanziati dai comunisti. Nella sua qualità di primo ministro e ministro della Difesa, proseguì Ben Gurion, egli garantiva che erano state prese tutte le misure necessarie, e sottolineò le parole, per proteggere la democrazia, la sovranità del Parlamento, il rispetto della legge, della sicurezza e della pace. «Non allarmatevi e non abbiate paura» dichiarò. «Il paese possiede le forze e le risorse necessarie per difendere la sovranità e la libertà di Israele, per impedire ai picchiatori e agli assassini di impadronirsi del potere e compiere altri atti di terrore. L'esercito, la polizia e il popolo, che desiderano la libertà e l'indipendenza, sono la garanzia più sicura che il complotto folle e criminale dei teppisti dell'Herut e dei loro fiancheggiatori comunisti non riuscirà.» E infine stigmatizzò «l'ideologia impura del fascismo nelle sue varie incarnazioni di destra e di sinistra», concludendo: «Lo Stato di Israele non farà la fine della Spagna e della Siria». C'erano tutti gli elementi per mettere fuori legge l'Herut e forse anche il Maki. Si diceva che fosse stata proprio questa l'intenzione di Ben Gurion e che egli avesse cambiato idea all'ultimo momento. Se così fu, si trattò di una decisione saggia, non soltanto per l'esito che poi ebbe il voto sui negoziati con la Germania, ma anche perché se l'Herut fosse stato messo al bando, avrebbe continuato clandestinamente la sua attività, con in più l'aureola del martirio. Si può star certi che Begin avrebbe recitato la sua parte fino in fondo: quello che aveva organizzato non era infatti un complotto, ma uno psicodramma. Non aveva nessuna intenzione di morire per quella votazione e neppure di andare in prigione, ma avrebbe tirato la corda della democrazia fino all'estremo limite. La reazione durissima di Ben Gurion aveva reso esplosiva una situazione già pericolosa. All'ufficio del presidente del Consiglio arrivavano intanto valanghe di telegrammi di solidarietà dalle varie sezioni del Mapai e da semplici cittadini. «All'architetto dello Stato di Israele: congratulazioni, tenga duro» telegrafarono da Ramat Gan, mentre da Kfar Saba scrissero: «Noi saremo una muraglia vivente a difesa del paese, della legge e della democrazia». Gli ospiti della casa di riposo di Holon inviarono
i saluti, vergati con mano malferma, al «nostro caro e amatissimo primo ministro», mentre da Haifa e da altre città gli operai mandarono a dire di essere pronti a venire a Gerusalemme «per difendere la Knesset». Il capo dei servizi di sicurezza, Isser Harel, si dava da fare per incoraggiare le varie iniziative. Un militante del Mapai rivelò al biografo di Ben Gurion, Michael Bar-Zohar, di avere infiltrato in una manifestazione dell'Herut a Tel Aviv una brigata di riservisti dei kibbutz e di avere fatto pervenire a Begin l'informazione che «fra la folla ci sono un migliaio di uomini delle vallate, armati e pronti a entrare in azione alla prima provocazione». Il dibattito sui negoziati con la Germania fu momentaneamente sospeso. Il vero problema ora, dichiarò «Haaretz», non erano le riparazioni di guerra, ma se il paese sarebbe riuscito a difendersi dalle bande che volevano imporre il loro diktat. Begin, intanto, si era giocato l'appoggio dei quotidiani della sera. Lo attaccò persino «Maariv», che era stato fondato da alcuni suoi seguaci. Lapidario, Azriel Karlebach decretò: «Con quest'azione l'Herut ha contribuito più di chiunque altro a favorire l'accordo con la Germania». Si votò due giorni dopo, il 9 gennaio 1952, in un'atmosfera molto tesa. La Knesset era presidiata da schiere di poliziotti e soldati armati. I deputati contrari ai negoziati cercarono fino all'ultimo di convincere i colleghi a dare ascolto alla loro coscienza e non agli ordini del partito. Ma il Mapai decise di presentare non una mozione apertamente favorevole ai negoziati, bensì una risoluzione, formulata in termini evasivi, con la quale la Knesset autorizzava la Commissione per gli affari esteri e la difesa (nella quale il partito aveva la maggioranza) «a decidere in ultima istanza in base alle circostanze e alle condizioni». A questa mozione si contrapponeva quella che bocciava i negoziati. Dei 120 deputati della Knesset soltanto 4 erano assenti; Arieh Ben-Eliezer dell'Herut, che era malato, fu condotto in aula in barella. Si passò alle votazioni: 5 si astennero, 50, quasi tutti dell'opposizione, votarono contro. I voti a favore furono 61. Dissero sì i deputati del Mapai, i cinque arabi dei partiti satelliti, quasi tutti i deputati dei partiti religiosi Mizrahi e Hapoel Hamizrahi, nonché la maggioranza dei progressisti. La disciplina di partito aveva tenuto, con pochissime eccezioni. Nel Mapai avevano votato a favore persino alcuni
parlamentari contrari ai negoziati; fra i sionisti generali, nelle cui file c'era stato un dibattito molto acceso, anche quelli favorevoli alle trattative avevano votato contro. Fra gli ultraortodossi, i contrari si erano astenuti o erano usciti dall'aula al momento del voto. Tre settimane dopo la Knesset inflisse a Begin una sospensione di oltre tre mesi per avere minacciato il ricorso alla violenza. La decisione naturalmente fu presa dopo un altro dibattito, durante il quale volarono di nuovo parole grosse. «E' Hitler il vostro campione di democrazia» gridò Haim Landau dell'Herut ai deputati del Mapai. In precedenza Meir Argov del Mapai aveva paragonato l'attacco alla Knesset all'incendio del Reichstag. L'Herut continuò la sua battaglia con comizi, manifestazioni e interrogazioni parlamentari. Siccome però ormai era stato detto tutto, l'unica cosa che si poteva fare era variare la forma. L'Herut superò tutti per macabra inventiva. Nel mese di marzo del 1952, appena qualche giorno prima che cominciassero le trattative con la Germania, Yohanan Bader dichiarò: «Supponiamo che vi paghino per i sei milioni di ebrei, ma quando sarà finito il periodo delle riparazioni... dove troverete altri sei milioni di ebrei per avere altri soldi?». Il commento veniva a completare la domanda che Arieh Ben-Eliezer aveva posto al Mapai pochi mesi prima, quando si era saputo che la Germania avrebbe pagato Israele non in denaro bensì in merci. «Fra questi prodotti tedeschi ci sarà anche il sapone di carne umana?» aveva chiesto Ben-Eliezer. «A glik hot unz getrofen! (Come siamo fortunati!) Hanno ammazzato sei milioni di ebrei e adesso ci daranno un po' di soldi!» gridò in yiddish Haim Landau a Shmuel Dayan del Mapai. La lotta contro le riparazioni fu un toccasana per Menahem Begin e il suo partito: il primo uscì dalla depressione in cui era piombato e il secondo, che aveva toccato il punto più basso di popolarità, riprese quota. Begin diventò euforico, il partito trovò nuova linfa. Il dibattito ferveva in tutte le sezioni dell'Herut e in molte città c'erano manifestazioni. I militanti furono «mobilitati», con l'ordine di tenersi pronti a rispondere alla chiamata del partito ventiquattro ore su ventiquattro. La sede centrale dell'Herut sembrava il quartier generale di un esercito, con le staffette che andavano e venivano e i volontari impegnati a reclutare al telefono attivisti e simpatizzanti. Durante le settimane burrascose che avevano
preceduto il voto alla Knesset, Begin si era comportato come se lui e il suo partito fossero stati sempre contrari alle riparazioni. Ma le cose non stavano proprio così. Nel dicembre del 1949, due rappresentanti dell'Herut avevano partecipato al dibattito sulla legge per la certificazione dei documenti, che mirava a snellire le procedure per richiedere l'indennizzo alla Germania. I due deputati dell'Herut non si erano opposti, benché fosse chiaro che si trattava del primo passo verso contatti diretti con Bonn. Anzi, Haim Landau aveva rimproverato al governo di avere tardato troppo a introdurre il provvedimento: «Qui si sta discutendo della possibilità di riabilitare decine di migliaia di ebrei nella terra in cui sono nati. Noi saremo vigili e ci batteremo perché venga concesso tutto quello che ci spetta». La Knesset era tornata a discutere delle riparazioni all'inizio del 1951. Il ministro degli Esteri Moshe Sharett aveva letto al Parlamento la lettera inviata da Israele alle potenze occupanti. La prima parte documentava lo sterminio degli ebrei, rifacendosi al verdetto del tribunale di Norimberga. La seconda precisava l'entità dell'indennizzo richiesto: un milione e mezzo di dollari. «Non sarà possibile nessun progresso nella reintegrazione della Germania in seno alla famiglia delle nazioni, se prima di tutto non sarà saldato questo debito» concludeva la lettera. In quell'occasione Begin aveva criticato il governo. La lettera era la prova, disse, della volontà di Israele di allacciare relazioni con la Germania. Anche sulla forma aveva avuto da ridire: non era dignitoso affiancare alla storia dell'Olocausto una richiesta di denaro. Bisognava invece protestare contro la riduzione delle pene ai criminali nazisti. Begin, tuttavia, non si opponeva ancora alle riparazioni per ragioni ideologiche, etiche o nazionali, come avrebbe fatto in seguito. In quell'occasione, anzi, rivelò un episodio inedito: «Più di sei mesi fa, durante una seduta della commissione affari esteri, ho proposto al signor Sharett di chiedere un indennizzo per le proprietà degli ebrei saccheggiate dai tedeschi». Sharett aveva replicato, disse Begin, che il governo si stava già occupando della questione. Begin non solo non si era opposto all'invio della lettera agli alleati, ma aveva attaccato il governo per la lentezza con cui si era mosso e per l'inadeguatezza della somma richiesta. «Siamo arrivati troppo tardi» aveva affermato. «Non sono in grado di dimostrare che, se avessimo
presentato la nostra richiesta due anni fa, sarebbe stata accolta. Ma chiedendo un miliardo e mezzo, quando secondo le stime il valore dei beni degli ebrei ammonta a sei miliardi, voi rinunciate a tre quarti delle proprietà di cui sono stati spogliati. Per quale motivo? In nome di chi?» Era il 1951, appena un anno prima che Begin proclamasse di essere pronto, se necessario, a morire in un campo di concentramento israeliano per impedire i negoziati sulle riparazioni. Nella prima Knesset, eletta nel 1949, l'Herut aveva 14 deputati su 120. Alle amministrative del novembre 1950 il partito registrò un calo. «C'erano molte aspettative e la delusione fu grande» ricordò in seguito Yohanan Bader, uno dei dirigenti del partito e amico di Begin. Begin fu duramente contestato dai suoi compagni. Shmuel Tamir gli urlò in faccia: «Che senso ha la parola "dimissioni" se tu non presenti le tue?». Begin, racconta Bader, era deciso a farlo, ma non prima delle elezioni politiche del 1951. «Andavo a trovarlo spesso» ricorda Bader «perché non si sentisse troppo solo e demoralizzato.» Begin si prodigò nella campagna elettorale, che tuttavia si risolse in un nuovo fiasco. Fu Bader a portargli i risultati: l'Herut aveva ottenuto appena otto seggi contro i quattordici che deteneva in precedenza e alcune migliaia di voti in meno, benché nel frattempo il numero degli elettori fosse raddoppiato. Il Mapai era «il partito della vittoria» nella guerra di indipendenza e Ben Gurion era «l'architetto dello Stato». Molti elettori erano immigrati di recente: ammiravano Ben Gurion, lo identificavano con Israele e dipendevano dal Mapai per la loro sopravvivenza. Begin era stanco e triste, ricorda Bader. Andò in vacanza in Italia con la moglie Aliza. Al ritorno l'opposizione interna all'Herut insorse di nuovo. Attaccato per l'ennesima volta da Tamir, si chiuse in una stanza con alcuni dei suoi più stretti collaboratori e all'uscita comunicò che aveva deciso di prendersi un lungo periodo di riposo. I colleghi ne dedussero che aveva intenzione di abbandonare la politica. Per diversi mesi Begin visse in una camera d'affitto a Gerusalemme e si preparò a sostenere gli esami di diritto penale. Attribuiva il declino del suo partito allo stato d'animo che si era diffuso nel nuovo Stato: il tempo dell'eroismo era passato, la rivoluzione e la guerra erano finite e la gente pensava al tran tran quotidiano, al frigorifero mezzo vuoto. Quello che occorreva
all'Herut era un grande tema nazionale, che riaccendesse gli animi. Poi arrivò la dichiarazione di contrizione di Adenauer e la questione delle riparazioni fu sottoposta all'approvazione del Parlamento. «La Knesset si scatenerà, ne sono sicuro» osservò Ben Gurion. E non si sbagliava. Begin scese di nuovo nell'arena. Yohanan Bader l'aveva pungolato a riprendere l'attività politica: doveva farlo «per la madre» e per tutti i familiari sterminati dai nazisti. Fu questo, secondo Bader, l'argomento decisivo. Nella prima Knesset si era trattato di decidere se sollevare la questione delle riparazioni con le potenze occupanti. Ora invece si parlava di negoziati diretti con la Germania ed è questo forse che spiega il diverso atteggiamento di Begin. Ma per rianimare il partito e riaffermarsi come leader non bastava disquisire su un documento diplomatico, sulla figura dei negoziatori e sulla somma da richiedere, bisognava galvanizzare le masse. Ci voleva «un abominio paragonabile a quello della concubina di Gabaa». «L'abominio», Begin lo identificò nel denaro, stigmatizzando anche il solo pensiero di accettarlo. Si guardò bene dall'accennare alla richiesta che aveva rivolto appena un anno prima al governo perché si affrettasse a chiedere le riparazioni. Nell'atmosfera surriscaldata che lo circondava, la dimenticanza fu convenientemente passata sotto silenzio. Begin puntava a far cadere il governo di coalizione e a prendere il posto di Ben Gurion. Intanto, però, aveva ingaggiato anche un'altra battaglia, che coinvolgeva i suoi sentimenti più profondi: la battaglia intorno alla memoria dell'Olocausto e i suoi insegnamenti. Begin aveva posto l'Olocausto al centro del suo sistema di valori, affetti e riti; l'aveva eletto a criterio per distinguere il bene dal male, la purezza dall'impurità, il lecito dall'illecito, la ricompensa dal castigo. Non era un caso che chiamasse le vittime del nazismo i «santi martiri»: il suo obiettivo era trasformare il retaggio dell'Olocausto in un dogma quasi religioso. Gli insegnamenti dell'Olocausto dovevano essere il faro che guidava la rotta della politica nazionale, fornire un'ideologia politica e un'alternativa emotiva al pragmatismo di Ben Gurion. Begin, sommo sacerdote della nuova religione, non si accontentava di porre i sentimenti al di sopra della politica nazionale e «l'anima della nazione» al di sopra degli interessi finanziari, ma poneva l'Olocausto al di sopra dello Stato stesso, così
come i partiti ultraortodossi si identificavano con Dio, come il Mapam e i comunisti, per breve tempo, fecero con Marx. (Nota: Gli abitanti del villaggio di Gabaa, in cui avevano trovato rifugio per la notte un levita e la sua concubina, abusarono della donna fino a ridurla in fin di vita. Il levita riportò a casa la salma, la tagliò in dodici pezzi e ne inviò un pezzo a ciascuna delle tribù di Israele perché vendicassero l'infamia. E così fu fatto (Giudici 20-21). (NdT). Tutti si identificavano con la storia, tutti si aggrappavano a dogmi assoluti e onnicomprensivi, tutti cercavano di imporli al paese, ma nessuno ci riuscì, nemmeno Begin. Begin non fallì soltanto perché fece della sua lotta ai negoziati con la Germania un'arma per la conquista del potere e perché chiese agli israeliani di rinunciare alle riparazioni. Fallì anzitutto perché considerava l'Olocausto un'esperienza collettiva, mentre in quegli anni era ancora un'esperienza individuale, qualcosa che apparteneva al vissuto dei superstiti, era una tragedia privata, non dell'intera nazione. Questo, Begin non lo capì. Forse era in anticipo sui tempi, perché di lì a qualche anno l'Olocausto sarebbe effettivamente diventato una sorta di religione civica nazionale. All'inizio degli anni Cinquanta, però, le ferite erano ancora sanguinanti e Begin con la sua melodrammatica eloquenza non riuscì né a esprimere l'abisso delle sofferenze individuali, né a toccarne la tragica profondità. Fu perciò facile per i superstiti ignorarne le sollecitazioni e accettare la loro parte di indennizzo. Il denaro non cancellò le emozioni e non modificò l'identità dei sopravvissuti, al massimo servì a comperare una casa più grande. Quelli che rifiutarono il risarcimento furono pochissimi. E fu questo il vero plebiscito sulle riparazioni.
CAPITOLO XII «IL BAMBINO HA VIAGGIATO GRATIS» I negoziati fra Israele e la Germania furono inaugurati il 20 marzo 1952 a Wassenaar, una cittadina olandese nei pressi dell'Aia, e si conclusero in sei mesi. i due paesi contrattarono accanitamente su ogni dollaro, in un'atmosfera tesa, da «mercato delle vacche», come ebbe a dire Nahum Goldmann al cancelliere Adenauer. Entrambe le parti dovevano tener conto di numerosi fattori, entrambe subivano pressioni ed entrambe fecero delle concessioni. Gli israeliani e il popolo ebraico erano rappresentati da due distinte delegazioni ma, almeno di fronte ai tedeschi, parlarono a una sola voce. La delegazione di Gerusalemme era presieduta da Giora (Georg) Yoseftal ed Eliezer (Felix) Shinar, e comprendeva anche un personaggio di grande spicco, Georg Landauer. Yoseftal, Shinar e Landauer erano tutti nati in Germania e avevano collaborato alla haavarah. Yoseftal era un funzionario del Mapai, dirigeva l'ufficio dell'Agenzia ebraica per l'integrazione degli immigrati e in seguito fu anche ministro. Shinar (il cui nome originario era Schneebaig), laureato in legge, lavorava per il miliardario Zaiman Schocken ed era direttore del quotidiano «Haaretz». Aveva fatto molti mestieri: consulente finanziario, ispettore statale per le forniture di idrocarburi e consigliere dell'ambasciata israeliana a Londra. Dopo gli accordi sulle riparazioni guidò la delegazione per gli acquisti in Germania occidentale e funse a tutti gli effetti da ambasciatore israeliano a Bonn, fino a quando i due paesi non stabilirono relazioni diplomatiche. Georg Landauer, molto attivo nella comunità degli immigrati tedeschi in Israele, era un alto dirigente dell'Agenzia ebraica. La delegazione israeliana era affiancata da Nahum Goldmann, che ufficialmente era il rappresentante della Claims Conference ma in realtà fungeva anche da mediatore per Israele. La delegazione tedesca aveva invece almeno due portavoce. La presiedeva Franz Bòhm, rettore dell'università di Francoforte; il suo vice era Otto Kùster, il quale era stato compagno di classe di
Shinar al ginnasio di Stoccarda. Shinar lo considerava una persona leale e integerrima, ne apprezzava il calore umano, la purezza dei sentimenti e la grande sensibilità morale. Tuttavia, accanto a questi due uomini di buona volontà e ad altri come loro, a Bonn c'era anche chi remava contro, per ritardare l'accordo se non addirittura farlo fallire. Il primo della lista era il ministro delle Finanze, Fritz Schàffer, il quale sembrava non essere al corrente della promessa fatta a Goldmann da Adenauer, tanto che all'inizio parve non comprendere del tutto di cosa si stesse discutendo. In un appunto ritrovato fra le sue carte, in cui si cita come fonte Adenauer, si legge che, quando il cancelliere si trovava a Londra, «era andato da lui un certo signor Goldstein per ricordargli le grandi sofferenze degli ebrei sotto Hitler». A Bonn, nei mesi seguenti, si svolse una vera e propria lotta fra quanti sostenevano la necessità di tenere fede alla promessa di Adenauer e quanti invece chiedevano di rinnegarla. Se l'accordo fu infine siglato, lo si dovette per buona parte all'abilità negoziale degli israeliani e degli ebrei, in particolare di Goldmann, i quali seppero giostrare fra i due schieramenti tedeschi. Nahum Goldmann, uno statista senza Stato, si compiaceva di definirsi «un ebreo internazionale». Da vecchio amava raccontare la sua vita come una lunga teoria di passaporti internazionali, e persino di credenziali diplomatiche, che gli erano stati concessi da vari paesi: la Russia, la Germania, la Lituania, la Polonia, l'Honduras, gli Stati Uniti, Israele e la Svizzera. Goldmann era nato in Lituania nel 1884, aveva studiato a Heidelberg e si era sposato con un'ereditiera. Fin da giovanissimo aveva militato nel movimento sionista, di cui negli anni Trenta era stato il rappresentante presso la Società delle Nazioni a Ginevra. Il suo sionismo, tuttavia, era ispirato alla solidarietà internazionale ebraica e non era sempre e soltanto al servizio di Israele: pur avendo contribuito alla fondazione dello Stato, Israele gli andava stretto. Finché era vivo Ben Gurion, come ebbe a dire, non aveva nessuna possibilità di assumerne la guida e non sapeva che farsene di un posto di semplice ministro. Come Bruno Kreisky e Henry Kissinger dopo di lui, Goldmann si trovò in perpetuo disaccordo con una politica, quella di Israele, che giudicava eccessivamente nazionalistica e preoccupata del potere. «Gli israeliani si possono ammirare, ma non si possono amare»
disse un giorno. Goldmann era un uomo di idee liberali, ironico, raffinato e di straordinario fascino. Era anche un grande romantico e un incorreggibile egocentrico. La vita l'aveva viziato, diceva, e lui non la prendeva troppo sul serio. «Non mi sono mai identificato del tutto con nessuna cosa: né con un uomo, né con una donna, né con un'idea, né con un movimento» affermò un giorno. Amava la buona conversazione, la buona cucina, i libri, i sigari, le donne, la politica, l'opera e i pettegolezzi. Ma più di ogni altra cosa apprezzava la compagnia di quelli che contano: leader mondiali e baroni della finanza, papi, sovrani, presidenti, capi di governo e ministri di ogni paese. Lo ricevevano ovunque come un re, il re degli ebrei. Nel 1935 Mussolini cercò di farlo incontrare con Hitler, ma Goldmann rifiutò. Fu tormentato fino alla fine dei suoi giorni dal dubbio di avere agito saggiamente. Se avesse saputo già allora di Auschwitz, dichiarò, avrebbe acconsentito. Ammirava Talleyrand, il diplomatico, il politico sopravvissuto alla Rivoluzione francese e, come lui, si vantava di saper pensare all'interno di un ampio quadro di riferimento storico. A Ben Gurion disse un giorno: «Tu vedi il mondo da Sde Boker [il kibbutz in cui Ben Gurion si era ritirato], io lo guardo da quattromila metri di altezza, da un aereo. E' tutta qui la differenza fra noi due». A partire dal 1953 Goldmann fu presidente del World Jewish Congress. Con la sua personalità e il suo stile conquistò all'organizzazione un prestigio e un rispetto molto superiori al suo peso reale: in questo senso si può dire che Goldmann fu un grande impostore. Gli accordi sulle riparazioni e i risarcimenti furono in gran parte merito della capacità di Goldmann di far presa su Konrad Adenauer. Il cancelliere tedesco lo rispettava, lo usava, ne diffidava e lo temeva. Adenauer pareva convinto che Goldmann fosse davvero in grado di esercitare, sul governo americano e sull'opinione pubblica statunitense, tutta l'influenza che vantava. Nelle memorie, scritte quindici anni dopo gli accordi, Adenauer racconta il loro primo colloquio. Goldmann, scrive il cancelliere, portò con sé l'ambasciatore israeliano a Londra, che presentò sotto falso nome perché non si capisse che Israele era disponibile a intavolare negoziati diretti con la Germania. Adenauer si sbagliava: non si trattava dell'ambasciatore, ma di Noah Baru del World Jewish Congress, il quale aveva contribuito a modificare la
bozza della dichiarazione del cancelliere al Bundestag. Che però dopo tanti anni e tanti incontri il cancelliere tedesco fosse ancora convinto che Goldmann aveva cercato di raggirarlo, la dice lunga sui rapporti fra i due uomini. In un altro punto delle sue memorie Adenauer afferma di non avere mai sottovalutato la capacità dei «circoli bancari ebraici» di danneggiare il suo paese. Manipolatore instancabile, Goldmann sfruttava questa immagine di «savio di Sion» al punto di pronunciare minacce che a volte rasentavano l'estorsione. Nel suo archivio c'è un dossier contenente informazioni sul passato nazista di uomini chiave dell'amministrazione Adenauer. Qualcuno di loro temeva di essere distrutto da Goldmann se non si fosse assicurato in qualche modo il suo silenzio. In effetti questi fu aiutato non poco da uno dei più stretti collaboratori del cancelliere, Hans Globke, un ex alto funzionario del ministero degli Interni nazista, esperto delle leggi di Norimberga. La delegazione israeliana arrivò a Wassenaar avendo già in mano l'impegno di Adenauer a pagare la somma di un miliardo e mezzo di dollari. Altri cinquecento milioni li chiese la Claims Conference. Il totale, due miliardi, era un quarto della somma che Chaim Weizmann aveva reclamato al termine della guerra. Ma quando si aprirono le trattative, i tedeschi sostennero di non possedere una simile cifra e dissero che era necessario attendere l'esito della Conferenza internazionale di Londra, convocata per discutere dei debiti della Germania nei confronti degli altri paesi. I tedeschi temevano, assumendosi forti impegni finanziari con gli israeliani e gli ebrei in generale, di far lievitare le richieste della Conferenza di Londra. Gli israeliani e gli ebrei, al contrario, avevano il timore di ottenere molto meno di quanto chiedevano se si fosse stabilito un nesso fra le loro richieste e quelle emerse durante i colloqui in corso a Londra. Non fu quindi un inizio dei più felici. Una settimana dopo l'apertura dei negoziati, nel centro di Monaco uno sconosciuto chiese a due bambini di portare un pacco all'ufficio postale. L'uomo eseguiva gli ordini ricevuti da Eliahu Tabin, un ex militante dell'Irgun, che a quell'epoca viveva a Parigi. Il pacco era indirizzato al cancelliere Adenauer: insospettito, l'impiegato chiamò la polizia. Giunti sul posto, due agenti ne esaminarono il contenuto: nascosta in un dizionario c'era una
bomba, che esplose uccidendone uno. Assassinando Adenauer, Tabin si proponeva di interrompere le trattative e far cadere il governo di Ben Gurion. I negoziati proseguirono e gli israeliani confermarono ufficialmente quello che avevano già detto in privato al cancelliere tedesco: avrebbero rinunciato a mezzo miliardo perché la somma era stata calcolata pensando alle due Germanie. 1500.000 dollari corrispondevano a un terzo dell'ammontare e avrebbero dovuto essere versati dalla Germania Est, secondo la ripartizione effettuata da Eliezer Shinar nel 1951." Fu quasi certamente un errore: la Repubblica democratica rifiutò di pagare e la pretesa della Repubblica federale di essere la sola e unica Germania evidentemente non valeva mezzo miliardo di dollari. A Wassenaar tutti avevano dato per scontato fin dal primo momento che Bonn avrebbe dovuto rispondere soltanto per la parte che le spettava. Adesso, però, i tedeschi non volevano pagare neanche quella, sia pure in natura. Erano disposti a fornire a Israele beni per il valore di 750 milioni di dollari. Forse erano convinti che il paese fosse in una situazione economica così disastrosa da accettare qualsiasi offerta. Gli israeliani rifiutarono e i colloqui si interruppero. Ripresero circa sei settimane dopo. Quando i rappresentanti di Gerusalemme e degli ebrei abbandonarono il tavolo delle trattative, Nahum Goldmann cominciò a tessere la sua tela di grande lobbista e manipolatore. Organizzò e coordinò una serie di interventi internazionali volti a persuadere i tedeschi che il raggiungimento di un accordo era nel loro interesse. Seguì passo dopo passo i vari patteggiamenti che avvenivano a Bonn e qualche volta vi prese parte. Contattò i ministri tedeschi, gli alti funzionari, i deputati, percorse tutti i corridoi del potere e penetrò nei più segreti recessi. Vide tutto e ascoltò tutto. Tramò dietro le quinte. Uomo dai mille volti, Goldmann fece confidenze agli amici e smontò i piani dei nemici, raccolse promesse e pronunciò minacce. Non molto tempo dopo l'ufficio investigativo del ministero degli Esteri israeliano riferì come negli ambienti di Bonn «si dicesse» che gli uomini di Goldmann avevano corrotto Herbert Blankenhom, uno dei collaboratori del cancelliere. Ogni tanto Goldmann andava a parlare con Adenauer. «Sono due vecchie volpi» disse Franz Bòhm «ma quando sono insieme, fanno le fusa come gattini.» Goldmann e
la sua équipe mobilitarono anche alcuni funzionari di Israele, i leader delle organizzazioni ebraiche degli Stati Uniti e la stampa americana. L'ambasciatore Abba Eban chiese al segretario di Stato, Dean Acheson, di esercitare pressioni sulla Germania: «Una risposta insoddisfacente di Bonn sarebbe uno degli eventi più sinistri negli annali della morale umana» disse Eban, calcando la mano. Acheson parlò con Adenauer. Alcuni leader degli ebrei americani si rivolsero al presidente Truman. Intervenne anche l'alto commissario americano in Germania, John J. McCloy. Il generale Julius Klein, presidente dell'Associazione statunitense reduci di guerra ebrei, andò a parlare con Adenauer. Comunicò al cancelliere che, se non fossero ripresi i colloqui, egli avrebbe lanciato una campagna per affossare gli Accordi sulla Germania, con cui si intendeva ricondurre lo Stato tedesco nella famiglia delle nazioni e spianarne la strada verso l'adesione alla NATO. Durante il colloquio Klein lasciò cadere «per caso» il nome di un influente senatore, Robert A. Taft, la cui amicizia per Israele era ben nota. «La posizione durissima di Klein ha avuto il suo effetto su Adenauer, che ha promesso di fare il possibile per la ripresa dei negoziati» riferì da Parigi Maurice Fischer. «Klein consiglia di mantenere un atteggiamento caparbio e inflessibile con i tedeschi e di assicurarsi che la storia delle riparazioni continui a occupare le prime pagine dei giornali americani, perché la Germania abbia l'impressione che, se non manterrà le promesse, non verrà accolta nella NATO.» Qualche giorno prima della firma degli Accordi sulla Germania, Eliezer Shinar incontrò Hermann Abs, l'influente banchiere a capo della delegazione tedesca alla Conferenza sul debito di Londra nonché consigliere del cancelliere Adenauer per i negoziati sulle riparazioni. Abs propose informalmente la somma di 200 milioni di dollari, cioè un quarto di quella offerta in precedenza dai tedeschi. Goldmann capì che bisognava bruciare le tappe. Contattò Adenauer e si disse «sorpreso e amareggiato» dalla proposta di Abs, che contraddiceva la dichiarazione di pentimento del cancelliere e il suo impegno scritto a condurre i negoziati sulla base delle prime richieste avanzate da Israele. «Se considero le proposte del signor Abs alla luce delle precedenti dichiarazioni, senza le quali noi non avremmo mai acconsentito ad avviare i colloqui,» scrisse Goldmann
«sono certo che l'opinione pubblica ebraica non potrà fare a meno di ritenerle, e chiedo venia per la brutalità della parola, un insulto.» La Germania era in pieno miracolo economico e la motivazione addotta da Abs, ossia che la Repubblica federale non era in grado di accollarsi un simile onere, non avrebbe convinto né il popolo ebraico né l'opinione pubblica mondiale. Nonostante «la profonda delusione», Goldmann si diceva ancora fiducioso nell'obbligo morale che la Germania si era assunto verso il popolo ebraico. Era convinto che le proposte di Abs non rappresentassero il punto di vista del cancelliere. Se invece fosse giunta la conferma che la somma menzionata rispecchiava la posizione ufficiale della Repubblica federale, allora Israele e il popolo ebraico sarebbero stati costretti a interrompere i negoziati. «Un fallimento del genere» proseguiva Goldmann «scuoterà profondamente la fiducia nella sincera volontà della nuova Germania di pentirsi dei crimini dei suoi predecessori, in particolare agli occhi di quanti desiderano scorgere in lei, signor Cancelliere, il portavoce e il rappresentante di questa nuova Germania. La collera del mondo ebraico e di tutti i circoli non ebraici, che inorridirono di fronte al genocidio del popolo ebraico attuato dal regime nazista, sarà inevitabile e del tutto giustificata.» La minaccia non avrebbe potuto essere più esplicita. Goldmann offrì però a Adenauer una via d'uscita onorevole: «In questa fase critica», in cui i colloqui erano «sull'orlo del fallimento», egli rivolgeva un appello al cancelliere affinchè la discussione fosse ricondotta «all'alto livello etico» che ne aveva caratterizzato l'esordio. Sollecitava Adenauer a usare tutta la sua autorità per arrivare in tempi brevi a una proposta che permettesse di riaprire le trattative ufficiali». La situazione mutò rapidamente. Il vicecapo della delegazione tedesca, Otto Kùster, si dimise e il suo superiore, Franz Bòhm, minacciò di seguirlo. Adenauer era impegnato nei preparativi per la firma degli Accordi sulla Germania, ma fu costretto a trovare il tempo per sottoporre ai suoi ministri la questione delle riparazioni. Diede istruzioni a Bòhm perché riesumasse l'offerta originaria. Tre giorni prima della firma degli Accordi sulla Germania, John McCloy avvisò Goldmann a Parigi che stava per ricevere una chiamata importante. La mattina dopo telefonò Bòhm, il quale chiese di incontrarlo. Era autorizzato, disse,
a riprendere i colloqui dal punto in cui si erano interrotti, vale a dire a partire dall'offerta di forniture per un valore di 750 milioni di dollari da consegnare a Israele nell'arco di dodici anni. (Sia Goldmann sia Adenauer inclusero nelle loro memorie questa lettera. Nell'edizione israeliana Goldmann inasprì lievemente la formulazione originaria, omettendo le scuse per «l'insulto». Adenauer espunse invece l'intero paragrafo in cui Goldmann minacciava l'ira degli ebrei e lo sostituì con un'ellissi più misurata.) Goldmann si affrettò a rispondere che avrebbe raccomandato al governo israeliano di accettare «in linea di massima» la proposta, sebbene alcuni punti andassero perfezionati. I delegati israeliani telegrafarono a Gerusalemme che i risultati raggiunti erano «seri e solidi», tenuto anche conto che ora la Germania, essendo la sua posizione internazionale nettamente migliorata, era meno incentivata ad alzare l'offerta. Benché inferiore al miliardo, la somma ottenuta era «conforme alla natura della richiesta e all'onore dello Stato di Israele». Fu una svolta significativa non soltanto nella storia delle relazioni ebraico-tedesche, ma anche in quella del giudaismo nella sua globalità. Per la prima volta gli ebrei sarebbero stati indennizzati, sia pure parzialmente, per le sofferenze loro inflitte da un regime antisemita. A conti fatti, il governo tedesco si impegnò a pagare 3,4 milioni di marchi, vale a dire circa 820 milioni di dollari, scaglionati nell'arco di dodiciquattordici anni. Il 70 per cento era destinato a comperare prodotti fabbricati in Germania e il 30 per cento all'acquisto di petrolio. Della somma pattuita, 750 milioni di dollari spettavano a Israele. Quanto al resto, il governo israeliano agiva da tramite: avrebbe ricevuto le somme di denaro e le merci e le avrebbe trasferite, sotto forma di merci, di valuta estera e di valuta israeliana, alle organizzazioni ebraiche rappresentate nella Claims Conference, fra cui il Joint Distribution Committee e l'Agenzia ebraica, che ne avrebbero utilizzato una quota per finanziare le loro attività in Israele. Di conseguenza la maggior parte del denaro sarebbe rimasto o ritornato in Israele. L'incarico di scegliere, comperare e spedire i prodotti fu affidato a «una delegazione per gli acquisti» israeliana, che avrebbe goduto in Germania dei privilegi diplomatici. La Germania si assunse anche l'onere di indennizzare le vittime del
nazismo per la perdita dei loro beni, per la prigionia, i lavori forzati, i danni alla salute e i numerosi altri torti subiti. Il merito andava ancora una volta soprattutto a Nahum Goldmann. Durante i negoziati egli aveva rinunciato a quasi l'80 per cento della somma che aveva chiesto in origine per la Claims Conference. La sua strategia si dimostrò vincente. In cambio del pagamento immediato egli ottenne l'approvazione di leggi che garantivano un risarcimento a centinaia di migliaia di superstiti per lo più dell'Europa orientale, alcuni dei quali ora vivevano in Israele. Negli anni seguenti Goldmann riuscì ad allungare sempre più la lista degli aventi diritto, ad aumentare le indennità e a migliorare le norme che le regolavano. A lui si deve anche la creazione di fondi riservati a casi specifici e a svariate forme di credito e sovvenzioni. Tutto questo l'aveva ottenuto grazie alle promesse che aveva strappato ai tedeschi nella prima fase dei negoziati, quando aveva rinunciato al pagamento immediato delle riparazioni. Il numero dei beneficiari delle pensioni individuali crebbe costantemente negli anni, così come l'ammontare degli assegni, che passarono dai 6 milioni di dollari del 1954 ai 100 del 1961. La cerimonia della firma avvenne il 10 settembre 1950, alle otto del mattino, nel municipio di Lussemburgo. Per ragioni di sicurezza, nel comunicato stampa furono indicati un luogo e un'ora diversi. Il ministro degli Esteri israeliano, Moshe Sharett, e i suoi collaboratori arrivarono molto presto. Un impiegato li fece accomodare nella sala dei matrimoni dopo aver cercato a lungo la chiave. Rimasero in attesa. Adenauer giunse all'ora prevista. «Ho aspettato questo giorno con ansia e con gioia» disse a Sharett, il quale rispose in tedesco: «E' un giorno speciale e di grande significato anche per noi». Dopo le presentazioni ufficiali, Moshe Sharett, Nahum Goldmann e Konrad Adenauer firmarono gli accordi. Sharett aveva preparato un discorso molto solenne. Aveva dovuto percorrere «i sette gironi dell'inferno» per farlo approvare dal governo israeliano, disse in seguito. Alcuni ministri l'avevano trovato troppo accomodante; Ben Gurion l'aveva giudicato eccessivamente duro e aveva chiesto di togliere la frase in cui si diceva che non c'era perdono per il sangue versato. «Trova troppo crudele dire in faccia alla controparte una cosa del genere» riferì Sharett. Lui, però, desiderava che il suo
discorso fosse «israeliano»: «Sono il ministro degli Esteri dello Stato di Israele e non semplicemente uno degli ebrei che hanno massacrato». Perciò, sul sangue versato voleva un «fervore ebraico dieci volte superiore» a quello che si aspettava nel discorso di Goldmann. Ma quando la versione definitiva fu sottoposta al cancelliere Adenauer, egli rifiutò di sottoscriverla. «Io» disse «sono pronto ad ascoltare queste cose, ma la Germania non lo è.» E così alla cerimonia della firma non ci fu nessun discorso. Adenauer aveva ragione a dire che la nazione non era pronta: le due camere del Bundestag impiegarono sei mesi a ratificare gli accordi. In quel semestre l'arte della persuasione di Nahum Goldmann fu messa più volte a dura prova e Israele fu costretto a fare una concessione imbarazzante. Qualcuno aveva attirato l'attenzione dei ministri della Repubblica federale su una clausola del documento che vietava di utilizzare le navi tedesche per trasportare le merci che Israele avrebbe acquistato. Walter Hallstein, su incarico di Adenauer, propose a Shinar di modificare quel punto, e questi, rendendosi conto che quel piccolo dettaglio avrebbe potuto ritardare l'approvazione dell'intero trattato, volò in Israele per discuterne con il primo ministro. Ben Gurion sottopose la questione al gabinetto. «Non possiamo mandar giù una cosa del genere! Ci andrà di traverso!» ammonì Zaiman Aran, dirigente del Mapai e di lì a poco ministro. Alla Knesset ci fu un'altra levata di scudi: «La bandiera tedesca, la bandiera assassina, sventolerà sul territorio della nostra patria!» urlò Haim Landau dell'Herut. Ben Gurion lo rimbeccò così: «Queste grida le abbiamo già sentite altrove, da uno che, per la felicità di tutto il mondo, marcisce già nella tomba». Poi, il discorso del premier si fece più razionale. Spiegò come, anche se si fosse concessa ai tedeschi la modifica che richiedevano, le navi israeliane avrebbero comunque avuto la precedenza su quelle di Bonn, le quali sarebbero subentrate soltanto qualora i trasporti israeliani si fossero rivelati insufficienti. I sei mesi intercorsi tra la firma e la ratifica dell'accordo da parte di ambedue le camere del Bundestag furono caratterizzati da numerosi eventi che nulla avevano a che vedere con le relazioni fra Israele e la Germania. Una serie di crisi scosse il sistema politico israeliano. Un'ondata di antisemitismo spazzò l'Europa orientale. Mosca interruppe le
relazioni diplomatiche con Israele in seguito allo scoppio di una bomba davanti alla sede della delegazione sovietica a Tel Aviv. La decisione del Cremlino accentuò le tensioni politiche e ideologiche fra la sinistra e la destra, nonché all'interno della stessa sinistra. Contemporaneamente peggiorarono i rapporti fra il Mapai e i partiti religiosi, in conseguenza del dibattito sulla leva obbligatoria per i giovani di entrambi i sessi e sull'educazione dei figli degli immigrati. La questione degli accordi con la Germania passò in secondo piano. In tutto il paese si vendevano prodotti e libri tedeschi. «Abbiamo dimenticato il dolore, la battaglia contro le riparazioni si va spegnendo e le loro voci sono sempre più flebili» protestò Dov Shilansky. Era molto turbato. Lo trovava intollerabile. Non gli andava giù. «Mi aggiravo qua e là come un pazzo» scrisse in seguito. Bussò alla porta del ministro degli Esteri. La storia di Dov Shilansky, figlio di un ricco mercante di pellame della Lituania, era la storia di tutta una generazione di superstiti dell'Olocausto schierati a destra. Si sentivano offesi e traditi da Israele e questi sentimenti non li abbandonarono neppure mentre i diplomatici si stringevano la mano. L'odio contro i tedeschi, che bruciava nell'animo di Shilansky, sgorgava dall'esperienza personale e non dall'ambizione politica. L'Herut sfruttò quell'odio per i propri fini, ma Shilansky rimase fedele al suo passato, anche quando molti israeliani avevano ormai imparato a convivere con il cambiamento e Menahem Begin, diventato primo ministro, riceveva i politici tedeschi. Shilansky, piccolo, con un sorriso infantile, la voce nasale e uno spiccato accento yiddish, si definì, in un momento di buonumore, un tembel, un idiota. La sua storia la raccontò lui stesso nell'aula del tribunale di Tel Aviv, il 5 ottobre 1952: «Sono nato [nel 1924] a Siauliai, in Lituania, una città con una cultura vivacissima. Ho studiato al ginnasio ebraico. Nel 1937 mi sono iscritto al movimento giovanile del Betar e nel 1939 sono entrato in una cellula dell'Irgun. Mi preparavo a emigrare in Palestina... ma venne la guerra e il grande diluvio di sangue si abbattè anche sulla nostra città». Fu testimone di arresti e di stragi, assistette all'impiccagione di un partigiano nel ghetto. Vide i soldati tedeschi rastrellare i bambini ebrei per sterminarli. «Ho conservato la camiciola, rinvenuta nel ghetto, di un bambino di un anno con la sua stella gialla.» Tentò ripetutamente, e
inutilmente, di organizzare la rivolta nel ghetto, poi passò da un campo di concentramento all'altro, finché non arrivò a Dachau. Ho visto migliaia di ebrei intirizziti dal freddo e gonfi di fame. ... Io e la mia famiglia siamo stati molto fortunati: sono riuscito a ritrovare mia madre e le mie sorelle ancora vive. Le sofferenze di mia madre erano per me un tormento. Era la più vecchia del campo. Non era abbastanza svelta e tutti la picchiavano e insultavano. ... Poi venne la «marcia della morte». ... Ricordo che era il 30 di aprile, il giorno più atroce. Era una giornata invernale. In un bosco coperto di neve molti morirono di stenti. Arrivò la sera e la neve continuava a cadere.... Quella notte ci ricoprì interamente. Non sentivamo più niente. Le migliaia di persone che giacevano sotto la coltre erano ormai invisibili. Quelli che avevano ancora la forza di togliersi la neve dal volto, per non restare sepolti vivi, si addormentavano esausti; non sentirono neppure il rombo delle centinaia di camion tedeschi che scappavano. Quando ci svegliammo la mattina del 1° maggio 1945, congelati, scheletrici, non c'era più neanche una SS e gli abitanti del villaggio che ci trovarono dissero che stavano per arrivare gli americani. Ci trascinammo fino alle case. Ci imbattemmo in un cavallo morto durante i combattimenti. Ci gettammo tutti sulla carcassa. Qualche minuto dopo erano rimaste soltanto le ossa. Fu così che arrivò la liberazione. A Shilansky parve di rinascere: Quella mattina, quando mi svegliai e mi accorsi che i tedeschi erano scappati, sentii un impulso irrefrenabile a braccarli e a distruggerli. Ma le cose andarono diversamente, e quell'impulso si è trasformato nel mio cuore in un desiderio immenso di realizzare il sogno della mia vita: uno Stato ebraico che compisse questa grande vendetta su scala nazionale. Durante la guerra di indipendenza Shilansky era al comando di un plotone che arrivò fino alla frontiera con il Libano: avrebbe proseguito verso nord, disse, se non avesse ricevuto l'ordine di fermarsi. Dopo la guerra aveva frequentato l'accademia militare e poi aveva fatto l'impiegato e il contabile per quattro anni. Era povero. Ma dopo dieci anni di orrori, quelli erano stati giorni felici per lui e per la moglie. Avevano un figlio, Yossi. Poi aveva saputo dei negoziati con la Germania. La sua prima reazione era stata di incredulità. A poco a poco, però, si era reso conto della realtà e la sua vita era diventata un inferno. «Non riuscivo a trovar
pace. Qualunque cosa facessi, un unico pensiero mi martellava nella testa: ero cittadino di una nazione traditrice e con la mia apatia avallavo quel tradimento. All'improvviso ero stato strappato alla mia vita tranquilla e scaraventato in una battaglia interminabile contro quella grande follia, il feroce crimine dei negoziati con la Germania. Cominciai a organizzare i miei amici e trovammo molte orecchie disposte ad ascoltarci. Parlai con centinaia, forse migliaia di persone.» La notizia arrivò all'Herut, che lo arruolò per le sue iniziative. Shilansky organizzò una mostra itinerante sull'Olocausto e suggerì di proiettare nei cinema le immagini di Buchenwald e di Auschwitz, «per scuotere dal torpore le coscienze». Pensò persino di raggruppare scrittori e intellettuali disposti a ripetere sul monte Sion il suicidio collettivo di Masada. Shilansky aveva partecipato alla manifestazione di Begin davanti alla Knesset ed era stato in prigione per dieci giorni. Il voto del Parlamento aveva costituito per lui un trauma. No, non era l'unico superstite dell'Olocausto ad avere quei pensieri, disse, ma gli altri sembravano desiderare la normalità, voler dimenticare, rimuovere il passato. Tutt'al più partecipavano a qualche commemorazione. A lui non bastava. Per questo aveva fabbricato una bomba a orologeria, l'aveva messa nella borsa ed era andato al ministero degli Esteri a Tel Aviv. La polizia l'aveva arrestato immediatamente, ma non era stato possibile stabilire con certezza se Shilansky fosse un terrorista che si preparava a un attentato o invece soltanto un contestatore che voleva creare un caso. Fu condannato a ventun mesi di carcere. Quando uscì di prigione, Shilansky si iscrisse alla facoltà di legge e diventò un avvocato di successo. Ebbe altri due figli. Yossi, il maggiore, morì soldato in Galilea, non lontano dal luogo in cui il padre aveva combattuto durante la guerra di indipendenza. In seguito Shilansky entrò in politica e diventò presidente della Knesset. Fu sempre convinto di aver fatto il proprio dovere; l'unico rimpianto era di non essere riuscito con la sua bomba a cambiare il corso della storia. Nell'aprile del 1953, mentre Dov Shilansky era ancora in prigione, giunse in Israele il violinista Jascha Heifetz per tenere alcuni concerti. Il programma includeva una composizione di Richard Strauss, che era stato filonazista durante i primi due anni del regime hitleriano. Heifetz ricevette diverse lettere che
l'ammonivano a non suonare Strauss, ma le ignorò. Lo sollecitarono anche due ministri, ma il musicista non cedette: era contrario alla censura nella musica, spiegò. I concerti si tennero in un clima di grande tensione, ma furono accolti con calore dal pubblico di Tel Aviv, Jaffa e Gerusalemme. Alla fine dell'ultimo concerto un giovane sconosciuto si avvicinò al violinista roteando una barra di ferro e lo colpì alla mano. Due giorni dopo, Heifetz, con la mano ancora fasciata, fu ricevuto da Ben Gurion, il quale annotò nel diario: «Gli ho detto che se qualcuno mi avesse chiesto se suonare o no Strauss, avrei risposto che la musica va giudicata solo per la sua qualità. Ma se lui, Heifetz, mi avesse fatto la stessa domanda, gli avrei consigliato di lasciar perdere Strauss. La sua visita qui è un avvenimento importante per tanti, anche per quelli che non frequentano le sale da concerto, e molti resteranno turbati se suonerà Strauss. Dovrebbe rinunciare per amor loro, perché l'uomo non è una creatura razionale e i sentimenti hanno un ruolo importante nella vita». Ben Gurion, comunque, persuase Heifetz a non andarsene da Israele a causa dell'attentato e a «suonare anche Strauss». L'avrebbe fatto scortare dalla polizia, gli disse. «Mi domandò se sarei andato a sentirlo» annotò Ben Gurion. «Sì, ho detto, anche se non me ne intendo di musica.,» L'aggressore di Heifetz non fu mai catturato. Shilansky ne scoprì l'identità alcuni anni dopo, ma non volle mai rivelarla. Nel settembre del 1953 la polizia arrestò alcuni terroristi che si preparavano a mettere una bomba nel porto di Haifa per protestare contro l'importazione di merci dalla Germania, come prevedeva l'accordo sulle riparazioni. Ben Gurion, amava ripetere Nahum Goldmann, diceva che erano stati testimoni di due miracoli: la fondazione dello Stato di Israele e la firma del trattato con la Germania. «Io sono stato l'autore del primo, tu del secondo.» Ma, ammesso che Ben Gurion abbia davvero posto l'accordo con i tedeschi sullo stesso piano della creazione dello Stato di Israele, l'unico a sentire quelle parole dev'essere stato Goldmann, perché non ce n'è traccia nelle carte di Ben Gurion. Nel luglio del 1952 gli scrisse: «Mio caro Goldmann, la tua parte in questo importante progetto è indubbiamente grande, ma non mi sembra che tu abbia bisogno di complimenti». Si sbagliava. Goldmann ne aveva bisogno, eccome, e li voleva in inglese. E allora
Ben Gurion gli spedì un'altra lettera che si direbbe dettata dallo stesso Goldmann. «La tua energia e saggezza, il tuo tatto e coraggio hanno avuto un ruolo decisivo nei negoziati» scrisse David al «Caro Nahum», esaltando l'aspetto etico dell'accordo. Però non resistette alla tentazione di esprimere qualche dubbio sul fatto che i tedeschi avrebbero rispettato alla lettera tutte le clausole. Era troppo presto per dirlo, annotava cauto. Nel frattempo diede istruzioni affinchè il trattato prevedesse che tutte le merci fossero consegnate a un'unica società israeliana, in modo da impedire «agli speculatori ebrei» di invadere il mercato tedesco. «Non conosco nessun'altra nazione che abbia tanti ladri, imbroglioni e profittatori senza il minimo scrupolo come questa piccola nazione che si chiama Israele» scrisse il primo ministro. I sospetti di Ben Gurion si dimostrarono infondati. I tedeschi pagarono fino all'ultimo centesimo. Acconsentirono a più riprese a migliorare i termini dell'accordo, con l'aggiunta di varie indennità e sconti, e a versare anticipi sulle rate future per permettere agli israeliani di acquistare le merci di cui avevano bisogno. L'attuazione degli accordi comportò contatti quotidiani fra il capo della delegazione israeliana per gli acquisti, Eliezer Shinar, e i funzionari tedeschi. Bisognava districare numerose e complesse questioni burocratiche, finanziarie e legali. Shinar e le sue centinaia di collaboratori si comportavano ormai come ricchi uomini d'affari con 750 milioni di dollari da spendere e si aspettavano il dovuto rispetto. Nel complesso non ebbero di che lamentarsi: furono trattati come clienti di riguardo. Nel suo rapporto, la Banca di Israele riferì che la delegazione aveva agito con professionalità e aveva acquistato i prodotti a prezzi competitivi. Nell'ottobre del 1956, quando Israele invase la penisola del Sinai, l'accordo sulle riparazioni superò anche l'esame politico. Shinar era a Gerusalemme per consultazioni quando fu presentata alle Nazioni Unite la proposta di imporre sanzioni economiche allo Stato ebraico. Partì per Bonn nel cuore della notte sotto scorta militare per consegnare a Adenauer una lettera in cui Ben Gurion spiegava le ragioni della guerra. «Ancora una volta» scrisse in seguito Shinar «ci fu qualcosa nei modi di Adenauer che mi colpì, qualcosa che avevo già notato in precedenza. Lesse la lettera, fece qualche domanda sulla campagna nel Sinai e poi diede subito una risposta
chiara e inequivocabile, senza se e senza ma. Potevo informare Ben Gurion, mi disse, che la Repubblica federale avrebbe continuato a rispettare gli accordi anche in futuro e a fornire i prodotti necessari allo sviluppo pacifico di Israele.» La delegazione israeliana per gli acquisti fissò il proprio quartier generale a Colonia. Riceveva il denaro in rate annuali dal governo tedesco, acquistava le merci e le spediva in Israele. Gli ordini arrivavano dalla Società per le riparazioni di Tel Aviv, che decideva cosa comperare e da chi. La presiedeva Hillel Dan, vecchio militante del Mapai e prestigioso manager di grandi aziende della Histadrut, come Solel Boneh. Il 30 per cento delle riparazioni tedesche era destinato all'acquisto di petrolio. Il resto fu per lo più utilizzato allo scopo di comperare attrezzature e materie prime per conto delle società statali, dell'Agenzia ebraica e della Histadrut.* (Nota: L'8 per cento, per un totale di 66 milioni di dollari, servì ad acquistare oltre 1300 impianti per la produzione di strumenti ottici, la lavorazione della gomma, l'industria tessile, gli strumenti scientifici e l'inscatolamento. Con il denaro delle riparazioni Israele si equipaggiò di ogni cosa: dalle presse tipografiche alle macchine per produrre wurstel. Due terzi del totale servirono per attrezzare appena trentasei stabilimenti, quasi tutti di proprietà della Histadrut. Esisteva, come osservò nelle sue memorie Hillel Dan, «una corrispondenza perfetta fra gli interessi di Solel Boneh e quelli dello Stato». Alle altre centinaia di fabbriche, per lo più private, andarono soltanto 22 milioni di dollari. Israele pagò circa il 68 per cento di tutte le sue importazioni con capitali stranieri, una percentuale eguagliata da pochi altri paesi al mondo.) I finanziamenti provenivano dalle donazioni raccolte dallo United Jewish Appeal, da prestiti di banche straniere e dagli Stati Uniti. Le riparazioni tedesche fornirono in media il 23 per cento del capitale straniero (nel 1961 fu il 40 per cento). IL 17 per cento di tutte le riparazioni, vale a dire oltre 100 milioni di dollari, servì ad acquistare una cinquantina di navi da carico (più due transatlantici), che nel 1961 costituivano circa i due terzi della flotta mercantile israeliana. Il porto di Haifa si dotò di nuove gru,
compresa una galleggiante, soprannominata Bar Kochba. Nel primo decennio dall'entrata in vigore dell'accordo, dal 1953 al 1963, i soldi delle riparazioni costituirono quasi un terzo degli investimenti nel campo dell'energia elettrica, che triplicò la sua potenza, e servirono a finanziare pressoché la metà degli investimenti nelle ferrovie, con l'acquisto di locomotori diesel, carrozze, rotaie e segnaletica tedeschi. Dalla Germania provenivano anche le attrezzature per canalizzare l'acqua, per le prospezioni petrolifere, per il funzionamento delle miniere di rame di Timna, e tutte le macchine agricole e edili: trattori, mietitrebbie e autoveicoli. Nei dodici anni in cui fu in vigore il trattato sulle riparazioni, il prodotto interno lordo di Israele triplicò. Secondo i calcoli della Banca di Israele, gli investimenti effettuati con le riparazioni contribuirono al 15 per cento del prodotto lordo nazionale e crearono circa 45.000 posti di lavoro. La Banca riteneva comunque che anche senza le riparazioni Israele sarebbe riuscito a procurarsi il denaro necessario agli investimenti mediante prestiti e probabilmente attraverso altre fonti. Non era dunque vero che senza le riparazioni ci sarebbe stato il collasso economico. Era vero, invece, che esse avevano accelerato lo sviluppo e avevano avuto un ruolo politico e psicologico importante. Sì, perché quelli erano tempi difficili per Israele: non erano passati nemmeno dieci anni dall'Olocausto e cinque dalla guerra di indipendenza. Il paese era invaso da centinaia di migliaia di nuovi immigrati, molti dei quali senza un tetto. Il governo impose un regime di austerità, razionando i viveri e i beni di prima necessità. Si sviluppò il mercato nero e la disoccupazione spinse molti ad andarsene. L'atmosfera era resa ancora più cupa dai continui incidenti alle frontiere. Ma la sopravvivenza dello Stato non fu mai veramente in pericolo: il problema era sapere se e quando Israele sarebbe riuscito ad assicurare ai propri cittadini un tenore di vita migliore. Le riparazioni furono sicuramente d'aiuto. E perciò giovarono anche al Mapai. I nuovi macchinari industriali e agricoli migliorarono le condizioni degli operai e dei contadini. Nelle vetrine dei negozi ricomparvero articoli che non si vedevano più da tempo: frutta, verdura e altri prodotti alimentari. Gli israeliani potevano di nuovo gustare le mele e spalmare sul pane il burro e non solo la
margarina. Potevano scegliere fra un'ampia gamma di vestiti, di scarpe, di mobili, di oggetti di cartoleria e di materiale elettrico. Non era certo il benessere delle nazioni sviluppate, ma il paese aveva finalmente l'impressione che i sacrifici fossero finiti. In tutte le città si costruiva a ritmo frenetico e ovunque spuntavano le gru. C'era grande fermento. Sorsero nuove centrali elettriche e ci fu luce per tutti. Nelle case vennero installati i telefoni, mentre i treni divennero comodi ed eleganti quasi quanto quelli europei. Erano tutte cose non indispensabili, ma che rendevano la vita degli israeliani più piacevole. Decine di migliaia di persone, poi diventate centinaia di migliaia, cominciarono a ricevere i risarcimenti. Le prime richieste erano state presentate dagli yekke in base alle leggi sulle riparazioni di guerra imposte alla Germania dalle potenze occupanti ancora prima che venisse firmato l'accordo con Israele. Si trattava in generale di domande per ottenere la restituzione delle proprietà di cui erano stati espropriati o che erano stati costretti a svendere: fabbriche, officine, negozi, aree fabbricabili, case, appartamenti, mobili. Le domande dovevano essere redatte in tedesco e la traduzione di tutti i documenti autenticata da un notaio o dagli appositi uffici istituiti con la legge per la certificazione. Erano procedure complesse, per cui era necessario conoscere norme e regolamenti che variavano con il tempo e a seconda delle zone d'occupazione. Fu una vera manna per gli avvocati, soprattutto per quelli di origine tedesca, che fino ad allora non erano riusciti a guadagnarsi da vivere con la loro professione. Uno dei più noti divenne Hans Grùnbaum, che in Israele era stato costretto a fare il giardiniere. Gli avvocati ricevevano in genere una percentuale sulle somme che riuscivano a ottenere dai tedeschi. Nacque anche un'organizzazione internazionale a scopo benefico, la United Restitution Organization (URO), che arrivò a contare oltre mille avvocati fra Israele, Germania, Stati Uniti e altri paesi. I suoi associati chiedevano non più del 12 per cento come onorario. Nel 1967 la URO presentò oltre 125.000 istanze. Le richieste dovevano essere documentate e le autorità tedesche esaminavano le carte con molta pignoleria: titoli, contratti d'affitto, atti di vendita, ricevute, bilanci, dichiarazioni giurate rilasciate da parenti e soci in affari, fornitori, clienti e vicini. «La famiglia abitava al nostro piano,
dall'altra parte del pianerottolo. Erano persone tranquille e ricordo che avevano un mobile Biedermeier in sala da pranzo» diceva una testimonianza. Nel corso degli anni gli yekke inviarono in Germania migliaia di inventari delle loro proprietà, con descrizioni estremamente dettagliate, fino a includere il fiore ricamato su uno strofinaccio. Quei documenti sono il memoriale di un modo di vivere scomparso: ogni lettera esprime tristezza, ogni numero nostalgia. «Avevamo mobili moderni di legno massiccio, costruiti su misura dalla ditta Braun di Norimberga» scrive un ingegnere di Ramat Gan, un tempo imprenditore a Bamberg. «L'arredamento dello studio era di noce lucido: un'ampia scrivania (in stile diplomatico), una grande libreria, una poltrona di cuoio e quattro sedie (imbottite), un grande tavolo (allungabile), un divanetto d'angolo (costruito su misura, con la spalliera a volute, scolpita a mano) e tende verdi (di velluto), un candelabro (di cristallo), per un totale di 2500 marchi. La camera da letto (di betulla chiara) comprendeva due letti (il modello grande, eseguito su misura), comodini (con lampade), un grande armadio (a tre ante, con lo specchio) e una toeletta con due sedie, per un totale di 1800 marchi.» Poi c'era la fabbrica che produceva materiale isolante e bisognava stabilire chi ne era il legittimo proprietario, se il richiedente di Ramat Gan o suo zio Emil. E intanto gli anni passavano. I tedeschi non avevano fretta: 1957,1960,1961. I fascicoli si arricchirono di altri moduli e di altre lettere: sono le testimonianze di parenti e conoscenti, spedite da Berlino Ovest, da Amersfoort in Olanda, da Cilote in Cile, da Huntington Park in California e da Hadera in Israele. Si arriva così al 1964, anno in cui i tedeschi chiedono alla famiglia se non sia possibile rintracciare lo zio Emil: sarebbe bene che testimoniasse davanti a un notaio autorizzato per chiarire una volta per tutte a chi appartiene la ditta. Purtroppo non è possibile, è la risposta: lo zio Emil è morto a Theresienstadt, come era già stato specificato nella prima richiesta di risarcimento presentata all'inizio del 1951. L'unica cosa che restava di lui era una cartolina al nipote Horst con gli auguri per il Capodanno ebraico, datata 23 agosto 1942. Di quella cartolina, faceva notare Horst, che era il richiedente di Ramat Gan e ora si chiamava Ilan, aveva allegato una copia alla sua prima richiesta,
quella del 1951. Comunque ne allegò rispettosamente un'altra. In un giorno imprecisato del 1967 l'incartamento si arricchì di un ordine di pagamento per il valore di 20.627 marchi, poco più di 5000 dollari. Verso la fine dell'anno la cifra venne aumentata di altri 2422 marchi, vale a dire circa 600 dollari. C'era anche l'assicurazione sulla vita. Lo zio Emil, che riposi in pace, aveva sottoscritto una polizza poco dopo il ritorno dal fronte durante la prima guerra mondiale. Non era scaduta. La compagnia assicurativa (filiale di Vienna) esisteva ancora e, miracolo, possedeva la documentazione sullo zio Emil. All'inizio del 1963 la filiale di Francoforte si dichiara felice di comunicare che la polizza del suo antico, egregio cliente, di 5000 dollari nel 1919, ora valeva 714 marchi e 23 pfenning, vale a dire circa 200 dollari, che sarebbero andati ai suoi eredi. In seguito fu possibile chiedere il risarcimento per l'interruzione degli studi e della carriera professionale. Chiunque fosse stato costretto a lasciare la Germania mentre studiava, poniamo legge, poteva sostenere che avrebbe fatto l'avvocato o il funzionario, guadagnando di più che in Israele. Se poi lo studente era brillante, ed era in grado di esibire le pagelle, sarebbe anche potuto diventare giudice o magari procuratore capo della Corte distrettuale. I tedeschi valutavano la documentazione e, se la ritenevano valida, pagavano un indennizzo. Era una delle tante ironie nella storia del sionismo: l'indennizzo tedesco avrebbe dovuto in teoria segnare la sua vittoria e la vendetta contro i nazisti, ma molti argomentavano le proprie richieste sostenendo che non avrebbero mai lasciato la Germania se avessero potuto rimanerci. In un certo senso erano dei rifugiati politici, la cui vita in Israele era sotto alcuni aspetti peggiore di quella che avrebbero avuto in Germania. Qualcuno si pose anche il problema dell'onore di Israele. Il dottor Yosef Falk, pediatra di Haifa, si rivolse al direttore generale del ministero degli Esteri: i tedeschi, disse, gli avevano concesso una somma inferiore a quella richiesta. Poteva appellarsi contro la sentenza, ma per farlo doveva dimostrare che lo stipendio di direttore di un reparto dell'ospedale statale di Israele non era sufficiente per vivere. «Non ho dubbi che lo si possa dimostrare, ho invece dubbi sull'opportunità di introdurre un simile dibattito in un tribunale tedesco» affermò. Meno sensibile al problema, il ministero
rispose al bravo cittadino di non avere alcuna obiezione al suo appello. Molti chiedevano il rimborso delle spese sostenute per emigrare nella Terra dei padri. Abbiamo dovuto vendere il mobilio a prezzi stracciati, non potendolo portare con noi, perché era troppo ingombrante per un appartamento in Palestina (una stanza misura in media dai tredici ai sedici metri quadrati). Perciò abbiamo spedito soltanto il pianoforte e alcuni mobiletti, la culla, tre tappeti (uno grande), gli utensili di casa, gli indumenti, la biancheria e diverse centinaia di libri per un totale di 15 fra casse e valigie, a cura della ditta Philip Guttmann di Lichtenfeis (Alta Franconia), che non esiste più, ma di cui abbiamo conservato la fattura, che riporta il prezzo di 498 marchi per l'imballaggio, l'assicurazione e il trasporto. Abbiamo viaggiato in treno in seconda classe fino a Trieste via Monaco, e poi sulla Martha Washington fino a Haifa in classe turistica. Abbiamo conservato i biglietti, che costavano 200 marchi. Il bambino ha viaggiato gratis. Chiedo pertanto il rimborso per un totale di 4200 marchi. I marchi di cui si parla erano quelli del Terzo Reich, che corrispondevano a 488 marchi della Repubblica federale, cioè a circa 100 dollari. I tedeschi pagarono. A metà degli anni Cinquanta molti israeliani di origine tedesca cominciarono a ricevere le pensioni e i risarcimenti dalla Germania: molti ottennero più di un pagamento per istanze diverse. Le norme sulle riparazioni furono discriminatorie fin dall'inizio: gli israeliani di origine tedesca avevano diritto a un compenso superiore. Secondo i calcoli effettuati dalla Banca di Israele, il 10 per cento dei richiedenti ottenne fra il 31 e il 43 per cento dell'intera somma, e di questo 10 per cento molti erano yekke. Fra di essi c'erano imprenditori, albergatori, negozianti, medici, professionisti e altre categorie a reddito elevato. Pochi si arricchirono con le riparazioni, ma molti riuscirono a condurre una vita agiata senza ulteriori preoccupazioni finanziarie. Non erano più giovani. Andavano ai concerti di musica da camera all'auditorium Wise dell'Università ebraica. Arrivavano in Volkswagen e nell'intervallo si raccontavano come avevano passato le ultime vacanze e dove sarebbero andati l'estate prossima: a Interlaken, in Svizzera, o a Zeli am See, in Austria. Quei soldi li separarono ulteriormente dal resto degli israeliani. La loro lingua materna,
sostenevano i richiedenti, era il tedesco, avevano frequentato le scuole tedesche e perciò appartenevano «alla sfera culturale tedesca». La Germania federale non lo negava, però voleva le prove e spesso li sottoponeva a esami di lingua. Anche i superstiti dell'Europa orientale erano costretti a subire la burocrazia tedesca e spesso si imbattevano in funzionari miopi, ingiusti, insensibili e malevoli. I tedeschi pagavano un indennizzo di cinque marchi per ogni giorno trascorso nei lager, a partire dal secondo mese. Un anno ad Auschwitz valeva 1800 marchi, circa 450 dollari. Gli ex prigionieri dovevano descrivere come erano arrivati e raccontare la loro biografia in tedesco su un modulo speciale. Bisognava anche allegare le prove: il numero di prigionia e due testimonianze giurate di persone rinchiuse nello stesso campo di concentramento. A loro volta i testimoni dovevano specificare se avevano presentato la domanda di risarcimento e, in caso affermativo, i vari documenti venivano messi a confronto. Di alcuni lager esistevano i registri con il numero assegnato a ciascun prigioniero, di altri c'erano soltanto gli elenchi con i nomi. Un superstite si sentì rispondere: «Lei non può essere stato a Buchenwald alla data citata, perché il suo nome compare nell'elenco dei prigionieri di Cross Rosen e a Cross Rosen il suo numero era già stato assegnato ad altri». Confrontavano le date riportate nei vari documenti alla ricerca di contraddizioni. «Abbiamo preso nota dell'affermazione secondo cui al suo arrivo al campo lei aveva dichiarato un'età maggiore per sfuggire allo sterminio dei bambini, ma il suo certificato indica che in realtà lei aveva 18 mesi in più di quelli necessari. Non comprendiamo perciò perché mai abbia ritenuto di fornire una data di nascita falsa al momento della registrazione» risposero in un caso. E in un altro: Nel calcolo del periodo di prigionia che da diritto al risarcimento non possiamo tener conto della prigionia in Ungheria. Lei sostiene di essere giunto a Budapest come profugo in seguito all'invasione della Slovacchia, ma non presenta alcun documento a conferma della sua dichiarazione. Le rammentiamo che a quell'epoca l'Ungheria era un paese indipendente, non occupato, e che il governo tedesco non si assume la responsabilità delle leggi vigenti in quel paese. Facciamo anche presente che, a parte la sua dichiarazione, non esiste alcuna prova che lei sia stato arrestato
dagli ungheresi perché era ebreo. E così via. A un certo punto nella storia delle riparazioni fu introdotto un indennizzo per l'offesa all'«onore ebraico», subita da tutti quegli ebrei che erano stati costretti a cucirsi sul vestito un contrassegno, di solito giallo. Anche in questo caso, fra i vari documenti presentati dai richiedenti emergevano incongruenze e imprecisioni. «Se è vero che lei ha dovuto cominciare a indossare la stella di Davide alla data citata, non è possibile che lei si trovasse nel campo alla data riportata, perché in base alle nostre informazioni la stella fu imposta nel ghetto in cui lei afferma di avere vissuto soltanto in una data posteriore a quella in cui dice di essere stato internato.» Alcuni superstiti potevano chiedere un risarcimento per i danni alla salute subiti in conseguenza delle persecuzioni naziste, ma non sempre riuscivano a fornire le prove. Dovevano perciò sottoporsi a esami effettuati da medici approvati da Bonn; i risultati venivano poi trasmessi agli specialisti tedeschi per un secondo parere. «Abbiamo preso nota della sua dichiarazione che la ferita alla spina dorsale le fu provocata nel campo di Buchenwald, dove un ufficiale delle SS, di cui non specifica il nome perché afferma di non ricordarlo, l'avrebbe presa prima a calci e poi calpestata. Ma dal suo curriculum vitae risulta che nel 1951 lei si è arruolato nell'esercito israeliano. Le chiediamo pertanto di sottoporci una copia della sua cartella clinica, tradotta, firmata e autenticata da un notaio, per chiarire la sua posizione, in quanto, se è stato ritenuto idoneo al servizio militare, forse il danno alla spina dorsale non era grave oppure potrebbe essere sopravvenuto durante il servizio stesso.» In seguito divenne possibile chiedere un contributo per le cure termali a Tiberiade o in qualche altro luogo, nonché un supplemento di indennizzo se le condizioni di salute dei superstiti peggioravano. Con il tempo entrarono nel computo anche i traumi d'ordine psicologico. E allora, anziché le radiografie, gli esami del sangue e delle urine, i richiedenti dovevano inviare in Germania documenti che attestavano ansie, angosce, disturbi del sonno o della sessualità. I superstiti erano così costretti a rivivere i terrori dell'Olocausto a beneficio degli psichiatri. Molti dovevano ricorrere all'avvocato per persuadere le autorità tedesche che era «tutto vero» e mercanteggiare sulla percentuale d'invalidità. Una volta
riconosciuto il diritto alla pensione, bisognava stabilire la somma da corrispondere. I tedeschi chiedevano al fisco israeliano di certificare il reddito del richiedente e del coniuge al momento della domanda, che non di rado era stata presentata dieci-quindici anni prima. Procurarsi i documenti non era facile. Il ministero delle Finanze israeliano aveva tutto l'interesse a facilitare le procedure, tanto che da un certo momento in poi cominciò a fornire i certificati in lingua tedesca. Ma anche i burocrati israeliani spedivano i poveretti da un ufficio all'altro, a volte per mesi o anni. I tedeschi passavano al microscopio i documenti israeliani alla ricerca delle più piccole incongruenze. «Nella documentazione del suo reddito per il periodo dal 1° aprile 1954 al 31 marzo 1971 mancano informazioni sul periodo fra il 1° aprile 1957 e il 31 marzo 1958. La preghiamo di notificarci se anche durante questo periodo la sua fonte di guadagno è stata la merceria e a quanto è ammontato il suo reddito. La sua pratica non potrà essere evasa finché non sarà completa.» E in un altro caso: «Apprendiamo che suo figlio Yoram studia attualmente chimica all'università della California a Berkeley. La preghiamo di volerci mostrare, con documenti tradotti in tedesco e autenticati, quale sia la fonte di finanziamento per il suo soggiorno negli Stati Uniti (borse di studio, prestiti ecc.)». Contro le decisioni prese dai tedeschi ci si poteva appellare e, se l'appello veniva respinto, era possibile rivolgersi al tribunale. L'ammontare dei risarcimenti e delle pensioni era spesso il frutto di lunghi patteggiamenti e compromessi. Ma una volta raggiunto l'accordo fra le due parti, la differenza fra la somma concessa inizialmente dai tedeschi e quella concordata, a volte 25.000 marchi, a volte 40.000, a volte persino 80.000 o 100.000 marchi (circa 25.000 dollari), veniva liquidata in una sola tranche. I tedeschi sospettavano sempre l'imbroglio. Era un sospetto ragionevole: dopotutto i superstiti avrebbero avuto le loro buone ragioni per ingannarli. Ogni tanto veniva scoperto qualcuno, in Germania, in Israele, ma anche altrove, che si guadagnava da vivere fornendo documenti e testimonianze false. A Tel Aviv c'era uno studio legale che veniva chiamato «la fabbrica dei risarcimenti». Un parlamentare descrisse così il prototipo dell'avvocato che andava a caccia di questi clienti: «Fa la spola fra la Germania e Israele, tanto che non si capisce se è
un avvocato tedesco con l'ufficio in Israele o un avvocato israeliano con l'ufficio in Germania». Secondo le stime, furono oltre 250.000 gli israeliani che beneficiarono del risarcimento. Mediamente ognuno di essi ricevette una somma corrispondente a un anno di reddito. Con quel denaro molti presero una casa più grande. I titolari di una pensione tedesca avevano un reddito superiore del 30 per cento al resto degli israeliani: il divario fra gli ashkenaziti e i sefarditi aumentò ulteriormente. Gli accordi sulle riparazioni prevedevano che alcuni superstiti ricevessero la pensione direttamente dal governo israeliano. Ma la somma versata dal governo, benché aggiornata più volte nel corso degli anni, era la metà di quella pagata dai tedeschi. Alcune migliaia di beneficiari vivevano nei kibbutz, che li rappresentavano a tutti gli effetti. Per molti superstiti fu una prova molto dura sul piano ideologico e personale. Fino ad allora alcuni erano rimasti nei kibbutz per abitudine o perché non avevano altra scelta, senza farsi troppe domande. Ora però che possedevano delle risorse, erano costretti a chiedersi se era davvero quella la vita che volevano condurre. Se decidevano di restare, il denaro al quale avevano diritto andava alla collettività. Questo significava non soltanto rinunciare a ciò che era loro, ma anche a ciò che avrebbero potuto donare ai figli e ai familiari che vivevano altrove. Molti rimasero come paralizzati, incapaci di scegliere, e subirono forti pressioni. Nel settembre del 1956 l'assemblea dell'Hakibbutz Hameuhad, riunitasi al kibbutz Kabri, deliberò che chiunque avesse ricevuto un risarcimento e lo avesse nascosto alle «istituzioni di questa colonia», sarebbe stato espulso dalla comunità. Il denaro delle riparazioni era soggetto alle stesse regole di quello che i membri ricavavano da altre fonti: l'intero ammontare era di proprietà del kibbutz. L'assemblea decretò tuttavia che le somme provenienti dalla Germania non sarebbero state utilizzate per le spese ordinarie bensì per qualche «scopo d'interesse pubblico», deciso dai membri di ciascun kibbutz. Era un evidente tentativo di rendere meno dolorosa la rinuncia. Con quei soldi molti kibbutz si dotarono di piscine e campi sportivi, rinnovarono le sale mense e le stanze comuni. Un anno dopo, però, l'Hakibbutz Hameuhad autorizzò l'impiego dei fondi per migliorare anche il livello di vita dei singoli membri. Fu così possibile
acquistare i mobili per le stanze personali, purché a beneficiarne fossero tutti. In molti casi i soldi tedeschi suscitarono invidie, sospetti e tensioni fra gli yekke e i superstiti dell'Europa orientale. La maggior parte degli yekke erano pionieri e vivevano nei kibbutz per scelta ideologica. Anch'essi, come gli yekke urbanizzati, ricevettero somme superiori agli altri sopravvissuti dell'Olocausto e le consegnarono senza esitare alla direzione. Fra gli altri, invece, molti erano andati nei kibbutz malvolentieri. Benché avessero sofferto più degli yekke, ricevettero somme inferiori. Spesso erano incerti se consegnarle alle autorità. Chiedevano in genere poco per sé, ma anche quello gli veniva negato. Il kibbutz Givat Brenner rifiutò a un superstite l'acquisto dell'Enciclopedia ebraica e altrettanto fecero diverse comunità con chi voleva comperare attrezzi per coltivare i propri hobby, fare un viaggio o acquistare libri. Quando finalmente i kibbutz capirono che bisognava accontentare anche i desideri individuali, era troppo tardi: i beneficiari se n'erano andati e con loro anche i soldi. In alcuni kibbutz il denaro tedesco fu la scintilla che fece scoppiare le tensioni latenti. Il kibbutz Hahotrim perse 50 dei suoi 150 membri. Alcune comunità capirono per tempo che era bene essere prudenti: «Bisogna evitare di sottoporre i nostri membri a una prova troppo dura sulla questione dei beni provenienti dall'estero, perché susciterebbe molto scontento» affermò il giornale di un kibbutz. «Non dobbiamo costringere i nostri membri a eludere le regole o ad aggirarle. Se ci mostreremo intransigenti, provocheremo in loro una lacerazione affettiva e morale.» I kibbutz di orientamento religioso decisero di considerare le somme dei risarcimenti, a eccezione della pensione mensile, come depositi bancari a interesse. Chi voleva andarsene poteva riavere l'intero capitale. I kibbutz di Hashomer Hatsair non persero, a quanto sembra, molto tempo a discutere, benché alcuni ricevessero somme considerevoli tramite alcuni dei loro membri, che erano yekke. Come la maggior parte degli israeliani, anche i kibbutz finirono per adattare i princìpi ideologici ed etici a quel felice cambiamento della loro situazione finanziaria. Il tempo diede ragione a chi aveva predetto che gli accordi sulle riparazioni sarebbero stati umilianti per lo Stato di Israele e i suoi cittadini. Israele fece molte concessioni: ideologiche, politiche e
finanziarie. Per prima cosa si rimangiò il rifiuto a negoziare direttamente con la Germania. Poi rinunciò alla pretesa di rappresentare tutte le vittime dell'Olocausto e tutti i superstiti. «Il governo di Israele» aveva dichiarato Moshe Sharett alla Knesset «reclama le riparazioni perché lo Stato di Israele rappresenta i diritti dei milioni di ebrei massacrati e ha il potere e il dovere di chiedere che siano soddisfatti, essendo l'unico organismo nazionale di un popolo che, proprio per il suo legame con questa Terra, è stato votato allo sterminio.» In realtà, gli accordi non riconobbero in Israele il rappresentante degli ebrei sterminati dai nazisti: le riparazioni che Israele ricevette erano destinate esplicitamente a coprire i costi dell'accoglienza e dell'inserimento dei superstiti dell'Olocausto. Quei costi erano stati calcolati in 3000 dollari per ciascun profugo: Israele ne aveva accolti circa 500.000 e dunque aveva chiesto un miliardo e mezzo di dollari. Gli accordi sulle riparazioni non riconoscevano perciò in Israele la patria del popolo ebraico, la realizzazione del sogno sionista, ma uno Stato che si faceva pagare per accogliere gli immigrati. I tedeschi furono negoziatori molto abili. Trovarono esagerate le richieste israeliane: per integrare un immigrato bastavano 2500 dollari. Quale distanza dall'immagine che Israele aveva di sé! La maggior parte del denaro andò ai singoli individui. Soltanto uno su quattro viveva in Israele e dunque essi non venivano risarciti in quanto israeliani, ma in quanto perseguitati dai nazisti. La somma globale che ricevettero fu superiore a quella ottenuta dallo Stato di Israele. L'accordo sulle riparazioni fu in conclusione un successo individuale degli ebrei di tutto il mondo e non un successo collettivo dello Stato di Israele. La Repubblica federale non si svenò. Ogni tedesco pagò, secondo i calcoli di Eliezer Shinar, circa 40 marchi (10 dollari) all'anno per quindici anni, e questo fino al 1967. In seguito i tedeschi calcolarono che entro il 2030 avrebbero pagato 120 miliardi di marchi (fra i 30 e i 60 milioni di dollari, a seconda del cambio). In sostanza, in 75 anni i circa 60 milioni di tedeschi avrebbero sborsato mediamente circa 26 marchi all'anno ciascuno, ossia mezzo marco alla settimana. Una parte consistente di questa somma costituiva il risarcimento per le proprietà confiscate agli ebrei e rimaste ai tedeschi. Quanto alle pensioni, alcuni dei
destinatari ne avrebbero comunque avuto diritto in quanto cittadini tedeschi. Non c'è ragione di dividere il totale della somma pagata dai tedeschi per il numero degli ebrei assassinati. Certo però che il risultato è impressionante: 120 miliardi di marchi diviso sei milioni di vittime fa 20.000 marchi a testa, vale a dire dai 5000, ai 10.000 dollari, a seconda dei calcoli. Le riparazioni concesse allo Stato di Israele non ammontavano a più del 15 per cento di questa somma. Il tempo diede ragione anche a chi aveva previsto che gli accordi sulle riparazioni avrebbero portato alla riconciliazione fra il popolo ebraico e il popolo tedesco e alla normalizzazione delle relazioni fra Israele e la Germania occidentale. Il console di Israele a Monaco, Eliahu Livneh, non poteva continuare a rifiutare in eterno gli inviti del presidente tedesco Theodor Heuss. Lo evitò per mesi, poi andò a Bonn, sia pure senza l'abito scuro, perché fosse chiaro che non era in visita ufficiale. Heuss fu molto cordiale: parlò dei suoi legami con il movimento sionista, ricordò che aveva un parente ebreo e, prima che si congedassero, rimproverò il console israeliano di non avere contribuito ad arricchire il suo patrimonio di barzellette ebraiche. Il console si affrettò ad accontentarlo con una storiella su due hassidim. «L'entusiasmo e la sensibilità con cui Heuss partecipò suggellarono questa conversazione cordiale e amichevole» riferì il console. La politica di Ben Gurion nei confronti della Germania scatenò una tempesta di emozioni. Ma i veri oppositori furono pochi. Mordecai Nurok e Dov Shilansky, insieme ad altre personalità di destra, di sinistra e di centro, si batterono con forza per arrestare la deriva. Lottavano contro i mulini a vento, erano persino patetici, però parlavano con il cuore in mano, sentivano quello che dicevano e dicevano quello che sentivano. Altri, cinici e ipocriti, cavalcarono la tigre e poi fecero marcia indietro non appena lo giudicarono conveniente. Così si comportarono i sionisti generali, che a dicembre del 1952 entrarono nel governo. Appena un anno prima, tre dei loro quattro ministri avevano votato contro i negoziati con la Germania e uno, Yisrael Rokah, era così turbato da avere minacciato lo sciopero della fame. Adesso quegli stessi chiedevano di avere un ruolo più importante nei contatti con la Germania. Così si comportò Yaakov Hazan del Mapai. Quattro anni prima aveva detto che negoziare con la Germania era «vendere l'anima» al diavolo, adesso
esaltava il nobile uso che di quel denaro avevano fatto i kibbutz della federazione Hashomer Hatsair. «Anche gli esponenti dei partiti che si sono opposti alle riparazioni hanno goduto dei loro benefici» gongolava Ben Gurion. Ben Gurion aveva vinto. Ma i suoi avversari stavano già affilando le spade per un'altra battaglia: la battaglia per la memoria e il significato dell'Olocausto. Durante un dibattito alla Knesset, Eri Jabotinsky, figlio del grande leader revisionista, chiese l'istituzione di un tribunale speciale che esaminasse la storia dell'Olocausto e, in particolare, investigasse sul perché l'Agenzia ebraica era riuscita a salvare così pochi ebrei. Quel tribunale non vide mai la luce, ma di lì a poco il Mapai fu portato sul banco degli imputati nel tribunale distrettuale di Gerusalemme.
PARTE QUINTA LA POLITICA: IL CASO KASTNER CAPITOLO XIII «È COSI' DIFFICILE PER NOI, GIUDICI DI ISRAELE» All'inizio degli anni Cinquanta viveva a Gerusalemme un vecchio signore di origine ungherese, timorato di Dio e appassionato di francobolli, che aveva un alberghetto di dieci stanze in Sion Square. In gioventù era stato un diplomatico di second'ordine al servizio dell'impero austroungarico. Poi aveva cercato di farsi strada come giornalista a Vienna, ma nessuno voleva i suoi articoli e così si era guadagnato da vivere con vari mestieri e qualche piccolo imbroglio. Quell'uomo entrò nella storia come l'unico imputato del primo grande processo sull'Olocausto celebrato in Terra di Israele, anche se nel dramma egli recitò soltanto una parte secondaria e il suo nome vi comparve appena di sfuggita. Un giorno, mentre si attardava in corridoio e l'udienza era già cominciata, il giudice ordinò di andarlo ad avvertire. «Mi scusi» chiese l'usciere «come ha detto che si chiama?» Il magistrato tergiversò un poco, poi lanciò uno sguardo interrogativo all'avvocato difensore, il quale disse: «Gruenwald, Vostro Onore, Malchiel Gruenwald». La rivista «Time», che amava chiamarlo semplicemente Malchiel, scrisse che i nazisti avevano ucciso più di cinquanta persone della sua famiglia. La Gerusalemme di allora, divisa, ferita dalla guerra di indipendenza, era una città povera, provinciale. Attirava come una calamita decine di migliaia di immigrati senza tetto e senza lavoro, che vivevano nelle tendopoli alla periferia in attesa di tempi migliori. Eppure, dietro quella misera facciata di pietra grigia c'erano un fermento e una vitalità che ispiravano filosofi e politici. L'Università ebraica, ospitata nel monastero di Terrasanta, l'Agenzia ebraica, l'ufficio del primo ministro e la Grande Sinagoga erano tutti schierati lungo un
viale ombroso il cui nome era ancora quello che gli avevano dato gli inglesi: King George V Street. Il capo del governo, vari ministri e quasi tutti i personaggi di spicco vivevano fianco a fianco nel quartiere di Rehavia, a pochi passi da Sion Square. Poco lontano, in un edificio che nell'Ottocento ospitava i pellegrini russi, c'era il palazzo di giustizia. E se è vero che le sedi dei maggiori partiti, della Histadrut, della Borsa e dello Stato maggiore dell'esercito si trovavano a Tel Aviv e che l'industria e l'agricoltura si erano sviluppate soprattutto al nord, è anche vero che il cuore politico e intellettuale del paese, intenso e insieme intimo, pulsava a Gerusalemme. Politici e pensatori, profeti e poeti, riformatori e folli si conoscevano tutti, frequentavano gli stessi caffè all'aperto, dibattevano ideologie e sistemi filosofici, fondavano movimenti sociali in un turbinio vertiginoso di visioni e bigotteria, di genio e pazzia. A Gerusalemme la parola regnava sovrana e aveva un potere immenso. Gruenwald, un ometto fragile di settantadue anni, con la kippah nera e il pizzetto, aveva militato nell'Irgun, così come suo figlio, morto durante la guerra di indipendenza combattendo sul monte Sion. Gruenwald amava scrivere. Pubblicava a intervalli irregolari un suo giornaletto, intitolato «Lettere agli amici del Mizrahi», un pot-pourri di iracondi commenti su antichi conflitti, rancori inveterati e tutti i polverosi scandali che avevano agitato le comunità ebraiche della Budapest e della Vienna d'anteguerra. Gruenwald ce l'aveva in particolare con alcuni dirigenti del partito Mizrahi e di altri gruppi sionisti religiosi, ma non risparmiava neppure i leader delle altre formazioni, compresi i deputati della Knesset e i ministri del governo. La sua bestia nera era comunque il Mapai. Gruenwald scriveva gli articoli in tedesco, se li faceva tradurre in ebraico, poi stampava diverse centinaia di copie del suo bollettino di tre pagine, le imbustava, scriveva gli indirizzi, le affrancava e le spediva. Cocciuto, instancabile, faceva tutto da solo e di tasca sua: ai destinatari chiedeva soltanto che lo leggessero. Fra i suoi ipotetici lettori c'erano anche diversi giornalisti: quasi tutti, appena ricevevano il bollettino, lo buttavano nel cestino, che era il suo vero posto. Ogni tanto qualcuno minacciava di denunciare l'autore per calunnia e Gruenwald faceva pubblicamente le proprie scuse. In genere la notorietà di questi episodi si esauriva al Café
Vienna, all'interno dell'albergo gestito da Gruenwald. Anche la sorte del bollettino numero 51 avrebbe potuto benissimo essere la stessa. Il foglio uscì nell'agosto del 1952 e riprendeva un tema già sollevato nel numero precedente. Il bersaglio questa volta era uno dei leader della comunità ebraica ungherese in Israele: Israel Rudolf (Rezso) Kastner. «Sento puzza di cadavere!» scrisse Gruenwald. «Sarà un funerale di prima classe! Il dottor Rudolf Kastner dev'essere liquidato!» Kastner, che era laureato in legge ma di mestiere faceva il giornalista, aveva militato nel movimento sionista di Budapest collegato con il Mapai. Durante la guerra aveva presieduto il Comitato di salvataggio in Ungheria e aveva condotto le trattative con Adolf Eichmann e l'ufficiale delle SS Kurt Becher, per liberare un milione di ebrei in cambio di 10.000 automezzi. Era l'accordo «camion contro sangue», sfumato con l'arresto di Joel Brand, l'emissario che Eichmann aveva inviato a Istanbul nel maggio del 1944. Nel frattempo, però, Kastner aveva soccorso e salvato molti ebrei. Quando uscì l'articolo al vetriolo di Gruenwald, Kastner era l'addetto stampa del ministero del Commercio e dell'Industria. Sperava di diventare deputato ed era stato candidato per il Mapai nelle prime e nelle seconde elezioni generali. Ben Gurion lo menziona più di una volta nei suoi diari. Di lui Gruenwald scriveva: «Sono tre anni che aspetto questo momento per trascinare in tribunale ... questo carrierista che trae profitto dalle ruberie e dagli omicidi di Hitler. Per le sue macchinazioni criminali e la collaborazione con i nazisti ... lo accuso di essere indirettamente l'assassino dei miei fratelli». Poi, rivolto a Kastner, proseguiva: «Lei, da chi ha ricevuto l'ordine, da chi è stato pagato, per recarsi furtivamente nel 1946 a Norimberga, come un ladro nella notte, a testimoniare al processo dei peggiori criminali di guerra che si siano mai visti sulla faccia della terra, a testimoniare a favore dell'Obersturmbannfuhrer Kurt Becher, un ladro e un assassino che ha sfruttato i nostri fratelli in Ungheria, che ne ha succhiato il sangue? ... Perché ha salvato Becher dalla forca che si meritava?». E Gruenwald si rispondeva così: Per salvare se stesso, per evitare che Becher rivelasse al tribunale internazionale i loschi affari e i ladrocini che avevano fatto insieme. ... Dove sono finiti i soldi degli ebrei ungheresi, i milioni di cui non c'è più traccia? ... Ha messo in
salvo almeno cinquantadue dei suoi familiari e centinaia di altri ebrei, quasi tutti convertiti al cristianesimo, si sono comperati la salvezza pagando milioni a Kastner. Ecco come Kastner ha salvato i militanti del Mapai. ... Ha salvato chi aveva gli appoggi e si è costruita una fortuna. Ma migliaia di dirigenti sionisti, di iscritti al Mizrahi e ai partiti ultraortodossi, quelli Kastner li ha lasciati nella cupa valle della morte. Era un'invettiva confusa e patetica, e giustamente il giudice distrettuale, Benyamin Halevy, osservò che non era facile riassumere i capi d'accusa contro Kastner. Comunque ne individuò quattro: 1) collaborazione con i nazisti; 2) «assassinio indiretto»; 3) collaborazione con un criminale di guerra nazista in furti di vario genere; 4) salvataggio dello stesso individuo dopo la guerra. Non erano accuse nuove per Kastner. Se le era già sentite rivolgere al XXII Congresso sionista di Basilea del 1946 da un dirigente ungherese del Mizrahi, che l'aveva incolpato di essersi indebitamente appropriato di mezzo milione di dollari raccolti per soccorrere gli ebrei. Kastner aveva risposto con una querela per calunnia, che aveva inoltrato al giurì d'onore del congresso, accompagnandola da un resoconto dettagliato del suo operato nel corso della guerra. Ma la denuncia non aveva avuto seguito. Diversi anni dopo in Israele, mentre teneva i comizi come candidato del Mapai, Kastner era stato più volte interrotto con grida e accuse da un ebreo ungherese, che aveva tentato inutilmente di calmare. La polizia l'aveva interrogato dopo l'approvazione della legge sui nazisti e sui collaboratori dei nazisti nel 1950, ma senza incriminarlo. Kastner non aveva mai negato di essere stato in trattative con i rappresentanti dei nazisti in Ungheria, fra cui Adolf Eichmann, ma aveva sempre sostenuto con coerenza che tutto il suo operato mirava a salvare gli ebrei ungheresi, migliaia dei quali gli dovevano effettivamente la vita. Kastner è decisamente il più noto degli israeliani accusati di avere collaborato con i nazisti, ma non è stato il solo. Nel dopoguerra, ogni tanto qualche superstite si imbatteva per strada, al mare, sugli autobus o al cinema, in qualche «ebreo traditore, che aveva contribuito allo sterminio della sua nazione», come disse il deputato Mordecai Nurok. Una di queste scene è stata descritta da un giornalista di «Haaretz». Nei primi giorni del 1946 una folla inferocita circondò un giovane ben vestito
e cominciò a malmenarlo al grido di «Assassino!», «Gestapo!» «L'uomo rimase per un momento immobile, pallido come un cencio, poi tentò di fuggire.» Due giovani l'avevano riconosciuto come Shmuel Wishiitsky di Ostrowiec, in Polonia, uno che aveva collaborato con la Gestapo mentre faceva il poliziotto nel ghetto. Erano convinti che avesse consegnato ai nazisti alcuni dei loro familiari che si erano nascosti. L'aggredito riuscì a dileguarsi in un viottolo. «La folla si ingrossò e continuò a commentare l'incidente» concludeva il giornale. Molti dei collaboratori identificati in Israele erano stati kapò, ossia prigionieri ai quali i nazisti affidavano vari compiti nelle baracche e nei luoghi del lavoro forzato, fra cui quello di mantenere la disciplina e la pulizia. I kapò potevano anche infliggere punizioni e molti si erano sinistramente distinti per la loro crudeltà. «Ciascuno di loro ha ucciso. Gli ebrei che hanno lavorato per i tedeschi, e quasi tutti gli ebrei che portavano anche soltanto sul braccio la fascia di vicekapò, hanno ucciso. Tutti, tranne poche eccezioni» riferì Dov Shilansky. I nazisti assegnavano agli ebrei diverse funzioni amministrative e di polizia nei lager come pure nei ghetti. Alcune di queste funzioni dipendevano dal Consiglio ebraico locale, lo Judenrat, istituito dai nazisti in diverse città occupate. Finita la guerra, i collaborazionisti si erano mischiati ai rifugiati, cercando di celare il loro passato, ma molti furono subito identificati nei centri di raccolta profughi. A uno di questi riconoscimenti aveva assistito anche Ben Gurion, mentre era in visita a un campo in Europa. Tre profughi si gettarono all'improvviso addosso a un kapò. Avevano «gli occhi iniettati di sangue, la voglia di uccidere». Ben Gurion rimase molto scosso: «Credevo che svenisse» ha scritto la sua accompagnatrice, Ruth Aliav, dell'Agenzia ebraica. Era la prima volta che il leader del Mapai si trovava faccia a faccia con questo imbarazzante aspetto dell'Olocausto. Qualche mese dopo Eliahu Dobkin, membro dell'esecutivo dell'Agenzia e dirigente del Mapai, parlò ai colleghi di «un turbamento interiore» che non lo abbandonava mai. Era una cosa che, se non l'avesse vista con i suoi occhi, non avrebbe mai creduto possibile: un linciaggio. A Monaco gli avevano riferito che dopo la liberazione centinaia di ebrei erano stati uccisi da altri ebrei. Lui stesso aveva visto picchiare un uomo «finché non era
impazzito». Gli aggressori sostenevano che la vittima aveva dato prova di un sadismo particolarmente perverso. Dobkin commentò: «Credo non sia un segreto per nessuno che il figlio di uno dei nostri migliori sionisti è stato accusato dello stesso crimine. Provo una grande pena per la tragedia del vecchio padre». Il padre cui alludeva era Yitzhak Gruenbaum, appartenente all'esecutivo dell'Agenzia ebraica e poi ministro degli Interni sotto Ben Gurion. Suo figlio era stato kapò ad Auschwitz. Un giornale invocava la «liquidazione» dei collaborazionisti, ma precisava che per stabilirne le colpe non bastava che qualcuno puntasse il dito per strada, gridando «Kapò!». Bisognava averne la certezza. E anche in tal caso, non spettava alla folla fare giustizia, ma alle «autorità competenti». Il fatto è, tuttavia, che alle autorità mandatarie britanniche il problema non interessava e l'Agenzia ebraica aveva a quel tempo preoccupazioni più urgenti. Dobkin riteneva che allora più che mai fosse importante osservare la massima della saggezza ebraica: «Non giudicare il tuo prossimo finché non ti troverai nei suoi panni». Raccontò ai colleghi del Mapai la vicenda di un prigioniero appena liberato: l'uomo, che aveva conosciuto di persona, era stato in un campo di sterminio, dov'era incaricato di trasportare le vittime nelle camere a gas. Un giorno, sul furgone che guidava, trovò sua madre. «Molti bravi ebrei hanno svolto a quell'epoca compiti del genere. Non è così orribile» gli aveva detto l'uomo. «Io» concluse Dobkin «non mi sento di giudicarlo e non saprei chi possa giudicarlo.» Dopo la fondazione dello Stato di Israele, cominciarono le denunce contro i collaboratori dei nazisti. La polizia, però, non poteva fare nulla: non esistevano leggi che prevedessero un simile reato e consentissero di arrestare i sospetti. Nell'agosto del 1949 il ministro della Giustizia presentò un progetto di legge contro i criminali di guerra ebraici, ma non si battè perché fosse approvato immediatamente: il problema era troppo delicato e il ministro, come già l'Agenzia ebraica, preferiva dare la precedenza ad altre questioni. Mordecai Nurok presentò un'interrogazione parlamentare. Il ministro della Giustizia, Pinhas Rosen, assicurò che il suo dicastero si stava occupando della faccenda, ma che aveva bisogno di altro tempo. Passarono sei mesi. «Lo Stato di Israele è l'unico paese al mondo in cui è impossibile processare e giudicare gli assassini nazisti e i loro
collaboratori» protestò Nurok. «Egregi colleghi, se Gòring e Goebbels, possano i loro nomi malvagi marcire all'inferno, fossero ancora fra noi, la mano della giustizia non li raggiungerebbe.» Quattro mesi dopo, il disegno di legge sui nazisti e i loro collaboratori fu finalmente messo in agenda, ma ne passarono altri cinque prima che fosse approvato. Nel frattempo la Knesset aveva trovato il modo di occuparsi di temi molto più astratti, discutendo e approvando una norma per la prevenzione e la punizione del genocidio. Il ministro della Giustizia, Pinhas Rosen, dichiarò in Parlamento che a suo parere la legge non avrebbe portato alla condanna a morte di molti nazisti, ma sarebbe stata anzitutto impiegata contro i collaborazionisti ebrei.* A metà degli anni Cinquanta risultavano inquisiti circa trenta ebrei, tutti con l'accusa di avere collaborato con i nazisti. Era diffusa l'impressione che la polizia non perseguisse questi reati con troppo entusiasmo e lo facesse soltanto in presenza di denunce molto dettagliate e di pressioni da parte dei cittadini. Le inchieste che si conclusero con l'incriminazione furono poche e in genere il procuratore della Repubblica preferiva non accusare i cittadini israeliani di «crimini contro il popolo ebraico», come avrebbe permesso la legge, ma di lesioni specifiche a individui ben identificati. A volte qualcuno veniva accusato anche di «crimini contro l'umanità». Alcuni imputati furono assolti e quelli condannati riuscirono spesso a farsi ridurre in appello la pena a due o tre anni di carcere, e talora a qualche mese soltanto. La legge contro i nazisti e i collaboratori dei nazisti prevedeva la pena capitale, ma nel 1951 la Corte suprema tramutò la condanna a morte comminata a un cittadino israeliano in dieci anni di carcere. In Israele la pena di morte fu abolita nel 1954 per tutti i reati tranne quelli previsti da questa legge, sulla cui legittimità, tuttavia, c'erano dei dubbi. La legge lasciava ampio margine alla valutazione soggettiva del giudice. I giudici israeliani avevano un solo modo per stabilire la verità. Come i colleghi tedeschi, i quali suscitarono più volte le ire dei testimoni e degli osservatori stranieri, anche i magistrati israeliani erano costretti a scavare nella vita degli imputati fin nei dettagli più insignificanti. «Haaretz» riferì che una delle «proposte di legge contro i criminali di guerra ebrei», così li chiamò, riguardava coloro la cui
«collaborazione con il nemico» aveva sabotato l'immigrazione in Palestina. Questa proposta, tuttavia, non fu mai presentata dal governo, né la Knesset la richiese. Else Trank, ad esempio, aveva avuto l'incarico di mantenere l'ordine in una baracca del lager femminile di Auschwitz-Birkenau. Ebbene, il giudice voleva sapere: picchiava le prigioniere con un bastone, con la frusta, con la cinghia o soltanto con le mani? Una volta accertato che le picchiava soltanto con le mani, bisognava stabilire se con il palmo o con il dorso. O forse usava il pugno? Colpiva i prigionieri in faccia, sulla schiena, sulle spalle o in tutte le parti del corpo? In tutte, si scoprì. Un capo d'imputazione cadde perché non si riuscì ad appurare com'erano andate le cose. L'accusata aveva sicuramente costretto una prigioniera a inginocchiarsi, ma non fu possibile stabilire se l'avesse anche picchiata. Una testimone disse di non averla vista malmenare. Costretti a prendere in esame la realtà dei campi di sterminio, i giudici involontariamente, e forse inevitabilmente, finivano per ricorrere nelle loro sentenze a una terminologia che ricordava quella nazista. Nel verdetto contro Else Trank essi distinsero fra i «prigionieri innocenti» e quelli che infrangevano le regole del campo. E per due volte scrissero che gli internati appartenevano «alla razza ebraica». I processi contro i collaboratori dei nazisti richiedevano ai giudici decisioni di tipo etico e storico che spesso esulavano dalle loro competenze. Dovevano stabilire se fosse possibile in quelle circostanze rifiutare l'incarico di kapò e se la funzione non comportasse di per sé una certa misura di crudeltà. I magistrati evitavano in genere di condannare un imputato soltanto perché era stato un kapò; consideravano piuttosto il modo in cui aveva esercitato i compiti assegnatigli. Citavano Esodo 5,14, ricordando che molti israeliti, quand'erano schiavi del faraone, erano stati messi a capo di altri schiavi. Secondo Rashi, costoro non avevano oppresso i loro fratelli, tanto che il faraone aveva dovuto mettere sopra di essi dei controllori egiziani affinchè li sorvegliassero. «Anche ai nostri giorni ci sono stati dei kapò ... che non temevano i sorveglianti hitleriani e non opprimevano i prigionieri» è scritto in un verdetto. «E' così difficile per noi giudici di Israele, liberarci dalla sensazione che, punendo un verme di tal fatta, si contribuisca a sminuire, sia pure in minima parte, le colpe
abissali dei nazisti» ha scritto il giudice della Corte suprema Moshe Silberg. Ma c'era anche un'altra ragione: i giudici, come la maggior parte degli israeliani, erano riluttanti a confrontarsi con l'Olocausto e in particolare con i criminali di guerra ebrei. Alle udienze partecipavano di solito soltanto i superstiti coinvolti nel processo in corso. A volte gli imputati e i loro avvocati venivano coperti d'insulti. La stampa non seguiva tutti i dibattimenti, alcuni anzi li ignorava completamente. Il processo a un kapò era una faccenda sporca e imbarazzante, e i giornali non volevano lasciarsi invischiare. Così, quando cominciarono le udienze del processo Gruenwald, l'avvocato Shmuel Tamir e il direttore del settimanale «Haolam Ha zeh» dovettero sfoderare tutta la loro abilità retorica e ricorrere a tutti i trucchi del mestiere per attirare l'attenzione dell'opinione pubblica. Eppure quel processo diventò il più doloroso e il più importante dell'intera storia di Israele, a eccezione forse di quello contro Eichmann. «Herut» era stato l'unico quotidiano a occuparsi del piccolo giornaletto di Gruenwald con un breve articolo di Yoel Marcus, che in seguito divenne commentatore politico di «Haaretz». «Da tre anni» scrisse Marcus «molti ebrei di origine ungherese accusano un uomo, che ricopre una carica pubblica, di avere testimoniato a favore di un criminale nazista, di avere condotto trattative ambigue e di essersi arricchito a spese delle operazioni di salvataggio degli ebrei. Perché l'interessato non smentisce?» L'articolo di Marcus sarebbe potuto rimanere una piccola provocazione ben presto dimenticata. In fondo non sollecitava nessun tipo di azione. «Le accuse contro il dottor Kastner non ebbero alcuna incidenza sulla sua posizione al ministero» ha scritto nelle memorie il suo superiore, il ministro del Commercio e dell'Industria Dov Yosef. «Spettava a lui decidere se querelare o no Gruenwald.» Yosef sconsigliò a Kastner di sporgere denuncia, tenuto conto dell'andamento dei processi per calunnia in Israele. Ma il procuratore generale, Haim Cohen, informò Kastner che di fronte ad accuse così gravi non gli restava che querelare Gruenwald o dimettersi. «Rezso non voleva il processo» ha dichiarato la sua vedova. «Era in una situazione insostenibile, in un terribile dilemma. O accettava che il governo denunciasse Gruenwald per calunnia o si dimetteva. Io gli dissi: "Dimettiti!". Ma
lui mi rispose di non avere scelta, doveva acconsentire ad avviare l'azione legale.» «Kastner mi confidò che era l'ultima cosa che avrebbe voluto» ha dichiarato Cohen. «Il suo unico desiderio era cancellare quel periodo dalla memoria e dalla coscienza. Non voleva ricordare. Ma i sentimenti di Kastner non mi riguardavano. A me importava la questione in sé e per sé.» Haim Cohen concluse la sua carriera all'inizio degli anni Ottanta come giudice della Corte suprema di Israele. Fu uno dei giudici più aperti, un difensore instancabile dei diritti umani e civili. Ma negli anni Cinquanta, quand'era procuratore generale, era al servizio del governo, ivi compresa l'amministrazione militare sotto cui vivevano i cittadini arabi di Israele, e tendeva a limitare la libertà di espressione. «In quegli anni» spiegò in seguito «ero convinto che la stampa costituisse un pericolo per la sicurezza nazionale. Subivo in parte l'influenza di Ben Gurion, che vedeva nella stampa il peggior nemico dell'umanità. Come procuratore generale ritenevo che uno dei miei compiti fosse quello di tenerla a bada.... A quel tempo ero convinto, a torto o a ragione, che i giornali con il loro scandalismo e la loro cecità politica sabotassero la costruzione dello Stato. Ritenevo fosse mio compito impedirlo. Avevo torto, evidentemente.» Cohen, uno yekke di Lubecca, cresciuto in una famiglia di rabbini celebri per la loro erudizione, era particolarmente versato negli studi ebraici. Dal suo volto irradiava un'intelligenza fredda. Sarcastico e sprezzante, cadeva a volte in un sentimentalismo lacrimoso. Al suo arrivo a Gerusalemme, nel 1930, portava ancora i cernecchi e la barba dell'ebreo ultraortodosso ed era l'assistente di uno dei dirigenti di Agudat Yisrael. Poi, al termine di un cammino lento e doloroso, contrassegnato da una profonda crisi psicologica e intellettuale, perse la fede. «Ho disperato del Signore dell'universo e mi sono ribellato contro di lui» raccontò. Fu un processo che cominciò con l'Olocausto. Avevo un fratello al quale ero molto, molto legato. Un genio. Morì in circostanze orribili, estremamente tragiche. Militava nella resistenza francese (il Maquis) e rifiutò di venire in Palestina finché non fossero stati sconfitti i nazisti. Fu fatto prigioniero e spedito ad Auschwitz. Era una cosa che non potevo, non volevo accettare. Ma mi condusse alla consapevolezza dell'immensità di quella spaventosa catastrofe. In quei giorni mi sembrava che
ognuno di quei milioni fosse carne della mia carne. Si potrebbe dire, un po' poeticamente, un po' teatralmente, che divenni anch'io una vittima dell'Olocausto. Qualcosa era stato ucciso dentro di me. Non mi sono «liberato» della religione. Non è stata una «liberazione». E' stato un assassinio. Mi ci sono voluti molti anni per riprendermi. Al ministero diverse persone, fra cui il ministro della Giustizia, Pinhas Rosen, e il procuratore di Stato, Erwin Shimron, entrambi yekke, sconsigliarono a Cohen di querelare Gruenwald. Ma questi, che era un rigido formalista, non si lasciò convincere. «Non si può permettere a nessuno di affermare, come se niente fosse, che un alto funzionario dello Stato è stato un collaboratore dei nazisti» affermò. Non sospettava che sul banco degli imputati sarebbe finito anche il Mapai. «Con tutta la sua intelligenza» annotò nel diario Moshe Sharett «non aveva neppure un briciolo di senso politico.» Il processo a Malchiel Gruenwald cominciò il 1° gennaio 1954. Il primo testimone a carico dell'accusa fu Rudolf Kastner. I giornali non parvero accorgersi di quello che accadeva in quell'auletta della Corte distrettuale, presieduta dal giudice Benyamin Halevy. Non ne avevano parlato prima e pochi vi accennarono ora che le udienze erano cominciate. «Haaretz», per esempio, si limitò a scrivere un trafiletto di una colonna in fondo all'ultima pagina, per informare che era iniziata la testimonianza di Kastner. A Gerusalemme era in corso anche un altro processo per diffamazione, legato all'interminabile dibattito sui responsabili dell'assassinio di Haim Arlosoroff, e anche quello passò sotto silenzio. La fondazione dello Stato aveva segnato una svolta nella storia di Israele e i tempi erano difficili. I direttori dei giornali intuivano che non era il caso di caricare sulle spalle dei lettori anche il fardello del passato. L'Olocausto era ancora in gran parte tabù. Nella sua deposizione Kastner ricostruì il contesto storico in cui si era consumata la distruzione della comunità ebraica ungherese, che contava 800.000 persone. In dieci mesi, fra il marzo del 1944, quando l'Ungheria fu occupata dai tedeschi, e il gennaio del 1945, allorché i tedeschi furono cacciati dall'Armata Rossa, vennero sterminati circa 500.000 ebrei, quasi tutti residenti nelle città di provincia. Più di un anno prima che avvenisse l'invasione, alcuni dirigenti del partito sionista avevano istituito un Comitato di salvataggio, assegnandone la
presidenza a Kastner. Il Comitato, con fondi segreti forniti in parte dall'Agenzia ebraica, in parte da altre organizzazioni e in parte raccolti in proprio, aveva portato molti ebrei polacchi e slovacchi in Ungheria, soprattutto a Budapest, e aveva provveduto alle prime necessità. Al loro arrivo i tedeschi riunirono i leader degli ebrei, ai quali assicurarono che le loro comunità non correvano alcun pericolo, esattamente come avevano fatto negli altri paesi occupati. Il loro scopo era impedire che si diffondesse il panico. Subito dopo cominciarono gli arresti e le deportazioni. Kastner continuò tuttavia a tenere i contatti con i tedeschi per cercare, disse nella sua testimonianza, di salvare la comunità ebraica dalla distruzione certa. Descrisse tutti gli sforzi che aveva fatto per trattare con i nazisti, senza dimenticare la drammatica vicenda di Joel Brand e il fallito accordo «camion contro sangue».* Kastner raccontò di essere riuscito, mentre erano ancora in corso le trattative, a concludere un patto con Eichmann: 1685 ebrei erano potuti partire per la Svizzera su un treno speciale. Quel convoglio era passato alla storia come «il treno dei VIP» e tutti i suoi passeggeri si erano salvati. Li aveva selezionati Kastner. Fra loro c'erano diverse centinaia di persone della sua città natale, Cluj, e alcune decine di suoi parenti, fra cui la madre, la moglie, i fratelli e le sorelle. Era una storia grottesca, ripugnante: i giornali cominciarono a drizzare le orecchie. L'uomo che aveva dato le disposizioni finanziarie per il viaggio era un ufficiale delle SS, Kurt Becher, con il quale i rapporti di Kastner, verso la fine della guerra, si erano fatti ancora più stretti. Le trattative si erano moltiplicate e Becher aveva persino mandato Kastner a Berlino per un incontro con Heinrich Himmler, che però non era avvenuto. (Nota: Anche dell'episodio di Brand, ancora ignoto alla maggioranza degli israeliani, parlò per la prima volta «Haaretz» in un trafiletto di due sole colonne in ultima pagina. Quel giorno la prima pagina era occupata dai servizi, corredati di fotografie, sulla partita di basket fra l'esercito israeliano e la nazionale francese (gli israeliani avevano perso) e da lunghi articoli, con altre due fotografie, sulla traslazione in Israele dei resti del barone Edmond de Rothschild.)
Dopo aver messo al sicuro la famiglia in Svizzera, Kastner era tornato nel Reich per cercare di salvare altri ebrei in collaborazione con Becher. Alla fine della guerra Kastner aveva testimoniato a suo favore. Nell'aula del tribunale di Gerusalemme Kastner fece la propria deposizione con tono pacato, sicuro, come chi è certo di avere agito bene. Diede l'impressione di un uomo coraggioso, che aveva salvato centinaia, forse migliaia di ebrei, un eroe tragico più che uno scellerato. Quando Kastner concluse la testimonianza, il giudice Halevy suggerì a Gruenwald di ritrattare le accuse. Ma Gruenwald rifiutò e l'avvocato della difesa, Shmuel M. Tamir, cominciò il controinterrogatorio. Fra tutti i protagonisti del processo, Tamir era l'unico a essere cresciuto in Israele. L'ebraico era la sua lingua materna. Discendeva dalla famiglia Katznelson, faceva parte dell'«aristocrazia di Rehavia», aveva frequentato il prestigioso Gimnasio Haivrit e poi l'Università ebraica. Suo padre era il vicedirettore dell'ospedale Hadassah. La famiglia, appartenente a un antico ceppo sionista russo, era orgogliosa delle proprie credenziali revisioniste, sebbene alcuni Katznelson avessero fatto carriera nel Mapai. Tamir (che significa «Alto») era il nome di battaglia che Shmuel aveva assunto nell'Irgun, dove aveva prestato servizio come vicecomandante di Gerusalemme. Gli inglesi l'avevano arrestato e deportato in Kenya. Liberato nel 1948, era stato uno dei fondatori dell'Herut. Non era mai andato d'accordo con Menahem Begin. I giornali attribuivano la reciproca ostilità alla diversa visione del mondo di un venticinquenne nato in Israele rispetto a un trentacinquenne proveniente dalla Polonia. Begin privilegiava la politica estera e la difesa, Tamir poneva in primo piano la sconfitta del Mapai. «Liberare la Kirya [gli uffici centrali del governo] dalla presenza del Mapai è più importante che liberare la montagna del Tempio» pare dicesse. E insisteva sulla necessità di creare «una nuova nazione ebraica». Nel gennaio del 1952, qualche mese prima che Gruenwald pubblicasse il suo famigerato giornaletto, Tamir, in un articolo su «Herut», aveva chiamato Ben Gurion «ministro del tradimento e dell'infamia». Lo accusava di ogni sorta di immoralità e crimini, fra cui la «complicità diretta» con lo sterminio degli ebrei in Europa e le relazioni con la Germania occidentale. Io, scriveva Tamir, che sono nato in questo paese, che
non sono mai vissuto nell'Esilio, che sono uno dei pochi fortunati a non avere perso i familiari in quello spaventoso Olocausto, proprio per questo ritengo che l'atteggiamento di Israele nei confronti della Germania costituisca una delle prove fondamentali della capacità del nostro popolo di sopravvivere. E la cartina di tornasole che ci permette di capire se la nazione ebraica esiste veramente e se ha il diritto di esistere. In breve: siamo diventati un popolo, o invece questa nazione era davvero soltanto un'escrezione purulenta, un brandello disfatto rimasto ancora in vita? Insomma, siamo una grande nazione o invece era giusta la definizione che Hitler ha dato degli ebrei e del loro carattere? Nello scontro fra Tamir e Begin ebbe sicuramente una parte la diversa visione del mondo dei due uomini, ma non c'è dubbio che la ragione principale fosse l'ambizione. Tamir voleva diventare il leader dell'Herut: molti anni dopo, quando divenne ministro della Giustizia sotto Begin, sognava ancora di prenderne il posto. Tamir era un politico scaltro, un avvocato con la vista lunga e la lingua tagliente, amante degli intrighi e della notorietà. Era diventato celebre difendendo Yaakov Heruti, il capo di un gruppo di nazionalisti religiosi fanatici, che odiavano gli arabi, i comunisti, i missionari cristiani e tutti gli stranieri, e volevano un «regno israelita», che si estendesse dal mar Mediterraneo alle sponde del fiume Eufrate. Il gruppo terroristico, chiamato in seguito Tsrifin dal nome dell'accampamento militare in cui fu processato, era accusato di avere messo una bomba davanti all'ambasciata sovietica di Tel Aviv e di avere compiuto numerosi atti di violenza, alcuni dei quali allo scopo di impedire la ratifica dell'accordo con la Germania sulle riparazioni. Al processo dello Tsrifin il pubblico ministero era Haim Cohen, mentre il giudice era Benyamin Halevy, il quale per poter presiedere la corte aveva di nuovo indossato per due mesi la divisa con il grado di colonnello. Non si era trattato di un bel processo. L'accusa intendeva dimostrare che quella banda di dissennati costituiva un pericolo per la sicurezza nazionale, mentre in realtà non era neppure riuscita a scalfire il potere del Mapai. Il governo aveva avuto parecchie difficoltà a trovare un giudice disposto a dirigere quello spettacolo. I magistrati della Corte suprema avevano rifiutato, spiegando a Ben Gurion che l'opinione pubblica diffidava dei processi militari e
perciò era bene che essi non vi fossero coinvolti. Avevano però suggerito al ministro della Giustizia, Rosen, il nome di Halevy. «Yekke, religioso» annotò nel diario Ben Gurion; volendo, avrebbe anche potuto aggiungere «e un po' strambo». Halevy e Tamir si conoscevano bene: avevano fatto pratica nello stesso studio legale a Gerusalemme. Halevy non permise a Tamir di chiamare a testimoniare né Ben Gurion, né il ministro degli Esteri, né quello della Difesa. E pur non avendo alcuna prova che esistesse un nesso fra «il gruppo clandestino» e l'attacco all'ambasciata sovietica, egli decretò che lo Tsrifin era «un'organizzazione clandestina criminale, la quale con la sua esistenza e la sua attività costituiva un serio pericolo per la sicurezza dello Stato». Heruti fu condannato a dieci anni di prigione. Halevy disse di essere stato clemente, in considerazione del fatto che «è sposato e padre di un bambino».* Una legge che permetteva un simile processo, dichiarò l'avvocato della difesa, Tamir, costituisce per lo Stato un pericolo ben maggiore di qualsiasi organizzazione clandestina. Con quel processo Tamir divenne l'avvocato più noto di Israele. Difese il quotidiano «Herut» in una causa per diffamazione, poi patrocinò anche Dov Shilansky. Quando lo contattò Malchiel Gruenwald, Tamir intuì subito la portata politica del caso. Gruenwald gli offrì come parcella la sua collezione di francobolli. Tamir lo liquidò dopo un quarto d'ora, con un'unica richiesta: che gli risparmiasse le chiacchiere e gli lasciasse condurre a modo suo il processo. Non era Gruenwald a interessarlo. Tamir, che aveva allora trentun anni, partì lancia in resta per rovesciare il regime. Al processo Tamir non negò che Gruenwald avesse scritto l'articolo incriminato. Al contrario, voleva dimostrare che quell'articolo era vero da cima a fondo. Sembrava un'impresa impossibile. E invece, ancora prima di convocare i testimoni della difesa e cominciare a gettare le basi per incriminare il Mapai, Tamir riuscì a incastrare Kastner, facendo passare per un'evidente menzogna il tentativo piuttosto maldestro di eludere una domanda. Kastner disse: «Quello che dice nel suo articolo l'imputato, e cioè che io sarei andato a Norimberga a testimoniare per salvare Becher, è falso.... Non è vero che l'ho aiutato a sottrarsi alla condanna. A Norimberga io non ho reso nessuna testimonianza ufficiale a suo favore». Dal punto di vista
strettamente tecnico Kastner aveva ragione. Egli infatti non aveva rilasciato la propria dichiarazione su Becher davanti al tribunale internazionale, bensì davanti a un tribunale locale per la denazificazione. La sua testimonianza, precisava Kastner, non era né a favore né contro Becher, ma consisteva in una descrizione delle trattative con il nazista. Il giorno dopo Tamir tirò fuori una lettera e chiese a Kastner se la riconosceva. Kastner. Sì, è la lettera che ho scritto al ministro della Difesa Eliezer Kaplan a proposito della deposizione di Becher. (Nota: Gli altri undici imputati ebbero condanne da uno a dodici anni. Avevano messo una bomba davanti all'ambasciata cecoslovacca e tentato di incendiare la macchina del corpo diplomatico; avevano incendiato l'automobile dell'ambasciata sovietica e dato fuoco a una macelleria che vendeva carne di maiale. Possedevano armi ed esplosivi. Il ministro della Difesa ad interim, Pinhas Lavon, commutò immediatamente alcune delle sentenze e un paio di anni dopo Ben Gurion li graziò tutti, «affinchè possano partecipare alle celebrazioni del giorno dell'indipendenza da liberi cittadini dello Stato di Israele nel settenario della sua fondazione». Evidentemente Halevy era il solo a ritenere che il sogno di «un regno israelita» costituisse un pericolo per la sicurezza della nazione.) Tamir: Dottor Kastner, in questa lettera lei scrive: «Becher è stato liberato, per il momento, grazie al mio intervento personale». Conferma? Kastner: Sì. Tamir: Un istante fa lei ha dichiarato falsa l'affermazione secondo cui a Norimberga Becher fu liberato grazie al suo intervento personale. Conferma? Kastner: Confermo quanto ho detto alla corte. Se mi si accusa di avere dato alla lettera una formulazione incauta, sono disposto ad ammettere la mia colpa. Mi assumo la responsabilità degli errori di formulazione. Quello che ho scritto a Kaplan era esagerato. Prima ancora di avere in mano la deposizione che Kastner aveva reso sotto giuramento a favore di Becher, Tamir era riuscito a dimostrare che si comportava come se avesse qualcosa da nascondere. Qualche mese dopo Tamir riuscì a procurarsi una copia della deposizione giurata, conservata negli
archivi del Pentagono a Washington. «Becher è stato indubbiamente uno dei pochi capi delle SS che hanno avuto il coraggio di opporsi al piano di sterminio e che hanno tentato di salvare vite umane» aveva dichiarato Kastner, aggiungendo che con il suo intervento l'ufficiale nazista aveva contribuito a salvare la vita di 85.000 ebrei del ghetto di Budapest. E non era tutto. Negli ultimi giorni di guerra Becher si era scontrato con Himmler perché voleva consegnare i prigionieri dei lager agli alleati ed evitare combattimenti sanguinosi nelle loro vicinanze. «Becher ha fatto tutto quello che poteva, nella posizione in cui era, per salvare vite innocenti dalla furia assassina del comando nazista» testimoniava Kastner. «Per questo motivo non ho mai dubitato neppure per un istante delle sue buone intenzioni, anche se le basi e la forma delle nostre trattative potevano essere discutibili.» Becher dunque meritava «tutta la considerazione possibile» da parte delle autorità alleate e tedesche. A Norimberga Kastner aveva invece testimoniato contro due importanti capi nazisti, condannati entrambi a lunghe pene detentive. Becher era stato prosciolto. Aveva contribuito allo sterminio di mezzo milione di ebrei ungheresi e aveva cercato di sospendere le deportazioni per crearsi un alibi. Inutile chiedersi perché Kastner avesse testimoniato a suo favore. Non lo sapremo mai. Forse pensava che fosse giusto così, perché Becher aveva salvato decine di migliaia di ebrei. Forse l'aveva fatto per comperarne il silenzio. Una persona che lo conosceva bene era convinta che Kastner avesse aiutato Becher per provare ancora una volta l'ebbrezza del potere di cui aveva goduto durante la guerra, quando poteva decidere chi lasciar vivere e chi lasciar morire. Quale che sia la verità, Tamir definì la disponibilità di Kastner ad aiutare Becher «un crimine contro la nazione». Kastner cadde nella trappola tesagli dall'avvocato della difesa, lasciandosi invischiare in una serie di scuse, contraddizioni e piccole bugie. Forse la spiegazione di tanta insicurezza è nell'ultimo paragrafo della sua deposizione giurata, il più compromettente: «Rendo questa testimonianza non soltanto a nome mio, ma anche per conto dell'Agenzia ebraica e del World Jewish Congress». Dunque non era stato soltanto Rudolf Kastner a difendere Kurt Becher, ma i leader del popolo ebraico o, meglio ancora, come non mancò di
sottolineare Tamir, i leader del Mapai. Eliahu Dobkin dell'Agenzia ebraica, chiamato a testimoniare, smentì di avere autorizzato Kastner a firmare la deposizione giurata anche a nome della sua organizzazione. Uno dei due mentiva, era chiaro. Con molta abilità Tamir riuscì a dare l'impressione che mentissero entrambi e che l'Agenzia ebraica, e forse anche lo Stato di Israele, fossero invischiati in torbidi patteggiamenti con la SS Kurt Becher. Dopo la guerra Becher si arricchì con il commercio del grano e, secondo voci poi smentite, concludendo affari con Israele grazie agli accordi sulle riparazioni. In seguito venne ad aggiungersi un altro mistero: la scomparsa del «tesoro» in denaro e gioielli che Becher si era fatto consegnare dagli ebrei, valigie e valigie piene di diamanti e di monete d'oro per un valore di milioni di dollari. Becher aveva restituito soltanto una piccola parte di quello che aveva preso; il resto era svanito. Kastner ne parlava in una lettera al ministro delle Finanze Kaplan: «Mi sembra troppo tardi ormai per ricostruire le circostanze della sparizione di questi preziosi. Ritengo che la colpa sia della negligenza dei rappresentanti dell'Agenzia ebraica, che avevano il compito di vigilare sulle valigie». Becher e Kastner avrebbero potuto spartirsi il tesoro, ma Kastner non morì ricco. Tamir preferì supporre che il tesoro fosse finito nelle casse del Mapai. Si spiegherebbero così le reticenze di Kastner, il quale avrebbe potuto sostenere tranquillamente e semplicemente di avere difeso Becher perché era suo dovere di uomo e di ebreo dire la verità su una persona cui migliaia di ebrei dovevano la vita. Ma forse Kastner pensava che in Israele, nell'anno 1954, non sarebbe stato capito, né giustificato. O forse credeva che fosse impossibile rintracciare la sua deposizione giurata. Una cosa è certa: il suo avvocato, Haim Cohen, non l'aveva istruito a dovere. Con la sua testimonianza Kastner si dimostrò il peggiore nemico di se stesso. Ogni tanto perdeva il controllo, si agitava, gridava. Tamir lo trasformò da querelante in imputato e il processo Gruenwald diventò il processo Kastner. Non appena fu certo di avere insinuato il sospetto che Kastner era coinvolto nel furto del tesoro di Becher, Tamir si dedicò al suo vero obiettivo: dimostrare che aveva collaborato con i nazisti. La tesi che sviluppò era la seguente: Kastner sapeva che i nazisti si preparavano a sterminare gli ebrei
ungheresi, ma non li aveva avvertiti. Se l'avesse fatto per tempo, gli ebrei avrebbero potuto rifugiarsi in Romania oppure insorgere. Salirono invece ignari a bordo dei treni, come agnelli portati al macello. Tamir chiamò a testimoniare persone che provenivano dalla stessa città di Kastner. Confermarono la sua tesi: Kastner non li aveva avvisati. Se avessero saputo la verità, sarebbero fuggiti o avrebbero imbracciato il fucile. Ma non c'era alcuna certezza, obiettò Kastner, che i nazisti avrebbero assassinato gli ebrei: informarli sarebbe servito soltanto a diffondere il panico fra la popolazione dei ghetti e a impedire a lui di salvare anche le poche vite che era riuscito a salvare. Era proprio qui che Tamir voleva arrivare: i nazisti gli avevano dato il treno per i VIP in cambio del suo silenzio. E cominciò a torturarlo con una sfilza di domande sulla scelta dei passeggeri. Kastner non era l'unico bersaglio. Quand'era in Ungheria, egli aveva militato nell'Ihud, un partito legato al Mapai. Kastner aveva agito d'accordo con il Mapai e ne aveva eseguito gli ordini, sostenne Tamir. La sua collaborazione con i nazisti in Ungheria andava di pari passo con quella del Mapai nei confronti degli inglesi in Palestina. Non aveva forse il Mapai già collaborato con i nazisti al tempo della haavarah? E adesso non collaborava forse con i tedeschi attraverso gli accordi sulle riparazioni? E i suoi leader non avevano forse nascosto le informazioni sull'Olocausto, esattamente come aveva fatto Kastner? Se avessero rivelato all'opinione pubblica la verità, lo yishuv sarebbe insorto e si sarebbe ribellato contro gli inglesi, costringendoli ad accorrere in aiuto degli ebrei in Europa. Ma in questo caso il Mapai avrebbe perso il controllo della situazione e il proprio potere. Ed era questo che contava veramente per il partito, disse Tamir. L'Agenzia ebraica divenne nelle sue mani lo Judenrat della Palestina. Kastner, che aveva deciso chi far salire a bordo del treno e chi no, assunse i contorni del «dottore» tedesco il quale, davanti al treno del lager, indicava con un cenno chi destinare al lavoro e chi alle camere a gas. C'erano stati collaboratori «là» e collaboratori «qua»: il Mapai a Budapest e il Mapai a Tel Aviv, un unico partito con un'unica mentalità. Per dimostrare la propria tesi, Tamir cominciò ad analizzare una serie di eventi, fra cui la missione di Joel Brand: Kastner aveva infatti preso parte agli incontri con Adolf Eichmann
da cui essa era scaturita. Ancora una volta Tamir si proponeva di gettare fango sul Mapai. Moshe Sharett, succeduto a Ben Gurion alla guida del governo nel gennaio del 1954, Ehud Avriel e Teddy Kollek, che di Ben Gurion erano stretti collaboratori, furono tutti definiti traditori, poiché quando dirigevano l'Agenzia ebraica avevano sabotato la missione di Brand, con cui si sarebbero potute salvare centinaia di migliaia di ebrei, se non addirittura un milione. E l'avevano fatto perché erano al servizio degli inglesi, i quali non volevano altri ebrei in Palestina, sostenne Tamir. Poi chiamò a testimoniare Katarina Senesh, la madre della leggendaria paracadutista Hannah Senesh. Kastner, raccontò la donna, l'aveva ignorata durante tutto il periodo della cattura, della tortura e dell'esecuzione della figlia. L'implicazione era chiara: Kastner aveva preferito obbedire ai nazisti anziché soccorrere un'agente ebraica proveniente dalla Palestina. Tamir convocò anche un altro para. Yoel Falgi raccontò che Kastner aveva convinto lui e un compagno, Peretz Goldstein, a consegnarsi alla Gestapo, impedendogli così di organizzare la resistenza nella comunità ebraica. Secondo Palgi, Kastner era convinto che i nazisti sapessero della presenza di alcuni para a Budapest e temeva che, se non si fossero consegnati, si sarebbero vendicati su di lui e su tutta la comunità. E così aveva informato i tedeschi e persuaso Palgi a contattarli. Fingendo di recare un messaggio di Kastner, Palgi era andato al comando della Gestapo. Era stato arrestato, ma era riuscito a sopravvivere. Goldstein, invece, era morto in un lager. Palgi aveva pubblicato le sue memorie poco prima che il processo iniziasse, ma non aveva raccontato questo episodio. Tamir lo costrinse ad ammettere di avere mentito per proteggere Kastner, che era suo compagno di partito. In Israele Palgi era considerato un eroe: emerse dal processo come un vigliacco, poco meno che un disertore. Il Mapai, così sosteneva Tamir, aveva paracadutato in Ungheria gli uomini del commando d'accordo con gli inglesi e Kastner li aveva consegnati ai nazisti per proteggersi. Il processo a Kastner diventò il processo al Mapai. Benyamin Halevy aveva le sue buone ragioni per avercela con il Mapai. Si aspettava di essere nominato giudice della Corte suprema, ma poco prima del processo Gruenwald era stato scavalcato. Aveva avuto una reazione strana: si era rivolto a
Ben Gurion, che in quel momento non era più primo ministro ma soltanto segretario del Mapai. Rammentandogli il processo Tsrifin, Halevy ne aveva sollecitato l'appoggio, per promuovere un «approccio nazionale» del sistema giudiziario ai problemi del paese. «Se lei ritiene, come io ritengo, che ci sia un estremo bisogno di sviluppare nei nostri giudici un approccio nazionale e che io abbia la capacità di agire in tal senso all'interno della Corte suprema, la prego di aiutarmi.» Due giorni dopo Halevy si dimise. Ben Gurion si limitò a esprimere la speranza che il giudice ci ripensasse. Halevy ci ripensò. Nel frattempo era cominciato il processo GruenwaldKastner. Halevy lasciò libero Tamir di ricorrere a tutti i trucchi del mestiere: acconsentì che portasse testimoni totalmente irrilevanti rispetto alle imputazioni; accettò come prove dei «sentito dire», incluse le parole attribuite a un morto; permise che Tamir procedesse a ruota libera nei suoi interrogatori su episodi del tutto marginali. Kastner fu chiamato a deporre almeno dodici volte. Halevy pareva ignorare l'esistenza delle procedure giudiziarie, osservò in seguito il presidente della Corte suprema, Yitzhak Oishan. A volte interveniva nel dibattito in modi «del tutto impropri», altre volte con un'asprezza «spropositata», creando «una foresta così fitta che non si distinguevano più gli alberi». Mentre andava in scena questo dramma, quasi tutti si dimenticarono di Malchiel Gruenwald. Ogni tanto Tamir riprendeva un tema che gli era particolarmente caro: il contrasto fra la condizione misera e abietta degli ebrei dell'Esilio e la «risolutezza» degli israeliani. «Mi perdoni la domanda» disse a un militante della comunità ebraica ungherese venuto a testimoniare «ma sarebbe giusto se io dicessi che la sua mentalità e quella del suo gruppo è la mentalità degli ebrei dell'Esilio? Mi scuso per il termine, ma mi pare che di questo si tratti.» «Esiste una cosa del genere?» domandò a sua volta il testimone, che era Pinhas Freudiger. Tamir: Credo di sì. Freudiger: lo ero un ebreo osservante nell'Esilio e sono un ebreo osservante in Israele. Tamir: Non era a questo che mi riferivo. Mi riferivo alla mentalità, al modo di vivere nella realtà dell'Esilio e alla necessità, in quei tempi difficili, di ricorrere alla corruzione e ad argomenti speciosi. Freudiger: Sta scritto: «Cerca la pace della tua città». Tamir: E proprio per questo che chiedo: era quella la vostra
mentalità? Freudiger: Sì. Tamir: Il dottor Kastner ha suggerito a lei e al suo gruppo di formare una rete di resistenza clandestina? Freudiger: No. Così ragionava anche il Mapai, proclamò Tamir. Era quella mentalità che aveva spinto il partito a obbedire agli inglesi, a consegnare i militanti dell'Irgun e del Lehi. «Mentre i suoi compagni collaboravano con gli inglesi e lei con i nazisti» Tamir redarguì Kastner «noi lottavamo per liberare gli ebrei.» «Conosce il volantino dell'Irgun del 1944 sul salvataggio degli ebrei ungheresi?» chiese a un testimone. «Sa che nel 1944 alcuni esponenti dell'Irgun e del Lehi furono arrestati dalla Haganah?» Tamir sottopose alla corte la raccolta di intere annate di «Davar», per dimostrare che i giornali legati al Mapai erano al servizio delle autorità britanniche e si preoccupavano più di far la guerra all'Irgun e al Lehi che di combattere i nazisti. Non faceva misteri del fatto che a interessarlo non erano tanto Gruenwald e Kastner, quanto i dirigenti dello yishuv. Ogni tanto il giudice Halevy poneva ai testimoni complessi quesiti etici e filosofici, ai quali non soltanto essi, ma nessuno dei presenti in aula, giudice compreso, avrebbe saputo rispondere. «Haaretz» riferì con sbigottimento le domande poste da Halevy a un testimone, Hillel Danzig, che era stato uno dei leader della comunità ebraica nella città nativa di Kastner: Halevy: Se avesse saputo che il treno su cui doveva viaggiare era diretto ad Auschwitz, e avesse saputo che cosa significava Auschwitz, sarebbe salito spontaneamente su quel treno? ... Che decisione avrebbe preso per sé e per la sua famiglia? Danzig: Non so. Vostro Onore. Posso pensarci oggi e darle una risposta. Ma non c'entrerebbe nulla con le circostanze di allora, con ciò che avrei fatto in quella situazione. Halevy: Perché non c'entrerebbe nulla? Danzig: Perché noi oggi ce ne stiamo seduti qui in una situazione completamente diversa. Le domande e le risposte di oggi nello Stato di Israele, dieci anni dopo, non hanno alcun rapporto con la situazione di allora. ... Halevy: Non avrebbe, per esempio, tentato di scappare? ... Non avrebbe potuto tirar giù dal treno sua madre e sua moglie? E così il processo al Mapai era diventato il processo alle vittime e ai superstiti dell'Olocausto.
CAPITOLO XIV «HA VENDUTO L'ANIMA AL DIAVOLO» Qualche mese dopo fu necessario trasferire il processo in un'aula più grande. Davanti alla porta del tribunale sostavano lunghe file di curiosi e decine di corrispondenti, da Israele e dagli altri paesi del mondo. All'inizio, quasi tutte le redazioni si erano accontentate delle notizie fornite dall'agenzia di stampa israeliana, ma lo spazio concesso al caso Kastner era aumentato di giorno in giorno. Soltanto due quotidiani avevano intuito subito la portata politica del caso: «Herut» e «Haolam Hazeh», entrambi decisamente schierati con Tamir, alle cui tesi facevano da cassa di risonanza, mentre nessuno difendeva le argomentazioni contrarie. Benché a quell'epoca Tamir non fosse ancora iscritto all'Herut, il partito e il suo giornale lo sostenevano a spada tratta. Le accuse che egli scagliava contro l'Agenzia ebraica e il Mapai venivano riferite in prima pagina nei minimi particolari ed erano definite «rivelazioni sconvolgenti»: L'AGENZIA EBRAICA HA NASCOSTO LA NOTIZIA DELLO STERMINIO IN UNGHERIA; WEIZMANN HA DETTO: MILIONI DI EBREI SARANNO STERMINATI. 'L'IMPORTANTE E' CHE SE NE AVVANTAGGI L'INGHILTERRA. «Haolam Hazeh» era un settimanale illustrato, rivolto alle famiglie. Era stato fondato verso la fine degli anni Trenta con il motto «Il ritmo della vita, il polso del tempo»; nel 1950 l'avevano acquistato Uri Avneri e Shalom Cohen, e il suo motto era diventato: «Senza paura, senza pregiudizi». «Haolam Hazeh» era stato il primo giornale israeliano a mettere a nudo la corruzione e la follia delle personalità pubbliche, affrontando argomenti che fino ad allora nessuno aveva osato toccare in Israele: quasi tutti i giornali si ritenevano strumenti della lotta sionista per la creazione dello Stato e i loro direttori si sentivano parte della classe dirigente. Così, benché Haolam Hazeh, non fosse l'unico periodico ad attaccare Ben Gurion, fu comunque il primo a svolgere inchieste a sostegno delle proprie tesi. Sotto questo aspetto la rivista e il suo direttore, Avneri, svolgevano una
funzione utile alla democrazia israeliana. Avneri era un giornalista assai prolifico, che scriveva in uno stile chiaro, conciso e scorrevole. I suoi articoli, però, erano dogmatici, le argomentazioni troppo moralistiche, arroganti, semplicistiche, totalmente prive di ironia, a volte sciocche e spesso scorrette. I buoni erano sempre buonissimi, i cattivi cattivissimi: gli uni e gli altri inverosimili e del tutto privi di sfumature. Avneri non era sempre coerente, ma non ammetteva mai il dubbio. Non è vero, come hanno detto alcuni, che egli abbia formulato un'alternativa chiara all'ideologia sionista; è vero, invece, che i suoi articoli erano stimolanti e coinvolgenti. Nessun altro sapeva scrivere come lui. Spesso coglieva nel segno. Credeva nella democrazia laica e sostenne molto prima di tutti gli altri che occorreva raggiungere un compromesso con la nazione palestinese. Questo non gli impedì comunque, negli anni Cinquanta, di abbandonarsi a un'ammirazione quasi mistica per l'esercito e i feriti di guerra. Giovanissimo, aveva predicato «il rinnovamento della razza ebraica» e altre idee parafasciste, e aveva militato nell'Irgun. Attraverso «Haolam Hazeh» Avneri si rivolgeva alla generazione che, come lui, aveva combattuto nella guerra di indipendenza e diffondeva la mentalità sabra ashkenazita che aveva cercato di adottare al suo arrivo in Palestina con i genitori nel 1933. Nato in Germania, era figlio di un banchiere e si chiamava in origine Helmut Ostermann; era stato compagno di scuola di Rudolf Augstein, editore e direttore di «Der Spiegel». «Haolam Hazeh» non era semplicemente una rivista illustrata: dava al suo pubblico la sensazione di appartenere a un'elite, di essere speciale, di saperne più degli altri. A volte era vero e altre no, ma nessun periodico sapeva adulare con altrettanta abilità i suoi lettori, che si sentivano buoni e giusti, saggi e coraggiosi per il solo fatto di sfogliarne le pagine. Avneri seppe trasformarli in difensori del giornale, le forze della luce che lottavano contro le forze delle tenebre, una minoranza combattiva. Nel corso degli anni «Haolam Hazeh» inventò miti e metafore, un linguaggio e uno stile, un mondo fantastico di eroi e di malvagi che suscitavano ammirazione e disprezzo, amore e timore. Aprì la strada all'americanizzazione della vita e della mentalità israeliane. Il segreto del suo fascino risiedeva nell'atmosfera di una Tel Aviv del tutto immaginaria, della
quale i lettori aspiravano a far parte. Avneri, tuttavia, nonostante gli sforzi per diventare quello che lui stesso e la sua rivista consideravano «israeliano», era diverso dal mito che aveva creato. Leggeva e pensava più della maggioranza dei sabra e non era mai riuscito a liberarsi dall'accento tedesco. La sua concezione del mondo era stata fortemente influenzata dal crollo della Repubblica di Weimar e dall'ascesa del nazismo. Più volte nei suoi articoli egli paragonò la situazione di Israele a quella della Germania hitleriana. E anche in questo fu un pioniere. Quando il processo GruenwaldKastner era già uscito di scena da molti anni, Avneri dichiarò che il caso si sarebbe risolto in una semplice querela per diffamazione contro un vecchio eccentrico di Gerusalemme, se «Haolam Hazeh» non gli avesse dato tanta importanza fin dalle prime battute. Non aveva tutti i torti. Se è vero, infatti, che «Haaretz» ne aveva parlato prima che «Haolam Hazeh» gli dedicasse la copertina, è anche vero che Avneri era stato il primo a intuirne la portata storica e l'impatto politico. Poi aveva battuto il chiodo, ossessivamente, per anni. Riletti oggi, i suoi articoli sul processo assumono i contorni di una feroce campagna denigratoria, che aveva come unico scopo quello di dare libero sfogo all'odio nutrito nei confronti del Mapai da Avneri e Shmuel Tamir, e forse anche alle ambizioni politiche di entrambi. Il movimento sionista guidato dal Mapai non aveva collaborato con i nazisti perché potessero meglio sterminare gli ebrei. Rudolf Kastner aveva salvato centinaia, forse migliaia di persone. Le altre, semplicemente, non ce l'avevano fatta a fuggire. Non era possibile che Avneri ignorasse tutto questo. Dalla lettura si ricava l'impressione che la posizione di «Haolam Hazeh» durante il processo non fosse il frutto di un errore, ma di pura e semplice demagogia. Negli ultimi anni della sua vita Avneri dichiarò che a scrivere molti articoli di «Haolam Hazeh» sul processo, compresi quelli in cui si faceva l'elogio di Tamir, era stato Tamir stesso. Nel primo servizio, pubblicato quando ormai il processo andava avanti da una decina di mesi, Avneri scrisse: «Il tribunale è diventato un campo di battaglia in cui si combatte per decidere quale sarà il volto della storia. Qui non si lotta soltanto per stabilire la verità storica, ma anche il futuro del regime israeliano». Poi rievocava il passato: Sei milioni di ebrei sono stati sterminati lentamente nel corso di
lunghi anni. E' fuor di dubbio che se ne sarebbero potuti salvare molti.... In Palestina c'era un centro di potere ebraico, un potere ebraico organizzato, un'autorità nazionale in grado di decidere e agire.... Se questo centro avesse dichiarato la guerra santa per salvare gli ebrei, la situazione sarebbe potuta essere diversa. Ma niente del genere è stato fatto.... Perciò sul capo dei politici che hanno guidato lo yishuv aleggia una grande colpa. Il loro comportamento «era stato straordinariamente simile» a quello dei leader dei ghetti. Nella lotta fra il giovane avvocato di Gerusalemme, Shmuel Tamir, e il funzionario ebraico di Budapest, Rudolf Kastner, Avneri vedeva la lotta fra l'«israeliano» e l'«uomo dell'Esilio». L'ebreo israeliano era giovane, risoluto e indomito; l'ebreo dell'Esilio era vecchio, sottomesso e servile. Era una lotta, scrisse Avneri, che ricordava quella del libro di Ester fra Mordecai e Giuda Maccabeo: il primo supplice, il secondo ribelle. Nella visione «giudaica» di Avneri, la vita valeva meno dell'onore e dell'immagine della nazione nella storia. L'orgoglio nazionale era «la questione fondamentale». Israele voleva forse continuare a inchinarsi ai padroni stranieri (allusione, pare, agli Stati Uniti), o voleva invece cercare, da «nazione sovrana, di prendere in mano il suo destino, combattere le sue battaglie?». Parole altisonanti, ingiuste e contraddittorie. Tamir e Avneri attaccavano l'Agenzia ebraica per avere collaborato con gli inglesi, ma l'attaccavano anche perché aveva sabotato la collaborazione di Brand con i nazisti. E tuttavia, per quanto incoerenti, quelle parole fornivano una risposta semplice alle domande terribili che aleggiavano dai tempi dell'Olocausto. Dire «la colpa è dei capi» era come dire «noi siamo innocenti». «Noi», lo yishuv, se soltanto l'avessimo saputo, ci saremmo ribellati, avremmo costretto gli inglesi a prendere delle iniziative, avremmo risvegliato la coscienza del mondo. «Noi», però, non sapevamo dello sterminio degli ebrei, perché i dirigenti del Mapai ci hanno nascosto la verità. «Noi», giovani ebrei, se soltanto ci avessero chiamati, saremmo corsi ad arruolarci. «Noi», vittime dell'Olocausto, se soltanto avessimo saputo che ci stavano portando ad Auschwitz, saremmo insorti o fuggiti. Non saremmo andati «come agnelli al macello», scrisse Avneri. Erano ragionamenti accattivanti, ma viziati alla radice. Gli ebrei d'Europa erano stati
assassinati non perché ignorassero la propria sorte, ma perché non erano in grado di opporsi. Lo yishuv sapeva dell'Olocausto: nessuno aveva censurato le notizie. Ma lo yishuv aveva continuato a vivere la propria vita, inerme e acquiescente. Avneri e Tamir, che di quella realtà avevano fatto parte, faticavano ad ammetterlo, e forse avevano anche un interesse politico a distorcere la verità. Avneri amava dire che «Haolam Hazeh» era «il giornale più letto del paese». Vero o falso che fosse, la rivista era sicuramente molto popolare negli anni Cinquanta, soprattutto fra i giovani. Molti di loro conoscevano il caso Kastner e tutti i suoi risvolti soltanto attraverso gli articoli di Avneri, di cui sovente abbracciavano le tesi storiche e politiche. Isser Harel, ex capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, rivelò in un libro uscito parecchi anni dopo che il governo e il Mapai erano molto preoccupati per gli articoli di «Haolam Hazeh». E anche Teddy Kollek osservò: «Sono convinto che il processo Kastner sia stato così importante perché era la prima volta che molti perdevano la fiducia nelle classi dirigenti e, almeno in quel caso, senza motivo. Fu il primo grave colpo inferto alla leadership del Mapai». Ogni tanto Moshe Sharett discuteva con Kollek del processo. Nei nove mesi intercorsi fra la lettura dei capi di imputazione da parte del pubblico ministero e l'arringa finale (settembre 1954), il primo ministro annotò tredici incontri con Kollek. Dal suo diario traspare una preoccupazione che rasenta il panico. All'inizio del dibattimento, il procuratore generale Cohen aveva delegato il ruolo di pubblico ministero a uno dei suoi assistenti, Amnon Tel. Fu un errore, come Cohen si avvide ben presto. «Il procuratore generale aveva sottovalutato il processo e aveva designato una nullità, un uomo privo di qualsiasi sensibilità politica e civica» scrisse Sharett. «Dagli incessanti duelli con quel bandito dell'avvocato Tamir esce sempre sconfitto.» Era un parere condiviso anche dai collaboratori del primo ministro. «Il procuratore generale, evidentemente, non aveva per nulla sospettato la natura pubblica e politica di questo processo e i suoi effetti sensazionali» proseguiva Sharett. «Il pubblico ministero, Tel, è un disastro.... Non resta che chiedere a Haim Cohen di assumere lui stesso il ruolo di accusatore.» Le lamentele contro la pubblica accusa non finirono qui. Quando Cohen prese finalmente in mano le
redini del processo, sei mesi dopo il suo inizio, i rapporti con Sharett erano ormai molto tesi, anche per altre ragioni. Fra i due c'era stato uno scambio di messaggi sempre più irritati, tanto che il primo ministro si era visto costretto a invitare il procuratore generale a casa sua per cercare di ammorbidirlo un po'. La cosa che Sharett temeva di più era la testimonianza di Joel Brand. «Se si presenterà in tribunale, tutto diventerà molto complicato» scrisse «perché dopo il fallimento della sua missione ha cominciato a tempestare i dirigenti dell'Agenzia ebraica di memorandum in cui li accusa del massacro in Ungheria. Tutto questo si trasformerà in materiale incriminante sotto le mani di Shmuel Tamir.» Sharett pensò anche di presentarsi a deporre, ma fu vivamente sconsigliato dai suoi collaboratori, che temevano Tamir lo sbranasse. Sharett decise allora di tenere una conferenza stampa alla fine del processo, per rivelare «tutta la verità» sulla vicenda Brand. Mentre proseguivano gli interrogatori e i controinterrogatori, gli uomini di Sharett cercarono di diffondere la loro versione dei fatti fuori delle aule del tribunale. Due giorni dopo l'ultima deposizione di Joel Brand, «Maariv» pubblicò con grande evidenza un rapporto segreto sulla vicenda, che Moshe Sharett aveva presentato all'esecutivo dell'Agenzia ebraica a Londra nel giugno del 1944. Nel documento si affermava che Sharett, Ben Gurion e gli altri dirigenti dell'Agenzia avevano fatto il possibile per concludere un accordo che salvasse gli ebrei ungheresi. Essi perciò non avevano colpe nell'arresto di Brand da parte degli inglesi e nel fallimento della sua missione. «Ehud [Avriel, uno degli assistenti del premier] ha consegnato la relazione al giornale e la sua uscita ha creato grande sensazione» scrisse Sharett nel diario. La pubblicazione del documento era un'evidente violazione del segreto istruttorio. Circa sei settimane dopo, quando la disastrosa testimonianza di Yoel Palgi si era appena conclusa, Sharett decise di offrire la sua versione dei fatti durante una commemorazione al kibbutz Maagan, che pare fosse stata organizzata proprio a questo scopo. Nel suo discorso la missione dei para veniva presentata per l'ennesima volta come un'eroica operazione di salvataggio organizzata dai dirigenti dell'Agenzia ebraica. Sharett l'aveva preparato con grande cura, dettando per ore, cancellando, correggendo, migliorando. Ma qualche istante
prima che salisse sul palco, un piccolo aereo, che avrebbe dovuto lanciare volantini di benvenuto fra la folla, precipitò a pochi metri dal luogo in cui era seduto l'oratore. Ci furono diverse vittime, fra cui quattro paracadutisti che avevano condotto le missioni di guerra in Europa dieci anni prima. Il grande discorso del primo ministro si trasformò così in un'orazione funebre. Il giudice Halevy si chiuse in casa per nove mesi a meditare sulle prove. Doveva studiare più di tremila pagine di deposizioni, rese da una sessantina di testimoni in sei lingue diverse, e oltre trecento documenti presentati alla corte: memorandum, rapporti e persino libri interi. Il verdetto fu emesso il 22 giugno 1955. Le motivazioni della sentenza occupavano 274 pagine e la loro lettura in aula proseguì per l'intera giornata fino a notte fonda. Tre delle quattro accuse che Gruenwald aveva rivolto a Kastner nel suo articolo furono ritenute fondate e perciò non diffamatorie; per la quarta accusa Halevy impose al suo autore l'ammenda simbolica di una lira e ordinò allo Stato di pagare una parte delle spese di Gruenwald, che ammontavano a 200 lire israeliane. Nella sua relazione il giudice fu di una spietatezza che la Corte suprema avrebbe in seguito definito «letale». «Moltitudini di ebrei dei ghetti salirono obbedienti sui treni della deportazione» scrisse Halevy «senza sapere quale fosse la loro vera destinazione e fidandosi ciecamente della menzogna secondo cui sarebbero stati trasferiti nei campi di lavoro in Ungheria.» Pur dubitando che gli ebrei fossero in condizioni di opporre resistenza, Halevy affermò che i nazisti «non avrebbero potuto ingannare le masse con tanta efficienza se non avessero diffuso voci false tramite canali ebraici». Alcuni però si salvarono. «Gli organizzatori e gli esecutori dell'operazione di sterminio» proseguiva il giudice «permisero a Kastner e ai rappresentanti del Consiglio ebraico di Budapest di mettere al sicuro i familiari e gli amici.» La protezione nazista costituiva «un elemento inscindibile dalle manovre della "guerra psicologica" volta a distruggere gli ebrei». La tentazione era grande. A K. fu offerta l'opportunità di salvare seicento anime dall'imminente Olocausto e la possibilità di aumentarne il numero pagando o negoziando ulteriormente. E non erano seicento anime qualsiasi, ma le anime per lui più importanti e meritevoli di essere salvate: i suoi familiari, i militanti del suo movimento, i leader degli
ebrei d'Ungheria.... Egli potè salvare la moglie e la madre a Budapest, il fratello e il suocero a Cluj, e tutti gli altri parenti e amici. Era affascinato dall'idea di essere il salvatore delle personalità più eminenti della provincia e della capitale. Sarebbe stato un successo personale e una vittoria sionista. ... K. era molto pessimista sulla possibilità che gli ebrei riuscissero con le proprie forze a sottrarsi alla macchina di sterminio nazista, che aveva già liquidato quasi tutti gli ebrei d'Europa. L'unica speranza era trattare con i nazisti. Non stupisce perciò che accettasse senza esitazioni l'offerta. Ma, come si usa dire, Timeo Danaos et dona ferentes [Attenti ai greci quando portano doni]. Accettando quell'offerta, K. ha venduto l'anima al diavolo. Halevy scrisse che Kastner aveva contribuito allo sterminio degli : ebrei di Cluj in due modi: Incoraggiando consapevolmente i leader di Cluj a collaborare alla deportazione ad Auschwitz dei membri della loro comunità e sottraendosi consapevolmente al proprio dovere di presidente del Comitato di salvataggio, quello di rivelare agli ebrei il destino cui andavano incontro e di organizzarne la fuga al di là della frontiera rumena. ... Mediante l'accordo con K. i nazisti ottennero di facilitare lo sterminio delle masse ebraiche: il prezzo che pagarono fu di risparmiare pochi privilegiati. Con l'accordo sui privilegiati, K. accettò lo sterminio della gente comune, che abbandonò al suo destino. Halevy citò l'antica legge ebraica: Anche nel caso in cui la sua vita sia in pericolo, all'ebreo non è concesso di salvare se stesso versando il sangue di un innocente («Ora che hai visto che il tuo sangue è rosso, ti accorgerai forse che anche il sangue di quell'uomo è rosso?»), così come non gli è concesso di salvare un innocente versando il sangue di un altro innocente («Non si antepone un'anima a un'altra»). E' vietato inoltre salvare una singola persona o anche tante, consegnando un innocente al boia («Meglio che muoiano tutti, piuttosto che consegnare una singola anima di Israele»). Né è concesso consegnare agli assassini una minoranza di innocenti o anche «una sola anima di Israele», neppure per salvare la maggioranza della comunità. Tanto più dunque è valido il caso opposto, nel quale la maggioranza innocente viene sacrificata per salvare una piccola minoranza. Chi viola questa legge merita la morte. ... Ritengo che da un punto di vista civico, morale e persino
legale, il comportamento di K.... sia equivalso a consegnare ai loro assassini la maggioranza degli ebrei per salvare una minoranza. Secondo Halevy, inoltre, era stata la collaborazione con i nazisti che aveva indotto Kastner a ordinare ai due paracadutisti giunti a Budapest di consegnarsi ai tedeschi e ad abbandonare al suo destino Hannah Senesh. Se egli avesse lasciato che, com'era loro intenzione, i para organizzassero la resistenza, essi avrebbero potuto diventare la scintilla profetizzata da Hannah Senesh prima di valicare la frontiera ungherese: «Beata la scintilla che accende la fiamma». Kastner sosteneva di avere fatto il possibile per aiutarli. Mentiva, così come aveva mentito a proposito della sua testimonianza a favore di Kurt Becher, decretò Halevy. Quanto alla missione di Joel Brand, che aveva costituito la vera rivelazione del processo e su cui Tamir si era molto dilungato con l'acquiescenza del giudice, Halevy disse che era estranea al processo e pertanto non la prendeva in considerazione. Assolse Gruenwald dall'accusa di diffamazione riguardo alle principali affermazioni: che Kastner aveva collaborato con i nazisti; che aveva «spianato la strada allo sterminio degli ebrei ungheresi», e che con la sua testimonianza aveva salvato il criminale di guerra Becher. Restava soltanto l'affermazione secondo cui Kastner era stato in combutta con Becher e aveva intascato una parte dei gioielli che i nazisti avevano sottratto agli ebrei ungheresi. L'accusa non era provata, sentenziò Halevy. Se Gruenwald si fosse limitato a questa, ci sarebbero stati gli estremi per una severa condanna, ma poiché veniva prosciolto dalle altre imputazioni, molto più gravi, giustizia voleva che gli si comminasse soltanto un'ammenda simbolica. Moshe Sharett definì la sentenza «un colpo durissimo». Ancora prima che Halevy completasse la lettura delle motivazioni, egli diede ordine al ministro della Giustizia Rosen di appellarsi alla Corte suprema. «Un incubo, un'infamia» scrisse nel diario il primo ministro. «Come ha osato, il giudice! Il partito strangolato. Il caos.» Mancavano poche settimane alle elezioni: il nome di Kastner scomparve, come per magia, dalle liste dei candidati del Mapai.
CAPITOLO XV «LE PRIME CREPE» I giornali annunciarono il verdetto con grandi titoli in prima pagina e vari servizi all'interno. Si impadronirono subito, com'era prevedibile, della frase di Halevy secondo cui Kastner, trattando con Eichmann, aveva «venduto l'anima al diavolo», e quella che era una semplice opinione divenne un dato di fatto. «Herut» pubblicò la fotografia di Kastner con la didascalia «IL socio di Eichmann», mentre sotto quella di Tamir si leggeva: «L'uomo che ha portato alla scoperta della verità». Un deputato dell'Herut, Yohanan Bader, dichiarò che il salvataggio delle élite e l'abbandono delle masse ricordava l'antico dibattito fra Weizmann e Jabotinsky, fra i sostenitori dell'immigrazione selettiva dei pionieri e quanti chiedevano invece di portare subito in Palestina tutti gli ebrei, compreso il ceto mercantile, tanto disprezzato per la sua indipendenza dai dirigenti sionisti. Weizmann, ricordava Bader in un articolo su «Herut», aveva definito le masse ebraiche dell'Europa orientale «detriti umani». I commercianti avevano ricevuto pochi certificati di immigrazione ed erano stati di fatto lasciati allo sbaraglio. Kastner aveva seguito le orme di Weizmann. Una cosa, tuttavia, Bader dimenticava di dire ai suoi lettori: a Budapest anche i revisionisti avevano appoggiato la mediazione di Kastner. Il quotidiano comunista «Kol Haam» scrisse, come se il patto Ribbentrop-Molotov non fosse mai esistito, che i negoziati fra Kastner ed Eichmann erano solo uno dei tanti tasselli della collaborazione con i nazisti di tutto il movimento sionista. I partiti religiosi vedevano in Kastner l'incarnazione del laicismo sionista, come se non avessero mai saputo che negli Judenrat c'erano anche gli ebrei osservanti. I due partiti di opposizione di sinistra, il Mapam e l'Ahdut Haavodah, si identificavano ora con i ribelli del ghetto, come se durante l'Olocausto non avessero collaborato con il Mapai a dirigere lo yishuv sotto il mandato britannico. Avneri scrisse su «Haolam Hazeh» che dalla sentenza emergeva una leadership
politica priva di senso patriottico e di indipendenza spirituale. In sostanza, una classe dirigente con la mentalità del ghetto, i cui interessi erano in contrasto con gli ideali della nazione nata da poco nella Terra di Israele e con quelli della generazione che aveva fondato lo Stato con il sangue e l'avrebbe difeso nelle prove future. Del giudice disse: «Ogni persona onesta si inchinerà davanti a quest'uomo coraggioso, quest'uomo per il quale la fedeltà ai princìpi conta più della carriera, un uomo che ha detto la verità, sapendo di attirarsi le ire di tutto il regime». La stampa del Mapai era paralizzata, si sentiva in trappola. Non voleva, naturalmente, dare ragione a Halevy, ma non voleva neppure attaccarlo, per non dare l'impressione che il partito difendesse in questo modo i propri interessi. L'unica cosa che riuscì a dire fu che in una questione del genere non ci si doveva affidare a un unico giudice e che perciò era bene attendere l'esito dell'appello alla Corte suprema. «Hapoel Hatsair» paragonò il dilemma di fronte al quale si era trovato Kastner a quello di Noè prima del diluvio. Il ministro della Giustizia Rosen, con ingenuità o ipocrisia, ma comunque con scarso realismo, dichiarò che sarebbe stato meglio per tutti astenersi «per il momento» dal pronunciarsi sul verdetto. Certo, al governo sarebbe piaciuto, e convenuto, che nessuno ne parlasse più per qualche anno. Due giorni dopo la sentenza, Moshe Sharett annotò nel diario di avere «dato istruzioni» a Moshe Keren, il prestigioso commentatore politico di «Haaretz», nato a Berlino. Quel giorno il quotidiano criticò il giudice: «Un verdetto cauto, meno arrogante, sarebbe stato sicuramente più giusto di questo verdetto che conosce soltanto due colori, il bianco e il nero». Halevy si era mosso con «superficialità», rifiutandosi di capire che le persone sotto giudizio avevano vissuto un incubo. Keren dedicò all'argomento una serie di articoli che costituiscono l'analisi più intelligente della logica involuta della sentenza e della sua iniquità. Kastner, sostenne l'editorialista su «Haaretz», aveva agito di concerto con i leader della comunità ebraica, e se lui era colpevole, allora erano tutti colpevoli. Anche se avesse avvertito i suoi concittadini del destino che li attendeva, nulla autorizzava a credere che sarebbero riusciti a fuggire o che fossero pronti a darsi alla fuga, così come non c'erano prove che sarebbero stati in grado di organizzare la resistenza.
Kastner non aveva, come invece voleva far credere la sentenza, la possibilità di scegliere se negoziare o non negoziare con i nazisti. Agiva in stato di necessità. Se avesse rifiutato di trattare, avrebbe abbandonato alla loro sorte anche tutti quelli che era riuscito a salvare con il «treno dei VIP». «Parlare del dovere di dare l'allarme, di effettuare un salvataggio su grande scala e di altre cose analoghe significa parlare a vanvera» scrisse Keren. «Uno degli aspetti più sorprendenti della sentenza è l'ammissione esplicita che non c'era nessuna speranza di organizzare la resistenza degli ebrei in quella fase del conflitto.... Ma se la situazione era questa, in nome di Dio, di che cosa va in cerca il giudice?» Keren se la prendeva anche con Haim Cohen per il modo in cui aveva condotto l'accusa. Non gli restava che dimettersi, dichiarò. Dubitava che valesse la pena appellarsi alla Corte suprema e proponeva invece di istituire una commissione d'inchiesta nazionale con l'accordo di tutti i partiti. «Le ripercussioni del processo Kastner» affermò «continueranno ad ammorbare l'aria che respiriamo. Assomiglia in questo ad altri processi famosi che hanno provocato la caduta di vari governi e la nascita di altri, come il processo Dreyfus in Francia, l'Alger Hiss negli Stati Uniti e i cosiddetti processi "del coltello nella schiena", che miravano a minare il regime di Weimar in Germania. Dopo questo verdetto Israele non è più quello di prima.» Quattro giorni dopo la sentenza, Menahem Begin convocò il comitato centrale dell'Herut per discutere su come impostare l'imminente campagna elettorale. Il partito era piacevolmente sorpreso che il verdetto fosse stato annunciato prima delle elezioni. Halevy aveva confermato tutto quello che l'Herut andava dicendo da anni, e anche questa era stata una piacevole sorpresa. «Sono rimasto stupito» affermò un dirigente. Le nostre tesi, esultò Ben-Eliezer (sbagliandosi probabilmente sull'orientamento politico di Halevy), sono state confermate non da «uno di noi», ma da «uno di loro». Ai convenuti non parve vero di poter cavalcare la sentenza nel corso della propaganda elettorale, tanto che discussero quasi esclusivamente di manifesti, di slogan e di annunci da proiettare nei cinema. «Non c'è bisogno di soffermarsi sui particolari» fu il suggerimento di un esperto. «Basta dire: "Quando votate Mapai, votate per un ebreo che ha consegnato gli ebrei alla Gestapo".» Uno
propose di ricavare dalla sentenza tante «brevi parole d'ordine» da indirizzare a diverse categorie di elettori: con i nuovi immigrati, per esempio, si poteva insistere sul silenzio del Mapai durante l'Olocausto. Un altro coniò il termine dispregiativo «kastnerismo», un altro ancora gongolò: «Questa storia potrebbe significare la fine dell'influenza del Mapai, che si è identificato e si identifica con Kastner». Anche Begin riteneva che fosse un momento difficile per il Mapai. «Il partito si trova in una brutta situazione. Si intravedono già le prime crepe.» Begin sospettava che Kastner fosse depositario di segreti che il Mapai aveva tutto l'interesse a nascondere. Attenzione però, ammonì i colleghi, a parlare soltanto degli scandali passati: sprecare tutto il tempo a discutere di Kastner, anziché protestare per le condutture dell'acqua rotte, avrebbe significato fare il gioco del Mapai. Bisognava invece insistere soprattutto sul fatto che il Mapai aveva criticato la giustizia. Bastava citare, per esempio, le parole di Meir Argov, il segretario del partito. Non aveva forse detto che nessun giudice coscienzioso avrebbe potuto stilare una sentenza del genere? L'Herut sarebbe così diventato il paladino della giustizia. «Noi siamo con i giudici di Israele» e dobbiamo fare in modo che il Mapai risulti contro, concluse Begin. L'Herut decise di stampare un manifesto con lo slogan «Processate chi disprezza la giustizia» e di chiedere la sospensione dell'immunità parlamentare per Meir Argov. Nello stesso giorno si riunì il Consiglio dei ministri. Il ministro degli Interni, Yisrael Rokah (dei sionisti generali), e quelli appartenenti ai partiti religiosi si dichiararono contrari all'appello alla Corte suprema. La decisione fu comunque lasciata al ministro della Giustizia, Pinhas Rosen. Ci fu anche un dibattito alla Knesset. L'Herut e i comunisti presentarono una mozione di sfiducia. Per l'Herut prese la parola Yohanan Bader. Chiunque affermi, proclamò, che Halevy ha avuto la presunzione di giudicare una questione che non poteva essere giudicata, si oppone di fatto alla punizione dei criminali di guerra nazisti. Era stato un errore perseguire Gruenwald, ma ora che era stato prosciolto, il Mapai cercava di convincere «tutto il paese» che bisognava appellarsi contro il verdetto. E tutto questo solo perché Kastner era del Mapai. Qualche deputato si spinse ancora più in là, arrivando a sostenere che il governo, anziché ricorrere contro la sentenza, avrebbe dovuto
processare Kastner. «Il rifiuto del governo di processare Kastner in base alla legge sui collaboratori dei nazisti» dichiarò Esther Vilenska del partito comunista Maki «rientra nella politica di difesa della ricostituzione della Wehrmacht nazista in cambio del piatto di lenticchie delle riparazioni. E rientra anche nel tentativo del governo di stringere un'alleanza militare con gli Stati Uniti e, indirettamente, con l'esercito hitleriano che gli americani stanno organizzando nella Germania occidentale.» Il primo ministro Sharett spiegò come la gravità del verdetto fosse tale che il governo non poteva esimersi dall'appellarsi, «per permettere a Kastner di difendersi». Era stato il governo a querelare per diffamazione Gruenwald, e Kastner, che al processo era soltanto un testimone, non aveva la facoltà di ricorrere. Ma l'appello, sostenne Sharett, era necessario soprattutto per controbattere alle conclusioni storiche stilate dal giudice, «per evitare che con il processo si imprima nella coscienza pubblica una condanna dei tentativi di salvataggio». Era questa, forse, la cosa più importante, concluse il primo ministro. I verbali della seduta sono punteggiati di insulti, come accadeva tutte le volte che si discuteva di Olocausto. «Lei vende l'anima al diavolo», «Bugiardo», «Pappagallo comunista». Ma la dichiarazione più sorprendente la pronunciò Haim Ariav dei sionisti generali: «Abbiamo la triste e dolorosa impressione che il governo continui a proteggere Kastner» affermò. E perciò i sionisti generali, che facevano parte della coalizione e avevano tre dicasteri, si sarebbero astenuti anziché votare la fiducia. «E' la crisi» annotò nel diario Sharett. Quella sera si riunì il gruppo parlamentare del Mapai per decidere sul da farsi. Ben Gurion, «pronto a dare battaglia», propose a Sharett di dimettersi immediatamente e di formare un nuovo governo senza i sionisti generali, per poi andare alle elezioni. Forse il Mapai avrebbe perso un po' di voti per il caso Kastner, ma «ci sono momenti in cui un partito deve essere disposto anche a perdere voti. ... Bisogna fare quello che si ritiene giusto per il bene del paese» concluse Ben Gurion. Il Mapai decise di far cadere il governo. E subito dopo Sharett ne formò un altro senza i sionisti generali. Seguì un dibattito poco edificante. Begin disse di sapere chi era stato a imporre il silenzio sullo sterminio degli ebrei durante l'Olocausto; Golda Meir gli diede del bugiardo e Begin rispose che la
signora non era famosa per dire la verità. Il governo riportò comunque la fiducia e la campagna elettorale cominciò. Oggi le polemiche che infuriarono a quell'epoca hanno un che di surreale. Dieci anni dopo l'Olocausto e sette dopo la guerra di indipendenza, i «padri fondatori» erano ancora sulla breccia e la sopravvivenza dello Stato di Israele ancora incerta. Un anno e mezzo dopo ci sarebbe stata una seconda guerra con l'Egitto. I problemi urgenti da affrontare erano molti. Eppure i leader dei partiti, anziché occuparsi del presente e del futuro, si scannavano fra loro, lanciandosi accuse mostruose le cui motivazioni affondavano le radici in un'Europa ebraica ormai scomparsa. Più si avvicinavano le elezioni, più si scavava in quel pozzo senza fondo per estrarne vicende sempre più torbide. Ogni partito era impegnato a dimostrare a se stesso e agli elettori che i malvagi di allora non si trovavano nelle sue file, ma in quelle avversarie. Si combatteva una lotta senza quartiere, in cui i nazisti e i loro crimini assurgevano a simboli e allegorie. Oggi quei politici, più che opportunisti, ci appaiono prigionieri del loro dolore, divorati dai dubbi e dai sensi di colpa, progenie di una nazione indifesa che continuava ad avvoltolarsi nel proprio passato, ignorando il presente e affidando il futuro alla fede e alla sorte. Ecco, per esempio, una scena degna del teatro dell'assurdo. In un caffè di Rehovot siedono il primo ministro, Moshe Sharett, e il capo del Mossad, Isser Harel, con le rispettive consorti. Gli uomini discutono sulla risposta da dare agli «attacchi concertati» di due giornali, «Lamerhav» (dell'Ahdut Haavodah) e «Haboker» (dei sionisti generali). I due quotidiani accusavano il Mapai di avere cercato di stabilire, nel momento in cui l'invasione della Palestina sembrava imminente, contatti con i nazisti per raggiungere un accordo sul tipo di regime da imporre al paese sotto occupazione. «"Lamerhav" ha parlato, senza fare nomi, di dirigenti dello yishuv che cercarono di raggiungere il Giappone per raccomandarsi ai nazisti» annotò quella sera nel diario Sharett «e "Haboker" ha avuto l'impudenza di rimproverare il Mapai per non avere replicato all'accusa.» Gli uomini del Mossad spulciarono i vecchi dossier e scovarono le prove che il Lehi, il partito di destra che Sharett chiamava la «banda Stem», aveva avuto contatti con la Germania nazista e l'Italia fascista. Il capo del Mossad, Isser Harel, consigliò al
primo ministro di passare le informazioni a «Davar», cosa che Sharett fece. Anche il giorno dopo il premier continuò a occuparsi del passato. Ehud Avriel gli comunicò che diversi leader di Ahdut Haavodah, uno dei partiti che ora rimproverava al Mapai la sua passività durante la guerra, non si erano dimostrati molto entusiasti all'idea di inviare il commando dei para in Europa, perché richiedeva il coordinamento con gli odiati inglesi. Avevano sollevato una serie di obiezioni, che avevano prolungato inutilmente il dibattito e ritardato l'operazione. Quel giorno Sharett trovò anche il tempo per smentire «Haboker». Non era vero, scrisse il primo ministro, che aveva disturbato il ministro della Giustizia in vacanza a Haifa perché si affrettasse ad appellarsi contro la sentenza Gruenwald. «"Haboker" continua a provocarmi» annota nel diario Sharett. «Perché, mi chiede, non rispondo a tutte le accuse che mi vengono rivolte a proposito dell'Olocausto in Ungheria?» Sharett fremeva dalla voglia di convocare immediatamente una conferenza stampa per raccontare com'erano andate veramente le cose, ma Isser Harel «era nettamente contrario». E anche Avriel l'aveva sconsigliato, per non gettare altra benzina sul fuoco. Sharett, tuttavia, decise di rispondere punto per punto ai suoi avversari durante un comizio elettorale a Netanya. Il partito non gradì l'iniziativa. «Nelle nostre riunioni» disse il deputato Yonah Kesse «avevamo deciso di accantonare per il momento la questione Kastner e di rinviare il vero scontro a dopo le elezioni.» Sharett partecipò a una riunione speciale con Yoel Palgi ed Ehud Avriel, che avevano entrambi testimoniato al processo. Discussero di come lavare la macchia che il verdetto aveva impresso sull'immagine del partito, di come motivare l'appello e di come comportarsi durante la campagna elettorale. «Una cosa di cui non siamo del tutto innocenti c'è, ed è che in questi anni non abbiamo indagato su molte questioni, compresa questa» disse Avriel. «Siamo stati in parte puniti per il nostro peccato.» Il suo suggerimento era di contattare «all'estero qualche storico importante, molto noto» e di fornirgli tutta la documentazione necessaria, affinchè chiarisse una volta per tutte la questione dell'Ungheria. «Deve essere una ricerca obiettiva, senza fini politici.» Tutti furono d'accordo. Kesse si impegnò a mettere a disposizione dello storico gli archivi del partito. Per tutta
la durata del caso Kastner un comitato di sorveglianza, che faceva parte dell'ufficio del primo ministro e a lui riferiva direttamente, tenne d'occhio la situazione. Ne era membro anche Teddy Kollek, il quale nelle sue memorie scrisse di avere incontrato il giornalista americano Arthur Morse e di avergli suggerito di condurre un'inchiesta sull'atteggiamento del mondo libero nei confronti dello sterminio degli ebrei. Fu così che nacque il libro Mentre sei milioni morivano. La versione data dall'Herut degli stessi avvenimenti è esposta da un altro autore americano. Ben Hecht. Yoel Palgi era molto preoccupato: i dirigenti del partito non avevano vissuto l'Olocausto e perciò non si rendevano conto della forza dirompente delle emozioni che il caso Kastner aveva risvegliato nell'opinione pubblica. Suggerì un rimedio: «Bisogna dichiarare apertamente: "Se [in appello] si dimostrerà che Kastner ha collaborato con i nazisti, dovrà essere condannato a morte". Sono convinto che con una dichiarazione del genere il partito conquisterebbe parecchi voti». Lasciò tutti allibiti. Tutti, però, furono d'accordo che bisognava chiedere a Natan Alterman di affrontare l'argomento. Alterman, in realtà, si era già impegnato a farlo. Fedele al partito, mantenne la parola. Prima delle elezioni dedicò tre dei suoi editoriali settimanali alla difesa degli ebrei che non si erano ribellati durante l'Olocausto. «Altri popoli, incatenati dal nemico nella loro patria, non hanno reagito diversamente» scrisse. La concomitanza fra il caso Kastner e le elezioni non contribuì certamente a un dibattito pacato sulle questioni fondamentali sollevate dal processo. Ma la discussione proseguì anche dopo le votazioni e fu spesso lo specchio dei sensi di colpa di una società disorientata. Molti israeliani si ergevano a giudici degli ebrei dell'Olocausto, come se ne avessero avuto la capacità e il diritto. Questi sono gli eroi, dicevano, questi sono i codardi: gli uni meritano la gloria, gli altri il disonore. Natan Alterman, che da tempo immemorabile era uno dei notabili dello yishuv, non era certo l'uomo più adatto a misurare il comportamento degli ebrei durante l'Olocausto. Mentre in Europa infuriavano la guerra e il genocidio, lui sedeva al caffè Kasit di Tel Aviv, il luogo di incontro dei letterati ebrei in Palestina. Ma un giorno, molti anni dopo, aveva invitato a casa sua Abba Kovner e l'aveva interrogato a lungo sulla vita nel ghetto di Vilnius e sulla
rivolta da lui capeggiata. L'aveva ascoltato in silenzio, quindi aveva detto: «Se mi fossi trovato nel ghetto, sarei stato dalla parte dello Judenrat». Nelle poesie e nei taccuini pubblicati postumi Alterman non rifiuta l'idea della rivolta, ma difende la legittimità dell'altra scelta, quella degli ebrei che avevano cercato di sopravvivere a ogni costo. Anche i leader dei ribelli avevano giustiziato altri ebrei, osservava Alterman, così come lo Judenrat aveva consegnato gli ebrei ai nazisti. La rivolta era servita soltanto ad accelerarne la morte. I capi della resistenza consigliavano alla gente del ghetto di suicidarsi, considerando il suicidio una morte onorevole. Ma, si chiedeva Alterman, che diritto avevano di rivolgere una richiesta simile a un'intera comunità? L'interrogativo riguardava il valore della rivolta come simbolo da consegnare alle future generazioni. L'obiettivo dei ribelli, insisteva Alterman, non era il salvataggio degli ebrei, ma la guerra senza quartiere al fascismo. Difendendo gli ebrei d'Europa che avevano optato per la sopravvivenza e la salvezza, Alterman difendeva anche l'operato della comunità ebraica di cui faceva parte, quella di Israele, e i suoi leader. Era un poeta di partito. U procuratore generale, Haim Cohen, metteva la legge al servizio del suo partito, Alterman metteva la penna. Sebbene durante la campagna elettorale il bersaglio principale dei partiti di opposizione fosse il Mapai, essi non mancarono di farsi anche la guerra fra loro. «Lamerhav» rivelò che alcuni esponenti del movimento revisionista, l'antenato dell'Herut, erano stati funzionari della polizia del ghetto sotto il comando nazista. Il giornale cercava, in concorrenza con «Al Hamishmar», di accaparrarsi il consenso dei capi della rivolta del ghetto di Varsavia. Il partito di cui era la testata, Ahdut Haavodah, godeva di un certo vantaggio, perché vi militavano Antek Zuckerman e Tzivia Lubetkin. Il Mapam poteva vantare fra i suoi eroi Mordecai Anielewicz, il comandante della rivolta, ma non poteva sfruttarlo nella campagna elettorale, dato che era morto durante l'insurrezione. Ma anche quel simbolo gli era conteso dal comunista «Kol Haam»: Anielewicz, sosteneva il giornale, voleva l'alleanza con la resistenza comunista polacca perché così i combattenti avrebbero avuto più possibilità di sopravvivere. A quell'alleanza, invece, si erano opposti gli attuali dirigenti del Mapam per questioni di rivalità politica. «Al
Hamishmar» rispose per le rime, accusando i comunisti di avere collaborato con il gran muftì di Gerusalemme, che si era alleato con Hitler. Il giornale attaccò anche Moshe Sneh, un dirigente del Mapam che era passato ai comunisti: «Sneh ha abbandonato gli ebrei polacchi durante l'Olocausto per salvarsi la pelle». Fu la campagna elettorale più grottesca di tutta la storia di Israele. Le elezioni si tennero il 26 giugno 1955. Il Mapai restò il partito di maggioranza, ma perse cinque seggi, scendendo da quarantacinque a quaranta. Fu il peggior risultato fino alla grande sconfitta del 1977. L'Herut quasi raddoppiò i voti, soprattutto a spese dei sionisti generali, passando da otto a quindici seggi, uno in più di quelli che aveva ottenuto nella prima Knesset. Fu l'inizio di una rimonta che lo portò, nel 1977, a diventare il primo partito di Israele. Il Mapai attribuì il calo a varie cause, fra cui l'accordo sulle riparazioni di guerra e il caso Kastner. Il risultato più tangibile delle elezioni fu il ritorno di Ben Gurion alla guida del governo. Per prima cosa il premier prese le distanze dal caso Kastner. Si comportò come se la cosa non lo riguardasse, come se si trattasse di un capitolo della biografia di Moshe Sharett e non anche della sua. «Non so quasi nulla della vicenda Kastner» scrisse a un conoscente. «Non ho seguito il processo e non ho letto la sentenza, a eccezione delle poche frasi riportate nei titoli dei giornali.» E invece Ben Gurion c'entrava eccome: aveva presieduto l'Agenzia ebraica durante l'Olocausto e aveva avuto un ruolo nella missione di Joel Brand. In tribunale Kastner aveva detto di avere consultato Ben Gurion prima di recarsi a testimoniare a Norimberga e di averne ricevuto il benestare. Durante il processo, Kastner si era recato a Sde Boker da Ben Gurion, il quale, a suo dire, gli aveva promesso di riabilitarlo. Ma quando il fratello di Kastner chiese al leader del Mapai di confermare la promessa con una dichiarazione alla stampa. Ben Gurion rifiutò. Riconosceva che il buon nome di Kastner era stato «calpestato da una masnada di farabutti», ammetteva di conoscere bene i disgustosi intrallazzi di quei pennivendoli che si erano buttati a capofitto su Kastner, ma non ricordava di avere mai promesso di riabilitarlo. Però, scrisse al fratello di Kastner, c'erano «parecchi altri dirigenti dell'Agenzia ebraica» più informati di lui «su ciò che è stato fatto per salvare gli ebrei d'Europa», come a dire
che la questione non era di sua competenza. «Non mi permetterei mai di giudicare un solo ebreo che si trovava "là"» disse Ben Gurion a un redattore di «Davar»: il giudizio sugli Judenrat, e forse anche sul caso Kastner, spettava alla storia. «Gli ebrei che hanno vissuto nella sicurezza durante il tempo di Hitler non possono giudicare i loro fratelli che sono stati mandati nelle camere a gas o massacrati, e neppure quelli che si sono salvati. Ho visto alcuni dei superstiti dei lager tedeschi subito dopo la guerra, ho sentito parlare di atrocità e sono stato testimone di comportamenti scorretti in alcuni campi, ma non mi è parso di avere il diritto di ergermi a giudice e accusatore, sapendo quello che avevano passato.» Ben Gurion riteneva inutile la commissione d'inchiesta sulla vicenda Kastner, perché «gli interessi politici di parte che sfruttano l'Olocausto ai loro fini» ne avrebbero distorto l'operato. Quanto al pericolo che le giovani generazioni di Israele prendessero a modello lo Judenrat, lo reputava inesistente: la loro educazione avveniva nel solco della tradizione delle Forze di difesa israeliane e delle organizzazioni militari che le avevano precedute. Poi, per un attimo, ma solo un attimo, Ben Gurion si abbandonò alla commozione: «E una tragedia più profonda dell'abisso e quelli della nostra generazione che non hanno conosciuto quell'inferno farebbero bene, io credo, a restarsene dolorosamente e umilmente in silenzio. Mia nipote, suo marito e i suoi due bambini sono stati bruciati vivi. Si può parlare di simili cose?». Kastner aveva testimoniato anche a favore di un altro ufficiale delle SS, Hermann Krumey. Messo sotto accusa in Germania in seguito al processo Eichmann, Krumey presentò a propria discolpa quella testimonianza. A Shmuel Tamir non parve vero di tornare in scena: inviò a Ben Gurion una lunga lettera chiedendogli, per conto di Malchiel Gruenwald, che smentisse di avere autorizzato Kastner a deporre in favore di Krumey. La risposta di Ben Gurion fu lapidaria: «Rifiuto nel modo più assoluto di avere a che fare con qualsiasi questione riguardante il signor Gruenwald o i suoi rappresentanti». Tamir corse a consegnare la lettera di Ben Gurion alla redazione di «Herut».
CAPITOLO XVI «IL PROFETA GEREMIA, PER ESEMPIO» Passarono due anni e mezzo prima che la Corte suprema emettesse il suo verdetto. Nel frattempo le polemiche suscitate dal caso Kastner continuarono, anche se con minore virulenza e maggiore razionalità. La forma era più pacata, il linguaggio poetico e le argomentazioni di carattere morale. Ora, però, non si discuteva più soltanto del passato: si cercava anche di definire l'immagine della società israeliana del presente e di indicare un percorso per il futuro. Il dibattito sul valore della vita nei ghetti polacchi era in realtà un dibattito sul valore della vita in Israele. Poi venne un'altra guerra, che provocò un nuovo esame di coscienza, seguita da una crisi politica, alla cui radice c'erano le relazioni con la Germania. Ancora una volta, come ai tempi delle dispute sulle riparazioni di guerra, gli israeliani si trovarono a dover scegliere fra i valori etici e l'interesse nazionale, fra la ragione e il sentimento. Il 29 ottobre 1956 l'esercito israeliano invase l'Egitto e in una sola settimana occupò tutta la penisola del Sinai. Nei combattimenti persero la vita quasi duecento soldati israeliani e diverse migliaia di egiziani. Israele definì l'invasione un atto di autodifesa: in effetti, c'erano stati numerosi attentati, messi a segno da terroristi provenienti dalla Giordania e dall'Egitto, un paese, quest'ultimo, la cui forza militare stava rapidamente crescendo. Dietro l'autodifesa, però, c'era anche molto avventurismo: c'era l'idea di imporre un ordine nuovo in Medio Oriente e c'erano gli intrighi militari fra Israele, la Gran Bretagna e la Francia. Riluttanti a rassegnarsi alla fine dell'era coloniale, le due potenze europee miravano a rovesciare il regime di Nasser e a riconquistare il controllo del Canale di Suez, due obiettivi entrambi mancati. La stampa israeliana, in coro con quella francese e inglese, paragonava spesso nei suoi articoli e nelle sue vignette Nasser a Hitler e altrettanto facevano gli uomini politici di tutte e tre le nazioni. David Ben Gurion definì Nasser «un dittatore fascista» e Begin dichiarò che si circondava di consiglieri nazisti.!
Dieci giorni prima del Sinai, «Maariv» pubblicò un articolo di un'intera pagina, intitolato Svastica nella terra del Nilo, in cui raccontava la storia di un ex ufficiale delle SS, Otto Skorzeny, «l'uomo dietro Nasser». (In realtà, Skorzeny era anche al soldo dello spionaggio israeliano.) Poco dopo la conquista del Sinai, lo stesso giornale stampò la riproduzione della copertina dell'edizione araba di Mein Kampf, sostenendo di averla rinvenuta in un accampamento dell'esercito egiziano, e scrisse che «l'intervento franco-britannico aveva impedito a Nasser di diventare l'Hitler dell'Oriente. E' stato sconfitto prima che la sua propaganda si trasformasse in una campagna omicida e sterminatrice». «Yediot Aharonot» riferì che l'espulsione degli ebrei egiziani dopo la guerra era stata organizzata da un'ex SS: l'autore dell'articolo era Eliezer Wiesel, in seguito insignito del premio Nobel per la pace con il nome di Elie Wiesel. Il poeta Uri Zvi Greenberg chiamò gli arabi «gli odiatori della mia razza». Di fronte alla condanna dell'opinione pubblica internazionale, diversi parlamentari israeliani cercarono una giustificazione nell'Olocausto. «Un milione e mezzo di giovani e di bambini fu massacrato alla luce del sole e il mondo non si commosse» dichiarò Yitzhak Itshe Meir Levin del partito Agudat Yisrael. «Ma ora che gli ebrei sono riuniti nello Stato di Israele, il mondo disapprova. Evidentemente si fa venire gli scrupoli di coscienza perché gli israeliani si rifiutano di andare al macello e si difendono con coraggio.» Su questa linea si attestarono anche altri, in particolare gli ambasciatori di Israele. «Lei sa meglio di me quello che ci hanno fatto quindici anni fa» scrisse Ben Gurion a uno dei collaboratori del presidente Eisenhower, il generale Walter Bedell Smith, a sostegno della sua tesi che il Sinai era stato invaso per autodifesa, mentre un assistente del capo di Stato maggiore dichiarò che la decisione israeliana di intervenire contro l'Egitto era stata dettata dalla paura. Ma erano tutte false motivazioni. L'Israele di prima della guerra del Sinai non mostrava sintomi particolari di ansia, e non fu l'ansia a spingerlo ad attaccare. Essa comparve invece dopo la vittoria, quando gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica esercitarono congiuntamente forti pressioni, accompagnate da minacce esplicite, per costringere Israele a ritirarsi, gli uni dicendosi pronti a bloccare i finanziamenti e l'altra a mandare le
proprie truppe in Egitto. Ben Gurion non sottovalutò il pericolo. «E' un incubo» annotò nel diario. «Ci giungono in continuazione messaggi da Roma, Parigi e Washington su un flusso di "volontari" sovietici in Siria e sull'arrivo di una flotta aerea per bombardare gli aeroporti, le città e altri luoghi di Israele.... Forse c'è molta esagerazione nei messaggi, ma la lettera che mi ha mandato [il premier Nikolaj Bulganin, una lettera che avrebbe potuto benissimo scrivere Hitler, e la follia dei carri armati russi in Ungheria sono la dimostrazione di quello di cui sono capaci questi nazicomunisti.» E il ministro della Pubblica Istruzione, Zaiman Aran, pare dicesse: «Sono un ebreo della Diaspora e ho paura. Sarà un vero e proprio sterminio». Pinhas Sapir, ministro del Commercio e dell'Industria, nell'illustrare a Ben Gurion le conseguenze di eventuali sanzioni da parte degli Stati Uniti dichiarò: «Sarebbe la morte». Ben Gurion concordava: «Non potevamo permetterlo» dichiarò qualche mese dopo parlando agli ufficiali delle Forze armate israeliane. «Sarebbe stata la catastrofe per lo Stato di Israele.» Non era la prima volta che Ben Gurion diceva che Israele era in pericolo, ma per la prima volta descriveva il pericolo in termini concreti, parlando di distruzione, estinzione, olocausto. Ai primi di marzo del 1957 Israele si ritirò da tutti i territori occupati, compresa la Striscia di Gaza. I cittadini arabi di Israele vivevano sotto un governo militare dal momento della proclamazione dello Stato: la loro libertà di movimento era limitata, venivano arrestati con facilità ed erano sottoposti a una serie di regolamenti arbitrari. Il governo giustificava il controllo sostenendo che gli arabi erano un pericolo sul piano politico e della sicurezza. Dimenticava però di aggiungere che così era più facile confiscare le terre. Nel «triangolo», come veniva chiamata la zona ai confini del Giordano con molti insediamenti arabi, la popolazione era soggetta a un coprifuoco permanente, che scattava in genere alle nove di sera. Il primo giorno della campagna del Sinai il coprifuoco fu anticipato alle cinque del pomeriggio. In quell'occasione diversi abitanti di Kfar Kassem, di ritorno dal lavoro, arrivarono alla spicciolata alla periferia del loro villaggio qualche minuto dopo le cinque. Non sapevano che il coprifuoco era stato anticipato. Avanzavano lungo la strada principale su camion, carri e biciclette. Alle porte del villaggio furono bloccati da una
pattuglia di guardie di frontiera. Dopo averli identificati genericamente come abitanti di Kfar Kassem, i militari li allinearono e aprirono il fuoco. L'ordine era di «ucciderli tutti». Ne arrivarono altri e furono anch'essi fucilati. Le vittime furono una cinquantina, fra cui anche donne e bambini. Alcuni feriti finsero di essere morti e si salvarono. «Dio mio, che cosa ne sarà di questo nostro piccolo paese!» scrisse nel diario Moshe Sharett, che però ormai non era più nella stanza dei bottoni. Il governo tenne nascosto l'accaduto, ma poiché i giornali non avevano chiesto alla censura militare l'autorizzazione a rendere pubblica la notizia, i primi racconti del massacro si diffusero di bocca in bocca. Un militante del Mapam, Latif Dori, girò per tutti gli ospedali a raccogliere le testimonianze dei feriti. Altrettanto fecero i funzionari del partito comunista. Soltanto sette giorni dopo l'eccidio i quotidiani sottoposero alla censura i primi, brevi e imprecisi articoli su Kfar Kassem. La pubblicazione fu vietata. «Kol Haam» fu l'unico giornale a fare ricorso contro la decisione, ma inutilmente. Nei giorni seguenti i quotidiani, in particolare «Kol Haam», «Al Hamishmar», «Haaretz» e «Haolam Hazeh», cominciarono a fare pressioni contro la censura. La deputata Esther Vilenska del Maki accennò al massacro in un suo discorso alla Knesset, ma fu subito interrotta dal presidente e le sue parole non furono messe a verbale. Un suo collega di partito, Tawfik Tubi, descrisse la strage in un volantino che fece circolare: il governo, sollecitato da più parti, fu costretto a rilasciare una dichiarazione ufficiale. Era già stata nominata una commissione d'inchiesta. Dopo lunghe trattative fra i diversi partiti politici, fu deciso che Ben Gurion avrebbe riferito al Parlamento, che la Knesset avrebbe osservato un minuto di silenzio e rinunciato al dibattito. «Non c'è popolo al mondo che attribuisca tanto valore alla vita umana come gli ebrei» affermò Ben Gurion. «Abbiamo imparato che l'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio e nessuno sa di che colore fosse la pelle di Adamo.» Erano passate quasi sei settimane dal giorno del massacro: la maggioranza degli israeliani non sapeva ancora con precisione cosa fosse accaduto. Quando finalmente le fu tolto il bavaglio, la stampa espresse grande sgomento e il paese cominciò a interrogarsi. «Com'è potuto accadere?» si chiedevano Shlomo Gross su «Haaretz» e Natan
Alterman sulle pagine di «Davar». Da dove scaturiva tutto quell'odio per le minoranze? Qual era il meccanismo che portava a eseguire l'ordine di assassinare? Quali erano i limiti dell'obbedienza e quando un ordine era illegittimo? Fu chiaro a tutti fin da principio che quelle domande erano le stesse che avevano tormentato i tedeschi alla fine della guerra, sebbene nessuno osasse ancora dirlo apertamente. «Non siamo migliori degli altri. Le cose che accadono alle altre nazioni possono accadere anche a noi» affermò Uri Avneri. Ma cercava almeno di salvare l'immagine di purezza della gioventù israeliana, chiedendo: «Qualcuno ha mai spiegato ai nostri ragazzi in divisa quand'è che un ordine legittimo diventa illegittimo?». In altre parole, la colpa era dei politici, non dell'esercito. A mano a mano che emergevano gli agghiaccianti particolari della strage, i giornali cominciarono a paragonare esplicitamente il massacro di Kfar Kassem ai crimini nazisti. «Tutta la nazione non può che provare un senso di vergogna e di umiliazione ... all'idea che fra non molto noi saremo come i nazisti e gli autori dei pogrom» scrisse Rabbi Benyamin, l'uomo che durante l'Olocausto aveva supplicato lo yishuv e i suoi dirigenti di fare qualcosa per salvare gli ebrei. E proseguiva: «Che i capi della nazione si alzino. Che i capi rabbinici si alzino e confessino pubblicamente questo terribile crimine, che si rechino a Kfar Kassem a implorare perdono, a chiedere scusa, a espiare». Yeshayahu Leibowitz, con l'amaro sarcasmo per cui andava famoso, scrisse su «Haaretz»: «Per amore di quella giustizia che lo Stato di Israele va proclamando, propongo di rivolgere una grande petizione ai governi degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia e dell'Unione Sovietica perché effettuino la revisione delle leggi di Norimberga e la riabilitazione degli ufficiali, dei soldati e dei funzionari condannati a morte e all'impiccagione, dal momento che essi hanno obbedito tutti a precisi ordini dei loro comandanti». Nei giorni successivi il giornale dedicò un'intera pagina alle lettere sull'articolo di Leibowitz. Lo scrittore Yehoshua Bar-Yosef si sforzò invece di rassicurare i lettori di «Davar»: «Non è il momento delle lamentazioni funebri sul risveglio della bestia nazista dentro di noi». Uri Avneri si rallegrava che gli assassini fossero stati incriminati: «Sta in questo la differenza fondamentale fra lo Stato di Israele e l'atroce regime tedesco». «Davar»
commentò: «Com'è potuto accadere che persone normali, i nostri ragazzi, abbiano commesso un crimine come questo? Non possiamo sfuggire alla verità: non abbiamo fatto abbastanza per vaccinare questa nazione contro la perdita del senso morale e la tendenza a dimenticare, di fronte a un nemico o a un potenziale nemico, che la vita è sacra». «Yediot Aharonot» e «Maariv» cercarono di ridimensionare il massacro. Dimostrarono comprensione per gli assassini e criticarono gli altri giornali e la Knesset. «Yediot Aharonot» se la prese con la decisione del Parlamento di osservare un minuto di silenzio. «E' uno scandalo, naturalmente,» scrisse il giornale a proposito della strage «ma inscenare uno spettacolo come quello della Knesset significa non soltanto manifestare il nostro dolore, significa anche dare l'impressione che siamo insicuri e perennemente terrorizzati.» Nessuno, osservò il corrispondente parlamentare del giornale, si era scusato per l'espulsione degli ebrei dall'Iraq, espulsione che chiamava con la parola tedesca Aussiediung. Eliahu Amikam di «Yediot» se la prese con l'«isteria del pentimento» che aveva invaso il paese. Calcolò che in 2000 anni, cioè in circa 730.000 giorni, equivalenti a 17 milioni di ore, era stato ucciso almeno un ebreo ogni ora. «I prodi scribacchini che sonnecchiavano mentre milioni di ebrei venivano assassinati si sono messi a battere sul tamburo della moralità al suono delle trombe del Maki» ironizzò, aggiungendo che i giornali non si erano dilungati tanto neppure sulla visita di Danny Kaye in Israele. «Maariv» parlò per la prima volta del massacro, citando nel titolo dell'articolo la somma stanziata dal governo israeliano per risarcire le famiglie delle vittime. Gli assassini di Kfar Kassem furono condannati a pene varianti dai sette ai diciassette anni. La sentenza contiene uno dei passi più importanti, più nobili, e più vaghi, che un tribunale israeliano abbia mai formulato. E' il passo che definisce la natura di un ordine illegittimo, un ordine al quale bisogna disobbedire: «L'illegittimità palese è come un drappo nero che sventola al di sopra dell'ordine dato, ammonendo: "Vietato!". Non si tratta di un'illegittimità formale, oscura o semioscura, di un'illegittimità che può essere individuata soltanto dai giuristi, ma piuttosto della violazione chiara ed evidente della legge. ... E' l'illegittimità che balza agli occhi e ripugna al cuore, se l'occhio non
è cieco e il cuore non è insensibile o corrotto: è questa la misura dell'illegittimità palese, che autorizza il soldato a venire meno al dovere di obbedire, per non macchiarsi di un crimine». Quelle righe le scrisse Benyamin Halevy, che aveva indossato di nuovo la divisa per presiedere il tribunale militare. La nozione del «drappo nero» entrò a far parte del programma di formazione dell'esercito. Il confronto fra il massacro di Kfar Kassem e i crimini nazisti elevava l'Olocausto a criterio per misurare l'eticità dei comportamenti nel campo dei diritti umani in generale e del conflitto arabo-israeliano in particolare. Non era la prima volta che questo accadeva. In una delle sue prime sedute, il governo israeliano aveva discusso delle atrocità commesse dai suoi soldati contro la popolazione civile durante e dopo la guerra di indipendenza. I ministri disponevano di informazioni agghiaccianti, che suscitarono un dibattito molto aspro. Il ministro dell'Agricoltura Aharon Zisling, del Mapam, disse: «Ho espresso più volte il mio disaccordo quando il termine "nazista" veniva applicato agli inglesi. Non userei quest'espressione nei loro confronti neppure se commettessero delle azioni naziste. Ma ora anche gli ebrei hanno commesso azioni naziste e io sono sconvolto». La maggioranza degli israeliani, però, come testimoniavano le lettere ai giornali, rifiutava quel confronto. «Maariv» e «Yediot Aharonot» erano più vicini agli umori popolari dei moralistici «Davar» e «Haaretz». Pian piano anche la posizione ufficiale vi si adeguò. I familiari delle vittime furono risarciti con una miseria, il governo militare durò ancora per anni e anni, gli assassini ebbero ridotta la pena, furono perdonati dal capo di Stato maggiore e dal presidente della Repubblica, e tre anni dopo il massacro furono tutti rimessi in libertà. Il comandante del loro reggimento, il colonnello Yisachar Shadmi, fu incriminato soltanto in seguito alle pressioni della stampa: prosciolto dall'accusa di assassinio, fu ritenuto colpevole di abuso di autorità. Moshe Dayan, allora capo di Stato maggiore dell'esercito, testimoniò a suo favore. La corte comminò al colonnello l'ammenda di un grush, che era la moneta più piccola di Israele. Lo Stato non si appellò. Prima che con il verdetto sul caso Gruenwald-Kastner la Corte suprema riportasse alla memoria degli israeliani i giorni dell'Olocausto in Ungheria, il governo di Ben Gurion cadde di nuovo, e di nuovo fu ricostituito,
sulla questione dell'acquisto di due sottomarini dalla Repubblica federale tedesca. Nel momento culminante della crisi, un'automobile con tre israeliani a bordo rimase bloccata dalla neve in una località della Baviera. Di quei tre, uno sarebbe diventato il primo Ambasciatore di Israele in Germania; il secondo, capo di Stato maggiore dell'esercito, e il terzo, ministro della Difesa e presidente del Consiglio. Era il dicembre del 1957. Arthur BenNatan, Haim Laskov e Shimon Peres si stavano recando a un incontro con Franz Josef Strauss, il ministro della Difesa tedesco. «Siamo partiti da Parigi verso sera e dopo mezzanotte siamo arrivati a Strasburgo, alla frontiera tedesca» raccontò Peres. «Era pieno inverno. La strada era coperta di neve e c'era una fitta nebbia. La macchina ha sbandato prima ancora di raggiungere il confine, è uscita di strada e si è fermata. Abbiamo cercato di rimetterla in moto alla luce di una torcia e di riprendere il viaggio.» Quando finalmente l'automobile ripartì, per poco non investì Laskov: «Si è salvato per miracolo» scrisse Peres. Solo nel pomeriggio del giorno successivo giunsero a Rott am Inn, un paesino che si trova a una cinquantina di chilometri a sud di Monaco, dove abitava Strauss. Il ministro della Difesa, che era uscito con i cani, arrivò venti minuti dopo. Era, racconta Peres, un uomo giovane, dalle guance rubizze, il ritratto della salute e dell'energia. Afferrò al volo la situazione e suggerì diverse soluzioni brillanti. Sua moglie preparò il pranzo. «Abbiamo detto che l'America ci dava i soldi ma non le armi, e che la Francia ci dava le armi ma non i soldi» continua Peres. «Per la Germania sarebbe stato un notevole passo avanti nel superamento del passato se ci avesse fornito gratuitamente degli armamenti. ... Abbiamo proposto relazioni fra il nostro paese e il suo analoghe a quelle che avevamo con la Francia, relazioni basate sulla fiducia, su un'ampia prospettiva e su contatti diretti.» Parlarono per tre ore e Strauss si impegnò ad aiutarli. «Abbiamo avuto la sensazione di avere posto le basi per costruire relazioni speciali fra i due paesi» conclude Peres. Ben Gurion annotò nel diario: «Secondo Shimon, l'atteggiamento di Strauss deriva da: 1) odio e paura nei confronti dei russi; 2) ammirazione per le forze armate israeliane; 3) riconoscimento degli interessi dell'Europa, in quanto potenza impegnata nel Medio Oriente e in Africa». Strauss affiancava
Adenauer per tutto quello che riguardava le relazioni fra Israele e la Germania. «Attribuisce una grande importanza alla segretezza dei contatti» scrisse Ben Gurion. L'idea di stabilire rapporti militari con la Germania fu suggerita, pare, da Shimon Peres e approvata da Ben Gurion, senza che ci fosse nessun dibattito al Consiglio dei ministri, né tantomeno una decisione ufficiale. Il leader del Mapai, Giora Yoseftal, si era già recato a Bonn per chiedere aiuti militari a Adenauer. Anche Nahum Goldmann aveva sondato la disponibilità di Adenauer a inviare armamenti in Israele. Al suo ritorno aveva raccontato a Ben Gurion un pettegolezzo: «Adenauer, che ha ottantun anni, ha intenzione di restare al suo posto per altri dieci. In Germania ci sono delle iniezioni, scoperte in Russia, che servono per ringiovanire». Le faceva anche il papa, scrisse nel diario Ben Gurion. Anche Peres aveva già incontrato almeno una volta Strauss. In quel viaggio avrebbe dovuto accompagnarlo il capo di Stato maggiore, Moshe Dayan, poi però la notizia era trapelata. Durante una seduta del gabinetto il ministro della Sanità, Yisrael Barzilai del Mapam, aveva chiesto a Ben Gurion se era vero che «un personaggio di alto rango» stava per essere inviato in Germania. Alla risposta affermativa del premier, Barzilai aveva chiesto di discutere la questione. Ben Gurion aveva rivelato che il personaggio era il capo di Stato maggiore. Sei ministri, del Mapam, dell'Ahdut Haavodah, del partito progressista e del partito nazional-religioso, si opposero al viaggio, ma i sette del Mapai votarono a favore e il 15 dicembre 1957 la missione venne approvata. Fu, a quanto risulta, la prima decisione formale sui rapporti militari fra Israele e la Germania. I ministri dell'Ahdut Haavodah non si arresero. Dissero che Strauss era uno dei capi dell'«esercito nazista di assassini» e passarono le informazioni al giornale di partito, «Lamerhav», che le pubblicò senza fare il nome del personaggio di alto rango. Naturalmente quel nome lo conoscevano tutti, ma i ministri fingevano di mantenere il segreto. Si comportavano come Ben Gurion, il quale alla Knesset non parlò di sottomarini, ma di «equipaggiamento che non si vede né da terra, né dal mare, né dall'aria». «Spie arabe,» ironizzò Menahem Begin «traete da sole le conclusioni.» Visto il chiasso che si era fatto. Ben Gurion decise di non mandare in Germania Moshe Dayan ma di sostituirlo con il suo
vice, Laskov, che sarebbe diventato il successivo capo di Stato maggiore. La decisione di acquistare armi dalla Germania era un altro passo verso la normalizzazione dei rapporti fra i due paesi e dunque comportava il superamento di un'altra barriera emotiva. In realtà, a parte le accuse e controaccuse politiche, l'opinione pubblica non ne fu profondamente turbata. Ben Gurion fece di tutto per spostare l'attenzione dal problema delle relazioni con la Germania a quello della sicurezza. Si poteva fidare dei suoi ministri? Sapevano mantenere il segreto? chiese. «I rapporti di fiducia reciproca sono ormai una questione vitale» affermò. «Possiamo garantire la segretezza? Non si tratta di una questione fra moglie e marito, ma di una questione fra noi e il destino.» La crisi proseguì per quindici giorni, poi Ben Gurion e il suo governo si dimisero: dopo una settimana egli formò un nuovo gabinetto con le stesse persone del precedente. I ministri dell'Ahdut Haavodah, strigliati a dovere, promisero di rimanere muti come pesci. In una lettera «confidenziale» a Yitzhak Ben-Aharon, uno dei leader di Ahdut Haavodah, Ben Gurion protestò contro la sua definizione di Strauss come uno dei capi dell'«esercito nazista di assassini», dal momento che, a quanto gli risultava, non era mai stato nazista. Alla lettera Ben Gurion allegava gli appunti di una sua conversazione con il direttore della commissione del ministero della Difesa per gli acquisti in Germania. «Ci sono nazisti noti in posti importanti?» gli aveva chiesto Ben Gurion. «No» era stata la risposta. Domanda: E nell'esercito? Risposta: In nessun ambiente militare. Una commissione nominata da Strauss ha esaminato i precedenti di ciascuno, e tutti gli ex nazisti, anche nei casi più dubbi, sono stati epurati. ... Domanda: Qual è il clima fra la gioventù tedesca? Risposta: Ai giovani tedeschi oggi interessa una sola cosa: il successo. Domanda: Ci sono forme di nazismo fra i giovani? Risposta: No. La loro reazione allo spettacolo Anna Frank è molto significativa. Domanda: Il nazismo ha seguaci in Germania? Risposta: No. Domanda: Che fine hanno fatto i nazisti? Risposta: Sono entrati in clandestinità. Naturalmente, osservava Ben Gurion, lui non poteva né confermare né smentire quei giudizi. Però sapeva che il suo interlocutore era un uomo intelligente e onesto, e per di più le sue valutazioni corrispondevano a quelle che anche altri gli
avevano fornito. Ben Gurion stabilì una regola nuova, che trovò tutti concordi: «Non esiterò un solo istante ad accettare del materiale [militare] da qualunque parte provenga, nessun paese escluso». Qualche anno dopo Ben Gurion ebbe un singolare scambio epistolare con Yariv BenAharon, il figlio ventinovenne di Yitzhak Ben-Aharon. In un suo articolo il giovane aveva scritto che era lecito accettare armi dalla Germania, anche se era cambiata ben poco dal tempo in cui aveva assassinato sei milioni di ebrei. «Il suo articolo mi ha sconvolto,» gli scrisse Ben Gurion «mi ha sconvolto l'approccio immorale.... Da dove le viene quest'etica da ottentotto?» Ben Gurion non si accontentava più del riconoscimento che la sua strategia nei confronti della Germania era una necessità politica, economica e militare, adesso voleva anche la sanzione morale. Citando la Bibbia, difese la sua tesi che la Germania di Adenauer e di Willy Brandt era «un'altra Germania», così come la Russia di Nikita Kruscev non era la Russia di Stalin. «Sono assolutamente certo che Kruscev non ha protestato, né si è opposto alle atrocità staliniane» scrisse Ben Gurion «e tuttavia, se oggi Kruscev mi tendesse amichevolmente la mano, io gliela stringerei», così come sarebbe stato felice, aggiunse, di ospitare in Israele il poeta Evtusenko. Rifiutarsi di avere qualsiasi contatto con la Germania soltanto perché era la Germania «puzzava di hitlerismo o, a voler essere più gentili, di razzismo», Il giovane Ben-Aharon se l'ebbe a male. Nel gennaio del 1958, appena passata la burrasca sugli armamenti, la Corte suprema emanò il verdetto relativo all'appello dello Stato contro il parziale proscioglimento di Malchiel Gruenwald. Quattro dei cinque giudici si schierarono a favore dello Stato, dichiarando infondate quasi tutte le accuse rivolte da Gruenwald a Kastner, il quale fu censurato soltanto per la testimonianza resa dopo la guerra a favore dell'ufficiale delle SS Kurt Becher. Il quinto giudice, Moshe Silberg, respinse invece l'appello e confermò la sentenza di Benyamin Halevy con le seguenti motivazioni: «Chiunque, dopo quei fatti, abbia salvato o contribuito a salvare Becher dalla forca, ha dimostrato che ai suoi occhi le azioni di quel grande criminale non erano in fondo così spregevoli e infami». Le motivazioni degli altri giudici della Corte suprema, Shimon Agranat, Yitzhak Oishan, Schneur Zaiman Heshin e David Edward Geutein, erano invece
improntate a compassione, timore, umiltà e incredulità, tutte virtù che avevano fatto difetto alla sentenza di Halevy. «Il comportamento del dottor Kastner deve essere giudicato con estrema cautela, se si vuole evitare di incorrere in pregiudizi» scrisse Agranat. E tutti e quattro affermarono che i giudizi di carattere storico ed etico, che erano stati chiamati a esprimere, non avrebbero mai dovuto varcare la soglia di un tribunale. Il foro più idoneo, ammesso che ne esistesse uno, era una commissione di storici. «E' strano che nel momento in cui le nazioni del mondo processano gli assassini, arrivando a giustiziarli per i crudeli crimini che hanno commesso, noi, i fratelli delle vittime, non avendo la forza sufficiente per raggiungerli e incriminarli, ci occupiamo di dicerie e dei loro autori» osservò Heshin. Come avevano potuto, si domandava stupefatto, «certe teste calde» spingere «le autorità» a scegliere, fra tutti i diffamatori e calunniatori possibili, il patetico Malchiel Gruenwald e a porlo sotto giudizio con una procedura tanto eccezionale quanto poco ortodossa? Heshin criticò Halevy per tutte le questioni estranee, alcune delle quali pura «illusione e immaginazione», che aveva permesso fossero introdotte nel processo e per i giudizi di ordine morale che aveva pronunciato su Kastner, anziché limitarsi a stabilire se Gruenwald avesse davvero dimostrato che Kastner era un collaborazionista. Le motivazioni di maggioranza della Corte suprema, lunghe quasi duecento pagine, erano coraggiose: per discolpare Kastner i quattro giudici avevano dovuto assumere una posizione molto impopolare, che poteva apparire anche poco patriottica, sull'Olocausto e sulla rivolta del ghetto di Varsavia. Non doveva essere stata una decisione facile. Come Halevy, anch'essi avevano esaminato a fondo l'Olocausto in Ungheria, ma erano giunti alla conclusione che Kastner aveva sempre fatto il proprio dovere. Non aveva abbandonato la sua comunità, né i paracadutisti giunti dalla Palestina. E non aveva venduto l'anima al diavolo. Uri Avnen esultò «Sarà ascritto a merito della tradizione sempre viva dell'etica religiosa ebraica che il giudice Silberg, come il giudice Halevy, è un uomo di profonde convinzioni religiose». Se Kastner aveva continuato a negoziare fino all'ultimo, scrisse il giudice Agranat, era soltanto perché cercava di salvare il maggior numero possibile di ebrei in quelle circostanze. Il
treno dei VIP era una conseguenza delle trattative. La precedenza che aveva accordato ai dirigenti sionisti rispondeva a un «principio razionale», dal momento che essi avevano sempre avuto l'intenzione di andare in Palestina. Né si poteva rimproverare Kastner per avere messo sul treno la madre e la moglie. Aveva escluso un centinaio dei suoi parenti, ricordò Agranat, che erano morti. Tutti i leader della comunità ebraica ungherese di allora, compresi i rappresentanti del movimento revisionista, avevano approvato la linea di condotta di Kastner, scrisse il giudice, soppesando ogni parola e procedendo con estrema cautela come chi cammini sui carboni ardenti. Il più esplicito, e anche il più sarcastico, fu il giudice Heshin. [Shmuel Tamir] strilla che se si giustificano le azioni di Kastner, non c'è futuro per il popolo di Israele, perché ogni leader si comporterà come lui nei momenti di difficoltà. E analizzando i motivi per cui Kastner non incitò gli ebrei alla ribellione, afferma anche che «la mancanza di armi non era una buona ragione per non insorgere». Un'affermazione del genere equivale a dire che gli ebrei chiusi nei ghetti della provincia ungherese avrebbero dovuto tutti combattere e morire come martiri per l'onore del popolo. Porta come esempio i ribelli del ghetto di Varsavia, riconosciuti da tutti come martiri. E' un punto di vista: nella storia sanguinosa degli israeliti ci sono molti di questi eroi. Ma esiste anche un punto di vista diverso e opposto, anch'esso ben radicato nel nostro comune retaggio. Il profeta Geremia, per esempio, predicò la resa e l'alleanza con il nemico, mentre il rabbino Yohanan Ben-Zakkai preferì salvare il salvabile nel mare in tempesta. Eppure nessuno li ha accusati di avere venduto l'anima al diavolo. Quanto all'accusa di «collaborazione con i nazisti», così si espresse Heshin: Persino le vittime, i morti dell'Olocausto, gli uomini, le donne e i bambini che hanno scavato la propria fossa con il fucile puntato addosso, che sono stati costretti a entrare nelle camere a gas e nei forni crematori, persino loro hanno collaborato, nella misura in cui così facendo hanno contribuito ad attuare i piani dei nazisti. Non ci vuole molto per dimostrare, partendo da queste premesse, che anche Joel Brand aveva intenzione di collaborare con i nazisti. Se fosse riuscito a ottenere un certo numero di automezzi e una certa quantità di viveri da dare ai tedeschi, avrebbe fornito un
aiuto concreto che sarebbe servito a prolungare le loro trame contro gli ebrei e forse anche la guerra. Eppure nessuno oserebbe scagliare anche una sola pietra contro Brand se così facendo egli fosse riuscito a salvare altrettante migliaia di ebrei, dal momento che in cima ai suoi pensieri c'era il bene e non il male, la salvezza e non lo sterminio. Da tutto ciò si desume i che esiste una collaborazione che merita plauso e che, comunque, quando non vi si accompagnino intenzioni malvage, non va condannata, né considerata una mancanza morale. Erano le due vie indicate da Alterman, che ora comparivano nero su bianco nella sentenza della Corte suprema: una via conduceva alla «morte con onore», l'altra alla salvezza. Ma la sentenza arrivò troppo tardi per Kastner. Il 3 marzo 1957, poco dopo la mezzanotte, rientrò a casa dalla redazione di «Uikelet», il giornale in lingua ungherese al quale collaborava da quando si era dimesso dall'incarico di portavoce del ministero del Commercio e dell'Industria. Era uno dei tanti fogli pubblicati dal Mapai in varie lingue. Parcheggiò la macchina davanti al portone, al numero 6 di Sderot Emanuel, a Tel Aviv. Appena sceso, gli si avvicinò un uomo che gli chiese se era il dottor Kastner. Alla conferma, lo sconosciuto gli sparò tre colpi. Kastner morì tre giorni dopo. Qualche ora dopo l'attentato la polizia arrestò tre uomini. Tanta rapidità ingenerò il sospetto che si trattasse di personaggi già noti alla polizia e al servizio di sicurezza, lo Shin Bet. In effetti si scoprì che uno dei tre, Zeev Eckstein, aveva collaborato con lo Shin Bet un anno prima. Era stato infiltrato in quello che si sospettava fosse un movimento clandestino di estrema destra, l'erede del Lehi e dello Tsrifin, il gruppo che sognava un «regno israelita» dal Mediterraneo all'Eufrate. Gli altri due indiziati erano Dan Shemer e Yosef Menkes. Furono tutti e tre accusati di omicidio, anche in base alle loro confessioni, e condannati all'ergastolo. Era il primo assassinio politico in Israele dopo quello di Haim Arlosoroff, che era stato ucciso quasi venticinque anni prima. Anche allora i sospetti erano caduti sui circoli di estrema destra e anche allora il movente erano stati i contatti con la Germania. In ambedue i casi la verità non fu mai appurata. «Haolam Hazeh» scrisse che Kastner era stato probabilmente ucciso dallo Shin Bet per tappargli la bocca: la Corte suprema non aveva ancora emesso la sua sentenza
sull'appello contro Gruenwald e c'era il rischio che Kastner decidesse di vuotare il sacco sui contatti fra i leader del Mapai e la Germania nazista. La tesi sostenuta da «Haolam Hazeh» trovò qualche tempo dopo un'inattesa conferma. L'ex capo dello Shin Bet e del Mossad, Isser Harel, scrisse un libro al solo scopo di dimostrare che lo Shin Bet non aveva assassinato Kastner e che la versione dei fatti esposta dal direttore del giornale. Uri Avneri, nasceva «dalle elucubrazioni della sua mente malata o, se si preferiva, dalla sua malvagità e pervicacia nel diffamare lo Shin Bet con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo». Il libro non era del tutto convincente e lasciava nel lettore l'impressione che quello che Harel e l'ufficio del procuratore di Stato chiamavano «un movimento clandestino» non era mai esistito, oppure si trattava di un gruppuscolo effimero e marginale. Durante il processo Gruenwald e per tutto l'anno seguente, Kastner aveva avuto una scorta, che gli era stata tolta poco prima dell'agguato mortale. Sulla sospensione della scorta, Harel seppe dare quest'unica spiegazione: «In piena campagna del Sinai, nelle forze di sicurezza chi aveva il tempo e la voglia di occuparsi di Kastner o di assegnargli delle guardie del corpo?». Strana fu anche la concessione della grazia ai tre attentatori: erano assassini pericolosi, che secondo le autorità facevano parte di un'organizzazione terroristica. Allora perché, appena cinque anni dopo la loro condanna all'ergastolo. Ben Gurion chiese alla vedova e alla figlia di Kastner se acconsentivano a concedere la grazia? La vedova rifiutò, ma la figlia accettò, e i tre uomini furono liberati. Fra i tanti volumi che compongono la raccolta del settimanale letterario «Masa» c'è da qualche parte questo passo, scritto da Aharon Megged: «Kastner: una tragedia ebraica. E' stata una follia sottoporre alla giustizia il suo caso. L'ingerenza della legge in questo episodio equivale all'ingerenza del pettegolezzo in una tragedia d'amore. Che cosa sa il pettegolezzo: le piccole baruffe, le liti? Gli insulti e le grida? Le lacrime viste dal buco della serratura? Che cosa ne sa di due persone che hanno lottato per la propria vita sullo stretto crinale fra la speranza e la disperazione?». Pinhas Rosen si congratulò, «alla fine dell'incubo», con Haim Cohen. Gli inviò una lettera di grande garbo, anche se non priva di una sfumatura di rimprovero. «Neppure lei ha sempre
giudicato Kastner con equità, lasciandosi influenzare dalle sue omissioni come testimone e dagli sporadici cedimenti sotto l'effetto di un interrogatorio lungo e confuso» scrisse il ministro della Giustizia. «Kastner era fondamentalmente un uomo semplice, nel quale il bene prevaleva sul male. Lei ne ha salvato l'onore e il nome: è stata una grande impresa.» Rosen si chiedeva se tutto considerato non sarebbe stato più saggio ignorare uno come Gruenwald, uno che amava rimestare nel fango. Ma quel che era fatto era fatto. Era contrario comunque alla commissione di studiosi suggerita dai giudici della Corte suprema. «Basta leggere l'ultimo numero di "Haolam Hazeh" per capire che questo gruppo di maligni inquisitori avrebbe fatto a pezzi qualsiasi commissione che avesse raggiunto, per esempio, le stesse conclusioni della Corte suprema. E infine: che paese è mai questo in cui si può accusare di omicidio un alto funzionario per poi dirgli: "I tribunali non possono proteggerti"?» Shmuel Tamir costruì la propria carriera politica sul caso Kastner e le sue ricadute. Ogni tanto affermava di avere scovato nuove prove, concedeva interviste sulla vicenda e pubblicava qualche articolo. Chiese anche di riaprire il processo Gruenwald. Molti anni dopo, nel 1969, fu eletto deputato nella settima legislatura insieme a Uri Avneri e a Isser Harel. I tre uomini continuarono a litigare su Kastner alla buvette e alla camera: mai paghi, si insultavano con grande asprezza, mista però a divertimento e nostalgia. Nella Knesset sedeva allora anche Benyamin Halevy, eletto nelle file dell'Herut. Aveva fatto carriera come giudice, arrivando fino alla Corte suprema, poi si era dato alla politica. Nella nona legislatura, Halevy e il ministro della Giustizia Tamir rappresentarono lo stesso partito, il Movimento democratico per il cambiamento. In un'intervista alla radio delle forze armate Halevy espresse rincrescimento per avere detto che Kastner «aveva venduto l'anima al diavolo»: se avesse dovuto riscrivere la sentenza, avrebbe omesso quella frase. Era stato un inutile svolazzo retorico, male interpretato.
CAPITOLO XVII «NON E' AFFATTO CERTO CHE I NOSTRI FIGLI RESTERANNO VIVI» Alla crisi di governo, provocata dall'acquisto di armi dalla Germania, ne seguì un'altra un anno e mezzo dopo. Era il giugno del 1959 e mancavano quattro mesi alle elezioni politiche, quando il settimanale tedesco «Der Spiegel» rivelò che questa volta era Israele a vendere le armi alla Germania. La Bundeswehr prevedeva di acquistare 250.000 proietti da mortaio fabbricati da Soltam, una società di proprietà di una compagnia finlandese e di Solel Boneh della Histadrut, per un valore di 36 milioni di marchi tedeschi, vale a dire circa 9 milioni di dollari. In Israele le informazioni piuttosto circostanziate del settimanale tedesco ebbero l'effetto di una bomba. Ben Gurion era molto preoccupato: l'affare con la Germania, che considerava una «questione di vita o di morte», avrebbe dovuto restare assolutamente segreto. Era il classico inizio di un'altrettanto classica crisi: un giornale straniero usciva con rivelazioni su iniziative politiche o militari che il governo intendeva tenere segrete e quindi era costretto a dimettersi.* La stampa israeliana gridò allo scandalo. Persino il moderato «Haaretz», che di solito approvava le decisioni di Ben Gurion in materia di difesa, si schierò con i giornali vicini all'Herut. Il partito d'opposizione chiese un dibattito urgente alla Knesset e il Maki presentò una mozione di sfiducia. Ben Gurion riuscì tuttavia a pilotare la crisi, passando alla stampa tutta una serie di documenti e memorandum riservati. Quindi, nel momento di tensione più acuta, presentò le dimissioni e uscì vincitore. Un altro tabù era stato infranto. La vendita delle armi alla Germania aveva implicazioni emotive, etiche e politiche. Era una di quelle decisioni che costringono le nazioni a rimeditare la propria storia e a ridefinire la propria identità. Durante il dibattito saltò fuori che cinque anni prima la Knesset aveva approvato una risoluzione che imponeva precisi vincoli al governo ed esprimeva profondo timore per il riarmo delle due Germanie.
(Nota: Ben Gurion non aveva mai sentito nominare «Der Spiegel»: i suoi collaboratori gli spiegarono che era l'equivalente tedesco di «Haolam Hazeh».) In quell'occasione Moshe Sharett aveva dichiarato: «Il riarmo della Germania non può che suscitare grande preoccupazione e amarezza nel popolo ebraico, il quale ha la memoria lunga e non dimentica». Ben Gurion non aveva sottoposto ufficialmente la questione ai suoi ministri: aveva preso la decisione da solo, consultandosi esclusivamente con i suoi fedelissimi, in particolare con il ministro della Difesa, Shimon Peres. Egli aveva così evitato di dover giustificare la saggezza e l'eticità della decisione. Peccato, però, che il trattato non fosse valido senza l'approvazione del Consiglio. Messo con le spalle al muro, il riluttante premier sottopose la questione ai ministri in termini estremamente vaghi, accennando soltanto di sfuggita alla Germania, quasi si trattasse di un aspetto secondario. Al Consiglio chiese un'approvazione con valore retroattivo: nessuno dei ministri si oppose. Tre mesi prima, il 29 marzo 1959, mentre il governo discuteva di finanze, un Ben Gurion molto soddisfatto aveva detto con tono cospirativo: «Il ministro della Difesa porterà nelle nostre casse 7 milioni di dollari quest'anno. Abbiamo firmato un contratto con la Germania occidentale». Il ministro delle Finanze, Levi Eshkol, aveva osservato: «Lo so già, diventerò ricco». Era intervenuto allora il ministro della Sanità, Yisrael Barzilai, del Mapam: Barzilai: Ho una domanda da fare a questo proposito. Ben Gurion: Crede che sia proibito vendere armi alla Germania? In quale codice religioso sta scritto? Barzilai: Non sta scritto in nessun codice, ma non credo che dovremmo vendere armi alla Germania. Ben Gurion: Non sono d'accordo. Barzilai: Vorrei che se ne discutesse. Ben Gurion: Va bene, la settimana prossima. Il divieto vale solo per la Germania dell'Ovest o anche per quella dell'Est? Barzilai: Anche per quella dell'Est. Ben Gurion: Allora perché lei è andato nella Germania dell'Est? Io ho rifiutato di rispondere alle domande riguardanti un libro su Spinoza scritto da un professore tedesco, benché sia una delle persone più rette che conosca. Gli ho detto che, se fosse stato un professore svizzero, avrei collaborato molto volentieri. Barzilai:
A mio parere si può e si deve partecipare a tutte le conferenze internazionali nella Germania dell'Est e dell'Ovest. Ci vanno tutti. Lei si è recato in Germania Ovest prima di noi. Ben Gurion: A Ovest si può andare, a Est no. Sono degli assassini e dei ladri che non hanno restituito il maltolto. Almeno la Germania dell'Ovest è disposta a indennizzarci. Anche quelli dell'Est hanno ammazzato e arraffato. Le due Germanie non sono uguali. E qui era finito il dibattito sulla vendita di armi alla Germania. Passarono sei settimane. Nel frattempo il Consiglio si riunì sette volte, ma nessuno dei ministri dell'Ahdut Haavodah o del Mapam accennò alla questione, finché non uscì l'articolo di «Der Spiegel». Alla vigilia del dibattito alla Knesset, Ben Gurion si presentò al comitato centrale del Mapai con una borsa gonfia di carte, compresi i verbali delle sedute del Consiglio dei ministri, che avrebbero dovuto restare segreti per almeno cinquant'anni. I presenti ebbero così il privilegio di ascoltare un'affascinante lezione sul modo di procedere del governo. Ben Gurion la prese alla larga: affrontò la questione in termini strategici, per convincere i compagni di partito che Israele sarebbe stato in pericolo se non avesse venduto le armi alla Germania. Proclamò che la decisione era assolutamente necessaria, non soltanto perché il paese aveva bisogno di valuta estera, ma anche perché essa costituiva la premessa per persuadere la Germania a fornire a Israele le attrezzature militari di cui avrebbe avuto bisogno in futuro. A sentirlo, pareva che dalla buona volontà dei tedeschi dipendesse l'esistenza stessa dello Stato. Poi, dopo aver ribadito la sua opinione sulle relazioni con la Germania di Adenauer, Ben Gurion divenne sentimentale: Nessun paese ha aiutato Israele quanto l'America, che però rifiuta di venderci armi. Non sono molti i paesi che fabbricano armi: l'America non ce le vuole dare, la Russia e i suoi satelliti sono fuori discussione. Non ci resta che l'Europa occidentale. Un giorno o l'altro Israele potrebbe trovarsi in pericolo mortale se il suo esercito non avrà gli armamenti necessari.... Sono ebreo anch'io. Anch'io sento quello che sentono tutti gli ebrei. Anch'io sono sconvolto dall'Olocausto.... Ma se, a causa dell'Olocausto, qualcuno pensa che è vietato trattare con la Germania, io dico che quel qualcuno vive nel passato e non nel presente, che si preoccupa più dei suoi sentimenti che dell'esistenza
del popolo ebraico. E se qualcuno dice: «Non dimentichiamoci dei morti», io dico: «Facciamo di tutto per evitare che in questo paese i vivi non subiscano la stessa sorte». Sì, perché potrebbe succedere. Lo dico con cognizione di causa. Non sarà nei prossimi due o tre anni, ma non posso escludere che sia fra cinque.... La Germania non è diventata una grande potenza in Europa perché noi le abbiamo dato il nostro beneplacito. Noi non abbiamo concesso nessun beneplacito. ... Soltanto gli idioti o i ciarlatani della politica ... rifiutano di capire quale danno sarebbe per la posizione di Israele nel mondo, per il suo futuro e forse per la sua stessa esistenza, se noi facessimo di questa potenza, il cui peso politico ed economico è in costante crescita, una nostra nemica e un'alleata degli arabi.... Ci sono cose di importanza vitale che non possiamo realizzare senza la collaborazione della Germania. In questo io non vedo alcun divieto morale, affettivo o di altro genere, così come non ne vedo nel trattare con l'Inghilterra, che a suo tempo ha cacciato gli ebrei dai propri territori. Non c'è paese al mondo che non l'abbia fatto. Adenauer non è Hitler. Se fosse Hitler, si comporterebbe come lui. Via via che parlava. Ben Gurion appariva sempre più preoccupato e il tono delle sue parole sempre più personale. «Se non faremo per tempo determinate cose, non è affatto certo che i nostri figli e i figli dei nostri figli resteranno vivi.» Sulle sue spalle, disse, gravavano delle responsabilità il cui peso avrebbe schiacciato anche un uomo più forte, un fardello che egli non poteva reggere senza il pieno appoggio del comitato centrale. I membri del comitato centrale del Mapai si alzarono uno a uno per esprimergli il loro sostegno. Presero la parola in diciassette e tutti furono solidali con lui. Dopo ore e ore di seduta, la direzione del partito approvò le scelte del governo sull'esportazione di armi all'estero, compresa la Germania. Ora non restava che affrontare la Knesset. I dirigenti del Mapai si aspettavano un dibattito infuocato, com'era accaduto al tempo delle riparazioni. Nei sette anni e mezzo trascorsi da allora, la Knesset aveva dedicato alle relazioni con la Germania non meno di cinquanta sedute. A sollevare la questione era di solito un gruppetto di deputati capeggiati dal rabbino Mordecai Nurok, il quale seguiva con molta attenzione tutti gli sviluppi dell'accordo. Ogni tanto Nurok presentava anche una mozione di sfiducia, costringendo il
governo a difendersi. Intanto, però, la rete delle relazioni fra Israele e la Germania era diventata sempre più estesa e gli israeliani che beneficiavano della pensione e dei risarcimenti tedeschi erano diventati centinaia di migliaia. Poiché la stampa faceva ormai poco caso alla piccola lobby antitedesca, che sembrava ripetere stancamente lo stesso ritornello, Nurok e il suo gruppo avevano cominciato a tenere d'occhio gli aspetti più visibilmente simbolici della collaborazione fra le due nazioni, come per esempio gli eventi culturali e le visite di importanti personaggi tedeschi in Israele. Ma i giornali non sapevano che farsene di tali quisquilie, volevano notizie sensazionali e la rivelazione che Israele vendeva armi alla Germania era una notizia sensazionale. La crisi che scoppiò fu tuttavia principalmente di tipo politico-elettorale. (Nota: Uno di questi visitatori fu il direttore generale della Deutsche Bank, Hermann Abs. Secondo il ministro delle Finanze, Levi Eshkol, i coniugi Abs erano venuti a visitare i luoghi santi. In realtà, durante il soggiorno in Israele il banchiere condusse varie trattative economiche per conto di Bonn e incontrò anche Ben Gurion. Levi Eshkol dichiarò che, «a quanto si sa», Abs non era stato nazista. In realtà, tutti sapevano che era stato uno dei protagonisti dell'economia tedesca del Terzo Reich.) le parole d'ordine erano le stesse del passato, ma erano ormai logore e non facevano più presa sugli israeliani. «Questo impuro commercio di armi con coloro che seguono le orme di Hitler getta un'ombra oscura e meschina sul nostro paese» proclamò Shmuel Mikunis del Maki. «Armi di Israele ai generali di Hitler! Soltanto Ben Gurion e i suoi lacchè possono prestarsi a fare gli avvocati del diavolo.» Di profanazione parlò anche Menahem Begin: «Coloro che si sono lavati le mani con il sapone fabbricato con la carne e le ossa degli ebrei, useranno anche le armi fabbricate dagli ebrei? ... Le nostre armi sono sacre ... abbiamo il diritto di profanarle? Affideremo queste sacre armi ebraiche alle mani di un soldato tedesco, magari lo stesso che condusse fin sulla riva di un fiume un pugno di ebrei, fra cui un vecchio padre che cantava l'Hatìkwah, e mentre recitavano la confessione e le preghiere li gettò nell'acqua,
che si tinse di rosso? Metteremo queste sacre armi ebree nelle mani di questo soldato tedesco?». Naturalmente fu tirato in ballo anche l'orgoglio nazionale: «Armare i soldati tedeschi con ordigni costruiti in Israele è una cosa che ripugna all'onore nazionale e al sentimento ebraico» dichiarò Yigal Allon dell'Ahdut Haavodah. «L'orgoglio nazionale non ha forse più alcun valore? ... I nostri giovani non hanno verso le armi un atteggiamento militaristico. Essi hanno un rispetto sacro per i mezzi di difesa. Da tutto questo non trarranno la conclusione che noi abbiamo perdonato i nazisti? ... I tedeschi hanno comperato queste armi non perché sono buone, ma perché sono ebree. I tedeschi hanno un disperato bisogno di riabilitarsi.» Ben Gurion rispose con un discorso che era una provocazione da cima a fondo, un discorso ben diverso da quello pacato che aveva pronunciato al tempo del dibattito sulle riparazioni di guerra. Fu sarcastico con Begin, gettandogli in faccia brani del suo intervento di allora. Gli ricordò che si era detto pronto a farsi rinchiudere in «campo di concentramento» se fosse stato necessario per impedire l'accordo con la Germania. «Ecco qua un eroe e un martire che ha più cara l'ideologia della vita stessa» disse Ben Gurion. «Poi, però, se passa un anno, e ci sono stati i negoziati con la Germania, e ci imbattiamo in quel commovente oratore, in quel santo martire, e scopriamo che non ha rinunciato alla vita, che non ha lasciato la famiglia, che non ha detto addio agli amici; e se passano sette anni e ancora ripete lo stesso ritornello, questa volta senza urlare, ma con una vocina piccola piccola, soffocata dalle lacrime, allora non ci commuoviamo più, ma proviamo un moto di disgusto e di ripugnanza per questa retorica falsa e melodrammatica, priva della minima traccia di sincerità.» Poi Ben Gurion indirizzò le sue bordate a tutti gli oppositori (i verbali segnalano «risate» dei parlamentari): «Si può essere favorevoli o contrari alle riparazioni tedesche. Si può essere favorevoli o contrari al commercio di armi con la Germania. Ma che in quest'aula nessuno si arroghi il diritto di parlare a nome dei sei milioni di martiri. Non è lecito a nessun partito impadronirsi di quell'Olocausto, il più spaventoso di tutta la nostra storia, per rifarsi la faccia». Eppure, qualche minuto più tardi, ecco lo stesso Ben Gurion fare appello alle vittime dell'Olocausto: «Se i sei milioni di massacrati potessero vedere, dalle viscere della terra o dall'alto
dei cieli, quello che Israele sta facendo, sono certo che applaudirebbero e si rallegrerebbero e troverebbero conforto al loro grande dolore nel vedere la rinascita di Israele, dell'esercito israeliano e della nostra industria militare, il cui valore è riconosciuto persino dai tedeschi». Infine si passò alle votazioni. I sionisti generali erano ancora incerti. Si riunirono e decisero di appoggiare Ben Gurion: fu la sua salvezza, perché sia il Mapam, sia l'Ahdut Haavodah votarono contro il governo. I due partiti di sinistra erano in gravi difficoltà: i loro ministri sapevano della vendita di armi alla Germania ma avevano taciuto finché la notizia non era trapelata. Forse non c'erano o, se c'erano, dormivano. Ma il peggio doveva ancora venire. Qualche tempo dopo si scoprì che nella direzione della Koor, la società che riuniva tutte le aziende di Solel Boneh, compresa la Soltam, c'erano i rappresentanti del Mapam e dell'Ahdut Haavodah. Ed essi non solo avevano partecipato attivamente ai negoziati con i tedeschi, ma il rappresentante dell'Ahdut Haavodah si era persino recato in Germania per vendere i proiettili da mortaio della Soltam. Dal momento che i due partiti avevano votato contro il governo, i loro ministri avrebbero dovuto dimettersi, non soltanto per coerenza ma anche perché così prevedevano gli accordi presi con il Mapai. I quattro ministri, tuttavia, non ne vollero sapere di lasciare il loro posto e non ci fu verso di convincerli. Allora si dimise Ben Gurion, facendo cadere il governo. Poi, però, non essendo riuscito a fare un rimpasto, continuò a governare fino alle elezioni con i vecchi ministri, inclusi i quattro del Mapam e dell'Ahdut Haavodah. La vendita di armi alla Germania fu uno degli argomenti principali della campagna elettorale. Il Mapam rispolverò il leggendario Rozka Korczak, che aveva capeggiato l'insurrezione del ghetto di Vilnius. Se poi la sua ricomparsa abbia avuto qualche influenza sul voto è difficile dirlo. Ben Gurion, che aveva ormai settantatré anni, si presentò con lo slogan «Dite sì al vecchio». Il Mapai conquistò quarantasette seggi, sette in più della precedente tornata e uno in più del suo migliore risultato. Evidentemente, la vicenda della vendita di armi alla Germania non gli aveva procurato alcun danno.* Nel frattempo, un altro scandalo stava per abbattersi su Ben Gurion.
(Nota: In seguito Israele vendette alla Germania anche i mitragliatori Uzi e le divise militari, prodotte dall'impianto tessile Ata.) Il giorno di Natale del 1959, sui muri della sinagoga di Colonia, sulle rive del Reno, comparvero svastiche e scritte antisemite. Lo stesso accadde in diverse città tedesche, per un totale di quattrocento episodi. Dalla Germania il fenomeno si estese ad altri paesi. L'improvvisa ondata di antisemitismo rafforzò la posizione di quanti avversavano gli scambi fra Israele e la Germania. Era la dimostrazione, dissero, che Ben Gurion aveva torto: la Germania non era cambiata. Le pagine dei giornali israeliani si riempirono di servizi e commenti sulle attività neonaziste nella Germania dell'Ovest e altrove; diverse organizzazioni e istituzioni condannarono le manifestazioni antisemite e invitarono gli israeliani a protestare. Il partito comunista presentò una mozione di sfiducia al governo e una proposta per annullare il contratto con la Germania. Nonostante la condanna quasi unanime che gli episodi ricevettero nella Repubblica federale tedesca, espressa fra l'altro dal presidente Heinrich Lùbke e dal cancelliere Konrad Adenauer, non fu facile per Ben Gurion difendere le sue scelte politiche. Dichiarò orgogliosamente che non avrebbe ritirato una sola parola di quanto aveva detto in passato, anche perché, spiegò, le scritte antisemite non riguardavano soltanto la Germania ma più di venticinque paesi. Poi annunciò di avere dato istruzioni a «uno dei nostri servizi che ha i mezzi per farlo» di risalire alle fonti del fenomeno. Quel «servizio» era il Mossad. Parecchi anni dopo Isser Harel rivelò che gli agenti israeliani avevano condotto alcune operazioni contro i gruppi neonazisti organizzati e avevano persino addestrato gli ebrei all'autodifesa e al contrattacco in varie nazioni. Ben Gurion ordinò ai suoi collaboratori, che avevano già avviato i preparativi segreti per il suo primo incontro con Adenauer, di proseguire. I due statisti si trovarono faccia a faccia il 14 maggio 1960 a New York, il più grande centro ebraico del mondo, in occasione della prima visita ufficiale del cancelliere tedesco negli Stati Uniti. La città non era stata scelta a caso: i due statisti si proponevano di creare un clima più favorevole alla Germania
all'interno della comunità ebraica, del mondo imprenditoriale e dei media americani. Ben Gurion e Adenauer scesero entrambi all'Astoria e il premier israeliano riservò al cancelliere tedesco l'onore di recarsi nella sua suite, che era due piani più in basso. Per sfuggire ai fotografi appostati davanti agli ascensori, Ben Gurion si servì delle scale. «E' più anziano di me» si giustificò il premier israeliano, quando fu accusato di eccessiva cortesia verso un tedesco. L'incontro era stato preparato con ogni cura nelle due capitali. Ben Gurion era venuto a chiedere soldi e armi. Durante i colloqui preliminari dei suoi collaboratori con il banchiere Hermann Abs e altri emissari tedeschi, si era convenuto che Ben Gurion avrebbe chiesto un prestito di 250 milioni di dollari per lo sviluppo del Negev, nel sud del paese. La Germania avrebbe concesso i finanziamenti in dieci rate annuali. Avrebbe anche sottoposto alla firma di Adenauer l'accordo raggiunto in precedenza da Shimon Peres e Franz Josef Strauss, in base al quale la Germania avrebbe «prestato» a Israele, meglio sarebbe dire «donato», attrezzature militari provenienti dal surplus NATO. I collaboratori dei due leader avevano inoltre concordato che in quell'occasione non si sarebbe parlato di stabilire rapporti diplomatici fra Bonn e Gerusalemme. I tedeschi, che temevano le ripercussioni sulle loro relazioni con i paesi arabi, non erano per il momento interessati allo scambio di ambasciatori. Ben Gurion e Adenauer conversarono per quasi due ore. Il cancelliere parlò in tedesco, che Ben Gurion capiva. Ben Gurion parlò in inglese e le sue parole furono tradotte in tedesco. Discussero del nuovo Israele e della nuova Germania, dei nazisti e dello sterminio degli ebrei. Il premier spiegò al cancelliere che il massacro degli ebrei europei aveva rischiato di mettere a repentaglio la creazione dello Stato ebraico e che le conseguenze si facevano ancora sentire su Israele. Adenauer gli chiese quale fosse il tasso di natalità: gli immigrati dei paesi arabi hanno in media otto figli per famiglia, fu la risposta di Ben Gurion, e quelli provenienti dall'Europa ne hanno soltanto due. Troppo poco, commentò Adenauer. Poi Ben Gurion chiese al cancelliere il prestito per il Negev. Quella mattina, mentre il premier si stava già preparando per l'incontro, il suo braccio destro, Yitzhak Navon, che sarebbe stato il quinto presidente di Israele, gli aveva suggerito di chiedere
un miliardo di dollari: 250 milioni di dollari in dieci anni erano una sciocchezza per i tedeschi, aveva osservato. Ben Gurion gli ricordò gli accordi presi negli incontri preliminari: non si poteva chiedere una simile somma. Ebbene, replicò Navon, chiediamo 750 milioni. Ben Gurion si disse contrario anche a questo. Ma qualche istante dopo, mentre era già sulla soglia, si girò verso l'assistente e disse che avrebbe chiesto mezzo milione di dollari, cioè il doppio del convenuto. E così fece. «La giustificazione economica» scrisse poi Ben Gurion «fu che il Negev doveva diventare un grande centro di esportazione di prodotti industriali nei paesi asiatici e in Africa orientale attraverso il porto di Eilat e il Mar Rosso.» A Adenauer fornì anche una giustificazione morale: «Non so se la gioventù tedesca di oggi sappia ciò che hanno fatto i nazisti, ma non ho dubbi che un giorno conosceranno la terribile verità e ogni giovane tedesco proverà dolore e vergogna per quegli spaventosi crimini. Con il suo aiuto, signor Cancelliere, io desidero realizzare progetti produttivi in Israele tali che, quando la gioventù tedesca li vedrà o ne sentirà parlare, proverà un senso di gratitudine verso la Germania di Adenauer per avere, nei limiti del possibile, riparato al male commesso dalla Germania di Hitler». Adenauer promise il prestito e avallò anche l'accordo raggiunto da Peres e Strauss. Alla fine dei colloqui furono fatti entrare giornalisti e fotografi, davanti ai quali i due statisti esibirono la loro amicizia e, per un istante, anche il buonumore. Di una delle fotografie scattate in quell'occasione si impadronì poi l'Herut per uno dei suoi manifesti: mostrava Ben Gurion con la mano posata cordialmente sul braccio di Adenauer. Il cancelliere tedesco dichiarò ai giornalisti che il prestito appena concesso a Israele avrebbe dato i suoi frutti in futuro; Ben Gurion ribadì che la Germania di oggi non era la Germania di ieri. L'atmosfera era quella delle occasioni storiche. Al ritorno in Israele, Ben Gurion fu accolto da una bordata di accuse e critiche da parte di commentatori furibondi, vi prese parte persino Natan Alterman, e, come se non bastasse, da una mozione di sfiducia. La sua politica filotedesca, urlavano come sempre tutti a squarciagola, era un insulto intollerabile alle vittime dell'Olocausto. Ma Ben Gurion aveva già un asso nella manica: Isser Harel stava per consegnargli Adolf Eichmann.
(Nota: A differenza di Nahum Goldmann, che si sforzava sempre di strappare impegni scritti a Adenauer, Ben Gurion si accontentò delle sue promesse. Nei mesi successivi, però, fu necessaria una fitta corrispondenza per stabilire con esattezza che cosa avessero convenuto i due leader. Ben Gurion e Adenauer si scambiarono ben diciannove lettere. Il risultato fu, tuttavia, soddisfacente. I tedeschi onorarono quasi tutte le promesse fatte da Adenauer.)
PARTE SESTA IL PROCESSO: EICHMANN A GERUSALEMME CAPITOLO XVIII «CHE CI ODINO PURE E CHE VADANO AL DIAVOLO» La sera dell'11 maggio 1960 un uomo, che i vicini conoscevano con il nome di Ricardo Clement, stava rientrando a casa in via Garibaldi a Buenos Aires. All'angolo della strada sostavano due automobili, che gli puntarono i fari in faccia. Da una saltarono giù due uomini, che lo immobilizzarono e lo spinsero dentro l'altra. Poi lo imbavagliarono, gli legarono mani e piedi, gli infilarono un paio di occhiali scuri, lo distesero sul fondo e lo avvolsero in una coperta. Non lo narcotizzarono, perché il medico che era con loro riteneva fosse troppo pericoloso. L'automobile filò per una quarantina di minuti fino a un nascondiglio che era stato affittato da uno dei rapitori. Quando gli chiesero le generalità, il prigioniero cominciò a dire che era Ricardo Clement, ma ben presto si arrese. «Mi chiamo Adolf Eichmann» confessò. Aveva capito subito che i suoi rapitori erano agenti del Mossad. «Conosco l'ebraico» disse, e lasciò tutti a bocca aperta mettendosi a recitare i primi versetti della Bibbia: «Bereshit bara Elohim et hashmaim veet haaretz...». Parlarono per un po', poi Eichmann firmò una dichiarazione con cui accettava di farsi processare in Israele. Gli agenti del Mossad gli misero la divisa da steward e lo caricarono su un aereo speciale della El Al in attesa all'aeroporto internazionale. Era il velivolo con cui era giunta a Buenos Aires la delegazione israeliana di Abba Eban per le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario della fondazione dell'Argentina. Eban tornò con un altro aereo. Adolf Eichmann aveva cinquantaquattro anni. Nato a Solingen, in Renania, era cresciuto a Linz, in Austria. Si era iscritto al partito nazista nel 1932, pochi mesi prima dell'ascesa di Hitler al potere, e si era quasi subito
arruolato nelle SS. Dopo la proclamazione del Terzo Reich si era trasferito in Germania, dove aveva lavorato prima per i servizi segreti e poi all'Ufficio centrale della sicurezza, che controllava, fra l'altro, le forze di polizia e la Gestapo. Eichmann si occupava delle questioni relative agli ebrei, compresa l'emigrazione. Con il moltiplicarsi delle leggi razziali, il suo ruolo crebbe di importanza ed egli fu promosso capo del dipartimento. Per le sue attività aveva frequenti contatti con i leader delle comunità ebraiche e con i funzionari sionisti di Berlino, Vienna e Praga. Leggeva libri sulla storia del sionismo, seguiva la stampa ebraica e imparò anche un poco di yiddish e di ebraico. Durante la guerra Eichmann era stato implicato nella deportazione, nell'espulsione e nello sterminio degli ebrei. Nel gennaio del 1942 aveva partecipato a una riunione interministeriale tenutasi a Wannsee, un sobborgo di Berlino, in cui si era deciso come organizzare il piano di sterminio. Eichmann non era un politico, era un esecutore. Sul finire della guerra aveva il grado di Obersturmbannfiihrer, equivalente a quello di tenente colonnello. Aveva svolto un ruolo determinante nell'organizzare il trasporto degli ebrei verso i campi della morte, in alcuni dei quali si era anche recato in visita. Non era l'ufficiale di più alto grado fra quelli responsabili del piano, ma era il nazista di rango più elevato ad avere contatti diretti con i leader ebraici, che lo ritenevano onnipotente. Il suo nome era saltato fuori più volte durante i processi di Norimberga. Alla fine della guerra Eichmann era stato internato in un campo di prigionia americano, ma era riuscito a evadere prima che la sua identità venisse scoperta e, grazie all'aiuto di alcune ex SS, aveva trovato rifugio in Argentina con la famiglia. Due superstiti dell'Olocausto, Simon Wiesenthal di Vienna e Tuvia Friedman di Haifa, raccoglievano da anni indizi sul nascondiglio di Eichmann e ogni tanto il suo nome compariva sui giornali. Un giorno di settembre del 1957 Fritz Bauer chiese un appuntamento a Eliezer Shinar, il rappresentante di Israele a Bonn. Bauer, un ebreo tedesco, arrestato più volte dai nazisti e sempre evaso, era in quel momento procuratore generale dell'Assia, nella Germania Ovest. Aveva appena saputo, disse a Shinar, che Eichmann viveva a Buenos Aires. Era andato da lui perché temeva che, se avesse informato le autorità tedesche, qualcuno avrebbe cercato di ostacolare
l'estradizione di Eichmann o forse l'avrebbe addirittura avvertito. Soltanto una persona era al corrente dei contatti di Bauer con Israele, Georg August Zinn, il primo ministro dell'Assia, il quale, come Bauer, era iscritto al partito socialdemocratico. Il capo del Mossad, Isser Harel, inviò subito un suo uomo dal procuratore tedesco, il quale gli fornì il nome dell'informatore in Argentina. L'agente partì immediatamente per il Sudamerica, ma non riuscì a rintracciare Eichmann. Il Mossad rinunciò quindi a dargli la caccia.* (Nota: Harel è quasi l'unica fonte di informazione sul Mossad, argomento sul quale ha scritto a lungo. I suoi libri, tuttavia, vanno presi con cautela. Egli sostiene che non appena assunse la guida dei servizi segreti israeliani, all'inizio degli anni Cinquanta, stilò una lista di ricercati, in cima alla quale figuravano Adolf Eichmann e Josef Mengele. In realtà il Mossad non si impegnò a fondo nella ricerca dei criminali nazisti: il conflitto arabo-israeliano e l'organizzazione dell'immigrazione di massa erano compiti molto più urgenti. Harel si dedicava anima e corpo a braccare le spie, i terroristi, nonché gli oppositori del regime Ben Gurion-Mapai. Dal suo libro si desume che a fornire le indicazioni per la cattura di Eichmann fu Fritz Bauer: evidentemente il Mossad non si era dato molto da fare. In uno dei libri autobiografici di Harel c'è un capitolo intitolato: «Perché non abbiamo preso Mengele?». Ma a questa domanda non viene data una vera risposta.) Non è chiaro se Josef Mengele, l'autore degli atroci «esperimenti medici» di Auschwitz, sia riuscito a far perdere le proprie tracce nonostante gli sforzi del Mossad, o se invece quegli sforzi non siano stati poi così intensi. In un altro libro Harel critica i servizi segreti militari per essersi lasciati sfuggire il comandante della Gestapo, Heinrich Miiller. Evidentemente, per Israele la caccia ai criminali nazisti non era un'esigenza prioritaria, così come la vendetta non lo era stata per i leader dello yishuv. Bauer ricontattò il Mossad due anni dopo. Questa volta non poteva rivelare la fonte dell'informazione, disse, però era in grado di fornire il nome che Eichmann aveva assunto e il suo indirizzo. Harel si consultò con il procuratore generale Haim Cohen e i due si recarono insieme da
Ben Gurion. Al primo ministro comunicarono che, se Israele non fosse intervenuto, Bauer avrebbe passato l'informazione al governo tedesco per l'estradizione di Eichmann in Germania. «Ho suggerito di chiedergli di non rivelare niente a nessuno e di non chiedere l'estradizione, ma di fornire a noi l'indirizzo» scrive Ben Gurion nel diario. «Se è davvero là, lo prenderemo e lo porteremo qui. Ci penserà Isser.» Il nome fornito da Bauer era esatto, ma quando arrivarono gli agenti del Mossad, Ricardo Clement e la sua famiglia avevano già traslocato. Un vicino li mandò al nuovo indirizzo, in via Garibaldi. Era una missione complessa e pericolosa. Harel la seguì personalmente e tenne Ben Gurion costantemente informato degli sviluppi. Mentre Eichmann era ancora in mano ai suoi rapitori a Buenos Aires, il primo ministro annotò nel diario: «Se non c'è un errore di identificazione, si tratta di un'operazione importante e ben riuscita». Anche quando ebbe da Harel la conferma che Eichmann era già in Israele, Ben Gurion si mosse con grande cautela e pretese che l'identità del prigioniero venisse confermata da qualcuno che l'aveva conosciuto. Harel scovò Moshe Agami, un ex rappresentante dell'Agenzia ebraica a Vienna, che aveva incontrato Eichmann nel 1938 e lo riconobbe. «Missione compiuta» telegrafò finalmente Harel a Fritz Bauer. Era il 23 maggio 1960. Due ore dopo Ben Gurion diede il sensazionale annuncio alla Knesset con queste brevi parole: «E' mio dovere informarvi che poco fa i servizi di sicurezza hanno arrestato Adolf Eichmann, il più infame dei criminali nazisti, che fu responsabile, insieme agli altri dirigenti nazisti, di quella che chiamarono "la soluzione finale del problema ebraico", ossia lo sterminio di sei milioni di ebrei europei. Adolf Eichmann è detenuto in questo paese e sarà presto processato in Israele in base alla legge del 1950 sui nazisti e i loro collaboratori». Israele ascoltò attonito. «La sera in cui si seppe della cattura di Eichmann,» ha scritto Natan Alterman «un'ebrea, camminando per Tel Aviv, osservò sorpresa grappoli di persone che leggevano i giornali freschi d'inchiostro. Sembrava che la vita si fosse fermata, tutti leggevano e si strappavano di mano i fogli, come quando scoppia la guerra. La donna si avvicinò a un gruppo di persone e intravide un titolo a caratteri cubitali: Adolf Eichmann è stato catturato ed è in Israele. Lo vide. Restò immobile per un istante,
barcollò e cadde svenuta.» Ma non era il momento di restare a terra. Era il momento di andare a testa alta: «Alzati, donna ebrea» intima Alterman. «Raramente ci è capitato di provare uno shock e un'emozione così vivi» scrisse un giornale. In tutto quello che fu scritto e detto in quei giorni c'era una parola ricorrente, una parola di poche lettere: «noi». Mai, dai tempi della Dichiarazione di indipendenza, gli israeliani avevano provato una sensazione di unità tanto forte. A entusiasmare fu anzitutto l'operazione del Mossad. L'espressione «i servizi di sicurezza israeliani» aveva un suono misterioso che accendeva la fantasia ed evocava azioni audaci e complesse. Nelle settimane precedenti, Bauer e Harel avevano sparso la voce che Eichmann si era rifugiato in Kuwait come altri criminali nazisti, dei quali si diceva che si nascondessero nei paesi arabi, dove tramavano per annientare Israele. Il giorno dopo l'annuncio alla Knesset, Ben Gurion scrisse in una lettera: «I discepoli dei nazisti in Egitto e in Siria vogliono distruggere Israele: è questo il pericolo più grande che ci minaccia». Molti vissero la cattura di Eichmann come una tappa vittoriosa nell'eterna lotta di Israele per la sopravvivenza. «Processare Eichmann davanti a un tribunale ebraico in Israele colmerà il vuoto disumano e il caos che hanno contrassegnato l'esistenza degli ebrei dal giorno dell'Esilio a oggi» scrisse Natan Alterman. Ma dietro l'orgoglio momentaneo si agitavano, più profondi del bisogno di giustizia e del desiderio di vendetta, ricordi spaventosi, vergogna e sensi di colpa. Per molti superstiti, giovani e vecchi, imprigionati fra le mura del silenzio, la memoria era un tormento. Sapevano che il processo a Adolf Eichmann li avrebbe costretti a fare i conti con quei ricordi e a raccontare per la prima volta: genitori ai figli, figli ai genitori. (Nota: Per qualche giorno Israele non rivelò che Eichmann era stato prelevato in Argentina. Fu la rivista «Time» a dare la notizia.) La grande emozione che suscitò fra gli israeliani l'annuncio improvviso dell'arresto di Eichmann era lo specchio dell'ansia quasi intollerabile al pensiero di ciò che li attendeva. Nell'anno che passò fra l'arresto di Eichmann e il processo. Ben Gurion ribadì più volte, nelle lettere e nelle interviste, che non era l'uomo Adolf Eichmann a
interessarlo, ma l'importanza storica dell'evento. «L'essenziale non è la punizione, ma che ci sia un processo e lo si celebri a Gerusalemme» scrisse, perché alla sbarra non ci sarebbe stato soltanto il criminale nazista, ma il genocidio. Ben Gurion perseguiva due obiettivi: primo, ricordare a tutte le nazioni del mondo che, dopo l'Olocausto, esse avevano l'obbligo di sostenere l'unico Stato ebraico esistente sulla Terra; secondo, imprimere nella coscienza degli israeliani, in particolare nelle nuove generazioni, gli insegnamenti dell'Olocausto. In un'intervista rilasciata al «New York Times», di cui aveva voluto rileggere il testo prima della pubblicazione, Ben Gurion spiegò che dal processo il mondo avrebbe dovuto imparare dove conduceva l'odio per gli ebrei, e vergognarsi. Chiamò «fabbrica del sapone» la macchina dello sterminio nazista. Aggiunse che la Germania non era l'unico colpevole. Anche la Gran Bretagna aveva le sue responsabilità: rifiutandosi di lasciare emigrare in Palestina gli ebrei, aveva indirettamente contribuito alla morte di centinaia di migliaia di loro. Ben Gurion sperava che il processo contribuisse a smascherare anche altri criminali nazisti e i loro legami con i governi arabi. Definì la politica antisionista dell'Egitto una forma di antisemitismo ispirata dai nazisti: «Quando dicono "sionisti", intendono in genere "ebrei"». La conclusione era ovvia. I nemici dello Stato di Israele erano i nemici del popolo ebraico: appoggiare Israele significava combattere l'antisemitismo. Ben Gurion era al sommo del potere. Non aveva bisogno del processo Eichmann per rafforzare la sua posizione. Tuttavia, da uomo abituato a pensare in termini storici e filosofici, si rendeva conto che la rivoluzione israeliana aveva lasciato irrisolti numerosi problemi fondamentali. Il futuro dello Stato era ancora incerto. La maggior parte degli ebrei non era venuta a vivere in Israele, Israele non era diventato il cuore del popolo ebraico. La ritirata dal Sinai, effettuata quattro anni prima sotto la pressione congiunta degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, era ancora considerata una vergognosa capitolazione, una dimostrazione dei limiti cui erano soggette la sovranità e la sicurezza di Israele. I più giovani, dichiarò Ben Gurion al «New York Times», dovevano imparare che gli ebrei non erano agnelli che si lasciavano trascinare inermi al macello, bensì una nazione capace di
difendersi, come aveva fatto nella guerra di indipendenza. All'inizio degli anni Sessanta lo spirito pionieristico aveva perso quasi tutto il suo fascino: soltanto pochissimi si erano stabiliti nel Negev. Le nuove generazioni sembravano gravitare fra Tel Aviv e New York. Il processo Eichmann avrebbe dovuto, nelle intenzioni del premier, riaccendere nei giovani l'orgoglio nazionale e la consapevolezza che un solo paese al mondo poteva garantire agli ebrei la sicurezza: lo Stato di Israele. Nell'estate del 1959 erano scoppiati alcuni incidenti a Wadi Salib, un quartiere povero di Haifa, abitato in prevalenza da immigrati provenienti dal Marocco. La rivolta si era poi estesa ad altre località. Per la prima volta, da quando era cominciata la massiccia immigrazione in Israele di ebrei giunti dai paesi arabi, veniva contestata l'egemonia della classe dirigente ashkenazita che si riconosceva nel Mapai. L'Olocausto non apparteneva alla storia degli immigrati sefarditi: «Vivevano in Asia o in Africa e non avevano la più pallida idea di quello che aveva fatto Hitler. Bisogna spiegare tutto da capo» osservò Ben Gurion. Occorreva dunque un evento che cementasse la società israeliana, un'esperienza collettiva sconvolgente, purificatrice, patriottica: una catarsi nazionale, insomma. Il processo Eichmann avrebbe inoltre restituito al Mapai il controllo sul retaggio dell'Olocausto, di cui si erano impadroniti l'Herut e la sinistra. Con il processo, Ben Gurion sperava di lavare la macchia di cui la leadership del Mapai non era più riuscita a liberarsi dal tempo del caso Kastner. Esso doveva dimostrare che, nonostante i legami con la Germania, nonostante l'accordo sulle riparazioni e il commercio di armi, il suo governo non era insensibile all'Olocausto. Di conseguenza. Ben Gurion non gradì affatto l'iniziativa di Nahum Goldmann: il presidente della World Zionist Organization chiese, facendo eco a diversi giornali stranieri, che Eichmann fosse giudicato da un tribunale speciale internazionale, e non da Israele. E non gradì che al coro si unisse il filosofo Martin Buber, il quale disse: «Non ritengo che la vittima debba essere anche il giudice». Quella richiesta era per lui una sfida alla sovranità di Israele e strigliò a dovere Goldmann in una lettera aperta: «La pubblicazione della tua proposta su un giornale che si rivolge all'opinione pubblica mondiale è, che tu lo voglia o meno, una grave ferita alla sensibilità del popolo israeliano (e non credo
solo israeliano) e all'onore del paese». La risposta di Goldmann fu immediata: Nell'intervista [a «Haboker»] ho detto di non avere dubbi sul diritto di Israele a giudicare Eichmann e ho espresso la mia fiducia nella giustizia israeliana. Pensavo semplicemente, e continuo a pensarlo, che, avendo Eichmann e i nazisti sterminato non solo gli ebrei, varrebbe la pena di invitare i paesi che hanno avuto molte vittime a farsi rappresentare dai propri giudici. Ho sottolineato che il presidente del tribunale dev'essere israeliano e che il processo dev'essere celebrato in Israele. Che cosa c'è di male in tutto questo per la nazione e lo Stato? A me pare sia un grande onore per il paese se altri invieranno i loro magistrati in un tribunale presieduto da un giudice israeliano. Divampò la consueta polemica storiografica e politica. «Il genocidio del popolo ebraico perpetrato dai nazisti non è paragonabile alle atrocità che essi hanno commesso nel resto del mondo,» scrisse Ben Gurion a Goldmann «è un episodio che non ha eguali, è il tentativo di annientare il popolo ebraico, cosa che Hitler e i suoi scagnozzi non hanno osato fare contro nessun'altra nazione. E' un dovere imprescindibile dello Stato di Israele, l'unica entità sovrana del popolo ebraico, raccontare questa tragedia in tutta la sua enormità e in tutto il suo orrore, senza ignorare gli altri crimini contro l'umanità commessi dal regime nazista, e tuttavia non come uno dei tanti crimini, quanto piuttosto come l'unico senza eguali nella storia dell'umanità.» L'Olocausto era stato possibile perché gli ebrei non avevano una patria: «Alla radice dell'antisemitismo c'è l'esistenza della Diaspora» affermò Ben Gurion in un'altra lettera. «Quando gli ebrei si mostrano diversi dai loro vicini, suscitano paura o derisione; quando si sforzano di essere come loro e diventano più realisti del re, vengono respinti.» Bauer ricontattò il Mossad due anni dopo. Questa volta non poteva rivelare la fonte dell'informazione, disse, però era in grado di fornire il nome che Eichmann aveva assunto e il suo indirizzo. Harel si consultò con il procuratore generale Haim Cohen e i due si recarono insieme da Ben Gurion. Al primo ministro comunicarono che, se Israele non fosse intervenuto, Bauer avrebbe passato l'informazione al governo tedesco per l'estradizione di Eichmann in Germania. «Ho suggerito di chiedergli di non rivelare niente a nessuno e di non chiedere
l'estradizione, ma di fornire a noi l'indirizzo» scrive Ben Gurion nel diario. «Se è davvero là, lo prenderemo e lo porteremo qui. Ci penserà Isser.» Il nome fornito da Bauer era esatto, ma quando arrivarono gli agenti del Mossad, Ricardo Clement e la sua famiglia avevano già traslocato. Un vicino li mandò al nuovo indirizzo, in via Garibaldi. Era una missione complessa e pericolosa. Harel la seguì personalmente e tenne Ben Gurion costantemente informato degli sviluppi. Mentre Eichmann era ancora in mano ai suoi rapitori a Buenos Aires, il primo ministro annotò nel diario: «Se non c'è un errore di identificazione, si tratta di un'operazione importante e ben riuscita». Anche quando ebbe da Harel la conferma che Eichmann era già in Israele, Ben Gurion si mosse con grande cautela e pretese che l'identità del prigioniero venisse confermata da qualcuno che l'aveva conosciuto. Harel scovò Moshe Agami, un ex rappresentante dell'Agenzia ebraica a Vienna, che aveva incontrato Eichmann nel 1938 e lo riconobbe. «Missione compiuta» telegrafò finalmente Harel a Fritz Bauer. Era il 23 maggio 1960. Due ore dopo Ben Gurion diede il sensazionale annuncio alla Knesset con queste brevi parole: «E' mio dovere informarvi che poco fa i servizi di sicurezza hanno arrestato Adolf Eichmann, il più infame dei criminali nazisti, che fu responsabile, insieme agli altri dirigenti nazisti, di quella che chiamarono "la soluzione finale del problema ebraico", ossia lo sterminio di sei milioni di ebrei europei. Adolf Eichmann è detenuto in questo paese e sarà presto processato in Israele in base alla legge del 1950 sui nazisti e i loro collaboratori». Israele ascoltò attonito. «La sera in cui si seppe della cattura di Eichmann,» ha scritto Natan Alterman «un'ebrea, camminando per Tel Aviv, osservò sorpresa grappoli di persone che leggevano i giornali freschi d'inchiostro. Sembrava che la vita si fosse fermata, tutti leggevano e si strappavano di mano i fogli, come quando scoppia la guerra. La donna si avvicinò a un gruppo di persone e intravide un titolo a caratteri cubitali: Adolf Eichmann è stato catturato ed è in Israele. Lo vide. Restò immobile per un istante, barcollò e cadde svenuta.» Ma non era il momento di restare a terra. Era il momento di andare a testa alta: «Alzati, donna ebrea» intima Alterman. «Raramente ci è capitato di provare uno shock e un'emozione così vivi» scrisse un giornale. In tutto quello che fu
scritto e detto in quei giorni c'era una parola ricorrente, una parola di poche lettere: «noi». Mai, dai tempi della Dichiarazione di indipendenza, gli israeliani avevano provato una sensazione di unità tanto forte. A entusiasmare fu anzitutto l'operazione del Mossad. L'espressione «i servizi di sicurezza israeliani» aveva un suono misterioso che accendeva la fantasia ed evocava azioni audaci e complesse. Nelle settimane precedenti, Bauer e Harel avevano sparso la voce che Eichmann si era rifugiato in Kuwait come altri criminali nazisti, dei quali si diceva che si nascondessero nei paesi arabi, dove tramavano per annientare Israele. Il giorno dopo l'annuncio alla Knesset, Ben Gurion scrisse in una lettera: «I discepoli dei nazisti in Egitto e in Siria vogliono distruggere Israele: è questo il pericolo più grande che ci minaccia». Molti vissero la cattura di Eichmann come una tappa vittoriosa nell'eterna lotta di Israele per la sopravvivenza. «Processare Eichmann davanti a un tribunale ebraico in Israele colmerà il vuoto disumano e il caos che hanno contrassegnato l'esistenza degli ebrei dal giorno dell'Esilio a oggi» scrisse Natan Alterman. Ma dietro l'orgoglio momentaneo si agitavano, più profondi del bisogno di giustizia e del desiderio di vendetta, ricordi spaventosi, vergogna e sensi di colpa. Per molti superstiti, giovani e vecchi, imprigionati fra le mura del silenzio, la memoria era un tormento. Sapevano che il processo a Adolf Eichmann li avrebbe costretti a fare i conti con quei ricordi e a raccontare per la prima volta: genitori ai figli, tigli ai genitori. (Nota: Per qualche giorno Israele non rivelò che Eichmann era stato prelevato in Argentina. Fu la rivista «Time» a dare la notizia.) La grande emozione che suscitò fra gli israeliani l'annuncio improvviso dell'arresto di Eichmann era lo specchio dell'ansia quasi intollerabile al pensiero di ciò che li attendeva. Nell'anno che passò fra l'arresto di Eichmann e il processo. Ben Gurion ribadì più volte, nelle lettere e nelle interviste, che non era l'uomo Adolf Eichmann a interessarlo, ma l'importanza storica dell'evento. «L'essenziale non è la punizione, ma che ci sia un processo e lo si celebri a Gerusalemme» scrisse, perché alla sbarra non ci sarebbe stato soltanto il criminale nazista, ma il genocidio. Ben Gurion perseguiva
due obiettivi: primo, ricordare a tutte le nazioni del mondo che, dopo l'Olocausto, esse avevano l'obbligo di sostenere l'unico Stato ebraico esistente sulla Terra; secondo, imprimere nella coscienza degli israeliani, in particolare nelle nuove generazioni, gli insegnamenti dell'Olocausto. In un'intervista rilasciata al «New York Times», di cui aveva voluto rileggere il testo prima della pubblicazione, Ben Gurion spiegò che dal processo il mondo avrebbe dovuto imparare dove conduceva l'odio per gli ebrei, e vergognarsi. Chiamò «fabbrica del sapone» la macchina dello sterminio nazista. Aggiunse che la Germania non era l'unico colpevole. Anche la Gran Bretagna aveva le sue responsabilità: rifiutandosi di lasciare emigrare in Palestina gli ebrei, aveva indirettamente contribuito alla morte di centinaia di migliaia di loro. Ben Gurion sperava che il processo contribuisse a smascherare anche altri criminali nazisti e i loro legami con i governi arabi. Definì la politica antisionista dell'Egitto una forma di antisemitismo ispirata dai nazisti: «Quando dicono "sionisti", intendono in genere "ebrei"». La conclusione era ovvia. I nemici dello Stato di Israele erano i nemici del popolo ebraico: appoggiare Israele significava combattere l'antisemitismo. Ben Gurion era al sommo del potere. Non aveva bisogno del processo Eichmann per rafforzare la sua posizione. Tuttavia, da uomo abituato a pensare in termini storici e filosofici, si rendeva conto che la rivoluzione israeliana aveva lasciato irrisolti numerosi problemi fondamentali. Il futuro dello Stato era ancora incerto. La maggior parte degli ebrei non era venuta a vivere in Israele, Israele non era diventato il cuore del popolo ebraico. La ritirata dal Sinai, effettuata quattro anni prima sotto la pressione congiunta degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, era ancora considerata una vergognosa capitolazione, una dimostrazione dei limiti cui erano soggette la sovranità e la sicurezza di Israele. I più giovani, dichiarò Ben Gurion al «New York Times», dovevano imparare che gli ebrei non erano agnelli che si lasciavano trascinare inermi al macello, bensì una nazione capace di difendersi, come aveva fatto nella guerra di indipendenza. All'inizio degli anni Sessanta lo spirito pionieristico aveva perso quasi tutto il suo fascino: soltanto pochissimi si erano stabiliti nel Negev. Le nuove generazioni sembravano gravitare fra Tel Aviv e New York. Il
processo Eichmann avrebbe dovuto, nelle intenzioni del premier, riaccendere nei giovani l'orgoglio nazionale e la consapevolezza che un solo paese al mondo poteva garantire agli ebrei la sicurezza: lo Stato di Israele. Nell'estate del 1959 erano scoppiati alcuni incidenti a Wadi Salib, un quartiere povero di Haifa, abitato in prevalenza da immigrati provenienti dal Marocco. La rivolta si era poi estesa ad altre località. Per la prima volta, da quando era cominciata la massiccia immigrazione in Israele di ebrei giunti dai paesi arabi, veniva contestata l'egemonia della classe dirigente ashkenazita che si riconosceva nel Mapai. L'Olocausto non apparteneva alla storia degli immigrati sefarditi: «Vivevano in Asia o in Africa e non avevano la più pallida idea di quello che aveva fatto Hitler. Bisogna spiegare tutto da capo» osservò Ben Gurion. Occorreva dunque un evento che cementasse la società israeliana, un'esperienza collettiva sconvolgente, purificatrice, patriottica: una catarsi nazionale, insomma. Il processo Eichmann avrebbe inoltre restituito al Mapai il controllo sul retaggio dell'Olocausto, di cui si erano impadroniti l'Herut e la sinistra. Con il processo, Ben Gurion sperava di lavare la macchia di cui la leadership del Mapai non era più riuscita a liberarsi dal tempo del caso Kastner. Esso doveva dimostrare che, nonostante i legami con la Germania, nonostante l'accordo sulle riparazioni e il commercio di armi, il suo governo non era insensibile all'Olocausto. Di conseguenza. Ben Gurion non gradì affatto l'iniziativa di Nahum Goldmann: il presidente della World Zionist Organization chiese, facendo eco a diversi giornali stranieri, che Eichmann fosse giudicato da un tribunale speciale internazionale, e non da Israele. E non gradì che al coro si unisse il filosofo Martin Buber, il quale disse: «Non ritengo che la vittima debba essere anche il giudice». Quella richiesta era per lui una sfida alla sovranità di Israele e strigliò a dovere Goldmann in una lettera aperta: «La pubblicazione della tua proposta su un giornale che si rivolge all'opinione pubblica mondiale è, che tu lo voglia o meno, una grave ferita alla sensibilità del popolo israeliano (e non credo solo israeliano) e all'onore del paese». La risposta di Goldmann fu immediata: Nell'intervista [a «Haboker»] ho detto di non avere dubbi sul diritto di Israele a giudicare Eichmann e ho espresso la mia fiducia nella giustizia israeliana. Pensavo semplicemente, e
continuo a pensarlo, che, avendo Eichmann e i nazisti sterminato non solo gli ebrei, varrebbe la pena di invitare i paesi che hanno avuto molte vittime a farsi rappresentare dai propri giudici. Ho sottolineato che il presidente del tribunale dev'essere israeliano e che il processo dev'essere celebrato in Israele. Che cosa c'è di male in tutto questo per la nazione e lo Stato? A me pare sia un grande onore per il paese se altri invieranno i loro magistrati in un tribunale presieduto da un giudice israeliano. Divampò la consueta polemica storiografica e politica. «Il genocidio del popolo ebraico perpetrato dai nazisti non è paragonabile alle atrocità che essi hanno commesso nel resto del mondo,» scrisse Ben Gurion a Goldmann «è un episodio che non ha eguali, è il tentativo di annientare il popolo ebraico, cosa che Hitler e i suoi scagnozzi non hanno osato fare contro nessun'altra nazione. E' un dovere imprescindibile dello Stato di Israele, l'unica entità sovrana del popolo ebraico, raccontare questa tragedia in tutta la sua enormità e in tutto il suo orrore, senza ignorare gli altri crimini contro l'umanità commessi dal regime nazista, e tuttavia non come uno dei tanti crimini, quanto piuttosto come l'unico senza eguali nella storia dell'umanità.» L'Olocausto era stato possibile perché gli ebrei non avevano una patria: «Alla radice dell'antisemitismo c'è l'esistenza della Diaspora» affermò Ben Gurion in un'altra lettera. «Quando gli ebrei si mostrano diversi dai loro vicini, suscitano paura o derisione; quando si sforzano di essere come loro e diventano più realisti del re, vengono respinti.» Pochi giorni dopo lo scambio epistolare con Goldmann, Ben Gurion ricevette una lettera da Joseph M. Proskauer, un giudice di New York, presidente onorario dell'American Jewish Committee. Il Comitato non gradiva che Ben Gurion rivendicasse il diritto di Israele a parlare a nome di tutto l'ebraismo mondiale. L'iniziativa di Israele sollevava numerosi interrogativi: che cos'è il giudaismo? Che cos'è un ebreo? In quale misura lo Stato di Israele è uno Stato ebraico? La vita di un ebreo in Israele è più compiuta che altrove? Erano tutte questioni di cui Ben Gurion aveva già dibattuto in una lunga e lacerante corrispondenza con i leader della comunità ebraica statunitense. Ora che il processo Eichmann si avvicinava, tornavano a riproporsi. Anche Proskauer chiedeva a Ben Gurion di non processare Eichmann in Israele, ma di
consegnarlo alla Repubblica federale tedesca o a qualche organismo internazionale. Alla sua lettera allegava un commento del «Washington Post», nel quale si argomentava che Israele non era autorizzato a parlare a nome degli ebrei residenti in altri paesi. Proskauer ammoniva Ben Gurion che il processo Eichmann avrebbe danneggiato l'immagine di Israele negli Stati Uniti e che di conseguenza sarebbe stato più difficile per gli amici di Israele convincere l'amministrazione americana a fornire aiuti militari. Temeva anche che il processo risvegliasse l'antisemitismo. «Che cosa ' ci guadagnate?» domandava. La soddisfazione del «bisogno emotivo» che spingeva a celebrare il processo in Israele non compensava i danni che avrebbe arrecato. Ben Gurion rispose con un lungo messaggio. Fece un'unica concessione; ammise che Israele non parlava a nome degli ebrei di tutto il mondo, ma ne rivendicò il diritto a parlare per tutte le vittime dell'Olocausto. Così facendo, egli le trasformava automaticamente in sionisti. Ribadì, come aveva già fatto nel colloquio con Adenauer, che il genocidio aveva privato Israele dei suoi cittadini futuri: «Lo Stato ebraico (il cui nome è Israele) è l'erede dei sei milioni di ebrei assassinati, l'unico erede, perché quei milioni di ebrei, a dispetto del "Washington Post", si consideravano figli del popolo ebraico e soltanto del popolo ebraico. Se fossero vissuti, molti di loro sarebbero venuti in Israele. L'unico difensore di quei milioni di ebrei, legittimato dalla storia, è Israele e, per ragioni di giustizia storica, spetta al governo israeliano, in quanto governo dello Stato ebraico, le cui fondamenta sono state poste da milioni di ebrei europei e la cui creazione era la loro speranza più cara, processarne gli assassini». Gli stessi argomenti li ripetè in un'intervista al «New York Times». Naturalmente, Ben Gurion non aveva alcuna certezza che quei sei milioni di ebrei, se non fossero morti, sarebbero andati in Israele. Anzi, moltissimi erano stati uccisi proprio perché avevano preferito restare nei paesi d'origine, anziché emigrare in Palestina quando sarebbe stato ancora possibile. E altrettanto naturalmente non poteva stabilire quanti di loro si identificassero con il sionismo. I nazisti li ammazzavano comunque, senza preoccuparsi del fatto che si sentissero sionisti, antisionisti o addirittura ebrei. Ma queste, per Ben Gurion, erano sottigliezze. Quanto al pericolo
dell'antisemitismo, il premier israeliano rassicurava il presidente onorario dell'American Jewish Committee: «In America ci sono manifestazioni antisemite, ci sono dappertutto, ma il popolo americano non è antisemita. Io non accuserei di antisemitismo neppure il senatore [J. William] Fulbright [presidente della Commissione affari esteri del Senato e notoriamente critico nei confronti del governo israeliano]». E qualche tempo dopo, a un conoscente israeliano che gli esprimeva analoghe paure. Ben Gurion rispose così: «Se gli antisemiti vogliono odiarci, che ci odino pure e che vadano al diavolo». Io, disse nella stessa circostanza, sono «un ebreo che non si preoccupa di quello che dicono i gentili». Eppure, nella lettera indirizzata a Proskauer aveva riportato ampi stralci di editoriali usciti sulla stampa estera a sostegno della sua tesi secondo cui Israele aveva il diritto di processare Eichmann. In particolare, aveva apprezzato l'articolo pubblicato da un quotidiano olandese in occasione della visita di Stato nei Paesi Bassi del presidente dell'Argentina, Arturo Frondizi. Era evidente che Ben Gurion era rimasto turbato dal commento del «Washington Post» inviatogli da Proskauer: «Prendo nota che l'editoriale del "Washington Post" non esprime soltanto il punto di vista di uno dei giornalisti dell'importante quotidiano, ma anche quello di un settore dell'opinione pubblica americana». E proseguiva: Ma non credo che il commentatore parli a nome degli Stati Uniti, né che esprima l'atteggiamento del popolo americano ... L'editoriale sostiene che il governo di Israele non ha titolo per parlare a nome degli ebrei degli altri paesi, né può agire per conto di «un'immaginaria unità etnica ebraica». Una cosa è certa: il «Washington Post» non è autorizzato a parlare a nome degli ebrei, e quanto all'esistenza di un'«unità etnica ebraica», sono ben consapevole che su questo esistono divergenze di opinione anche fra molti americani. Ma i sei milioni di ebrei che sono stati assassinati in Europa credevano, e sentivano in ogni fibra del loro essere, di appartenere a un popolo ebraico e credevano che al mondo esiste un popolo ebraico. Ben Gurion portava a sostegno della sua tesi il comportamento di Adenauer: «Quando la Germania di Adenauer ha riconosciuto la responsabilità morale del popolo tedesco nei crimini nazisti, si è impegnata a pagare le riparazioni al
governo di Israele. Non ha sposato le teorie del "Washington Post", [ma] ha riconosciuto che questo Stato parla per conto di tutti gli ebrei assassinati». Le cose non stavano esattamente così: Israele non era il beneficiario delle riparazioni tedesche perché parlava «per conto di tutti gli ebrei assassinati», bensì perché aveva accolto i superstiti. Era evidente, comunque, che Ben Gurion era preoccupato: «Israele non ha bisogno della protezione morale di un tribunale internazionale» dichiarò al «New York Times». «Soltanto gli antisemiti o gli ebrei con un complesso di inferiorità sosterrebbero un'idea del genere.» Sul processo Eichmann l'opinione pubblica e il mondo politico israeliani erano tutti in sintonia con il primo ministro. I giornali, presi dall'entusiasmo, decisero immediatamente quale sorte riservare a Eichmann. «C'è una sola sentenza possibile per il genocidio: morte!» proclamò «Maariv» all'indomani dell'annuncio della cattura. Qualche giorno dopo aggiunse: «Eichmann non è un essere umano». «Yediot Aharonot» scrisse: «Che questo arcidiavolo di un cannibale sia stato finalmente catturato ci solleva il morale e ci restituisce la fiducia nel Creatore». Persino «Haaretz», di solito così misurato, affiancò ai servizi sull'arresto di Eichmann il disegno di un cappio, introducendo così un tema su cui la stampa israeliana si sarebbe sbizzarrita con infinite variazioni. Spero non mi si accusi di essere diventato religioso se dico che nello stesso istante in cui è stata annunciata la cattura di Eichmann, l'angelo della morte gli ha preparato un posto all'inferno, accanto a Hitler e a Himmler» dichiarò il deputato comunista Moshe Sneh, che chiamò Eichmann «una belva a due zampe». «Non è il momento delle disquisizioni giuridiche» proseguì. «Ci deve essere un processo regolare e ci sarà. Ma il verdetto è già stato emesso.» Shmuel Tamir pubblicò un articolo intitolato Processo a Satana, in cui si coglieva l'eco delle parole del giudice Halevy, il quale aveva dipinto Eichmann come il «diavolo» cui Kastner aveva venduto l'anima. Persino i giudici della Corte suprema nel loro verdetto definirono Eichmann un «flagello», un «boia» e un «mostro». Le redazioni dei giornali e i commissariati di polizia furono sommersi da lettere di cittadini che suggerivano le torture più svariate e crudeli per Eichmann. Qualcuno si offrì di strangolarlo con le proprie mani sulla pubblica piazza. «C'è bisogno
di un processo non per questo imputato, di cui non facciamo il nome per non insozzarci la bocca» proclamò Moshe Sneh. «C'è bisogno di un processo perché noi dobbiamo ricordare al mondo quello che è accaduto durante la seconda guerra mondiale, affinchè nessuno dimentichi, come invece molti vorrebbero.» «Il mondo» del quale parlavano gli israeliani era in genere la stampa: a quel tempo c'era ancora una fiducia quasi magica nella capacità dei mezzi di comunicazione internazionali di nuocere oppure di aiutare Israele, e un desiderio fortissimo di guadagnarsene l'appoggio e il favore. Quando l'Argentina protestò per la violazione della sua sovranità e sottopose la questione al Consiglio di sicurezza dell'ONU, la stampa israeliana ne fu profondamente offesa. Agli israeliani non bastava aver catturato Eichmann, volevano che «il mondo» riconoscesse il loro diritto morale e storico a rapirlo e a processarlo. In tale contesto, la richiesta fatta ai giornali dal ministro della Giustizia Pinhas Rosen, affinchè rispettassero il segreto istruttorio, non poteva che rivelarsi ingenua e irrealistica. Anche il presidente della Corte suprema, Yitzhak Oishan, cercò di porre un freno all'«incitamento delle masse». «Qualche settimana fa» scrisse a Rosen «sono rimasto turbato nel leggere titoli di giornali come questo: Eichmann: ucciderlo con la mannaia o con la corda? E se con la mannaia, quella manuale o quella meccanica? E venerdì scorso» proseguiva la lettera «"Maariv" ha pubblicato un dibattito con questo titolo: Eichmann dev'essere giustiziato? ... Se non fosse perché sono tenuti a farlo per legge, [la maggior parte dei giudici] rifiuterebbe di celebrare questo processo nel clima creato dalla stampa.» Rosen cercò di convincere i direttori dei giornali a moderare i toni. Si attirò soltanto il loro sarcasmo. «Dovremmo forse scrivere fino al giorno del verdetto "il presunto assassino di milioni [di ebrei]?"» chiese «Davar», spalleggiato da diversi deputati. Le norme che permettevano di processare Eichmann erano state introdotte una decina di anni prima della sua cattura. La legge sul genocidio e quella contro i nazisti e i collaboratori dei nazisti erano state fra le prime a essere approvate in Israele. Il dibattito alla Knesset si era distinto per la ricchezza di riflessioni morali e storiche sugli insegnamenti dell'Olocausto. «Il maggior pericolo per il futuro dell'umanità e per la sua civiltà è la possibilità
che Auschwitz e Hiroshima vengano posti sullo stesso piano. Se ciò accadrà, il destino dell'umanità sarà segnato» aveva dichiarato un parlamentare, aggiungendo che le scuole israeliane dovevano «educare i cittadini del mondo» alla consapevolezza della loro responsabilità per i crimini commessi dai singoli Stati e alla sollecitudine per la sorte dell'umanità e della pace universale. Una deputata aveva ricordato il genocidio degli armeni: «Bisogna insegnare la tolleranza fin dalla culla. Non soltanto "Ama il tuo prossimo come te stesso", ma la tolleranza, che rende uguali i gialli, i neri e i bianchi». Il dibattito alla Knesset sulla legge contro il genocidio si era concentrato su due questioni cruciali, poi riprese infinite volte nella discussione su quale lezione trarre dall'Olocausto: la pena di morte e i limiti dell'obbedienza. Golda Meir aveva dichiarato di essere, in linea di principio, contraria alla pena di morte, ma di essere favorevole in quel caso specifico: «Noi, popolo ebraico, dovremmo essere gli ultimi a proporci come esempi di generosità nei confronti di questi criminali». La legge infine approvata prevedeva la pena di morte, come contemplato dalla risoluzione della Convenzione internazionale sul genocidio redatta dall'ONU. Yosef Lamm, deputato del Mapai, aveva proposto di considerare un'attenuante il fatto che l'imputato avesse agito «in obbedienza a un ordine o a una legge, purché si fosse sforzato, per quanto era in suo potere, di limitare le conseguenze del proprio crimine». Menahem Begin si era opposto: «L'obbedienza a un ordine di genocidio non può diminuire la responsabilità del crimine commesso: ogni uomo ha il dovere di ribellarsi a un simile ordine». Lamm aveva ritirato immediatamente la proposta. La legge sui nazisti e i collaboratori dei nazisti distingueva fra crimini contro gli ebrei, crimini contro l'umanità e crimini di guerra. Era una distinzione la cui utilità il ministro della Giustizia aveva faticato molto a far comprendere alla Knesset: a quell'epoca nessuno prevedeva che un giorno sarebbe stato possibile giudicare Eichmann in Israele. Il paese sentiva la necessità di punire i collaboratori dei nazisti, questo sì, ma il resto della legge sembrava più che altro una dichiarazione di intenti ed era stato approvato soltanto perché era «inconcepibile» non farlo. La legge contro il genocidio, aveva dichiarato Rosen, si proponeva di impedire altri
genocidi in futuro e di proteggere le minoranze, cosa importantissima per lo Stato di Israele, «data la particolare posizione del popolo ebraico nella Diaspora». Se la legge contro il genocidio riguardava il futuro, quella contro i nazisti e i collaboratori dei nazisti era «una dichiarazione nei riguardi del passato», un monito: «Noi non dimenticheremo e non perdoneremo». Essa era anche il segno tangibile del cambiamento radicale dello status politico del popolo ebraico, che non aveva mai avuto in precedenza l'autorità necessaria per processare nei suoi tribunali i criminali nazisti. Occorreva dunque, aveva proseguito il ministro, che «il popolo ebraico e lo Stato di Israele rispondano all'ingiustizia che hanno subito». La spiegazione di Rosen non era esatta: i paesi democratici avevano già processato alcuni nazisti per conto dei loro cittadini ebrei. Fra questi c'erano la Gran Bretagna e l'Olanda, citate da Ben Gurion. Quando Rosen diceva che «il popolo ebraico» non aveva mai avuto l'autorità necessaria per processare i criminali nazisti, non faceva che seguire le orme di quanti identificavano il popolo ebraico con lo Stato di Israele. Con i loro emendamenti i deputati resero la legge ancora più simbolica e severa. Molti avrebbero voluto che si applicasse soltanto allo sterminio degli ebrei. La legge, così come è formulata, sembra effettivamente considerare più gravi i crimini contro gli ebrei di quelli contro l'umanità. Nel primo caso il reato contestato è l'«omicidio», che può essere anche preterintenzionale, nel secondo l'«assassinio». Interrogata a questo proposito, la Corte distrettuale di Tel Aviv decretò che una tale discriminazione era estranea allo spirito della legge. Nell'illustrare la legge alla Knesset, Rosen aveva specificato che essa presentava numerose anomalie rispetto ai «princìpi [giuridici] vigenti» e alle procedure processuali. Anzitutto aveva valore retroattivo, in quanto si proponeva di punire atti che non necessariamente erano considerati criminali nel momento in cui erano stati commessi e in quanto lo Stato di Israele non esisteva al tempo in cui quei delitti si erano consumati. In secondo luogo, era una legge extraterritoriale: mirava a punire crimini perpetrati al di fuori dei confini dello Stato. In terzo luogo, benché l'intenzionalità sia uno degli elementi fondamentali per definire criminale un atto, secondo la legge sui nazisti e i collaboratori dei nazisti era
sufficiente dimostrare che l'atto era stato compiuto, a prescindere dalle intenzioni dell'attore. In quarto luogo, mentre un principio giuridico universalmente riconosciuto decretava che nessuno potesse essere punito due volte per lo stesso crimine, la legge contro i nazisti e i loro collaboratori consentiva di processare criminali già condannati in altri paesi per gli stessi reati. In quinto luogo, essa esentava l'accusa dall'onere della prova, accettando anche i sentito dire. In sesto luogo, il codice penale israeliano prevedeva la caduta in prescrizione dei reati, mentre nel caso dei crimini contro il popolo ebraico e contro l'umanità, ma non nel caso dei crimini di guerra e dell'appartenenza a organizzazioni criminali come le SS, non era prevista la decadenza dei termini. Secondo il presidente della Commissione parlamentare per la costituzione, il diritto e la giustizia, quelle anomalie esprimevano «l'amarezza e la protesta» del popolo ebraico per le sofferenze patite durante la seconda guerra mondiale. Un deputato del Mapam, Moshe Erem, aveva chiesto di sostituire il termine nazista con «fascista», perché i nazisti erano soltanto una manifestazione del «veleno e dell'impurità» che avevano prodotto anche il colonialismo, l'imperialismo e così via. Si era discusso anche sull'unicità dello sterminio degli ebrei. Moshe Erem aveva chiesto di includere fra i reati previsti anche le provocazioni razziste e l'incitamento alla guerra. Egli tentava in sostanza di estendere il significato di Olocausto al di là del sionismo e del popolo ebraico. Si era dibattuto a lungo pure sulla questione se il nazismo avesse avuto nella sua storia un periodo di legittimità, dal momento che la proposta di legge stabiliva che i nazisti e i loro complici dovevano essere puniti soltanto per i crimini commessi dopo l'entrata in vigore delle leggi di Norimberga del 1935, come se prima di allora la dittatura hitleriana non avesse perseguitato gli ebrei. Su iniziativa di Zorach Warhaftig del partito nazional-religioso, la Knesset estese l'applicazione della legge a tutto il Terzo Reich, a partire dal 30 gennaio 1933. Un paio di settimane prima dell'annuncio della cattura di Eichmann era entrato in carica un nuovo procuratore generale, Gideon Hausner, un giurista di Gerusalemme sui quarantacinque anni. Nato a Leopoli, era arrivato in Israele all'età di dodici anni, quando il padre, in precedenza deputato della Dieta
polacca e per breve tempo segretario di Theodor Herzl, era stato nominato console in Palestina. Hausner, che era uno dei dirigenti del partito progressista ed era stato anche candidato alle elezioni politiche, non solo capì subito quali obiettivi Ben Gurion perseguisse con il processo, ma dimostrò di condividerli. La fase istruttoria, come la raccontò in seguito Hausner nelle sue memorie, fu molto più laboriosa di quanto avrebbe richiesto l'incriminazione di Adolf Eichmann. Egli si proponeva infatti di dar vita nell'aula del tribunale a una grande saga nazionale da consegnare alle generazioni future. Per raggiungere questo obiettivo occorreva prendere numerose decisioni, di tipo storiografico, pedagogico, politico e anche scenografico. Ogni tanto Ben Gurion gli dava qualche suggerimento. L'incarico di interrogare Eichmann fu affidato alla polizia, la quale istituì a questo scopo una divisione speciale, il «Bureau 06» (fino a quel momento le sezioni erano state cinque), che impiegò fino a cinquanta persone. Eichmann collaborò. Gli interrogatori si svolsero in tedesco: le dichiarazioni furono registrate, trascritte e sottoposte alla sua approvazione. Eichmann firmò i verbali dopo averli controllati e corretti con estrema pignoleria. Gli investigatori cercarono anzitutto di capire i complessi meccanismi dell'apparato burocratico che i nazisti avevano messo in piedi per sterminare gli ebrei e di stabilire quale ruolo vi avesse ricoperto l'imputato. Su questo punto bisognava avere le idee molto chiare, perché Eichmann nella sua difesa intendeva dimostrare di non essere responsabile dei crimini di cui era accusato. Era pertanto essenziale stabilire il ruolo di ciascuno nella macchina dello sterminio: nome, grado, funzione, divisione, sede ' centrale o decentrata. La divisione di Eichmann era la IV-B-4. Era un compito immane. Avraham Zeliger, l'ufficiale che dirigeva l'inchiesta, scrisse in seguito: «Non eravamo neppure certi di sapere esattamente cosa fosse un processo storico». Consultarono gli archivi e gli istituti di ricerca di numerosi paesi; la fonte più preziosa furono i documenti accumulati dal tribunale internazionale di Norimberga, una vera montagna di carte. «Di lì a poco cominciai a "mandar giù" al ritmo di uno al giorno i ponderosi volumi del processo di Norimberga» scrisse Hausner. «Dovevo conoscere ogni singola parola della deposizione di Eichmann e
digerire cumuli di documenti e le migliaia di grossi faldoni riempiti dal Bureau 06, per decidere quali presentare come prove a carico. Come se non bastasse, dovevo anche studiare la letteratura sull'Olocausto, preparare le considerazioni preliminari ed esaminare le questioni giuridiche. Uno sforzo enorme. Mi sono chiuso all'Hotel Sharon di Herzlia in compagnia di libri e dossier che avevano stipato due automobili e ho cominciato a lavorare ininterrottamente nel più totale isolamento.» Fu questa la sua vita per sei settimane. Hausner constatò che la polizia aveva fatto un buon lavoro e che le accuse erano quasi tutte documentate. Era un'ottima base di partenza: «Un documento scritto parla da solo, nero su bianco. Non è come un testimone, che deve ricostruire l'accaduto a memoria, molti anni dopo. Non può essere sottoposto a interrogatorio e contraddirsi». Anche ai processi di Norimberga la pubblica accusa si era basata essenzialmente sui documenti. «Là tutto è filato liscio, con grande efficienza» osservò Hausner. «Tuttavia, questa è anche una delle ragioni per cui quei processi non hanno turbato le coscienze.» Sarebbe bastato, e avanzato, presentare i documenti per condannare Eichmann. «Anche una piccola parte sarebbe stata sufficiente a condannarlo non una, bensì dieci volte», ma Hausner voleva turbare le coscienze: «Volevo che gli israeliani e il mondo intero si facessero partecipi di questa grande catastrofe». Anch'egli, come Ben Gurion, si preoccupava dei giovani. «Questa è una generazione che non ha nonni. Non capisce quello che è successo, perché non ha approfondito i fatti. Il divario generazionale è diventato un abisso, che crea ripugnanza per il passato della nazione. "Come hanno potuto lasciarsi condurre al macello come agnelli?" è la domanda che si sente ripetere più spesso.» Le carte non bastavano ad avvicinare la gioventù al passato della nazione. «Abbiamo bisogno» meditava Hausner «di far rivivere su vasta scala questa tragedia nazionale e umana.» Fu questo il ruolo che assegnò ai testimoni. Dalle memorie, Hausner emerge come il regista di un grande dramma di carattere storiconazionale. Non gli bastava dimostrare la colpevolezza dell'imputato e decretarne la pena, voleva educare. Ogni processo, scrive nella sua autobiografia, deve catturare l'attenzione, costituire un evento e impartire una lezione: «Tanto più il principio valeva per un
processo speciale come quello. Sapevo di poter raggiungere l'obiettivo e di poter informare gli israeliani e tutto il mondo ... attraverso le parole dei testimoni». Non reputò pertanto necessario che i testimoni indicassero l'esistenza di un legame diretto fra l'imputato e un determinato reato. «Volevo che parlassero delle varie fasi dello sterminio a partire dall'inizio, che raccontassero la sorte delle grandi città ebraiche, delle comunità e delle persone che avevano tentato di opporsi alla tragedia, e dei campi della morte. Ma soprattutto volevo che raccontassero quello che avevano visto con i loro occhi e sperimentato sulla loro pelle.» Molti testimoni gli furono segnalati dal dipartimento di Yad Vashem incaricato di raccogliere le testimonianze per il memoriale dell'Olocausto. Lo dirigeva Rachel Auerbach, storica e superstite del ghetto di Varsavia, la quale nel corso degli anni aveva ascoltato centinaia di superstiti del genocidio. Fu la lista di testimoni fornita dalla Auerbach a dare al processo la sua impronta. Anni dopo, quando raccontò il ruolo che aveva svolto nei preparativi, la Auerbach parlò in prima persona plurale, esprimendo così un sentire comune a molti superstiti. I sopravvissuti avevano infatti temuto da principio che le autorità concentrassero tutta l'attenzione sulle colpe individuali di Eichmann e celebrassero un piccolo processo penale anziché un grande processo storico. «Pensavamo che avremmo dovuto faticare molto per persuadere le autorità ... a mettere a nudo la vastità e l'unicità dello sterminio degli ebrei d'Europa» scrisse la Auerbach. Ma non appena le fu chiaro che anche Hausner desiderava un grande processo con molti testimoni, gli suggerì di concentrare fin da principio tutto il dibattimento sullo sterminio, senza soffermarsi sulle fasi iniziali delle persecuzioni. Gli suggerì inoltre di indurre i testimoni a parlare di «fenomeni particolari» che sottolineassero «l'odiosità e la crudeltà diabolica» dei nazisti. Portò come esempio le torture inflitte alle vittime prima dello sterminio, i maltrattamenti riservati in particolare alle donne, ai bambini, ai vecchi, ai malati, agli ebrei osservanti con le loro vesti tradizionali, al sadico prolungamento delle sofferenze dei condannati a morte, cui veniva somministrata una quantità insufficiente di gas; ai bambini uccisi a calci per risparmiare le munizioni; alle persone arse vive e infine «al più grande di tutti gli orrori della terra: le fosse
comuni, in cui i feriti si dibattevano e si lamentavano per giorni interi dopo le esecuzioni». I superstiti volevano inoltre che il processo mettesse in evidenza gli esempi di autosacrificio, resistenza, ribellione, vendetta e fuga, precisò la Auerbach. Ed era bene citare anche i giusti fra i non ebrei e i loro morti. Il processo lasciò insoddisfatta la studiosa. Riteneva che fosse stato dedicato troppo tempo ai documenti e troppo poco alle sofferenze delle vittime. Viceversa, dalla lettura dei verbali si ricava l'impressione che Hausner abbia seguito in linea di massima la strategia suggerita dalla Auerbach, insistendo, come lei chiedeva, sugli orrori dei nazisti e sulla resistenza ebraica. I testimoni furono in gran parte quelli che lei aveva indicato: «Ho scelto dall'elenco le persone capaci di esprimersi meglio» racconta Hausner. Attento all'aspetto sociale, convocò testimoni «di ogni ceto», «professori e casalinghe, artigiani e scrittori, impiegati e imprenditori». Sicuramente, però, privilegiò personaggi già noti in qualche misura all'opinione pubblica, All'inizio il procuratore generale incontrò parecchia resistenza: molti superstiti erano terrorizzati all'idea di ripercorrere gli orrori del passato e alcuni temevano anche di suscitare incredulità. Tuttavia, a mano a mano che la data del processo si avvicinava, cresceva il numero delle persone disposte a deporre. «Siamo stati sommersi dalle offerte» scrive Hausner. Il bisogno di raccontare cominciava ad avere la meglio sul bisogno di tacere. «Ho invitato un metalmeccanico a parlare degli avvenimenti e della lotta clandestina in uno dei ghetti più grandi della Polonia. Poi una nota personalità si è offerta di testimoniare sugli stessi eventi. Io, però, volevo che fosse l'operaio a raccontare le vicende con le sue parole semplici e ho rinunciato al personaggio famoso, che non mi ha mai perdonato.» David Ben Gurion gli chiese di convocare Zaiman Shazar, ex ministro della Pubblica Istruzione e in seguito terzo presidente di Israele, perché parlasse dell'ebraismo europeo in generale, prima e dopo l'Olocausto. Hausner tuttavia temeva «l'estrema emotività di quell'uomo eccezionale» e affidò la testimonianza storica a Salo Baron della Columbia University. Ben Gurion se l'ebbe a male. C'era un'altra questione su cui il primo ministro era ancora più suscettibile: la Germania Ovest. Poco dopo l'arresto di Eichmann, Adenauer gli aveva chiesto di adoperarsi
perché il processo non risvegliasse una nuova ondata di sentimenti antitedeschi nel mondo, e altrettanto aveva fatto in un incontro segreto a Parigi Franz Josef Strauss. Non erano timori infondati: i paesi del blocco comunista, con in testa la Germania Est, si preparavano a sfruttare il processo per convincere l'opinione pubblica che il nazismo si identificava con la Repubblica federale e non anche con la Repubblica democratica. La Germania Est inviò a Gerusalemme, con una borsa piena di documenti, un avvocato, Friedrich Kaul, il quale chiese di costituirsi parte civile in rappresentanza del suo governo. Quando gli fu spiegato che il codice israeliano non prevedeva un simile ruolo, Kaul convocò una conferenza stampa. Dichiarò che Bonn si era impegnata così poco per arrestare i criminali di guerra nazisti perché ve n'erano ancora alcuni ai vertici dello Stato. L'allusione era a Hans Globke, uno dei principali collaboratori di Adenauer, che aveva contribuito ad allacciare i contatti con Israele e partecipato all'accordo sulle riparazioni. Durante il nazismo Globke aveva lavorato alle dipendenze del ministero degli Interni ed era considerato uno degli esperti delle leggi di Norimberga. Insieme ai collaboratori di Eichmann aveva avuto un ruolo nella deportazione degli ebrei tedeschi e nell'esproprio dei loro beni. «I documenti di Kaul erano decisamente probanti» ricordò Hausner. «Avvertii Ben Gurion che li avrei sottoposti alla corte. Ben Gurion non voleva offendere Adenauer e mi chiese se non si potesse evitare di presentarli. Forse, risposi, ma questo avrebbe significato sottrarre prove rilevanti, cosa che non intendevo fare. Ben Gurion era imbarazzato e manifestò il suo scontento. ... Seguì una conversazione non molto piacevole.» Prima di autorizzare il procuratore generale a utilizzare i documenti, il premier inviò da Adenauer Eliezer Shinar, il rappresentante di Israele a Bonn, perché gli spiegasse che non era legalmente possibile tenere nascosti quei documenti. «Adenauer non fu molto entusiasta», ma «reagì con comprensione» disse Shinar. Nel corso del dibattimento Hausner fece in modo di distogliere l'attenzione del pubblico dal ruolo di Globke. Concesse invece ampio spazio alla testimonianza di Heinrich Grùber, un pastore protestante che si era molto battuto per aiutare gli ebrei, arrivando fino a implorare Eichmann. Arrestato, era stato rinchiuso
in un campo di concentramento. Grùber incarnava la figura del buon tedesco: alla sua testimonianza Hausner affidò il messaggio che «in Germania non era necessario essere come Eichmann. Si poteva essere come Grùber». Bisognava procedere con i piedi di piombo: il processo poteva mettere in grande imbarazzo Adenauer mentre erano ancora in corso i colloqui per decidere come realizzare le promesse che il cancelliere aveva fatto a Ben Gurion in occasione dell'incontro a New York. Hausner chiese consiglio anche a due leader della rivolta del ghetto di Varsavia, Antek Zuckerman e sua moglie Tzivia Lubetkin. La storia dell'insurrezione, come molti altri episodi che egli avrebbe riportato alla luce durante il dibattimento, era molto delicata. Occorreva stabilire quale rilievo dare alla ribellione, quali aspetti far emergere e quali lasciare in penombra. I combattenti si erano a lungo interrogati, scontrandosi anche fra loro, sul ruolo della resistenza e sulle responsabilità che essa aveva avuto nell'annientamento del ghetto. L'aspra polemica sulle «due vie», che era divampata ai tempi del caso Kastner, non si era ancora spenta. I partigiani, naturalmente, volevano che il processo abbracciasse le loro tesi e non quelle dello Judenrat. Hausner doveva infine decidere se limitare le accuse contro Eichmann ai soli crimini in cui egli era coinvolto direttamente, oppure se estenderle all'intera campagna di sterminio. Anche questa decisione poteva avere ripercussioni sul piano nazionale. «Restringere le accuse, insistendo soltanto sugli episodi in cui Eichmann aveva agito con intenti criminali e con una malvagità superiore a quella richiesta dagli ordini ricevuti», com'era accaduto, per esempio, nel genocidio degli ebrei olandesi, «presentava dei vantaggi» scrive Hausner nelle memorie. Si sarebbe così potuta smontare la difesa dell'imputato, tutta basata sull'obbedienza agli ordini. Ma presentava anche degli svantaggi, perché non avrebbe permesso di delineare il quadro completo della soluzione finale. D'altra parte, ampliando il raggio delle accuse, ragionava Hausner, egli avrebbe dovuto dimostrare il coinvolgimento di Eichmann in tutti i crimini commessi. Era tormentato dai dubbi: se avesse fallito il suo obiettivo, l'imputato sarebbe stato «assolto perché le accuse non erano provate o erano troppo generiche». Se fosse stato un processo qualsiasi, non si sarebbe angustiato, spiega Hausner nel
suo libro, tanto più che nel caso di Eichmann, seppure fosse stato prosciolto da alcune imputazioni, c'erano prove più che sufficienti a condannarlo per altre. «Ma a quel punto» scrive Hausner «si sarebbe potuto sostenere che Eichmann non era così malvagio come noi lo abbiamo dipinto e che i suoi misfatti sono stati esagerati. Da qui all'affermazione che anche l'Olocausto è un'esagerazione il passo è breve.» Fu una delle decisioni più difficili. Alla fine Hausner optò per l'ampliamento del processo e rivolse a Eichmann una lunga serie di imputazioni, comprendenti anche i crimini commessi contro gli ebrei in tutti i paesi occupati dai nazisti. Sapevo, scrive Hausner, che in «quell'oceano le azioni diaboliche compiute in prima persona da Eichmann si sarebbero smarrite e l'attenzione non si sarebbe concentrata su di esse. Ma ritenni comunque che fosse giusto così». Restava un ultimo problema da risolvere, di carattere politico più che giuridico. La legge prevedeva che a giudicare Eichmann fosse la Corte distrettuale di Gerusalemme, la cui composizione spettava al presidente, il quale poteva chiedere di farne parte. Ebbene, il presidente della Corte distrettuale di Gerusalemme era Benyamin Halevy, il quale un giorno aveva paragonato Eichmann a Satana. Il presidente della Corte suprema, Yitzhak Oishan, riteneva pertanto inopportuno che Halevy facesse parte del collegio giudicante di Eichmann, un parere condiviso anche dal ministro della Giustizia, Pinhas Rosen. In un incontro tenutosi a casa di Oishan, Halevy confermò che intendeva presiedere il processo: «II colloquio durò oltre un'ora e tutti i miei sforzi per persuaderlo a desistere dal suo proposito furono inutili, ricordò Oishan. «Gli rammentai le obiezioni che erano state avanzate in vari paesi contro la celebrazione del processo in Israele. ... Sollevai obiezioni analoghe. Gli chiesi che cosa avrebbe fatto se alla prima udienza l'avvocato della difesa l'avesse ricusato. Mi rispose senza esitare che non si sarebbe dimesso.» Oishan gli spiegò che, pur comprendendo le ragioni che lo spingevano a presiedere quel processo storico, da giudice egli avrebbe dovuto tener conto anzitutto degli interessi del paese. «Immaginavo benissimo le reazioni dell'opinione pubblica internazionale, per non parlare di quella di Israele. Non bastava che fosse fatta giustizia: bisognava che tutti vedessero che giustizia era
fatta, insistetti. Ma tutti i miei tentativi di convincerlo caddero nel vuoto.» Halevy era persuaso di essersi creato molti nemici nell'establishment israeliano con il verdetto al processo GruenwaldKastner e che il governo non lo volesse come presidente del processo Eichmann perché temeva che indagasse troppo a fondo sul comportamento dei leader ebraici durante l'Olocausto. Halevy non cedette neppure alle pressioni del ministro della Giustizia. Allora Oishan suggerì a Rosen di emettere un decreto che attribuisse, in alcuni casi specifici, fra cui naturalmente il caso Eichmann, al presidente della Corte suprema (lo stesso Oishan) l'autorità di scegliere il collegio giudicante, che ora spettava al presidente della Corte distrettuale (Halevy). Rosen appoggiò la proposta, ma la stampa ne fu subito informata e scoppiò uno scandalo. Alla Knesset i deputati dell'Herut si ersero a difesa del «diritto» di Halevy a giudicare Eichmann e protestarono contro le discriminazioni nei suoi confronti. Oishan consigliò a Rosen di non cedere, ma il ministro fu costretto a mediare: il presidente del collegio sarebbe stato nominato dal presidente della Corte suprema, mentre i giudici a latere li avrebbe scelti quello della Corte distrettuale. E così avvenne. La presidenza fu quindi affidata al giudice della Corte suprema, Moshe Landau. Benyamin Halevy nominò se stesso e Yitzhak Raveh della Corte distrettuale di Tel Aviv come giudici a latere. Tutti e tre erano nati in Germania. La Knesset dovette approvare anche un decreto per permettere a Eichmann di affidare la propria difesa all'avvocato Robert Servatius di Colonia, perché il codice israeliano prevedeva che soltanto i cittadini israeliani potessero patrocinare le cause in tribunale. Il governo pagò una parte dell'onorario di Servatius, che ammontò a 30.000 dollari. Gli aspetti pratici del processo furono curati dal direttore generale dell'ufficio del primo ministro, Teddy Kollek. E poiché egli era anche direttore dell'Ufficio stampa del governo, dovette provvedere alle infrastrutture necessarie agli oltre seicento corrispondenti della stampa estera che seguivano il processo, compresa la traduzione simultanea degli interrogatori e quindi dei verbali delle udienze. Questa volta contrariamente alla prassi, la corte concesse all'Ufficio stampa del governo il permesso di scattare fotografie dentro l'aula e di introdurvi persino una telecamera. Poiché il tribunale non aveva
un'aula abbastanza grande per contenere tutti quei giornalisti, le udienze si tennero nel nuovo teatro Beit Haam, che fu completato in gran fretta. «Un posto niente male per il processo-spettacolo che David Ben Gurion aveva in mente quando decise di far rapire Eichmann» annotò Hannah Arendt nel libro importante e provocatorio che scrisse al termine del processo.
CAPITOLO XIX «SEI MILIONI DI VOLTE NO!» Il processo si aprì nell'aprile del 1961, un anno dopo l'arrivo di Eichmann in Israele. Il primo capo di imputazione era di aver causato, «in concorso con altri», la morte di milioni di ebrei. Eichmann si dichiarò non colpevole, «nel senso dell'accusa» come precisò, quasi che in qualche altro senso si ritenesse colpevole. L'imputato era rinchiuso in una gabbia di vetro antiproiettile, costruita apposta per proteggerlo. Gideon Hausner, che lo vide per la prima volta in aula, parlò di «occhi sconcertanti», che «bruciavano di un odio insondabile» durante il controinterrogatorio, di mani «spaventose, simili ad artigli» (un giornale ne pubblicò la fotografia). In realtà l'uomo nella gabbia di vetro aveva l'aria mite e un principio di calvizie, indossava il doppiopetto, portava gli occhiali e aveva un tic nervoso all'angolo della bocca. Sfogliava in continuazione la pila di documenti che aveva davanti a sé. Hausner era convinto che Eichmann recitasse: «IL principe delle tenebre è un gentiluomo» disse, citando Re Lear. Il processo ebbe un avvio lento. L'avvocato difensore di Eichmann, il tedesco Robert Servatius, rotondo e rubizzo, sollevò diverse eccezioni. Contestò il diritto di Israele a processare Eichmann dopo averlo rapito in Argentina; mise in discussione la validità della legge in base alla quale Eichmann veniva processato e l'imparzialità dei giudici israeliani. Le sue argomentazioni occuparono un'intera, esasperante, settimana. I giornali manifestarono la loro delusione: non era così che si erano immaginati il primo atto di quel dramma di portata storica. Un amico consigliò a Hausner di dare risposte molto concise alle eccezioni sollevate dalla difesa: «Devi capire che ci sono seicento corrispondenti esteri. Molti resteranno qui soltanto per una settimana. (Nota: Nel corso del dibattimento egli cercò di dimostrare che Eichmann aveva ucciso con le sue mani un bambino ebreo, sorpreso
a rubare qualche ciliegia dall'albero nel cortile della sua casa a Budapest. Fu assolto per insufficienza di prove.) Non riusciranno neanche a vedere l'inizio del processo vero e proprio. Le controversie giuridiche li annoiano. Pensa a quello che scriveranno sui loro giornali». Ma questo è un processo, replicò il procuratore, non uno spettacolo. Nel suo libro, tuttavia, riconobbe, quasi scusandosi, che l'amico non aveva tutti i torti, che lui si era dimenticato della stampa. Nel frattempo Hausner continuava a scrivere e riscrivere il suo discorso d'apertura, alla ricerca di una sintesi che esprimesse l'atteggiamento ufficiale di Israele nei confronti dell'Olocausto. Non appena ne ebbe completata la stesura, inviò il documento in visione al primo ministro, perché facesse le sue osservazioni. Certo, la procedura era un po' insolita, un altro segnale che in quel processo l'aspetto giuridico era secondario. Ben Gurion lesse soltanto la prima parte del documento, il resto lo ritenne «poco rilevante» dal punto di vista politico. Suggerì tre modifiche, tutte e tre volte a tutelare l'immagine della Germania Ovest e ad attenuare le colpe dei tedeschi. Il leader dettava la storia del suo popolo, arrivando a scegliere anche le parole: «Ogni volta che si fa riferimento ai crimini "della Germania", a mio avviso bisognerebbe dire "della Germania nazista"». Non gradì neppure che si parlasse di fatalità del nazismo, per varie ragioni. Anzitutto perché dubitava «che nella storia ci sia qualcosa di inevitabile», poi perché era «quasi convinto» che se «l'Europa, in particolare la Francia e l'Inghilterra, non fosse stata cieca e avesse reagito subito quando Hitler invase la Renania in violazione del trattato di Versailles, quando annetté l'Austria e attaccò la Cecoslovacchia, il suo regime non avrebbe retto e non ci sarebbero state né la seconda guerra mondiale, né le atrocità naziste contro gli ebrei». E precisò: dire, come faceva Hausner, che il nazismo era inevitabile significava fornire al regime hitleriano «una giustificazione pseudoscientifica» e indebolire la posizione dell'accusa. Per di più non si poteva escludere che nascesse anche un dibattito, «inutile ai nostri fini», sull'andamento generale della storia tedesca, se non addirittura sul carattere tedesco e sulla questione se possa esistere «una Germania diversa». Hausner espunse l'intero paragrafo. Con la terza modifica
Ben Gurion mirava a spostare l'accento dalle colpe collettive dei tedeschi a quelle specifiche del Fùhrer: «Ritengo che Adolf Hitler debba avere la preminenza su Adolf Eichmann, anche se è Eichmann l'imputato» spiegò il premier al procuratore generale. «Credo sia necessario menzionare per primo il principale responsabile e soltanto dopo Eichmann.» Neppure Hausner era soddisfatto del suo discorso: gli sembrava che non esprimesse, come invece desiderava, il succo dell'intero processo. Alla vigilia dell'udienza non riuscì a chiudere occhio. All'alba scarabocchiò alcune frasi su un foglietto, svegliò la moglie e gliele mostrò. «Va bene» disse lei. Il discorso cominciava così: Mentre mi accingo a presiedere, davanti a voi, giudici di Israele, il processo contro Adolf Eichmann, io non sono solo. Con me ci sono sei milioni di accusatori. Ma essi non possono alzarsi in piedi e puntare il dito verso la gabbia di vetro, gridando all'uomo seduto là dentro: «Io accuso». Non possono, perché le loro ceneri sono ammucchiate sulle colline di Auschwitz e nei campi di Treblinka, disciolte nei fiumi della Polonia e sparse per ogni angolo d'Europa. Il loro sangue grida, ma le loro voci sono mute. Io sarò dunque il loro portavoce e in nome loro pronuncerò questo terribile atto d'accusa. La storia del popolo di Israele è intrisa di dolore e di lacrime. ... Il faraone d'Egitto ha torturato e oppresso gli ebrei e gettato nel fiume i suoi figli. Aman ha dato ordine di assassinarli, annientarli, cancellarli dalla faccia della terra; Chmielnicki li ha massacrati, Petijura ha organizzato i pogrom. Ma mai, lungo tutto il suo cammino insanguinato, questa nazione ha subito uno sterminio come quello ordinato da Hitler ed eseguito dal suo agente, Adolf Eichmann. Non c'è nella storia nessun altro esempio che richieda un'accusa come quella che avete appena udito. Persino i misfatti più orribili e atroci di Nerone, di Attila o di Gengis Khan, archetipi della barbarie e della sete di sangue, sinonimi del male e dell'infamia, impallidiscono di fronte alle atrocità e ai terrori della distruzione che verrà descritta in quest'aula. Dal prologo si capì quale sarebbe stato lo svolgimento del processo: più che la ricerca della verità, sarebbe stata un'esperienza emotiva. Pur volendo dimostrare che lo sterminio degli ebrei era un crimine unico al mondo, un genocidio, Hausner presentò l'Olocausto come l'anello di una lunga catena di
persecuzioni antisemite, che, cominciate nel più lontano passato, erano proseguite con i pogrom ucraini di Bogdan Chmel'nickij nel XVII secolo e con quelli di Simon Petijura nel XX. Quella che espose era la concezione sionista della storia, e non dispiaceva neppure alla Germania. Accennò soltanto di sfuggita ai fattori che avevano portato all'ascesa del nazismo, alle caratteristiche del regime hitleriano e alle cause che avevano spinto milioni di persone a credervi e ad appoggiarlo. (Nota: Nell'estate del 1947 il rabbino Yitzhak Meir Levin, segretario del partito Agudat Yisrael, fu ascoltato come testimone dalla commissione d'inchiesta dell'ONU, che in seguito raccomandò la spartizione della Palestina in due Stati. Egli disse: «Non sono qui a testimoniare da solo. Sei milioni di anime di ebrei sono qui in lacrime davanti a noi. Il loro sangue ribolle e non vuole tacere». E nell'inverno del 1952, Dov Shilansky, sotto processo al tribunale distrettuale di Tel Aviv, dichiarò di non essere andato da solo al ministero degli Esteri con la sua bomba nella borsa: lo accompagnavano «sei milioni di scheletri». Anche l'espressione solenne, biblica, «giudici di Israele», era già stata usata da Moshe Silberg nella sua sentenza contro un kapò.) Hausner non analizzò la natura del razzismo né il modo in cui i nazisti riuscirono a utilizzare la macchina burocratica dello Stato per assassinare gli ebrei. «Ci si domanda e ci si continuerà a domandare: "Com'è potuto accadere? Com'è stato possibile nel XX secolo?". Temo che neppure noi in questo processo» fu la risposta «riusciremo ad arrivare alle radici di questo male.» Accusò Adolf Eichmann di avere «progettato, avviato, organizzato e comandato ad altri di versare quell'oceano di sangue». E tuttavia fin dalle prime battute del suo discorso si capì che al centro della scena non ci sarebbero stati i misfatti di Adolf Eichmann, ma le sofferenze degli ebrei. E si capì anche che il procuratore non avrebbe insistito sul dovere di ogni persona di rispettare, anche in tempo di guerra, i princìpi fondamentali dell'etica umana. Così come si capì che sarebbero stati ignorati i dilemmi e le ambiguità che nascono dal conflitto fra l'obbedienza alla legge e la disobbedienza a ordini
«manifestamente illegali». Il processo si concentrò da un lato sull'incapacità degli ebrei di opporsi ai loro aguzzini, dall'altro sui tentativi di resistenza, ignorando quasi completamente gli Judenrat. Hausner infarcì il suo discorso di nomi famosi, da Heinrich Heine a Sigmund Freud, da Albert Einstein a Marc Chagall, e nel passo dedicato al sionismo, in cui esaltava uno spirito di unità nazionale tutt'altro che evidente nella politica israeliana dell'epoca, citò il primo ministro David Ben Gurion. Rivolse il suo discorso ai credenti e ai non credenti, alla destra e alla sinistra. Presentò la storia degli ebrei d'Europa come la storia di tutto il popolo ebraico e non accennò minimamente agli ebrei del mondo arabo. Dal punto di vista ebraico, l'ebraismo europeo di prima dell'Olocausto era il cuore della nazione, la sorgente della sua vitalità. Quasi tutti i grandi pensatori e leader ebrei sono vissuti o nati in Europa: i più famosi studiosi della Torah, gli eredi del Gaon, il rabbino Eliahu di Vilnius della celebre yeshivah Volozhin; la yeshivah di Slobodka, alla periferia di Kovno, che perpetuava la tradizione degli studi lituani nello spirito di Rabbi Yitzhak Eihanan. Dall'Europa sono venuti il rabbino Kook e l'Hafetz Haim, sono venuti i visionari dello Stato, i forgiatori del nazionalismo ebraico, i suoi leader, pensatori e scrittori. Era la comunità che nelle ultime generazioni ha prodotto Herzl e Nordau, Ahad Haam e Pinsker, Bialik, Cernichovskij, Sholem Aleichem e Shneur, Weizmann, Ben Gurion e Jabotinsky. Dall'Europa sono venute la prima e la seconda ondata migratoria degli indomiti pionieri di Israele, che hanno posto le fondamenta per la costruzione dello Stato. Dall'Europa sono venuti i sognatori e i combattenti che hanno forgiato lo stile di vita, il pensiero e l'immagine dell'ebreo nuovo, uomini come A.D. Gordon, Beri Katznelson, Kurt Blumenfeld, Shmaryahu Levin e molti, molti altri.* Anche per Hausner, come per Ben Gurion, le vittime dell'Olocausto erano sionisti: «I milioni che sono stati sterminati erano quelli che aspettavano lo Stato ebraico e non ebbero il privilegio di vederlo». Per due volte citò poesie in yiddish, tradotte in ebraico. Parlò per otto ore. «Ho percepito che il tremito del mio corpo era lo stesso che percorreva l'aula, benché fossi di spalle, rivolto verso i giudici» scrisse nel suo libro. «Quando finii, udii un pianto silenzioso fra il pubblico.» Il discorso fece davvero grande impressione. Il poeta
Haim Guri, che seguiva il processo per conto del quotidiano «Lamerhav», definì Hausner uno dei «grandi lamentatori» e aggiunse: «Mai un uomo nato da donna ha detto a un suo simile le cose che Gideon Hausner ha detto oggi a Adolf Eichmann». Da quel giorno il processo diventò l'avvenimento principale nella vita di molti israeliani. Facevano ore di fila per potervi assistere. La sala del vicino convento di Ratisbonne, in cui si proiettavano in diretta le udienze, era anch'essa sempre gremita. In Israele non c'era ancora la televisione, ma la radio trasmetteva per intero il dibattimento, e tutti restavano incollati all'apparecchio, negli uffici, nelle case, nei caffè, nei negozi e nelle fabbriche. I racconti dell'orrore si mescolavano ai rumori della quotidianità. In molte scuole le lezioni venivano sospese per ascoltare le udienze. Alcune furono tradotte in yiddish e Natan Alterman commentò: «Venivano i brividi a sentire quelle parole nella lingua dei massacrati e degli arsi vivi: "Mir transmitern die ershte zitsung fun Eichmann protses" (Trasmettiamo la prima udienza del processo Eichmann). ... Nella storia della comunione e della rivalità fra queste due lingue, l'ebraico e l'yiddish, non c'è mai stato un momento altrettanto profondo e solenne». Fra i tanti personaggi evocati da Hausner, soltanto due erano ancora in vita: Ben Gurion e Kurt Blumenfeld. Il secondo, un ex militante del movimento sionista tedesco, era uno dei più stretti collaboratori del ministro della Giustizia Pinhas Rosen. Nell'identificare la storia ebraica e l'ebraismo europeo, il pensiero di Hausner era analogo a quello di Ben Gurion: «La presenza di Dio ha abbandonato la comunità ebraica orientale, la cui influenza all'interno della nazione ebraica si è molto ridotta quando non è del tutto cessata. Negli ultimi secoli l'ebraismo europeo è stato all'avanguardia della nazione per quantità e per qualità». L'ebraismo europeo, proseguiva Ben Gurion, «aveva forgiato l'immagine del popolo ebraico nel mondo intero», mentre gli ebrei dei paesi arabi avevano svolto nello stesso periodo «soltanto un ruolo passivo nella storia del popolo». Poi entrò in scena quella che Hausner nelle sue memorie definì «la parata dei testimoni dell'Olocausto». Moltissimi erano stati convocati come «testimoni sul contesto storico». Lo sterminio degli ebrei era un dato di fatto, non occorreva dimostrarlo. La difesa non ne negava
l'esistenza. I giudici espressero più volte la loro perplessità di fronte ad alcune testimonianze, che sembravano irrilevanti rispetto alle accuse rivolte all'imputato. Chiesero ripetutamente che il dibattimento si concentrasse sulle azioni compiute da Eichmann, ma Hausner continuò imperterrito a chiamare uno dopo l'altro i testimoni che aveva scelto: rappresentanti di paesi, comunità, ghetti, campi di concentramento e persino correnti politiche. Quando cominciavano a raccontare, erano come fiumi in piena, inarrestabili. Ma non parlavano di stermini di massa, dell'organizzazione che li attuava, degli orari dei treni di cui era responsabile Eichmann: parlavano del terrore della morte. Era la loro storia quella che narravano, e da essa sgorgava la forza delle parole che pronunciavano. Menahem Begin aveva definito l'Olocausto un'esperienza collettiva nella storia della nazione, Hausner lo riteneva un capitolo nella vita di ciascun superstite. Spronandoli a liberare il grumo di dolore imprigionato fino ad allora dentro la memoria, Hausner li redimeva e con loro redimeva un'intera generazione. Il processo fu una terapia di gruppo per tutto il paese. Fu questo il senso della comparsa in aula dello scrittore Katzetnik (Yehiel De-Nur), che svenne mentre rendeva la sua testimonianza. Prima delle udienze, Hausner aveva chiesto ai suoi testimoni di raccontare tutte le atrocità subite, senza nascondere nessun dettaglio, neppure i più scabrosi. Lui stesso aveva dato l'esempio nel discorso d'apertura: «Nella cella di quelli condannati a morire di fame, un prigioniero morto giaceva su un altro morto, al quale aveva strappato il fegato. La morte l'aveva colto mentre se ne cibava». Le testimonianze sulla sterilizzazione venivano rese a porte chiuse soltanto se lo richiedeva il teste. «Ascoltare fu una tortura» scrisse Hausner. «Avevo la sensazione di respirare i gas e di sentire l'odore acre della carne bruciata.» Ogni tanto qualche spettatore sveniva e doveva essere portato via in lettiga. «Non uno di noi uscirà di qui uguale a prima» commentò Haim Curi. Rivka Joselewska di Ramat Gan raccontò in yiddish com'erano morti gli abitanti del suo villaggio. I nazisti li avevano uccisi dopo averli fatti spogliare sull'orlo di una grande fossa. I genitori e la sorella erano stati ammazzati davanti ai suoi occhi dallo stesso soldato. Poi era arrivato il suo turno. Stringeva fra le braccia la sua bambina. Il
tedesco le aveva chiesto a chi doveva sparare per prima, se a lei o alla figlia. Non aveva risposto. Aveva sparato alla bambina. Poi aveva sparato a Rivka, che era caduta dentro la fossa. «Pensavo di essere morta» raccontò. Era sepolta sotto un cumulo di corpi, molti dei quali ancora agonizzanti. Le mancava l'aria. «I feriti mi trascinavano, mi mordevano, mi graffiavano, mi tiravano giù. E nonostante tutto, con le ultime forze sono risalita...» Adesso era sposata e aveva due figli. Più di venticinque superstiti raccontarono episodi di violenze sessuali sui bambini. «Volevo delle testimonianze sulla sorte dei nostri ragazzi, perché i giovani sapessero che cosa era accaduto» dichiarò Hausner anni dopo in un'intervista a «Maariv». «Sarebbe stato più facile per loro identificarsi con i coetanei e mettersi nei panni delle vittime.» La prima reazione fu invece di repulsione. Moritz Fleischman, un funzionario sionista in Austria durante il nazismo, descrisse l'umiliazione degli ebrei nelle strade di Vienna. E Haim Curi commentò: «Non voglio più ascoltare l'interminabile litania di quest'omino distrutto sulle sue sofferenze, malattie, umiliazioni, e neppure il giubilo della folla alla vista dei suoi confratelli: "Ci hanno malmenato, avevamo fame, eravamo bagnati come le pareti di un orinatoio". ... Non voglio vederlo e non voglio ascoltarlo. Oggi vorrei essere alla parata della Nahai [un'unità dell'esercito], allo stadio, a vedere uomini belli e forti». Qualche mese dopo si cominciò a parlare dell'Ungheria. «E allora l'ombra di un altro processo calò sull'aula» scrive nel suo libro Hausner. Ma, prima, il procuratore svolse una missione politica: «Ho chiesto ai gruppi di immigrati ungheresi di non litigare. Questo è il processo allo sterminatore e non alle sue vittime, ho detto». Tutti avevano promesso, ma Hausner sapeva che c'erano ancora vecchi rancori fra loro e anche fra i dirigenti sionisti. «Bisognava procedere con estrema cautela. Avevamo preparato i capi di imputazione riguardanti l'Ungheria con molta cura, esaminando ogni questione da tutte le angolature possibili. Se n'era incaricato Gabriel Bach, il viceprocuratore. L'avevo informato che avrei scartato in partenza tutti i testimoni che avessero lasciato trasparire l'intenzione di servirsi del processo per polemizzare a favore o contro Kastner.» Due furono sicuramente cancellati dall'elenco. «Bach» ha scritto Hausner «ha
convocato quasi tutti i testimoni sull'Ungheria e li ha trattati con il consueto tatto, riuscendo a evitare le trappole.» Ma durante la deposizione di uno dei leader della comunità ebraica ortodossa di Budapest, dal pubblico si levò una voce, che gridò in ungherese: «Ci avete tranquillizzati per non farci fuggire, per salvare voi stessi e le vostre famiglie!». Si presentò a deporre anche Joel Brand. Nelle sue memorie Hausner ricostruisce la testimonianza di Brand con compassione ma anche con qualche riserva: «Ho capito che quell'uomo era un ricettacolo di ricordi e nient'altro. Non aveva né presente, né futuro. La sua vita era stata spezzata molto tempo prima. ... Ora poteva tornare indietro e raccontare ancora una volta la storia della sua missione fallita, come un disco rotto che ripete ossessivamente la stessa nota». Questa volta, però, Hausner poteva fare quello che il suo collega al processo Kastner non aveva fatto: sottoporre alla corte una raccolta di documenti provenienti dagli archivi Weizmann, che mostravano tutti i tentativi attuati dai dirigenti sionisti per convincere le autorità britanniche a intavolare le trattative con i nazisti intorno alla proposta che Eichmann aveva avanzato a Brand. Con quelle carte il procuratore intendeva provare che i leader dell'Agenzia ebraica avevano fatto tutto quanto era in loro potere. «Ho condannato con veemenza i governanti della Gran Bretagna e degli Stati Uniti» scrive nelle sue memorie Hausner, citando i titoli della stampa internazionale, fra cui questo: Tutto il mondo è sotto processo qui. Alcuni dei documenti presentati attestavano gli sforzi compiuti dai leader arabi per impedire il salvataggio degli ebrei, a cominciare dal gran muftì di Gerusalemme, che era stato persino ricevuto da Hitler a Berlino. Hausner intendeva dimostrare l'esistenza di «solidi legami» fra il muftì ed Eichmann. La corte accertò che, in effetti, i due si erano incontrati, ma non riuscì a stabilire se il colloquio fosse avvenuto nell'ufficio di Eichmann o in qualche occasione pubblica. Di tanto in tanto Hausner chiedeva ai testimoni di spiegare per quale motivo gli ebrei non avevano opposto resistenza ai nazisti, e altrettanto faceva il giudice Halevy. Fino all'ultimo, spiegavano i superstiti, non avevano creduto di essere condotti nei campi della morte, perché i nazisti ricorrevano a molti trucchi per ingannarli. E poi non avevano armi. Hausner chiamò a deporre anche alcuni partigiani.
«La verità sulla clandestinità e la resistenza era importante in se stessa» scrive nelle memorie, e giovava «all'educazione della nostra gioventù. I giovani, disinformati, continuavano a chiedere perché i ribelli fossero stati così pochi. Il processo era un'occasione per far conoscere a tutto il mondo le centinaia, le migliaia di sconosciuti atti eroici.» Hausner riuscì soltanto in parte a convincere la corte che la storia della resistenza ebraica aveva attinenza con lo sterminio degli ebrei. Fu autorizzato con riluttanza a convocare Tzivia Lubetkin e Antek Zuckerman, perché raccontassero la rivolta nel ghetto di Varsavia. Venne anche Abba Kovner e mostrò alla corte il celebre volantino che aveva scritto nel ghetto di Vilnius, con il quale invitava gli ebrei a «non andare al macello come agnelli». Lubetkin, Zuckerman e Kovner arrivarono con dichiarazioni scritte e Hausner li interruppe raramente con qualche domanda. I leader della rivolta furono liberi di presentare la storia della lotta nel ghetto così come desideravano che fosse ricordata. Eichmann testimoniò che l'offerta «camion contro sangue» non era un bluff. In seguito alla sua testimonianza e alla documentazione presentata in aula, l'avvocato Shmuel Tamir chiese alla Corte suprema di riaprire il processo Gruenwald. Il procuratore generale, Gideon Hausner, si oppose e la Corte respinse la richiesta di Tamir. A un certo punto, durante la deposizione di Kovner, il presidente della corte, Moshe Landau, cominciò a dare segni di impazienza e, quando la deposizione si concluse, richiamò il procuratore. Hausner avrebbe voluto soffermarsi ancora sulla rivolta nel ghetto, ma capì che la corte non glielo avrebbe permesso e che il rifiuto avrebbe gettato un'ombra sulle prove che intendeva esibire. E perciò, «con dolore e dispiacere», desistette. Riuscì comunque a convocare altri due testimoni, uno che parlò della resistenza e l'altro della Brigata ebraica. Il primo, Shalom Holavski, mostrò alla corte una carta da gioco che aveva trovato in casa di un contadino nei pressi della sua città: era fatta con un frammento del rotolo della Torah abbandonato nel ghetto dopo la sua distruzione. Il secondo, l'avvocato Aharon Hoter-Yishai della Brigata ebraica, ricordò il suo primo incontro con i superstiti di un lager: si erano tutti stretti intorno alla jeep della Brigata per baciare la stella di Davide che egli vi aveva incollato. «Questo racconto di un simbolo ebraico giunto
nell'Europa insanguinata a salvare i superstiti» scrisse Hausner «concluse la sfilata dei testimoni per l'accusa.» Avevano deposto in 121 ed erano state presentate diverse centinaia di documenti. L'avvocato difensore, Robert Servatius, fece pochissime domande: le testimonianze non avevano una connessione diretta con i reati imputati al suo cliente. Chiese di chiamare a deporre numerosi testimoni tedeschi, quasi tutti criminali di guerra, ma il procuratore generale si rifiutò di garantirne l'immunità e quindi non fu possibile convocarli a Gerusalemme. Alcuni furono interrogati all'estero, ma pochi parvero disposti a dare una mano a Eichmann. Il principale testimone prodotto dalla difesa fu l'imputato. «Era strano sentire il diavolo in persona giurare nel nome di Dio» ha scritto Hausner. Eichmann non rese a se stesso un buon servizio. Parlava come se tutta la questione si riducesse a un qualche garbuglio burocratico che egli si apprestava a dipanare. No, non era stato il suo dipartimento a decidere l'assassinio degli ebrei, e comunque le decisioni le avevano prese i suoi superiori o i suoi subordinati. Lui aveva soltanto eseguito alla lettera quello che gli veniva ordinato. Non aveva dunque senso chiedergli se provasse rimorso. Certo, riconosceva che lo sterminio degli ebrei era uno dei crimini più orrendi di tutta la storia dell'umanità. Lui, però, era stato soltanto un piccolo ingranaggio in una grande macchina, uno strumento nelle mani di forze più potenti. Aveva semplicemente obbedito agli ordini e se ne lavava le mani come Ponzio Filato. Eichmann si esprimeva nel linguaggio burocratico del Terzo Reich, con frasi lunghe, involute. I traduttori stentavano a capirlo e i giudici preferivano parlargli direttamente in tedesco. Il processo assunse una dimensione grottesca. «E' sbagliato sostenere che sono stato uno dei più fanatici nella persecuzione degli ebrei» dichiarò Eichmann. Mi ha molto turbato e addolorato che dopo la guerra i miei superiori abbiano attribuito a me tutte le colpe. Non ho mai usato espressioni che facessero pensare al fanatismo e le mie mani non sono sporche di sangue. I testimoni hanno descritto una realtà del tutto immaginaria. Le deposizioni e i documenti presentati alla corte sembrano convincenti, ma possono indurre in errore. ... Il giudice mi ha chiesto se desidero confessare, come il comandante di Auschwitz, [Rudolf] Hòss. ... Hòss ha condotto di persona le
esecuzioni di massa. La mia posizione è diversa. Io non ho mai avuto né l'autorità, né la responsabilità per dare ordini. Non ho mai effettuato le esecuzioni come ha fatto Hòss. Se mi fosse stato ordinato, non mi sarei sottratto con qualche debole scusa. Come ho già dichiarato nel mio interrogatorio, non avendo altra scelta se non obbedire agli ordini, mi sarei sparato una pallottola in testa per risolvere il conflitto fra la mia coscienza e il mio dovere. «Con quel suo accento austriaco continua a sputare risposte prefabbricate a domande prefabbricate, e si fa sempre più piccolo. Fra poco ci vorrà la lente di ingrandimento» osservò Haim Curi. Lasciato dal tribunale totalmente libero di esprimere il proprio pensiero. Curi definì la testimonianza di Eichmann «una sequela di fantastiche bugie» e aggiunse: «Se la sua testimonianza durerà ancora una settimana, ci metteremo tutti a piangere e chiederemo che venga liberato e risarcito con tante scuse per averlo sospettato ingiustamente». Poi cominciò il controinterrogatorio. Hausner alzava spesso la voce, una voce tenorile, lievemente nasale e molto penetrante. Aveva un tono ostile e sarcastico. A volte puntava il dito contro l'imputato: la toga nera si tendeva come l'ala di un grande corvo, scura, terrificante e molto teatrale. Nella requisitoria Hausner citò ancora dei versi. Della testimonianza di Rivka Joselewska disse: «Ha sconfitto il piano demoniaco. Volevano ucciderla e lei ha messo al mondo altre creature. Le ossa stecchite si sono ricoperte di nervi, di carne e di pelle, sono risorte dalla tomba e hanno ritrovato l'alito della vita. Rivka Joselewska è il simbolo di tutta la nazione ebraica». Il processo durò quattro mesi, dall'aprile all'agosto del 1961. Il verdetto venne pronunciato a dicembre: era conciso, asciutto, assai diverso dallo stile del procuratore. I giudici si erano basati molto sui documenti e poco sulle testimonianze dei superstiti. Si erano concentrati sui crimini, accennando raramente alle sofferenze delle vittime. Erano stati più metodici del procuratore, più aderenti ai fatti, e molto attenti a non lasciarsi trascinare dalle emozioni o dalle ideologie. Decretarono per prima cosa che lo Stato di Israele aveva il diritto di processare Eichmann. Lo spaventoso massacro di milioni di ebrei da parte dei criminali nazisti, che ha quasi annientato l'ebraismo europeo, è stata una delle principali ragioni della creazione di uno Stato per i superstiti. Lo Stato non può essere
disgiunto dalle sue radici, che affondano nell'Olocausto dell'ebraismo europeo. Metà dei cittadini di questo paese sono immigrati dall'Europa nell'ultima generazione, in parte prima del massacro nazista, in parte dopo. Non c'è quasi nessuno che non abbia perso i genitori, i fratelli, le sorelle, e molti hanno perduto il coniuge e i figli nell'inferno nazista. Nelle sue memorie Gideon Hausner osserva a questo proposito: «Lo Stato di Israele ha così esteso la sua protezione giuridica su tutto il popolo ebraico». Uno degli scopi del processo era stato raggiunto. Eichmann fu condannato per crimini contro il popolo ebraico e crimini contro l'umanità. Soltanto alcuni dei suoi atti contro gli ebrei furono inclusi anche fra i crimini contro l'umanità e fra questi non figurava la «soluzione finale». C'erano invece la deportazione di centinaia di migliaia di polacchi, sloveni e zingari e di diverse decine di bambini del villaggio ceco di Lidice. Eichmann non fu condannato per la loro morte e fu prosciolto anche dall'accusa di avere fatto parte delle SS, perché il reato era caduto in prescrizione. La sentenza esponeva la storia dello sterminio degli ebrei, ma non sollevava la questione della sua unicità e non chiariva il mistero della personalità di Eichmann. «Noi ci fermiamo qui, sconfitti da questo enigma» scrisse Haim Curi. Prima della lettura della sentenza, fu chiesto all'imputato se avesse qualcosa da dichiarare. «Constato che la mia speranza in un processo equo è andata delusa» cominciò Eichmann. «Non volevo uccidere ... la mia unica colpa è l'obbedienza, il mio doveroso servizio in tempo di guerra, la mia fedeltà al giuramento, alla bandiera. ... Non ho perseguitato gli ebrei con accanimento e passione. E' stato il governo a farlo. ... Desidero chiedere perdono al popolo ebraico e confessare la mia vergogna al pensiero di quello che hanno subito, ma, viste le motivazioni di questa sentenza, temo che le mie parole potrebbero essere scambiate per ipocrisia. ... Non sono il mostro che è stato dipinto qui. ... Sono sinceramente convinto di essere stato chiamato a rispondere di azioni commesse da altri. Non mi resta che sopportare quello che il destino mi impone.» Il giudice rispose a Eichmann con queste parole: «Anche se avessimo constatato che l'imputato ha agito, come sostiene, per cieca obbedienza, avremmo ugualmente detto che a un uomo coinvolto per più anni in crimini di queste dimensioni deve essere
comminata la pena più severa prevista dalla legge, una pena che nessun ordine può mitigare. Ma noi abbiamo constatato che l'imputato ha aderito agli ordini che gli venivano impartiti e si è impegnato a fondo per realizzare quell'obiettivo criminale. Nel decretare la pena per crimini così orrendi, non importa stabilire se quest'adesione e questo impegno siano stati, come sostiene l'avvocato della difesa, il frutto dell'ideologia inculcatagli dal regime che gli ha affidato l'incarico». Eichmann fu condannato a morte. Il giorno dopo «Maariv» pubblicò un editoriale in prima pagina con il titolo: Fatelo! Uccidere un uomo, scrisse il commentatore, era sempre difficile, ma in questo caso era un dovere nazionale: «Non perché siamo assetati di sangue o affamati di vendetta ... ma perché, se c'è giustizia a questo mondo, è questo ciò che la giustizia richiede. ... E' una cosa che dobbiamo fare, perché le anime sante e pure delle vittime di Eichmann sappiano, nei luoghi in cui si trovano, che esiste la giustizia». Eichmann si appellò contro la sentenza e guadagnò altri cinque mesi di vita. Al tempo in cui, insieme a centinaia di giornalisti, seguiva il processo Eichmann, Hannah Arendt era già nota per i suoi scritti storici e filosofici e godeva di grande stima negli Stati Uniti. Il suo libro sul processo è in realtà una raccolta degli articoli pubblicati a suo tempo sul «New Yorker». La Arendt aveva assunto fin dall'inizio un tono critico, a volte persino ostile, verso gli aspetti politici e ideologici del processo. Non le piaceva neppure lo stile di Hausner: troppo melodrammatico per i suoi gusti. La studiosa non aveva mai rinnegato le proprie radici ebraiche, tant'è vero che, dopo aver lasciato la Germania, aveva lavorato per un breve periodo per l'organizzazione sionista a Parigi. Con il passare degli anni, però, anche lei, come altri intellettuali per lo più ebrei, cominciò a provare un senso di disagio, quasi di estraneità, verso l'Israele di Ben Gurion, troppo nazionalista, alcuni dicevano addirittura razzista, troppo religioso, troppo rigido sulla questione araboisraeliana, troppo illiberale con le minoranze arabe, troppo arrogante con gli ebrei che avevano scelto di vivere altrove e troppo propenso a considerarsi un modello di virtù. La Arendt non negava il diritto all'esistenza dello Stato di Israele, ma non aveva nessuna simpatia per l'ideologia sionista, e non ne fece mistero nei suoi
articoli sul processo Eichmann. Scrisse per esempio che la pessima qualità della traduzione simultanea in tedesco durante le udienze era il segno della discriminazione di cui erano vittime gli yekke in Israele. Il processo, osservò la Arendt, avrebbe dovuto limitarsi a considerare il ruolo di Eichmann nello sterminio degli ebrei e non raccontare la storia dell'Olocausto. I reati che Eichmann aveva commesso erano più che sufficienti a incriminarlo e a giustificarne la condanna a morte; il genocidio degli ebrei avrebbe dovuto essere considerato un crimine contro l'umanità. La studiosa pareva ignorare che, se Israele avesse voluto soltanto punire Adolf Eichmann, non avrebbe avuto bisogno di rapirlo, avrebbe potuto liquidarlo in via Garibaldi a Buenos Aires. Per Israele il processo era soltanto un mezzo: il ruolo di Eichmann era di stare là dov'era, rinchiuso nella sua gabbia di vetro. Il vero fine del processo era far parlare il popolo ebraico nel cui nome Israele, in base all'ideologia sionista, pretendeva di parlare. Israele non intendeva parlare per tutta l'umanità, anzi rifiutava qualsiasi tentativo di definire l'Olocausto un crimine universale, ritenendo che in questo modo si sarebbe sminuito il significato della «soluzione finale» e negato al popolo ebraico il diritto, unico al mondo, di chiedere l'appoggio delle altre nazioni. Tutto questo per la Arendt era inaccettabile. Quando sentì Golda Meir affermare che lei, da socialista qual era, non credeva in Dio ma nel popolo ebraico, rimase sconvolta. La grandezza del popolo ebraico stava proprio nella sua fede in Dio, disse. Era qui, probabilmente, il nocciolo del suo contrasto con lo Stato di Israele. La Arendt rifiutava il fondamento sionista di Israele e la sua incapacità di distinguere fra «Stato e Chiesa». Se ne andò da Gerusalemme carica di rabbia e il libro ne risentì. Il significato del libro è racchiuso in quello che in inglese è il suo sottotitolo: «Rapporto sulla banalità del male», una definizione che Israele non gradì. Il paese aveva bisogno di un mostro per dare un senso ai terribili ricordi dei superstiti e politicizzarli. La Arendt sosteneva invece che Eichmann non soltanto non era un mostro, ma era un uomo come tanti altri, del tutto normale. La natura del male nazista stava proprio nella sua capacità di corrompere le facoltà morali dell'uomo, non nelle perversioni sadiche che aveva sguinzagliato. La Arendt aveva una visione profondamente pessimista dell'umanità;
le sue idee erano complesse e molti le rifiutarono. Il libro suscitò un grande dibattito internazionale: fu questo il contributo più importante che il processo Eichmann diede indirettamente al pensiero politico del Novecento. Le reazioni quasi isteriche che il libro suscitò in Israele si concentrarono in particolare intorno alle affermazioni della scrittrice sugli Judenrat. Se non avessero collaborato, sosteneva in sostanza la Arendt, i nazisti avrebbero avuto maggiori difficoltà ad attuare i loro piani di sterminio. Non accusava gli ebrei di essere andati come agnelli al macello e anzi criticava Hausner, che aveva continuato a chiedere ai suoi testimoni perché non si erano ribellati. Era un atteggiamento crudele e ingiustificato. Perché aspettarsi che proprio gli ebrei insorgessero contro i nazisti? Non l'aveva fatto nessun altro popolo. Ribellarsi non era possibile e non sarebbe servito. Molti si sarebbero invece salvati se i capi delle comunità ebraiche non avessero aiutato i nazisti a concentrarli nei ghetti, a deportarli verso est e a trasportarli nei campi di sterminio. In sostanza, concludeva la Arendt, la cosa migliore per gli ebrei sarebbe stata non fare niente: il caos che ne sarebbe seguito avrebbe reso più difficile lo sterminio e ridotto il numero delle vittime. Era una tesi che ben si accordava con la sua teoria della banalità del male. Il male nazista era così onnipotente, la sua penetrazione così profonda da coinvolgere persino le vittime, che più volte avevano preferito la collaborazione all'inazione. Fino ad allora era stata la destra israeliana ad accusare gli Judenrat e i leader sionisti di avere collaborato con i nazisti. Che ora fosse Hannah Arendt a sostenere la stessa tesi era un po' paradossale, ma non era questo l'unico paradosso. I consigli ebraici erano sempre stati considerati un fenomeno vergognoso, antitetico alla rivolta dei ghetti. Il processo Eichmann li aveva quasi completamente ignorati, sottolineando invece la resistenza, che incarnava la «risolutezza» sionista, contrapposta «alla degenerazione spirituale e alla passività degli ebrei della Diaspora» di cui erano espressione gli Judenrat. Ma Hannah Arendt contestava tale distinzione e accusava non soltanto gli Judenrat, ma anche i sionisti. La posizione assunta da Hannah Arendt non giovò di certo ai sostenitori della tesi espressa con tanta chiarezza dal procuratore generale al processo Eichmann. Essi non avrebbero voluto
difendere gli Judenrat, ma dovettero farlo perché era stato chiamato in causa anche il sionismo. Alcuni stravolsero il ragionamento della Arendt e l'attaccarono sul piano personale. L'Università ebraica di Gerusalemme approvò una tesi di dottorato secondo cui nel pensiero della studiosa si poteva rintracciare l'«influenza occulta» dell'antisemitismo e addirittura echi di Mein Kampf nella concezione dei rapporti fra gli ebrei e lo Stato, e del ruolo che essi avevano nella società. Altri l'accusarono di minimizzare le colpe di Eichmann per dipingere gli ebrei come affetti da «masochismo», da «odio verso se stessi». Nelle celebrazioni al memoriale di Yad Vashem alcuni oratori cercarono di spostare il dibattito dal comportamento degli Judenrat all'«onore dei morti» macchiato dalla Arendt. Il bollettino di Yad Vashem scrisse che i metodi e le conclusioni della studiosa rischiavano di fare il gioco dei gruppi neonazisti. In Israele gli attacchi più violenti furono portati da Martin Buber e dalla sua cerchia, irritati soprattutto per le dure critiche che la Arendt aveva rivolto ai leader della comunità ebraica in Germania. Gershom Scholem la accusò di avere dimostrato poco «amore per il popolo ebraico». La banalità del male, pur essendo uno dei testi più importanti sull'Olocausto, meritevole di una discussione intelligente, non è mai stato tradotto in ebraico, a parte qualche capitolo pubblicato da «Haaretz». E' stato invece tradotto un saggio che accusa la scrittrice di avere distorto la verità. Negli archivi israeliani giace il manoscritto di un altro libro mai uscito in Israele, l'autobiografia di Adolf Eichmann. Gideon Hausner spiegò a David Ben Gurion che la sua pubblicazione avrebbe potuto insinuare dei dubbi sull'equità del giudizio, poiché vi si contestava il verdetto. Eichmann aveva avuto la possibilità di esporre il suo punto di vista durante il processo e lo Stato di Israele non era tenuto a fargli pubblicità, disse il procuratore. Il premier impose il segreto di Stato sul manoscritto. A differenza di diversi suoi ministri. Ben Gurion non assistette a nessuna udienza, ma questo non gli impedì di definire, e giustamente, il 1961 l'anno del processo Eichmann. Gli orrori dell'Olocausto non erano mai stati così presenti in Israele né nell'immediato dopoguerra, né durante i processi di Norimberga. Fu un momento di svolta. Gli atroci ricordi riaffiorati dalle profondità del silenzio innescarono nel paese un
processo di identificazione con le sofferenze delle vittime e dei superstiti. Haim Guri, che, ascoltando i primi testimoni, aveva provato un senso di vergogna, verso la fine del dibattimento scrisse: «Dobbiamo chiedere perdono ai tanti che abbiamo giudicato nei nostri cuori, noi che vivevamo fuori dei confini di quel Regno. Quante volte li abbiamo giudicati senza domandarci se ne avessimo il diritto». Anche molti giovani cominciarono a interessarsi dell'Olocausto. Un paio di settimane prima della requisitoria del procuratore generale al processo Eichmann, uno stimato professore di filosofia dell'Università ebraica, il settantottenne Shmuel Hugo Bergmann, ricevette una lettera da tre sue ex allieve: avevano letto sul giornale la notizia che Bergmann intendeva rivolgere al tribunale una petizione contro la condanna a morte di Eichmann. L'anticipazione del giornale era sostanzialmente esatta. Nato a Praga, amico d'infanzia di Franz Kafka, Bergmann si era iscritto poco dopo il suo arrivo a Gerusalemme a Brit Shalom, un'organizzazione che si batteva per la coesistenza pacifica fra gli israeliani e gli arabi basata sul compromesso. Il professore rispose così: Sono assolutamente contrario alla pena di morte sotto qualsiasi forma. Che uomini esperti di legge se ne stiano seduti tranquillamente a decretare, con ragionamenti freddi e obiettivi, che un uomo debba essere impiccato, e che la sentenza sia eseguita non da loro, ma da altri pagati per questo, è ai miei occhi la peggiore crudeltà. Chi li ha autorizzati a togliere la vita, privando in tal modo il reo della possibilità di pentirsi dei suoi peccati finché è ancora in questo mondo? Soltanto colui che crea la vita ha l'autorità per togliere la vita. ... L'imputato ha commesso quelle azioni terribili una ventina di anni fa, in un contesto storico e psicologico completamente diverso. Nel frattempo egli ha vissuto per quasi vent'anni in altre circostanze, più o meno normali, e ho forti dubbi che la persona giudicata oggi sia la stessa che ha commesso quei reati in gioventù, in un mondo del tutto diverso, pur non sapendo o se egli si sia davvero pentito. Non intendo con questo dire che i suoi reati sono caduti in prescrizione, ma che da allora il mondo è profondamente cambiato.... Quanto all'uomo in questione, la pena di morte è una punizione molto più mite dell'ergastolo in una prigione israeliana. L'orrenda esperienza dell'Olocausto ha già lasciato su di
noi e dentro la nostra anima la sua impronta. I complessi che ci tormentano da centinaia di anni, e che io chiamo globalmente il «complesso di Amalec», si sono risvegliati. Sono convinto che l'Altissimo, benedetto sia il Suo nome, ci ha scelti perché fossimo una fiaccola per le altre nazioni. Questa missione spiega forse perché siamo «un popolo che vive nella solitudine», purché questo avvenga per amore dell'umanità, per senso di responsabilità verso coloro nei confronti dei quali siamo stati chiamati a indicare la via che porta al nostro Padre celeste, che è il Padre di tutti noi. Ma proprio in questo consiste il terribile dilemma e il pericolo per la nostra anima e per la nostra missione: che l'isolamento diventi un fine, che si disprezzino gli altri perché «non circoncisi», «impuri» eccetera, rinunciando in tal modo al nostro ruolo fra le nazioni. Sono assolutamente certo che la clemenza verso quest'uomo spezzerà la catena dell'odio e introdurrà un barlume di salvezza nel mondo. Così come sono certo che l'esecuzione capitale incrementerà l'odio nel mondo, l'odio contro di noi e il nostro odio contro gli altri, e aiuterà il demonio a riportare una grande vittoria sulla terra. Bergmann aveva già annotato nel diario, che teneva in tedesco, il suo pensiero: «Fin dai tempi dei tempi, nel giudaismo si sono contrapposte due tendenze. Una è isolazionista, odia lo straniero, alimenta il complesso di Amalec e non perde occasione per ammonire "Ricorda ciò che ti hanno fatto". Ma c'è anche l'altra, che richiama il comandamento "Ama il prossimo tuo come te stesso". Questo è il giudaismo '; che prega "Fa' che io dimentichi Amalec", un giudaismo di amore e di perdono». E' questa la chiave per capire la divisione di fondo che caratterizza la politica israeliana, tesa fra l'isolazionismo nazionalistico e l'apertura umanistica. In un'altra pagina del diario Bergmann scrive semplicemente: «Ci sono due popoli in Israele». Ogni tanto il professore faceva visita al suo amico e collega Martin Buber, che abitava poco lontano in una casetta di pietra circondata dai cactus. Buber, che aveva allora ottantatré anni, amava ricevere gli ospiti in uno studio tappezzato di libri e illuminato fiocamente. D'inverno la stufa a kerosene, accanto alla quale stava raggomitolato il gatto, diffondeva un calore giallastro. Nel dicembre del 1961, quando fu pronunciata la condanna a morte di Eichmann, Buber e diversi
studiosi di Gerusalemme invocarono clemenza. Erano quasi tutti vecchi militanti di Brit Shalom, nati in Europa. L'appello a risparmiare la vita al condannato, se da un lato testimoniava un certo distacco intellettuale dalle emozioni che turbavano i cuori di quasi tutti gli israeliani, dall'altro richiedeva anche molto coraggio e audacia. Fra le carte del fondo Buber sono conservate decine di lettere minatorie che ricevette quando la sua iniziativa divenne pubblica. A raccontare la riunione nello studio di Buber e la redazione dell'appello al presidente Yitzhak Ben-Zvi perché commutasse la pena di morte inflitta a Eichmann è lo stesso Bergmann nel suo diario. All'incontro era stato invitato Pinhas Rosen, che non aveva voluto aderire apertamente all'iniziativa ma aveva dato dei consigli su come impostare l'appello. Anch'egli era contrario all'esecuzione di Eichmann. La lettera al presidente di Israele, nella sua versione definitiva, diceva: Non le rivolgiamo questo appello in difesa della vita [di Eichmann], perché sappiamo che nessun uomo è meno degno di pietà di lui, e non le chiediamo di perdonarlo. Quello che le chiediamo è [di commutare la pena di morte] per il bene del nostro paese e del nostro popolo. Siamo convinti che concludere il processo con l'esecuzione di Eichmann non giovi all'immagine dell'Olocausto e ne falsi il valore storico e morale. Non vogliamo che la nemesi ci trascini a nominare un boia fra di noi; se lo faremo, sarà la vittoria della nemesi, e noi non vogliamo questa vittoria. Tutti coloro che nel mondo odiano Israele desiderano vederlo cadere in questa trappola. L'esecuzione della pena capitale offrirà a costoro il pretesto per proclamare che i crimini dei nazisti sono stati espiati, che per il sangue versato è stato pagato al popolo ebraico un riscatto di sangue. Non prestiamoci a questo gioco; evitiamo che nasca anche il solo sospetto che sia possibile riscattare il sacrificio di sei milioni di ebrei con l'impiccagione di quest'uomo malvagio. Oltre a Buber, Bergmann e Gershom Scholem, firmarono la lettera diciassette persone, quasi tutti professori dell'Università ebraica. La sottoscrissero anche la poetessa Leah Goldberg e il pittore gerosolimitano Yehuda Bacon, uno dei testimoni dell'accusa. Bacon era stato internato ad Auschwitz, insieme ad altri ragazzi, all'età di quattordici anni. I nazisti li avevano costretti a svolgere vari
compiti, fra cui quello di spargere le ceneri dei morti sui sentieri innevati del lager perché non si scivolasse. Ogni tanto avevano il permesso di riscaldarsi nei crematori e persino nelle camere a gas, come aveva raccontato Bacon al processo. Il procuratore aveva mostrato alla corte alcuni suoi disegni che ritraevano l'interno delle camere a gas. In Israele Bacon aveva ascoltato un giorno una conferenza di Buber su Giobbe e poi l'aveva accompagnato a casa. Lungo la strada avevano discusso se la fede avesse ancora ragione di esistere dopo Auschwitz. «Non dimenticherò mai quella notte» scrisse Bacon in una cartolina a Buber. «Al ritorno, nella mia stanza, ho pianto di felicità.» Come Gideon Hausner aveva colto nello spirito indomito di Rivka, Joselewska un simbolo del destino del popolo ebraico, così Shmuel Hugo Bergmann vide un simbolo della nazione nella disponibilità di Yehuda Bacon a firmare la petizione per salvare la vita a Eichmann. «Mi è sembrata la prova che il giudaismo dell'amore e della compassione era ancora vivo dopo l'Olocausto» scrisse nel diario. «L'altro giudaismo, quello di Amalec e della vendetta, questa volta ha vinto ed Eichmann è stato giustiziato. Eichmann da vivo era una nullità. Ma ora, con le nostre stesse mani abbiamo creato un mito intorno al quale si raggrumerà l'odio per Israele. Il giudaismo dell'amore e della compassione è stato sconfitto. Ma la firma di Yehuda Bacon sulla petizione al presidente promossa da Martin Buber significa anch'essa qualcosa. E la nostra lotta per la purezza di Israele continuerà con dignità e forza ancora maggiori.» L'iniziativa di Buber, sostenuta da pochi e denigrata da molti, è degna di nota anche perché l'uomo che «Time» definì il più grande filosofo ebraico del mondo e «Maariv» paragonò a «un antico profeta», non si accontentò di vergare una petizione. Chiamò infatti l'ufficio del primo ministro e chiese un colloquio per esporre le ragioni della sua opposizione all'impiccagione di Eichmann. Il settantacinquenne Ben Gurion ritenne che, essendo più giovane di Buber, spettasse a lui andare a casa del filosofo. Rimase seduto ad ascoltare per quasi due ore, ma non si lasciò convincere. Altrettanto fece il procuratore generale Hausner. La condanna della stampa fu quasi unanime. «Perdonare Eichmann?» domandava «Maariv». «No! Sei milioni di volte No!» Ma ormai la questione era posta, grazie anche alla campagna di Buber, e il
governo si riunì in seduta straordinaria per discuterne. Ben Gurion lesse ai colleghi la lettera che gli aveva inviato, pare su sollecitazione di Buber, uno studioso americano di origine ebraica, Morris S. Friedman: poiché non esisteva nessuna punizione che fosse adeguata, suggeriva di liberare Eichmann. Bisognava eseguire la sentenza, disse invece Hausner ai ministri: «Lo dobbiamo ai superstiti dell'Olocausto». La questione fu messa ai voti e la maggioranza si pronunciò a favore dell'impiccagione. La minoranza chiese allora una seconda votazione, affinchè dai verbali risultasse che la decisione era stata presa all'unanimità. Al presidente Ben-Zvi bastò appena qualche ora per respingere gli inviti alla clemenza, compresa la richiesta di grazia avanzata dal condannato. A margine del foglio vergato da Eichmann, Ben-Zvi scrisse le parole del profeta Samuele su Amalec: «Come la tua spada ha privato di figli le donne, così tra le donne sarà privata di figli tua madre» (Samuele 15,33). Adolf Eichmann fu impiccato nella prigione di Ramla la sera del 31 maggio 1962. Poco prima aveva chiesto, e ottenuto, una bottiglia di vino bianco e aveva rifiutato di recitare le preghiere con il pastore canadese William Hall. «Viva la Germania, viva l'Argentina, viva l'Austria! Non le dimenticherò!» gridò davanti al gruppetto di giornalisti autorizzati ad assistere all'esecuzione. Era tutto qui Eichmann, commentò Hannah Arendt: «Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole». Qualche secondo dopo era morto. Fu cremato e le sue ceneri disperse in acque internazionali, lontano dalle coste di Israele. Molti anni dopo Yeshayahu Leibowitz, uno studioso di Gerusalemme noto per le sue opinioni poco ortodosse e la lingua affilata, disse: «Il processo Eichmann è stato un completo fallimento. Eichmann era davvero un minuscolo ingranaggio di una grande macchina. Penso si sia trattato di una cospirazione di Adenauer e Ben Gurion per restituire la verginità ai tedeschi. In cambio ci hanno dato un po' di miliardi. Io credo che quando abbiamo catturato Eichmann e l'abbiamo portato qui, avremmo dovuto processarlo, fornendogli i nostri migliori avvocati, perché spiegassero che quest'uomo non era colpevole o responsabile di niente ... che era il prodotto di duemila anni di storia cristiana, il cui
unico fine è la distruzione degli ebrei. ... Era davvero un semplice esecutore di ordini, cosa non priva di conseguenze per noi, ma quel che conta è che egli ha realizzato ciò che l'umanità voleva nei confronti del popolo ebraico!». Durante il processo la stampa israeliana seguì con molta attenzione le reazioni dei giornali e dei partiti tedeschi. Ne ricavò l'impressione che la Germania dimostrasse notevole simpatia per Israele, consapevolezza delle proprie colpe e desiderio di essere assolta. Paradossalmente, dunque, il processo Eichmann ebbe l'effetto di attenuare l'avversione degli israeliani per la Germania.
CAPITOLO XX «LE TENEBRE NON PREVARRANNO» La rivista «Time», che per prima aveva annunciato la cattura di Eichmann in Argentina, uscì sei mesi dopo con un'altra notizia clamorosa: gli israeliani erano sul punto di realizzare la bomba atomica. Ben Gurion si affrettò a smentire, ma alla Knesset confermò che era in costruzione una seconda centrale nucleare nel Negev, vicino a Dimona. Era un progetto attuato nel massimo segreto con l'aiuto dei francesi: agli abitanti della regione era stato dato a intendere che si trattava di uno stabilimento tessile. Il «grande reattore» di Dimona, quello «piccolo» era il primo reattore nucleare israeliano sul fiume Soreq, a sud di Tel Aviv, era destinato, dichiarò Ben Gurion, a scopi esclusivamente pacifici, come l'impianto che il Canada aveva contribuito a costruire in India. Ben Gurion aveva sempre avuto interesse per la ricerca scientifica, sia a scopi civili sia a scopi militari. La scienza occupava un posto importante nella sua visione di Israele. «Io non sono fra chi dispera del futuro dell'umanità in ragione dell'uso terribile che è stato fatto delle scoperte della fisica e delle forze invisibili dell'atomo» dichiarò all'inaugurazione del centro di fisica nucleare presso l'Istituto Weizmann per le scienze. «Sono anzi incline a ritenere che i progressi della scienza nucleare siano una benedizione.» Rifacendosi alla Bibbia, Ben Gurion espresse fiducia nell'«unione cosmica di scienza ed etica». «Lo Stato di Israele non sarebbe sorto se il nostro popolo non avesse creduto nella superiorità dello spirito ... e noi non avremmo potuto continuare a esistere dopo lo spaventoso Olocausto perpetrato dai nazisti appena una quindicina di anni fa, se non avessimo creduto nella coscienza umana e nella vittoria finale. (Nota: Lo Stato di Israele ha sempre negato di possedere armi nucleari e, a partire dagli anni Sessanta, ha affermato che non avrebbe mai introdotto per primo questo tipo di armamenti in
Medio Oriente. La stessa posizione fu ribadita anche nel 1986, quando un addetto alla centrale di Dimona, Mordecai Vanounou, trafugò delle fotografie e dei documenti sul reattore e li fece pervenire all'estero.) Poco dopo la Dichiarazione di indipendenza. Ben Gurion aveva dato ordine di cercare l'uranio nel Negev e all'inizio degli anni Cinquanta l'Istituto Weizmann aveva cominciato a ricavarlo dai fosfati e a fabbricare l'acqua pesante. I risultati raggiunti permisero a Israele di collaborare con altri paesi, in particolare Francia e Germania. La notizia della costruzione di un reattore nucleare a Dimona non sollevò un vero e proprio dibattito pubblico, anche a causa dell'intervento attuato dalla censura militare sulla stampa. Due anni dopo il Mapam e il Maki presentarono alla Knesset una mozione per chiedere la creazione di una zona denuclearizzata in Medio Oriente. I deputati dei due partiti espressero il timore che il conflitto araboisraeliano sfociasse in una guerra nucleare e provocasse un secondo olocausto. Ben Gurion chiese che la proposta non fosse messa in agenda. Alcuni intellettuali riuniti intorno a Yeshayahu Leibowitz, fra cui anche Ernst Akiva Simon, il collega di Martin Buber che aveva firmato la petizione Eichmann e si batteva per la coesistenza araboisraeliana, lanciarono una campagna per il disarmo nucleare in Medio Oriente. Il gruppo, che si riuniva in un appartamento di Gerusalemme, scrisse memoriali, spedì lettere ai giornali e contattò i deputati della Knesset. Ma la sua influenza, nonostante gli incoraggiamenti del filosofo inglese Bertrand Russell, fu molto scarsa: «Non ci prendevano sul serio» ha scritto il coordinatore del gruppo, Yehuda Ben-Moshe. Fra l'altro, erano avversati anche da molti superstiti dell'Olocausto. «Qualcuno ha forse alzato un dito per aiutarci durante la guerra?» chiedevano a Ben-Moshe. «Voi non avete idea di che cosa significhi vivere con la paura della morte.» Nessuno, tuttavia, li accusò di danneggiare gli interessi del paese, a parte Shimon Peres. Peres, allora viceministro della Difesa, era un convinto sostenitore del progetto nucleare. Non faceva distinzioni fra le armi convenzionali e quelle nucleari: sosteneva che la differenza era di carattere puramente semantico. Peres era contrario alla proclamazione di una zona denuclearizzata prima che
Israele avesse firmato gli accordi di pace con i suoi vicini arabi. Un giorno, mentre esponeva queste idee alla Knesset, fu interrotto dal deputato Uri Avneri: «Quante guerre sono scoppiate nel mondo a causa della corsa agli armamenti?» gli urlò. Peres gli rispose con un esempio: «Dopo la prima guerra mondiale si pensò che, se si fosse disarmata la Germania, ci sarebbe stata la pace nel mondo. Si diceva: "Piccolo vascello, piccola guerra; grande vascello, grande guerra". A cosa è servito? Ha impedito forse l'ascesa di Hitler?». Il progetto nucleare di Israele era dunque figlio della fiducia nel progresso scientifico, di considerazioni di strategia globale e regionale e dell'attivismo della nuova generazione, che cominciava proprio allora a prendere in mano le leve del potere sotto l'egida dell'onnipotente Ben Gurion. Per rinunciare al progetto nucleare ci sarebbero forse voluti un'immaginazione e un coraggio superiori a quelli necessari per proseguire sulla via dell'atomo. E ci sarebbero anche voluti un senso di sicurezza e una fiducia di fondo nella capacità di Israele di sopravvivere che i suoi leader non possedevano e forse non avrebbero potuto possedere. Ben Gurion continuava a esaltare la fede, la forza vitale e la visione storica che avevano permesso il miracolo dello Stato ebraico, ma dietro tante certezze si intuivano, in lui come in molti altri, il pessimismo e l'ansia che erano le stigmate dell'Olocausto. «Potrebbero ammazzarci tutti domani in questo paese» disse Ben Gurion al comitato centrale del Mapai durante uno dei tanti dibattiti sulle riparazioni di guerra. Poi, rivolto ai superstiti, proseguì: «Non vogliamo trovarci nella situazione in cui vi siete trovati voi. Non vogliamo che i nazisti arabi vengano a massacrarci». E al tempo in cui era in corso il grande dibattito sulla vendita di armi alla Germania, Moshe Dayan affermò: «II retaggio storico dei sei milioni di morti, la missione che ci hanno assegnato, è far sì che non si verifichi mai più una cosa del genere». Il popolo di Israele aveva una responsabilità maggiore, proseguì, delle altre comunità ebraiche, non soltanto perché doveva salvaguardare lo Stato, ma anche perché gli israeliani erano l'unico gruppo di ebrei ad avere nemici che ne progettavano la distruzione. Non si trattava solamente di polemiche: dietro tutti questi discorsi c'era l'immagine che Israele aveva di sé e dunque del proprio sistema di difesa. L'idea
sottostante era che poteva succedere di tutto e che in quel momento Israele sarebbe stato solo. Ecco perché doveva procurarsi tutte le armi possibili. Il padre del progetto nucleare israeliano fu Ernst David Bergman, un chimico di origine tedesca e uno degli scienziati più prestigiosi del paese, collaboratore del primo presidente di Israele, Chaim Weizmann, e uno dei fondatori dell'Istituto che ne porta il nome. Bergman si dedicava alle ricerche militari già prima della creazione dello Stato. Molto vicino a Ben Gurion, ne era il principale consigliere in campo nucleare. «Credo» ha scritto un suo collega «che Ben Gurion ne accettasse il parere senza discutere. Qualsiasi proposta doveva prima essere approvata da Bergman: se questi era convinto della sua validità. Ben Gurion l'avallava.» Bergman presiedette per molti anni la Commissione per l'energia atomica dello Stato di Israele, che dipendeva dall'ufficio del primo ministro. Nel 1966, quando ormai non ricopriva più quell'incarico, lo scienziato scrisse una lettera molto pessimistica al leader del Mapam, Meir Yaari. Diversamente da quello che pensavano i fautori del disarmo nucleare in Medio Oriente, osservava Bergman, molti paesi, fra cui probabilmente anche quelli arabi, sarebbero ben presto stati in grado di fabbricare armi atomiche. Non bisognava perciò dimenticare mai la lezione dell'Olocausto, perché «la diffusione delle armi nucleari è inevitabile». Escludeva che le potenze nucleari potessero raggiungere un accordo sul disarmo. Né bisognava credere a quei paesi che, come l'India, pur possedendo i reattori, affermavano che non avrebbero mai prodotto armamenti atomici. «Ogni sviluppo nel campo dell'energia nucleare a scopi pacifici costituisce inevitabilmente un altro passo verso la fabbricazione di ordigni nucleari.» E redarguiva Yaari: Mi meraviglia che un uomo come lei, uno dei padri della nostra politica, sia disposto a chiudere gli occhi e a credere che la realtà corrisponda ai suoi desideri. Non c'è nessuno in questo paese che non tema la guerra nucleare e non c'è nessuno in questo paese che non speri, nonostante tutto, che il mondo di domani sia governato dalla ragione. Ma non è lecito sostituire la conoscenza esatta e le valutazioni realistiche con le speranze e le illusioni. Gli ebrei si sono fatti sorprendere dall'Olocausto: non possiamo permetterci che accada una seconda volta. Il 21 luglio
1962 l'Egitto di Gamal Abdel Nasser celebrò il decimo anniversario della rivolta degli ufficiali contro la monarchia. Una parata militare percorse le vie del Cairo, esibendo, fra l'altro, venti missili terraterra. I giornalisti furono invitati dalle autorità egiziane ad assistere al lancio di quattro di questi missili: due del modello al-Zafer (Il vincitore) e due del modello al-Qaher (Il conquistatore). Un anno prima, nel luglio del 1961, anche Israele aveva lanciato lo Shavit-2, un suo missile destinato ufficialmente alle ricerche meteorologiche. Ben Gurion si era fatto fotografare davanti al razzo e nel paese si era diffusa un'ondata di ottimismo e di patriottismo. Ma quando Nasser presentò il suo «Vincitore» e il suo «Conquistatore», precisandone la gittata, «qualsiasi punto a sud di Beirut», il pericolo parve a tutti concreto e vicino. La classe politica e i servizi segreti entrarono in fibrillazione. (Nota: A Bonn, nell'ottobre (lei 1964, un alto funzionario del governo tedesco rivelò alla stampa che Israele e la Repubblica federale collaboravano da anni alla ricerca nucleare per scopi pacifici. Il quotidiano «Frankfurter Rundschau» aggiunse che Israele avrebbe ben presto realizzato la bomba atomica con il contributo degli scienziati tedeschi. La rivelazione provocò due mozioni di sfiducia al governo israeliano. Il ministro della Pubblica Istruzione, Abba Eban, smentì la notizia: «Gli scienziati tedeschi non svolgono nessuna attività in Israele e tantomeno in campo nucleare». A quel punto la stampa fece i nomi del premio Nobel per la fisica, Hans Jensen, e del direttore del dipartimento di fisica nucleare del prestigioso Istituto Max Planck di Heidelberg, Wolfgang Gentner, che erano stati in Israele e di cui si era discusso anche in Parlamento. Il governo dichiarò che i due ricercatori erano venuti a visitare l'Istituto Weizmann.) Il viceministro della difesa Shimon Peres e il capo del controspionaggio militare, Meir Amit, accusarono il loro rivale Isser Harel, capo del Mossad, di negligenza. Harel era un uomo molto potente e godeva dell'assoluta fiducia di Ben Gurion, con cui aveva incontri segreti. Quando l'Egitto testò le sue nuove armi, Harel tirò fuori dei documenti per dimostrare che i missili erano stati costruiti
sotto la guida di scienziati tedeschi, alcuni dei quali avevano acquisito le loro conoscenze durante il nazismo. Il capo del Mossad suggerì a Ben Gurion di chiedere al cancelliere Adenauer di richiamare in patria gli scienziati. Ma Ben Gurion non era convinto del successo dell'iniziativa e temeva che l'unico risultato sarebbe stato quello di avvelenare le relazioni fra i due paesi. Affidò perciò a Shimon Peres l'incarico di contattare il ministro della Difesa tedesco, Franz Josef Strauss, il quale, come aveva previsto il premier israeliano, non mosse un dito. Allora Ben Gurion incaricò Harel e Amit di «occuparsi» degli scienziati tedeschi: due furono rapiti e di loro si perse ogni traccia; altri furono feriti da lettere esplosive inviate per posta; altri ancora subirono minacce. Un giorno di marzo del 1963 un certo Otto Jokelik telefonò a casa di Heidi Gòrke, in Germania, chiedendole se era disposta a incontrarlo insieme a un israeliano per parlare del lavoro di suo padre. Heidi era la figlia di Paul Gòrke, uno degli scienziati tedeschi che lavoravano in Egitto. Jokelik era un avventuriero austriaco che prima aveva collaborato al progetto missilistico egiziano e poi era stato arruolato dal Mossad. Si diedero appuntamento all'Hotel Tre Re di Basilea (l'albergo dove settant'anni prima era stata scattata una delle fotografie più celebri di tutta la storia sionista, quella di Theodor Herzl che al balcone osserva il Reno). Heidi Gòrke, che era un'avvocata, tese ai due agenti una trappola degna dell'eroina di un romanzo di spionaggio. Avvertì la polizia svizzera, che piazzò una cimice sotto il tavolo intorno a cui doveva svolgersi la conversazione e un'altra dentro un vaso. Ogni parola che i tre si dissero venne registrata. Qualche ora dopo i due agenti del Mossad furono arrestati con l'accusa di intimidazione. Lo scandalo che scoppiò in Israele avvelenò il clima politico per oltre due anni e portò alla luce un groviglio di intrighi fra i vari servizi segreti. I giornali dedicarono alla questione grandi titoli e servizi di intere pagine, sottolineando in particolare i trascorsi nazisti degli scienziati che lavoravano in Egitto e le loro esperienze nel campo delle armi chimiche e batteriologiche. La parola chiave divenne «gas». Dietro la campagna stampa c'era lo zampino di Isser Harel: egli presentò le operazioni del Mossad contro gli scienziati tedeschi come una battaglia per smantellare un complotto che mirava a
distruggere Israele ed era un'emanazione diretta dell'Olocausto. L'idea del complotto, di un'azione coordinata con ampie diramazioni, aveva il duplice scopo di giustificare la figuraccia del Mossad a Basilea e di demolire la rete di rapporti ordita da Shimon Peres con gli ambienti militari tedeschi, su cui il viceministro della Difesa fondava in parte il proprio potere. Nelle sue memorie, Harel racconta di avere orchestrato le rivelazioni della stampa sul lavoro degli scienziati tedeschi e di avere persino inviato in Europa tre giornalisti israeliani, muniti di nomi, indirizzi e di tutte le informazioni essenziali, che pubblicavano i loro articoli facendoli passare per giornalismo investigativo. La campagna stampa sugli scienziati tedeschi in Egitto inferse un colpo durissimo alla politica filotedesca di Ben Gurion proprio nel momento in cui egli sperava di riallacciare le relazioni diplomatiche con la Germania. Non era questa l'intenzione di Harel, che puntava piuttosto a colpire Shimon Peres e forse, come sostiene nei suoi libri, credeva davvero che gli scienziati tedeschi costituissero un pericolo per la sicurezza israeliana. Ben Gurion non ne era affatto convinto. Cercò in tutti i modi di defilarsi, ma le acque, anziché placarsi, si agitarono sempre più. Il premier incaricò allora il ministro degli Esteri, Golda Meir, di fare una dichiarazione ufficiale alla Knesset. Gli scienziati tedeschi, disse la Meir, erano una banda di criminali. Erano andati in Egitto non soltanto per denaro, ma perché erano antisemiti: «Esistono legami molto stretti fra il Cairo e i nazisti fin dai tempi di Hitler e non è un segreto per nessuno che oggi la capitale egiziana costituisce un rifugio per gli ex capi nazisti». A parte un breve cenno alle «masse tedesche che provano ripugnanza per i trascorsi nazisti della Germania e vogliono una Germania diversa», il discorso fu durissimo. «Diciotto anni dopo la caduta del regime nazista che ha sterminato milioni di ebrei, membri di questa nazione sono di nuovo coinvolti in atti che mirano a distruggere lo Stato di Israele, in cui hanno trovato rifugio gli scampati all'Olocausto e allo sterminio.» Tutti i gruppi parlamentari si dichiararono soddisfatti, ma ci fu comunque un dibattito. Menahem Begin (Herut): Pensate che paradosso: voi invitate qui gli esperti di pedagogia tedeschi e la Germania manda gli esperti di morte da Nasser. Voi cucite le uniformi per l'esercito tedesco e i tedeschi forniscono [agli egiziani]
le conoscenze sui gas da usare contro gli israeliani. Voi mandate il nostro Uzi in Germania e i tedeschi forniscono le armi batteriologiche ai nostri nemici. Fate almeno un esame di coscienza. Fino a quando intendete proseguire con questo servilismo, con questa inconcepibile amicizia? Elimelech Rimali (liberale): I tedeschi occidentali... sono di nuovo indaffarati a produrre gas, batteri e materiale radioattivo destinati a essere usati contro Israele, contro la popolazione dello Stato ebraico. ... Non intendiamo accusare l'intera nazione egiziana ... ma i governanti e i leader di quel paese hanno ereditato lo spirito del nazismo. ... Yisrael Barzilai (Mapam); Si dice che gli scienziati e gli esperti nazisti in Egitto stiano costruendo le armi più spaventose mai concepite da mente umana: i famosi «raggi della morte». Decine di scienziati nazisti hanno cercato di realizzarli al tempo di Hitler, senza riuscirvi interamente. Adesso cercano di completare l'opera. Per la prima volta nella storia di Israele, il Mapai e l'Herut presentarono una mozione congiunta. Ben Gurion non partecipò alla seduta, come se non ne valesse la pena, e proseguì le vacanze, prima nel suo albergo preferito sul mare di Galilea e poi nel kibbutz cui apparteneva, Sde Boker, nel Negev. Alla Knesset furono pronunciati giudizi molto severi sulla sua politica filotedesca. Golda Meir tacque. Shimon Peres, intanto, aveva ricevuto da Meir Amit il rapporto dei servizi segreti che gli aveva commissionato: le informazioni diffuse da Harel erano «inventate» da cima a fondo. Alcuni dei progetti attribuiti agli scienziati tedeschi erano del tutto immaginari e quasi tutti gli altri erano ancora lontani dalla fase esecutiva. Non c'era dunque motivo di lasciarsi prendere dal panico e di demonizzare nuovamente la Germania. Ben Gurion, com'è ovvio, fu molto contento: Harel si dimise dopo un lungo e penoso scontro con il primo ministro sulla questione se la Repubblica federale tedesca fosse davvero una Germania diversa. Il premier non poteva sconfessare apertamente le dichiarazioni rese alla Knesset dal suo ministro degli Esteri, ma qualche giorno dopo, mentre spiegava le ragioni delle dimissioni di Harel, disse: «La profonda preoccupazione che suscita in noi il complotto del leader egiziano per distruggere Israele con l'aiuto degli scienziati e dei tecnici tedeschi e di altri paesi non dovrebbe farci perdere il lume della
ragione». La leadership di Ben Gurion si avviava al tramonto. Un altro grande scandalo, la cosiddetta vicenda Lavon, in cui erano di nuovo coinvolti i servizi segreti, gli creò molta tensione. «Aveva perso parte della sua sicurezza e della capacità di rimanere in sintonia con il paese, di comunicare» ricordò in seguito Teddy Kollek, che di Ben Gurion era stato uno stretto collaboratore. «Sapeva di avere ragione, ma quando aveva capito che non sarebbe riuscito a convincere gli altri, fu preso dalla disperazione. Provava un tale senso di frustrazione e di ! collera che cominciò a lanciare attacchi personali contro gli avversari, e fu questo a provocarne infine la caduta. ... Non piaceva a nessuno sentirgli dire certe cose. Non piaceva a nessuno vederlo cadere così in basso. ... Credo che nel 1963, quando decise di dimettersi, si fosse reso conto di avere perso il consenso dei suoi vecchi amici politici. Fu questa la ragione di fondo. Ma il motivo contingente che ne provocò le dimissioni furono i rapporti con Isser Harel.» Prima di cedere, tuttavia. Ben Gurion lanciò due provocazioni molto vendicative, com'era nel suo stile. Nel maggio del 1963 riesumò un articolo scritto trent'anni prima, in cui l'ideologo revisionista Abba Ahimeir elogiava Adolf Hitler. I predecessori dell'Herut si erano sbagliati allora, dichiarò Ben Gurion, e si sbagliavano anche ora opponendosi alla riconciliazione con la Germania di Adenauer. Naturalmente scoppiò il finimondo. Il presidente della Knesset ordinò di non mettere a verbale le parole del primo ministro. Una quindicina di giorni dopo Ben Gurion ricevette la visita di Franz Josef Strauss, che si era appena dimesso da ministro della Difesa, dopo aver tentato invano di far sospendere le pubblicazioni del settimanale «Der Spiegel». Strauss, che era un nazionalista di destra, non era certo il campione della nuova Germania, ma insieme a Shimon Peres era l'uomo chiave nelle relazioni fra l'Israele di Ben Gurion e la Germania di Adenauer. In quel periodo la Repubblica federale tedesca forniva gratuitamente a Israele aerei, carri armati, pezzi d'artiglieria e missili anticarro provenienti dal surplus NATO. Grazie al suo aiuto, il governo israeliano aveva inoltre ottenuto elicotteri dalla Francia e sottomarini dalla Gran Bretagna. L'aviazione tedesca addestrava i piloti israeliani; gli ufficiali israeliani studiavano nelle accademie militari di Bonn. Il bilancio nazionale presentato al Bundestag nel
1962 conteneva una voce sibillina: «Aiuti per le forniture militari: 240 milioni di marchi» (circa 60 milioni di dollari). Era questo il costo degli aiuti a Israele, il cui artefice era Strauss. La visita dell'ex ministro tedesco creò molto scontento. Che Ben Gurion, con una noncuranza per le reazioni dell'opinione pubblica al limite della provocazione, invitasse Strauss in Israele, era un altro gesto caratteristico del suo regime ormai al tramonto. La sera di sabato 15 giugno 1963 Teddy Kollek accompagnò Golda Meir a casa di Ben Gurion. Il ministro degli Esteri aveva appena saputo che un'agenzia di stampa tedesca stava per pubblicare la notizia dell'addestramento dei militari israeliani in Germania. Golda Meir voleva impedire ai giornali israeliani di parlarne, ma Ben Gurion si oppose. Poi il discorso si spostò sulla vicenda degli scienziati tedeschi e sulla rete di rapporti fra Israele e la Germania. (Nota: Una lettera di Ben Gurion a Haim Curi, resa pubblica molto tempo dopo, lascia intravedere quale fosse allora il suo stato d'animo. «Begin è un Hitler» scrisse il primo ministro. «Razzista, pronto a distruggere tutti gli arabi per realizzare "il Grande Israele", disposto a santificare qualsiasi mezzo che serva per raggiungere il sacro fine del potere assoluto. Lo reputo un serio pericolo per la situazione interna ed esterna di Israele.» Egli prevedeva che, nel caso avesse conquistato il potere, avrebbe «sostituito i comandanti dell'esercito e della polizia con i suoi scagnozzi, governato come Hitler in Germania, represso il movimento laburista con crudeltà e distrutto il paese, lanciandolo in azioni avventuristiche all'estero. ... Non dubito che Begin odi Hitler, ma questo non significa che egli sia diverso. ... La prima volta che l'ho sentito parlare alla radio, ho riconosciuto la voce e le urla di Hitler».) Emotiva come sempre, la Meir stentava ad accettare l'approccio pragmatico di Ben Gurion. Il carattere, il temperamento, l'istinto la portavano a condividere il pessimismo di Isser Harel più che le valutazioni fornite a Ben Gurion da Peres. «Era molto abbattuto per non essere riuscito a convincere Golda in questa faccenda» ha scritto Teddy Kollek. «La discussione è stata molto aspra, non tanto
perché non si riuscisse a superare quel particolare problema, quanto perché fra loro si era già creato un solco. Il colloquio non si concluse con una rottura netta, ma piuttosto con una reciproca presa di distanza, una radicale divergenza di punti di vista.» Il giorno dopo Ben Gurion rassegnò le dimissioni. Che la sua vicenda politica si sia infranta contro lo scoglio della questione più dolorosa e inquietante di tutta la sua carriera di primo ministro ha certamente qualcosa di simbolico. La presenza degli scienziati tedeschi in Egitto continuò a turbare, con maggiore o minore forza, l'opinione pubblica israeliana per un altro paio di anni. Alla Knesset si tennero almeno diciassette dibattiti sulla questione. Ben Gurion pronunciò il proprio testamento politico: «Abbiamo fatto, e faremo, tutto il possibile per impedire agli scienziati tedeschi di collaborare con l'Hitler dei nostri tempi. ... Ma non intendiamo ingannare il popolo. ... Uno scienziato di un altro paese, che aiuti Nasser a realizzare le sue trame naziste per distruggere Israele, non è meno pericoloso di uno scienziato tedesco; il vero pericolo dell'Egitto viene dalle armi convenzionali». Menahem Begin ammonì invece che i missili tedeschi di Nasser minacciavano di cancellare «l'esistenza biologica di questa nazione» qualora, per esempio, Nasser fosse improvvisamente impazzito. Come già tante altre volte in passato, Begin esprimeva le paure più profonde di molti israeliani. Durante quelle settimane, i giornali di diversi paesi pubblicarono articoli sugli aiuti militari forniti a Israele dalla Germania. Adenauer si era ritirato a vita privata da un anno e anche Strauss non era più ministro. Circolava l'ipotesi che i gruppi di pressione filoarabi avessero passato le notizie alla stampa per affossare le relazioni militari fra la Repubblica federale tedesca e Israele. I paesi arabi condannarono unanimemente Israele, ma così facendo misero in moto una sequenza di eventi dalle conseguenze del tutto impreviste, che di lì a qualche mese portò allo scambio di ambasciatori fra Israele e la Germania. I rapporti fra i due paesi avevano attraversato due fasi ben distinte. Nella prima era stata la Germania a desiderare di intrecciare rapporti diplomatici con un Israele recalcitrante; nella seconda le posizioni si erano invertite. David Ben Gurion, Moshe Sharett e il ministero degli Esteri erano favorevoli alle relazioni già all'inizio degli anni Cinquanta. «Credo
che avremmo stabilito rapporti con la Germania anche senza il pagamento delle riparazioni» scrisse il diplomatico Haim Yahil a Moshe Sharett poco dopo la firma dell'accordo sui danni di guerra. «Non si può ignorare che la Germania sta rapidamente diventando la maggiore potenza del continente europeo.» Un giudizio analogo lo espresse Nahum Goldmann nel luglio del 1954 e qualche mese dopo Ben Gurion sottopose la questione al Consiglio dei ministri. Nel 1956 risollevò il problema in una conferenza con la stampa estera e alla Knesset: «II governo non si è ancora pronunciato a favore della normalizzazione delle relazioni con la Germania. La cosa non è fattibile per il momento, ma lo sarà e costituirà, io credo, un bene per il paese. E questo è l'unico criterio valido per un ebreo come me. Dobbiamo preparare l'opinione pubblica in Israele e nel mondo ebraico». In effetti gli israeliani erano tutt'altro che pronti. Le riparazioni costituivano ai loro occhi la restituzione del maltolto: i due trattati, benché giovassero ai singoli cittadini e al paese in generale, erano stati violentemente contestati. Ma lo scambio di ambasciatori non portava alcun beneficio materiale e poteva essere interpretato soltanto come un segno di riconciliazione. Ben Gurion e Sharett sospettavano che la maggioranza del paese fosse ancora ostile. «La ferita resta profonda, anche se esteriormente cicatrizzata» scrisse «Haaretz», schierandosi contro le relazioni diplomatiche, almeno per il momento. Il suo direttore, Gershom Schocken, inviò al ministro degli Esteri Sharett il paragrafo che aveva espunto dal suo articolo di fondo su consiglio di due redattori: diceva che sarebbe stato difficile garantire la sicurezza dei diplomatici tedeschi in Israele. La questione delle relazioni diplomatiche con la Germania tornava ogni tanto alla ribalta alla Knesset e ogni volta il governo era costretto a rassicurare la Camera. Nel luglio del 1956 il cancelliere Adenauer suggerì pubblicamente uno scambio di ambasciatori fra i due paesi: Golda Meir dichiarò in Parlamento che il governo israeliano non era responsabile delle proposte e dei sentimenti dei governanti di altri paesi. L'ambasciatore d'Israele in Francia, Yaakov Tsur, tentò di persuadere il suo ministro degli Esteri che le relazioni diplomatiche fra Israele e la Germania erano inevitabili. «Golda ascoltò pallida e tesa» scrisse nelle sue memorie Tsur. E replicò: «Quello che lei dice
è sensato. Ma cosa posso farci io? Non riesco a ragionare soltanto con la testa, dopo tutti gli anni che ho passato a lottare contro qualsiasi contatto con la Germania». Poi sospirò e attaccò con «il solito ritornello», come lo definì Tsur: «Perché Ben Gurion mi ha tolta dal ministero del Lavoro, che mi piaceva tanto, dove dovevo solo costruire case?». Ben Gurion aggirò le difficoltà mandando a Bonn un ambasciatore di fatto, anche se non di nome: in teoria Eliezer Shinar ricopriva l'incarico di capo della delegazione per le riparazioni, in realtà era un vero e proprio diplomatico. Nelle memorie Shinar racconta tutti i suoi tentativi, dalla metà degli anni Cinquanta in poi, per normalizzare i rapporti fra i due paesi. Adesso, però, la Germania non era più in una condizione di necessità: aveva ottenuto diversi riconoscimenti internazionali e preferiva non pregiudicare i rapporti con i paesi arabi. Shinar ebbe più volte l'impressione di essere sul punto di realizzare il proprio obiettivo, ma ogni volta i tedeschi si ritrassero, dichiarando apertamente che temevano le reazioni del mondo arabo. In quel momento la cosa che più premeva a Bonn era isolare la Germania Est. Gli Stati arabi non avevano riconosciuto la Repubblica democratica, ma avrebbero potuto farlo per rappresaglia, qualora la Repubblica federale avesse riconosciuto Israele. La rete di contatti fra Bonn e Gerusalemme continuava a estendersi, ma sempre dietro le quinte. Fra Israele e la Germania, disse il deputato Elimelech Rimalt, non c'era un matrimonio, ma «un concubinaggio». A Gerusalemme, proprio coloro che in passato si erano scagliati contro le iniziative del governo per stabilire rapporti diplomatici con la Germania, ora se la prendevano con la Germania per il suo atteggiamento di rifiuto. Era una situazione paradossale. «Il paese degli eredi di Hitler, degli eredi degli assassini degli ebrei, non si degna di stabilire relazioni diplomatiche con il paese delle vittime di Hitler,» tuonò il leader del Maki, Moshe Sneh. Al tempo in cui si discuteva della presenza degli scienziati tedeschi in Egitto, alla Knesset era emersa più volte la preoccupazione per la caduta in prescrizione dei crimini nazisti in Germania. Il Bundestag ne aveva prolungato i termini di decorrenza anche su pressione di Nahum Goldmann. In Israele erano usciti alcuni articoli di giornale e c'era stato un corteo di protesta, ma nell'insieme il dibattito era stato pacato. L'emotività che aveva
caratterizzato in passato le manifestazioni antitedesche si stava esaurendo. Nel febbraio del 1965, quando filtrarono le indiscrezioni sulla collaborazione militare fra i due paesi, la Germania annunciò la sospensione delle forniture di armi a Israele, offrendo in cambio dei finanziamenti. Poi, mentre la stampa israeliana e la Knesset si affannavano a montare l'incidente, cercando di farlo passare per una questione di importanza vitale, Nasser invitò in Egitto il leader della Germania orientale, Walter Ulbricht. Bonn contrattaccò, proponendo a Gerusalemme lo scambio di ambasciatori. Avvenne tutto all'improvviso: Israele dovette decidere in gran fretta per evitare che la Germania ci ripensasse. I nemici della riconciliazione non fecero in tempo a organizzare la loro campagna e la maggioranza del paese ormai non era più ostile. All'interno dei partiti si manifestarono dubbi e ci fu qualche voto contrario, ma la passione che aveva caratterizzato il dibattito sulle riparazioni di guerra era ormai scomparsa. I verbali delle riunioni e delle sedute parlamentari danno l'impressione della celebrazione di uno stanco rituale. Menahem Begin recitò dei versi sugli ebrei trasformati in sapone; un deputato del Mapai affermò che un'ambasciata israeliana nella capitale tedesca sarebbe stata la migliore vendetta contro gli assassini. Il viceministro Abba Eban, forbito come sempre, offrì al Parlamento un saggio della propria erudizione. Certo, disse, all'arrivo dell'ambasciatore sarebbero risuonate a Gerusalemme le note dell'inno nazionale tedesco. Ma le parole, precisò, le aveva scritte un poeta liberale dell'Ottocento, Hoffmann, e l'inno era diventato l'emblema della nazione sotto un presidente socialista, Ebert. Sospeso nel 1945, l'inno era stato reintrodotto nel 1952 senza più il primo verso, «Deutschland, Deutschland uber Alles». Gli altri versi, spiegò Abba Eban, esprimevano soltanto sentimenti di unità, libertà e fraternità. «E allora perché» lo interruppe sarcastico Menahem Begin «non cantiamo noi, tutti in coro, "Deutschland, Deutschland uber Alles"?.» «Sì,» gli fece eco il deputato Arieh Ben-Eliezier «perché non ci alziamo tutti in piedi a cantare?» Poi si passò ai voti per alzata di mano, come ai tempi dell'accordo sulle riparazioni. L'apertura delle relazioni diplomatiche con la Germania fu approvata con 66 voti favorevoli e 29 contrari; ci furono alcuni astenuti e alcuni assenti. L'accordo
sulle riparazioni era stato approvato con 61 voti a favore e 50 contrari. Circa un terzo dei parlamentari aveva partecipato a entrambe le votazioni. Otto di quelli che si erano opposti all'accordo sulle riparazioni, ora avevano votato a favore delle relazioni con la Germania. La stampa israeliana e alcuni leader del Mapai si illusero all'inizio che Israele potesse dettare le sue condizioni alla Germania, chiedendole di non interrompere le forniture di armi, di prendere delle misure contro gli scienziati in Egitto, di sospendere la prescrizione dei reati nazisti e di aprire l'ambasciata a Gerusalemme anziché a Tel Aviv. La Germania respinse tutte le richieste con evidente fastidio, come se si aspettasse di essere ringraziata da Israele per essersi degnata di mandarle il suo ambasciatore. Israele avrebbe voluto che il primo ambasciatore tedesco a mettere piede sul suo territorio incarnasse simbolicamente il pentimento della Germania per i crimini nazisti. Bonn mandò invece un diplomatico di carriera, Rolf Pauis, un ex ufficiale della Wehrmacht, che aveva perso il braccio destro nella seconda guerra mondiale. Il suo vice, Alexander Tòròk, si diceva avesse militato nelle «Croci frecciate», un gruppo di estrema destra ungherese. Mentre si recava a Gerusalemme per presentare le credenziali, Pauis incrociò alcuni autobus che portavano nella capitale i manifestanti. «Le tenebre non prevarranno,» dichiarò durante la cerimonia il presidente Shazar «anche la notte più buia cede il passo all'alba.» L'ambasciatore fu salutato da un picchetto di quarantotto carristi israeliani e la banda della polizia intonò l'inno tedesco, senza più il famigerato «Deutschland, Deutschland uber Alles». Il corteo di protesta si era intanto riunito davanti al palazzo presidenziale. La manifestazione sfuggì al controllo del servizio d'ordine e ci furono violenti scontri. Alcuni manifestanti caddero in mezzo alla calca e furono calpestati dalla polizia a cavallo. Fra i feriti c'erano alcuni invalidi, reduci dai campi di concentramento, che dovettero essere ricoverati in ospedale. La mattina dopo, sui giornali comparvero immagini strazianti. L'automobile dell'ambasciatore riuscì a districarsi a fatica, con i manifestanti che tempestavano di pugni il tetto e i finestrini. Arrivò anche un sasso. Il poeta Abba Kovner restituì al presidente israeliano la Medaglia dell'indipendenza di cui era stato insignito, accompagnandola con
una lettera che si concludeva con queste parole: «Chi ci crederebbe? Mai, neppure "là", ho provato un senso di impotenza così terribile come il giorno in cui ho visto Gerusalemme accogliere un ufficiale dell'esercito degli assassini». Antek Zuckerman, uno dei leader della rivolta del ghetto di Varsavia, disse che i manifestanti avevano salvato l'onore di Israele, ma si chiese perché tante decine di migliaia di israeliani se ne fossero rimasti a casa. Gli israeliani avrebbero inscenato soltanto un'altra volta una manifestazione violenta contro i legami del loro paese con la Germania. Nel maggio del 1966 l'ex cancelliere Konrad Adenauer, che aveva da poco compiuto novant'anni, arrivò in Israele. Fu accolto ovunque con molta solennità e a volte anche con genuina simpatia. Ma un giorno, mentre pranzava con il primo ministro Levi Eshkol, avvenne un incidente diplomatico. «Sì,» raccontò in seguito Nahum Goldmann «e che incidente!» Eshkol lo invitò nella sua residenza a Rehavia e fece una gaffe terribile. Adenauer non era più cancelliere: il ricevimento, con dodici ospiti, non era una cerimonia ufficiale. E invece, all'improvviso, prima del dolce, Eshkol si alzò e tenne un discorso che durò almeno una ventina di minuti. Disse, in inglese credo: «Spero, e sono convinto che, sotto la sua saggia guida, il popolo tedesco ritroverà la strada per rientrare nella famiglia delle nazioni civili». Io ero seduto alla destra di Adenauer. Mi accorsi immediatamente che c'era qualcosa di strano. A eccezione di Ben Gurion, non ho mai conosciuto nessuno con tanto autocontrollo. Quando Eshkol tacque, Adenauer disse: «Signor primo ministro, la ringrazio, ma lascio il paese domani» e al suo aiutante: «Prepari l'aereo». Restarono tutti impietriti ed Eshkol chiese: «Che cosa ho fatto?». Adenauer replicò: «Non sono qui come cancelliere, ma sono un tedesco, e lei ha insultato la nazione tedesca. Lascerò il paese domani». Intorno al tavolo si diffuse il panico ed Eshkol balbettò: «Ma signore, io le ho rivolto un elogio!». Adenauer, che sapeva essere deciso e crudele, ribattè: «Non mi interessa quello che pensa di me: stiamo parlando del popolo tedesco». Nel frattempo erano arrivate decine di ospiti, invitati per il caffè, che aspettavano nella sala accanto. Li raggiunsi: tutti mi chiesero dove fosse Eshkol. Cercai di rassicurarli, ma avevano già subodorato qualcosa. Tornai in sala da pranzo. C'era un'atmosfera orribile. Di ghiaccio. Sedevano
tutti immobili come statue. Mi accomodai accanto a Adenauer e dissi: «Signor Cancelliere, dimostri di essere un uomo di spirito e non solo intelligente». Scoppiò a ridere e chiese: «Cosa vuole che faccia?». E io replicai: «Guardi, in questo paese ci sono centinaia di migliaia di ebrei che, comprensibilmente, odiano i tedeschi. C'è l'Herut. C'è il Mapam. E ci sono, soprattutto, le vittime dei nazisti. Quel cretino di aiutante che ha scritto il discorso, pare che Eskhol ne ignorasse il contenuto, pensava di dover blandire l'opposizione. E così ha inserito quella frase insultante». Adenauer replicò: «Capisco, ma bisogna trovare una via d'uscita». Dissi a Eshkol: «Senta, sono le ventidue e trenta: a che ora vanno in macchina i giornali del mattino?». Eshkol si informò: «Verso le due». Allora gli suggerii di mandare una nota urgente per informare i giornali che quel passo del discorso consegnato alla stampa era stato cancellato da Eshkol. E così fu. I giornali non ne fecero parola. Su quest'ultimo particolare, però, la memoria tradì Goldmann: la stampa si occupò a lungo dell'incidente. Era la prima volta che la Germania rimproverava Israele per avere menzionato il suo passato nazista. Adenauer ed Eshkol, così si disse, si rappacificarono, ma il primo ministro smentì di avere chiesto al suo ospite di non serbargli rancore. Due giorni dopo Adenauer andò a visitare la biblioteca nazionale dell'Università ebraica. Ad attenderlo trovò alcune decine di studenti con slogan e cartelli contro la sua visita, ai quali si unirono a poco a poco altri manifestanti. I poliziotti, manganelli alla mano, li caricarono. «Ne vidi uno con la faccia insanguinata: era David Naor, mio figlio» riferì la deputata dell'Herut Esther RazielNaor. Alcuni dovettero essere ricoverati in ospedale. La polizia fu accusata di aver fatto un uso eccessivo della forza, ma una commissione d'inchiesta la discolpò. Gli studenti, stabilirono gli inquirenti, avevano provocato gli agenti, chiamandoli «sporchi marocchini», «deficienti» e «nazisti». Prima della sua partenza da Israele, Adenauer osservò che si era aspettato proteste molto più vivaci. «La cosa che più colpisce in queste manifestazioni è l'esiguità dei partecipanti» scrisse «Haaretz». L'ambasciatore Rolf Pauis dimostrò una buona volontà, una saggezza e un tatto che gli permisero di inserirsi bene nella società israeliana. Aveva il senso della storia ed era arrivato in Israele preparato a un'accoglienza
ostile. Si era perciò prefisso di dissipare per prima cosa la diffidenza. Fu perciò molto sorpreso quando cominciarono a fioccare gli inviti. Gli yekke lo accolsero come se fosse il loro ambasciatore. L'ambasciata finanziò con generosità varie istituzioni scientifiche e culturali, e incoraggiò la traduzione in ebraico dei romanzi di Gùnther Grass, Heinrich Bòll, Siegfried Lenz e di altri scrittori moderni, che andarono ad aggiungersi alla lunga lista di scrittori tedeschi già tradotti, da Goethe a Thomas Mann a Erich Kàstner, molto amato dai bambini israeliani. Cercò anche di migliorare l'immagine della Germania sulla stampa israeliana, invitando alcuni giornalisti in Germania a sue spese. Poi, quando Israele ebbe la prima rete televisiva, la Germania sovvenzionò in parte il soggiorno dei corrispondenti israeliani a Bonn. Decine di migliaia di studenti liceali si recarono in visita in Germania, spesati quasi interamente dal governo tedesco. L'ambasciata preparò le iniziative con grande cura e con molta prudenza. Più si infittivano gli scambi economici, militari e diplomatici fra i due paesi, più l'opposizione concentrava i suoi attacchi sugli scambi culturali. La cultura era un bersaglio facile: era molto visibile, ma non vitale per il benessere e la sicurezza di Israele. Esther Raziel-Naor si specializzò nelle battaglie contro le infiltrazioni della cultura tedesca, in particolare in campo musicale: un Lied di Schubert trasmesso in tedesco alla radio (Ben Gurion si scusò per l'errore); Le nozze di Figaro dirette da Herbert von Karajan (il ministro della Pubblica Istruzione, Zaiman Aran, promise che quella registrazione non sarebbe stata mai più trasmessa); qualche brano di Wagner e di Richard Strauss, che erano stati messi all'indice. Rivolse un'interrogazione al primo ministro Levi Eshkol, chiedendogli di spiegare perché un'annunciatrice radiofonica, Yael Ben-Yehuda, fosse stata costretta a trasmettere uno spot della Volkswagen, nonostante la sua ripugnanza. Alcuni scrittori e attori israeliani, che pubblicavano le loro opere in Germania o recitavano nei teatri tedeschi, furono messi al bando dalla stampa israeliana; l'autore satirico Efraim Kishon subì attacchi feroci per essersi macchiato della colpa di piacere ai tedeschi. Ma la battaglia contro gli scambi culturali con la Germania fu praticamente l'ultima. I tempi erano cambiati. Il ministro della Pubblica Istruzione, Abba Eban, espresse
un sentimento condiviso da molti quando disse che il governo aveva concluso il proprio compito con il processo Eichmann e non aveva più bisogno di giustificarsi. Criticò la «tendenza a trasformare l'Olocausto in una professione» e informò la Knesset che una commissione ministeriale aveva steso le direttive cui dovevano ispirarsi gli scambi culturali don la Germania. (Nota: I cinema israeliani furono invasi da film ambientati alla corte imperiale austriaca, con Romy Schneider nella parte di «Sissi». L'attrice Marlene Dietrich venne in visita in Israele poco prima che si concludesse il processo Eichmann.) La commissione, precisò Eban, aveva tenuto conto della dimensione emotiva della questione, ma anche del fatto che Hitler era stato sconfitto nel 1945. Il ministro elencò le attività autorizzate e quelle non autorizzate: gli israeliani potevano partecipare alle conferenze internazionali nella Repubblica federale, alle fiere, alle mostre e alle altre manifestazioni commerciali; altrettanto potevano fare in Israele i tedeschi. Gli israeliani potevano studiare nelle università e negli istituti di ricerca tedeschi «in settori vitali per il nostro paese». Le istituzioni israeliane potevano accettare finanziamenti dalla Germania purché non comportassero nessun potere di controllo. «Ci troviamo a un bivio fra il passato e il futuro» concluse Abba Eban. La Knesset approvò la sua dichiarazione. Nella storia dei rapporti fra le nazioni, la riconciliazione fra Israele e la Germania occupa un posto speciale. Forse mai è stato gettato tanto in fretta un ponte su un abisso così profondo. All'inizio degli anni Ottanta esplose una granata davanti all'ambasciata tedesca di Tel Aviv. L'attentato fu rivendicato da un'organizzazione che diceva di chiamarsi Bai Nishkah (Per non dimenticare). Chiunque avesse scelto quel nome non aveva capito la realtà: la riconciliazione fra la Germania e Israele non portava affatto all'oblio dell'Olocausto. Al contrario, la coscienza dell'Olocausto divenne più profonda e più forte. E' questo uno dei tanti paradossi di cui è costellata la storia degli israeliani e dell'Olocausto.
PARTE SETTIMA CRESCERE: DI GUERRA IN GUERRA CAPITOLO XXI «CI PENSAVAMO TUTTI» Nel 1967 il giornale degli studenti dell'Università ebraica di Gerusalemme, «Nitsots», uscì con una copertina tutta nera. In fondo alla pagina c'era una scritta: «La situazione attuale». Era un eccesso giovanile, naturalmente, ma sgorgava dalle viscere ed esprimeva lo stato d'animo di molti israeliani, smarriti fra la desolazione e l'impotenza. I sintomi di questa grave e allarmante depressione erano comparsi sul finire del 1966 e un'ondata di umor nero era calata sul paese. All'aeroporto di Tel Aviv, diceva una delle barzellette più famose di quel periodo, un cartello diceva: «L'ultimo a uscire spenga le luci, per favore». Lo scrittore Natan Shaham così ricordava quegli anni: «Eravamo come cadaveri ambulanti che al proprio funerale raccontano storielle oscene al becchino». Le ragioni del malessere erano molte. I giorni della creazione si erano conclusi; David Ben Gurion si era dimesso. Gli era succeduto come presidente del Consiglio e ministro della Difesa Levi Eshkol, un politico astuto con l'intuito del contadino e un atavico senso dell'umorismo, che inaugurava una nuova era di normalità democratica dopo gli anni turbolenti e quasi totalitari del regime di Ben Gurion. Eshkol promanava un'affabilità non molto raffinata, sorridente, yiddish. Era insomma tutt'altro che carismatico e dava l'idea di essere esitante, indeciso e irresoluto. Egli ebbe il merito di disinnescare alcune delle tensioni interne al paese, fra il Mapai e l'Herut, fra gli ebrei e gli arabi, fra i religiosi e i laici, ma ebbe anche la responsabilità storica di imporre al suo popolo una normalità senza gloria. Gli israeliani non lo perdonarono mai. Molti, parlando di se stessi, non dicevano «io» bensì «noi»: si consideravano una
nazione impegnata a realizzare un progetto. Eppure la grande impresa sionista, la rivoluzione eroica e ispirata, si era esaurita. La nuova sfida che il paese si trovava ad affrontare consisteva nell'imparare a vivere una vita normale, in cui non c'era più bisogno di pionieri. La generazione che aveva fondato lo Stato si sentiva amareggiata e frustrata, così come i suoi figli: cresciuti all'ombra di ideali grandiosi, avevano adesso l'impressione che non ci fossero più missioni da compiere. Costretti a diventare adulti troppo presto, si intristirono. L'economia piombò in una grave recessione. Ma, a differenza dell'austerità dei primi anni Cinquanta, quando il sogno era ancora vivo e gli immigrati arrivavano a frotte, questa nuova fase degli anni Sessanta pareva non avere alcun senso. A Tel Aviv i disoccupati, provenienti in gran parte dalle comunità orientali, inscenarono manifestazioni violente; a Gerusalemme scesero in piazza gli ultraortodossi. Israele sembrava prigioniera di una crisi sociale senza sbocchi: molti parlavano di andarsene. E, come se non bastasse, c'era anche tensione alle frontiere. I siriani bombardavano la valle di Hula dalle alture del Golan e non si riusciva a fermarli. La vita dei coloni a nord divenne intollerabile. Ben Gurion aveva da poco fondato un nuovo partito, il Rafi (Lista dei lavoratori di Israele), in cui militavano alcuni dei suoi giovani luogotenenti, come Shimon Peres e Moshe Dayan. Un'impresa quasi patetica. Il vecchio Icone accusava fra l'altro Eshkol di avere sabotato l'accordo con Adenauer e cercato di stornare altrove i prestiti tedeschi destinati agli investimenti nel Negev. A metà maggio del 1967 il presidente egiziano Nasser espulse le truppe dell'ONU che da un decennio presidiavano la Striscia di Gaza. Dieci giorni dopo annunciò la chiusura dello stretto di Tiran, che era la porta d'accesso al golfo di Aqaba, sicché le navi israeliane non avrebbero più potuto raggiungere il porto di Eilat dal Mar Rosso. Il blocco navale era esteso a tutte le navi, anche straniere, che trasportassero «merci di valore strategico», incluso il petrolio. Poi Nasser concluse un accordo di natura difensiva a sud est con la Giordania, che rappresentava il completamento di quello già esistente a nord est con la Siria. Israele era stretto in una morsa. Il governo di Eshkol lanciò una serie di iniziative diplomatiche. Il ministro degli Esteri, Abba Eban, fece il giro delle capitali. L'esercito richiamò i riservisti.
Fu il cosiddetto «periodo dell'attesa», in cui l'ansia si impadronì del paese. Ci fu un'ondata di solidarietà. I volontari svolgevano il lavoro degli uomini chiamati sotto le armi: consegnavano la posta, guidavano gli autobus, facevano i pompieri e i turni negli ospedali. Vecchi e bambini allestivano i rifugi antiaerei, scavavano le trincee, riempivano i sacchetti di sabbia. La stampa inneggiava all'atmosfera degna dei «giorni più eroici» e raccontava di cittadini che affrontavano impavidi il nemico con coraggio e determinazione. Fra le righe, però, trapelavano l'inquietudine, l'apprensione e un senso di impotenza. I negozi si svuotavano e il valore del dollaro al mercato nero era cresciuto del 20 per cento. «Maariv», doverosamente ottimista come richiedeva l'emergenza nazionale, annunciò: «Le file delle persone che partono dall'aeroporto di Tel Aviv dovrebbero diminuire entro due giorni». Le stazioni radio arabe continuavano a vomitare minacce: erano spacconate rozze in un pessimo ebraico, ma gli israeliani le prendevano sul serio e così facevano i loro giornali. La «Voce della Repubblica araba unita» ripeteva ossessivamente che le navi della VI Flotta americana erano pronte a evacuare gli ebrei da Israele e che quelli rimasti sarebbero stati massacrati. In tutto il paese non si parlava d'altro che del pericolo arabo, dello «sterminio di Israele». La frase non aveva un significato preciso, ma era sulla bocca di tutti: nessuno diceva che l'esercito arabo avrebbe «conquistato» Israele, «distrutto» le sue città, o ucciso i suoi abitanti. No, tutti dicevano che avrebbe «sterminato Israele». Intanto, cinque o sei uomini del Consiglio religioso di Tel Aviv, con le lunghe barbe, i cappelli a larghe tese e gli abiti neri, ispezionavano i parchi cittadini, i campi da basket e gli appezzamenti vuoti per consacrarli come cimiteri. Si prevedevano decine di migliaia di morti. Soltanto una nazione ossessionata dal ricordo del genocidio poteva prepararsi così meticolosamente al massacro prossimo venturo. Un giovane soldato, interrogato alla fine della guerra in occasione del libro-intervista The Seventh Day, ricordò: «Eravamo tutti convinti che saremmo stati sterminati se avessimo perso la guerra. Era un'idea che ci veniva, o che avevamo ereditato, dai campi di sterminio. Il genocidio è qualcosa di concreto per chiunque sia cresciuto in Israele, anche per quelli che non hanno provato sulla loro pelle le persecuzioni hitleriane. Il
genocidio è una possibilità concreta. Ci sono gli strumenti per realizzarlo. E' questa la lezione delle camere a gas». Il soldato ne aveva parlato con i suoi commilitoni. «In Israele ci pensavamo tutti. Io per primo pensavo allo sterminio. Ogni israeliano sente che fa parte della sua vita, ma avverte anche, o almeno io la avverto, la precarietà della sua esistenza, non soltanto a causa del pericolo militare. L'esistenza degli ebrei in Israele non è ancora un dato di fatto. Dal punto di vista storico si tratta di un fenomeno molto recente. Siamo anche pochi, noi ebrei che viviamo qui.»* Era suonata l'ora dei «giovani turchi» del Rafi, che avevano in Moshe Dayan e in Shimon Peres i loro portabandiera. Volevano strappare a Levi Eshkol e alla sua generazione la leadership nazionale e prenderne il posto. (Nota: The Seventh Day: Soldiers Talk aboul the Six Days War (Il settimo giorno: i soldati raccontano la guerra dei Sei giorni) è un libro composto interamente da interviste registrate dopo la guerra. E' un documento autentico, ma problematico. Non è possibile infatti stabilire quando i soldati rivelano i loro veri sentimenti e quando invece ripetono gli slogan coniati dalle autorità per diffondere l'immagine di combattenti sensibili, che sparano e piangono, mentre conducono una guerra giusta. Forse gli stessi protagonisti non ne erano sempre consapevoli. In alcuni casi si ha l'impressione che l'Olocausto sia stata la creta con la quale hanno plasmato l'immagine di sé.) Yitzak Rabin, allora capo di stato maggiore, ha scritto Lo hanno sbeffeggiato e ne hanno demolito l'immagine e hanno reso pubbliche le sue debolezze e lanciato false accuse e sostenuto che il paese nelle sue ore più difficili non aveva un vero ministro della Difesa. Eshkol era esausto. Il peso dei tempi e la campagna diffamatoria concorrevano a sgretolarne la posizione. La sua autorità risultò indebolita agli occhi dei suoi ministri e lo stesso accadde agli altri dirigenti. ... Con le ali tarpate e l'autorità sminuita, egli non aveva più il potere per imporre la propria volontà al governo. Eshkol, sostiene Rabin, capiva che la guerra era inevitabile, ma i suoi avversari riuscirono a creare l'impressione che il protrarsi
dell'attesa fosse un segno di debolezza e di pericolo. Eshkol, dicevano, non era capace di condurre il paese alla guerra e alla vittoria. La sua ansia, che cresceva di giorno in giorno, faceva il gioco degli avversari. Attizzavano il fuoco: i giornali chiedevano a gran voce «Guerra subito» e un nuovo governo guidato da «un uomo forte». Contemporaneamente, con una campagna ben orchestrata di manifestazioni e annunci su intere pagine di giornale, chiedevano la cacciata di Eshkol. Anche lo Stato maggiore dell'esercito gli si rivoltò contro. Ai primi di giugno Eshkol cedette il ministero della Difesa a Moshe Dayan e formò un governo di unità nazionale insieme a Menahem Begin. In tutte quelle settimane di martellante propaganda, sui giornali fioccarono i paragoni fra Nasser e Hitler. Qualsiasi proposta di disinnescare la crisi senza ricorrere alle armi veniva considerata alla stregua dell'accordo di Monaco, imposto alla Cecoslovacchia all'alba della seconda guerra mondiale. Un anno e mezzo prima il generale Yehoshafat Harkabi, ex capo dei servizi segreti militari, in un articolo su «Maariv» aveva elencato tutte le componenti dell'antisemitismo classico presenti nel pensiero politico e religioso dei paesi arabi, compresi elementi tratti dai Protocolli dei Savi di Sion e dall'ideologia nazista. L'articolo era stato distribuito ai soldati israeliani dagli specialisti della formazione dell'esercito. Durante il «periodo dell'attesa», il leitmotiv della minaccia antisemita risuonò con frequenza ancora maggiore nella stampa e nelle parole di quanti invocavano un leader più deciso di Eshkol, un capo del governo che dichiarasse subito la guerra. «La posta in gioco non è soltanto lo stretto di Tiran» scrisse su «Haaretz» un noto editorialista, l'ex deputato del Mapai Eliezer Livneh. «La posta in gioco è l'esistenza o la scomparsa del popolo ebraico. Dobbiamo sventare immediatamente le macchinazioni del nuovo Hitler finché è ancora possibile sventarle e sopravvivere. E una follia irresponsabile non credere a quello che Nasser ha scritto e sostenuto negli ultimi vent'anni. Né il mondo, né gli ebrei hanno creduto alla sincerità delle dichiarazioni di Hitler.... La strategia di fondo di Nasser è la stessa di Hitler.» «Haaretz» aveva già evidenziato, pubblicandole fianco a fianco, le analogie fra le dichiarazioni del leader egiziano e quelle del Fùhrer. Una era questa: «Se Israele vuole la guerra, benissimo: Israele sarà
distrutta!» (Nasser, 1967); «Se gli ebrei trascineranno il mondo in guerra, l'ebraismo mondiale sarà distrutto» (Hitler, 1939). I giornali pubblicavano ampi servizi sul coinvolgimento di Nasser nella guerra civile in atto nello Yemen, in cui gli egiziani avevano usato anche le armi chimiche. Furono di nuovo tirati in ballo gli scienziati tedeschi. La campagna stampa fece riaffiorare l'antica angoscia dell'Olocausto. La paura che Israele rischiasse di essere cancellato dalla faccia della terra attanagliava anche i ministri, molti dei quali erano nati in Europa. Moshe Haim Shapira riteneva il pericolo così grande che sconsigliava di entrare in guerra; le conclusioni dei suoi colleghi erano opposte. Anche il capo di Stato maggiore, Rabin, che pure era nativo di Israele, era tormentato dall'angoscia e oppresso dai sensi di colpa per non avere previsto l'incombere della minaccia. Sopraffatto dalla tensione e dalle troppe sigarette, nel momento culminante della crisi si chiuse in casa per due giorni: «E' stato un momento di debolezza» spiegò poi a Eshkol e presentò le dimissioni. Eshkol le respinse. La guerra scoppiò il 5 giugno 1967. In sei giorni l'esercito israeliano conquistò la Striscia di Gaza, la penisola del Sinai, la Cisgiordania con Gerusalemme Est e le alture del Golan. In questi territori, tre volte più grandi dell'Israele prebellica, viveva quasi un milione di abitanti. Alcuni ministri, e in particolare Menahem Begin, sognavano da tempo di conquistare la Cisgiordania. E come lui lo sognavano i comandanti della guerra di indipendenza, fra cui c'erano Moshe Dayan, Yitzhak Rabin e Yigal Allon, frustrati per non essere riusciti a impadronirsene nel 1948. In meno di una settimana tutti seppero quello che molti, fra cui parecchi che avevano fomentato l'ansia nel «periodo dell'attesa», avevano sempre saputo, e cioè che l'esercito israeliano era più forte di tutte le armate arabe messe insieme. La minaccia di «sterminio» non era quindi vera. Vera era però la paura, ed era quella che gli avversari di Eshkol avevano sfruttato. A fomentare la guerra era stata dunque, più di qualsiasi altra cosa, la paura, la stessa che aveva contribuito alle immigrazioni massicce degli anni Cinquanta e al progetto nucleare di Dimona. Le sue radici affondavano nell'Olocausto. I sei giorni della guerra furono spesso paragonati ai sei giorni della creazione. Per molti fu l'ora zero, un momento drammatico quanto l'Olocausto e la creazione dello Stato ebraico.
Era come se la storia sionista fosse ricominciata da capo. La possibilità di tornare al Muro del pianto e in tutti i luoghi sacri, da Gerusalemme a Hebron, circondò la vittoria di un alone di redenzione nazional-spirituale e suscitò una fiammata di identità ebraica esaltante fino all'estasi e al misticismo messianico. «Haaretz» scrisse: «La maestà del passato non è più soltanto un'immagine lontana, ora fa parte del nuovo paese. Il suo splendore illuminerà la costruzione di una società israeliana che costituirà un anello nella lunga catena storica del nostro popolo in questo paese.... Gerusalemme è tutta nostra. Proclamalo e gridalo, o abitante di Sion!». «Al Hamishmar», l'organo del Mapam, non fu da meno: «Sentiamo pulsare il cuore della storia ebraica e ci abbeveriamo di forza e di fede alle eterne sorgenti dell'antica Israele». Un altro editorialista scrisse, lapidario: «Se ci restituiranno Gerusalemme, io morirò». Il merito dello spirito combattivo dei soldati e della loro vittoria fu in parte attribuito all'Olocausto. «Due giorni prima della guerra» riferì un giovane ufficiale. Uri Ramon, «all'approssimarsi del momento decisivo, in divisa, armato e infangato dopo un pattugliamento notturno, sono andato al Museo dei combattenti del ghetto, nel kibbutz Lohamei Haghetaot. Volevo onorare la memoria dei combattenti, di cui soltanto alcuni sono vissuti fino a vedere questo giorno in cui la nazione è insorta, pronta a difendersi. Ho sentito con forza che la nostra guerra era cominciata là, nei crematori, nei campi di sterminio, nei ghetti, nelle foreste.» Uscì dal museo «puro e limpido, forte per questa guerra». Il deputato Arieh Ben-Eliezer, dell'Herut, dichiarò: «Non eravamo così pochi come si diceva. Al nostro fianco combattevano i sei milioni di morti, che ci sussurravano all'orecchio l'undicesimo comandamento: "Non sarai ucciso", il comandamento che non era stato dettato sul monte Sinai, ma che ci era stato donato durante i recenti combattimenti nel Sinai». I primi dubbi sull'occupazione dei territori conquistati nacquero subito dopo la guerra. Nel libro The Seventh Day alcuni intervistati dissero che la consapevolezza del retaggio dell'Olocausto li faceva sentire a disagio nei panni degli occupanti. Anche nel dibattito sul futuro dei Territori, che cominciò immediatamente, venne chiamato in causa l'Olocausto, ma questa volta a sostegno della tesi che Israele non poteva rientrare nei suoi
confini precedenti. Su questa posizione non c'era soltanto la destra. Menahem Begin amava ricordare che Abba Eban aveva definito le frontiere di Israele prima della guerra dei Sei giorni «le frontiere di Auschwitz», e anche Golda Meir invocava l'Olocausto a giustificazione della sua linea intransigente. Proseguiva intanto la guerra di logoramento lungo il Canale di Suez. L'Egitto bombardava gli avamposti israeliani e ogni giorno i quotidiani pubblicavano fotografie di soldati uccisi. I terroristi palestinesi cominciarono a dirottare e a far saltare in aria gli aerei. Nel settembre del 1972 fecero irruzione nelle stanze degli atleti olimpici israeliani a Monaco, uccidendone due; altri nove morirono nell'assalto della polizia, che tentò inutilmente di liberare gli ostaggi. Un anno dopo, nel settembre del 1973, i terroristi palestinesi assalirono un treno passeggeri pieno di ebrei che dall'Unione Sovietica si dirigevano verso un campo di transito in Austria prima di raggiungere Israele. Il cancelliere Bruno Kreisky cedette alle richieste dei terroristi e promise di chiudere il campo. Entrambi gli attentati toccavano simboli vitali per Israele e per il sogno sionista, ed entrambi si risolsero in una sconfitta. In Israele, com'era inevitabile, furono subito associati all'assassinio degli ebrei compiuto dai nazisti. Poi, cogliendo quasi tutti di sorpresa, scoppiò un'altra guerra. Il 5 ottobre 1973, un giorno prima che l'esercito egiziano e siriano lanciassero l'attacco, il governo israeliano l'aveva giudicata improbabile. Il 6 ottobre, giorno di Yom Kippur, di digiuno ed espiazione, lo spettro dell'Olocausto si aggirò di nuovo per il paese. Nella campagna del Sinai la paura era giunta a rimorchio della vittoria; nella guerra dei Sei giorni la paura aveva preceduto la guerra e portato alla vittoria; nel 1973 la paura sopravvenne mentre ancora si combatteva. Fu un «terremoto» che scosse Israele dalle fondamenta, un malessere che contagiò anche le classi dirigenti e demoralizzò la nazione. Correva voce che Moshe Dayan prevedesse la distruzione del paese e Golda Meir contemplasse l'idea del suicidio. «Era uno stato d'animo simile all'impotenza che aveva attanagliato gli ebrei durante la seconda guerra mondiale» ha scritto la studiosa dell'Olocausto Leni Yahil. Anche se Dayan non disse mai che il «Terzo Tempio» stava per crollare e Golda Meir non era affatto disposta, come ha scritto il suo biografo, a togliersi la
vita, Israele non era mai stata così in pericolo come durante la sua quinta guerra. Vinse, ma fu una vittoria diversa da tutte quelle precedenti. Conservò lo status quo, ma a caro prezzo: 2500 morti, un israeliano ogni mille. Soltanto la guerra d'indipendenza aveva fatto più vittime. Gravissimo fu anche il colpo inferto all'identità della nazione: Israele non si sentiva più invulnerabile. «La guerra di Yom Kippur» ricordò il colonnello Ehud Praver, vicecomandante del settore formazione dell'esercito israeliano, «diede a tutti noi la consapevolezza che Israele non era il luogo più sicuro del mondo.» Abituato fin dall'infanzia a pensare, come la maggior parte dei giovani israeliani, che il sionismo fosse una risposta all'antisemitismo e che solo Israele potesse garantire per sempre la sicurezza del popolo ebraico, Praver ebbe la sensazione che «il sistema monolitico che avevamo introiettato ai tempi della scuola, antisemitismo-sionismo-sicurezza - si fosse incrinato. In certi momenti sembrava addirittura frantumato». Il mito dell'invulnerabilità poggiava su un'interpretazione eroica dell'Olocausto. «A scuola» proseguiva Praver «eravamo rimasti come ipnotizzati dalla resistenza, abbagliati dall'idea che "noi", benché non ancora nati, eravamo la resistenza e "loro" gli agnelli condotti al macello. All'improvviso anche questo mito crollò: avevamo bisogno dell'aiuto degli ebrei americani. Ricordo che dopo la vittoria di Mark Spitz alle Olimpiadi qualcuno aveva scritto che c'era una verità profonda nel fatto che un giovane ebreo d'America avesse nuotato più veloce di un giovane ebreo d'Israele. Non era soltanto del loro sostegno finanziario che avevamo bisogno, quello era normale. Avevamo bisogno anche del sostegno politico, perché capimmo che senza gli americani non ce l'avremmo fatta. Ci sentimmo completamente isolati: il paese stava per essere distrutto e nessuno aveva mosso un dito. Fu allora che cominciammo a identificarci proprio con quelli che avevamo disprezzato come "un abisso di polvere e decadenza", per usare le parole di Jabotinsky.» Alla consapevolezza seguirono le reazioni. «Ci ribellammo contro la resistenza» ricordò Praver. «La resistenza era stata un simbolo. Ora ci appariva come la grande menzogna smascherata dalla guerra di Yom Kippur. Fino ad allora avevamo creduto nella corrispondenza fra Olocausto ed eroismo e ci eravamo identificati con l'eroismo. La
guerra ci indicò il significato dell'Olocausto e i limiti dell'eroismo.» Dopo la guerra di Yom Kippur i terroristi palestinesi tornarono a colpire a più riprese. E, ogni volta, Israele dovette affrontare situazioni che evocavano l'Olocausto. Accadde, per esempio, nell'estate del 1976, quando un aereo dell'Air France in volo da Tel Aviv a Parigi fu dirottato e costretto ad atterrare a Entebbe, in Uganda. Mentre cresceva la preoccupazione per la sorte dei passeggeri, si seppe che gli israeliani erano stati separati dagli altri. Il gesto ricordò inevitabilmente la «selezione» di Auschwitz, dove gli abili al lavoro venivano divisi da quelli destinati alle camere a gas. Il primo ministro Yitzhak Rabin e il ministro della Difesa, Shimon Peres, autorizzarono un blitz contro i terroristi. Peres, il quale durante l'Olocausto era studente in Israele, apparteneva alla generazione che nutriva sensi di colpa e vergogna nei confronti dello sterminio degli ebrei. L'angoscia dell'Olocausto, incisa nel profondo della sua psiche, affiorò con il dirottamento. Peres era nato in Polonia ed era arrivato in Palestina all'inizio degli anni Trenta, quando aveva undici anni. Pur essendo cresciuto a Tel Aviv e avendo vissuto per parecchio tempo in un kibbutz, Peres, alias Perski, non aveva mai acquisito i segni esteriori dell'«uomo nuovo» di Israele. Aveva conservato una certa «polonesità», un'ebraicità sentimentale, forse assorbita durante gli anni della formazione politica all'ombra di Beri Katznelson, Levi Eshkol e David Ben Gurion. Era un lettore avido, scriveva poesie e non aveva mai fatto il soldato. Quando la sua famiglia era emigrata in Palestina, il nonno, capo della comunità ebraica locale, era rimasto in Polonia. I nazisti l'avevano rinchiuso insieme ad altri compaesani nella sinagoga e le avevano dato fuoco. Il nonno era stato la persona che Peres aveva più amato da bambino. Quando chiese al governo di autorizzare l'intervento del Mossad a Entebbe, nel motivare la sua richiesta citò anche l'Olocausto. La trionfale liberazione degli ostaggi confermò la natura essenzialmente eroica dell'«uomo nuovo» israeliano e, almeno per il momento, rinverdì il mito della resistenza.
CAPITOLO XXII «HITLER E' GIA' MORTO, SIGNOR PRIMO MINISTRO» IL 19 novembre 1977 il presidente egiziano Anwar Sadat arrivò a Gerusalemme e fu ricevuto dal primo ministro israeliano Menahem Begin. Diciotto mesi dopo Israele e l'Egitto firmarono il trattato di pace. Fu il più grande contributo che Begin diede alla storia di Israele. A differenza di tutti i premier precedenti, Begin non apparteneva al movimento laburista guidato dal Mapai ed era un superstite dell'Olocausto. Nel 1940 era stato arrestato dalla polizia segreta sovietica ed era giunto in Palestina nel 1942. Da molti segnali si capiva che Begin aveva portato con sé la «sindrome del superstite», come fu in seguito definita, vale a dire i sensi di colpa per essere ancora vivo. E quasi sicuramente aveva portato con sé, a meno che non sia sopraggiunto dopo, anche il rimorso per aver abbandonato i compagni: al momento dell'arresto Begin dirigeva il movimento giovanile del Betar in Polonia. Una volta in Palestina, anch'egli, come i leader del Mapai, aveva potuto fare ben poco per gli ebrei d'Europa, tanto più che non apparteneva al gruppo dirigente dello yishuv. Verso la fine della guerra, però, e ancor più nel dopoguerra, Begin aveva fatto di tutto per dare l'impressione di essere molto più legato al retaggio dell'Olocausto di quanto non lo fossero i militanti del Mapai. Intorno all'Olocausto egli costruì la sua carriera, dalla grande battaglia contro le riparazioni tedesche al «periodo dell'attesa» prima della guerra dei Sei giorni. Poi venne la legittimazione politica. Levi Eshkol lo nominò ministro nel suo governo di unità nazionale ed egli potè così attribuirsi il merito di avere contribuito alla vittoria. Fu l'inizio di una carriera che dieci anni dopo lo portò a dirigere il paese. Negli anni Settanta raggiunsero la maturità i membri della seconda generazione della comunità ebraica orientale, i figli degli immigrati dai paesi mussulmani. Si sentivano discriminati: protestavano di non avere avuto le stesse opportunità degli altri israeliani e, contemporaneamente, di essere stati privati della propria cultura.
L'Olocausto non faceva parte della loro storia e le classi dirigenti, Mapai in testa, non li avevano certo aiutati a farlo proprio. La contestazione era il segno visibile di questa alienazione. Charlie Biton, un giovane militante di Gerusalemme di origine marocchina, eletto deputato del partito comunista, affermò ai primi del 1979: «L'antisemitismo è nato nell'Europa industriale. In Marocco non esisteva. Gli ebrei europei erano una classe di sfruttatori e lo sono ancora oggi in Israele. Il movimento sionista è venuto qui e ha trasformato questo paese in una propaggine dell'Europa». Accusato di difendere il genocidio degli ebrei, fu costretto a rettificare la sua dichiarazione. Ogni tanto qualche ministro ricordava che anche gli ebrei della comunità orientale erano stati vittime dell'Olocausto e pian piano i libri di scuola si aggiornarono. Ma ormai era troppo tardi per salvare il movimento laburista. Begin capì meglio dei suoi avversari la sensibilità degli elettori orientali e riuscì ad attrarli verso il Likud, lo schieramento di centrodestra fondato nel 1973, di cui l'Herut era il partito di maggioranza. L'approccio di Begin si fondava in gran parte su un populismo demagogico, con una forte vena nazionalistica, Quando giurava che non avrebbe mai ceduto la Cisgiordania, lo faceva soprattutto per rassicurare gli ebrei orientali, ai quali prometteva non soltanto la sicurezza e la realizzazione del sogno nazionale, ma anche l'avanzamento sociale. Ora infatti al gradino più basso della scala sociale c'erano i palestinesi dei Territori, e lì sarebbero rimasti finché fosse durata l'occupazione. Begin sapeva dare agli israeliani orientali, e in particolare a quelli provenienti dall'Africa settentrionale, la sensazione di rispettarne la cultura. A loro egli restituì il bene più prezioso, l'autostima, di cui li avevano privati i laburisti. Così facendo, li portò a condividere la coscienza dell'Olocausto, fino a quel momento privilegio esclusivo degli ashkenaziti. Begin, il grande divulgatore dell'Olocausto, seppe più di ogni altro diffonderlo e politicizzarlo. Maestro nell'uso del gesto simbolico, non si lasciò sfuggire nessuna occasione per brandire l'Olocausto come un'arma con cui combattere le sue battaglie politiche e rafforzare la propria immagine. Più sbandierava l'Olocausto a giustificazione delle sue scelte, più rafforzava la sua posizione politica e intaccava il monopolio del partito laburista. Era un
obiettivo che Begin aveva sempre perseguito. Sembrava convinto che, controllando la memoria dell'Olocausto, avrebbe controllato il paese. (Nota: Pian piano la condivisione è diventata totale. Una ricerca, condotta da Dan Bar-On e Oron Sela dell'Università Ben Gurion, ha accertato che a partire dalla fine degli anni Settanta l'Olocausto è diventato un «evento» comune a tutti i cittadini di Israele, indipendentemente dal paese d'origine e dalla cultura di provenienza. «Il modello di comportamento quotidiano di tutti i cittadini di questo paese dovrebbe essere determinato dall'impatto brutale degli eventi dell'Olocausto» ha dichiarato un giovane deputato, Moshe Katsav, nato in Iran.) Quando diventò presidente del Consiglio, il suo primo gesto fu ricevere un gruppo di boat people vietnamiti tratti in salvo da una nave israeliana. «Non possiamo dimenticare le navi cariche di clandestini ebrei che negli anni Trenta vagarono per i sette mari, chiedendo asilo di paese in paese, respinti da tutti» dichiarò.* Begin voleva dare l'impressione che il nazismo avesse contagiato il mondo intero e che la nazione israeliana fosse completamente sola. Era l'impressione che il paese aveva avuto due anni prima che Begin diventasse capo del governo, quando l'ONU in una sua risoluzione definì il sionismo una variante del razzismo. L'ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite e poi presidente dello Stato di Israele, Haim Herzog, aveva detto allora che Hitler si sarebbe trovato benissimo in quell'assemblea. Durante la visita di Sadat e il dibattito sul ritiro di Israele dalla penisola del Sinai, l'Olocausto fu continuamente tirato in ballo sia dagli oppositori del trattato, sia dai suoi sostenitori. Begin accompagnò Sadat in visita a Yad Vashem e poi, per evitare di essere accusato di aver capitolato, propinò all'ospite la tradizionale interpretazione israeliana dell'Olocausto: «Nessuno è venuto a salvarci, né da est, né da ovest. Noi perciò, la generazione dello sterminio e della rinascita, abbiamo fatto un giuramento: mai più metteremo in pericolo la nostra nazione; mai più esporremo al fuoco nemico le nostre donne e i nostri figli e tutti coloro che abbiamo il dovere di difendere a costo della nostra
stessa vita». Anche gli avversari dell'accordo di pace ricorrevano all'Olocausto: «Mi basta ricordare il passato del presidente egiziano durante la seconda guerra mondiale, l'attrazione che provava per Berchtesgaden, il Nido d'aquila di Hitler, per capire che il suo pensiero e le sue azioni mirano alla distruzione di Israele» dichiarò alla Knesset Dov Shilansky. Il trattato di pace prevedeva l'evacuazione degli insediamenti ebraici nel Sinai. Gli abitanti del villaggio di Yamit, contrari al trasferimento forzoso, si appuntarono sulle vesti la stella gialla di Davide, la stessa che i nazisti avevano imposto agli ebrei. L'Olocausto, soprattutto durante l'amministrazione Begin, diventò la pietra angolare dello Stato di Israele e della sua politica. (Nota1: Un certo numero di profughi vietnamiti ottenne effettivamente il permesso di soggiorno in Israele, ma qualche tempo dopo, quando si trattò di accoglierne diverse migliaia, Begin si comportò esattamente come quei leader che avevano chiuso le porte in faccia ai rifugiati ebrei. Ci voleva un accordo internazionale, affermò, bisognava che la Knesset contattasse gli altri Parlamenti per decidere sulla sorte dei profughi.) Nota2: Saadat aveva appoggiato la Germania durante la seconda guerra mondiale e poco prima di recarsi in visita a Gerusalemme aveva trascorso una vacanza nella stazione sciistica bavarese di Berchtesgaden. (NdT). Il giugno del 1981, Begin giustificò la distruzione di un impianto nucleare iracheno con queste parole: «Dobbiamo proteggere la nostra nazione, che ha visto assassinare un milione e mezzo dei suoi bambini nelle camere a gas». Begin paragonava spesso Arafat a Hitler, chiamandolo «bestia a due zampe», come già aveva fatto con il Fùhrer. La carta dell'OLP la paragonava a Mein Kampf: «Mai, nella storia dell'umanità, c'è stata un'organizzazione armata così odiosa e spregevole, a parte il nazismo» amava ripetere. Nel giugno del 1982, alla vigilia dell'invasione israeliana del Libano, Begin dichiarò in una riunione del Consiglio dei ministri: «Sapete quello che io, che tutti noi abbiamo fatto per scongiurare la guerra e la perdita di vite umane. Ma è questo il nostro destino qui in Israele. Non ci resta che combattere generosamente. Credetemi, l'alternativa è Treblinka, e
noi abbiamo deciso che non ci sarà mai più un'altra Treblinka». E quando, dopo lo scoppio della guerra, l'opinione pubblica internazionale cominciò a criticare Israele, Begin si difese, non diversamente dai suoi predecessori, dicendo che con l'Olocausto la comunità internazionale aveva perso il diritto di chiedere conto a Israele delle sue azioni. «Nessuno,» dichiarò alla Knesset «in nessuna parte del mondo, può fare la morale al nostro popolo.» (Un'affermazione analoga compare nella risoluzione del Consiglio dei ministri dopo la strage nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila avvenuta nel settembre del 1982.) Qualche giorno prima, commentando gli attacchi del «Times» londinese, era ricorso a uno dei suoi argomenti preferiti: «Un giornale che ha appoggiato il tradimento del patto di Monaco dovrebbe astenersi dal fare la predica a una piccola nazione che lotta per l'esistenza. Se lo avessimo ascoltato, oggi non ci saremmo più». Al presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, Begin scrisse che al momento della distruzione del quartier generale di Arafat a Beirut si era sentito come se avesse mandato l'esercito israeliano a Berlino a distruggere il bunker di Hitler. La guerra del Libano lacerò profondamente il paese. Naturalmente Begin tirò fuori di nuovo l'Olocausto. «Hitler è già morto, signor primo ministro» scrisse il romanziere Amos Oz, dopo aver ascoltato il suo discorso in difesa dei bombardamenti di Beirut. Adolf Hitler ha distrutto un terzo del popolo ebraico, fra cui i suoi genitori e parenti, e la mia famiglia. Anch'io, come molti ebrei, scopro spesso nel profondo del cuore una pena sorda per non avere ucciso Hitler con le mie mani. Sono sicuro che anche in lei alberga una fantasia analoga. Non c'è, né ci sarà mai, una cura che guarisca questa ferita sempre aperta dentro la nostra anima. Decine di migliaia di arabi morti non la saneranno. Ma, signor primo ministro, Adolf Hitler è morto trentasette anni fa. Fortunatamente, o sfortunatamente, questo è un dato di fatto: Hitler non è nascosto a Nabatea, a Sidone o a Beirut. E' morto e sepolto. Lei, signor Begin, mostra ripetutamente uno strano impulso a resuscitare Hitler per poterlo uccidere di nuovo ogni giorno, alla maniera dei terroristi. ... Questo impulso a riportare sempre in vita Hitler per poterlo ogni volta annientare è il frutto di una melanconia che spetta ai poeti esprimere, ma in uno statista è un
rischio che minaccia di condurlo su una strada mortalmente pericolosa. Alla lettera aperta di Oz rispose il direttore di «Yediot Aharonot», Herzl Rosenblum, con uno dei commenti più stravaganti di tutta la stampa israeliana. Difendendo l'analogia fra Arafat e Hitler avanzata da Begin, Rosenblum scrisse: Se riuscisse a procurarsi i mezzi, Arafat ci farebbe cose che neanche Hitler si sarebbe sognato. Non è retorica, questa. Se Hitler ci ha uccisi con un certo ritegno, lui, Arafat, se salisse al potere, non avrebbe riguardi. Mozzerebbe la testa ai nostri figli con un grido di guerra, violerebbe le nostre donne in pieno giorno per poi farle a pezzi, ci scaraventerebbe giù dai tetti delle case e come una tigre affamata ci spellerebbe vivi ovunque ci trovasse senza l'«ordine» tedesco né i trasporti organizzati di Eichmann. ... Se le cose stanno così, come si fa a dire che Begin sbaglia a evocare Adolf Hitler? Sì, quel despota era un gattino in confronto ad Arafat. ... Quando Begin ha ricordato Hitler, non ha esagerato, anzi ha minimizzato il pericolo che ci minaccia con la folle ascesa di questo sterminatore di massa di Beirut. Pochi giorni prima i giornali avevano pubblicato un attacco violentissimo dell'opposizione alla politica del governo: lo studioso Yeshayahu Leibowitz aveva definito la guerra in Libano una «politica giudeo-nazista». Per la prima volta nella storia di Yad Vashem, un superstite scelse il memoriale dell'Olocausto per attuarvi lo sciopero della fame. Shlomo Schmeizman, sopravvissuto al ghetto di Varsavia e a Buchenwald, protestò così contro la guerra e contro il ricorso all'Olocausto per giustificarla. La sua protesta scatenò una nuova polemica. La direzione del museo cacciò Schmeizman da Yad Vashem e, dopo una settimana, egli rinunciò allo sciopero. Alla fine del 1982 una madre di Gerusalemme accompagnò il figlio militare e alcuni suoi commilitoni a Yad Vashem, dove assistettero alla conferenza di una delle guide del memoriale, Yehiam Weitz. Tornata a casa, la donna scrisse una lettera al capo di Stato maggiore dell'esercito israeliano, il generale Rafael Eitan, in seguito alla quale egli ordinò di annullare immediatamente tutte le visite dei soldati al museo dell'Olocausto. Yehiam Weitz, figlio e nipote di alti dirigenti del Mapai, aveva affermato, diceva la lettera, che, contrariamente a quanto si credeva, la creazione dello Stato di Israele non garantiva la
sicurezza dei cittadini, ma che anzi sarebbe stato molto più facile che altrove eliminare gli ebrei in Israele. La guida aveva inoltre mostrato disprezzo per le vittime dell'Olocausto, dicendo che poco importava come si moriva, se con onore o con disonore. In realtà si trattava di un'estrapolazione, e le visite dei militari a Yad Vashem ripresero ben presto. Qualche mese prima era cominciato presso un tribunale militare il processo a un gruppo di soldati e ufficiali israeliani accusati di violenze gratuite contro la popolazione civile nei Territori occupati. Un graduato era incolpato di avere ordinato ai suoi soldati di incidere un numero sul braccio dei palestinesi. Fu chiesto alla direzione di Yad Vashem di condannare il gesto: il suo presidente, Gideon Hausner, si limitò a rispondere che l'episodio non aveva nessun rapporto con l'Olocausto. La politicizzazione dell'Olocausto messa in atto da Begin irritò i suoi avversari e indusse a riconsiderare alcuni concetti storiografici ritenuti quasi sacri. A dare il primo segnale fu un celebre editorialista, Boaz Evron, con un articolo pubblicato nel 1980. Sotto il titolo provocatorio L'Olocausto: un pericolo per la nazione, egli contestò la tesi dell'unicità dello sterminio degli ebrei. I nazisti, scrisse il giornalista, avevano ucciso anche i tedeschi, i ritardati mentali, i malati incurabili, gli zingari, e si proponevano di annientare altre nazioni. Quella dell'unicità dell'Olocausto era semplicemente una tesi comoda: aveva permesso ai tedeschi di attribuire il nazismo alla follia e preparare il terreno per il ritorno della Germania in seno alla famiglia delle nazioni, il che rispondeva agli interessi economici e politici di tutto il mondo. L'insistenza su questo concetto e sul silenzio del mondo intero aveva fatto comodo al movimento sionista prima e allo Stato di Israele poi. «Ogni visitatore di rango viene condotto a Yad Vashem, come fosse la cosa più normale ... perché capisca quale stato d'animo e quali sensi di colpa il paese si aspetta da lui» osservò Evron. La tesi dell'unicità dello sterminio degli ebrei aveva però anche qualche inconveniente: separava gli ebrei dal resto dell'umanità, ne faceva creature diverse. L'idea della separatezza aveva radici profonde nella tradizione ebraica, si riallacciava alla visione degli ebrei come popolo eletto, che «dimora solo». Ma quell'idea, secondo Evron, non soltanto contraddiceva il sogno sionista di un'esistenza normale per gli ebrei, ma rischiava
altresì di condurre alla cecità morale: «Partendo dal presupposto che il mondo ci odia e ci perseguita, noi riteniamo di essere esentati dalla necessità di giustificare sul piano etico il nostro atteggiamento verso il mondo». Questo isolamento paranoico dal resto dell'umanità e dalle sue leggi, ammonì Evron, poteva indurre taluni ebrei a trattare, qualora ne avessero avuto il potere, i non ebrei come esseri subumani e a emulare nella prassi l'approccio razzista del nazismo. Evron metteva anche in guardia dal pericolo insito nella tendenza a confondere l'ostilità araba con l'antisemitismo nazista: «La classe dirigente di un paese non può essere disgiunta dalla sua propaganda, che viene vista come un riflesso della realtà. Pertanto i governanti si muovono all'interno di un mondo di miti e di mostri creati da loro stessi». L'articolo era stato scritto due anni e mezzo prima che Menahem Begin mandasse l'esercito israeliano a Beirut a distruggere Adolf Hitler. Nel febbraio del 1983, alla Knesset ci fu un dibattito sul tema «Cinquant'anni dopo la presa di potere nazista: l'evento e i suoi insegnamenti». Di dibattiti storici del genere ce n'erano già stati altri, di solito in occasione della ricorrenza di qualche episodio connesso con l'Olocausto. Letti di seguito, i verbali di quelle sedute documentano il mutare della percezione dell'Olocausto e della sua influenza sulla realtà politica e sociale di Israele. Nel 1983 ad aprire il dibattito fu Yair Tsaban del Mapam, uno dei leader del movimento pacifista. L'insegnamento più importante dell'Olocausto, egli dichiarò, era di ordine universale: ammoniva «a non abbassare la guardia, a vigilare contro qualsiasi gesto antidemocratico, contro qualsiasi propensione alla dittatura, compresa quella populista o di pseudosinistra. A questo insegnamento se ne accompagna un altro: il terribile pericolo costituito dalla saldatura fra la distruzione della democrazia, l'ascesa della dittatura e la metastasi della follia nazionalista incontrollata e incontrollabile». E a questo punto Tsaban si lanciò in un'analisi basata sostanzialmente sugli studi dello storico americano George Mosse. Non era la prima volta che all'Olocausto veniva attribuito un significato universale, la novità consisteva nel tentativo di Tsaban di servirsene per condannare il nazionalismo. Il suo bersaglio era chiaramente Menahem Begin, che pretendeva di far passare le proprie scelte politiche, compresa la guerra in Libano,
come un imperativo morale imposto alla nazione dall'Olocausto. Begin, però, proseguì per la sua strada. Poco prima che egli diventasse primo ministro, il governo israeliano aveva invitato in visita ufficiale il cancelliere tedesco Helmut Schmidt. La Germania rivestiva ormai per Israele un'importanza economica, geopolitica e militare che era seconda soltanto a quella degli Stati Uniti. Nessuno parlava ancora di «normalizzazione» delle relazioni fra i due paesi, ma poco dopo la formazione del governo Begin, Moshe Dayan, che era ministro degli Esteri, le definì «laiche». Begin stesso si impegnò a svolgere tutti i compiti che la sua funzione gli imponeva, compresi gli incontri con i funzionari tedeschi, e ribadì l'invito a Schmidt avanzato dal suo predecessore. Il cancelliere tedesco continuava tuttavia a rimandare la visita, come se l'Israele di Begin non meritasse tanto onore. Nella primavera del 1981, di ritorno dall'Arabia Saudita, Schmidt dichiarò che la Germania, per il suo passato nazista, aveva delle responsabilità storiche nei confronti di varie nazioni europee, compreso il popolo palestinese, ma non parlò né del popolo ebraico, né di Israele. Begin reagì con un feroce attacco personale al cancelliere: «Tutti hanno prestato servizio nell'esercito nazista, compreso il signor Schmidt, che ha giurato fedeltà al Fùhrer ed è rimasto fedele a quel giuramento». Israele era in quel momento nel pieno di una campagna elettorale aspra e violenta. Attaccando Schmidt, il primo ministro sperava di infiammare ancora una volta gli animi degli israeliani, come era solito fare negli anni Cinquanta con le sue grandi arringhe antitedesche. Aveva già insultato il cancelliere austriaco Bruno Kreisky per i suoi legami con Yasser Arafat: «Batteremo gli Arafat nazisti e i loro lacchè, indipendentemente dalle loro origini» aveva affermato, alludendo al fatto che Kreisky era ebreo. Non è difficile immaginare che cosa avrebbe detto se avesse saputo che anche nelle vene del cancelliere tedesco scorreva sangue ebraico: l'ambasciatore israeliano in Germania, Yohanan Meroz, che aveva ricevuto la confidenza dal diretto interessato, non l'aveva rivelata a nessuno. Temeva che Begin ne facesse un uso strumentale, esasperando le tensioni fra i due paesi. Schmidt, comunque, non si recò in Israele. Begin rassegnò le dimissioni nell'agosto del 1983. «Non ce la faccio più» dichiarò, e fino alla morte, che avvenne nel
1992, condusse vita appartata. Il giorno in cui lasciò il suo ufficio, sull'edificio sventolava la bandiera tedesca: stava per arrivare il cancelliere Helmut Kohl. Forse Begin, teso e lacerato, aveva scelto proprio quel momento per andarsene. Così almeno non avrebbe dovuto ricevere un tedesco.
CAPITOLO XXIII «NEL PROFONDO DELL'ANIMA» Nell'estate del 1984, circa 25.000 israeliani votarono per il rabbino Meir Kahane e lo elessero deputato. La classe politica allibì: il rabbino era stato più volte paragonato a Adolf Hitler. Kahane invece sosteneva che i suoi princìpi discendevano dagli insegnamenti dell'Olocausto. Il rabbino aveva cominciato la propria carriera negli Stati Uniti, militando nell'agguerrita Jewish Defense League, e già allora si era conquistato un certo consenso in Israele. Molti ammiravano in lui l'ebreo orgoglioso, che non aveva paura di difendersi. Kahane si proclamava il rappresentante del vero sionismo, ma in realtà era l'espressione del suo lato più oscuro, già affiorato altre volte, un sionismo razzista e osceno. Non appena scese nell'arena politica, si capì subito che avrebbe cercato di sovvertire alcuni dei valori fondamentali della vita del paese. Chiedeva l'espulsione dei cittadini arabi di Israele e dei residenti arabi nei Territori occupati, e voleva imporre a tutta la popolazione la legge religiosa. All'inizio non fu preso molto sul serio: lo consideravano un sobillatore e un eccentrico. Ogni tanto organizzava qualche manifestazione e si scontrava con la polizia. Nel suo quartier generale a Gerusalemme aveva allestito una piccola mostra permanente in cui tracciava un parallelo fra il genocidio perpetrato dai nazisti e quello che si stava consumando (in America). Con il suo violento nazionalismo antiarabo e l'estremismo religioso conquistò consensi soprattutto nei quartieri più disagiati, in cui regnavano la frustrazione sociale, la xenofobia, soprattutto antiaraba, la paura dell'estinzione e varie ansie imprecisate, che Kahane sapeva attizzare con grande abilità. Gli arabi, ammoniva spesso, avrebbero scatenato il loro odio alla prima occasione, violentando le donne e i bambini. A fare il suo gioco intervennero alcuni omicidi e stupri, compiuti in parte da terroristi, in parte da criminali comuni e in parte da ignoti. Siccome, però, Kahane era brutto, parlava l'ebraico male e con un forte accento
straniero, tutti consideravano i suoi discorsi alla stregua delle scritte oscene nei gabinetti e non vi attribuivano alcuna importanza. L'elezione alla Knesset arrivò come un fulmine a ciel sereno. Circa un anno dopo Kahane presentò due disegni di legge. Il primo proponeva di riservare la cittadinanza israeliana ai soli ebrei: gli altri, vale a dire gli arabi, sarebbero stati considerati «stranieri», come prevedeva la legge religiosa ebraica, e soggetti a «tasse e servitù». Avrebbero goduto dei diritti civili, ma non di quelli politici, perciò non avrebbero potuto votare o ricoprire cariche pubbliche, né risiedere a Gerusalemme. Chiunque avesse rifiutato queste limitazioni della libertà sarebbe stato espulso da Israele e indennizzato. Il secondo disegno, intitolato «legge per la prevenzione dell'assimilazione fra ebrei e non ebrei e per la santità di Israele», contemplava l'abolizione di tutti i programmi governativi volti a favorire la convivenza fra ebrei e arabi, la creazione di spiagge separate, il divieto dei matrimoni e dei rapporti sessuali fra coppie miste e il divorzio per quelle già sposate, la proibizione per i non ebrei di abitare nei quartieri ebraici senza il permesso della maggioranza dei residenti. Un deputato mise a confronto le proposte di Kahane con le leggi di Norimberga e riscontrò molte analogie. Il presidium della Knesset rifiutò di metterle in agenda. Kahane ricorse alla Corte suprema e vinse. Il giudice Aharon Barak, pur riconoscendo che i due disegni di legge evocavano «ricordi spaventosi» ed erano una minaccia per la democrazia israeliana, decretò: «La nostra forza sta nella scrupolosa osservanza della legge e nella legalità del potere, anche quando ciò comporti concedere il diritto di espressione a opinioni che aborriamo». Pian piano ci si accorse che il vero pericolo non era Kahane, ma il kahanismo, che si diffuse nel paese e raccolse consensi soprattutto fra i giovani. Mentre proseguivano gli attentati terroristici dei palestinesi, alcune bande di giovani israeliani cominciarono a devastare i quartieri arabi e ad aggredire i passanti. «Morte agli arabi» si sentiva gridare con sinistra frequenza. «Ho ancora nelle orecchie l'eco di "Morte agli ebrei" e adesso hanno cambiato una parola e l'hanno fatto diventare "Morte agli arabi"» dichiarò la deputata Haike Grossman del Mapam, superstite dell'Olocausto. Mai, disse, neppure nei suoi sogni più spaventosi,
negli incubi che l'avevano tormentata per tanti anni, aveva pensato che potesse accadere una cosa del genere. Nel luglio del 1985 la Knesset, dopo un dibattito con continui richiami all'Olocausto, approvò un emendamento in base al quale chiunque si fosse macchiato di atti di razzismo o avesse perseguito finalità razziste non avrebbe potuto essere eletto. Approvò anche un secondo emendamento che metteva fuori legge chiunque incitasse al razzismo, negasse il diritto all'esistenza di Israele o avesse contatti con l'OLP. Kahane non potè dunque candidarsi alle elezioni successive. Al suo posto si presentarono alcuni suoi seguaci, che chiedevano ugualmente la deportazione degli arabi, ma lo facevano con un linguaggio più accettabile, scevro del fanatismo religioso e dell'osceno razzismo di Kahane, un linguaggio che si richiamava al pensiero sionista e all'esperienza israeliana. Anche la scuola, come il Parlamento, si impegnò nella lotta contro il razzismo. Il 1986-87 fu proclamato «anno dell'educazione alla democrazia». Il ministro della Pubblica Istruzione lanciò una serie di iniziative che prevedevano, quale parte del programma, incontri fra studenti israeliani e arabi. Le istituzioni pedagogiche, la radio, la televisione, le scuole militari si impegnarono tutte in questo sforzo per irrobustire la coscienza democratica. Ma i risultati furono modesti. «Sulla scia di Kahane, sentimmo sempre più spesso parlare di soldati che, influenzati dalla storia dell'Olocausto, ideavano i modi più strani per sterminare gli arabi» ha raccontato Ehud Praver, ufficiale del corpo docente dell'esercito. «Eravamo molto preoccupati che l'Olocausto legittimasse la nascita del razzismo ebraico. Capimmo che non bastava più mettere al centro del processo educativo soltanto l'Olocausto, che bisognava affrontare l'ascesa del fascismo, spiegare che cos'era il razzismo e quale pericolo rappresentasse per la democrazia. Troppi soldati» proseguiva Praver «erano convinti che l'Olocausto giustificasse qualsiasi malvagità.» Nel maggio del 1986 lo Stato maggiore dell'esercito inviò a tutti gli ufficiali comandanti un documento intitolato Gli insegnamenti dell'Olocausto, due pagine nelle quali si diceva in sostanza che la difesa della libertà era la migliore prevenzione contro la rinascita del nazismo. Un anno dopo, nell'aprile del 1987, l'esercito distribuì un secondo documento,
intitolato Dopo l'Olocausto, che conteneva il seguente passo: «L'esperienza dell'Olocausto ci riporta alla nostra condizione di uomini. ... Noi abbiamo l'obbligo di tenerci pronti a difenderci, ma accanto alla forza abbiamo anche l'obbligo di proteggere i valori morali che presiedono alla nostra identità e all'uso che facciamo della forza». Sul retro di copertina era riportata una citazione del romanziere A.B. Yehoshua: «Dobbiamo mettere a repentaglio la vita per difendere i nostri valori morali? E, per converso, è lecito non rispettare i valori morali fondamentali quando ci si trova in una grave situazione militare?». Il significato dell'Olocausto stava proprio nei dubbi sollevati da questo dilemma, diceva Abraham B. Yehoshua. Qualche mese dopo cominciò l'Intifada. L'esercito sospese quasi subito le visite dei soldati al Museo dei combattenti del ghetto nel kibbutz Lohamei Haghetaot con una scusa: disse che i programmi pedagogici erano inadeguati e le guide impreparate. In realtà gli alti comandi erano stati informati che, da quando era iniziata l'Intifada, alcuni soldati uscivano dal museo persuasi che bisognasse reprimere la rivolta palestinese con la stessa brutalità usata dai nazisti. Nell'estate del 1989 i giornali rivelarono l'esistenza nelle forze armate di alcuni gruppi dai nomi significativi, «Unità Mengele», «Plotone Auschwitz» e «Demjanjuk», sorti per assassinare gli arabi. L'esercito aveva tentato invano di bloccare la pubblicazione della notizia e, quando uscì, dichiarò che si trattava soltanto di manifestazioni di umorismo nero. Il Museo dei combattenti del ghetto, però, non ispirava soltanto la violenza e l'umorismo nero: in quel luogo alcuni giovani soldati maturavano la convinzione di non voler essere strumenti di oppressione e si rifiutavano di prestare servizio nei Territori occupati. La visita faceva affiorare alla coscienza problemi esistenziali e scrupoli morali ignorati o accantonati. Come il razzismo, anche questi dubbi presero corpo all'ombra dell'Olocausto e furono un altro banco di prova per la democrazia israeliana. Nel momento culminante della guerra in Libano, alcuni giovani di leva rifiutarono la chiamata alle armi, invocando ragioni politiche e morali. Poi, quando l'esercito cominciò a reprimere la rivolta palestinese nei Territori, violando a volte sistematicamente i diritti umani, gli obiettori di coscienza diventarono decine e furono imprigionati e processati. Il fenomeno
era probabilmente più esteso di quanto non sapesse l'opinione pubblica, perché ogni unità cercava in genere di risolvere i propri casi con discrezione, dietro le quinte. In Israele il servizio militare era sempre stato considerato non soltanto una necessità, ma un pilastro dell'identità personale e collettiva della nazione. Rifiutarlo equivaleva a esiliarsi. La protesta fu sicuramente molto limitata, tuttavia a metà degli anni Ottanta ormai se ne parlava apertamente. Anche questo dibattito, come quello molto più esteso sulla deportazione degli arabi, mise in evidenza la polarizzazione morale e culturale in atto nel paese e il crescente estremismo politico. Le violenze contro gli arabi nei Territori occupati, che l'esercito chiamava «eccessi», diventarono di pubblico dominio in seguito ad alcuni processi celebrati dai tribunali militari. Israele cominciò di nuovo a interrogarsi sull'obbedienza. Qual era la natura di un ordine «palesemente illegittimo»? Un soldato, quando doveva rifiutarsi di obbedire? Com'è ovvio, i riferimenti all'esercito nazista erano continui, anche se spesso indiretti, e i soldati che si opponevano al servizio in Libano o nei Territori motivavano spesso la loro scelta citando l'Olocausto. Il paragone fra Israele e la Germania nazista non era nuovo. Era già stato fatto ai tempi della guerra di indipendenza, del massacro di Kfar Kassem del 1956, e saltava fuori ogni volta che qualcuno chiedeva: «Può succedere anche a noi?» I politici israeliani chiamavano spesso «Hitler» i loro avversari, ma soltanto i più fanatici prendevano alla lettera l'epiteto. Le frange ultrareligiose del quartiere Mea Shearim di Gerusalemme tracciarono delle svastiche sulle facciate delle case per protestare contro il governo. Le tensioni etniche portarono a coniare espressioni come «ashkenazisti» e, dopo la guerra in Libano, Yeshayahu Leibowitz parlò di «giudeo-nazisti». Ma a un estremista di sinistra che gli scrisse: «II ricorso alle docce calde e fredde per torturare i prigionieri palestinesi mi ricorda qualcosa», Amos Oz replicò: «E' un'allusione demagogica e disonesta». Ogni tanto anche qualche giornale internazionale paragonava Israele alla Germania nazista: Israele rispondeva con l'accusa di antisemitismo. Ci provarono i giornali arabi dei Territori occupati e furono querelati. Ma nel clima di estremismo politico degli anni Ottanta, che produsse da un lato il kahanismo e dall'altro l'obiezione di
coscienza, il paragone con i nazisti divenne sempre più frequente. Al mutamento aveva certamente contribuito la retorica dell'Olocausto a cui Begin aveva attinto a piene mani. Nel settembre del 1988 il giornale laburista «Davar» chiamò «neonazista» il Moledet, un partito che chiedeva l'espulsione degli arabi da Israele. Fu querelato. Qualche settimana dopo, «Maariv» pubblicò a pagamento un'intera pagina contro la piattaforma elettorale del partito laburista, che prevedeva una conferenza internazionale per la pace allo scopo di risolvere il conflitto israelo-palestinese. L'annuncio era accompagnato da una grande fotografia di Adolf Hitler alla conferenza di Monaco del 1938. «Maariv» presentò le proprie scuse. Zeev Sternhell, uno storico dell'Università ebraica esperto di fascismo, scrisse: «La fine, per la democrazia tedesca, non arrivò il giorno in cui le milizie naziste uccisero il primo militante di sinistra, ma il giorno in cui un nazista fu condannato a tre mesi di prigione per lo stesso reato che era costato tre anni a un comunista». L'allusione era a un giudice di Tel Aviv che aveva appena condannato a sei mesi di affidamento ai servizi sociali un ebreo reo di aver ucciso un giovane arabo. Quando il sindaco di uno dei nuovi insediamenti in Cisgiordania tentò di imporre agli arabi che entravano nella sua città un distintivo, il popolare quotidiano «Hadashot» uscì con un editoriale intitolato: No al distintivo giallo. «Dovremmo cominciare a preparare le gabbie di vetro in cui ci rinchiuderanno quando saremo giudicati per quello che abbiamo fatto al popolo palestinese» dichiarò un celebre cantautore. Nell'inverno del 1990, dopo l'assassinio di Kahane, i suoi seguaci minacciarono i negozianti che avevano dipendenti arabi. Chi acconsentiva a licenziarli riceveva un attestato da appendere in vetrina con la scritta: in questo negozio non ci sono arabi. Yitzhak Arad, presidente del museo di Yad Vashem, dichiarò a «Hadashot»: «Quando lo seppi, pensai subito al boicottaggio degli ebrei in Germania». Un anno dopo, tre giudici di una giuria militare scrissero che di fronte alle atrocità commesse in Cisgiordania per ordine del colonnello Yehuda Meir «certe associazioni» erano «inevitabili». Nell'ottobre del 1988 lo scrittore Abraham B. Yehoshua dichiarò a «Newsweek» che, vedendo tanti «israeliani rifiutarsi di leggere il giornale e di ascoltare le notizie alla
televisione», aveva finalmente capito come avessero fatto molti tedeschi ad affermare di non aver saputo nulla dell'Olocausto. «E' così facile chiudere gli occhi di fronte ad avvenimenti che succedono a dieci chilometri di distanza» aggiunse. Naturalmente scoppiò uno scandalo. Yehoshua smentì di aver paragonato la situazione nei Territori a quella della Germania nazista e chiarì: Nel nostro inconscio collettivo e individuale noi rechiamo impresse, che lo si voglia o meno, non le immagini dei francesi in Algeria o degli inglesi in Kenya, ma le immagini della seconda guerra mondiale (non dimentichiamoci che l'Olocausto non consistette solamente nelle camere a gas, ma fu uno spaventoso sistema di umiliazione e di maltrattamento degli esseri umani, dei vecchi, delle donne e dei bambini). Sono queste le immagini fondamentali con cui siamo cresciuti e che sono radicate nel profondo dell'anima. Per la prima volta Yehoshua sembrò aver individuato il quadro teorico che consentiva di utilizzare l'Olocausto come metro di giudizio. Era un'idea nuova, la più audace, forse, avanzata sull'argomento da uno scrittore israeliano. Che l'avesse proposta non in un romanzo, ma in occasione di una polemica giornalistica non sorprende: la letteratura in lingua ebraica ha sempre avuto difficoltà a competere con i documenti dell'Olocausto. Gli scrittori più prestigiosi, Agnon, Oz e Yehoshua, hanno affrontato raramente il tema nei loro libri. Dei due grandi romanzi che si ispirano esplicitamente all'Olocausto, uno, Saul e Joanna di Naomi Frànkel, rievoca soprattutto la vita degli ebrei nella Germania prima dello sterminio, e l'altro, di trent'anni posteriore. Vedi alla voce: amore di David Grossman, analizza gli effetti dell'Olocausto sui superstiti immigrati in Israele. Nessuno dei due descrive direttamente l'orrore, così come non lo fa Aharon Appelfeld (anch'egli si tiene lontano dal fuoco). Le difficoltà che l'Olocausto pone agli scrittori israeliani non nascono soltanto dai limiti del linguaggio. Nella letteratura ebraica c'è una lunga tradizione che, a partire dalle lamentazioni bibliche, trae ispirazione dalle catastrofi, dalle repressioni, dalle centinaia di anni di massacri, dalle persecuzioni, espulsioni, discriminazioni di cui gli ebrei sono stati vittime. Le opere di poeti come Shaul Cemichovskij e Haim Nahman Bialik sulle persecuzioni antisemite nel Medioevo e sui pogrom russi di fine Ottocento sono rimaste sempre vive nella
coscienza letteraria ebraica e hanno conservato il loro significato anche dopo l'Olocausto. A questa tradizione si riallaccia in modo originale Uri Zvi Greenberg, che con le sue possenti lamentazioni si è conquistato la fama di più grande poeta dell'Olocausto. Con la politicizzazione dell'Olocausto, avvenuta sotto l'amministrazione Begin, una retorica nuova, più esplicita, è venuta a caratterizzare la prosa, la poesia e soprattutto il teatro israeliani. La guerra in Libano ha ispirato numerosi paralleli fra Israele e la Germania nazista. Dai massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila sono nati questi versi di Dalia Rabikowitz: Entrate nel campo, Marsch!, gridò il soldato alle donne urlanti di Sabra e Shatila. Ho ricevuto degli ordini. Alla fine del 1990 il parallelo con il nazismo comparve anche in un libro di testimonianze scritto dai soldati di stanza nei Territori. In Israele la divulgazione del tema dell'Olocausto cresceva di anno in anno. Dal programma televisivo di quiz sull'eroismo trasmesso in diretta da Auschwitz alla pubblicazione in ebraico di Maus, un fumetto americano sullo sterminio degli ebrei, la coscienza dell'Olocausto è penetrata nella vita quotidiana ed è diventata uno dei soggetti più frequenti nella cultura popolare cinematografica, teatrale, letteraria e televisiva. Alla fine degli anni Ottanta non passava quasi giorno senza che qualche giornale citasse l'Olocausto. A parlarne erano gli stessi quotidiani, in molti casi con gli stessi direttori, che avevano trascurato il genocidio nel momento in cui veniva perpetrato e anche dopo la guerra vi avevano accennato raramente. A eccezione di «Haaretz», la stampa israeliana si era interessata poco anche dei processi di Norimberga ai criminali nazisti: come lo sterminio degli ebrei non era parso una notizia degna di rilievo, così i processi ai loro assassini erano sembrati poco importanti. La svolta era avvenuta con la cattura di Eichmann. Nel settembre del 1961 «Maariv» aveva pubblicato su un'intera pagina una poesia di Evgenij Evtusenko, Babi Yar. Una volta scoperto l'Olocausto, i giornali non lo abbandonarono più, dedicandovi sempre maggior spazio. Ospitarono una serie di dibattiti storici, in cui si rimettevano in discussione le verità acquisite sul genocidio e su tutti gli eventi a esso connessi. Nell'estate del 1988, per esempio, si discusse se fosse giusto tradurre in ebraico Mein Kampf di Hitler. Alla fine ne fu pubblicata una versione ridotta. Il più grande evento mediatico
degli anni Ottanta fu il processo a John Demjanjuk, che si tenne a Gerusalemme. All'inizio del 1986, quando fu estradato dagli Stati Uniti, Demjanjuk aveva sessantasei anni. Nato in Ucraina, alla fine della guerra era emigrato a Cleveland nell'Ohio, dove era stato assunto alla Ford. Il dipartimento della Giustizia americano aveva cominciato a indagare sul suo passato una decina di anni prima, perché sospettava che egli avesse nascosto all'Ufficio immigrazione di essersi arruolato nell'esercito tedesco e di avere prestato servizio nel campo di concentramento di Sobibòr, in Polonia. Pare che a fornire le informazioni sulla sua identità sia stata l'Unione Sovietica, benché non se ne abbia la certezza. Gli americani indagarono per molti anni, ma non riuscirono a raccogliere prove sufficienti per incriminarlo. Lo privarono comunque della cittadinanza. Israele ne chiese l'estradizione, su sollecitazione, si dice, delle autorità statunitensi che volevano liberarsene. Nel processo che gli fu intentato, Demjanjuk, stranamente, non fu chiamato a rispondere dei crimini commessi a Sobibòr, bensì a Treblinka. Fu accusato di aver azionato i dispositivi delle camere a gas, in cui erano state assassinate 870.000 persone, in maggioranza ebrei, e di aver commesso atti di sadismo particolarmente crudeli, che gli avevano guadagnato il soprannome di Ivan il Terribile. (Il vero nome di Demjanjuk era Ivan.) Il caso giudiziario n. 373/86 era sostanzialmente imperniato su una carta d'identità con il nome, la fotografia e le caratteristiche fisiche di Demjanjuk e sulla testimonianza di numerosi superstiti di Treblinka che sostenevano di averlo identificato. La carta d'identità era simile a quelle rilasciate al campo di addestramento delle SS di Trawniki, in Polonia. L'aveva portata in Israele dalla Russia sul suo aereo privato il miliardario ebreo-americano Armand Hammer, con una missione spettacolare e misteriosa. Dall'Unione Sovietica erano arrivati in seguito altri documenti. John Demjanjuk sosteneva di non essere mai stato a Treblinka. In effetti la carta d'identità dimostrava soltanto che era stato a Sobibòr, ma Demjanjuk negava anche questo. Sostenne che i documenti presentati alla corte erano falsi, che le accuse contro di lui facevano parte di un complotto per mettere in difficoltà la comunità ucraina antisovietica espatriata negli USA, che era tutta una cospirazione del KGB. Con la sua linea
di difesa egli orientò il processo: il dibattimento, anziché concentrarsi sulla tragedia di Treblinka, si focalizzò essenzialmente sull'enigma dell'identità dell'imputato. Durante il processo Eichmann erano stati menzionati due ucraini che azionavano le camere a gas: Nikolaj e Ivan. Ivan era sicuramente un sadico che odiava gli ebrei, ma, al contrario di Eichmann, non aveva avuto alcun ruolo nelle decisioni che avevano portato al genocidio e niente lasciava supporre che si identificasse con l'ideologia nazista. Ivan era un rosh katan, letteralmente una «testa piccola», ossia un pesce piccolo, un soldato che eseguiva degli ordini, scansando qualsiasi responsabilità. Il processo a Demjanjuk avrebbe potuto diventare il processo ai tanti rosh katan del regime nazista. Avrebbe potuto stabilire che ognuno è responsabile delle proprie azioni e degli ordini ai quali obbedisce. Avrebbe potuto dimostrare che chiunque esegua un ordine palesemente illegittimo verrà prima o poi chiamato a risponderne, sia pure quarant'anni dopo. Se così fosse avvenuto, il processo avrebbe potuto contribuire alla lotta contro le manifestazioni di razzismo che affioravano in Israele. Invece il procuratore preferì soffermarsi sugli orrori del campo di sterminio. I superstiti vennero uno a uno a raccontare con particolari agghiaccianti le loro esperienze. L'aula del tribunale era stracolma, le udienze venivano trasmesse in diretta dalla radio e dalla televisione. Per giorni e giorni Israele assistette a testimonianze atroci, compresi gli abusi sessuali sui bambini, come se ancora una volta il paese si prostrasse con rabbia e con odio davanti all'orrore e alla morte, come se ancora una volta si rifugiasse in trincea, si richiudesse su se stesso, per sfuggire a un mondo ostile. Il processo, analogamente a quanto già era accaduto con Eichmann, si dimostrò uno strumento inadeguato a raccontare la storia, ma di grande forza drammatica. Il divario fra la correttezza del dibattimento, rispettoso delle procedure giuridiche, e l'orrenda realtà che rivelava creava una tensione quasi insostenibile. Il procuratore, Michael Shaked, un giovane dai capelli ricci, intelligente, diligente e affabile, si sentiva investito di una missione: realizzare la giustizia storica. Dava l'impressione di credere veramente che John Demjanjuk e Ivan il Terribile fossero la stessa persona. A volte pareva il solo a crederci. In alcuni momenti
la difesa trasformò il processo in una farsa. Marc J. O'Connor, un avvocato americano logorroico, amante della pubblicità, aveva continui, e interminabili, scontri con la corte, che arrivavano spesso all'insulto. Ogni tanto faceva sfoggio di qualche parola di ebraico. La corte, a sua volta, gli rispondeva per le rime, tanto che a un certo punto O'Connor chiese la ricusazione dei giudici, che però non gli fu concessa. Demjanjuk rischiava di finire sulla forca soprattutto a causa dello strano difensore che si era scelto. A metà processo l'imputato e i suoi familiari licenziarono O'Connor, che rientrò nell'anonimato della sua Buffalo, nello Stato di New York, lasciando dietro di sé una lieve scia di dopobarba. L'ostilità fra O'Connor e il suo collega della difesa, l'israeliano Yoram Sheftel, costituì uno degli elementi salienti del processo. Poi venne il tentativo di suicidio della donna che si era presentata come esperta ed era crollata durante il controinterrogatorio. Infine un altro avvocato della difesa si tolse la vita, gettandosi da una finestra. Al suo funerale un vecchio lanciò dell'acido contro Sheftel, che solo per miracolo non rimase accecato. Uno dei tre giudici ebbe un infarto. Le udienze si tenevano in una sala cinematografica alla presenza dei fotografi e della televisione. La stampa, come al solito, se ne infischiò della presunzione di innocenza e condannò l'imputato prima ancora della sentenza. Altrettanto fece il ministro della Giustizia, chiamandolo «massacratore». Per un certo verso fu un processospettacolo, ma condotto nel rispetto della legge e delle procedure. L'imputato ebbe ampia facoltà di difendersi; ogni parola pronunciata in aula veniva tradotta in simultanea in ucraino e in inglese. Gli avvocati difensori ricevettero tutti i supporti tecnici di cui avevano bisogno. Demjanjuk fu tenuto in isolamento, ma in una cella confortevole. Aveva la radio, poteva studiare l'ebraico, leggere i giornali e ogni tanto telefonare alla famiglia. Quando si ammalò, ricevette tutte le cure mediche necessarie. Ma che possibilità aveva l'imputato di essere assolto, sia pure con formula dubitativa? Quasi nessuna nel clima che si era creato intorno al processo e ai testimoni. Era possibile identificare un uomo dopo tanti anni? E l'identificazione era valida, dal momento che la sua fotografia era comparsa sui giornali e la sua immagine alla televisione? Le procedure utilizzate per la sua identificazione erano per molti versi irregolari e i
testimoni, nonostante le smentite, avevano probabilmente avuto modo di consultarsi. Alcuni, fra l'altro, avevano già deposto in altri processi sulla prigionia a Treblinka. Uno dei momenti più drammatici dell'intera vicenda fu l'interrogatorio di Eliahu Rosenberg, che a Treblinka aveva il compito di estrarre i cadaveri dalle camere a gas. I prigionieri che tentavano la fuga venivano puniti con una morte particolarmente lenta: i tedeschi immettevano una quantità insufficiente di veleno nelle tubature e la loro agonia durava un'intera notte. L'avvocato difensore di Demjanjuk, O'Connor, chiese a Rosenberg se aveva mai pensato di aiutare i condannati a fuggire. La stessa domanda era già stata posta ai testimoni dei processi Kastner ed Eichmann. Rosenberg ne fu molto turbato. Rosenberg: Come avrei potuto farlo, vostro onore? Come avrei potuto aiutarli? Io non avevo nessun contatto con i vivi. Se li vedevo, li vedevo quando entravano nelle camere a gas. Non avevo nessun contatto con loro. Non avevano neppure il tempo di alzare la testa. Che cosa avrei potuto dire? Giudice Levin: Signor Rosenberg ... risponda alla domanda. Ha cercato di aiutarli a fuggire? Procuratore Shaked: Con tutto il rispetto per la corte, credo che il testimone non possa rispondere meglio di così. La domanda, a mio parere, è provocatoria. Ritengo che il testimone non sia tenuto a rispondere a una domanda del genere. Levin: La domanda è ammissibile e pertinente, e il signor Rosenberg è invitato a rispondere. Rosenberg: Devo rispondere, vostro onore? Levin: Sì, sì. Rosenberg: A quella domanda? Levin: Alla domanda che le ho fatto un attimo fa. Rosenberg: Capisco, vostro onore. Allora ripeto: le persone erano completamente nude. ... Come avrei potuto aiutarle? Come? Come? Gridando: «Non entrate nella camera a gas?» Non volevano entrarci. Se, Dio non voglia, uno di noi avesse gridato, non lo auguro neppure a lei, signor O'Connor, di assistere a quello che gli avrebbero fatto. L'avrebbero spinto vivo in una fossa piena di sangue. Perciò non mi faccia queste domande, signor O'Connor. La prego. Lei non c'era, là. Io sì. Chieda a lui, a Ivan. Lui le dirà che cosa mi avrebbe fatto... Levin: Signor Rosenberg, signor Rosenberg... Rosenberg: Ci sono stati casi... Levin: Capisco la sua sofferenza. Ma, come le ho già detto, siamo in tribunale e dobbiamo comportarci come si conviene in un tribunale. Non è necessario gridare. Ci vuole un certo ritegno. La
prego di non dimenticarlo durante il resto dell'interrogatorio. Rosenberg: Vostro onore, non mi è mai stata fatta una domanda così dolorosa. Neppure i peggiori antisemiti mi hanno mai chiesto una cosa del genere. Come avrei potuto aiutare quelle creature così disgraziate? Chi mi avrebbe aiutato a uscire per raccontare quello che succedeva là? Levin: Va bene, signor Rosenberg. Basta così. Ancora una volta in un'aula di tribunale, nel bel mezzo del rituale giuridico, irrompeva il terribile dramma di coloro che erano sopravvissuti perché i nazisti li avevano costretti a svolgere vari lavori durante lo sterminio, come, per esempio, strappare ai morti i denti d'oro e bruciare i cadaveri. Essi avevano dovuto tener chiusi dentro di sé quei ricordi per tutti gli anni passati in Israele. Ed ecco che il paese in cui avevano ricominciato a vivere chiedeva loro di identificare l'assassino, di contribuire a condannarlo. Era l'ultima occasione per fare qualcosa per le vittime e redimersi. E questa è una buona ragione per considerare con molta cautela le loro testimonianze. Ma ci voleva molto coraggio a guardare negli occhi un superstite dell'Olocausto e dirgli che la sua testimonianza era insufficiente. I tre giudici, Dov Levin, Dalia Domer e Zvi Tal, ritenevano che il loro compito fosse ricordare a tutta l'umanità l'Olocausto. Forse, prosciogliendo Demjanjuk, sia pure con formula dubitativa, temevano di portare acqua al mulino degli antisemiti e degli antisionisti, che intendevano negare l'esistenza dell'Olocausto. Non potevano caricarsi di un simile fardello. Il 18 aprile 1988 Demjanjuk fu condannato a morte. Il pubblico accolse il verdetto con grida di giubilo. Le motivazioni della sentenza occupano quasi 450 pagine. Alcuni passi sono formulati in un linguaggio poetico, quasi biblico, il linguaggio della preghiera più che quello del diritto. Poiché la storia del genocidio degli ebrei «è stata consegnata, per volontà o incuria, all'abisso dell'oblio», spetta a loro, dicono i giudici, «riesumare la verità». Hanno affrontato la stesura della sentenza con «sacro timore», ritenendo loro dovere «ripercorrere il destino amaro e crudele degli ebrei europei durante i giorni bui dell'Olocausto. Dobbiamo» affermano «ripercorrere la strada dell'agonia e della morte, impregnata di sangue e bagnata dalle lacrime di coloro che sono stati massacrati, strangolati, martirizzati dai macellai tedeschi e dai loro collaboratori di altre nazioni». Le
parole «macellai tedeschi e i loro collaboratori» erano tratte da una preghiera per i morti e non dal testo della legge, che parla di «nazisti e collaboratori dei nazisti». E ancora una volta i giudici ribadiscono che gli ebrei d'Europa sono stati «condotti al macello come agnelli». La loro sentenza non è un documento giuridico, è una lamentazione, che si iscrive nel solco della tradizione nazionalreligiosa ebraica. La corte non era chiamata a «svelare la verità» sull'Olocausto. Lo sterminio degli ebrei non era più «consegnato all'abisso dell'oblio» e non era di questo che si era dibattuto in tribunale. Demjanjuk ricorse in appello e la Corte suprema esaminò il caso in modo razionale e poco teatrale. I dubbi non vennero sciolti, e anzi si rafforzarono, all'emergere di nuove prove in Unione Sovietica. I giornali e la televisione se ne occuparono poco, quasi provassero imbarazzo all'idea di aver messo per tanto tempo quell'uomo al centro della storia dell'Olocausto. In fondo Demjanjuk non era Adolf Eichmann. Forse era Ivan il Terribile di Treblinka e forse no; forse, come diceva la sua carta d'identità, era Demjanjuk il Terribile di Sobibòr. Non lo sapremo mai con certezza. Benché si facesse un gran parlare del «valore pedagogico» del processo, il governo israeliano non parve attribuirgli il valore nazionale e storico che Ben Gurion aveva assegnato al processo Eichmann venticinque anni prima. Il processo a John Demjanjuk non ebbe alcuna influenza sull'opinione pubblica. Ora i giovani israeliani erano più informati sull'Olocausto di quanto non lo fossero i loro coetanei della generazione precedente. Il film Shoah di Claude Lanzmann aveva avuto centomila spettatori e forse era stato più istruttivo del processo. E soprattutto l'Olocausto non era più un segreto terribile, sepolto in fondo all'anima dei superstiti, ma apparteneva alla storia del paese o, meglio ancora, alla sua memoria collettiva.
PARTE OTTAVA LA MEMORIA: LA LOTTA PER RIMODELLARE IL PASSATO CAPITOLO XXIV «L'OLOCAUSTO E L'EROISMO» In fondo alla strada che porta il nome di Theodor Herzl e conduce alla sua tomba c'è il grande cimitero militare. Vi sono sepolti i soldati caduti nelle guerre fra gli israeliani e gli arabi. Le tombe sono all'ombra dei pini, immerse in una pace senza tempo. Un monumento onora i 200.000 soldati ebrei caduti combattendo con l'Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale. Il memoriale, situato fra le tombe dei soldati israeliani, sembra quasi voler rivendicare un'appartenenza postuma delle vittime all'esercito israeliano e al movimento sionista. Proclama, in un certo senso, che quegli uomini e quelle donne sono caduti non per difendere l'Unione Sovietica nella sua guerra contro i nazisti, bensì per difendere il popolo ebraico e per realizzare la fondazione dello Stato di Israele. E' per questo che meritano di essere ricordati accanto ai padri del sionismo e ai leader della nazione nel luogo in cui si commemorano gli eroi israeliani. Le vittime dell'Olocausto hanno anch'esse il loro memoriale sui pendii del colle. I suoi ideatori avrebbero voluto che sorgesse nel punto più alto della città, un «Pantheon» svettante sulla cima del monte Scopus. Nelle prime riunioni si era parlato altresì di un «mausoleo», di una «cattedrale»: «La prima cosa che tutti abbiamo ben chiaro è che deve essere grandioso, straordinario ... un monumento che abbia l'immensità della catastrofe» dichiarò uno dei presenti. Quel progetto non divenne mai realtà. Fu scelto un luogo modesto, come se ci fosse qualche ragione per tenerlo nascosto: non è rivolto in direzione di Gerusalemme, la capitale di Israele, ma verso il deserto della Giudea. La strada che vi conduce si dirama in direzione di Ein
Kerem, il pittoresco villaggio in cui nacque Giovanni Battista. Il visitatore arriva davanti a uno scialbo edificio di pietra a quattro piani, che ospita gli uffici, un'ottima biblioteca con oltre 100.000 volumi e gli archivi. Accanto vi sono la caffetteria, i bagni pubblici e i telefoni. Di fronte c'è un negozio che vende libri sull'Olocausto, alcuni eruditi, altri divulgativi, e le guide di Israele in varie lingue, compreso il tedesco. Ma dentro ci sono anche cartoline e francobolli, cianfrusaglie varie, ciondoli, souvenir e oggetti di culto, fra cui mezuzot* e candelabri in rame, argento e oro. I prezzi sono indicati in dollari; gli oggetti acquistati vengono impacchettati in sacchetti di plastica bianchi sui quali è impressa una menorah nera a sei bracci, in memoria dei sei milioni di morti, e la scritta «Yad Vashem». Il candeliere costituisce l'emblema dell'istituzione: l'artista che l'ha disegnato si è ispirato alla menorah a sette bracci che faceva parte degli arredi sacri del Tempio di Gerusalemme e che è diventata il simbolo dello Stato di Israele. Nel negozio ne sono in vendita modellini di varie misure. Di fronte all'edificio si stende un grande prato. Sull'erba, ai primi di maggio del 1990, ho visto gruppi di studenti e di soldati seduti in cerchio intorno alle guide, intenti a parlare del genocidio degli ebrei, come accade, mi ha detto il direttore dell'istituto, Yitzhak Arad, quasi tutti i giorni. Non si sa esattamente quanti siano i visitatori, perché l'ingresso è libero e nessuno tiene il conto, ma secondo le stime di Arad ogni anno arrivano circa cinquecentomila fra studenti e soldati. Prima di entrare nell'ufficio del direttore ho indugiato un poco nel cortile. Ho visto i soldati, quel giorno del corpo dei paracadutisti, deporre i fucili sul prato in una pila ordinata. Uno di loro rimase di guardia. Si sedette accanto alle armi a gambe incrociate e tirò fuori dallo zaino l'edizione economica di un romanzo in inglese di Harold Robbins. Dagli autobus con l'aria condizionata sbarcarono turisti di svariate nazionalità (ne arriva quasi un milione all'anno, mi disse Arad): indossavano vestiti colorati e parlavano una babele di lingue. Come tutti i turisti, si lasciarono dietro una scia di lattine vuote e contenitori di pellicole fotografiche, che gli spazzini arabi raccolsero immediatamente. Due dirigenti dell'istituto attraversarono il cortile. Parlavano in polacco, lasciando cadere qua e là qualche parola di ebraico e di yiddish. Uno aveva un numero azzurro tatuato
sul braccio. Il memoriale era stato eretto nello spirito del giuramento nazionale così chiaramente espresso da Avraham Shionsky: «Per ricordare tutto, per ricordare e non dimenticare niente». La strada che conduce al museo storico corre in mezzo a due filari di carrubi: è il Viale dei Giusti, dedicato ai non ebrei che rischiarono la vita per salvare gli ebrei dai nazisti. Lo Stato di Israele li insignisce di un titolo onorifico e versa ad alcuni una piccola pensione in base alle indicazioni di una commissione speciale, presieduta da un giudice della Corte suprema. Nel corso degli anni sono diventati migliaia. I giusti, o i loro eredi, hanno diritto a piantare un albero lungo il viale. (NOTA: Plurale di mezuzah, l'astuccio che contiene un piccolo rotolo di pergamena sul quale è ricopiato a mano un passo biblico (Deuteronomio 6,4-9) e che viene posto sugli stipiti delle porte di casa. (NdT) Ai piedi del museo sorge la copia del grande monumento ideato dallo scultore Natan Rapaport per commemorare la rivolta del ghetto di Varsavia, il cui originale si trova nella capitale polacca. E' un'opera concepita nello stile eroico dell'epoca stalinista: figure imponenti, erette e tese, pronte alla battaglia, con muscolose braccia di bronzo che impugnano armi e occhi che scrutano lontano. Il visitatore incontra dunque i giusti e i ribelli del ghetto, che furono due eccezioni, prima ancora di venire a contatto con la storia dell'Olocausto. Il progetto originario era ben diverso. Ma Yad Vashem, che, dopo il Muro del pianto, è il monumento più importante di Israele, è un misto di improvvisazione e compromessi, mai adeguatamente finanziato. Le sale del museo sono piccole e le pareti non sempre linde. I documenti esposti sono per lo più fotografie ingiallite, alcune delle quali riproducono scene sconvolgenti di deportazioni di massa, esecuzioni, torture, «esperimenti medici» e altre atrocità perpetrate sui prigionieri dei lager: accanto alle immagini, grandi pannelli didattici con spiegazioni in ebraico, in inglese e in yiddish. Le riproduzioni sono disposte in ordine cronologico, a cominciare dalle prime manifestazioni di antisemitismo nella Germania nazista: libri,
manifesti, vignette. Il museo non presenta l'antisemitismo nazista come lo specchio del carattere nazionale tedesco e neppure come una componente della sua storia o del fenomeno universale del razzismo e della xenofobia. Non dà spiegazioni, quasi non ce ne fosse bisogno, quasi si trattasse di un fenomeno naturale. La vita nei ghetti è illustrata da fotografie che mirano a suscitare un misto di compassione, identificazione e repulsione. Una di esse mostra una vecchia mentre vende le fasce gialle con la stella di Davide che gli ebrei erano costretti a portare sul braccio. Superata la prima sala, si entra in un cunicolo, che ricorda le fogne in cui si nascondevano i partigiani del ghetto. La resistenza al nazismo viene descritta così dettagliatamente da dare l'impressione che gli ebrei abbiano combattuto una vera e propria guerra contro i nazisti. Nel culto israeliano della memoria l'Olocausto e l'eroismo vanno a braccetto, come se avessero avuto storicamente lo stesso rilievo e fossero due facce di un'unica medaglia. A circa metà percorso, dopo alcune delle immagini più atroci, c'è un pannello che cerca di risollevare il morale del visitatore: la morte degli ebrei nell'Olocausto non è stata vana, spiega, perché sono morti da martiri. Martire non è solo l'ebreo che ha preferito rinunciare alla vita che alla sua religione. Come dice Maimonide, anche chi viene ucciso unicamente perché ebreo è un martire. Ed era proprio questa l'intenzione degli ideatori di Yad Vashem: commemorare il martirio ebraico. «Il martire è colui che accetta la morte e la sofferenza per una causa nobile» ha scritto uno dei primi dirigenti del museo. «Essere ebreo, essere diverso da qualsiasi altra nazione, e soffrire intere generazioni per avere il diritto alla propria diversità, è una causa nobile.» Non tutti, evidentemente, erano d'accordo. Nel nome ebraico del memoriale non figura la parola «martiri», come se fosse una parola troppo giudaica, troppo religiosa, non abbastanza israeliana. Il suo nome completo in ebraico significa «Istituzione commemorativa dell'Olocausto e dell'eroismo»: soltanto gli ebrei americani lo chiamano «Memoriale dei martiri ed eroi dell'Olocausto». Il luogo è dunque dedicato a due astrazioni, l'Olocausto e l'eroismo, piuttosto che alle vittime e agli eroi. Soltanto pochi, fra i morti e i superstiti, rispondevano alla concezione eroica dei pionieri israeliani. Yad Vashem, che significa «un nome eterno», è tratto da Isaia (56,5): «[A
loro] io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un posto e un nome meglio di figlia e figlio; darò loro un nome eterno [yad vashem] che non sarà mai cancellato». Sono versetti problematici, in cui «il nome eterno» è ritenuto migliore «dei figli e delle figlie», ossia della vita stessa. Essi sono incisi in enormi lettere di pietra nel cortile di Yad Vashem, ma l'espressione «meglio di figlio e figlia» è stata omessa. Poco dopo il pannello esplicativo, con grottesca subitaneità, un avviso rituffa il visitatore nel terrore che contrassegna la vita quotidiana in Israele: «Attenti agli oggetti sospetti» ammonisce. La parete adiacente è dedicata ai legami fra il leader palestinese Haj Amin al-Husseini e le autorità naziste. Se ne ricava l'impressione che il piano nazista di sterminio degli ebrei e l'ostilità degli arabi verso Israele abbiano molto in comune. Poi viene la storia dell'Exodus. La nave, carica di immigrati clandestini, fu protagonista di una vicenda drammatica due anni dopo la fine della seconda guerra mondiale: le immagini, invece, suggeriscono l'idea che si sia trattato di una missione di salvataggio durante l'Olocausto. La visita si conclude con la creazione dello Stato di Israele. Una delle ultime fotografie del museo ritrae Adolf Eichmann nella gabbia di vetro. Il percorso del museo conduce dunque «dall'Olocausto alla rinascita». Il suo messaggio è «mai più». Il visitatore che lo desideri può salire al primo piano. Entrerà in una galleria semibuia, in cui regna un misto di funerea solennità e funzionalità burocratica. E' il «santuario dei nomi», in cui sono microfilmati i nomi delle vittime. Qui ognuno può ricercare i nomi dei propri familiari uccisi e, se non li trova, può chiedere di aggiungerli all'elenco compilando un modulo, «il foglio della testimonianza», disponibile in otto lingue. Il servizio è gratuito. E' un modo per sconfiggere la morte, in questo caso violenta, con la memoria: finché le vittime non saranno dimenticate, esse vivranno insieme a noi. Ed è anche un modo per riscattare dall'anonimato ciascuno dei sei milioni di morti, restituendo a ognuno la propria identità di uomo. Sul modulo c'è scritto: «Poiché il tempo corre veloce e in meno di una generazione non ci sarà più nessuno che abbia conosciuto gli scomparsi, è necessario interrogare gli anziani della nostra famiglia e registrare i caduti, finché sarà ancora possibile». Nell'autunno del 1990 i nomi erano quasi tre milioni. In
una riunione della direzione di Yad Vashem, il presidente del World Jewish Congress, Nahum Goldmann, criticò l'iniziativa. Non si sarebbe mai riusciti, disse, a registrare tutti i sei milioni di morti e i neonazisti avrebbero potuto sfruttare questa impossibilità per sostenere che il numero delle vittime era molto inferiore. La cosa sarebbe stata assai imbarazzante, perché gli accordi con la Germania sulle riparazioni erano basati su quella cifra. Vicino all'uscita ci sono grandi lapidi che ricapitolano il numero degli ebrei uccisi in ciascun paese. Una di esse ricorda che furono assassinati un milione e mezzo di bambini. Il totale delle vittime è di sei milioni e cinquecentomila. Uscendo dal museo il visitatore entra nel cortile in cui si tiene una volta all'anno la commemorazione ufficiale. In un angolo sorge la Sala del Ricordo, una struttura rettangolare ricoperta di lastre di basalto con cancelli neri in ferro battuto. Il suo nome ebraico è Ohel Yizkor, che significa «Tabernacolo della memoria». All'interno della costruzione i muri sono di cemento e il soffitto sale restringendosi fino a diventare un foro rettangolare che ricorda a un tempo gli orifizi attraverso cui venivano immessi i gas nelle camere della morte e il camino dei crematori dove si bruciavano le vittime. Il visitatore si trova su una piattaforma sopraelevata e guarda in giù, verso il pavimento su cui sono incisi i nomi dei ventidue maggiori campi di sterminio. In un angolo, davanti a una nicchia in cui sono conservate le ceneri raccolte nei crematori dei lager, arde una fiamma perenne in una coppa di bronzo infranta. Qui si celebrano le cerimonie ufficiali e sostano in meditazione i capi di Stato stranieri, come accade in altri paesi davanti alla tomba del milite ignoto. All'ingresso gli uomini si coprono il capo, com'è usanza nei luoghi sacri ebraici. Anche qui, come davanti al Muro del pianto, sono a disposizione dei visitatori zucchetti neri di carta, piegati e cuciti con le graffette. Chi vuole, può chiedere al custode una copia in ebraico, in inglese o in yiddish del kaddish, la preghiera per i morti. La parola «tabernacolo» indicava in origine la struttura mobile innalzata nel deserto da Mosè per proteggere e celare l'Arca dell'Alleanza, e insieme al termine «santuario» compare nel nome di molte sinagoghe di Israele. Ma il Tabernacolo della memoria non è una sinagoga, tanto che non c'è
(Nota: La cifra di sei milioni divenne canonica a poco a poco. Alla fine della guerra si parlava ancora di «più di cinque milioni» e nel 1950 un deputato disse che i morti erano sette milioni. La legge istitutiva di Yad Vashem, approvata nel 1953, riporta la cifra di sei milioni, ma la bozza del disegno di legge parlava semplicemente di «milioni». La Knesset discusse se ufficializzare il numero delle vittime o se invece lasciare che a stabilirlo fossero gli storici. Nel discorso d'apertura al processo Eichmann, Gideon Hausner disse di rappresentare «sei milioni di accusatori», ma a Eichmann fu imputata la morte di «milioni di ebrei», senza precisare la cifra. L'Enciclopedia dell'Olocausto, pubblicata da Yad Vashem, riporta la «stima» di 5.860.000.) separazione fra uomini e donne. In un'ala del museo si trova una sinagoga, ma non vi si tiene nessuna funzione: è in ricordo delle sinagoghe europee distrutte. A Yad Vashem non c'è un rabbino. E non è un caso che non ci sia. Il culto della memoria fu concepito fin da principio come un elemento essenziale del simbolismo nazionale e laico del movimento sionista e dello Stato di Israele. Nel settembre del 1946 il servizio di pompe funebri del gran rabbino invitò i dirigenti dell'Agenzia ebraica, in «rappresentanza del popolo ebraico», a presenziare alla sepoltura delle ceneri degli ebrei uccisi nel campo di sterminio di Cheimno. La cerimonia, che si tenne a Tel Aviv, attirò una grande folla e fu seguita da altre. I leader dell'Agenzia capirono che il rabbinato stava mettendo le mani sulla memoria dell'Olocausto e si preoccuparono. Bisognava impedire che le si imprimesse un marchio religioso. Nel 1949, durante una riunione dell'esecutivo, uno dei dirigenti manifestò il timore che le solenni esequie per l'inumazione delle ceneri delle vittime potessero mettere in ombra la traslazione delle spoglie di Theodor Herzl da Vienna a Gerusalemme. Il dibattito intorno al carattere di Yad Vashem fu molto acceso, ma alla fine il memoriale venne alla luce come un'istituzione nazionale laica. Al suo interno ci sono sculture figurative, che non sono ammesse dalla legge religiosa ebraica. Sulle steli e nelle iscrizioni abbondano le citazioni della Bibbia, come si usava negli anni Cinquanta, anni di nostalgia per l'antica sovranità ebraica sulla terra di Israele. Naturalmente non
c'è neppure un cenno ai duemila anni di Esilio e alla legge religiosa sviluppatasi nella Diaspora. In occasione delle commemorazioni si recitano le preghiere e si accendono i ceri, ma la direzione affida tale compito esclusivamente ai rabbini e ai cantori militari, riducendo all'osso l'aspetto religioso della cerimonia. Alle preghiere fa da contrappeso la lettura di versi di poeti israeliani. Una delle poesie recitata più spesso è quella in cui Haim Curi, rivolto alle vittime, dice: Noi abbiamo vendicato le vostre morti amare e solitàrie con il nostro pugno, solido e caldo. Abbiamo eretto qui un monumento al ghetto incendiato, un monumento vivente che non avrà mai fine. Il monumento al quale si allude è lo Stato di Israele. Nel presentare al Jewish National Fund il suo progetto di un memoriale dedicato alle vittime dei nazisti, Mordecai Shenhabi assunse un atteggiamento molto pragmatico: «Il Fondo ha bisogno di una causa che attiri grandi sovvenzioni» scrisse. Pensava ai contributi dei ricchi ebrei d'oltremare, ma prevedeva anche forme di autofinanziamento. Chi voleva ricordare i propri cari avrebbe potuto acquistare un albero da piantare in uno speciale boschetto o una lapide da porre sulla tomba del defunto, in qualsiasi parte del mondo fosse sepolto. Il ricavato sarebbe stato utilizzato per accogliere gli immigrati e fondare nuovi insediamenti sionisti, scrisse Shenhabi già nel 1942, quando lo sterminio degli ebrei era appena cominciato. Progettare un memoriale era un modo per prendere le distanze dal presente, per considerarlo un capitolo nella storia della nazione e far sì che l'attenzione dell'opinione pubblica si concentrasse sul futuro sionista. Shenhabi, che era nato in Russia, risiedeva nel kibbutz Mishmar Haemek, appartenente al movimento dei kibbutz di Hashomer Hatsair. Era uno di quei pionieri sionisti con la testa piena di idee, che proponevano in continuazione progetti, non sempre realizzabili. Silenzioso, tenace (a volte fino alla cocciutaggine), Shenhabi era di un attivismo frenetico, sempre pronto a tuffarsi in qualche nuova impresa. I suoi progetti erano un miscuglio originalissimo di immaginazione e senso pratico. Come sia nata in lui l'idea di erigere un memoriale alle vittime dell'Olocausto è difficile dirlo. Al Jewish National Fund Shenhabi mandò, insieme a un manifesto ideologico e a una stima dei costi, lo schizzo di una grande torre in cima a un colle.
Tutt'intorno c'erano ettari ed ettari di parco, che egli chiamò «il giardino del popolo». Al suo interno Shenhabi immaginò un Santuario della memoria con i nomi delle vittime, un Santuario della battaglia (dell'eroismo), musei storici e archivi dell'Olocausto, istituti di ricerca sulla storia del sionismo, un grande centro congressi, alberghi, un ostello della gioventù, ristoranti, impianti sportivi, uno stadio e un cimitero. I turisti sarebbero accorsi a frotte, prometteva Shenhabi. Durante una delle prime riunioni per discutere del progetto qualcuno fantasticò di ricoprire di vetro tutto il cimitero, trasformandolo in una serra di piante tropicali. Come sede del memoriale, Shenhabi non pensava ancora a Gerusalemme ma piuttosto a una regione agricola, nella convinzione che il progetto dovesse inserirsi nel piano del National Jewish Fund per l'acquisto di terre destinate ai nuovi insediamenti. «Gerusalemme non rappresenta lo spirito pionieristico del sionismo» sentenziò a una riunione un altro membro di Hashomer Hatsair. La realizzazione del parco della memoria, scrisse Shenhabi, era indispensabile per riportare alla normalità la vita in Israele. «Abbiamo il dovere di perpetuare la memoria della più grande catastrofe del secolo nella cornice della nostra impresa sionista» affermò. Era in questa chiave che doveva essere interpretato il suo progetto. Il «monumentale» Santuario della memoria sarebbe stato un dito accusatore puntato contro il mondo non ebraico, che dava «gli ebrei in pasto al nemico», e avrebbe insegnato a tutti che cosa significhi «cercare di vivere per mille anni in paesi che non sono nostri». Il Santuario della battaglia avrebbe invece esaltato il valore della lotta in difesa dell'onore degli ebrei e dell'umanità. «In esso, la generazione cui apparteniamo insegnerà a quelle future che i nostri fratelli non si sono lasciati condurre al macello "come agnelli". Con esso noi dimostreremo quanto sia stata grande la nostra partecipazione alla guerra contro la terribile nemesi.» (Con l'espressione «la nostra partecipazione» egli intendeva riferirsi, a quanto pare, agli ebrei che avevano combattuto negli eserciti alleati.) Shenhabi prevedeva che il numero dei visitatori al Santuario della memoria sarebbe calato con gli anni, perché la maggior parte si sarebbe accontentata di una sola visita. Sarebbe invece aumentato il numero dei visitatori al Santuario della
battaglia, perché «la guerra bisogna impararla e reimpararla», come dichiarò nel 1944. Espose il suo progetto anche a Ben Gurion, il quale, dopo averci pensato a lungo, gli assicurò il proprio appoggio. Il Consiglio di presidenza del Jewish National Fund esaminò la proposta con grande serietà, ma non ne fu entusiasta. I consiglieri temevano che i finanziamenti riservati al progetto andassero a discapito delle loro iniziative e dubitava che sarebbe stato abbastanza remunerativo da coprire le spese iniziali. Si pose anche il problema se quello suggerito da Shenhabi fosse il modo migliore e più corretto per ricordare l'Olocausto. Il «Pantheon» proposto da Shenhabi non avrebbe risvegliato negli israeliani l'orgoglio, bensì un profondo dolore, osservò Eliahu Epstein (alias Eliahu Eilat, futuro primo ambasciatore israeliano a Washington), e perciò contrastava con l'atteggiamento ottimistico del movimento sionista. «E' meglio creare nuova vita con un'impresa vivente anziché con un monumento di pietra» dichiarò. Era inoltre convinto che pochi sarebbero stati disposti a sborsare denaro per commemorare le sofferenze: «Di solito le nazioni non erigono monumenti per ricordare le sconfitte e il dolore, ma piuttosto per ricordare le vittorie e gli atti gloriosi». Un suo collega riteneva che si dovesse fare qualcosa per commemorare i propri cari, senza però insistere troppo sul lutto: «Bisogna porre l'accento sugli aspetti costruttivi». Un altro chiese se fosse giusto «sfruttare a fini commerciali l'angoscia degli ebrei», per poi concludere che era inutile preoccuparsi, dal momento che dopo la guerra sarebbe prevalso il desiderio di dimenticare, come era già successo alla fine del primo conflitto mondiale, quando la gente era scesa a ballare nelle strade. Il Jewish National Fund discusse più volte del progetto di Shenhabi, ma non aveva fretta di realizzarlo. Anzi, nel 1942 presentò un piano che era in concorrenza con quello di Shenhabi: la Foresta dei martiri, che sarebbe dovuta sorgere sui colli di Gerusalemme, con «capanne del ricordo» sparse in mezzo agli alberi, dove i visitatori avrebbero potuto raccogliersi a ricordare le vittime. Shenhabi protestò, gridò al tradimento. «Dopo tutto questo, che cosa resterà del progetto principale?» chiese con rabbia, quando il Fondo cominciò a inviare in Palestina e in tutto il mondo i suoi opuscoli a colori per invitare gli ebrei a piantare alberi nella nuova foresta. Il
suo progetto, disse, era stato «crudelmente censurato». Shenhabi riuscì con grande fatica a ottenere che il Fondo rinunciasse alle capanne del ricordo, ma non al bosco. I consiglieri non nascosero le finalità economiche del progetto: «Era l'ultima possibilità per rastrellare qualche finanziamento» spiegò un dirigente. Ben Gurion inviò al Consiglio del National Fund una dichiarazione nella quale, pur affermando che l'unico vero monumento all'ebraismo europeo era lo Stato di Israele, dimostrava apprezzamento per l'idea di piantare un bosco «in cui fiorirà la speranza che ha animato i nostri martiri». Shenhabi non si arrese: tempestò di lettere e memorandum i leader del nascente Stato e ricevette l'incoraggiamento di Chaim Weizmann. Sentiva ancora il bisogno di spiegare le ragioni per cui il monumento era necessario: «Dobbiamo lottare con tutte le nostre forze contro qualsiasi segno di oblio» scrisse. Ma per i dirigenti dello yishuv il memoriale dell'Olocausto non era un'esigenza prioritaria, non soltanto perché avevano cose più urgenti da fare, ma anche perché era un'impresa del tutto nuova e nessuno sapeva esattamente quale forma dare alla memoria collettiva. Le discussioni, lunghe e accese, furono accompagnate da contrasti personali, politici e ideologici. Nel 1947, in collaborazione con l'Istituto di studi ebraici presso l'Università di Gerusalemme, Shenhabi convocò una conferenza internazionale che approvò le iniziative previste nel progetto di Yad Vashem, in particolare la raccolta di documenti storici. Qualche tempo prima egli aveva aperto un ufficetto, comperato qualche risma di carta e stampato un opuscolo, piuttosto elegante per gli standard di allora, nel quale proclamava che lo scopo di Yad Vashem era trasformare la memoria in «una grande forza». Il libretto era ben scritto e presentava, anche nella grafica, una simmetria perfetta fra l'Olocausto e l'eroismo. Chiunque lo desiderasse, specificava, poteva registrare i nomi dei propri familiari uccisi nell'Olocausto e piantare un albero al costo di due sterline palestinesi (circa 8 dollari all'epoca). Shenhabi aveva intanto perfezionato il progetto, inserendovi fra l'altro una mostra degli strumenti di tortura usati dai nazisti e la riproduzione di una camera a gas e di un forno crematorio. «Dobbiamo presentare la realtà quale era, non come un guscio vuoto.» L'idea, però, rimase sempre sulla carta. Nel 1948,
dopo la Dichiarazione di indipendenza, Shenhabi cambiò strategia. Cominciò a dire che Israele doveva creare un luogo della memoria per rendere visibile a tutto il mondo il legame fra lo sterminio degli ebrei e la creazione dello Stato di Israele. Yad Vashem sarebbe stato il memoriale dell'Olocausto. Con l'appoggio di Ben Gurion e del ministro degli Esteri Sharett, egli riuscì a bloccare il progetto di costruzione di un monumento a Parigi. A suggerire l'idea di erigere un memoriale nella capitale francese era stato Yitzhak Shneurson. La sua iniziativa aveva sollevato un'ondata di indignazione in Israele. (Nota: La Foresta dei martiri fu molto deludente. Nel 1953 erano stati acquistati soltanto cinquecentomila alberi. «Gli ebrei non vogliono ricordare» si lamentavano gli ideatori.) «E' una questione di estrema gravità sul piano nazionale e diplomatico» scrisse a Ben Gurion il ministro della Pubblica Istruzione, Ben-Zion Dinur, irritato in particolare dal fatto che i promotori fossero ebrei. La costruzione di un luogo della memoria a Parigi avrebbe indebolito, disse il ministro, la posizione di Israele nei confronti delle altre nazioni. Soltanto «l'istinto della Diaspora» poteva spingere degli ebrei a mettere in discussione la centralità di Israele e ad assegnare a Parigi «il ruolo di Gerusalemme». Il primo ministro ordinò agli ambasciatori israeliani di «compiere tutti i passi possibili» per bloccare il progetto. Il ministro degli Esteri inviava le sue istruzioni con cablogrammi segretissimi. Finalmente il governo raggiunse un accordo con Shneurson: Yad Vashem sarebbe rimasto il memoriale principale dell'Olocausto, l'unico ad avere il diritto di registrare i nomi delle vittime. Le trattative non furono facili. A conclusione della vicenda, i dirigenti di Yad Vashem dichiararono che Israele aveva riportato una grande vittoria «nella battaglia delle idee», ma si rimproverarono di essersi resi conto troppo tardi «della gravità del pericolo»: l'accordo con Shneurson aveva comportato «un grande dispendio di energie». Yad Vashem raccomandò alla Claims Conference di assegnare al progetto parigino la somma di 500.000 dollari provenienti dalle riparazioni tedesche in cambio della rinuncia a raccogliere fondi in futuro. Se
Shneurson non avesse rispettato la clausola, sarebbe stata «guerra aperta». Nel 1950 Shenhabi lanciò un'altra idea per assicurare a Israele il monopolio dell'Olocausto: una legge che garantisse la cittadinanza israeliana a tutte le vittime a partire dal momento della loro morte. Suggerì anche un nome: «legge per la reintegrazione dei diritti civili delle vittime del piano di sterminio nazista», come se quei morti fossero stati cittadini dello Stato di Israele non ancora nato. «La perdita di milioni di vite rappresenta comunque una perdita per lo Stato di Israele» dichiarò Shenhabi. «Ognuno di quei sei milioni di morti ha significato per Israele l'assassinio di un "potenziale cittadino". Lo Stato di Israele, in quanto espressione nazionale del popolo ebraico disperso, concederà la cittadinanza ai caduti. Ne preserverà in tal modo la memoria e l'onore, li riporterà in seno alla loro patria e confuterà il crimine nazista agli occhi delle generazioni future.» Il ragionamento di Shenhabi era viziato alla radice. Non c'era nessuna possibilità di stabilire quante vittime dell'Olocausto si fossero considerate «potenziali cittadini di Israele». Molti ebrei erano morti proprio perché non avevano voluto emigrare in Palestina finché erano in tempo. E molti ebrei sparsi per il mondo, fra cui numerosi superstiti dell'Olocausto, non erano voluti andare in Israele neppure dopo la fondazione dello Stato. L'aspetto più interessante della proposta di Shenhabi è l'attenzione che vi dedicò il governo israeliano, accumulando una grande quantità di lettere, relazioni, memorandum e pareri giuridici. Anche Shenhabi contattò illustri giuristi di tutto il mondo e ottenne alcuni pareri favorevoli. L'ufficio legale del Jewish National Fund dichiarò che la concessione della cittadinanza alle vittime dell'Olocausto avrebbe permesso allo Stato di Israele di reclamare la restituzione dei beni di coloro che non avevano lasciato eredi. L'avvocato dello Stato manifestò il proprio disaccordo. I discendenti di quei cittadini postumi avrebbero potuto pretendere la cittadinanza israeliana, che non poteva essere garantita a tutti, perché molti dei parenti delle vittime dell'Olocausto non erano ebrei. Per di più nessun governo straniero avrebbe accettato una legge del genere. A formulare le critiche più decise fu il direttore dell'ufficio legale del ministero degli Esteri. Non si poteva concedere la cittadinanza israeliana prima ancora che
esistesse uno Stato di Israele, obiettò, e non la si poteva concedere a persone che al momento della sua fondazione erano già morte oppure non avevano mai vissuto in Israele, né avevano chiesto di viverci. L'iniziativa, riferivano gli ambasciatori israeliani, aveva creato molto sconcerto fra gli ebrei all'estero, i quali, indipendentemente dal fatto che fossero o non fossero sionisti, percepivano nel disegno di legge una minaccia alla loro lealtà verso il paese di appartenenza. Alcuni temevano, e giustamente, che un simile provvedimento avrebbe messo a rischio i diritti di proprietà loro e dei loro eredi. «Il ministero degli Esteri è contrario» annotò Ben Gurion nel diario. Una possibilità per superare le difficoltà c'era, scrisse da New York al presidente Ben-Zvi il consigliere legale della delegazione israeliana all'ONU, Yaakov Robinson. Bastava revocare la Dichiarazione di indipendenza e sostituirla con «una dottrina della continuità fra il Secondo impero [il regno biblico di Salomone] e il Terzo impero [il nuovo Stato di Israele]», fondata sul presupposto che Israele non aveva cessato di esistere con l'Esilio nel 72 d.C. La nazione, sosteneva Robinson, non aveva mai rinunciato alla sovranità sulla propria terra: tutti i governi sorti e caduti nei duemila anni trascorsi non erano altro che occupazioni militari illegali. Pertanto la Dichiarazione di indipendenza del 14 maggio 1948 doveva essere considerata come l'annuncio che erano state rimosse le barriere che ostacolavano la sovranità di Israele. Per evitare il paradosso di concedere la cittadinanza ai morti, Robinson suggerì di considerare cittadini israeliani gli ebrei tedeschi a partire dal 30 gennaio 1933, giorno dell'ascesa al potere di Hitler, e gli ebrei austriaci a partire dal 10 marzo 1938, giorno dell'Anschluss. Restavano ancora diversi problemi da risolvere, concluse Robinson, ma l'idea di Shenhabi era affascinante. Nel febbraio del 1951 Ben Gurion nominò una commissione, presieduta da Natan Feinberg, per esaminare la questione. Furono raggiunte le seguenti conclusioni: la dichiarazione di continuità fra il «Secondo impero» e lo Stato attuale avrebbe creato delle difficoltà nei rapporti di Israele con gli altri paesi, mentre l'assegnazione della cittadinanza postuma non aveva precedenti nel diritto internazionale e non rientrava in nessuna delle definizioni moderne del concetto di cittadinanza. La commissione dichiarava comunque
di non scorgere ostacoli alla concessione di «una cittadinanza simbolica e astratta» alle vittime dell'Olocausto, una «cittadinanza onoraria». Quando però il suggerimento diventò disegno di legge, la cittadinanza onoraria si trasformò in «cittadinanza della memoria», un'espressione priva di qualsiasi valore giuridico. Dopo la costruzione del Sacrario dei nomi, Yad Vashem mise in vendita certificati di cittadinanza onoraria al prezzo di 12 dollari, i quali però, ha detto l'attuale direttore del museo, Yitzhak Arad, non sono andati a ruba. Shenhabi propose anche di conferire a Yad Vashem il titolo di Istituto nazionale della memoria. Nessuno si oppose, ma nemmeno fece nulla per presentare il disegno di legge in Parlamento. Tutti avevano cose più urgenti di cui occuparsi. Shenhabi correva da un deputato all'altro, da un giornalista all'altro, esponendo, ammonendo, supplicando, implorando. Tutti gli davano ragione, ma tutti non vedevano l'ora che se ne andasse. Finalmente, nell'estate del 1953, il disegno di legge approdò alla Knesset. Il dibattito evidenziò ancora una volta la tendenza di ciascun partito a piegare l'Olocausto alla propria ideologia. L'aula era semivuota e i capigruppo avevano affidato gli interventi ai loro rappresentanti più giovani. Tuttavia, nonostante la scarsa partecipazione, la battaglia politica intorno alla «legge per il memoriale dell'Olocausto e dell'eroismo, Yad Vashem» tirò ancora una volta in ballo i valori fondamentali del paese. Il disegno di legge fu presentato dal ministro della Pubblica Istruzione, Dinur, che era professore di storia ebraica all'Università di Gerusalemme. Cominciò con una definizione: Shoah, la parola ebraica che indica l'Olocausto, designa, disse, la distruzione dell'ebraismo europeo e il massacro di più di sei milioni di ebrei, «sei milioni e mezzo, per la precisione». (In seguito Dinur dichiarò che il termine Shoah poneva qualche problema sul piano storiografico, perché implicava repentinità e sorpresa, mentre il sionismo sosteneva che l'Olocausto non era stato un evento improvviso, ma aveva avuto uno sviluppo logico e prevedibile, dal momento che gli ebrei vivevano in mezzo ad altri popoli come stranieri senza una patria.) L'obiettivo dei nazisti, dichiarò Dinur, era «cancellare dalla faccia della terra il nome di Israele». Con «Israele» il ministro della Pubblica Istruzione intendeva indicare l'intero popolo ebraico e ribadire così la tesi
sionista secondo la quale lo sterminio degli ebrei era un crimine contro lo Stato di Israele. (Nota: La parola Shoah, che letteralmente significa «catastrofe», era in uso prima dell'ascesa del nazismo e già nel 1933 cominciò a indicare il temuto sterminio degli ebrei. Di recente il suo significato si è esteso ad altri contesti: si parla di una shoàh economica, ecologica, morale e così via.) Dinur esaltò l'eroismo degli ebrei d'Europa, mettendolo sullo stesso piano di quello dello yishuv. Evocò la rivolta del ghetto di Varsavia, «simbolo della tragedia nella sua totalità», e le «centinaia di rivolte» in ogni parte d'Europa. Celebrò la lotta degli ebrei per difendere la propria dignità di uomini e la propria vita; affermò che nel ghetto «l'Olocausto e l'eroismo» facevano parte della quotidianità. Poi, dopo aver stabilito il nesso fra le vittime dell'Olocausto e lo Stato di Israele e aver delineato una corrispondenza fra l'Olocausto e l'eroismo, Dinur passò a parlare del 1948. La rivolta del ghetto di Varsavia era avvenuta cinque anni prima. Ma il ministro della Pubblica Istruzione definì la guerra di indipendenza «la prosecuzione» della lotta dei partigiani e dei combattenti clandestini, e insieme quella di «più di un milione e mezzo dei nostri soldati», tanti erano secondo le stime i soldati ebrei che avevano combattuto contro i nazisti nelle file degli eserciti alleati. L'eroismo ebraico è un insieme inscindibile, affermò Dinur. Quindi affrontò il tema della memoria. La definì un imperativo storico imposto a Israele dalle vittime. Con toni alti e solenni descrisse in quale modo Yad Vashem avrebbe ricordato le comunità ebraiche scomparse. Nel suo discorso le comunità assunsero l'immagine idealizzata di «fanciulle giovani e liete, dal passo lieve, innamorate della vita, modeste e semplici». La nuova istituzione avrebbe impartito «la lezione» dell'Olocausto e dell'eroismo, disse, come se «Olocausto ed eroismo» fossero un'unica cosa e avessero un unico significato. Il disegno di legge, tuttavia, non spiegava in che cosa consistesse quell'insegnamento: si limitava a chiedere a Yad Vashem di diffondere «il senso dell'unità della memoria». Quando Dinur terminò il suo discorso e cominciò il dibattito, fu chiaro che la
Knesset era tutt'altro che unita. Il deputato Yaakov Hazan stabilì una linea di continuità fra l'insurrezione del ghetto di Varsavia e i movimenti di sinistra guidati da Hashomer Hatsair, l'organizzazione giovanile del suo partito, il Mapam. Era stata l'unione di sionismo e socialismo a produrre gli eroici combattenti del ghetto, affermò. Esther Raziel-Naor dell'Herut protestò: Hazan tracciava distinzioni fra i morti, come se le vittime, mentre venivano sospinte verso i forni crematori, avessero tirato fuori la tessera del partito. La Knesset, dichiarò la parlamentare, non aveva l'autorità necessaria per approvare quella proposta di legge, poiché era la stessa che aveva ratificato gli accordi con la Germania. Il museo di Yad Vashem sarebbe stato sicuramente costruito con il cemento e il ferro tedeschi, e perciò l'Herut non avrebbe partecipato alla votazione. La militante femminista Boba Idelson del Mapai chiese che nel memoriale venisse riservato un posto rilevante alle donne e ai bambini «con la carne dei quali hanno fabbricato il sapone». Il rabbino Yitzhak Meir Levin di Agudat Yisrael criticò il carattere laico di Yad Vashem e propose di erigere al suo posto «un luogo sacro» in cui studiare i testi religiosi ebraici in memoria dei caduti. La legge subì diverse modifiche durante l'iter parlamentare, un altro segno dell'importanza politica che i partiti attribuivano alla rielaborazione della memoria. La parola «partigiani» fu sostituita con «combattenti alla macchia», perché troppo legata nell'uso ai partiti di sinistra filosovietici, i quali naturalmente si opposero. Un deputato del Mapam chiese che accanto al nazismo si parlasse anche di fascismo, perché il primo non era che una manifestazione del secondo. Un altro parlamentare di sinistra, Avraham Berman, propose una modifica analoga, perché così avrebbe potuto protestare contro il pericolo fascista negli Stati Uniti. Fra i fascisti citò il segretario di Stato John Poster Dulles e il senatore Joseph McCarthy, e definì gli USA il paese della discriminazione razziale e dei linciaggi, un luogo pericoloso per gli ebrei. «Credo che Treblinka risorgerà intorno a New York e Majdanek intorno a Chicago» concluse. Esther Raziel-Naor chiese che in ogni punto del testo la parola nazisti fosse sostituita con la parola tedeschi, perché nessuno dei tedeschi era innocente. Tutti gli emendamenti furono respinti. Infine il presidente della Knesset invitò i deputati ad
alzarsi per la conta dei voti: la legge fu approvata all'unanimità. Si erano alzati in piedi già due volte in quella seduta: la prima per onorare i morti dell'Olocausto e la seconda per onorare i combattenti del ghetto. Il 21 aprile 1951 la Knesset aveva consacrato il 27 del mese di Nissan all'Olocausto e alla rivolta nel ghetto. La data prescelta era frutto di un compromesso. L'insurrezione di Varsavia era cominciata alla vigilia della Pasqua ebraica e i primi tempi era stata ricordata il 19 aprile, come prescriveva il calendario secolare. Molti, però, chiedevano una giornata nazionale della memoria che, pur non essendo una festa religiosa, fosse inserita nel calendario ebraico e non coincidesse con la Pasqua. Il 27 di Nissan era una data appropriata, dichiarò Mordecai Nurok del partito nazional-religioso, perché era molto vicina a quella della rivolta del ghetto e perché cadeva nella stagione in cui gli ebrei europei erano stati massacrati al tempo delle crociate. La Knesset non fece raccomandazioni su come celebrare il giorno della memoria. Si tennero cerimonie ovunque, al kibbutz Yad Mordecai come al kibbutz Lohamei Haghetaot, sul monte Sinai a Gerusalemme come in altre località, organizzate dalle associazioni dei superstiti, dai municipi e dai partiti. «Il giorno della commemorazione della rivolta del ghetto sta diventando una faccenda politica» dichiarò un rappresentante del Mapai a una riunione dell'esecutivo nel marzo del 1953. La ricorrenza rappresentava «un importante patrimonio pedagogico», che bisognava «strappare al Mapam». In effetti, i partiti approfittavano delle cerimonie per affrontare temi politici. Anche il Consiglio dei ministri si occupò della questione e concluse che bisognava codificare il rito. Senza fretta, però: il disegno di legge sul Giorno in memoria dell'Olocausto e della rivolta del ghetto fu presentato cinque anni dopo. Nel frattempo si era capito che i più interessati alle commemorazioni erano i militanti dei partiti; il resto della popolazione continuava la sua vita normale. «I luoghi di divertimento sono tutti aperti in questa giornata» polemizzò il rabbino Nurok. «La radio trasmette musiche allegre, da ballo, e scenette comiche; le vetrine sono tutte illuminate; c'è letizia e felicità anziché dolore e cordoglio.» Nurok voleva invece imporre il lutto, desiderava che i negozi fossero chiusi e le luci spente, che si
celebrassero cerimonie nelle scuole e nelle sinagoghe, si sospendesse il lavoro per permettere agli operai di parteciparvi, si proiettassero soltanto film scelti da Yad Vashem e si trasmettessero programmi radiofonici rispettosi della solennità del giorno. La proposta di Nurok non fu messa ai voti. Il governo presentò invece un proprio disegno di legge meno drastico, che differiva da quello di Nurok anche per un altro particolare dalle forti connotazioni emotive. La nuova proposta non si intitolava infatti «legge per il giorno commemorativo dell'Olocausto e della rivolta del ghetto» come quella di Nurok, bensì «legge per il giorno commemorativo dell'Olocausto e dell'eroismo». Era una denominazione più esatta e più giusta: l'insurrezione di Varsavia non era stata l'unica manifestazione di eroismo, ce n'erano state tante altre, compresa la resistenza passiva dei civili. Il Mapam, però, prese la modifica come un insulto: «Vogliono cancellare la memoria di Mordecai Anielewicz» protestò una deputata. Anielewicz, che era stato uno dei leader di Hashomer Hatsair, aveva comandato la rivolta del ghetto di Varsavia. L'obiezione fu respinta, ma il giorno della memoria fu dedicato all'Olocausto, agli atti di eroismo e di ribellione. La legge venne approvata all'unanimità nell'aprile del 1959. La «lobby della memoria» non era però soddisfatta. Due anni dopo, poco prima del processo Eichmann, la Knesset modificò la legge, accentuandone l'ebraicità. Il rito sarebbe cominciato al tramonto della vigilia, come in tutte le festività sacre agli ebrei, e i luoghi di divertimento, compresi i bar, sarebbero stati chiusi. Ci fu di nuovo un lungo dibattito. Alla fine il Parlamento decise che la ricorrenza si sarebbe chiamata «Giorno commemorativo dell'Olocausto, della ribellione e dell'eroismo». «Non è facile» sospirò un deputato «rappresentare il dolore collettivo.» I moniti a non dimenticare si sprecarono: «Dobbiamo respirare ogni nuovo giorno il fumo dei crematori» proclamò Aharon Yadlin del Mapai, futuro ministro della Pubblica Istruzione. Il Giorno dell'Olocausto cade di solito nel mese di aprile, una settimana dopo la Pasqua ebraica. I cinema e i luoghi di divertimento restano chiusi, come prevede la legge, ma molti caffè e ristoranti rimangono aperti: la multa per l'infrazione è compensata dai guadagni. A creare un clima luttuoso provvedono soprattutto le stazioni radiotelevisive,
costrette a seguire programmi prescritti nei minimi particolari. Trasmettono le testimonianze dei superstiti, lunghe tavole rotonde e musica molto lugubre, suonata spesso soltanto da un violoncello. I notiziari non sono preceduti dalla solita sigla musicale e l'annunciatore non dà la buonasera. Poi ci sono i film sull'Olocausto, che però non hanno sempre carattere documentario: nel 1990, per esempio, la televisione ha mandato in onda un film sul processo di Norimberga con Spencer Tracy e Marlene Dietrich. I giornali contribuiscono al culto della memoria con poesie, riflessioni e immagini sull'Olocausto in genere assai tetre. I quotidiani della sera scelgono gli argomenti di cronaca più consoni alla ricorrenza, come gli episodi di antisemitismo in Germania o altrove. Per anni uno dei temi prediletti è stata la repressione antiebraica in Unione Sovietica. La ricorrenza è anche un'occasione per ribadire gli insegnamenti sionistici dell'Olocausto e il dovere di non dimenticare. Ma è pure l'occasione per le dichiarazioni patriottiche. «La cosa più ripugnante dell'incontro fra il presidente francese Mitterrand e Yasser Arafat è che sia avvenuto nel Giorno dell'Olocausto» scrisse «Yediot Aharonot». Con il passare del tempo i giornali le hanno dedicato sempre più spazio. Mentre all'inizio la stampa riportava soltanto un breve sommario degli eventi del giorno, pian piano le redazioni hanno cominciato a dedicare all'evento intere pagine con notizie, commenti e analisi. Evidentemente l'Olocausto era diventato un argomento su cui valeva la pena soffermarsi. A partire dal 1959 il Giorno dell'Olocausto è contrassegnato anche dal suono delle sirene: un urlo prolungato, diverso da quello intermittente dell'allarme aereo. A quel segnale, diffuso dalle stazioni radio, tutti smettono di lavorare. Gli automobilisti spengono i motori, i pedoni si fermano e l'intero paese si arresta per un istante nel ricordo, nella contemplazione e nella condivisione. Le bandiere di tutti gli edifici pubblici, compresi gli alberghi, calano a mezz'asta. E' un momento di grande intensità emotiva. La cerimonia principale si svolge a Yad Vashem la sera della vigilia, dopo il tramonto. La manifestazione, a carattere militare, viene trasmessa in diretta dalla televisione. Vi partecipano i leader del paese. Squilla la tromba, a ricordare il lutto; i soldati alzano le bandiere e le torce accese; il caporabbino e il
capocorista, entrambi in uniforme, recitano le preghiere. Una settimana dopo, al crepuscolo del terzo giorno del mese di lyar, Israele piomba di nuovo nel lutto: commemora i caduti nelle sue guerre. Questa ricorrenza, come quella del Giorno dell'Olocausto, ha un carattere fondamentalmente patriottico e laico (a parte qualche preghiera e qualche rito mutuato dalla tradizione religiosa) e anche in questa occasione suonano le sirene alla sera e al mattino. Non è stato però, come si potrebbe pensare, il Giorno dei caduti a ispirarsi al Giorno dell'Olocausto, bensì il contrario. La somiglianza fra le due celebrazioni è andata crescendo con gli anni e la settimana che separa i due eventi ha finito per assumere il carattere di un unico periodo dedicato al lutto, alla memoria e alla rappresentazione dei valori nazionali. Ogni tanto qualcuno tenta di utilizzare Yad Vashem come una tribuna politica. Il suo direttore, Yitzhak Arad, fa di tutto, così mi ha detto, per mantenere l'istituzione estranea a queste dispute. Gli oratori possono denunciare gli atti di antisemitismo e i molti libri, quasi tutti incomprensibili, che «negano» l'Olocausto. Possono sostenere che l'Olocausto dimostra la necessità di un Israele forte. Non possono, però, superare i limiti del consenso nazionale. Le preghiere che vengono recitate durante la cerimonia sono formulate con estrema attenzione; l'eccidio degli ebrei è descritto al passivo: «i torturati, gli assassinati, i massacrati», senza mai identificare gli assassini. Gli orrori sono attribuiti a «mani impure», a «mani crudeli», alla «mano del nemico». Non c'è nessuna accusa alla nazione tedesca: alla cerimonia partecipa in genere tutto il corpo diplomatico, compreso naturalmente l'ambasciatore della Germania. Nel 1990 tutti gli oratori furono molto attenti a non criticare la riunificazione tedesca. La comunità religiosa ha creato un proprio culto della memoria. In alcune delle sue scuole l'Olocausto è ricordato il 10 di Tevet, giorno di digiuno, nel quale, su indicazione del rabbino capo, si recita il kaddish in memoria delle vittime la cui data di morte è ignota. Il digiuno ricorda invece l'inizio dell'assedio babilonese di Gerusalemme, che portò alla distruzione del Primo Tempio. Pochi mesi dopo la nomina a primo ministro, Menahem Begin propose di abolire il Giorno dell'Olocausto: era uno dei suoi numerosi tentativi di intaccare la mitologia nazionale laburista. Egli suggerì di ricordare l'Olocausto a
Tisha Be-Av (nove di Av), che cade fra luglio e agosto ed è uno dei giorni più tristi dell'anno, nel quale gli ebrei piangono la distruzione del Primo e del Secondo Tempio e altre catastrofi nazionali, compresa la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492. In questo modo Begin intendeva forse dare una dimensione sacra alla «rinascita», ossia alla fondazione dello Stato di Israele. Propose anche di ricordare l'insurrezione nei ghetti e l'eroismo partigiano nel Giorno dell'indipendenza. «Non ho mai capito come si sia potuto separare il sangue dal sangue, l'eroismo dall'eroismo» dichiarò. «I ribelli del ghetto e i partigiani hanno combattuto per il nostro popolo, e per il nostro popolo hanno combattuto in Israele anche i soldati, la Haganah, il Palmach, l'Irgun, il Lehi e il Mahal. Sono tutti eroi, sono tutti martiri, hanno dato tutti la vita per il popolo ebraico.... Dedichiamo un unico giorno a tutti gli eroi di Israele.» Begin voleva stabilire un'identità fra Israele e il popolo ebraico, e cercava di introdurre nel Pantheon dell'eroismo l'Irgun e il Lehi, che ne erano stati esclusi. Il movimento laburista, che si era appropriato del mito dei ribelli del ghetto, tendeva a sminuire, se non a ignorare del tutto, il ruolo del Betar nell'insurrezione. La proposta di Begin di riservare «un unico giorno a tutti gli eroi di Israele», che contendeva al movimento laburista il monopolio dell'eroismo, suscitò un coro di critiche ed egli fu costretto a ritirarla.3La ricorrenza di Tisha Be-Av, che cade durante le vacanze estive, non si prestava a indottrinare la gioventù israeliana attraverso gli insegnamenti dell'Olocausto. Nelle sue celebrazioni la comunità religiosa elimina alcuni elementi fondamentali delle commemorazioni laiche, sostituendoli con altri simboli tratti dalla propria tradizione. Esalta per esempio le novantatré allieve di una scuola ultraortodossa di Cracovia, la Beit Yaakov, che si sarebbero tolte la vita piuttosto che diventare prostitute nei lager nazisti. Alcuni yeshivah e tribunali hassidici di Israele si considerano i diretti eredi delle comunità ebraiche annientate durante l'Olocausto. La Sala dell'Olocausto sul monte Sion fu costruita nel 1949, prima di Yad Vashem. Il luogo, che dà sulla spianata del Tempio, divenne ancora più sacro dopo la spartizione di Gerusalemme alla fine della guerra di indipendenza, quando i devoti non poterono più recarsi al Muro del pianto. Il ministro per gli
Affari religiosi, riprendendo un'antica tradizione, proclamò che sul monte Sion era sepolto il re Davide. Fino al 1967, quando gli israeliani occuparono la città vecchia e gli ebrei poterono tornare a pregare al Muro del pianto, il monte Sion fu il luogo più sacro di Gerusalemme. Vi affluivano migliaia di pellegrini. A ricordo delle vittime dell'Olocausto fu consacrato un piccolo edificio, sormontato da una cupola annerita. Nelle sue teche di vetro, illuminate dalle candele accese dai fedeli, si trovavano vari oggetti sfuggiti all'Olocausto: rotoli semicarbonizzati della Torah, la divisa a strisce di un prigioniero del lager, alcune capsule di gas asfissianti, un paralume che si diceva fatto di pelle umana e pezzi di sapone che si ritenevano confezionati con grasso umano. I dirigenti di Yad Vashem detestavano la Sala dell'Olocausto sul monte Sion: «E' un luogo di idolatria» affermò uno di loro. Qualche anno dopo fu possibile erigere al suo interno, a pagamento, lapidi private. Gideon Hausner, il procuratore del processo Eichmann, poi ministro e deputato, che era appena entrato a far parte della direzione di Yad Vashem, protestò. Il ministro per gli Affari religiosi ribattè che così si usava da vent'anni sul monte Sion e così si usava da sempre in molte sinagoghe. «Yad Vashem non è l'unico memoriale del paese» precisò il ministro. «Ci sono altri luoghi con attività analoghe.» Uno di questi, Ot Vaed, che significa «Segno e testimonianza», si definisce un'istituzione pedagogica che si occupa dell'Olocausto e del suo significato nella vita religiosa ebraica. Fondato a Gerusalemme negli anni Ottanta sotto l'egida del partito nazionalreligioso, Ot Vaed ha pubblicato un libretto su carta patinata in ebraico e in inglese, da cui traspare l'ambizione a porsi come la controparte religiosa di Yad Vashem. Accanto all'attività educativa, Ot Vaed si propone «di dedicare ai martiri dell'Olocausto un luogo che ne esprima la spiritualità ebraica» e di «riunire, collazionare e catalogare tutti gli scritti e le testimonianze viventi sull'Olocausto, sulla vita religiosa dell'epoca e sul suo ruolo nella nostra esistenza di ebrei». Sulla copertina del libretto è incisa la scritta Ot Vaed a lettere d'oro con gli stessi caratteri usati da Yad Vashem, disposti in modo da suggerire l'immagine delle fiamme e dei forni. Anche il nome Ot Vaed è tratto da un versetto di Isaia, che evoca la diffusione della fede ebraica nei paesi vicini, compreso l'Egitto. I
fondatori di Ot Vaed, come già quelli di Yad Vashem quasi cinquant'anni prima, sognano di costruire un grande complesso su una delle alture del quartiere Etsion, in Cisgiordania. Gli ebrei vi si erano stabiliti prima della guerra di indipendenza, poi erano stati cacciati e infine avevano riconquistato la zona durante la guerra dei Sei giorni. Attualmente Etsion fa parte dei Territori occupati, non annessi a Israele. Come Mordecai Shenhabi, anche i fondatori di Ot Vaed presentano il loro progetto con allettanti disegni a colori. «Intorno al complesso» promette il libretto «sorgerà un parco della memoria con una vista incantevole della montagna.» Ho chiesto a Yitzhak Arad che cosa ne pensasse della concorrenza fra i vari luoghi della memoria in Israele e altrove (il monumento all'Olocausto di Washington rischia di oscurare Yad Vashem). E' parso esitante: naturalmente, ha detto, ci teneva che quello di Gerusalemme restasse il monumento principale, ma i tempi erano cambiati. Israele non poteva opporsi, come aveva fatto con Shneurson a Parigi, alla creazione del museo di Washington, il cui progetto era sostenuto fra l'altro anche dal presidente degli Stati Uniti e dal premio Nobel Elie Wiesel. Ma la questione fondamentale restava sempre la stessa: Gerusalemme o Babilonia, Israele o la Diaspora. Dov'era il centro? Quando era stata deposta la prima pietra a Yad Vashem, c'era stato un problema analogo: bisognava invitare soltanto il capo dello Stato israeliano oppure anche Nahum Goldmann, presidente del World Jewish Congress? «Il presidente del paese rappresenta l'unità dell'ebraismo mondiale» aveva dichiarato qualcuno. Ma un altro aveva osservato: «Il presidente di Israele non è il leader di tutti gli ebrei. Gli ebrei della Diaspora hanno dato il loro contributo a Yad Vashem. E' perciò opportuno che la Diaspora sia rappresentata». Un terzo aveva obiettato: «Il presidente del paese è più che sufficiente. Dobbiamo farla finita una volta per tutte con la separazione fra lo Stato di Israele e il popolo di Israele!». Alla fine il Consiglio aveva deciso, con sei voti favorevoli e cinque contrari, di invitare a parlare anche Goldmann, se il presidente Ben-Zvi avesse acconsentito. Parlò solo Ben-Zvi. Ma siccome era impossibile bloccare i centri dell'Olocausto statunitensi, tanto valeva adeguarsi, affermò Arad. Yad Vashem ha interesse a favorire qualsiasi iniziativa che contribuisca ad ampliare
la consapevolezza dell'Olocausto e con il tempo la sua diversità dagli altri siti della memoria si è attenuata, mentre si sono rafforzate le somiglianze. E dunque, ha concluso Arad, i vari centri, pur continuando a competere fra loro, hanno imparato a condividere la memoria nazionale. Araci, un uomo piccolo e robusto, è originario della Lituania. Quando i nazisti occuparono la sua città natale, Swieciany, l'allora quindicenne Yitzhak Rodnitzki e i giovani del ghetto organizzarono una cellula clandestina, riuscendo a rubare diversi fucili ai tedeschi. Due anni dopo, all'inizio del 1943, si diede alla macchia e combattè con i partigiani sovietici per tutto il resto della guerra. In Israele prestò servizio nelle Forze di difesa e dopo la guerra dei Sei giorni fu nominato comandante del settore formazione dell'esercito con il grado di generale di brigata. Dirige Yad Vashem dal 1972 e gli è stata conferita la laurea honoris causa per i suoi studi sull'Olocausto. Nell'estate del 1987 Yad Vashem eresse un memoriale per ricordare il milione e mezzo di bambini morti nell'Olocausto. Il suo autore, Moshe Safdie, ha creato una magia di luce. All'ingresso una scritta a caratteri d'oro su una grande lastra di vetro spiega che il monumento alle giovani vittime dell'Olocausto deve la sua esistenza alla generosità di Abraham e Edita Spiegel di Beverly Hills, California, in memoria del figlio Uziel ucciso ad Auschwitz. Subito dopo si entra in uno stretto corridoio rivestito di pietra in cui riecheggiano suoni lievi, come un lungo sospiro o un lamento flautato, distorto elettronicamente. In fondo al corridoio c'è un bassorilievo che raffigura il volto di un bambino, Uziel Spiegel. A sinistra, una pesante porta si apre sull'oscurità. Qualche passo più avanti c'è una parete di vetro con le fotografie di tanti bambini. Poi il corridoio diventa una stretta rampa che procede nel buio più totale. Ai suoni di prima adesso si sovrappone quello dei nomi: Moshele Abramowitz, dodici anni, di Leopoli; Sarale Zuckerman, tre anni, di Vilnius; Yaakov Shimonowitz, quattordici anni, di Budapest. Una voce maschile e una femminile si alternano in ebraico, yiddish e inglese. All'improvviso si è immersi in un mare di fiammelle. Ci si arresta sbigottiti, con la sensazione di essere al centro di una sfera nera, punteggiata a perdita d'occhio da centinaia di migliaia, forse milioni, di luci. A creare l'effetto è la fiamma di poche candele
riflesse in un sistema di specchi giganteschi. Si procede fino all'uscita in mezzo ai puntini luminosi, nella stanza buia, accompagnati dal suono dei nomi dei bambini. All'esterno, un'altra grande lastra di vetro ricorda di nuovo i nomi dei donatori, un imprenditore edile ebreo e sua moglie. La costruzione è costata due milioni di dollari. Sì, mi ha detto Yitzhak Arad, avevamo molti dubbi sull'opportunità di erigere una struttura così eccentrica nel luogo della memoria nazionale. Ci siamo chiesti se fosse giusto, nonostante i finanziamenti degli Spiegel, dedicare al ricordo del figlio Uziel uno spazio a sé, distinto dal milione e mezzo di bambini uccisi. Arad decise di rischiare. Sapeva che il monumento sarebbe stato o un grande successo o un grande fallimento. Ha avuto ragione: chiunque lo visiti ne ricava una commozione profonda. Sì, mi ha detto, abbiamo avuto qualche difficoltà. I mecenati volevano dedicare l'intero monumento al figlio. Ho rifiutato risolutamente. Si è trovato un compromesso, con le targhe all'ingresso e all'uscita e con il bassorilievo, altrimenti Yad Vashem avrebbe perso i finanziamenti. Mentre parlavamo, si percepiva in sottofondo il rumore delle ruspe al lavoro nella «Valle delle comunità annientate». Qui il visitatore camminerà fra blocchi di pietra giganteschi, alti come torri, ciascuno dei quali rappresenterà una comunità estinta. Qual è dunque l'insegnamento dell'Olocausto? L'ho chiesto ad Arad, ora impegnato a realizzare un'opera in venticinque volumi del costo di due milioni e mezzo di dollari, che fornirà la versione ufficiale israeliana della storia dell'Olocausto. La sua impressione, mi ha detto il direttore di Yad Vashem scegliendo le parole una a una, è che in Israele si sia creato nel corso del tempo un consenso generale in gran parte indipendente dalla militanza partitica: l'Olocausto insegna quali siano i pericoli cui va incontro una nazione che vive in esilio, senza un proprio Stato. Se Israele fosse stato fondato prima dell'ascesa del nazismo, l'eccidio degli ebrei sarebbe stato impossibile. L'Olocausto ha portato alla creazione dello Stato e i suoi superstiti sono stati i protagonisti della lotta per l'indipendenza. Su questo tutti concordano. Poi Arad mi ha detto una cosa che nessun direttore di Yad Vashem avrebbe mai detto in passato. Mi ha detto che ormai si potrebbe togliere la parola «eroismo» dal nome del memoriale. Bastava Olocausto. Nelle
sue conferenze, fra le manifestazioni di eroismo, egli cita sempre, accanto alle rivolte e alla lotta partigiana, la fatica del vivere quotidiano nei ghetti e lo sforzo per conservare fino in fondo la propria dignità. Comportandosi in questo modo i reclusi nei ghetti hanno impedito ai nazisti di raggiungere il loro obiettivo principale, che era di bandirli dalla comunità degli uomini. I giovani che lo ascoltano ora accusano raramente di passività le vittime dell'Olocausto, come invece accadeva in passato. E raramente dicono che le vittime «sono andate al macello come agnelli». La svolta è cominciata al tempo del processo Eichmann e si è realizzata a poco a poco, fra la guerra dei Sei giorni e quella di Yom Kippur. Con il tempo è cambiato anche il modo di ricordare i sei milioni di morti. Al centro delle commemorazioni non ci sono più due astrazioni, l'Olocausto e l'eroismo, bensì l'identificazione con le vittime in quanto individui. Nel 1990, nella ricorrenza del Giorno dell'Olocausto, in tutto Israele furono erette delle tribune con microfoni e altoparlanti: chiunque lo desiderasse poteva salire a leggere i nomi dei propri cari scomparsi. La manifestazione, intitolata «Tutti hanno un nome», ebbe molto successo. Uno dei primi ad andare sul palco fu il presidente del Consiglio Yitzhak Shamir. Lesse i nomi dei suoi genitori: fu una delle poche volte in cui Shamir si presentò in pubblico come discendente di una famiglia sterminata nell'Olocausto.
CAPITOLO XXV «IL RESTO DELLA TUA VITA CON MONIK E FRIEDA» IL kibbutz Yad Mordecai si trova una sessantina di chilometri a sud di Tel Aviv, vicino alla città costiera di Ashkelon e alla valle in cui combatterono Davide e Golia. I primi coloni vi arrivarono nel 1943: qualche decina di giovani militanti di Hashomer Hatsair emigrati dalla Polonia verso la fine degli anni Trenta, intenzionati a fare i pescatori. Chiamarono il loro kibbutz Mitzpe Yam, ma gli cambiarono nome un anno dopo, quando morì il comandante della rivolta del ghetto di Varsavia, Mordecai Anielewicz. Pochi di loro l'avevano conosciuto: con quel nome volevano ricordare un simbolo, non un amico. Un libretto, compilato da Hashomer Hatsair negli anni Cinquanta, afferma: «E' importante sottolineare il cameratismo dei combattenti di tutte le nazioni, polacchi, sovietici ed ebrei, tutti figli della classe operaia rivoluzionaria. ... L'interesse nazionale a riscattare l'onore e la vita del popolo ebraico è assolutamente identico all'interesse internazionale a combattere la guerra contro il fascismo a fianco dell'Unione Sovietica. E' in questo spirito che terremo alta la memoria della rivolta del ghetto».! Yad Mordecai è uno dei due luoghi che Hashomer Hatsair ha dedicato alla memoria. L'altro si trova a Lahomei Haghetaot: l'ha costruito un movimento dei kibbutz meno radicale di Hashomer Hatsair, Hakibbutz Hameuhad. All'inizio degli anni Cinquanta, quando i vari movimenti collettivistici erano impegnati a farsi la guerra fra loro, sia Yad Mordecai sia Lahomei Haghetaot agitarono la bandiera del ghetto di Varsavia come se ne fossero gli unici eredi. Vicino alle stalle di Yad Mordecai, nella sabbia, ci sono alcuni gradini di pietra affiancati da alberi, i cui bassi rami si intrecciano costringendo chi sale a chinare la testa. In cima alla scalinata si apre una radura nella quale si erge la grande statua di bronzo di un giovane atletico scolpita da Natan Rapaport: una versione israeliana del David di Michelangelo ma in divisa da soldato. Il petto muscoloso sporge dalla camicia aperta, mentre il capo è leggermente rivolto all'insù,
con gli occhi che guardano verso l'alto. La mano destra stringe una granata, il braccio teso a lanciarla. E' Mordecai Anielewicz, la personificazione del coraggio, lo sguardo fisso sulle case del kibbutz che ne porta il nome. Dietro la statua c'è una grande cisterna di cemento, sforacchiata dalle pallottole: è ciò che resta del serbatoio dell'acqua del kibbutz, distrutto nel 1948 durante la guerra di indipendenza. Accanto alla statua sono incise alcune frasi di una lettera che Anielewicz avrebbe scritto poco prima di morire al suo luogotenente Antek Zuckerman: «Il supremo desiderio della mia vita si è realizzato. L'autodifesa degli ebrei è ormai un dato di fatto. Sono contento, felice di essere stato fra i primi combattenti ebrei del ghetto». Un edificio moderno di cemento ospita il museo, la cui visita è a pagamento. La piccola mostra che vi è esposta è meno didascalica, più curata nella forma e più emozionante di quella di Yad Vashem: l'ha realizzata Abba Kovner. Si scende in un sotterraneo semibuio. Su una parete nera campeggia la scritta: «In questo luogo cercate di vedere ciò che non può più essere visto, di udire ciò che non può più essere udito, di capire ciò che non può più essere capito». In sottofondo risuonano canti popolari ebraici. Appese alla parete ci sono le fotografie di molti bambini, alcuni con la kippah, il tradizionale copricapo religioso ebraico. Tutt'intorno è raffigurata la vita quotidiana degli ebrei in Polonia prima dell'occupazione nazista. «Erano quasi tutti poveri e umili» dice una didascalia. «Vivevano in piccoli centri, e camminavano curvi, con la schiena piegata dalle fatiche.» Naturalmente, in Polonia esistevano anche ebrei non «piegati e curvi»: erano quelli più giovani e sani che vivevano nelle città. Ma essi non corrispondevano all'immagine che Israele aveva dell'Esilio, e a loro si accenna solo di sfuggita. Le didascalie sottolineano la povertà materiale degli ebrei polacchi e insieme ne descrivono amorevolmente la cultura, «l'ambiente ricco e gli animi pieni di fervore». Per più di mille anni il giudaismo polacco «ha regnato sovrano nella storia del popolo di Israele». A Yad Mordecai, diversamente da Yad Vashem, le spiegazioni sono soltanto in ebraico e in inglese, e non anche in yiddish. Poi si comincia a salire e la luce si fa più forte, mentre si ripercorrono la storia del regime nazista, le varie fasi delle aggressioni contro gli ebrei e infine lo sterminio: Auschwitz. La seconda parte del museo,
che occupa all'incirca due terzi dello spazio, è dedicata alla resistenza e alla battaglia di Yad Mordecai contro gli egiziani durante la guerra di indipendenza. Accanto alla riproduzione del bunker in cui si trovava il comando degli insorti del ghetto di Varsavia c'è una grande riproduzione di quella che è ritenuta l'ultima lettera di Anielewicz, da cui è tratta la famosa citazione incisa accanto al suo monumento. Il testo è una traduzione in yiddish, perché l'originale, che era in ebraico, è andato perduto. Nel corso degli anni la lettera è stata ricostruita a memoria in varie versioni, alcune probabilmente più eroiche di quella originaria. Su una grande parete, chiamata «il muro della ribellione», sono riportati i nomi degli «avamposti» del «movimento di resistenza ebraico» nelle foreste, nei ghetti, nelle città, negli eserciti alleati e nei campi di sterminio. Seguono le sezioni dedicate alla berihah (la fuga) e alla haapalah (l'immigrazione clandestina), come se anch'esse fossero inscindibili dall'Olocausto. «L'esodo dall'Europa» è definito «un dramma che non ha uguali nella storia delle nazioni». Come a Yad Vashem, anche qui campeggia un fotogramma del film Exodus. Subito dopo si passa davanti a una finestrella che da sulle tombe dei caduti di Yad Mordecai durante la guerra di indipendenza. Segue una mostra sulla dozzina di kibbutzim che si insediarono nel Negev durante la notte di Yom Kippur, nell'ottobre del 1946. Una fotografia ritrae l'acquedotto costruito da quei pionieri. La didascalia ribadisce uno dei fondamenti dell'ethos israeliano: il diritto degli ebrei a stabilirsi nella terra di Israele si fonda in parte sul fatto che essi, a differenza degli arabi, vi hanno portato lo sviluppo. Lo stile è poetico, quasi biblico: E non vagarono da pozzo a sorgente come i figli del deserto, ma vennero e deposero i condotti e trasportarono l'acqua da nord a sud. E questa testa di ponte, che conquistarono in una sola notte, divenne una colonia ombrosa. E l'acqua scorse dai condotti come il sangue che dà la vita alle membra del corpo umano. E dentro i condotti scorreva il sangue, il sangue di coloro che vennero nella notte a difendere il bene più prezioso al mondo: l'acqua. Si giunge poi di fronte a un'altra gigantografia di Mordecai Anielewicz, con indosso la divisa di Hashomer Hatsair, traboccante vitalità e giovinezza. Accanto, ancora una volta, le sue ultime parole: «Il supremo desiderio della
mia vita si è realizzato...». Pian piano, quasi inavvertitamente, ma con un disegno ben preciso, si esce dal museo dell'Olocausto e si entra nel museo della guerra e della vittoria. Dalle pareti sporgono pezzi di vecchie armi, fra cui il cannone di un carro armato e le mappe dettagliate della battaglia di Yad Mordecai e degli altri rari kibbutz della zona. In un angolo c'è una piramide di bombe d'artiglieria. Yad Mordecai fu sconfitto e i suoi difensori si ritirarono; re Faruk d'Egitto si fece ritrarre davanti al kibbutz, quasi avesse conquistato una città. Poi, però, gli egiziani furono cacciati e il kibbutz riconquistato dopo una sanguinosa battaglia. L'uomo che mi aveva venduto il biglietto mi offrì anche il libro di Margaret Larkin sul kibbutz, pubblicato dal ministero della Difesa, il cui titolo in inglese è The Seven Days of Yad Mordecai (I sette giorni di Yad Mordecai), mentre in ebraico è II sole non si è fermato. L'uomo si presentò: si chiamava Shika Katsir ed era uno dei fondatori del museo. Aveva collaborato con l'autrice al racconto di quella lotta epica e il suo nome è citato nella prefazione. Aveva donato di persona una copia del libro a Ben Gurion, mi disse, e se io avessi comperato il volume, mi avrebbe fatto l'autografo. E così fu. Accanto al registratore di cassa c'erano cartoline e souvenir di ogni genere, fra cui piccoli posacenere con la riproduzione della statua di Anielewicz. Poi Katsir mi invitò a visitare il campo di battaglia, in cui c'erano le effigi dei soldati morti. Una sera d'aprile del 1989 Tzvika Dror mi portò con sé al Museo dei combattenti del ghetto presso il kibbutz Lohamei Haghetaot, il cui nome significa appunto «Combattenti del ghetto». Dror, insegnante e scrittore, aveva allora sessantatré anni e stava raccogliendo documenti sulla storia del kibbutz, che proprio quella settimana compiva quarant'anni di vita. Mi aprì una a una tutte le sale. Mi indicò le riproduzioni dei campi di concentramento, una struttura di legno a cui venivano legati i prigionieri prima di essere frustati e una capsula metallica contenente gas asfissiante. Il pezzo più importante della mostra è la gabbia di vetro in cui fu rinchiuso Eichmann durante il processo. Al museo di Lahomei Haghetaot lo sterminio degli ebrei fa da sfondo all'argomento principale, che è la lotta contro i nazisti. Su una parete campeggia l'ingrandimento di una lettera scritta da un giovane, Ofer Feninger, alla sua fidanzata, Yael, qualche anno prima
di morire nella guerra dei Sei giorni: Ho appena finito di leggere La casa delle bambole [di Katzetnik] e sento con tutta l'anima l'orrore di quel tremendo Olocausto. ... Dall'orrore e dall'impotenza sento sorgere in me un grande desiderio di essere forte, forte fino alle lacrime, affilato come la lama di un coltello, silenzioso e terribile. Ecco quello che voglio essere! Voglio essere certo che mai più occhi sprofondati nelle orbite mi fisseranno da dietro un recinto elettrificato! Non mi fisseranno più a quel modo soltanto se sarò forte! Se tutti saremo forti! Ebrei forti e orgogliosi! Da non portare mai più al macello. Eravamo soli nel museo, Tzvika Dror e io. Accendevamo la luce in ogni sala quando entravamo e la spegnevamo all'uscita. Percorrevamo i corridoi al buio. Proprio quella settimana il kibbutz si apprestava a posare la prima pietra di una nuova costruzione, un monumento ai bambini uccisi nell'Olocausto, del costo di un milione e mezzo di dollari, frutto di una donazione. Naturalmente non aveva senso chiedere a Dror perché Israele avesse bisogno di un secondo, costoso monumento ai bambini dopo quello di Yad Vashem a Gerusalemme. Il kibbutz aveva le sue necessità: in origine aveva previsto di investire nel progetto tre milioni di dollari. Il museo e il lussuoso centro che gli sorge accanto improntano di sé il kibbutz. E' un cliché inevitabile, un dato di fatto. «L'atto di fondazione», mostratomi da Tzvika Dror, definisce il kibbutz «un insediamento sulla terra redenta della Galilea occidentale, un monumento vivente e fecondo alla rivolta del ghetto». I suoi padri furono alcuni superstiti del ghetto di Varsavia, fra i quali Antek Zuckerman e sua moglie, Tzivia Lubetkin. Si insediarono nel villaggio arabo di Samaria, che era stato distrutto durante la guerra dei Sei giorni e i cui abitanti erano stati deportati. «Un villaggio di terroristi» fu il commento di Tzvika Dror, mentre percorrevamo il buio museo. In tutta Israele non esiste una colonia che illustri meglio di questa il legame fra l'Olocausto e la tragedia palestinese. La storia del nome del kibbutz mette in luce un'altra sfaccettatura del complesso rapporto di Israele con l'Olocausto. Il leader del gruppo, Yitzhak Tabenkin, propose di chiamare il kibbutz Vilnius, ma Antek Zuckerman si oppose: come si faceva a salire sull'autobus e chiedere un biglietto per Vilnius? I primi coloni volevano conservare il nome del villaggio arabo ridotto in macerie e
perciò lo chiamarono Lohamei Haghetaot Samariah. Ma il Jewish National Fund si dichiarò contrario ad associare i «combattenti del ghetto» con la memoria di Samaria e battezzò il kibbutz Asher, il nome della tribù israelita che anticamente viveva nella regione. I coloni acconsentirono a eliminare il nome arabo ma non il riferimento al loro passato partigiano. Il Fondo, però, non gradiva neppure che nel nome di un kibbutz israeliano comparisse la parola ghetto. Tzvika Dror mi mostrò la corrispondenza fra il Jewish National Fund e il kibbutz, che documentava il contrasto fra il retaggio biblico-tribale di Israele e il retaggio del ghetto ebraico nella Diaspora. L'aspra lotta sul nome era la prova del fatto che gli esponenti della resistenza organizzata avevano la tendenza a distinguersi dagli altri superstiti dell'olocausto, quasi appartenessero a un ordine nobile e segreto. (Nota: All'inizio Yad Vashem si era opposto alla costruzione di altri luoghi della memoria, compreso il Museo dei combattenti del ghetto di Lahomei Haghetaot. La battaglia era soprattutto politica. «Vogliono dimostrare che a prendere l'iniziativa della rivolta nel ghetto sono stati i militanti di Hashomer Hatsair» protestò un dirigente di Yad Vashem. «Non c'è perciò nessuna garanzia che le loro pubblicazioni saranno veritiere e rispettose della storia. Io credo che, essendoci un'istituzione nazionale come Yad Vashem, non ne dovrebbero esistere altre.») Ma essere «un monumento vivente e fecondo alla rivolta del ghetto» non era facile. Il poeta Haim Curi, che si era recato in visita al kibbutz poco dopo la sua fondazione, ricordò di aver sentito riecheggiare nella notte grida angosciose. Fra i fondatori del kibbutz, quelli che avevano combattuto contro i nazisti non erano neppure la maggioranza. Molti erano tormentati dall'angoscia di essere sopravvissuti senza ribellarsi. Il mito dell'eroismo era un fardello pesante, che contrastava con l'esperienza e i ricordi personali. Una volta all'anno, durante la Pasqua ebraica, il personale del negozio del kibbutz organizza una festa con un piccolo ricevimento, al quale ho partecipato anch'io. Mentre mangiavamo il galletto al vino con salsa di funghi, i commensali si abbandonarono
ai ricordi, parlando alle volte in yiddish. Fra noi c'erano delle persone anziane che avevano alle spalle un passato drammatico e una vita durissima. Tzvika Dror me ne indicò uno, Yehuda Bornstein, che era stato ad Auschwitz e poi nel lager di Ebensee. La fame l'aveva costretto a cibarsi dei cadaveri dei compagni di prigionia. Durante la guerra di Yom Kippur aveva perso il figlio, Tzvika Bashan, pilota di aerei. La sorella Nili, una poetessa nata in Israele, ha scritto: Anelo a Lòdz e ai caldi, dolci occhi dei miei nonni. Anelo a loro come alla hallah il giorno di Shabbat. (Hallah, pane bianco del sabato e delle feste ebraiche). I versi esprimono il senso di perdita e il dolore di cui soffrivano in Israele molti dei figli di superstiti dell'Olocausto. Come i genitori, anch'essi erano oppressi dalla vergogna, dai rimorsi e a volte dall'incubo dei campi di sterminio che non avevano mai conosciuto. Ero andato a Lohamei Haghetaot in cerca della risposta a una domanda assurda: erano riusciti a trovare la felicità nel kibbutz? Ma l'unica cosa che ho osato chiedere ai suoi abitanti era se ritenevano ancora di aver fatto la scelta giusta decidendo di invecchiare insieme. Mi hanno detto che di solito non parlavano dell'Olocausto. E anzi, finché Tzvika Dror non li aveva costretti a raccontare i terrori del passato, molti ignoravano la storia dei loro amici. Vivevano insieme e insieme tacevano. I quattro libri di Dror non sono soltanto una testimonianza sull'Olocausto, ma anche sulla terapia di gruppo che il raccontare ha costituito per tutto il kibbutz. Un superstite, Avraham Tsoref, mi ha detto che non potrebbe vivere fra gente che non ha conosciuto l'Olocausto. Era stato prigioniero nel lager di Stutthof. Dopo la guerra, mentre era ancora internato fra i maapalim a Cipro, aveva pensato a lungo su come rivelare agli altri quello che era accaduto «là», quali parole scegliere per dire che gli ebrei della sua città erano stati cancellati dalla faccia della terra. Aveva la sensazione di essere l'ultimo ebreo rimasto in vita. Quando era arrivato in Israele, nessuno gli aveva fatto domande ed era stato orribile. Non volevano sapere. Era stato un trauma, mi ha detto. Finito il pasto, se ne andò. Mi sono recato a trovare Nina Wangrove: fra le testimonianze raccolte da Dror c'è quella delle agghiaccianti torture da lei subite durante la prigionia. Mi ha parlato della sua esperienza nel kibbutz. Non l'aveva mai fatto prima di allora. E'
stato un monologo triste. Bella domanda, chiedermi come sarebbe stata la mia vita se non fossi venuta nel kibbutz. Sono sempre stata molto chiusa; io e mio marito non parlavamo mai di quello che era avvenuto durante la guerra. Avrei potuto farlo parlare, ma non volevo. Anche lui è stato «là». Non mi piace dire che è «un superstite dell'Olocausto». Perché la verità è che non siamo sopravvissuti, non siamo stati salvati. Fino a oggi non siamo stati salvati. Durante la guerra l'unica cosa che desideravo era morire. Sapevo di essere destinata alla morte, ma il mio sogno era vivere fino alla fine della guerra per morire da persona libera, il giorno dopo. Come un uccello che è volato in un luogo molto lontano e alla fine stende le ali e cade. La guerra finì. Quando finì, anche dentro di me finì qualcosa. Dopo tutte le energie che avevo impiegato per restare viva durante la guerra, non c'era più niente a cui valesse la pena dedicarsi. E' stato durissimo, durissimo. Desideravo disperatamente qualcosa che desse un senso alla mia vita. Avevo diciotto anni. Incontrai per caso delle persone che mi dissero: «Perché non vai in un kibbutz?». Ecco come sono arrivata qui. Avevo paura. Ricordo di aver detto a mio marito: l'ideologia del kibbutz è bella. Ma vuoi passare il resto della tua vita con Monik e Frieda? Monik e Frieda erano arrivate fra i primi. Ecco che cosa ho chiesto a mio marito: vuoi davvero vivere con loro d'ora in poi? Il tempo ha risposto di sì: abbiamo vissuto veramente tutta la vita con Monik e Frieda. Gli altri non capivano, non potevano. Così la penso oggi. Non so che cosa sarebbe accaduto se avessero cercato di capirci. Forse è meglio che non ci abbiano provato. Nessuno ci ha chiesto nulla. Ci hanno assegnato dei compiti e ci hanno detto di lavorare. Se avessero cercato di capirci, chissà, forse non avrebbe funzionato. E noi non abbiamo cercato di capire noi stessi. E così è passato un anno e poi un altro e un altro ancora. E ogni anno era sempre più difficile. Tutto. I ricordi dell'Olocausto e i ricordi del dopo Olocausto e i ricordi del kibbutz. Ogni anno più difficile. Eravamo molto confusi, traumatizzati, nel passare dal campo a questo... ghetto. Sì, il kibbutz. E così che mi sento, come in un lager o in un ghetto ebraico. Come si può vivere così? Ero infelice. Tranne i miei bambini, non c'è nulla che mi leghi qui. Posso essere qui oggi, e domani là, e il giorno dopo da nessuna parte. Questo posto non si è rivelato così importante per
me. Forse non ci sono dei posti davvero importanti, e forse neanche delle cose. Tutto quello che contava è morto. Per molti anni ho continuato a vivere nell'immaginazione, nella mia vecchia casa. Sono nata nella Russia sovietica. Mio padre e mia madre, non so che cosa ne sia stato di loro. E neanche di mio fratello. Per molti anni, per moltissimi anni, sono vissuta nella speranza che un giorno li avrei rivisti. Più di una volta sono partita all'improvviso per Haifa, ho percorso Herzl Street, ho camminato su e giù, su e giù, e mi sono fermata davanti al cinema: chissà, mi dicevo, magari li avrei visti comparire fra gli spettatori. Era orribile, orribile spiegare a mio marito dove andavo. E poi vivevamo così ammassati, sempre a contatto di gomito. Non si poteva neanche respirare senza che tutto il kibbutz lo sapesse: le cose esterne, non quello che succedeva dentro Nina, ma dove andava Nina, dove andava. E non li ho mai trovati. Avrei dovuto andarmene, vivere. Il kibbutz non è mai stata la mia casa. Oggi qui la vita è almeno tollerabile. Ma non era casa mia e neanche oggi lo è. Sono molto legata a questo posto. Ho lavorato sodo, ho fatto di tutto. Ho lavorato con i bambini e in fabbrica, ovunque avessero bisogno di me. Ma non come mio marito. Lui credeva in quello che faceva. Io lo facevo per dovere, per senso di responsabilità. Lui ci credeva davvero, nel kibbutz. Io no. I figli se ne sono andati. Adesso mi sento abbastanza forte per parlarne. Prima tacevo. Accettavo semplicemente tutto. Ci hanno inculcato questa ideologia socialista, piena di divieti: che cosa indossare e che cosa no, che cosa pensare e che cosa no, che cosa dire e che cosa no. Era tutto così opprimente. Ma io lo accettavo. Lo accettavo. Come sarebbe stata la mia vita se non fossi venuta al kibbutz? Forse me ne sarei pentita per tutta la vita. Forse. Nina aveva sessantadue anni quando l'ho conosciuta: era alta, robusta, con i capelli neri, intensa e tragica. Aveva perso da poco la vista. Il kibbutz le aveva costruito un grande appartamento e le aveva regalato un telaio su cui tesseva scene pastorali con i fili di lana. «Il papà e la mamma non parlavano d'altro» mi ha detto la segretariadirettrice del kibbutz. «Ne parlavano continuamente. Ogni discorso cominciava chissà dove e finiva sempre con l'Olocausto.» Lei e il fratello non ne potevano più. Non sopportavano le commemorazioni annuali, così importanti per il kibbutz, perché
arrivavano molti personaggi di spicco. I ricordi pesavano sui genitori e sui loro figli. Rapporti complessi. La segretaria si chiama Yael Zuckerman ed è la figlia dei leggendari Antek Zuckerman e Tzivia Lubetkin. Ogni venerdì i genitori ricevevano gli amici e gli ammiratori: avevano nutrito quel mito per tutta la vita. Per un po' parlavano del più e del meno, poi cominciavano le reminiscenze. Yael Zuckerman non capiva una sola parola di quello che dicevano, non voleva capire, mi ha detto. «Finché non è stato troppo tardi. Succede sempre così. Quando un figlio comincia a voler capire i genitori, non c'è più nessuno a cui domandare.» Yael Zuckerman, che è psicologa, cominciò a interessarsi dell'Olocausto soltanto dopo la morte del padre Antek, scomparso nel giugno del 1981. Prese a leggere i libri dei genitori e andò due volte in Polonia. Fu un processo di maturazione, di ripensamento, di nostalgia. E fu anche una questione di età. Ora non è più ossessionata dall'Olocausto, mi ha confessato, ma sa che fa parte di lei. Nel kibbutz vivono 280 adulti, 90 dei quali sono fra i fondatori. Ci sono 185 bambini e la comunità conta circa 500 persone. La generazione più anziana è andata in pensione presto, come se avesse esaurito le forze, lasciando il posto ai figli. Non ci sono scontri generazionali, ha detto Yael. Il kibbutz è ricco, ben tenuto, con prati verdissimi, e possiede una fabbrica di carne di soia, che vende moltissimo. Ha un bilancio di 21 milioni di dollari all'anno. Sì, esportano anche in Germania. Non tutti hanno consegnato i loro averi al kibbutz. «E' un problema, questo» ha affermato Yael Zuckerman. «Fra noi ci sono volontari di altri paesi, ma nessun tedesco.» A quell'epoca le comitive tedesche che volevano visitare il museo dovevano portare una lettera di raccomandazione firmata da Willy Brandt. Così era stato deciso un giorno dopo un lungo dibattito. Negli anni Ottanta la Knesset tornò a discutere ripetutamente dell'antisemitismo in Germania, della necessità di processare i criminali di guerra e di contrastare quanti negavano la realtà dell'Olocausto. I dibattiti non avevano in genere risvolti pratici, ma rispecchiavano piuttosto la volontà di difendere la «sacralità» del retaggio. Nel 1985 fu presentata in Parlamento una proposta che, sulla falsariga della legge a tutela della sensibilità religiosa e dell'onore della bandiera nazionale, vietava l'uso dei simboli nazisti in qualsiasi circostanza, tranne che a scopo
pedagogico e di ricerca. Alcuni dibattiti si svolsero in un'atmosfera visibilmente rituale. I verbali delle sedute riferiscono spesso che fra gli spettatori sedevano eminenti personaggi passati attraverso le persecuzioni naziste e in alcune circostanze ci fu persino un coro che intonò canti sull'Olocausto. Nei loro discorsi gli oratori citavano ogni tanto versi, preghiere e ricordi personali. Erano frequenti anche i gesti rituali. Il ministro della Giustizia, Moshe Nissim, annunciò che il governo avrebbe ricompensato con un milione di dollari chiunque avesse consegnato Josef Mengele a Israele. Durante il dibattito sui trascorsi del presidente Kurt Waldheim, Meir Kahane strappò la bandiera austriaca. Spesso i deputati facevano a gara a chi si dimostrava più patriottico o più religioso, a chi dava prova di maggiore fedeltà all'Olocausto. Fra loro c'erano molti superstiti, che volevano a tutti i costi spingere la Knesset a compiere gesti antitedeschi, come se rimpiangessero i lontani anni Cinquanta, quando ogni iniziativa contro la Germania diventava una potente valvola di sfogo. Qualcuno pretendeva che il Parlamento stigmatizzasse gli israeliani che usufruivano del loro diritto al passaporto tedesco, come facevano a migliaia, perché era «antipatriottico, antisionista e immorale». Qualcun altro protestava contro l'impegno del governo a migliorare l'immagine della Germania nelle scuole. Qualcuno infine era contrario alla visita a Bonn del presidente di Israele. Nonostante tutto, però, anche la lobby dell'Olocausto, come la lobby religiosa, scoprì che la vita quotidiana era più forte. Molte migliaia di israeliani chiesero e ottennero il passaporto tedesco; la commissione israelo-tedesca istituita per esaminare i libri di testo continuò indisturbata i suoi lavori; il presidente Herzog si recò in Germania. Nel novembre del 1989, poco prima della caduta del Muro di Berlino, cominciarono i primi, intensi, contatti fra Israele e la Germania Est. Fu una strana vicenda diplomatica, che sapeva quasi di necrofilia. Israele cercò di strappare a una Repubblica democratica in agonia un accordo sulle riparazioni che avesse valore vincolante per la futura Germania unita. La DDR aveva sempre negato qualsiasi responsabilità nei crimini nazisti. Le trattative furono quasi la fotocopia di quelle condotte da Israele e dalla Repubblica federale tedesca negli anni Cinquanta. Anche questa volta Israele chiese, anzi dettò, alla
controparte una dichiarazione di pentimento. Raramente nella storia si è vista tanta continuità e ripetitività. Una quarantina d'anni dopo gli stessi attori tornavano a calcare la scena, recitando la stessa parte. Gli israeliani volevano i soldi, i tedeschi una nuova immagine. La moneta di scambio era la parola. Nell'aprile del 1990 il Parlamento della Germania Est approvò una delle ultime risoluzioni della sua storia, con la quale non soltanto esprimeva la propria contrizione ma riconosceva anche, forse per la prima volta, il diritto di Israele a rappresentare tutti gli ebrei del mondo. Era un riconoscimento che Israele inseguiva dal giorno della sua fondazione, senza mai riuscire a ghermirlo, anche perché le organizzazioni ebraiche straniere, soprattutto quelle statunitensi, vi si opponevano. Finalmente era riuscito a ottenerlo, come ultimo atto di uno Stato tedesco morente. E' difficile immaginare una situazione più paradossale. La stampa israeliana espresse riserve, apprensione e dolore di fronte alla riunificazione della Germania, ma più per senso del dovere che per altro. Si levarono qua e là proteste dei superstiti dell'Olocausto e, com'era prevedibile, Dov Shilansky divenne il loro portavoce: «Per noi è un giorno di lutto» dichiarò. Ma il governo si adattò in fretta alla nuova realtà. Il ministro degli Esteri, Moshe Arens, volò in Germania per riparare ai danni che Yitzhak Shamir aveva provocato con le sue perplessità. «Abbiamo la più assoluta fiducia nella Germania unita» dichiarò Arens a Bonn. «Yediot Aharonot» condusse un sondaggio fra i suoi lettori: il 36 per cento si dichiarò favorevole alla riunificazione, il 28 per cento si disse contrario e il 35 per cento indifferente. La percentuale più significativa era probabilmente proprio l'ultima: una buona parte degli israeliani non considerava più la Germania un nemico. Poco prima della riunificazione della Germania, arrivò in Israele la Filarmonica di Berlino per tenere una serie di concerti. Era la prima volta: l'orchestra non aveva mai potuto suonare nel paese a causa del passato del suo direttore, Herbert von Karajan. Il nuovo direttore, Daniel Barenboim, disse che era venuto il momento di liberarsi dell'ultimo tabù ed eseguire in pubblico la musica di Wagner. L'altro tabù, quello di Richard Strauss, era già caduto: le orchestre di Israele avevano ripreso a suonarne la musica senza suscitare scandalo.
CAPITOLO XXVI «CHE COSA C'E' DA CAPIRE? SONO MORTI, ECCO TUTTO» In un vicolo di Tel Aviv che ha conosciuto giorni migliori c'è un auditorium, l'Ohel Shem. Si trova in una delle vie più antiche della città, intitolata ad Arthur James Balfour, il ministro degli Esteri inglese che si meritò tanto onore nel 1917 scrivendo una lettera davvero importante. Indirizzata a Walter Rothschild, presidente della Federazione sionista inglese, essa dichiarava che il governo di Sua Maestà avrebbe visto con favore la creazione di un «focolare ebraico» in Palestina. La «Dichiarazione Balfour» segnò una tappa fondamentale negli sforzi del movimento sionista per fondare uno Stato ebraico. L'auditorium Ohel Shem, il cui nome significa «la Tenda di Shem», era stato fondato una dozzina di anni prima da Haim Nahman Bialik, che di quel movimento era il poeta nazionale. La vicina spiaggia era il luogo di ritrovo del giudaismo muscolare, Bialik voleva un teatro che ospitasse il giudaismo culturale. Una sua poesia. Sulla soglia della casa di preghiera, dice: «Tu non cadrai, tenda di Shem, io ti farò robusta».! La Tenda è stato un importante centro culturale, laico come Tel Aviv, in cui convenivano gli scrittori, i poeti e gli studiosi della città. Nel suo momento di massimo splendore vi confluivano grandi folle di spettatori. L'Orchestra filarmonica di Israele vi teneva i concerti e vi si riuniva il comitato centrale del Mapai. Sessant'anni dopo Ohel Shem ha perduto la sua grandezza. La sala, dall'intonaco sbiadito e cadente, ospita soltanto eventi marginali, come le rappresentazioni del teatro yiddish. Sono andato a Ohel Shem nel settembre del 1990 per assistere all'incontro annuale degli israeliani di Lòdz, che si riuniscono nel giorno in cui i nazisti distrussero il ghetto della città. Hanno capito subito che ero un estraneo. Lòdz era la seconda città della Polonia: alla vigilia della guerra vi risiedevano circa 250.000 ebrei, uno ogni tre abitanti. Molti lavoravano nell'industria tessile, quasi tutti furono trucidati dai nazisti. Fra i sopravvissuti, quelli emigrati in Israele fondarono una loro confraternita, come fecero
tante altre comunità provenienti dall'Europa. Ognuna di queste Landsmanschaft celebra tutti gli anni una cerimonia commemorativa, per cui non passa mese senza che vi sia qualche ricorrenza del genere, di solito a Tel Aviv. Le persone convenute quella sera a Ohel Shem erano per lo più sulla sessantina; avevano trascorso gran parte della loro vita adulta in Israele e parlato l'ebraico, ma all'assemblea annuale, che era un misto di commemorazione e di incontro nostalgico, rispuntavano il polacco e lo yiddish. La data del ritrovo cadeva fra Rosh ha-Shanah e Yom Kippur, in un periodo che segna l'avvicendarsi delle stagioni. I partecipanti si scambiavano notizie sugli avvenimenti accaduti nell'anno trascorso dall'ultimo incontro, parlavano della salute e dei figli: chi aveva subito un intervento chirurgico, chi aveva avviato una nuova attività, chi era andato in pensione, chi era morto. Qualcuno raccontava che la figlia aveva preso il diploma di segretaria d'azienda; che il figlio maggiore, il quale viveva a Los Angeles, aveva avuto un altro bambino. Era la Tel Aviv anziana, benestante, ashkenazita, eppure pareva di sentire continuamente alitare nell'aria un sospiro collettivo. Venendo in Israele, quegli uomini e quelle donne dai capelli grigi avevano perso un mondo prezioso: forse avevano nostalgia di quel mondo o forse semplicemente della loro giovinezza. E comunque, invecchiando, si sentivano più vicini alla loro infanzia. I più vecchi avevano vissuto gli orrori dell'Olocausto, alcuni erano sopravvissuti ai campi di sterminio. La folla che ancora indugiava sul marciapiede si avviò verso l'ingresso; nell'atrio due giovani vendevano l''Enciclopedia dell'Olocausto, il contributo più importante di Israele alla storiografia del genocidio ebraico, una pubblicazione semiufficiale in sei volumi, edita congiuntamente da Yad Vashem, dalla casa editrice del Mapam, Sifriat Poalim, e dal quotidiano «Yediot Aharonot», con la prefazione di Elie Wiesel. C'era stata una grande campagna pubblicitaria a favore dell'enciclopedia, sostenuta anche dalla radio. A Ohel Shem la vendevano con lo sconto. Un uomo con un grande scatolone si aggirava fra la folla offrendo le videocassette di Shimon Levin, il rabbino tutto vestito di nero che era stato invitato a condurre le preghiere per i defunti. Il presidente richiamò all'ordine i «cari lodziani», poi venne accesa la menorah del ricordo,
a sei bracci, posata su un supporto drappeggiato di nero. Si accesero le candele e furono recitate le preghiere, ma la riunione aveva un carattere visibilmente laico: benché tutti i presenti, circa trecento, si alzassero in piedi per pregare, gli uomini e le donne non erano separati, moltissimi erano a capo scoperto, anche se qualche signora si era messa in testa un foulard, come usano fare i non osservanti ai funerali, ai matrimoni e ad altre cerimonie. Il presidente, dopo qualche parola in yiddish, come accade sempre nelle commemorazioni in Israele, presentò il conferenziere del giorno, lo scrittore e poeta Zvi Blumenfrucht, il quale ammonì in yiddish a non dimenticare. Tanti vorrebbero che noi dimenticassimo, disse, ma non dimenticheremo, e quasi giurando fedeltà ai morti, ripetè: «Nein, nein, nein!». Ai due lati del podio c'erano tre bandiere israeliane e sullo sfondo una grande mappa a colori del ghetto di Lòdz. Il presidente era un uomo energico e sembrava molto esperto nel dirigere quel genere di riunioni. Fece vari annunci. Aveva sperato, disse, di portare in teatro alcuni studenti perché raccontassero la loro visita in Polonia, ma nel frattempo erano stati richiamati sotto le armi. L'organizzazione degli immigrati di Lòdz aveva chiesto all'esercito di concedere una licenza per quel giorno. Se n'era occupato personalmente, spiegò il presidente, ma purtroppo si era visto opporre un rifiuto. Lo rallegrava, però, vedere fra i presenti diversi giovani, anche se non numerosissimi: era molto importante trasmettere la storia di Lòdz alle nuove generazioni. Le due Germanie erano sul punto di riunirsi, ma nessuno vi accennò. Il presidente parlò invece del «piccolo Hitler» che ora minacciava Israele, l'iracheno Saddam Hussein. Ringraziò Ben Gurion che aveva permesso a Israele di dotarsi della bomba atomica. Il pubblico in sala annuì. Chiuso l'argomento della guerra del Golfo, il presidente ricordò ai lodziani il dovere di essere felici, secondo l'insegnamento impartito dal rabbino capo di Tel Aviv. Le vittime, i martiri, avevano lasciato in eredità la loro vita ai superstiti e la vita era gioia, riso. Non erano sopravvissuti soltanto per portare sulle spalle il dolore del mondo. Anche a una commemorazione si poteva ridere e per aiutarli a farlo raccontò una storiella sulla seconda guerra mondiale. Un ragazzo giapponese chiede al padre: perché abbiamo dovuto bombardare Pearl Harbor
Non sarebbe stato più semplice comperarla? Il pubblico sorrise educatamente. A proposito, proseguì il presidente, le casse dell'organizzazione sono vuote, proprio ora che abbiamo tanti progetti, per esempio portare in Israele la mostra fotografica sul ghetto di Lòdz, che in questo momento si trova a Francoforte. Curiosamente, una delle fotografie ritraeva il presidente dello Judenrat, Haim Rumkovski, in compagnia del comandante delle SS Heinrich Himmler. Se avessero avuto i soldi necessari, continuò il presidente, sarebbe stato bello riunirsi due volte all'anno; nel frattempo, annunciò, era in preparazione l'incontro dei diplomati del liceo ebraico di Lòdz. Il governo polacco aveva di recente fornito alla loro associazione le copie del censimento della vecchia Lòdz e le informazioni sui luoghi di sepoltura dei 150.000 ebrei deceduti a partire dalla fine dell'Ottocento. In questo modo chi desiderava recarsi in Polonia a visitare le tombe dei propri cari avrebbe risparmiato molto tempo. L'associazione dei lodziani aveva inoltre compilato un libretto di istruzioni sulle ultime possibilità per chiedere i risarcimenti alla Germania. Naturalmente tutte queste iniziative avevano dei costi, ma lui, il presidente, sapeva che i suoi cari lodziani avevano il cuore grande ed era sicuro che durante l'intervallo avrebbero contribuito con generosità. Non fu proprio così che andarono le cose: evidentemente qualcuno doveva aver dimenticato a casa il libretto degli assegni. Pazienza, disse il presidente, i soldi arriveranno per posta. Parecchi in sala scossero il capo. Il piatto forte della serata era rappresentato da due oratori, Shmuel Cracowski e Dina Porat. Cracowski, direttore dell'archivio storico di Yad Vashem, parlò dell'occupazione nazista prima dell'istituzione del ghetto. Dina Porat analizzò l'atteggiamento dell'ebraismo mondiale verso l'Olocausto e lo yishuv. Cracowski era piccolo, calvo e con un accento che ne tradiva le origini polacche. Porat era una giovane donna elegante, che si esprimeva nell'ebraico dei sabra. Cracowski parlò con sentimento. In lui era difficile distinguere lo storico dall'oratore, lo studioso dall'apologeta. Si soffermò sulle atrocità dei nazisti, sui loro «atti di barbaro sadismo», citò Herbert Fischer, il comandante di una di quelle bande di assassini chiamate Einsatzkommandos, e ricordò che «tutti i capi di tali unità erano laureati». L'uditorio, formato da
«persone semplici», né dottori, né assassini, annuì di nuovo. Rammentò una a una le sinagoghe distrutte e un mormorio attraversò la sala. Al nome delle vie affioravano i ricordi e ognuno li sussurrava all'orecchio del vicino. Cracowski sapeva riscaldare i cuori. Dina Porat, docente dell'Università di Tel Aviv, fu controllata, fredda, accademica. Cracowski e Porat rappresentano nella storiografia israeliana dell'Olocausto due tappe di un percorso che va dalla memoria alla ricerca scientifica, passando attraverso innumerevoli barriere ideologiche, politiche e psicologiche. I primi tentativi di ricordare le comunità ebraiche distrutte durante l'Olocausto furono compiuti già durante la guerra dalle comunità ebraiche perseguitate. Emanuel Ringelblum documentò la storia del ghetto di Varsavia: il suo archivio, ritrovato nascosto nelle bottiglie del latte, è una preziosa fonte di informazioni. Documenti e diari furono conservati nei ghetti, negli avamposti partigiani e persino nei campi di sterminio. A Gerusalemme, nel luglio del 1947, si tenne una conferenza internazionale, organizzata dal movimento sionista, alla quale parteciparono i rappresentanti di tutti gli istituti storici interessati a raccogliere materiale sull'Olocausto. Gli studiosi intervenuti spiegarono che la loro ricerca non nasceva soltanto dal desiderio di indagare e comprendere le cause e il significato del genocidio ebraico, ma anche dalla «speranza che l'insegnamento dell'Olocausto serva al futuro della nostra nazione». La conferenza deliberò che Israele, con «al suo centro Gerusalemme», era il luogo ideale per diventare la capitale mondiale degli studi sull'Olocausto. La legge del 1953 sull'Olocausto e l'eroismo consacrò Yad Vashem come istituzione storica ufficiale, con il compito di «raccogliere, investigare e pubblicare tutti i documenti sull'Olocausto e l'eroismo». La prima iniziativa che Yad Vashem intraprese fu di registrare su nastro le testimonianze dei superstiti. Le interviste così conservate hanno un loro valore, ma gli intervistatori non sondarono a fondo le questioni, non chiesero prove, non si preoccuparono delle contraddizioni con i fatti già accertati. Raccontare la propria storia era per i sopravvissuti un dovere sacro verso i morti e a volte una valvola di sfogo per la tensione che li attanagliava, una sorta di terapia. Yad Vashem si limitò a registrare le loro parole. L'invito a ricordare l'Olocausto venne anche dalle
Landsmanschaft e nel corso degli anni emerse un genere letterario toccante e unico al mondo, l'Yizkor. Ognuno di questi libri di memorie ricostruisce una comunità distrutta, a volte così piccola che non è segnata su nessun atlante. Sono testi nati quasi tutti nell'identico modo: diversi superstiti provenienti dalla stessa località si riunivano, si scambiavano ricordi e scrivevano le storie e le leggende dei luoghi nativi, raccoglievano fotografie, tratte in gran parte da album di famiglia scampati alla guerra e finiti chissà attraverso quali peripezie in Israele; frugavano nei vecchi bauli e aprivano cassetti chiusi da tempo, scovando contratti di matrimonio, certificati di morte, pagelle, qualche diario, una poesia d'amore, un disegno, un tema di scuola, un volantino partigiano. Ogni pagina, ogni immagine rimandava a un modo di vivere scomparso, dai piatti cucinati dalla mamma alle fosse comuni nelle foreste, dalla ribellione del ghetto all'immigrazione in Israele. Un insegnante o un poeta originario della stessa città o dello stesso villaggio organizzava il materiale e lo commentava come meglio sapeva, mescolando ideali, nostalgie, eroismi e sionismo. Ai personaggi famosi spettava il posto d'onore: il presidente Zaiman Shazar descrisse la sua Stoyvetz, Ben Gurion parlò della sua Ptònsk. Il Landsmanschaft stampava due o trecento copie in ebraico e in yiddish e le distribuiva ai superstiti che le avevano prenotate. Il libro su Lòdz uscì fra i primi, nel 1943. Nel 1990 la biblioteca di Yad Vashem ne espose un migliaio, quasi la metà pubblicata dopo la guerra di Yom Kippur. Poi ci sono le memorie personali: ne esistono centinaia, forse migliaia di volumi. Anch'esse sono state un modo per rompere il terribile silenzio imposto in Israele ai superstiti dell'Olocausto e spezzare la barriera di stereotipi che tanto li faceva soffrire. Le riflessioni malinconiche, le grida di dolore, la sete di vendetta e le dichiarazioni di fedeltà alla visione sionista che riempiono le pagine di questi volumi caratterizzano altresì gli scritti di tanti fra i primi studiosi israeliani dell'Olocausto. Molti di loro avevano conosciuto gli orrori della guerra e dei campi di sterminio. Anch'essi, perciò, avevano a cuore l'immagine delle vittime e dei superstiti. Anch'essi avevano lottato per lo Stato di Israele e condividevano la fede nella sua forza redentrice, che pervade tutta la letteratura di quel tempo e la stessa Dichiarazione di
indipendenza. «La nostra morte ha un'alba» aveva gioito Natan Alterman, come se l'unico grande desiderio delle vittime fosse stato quello di morire perché Israele potesse nascere. In uno dei suoi romanzi Katzetnik descrive l'incontro di un uomo e di una donna sulla spiaggia di Tel Aviv. L'uomo è un superstite dell'Olocausto, la donna è nata in Palestina. E' la sera del 29 novembre 1947: quel giorno l'assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la spartizione della Palestina. «Uno Stato! Uno Stato! Uno Stato ebraico!» esulta l'uomo. «Lei avvinghiò le gambe intorno ai suoi lombi, l'acqua luccicante e salina si mescolò al vino inebriante dei baci. ... Lasciami, adesso, amor mio, e bacerò questa terra e quest'ora in questa notte.» La Dichiarazione di indipendenza recita: «La catastrofe nazionale che si è abbattuta di recente sul popolo di Israele [cioè il popolo ebraico] con il massacro di sei milioni di ebrei in Europa, ha dimostrato ancora una volta l'urgenza di una soluzione al problema di questo popolo senza patria e senza indipendenza. La soluzione è la rinascita dello Stato ebraico in Israele, che aprirà le porte a tutti gli ebrei e garantirà a ogni ebreo uguali diritti nella famiglia delle nazioni». Gli storici israeliani, impegnati a riabilitare l'immagine delle vittime e dei superstiti dell'Olocausto, a sostenere la lotta ideologica dello Stato e a istituire il culto della memoria, non provarono neppure a indagare a fondo il nazismo. Forse temevano di non essere capiti, di essere accusati di volerlo giustificare, o forse volevano che restasse un concetto astratto, quasi mistico, il simbolo del male assoluto. (Nota: Per analogia, negare l'Olocausto significa negare il diritto all'esistenza di Israele. «Esiste una cospirazione mondiale, finanziata da coloro che odiano Israele, che mira a distorcere la verità storica sull'Olocausto» dichiarò un deputato. Nel luglio del 1981 la Knesset approvò una legge che considerava reato la negazione dell'Olocausto: «La diffusione, scritta o orale, di opere che neghino gli atti commessi sotto il regime nazista, crimini contro il popolo ebraico o contro l'umanità, o li minimizzino allo scopo di difenderne gli autori oppure allo scopo di appoggiarli o identificarsi con essi, è passibile di cinque anni di carcere». La proposta di elevare la pena a dieci anni fu respinta. A questo punto lo sterminio
degli ebrei cessava di essere un argomento riservato soltanto agli storici: in un certo senso veniva decontestualizzato e diventava un dogma nazionale, protetto dalla legge, quasi una fede religiosa e con uno statuto ancora più elevato della religione. Infatti la pena massima prevista per «le offese» alla sensibilità o alla tradizione religiosa, compresa, si presume, la negazione dell'esistenza di Dio, è di un solo anno di carcere e non di cinque.) Certo è che la loro ricerca ne ha sofferto, tant'è vero che i libri più importanti sul nazismo e sullo sterminio degli ebrei non sono stati scritti in Israele, mentre le opere straniere sono state tradotte con parsimonia in ebraico, e in genere con molti anni di ritardo. L'uscita di Storia del Terzo Reich di William Shirer nel 1962 fu per Israele un evento quasi rivoluzionario. Le Conversazioni con Hitler di Hermann Rauschning e Der Fuhrer: l'ascesa al potere di Hitler di Konrad Heiden furono tradotti in ebraico durante la seconda guerra mondiale, ma la biografia di Hitler scritta da Alan Bullock, considerata un classico, comparve soltanto nel 1974, quasi vent'anni dopo l'edizione inglese. L'Hitler di Joachim Fest uscì nel 1986, tredici anni dopo l'edizione tedesca, con un sottotitolo. Ritratto di una nonpersona, che contraddiceva la tesi dell'autore. Hannah Arendt mi ha raccontato un giorno le pressioni che avevano impedito la pubblicazione in Israele del suo controverso libro sul processo Eichmann: l'autrice era convinta che a metterlo al bando fosse stato Ben Gurion in persona. Il suo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme è un testo essenziale nel dibattito sulla personalità dell'assassino nazista, sulle sue motivazioni e sul male nell'uomo in generale. Pur essendo convinta che fosse stata data un'importanza eccessiva al suo libro, la Arendt era dispiaciuta che non fosse stato tradotto in ebraico. L'aveva scritto, disse, con rabbia perché le sembrava che Israele volesse sfruttare il processo a fini politici. Adesso avrebbe detto cose diverse. Giudicava spropositata anche la risonanza di quello che in inglese era il sottotitolo. Rapporto sulla banalità del male. Quel libro, ha concluso con tipica ironia Hannah Arendt, potrebbe tutt'al più essere un buon manuale di istruzioni per i giornalisti su come seguire un processo storico. Neppure gli studi fondamentali sull'Olocausto di Raul Hilberg sono
stati tradotti in ebraico. Come la Arendt, anche Hilberg ha attribuito una parte della colpa del genocidio agli ebrei, sostenendo che gli Judenrat avevano facilitato il programma di sterminio nazista. Il ruolo dei Consigli ebraici è sempre stato uno dei temi più delicati dell'Olocausto: Yad Vashem ha impiegato sette anni per pubblicare la versione ebraica di Judenrat di Isaiah Trunk, uscito a New York. Il libro di Ruth Bondi, Edelstein against Time, un racconto molto umano ed equilibrato del dilemma morale in cui si è trovato l'uomo che Adolf Eichmann aveva nominato «ebreo anziano», ossia capo dello Judenrat del ghetto di Theresienstadt, fu pubblicato soltanto all'inizio degli anni Ottanta e anche allora parve infrangere un tabù. (Nota: Il titolo dell'opera originale, pubblicata nel 1963, è Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil. (NdT) Lo stesso discorso vale per la pièce Ghetto di Yehoshua Soboi, che fu rappresentata qualche anno dopo. Ci volle quasi una generazione perché in Israele comparissero storici capaci di affrontare l'Olocausto con il distacco necessario, contestualizzandolo e indagandolo senza apologie e dogmatismi. La nuova tendenza si affermò verso la fine degli anni Settanta. Prima d'allora non sarebbe probabilmente stato possibile: l'Olocausto era ancora troppo vicino, troppo doloroso, troppo opprimente, troppo politico. Dina Porat è nota soprattutto per il suo saggio sull'atteggiamento dello yishuv verso l'Olocausto: «Lo yishuv non ha cambiato né il suo modo di vivere, né il suo corso in seguito all'Olocausto» ha scritto. n libro, pubblicato nel 1986 e intitolato Trapped Leadership (Una leadership intrappolata), è il primo studio sulle manchevolezze delle operazioni di salvataggio organizzate dallo yishuv, un argomento che ogni tanto infiammava la scena politica israeliana, ma che fino ad allora nessuno aveva sottoposto a un'indagine sistematica. C'era soltanto un precedente degno di nota: il saggio di un insegnante di Tel Aviv, S.B. Beit-Zvi, che aveva però avuto pochissimi lettori. (Nota1: Il giudice della Corte suprema Gabriel Badi, che aveva fatto parte del collegio giudicante al processo Eichmann, ha dichiarato a
chi scrive che «tutte le prove rilevanti» sugli Judenrat furono presentate al processo, contrariamente a quanto sostiene la Arendt. Ci fu persino il rischio, ha detto, che a finire sul banco degli imputati fossero i Consigli ebraici anziché Eichmann e i nazisti. Un giorno l'avvocato difensore di Eichmann, il tedesco Robert Servatius, mostrò a Bach le lettere di quindici cittadini israeliani che si offrivano come testimoni a carico della difesa, non perché desiderassero difendere Eichmann, ma perché speravano così di pareggiare vecchi conti con i rappresentanti degli Judenrat locali. Erano impazienti di presentarsi in tribunale. Servatius non li convocò, ritenendo, probabilmente a ragione, che di fronte alle loro testimonianze i giudici si sarebbero resi conto delle umiliazioni inflitte dai nazisti alle loro vittime prima di ucciderle. «Si immagina che cosa sarebbe successo se tutti quei testimoni, ebrei di Israele, fossero venuti a raccontare episodi sugli Judenrat?» mi ha chiesto Bach. «Nessuno si sarebbe più ricordato di Adolf Eichmann.» Quando Servatius decise di rinunciare alle testimonianze, Bach si congratulò con se stesso per avere consigliato a Eichmann di nominare un avvocato tedesco.) Nota2: Anche la storiografia religiosa ha i suoi tabù ideologici e politici, primo fra tutti il perché Dio abbia permesso lo sterminio degli ebrei. E anche la comunità religiosa, come i laicissimi sionisti, ha considerato il genocidio un anello nella lunga catena delle persecuzioni contro gli ebrei. Alcuni storici di questa tendenza hanno visto nell'Olocausto una punizione per i peccati degli ebrei, altri hanno ritenuto che il genocidio sarebbe servito ad accelerare la venuta del Messia. I più si sono limitati a dire che, pur essendoci sicuramente una spiegazione, non erano in grado di dire quale fosse. Quando i sionisti accusarono il rabbinato di aver impedito agli ebrei osservanti di salvarsi emigrando in Israele, gli ultraortodossi risposero incolpando i sionisti di averli abbandonati perché erano religiosi. Erano dunque i sionisti ad averli abbandonati, non Dio.) All'incontro annuale degli ebrei di Lòdz il presidente, prima che Dina Porat intervenisse, osservò che l'atteggiamento dello yishuv
nei confronti dello sterminio aveva turbato i superstiti quando erano ancora «là» nel ghetto. Il turbamento li aveva seguiti in Israele, dov'erano disprezzati perché si erano lasciati condurre nei campi di sterminio «come agnelli al macello», senza difendersi, e dove non venivano creduti quando raccontavano le loro esperienze. Un mormorio di approvazione attraversò l'uditorio. Il primo contatto dei superstiti con un paese che sapeva rispettare soltanto gli eroi morti era stato traumatico. Molti avevano perciò accolto a braccia aperte il libro di Dina Porat, o perlomeno così sembrava dalle recensioni entusiastiche della stampa. Porat tenne un discorso prudente, quasi indulgente verso lo yishuv. Gli ebrei di Palestina, disse a quelli di Lòdz, non avrebbero comunque potuto far niente per loro. E questo non solo perché le notizie sullo sterminio suscitavano incredulità, ma perché in quelle persone perbene la realtà dell'Olocausto superava qualsiasi immaginazione. E avevano anche le loro preoccupazioni, aggiunse, altrettanto legittime. Più di una ventina di anni prima, esattamente nell'aprile del 1968, insieme a due amici mi ero recato a intervistare Ben Gurion per il giornale degli studenti dell'Università ebraica. Lo statista ci ricevette nella sua casetta nel kibbutz Sde Boker. Aveva ottantadue anni, ma era ancora lucido e vigoroso. Eravamo andati a chiedergli, alla vigilia del ventesimo anno della Dichiarazione di indipendenza, se il paese fosse davvero indipendente. Ben Gurion apprezzò la domanda. Quella mattina era dell'umore giusto per le riflessioni storiche. Aveva molto tempo a disposizione e ci intrattenne per quasi tre ore. L'incontro avvenne all'indomani della prima celebrazione del Giorno dell'Olocausto dopo la guerra dei Sei giorni. Il quotidiano «Lamerhav» aveva pubblicato una lunga intervista con Saul Friedlànder, che si stava affermando a livello internazionale come uno dei maggiori studiosi dell'Olocausto. Friedlànder, un superstite, aveva definito «un fallimento» l'atteggiamento dello yishuv nei confronti dello sterminio degli ebrei. «Non voglio dire con questo» aveva spiegato «che si sarebbe potuto fare di più sul piano pratico. Quello che voglio dire è che i dirigenti dello yishuv e tutta l'opinione pubblica non hanno meditato a sufficienza sul problema. Il salvataggio degli ebrei d'Europa non era una priorità per i leader dello yishuv. Tutti i loro pensieri erano concentrati sulla fondazione
dello Stato.» Friedlànder era stato molto esplicito: «Ritengo che Ben Gurion non abbia mai capito la vera natura dell'Olocausto. Sì, certo, ha visitato i campi profughi dopo la guerra, ' ma non ha scavato in profondità. I superstiti per lui costituivano anzitutto una riserva per la costruzione dello Stato». Friedlànder tracciava un nesso fra questo atteggiamento di Ben Gurion e la sua visione della storia ebraica: «Credo che Ben Gurion, e come lui molti altri, "si vergognino" del retaggio del giudaismo della Diaspora» dichiarò lo storico. Quel giorno domandammo a Ben Gurion se si riconosceva in quel giudizio. Preferì glissare. «Leggerò più tardi l'intervista» disse, e si ripromise di fissare un incontro con Friedlànder, quasi si trattasse di chiarire un piccolo malinteso. Poi Ben Gurion attaccò con il suo cavallo di battaglia, secondo cui «il popolo di Israele», che per lui significava il popolo in Israele, doveva essere «un popolo eletto», «un faro per le altre nazioni», un esempio di moralità e di creatività spirituale e scientifica. Ci raccontò la sua giovinezza in Palestina, dove era giunto nel 1906. Si definì un pioniere. Era così che si consideravano i primi coloni sionisti: l'avanguardia nazionale, il nucleo originario che avrebbe creato l'«uomo nuovo» in una società ebraica rinnovata. Il sionismo era il rifiuto della Diaspora, che i pionieri detestavano: ecco da dove nacquero nel dopoguerra l'arroganza e il disprezzo verso le vittime e i superstiti dell'Olocausto. Ben Gurion aveva vent'anni al suo arrivo in Palestina, ma fin da piccolo aveva sempre saputo, disse, che un giorno sarebbe andato a vivere in Israele da sionista. Forse, suggerimmo, la memoria lo ingannava, ma il vecchio ci corresse: a tre anni sapeva già quale sarebbe stato il suo destino. Ci raccontò i tentativi di pace con i paesi arabi e parlò della sua posizione nei confronti dei Territori occupati: «Se dovessi scegliere fra un Israele piccolo, senza Territori ma con la pace, e un'Israele grande, senza pace, preferirei un Israele piccolo». Ogni tanto si abbandonava alle confidenze e diventava sentimentale. Stava parlando dell'immigrazione, della necessità di incoraggiarla, e dell'incremento delle nascite, che definì «immigrazione interna», e all'improvviso disse che avrebbe desiderato un quarto figlio, ma sua moglie Paula, scomparsa di recente, non era d'accordo. Cercammo di riportare il discorso sull'Olocausto. «Sì, certo, l'Olocausto» disse
Ben Gurion. «Dovete sapere che la mia preoccupazione principale dal 1945 in poi è sempre stata una sola: saremmo sopravvissuti oppure no? Era chiaro che gli inglesi se ne sarebbero andati e che al loro posto sarebbero subentrati gli arabi.» Parlò per venti minuti degli sforzi per arrivare alla creazione dello Stato di Israele e di varie operazioni segrete attuate allo scopo di procurarsi le armi per il conflitto che riteneva imminente. Citò nomi, date, luoghi. Riassunse le fasi principali della guerra di indipendenza, descrisse le battaglie. Voleva essere certo che noi tre studenti, troppo giovani per ricordare quell'esperienza, ci rendessimo conto dell'immensità del compito. «Rischiavamo lo sterminio» affermò Ben Gurion, ma sull'Olocausto non disse una sola parola. Ritornammo per la terza volta sull'argomento. Friedlànder, dicemmo, sostiene che lei non ha compreso bene il significato dell'Olocausto. Ben Gurion rimase a lungo in silenzio: si sentiva soltanto il ronzio di una solitària mosca del deserto. All'improvviso alzò gli occhi e disse: «Che cosa c'è da capire? Sono morti, ecco tutto». Si alzò da dietro la scrivania e, senza dire una parola, si avvicinò alla scala appoggiata alla parete tappezzata di libri. Si arrampicò fino in cima, tirò fuori un volume polveroso, lo sfogliò per qualche istante, poi da lassù quel vecchio piccolo, robusto, con una criniera di capelli bianchi, ci lesse la sua dichiarazione alla conferenza della Histadrut nel 1934, quando i nazisti erano al potere da meno di un anno e la seconda guerra mondiale era ancora lontana: Il regime di Hitler minaccia tutto il popolo ebraico e non soltanto i singoli ebrei. ... Esso non può durare a lungo senza una guerra di vendetta contro la Francia, la Polonia, la Cecoslovacchia e gli altri paesi confinanti. ... Siamo certamente di fronte a un pericolo [di guerra] non inferiore a quello del 1914, e di una guerra che per distruzione e terrore sarà peggiore dell'ultima.... Forse da quel giorno terribile ci separano soltanto quattro o cinque anni, o forse meno. In questo lasso di tempo dobbiamo raddoppiarci, perché in quel giorno decisivo l'entità dello yishuv potrà essere determinante per il nostro futuro. Ben Gurion scese dalla scala e disse: «Ho previsto esattamente quello che sarebbe successo e l'ho previsto cinque anni prima della guerra». Cominciò quindi a raccontare tutti i tentativi che aveva fatto per persuadere Londra ad aumentare le quote di immigrazione. Erano stati gli arabi
di Palestina e gli inglesi a strangolare l'immigrazione ed era dunque colpa loro se non era stato possibile salvare gli ebrei, dichiarò. Si soffermò a lungo sui contatti fra il gran muftì di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, e Adolf Hitler. Certo, ammise, gli inglesi non avrebbero potuto salvare sei milioni di ebrei, però avrebbero potuto salvarne molti. Avrebbero, per esempio, potuto bombardare Auschwitz e Treblinka. E qui ci raccontò un episodio storico come se si trattasse di un aneddoto. C'era un ebreo, disse, di cui non ricordo il nome, che era arrivato con una proposta dei nazisti di liberare un milione di ebrei in cambio di diecimila camion. «Dove andavamo a prenderli?» chiese sbalordito, come se fosse la prima volta che ne sentiva parlare. Il modo sbrigativo con cui liquidò quel tentativo di salvataggio aveva qualcosa di surreale. Nel 1944, prima di partire da Budapest, mi raccontò con un sorriso timido Hanzi Brand, il marito aveva avvisato i rappresentanti dell'Agenzia ebraica del suo arrivo nella neutrale Istanbul. In risposta gli avevano telegrafato che Chaim lo aspettava nella capitale turca e sia Hanzi sia il marito avevano dato naturalmente per scontato che si trattasse di Chaim Weizmann. Quel nome così importante non li aveva sorpresi: la proposta di Adolf Eichmann richiedeva una decisione ad altissimo livello, un grande sforzo logistico e la cooperazione internazionale. Si trattava infatti, in piena guerra, di portare fuori un milione di ebrei dalle zone occupate dai nazisti e consegnare in cambio diecimila automezzi. Sì, mi disse Hanzi Brand, avevano creduto a Eichmann, certo che gli avevano creduto. Gli avevano creduto perché non c'erano alternative, ma anche perché, se non fosse stata un'offerta seria, perché mai Eichmann avrebbe dovuto parlarne con gli ebrei e inviare uno di loro a Istanbul? Sì, gli avevano creduto. Così come avevano creduto che ad accogliere Joel a Istanbul ci sarebbe stato Chaim Weizmann. E invece l'uomo era Chaim Barlas, uno dei funzionari dell'Agenzia ebraica a Istanbul, che non era stato neanche capace di procurare a Joel il visto d'ingresso in Turchia. Brand riuscì comunque ad arrivare sul posto. Ma mentre si recava in Palestina fu arrestato dagli inglesi, che lo tennero per mesi chiuso in una prigione militare al Cairo. Gli ungheresi, che ignoravano la missione affidata dai nazisti al marito, arrestarono Hanzi Brand, la interrogarono e la torturarono per
carpirle il segreto. Intanto dall'esecutivo dell'Agenzia ebraica a Gerusalemme la questione era approdata sul tavolo di Churchill, Roosevelt e Stalin. Nessuno di loro voleva lo scambio, ciascuno per ragioni diverse. Una, però, era comune a tutti: non sapevano che farsene di un milione di ebrei. Eichmann diede ordine di portarli ad Auschwitz. Quando la incontrai, Hanzi Brand aveva più di ottant'anni. Rammentava la missione nei minimi particolari, quel ricordo la ossessionava ogni giorno. Era difficile sapere a cosa mirassero esattamente i nazisti, mi disse. Forse volevano crearsi un alibi, ora che sentivano vicina la sconfitta; forse volevano concludere la pace con l'Occidente all'insaputa di Hitler. A ogni modo, Eichmann aveva convocato Rezso Kastner per formulare una proposta. Alla riunione avevano partecipato anche lei e il marito. Durante la nostra conversazione ebbi l'impressione che Hanzi avesse letto tutto quello che era stato scritto sulla vicenda. La maggior parte degli storici non aveva compreso la realtà, mi disse, e alcuni l'avevano volutamente distorta. Aveva visto tre volte il Kastner di Motti Lerner nel 1985, durante la rassegna dedicata all'Olocausto dai teatri di Tel Aviv. Con ogni probabilità anche Lerner, come tutti gli altri, aveva avuto l'intenzione di scrivere un'opera contro Kastner. Ma dalla sua penna era uscito un personaggio molto umano, che suscitava simpatia, se non ammirazione, un uomo che rischiava la vita per salvare gli ebrei, proprio come era accaduto nella realtà. Parlammo della metamorfosi che aveva subito la reputazione di Kastner dopo il 1955, quando il giudice l'aveva accusato di avere «venduto l'anima al diavolo». C'erano molte ragioni per detestare Kastner, disse Hanzi Brand. No, non perché era arrogante e ambizioso, ma perché Eichmann gli aveva concesso di scegliere poche centinaia di ebrei da inviare in Svizzera, e lui aveva accettato di scegliere. Quelli che non erano saliti su quel treno non l'avevano mai perdonato e chi era riuscito a sopravvivere raccontava storie di ogni genere su Kastner: che ne aveva approfittato per salvare la famiglia, i funzionari del suo partito e chi aveva soldi per pagare. Ma non l'avevano mai perdonato neppure quelli che erano saliti, perché salvandoli li aveva resi suoi debitori. E questo non piace a nessuno, disse Hanzi. E dopo, che cos'era stata la loro vita? Ogni mattina si svegliavano
con la coscienza di essere scampati alla morte a spese di tutti gli altri che non erano riusciti a prendere quel treno. Kastner, mi ha detto Gerhard Riegner, è stato il peggior nemico di se stesso. Riegner era il funzionario del World Jewish Congress che per primo aveva rivelato all'opinione pubblica mondiale il piano nazista per sterminare sistematicamente gli ebrei d'Europa. Costringendolo a scegliere chi lasciar vivere e chi morire, Eichmann aveva assegnato a Kastner il ruolo che è di Dio. L'aveva messo in una condizione terribile e Kastner l'aveva accettata. Era stata quella la sua tragedia. Poi, dopo la guerra, aveva voluto diventare un personaggio pubblico. E questo era stato il suo errore. Nei trent'anni trascorsi dalla sera in cui Kastner fu assassinato sulla porta di casa sono cambiate molte cose, mi ha detto Hanzi Brand. A poco a poco la gente ha cominciato a capire in quale condizione angosciosa si fosse venuto a trovare Kastner. Ha cominciato a capire che anche lui era un ebreo inerme. Il nipotino di Hanzi si chiama Joel. A volte gli fanno domande sul nonno di cui porta il nome, ma senza ostilità. Quel nome, mi ha detto Hanzi, è ormai diventato un simbolo della volontà di mettere in salvo gli ebrei. E' contenta per il bambino. Poi mi ha raccontato i suoi primi giorni in Palestina con il marito. Lei non voleva venire. Temeva che sarebbero stati costretti a tacere, che nessuno avrebbe voluto ascoltare la loro storia. Aveva ragione. I primi tempi avevano vissuto in un kibbutz, Givat Haim. Erano tutti molto gentili con lei, ma nessuno voleva ascoltare le sue vicende. Raccontavano invece le loro, continuamente: l'attacco degli arabi al kibbutz, la bomba caduta vicino al pollaio. Aveva subito avuto l'impressione che parlassero della loro guerra per non sentirle raccontare la sua. Si vergognavano dell'Olocausto. A un certo momento le consigliarono di mandare i suoi due figli dallo psichiatra. Hanzi non lo fece. In seguito uno morì e l'altro, prima lavorò all'impianto nucleare di Nahai Sorek, poi presso l'ambasciata israeliana a Bonn. Quelli che conoscevano il suo passato, le domandavano sempre perché lei e il marito non si fossero ribellati subito ai nazisti e come avesse fatto a salvarsi. Aveva la sensazione, disse, di dover chiedere scusa per essere ancora viva. Gli avvenimenti che lei e il marito raccontavano non potevano competere con la rivolta del ghetto di Varsavia, ha detto Hanzi: loro
due avevano combattuto per salvarsi, non per diventare eroi. Israele voleva gli eroi. Hanzi e Joel Brand avevano da offrire soltanto una storia di sopravvivenza. Gli altri non sapevano quanto fosse stato duro sopravvivere. E non lo volevano sapere, volevano sentir parlare di gloria. Joel ne soffriva. Sentiva il bisogno di narrare all'infinito quello che era accaduto e come era accaduto. Soltanto così poteva sopportare il pensiero che centinaia di migliaia di ebrei erano morti perché la sua missione era fallita, un pensiero terribile che non lo abbandonò mai. Nessuno era disposto ad ascoltarlo. Girò per anni in tutte le redazioni dei quotidiani di Tel Aviv, ma non ci fu un solo giornalista che mostrasse qualche interesse. Visse sempre con la convinzione che l'Agenzia ebraica fosse in parte responsabile del fallimento della sua missione. Quando venne rilasciato dalla prigione del Cairo, Joel Brand andò in Palestina ed entrò nel Lehi. Un tempo aveva simpatizzato per il Mapai, ma il fallimento della missione gli aveva fatto nascere il desiderio dì vendicarsi degli inglesi. Dopo la fondazione dello Stato di Israele, uno dei comandanti del Lehi gli suggerì di scrivere un libro sulle sue vicende, ignote al vasto pubblico. Yitzhak Jezemitzky, alias Yitzhak Shamir, il futuro primo ministro, contava così di mettere in difficoltà i suoi avversari politici. Brand scrisse il libro, ma il Mapai fece di tutto perché rinunciasse a pubblicarlo. Affidò l'incarico di mediatore a Teddy Kollek, che dirigeva allora l'ufficio del primo ministro. Durante la guerra Kollek si era trovato per un certo periodo a Istanbul e, quando Brand era stato arrestato, era riuscito a fargli visita in prigione, sfruttando i suoi contatti con i servizi segreti britannici. Il libro, spiegò Kollek a Brand, avrebbe danneggiato gli interessi politici e la sicurezza del paese. Israele poteva chiedere oggi l'appoggio del mondo facendo in parte leva sul disinteresse mostrato per la sorte degli ebrei durante l'Olocausto. E dunque, un libro come il suo, nel quale si sosteneva che i dirigenti dello yishuv si erano lasciati sfuggire l'occasione di salvare gli ebrei, avrebbe indebolito la posizione di Israele di fronte alle altre nazioni. Ecco perché la pubblicazione era inopportuna. Ma non era tutta la verità: probabilmente Kollek era ancora più preoccupato per le ripercussioni che il libro avrebbe potuto avere su Ben Gurion. Nel colloquio egli mescolò abilmente, com'era nel suo stile, blandizie e
durezza, alternando offerte di denaro a minacce. Brand si lasciò persuadere ad affidare la pubblicazione del libro alla casa editrice del Mapai, ma quando gli arrivarono le bozze, stentò a riconoscere quello che aveva scritto. Alla fine la stesura originale uscì in tedesco, mentre il Mapai stampò la versione purgata con una postfazione di Moshe Sharett. Joel Brand, allora, scrisse un secondo libro, questa volta in collaborazione con Hanzi, che riportava anche la corrispondenza con Kollek. I due volumi, letti insieme, sono la spia dell'ansia con cui il Mapai attendeva il giudizio della storia sul suo impegno nel salvataggio degli ebrei. Qualche mese dopo la fine della guerra Hanzi Brand ebbe un incontro con Moshe Sharett. Gli disse che l'Agenzia ebraica non le aveva ancora restituito il denaro che aveva speso di tasca sua per finanziare le attività dell'organizzazione a Budapest. Sharett non fece obiezioni, ma le chiese le ricevute, perché altrimenti il tesoriere non avrebbe potuto giustificare i pagamenti. Gerhard Riegner riferì un episodio analogo: quando il presidente Roosevelt fu informato del piano di sterminio dei nazisti, qualcuno, alla Casa Bianca o al dipartimento di Stato, obiettò che l'informazione non era «confermata». «Che cosa avrei dovuto fare?» si chiedeva amareggiato Riegner. «Spedire cadaveri a Washington? Non li avevo.» Da allora sono passati quasi cinquant'anni e Hanzi Brand non è più in collera. Il sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, le ha persino proposto di commemorare il marito, morto nel 1964. Quando ripensa al passato, mi ha detto, trova apprezzabili gli sforzi di Ben Gurion e Moshe Sharett per convincere gli inglesi ad accettare il piano. Ma è ancora convinta che i dirigenti dell'Agenzia ebraica non si fossero resi conto che l'eccidio degli ebrei richiedeva il superamento dei vecchi schemi. Anziché riferire come di dovere la proposta agli inglesi, i leader dello yishuv avrebbero dovuto mettersi in contatto con i nazisti. Avrebbero potuto inviare un abbozzo di risposta a Eichmann, fingere di negoziare: Eichmann li avrebbe presi in parola, convinto com'era che i «Savi di Sion» governassero il mondo. Avrebbero dovuto cercare di guadagnare tempo. Sarebbe bastato: alla periferia di Budapest si sentivano già i colpi d'artiglieria dell'Armata Rossa. Era questione di pochi mesi. Non avevano capito. Avevano obbedito agli inglesi. La cosa più
importante per i sionisti era dare agli ebrei uno Stato dopo la guerra. Hanzi Brand credeva nella buona fede di Ben Gurion: aveva semplicemente sbagliato, disse. I veri colpevoli del fallimento della missione erano gli inglesi. Però non poteva fare a meno di chiedersi: quali erano le cose che più contavano per Ben Gurion durante la guerra? Quanto tempo aveva dedicato al Mapai e quanto al soccorso degli ebrei? Gli ebrei di Palestina, osservò comprensivo Gerhard Riegner, avevano i loro problemi. C'era la minaccia di Rommel, che tentava di aprirsi un varco fra le linee britanniche in Egitto e di invadere la Palestina. La sorte degli ebrei d'Europa non era in cima ai loro pensieri, così come non era in cima ai pensieri della maggior parte dei paesi del mondo. Quando andai a fargli visita, Riegner aveva ottant'anni ed era ancora un uomo molto vigoroso. Avvocato, nato in Germania, come tanti altri yekke Riegner non si era mai liberato del tutto dall'accento tedesco. Da cinquant'anni lavorava per il World Jewish Congress, la federazione mondiale delle comunità ebraiche, attiva soprattutto in campo diplomatico. Mi ricevette nel suo studio di Ginevra con le finestre aperte sul lago e sull'antico edificio della Società delle Nazioni. In quel momento Riegner era impegnato in una battaglia, pubblica soltanto in parte, per impedire l'apertura di un convento delle carmelitane dentro il campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia. Il Jewish Congress era reduce da un fallimento: non era riuscito a evitare che Kurt Waldheim venisse eletto presidente dell'Austria. Chiesi a Riegner perché la storia del convento fosse così importante. Mi rispose che Auschwitz era non soltanto un luogo della memoria nazionale del popolo ebraico, di cui nessun altro doveva impadronirsi, ma era altresì una carta politica importante per difendere gli interessi del World Jewish Congress e di Israele. Poi tirò fuori dai cassetti vecchi fascicoli ingialliti e si abbandonò ai ricordi. Come Joel Brand, anch'egli era stato coinvolto in uno degli episodi più oscuri dell'Olocausto. Un giorno d'estate del 1942 aveva saputo che i nazisti stavano mettendo a punto i piani per sterminare milioni di ebrei, con il gas si diceva. Qualche settimana dopo era stato informato che il piano era ormai giunto alla fase operativa. Il suo informatore era un industriale tedesco, Eduard Schulte, che aveva contatti nelle alte sfere, addirittura con alcuni collaboratori di
Hitler. Riegner si era messo subito in moto, inviando telegrammi ai leader delle comunità ebraiche degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e di Gerusalemme. Raccontava al presente. E' agosto, diceva, la gente è in vacanza. Le comunicazioni sono difficili. C'è la guerra. E difficile inviare telegrammi. Bisogna stare attenti alla censura. E' difficile parlare per telefono. Non ci sono voli di linea. E' difficile persuadere gli interlocutori che le informazioni sono esatte: a loro conviene credere che non lo siano. E anche quando ci credono, è difficile convincerli a fare qualcosa. Nel racconto di Riegner la burocrazia appariva onnipotente. Che cosa avrebbero dovuto fare i leader del mondo libero, secondo lui? gli chiesi. Avrebbero se non altro dovuto tentare di dare a Hitler l'impressione che prendevano la cosa sul serio. Avrebbero potuto minacciarlo con più convinzione. Avrebbero potuto compiere una serie di rappresaglie. Non era mai riuscito a capire, mi disse, perché gli alleati non avessero bombardato i campi della morte. A quell'epoca Riegner era a Ginevra con il World Jewish Congress e aveva chiesto aiuto ai leader delle chiese cristiane. Aveva anche tentato, lui come altri, di ottenere i permessi di uscita per gli ebrei e aveva inviato soldi e pacchi. Centomila pacchi. Forse si sarebbe potuto fare di più. Certo, non si sarebbero potuti salvare sei milioni di ebrei, però alcune centinaia di migliaia sì, se gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l'Australia, il Sudamerica, l'Africa settentrionale e la Palestina avessero aperto le porte. Parecchi paesi sarebbero stati disposti ad accogliere gli ebrei, se avessero avuto la certezza che, finita la guerra, i profughi se ne sarebbero andati. Per quasi cinquant'anni Gerhard Riegner si era rifiutato di rivelare il nome dell'uomo che gli aveva svelato il terribile segreto. Ne avevano scoperto l'identità Walter Laqueur e Richard Breitman. Si trattava di Eduard Schulte. Riegner era sorpreso che nessuno l'avesse individuato prima. Perché, gli chiesi, aveva mantenuto il segreto? Schulte aveva buoni motivi per essere orgoglioso di quello che aveva fatto. Riegner, come sempre corretto, disse che aveva promesso di non rivelarne il nome e che da quella promessa non era mai stato sciolto, neppure dopo la guerra. E comunque, concluse, conoscere il nome dell'informatore non sarebbe servito a modificare la storia dell'Olocausto e i suoi insegnamenti. Che lezione aveva tratto da
quell'episodio, gli domandai? Aveva imparato, disse, che bisogna distruggere tutte le organizzazioni razziste appena nascono, prima che raggiungano le dimensioni del Terzo Reich di Hitler. Aveva imparato che gli strumenti razionali in guerra sono inutili quando il nemico agisce in base a impulsi irrazionali, come Hitler. Aveva ripensato spesso alla proposta di spartizione della Palestina del 1937: se Israele fosse stato fondato allora, disse, forse si sarebbe potuto evitare l'Olocausto e sicuramente si sarebbero potute salvare molte più vite. Aveva anche imparato che nel XX secolo è quasi impossibile tenere nascosti i segreti di Stato, fossero pure i più terribili. Aveva imparato che il potere dei media di cambiare il corso della storia è molto limitato, anche quando riuscivano a svelare i segreti di Stato. E la burocrazia soffriva degli stessi limiti. Tutti sapevano più o meno quello che succedeva, eppure avevano continuato per la solita strada, con la stessa mentalità, con le medesime strategie giuridiche e politiche. E l'eccidio degli ebrei era proseguito secondo i piani, concluse Riegner. Sì, sapevano, ci confermò alla fine Ben Gurion. Ma che cosa avrebbero potuto fare? Come osavano dire che lui non aveva avuto a cuore la sorte degli ebrei? Ma era preso da altre questioni. Come osavano dire che si vergognava degli ebrei assassinati? Che cosa avrebbero potuto fare quegli ebrei? Chi li aiutava? Soltanto una manciata di persone. Aveva visitato la casa di Anna Frank ad Amsterdam. Aveva pensato alla sua nipotina. Era stata bruciata viva. E aveva pensato alla sua città natale, Ptònsk. No, non si vergognava del retaggio della Diaspora, come sosteneva Saul Friedlànder. Però era vero che apprezzava di più il retaggio spirituale della Terra di Israele. Pensava più alla Bibbia che al Talmud. E qui si lanciò in un lungo monologo sulla natura di Dio. Questo fu, più o meno, anche quello che disse Dina Porat ai lodziani alla loro conferenza annuale a Ohel Shem: sì, i dirigenti dello yishuv erano totalmente immersi nelle questioni locali, ma anche se non lo fossero stati, non avrebbero potuto fare di più per salvare gli ebrei. Non li accusò di avere mancato di compassione e i lodziani non ne furono contenti. Lì sul palco Dina Porat sembrava ancora più obiettiva, più misurata, forse un po' troppo, che nel suo libro. Cracowski aveva parlato al cuore. Mentre cresceva il mormorio in platea e sul tavolo della presidenza
si moltiplicavano i bigliettini di protesta, la Porat dichiarò che i documenti ormai disponibili permettevano allo storico di affermare che gli ebrei avevano «sopportato prove intollerabili con grande onore». A queste parole il pubblico si placò un poco. Poi il presidente riprese a parlare del discredito di cui soffrivano i superstiti dell'Olocausto, riferì che un rappresentante della loro organizzazione aveva scoperto che settantadue soldati nati a Lòdz erano caduti combattendo nella guerra di indipendenza. Prima di sciogliersi, l'assemblea cantò l'Hatikwah: il cantore che prima li aveva guidati nella preghiera, ora li guidò nel canto dell'inno nazionale.
CAPITOLO XXVII «QUANDO VEDI UN CIMITERO...» Nell'immediato dopoguerra, prima della fondazione dello Stato di Israele e negli anni iniziali della sua indipendenza, nessuno sapeva come insegnare ai giovani la storia dell'Olocausto. Il culto della memoria non era ancora stato codificato e la società israeliana non sapeva cosa fosse bene dire e cosa non dire. Nel 1949, per esempio, tutti i giornali si soffermarono sulla storia dei «sette nani di Auschwitz», due fratelli e cinque sorelle ungheresi, tutti affetti da nanismo, che erano sopravvissuti ai campi di sterminio e ora portavano in tournée uno spettacolo di danze e canti. Per molti studenti e docenti l'Olocausto era stata una realtà spaventosamente traumatica: i ricordi erano troppo dolorosi, troppo recenti, e alcune delle domande che sollevavano troppo angosciose per parlarne con gli altri. Gli scolari di allora ricordano il loro primo incontro con l'Olocausto come un atto di voyeurismo, un'esperienza proibita, vista dal buco della serratura, sconcertante e insieme eccitante, come la morte e il sesso. Israele era ebbra di presente e di futuro. C'erano un'infinità di problemi urgenti da risolvere, la guerra, l'integrazione degli immigrati, l'austerità e la voglia di normalità, che facilitavano la rimozione del passato. Dell'Olocausto si parlava tutt'al più nel giorno dedicato alla sua ricorrenza, ma una scuola su tre lo ignorava completamente e le altre due spesso lo ricordavano soltanto in modo ritualistico, con assemblee, preghiere, letture, candele, senza inserirlo nella didattica quotidiana. Le scuole israeliane di allora erano legate ai partiti politici ed era quindi molto difficile concepire un curriculum comune a tutte quante. L'insegnamento dell'Olocausto era già di per sé problematico: alcuni partiti insistevano sull'approccio marxista, altri su quello sionista. Nell'ottobre del 1953 il ministro della Pubblica Istruzione propose un programma di storia per l'ottava classe, che prevedeva per la prima volta due unità didattiche sull'Olocausto. Ci vollero però dieci anni prima che comparisse un corso completo
sull'Olocausto e forse ce ne sarebbero voluti anche di più se non fosse intervenuto il processo Eichmann. Il processo rappresentò il più grande sforzo nazionale per innestare l'Olocausto sulla concezione storica del sionismo. Gli ebrei erano stati perseguitati e massacrati sempre e ovunque per la stessa ragione: perché non vivevano nella loro patria. Eppure, nella fase istruttoria del processo, ricordò il viceprocuratore Gabriel Bach, lui e i suoi colleghi si erano prefissi di creare le premesse perché i giovani di Israele si identificassero con le vittime dell'Olocausto. Speravano così di spazzare via l'arroganza che aveva caratterizzato fino ad allora l'atteggiamento delle nuove generazioni nei confronti dei superstiti. Da questo punto di vista, mi disse Bach, il processo aveva costituito una svolta sul piano storico e educativo. Sulla scia del processo, il ministero della Pubblica Istruzione tracciò le linee di un programma da svolgere nella settimana precedente il Giorno dell'Olocausto, con sei lezioni sulla «Diaspora e il suo splendore». Niente avrebbe potuto esprimere meglio di questo titolo così enfatico il cambiamento in atto. Il ministro, Zaiman Aran, si impegnò a moltiplicare gli sforzi per approfondire «la consapevolezza ebraica» degli studenti. Nel 1966 e nel 1967 alcune delegazioni di giovani andarono a visitare i campi della morte in Polonia. «Siamo partiti israeliani e siamo tornati ebrei» pare affermassero al loro ritorno. Poi scoppiò la guerra dei Sei giorni, e la Polonia, come la maggior parte dei paesi del blocco sovietico, troncò i rapporti diplomatici con Israele. Le visite ai campi furono sospese. L'ansia che precedette la guerra e la grande vittoria che seguì riportarono alla ribalta l'Olocausto. L'euforia, che dopo la vittoria si diffuse non soltanto in Israele ma in tutte le comunità ebraiche del mondo, rafforzò la convinzione che il destino di Israele e del popolo ebraico fossero inscindibili. Le scuole, decise a sensibilizzare gli allievi nei confronti della Diaspora e delle vittime dell'Olocausto, «adottarono» alcune comunità dell'Esilio e ne studiarono la storia dalle origini fino alla loro distruzione. Gli allievi leggevano libri, raccoglievano cartoline e ascoltavano le testimonianze di coloro che avevano vissuto nella comunità «adottata», la quale spesso era anche il luogo di nascita dell'insegnante. Si stabilì così un legame emotivo fra i giovani e le comunità annientate, e fra i giovani e la
visione sionista dell'Olocausto. Sul finire degli anni Sessanta il ministero preparò un'unità didattica di storia sulla lotta per la creazione dello Stato di Israele: prevedeva sessanta lezioni, di cui dieci dedicate all'Olocausto. Nella circolare che accompagnava il programma, il ministro consigliava ai docenti di mettere al centro del loro insegnamento personaggi di rilievo, come Anna Frank e Janusz Korczak, per evitare di scivolare nell'astratto e di annoiare gli studenti. Era il segno di un altro cambiamento: ora l'accento non cadeva più sull'esperienza nazionale, ma sulla tragedia individuale. Gli israeliani stavano imparando a poco a poco a pensarsi al singolare: il pronome «io» cominciava a scalzare l'eroico «noi». Il mutamento iniziò a farsi strada anche nei libri di testo. Ruth Firer, docente dell'istituto pedagogico dell'Università ebraica e preside del suo dipartimento, ha esaminato un centinaio di manuali di storia usati in Israele dalla fine della guerra a tutti gli anni Ottanta. La loro impostazione nei confronti di argomenti particolarmente delicati cominciò a cambiare all'inizio degli anni Settanta. Per trent'anni il punto di vista era rimasto quasi invariato. Calcolando che la composizione e la pubblicazione di un manuale richiede circa un quinquennio, la studiosa ne ha dedotto che la svolta da lei rilevata risalisse a metà degli anni Sessanta. Era l'epoca in cui gli israeliani avevano percepito l'avvento di una nuova fase nella loro storia: era giunto il momento di riesaminare le verità acquisite e i miti ormai fossilizzati. Il paese sembrava pronto a rimpiazzare gli stantii cliché patriottici con valori umanistici universali. La nuova sensibilità, cui si aggiungeva il dibattito sul futuro dei Territori occupati e dei palestinesi che vi risiedevano, indusse a riconsiderare alcuni concetti fondamentali come l'Olocausto e l'eroismo, il genocidio e la rivolta. Nei libri di testo più antichi il piano di sterminio degli ebrei era considerato una componente ineluttabile della politica nazista, già evidente in Mein Kampf negli anni Venti. In contrasto con quest'approccio «intenzionalista», si è andato sempre più affermando un approccio «funzionalista»: gli studiosi della materia attribuiscono lo sterminio degli ebrei agli avvenimenti e alle circostanze storiche di un periodo ben determinato. E dunque, fino a un dato momento, sarebbe stato possibile evitare il genocidio. La prospettiva «intenzionalista»
sottolineava l'unicità dell'Olocausto, in perfetto accordo con la tesi del sionismo, secondo cui soltanto uno Stato indipendente poteva garantire agli ebrei la sicurezza. I primi racconti sull'Olocausto destinati ai bambini si concludevano di solito con un salvataggio eroico e la rigenerazione degli ebrei in Israele. C'era per esempio la storia della piccola Shuia: con l'aiuto di un anello magico la bambina fa crollare le mura del ghetto, uccide la guardia e va di casa in casa, di strada in strada, a riunire gli ebrei. Poi tutti insieme salgono sul treno e corrono verso il mare fino alla nave che li porterà nella terra di Israele. La fiaba sarebbe sicuramente piaciuta a quel funzionario del ministero della Pubblica Istruzione, il quale si chiedeva: «Che cosa trasmettere a questi bambini? Dovremmo dare loro qualcosa di utile. Dovremmo raccontare l'Olocausto nella sua forma più bella». Al contrario, l'approccio «funzionalista», cui si ispirano i testi successivi, pone al centro di ogni fase storica le scelte e le azioni umane. Nei manuali più antichi i nazisti erano «belve assetate di sangue umano» che compivano «atti diabolici», e i campi di concentramento erano «l'inferno». Demonizzando il male nazista, gli autori potevano esimersi dall'analizzare le condizioni sociali e politiche che l'avevano reso possibile e dal considerare la possibilità che esso fosse il prodotto di un normale contesto umano. Ma c'era anche un'altra ragione: soltanto demonizzandolo e mitizzandolo, gli israeliani potevano usare l'Olocausto come la principale giustificazione della creazione e dell'esistenza dello Stato di Israele. Fino agli anni Settanta i manuali di storia si soffermavano perciò sul sadismo nazista, si dilungavano in raccapriccianti descrizioni degli «esperimenti medici» sui prigionieri, in particolare sulle donne, ribadivano a più riprese che con gli ebrei morti i nazisti fabbricavano il sapone. I manuali successivi preferirono invece descrivere gli orrori attraverso le testimonianze dei superstiti. In questo modo le informazioni diventavano più credibili e aumentava la sensibilità degli allievi verso le vittime. I primi libri di testo parlavano della resistenza con un linguaggio militaresco, a volte quasi tecnico. Evitavano in genere di chiamare «ebrei» i ribelli, preferendo parlare di «israeliti» o di «difensori di Masada». Al contrario, i testi pubblicati negli anni Settanta non riservavano più il posto d'onore alla resistenza, ritenuta un fenomeno marginale, e
non consideravano più le vittime dell'Olocausto una grave onta. Alla fine degli anni Settanta il ministero della Pubblica Istruzione elaborò un nuovo programma sull'Olocausto per le scuole secondarie. Ideato da un'equipe dell'Università ebraica guidata da Haim Shatzker, il piano di studi, composto di trenta lezioni, era suddiviso in cinque sezioni. L'Olocausto non era più messo sullo stesso piano dell'eroismo e il suo nesso con la rinascita di Israele era quasi completamente ignorato. Il paese era cambiato con la guerra di Yom Kippur: Israele non era più vissuta come l'alternativa all'Olocausto. Nello stesso periodo Arik Karmon dell'Università Ben Gurion concepì un'altra unità didattica imperniata sull'ideologia, la politica, il governo e la mentalità del nazismo. Il progetto suscitò scontento: per alcuni dava maggiore spazio al nazismo che all'Olocausto; per altri avrebbe spinto gli studenti a identificarsi con il nazismo anziché con le sue vittime. Le scuole obiettarono invece che gli studenti e gli insegnanti non possedevano la preparazione necessaria per affrontare né il programma di Shatzker né quello di Karmon. I due progetti finirono per essere accantonati, ma non tanto per questioni ideologiche, quanto perché ritenuti troppo complessi. Nel frattempo Menahem Begin era diventato capo del governo e per la prima volta non era più un laburista a dirigere il ministero della Pubblica Istruzione, bensì un rappresentante del partito nazional-religioso. Nel settembre del 1978 la televisione israeliana mandò in onda il film-documento americano Olocausto. La proiezione era stata preceduta da un'animata discussione in seno alla commissione di vigilanza sulle trasmissioni radiotelevisive. La messa in onda era stata approvata a maggioranza, con undici voti favorevoli e cinque contrari. La minoranza sosteneva che il serial, con il suo «kitsch americano», banalizzava l'Olocausto e favoriva la politica estera rigida, isolazionista e sciovinista di Begin. Prima della trasmissione il ministero della Pubblica Istruzione inviò una circolare agli insegnamenti con suggerimenti per il dibattito da tenere in classe, quali, per esempio: «Che cosa ci insegna il documentario sugli ebrei che volevano rinnegare le loro origini? E' un fenomeno frequente oggi? Mettetelo in rapporto con le recenti affermazioni del cancelliere Bruno Kreisky». (Il leader austriaco, ebreo, aveva
criticato la posizione del governo israeliano sul conflitto mediorientale. Il suo atteggiamento era stato attribuito da alcuni commentatori all'«odio di sé».) E ancora: «Nel programma si allude alla necessità di uno Stato ebraico. Pensate che l'Olocausto sarebbe stato possibile se Israele fosse già esistito? L'esempio di Entebbe è il segno di un cambiamento nell'attuale situazione degli ebrei?». Di nuovo, com'era accaduto al tempo del processo Eichmann, lo Stato cercava di sfruttare l'incontro del vasto pubblico con il tema dell'Olocausto per ribadire il concetto che Israele proteggeva il popolo ebraico dai pericoli di un secondo genocidio. Nel 1979 lo studio dell'Olocausto fu reso obbligatorio in tutte le scuole secondarie. Il programma redatto dalla commissione ministeriale puntava sul coinvolgimento emotivo. «Gli allievi devono anzitutto sentire l'Olocausto» dichiarò il presidente «come un fatto in sé e per sé, non come l'elemento di un contesto storico o scientifico più ampio.» All'Israele di Menahem Begin, il grande divulgatore dell'Olocausto, questo non bastava. Nel 1980 la Knesset approvò un emendamento alla legge nazionale sull'istruzione. La legge, che costituiva la più autorevole affermazione dei princìpi nazionali dopo la Dichiarazione di indipendenza, poneva a fondamento dell'educazione dei giovani «i valori culturali del popolo di Israele e le sue scoperte scientifiche, l'amore per la patria e la fedeltà allo Stato e al popolo ebraico, la coltivazione della terra, le arti e i mestieri, lo spirito pionieristico e l'aspirazione a una società basata sulla libertà, l'uguaglianza, la tolleranza, l'assistenza reciproca, l'amore per il prossimo». A questo testo il 26 marzo 1980 la Knesset aggiunse «e la consapevolezza dell'Olocausto e dell'eroismo». Da quel momento l'Olocausto fu inserito anche nei programmi delle scuole primarie: i giovani israeliani lo studiano quindi due volte prima di completare l'obbligo scolastico. Nei questionari di storia somministrati agli esami dai primi anni Ottanta fino a oggi le domande sull'Olocausto hanno costituito il 20 per cento del totale. Le più frequenti riguardano la sorte degli ebrei sotto il nazismo: la vita nei ghetti, la resistenza e il martirio. Più rare sono invece le domande sul nazismo. Tanto impegno pedagogico, tuttavia, non ha prodotto grandi frutti. Nel dicembre del 1982 il sociologo Uri Farago ha distribuito nelle scuole israeliane un questionario con
quattrocento quesiti sull'Olocausto. La maggior parte degli studenti ha affermato di avere attinto quasi tutte le informazioni sull'argomento dalla televisione, dal cinema e dai libri (l'opera citata più spesso è Il diario di Anna Frank). Ma sono state anche ricordate le celebrazioni nel Giorno dell'Olocausto, le giornate di studio a Yad Vashem o in altri musei, e, nel caso di allievi ashkenaziti, i genitori. Le lezioni di storia venivano all'ultimo posto. Più della metà degli intervistati ha dichiarato di non saperne abbastanza sull'Olocausto. Una domanda chiedeva agli studenti di elencare i tre avvenimenti storici più importanti della loro vita. Il 9 per cento ha indicato il trattato di pace con l'Egitto, il 14 per cento la guerra in Libano ancora in corso, il 15 altri conflitti, fra cui la guerra dei Sei giorni e quella di Yom Kippur. Il 20 per cento ha ricordato la nascita dello Stato di Israele e la guerra di indipendenza, ma la percentuale più alta, il 26 per cento, ha citato l'Olocausto. Inchieste del genere sono state condotte periodicamente in Israele a partire dal 1965. A metà degli anni Settanta l'Olocausto occupava il terzo posto per importanza, dopo la fondazione dello Stato di Israele e la guerra più recente. Quasi nove studenti su dieci dichiaravano di identificarsi con le vittime dell'Olocausto. Nell'autunno del 1990 mi recai ad Ashdod, «una cittadina mediterranea» la definisce Amos Oz «che non pretende di essere né Parigi né Zurigo e non aspira a essere Gerusalemme». Un'educatrice di Ot Vaed, organizzazione che si propone di diffondere il significato religioso dell'Olocausto, mi aveva invitato ad assistere a una lezione in una delle scuole secondarie della città, un grande e opprimente edificio di cemento in Ghetto Rebels Street. C'erano una ventina di ragazzi e ragazze del penultimo e ultimo anno. L'insegnante, una donna energica con una lunga sottana, proiettò un film di propaganda nazista girato da Leni Riefenstahl e una videocassetta con le testimonianze sugli esperimenti medici condotti sui gemelli da Josef Mengele, descritti con spaventosa precisione. Fra una proiezione e l'altra ci fu una discussione sulla fede durante e dopo l'Olocausto. Il dibattito prendeva spunto da brevi apologhi, che venivano letti a voce alta. Uno raccontava la storia di un uomo buono e pio che aveva visto uccidere i suoi bambini e gettarli nelle fosse comuni alla periferia del villaggio.
L'uomo era impazzito e alla vigilia di Yom Kippur, durante la recita del Kol Nidre, aveva dato in escandescenze, maledicendo Dio e tutte le cose più sacre. «Credere in Dio dopo Auschwitz è un insulto all'intelligenza, invocare invano il nome di Dio una ferita alla sensibilità morale più profonda» concludeva l'autore. Un altro testo, scritto da Elie Wiesel, raccontava che diversi rabbini, prigionieri di un lager, avevano processato Dio per l'assassinio del suo popolo e l'avevano giudicato colpevole. Un altro ancora presentava le memorie di un immaginario rabbino al quale veniva sottoposto il seguente dilemma: un prigioniero ha la possibilità di salvare il figlio dalla camera a gas, ma sa che al suo posto verrà ucciso un altro bambino. La legge gli consente, chiede il prigioniero al rabbino, di salvare il figlio? Il rabbino dapprima tergiversa. «Quando c'era ancora il Tempio, una domanda del genere sarebbe stata posta al Sinedrio» dice «mentre io sono qui ad Auschwitz senza neanche un libro della legge, senza nessun altro rabbino con cui consultarmi e senza potermi concentrare adeguatamente.» L'uomo non si dà per vinto, insiste, benché il rabbino gli intimi di lasciarlo in pace, ma non ottiene una risposta. Allora dice: «Rabbino, ho fatto quello che mi chiede la Torah: ho interrogato il rabbino, il solo che ho trovato qui. Se il rabbino non può garantirmi che ho il diritto di salvare mio figlio, questo significa che il responso lo inquieta, perché se fosse certo del mio diritto, me lo direbbe. Questo mi basta: poiché mio figlio sarà bruciato in base alla Torah e alla legge ebraica, accetto con amore e con gioia, e non farò niente per salvarlo perché così ha comandato la Torah». Era questa dunque l'alternativa: l'apostasia e la ribellione a Dio, oppure la fede e la rassegnazione. L'insegnante chiese agli allievi, un paio dei quali erano religiosi, di esprimere il loro parere. Nessuno parlò. Allora lesse dei testi di carattere più politico. Uno sosteneva che i gruppi ultraortodossi e antisionisti erano in parte colpevoli dell'Olocausto: se avessero spinto gli ebrei a emigrare in Palestina anziché predicare che il sionismo era un'eresia, forse li avrebbero salvati. Un altro sosteneva la tesi opposta. Volendo diventare come tutte le altre nazioni, gli ebrei avevano eletto a idoli il socialismo e il nazionalismo. I due idoli si erano fusi nel nazionalsocialismo ed era accaduto il miracolo. I nazionalsocialisti, cioè i nazisti, erano diventati l'arma terribile con
cui Dio aveva colpito tutti gli ebrei sulla Terra. «L'impurità che veneriamo è il nostro flagello» era la conclusione. Un altro testo illustrava la credenza secondo cui le sofferenze inflitte agli ebrei dai nazisti erano le ultime convulsioni prima della venuta del Messia. Un rabbino va incontro alla morte con gioia. I suoi discepoli, chiusi con lui sul carro bestiame, lo vedono danzare e cantare per tutto il tragitto. Un prigioniero, con «pianti e grida strazianti», lo prega di invocare un miracolo, ma il rabbino gli posa la mano sulla spalla, gli sorride con pietà e dice: «Non avere paura, andiamo dal Messia». L'altro gli chiede incredulo: «II Messia vive in Germania?». Il santo rabbino risponde: «Sì, il Messia è là, in catene, che soffre e sopporta i tormenti di Israele». La visione del sionismo religioso era esemplificata dalla storia di un padre e di un figlio. Camminano lungo una strada. Il figlio è stanco e chiede al padre: «Dov'è il paese?». E il padre: «Che questo sia il tuo segno: quando vedi un cimitero davanti a te, il paese è vicino». Il rabbino Zvi Yehuda Kook interpretava come un riferimento all'Olocausto Ezechiele 20,34: «Poi vi farò uscire di mezzo ai popoli e vi radunerò da quei territori dove foste dispersi con mano forte, con braccio possente e rovesciando la mia ira». Sei milioni di morti, diceva Kook, erano una cosa terribile, ma il popolo di Dio si era lasciato contaminare a tal punto dall'impurità delle altre nazioni che soltanto il sangue poteva purificarlo. Un insegnante, Eliezer Berkowitz, scrisse che il male è creazione dell'uomo ed è la conseguenza inevitabile del libero arbitrio che Dio ha concesso alla sua creatura. La raccolta di passi si concludeva con una citazione di Yeshayahu Leibowitz: «L'Olocausto non ha nessun significato religioso». «Che cosa ne pensate?» chiese la conduttrice del dibattito. Gli studenti tacquero. «Qual è la vostra opinione?» ripetè. «Che cosa provate? Perché non si può accettare la semplice spiegazione del peccato e della punizione? Perché?» Uno studente disse che era d'accordo con Berkowitz, un altro con Leibowitz. Ci fu una breve discussione. Era già tardi, i ragazzi erano stanchi e dovevano ancora vedere il film sugli esperimenti di Mengele. Nell'aula calò un silenzio opprimente. Intervenne di nuovo l'insegnante. La domanda era davvero difficile, disse. L'Olocausto è un banco di prova per il credente. Se è una punizione per i peccati, perché sono stati puniti anche gli ultraortodossi? Era la domanda
che aveva tormentato Giobbe. E se quelle sofferenze erano le ultime convulsioni prima della venuta del Messia, non erano sproporzionate? E infine, anche il concetto dell'Olocausto come espressione del libero arbitrio non risolveva tutti i problemi. In questo caso, dov'era Dio? Sì, si rendeva conto che la domanda era davvero molto difficile, disse la donna. Ma era proprio questo che voleva far capire. C'è chi sostiene che per il credente è più facile, perché la fede fornisce una risposta ai suoi dilemmi. Invece è vero il contrario: per il credente è ancora più arduo, perché alla fine resta con un punto interrogativo. In una scuola religiosa un insegnante offrì una soluzione molto semplice: un acrostico, che dimostrava come tutto fosse già scritto nella Bibbia. L'avevano scoperto al Technion di Haifa con l'ausilio del computer: partendo da un certo punto della Genesi e prendendo una lettera ogni cinquanta, si ottiene il nome di Hitler; analogamente, utilizzando altri libri della Bibbia, si compongono i nomi di diversi leader del Terzo Reich. Infine, considerando una lettera del Deuteronomio ogni quarantanove e procedendo all'indietro, si forma la parola Shoah, Olocausto.
CAPITOLO XXVIII «MA IO, CHE COSA PROVO?» Verso la metà di ottobre del 1990, centocinquanta liceali arrivarono all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, creando non poco scompiglio. Molti di loro non erano mai stati all'estero. La crisi del Golfo Persico minacciava di aggravarsi; la difesa civile israeliana aveva cominciato a distribuire le maschere antigas in scatole che contenevano anche una siringa con l'antidoto al gas nervino. La battuta era d'obbligo: niente paura, ragazzi, disse uno studente, quando i missili di Saddam Hussein colpiranno Tel Aviv, noi saremo ad Auschwitz. In Israele le barzellette sull'Olocausto si sprecano, ma vengono raccontate con aria furtiva. Non si può dire che siano di buon gusto, però costituiscono una valvola di sfogo per l'ansia, come l'umorismo nero dei medici e dei soldati. Eppure in Polonia, mentre andavamo in pullman a visitare i campi della morte, nessuno parve avere voglia di fare dello spirito. Forse sarebbe servito, perché ci furono un paio di momenti davvero sconvolgenti. Gli studenti frequentavano gli ultimi due anni del liceo e venivano da sette scuole, fra cui una tradizionalista, due religiose e il resto laiche. Prima di partire avevano seguito un corso di preparazione di due mesi, al quale avevo partecipato anch'io. Era stato molto impegnativo: avevamo letto libri, visto film, visitato musei, incontrato i superstiti. Molti di quei ragazzi erano figli di ashkenaziti nati in Israele: appartenevano alla generazione che, come il Momik del romanzo di David Grossman Vedi alla voce: amore, era cresciuta all'ombra del grande silenzio sceso sull'Olocausto nei primi anni di vita dello Stato di Israele. Non poteva esserci esempio più lampante del grande mutamento avvenuto nel paese di questo viaggio a Treblinka, Majdanek e Auschwitz, compiuto da israeliani della terza generazione. Era un pellegrinaggio verso la Diaspora, un altro dei tanti paradossi sionisti. Trent'anni dopo, Israele rituffava i suoi figli nel passato ebraico che i padri fondatori, nella loro aspirazione a creare
«l'uomo nuovo», liberato dal retaggio del ghetto, avevano ripudiato. Li mandava in cerca di qualche cosa che evidentemente la società laica non era in grado di offrire: le radici. Il viaggio fu un rito denso di emozioni e di simboli, con momenti caratterizzati da una strana attrazione per quello che Saul Friedlànder ha definito un misto di kitsch e morte. Il viaggio, impregnato di nazionalismo e di religione, aveva anche una chiara dimensione politica: non nasceva dal desiderio di apertura e dall'amore per l'umanità, ma da un isolazionismo ai limiti della xenofobia. Il tentativo, effettuato in Israele negli anni Settanta, di inserire nel processo educativo gli insegnamenti universali dell'Olocausto è stato oggi quasi interamente abbandonato. La circolare riguardante le visite in Polonia, inviata alle scuole dal ministro della Pubblica Istruzione, accennava soltanto di sfuggita alla necessità di «rivalutare» i valori morali e l'umanesimo; il libretto distribuito agli studenti prima della partenza non vi alludeva neppure. Conteneva però un messaggio per l'insegnante e per la guida da parte del direttore del dipartimento per i giovani, Avraham Oded Cohen. Diceva: Nei campi di sterminio, davanti ai forni, il cuore si gonfia di rabbia e gli occhi si bagnano di lacrime per l'orribile distruzione del giudaismo europeo e di quello polacco che ne faceva parte. Eppure, mentre piangiamo la distruzione con dolore e tristezza, il cuore trabocca di orgoglio e di felicità per il grande privilegio di essere cittadini di un Israele indipendente. Davanti alla bandiera israeliana, che sventola alta sopra le fosse e i forni crematori, solleviamo la testa e mormoriamo con fierezza: «Il popolo di Israele vive! L'Eterno non ci abbandonerà!». Davanti ai milioni di nostri fratelli assassinati giuriamo: «Se ti dimenticherò, o Gerusalemme, che mi si paralizzi la mano destra!». Ed è come se sentissimo le loro anime gridare: «Nella nostra morte vi abbiamo ordinato di vivere. Conservate e difendete lo Stato di Israele come il vostro bene più prezioso». E allora noi rispondiamo dal profondo del cuore: «Possa lo Stato di Israele vivere per sempre!». Cohen, un uomo massiccio e cordiale, con il capo coperto dalla kippah lavorata all'uncinetto che lo identifica subito come un sionista nazional-religioso, ha chiamato il suo programma Cerco i miei fratelli. Il titolo è tratto da Genesi 37,16, una delle letture della Torah previste nel periodo in cui egli si
era recato in Polonia a preparare il viaggio per le «delegazioni studentesche», come le chiamava. Il libretto, edito dal ministero, comprende anche la Preghiera per lo Stato di Israele e la Benedizione per i soldati delle Forze di difesa israeliane, con l'invito a recitarle ad Auschwitz. Contiene inoltre le sentenze emanate dai due principali rabbini israeliani, una delle quali decreta che i Cohen, il cognome discende da kohanim, ossia i membri ereditari della classe sacerdotale del Tempio di Gerusalemme, ai quali è vietato entrare nei cimiteri, possono visitare i campi della morte. Gli studenti erano altresì invitati a recitare in taluni luoghi della Polonia la preghiera per le vittime dell'Olocausto, l'Yizkor. Di questa preghiera esistono almeno sei versioni, diverse per la lunghezza, lo stile e lo spirito che le anima. Una comincia «Possa Dio ricordare», un'altra «Possano gli ebrei ricordare» e un'altra ancora «Noi ricordiamo». Una dice che gli ebrei sono stati condotti «al macello come agnelli», le altre invece tralasciano quest'infelice espressione. In alcune versioni le vittime del nazismo sono «martiri sacrificati a Dio», in altre la definizione scompare. Una parla degli «ebrei che sono stati bruciati con i rotoli della Torah nei santuari consacrati», un'altra delle «centinaia di combattenti che insorsero per risvegliare l'eroismo in un popolo disperato», un'altra ancora dedica due versi alla memoria dei «giusti fra i gentili». Le differenze più evidenti riguardano l'identità degli assassini. L'Yizkor di Yad Vashem e quella dell'esercito israeliano non vi accennano neppure. Un'altra versione li chiama «nazisti e collaboratori dei nazisti», riprendendo l'espressione della legge della Knesset, un'altra specifica «i nazisti tedeschi e i loro collaboratori»; altre ancora parlano genericamente di «tedeschi». Il libretto distribuito dal ministero della Pubblica Istruzione conteneva due versioni dell'Yizkor. Entrambe iniziavano con «Possa Dio ricordare», entrambe citavano gli agnelli condotti al macello. Una affermava che i campi della morte erano stati costruiti dal «diabolico governo nazista della nazione tedesca di assassini», mentre l'altra era più generica e parlava soltanto «della nazione tedesca di assassini». Tutte e due accennavano ai collaboratori dei nazisti «di altre nazioni». Nessuna includeva i ribelli del ghetto. Entrambe invocavano Dio perché vendicasse «all'istante, davanti ai nostri
occhi» il sangue delle vittime. Pochi giorni prima di salire sull'aereo per la Polonia, gli studenti si erano riuniti in un grande centro sociale a Gerusalemme. Avevano cantato in coro al suono della fisarmonica alcune canzoni popolari, leggendone i versi proiettati su uno schermo: «Sono figlio di una nazione di duemila anni, ci aspetta un pezzo di terra, non un pezzo di cielo» dicevano. E ancora: «Terra, nostra terra, terra che amiamo, tu sei per noi la madre e il padre. Terra del popolo, nostra terra per sempre, dove siamo nati, dove vivremo, qualunque cosa accada. Non cesseremo il nostro canto. Anche se l'ONU ci dice di ritirarci, anche se l'ONU ci dice di restituire la terra, noi non cesseremo di cantare». Quel giorno Shalmi Barmor arrivò in ritardo. Quarantacinque anni, nativo di Tel Aviv, Barmor dirige il Centro mondiale per l'insegnamento dell'Olocausto a Yad Vashem con la stessa scettica ironia che ha verso se stesso e la vita in generale. Barmor, uno degli ideatori dei pellegrinaggi in Polonia, avrebbe fatto da guida agli studenti del liceo Masorti di Gerusalemme, la scuola tradizionalista frequentata da suo figlio Eyal. Durante la fase di preparazione li aveva fatti lavorare sodo. Voleva che capissero l'unicità dell'Olocausto e le sue cause, che acquisissero una mentalità aperta. Perciò introdusse subito nel dibattito gli armeni, gli zingari, il Biafra, la Cambogia. Spiegò le differenze e le somiglianze fra il genocidio ebraico e gli altri genocidi. Chiese agli studenti di considerare il massacro dal punto di vista dei nazisti e illustrò loro il razzismo. Un suo collega descrisse la personalità dell'assassino. Hitler non era un pazzo, affermò Barmor, così come non lo è Saddam Hussein. Affrontò temi spinosi: gli interessi comuni dei nazisti e del movimento sionista, la difficoltà di capire fino in fondo gli Judenrat istituiti dai nazisti. Disse agli studenti che il vero martirio comportava una scelta fra la vita e la morte, una possibilità che non era stata concessa alle vittime dell'Olocausto. Parlò del raffronto, che si sente talora fare, fra la persecuzione degli ebrei e la repressione dei palestinesi, e spiegò perché non lo riteneva valido. Fornì agli studenti gli strumenti storici per valutare l'Olocausto, affinchè non si limitassero a condurre un dialogo con le anime dei morti, come invitava a fare il libretto ministeriale. Dedicò ore e ore alla preparazione, con grande impegno. Nel centro sociale di
Gerusalemme Barmor parlò anche della Polonia, dove era nato suo padre. Aveva nove anni quando il padre era stato nominato primo segretario della delegazione israeliana a Varsavia. Al nostro arrivo nella capitale polacca egli ci mostrò la casa dei suoi antenati. Era sera, i vicoli pittoreschi della città si stavano svuotando. Davanti alla cattedrale vecchia Barmor mi disse che nel corso della sua prima visita in Polonia aveva avuto paura dei cristiani. Com'era possibile, chiesi stupito, che un figlio di Tel Aviv temesse il cristianesimo? Era forse un retaggio dei mille anni di relazioni tempestose fra ebrei e polacchi? No, mi spiegò Barmor. A instillargli quella paura era stato un celebre libro per ragazzi di Yemima Avidar Chernowitz e Mira Lube, intitolato Due amici si mettono in cammino. Il libro racconta la storia di un bambino che, sopravvissuto all'Olocausto, va in cerca della sorella e la trova in uno spaventoso convento in Italia. E' lo stesso tema trattato da Abba Kovner in questa poesia sull'Olocausto. Gli occhi di mia sorella scrutano il muro del convento, una corda scarlatta. Una candela trema nelle mani delle monache. Nove sante sorelle guardano mia sorella come se guardassero la polvere che parla ... Nel cortile mia sorella parla per segni con un altro Dio. Prima di partire andai a trovare il padre di Shalmi Barmor, Yaakov, ormai in pensione. «In Polonia l'odio per gli ebrei è naturale come l'azzurro lo è per il cielo» mi disse il vecchio diplomatico. Qualcosa di analogo raccontò al gruppo di studenti guidato da suo figlio. Shalmi Barmor conosceva molto bene l'antisemitismo polacco e ne illustrò il retroterra agli allievi. Prese spunto da un articolo di «Haaretz», scritto da Shabtai Teveth, il biografo di Ben Gurion, al ritorno da un viaggio in Polonia. I polacchi, diceva Teveth, nascondevano ai visitatori di Auschwitz che quasi tutte le vittime erano ebrei. «La vera vincitrice è la nazione polacca: ha spogliato gli ebrei di ogni cosa e ne ha ereditato le sofferenze e l'Olocausto, facendone un'impresa commerciale.» Gli studenti si mostrarono d'accordo con il giornalista. Identificavano la Polonia con l'Olocausto. Ovunque andassero si aspettavano di trovare svastiche sui muri e a volte c'erano davvero. Shalmi Barmor spiegò che i polacchi non erano colpevoli dell'assassinio degli ebrei, che, anzi, si sentivano sconfitti dalla guerra: dall'occupazione nazista erano passati all'occupazione sovietica. Certo, non
bisognava chiudere gli occhi di fronte alle manifestazioni di antisemitismo, ma non bisognava neppure dimenticare che i polacchi consideravano lo sterminio degli ebrei parte della loro tragedia nazionale. Gli studenti erano perplessi. «Ma ci sarà pure un colpevole. Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare e con i tedeschi ci siamo già rappacificati» osservò uno. Davanti al muro del ghetto di Varsavia c'era un ubriaco che parlava da solo. Ho il sospetto che Barmor non abbia tradotto tutto quello che diceva sugli ebrei. Shalmi Barmor si sforzò di far comprendere ai suoi studenti che gli ebrei avevano vissuto bene in Polonia per molto tempo, che quello era stato il cuore dell'ebraismo. La scrittrice Yehudit Hendel, ricordò, aveva detto che la Polonia della sua infanzia sembrava quasi un paese ebraico. Eyal Barmor mi confidò in seguito che se le visite ai campi della morte gli avevano permesso di capire l'Olocausto, quelle al quartiere ebraico di Cracovia gli avevano rivelato le dimensioni della perdita. Era un pensiero che avrebbe reso felice suo padre. La prima tappa, qualche ora dopo il nostro arrivo in Polonia, fu il monumento ai rivoltosi del ghetto di Varsavia, opera di Natan Rapaport. Era il crepuscolo. Durante la cerimonia mi eclissai insieme a Shalmi Barmor e una studentessa, Maia Morag, per andare in cerca di via Pawia, che era nelle vicinanze. Al numero 7 c'era la casa del nonno di Maia, Eliahu Morag, che allora si chiamava Samorog. Il nonno le aveva raccomandato di andare a vederla. Due settimane prima di partire mi ero recato a trovarlo nella sua casa di Givataim, nei sobborghi di Tel Aviv. Eliahu Morag era un uomo molto cordiale, un ottantottenne in pensione, esperto di allevamento di polli. I suoi genitori avevano una grande fabbrica di articoli di cuoio a Varsavia e producevano anche bastoni da passeggio. Ogni anno, quando si avvicinava il primo maggio, gli affari prosperavano: l'industriale ebreo vendeva ai comunisti i bastoni con cui essi picchiavano i loro avversari di destra. Alla vigilia della guerra Morag, che militava nel movimento giovanile sionista, aveva ottenuto il certificato di immigrazione per la Palestina. Aveva già subito diversi attacchi da parte di antisemiti. Non avrebbe mai dimenticato, mi disse, l'addio alla madre. «Figlio mio,» gli aveva chiesto piangendo «perché mi lasci?» Non l'aveva più rivista: a quanto ne sapeva, era stata uccisa a
Treblinka insieme a suo padre. Soffriva ancora per il rimorso di averli abbandonati. Morag era stato uno dei fondatori del kibbutz Nitsanim, distante una ventina di chilometri da Yad Mordecai. Durante la guerra di indipendenza il kibbutz era stato occupato dagli egiziani, ma Nitsanim, a differenza di Yad Mordecai, non era entrato negli annali dell'eroismo israeliano. Anzi, era diventato un simbolo di viltà e tradimento. Le ragioni erano in parte politiche. La storia è nota: i membri del kibbutz resistettero per quindici ore insieme ai soldati mandati a difenderli, sparando fin quasi l'ultima pallottola. Trenta di loro, all'incirca un terzo della popolazione del villaggio, furono uccisi. Costretti a scegliere fra la morte e la resa al nemico, che era già penetrato nel kibbutz, alzarono le braccia e furono fatti prigionieri. «Traditori!» sentenziò Ben Gurion. Nessun episodio illustra meglio di questo il fardello che il mito dell'eroismo ha imposto a Israele. Prima ancora di sapere com'erano andate le cose, l'esercito stigmatizzò Nitsanim nel suo bollettino: «Meglio morire nelle patrie trincee che arrendersi agli invasori assassini. Arrendersi quando si è ancora vivi e con l'ultima pallottola in canna è vergognoso! Lasciarsi prendere prigionieri dall'invasore: vergogna e morte!». I coloni di Nitsanim lottarono quarant'anni per riabilitare il kibbutz, ma invano. I libri di storia e i programmi della scuola militare continuarono a condannarli perché si erano arresi. Come le vittime dell'Olocausto, anche di loro si diceva che erano andati «al macello come agnelli». Il paragone non era casuale: l'uomo che aveva coperto d'infamia Nitsanim altri non era che Abba Kovner. Durante la guerra di indipendenza Kovner, che era un noto militante di Hashomer Hatsair, ricopriva il ruolo di ufficiale istruttore nell'esercito: si faceva chiamare commissario politico, come si usava nell'Armata Rossa. Era stato lui a scrivere quel bollettino di guerra. Nitsanim apparteneva a un movimento politico rivale e alcuni dei suoi membri provenivano, come Kovner, da Vilnius. La condanna costituiva l'ultima tappa di una rivalità che era cominciata in quella città ai tempi dell'Olocausto. Dopo la guerra di indipendenza, Nitsanim divenne una comunità di vedove, di orfani e di padri sconfitti, che dai campi di prigionia egiziani erano tornati oppressi dai sensi di colpa. Li tormentava il pensiero del passato e della propria immagine, si vergognavano di se stessi, e i figli di loro.
Un giorno andai a Nitsanim per cercare di capire perché i suoi abitanti non fossero mai riusciti a liberarsi dell'onta di cui li aveva ricoperti tanti anni prima il poeta-commissario. Intuivo l'indegnità dell'accusa, ma non quello che significava per il kibbutz. Perché, chiedevo a tutti, preoccuparsi ancora per quel bollettino che era già insensato al tempo della sua pubblicazione? Non c'era un motivo razionale, fu la risposta che ottenni. Non mi restò che scrivere come anche i coloni di Nitsanim, analogamente ai superstiti dell'Olocausto, fossero tormentati dalla vergogna, prigionieri di un'etica che esaltava soltanto gli eroi morti e disprezzava chiunque avesse preferito la resa e la vita alla «morte con onore». Nitsanim era un kibbutz morto due volte.* Fra i prigionieri degli egiziani c'era anche Eliahu Morag. Li avevano trattenuti per nove mesi, maltrattandoli e a volte torturandoli. Morag non aveva mai dimenticato le parole che al suo ritorno gli aveva rivolto il figlio di quattro anni: «Papà, perché sei vivo?». Il suo Giora voleva per padre un eroe. Giora Morag, che ora è banchiere, ricorda benissimo la notte in cui Nitsanim fu evacuato. I bambini furono portati in un altro kibbutz e camminarono terrorizzati sotto un cielo pieno di esplosioni. Venticinque anni dopo, durante la guerra di Yom Kippur, Giora Morag, al comando di una compagnia di carristi, si trovò a combattere contro lo stesso nemico. Andò all'attacco come gli era stato ordinato, ben sapendo, come l'avevano saputo prima di lui quelli di Nitsanim e dei ghetti, di non avere nessuna possibilità di vincere. La sua compagnia fu decimata. Seguendo i preparativi della figlia Maia per il viaggio in Polonia, Giora trovò il coraggio di fare al padre le domande che non aveva mai osato rivolgergli prima di allora e ciò li avvicinò. Erano queste le cose a cui ripensavo quella sera a Varsavia, mentre con Maia e Barmor andavamo in cerca di via Pawia. La casa era scomparsa. Al suo posto c'era uno spazio vuoto. Intanto, davanti al monumento di Rapaport, gli studenti avevano intonato l'inno israeliano, l'Hatikwah. Gli allievi del liceo Ben Gurion di Petah Tikvah, che avevano il compito di condurre la cerimonia, lessero poesie da un libriccino nero con la stella gialla di Davide sul davanti e una bandierina israeliana di plastica sul retro.
(Nota: Ci vollero quarant'anni prima che Nitsanim fosse assolto. Documenti e testimonianze inediti rivelarono che il kibbutz non era riuscito a ottenere tutte le armi di cui aveva bisogno perché non aveva protezioni politiche. Se i suoi difensori si fossero arresi prima, se ne sarebbero salvati molti di più: avevano resistito troppo a lungo. A riabilitarli fu un saggio di Tzvika Dror, lo storico del kibbutz Lohamei Haghetaot.) Accennarono appena all'insurrezione e per tutto il viaggio, a parte una visita alle rovine del ghetto e un breve incontro con un uomo che aveva conosciuto Mordecai Anielewicz, nessuno ne parlò. Il libretto ministeriale conteneva una mezza pagina sul teatro ebraico del ghetto di Varsavia e poche parole sulla rivolta. Dopo cinque guerre gli israeliani non avevano più bisogno di quel mito eroico per cancellare la vergogna dell'Olocausto. Ma la ragione era anche un'altra, credo. Il Mapam, che era stato un partito molto influente nella politica israeliana, era diventato ormai marginale. Shalmi Barmor mi rivelò un piccolo segreto: il monumento di Rapaport non è del tutto identico a quello che sorge all'ingresso di Yad Vashem. A Varsavia, per esempio, la figura materna ha il seno scoperto. Qualche settimana prima della partenza, gli insegnanti avevano distribuito agli studenti grandi fogli bianchi e pennarelli, perché esprimessero le loro paure. Alcuni paventavano l'incontro con i campi della morte, temevano di non reggere davanti a tanto orrore, di mettersi a piangere e di essere derisi dai compagni. Altri avevano il timore opposto. Alcuni temevano di tornare «diversi» dalla visita ai lager e di non riuscire più a concentrarsi nello studio, altri addirittura che l'esperienza sarebbe stata così intensa da separarli dagli amici che non l'avevano vissuta. La cosa che invece più spaventava taluni era quella di restare insensibili. La scuola li aveva preparati a tale eventualità: l'assenza di emozioni non significava essere vittime di disturbi dell'affettività. Ma si trattava di preoccupazioni infondate: durante la visita tutti gli studenti furono, prima o poi, sopraffatti dalla commozione, e spesso più di una volta. Per molti accadde a Treblinka, ben prima che arrivassimo ad Auschwitz, l'ultima tappa del nostro itinerario. La cerimonia di Treblinka era affidata agli allievi del liceo Masorti. Ognuno accese
una candela in memoria dei familiari uccisi. Un ragazzo, i cui genitori erano nati in Marocco, accese un cero per ricordare i genitori dei suoi amici. L'insegnante, Orit Elidar, lesse una poesia intitolata Ode ai salvati dal fuoco, scritta da sua sorella: «Ogni ebreo ha il suo campo della morte ... ogni ebreo ha la sua camera a gas». Fu una cerimonia molto intensa e i ragazzi piangevano tutti. A Treblinka sono rimaste soltanto delle lapidi, uno sterminato cimitero di lapidi, che si estende a perdita d'occhio. Il resto è lasciato all'immaginazione. Il maggior turbamento lo suscitò Majdanek. Qui, il campo della morte è restato intatto, con le docce, le baracche, i cappelli, i vestiti, le scarpe, i forni crematori. Niente è lasciato all'immaginazione. L'orrore cresce mano a mano che si passa da una baracca all'altra, finché si giunge alla grande cassa di vetro colma di ossa umane e poi all'enorme catino con la cenere dei morti. Era il crepuscolo: alcuni sacerdoti tedeschi deposero una corona. Nel cielo volava uno stormo di corvi. Matan Meridor, un ragazzo intelligente e comunicativo, mi confidò un segreto che non si sentiva di rivelare ai suoi amici. Mentre passavamo davanti alle migliaia di scarpe conservate nel campo di Majdanek, lo sguardo gli correva a quelle più piccole e improvvisamente gli era riaffiorato alla memoria un verso dell'inno del Betar, scritto da Zeev Jabotinsky: «Dal sangue e dal sudore emergerà una razza orgogliosa, generosa e crudele». Subito dopo aveva pensato al testamento che Sansone lascia al suo popolo in un romanzo di Jabotinsky: «Che raccolgano armi, scelgano un re e imparino a ridere». Gli raccontai allora che trent'anni prima sua zia, Hagit Meridor, aveva sollevato un acceso dibattito sul significato dell'Olocausto, raccontando al padre, il deputato Eliahu Meridor, la visita di un pastore protestante tedesco nella sua scuola. Era il 1962 e Israele era in attesa della sentenza del processo Eichmann. Il reverendo Bruno Dieckmann era un grande amico di Israele e il ministero degli Esteri tedesco aveva caldeggiato la sua richiesta di recarsi in visita a una scuola israeliana. Il pastore assistette a una lezione di inglese nella classe di Hagit Meridor, poi rivelò ai bambini la sua provenienza e chiese se desideravano inviare un messaggio ai loro coetanei tedeschi. Non appena Hagit Meridor rivelò la visita al padre, l'Herut partì all'attacco, schierando i suoi pezzi da novanta,
con alla testa Menahem Begin. Matan Meridor, il cui padre era stato ministro della Giustizia nel governo guidato da Yitzhak Shamir, mi disse che non si sentiva ancora in pace con i tedeschi. Aveva visitato Majdanek sventolando la bandiera israeliana. Il vento gliel'aveva avvolta intorno al corpo come un sudario. Per un istante, così mi disse, aveva esitato a liberarsene. Mentre viaggiavamo verso Auschwitz, un'insegnante lesse al microfono un breve passo del romanzo di Viktor Franki, L'uomo in cerca di significato. Franki, uno psichiatra viennese, superstite di Auschwitz, fu citato spesso durante il viaggio. «Sembra che l'uomo possa sopportare la sofferenza, l'umiliazione, la paura e la rabbia, se reca nel cuore l'immagine di una persona cara» scrive Franki «oppure se ha una religione, il senso dell'umorismo o anche, semplicemente, se posa lo sguardo sui suoi compagni di prigionia o spera che alla fine tutto si aggiusti.» Poi l'insegnante prese a leggere con voce incrinata un passo del libro di Primo Levi, Se questo è un uomo. (Nota: Il senso della vita, mi disse Franki, non l'aveva scoperto ad Auschwitz, come voleva far credere il suo editore, ma molto prima di essere arrestato. Le sofferenze di Auschwitz, però, gli avevano dimostrato la validità della sua teoria.) A cinque chilometri dal campo, chiese agli studenti di osservare il silenzio. Nessuno fiatò. Si sentiva soltanto il ronzio del motore dell'autobus. Davanti al cancello l'insegnante annunciò: «Vi ricordo che abbiamo un dottore con noi». La visita ad Auschwitz era stata concepita come l'apice emotivo e drammatico nell'incontro dei giovani con l'Olocausto. Per molti, però, non fu il momento dell'attesa catarsi. Erano troppo presi ad analizzarsi, a chiedersi «Ma io, che cosa provo?». Si convinsero che l'esperienza più emozionante gliel'aveva procurata Majdanek, forse perché era il primo campo che vedevano, forse perché non era stato trasformato in un museo e, diversamente da Auschwitz, i turisti erano pochi. O forse perché non gli era stata inculcata l'idea che fosse un simbolo e perciò non si aspettavano, prima di vederlo, che avesse «un effetto particolare». Auschwitz era la fine del viaggio. Avevano esaurito, disse uno studente, tutte le lacrime. Durante la visita gli insegnanti
parlarono di Katzetnik. Qualcuno si ricordò che lo scrittore aveva ritrattato le parole pronunciate al processo Eichmann qualche istante prima di svenire: Auschwitz non era su un altro pianeta, ma in questo mondo, era un'espressione del male umano. Accanto alla forca sulla quale era stato impiccato il comandante del campo, Rudolf Hòss, uno degli studenti tenne un breve discorso. Ho conosciuto il cognato di Rudolf Hòss. Mi ha raccontato che durante la guerra aveva visitato il campo della morte, scrutato in ogni angolo, osservato ogni cosa. Aveva chiesto a Rudolf come facesse a sopportare quell'orrore quotidiano e lui gli aveva risposto: «Non puoi capire. Qui siamo su un altro pianeta». Ebbi l'impressione che molti studenti preferissero considerare Auschwitz un altro pianeta. In quegli otto giorni di pellegrinaggio gli studenti vissero emozioni estreme, passando dal riso al pianto dirotto, quasi isterico. Accadde più volte. A ogni commemorazione, piombavano in una terribile cupezza, che subito evaporava, svaniva non appena finiva il rito. Un paio d'ore dopo il ritorno da Auschwitz erano tutti in discoteca a ballare con i polacchi. Forse anche questo fa parte del dovere di vivere. Nel suo libretto, il ministro della Pubblica Istruzione aveva suddiviso i canti in tre sezioni: «Canti patriottici e dello Shabbat»; «Canti dell'Olocausto e dell'eroismo»; «Canti per divertirsi». Gli studenti visitarono i campi della morte come se fossero isole, separate da tutto il resto. Pellegrini del passato, quasi non si accorsero della rivoluzione che avveniva in quel momento in Polonia. La stessa cosa accade ai cristiani che vengono in pellegrinaggio a Gerusalemme: non imparano nulla su Israele. Ho pensato più volte a questa analogia durante il viaggio. Vicino ad Auschwitz, nel luogo in cui sorgeva Birkenau, i ragazzi scesero dall'autobus e si incamminarono lungo i binari, come i pellegrini cristiani sulla via Dolorosa. Avevano preghiere da recitare e letture da fare, un canone da seguire, che andava dal salmo Non restare in silenzio, oh Dio a Ritorno ad Auschwitz del poeta israeliano Avner Treinin. Erano quasi tutti testi scritti in un linguaggio solenne, con qua e là qualche parola in yiddish. Nella liturgia del culto della memoria l'yiddish rappresenta ciò che l'aramaico è per la preghiera ebraica e il latino per quella cristiana. Gli studenti avevano anche della musica registrata: all'ingresso di Treblinka ascoltarono la
canzone di un popolare cantante israeliano, Yehuda Poliker, i cui genitori erano stati ad Auschwitz. Diceva soltanto: «E' la stazione di Treblinka, è la stazione di Treblinka». Quell'unico verso risuonava all'infinito fra il suono di percussioni, chitarre elettriche, buzuki, contrabbasso e organo. Gli studenti cantavano in coro la nenia. Indossavano quasi sempre una specie di divisa: una maglietta porpora acceso, con una grande stella di Davide bianca sul petto e la scritta «Israele» a caratteri latini sulla schiena. Camminavano spesso in formazione, come soldati, agitando la bandiera israeliana. Lo facevano, mi dissero, per far sapere ai polacchi che c'è ancora vita dopo l'Olocausto. Era la loro vendetta di emissari di Israele. Ogni tanto notavo gesti di una ritualità più profonda, quasi mistica. Un ragazzo depose un lumino acceso nel crematorio di Majdanek, poi gli si inginocchiò davanti, giungendo le mani. Altri lo imitarono. Era come se stessero riaccendendo il forno. In questo pellegrinaggio li accompagnavano, oltre gli insegnanti, tre guide spirituali, tre superstiti dell'Olocausto, tre testimoni, come li chiamavano. Durante una visita precedente uno studente aveva scritto: «Più ci penso e più sento che chi ha vissuto l'Olocausto ha dentro di sé qualcosa di divino, qualcosa che va oltre l'umano». I testimoni raccontavano le loro esperienze nei campi della morte e cosa aveva significato l'Olocausto. La loro presenza conferiva al viaggio una forte intensità emotiva e una precisa connotazione politica. Uno dei superstiti, David Sarid, un insegnante in pensione di Tiberiade, si augurava che l'Olocausto diventasse per gli studenti il quarto pilastro della loro identità, accanto alla tradizione ebraica, alla Terra di Israele e al popolo ebraico con i suoi valori liberali e umanistici. Egli avrebbe, disse, inciso sul loro corpo una piccola ferita, non più grande di una puntura di spillo, per trasfondervi una goccia del suo sangue. Quel sangue essi l'avrebbero passato alle generazioni future e queste ad altre ancora, fino alla fine dei giorni. Sarid era arrivato ad Auschwitz quand'era più giovane degli studenti che ora accompagnava. Nel luogo in cui sorgeva la stazione ferroviaria egli descrisse la selezione: da una parte i prigionieri mandati subito a morte, dall'altra quelli destinati al lavoro forzato. Lui era stato messo fra i secondi. Poi le SS li avevano spinti di corsa dentro il campo. Così, disse il sessantenne Sarid, mettendosi a
correre nello spazio vuoto in cui sorgevano allora le baracche. Correva e gli studenti del liceo Masorti correvano dietro di lui. Correte, correte, diceva Sarid, ed essi correvano e correvano. Era una scena grottesca e atroce. Sarid la ripeteva con ogni gruppo che accompagnava. Quel giorno a Birkenau la temperatura era sotto lo zero. Quando avevamo freddo, disse Sarid, ci stringevamo gli uni agli altri. Venite qui, li chiamò, e i ragazzi accorsero e si abbracciarono e cominciarono a dondolarsi avanti e indietro, lentamente, come se pregassero, e all'improvviso sgorgò un canto tradizionale. Si erano lasciati trasportare un po' troppo dall'emozione, dissero alcuni in seguito. Alla vigilia della visita ad Auschwitz, nella sinagoga di Cracovia, Sarid lesse una breve poesia. La mia Birkenau, accompagnato al flauto dalla moglie. Dovevano ricordare l'Olocausto, disse ai giovani, ma vivere con gioia. Parlò più volte dell'eccidio degli zingari e dentro il campo portò gli studenti davanti a una piccola lapide: era l'unico monumento dedicato a quelle vittime. Noi ebrei non dobbiamo dimenticarli, affermò, così come il resto del mondo non deve dimenticare gli ebrei. L'insegnante Orit Elidar accese una candelina davanti alla lapide. Gli altri due testimoni erano Matti Bayski e Miriam Yahav. Bayski, un uomo robusto, nato in un paesino vicino a Lòdz, era stato ad Auschwitz e in altri campi. Lavorava per il ministero della Pubblica Istruzione israeliano e in quel momento si occupava del programma per la preparazione al servizio militare dei liceali. Era la seconda volta che accompagnava i giovani in Polonia. Nel tragitto verso Majdanek mi mostrò una lettera inviatagli da uno studente del viaggio precedente: «La ringrazio per avermi insegnato ad apprezzare la vita e ad amare il mio paese» diceva. Miriam Yahav, superstite di Auschwitz, Majdanek e di altri campi, aveva lavorato per molti anni in una pasticceria di Be'er Sheva. Agli studenti raccontò storie agghiaccianti, che sconvolsero persino Shalmi Barmor, e lesse le sue poesie, alcune in yiddish. «Improvvisamente tutto era scomparso, non era rimasto nulla, solamente io, sola, desolata» recitò. «Ogni giorno era un anno. Dove avevo peccato? Dove? Ancora oggi non capisco come sia stato possibile, come io sia rimasta viva, proprio io. Come sono uscita da tutto quell'orrore?» Firmava ogni sua poesia con il numero di prigionia accanto al nome:
A-15755. Ai superstiti, disse Miriam Yahav, le vittime avevano chiesto una cosa sola: vendetta, vendetta, vendetta. Era la stessa richiesta espressa da Eliezer Lidowski, il pensionato di Tel Aviv che era stato uno degli autori del piano per avvelenare gli acquedotti di diverse città tedesche. Il suo rimpianto era di non avere fatto di più: «Il mondo guarderebbe diversamente Israele, se gli ebrei avessero saputo vendicare il sangue». David Sarid la pensava diversamente. Il nostro cuore, disse agli studenti, non deve riempirsi di odio, perché non ci sarebbe più posto per l'amore. La povertà della Polonia aveva invece per Miriam Yahav il sapore della vendetta. «E' tutto così grigio e triste, qui» osservò a Cracovia. «Gli ebrei polacchi assassinati nell'Olocausto si sono portati via la gioia e da allora questa terra non l'ha più conosciuta.» Yahav non aveva mai parlato delle proprie esperienze fino al processo Eichmann. Da quel giorno non ha più smesso di raccontare. La considera la sua missione. Tiene discorsi agli studenti, ai soldati e ad altri gruppi, compresi i carcerati, purché non ci siano arabi fra di loro. «Era tutto così organizzato» ha detto, parlando della macchina della morte di Treblinka. «Loro avevano la cultura. Non erano come gli arabi.» Gli arabi le facevano paura. Il suo non era un discorso politico, ribadì più volte alle mie domande. Lei esprimeva soltanto i propri sentimenti. Sì, gli arabi le facevano paura. Che cosa poteva farci? Lei era stata «là». Quando faceva ancora la pasticciera, raccontò, ogni mese vedeva gli arabi andare a ritirare il sussidio per i figli. E soffriva: avevano tanti figli, loro. Ce l'hanno nel sangue il sesso, disse, mentre scendevamo per via Estherke, dedicata all'amante ebrea di Casimiro il Grande, il re polacco del Trecento. Eravamo diretti alla sinagoga del rabbino Moshe Isserles, lo studioso che nel XVI secolo aveva codificato la tradizione giuridica ashkenazita. Era sabato mattina. Non era riuscita a concepire un figlio per molto tempo dopo l'Olocausto, mi disse Miriam Yahav, poi finalmente le erano nate due bambine e un maschietto. Un suo parente era stato ucciso nella guerra dei Sei giorni, un altro in quella di Yom Kippur. Era convinta che bisognasse cacciare da Israele tutti gli arabi. Portarli via con i camion, con qualsiasi altra cosa, purché se ne andassero. Ho viaggiato per qualche tratto con lei. Sul suo autobus c'erano gli studenti di un liceo religioso di Petah Tikvah. Le
volevano bene. Anche loro sostenevano che bisognava deportare gli arabi. No, si affrettò a rispondere Yahav alla domanda che avevo rivolto a uno studente, non c'era nessuna somiglianza fra la deportazione degli arabi e la deportazione degli ebrei. Gli ebrei non avevano nessuna intenzione di far del male ai gentili. Prima della partenza per la Polonia una studentessa aveva criticato il programma: tutte quelle cerimonie con preghiere e bandiere non le piacevano. Sapevano di manipolazione politica. Davano l'impressione che l'Olocausto riguardasse soltanto gli ebrei, e questo era falso, disse. Gli insegnanti si comportarono come da manuale: invitarono gli allievi a discutere della questione. Il dibattito fu avvincente. La ragazza che aveva sollevato il problema dichiarò di non volere partecipare a cerimonie tutte incentrate sull'identità israeliana. Se proprio si dovevano tenere delle celebrazioni, allora che riguardassero l'identità ebraica o meglio ancora l'identità dell'uomo in generale. I compagni la pensavano in maniera diversa. Uno disse che se si doveva andare in Polonia per piangere, tanto valeva farlo da israeliano e da ebreo, e non semplicemente da uomo. Un altro criticò la distinzione fra identità ebraica e identità israeliana. I nazisti, disse, avevano assassinato gli ebrei in quanto ebrei e non in quanto esseri umani. Matan Meridor osservò che la bandiera israeliana contiene simboli ebraici e rappresenta tutto il popolo ebraico. Io, disse, non posso cantare il requiem per gli zingari davanti al monumento agli ebrei: non vado in Polonia per ricordare il genocidio in Cambogia. Gli andava bene che si ricordassero anche le altre nazioni sterminate, ma ci teneva a ribadire che lui andava in Polonia per i sei milioni di ebrei. La discussione andò avanti fino a notte fonda, con fasi di grande intensità emotiva e passione politica. Gli studenti ebbero così l'occasione di rendersi conto che la memoria dell'Olocausto non costituiva, come si pretendeva, una manifestazione di unità nazionale, ma era in realtà un'altra espressione delle divisioni della società israeliana in destra e sinistra, xenofobia e umanesimo, cosa che del resto emergeva dalle ricerche sulla gioventù israeliana e l'Olocausto condotte da Dan Bar-On e Oron Sela. In quel contesto politico tanto polarizzato era difficile per i giovani pensare all'Olocausto prescindendo dalla realtà israeliana. La visione di essa
influenzava inevitabilmente anche il loro atteggiamento nei confronti del genocidio. La sovrapposizione fra passato e presente emerse più volte durante il viaggio verso i campi della morte polacchi. Un venerdì sera, mentre camminavamo per le vie di Cracovia di ritorno dalla sinagoga, un gruppo di ragazzi intonò il Canto della pace, composto da Yaakov Rotblit alla fine della guerra dei Sei giorni, e subito un altro gruppo rispose con l'inno del Bnei Akiva, il movimento giovanile del partito nazional-religioso, cambiandone però le parole. «Fuori gli arabi, dentro gli ebrei» cantavano. Il libretto ministeriale diceva che la Polonia appoggiava l'autodeterminazione dei palestinesi e le loro organizzazioni terroristiche, quasi si trattasse della stessa cosa. Non precisava che il diritto all'autodeterminazione dei popoli è un diritto universale. L'Olocausto, ribadiva invece più volte, insegnava che gli ebrei dovevano restare in Israele. Dimenticava però di dire che l'Olocausto insegnava altresì che era necessario rafforzare la democrazia, combattere il razzismo, difendere le minoranze e i diritti civili, rifiutare di obbedire a ordini manifestamente illegittimi. E intanto varie inchieste rivelavano che la gioventù israeliana possedeva una scarsa coscienza democratica. Uno studio comparato fra i giovani israeliani e i loro coetanei tedeschi realizzato dall'Università Ben Gurion aveva dato un risultato imbarazzante: i tedeschi avevano un livello di coscienza democratica decisamente superiore a quello dei loro coetanei israeliani. Per recepire l'insegnamento umanistico dell'Olocausto occorre un ottimismo che sembra far difetto alla maggioranza degli israeliani. Qualcuno sostiene addirittura che tanto vale dimenticarlo. Qualche mese dopo l'inizio dell'Intifada nei Territori occupati, «Haaretz» pubblicò un articolo intitolato Per dimenticare. Ne era autore Yehuda Elkana, direttore dell'Istituto di storia delle scienze e delle idee all'Università di Tel Aviv e dell'Istituto Van Leer di Gerusalemme, deportato ad Auschwitz all'età di dieci anni. La tesi che sosteneva era piuttosto originale: «Quanto è accaduto in Germania può accadere ovunque, con qualsiasi popolo, compreso il mio». La prevenzione, però, era possibile: occorrevano un'educazione e un contesto politico adeguati. Elkana era intervenuto dopo i numerosi «eccessi» commessi dai soldati
israeliani nei Territori, di cui aveva parlato la stampa. Queste cose, scrisse, io le ho già viste: «Ho visto un bulldozer seppellire vive le persone, ho visto soldati infuriati spezzare le mani ai civili, compresi i bambini». Ma da dove nascevano le atrocità commesse dai soldati israeliani nei Territori? Non tanto, egli riteneva, dalle frustrazioni personali, quanto da una profonda paura esistenziale, continuamente alimentata da una certa interpretazione dell'Olocausto e dalla tendenza a credere che tutto il mondo ce l'avesse con gli ebrei, le eterne vittime. «In questa inveterata convinzione, oggi largamente condivisa, io scorgo la tragica e paradossale vittoria di Hitler» proseguiva lo studioso. Se l'Olocausto non avesse pervaso così a fondo la coscienza nazionale, il conflitto fra gli ebrei e i palestinesi non avrebbe provocato tante reazioni «aberranti» e probabilmente gli sforzi diplomatici non sarebbero giunti a un punto morto. Poi, come altri prima di lui, Elkana elencò i pericoli insiti nel culto della memoria: Un contesto in cui un'intera nazione determina il proprio rapporto con il presente e modella il futuro in funzione delle lezioni del passato costituisce un pericolo per l'avvenire di qualsiasi società che aspiri a vivere, come tutti gli altri paesi, con un minimo di serenità e sicurezza. ... E' l'esistenza stessa della democrazia a essere minacciata quando la memoria delle vittime del passato svolge un ruolo attivo nel processo politico. Gli ideologi dei regimi fascisti l'avevano capito molto bene. ... Utilizzare le sofferenze passate come argomento politico significa associare i morti al processo democratico dei vivi. E concludeva: Il peggior pericolo per il futuro di Israele è il modo sistematico con cui l'Olocausto è stato instillato nella coscienza dell'opinione pubblica, compresi coloro che non l'hanno subito e la generazione di bambini nati e cresciuti qui. Mi rendo conto per la prima volta della gravità di ciò che abbiamo fatto, portando ripetutamente per decenni tutti i bambini di Israele a visitare Yad Vashem. Che frutti ci aspettavamo da quell'esperienza in ragazzi in tenera età? Con la mente e il cuore chiusi, senza ragionare, abbiamo proclamato: «Ricordate!». A che scopo? Che cosa dovrebbe farsene un bambino di questi ricordi? Per moltissimi, quelle fotografie orripilanti sono equivalse probabilmente a un invito all'odio. Non escludo che il resto del mondo possa ricordare. Non ne sono certo, ma è comunque un
problema che non ci riguarda. Ogni nazione, compresa quella tedesca, deciderà per suo conto, in base alle sue considerazioni, se vuole o no ricordare. Noi, invece, dobbiamo dimenticare. Non esiste per i leader del paese un compito politico e educativo più urgente di quello di schierarsi a favore della vita, di dedicarsi alla costruzione del futuro, anziché occuparsi da mattina a sera di simboli, cerimonie e insegnamenti dell'Olocausto. Il dominio della memoria storica deve essere sradicato dalla nostra vita. L'articolo suscitò violente reazioni: uscirono editoriali con titoli quali Per ricordare, Per imparare, L'apparente genocidio dell'oblio. Yisrael Eldad, ex segretario del Lehi e polemista di destra, lo definì «un'atrocità morale, pedagogica e psicologica». Sul valore della memoria aveva discusso anche il collegio docenti dell'istituto Masorti, quando era stato proposto il viaggio in Polonia. In quell'occasione qualcuno aveva osservato che gli studenti sarebbero stati sottoposti a una manipolazione emotiva e politica profondamente antieducativa. Hanzi Brand, la donna che aveva negoziato con Adolf Eichmann, mi domandò perché mai mandare quei ragazzi fino in Polonia: «Ne abbiamo già più che a sufficienza qui di monumenti ai morti. Ne è pieno tutto il paese». Diversa fu la reazione di Yehudit Hendel: «Credo che come è nostro dovere fare il servizio militare, così sia nostro dovere andare ad Auschwitz». Sull'aereo che ci riportava in Israele le hostess ci porsero i giornali. Parlavano di un sanguinoso incidente nel quartiere della Bakaa a Gerusalemme, dove un palestinese della Cisgiordania aveva pugnalato a morte tre israeliani. La Bakaa era un tempo il quartiere degli arabi benestanti, fuggiti nel 1948. Le loro case erano state occupate dagli immigrati, alcuni dei quali erano profughi dei paesi arabi e altri superstiti dell'Olocausto. Negli anni Ottanta avevano cominciato a risiedervi impiegati e professionisti, fra cui molti sostenitori del movimento pacifista. Oltre a uccidere tre persone, il terrorista aveva ferito anche un bambino. Era il nipote di Abba Kovner. Una delle vittime, un soldato, era stato allievo di Orit Elidar al liceo Masorti. L'insegnante ne fu profondamente turbata e non si era ancora ripresa, quando il comandante ci comunicò che eravamo in fase di atterraggio. Subito dopo si accese lo schermo e risuonarono le parole del canto «Terra nostra per sempre, in cui vivremo,
qualunque cosa accada». Seguì un passo del discorso che Moshe Dayan aveva pronunciato sulla tomba di un soldato caduto durante uno scontro con gli arabi vicino a Gaza: «I milioni di ebrei che sono stati uccisi perché non avevano una patria ora ci guardano dalla polvere della storia di Israele e ci ordinano di popolare e costruire ancora una volta una Terra per il nostro popolo». Fu questo il messaggio che gli studenti riportarono dal loro viaggio in Polonia. Qualche mese dopo i ragazzi conobbero la terza guerra della loro breve vita. Erano nati più o meno nel periodo della guerra di Yom Kippur: il primo conflitto che erano in grado di ricordare era probabilmente quello del Libano. Fra poco sarebbero stati chiamati alle armi: l'ipotesi più probabile era che la loro guerra sarebbe stata l'Intifada. E invece scoppiò la guerra del Golfo. Come tutti i conflitti precedenti, anche questo riportò alla ribalta l'Olocausto e rinfocolò l'ostilità verso la Germania ormai unita. La reazione era più che comprensibile. Saddam Hussein veniva paragonato a Hitler e tutti erano convinti che possedesse armi chimiche fabbricate con la collaborazione di società tedesche. Il paese sprofondò in un'angoscia grande quanto quella che l'aveva attanagliato alla vigilia della guerra dei Sei giorni, quando nello Yemen l'esercito egiziano aveva usato i gas venefici che si riteneva avesse prodotto con l'aiuto degli scienziati tedeschi. Nella stampa israeliana comparvero a ripetizione lettere e articoli che associavano la Germania unita al Terzo Reich. A Tel Aviv ci fu una manifestazione di protesta davanti all'ambasciata tedesca. Alcuni oratori dissero di sentirsi superstiti dell'Olocausto. Le notizie sul coinvolgimento tedesco nella fabbricazione di armi chimiche in Iraq riaprirono antiche ferite e risvegliarono paure assopite. L'organizzazione che aveva preparato la «Marcia della vita» dei giovani israeliani e americani nei lager polacchi rivolse al governo tedesco un lungo appello. «Lasciateci vivere in questo paese» implorava. Quando l'Iraq cominciò a lanciare i suoi missili contro Israele, il ministro degli Esteri tedesco si affrettò a inviare un contributo per riparare i danni. Il gesto non fu molto apprezzato e allora il governo della Germania mandò alcune batterie di missili antimissili da schierare accanto a quelli che gli Stati Uniti avevano già fornito a Israele. Ma gli umori antitedeschi continuarono a serpeggiare nella stampa.
Quando la difesa civile cominciò a distribuire le maschere antigas alla popolazione, Noah Klieger così spiegò su «Yediot Aharonot» il suo rifiuto: «Non sono sopravvissuto al campo della morte di Auschwitz e alle camere a gas di Birkenau per ritrovarmi, una cinquantina di anni dopo, a camminare in uno Stato ebraico indipendente con la maschera antigas per difendermi dalle sostanze inventate e prodotte dai tedeschi. Non io, grazie». Questo atteggiamento, e altri analoghi, nascevano da un bisogno profondo, o erano invece la ripetizione di un rituale ormai logoro? Difficile dirlo. Una cosa comunque la guerra con l'Iraq la dimostrò: il retaggio dell'Olocausto non era più gestito dalla lobby antitedesca dei superstiti e dei loro figli. La consapevolezza dell'Olocausto non comportava più necessariamente l'ostilità verso la Germania. Il suo valore era stato ormai interiorizzato e faceva parte dell'esperienza esistenziale di tutti gli israeliani. L'angoscia che pervase Israele all'inizio della guerra del Golfo era concreta. Per la prima volta dalla fondazione dello Stato non era l'esistenza del paese a essere minacciata, ma i singoli cittadini, le famiglie e le proprietà. La nazione di Israele non era in pericolo. Dall'Unione Sovietica stavano arrivando centinaia di migliaia di immigrati: era l'ondata migratoria più imponente e promettente di tutta la storia di Israele. Gli israeliani non furono costretti a partire per il fronte o a nascondersi nei rifugi. Vissero la guerra nelle loro case. Fu un'esperienza che coinvolse tutti. La radio e la televisione contribuirono con i loro programmi a cementare il senso di unità nazionale. Fu trasmesso anche il serial televisivo americano sull'Olocausto, ispirato a Guerra e memoria di Herman Wouk, con la partecipazione di Robert Mitchum, John Gielgud e Topol. Lo sponsorizzava Ivoi, l'azienda produttrice di derivati della soia del kibbutz Lohamei Haghetaot. Eppure, benché tutti fossero minacciati dallo stesso pericolo esterno e provassero le stesse paure negli stessi istanti, l'urlo delle sirene antiaeree, che saliva e si spegneva in un agghiacciante lamento, frantumò la società israeliana: ognuno per sé e per la propria famiglia, chiuso nella sua stanza sigillata, isolato dentro la sua maschera antigas. Da Tel Aviv scapparono a migliaia in cerca di rifugio in zone più sicure del paese; era dai tempi della resa di Nitsanim che il mito israeliano non subiva un colpo così duro. Quelli
che erano rimasti nello loro case si stringevano gli uni agli altri, aspettando inermi il peggio. Mai tanti israeliani avevano condiviso un'esperienza così tipicamente ebraica. EPILOGO. Nell'estate del 1990 mi recai a far visita al generale Yossi peled, che a quell'epoca era il comandante della regione settentrionale di Israele ai confini con il Libano e la Siria. I suoi genitori erano nati a Varsavia. peled ignorava di cosa si occupasse il padre in Europa. Gli era stato detto che commerciava in diamanti e forse era vero, perché poco prima della guerra si era rifugiato ad Anversa, che era il centro degli scambi in quel settore, con la moglie e le due figlie. peled nacque nel 1941. Lo chiamarono Jefke, il diminutivo polacco di Giuseppe. Il Belgio era già sotto l'occupazione tedesca e le condizioni degli ebrei si facevano di giorno in giorno più critiche. Temendo il peggio, i Mendelevitch, così si chiamavano allora, affidarono i figli a una famiglia cattolica belga. Poco dopo furono deportati ad Auschwitz. I genitori adottivi non erano più giovani e avevano figli grandi. Uno era nell'esercito belga. Pur accettando del denaro dai Mendelevitch, essi accolsero certamente i tre bambini ebrei per ragioni umanitarie. Il loro gesto comportava infatti molti rischi. peled li ricordava con affetto, come un padre e una madre veri. Lui e le sue sorelle crebbero nella fede cattolica. peled imparò a pregare in fiammingo all'ora dei pasti e la sera prima di andare a letto. La domenica andava a messa. Trascorse così tutti gli anni della guerra. Il padre morì ad Auschwitz, la madre si salvò e tornò ad Anversa a riprendersi i figli. peled non voleva andare con quella sconosciuta. La madre, d'altra parte, si rese conto ben presto di non essere in grado di occuparsi dei figli e li affidò a un orfanotrofio ebraico. peled aveva sei anni. Gli dissero che era ebreo e che non doveva mai più recitare le preghiere che aveva imparato. L'adattamento fu molto difficile e per un po' peled continuò a pregare di nascosto nel suo lettino. Nel 1949 i tre piccoli Mendelevitch furono portati in Israele. La madre non li seguì. Ad aspettarli a Haifa c'era uno zio, un altro sconosciuto, che portò peled e le sorelle nel suo kibbutz, Negba. Lo Stato di Israele era appena nato ed era finita da poco la guerra di indipendenza. Yosef, come si chiamava adesso, aveva quasi otto anni. Il kibbutz Negba distava poco più di una decina di chilometri da Ashkelon. L'avevano fondato nel 1939 alcuni
immigrati polacchi, militanti di Hashomer Hatsair, e a quel tempo era l'insediamento più meridionale della Palestina. Quando vi giunsero Yosef Mendelevitch e le sorelle, il kibbutz non aveva ancora finito di riparare i danni della guerra, ma era già diventato un simbolo dell'eroismo israeliano. Gli egiziani l'avevano attaccato e bombardato più volte, ed erano sempre stati respinti. Le battaglie, dice un libretto pubblicato dal kibbutz, ci hanno insegnato che «la via verso la vita passa in qualsiasi circostanza per la guerra e la fermezza». Poco dopo Negba commissionò a Natan Rapaport un imponente monumento di bronzo. Esso raffigura due giovani nerboruti e una donna con il capo coperto dal fazzoletto. I bambini del kibbutz tormentavano Yosef di continuo: era profugo, era orfano, conosceva appena qualche parola di ebraico e parlava con un forte accento straniero, che non ha mai perso del tutto. Yoskia, come lo chiamavano maliziosamente, non confessò mai ai suoi persecutori che il padre era morto ad Auschwitz. Voleva essere accettato, per questo mentiva. Suo padre, diceva, era morto nella rivolta del ghetto di Varsavia. Fu per lui un periodo molto difficile, che visse nella paura costante di essere sradicato di nuovo. Dentro di sé covava una grande rabbia e guardava tutti con sospetto. Era oppresso dal passato, che tenne nascosto per molti anni come un segreto vergognoso. Poi, nel dicembre del 1985, peled vide il film sull'Olocausto diretto dal poeta Haim Curi in collaborazione con Zako Eriich. Di getto prese la penna, un foglio di carta intestata dello Stato maggiore dell'esercito e scrisse a Curi una strana lettera. Era stato sopraffatto da un'emozione incontrollabile e sentiva «il bisogno imperioso» di condividere con il poeta e regista i ricordi della sua infanzia: Ieri ho visto II volto della rivolta e un'ondata improvvisa di emozione mi ha trascinato di nuovo dentro la tempesta della mia infanzia in quei tempi difficili. Io, nato nell'inferno; io, bambino ebreo di sei mesi affidato per anni a una famiglia cristiana; io, bambino ebreo di sei anni, restituito al giudaismo dalla Brigata ebraica, oggi, ufficiale dell'esercito israeliano, mi trovo all'improvviso a volgere indietro lo sguardo di anni e anni, e sento, e capisco, qual è la fonte alla quale ci siamo abbeverati, succhiando, consapevoli o inconsapevoli, l'eroismo di questa nazione. Voglio che lei, Haim Guri, sappia questo: a volte,
quando sono solo, torno con la mente a decenni fa, a un tempo di cui ricordo soltanto brandelli. Immagini di nazisti che entrano in una casa di cristiani in cerca di bambini ebrei, un tratto di ferrovia, la chiesa cristiana, l'arrivo degli alleati, la sconosciuta (ho già sei anni) che mi viene presentata come mia madre, il rifiuto, sotto gli occhi di mia madre, che è appena tornata da Auschwitz, a entrare in un ristorante che espone la stella di Davide. Tutti ricordi che a volte mi colmano gli occhi di lacrime e io so, pur essendo un adulto esperto della vita, un veterano di parecchie guerre, so che sono le lacrime di un bambino ebreo di quattro, cinque anni. Più invecchio, più il legame con il passato si fa stretto, e il mio passato, che è il passato della nostra nazione, acquista sempre più forza e importanza. ... Molte delle cose che faccio da anni sgorgano da quel terribile passato. E per essere onesto fino in fondo, esse rappresentano il mio sforzo per far sì che quello che è successo alla mia famiglia e ai sei milioni di morti non succeda ai miei figli nati in Israele. E questa la mia vera motivazione. Non gli era difficile immaginare, mi disse peled, che cosa sarebbe emerso dal suo inconscio se si fosse sdraiato sul lettino di uno psicoanalista, ma era convinto che non fosse stato l'Olocausto a spingerlo a diventare ufficiale. Era stato piuttosto il comandante della sua compagnia, Mordecai Tsipori, che fu in seguito ministro nel governo Begin. Non aveva nessuna intenzione, a quel tempo, di restare nell'esercito dopo il servizio di leva. Ma prima del congedo Tsipori l'aveva convocato, gli aveva spiegato che l'esercito era a corto di ufficiali e l'aveva pregato di fermarsi per altri sei mesi. Quei sei mesi erano diventati trent'anni. «Invidio quei fortunati ufficiali visitati in sogno a vent'anni da Theodor Herzl, venuto a pregarli di non congedarsi, di rimanere nell'esercito per rafforzare il movimento sionista» osservò con sarcasmo peled. «Io non ho avuto nessuna apparizione.» Anzi, gli ci era voluto molto tempo per abituarsi alla vita militare. Tutto sommato, però, l'esercito israeliano gli aveva fornito uno scopo, degli amici e una casa. Avevano cominciato i suoi commilitoni a chiamarlo Yossi e in seguito aveva assunto il cognome peled, che in ebraico significa «acciaio». Le sue simpatie politiche andavano a Yitzhak Rabin, capo di Stato maggiore durante la guerra dei Sei giorni e primo ministro al momento del nostro incontro, di cui
aveva sposato una collaboratrice. peled aveva due figli. Il maggiore non gli faceva mai domande sull'Olocausto, il minore invece continuava a chiedere, e a peled sarebbe piaciuto che andasse in Polonia. Nel 1987 Rabin, allora ministro della Difesa, chiese a peled di accompagnarlo in Germania occidentale. A Dachau, Rabin dichiarò: «Qui, in questo luogo, a voi io dico che abbiamo vinto». Il generale peled girò il capo per nascondere le lacrime che gli rigavano il volto. Due anni dopo, durante uno scontro con i guerriglieri palestinesi nel nord del paese, due paracadutisti israeliani al suo comando furono uccisi. I compagni piansero. Ai giovani soldati peled disse che non c'era nessuna vergogna a piangere. Non la pensava così il capo di Stato maggiore, Dan Shomron, il quale il giorno seguente affermò che i veri combattenti non piangono mai. «Una frase sciocca» osservò peled. «Perché non piangere, se se ne ha voglia? Quello che conta è fare bene il proprio lavoro. La notte dopo aver pianto i compagni morti, i paracadutisti sono tornati a combattere e l'hanno fatto con coraggio. Chi ha bisogno di piangere, che pianga.» Saper manifestare le proprie emozioni gli pareva un segno di maturità. Gliel'aveva insegnato l'esperienza: con il passare degli anni aveva visto assottigliarsi la corazza che aveva indossato al momento dell'arruolamento, tre decenni prima. Yossi Peled aveva un sogno ricorrente, che mi rivelò dopo molte insistenze. Correva a perdifiato in un bosco per sfuggire ai nazisti che lo inseguivano. No, non aveva mai vissuto una situazione del genere. Non era ossessionato dall'Olocausto. A volte, però, quando si trovava davanti le giovani reclute, tornava con il pensiero a quando aveva la loro età e riviveva tutte le separazioni che avevano segnato la sua vita dal giorno in cui i genitori l'avevano affidato alla famiglia di Anversa. Una volta aveva sorvolato la città in elicottero, ospite del capo di Stato maggiore dell'esercito belga. Aveva riconosciuto la chiesa in cui pregava e aveva indicato il quartiere al suo collega. No, il ricordo dell'Olocausto non lo accompagnava sempre. Non ci aveva mai pensato durante una battaglia e aveva combattuto in tutti i conflitti e su tutti i fronti a partire dalla guerra dei Sei giorni. Nell'esercito, mi disse Peled, c'era sicuramente qualcuno convinto che egli sfruttasse le proprie vicende personali per fare carriera, perciò stava molto attento a non
diventare un simbolo. Ma la sua storia era così drammatica che non poteva non trasformarsi in un emblema della vitalità ebraica, e questo Peled lo sapeva. Quando capì che non c'era motivo di vergognarsi del proprio passato, Peled autorizzò la televisione israeliana a girare un film sulla sua vita. Da allora ha continuato a ricevere decine di inviti a parlare in pubblico. Accetta soltanto di andare nelle scuole. Ai giovani spiega che è difficile dire se lo Stato di Israele sarebbe sorto ugualmente anche senza l'Olocausto. E' certo, comunque, che l'Olocausto ne ha accelerato la nascita. «Questo paese, in realtà, ci è stato porto su un piatto d'argento da sei milioni di morti» mi disse. Era come se rispondesse alle parole attribuite a Chaim Weizmann: «Nessun popolo riceve il suo paese su un piatto d'argento». La metafora del piatto d'argento ispirò a Natan Alterman una poesia, che ormai è diventata un inno, tanto spesso la si recita durante le commemorazioni dei caduti. Quel «piatto d'argento» sul quale il paese fu porto alla nazione è rappresentato nei versi del poeta da un ragazzo e una ragazza «in cui scorre la rugiada della gioventù israeliana», due giovani della generazione che combattè la guerra di indipendenza. Quarant'anni dopo, Peled, generale dell'«esercito ebraico», così chiamò le Forze di difesa israeliane, lui che era stato tanto oppresso per tutta l'infanzia dall'etica sabra, fece di nuovo passare quel «piatto d'argento» dalle mani dei primi israeliani a quelle degli ultimi ebrei. Gli israeliani avevano nel frattempo imparato a convivere con il proprio passato giudaico. Per gli israeliani la storia è un'ossessione. Sono i discendenti di una nazione, di una religione e di una cultura che ha rifiutato il presente e consegnato il futuro alla fede e al destino. Il passato è diventato un oggetto di culto. A partire dagli anni Ottanta gli israeliani hanno venerato quello che chiamano moreshet hashoah, «il retaggio dell'Olocausto». La storia di Yossi Peled, come quella di Yehiel De-Nur (Katzetnik), è un esempio della svolta drammatica verificatasi nel paese nei confronti dell'Olocausto. Il disprezzo, che molti dei membri dello yishuv manifestavano verso la Diaspora, non solo non scomparve durante l'Olocausto ma, se possibile, aumentò. E dopo la guerra venne la condiscendenza verso i superstiti, figlia del rimorso e della vergogna: il risultato fu il grande silenzio che avvolse l'Olocausto
per tutti gli anni Cinquanta. Gli israeliani di allora rifiutavano non solo di parlarne, ma persino di pensarci, arrivando quasi al punto di negarlo. Poi, pian piano, in questi ultimi decenni, l'Olocausto ha acquistato un ruolo sempre più importante nell'identità israeliana ed è diventato una preoccupazione costante e intensa. Ma se lo si osserva con distacco, il desiderio degli israeliani di impadronirsi del loro passato appare spesso non meno problematico e contraddittorio del rifiuto che lo ha preceduto. Il vivo interesse odierno per l'Olocausto ha molte motivazioni, politiche e culturali. Israele è diverso dalla maggior parte degli altri paesi del mondo perché ha la necessità di giustificare, agli occhi altrui e ai propri, il diritto all'esistenza. E ha questa necessità perché quasi tutti i paesi arabi circostanti non lo riconoscono e perché un gran numero di ebrei sparsi nel mondo preferisce non vivere in Israele. Finché questi fattori rimarranno immutati, il sionismo resterà sulla difensiva. L'Olocausto, come giustificazione dell'esistenza dello Stato di Israele, ha un valore paragonabile soltanto alla promessa divina contenuta nella Bibbia: è la conferma definitiva della validità della tesi sionista secondo cui gli ebrei possono vivere nella sicurezza e godere pienamente dei diritti dei quali usufruiscono gli altri popoli soltanto in uno Stato autonomo e sovrano, capace di difendersi. Eppure, di guerra in guerra, si è visto chiaramente che al mondo ci sono molti altri luoghi in cui gli ebrei sono più al sicuro che in Israele. Non solo: l'Olocausto è stato un'innegabile sconfitta per il movimento sionista, che non è riuscito a convincere la gran parte degli ebrei del mondo a stabilirsi in Palestina quand'era ancora possibile. Benché sia indubbiamente vero che i dirigenti dello yishuv avrebbero potuto dimostrare maggiore compassione ed empatia verso gli ebrei d'Europa, è anche vero che non avrebbero potuto fare di più per salvarli. Lo yishuv era inerme di fronte al piano di sterminio nazista. A tutte queste contraddizioni il sionismo ha risposto sostenendo che, se fosse esistito uno Stato di Israele, si sarebbe potuto impedire lo sterminio degli ebrei d'Europa. «Noi, soldati delle Forze di difesa israeliane, venuti in questo luogo cinquant'anni più tardi, troppo tardi forse» disse il capo di Stato maggiore Ehud Barak durante una visita ad Auschwitz. E il primo ministro Yitzhak Shamir dichiarò: «Il dovere
supremo dello Stato di Israele è di essere pronto a difendere il popolo ebraico ovunque sia oppresso». Nel 1991, quando furono tratte in salvo diverse migliaia di ebrei etiopi, la prima, spontanea reazione di Israele fu: se solo avessimo avuto un nostro Stato durante la seconda guerra mondiale, avremmo potuto salvare anche gli ebrei d'Europa. Naturalmente è una dichiarazione d'intenti, una cosa ben diversa dalla realtà storica; tuttavia è la spia della difficoltà degli israeliani a distinguere la retorica dalla realtà. L'Olocausto non fornì soltanto una giustificazione politica per la creazione dello Stato di Israele, ma divenne anche la giustificazione culturale di alcuni aspetti del programma sionista. I leader dello yishuv volevano costruire una nazione nuova, recidendo il cordone ombelicale con i duemila anni di oppressione che avevano segnato la storia del giudaismo diasporico. L'«ebreo nuovo» che il sionismo intendeva creare doveva essere l'opposto dell'«ebreo vecchio» perseguitato e sottomesso, che si guadagnava da vivere con il commercio. La nuova società sionista si immaginava creativa, socialista e laica, capace di infondere nei suoi figli l'orgoglio della sovranità e la forza per difendere se stessi e il proprio onore. La realtà si dimostrò più complessa. L'«uomo nuovo» non aveva profondità: non aveva un passato, non aveva legami con la storia ebraica e con l'esperienza di gran parte degli israeliani. I fondatori di Israele ripristinarono la lingua ebraica nella sua versione sefardita, ma il loro sogno si realizzò soltanto in parte. Moltissimi immigrati, i sopravvissuti dell'Olocausto, ma anche quelli provenienti dal mondo islamico, non andarono in Israele per sfuggire all'Esilio, ma perché non avevano altro rifugio. Erano profughi, non sionisti. Molti perciò non si dimostrarono affatto entusiasti all'idea di abbandonare la propria cultura e identità di ebrei per assumere quella incerta dell'«uomo nuovo». Si capì ben presto che non si potevano cancellare duemila anni di storia. Non solo lo si capì, ma nel corso degli anni si accentuarono le somiglianze fra il modo di vivere nello Stato sovrano di Israele e quello delle comunità ebraiche tradizionali di tutto il mondo. Israele era un paese isolato, separato dal resto del Medio Oriente, diverso dalle altre nazioni per religione, cultura, valori e mentalità. Viveva costantemente nell'insicurezza. E più volte è stato costretto a
dipendere per la sua sopravvivenza dall'aiuto del mondo esterno, compreso quello degli ebrei ricchi e influenti che vivono all'estero. La legislazione israeliana trae sempre più spesso ispirazione dalla legge ebraica tradizionale. E dunque anche i cittadini di Israele, come gli ebrei della Diaspora, hanno finito per avere una duplice identità: sono israeliani ed ebrei. Non sono certo «uomini nuovi». Si comprende così come mai tanti israeliani siano rimasti attaccati alle loro radici ebraiche e come tanti altri abbiano cercato di riscoprirle. Alcuni hanno trovato la via per ricollegarsi al passato nei circoli ultraortodossi e non sionisti; altri, unendo religione e sionismo, sono andati a colonizzare i Territori occupati durante la guerra dei Sei giorni. Altri ancora hanno abbandonato Israele, emigrando soprattutto negli Stati Uniti, dove esiste la più grande comunità ebraica del mondo. Molti hanno ripreso i cognomi originali, che avevano ebraicizzato all'arrivo in Israele. Sono tutte scelte radicali, impegnative e difficili. La consapevolezza emotiva e storica dell'Olocausto rappresenta invece una strada molto più facile per rientrare nell'alveo della storia ebraica, una strada che non impone necessariamente obblighi personali e morali. Il «retaggio dell'Olocausto» è dunque soprattutto un modo per gli israeliani non religiosi di esprimere il loro legame con la storia dell'ebraismo. Il suo peso nella vita quotidiana è cresciuto man mano che Israele è diventato più «ebreo» e meno «israeliano». Dagli anni Ottanta in poi non è passato un solo giorno senza che qualche giornale parlasse dell'Olocausto, e l'Olocausto è uno degli argomenti più spesso trattati nei romanzi, in poesia, nel teatro, nel cinema e alla televisione. Ogni tanto nascono nuovi centri per lo studio di qualche suo aspetto particolare, come quello riguardante le sofferenze psichiche reali e presunte dei figli dei superstiti. Negli anni Cinquanta e Sessanta la fortezza di Masada, simbolo della rivolta e dell'orgoglio ebraico, era un luogo di pellegrinaggio per i giovani israeliani: le recluto scalavano le pareti a strapiombo della grande roccia e in cima alla sua spianata giuravano fedeltà all'esercito, ricevendo in dotazione il fucile. Oggi per molti il posto di Masada è stato preso dal Muro del pianto a Gerusalemme. Decine di migliaia di studenti sono già stati in pellegrinaggio nei campi della morte in Polonia e molti altri li seguiranno. Al ritorno, nove su dieci hanno
dichiarato che il viaggio verso i luoghi dell'Olocausto ha rafforzato la loro identità di israeliani. Tutte le ricerche confermano che la consapevolezza dell'Olocausto sta crescendo. Un'inchiesta sull'identità israeliana condotta nel 1992 fra gli studenti della facoltà di pedagogia ha rivelato che quasi 1'80 per cento degli intervistati si riconosceva nell'affermazione «Siamo tutti superstiti dell'Olocausto». Il poeta Oded peled (che non ha alcuna parentela con il generale), nato in Israele, ha scritto: «Mamma, sono con te a Bergen-Belsen ...Sono sempre là con te: noi siamo là, io e te, mamma. Io e te e la terribile neve che resterà con noi, per sempre»." L'Olocausto occupa ormai un posto nell'immagine che tutti gli israeliani hanno di sé, indipendentemente dal fatto che siano discendenti degli ebrei europei o di quelli provenienti dai paesi arabi. E' diventato una componente talmente essenziale che alla Knesset un parlamentare druso, Zeidan Atshi, ha rivendicato il diritto a condividerne il retaggio. Accadde durante un diverbio fra il primo ministro Begin e un deputato. Begin tirò fuori come sempre l'Olocausto. Quando Atshi intervenne, Begin gli intimò di non immischiarsi: «E' una discussione fra due ebrei» gridò. Atshi si offese a morte. «E io che cosa ci faccio qui, allora?» protestò, come se la condivisione dell'eredità dell'Olocausto facesse parte dei diritti civili. Oggi la consapevolezza dell'Olocausto, al pari della religione e dell'ideologia sionista, svolge un ruolo primario nel dibattito sui valori fondamentali cui dovrebbe ispirarsi la società israeliana. Secondo alcuni sarebbe meglio che gli israeliani dimenticassero l'Olocausto, dal momento che ne traggono insegnamenti sbagliati. Certo, la scuola e le celebrazioni ufficiali alimentano spesso lo sciovinismo e l'idea che lo sterminio nazista giustifichi qualsiasi azione purché giovi alla sicurezza di Israele, compresa la repressione della popolazione palestinese nei Territori occupati. Alla radice di questo atteggiamento c'è la nozione che l'Olocausto impone l'esistenza di uno Stato israeliano forte e che nessun paese ha titolo per ricordare a Israele gli imperativi morali, compreso il rispetto dei diritti umani, dal momento che nessuno di essi è riuscito a salvare gli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Affermare, come fa l'ideologia sionista, che l'Olocausto era inevitabile e stabilire un'identità fra l'ebreo e l'eterna vittima
potrebbe indurre gli israeliani a concludere che la loro esistenza dipende soltanto dalla forza militare e renderli perciò meno disponibili a correre i rischi connessi a una soluzione pacifica di compromesso. Paradossalmente, questa interpretazione fatalistica dell'eredità dell'Olocausto ostacola la realizzazione del sogno sionista, il sogno che gli ebrei diventino infine una nazione come tutte le altre, un paese come tutti gli altri. Parlare dei rischi che comporta il culto della memoria non significa però sostenere che gli israeliani farebbero bene a dimenticare l'Olocausto. Non possono e non devono dimenticare. Quello che devono fare è trarne conclusioni diverse. L'Olocausto chiede a tutti noi di tutelare la democrazia, combattere il razzismo e difendere i diritti umani. Conferma e rafforza la legge israeliana che impone a ogni soldato di non obbedire a un ordine palesemente illegittimo. Certo non sarà facile inculcare gli insegnamenti umanistici dell'Olocausto finché Israele lotterà per difendersi e per giustificare la propria esistenza. Ma farlo è essenziale. E' questo il compito del settimo milione.
RINGRAZIAMENTI Ho scritto questo libro, come i miei due precedenti, su invito della Domino Books Press di Gerusalemme. Poiché mi ha richiesto molto più tempo di quanto avessi preventivato, il mio primo ringraziamento va a Deborah Harris, editore, agente e amica, per la pazienza e l'incoraggiamento. Ho consultato migliaia di documenti, molti dei quali ancora inediti, e non posso che parlare bene degli archivi storici israeliani: ovunque ho trovato grande disponibilità e buoni consigli. Sono grato in particolare al personale delle seguenti istituzioni: Archivio centrale sionista. Archivio nazionale. Archivio della Haganah, Archivio del partito laburista. Archivio Ben Gurion, Archivio di Hashomer Hatsair, Archivio Jabotinsky, Archivio Weizmann, Istituto per la documentazione orale dell'Università ebraica. Archivio di Yad Vashem, Archivio municipale di Tel Aviv, Archivio Aviezer Yellm per l'insegnamento ebraico in Israele e nella Diaspora, Archivio Beth Hatefutsoth e Archivio del kibbutz Hameuhad. Desidero ringraziare inoltre l'archivio fotografico dell'Ufficio stampa del governo israeliano e l'Archivio nazionale di Washington. Due capitoli del libro sono basati in parte su documenti di grande interesse e importanza, di solito non consultabili. Reuven Feurstein, Yaakov Rand e Ada Oz dell'Istituto canadese di ricerca Hadassah-WIZO, fondato da Aliyat Hanoar (Programma per l'immigrazione dei giovani), mi hanno permesso di visionare i fascicoli personali degli studenti appartenenti al movimento giovanile della Aliyah, nonché i risultati delle loro ricerche. Sono grato al compianto Avner Rom della United Restitution Organization Ltd (URO), che mi ha consentito di esaminare i fascicoli di quanti chiedevano i risarcimenti alla Germania. In entrambi i casi ho potuto consultare i documenti a condizione che, nel rispetto della privacy, nessun nome venisse mai citato. Devo naturalmente ringraziare anche molti ricercatori e scrittori. I loro nomi sono citati nelle note e, in qualche caso, all'interno del testo. Alcuni sono stati così gentili da permettermi di
consultare le proprie opere ancor prima che venissero pubblicate, cosa che ho particolarmente apprezzato. Ho beneficiato altresì della stimolante atmosfera che si respira nelle sale di lettura delle biblioteche nazionale e universitaria, oltre che della gentilezza del personale dell'eccellente biblioteca di Yad Vashem. Nel corso della mia ricerca preparatoria ho parlato con persone direttamente coinvolte nelle vicende descritte nel libro, utilizzando anche alcune interviste che avevo realizzato in precedenza nell'ambito della mia attività di giornalista. Ringrazio pertanto Uri Avneri, Yitzhak Arad, Hannah Arendt, Gabriel Bach, David Ben Gurion, Hanzi Brand, Haim Curi, Yehiel De-Nur (Katzetnik), William Hall, Isser Harel, Haim Cohen, Eliezer Lidowski, Rolf Pauis, Yossi peled, Ehud Praver, Viktor Franki, Shimon Peres, Gerhard Riegner, Dov Shilansky ed Eliahu Tabin. Sono profondamente riconoscente a tutti i superstiti dell'Olocausto, fra cui parecchi membri del kibbutz Lohamei Haghetaot, che hanno voluto confidarmi alcuni dei loro terribili ricordi. Ho imparato tanto anche dagli studenti che ho accompagnato in visita ai campi di sterminio in Polonia. Le prime versioni del manoscritto sono state lette da cinque amici: Amos Elon, Yehiam Weitz, Avraham Kushnir, Eli Shaltiel e Avi Katzman. Anche Haim Watzman, che ha tradotto il libro in inglese, mi ha offerto consigli preziosi. Sarah Bershtel, caporedattrice di Hill and Wang, si è dedicata alla lettura del testo con grande impegno e sapienza, per renderlo pienamente comprensibile ai lettori americani. Fra i suoi collaboratori ricordo in particolare David Frederickson, Roslyn Schloss, Sally Singer, Angela Quilala ed Elisheva Urbas. A tutti loro vanno i miei ringraziamenti.
NOTE. Abbreviazioni ABG Archivio Ben Gunon, Sde Boker ACS Archivio centrale sionista, Gerusalemme AN Archivio nazionale, Gerusalemme ANG Archivio Nahum Goldmann, presso ACS AL Archivio laburista lei APL Archivio del partito laburista, Bet Beri, Tsofit AYV Archivio Yad Vashem CC Comitato centrale CE Comitato esecutivo CP Comitato politico DDO Dipartimento documentazione orale DBG Diario Ben Gunon DEG Dipartimento editoriale del governo DK Deliberazioni della Knesset DPESI Documenti di politica estera dello Stato di Israele (Gerusalemme, AN) DP Dossier personale non consultabile EAE Esecutivo dell'Agenzia ebraica, presso ACS ME Ministero degli Esteri PCD Pareri della Corte distrettuale PCS Pareri della Corte suprema (Gerusalemme, ministero della Giustizia) UPM Ufficio del primo ministro VCD Verdetti della Corte distrettuale (Gerusalemme, ministero della Giustizia) «YHOG»«YediotHitahdutOle Germania/MitteilungsblattderHitachdut Ole) Germania» bollettino bilingue dell'Associazione degli immigrati tedeschi, di cui fanno parte anche gli immigrati austriaci. L'Associazione ha cambiato nome più volte. Alcuni articoli sono stati pubblicati in ebraico e in tedesco
I titoli degli articoli e dei libri pubblicati in Israele, che, se non altrimenti indicato, sono scritti in ebraico, sono stati tradotti initaliano, mentre quelli delle opere in altre lingue sono riportati nella versione originale.
Prologo. Il viaggio di Katzetnik. Le pagine seguenti sono basate in gran parte su due ampie interviste con Yehiel De-Nur, con la moglie, la figlia e il medico personale dello scrittore. Cfr Tom Segev, Il viaggio di Katzetnik, in «Koteret Rashit», n. 234,27 maggio 1987, pp. 16 sgg.; Katzetnik 135633, Sfiivitti: A Vision, San Francisco, Harper and Row, 1989 (Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1987). Cfr. anche la deposizione di Yehiel DeNur al processo Eichmann, udienza n. 68,7 giugno 1961, verbali, AYV; Haim Curi Di fronte alla gabbia di vetro, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1962, pp. 124 sge.' Tzvika Dror, Erano là. Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1992. I. «Le strade sono lastricate di soldi» 1 Tolta la bandiera rossa dal tetto del consolato tedesco di Gerusalemme, in «Hazit Haam», 2 giugno 1933, p. 1. 2 Hitler è cancelliere della Germania, in «Haaretz», 31 gennaio 1933, p.1. 3 «Haaretz», 8 febbraio 1933, p. 1. 4 B.K., Ci penserà il tempo, in «Haaretz», 8 marzo 1933, p. 2; «Haaretz», 9 aprile 1933, p. 1; Yoav Gelber, La politica sionista e l'accordo della haavarah, 1933-1935, in «Yaikut Moreshet», 17 febbraio 1974, pp. 99 sgg. 5 «Doar Hayom» (editoriale), 1° febbraio 1933, p. 2. 6 «Davar» (editoriale), 1° febbraio 1933, p. 1; 6 febbraio 1933, p. 1. 7 Yitzhak Laufban, All'ombra della svastica, in «Hapoel Hatsair», 21 marzo 1933, p. 1; S. Savorai, I leader di milioni di persone e la loro epoca, in «Hapoel Hatsair», 10 marzo 1933, p. 3. 8 Yitzhak Laufban, L'alleato di Satana, in «Hapoel Hatsair», 26 maggio 1933, p. 1. 9 H. Ben-Yeruham (Merhavia), Il libro del Betar, Tel Aviv, Havaad Lehotsaat Sefer Betar, 1973, voi. II, 1.1, p. 173.
10 Avraham Harabi, Critica delle nostre relazioni con la Germania, in «Haaretz», 17 marzo 1933, p. 8. 11 Y. Laufban, All'ombra della svastica, cit. 12 Le masse della Gerusalemme ebraica si riconoscono nella posizione antitedesca di Jabotinsky, in «Hazit Haam», 2 giugno 1933, p. 2. 13 Zeev Jabotinsky, «Il sionismo sublime», in Discorsi, 1927-1940, citato in Rafaela Bilski-Ben-Hur, Ogni individuo è un rè. Il pensiero politico e sociale di Zeev fabotinsky, Tel Aviv, Dvir, 1988, p. 221. 14 Shabtai Teveth, La terra brucia, voi. Iii: Lamentazioni di Davide, Tel Aviv, Schocken,1987, p. 437. 15 Y. Laufban, All'ombra della svastica, cit. 16 S. Teveth, op. cit., p. 284. 17 Moshe Beilinson a Beri Katznelson, 8 maggio 1933, diario di Anita Shapira, Veri, Tel Aviv, Am Oved, 1980, p. 403. 18 Arthur Ruppin, Capitoli della mia vita, voi. Iii: Costruire il paese e il popolo, 1920-1942, Tel Aviv, Am Oved, 1968, p. 222. 19 Ivi, p. 223; cfr. anche Arthur Ruppin, Sociologia degli ebrei (in ebraico), Varsavia, StibeL 1931, pp. 33 sgg. 20 A. Ruppin, Capitoli della mia vita, voi. Ili, cit., p. 322. 21 Wieviel Kostet ein Haushalt in Paldstina? (anonimo), in «Jùdische Rundschau», Berlino, 28 aprile 1933, p. 169; Moshe Beilinson, Haushaltskosten in Palestina, in «Jùdische Rundschau», 30 maggio 1933, p. 7. 22 Shaul Esh, Saggi sulle ricerche sull'Olocausto e il giudaismo contemporaneo, Gerusalemme, Università ebraica, 1973, pp. 33 sgg.; David Yisraeli, Il Reich tedesco e Israele, Tel Aviv, Università Bar-Ilan, 1974; Y. Gelber, La politica sionista e l'accordo della haavarah, 1933-1935, cit., p. 100; Yoav Gelber, Lina nuova patria, Gerusalemme, Yad Ben-Zvi, Istituto Leo Beck, 1990, pp. 32 sgg.; Werner Feilchenfeld, Dolf Michaelis e Ludwig Pinner, HaavaraliTransfer nach Palastina, Tubinga, J.C.B. Morir, Paul Siebeck, 1972, p. 31; Edwin Black, The Transfer Agreement, New York, MacMillan.1984. 23 Theodor Herzl, Lo Stato ebraico, trad. it. Genova, Il Melangolo, 1992, pp. 35 sgg. 24 David Ben Gurion e Moshe Shertok, in E. Black, op. cit., p. 294;
Golda Meyerson, in E. Black, op. cit., p. 366; Menahem Begin, in Aviezer Golan e Shiomo Nakdimon, Begin, Tel Aviv, Idanim, 1978, p. 39. .25 E. Black, op. cit., p. 248. 26 [vi, p. 379. 27 W. Feilchenfeld et al., op. cit., p. 76. 28 // dibattito sulla haavarah alla riunione del Vaad Haleumi (anonimo), in «Davar», 17 novembre 1935. 29 Y. Soker, Sull'ascesa di Hitler, in «Hapoel Hatsair», 3 febbraio 1933, p. 1. 30 Abba Ahimeir, Questioni del momento, in «Doar Hayom», 10 ottobre 1928. 31 Una giusta/ine per l'esortazione alla pace di Magnes-Bentwitch, in «Hazit Haam», 6 maggio 1932, p. 4. 32 Abba Sikra, La terza organizzazione sionista, in «Hazit Haam», 28 marzo 1933, p. 2. 33 «Hazit Haam» (editoriale), 31 marzo 1933, p. 1. 34 Yosef B. Schechtman, Zeev Jabotinsky, Tel Aviv, Kami, 1956, II, p. 283 (include anche la risposta del direttore di «Hazit Haam»); Zeev Jabotinsky, discorso alla radio polacca, ristampato in «Hauma», n. 1 (5), giugno 1963, p. 56; Le masse della Gerusalemme ebraica..., cit., p. 2. 35 Citato in Y. Gelber, La politica sionista e l'accordo della haavarah, 1933-1935, cit, p. 129. 36 Il trasferimento ignoto, in «Hayarden», 10 novembre 1935, p. 1; La vergogna della liaavarah, in «Hayarden», 13 novembre 1935, p. 2. 37 David Ben Gurion a Heschel Frumkin, 16 settembre 1930, in Yehuda Erez (a cura di). Le lettere di Ben Gurion, Tel Aviv, Am Oved, 1974, voi. Ili, p. 145. 38 Chaim Weizmann a Felix M. Warburg, 11 dicembre 1930, in Barnet Litvinof (a cura di), Tlie Letters and Papers of'Chaim Weizmann, New Brunswick, N.J., Transaction Books, Rutgers University, 1978, vol. XV, p. 65; Weizmann a Morris Rotenberg, 31 gennaio 1931, in B. Litvinof, op. cit., p. 98. 39 Yitzhak Laufban, Questioni del giorno, in «Hapoel Hatsair», 23 settembre 1932, p.l.
40 Zeev Jabotinsky, La svastica rossa, in «Hazit Haam», 4 novembre 1932, p. 2. 41 David Ben Gurion a Beit Haam (Tel Aviv), 18 febbraio 1933. La versione integrale del discorso è pubblicata, con il titolo Contro i crumiri a Frumkin e a Petah Tikvah, in «Davar», 21 marzo 1933. 42 David Ben Gurion a Haim Guri, 15 maggio 1963, ABG, citato in Michael Bar-Zohar, David Ben Gurion, Tel Aviv, Am Oved, 1978, voi. IH, pp. 15-16. Cfr. anche Ben Gurion a Eliahu Dobkin (in cui si paragona Jabotinsky a Hitler), 11 aprile 1933, in Y. Erez, op. cit., p. 572; S. Teveth, op. di., p. 163; Uri Zvi Greenberg, La hitlerata di Arlosoroff, in «Die Welt», 7 (in yiddish, Varsavia), 9 giugno 1933; Yohanan Pogravinski, Il patto Stalin-Ben Gurion-Hitler, in «Hazit Haam», 16 giugno 1933, p.2. 43 A. Shapira, op. cit., p. 403. 44 Y. Laufban, L'alleato di Satana, cit., p. 1; Y.B. Schechtman, op. cit., voi. I, p. 422. 45 David Ben Gurion al CP del Mapai, 19 novembre 1933, APL, 23/33. 46 Y. Pogravinski, op. cit., p. 2. 47 Shabtai Teveth, L'assassinio di Arlosoroff, Tel Aviv, Schocken, 1982; Stato di Israele, Rapporto della commissione d'inchiesta sull'assassinio del dottor Haim Arlosoroff, 1985. 48 Y. Gelber, La politica sionista e l'accordo della haavarah, 19331935, cit.; David Yisraeli. The Third Reich and Israel, in «Journal of Contemporary History», n. 6,1971, pp. 129-148; Eliahu Ben-Elisar, II piano di sterminio. La politica estera del Terzo Reich e gli ebrei, 1933-1939, Tel Aviv, Idanim, 1978. 49 /; dibattito sulla haavarah..., cit., p. 4. 50 Ibid. 51 Ibid. 52 Rabbi Benyamin, Pacato e ponderato, in «Doar Hayom», 13 dicembre 1935, p. 2. 53 Il dibattito sulla haavarah..., cit., p. 4. 54 David Ben Gurion all'EAE, 23 novembre 1935, ACS. 55 B.D., Questioni del giorno, in «Doar Hayom», 13 dicembre 1935, p. 2. 56 Il discorso di Ben Gurion al Vaad Haleumi (anonimo), in
«Haboker», 17 dicembre 1935, p.1. 57 Yitzhak Gruenbaum all'EAE, 13 novembre 1938, ACS. 58 Yitzhak Gruenbaum all'EAE, 11 marzo 1937, ACS. 59 David Ben Gurion al CC del Mapai, 7 dicembre 1938, APL. 60 Shabtai Teveth, Ben Gurion e l'errore dell'Olocausto, in «Haaretz», 10 aprile 1987, p.B5. 61 Arthur Ruppin, L'insediamento degli ebrei tedeschi in Israele, in «Davar», 1° settembre 1933, p. 6; Georg Landauer al dottor Hartenstein, 17 agosto 1933, ACS, S/784. 62 Citato in Y. Gelber, Una nuova patria, cit., p. 131 63 Il discorso di Ben Gurion al Vaad Haleumi, cit., p. 1 64 E. Black, op. cit., p. 329 65 S. Esh, op. cit., pp. 47 sgg.; E. Black, op. cit., pp. 348 sgg 66 S. Esh, op. cit., pp. 54-55; Menahem Begin, 15 maggio 1963, DK, XXXVII, p 1859 67 John e David Kimche, Secret Ways: The Migration ofa Nation «in Violation of the Law» 1938-1948, Gerusalemme, Jerusalem Post, 1955, pp. 21 sgg 68 David Ben Gurion e Arthur Ruppin agli aventi diritto, 21 gennaio 1935, ACS, S/7219 69 Rapporto Tuchler, Eriebnisse una Beobachtungen in den ersten vier Hitler-jahren, s.d.,AYV, 01/24 70 Von Lim (Leopold Itz von Mildenstein), Ein Nazifdhrt nach Palastina, in «Der Angriff», 26 settembre - 9 ottobre 1934; Jacob Boas, A nazi travels to Palestine, in «History Today», n. 30, gennaio 1980, p. 33; Yehuda Koren, Sionazista, in «Monitin», n. 112, gennaio 1988, pp. 26 sgg 71 Rapporto Tuchler, cit 72 Interrogatorio Eichmann, polizia israeliana, sede centrale nazionale, ufficio 06, «Adolf Eichmann», I, pp. 91 sgg.; rapporto sulla visita (reperto n. 37 presentato dall'accusa al processo Eichmann), AYV; verbali del processo Eichmann, udienza 18,24 aprile 1961, pp. 48 sgg., AYV; deposizione di Dieter Wisliceny, AYV (6) TR 3; fascicolo Folkes, Archivio Haganah, 119, archivi privati; Alex Doron, Folkes, l'uomo del mistero, in «Maariv» (supplemento domenicale), 5 agosto 1988, pp. 26 sgg 73 Teddy Kollek, Gerusalemme, la città santa dell'umanità, trad. it.
Milano, Mondadori, 1968, p. 35; su un altro incontro fra un rappresentante dell'Agenzia ebraica e Adolf Eichmann, cfr. Ehud Avriel, Porte aperte, Tel Aviv, Sifriat Maariv, 1976, pp. 76 sgg.; cfr. anche Dov Goldstein, Cinque incontri con Eichmann, in «Maariv», 27 giugno 1960, p. 6; e Il ministro Shapira lo incontrò nel 1938, in «Maariv», 24 maggio 1960, p. 2 74 J. e D. Kimche, op. cit., p. 46 75 Testimonianza del dottor Walter Shen, di Hans Friedenthai e di Leo David (raccolta Bal-Kaduri), AYV, 01/229; 01/130; 01/277 76 E. Black, op. cit., p. 131 77 Avviso ciclostilato, 29 giugno 1932, Istituto Jabotinsky, B-21 (circolari) 78 Raccolta di opuscoli del Betar provenienti dalla Germania, Istituto Jabotinsky, B-21; H. Ben-Yeruham, op. cit., voi. I, p. 528 79 H. Ben-Yeruham, op. cit., voi. I, p. 350 80 La partecipazione degli ebrei alle Olimpiadi di Berlino: facoltativa oppure obbligatoria?, in «Haaretz», 1° luglio 1936, p. 2; si vedano anche gli editoriali nelle pagine sportive di «Haaretz» del 3 e 14 luglio 1936, rispettivamente alle pp. 7 e 14 81 H. Ben-Yeruham, op. cit., voi. II, p. 799 82 Shiomo Lev-Ami (Levi), Lotta e rivoluzione. La Haganah, l'Etzel e il Lehi (19181948), Tel Aviv, Ministero della Difesa, p. 148; Natan Yellin-Mor, I combattenti della libertà in Israele. Persone, idee e avventure, Haifa, Shikmona, 1975, pp. 71-84; Yosef Heller, Lehi 1940-1949, Gerusalemme, Keter, 1989, pp. 125 sgg 83 N. Yellm-Mor, op. cit.. p. 73 84 Sulla bozza del manifesto cfr. ACS, S/7 321, e «Davar», 6 dicembre 1935. s5 David Ben Gurion a Kfar Yedidya, 6 novembre 1943, APL, 15/43
II. «Un figlio dell'Europa» 1 Le cifre provengono da differenti stime. Le variazioni dipendono anche dai metodi di calcolo adottati, a seconda cioè che siano basati sull'origine, la cittadinanza o le frontiere mobili del Reich. Un'analisi statistica dettagliata dell'emigrazione degli ebrei tedeschi si trova in: Herbert A. Strauss, «Jewish Emigration from Germany: Nazi Policies and Jewish responses», pubblicato in due parti nel 1980 e nel 1981 in Leo Beck Institute Yearbooks, Londra, Secker & Warburg, rispettivamente pp. 313 sgg. e 343 sgg.; Èva Belling, Die Gesellschaftliche Eingliederung der Deutschen Einwanderer in Israel, Francoforte, Europàische Verlagsanstalt, 1967; Y. Gelber, Una nuova patria, cit., pp. 51 sgg.; Shiomo Erel, Gli yekke: 50 anni di immigrazione, Gerusalemme, Reuven Mass, 1985, pp. 33 sgg.; Miriam Getter, L'immigrazione dalla Germania negli anni 19331939. L'integrazione socioeconomica a confronto con l'integrazione socioculturale, in «Kathedra», n. 12, luglio 1979, pp. 125 sgg. Cfr. anche Moshe Sikron, L'immigrazione in Israele 1948-1953, Gerusalemme, Centro Falk, 1957, pp. 14 sgg. («L'immigrazione sotto il mandato britannico»), Pp. 105 sgg., nonché la bibliografia 2 S. Erel, op. cit., p. 12 3 Ivi, p. 445; cfr. anche Richard Willstàtter, From My Life, New York, W.A. Benjamin, 1965; Ronald W. Clark, Einstein: The Life and Times, New York, World, 1965, pp.474 sgg 4 Zweig a Freud, 21 gennaio 1934, in Sigmund Freud, Arnold Zweig, Lettere sullo sfondo di una tragedia, trad. it. Venezia, Marsilio, 2000, p. 97 Sibid 6 Zweig a Freud, 12 agosto 1934, ivi, pp. 124-126 7 Zweig a Freud, 1° settembre 1935, ivi, pp. 144-145 8 Zweig a Freud, 22 novembre 1935, ivi, p. 149 9 Zweig a Freud, 15 febbraio 1936, ivi, pp. 155-156 10 Zweig a Freud, 22 novembre 1935, ivi, pp. 147-149 11 Zweig a Freud, 15 febbraio 1936, ivi, pp. 155-156
12 Zweig a Freud, 1° febbraio 1937, ivi, pp. 169-170; e Zweig a Freud, 21 marzo 1937, ivi, pp. 172-172, e altre 13 Freud a Zweig, 21 febbraio 1936, ivi, pp. 156-157 14 Zweig a Freud, 23 marzo 1939, ivi, pp. 207-208 15 Zweig a Freud, 16 luglio 1938, ivi, pp. 194-196 16 Ivi, p. 195 17 Zweig a Freud, 8 agosto 1939, ivi, pp. 209-210 18 Freud a Zweig, 28 giugno 1938, ivi, pp. 193-194; e Freud a Zweig, 5 marzo 1939, ivi, pp. 206-207 19 Arnold Zweig, Verwurzelung, in «Orient», 3 luglio 1942, p. 2 20 Zeev Tsahor, «Ben Gurion e la haapalah», 1934-1948», in Benyamin Pinkas (a cura di). Politica esteuropeafra Olocausto e riabilitazione, Be'er Sheva, Università Ben Gurion, 1987, pp. 422 sgg 21 Dan Michman, Zeev Jabotinsky. Il programma di evacuazione e il problema della prevenzione dell'Olocausto, in «Kivunim», n. 7, maggio 1980, pp. 119 sgg 22 Yohanan Bader, 26 dicembre 1949, KP, IH, p. 319 23 Shmuel Dotan, Il dibattito sulla spartizione durante il periodo del mandato, Gerusalemme, Yad Ben-Zvi, 1980 24 H. Ben-Yeruham, op. cit., voi. II, 2, pp. 799 sgg 25 Chaim Weizmann a Bianche Dagdale, 1c dicembre 1935, in B. Litvinof, op. cit 26 Associazione immigrati tedeschi all'Ufficio immigrazione, 29 dicembre 1933, ACS, S/26 2564 27 Ufficio immigrazione all'Ufficio della Palestina a Berlino, 28 novembre 1934, ACS,S/7149 28 Henrietta Szold a Georg Landauer, 19 agosto 1934, ACS, S/7 70, e altri. Cfr. anche Associazione immigrati tedeschi a Henrietta Szold, 11
gennaio 1934, ACS, S/7 563 S/7 78 29 Georg Landauer all'Ufficio immigrazione, 12 marzo 1934, ACS, S/7 70 30 Martin Rosenblùt a Georg Landauer, 27 ottobre 1937, ACS, S/7 581; Walter Ettinghausen a Leo Cohen, 20 settembre 1938, ACS, S/25 2482 31 Werner Senator all'Ufficio della Palestina a Berlino, 30 gennaio 1935, ACS, S/7142 32 Verbale della riunione del 6 gennaio 1935, ACS, S/25 2576 33 Yitzhak Gruenbaum a Nahum Goldmann, 16 ottobre 1935, ACS, S/7 3637 34 Citato da Y. Gelber, Una nuova patria, cit., p. 136 35 Eliahu Dobkin a Martin Rosenblùt, 15 gennaio 1936, ACS, S/6 3637 36 Arthur Handke a Martin Rosenblùt, 24 aprile 1933, ACS, L/13 138. Cfr. anche memorandum di Ernst Levi, 19 ottobre 1934, ACS, S/7 26 Note 479 37 Yehoshua Heschel Farbstein all'EAE, 14 luglio 1933, ACS 38 Arthur Ruppin e Yehuda Leib Fischman all'EAE, 29 novembre 1936, ACS 39 Werner Senator e Yitzhak Gruenbaum all'EAE, 29 novembre 1936, ACS 40 Yitzhak Gruenbaum all'EAE, 22 marzo 1936, ACS 41 Ufficio immigrazione agli Uffici della Palestina, 1° novembre 1938, ACS, S/7 790 42 Ufficio immigrazione agli Uffici della Palestina, 28 novembre 1934, ACS, S/7 149 43 Wieviel Kostef... ?, cit.; M. Beilinson, ari. cit.; S. Erel, op. cit., pp. 149 sgg.; Margarete Turnowsky-Pinner, Die zweite Generation
mitteleuropdischer Siedier in Israel, Tubinga, I.C.B. Mohr, Paul Siebeck, 1962, pp. 48 sgg.; M. Getter, ari. cit., p. 126; Aharon Kedar, L'immigrazione tedesca come opposizione apolitica nel movimento dei kibbutz durante la quinta Alii/ah, in «Kathedra», n. 16, luglio 1980, pp. 137 sgg.; Y. Gelber, Una nuova patria, cit., pp. 317 sgg 44 Wieviel Kostet... ?, cit.; M. Beilinson, ari. cit 45 Le malattie di questo paese, in «YHOG», numero speciale, giugno 1936 46 Ricerca condotta dal dottor P. Lander, 30 novembre 1933; P. Karmeli al kibbutz Givat Hashiosha, 13 settembre 1934, ACS, S/7 83, e altri 47 E. Belling, op. cit., p. 87 48 Doron Niderland, «L'influenza dei medici immigrati dalla Germania sui progressi della medicina israeliana, 1948-1973», tesi di laurea, Gerusalemme, Università ebraica, 1982, p. 24 49 Hermann Zondek, Aiif Festem Fusse, Erinnerungen eines Judischen Klinikers, Stoccarda, Deutsche Verlagsanstalt, 1973, pp. 163 sgg 50 D. Niderland, op. cit., pp. 77 sgg 51 Ruth Bondi, Shiba, Tel Aviv, Zmora Bitan Modan, 1981, p. 91 52 Max Kreutzberger (Associazione immigrati centroeuropei), memorandum, novembre 1941, ACS, S/7 2105 53 A. Kedar, ari. cit., p. 140; Associazione immigrati tedeschi, relazione sulla visita a Petali Tikvah, 9 maggio 1934; Moshe Brechman a A. Levi, 27 settembre 1934,-ACS, S/7 83, e altri; conferenza di Moshe Brechman presso l'Associazione immigrati tedeschi, 24 gennaio 1935, ACS, S/7 118 54 Esecutivo dell'Organizzazione sionista. Il XIX Congresso sionista:
resoconto stenografico, Tel Aviv, Dvir, 1937, p. 333 55 Menahem Ussishkin al Consiglio centrale per la supremazia dell'ebraico, settembre 1941, ACS, S/7 2081 56 A. Beilin, I nostri yekke, in «Davar», 12 settembre 1941, p. 2 57 M.Y. Ben-Gabriel, EHI Wori an die Einwanderer aus Deutschland, in «Judische Rundschau», Berlino, 12 settembre 1933, p. 511; David Ben Gurion alla giornata di studio dei militanti immigrati dall'Europa occidentale, Kfar Yedidya, 6 novembre 1943 (risposta agli interventi, p. 6), APL, 15/43 58 Gli ebrei tedeschi e lo yishuv (anonimo), in «YHOG», 10 marzo 1939, p. 1 59 Intervento di Y. Sandbank alla Conferenza ebraica degli immigrati tedeschi, Tel Aviv, marzo 1935. Associazione immigrati tedeschi. La questione dell'attività culturale, opuscolo n. 3,1935; Martin Buber, Dos Ende der deutsch-judischen Symbiose, in «YHOG», 10 marzo 1934, pp. 5 sgg 60 Ozer Ben-David, Gli ebrei tedeschi in Palestina, in «Davar», 20 agosto 1933, p. 3; Nagi Margalit-Auerbach, Il vostro dovere verso gli immigrati, in «Davar», 9 ottobre 1933,p.3. 61 Azriel Karlebach, «Che aria tirava», in Annuario dei giornalisti. Tel Aviv, Agudat Haitonaim, 1943, p. 89 62 S. Bach, Gli ebrei tedeschi in Palestina, in «Davar», 1° settembre 1933, p. 7 63 Avivi, Il sionismo del cuore e il sionismo come carriera, in «Haboker», 20 febbraio 1941, p.2 64 A. Beilin, ari. cit., p. 2 65 Memorandum e corrispondenze sull'argomento in ACS, S/7 464
e S/7 614 66 Corrispondenza varia nell'Archivio storico municipale di Tel Aviv, divisione 4, fascicoli 5/A (89) e 5/A (91) 67 Meir Dizengoff a Haim Bograshov, 20 febbraio 1934, Archivio storico municipale di Tel Aviv, divisione 4, fascicolo A/5 (89) 68 B. Krugliakov a Moshe Kaspi, 19 giugno 1944, Archivio storico municipale di Tel Aviv, divisione 4, fascicolo 5/A (91) 69 Verbali del Consiglio centrale per la supremazia dell'ebraico, analisi delle attività del comitato, Heshvan-Av 5701 (1941), ACS, S/7 2081 70 Un atto intollerabile (anonimo), in «Haaretz», 13 marzo 1939, p. 4; Robert Weltsch, A proposito dello «Jùdische Rundschau», in «Haaretz», 14 marzo 1939, p. 3; Dichiarazione dell'Associazione immigrati tedeschi e dell'Associazione immigrati austriaci, in «Haaretz», 24 marzo 1939, p. 3 71 Max Jacobson (Megged), La questione della stampa in lingua estera, in «Haaretz», 9 marzo 1941, p. 2 72 Verbale della riunione dei rappresentanti del Consiglio centrale per la supremazia dell'ebraico con i rappresentanti dell'Associazione immigrati tedeschi e austriaci, 20 marzo 1941, con relativi documenti; verbale della riunione del presidium del Consiglio centrale per la supremazia dell'ebraico, 22 aprile 1941, ACS, S/7 2081 73 Menahem Ussishkin alla riunione del presidium del Consiglio centrale per la supremazia dell'ebraico, 22 aprile 1941, ACS, S/7 2081 74 Walter Preuss alla giornata di studio per i militanti immigrati dall'Europa occidentale, Kfar Yedidya, 6 novembre 1943, dibattito
sul discorso di Ben Gurion, p.3,APL,15/43 75 S; stanno suicidando (anonimo), in «YHOG», agosto 1939,1, p. 16 76 A. Beilin, art. cit 77 Yeshayahu Wolfsberg, Gli immigrati tedeschi e la questione culturale, in «YHOG», 10 marzo 1939, p. 1 78 La virtù del tatto nella vita pubblica (anonimo), in «YHOG», ottobre 1939, p. 12 79 Associazione immigrati tedeschi e austriaci, in collaborazione con l'Associazione immigrati cecoslovacchi e l'associazione religiosa Emet Veemunah di Gerusalemme: corsi del beit midrash amami per l'estate del 1942; cfr. anche «YHOG», numero speciale in lingua ebraica, aprile 1935,1, p. 6; La posizione dell'Associazione immigrati tedeschi e austriaci, in «Haaretz», 9 marzo 1941, p. 3 80 Gli ebrei tedeschi sono colpevoli, in «YHOG», ottobre 1939, p. 12 81 Gustav Krojanker, /'accuse, in «Haaretz», 16 marzo 1941, p. 2; Id., Tolleranza o estremismo?, in «Haaretz», 23 marzo 1941, p. 2 82 Franz Eisenberg, Zur methodik des Hebraischen, in «YHOG», 24 gennaio 1941, p.2 83 Alexander Zak, Kampf um Hebraisch, in «YHOG», 24 gennaio 1941; Sonja Gottgetreu, Zum Thema Jaecke, in «YHOG», 10 ottobre 1941, p. 4 84 Intervento di Y. Sandbank alla Conferenza ebraica degli immigrati tedeschi, cit.; Associazione immigrati tedeschi. La questione dell'attività culturale, cit Note 481
85 Ernst Simon, Deutsche fuden in Eretz Israel, in «Jùdische Rundschau», Berlino, 10 marzo 1933, p. 97 86 Joseph Marcus, Tozereth Haaretz, in «YHOG», febbraio 1938,1, p. 5; Mangerete il vostro pane nei baccano (anonimo), in «YHOG», agosto 1939, n; G. Stuiz, J libri in ebraico e gli immigrati tedeschi, in «YHOG», settembre 1936,1, p. 16 87 Y. Wolfsberg, art. cit 88 Georg Landauer a Moshe Shertok, 15 aprile 1934, ACS, S/7 83 89 G. Krojanker, art. cit 90 C.Z. Klòtzei, Das Antijeckentum, in «YHOG», 3 ottobre 1941, p. 6 91 David Ben Gurion a Kfar Yedidya, 6 novembre 1943, replica, p. 7, APL, 15/43 92 Gustav Krojanker, Haavarah. La cartina di tornasole del movimento sionista, opuscolo n. 4 dell'Associazione immigrati tedeschi, 1936, pp. 4 sgg.; Per la haavarah, in «YHOG», novembre 1935, II, p. 24 93 Aufnif! (anonimo), in «YHOG», dicembre 1935,1, p. 3 94 Dan Horowitz e Moshe Lisak, Dallo yishuv allo Stato. Gli ebrei di Palestina come comunità politica durante il mandato britannico, Tel Aviv, Am Oved, 1977, p. 335 95 David Ben Gurion a Kfar Yedidya, 6 novembre 1943 (soprattutto p. 8) e la sua replica agli intervenuti (soprattutto p. 3), APL, 15/43; S. Goralik, A causa del sionismo oppure a causa delle tribolazioni?, in «Haaretz», 29 dicembre 1939, p. 2; Siinden gegen den Einwanderer (anonimo), in «YHOG», 28 febbraio 1941, p. 2 96 Judische Vornamen-Wichtig fùr deutsche Staatsangehorige im Ausland, in «YHOG», n. 5,1938, pp. 10 sgg.; Fritz Stein al consolato tedesco a Gerusalemme, 6 novembre 1938, AN, P/1080/500 97 L'autorità e l'individuo (anonimo), in «YHOG», agosto 1939, II, p. 12
98 David Ben Gurion a Kfar Yedidya, 3 novembre 1943, discorso inaugurale, pp. 3 sgg., APL, 15/43 99 Susan Lee Hattis, The Bi-National Idea During Mandatory Times (in inglese), Haifa, Shikmona, 1970 100 «YHOG», 8 dicembre 1944, p. 1 101 Erich Goldstein a Felix Rosenblùth, 26 giugno 1947, ACS, J/18 44 102 Felix Rosenblùth a una riunione dell'esecutivo di Aliyah Hadasha, 1° gennaio 1948, ACS, J/18 38 103 Gustav Krojanker, Isolamento o ponte verso gli altri?, in «Haaretz», 20 luglio 1942, p. 2; Wer ist der glehrige Hiller-Schuler? (anonimo), in «YHOG», 14 agosto 1942, p.4 104 Ruth Bondi, Felix, Tel Aviv, Zmora Bitan, 1990 105 Georg Landauer a Felix Rosenblùth, 31 gennaio 1948, ACS, J/18 45; Pinhas F. Rosen, «Aus Erinnerungen an die Jahre 1939-1948», in Hans Trammer, a cura di, In Zwei Welten, Tel Aviv, Bitaon, s.d., pp. 271 sgg 106 Shimon Kanowitz, Il cambio generazionale, in «Deot» (edizione ebraica di «YHOG»), maggio 1960, p. 5 107 Georg Landauer a Martin Rosenblùt, 17 novembre 1938; cfr. anche Erich Rot, memorandum sulla raccolta di denaro per riscattare i prigionieri austriaci e tedeschi, 25 gennaio 1939, ACS, S/7 756; Georg Landauer a Kurt Blumenfeld, 26 agosto 1941, ACS, S/7 913 108 Georg Landauer a Kurt Blumenfeld, 18 marzo 1943, ACS, S/7 2016 «Rommel, Rommel, come va?» 1 S. Goralik, Il buon soldato Svejk e il manifesto per l'arruolamento, m
«Haaretz», 13 settembre 1939, p. 2 2 Haviv Canaan, Duecento giorni di paura, Tel Aviv, Mol Art, 1974, p. 137 3 Georg Landauer a Kurt Blumenfeld, 18 marzo 1943, ACS, S/7 2016 4 David Horowitz, Lo sviluppo dell'economia israeliana, Gerusalemme, Istituto Bialik, Dvir, 1948; Nadav Halevy, «Lo sviluppo economico dello yishuv ebraico, 1917-1947», conferenza n. 7914, Gerusalemme, Centro Falk, 1979.' 5 Moshe Sharett all'EAE, 27 aprile 1941, ACS; Uri Brenner, a cura di. La minaccia dell'invasione tedesca della Palestina negli anni 19401942. Fonti e testimonianze, Tel Aviv, Yad Tabenkin, 1984, p. 61 (Levi Eshkol) 6 H. Canaan, op. cit., p. 137 7 Ivi, pp. 137,139,168, 209 8 Moshe Sharett all'EAE, 8 giugno 1941, ACS 9 H. Canaan, op. cit., p. 210 (India); U. Brenner, op. cit., p. 25 (USA), pp. 47 sgg. (piani per l'evacuazione degli insediamenti); deliberazioni dell'EAE, 30 giugno 1942, ACS (evacuazione) 10 U. Brenner, op. cit., p. 38 (Aran), p. 40 (Yaari) 11 «Proposte per la pace» (documento anonimo, senza data), ACS, S/25 4752 12 Werner Senator all'EAE, 30 giugno 1942, ACS; Dina Porat, Una leadership intrappolata, Tel Aviv, Am Oved, 1986, p. 57 13 Yehuda Bauer, La diplomazia e la clandestinità, Tel Aviv, Sifriat Poalim, 1963, pp. 144 sgg.; U. Brenner, op. cit., pp. 58 sgg., 138 sgg 14 Copia manoscritta, senza data, siglata YBZ (Yitzhak Ben-Zvi?), ACS, S/25 4752; Moshe Sharett all'EAE, 5 luglio 1942, ACS; «Cooperazione
arabo-ebraica contro i tedeschi», in U. Brenner, op. cit., p. 178 15 Moshe Shapira e Werner Senator all'EAE, 30 giugno 1942, ACS 16 U. Brenner, op. cit., pp. 29, 36, 43,185; Natan Alterman, La notte dell'assedio, in «La gioia dei poveri». Poesie che furono, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1972, p.217 17 Moshe Shapira e Werner Senator all'EAE, 30 giugno 1942, ACS 18 Yitzhak Gruenbaum all'EAE, 30 giugno 1942, ACS 19 U. Brenner, op. cit., pp. 63,176 sgg.; Yoav Gelber, a cura di, «Masada»; difendere Israele durante la seconda guerra mondiale, Tel Aviv, Università Bar-Ilan, 1990 20 «Proposte per la pace», cit. Si ritiene che Moshe Sharett abbia siglato con le sue iniziali il documento per indicare che l'aveva letto. A questo è allegato un altro documento non firmato che porta la data del 23 maggio 1941 21 A proposito di campanelli d'allarme (anonimo), in «Hapoel Hatsair», 10 maggio 1943, p. 1 22 Terrore (anonimo), in «Davar», 30 giugno 1942, p. 1 23 Martin (anonimo), in «Hatsofeh», 18 marzo 1942, p. 3 24 Agghiacciante rapporto sulla crudeltà nazista: ebrei polacchi uccisi in massa con i gas venefici (anonimo), in «Davar», 8 ottobre 1942, p. 2 25 700.000 gli ebrei uccisi finora in Polonia dai nazisti e dalla quinta colonna (anonimo), in «Davar», 28 giugno 1942, p. 1 26 Atrocità naziste a Kharkov; Grande vittoria della squadra di calcio del Maccabi a Damasco (anonimo), in «Haaretz», 13 gennaio 1942, p. 2 27 Moshe Prager, Sei milioni di ebrei e un milione di bambini in pericolo, in «Davar», 30 novembre 1942, p. 2; cfr. anche Shmuel Schnitzer alla radio dell'esercito Note
483 israeliano, in Yitzhak Goren e Tirtza Yuval, «Il passato rivisitato», trascrizione di un programma radiofonico. Biblioteca di Yad Vashem 28 «Davar», 10 agosto 1942, p. 1 29 Elisheva Ayalon, Falcar. La storia dell'agenzia di stampa dell'Agenzia ebraica, in «Kesher», Tel Aviv, n. 4, novembre 1988, pp. 71 sgg 30 Comunicato dell'Agenzia ebraica, in «Haaretz», 23 novembre 1942, p. 1 31 «La situazione degli ebrei in Europa», EAE, 22 novembre 1942 32 Walter Laqueur, Il terribile segreto. La congiura del silenzio sulla «soluzione finale», trad. it. Firenze, La Giuntina, 1983 33 Moshe Shapira, Eliezer Kaplan e Dov Yosef all'EAE, 22 novembre 1942, ACS 34 Yoav Gelber, «La stampa ebraica in Palestina sullo sterminio degli ebrei d'Europa», in Saggi sull'Olocausto e la resistenza. Serie Seconda A, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1969, pp. 30 sgg.; S.B. Beit-Zvi, Il sionismo postugandese nella crisi dell'Olocausto, Tel Aviv, Bronfman, 1977, pp. 37 sgg.; D. Porat, op. cit., pp. 64 sgg.; Yehiam Weitz, «Le posizioni e gli orientamenti del Mapai relativi all'Olocausto degli ebrei europei, 1939-1945», tesi di laurea, Gerusalemme, Università ebraica, 1988.pp.81 sgg 35 Un colpo mortale inferto al nemico a Stalingrado, in «Haaretz», 23 novembre 1942, p. 1; Grande vittoria russa a Stalingrado, in «Davar», 23 novembre 1942, p. 1
36 Beri Katznelson al congresso della Histadrut, 19 aprile 1942, in «Davar», 22 aprile 1942, p. 1; cfr. anche B. Katznelson, Opere, Tel Aviv, Mapai, 1950, voi. V, p. 53 37 Yitzhak Gruenbaum, Nei giorni della distruzione e dell'Olocausto, Tel Aviv, Haverim, 1946, p. 27 (pubblicato per la prima volta in «Haolam», 30 maggio 1940) 38 Conferenza al seminario per la Guardia giovanile del Mapai, 6 giugno 1944, inB. Katznelson, Opere, cit., voi. XII, p. 218 39 M. Sikron, op. cit., p. 19; Inchiesta sulla Palestina, Gerusalemme, Governo della Palestina, 1946, voi. I, p. 141 40 Uri Zvi Greenberg, Le vie del fiume, Tel Aviv, Schocken, 1968, p. 53 41 Hanno assassinato i bambini (anonimo), in «Haaretz», 21 dicembre 1942, p. 1; I clown (anonimo), ivi, p. 3; La voce dei morenti (editoriale), in «Haaretz», 21 marzo 1943, p. 2; Yehuda Bergman, Briciole per Purim, ivi; Purim in lutto (anonimo), in «Haaretz», 22 marzo 1943, p. 2; annuncio di una festa studentesca, in «Davar», 10 marzo 1944, p. 4; Pinocchio, in «Davar», ed. pomeridiana, 4 febbraio 1942, p. 2 42 Pubblicità per «Kiwi», in «Haaretz», 17 ottobre 1943, p. 4; pubblicità per «La strada della vittoria», in «Haaretz», 21 dicembre 1942, p. 4; pubblicità per Rommel, Rommel, come va?, in «Haaretz», 31 dicembre 1942, p. 3 43 Conferenza, 6 giugno 1944, in B. Katznelson, Opere, cit., voi. XII, p. 218 44 Golda Meir al CE della Histadrut, 29 maggio 1943, AL 45 B. Hacohen, Dopo la Dichiarazione di indipendenza, in «Hamashkif», 25 dicembre 1942,p.2
46 B. Hacohen, Come sono, in «Hamashkif», 11 dicembre 1942, p. 2; Id., Dopo la Dichiarazione di indipendenza, cit.; Id., Lo yishuv e le operazioni di salvataggio, in «Hamashkif», 24 marzo 1944, p. 2 47 Y. Gruenbaum, op. cit., pp. 63, 67, 69, 131 sgg.; Annuncio sensazionale di Y. Gruenbaum, in «Haboker», 7 dicembre 1942, p. 2; Eliahu Dobkin al CC del Mapai, 20 maggio 1942 («Vietato rendere pubblico»), APL; Eliahu Dobkin al Consiglio della Histadrut, 26 maggio 1942 («Ci chiedono di tacere»), p. 61, AL; Yosef Sprinzak alla segreteria del CE dell'Histadrut, 11 febbraio 1943 (nessuna pubblicazione delle notizie sulla polizia ebraica, per timore di imbarazzo e «ripercussioni politiche»), AL; diario di Dov Yosef, 26 novembre 1942, ACS, S/25 1510 48 David Ben Gurion all'assemblea dei militanti del Mapai, 8 dicembre 1942, APL,3/6 49 Eliahu Dobkin al CC del Mapai, 30 novembre 1942, APL 50 Georg Landauer a Kurt Blumenfeld, 18 marzo 1943, ACS, S/7 2016 51 Associazione dei proprietari delle sale cinematografiche all'Agenzia ebraica, 11 novembre 1942, ACS, S/26 1513 52 Al popolo di Israele nel tempo del lutto e dell'ira, in «Haaretz», 17 dicembre 1942, p.l 53 George Bernard Shaw all'Associazione scrittori, 30 settembre 1944, Archivio Aviezer Yellin sull'educazione ebraica in Israele, Università di Tel Aviv, 5.153 (1932) 54 Dina Porat, «Al Domi». Gli intellettuali israeliani di fronte all'Olocausto, 19431945, in «Hatsionut», n. 8, Università di Tel Aviv e Hakibbutz Hameuhad, 1983, pp. 245 sgg. Dossier Al Domi: Archivio Aviezer
Yellin sull'educazione ebraica in Israele, Università di Tel Aviv, 5.153 (1932). Per l'episodio del rabbino Benyamin, cfr. «Haaretz»: editoriale, 6 giugno 1944, p. 2; Perché ho perso la pazienza, 9 giugno 1944; editoriale, 11 giugno 1944; lettere al direttore, 20 e 27 giugno 1944 IV. «Beata la scintilla...» 1 D. Porat, Una leadership intrappolata, cit, p. 308 2 David Ben Gurion al CC del Mapai, 12 settembre 1939, APL, 23/29 3 David Ben Gurion al CC del Mapai, 24 agosto 1943, APL, 23/43 4 David Ben Gurion al CC del Mapai, 12 settembre 1939, APL, 23/39; «Le grandi linee della politica sionista», 15 ottobre 1941, ACS, Z/4 14632 5 Moshe Sharett all'EAE, 30 giugno 1942, ACS 6 Yoav Gelber, Storia del volontarismo, voi. Ili: J portabandiera, Gerusalemme, Yad Ben-Zvi, 1983 7 Dalia Ofer, Camminare sulle acque: l'immigrazione illegale durante l'Olocausto, Gerusalemme, Yad Ben-Zvi, 1988, pp. 470 sgg 8 Moshe Sharett, 4 febbraio 1940, in Diario politico, Tel Aviv, Am Oved, 1979, voi. V, p. 19 9 Y. Weitz, op. cit., pp. 105 sgg 10 Eliahu Golomb al CP del Mapai, 26 gennaio 1944, APL, 26/44. n David Ben Gurion all'EAE, 12 settembre 1943, ACS 12 Mania Shochat al CC del Mapai, 28 gennaio 1942, APL, 23/42; Ben Gurion all'EAE, 29 novembre 1942, ACS 13 D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., pp. 413 sgg.; Yoel Palgi, La grande ventata, Tel Aviv, Am Oved, 1978, p. 17 14 D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., p. 416; Y. Weitz, op. cit., pp. 125 sgg 15 Hannah Senesh. La vita, la missione e la morte, Tel Aviv, Hakibbutz
Hameuhad, 1959,p.224 16 Haike Grossman, Quarant'anni dopo, in «Yaikut Moreshet», n. 39, maggio 1985, p.90 17 Haim Hermesh, Operazione Amsterdam, Tel Aviv, Maarahot, 1971, pp. 155 sgg 18 Y. Palgi, op. cit., pp. 25, 243 19 Beri Katznelson al CE della Histadrut, 29 novembre 1939, AL Note 485 20 Teddy Kollek, Una sola Gerusalemme, Tel Aviv, Maariv, 1979, pp. 56, 59 21 D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., p. 263. Cfr. anche Zeev Venya Hadari, Nonostante tutto: Istanbul 1942-1945, Tel Aviv, Ministero della Difesa, 1992 22 Rapporto del Comitato di salvataggio, presentato al XX Congresso sionista, dicembre 1946, pubblicato a cura dell'Agenzia ebraica, 1946; Arieh Morgenstern, Il Comitato unitario di salvataggio dell'Agenzia ebraica e la sua attività negli anni 19431945, in «Yaikut Moreshet», n. 13, giugno 1971, pp. 60 sgg.; Benvamm Mintz a Yitzhak Gruenbaum, 23 settembre 1943, ACS, S/46 280 23 Rapporto sul colloquio in casa Gruenbaum con il console Lowell Pinkerton, 7 giugno 1944, ACS, S/26 1232; D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., pp. 392 sgg 24 Yitzhak Gruenbaum a Leib Yafeh, 22 maggio 1944, ACS, S/26 1232; Gruenbaum al CE sionista, 18 gennaio 1943, ACS, S/25 1851; Y. Gruenbaum, op. cit., p. 68
25 D. Ofer, op. cit., pp. 212, 255; D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., pp. 302,358 26 D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., pp. 309 sgg.; Efraim Ofir, Si potevano salvare 70.000 ebrei della Transnistria?, in «Yaikut Moreshet», n. 33, giugno 1982, pp. 103 sgg.; Hava Wagman-Eshkoly, Salvataggio in Transnistria: opportunità o inganno?, in «Yaikut Moreshet», n. 27, aprile 1979, pp. 155 sgg 27 David Ben Gurion alla segreteria del Mapai, 10 febbraio 1943, APL, 24/43; cfr. anche Hannah Turuk Yablonka, «Il Piano Europa», tesi di laurea, Gerusalemme, Università ebraica, 1984 28 D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., pp. 328 sgg.; Avraham Fuchs, Ho chiamato e nessuno ha risposto, Gerusalemme, Hamehaber, 1985 29 Moshe Sharett all'EAE, 20 ottobre 1944, ACS. La descrizione dell'episodio si basa principalmente su D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., pp. 347 sgg.; Yehuda Bauer, La missione di Joel Brand, in «Yaikut Moreshet», n. 26, novembre 1978, pp. 23 sgg.; Amos Elon, L'ora zero, Gerusalemme, Idanim, 1980 30 Yitzhak Gruenbaum, David Ben Gurion ed Eliahu Dobkin all'EAE, 25 maggio 1944, ACS 31 Eliezer Kaplan all'EAE, 23 luglio 1944, ACS 32 Eliahu Dobkin al CE della segreteria della Histadrut, 11 ottobre 1944, AL; Yehuda Bauer, «Le trattative fra Saly Mayer e i rappresentanti delle SS, 1944-1945», in Tentativi e attività di salvataggio durante l'Olocausto, Gerusalemme, Yad Vashem, 1976.pp.Hsgg
33 Procuratore generale contro Adolf Eichmann. Verdetto e sentenza (1962), Gerusalemme, Merkaz Hahasbara, 1972, p. 133 34 Heinrich Himmler, Vermerk, 10 dicembre 1942, Bundesarchiv Koblenz Bestand, Schumacher 240/1 (copia nell'Archivio Moreshet, D. 15753) V. A varm yiddish hartz, «Un caldo cuore ebraico» 1 S. Teveth, La terra brucia, voi. Ili: Lamentazioni di Davide, cit., p. 444 2 David Ben Gurion all'EAE, 6 dicembre 1942 3 T. Herzi, op. cit., p. 28 4 Moshe Sharett al CE sionista, 18 aprile 1943, ACS, S/25 1851 5 Yitzhak Damiel-Shweiger, £ ritorno, in «Davar», 27 novembre 1942, p. 3 6 David Ben Gurion a un'assemblea di lavoratori del Mapai, 8 dicembre 1942, APL,3/6 7 S. Teveth, La terra brucia, voi. Ili: lamentazioni di Davide, cit., p. 444; S.B. Beit Zvi, op. cit., p. 130; Reuven Daini, a cura di, David Ben Gurion e l'Olocausto degli ebrei europei, Gerusalemme, Yad Vashem e Merkaz Hahasbara, 1987; cfr. anche Avihu Ronen, La missione di Halinka, in «Yaikut Moreshet», n. 42, dicembre 1986, pp. 55 sgg.; Tuvia Friling, Le componenti emotive nell'atteggiamento di Ben Gurion verso gli ebrei della Diaspora durante l'Olocausto, ristampa dalla raccolta Solidarietà nazionale ebraica nella nuova era, Be'er Sheva, Università Ben Gurion, 1988 8 David Ben Gurion all'assemblea dei militanti del Mapai, 8 dicembre 1942, APL; Ben Gurion a Arthur Lurie, 8 dicembre 1942, citato in
Yoav Gelber, La politica sionista e il destino degli ebrei europei, 1939-1942, Yad Vashem, «Ricerche collettive», n. 13,1980, p.147 9 David Ben Gurion a Yehoshua Kastner, 2 febbraio 1958, AN, UPM, 5432/16 10 Dov Yosef, Diario, 26 novembre 1942, ACS, S/25 1510. n A. Shapira, op. cit., p. 672 12 Yitzhak Gruenbaum al Comitato di salvataggio, 29 giugno 1944, ACS, S/26 1238/a 13 Apolinari Hartglass, Osservazioni sugli aiuti e il salvataggio, memorandum non datato, ACS, S/26 1232 (citato con correzioni stilistiche) 14 David Ben Gurion all'EAE, 23 luglio 1944 15 B. Hacohen, Come sono, cit., p. 2 16 D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., pp. 450 sgg.; Tuvia Friling, La posizione di Ben Gurion nella vicenda del salvataggio dei bambini, novembre 1942 - maggio 1945, in «Yaikut Moreshet», n. 38, dicembre 1984, pp. 32 sgg 17Y. Bahar a David Ben Gurion, 23 luglio 1944, ACS, S/25 85 18 Golda Meir al CI-, della segreteria della Histadrut, 24 gennaio 1943, AL 19 Yitzhak Gruenbaum et al. al CE sionista, 18 gennaio 1943, ACS, S/25 1851; Y. Gruenbaum, op. cit., p. 68 20 Yitzhak Gruenbaum ed Eliezer Kaplan all'FAE, 25 ottobre 1942, ACS 21 D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., pp. 169 sgg 22 Shmuel Dayan al CP, 2 novembre 1939, APL, 23/29 23 Agghiacciante rapporto sulla crudeltà nazista, cit 24 P. Heilprin, Siamo colpevoli, in «Davar», 24 dicembre 1941, p. 2; cfr. anche Y. Gan-Zvi, La posizione dello yishuv sui guai dei fratelli maggiori, in «Davar», 18 aprile 1940, p. 2; H. Rosenblum, Da dove viene
l'apatia?, in «Haboker», 2 luglio 1941, p. 2 25 «Non ce ne siamo accorti»: Yosef Sprinzak all'EAE, 6 dicembre 1942, ACS; «Non abbiamo fatto niente»: Melech Neustadt al Consiglio della Histadrut, 26 maggio 1942, AL, e al CE della Histadrut, 13 dicembre 1942, AL; Abbiamo fatto abbastanza? (editoriale), in «Haaretz», 29 novembre 1942, p. 2; «"Davar" non l'ha pubblicato»: Eliahu Dobkin al CE della Histadrut, 31 dicembre 1942, AL; «Nessuno ha dubbi»: David Remez, ivi; «Pieni di peccati»: Aharon Tzisling al CE della segreteria della Histadrut, 11 febbraio 1943, AL; Beba Idelson al CE della Histadrut, 18 novembre 1943, AL; «Vergogna»: Golda Meir al CE della segreteria della Histadrut, 29 aprile 1943, AL 26 «La collaborazione con gli inglesi durante la guerra», relazione di Reuven Shiloah (Zaslani), ACS, S/25 7902 27 Nana Sagi, German Reparations (in inglese), Gerusalemme, Magnes Press, 1980, pp. 14 sgg.; A. Shapira, op. cit., p. 604 28 Justicia all'Agenzia ebraica, 7 dicembre 1942, ACS, S/261325. Cfr. anche memorandum sulle riparazioni (a partire dal 1941): ACS, S/26 1325; S/25 5188; S/90 526; S/90 527; Eliahu Dobkin all'EAE, 6 dicembre 1942, ACS; Gershom Bendam, Note 487 Quale futuro per gli ebrei d'Europa ?, in «Haaretz», 30 gennaio 1942, p.
2; Chi pensa ai beni strappati agli ebrei d'Europa ? (anonimo), in «Haaretz», 20 gennaio 1943, p. 2; M. Rubenstein, Che ne è dei beni strappati agli ebrei?, in «Haaretz», 14 marzo 1943, p. 2; Siegfried Moses, La richiesta di riparazioni degli ebrei, in «Haaretz», 21 giugno 1943, 19 ottobre 1943, p. 2 e 10 febbraio 1944, p. 2; Natan Feinberg, La richiesta di riparazioni degli ebrei tedeschi, in «Haaretz», 7 settembre 1943, p. 2, e 4 gennaio 1944, p. 2; David Ben Gurion, in Y. Weitz, op. cit., p. 317 29 Proposta Shenhabi, 10 settembre 1942, Archivio Haartsi del kibbutz Hashomer Hatsair (archivio personale di Shenhabi), VI, 1 (4); Progetto Shenhabi, 2 maggio 1945, in ACS, S/26 1326 e anche in AYV («L'antico Yad Vashem»), YV/9YV/10 30 Lamentazioni, in «Haaretz», 2 dicembre 1942, p. 1; Piangi, Gerusalemme, in «Davar», 6 novembre 1943, p. 1; La valle dell'assassinio, in «Davar», 17 dicembre 1942, p. 1; La valle della tristezza, in «Davar», 14 gennaio 1943, p. 1; La valle delle lacrime, in «Haaretz», 2 dicembre 1942, p. 2; Come hanno potuto lasciarlo in esilio e senza soldi?, in «Davar», 31 dicembre 1942, p. 1; Il complotto di Satana, in «Davar», 22 dicembre 1942, p.l 31 Moshe Sharett e David Ben Gurion al CC del Mapai, 7 dicembre 1938, APL 32 David Ben Gurion all'EAE, 26 ottobre 1943, ACS 33 Chaim Weizmann all'EAE, 22 ottobre 1942, in Michael Cohen, a cura di. Le lettere e le carte di Chaim Weizmann, XX, serie A, Gerusalemme, Università Israeliane, 1979, pp.67 sgg 34 Annuncio pubblicitario, in «Davar», 7 maggio 1944, p. 4 35 I revisionisti e l'arruolamento (anonimo), in «Davar», 13 marzo 1944,
p. 1; B. Hacohen, Dopo la dichiarazione. Lo yishuv e le operazioni di salvataggio, cit., p. 2 36 Sì, salvarli è possibile (anonimo), in «Herut», 1° febbraio 1943, p. 2 37 Eliezer Don-Yehia, «Collaborazione e conflittualità fra campi politici: il campo religioso e il movimento laburista e la crisi dell'istruzione in Israele», tesi di laurea, Gerusalemme, Università ebraica, 1977, pp. 499 sgg.; Ernst Simon, Le teorie pedagogiche sioniste alla luce della questione dei bambini di Teheran, in «Haaretz», 5 luglio 1943, p. 2 e 6 luglio 1943, p. 2; M. Shenfeld, I bambini di Teheran accusano, Gerusalemme, CE Agudat Yisrael, 1943; «Tsror Mihtavim», n. 135 (200), 30 aprile 1943, pp. 248 sgg.; n. 136 (201), 14 maggio 1943, pp. 266 sgg.; n. 137 (202), 4 giugno 1943, pp. 292 sgg.; Ben-Zion Tomer, Bianco e rosso e il profumo degli aranci, Gerusalemme, Hasifria Hatsionit, 1971 38 L'immigrazione dei bambini di Teheran; ripercussioni pericolose, in «Haaretz», 14 marzo 1943, p. 6 39 Che cosa insegnano i bambini di Teheran, in «Haaretz», 22 marzo 1943, p. 2 40 Eliahu Dobkin, David Remez e Golda Meir al CC del Mapai, 20 maggio 1942, APL, 23/42 41 CE della segreteria della Histadrut, 29 aprile 1943, AL 42 Benyamin Muntz a Yitzhak Gruenbaum, 23 settembre 1943, ACS, S/26 280 43 Ibid' 44 Rapporto sull'Operazione Pacchi, 2 marzo 1944, ACS, S/25 5649. Cfr. anche A. Morgenstern, ari. cit., pp. 60 sgg.; Hava Wagman-Eshkoly, «La disputa sulla raccolta di fondi per le attività di salvataggio», 1943;
Leni Yehiel et al., a cura di, Documenti per lo studio del periodo dell'Olocausto, raccolta 3, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1984, pp. 123 sgg 45 Avraham Woronowski, La reazione dei nostri figli all'Olocausto nella Diaspora, in «Hed Hahinuch», n. 258,1945, p. 34; replica di Gustav Krojanker all'articolo precedente, in «Amudim», 16 febbraio 1945, p. 1 46 Beri Katznelson, «Dopo una conversazione sulla Diaspora», 6 giugno 1944, in Opere, cit., voi. XII, p. 218; Yehiam Weitz, The Yishuv Self-Image and the Reality of the Holocaust (in inglese), in «Jerusalem Quarterly», autunno 1988, pp. 1 sgg 47 Yitzhak Gruenbaum al CE sionista, 18 gennaio 1943, ACS, S/25 1851 48 «Davar», 22 giugno 1944, p. 1 49 Y. Gan-Zvi, Del massacro e del silenzio, in «Hatsofeh», 18 gennaio 1942, p. 2 50 Haim Nahman Bialik, «Nella città del massacro», in Opere scelte. Tel Aviv, Dvir, 1941, p. 83 51 Abba Kovner, «Dichiarazione letta in occasione di un raduno dei giovani pionieri a Vilnius», in Yitzhak Arad, a cura di, 1,'Olocausto documentato, Gerusalemme, Yad Vashem, 1978, pp. 544 sgg.; Gustav Krojanker, E quel che era storto fu raddrizzato, in «Haaretz», 1° gennaio 1942, p. 2 52 Al popolo di Israele, in «Davar», 17 dicembre 1942, p. 1; comunicato del kibbutz Vaad Leumi, «Il grido di Israele da Sion», 30 novembre 1942, ACS, S/25 5183 53 Haim Barlas, «Rapporto sulle attività in Turchia riguardanti l'immigrazione e il salvataggio, ottobre 1943 - settembre 1944», ACS,
S/25 5206; Zeev Schind al CE della Histadrut, 6 settembre 1944, AL 54 Uri Kesari, Abbiamo pianto e ora possiamo andare avanti, in «Yediot Aharonot», 16 marzo 1945, p. 2 VI. «Ho creduto che fossero animali» 1 David Ben Gurion all'EAE, 28 settembre 1944, ACS 2 David Ben Gurion, «Eterno Israele», in Annuario del governo 1954, Gerusalemme, IPS, 1954, p.37 3 David Ben Gurion all'EAE, 11 febbraio 1945, ACS 4 David Ben Gurion all'EAE, 20 giugno 1944, ACS 5 David Ben Gurion, Y.L. Fishman, Yitzhak Gruenbaum e Moshe Shapira all'EAE, 20 giugno 1944, ACS 6 David Ben Gurion all'EAE, 20 giugno 1944, ACS 7 DBG, 4 dicembre 1944 8 Ivi, 8 maggio 1945 9 Ivi, 30 luglio 1945 l° Ivi, 19, 23, 26 e 27 ottobre 1945 n Testimonianza di Ruth Aliav, ABG, DDO 12 Ben-Zion Yisraeli alla segreteria del Mapai, 24 luglio 1945, APL, 24/45 13 Yehezkel Sakharov, 3 ottobre 1945, ACS, S/25 5243; Sakharov a Dov Yosef, 9 ottobre 1945, ACS, S/25 5238; Yehiel Duvdevani a Eliahu Dobkin, 5 settembre 1945, ACS, S/26 1198 14 Y. Gelber, Storia del volontarismo, cit., voi. Ili, p. 376; Yehuda Bauer, La berihah, Tel Aviv, Moreshet e Sifriat Poalim, 1974, pp. 80 sgg 15 Relazione Hoter-Yishai, luglio 1945, AL, VII 126 69. f 16 Testimonianza di Ruth Aliav, ABG, ODO, p. 61 17 N. Silberbiatt, I residenti dei campi stanno perdendo la pazienza, m
«Haaretz», 6 agosto 1947, p. 2 18 Yosef Bankover al CE della Histadrut, 5 settembre 1945, AL Note 489 19 Eliahu Dobkin al CC del Mapai, 29 aprile 1946, APL, 23/46; al CE della Histadrut, 5 settembre 1945, AL, EAE, 30 aprile 1946, ACS 20 Y. Laufban, All'ombra della svastica, cit., p. 1; Chaim Weizmann al XX Congresso sionista, resoconto stenografico. Organizzazione sionista e Agenzia ebraica, 1937, p. 33; cfr. anche Dalia Ofer, «Da superstiti a emigranti: "il resto" costretto a emigrare», in Yisrael Gutman e Adira Drechsler, a cura di, Sheerit Hapeletah, 1947-48, Gerusalemme, Yad Vashem, 1990, pp. 375 sgg.; Hannah Turuk Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto" nella società israeliana in formazione: 29 novembre 1947 - fine 1949», tesi di laurea, Gerusalemme, Università ebraica, 1990, p. 1 21 Lettera di un soldato, citata in Y. Gelber, Storia del volontarismo, cit., voi. Ili, pp. 434, 449; Eliahu Dobkin al CC del Mapai, 29 aprile 1946, APL, 23/46; Haim Yahil, Le attività della missione fra i superstiti, 1945-1949, in «Yaikut Moreshet», n. 30, novembre 1980, p. 135 e n. 31, aprile 1981, p. 172 22 H. Yahil, ari. cit., p. 31; H.T. Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», cit., p. 21 23 Yael Danieli, «Adattamenti eterogenei nelle famiglie dei superstiti nel dopoguerra», in Randolph L. Braham, a cura di. The Psychological Perspectives of the Holocaust and Its Aftermath, Boulder, East European Quarterly, 1988, pp. 109 sgg 24 Testimonianza di Sammy Levi, Gerusalemme, Università ebraica. Istituto di giudaismo contemporaneo, DDO, 14 (4), p. 25
25 Eliahu Dobkin al CC del Mapai, 29 aprile 1946, APL, 23/46 26 H. Yahil, ari. cit., pp. 7-40,135,140,174 27 David Shaltiel al CC del Mapai, 11 settembre 1945, APL, 24/45 28 Zeev Iserson al CC del Mapai, 11 settembre 1945, APL, 24/45 29 David Ben Gurion al CC del Mapai, 22-23 luglio 1949, APL, 24/49; sulla «selezione naturale» durante l'Olocausto, cfr. anche Eliahu Dobkin, Immigrazione e salvataggio durante gli anni dell'Olocausto, Gerusalemme, Reuven Mass, 1946, p. 114 30 Arieh Gelblum, Problemi fondamentali dell'assorbimento degli immigrati, in «Haaretz», 28 settembre 1945, p. 3 31 H. Yahil, ari. cit., p. 11 32 Testimonianza di Ruth Aliav, ABG, DDO, p. 55 33 DBC, 20 e 26 ottobre 1945; David Ben Gurion all'EAE, 21 novembre 1945, ACS 34 Ben Gurion all'EAE, 24 febbraio 1946, ACS 35 Eliahu Dobkin all'EAE, 21 settembre 1944, ACS; Shaul Meirov Avigur alla segreteria del Mapai, 24 dicembre 1944, APL, 24/44 36 Aharon Hoter-Yishai, in Y. Bauer, La berihah, cit, p. 102 37 Y. Weitz, «Le posizioni e gli orientamenti del Mapai...», cit., p. 58 38 Eliahu Golomb al CP del Mapai, 26 gennaio 1944, APL, 24/44; Pinhas Lubianiker al CE della Histadrut, 5 settembre 1945, AL; sul «grande genocidio» cfr. anche Yonah Kosoi al CC del Mapai, 14 agosto 1945, APL, 23/45 39 David Ben Gurion all'EAE, 24 febbraio 1946, ACS 40 Shaul Meirov Avigur alla segreteria del Mapai, 3 maggio 1943, APL, 24/43; cfr. anche Y. Weitz, «Le posizioni e gli orientamenti del Mapai...», cit., pp. 56 sgg 41 E. Dobkin, op. cit., pp. 61 sgg
42 David Ben Gurion all'EAE, 11 febbraio 1945, ACS; Y. Weitz, «Le posizioni e gli orientamenti del Mapai...», cit., pp. 139 sgg 43 Eliahu Dobkin alla segreteria del Mapai, 24 novembre 1942, APL, 24/42 44 David Ben Gurion al CC del Mapai, 24 febbraio 1943, APL, 23/43. 45 Moshe Shapira all'EAE, 20 giugno 1944; Yaakov Zerubavei all'EAE, 2 novembre 1948, ACS 46 Eliezer Kaplan all'EAE, 19 agosto 1949, ACS 47 Yitzhak Refael all'EAE, 19 agosto 1949, ACS VII. «Un certo distacco» 1 Y. Gelber, Storia del volontarismo, cit., voi. Ili, p. 357 2 La diaspora ebraica nel 1946, intervento di Leib Levile al consiglio del partito Ahdut Haavoda-Poalei Zion, in «Davar», 4 febbraio 1947, p. 2 3 Eliahu Dobkin all'EAE, 30 aprile 1946, ACS 4 Y. Bauer, La berihah, cit., pp. 82 sgg.; Irit Keinan, «I; resto»; OUm o immigrati?, in «Lyunim», n. 1,1991, pp. 343 sgg.; Tad Szulc, The Secret Alliance: The Extraordinary Story of the Rescue of the jews Since World War II, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1991 5 Arieh Piaikov, a cura di. Seminario su «La berihah» di Yehuda Bauer, Tel Aviv, Yad Tabenkin, 1975, p. 61 6 Y Bauer, La berihah, cit., p. 122 7 H. Yahil, ari. cit., p. 36 8 Y. Gelber, Storia del volontarismo, cit., voi. Ili, p. 534 9 Testimonianza di Eliezer Lidowski, Gerusalemme, Università ebraica. Istituto di giudaismo contemporaneo, DDO, 62 (4) 10 Testimonianza di Dov Gur (Robert Grossman), Archivio Haganah, 2302 11 Karmi Ptael, a cura di, I doppiogiochisti, Gerusalemme, Mossad
Bialik, 1990; Y. Gelber, Stona del volontarismo, cit., voi. Ili, p. 666 12 Testimonianza di Ruth Aliav, ABG, DDO, p. 34 13 H. Yahil, ari. cit., p. 169 14 Ibid 15 Eliahu Dobkin all'EAE, 21 settembre 1944; David Ben Gurion all'EAE, 17 dicembre 1944; Ben Gurion e Naum Goldmann all'EAE, 27 ottobre 1944, ACS; DBG, 1° novembre 1945 16 Aviva Halamish, Exodus: la vera stona, Tel Aviv, Am Oved, 1990, pp. 69 sgg 17 David Ben Gurion all'EAE, 21 novembre 1945, ACS 18 Natan Alterman, «La nazione e i suoi agenti», in La settima colonna, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1977, voi. I, p. 85 19 Golda Meir, La mia vita, Tel Aviv, Maariv, 1975, p. 152; A. Halamish, op. cit 20 Aviva Halamish, «Haapalah: valori, miti e realtà», in Nurit Gretz, a cura di, Punto di vista, Tel Aviv, Università aperta, 1988, p. 93; cfr. anche Anita Shapira, a cura di, Haapalah. Raccolta di saggi sulla storia del salvataggio, la berihah, la haapalah e "il resto", Tel Aviv, Am Oved, 1990 21 Idit Zertal, Anime perdute. I maapilim e il Mossad Lealiya Bet nella lotta per la fondazione dello Stato e in seguito, in «Hatsionut», n. 14, agosto 1989, pp. 107 sgg 22 Shaul Avigur, Yeshayahu Trachtenberg (Shaike Dan) e David Ben Gurion alla segreteria del Mapai, 9 dicembre 1947, APL, 24/47; Gedalia Yogev, a cura di. Documenti dello Stato e diplomatici, dicembre 1947 -
maggio 1948, Gerusalemme, Archivio nazionale, 1980, p. 19; Zeev Venya Hadari, Rifugiati, sconfitta e impero, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, pp. 195 sgg 23 Eliahu Dobkin al CC del Mapai, 29 aprile 1946, APL, 23/46 24 Y. Weitz, «Le posizioni e gli orientamenti del Mapai...», cit., pp. 177 sgg Note 491 25 Yehiel Duvdevani alla segreteria del Mapai, 15 gennaio 1946, APL, 24/46 26 Pinhas Lubianiker (che cita un telegramma di Mordecai Oren) al CE della Histadrut, 5 settembre 1945, AL; David Ben Gurion alla moglie (allegata al diario), 9 febbraio 1946 27 Pinhas Lubianiker alla segreteria del Mapai, 27 agosto 1946, APL, 24/46 28 Golda Meir all'EAE, 28 luglio 1947, ACS 29 H. Yahil, ari. cit., pp. 156 sgg.; testimonianza di Levi, pp. 27 sgg.; Perché hanno ucciso Eitli Avidov?, in «Koteret Rashit», n. 164, 21 gennaio 1986, p. 9 30 Zeev Mankowitz, «Ideologia e politica fra "il resto" nella zona di occupazione americana in Germania 1945-1946», tesi di laurea, Gerusalemme, Università ebraica, 1987; David Shaari, La deportazione a Cipro, 1946-1949, Gerusalemme, Hasifria Hatàionit, 1981, pp. 274 sgg.; Nahum Bogner, L'isola della deportazione. Tel Aviv, Am Oved, 1991 31 H. Yahil, ari. cit., pp. 21, 40 32 D. Shaari, op. cit., pp. 274 sgg 33 H. Yahil, ari. cit., p. 175
Vili. «Sei milioni di tedeschi» 1 Y. Bauer, La berihah, cit., p. 16 2 Testimonianza di Abba Kovner, Gerusalemme, Università ebraica. Istituto di giudaismo contemporaneo, DDO, 2 (4) A; ctr. anche Levi Arieh Sand, La vendetta. Stona, immagine e attività, in «Yaikut Moreshet», n. 32, aprile 1992, pp. 35 sgg 3 Eliahu Dobkin alla segreteria della Histadrut, 11 ottobre 1944, p. 8, AL, 24/44; cfr. anche E. Dobkin, op cit., p. 114 4 Ricerca inedita sui diplomati dell'istituto Aliyat Hanoar. Desidero ringraziare il professor Reuven Feurstem, il dottor Yaakov Rand e Ada Oz dell'Istituto canadese di ricerca Hadassah-WIZO (fondato da Aliyat Hanoar) per avermi gentilmente messo a disposizione i risultati 5 Tzivia Lubetkin, Gli ultimi sui muri, relazione alla XV Conferenza dell'Hakibbutz Hameuhad presso il kibbutz Yagur, 8 giugno 1946, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1947,p.46 6 Testimonianza di Yitzhak Avidov (già Pasha Reichman), Gerusalemme, Università ebraica. Istituto di giudaismo contemporaneo, DDO, 160 (4) 7 Testimonianza di Abba Kovner, Archivio Moreshet, 1062 A, p. 46; testimonianza di Y. Avidov, cit 8 Testimonianza di Y. Avidov, cit 9 Testimonianza di A. Kovner, Università ebraica, cit 10 Abba Kovner al CC della Histadrut, 19 agosto 1945, AL. n Meir Yciari a Yehuda Tubin, 24 luglio 1945; lettera da Londra, 21 agosto 1945, Archivio Yaari in Archivio Hashomer Hatsair, B-2 (5a); Yaari a Tubin, 15 gennaio 1946; Yaari a Moshe Zertal, 12 febbraio 1946, Archivio
Yaari, B-2 (5); Anita Shapira, «L'incontro dello yisliuv con "il resto"», in Camminando sull'orizzonte, Tel Aviv, Am Oved, 1989, pp. 325 sgg.; Id., «L'incontro dello yishuv con il "il resto"», in Y. Gutman e A. Drechsler, op. cit., pp. 71 sgg.; cfr. anche la reazione di Meir Yaari, Sciocchete e menzogne, in «Koteret Rashit», n. 151,23 ottobre 1985, p. 24; testimonianza di A. Kovner, Archivio Moreshet, cit 12 Testimonianza di A. Kovner, Università ebraica. Archivio Moreshet e progetto Haapalah dell'Università di Tel Aviv, cit. Cablogrammi interni sul suo arresto: a «Artzi» da «Sidney», 18 dicembre 1945; a «Kasuto» da «Artzi», 25 dicembre 1945; a «Ben-Yehuda» da «Kasuto», 25 dicembre 1945, tutti nell'Archivio Haganah, 14/175; «Yaakobi» a «Haverim», 8 gennaio 1946, Archivio Haganah, 100/14. Cfr. anche Y. Gelber, Storia del volontarismo, cit., voi. Ili, p. 639; Z. Mankowitz, op. cit., p. 331; Mordecai Naor, Laskov, Tel Aviv, Misrad Habitahon & Keter, 1988, p. 148; Michael Bar-Zohar, J vendicatori, Tel Aviv, Levin Epstein, 1969, pp. 47 sgg.; Michael Elkins, Forged in Fury, New York, Ballantine, 1971, pp. 235 sgg.; Cronologie 1945, Archivio Weizmann 13 Testimonianza di Y. Avidov, cit 14 Tzvika Dror, Dolore e grida, in «Davar», 15 giugno 1990, p. 19; cfr. anche Yitzhak (Antek) Zuckerman, Quei sette anni, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad & Beit Lohamei Haghetaot, 1990, pp. 530 sgg 15 Poisoned Sread Fells 1900 German Captives in U.S. Prison Camp near Nuremberg, in «New York Times», 20 aprile 1946, p. 5; Prison Plot Toll of Nazis ut 2283, in «New York Times», 23 aprile 1946, p. 9
16 Testimonianza di A. Kovner, Università ebraica, cit 17 Ibid.; cfr. anche Levi Arieh Sarid, Lo replica di Kovner ai provocatori, in «Yaikut Moreshet», n. 47, novembre 1949, pp. 7 sgg 18 Testimonianza di Y. Avidov, cit 19 Testimonianza di Michael Ben-Gal, Gerusalemme, Università ebraica. Istituto di giudaismo contemporaneo, DDO, 95 (4); Y. Gelber, Storia del volontarismo, cit., voi. Ili, p. 432 20 Hanoch Bartov, Acne, Tel Aviv, Am Oved, 1965, p. 47 21 Manoscritto sul futuro della brigata, senza data, ACS, S/25 6064 22 Y. Gelber, Storia del volontarismo, cit., voi. Ili, pp. 306 sgg 23 Testimonianza di Dov Gur (già Robert Grossman), Archivio Haganah, 2302. Yisrael Karmi. Alla maniera dei'combattenti, Tel Aviv, SifriatTarmil, 1966, p. 116 Ibid 26 Testimonianza di Shalom Giladi, Archivio Haganah, 3947 (tratta da «Haolam Hazeh», 29 marzo 1961) 27 Testimonianza di A. Kovner, Università ebraica, cit 28 Testimonianza di M. Ben-Gal, cit 29 Testimonianza di Haim Laskov, Archivio Haganah, 4357 30 Citato in Arieh Preiss, Le reazioni dei movimenti clandestini in Palestina allo sterminio degli ebrei europei, in «Masua», n. 8, aprile 1980, p. 56 31 Poesia anonima, in «Haaretz», 30 novembre 1942, p. 1; Natan Gurdus, lasciate che il mondo gridi!, in «Haaretz», 26 novembre 1942, p. 2; Vendicare il sangue dei vostri servi, in «Haaretz», 2 dicembre 1942, p. 1; cfr. anche «Haboker», 2 dicembre 1942, p. 1; Shiomo Z. Shragai, La richiesta di vendetta, in «Hatsofeh», 9 giugno
1942,p.2 32 Appello del CC dell'Associazione scrittori, in «Davar», 26 novembre 1942, p.l 33 Citato in A. Preiss, op. cit., p. 71 34 Apolinari Hartglass, Reazioni e salvataggio, in «Haolam», 27 dicembre 1942, p. 1; Moshe Kleinman, Il problema della vendetta, in «Haolam», 31 dicembre 1942, p. 1; lettera di M.A. Bodley, ivi, p. 3 35 P. Heilprin, Non ci sarà vendetta, in «Davar», 18 giugno 1942, p. 2 36 Distruzione (editoriale non firmato), in «Haaretz», 24 novembre 1942, p. 2 37 Articolo non firmato in «Mishamar», 24 ottobre 1943, p. 4; cfr. anche Shiomo Note 493 Ginzberg, Pace senza vendetta, in «Moznaim», n. 16,1943, pp. 273 sgg. Repliche al precedente: Sul perdono (anonimo), in «Haboker», 1° settembre 1943, p. 2; Azriel Karlebach, Quando traballano, è la mia vendetta, in «Hatsofeh», 16 gennaio 1942, p. 2 38 Citato in L.A. Sarid, art. cit., p. 79 39 Meir Argov, 30 giugno 1959, DK, XXVII, p. 2395 40 Rozka Korczak al CE del kibbutz Haartsi, 3 gennaio 1945, Archivio Moreshet, A 990 4! Menahem Begin, 16 marzo 1965, DK, XLIL p. 1544 IX. «Una barriera di sangue e silenzio»
1 M. Sikron, op. cit., p. 16 2 H.T. Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», cit.p. 13 3 Smadar Golan, La storia di Michael Gilad, in «Koteret Rashit», n. 204, 29 ottobre 1986, pp. 24 sgg.; Tom Segev, L'ottantaduesimo colpo, in «Haaretz», 20 novembre 1987, p. B5 4 Yaakov Kurtz, Libro delle testimonianze, Tel Aviv, Am Oved, 1943, p. 6 5 Testimonianza di Miriam Akavia, videoregistrata come provino per il film Ritorno alla vita e conservata nel Museo della Diaspora. Citazione autorizzata dal Museo e da Miriam Akavia. La testimonianza contiene la maggior parte dei temi presenti in moltissime altre testimonianze conservate a Yad Vashem, a Moreshet e in vari altri archivi. Cfr. anche Tzvika Dror, a cura di. Pagine di testimonianze. Novantasei membri del kibbutz Lohamei 1-laghetaot raccontano la loro storia, Kibbutz Lohamei Haghetaot, Museo Katznelson dei Combattenti del ghetto, Hakibbutz Hameuhad, 1984 6 Rozka Korczak al CE del kibbutz Haartsi, cit 7 H.T. Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», cit., p. 29 8 Drammatico incontro fra una madre e il figlio soldato, in «Maariv», 9 febbraio 1949, p. 4 9 Ada Fishman al Comitato per l'immigrazione e l'assorbimento (Mapai),
aprile 1948, pp. 26 sgg., APL, 7/24/48; H. Yahil, art. cit., p. 31; Yehiel Duvdevani alla segreteria del Mapai, 15 gennaio 1946, APL, 24/46 10 Elie Wiesel, «Domande ancora senza risposta», documenti per una ricerca sull'Olocausto, raccolta n. 7, p. 4, Università di Haifa, 1989. u Eliahu Dobkin al CC del Mapai, 29 aprile 1946, APL, 23/46 12 Testimonianza di Hanche Sheich, Archivio Moreshet, A 964 13 S. Davidson, I superstiti dell'Olocausto e le loro famiglie. Un esperimento di psicoterapia clinica, in «Rofeh Hamishpaha», n. 10, agosto 1981, pp. 313 sgg.; Yael Danieli, «Eterogeneità di adattamento delle famiglie dei superstiti dell'Olocausto», inR.L. Braham, op. cit., pp. 109 sgg 14 T. Lubetkin, Gli ultimi sui muri, cit., p. 5 15 Procuratore di Stato al ministro della Giustizia, 28 agosto 1949, AN, UPM, 5437/9; appunto non datato, AN, UPM, 5437/19 16 H.T. Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», cit., p. 284 17 Dipartimento per l'assistenza agli immigrati (Histadrut) all'Ufficio immigrazione (Mapai), 25 gennaio 1945, AL, IV, 2351-2061; Ada Fishman all'Ufficio del Mapai, 8 aprile 1947, APL, 25/47; David Remez, Shaul Avigur e David Ben Gurion all'Ufficio del Mapai, 12 febbraio 1945, APL, 25/45; Giora Yoseftal al CC del Mapai, 14 dicembre 1948, APL, 23/48 18 Heshel Frumkin al CC del Mapai, 9 agosto 1948, APL, 23/48 19 Shaul Avigur alla segreteria del Mapai, 22 aprile 1949, APL, 24/49; Giora Yoseftal alla segreteria del Mapai, 22 aprile 1949, APL, 24/49; H.T. Yablonka, «D problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», cit, p. 36 20 Torri Segev, 3949: The First Israelis, New York, Free Press, 1986,
pp. 68 sgg 21 Giora Yoseftal alla segreteria del Mapai, cit 22 Eliahu Dobkin e Zaiman Aharonowitz al CC del Mapai, 22 aprile 1949, APL, 24/49; Shaul Avigur e David Ben Gurion all'Ufficio del Mapai, 12 febbraio 1945, APL, 23/45; Ben Gurion alla segreteria del Mapai, 22 aprile 1949, APL, 24/49; Ben Gurion al dottor Sofer, 5 febbraio 1948, ABG, corrispondenza; cfr. anche Ben Gurion al CE sionista, 22 agosto 1948, ACS, S/5 323 23 A. Gelblum, art. cil., p. 3 24 Golda Meir al CE della Histadrut, 29 aprile 1946, AL 25 Fascicolo Regina Fertig-Hitter, ACS, S/6 242 1/4 26 Yitzhak Salant a Haim Rokah, s.d., APL, 10-1-5 27 Mapai di Haifa a Haim Rokah, 26 settembre 1948; Dipartimento integrazione ad Avramowitz, 21 dicembre 1948, APL, 10-1-2 28 B.A. a Karmi, 21 maggio 1946, AL, 208 IV 4298 29 Dipartimento integrazione al Comitato militanti, 5 gennaio 1950; Dipartimento integrazione alla presidenza del Comitato, 8 marzo 1950, APL, 10-1-3 30 Emanuel Gutman, Risultati delle elezioni della prima, seconda e terza Knesset e degli organismi locali nei 1950 e 1955, Gerusalemme, Università ebraica, 1957; Asher Tsidon, La camera dei rappresentanti, Gerusalemme, Ahiasaf, 1965, pp. 382 sgg 31 Recha Freier, Radicati. La fondazione di Aln/at Hanoar e i suoi primi anni, Gerusalemme, Tamar, s.d., p. 16; Tom Segev, Una donna di amore e di odio, in «Haaretz» (supplemento domenicale), 19 dicembre 1980, pp. 12 sgg 32 H.T. Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e
dell'integrazione del "resto"...», cit., p. 190 33 R. Freier, op. cit., p. 10 34 Aliyat Hanoar FP 14424.1 fascicoli delle spese personali di Aliyat Hanoar sono stati conservati, ma non sono a disposizione dei ricercatori. Le informazioni che ho raccolto sull'argomento sono il frutto della lettura di diverse centinaia di questi fascicoli, che ho potuto consultare grazie alla generosità dell'Istituto canadese di ricerca Hadassah-WIZO 35 Aliyat Hanoar FP 15209 36 Aliyat Hanoar FP 11698 37 Citato da Haim Shatzkar, «Aliyat Hanoar e il suo ruolo nel salvataggio, nell'assorbimento e riabilitazione dei bambini-profughi dell'Olocausto», in Y. Gutman e A. Drechsler, op. cit., pp. 331 sgg 38 B.-Z. Tomer, op. cit., p. 287 39 Ibid 40 Lettere intorno ai problemi educativi dei bambini-profughi, Ein Harod, luglio 1943, ACS, S/7 1866 41 Ricerca inedita sui diplomati dell'istituto Aliyat Hanoar, cit 42 Aliyat Hanoar FP 25965; 8918; 11299; 7336 43 Aliyat Hanoar FP 18105 Note 495 44 Aliyat Hanoar FP 4004; 1958; 14315; 19634 45 Michael Tel Tsur, in «Alim», agosto-ottobre 1947, p. 30, citato in H. Shatzkar, «Aliyat Hanoar... », cit 46 Ibid 47 Zeev Hever, J bambini raccontano la loro storia, in «Davar», 22 ottobre 1943, p. 2 48 Aliyat Hanoar FP 8797 49 Yitzhak Pessach al dottor A. Simonzon, 15 dicembre 1949, Aliyat Hanoar FP 19634 50 Ricerca inedita sui diplomati dell'istituto Aliyat Hanoar, cit 5! Aliyat Hanoar FP 11719; 1950; 3957
52 Givat Brenner alla Histadrut, 20 aprile 1945, AL, IV 221-2-517 53 Zeev Iserson et al. all'Ufficio del Mapai, 16 marzo 1948, APL, 25/48. Avraham Harzfeld e Shmuel Dayan al CC del Mapai, 30 novembre 1948, APL, 23/48; Ufficio immigrazione della Histadrut di Haifa alla direzione di Tel Aviv, 18 novembre 1946, AL, 208 IV 4298 55 Conclusioni del Comitato incaricato di studiare la possibilità di organizzare gli immigrati in brigate e gruppi di lavoro, AN, UPM, 1/160; Stato di Israele, Istituto di ricerca sull'opinione pubblica, «L'opinione pubblica sulla questione dell'immigrazione», ottobre 1949, p. 12 56 L'episodio dell'assorbimento di 4000 immigrati su 100.000, in «Haaretz», 18 giugno 1946, p. 2 57 Eliahu Dobkin al CC del Mapai, 23 ottobre 1945, APL, 23/45; Shaar Haamakim al Centro per l'immigrazione della Histadrut, 24 giugno 1944, AL, IV 2112-531; Kvutsat Usha a! Centro immigrazione, 25 luglio 1944; Elon all'Agenzia ebraica, 25 settembre 1944, ecc., AL, IV 211-2-525 58 Ayelet Hashahar all'Ufficio immigrazione dell'Agenzia ebraica, 24 ottobre 1945; Usha al Centro immigrazione, 16 novembre 1943,26 luglio 1944; Elon all'Agenzia ebraica, 25 settembre 1944, AL, IV 211-2515 59 Kvutsat Schiller al Centro per l'immigrazione della Histadrut, 12 settembre 1944, AL, IV 211 -2-531; Afikim all'Agenzia ebraica, 27 settembre 1945; Haim Rokah a Usha, 27 ottobre 1943; Usha a Rokah, 16
novembre 1943, AL, IV, 211-2-515 60 Malka Shiein a Rokah, 22 febbraio 1951, APL, 10-1-4 61 Levi Eshkol all'EAE, 19 giugno 1949, ACS 62 H.T. Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», cit., p. 180 63 Eliahu Dobkin al CC del Mapai, 23 ottobre 1945, APL, 23/45 64 Testimonianza di Yoel Peles (Florsheim), Archivio Moreshet, A 972 65 Hillel Klein, Le famiglie dei superstiti dell'Olocausto nel kibbutz. Studi psicologici, in «Cliniche Psichiatriche Internazionali», n. 8,1971, pp. 67 sgg 66 H.T. Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», cit., p. 74. Ivi.p.Ul 68 Ivi, p. 67 69 David Ben Gurion a Zeev Schind, 18 marzo 1948, in Gershon Riviin e Eihanan Oren, a cura di. Diario di guerra, Tel Aviv, Ministero della Difesa, 1982, voi. I, p. 302; Dov Yosef all'EAE, 11 gennaio 1948, ACS; il Mossad in Israele al Mossad all'estero, 30 marzo 1948, ACS, S/6 5067 70 H.T. Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», cit, p. 74. n Ivi. p. 83 72 Ivi, p. 64; cfr. anche Emanuel Sivan, La generazione del '48: mito, profilo e memoria, Tel Aviv, Maarahot, 1991, pp. 73 sgg 73 H.T. Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», rit., p. 74; DBG, 14 giugno 1948 74 Hairn Curi, Finché non spunterà l'alba, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1950, p. 85 75 Gabi Daniel (Benjamin Haroshowsky-Harshav), Pietro il Grande,
in «Igra», n. 2,1986, p. 199; E. Sivan, op. cit., pp. 73 sgg 76 H.T. Yablonka, «IL problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», cit., p. 104 77 ivi, p. 113 78 Eliahu Dobkin al CC del Mapai, 2 maggio 1942, APL, 23/42; David Ben Gurion al CC del Mapai, 22 aprile 1949, APL, 24/49 79 Dal film La tempesta, realizzato da Orna Ben-Dor-Niv e Dama Kaplanski, trasmesso per la prima volta dalla televisione israeliana nel giugno del 1989 80 Scrittori al convegno convocato dal primo ministro, 27 marzo 1949, Gerusalemme, UPM, 1949; cfr. Anita Shapira, Terra e potere, Tel Aviv, Am Oved, 1992 81 A. Gelblum, art. cit 82 Aharon Appelfeld, Folgorato dalla luce, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1980, p. 61; «Tsror Mihtavim 7», n. 6 (169) 131, 22 gennaio 1943, p. 143 83 Il VI Congresso della Histadrut, Tel Aviv, Histadrut, 1945, p. 302; cfr. anche Yehuda Tubin et al., a cura di, Rozka, Tel Aviv, Sifriat Poalim, 1988, p. 213; Dina Porat, Rozka Korczak e lo yishuv, in «Yaikut Moreshet», aprile 1992, pp. 9 sgg 84 Moshe Smilansky, La lezione, in «Haaretz», 10 maggio 1945, p. 2 85 Avraham Shionsky, Presagi, in Poesie, Tel Aviv, Sifriat Poalim, 1971, voi. IV, p.72 86 H. Yahil, art. cit., p. 174
87 Haim Baitzan, Gli ebrei fra i criminali di guerra, in «Haaretz», 3 giugno 1945, p.2 88 Testimonianza di Ruth Aliav, ABG, p. 57 89 Testimonianza di Dov Shilansky, Istituto Jabotinsky, 6/29/18 90 A. Shapira, Camminando sull'orizzonte, cit., pp. 328 sgg.; cfr. anche Yosef Bankover al CE della Histadrut, 5 settembre 1945, AL 91 Tom Segev, Se soltanto aveste inviato un messaggero, in «Koteret Rashit», n 63,15 febbraio 1984, pp. 14 sgg 92 Y. Palgi, op. cit., p. 243 93 Segreteria di Yad Vashem, 26; Tom Segev, Il mito del sapone, in «Koteret Rashit», n. 205, 5 novembre 1986, p. 11; Confermata l'atrocità del sapone fatto con gli ebrei, in «Haaretz», 26 dicembre 1945, p. 2; Uzi Benziman, Il Buono, il Brutto e il Cattivo, in «Haaretz», 23 giugno 1989, p. B3; Uri Zvi Greenberg, 23 gennaio 1950, DK, IV, p. 593; Moshe Sharett, 13 marzo 1951, DK, Vili, p. 1322; Menahem Begin, 2 aprile 1951, DK, Vili, p. 1548; Arieh Ben-Eliezer, 10 agosto 1951, DK, X, p. 242; Yoram Kaniuk, Uomo, figlio di cane, Tel Aviv, Amikam, 1969, p. 112; Ruth Firer, Gli agenti della lezione, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1989, pp. 27 sgg., 53 94 Moshe Sharett al CE della segreteria della Histadrut, 29 aprile 1943, AL. Cfr. anche A. Shapira, Terra e potere, cit., pp. 451 sgg 95 H.T. Yablonka, «Il problema dell'assorbimento e dell'integrazione del "resto"...», cit, p. 187 Note
497 96 A. Halamish, «Haapalah: valori, miti e realtà», cit., p. 88; Idit Zertal, Anime perdute: i maapilim e il Mossad Lealiya Bet nella lotta per la fondazione dello Stato e successivamente, in «Hatsionut», n. 14, agosto 1989, pp. 107 sgg 97 «Verso il futuro», discorso a un convegno di scrittori, giugno 1943, in Y. Gruenbaum, op. cit., p. 127 98 Haim Baitzan, Come spuma sull'acqua, in «Haaretz», 31 gennaio 1947, p. 2 99 David Remez al CE della Histadrut, 26 maggio 1943, AL 100 Eliezer Kaplan all'EAE, 20 giugno 1944, ACS 101 Ada Fishman al CE della Histadrut, 23 gennaio 1946, AL 102 S. Eisenberg all'EAE, 9 ottobre 1949, ACS X. «Aggiungiamoci qualche considerazione di carattere morale» 1 Menahem Bader e David Ben Gurion, 28 novembre 1951, DK, X, p. 942 2 Mordecai Nurok, 29 giugno 1949, DK, I, p. 867 3 Yermiah Yafeh a David Ben Gurion, s.d., AN, ME, 2418/15 4 Ora Shem-Or, Che nessun piede tedesco calchi le strade di Tel Aviv!, in «Yediot Aharonot», 4 settembre 1949, p. 1 5 Gershom Schocken, No/ e i tedeschi, in «Haaretz», 2 settembre 1949, p. 2 6 Walter Eitan a Moshe Shapira, s.d. (documento basato sulla consultazione del 15 dicembre 1949), AN, ME, 2539/1; comunicato dell'Ufficio stampa del governo, 28 dicembre 1949, AN, ME, 2413/2 7 Direttore dell'ufficio legale al direttore generale, 10 gennaio 1950, AN, ME, 2413/2 8 Gershon Avner a Daniel Levin, 27 novembre 1949, in Yemima Rosental, a
cura di. Documenti relativi alla politica estera israeliana, maggio-dicembre 1949, Gerusalemme, Archivio nazionale, 1986, voi. IV, p. 650 9 Commissione per il commercio estero ai ministeri delle Finanze e degli Esteri, 14 settembre 1949, AN, ME, 2413/2 10 M. Bar-Zohar, David Ben Gurion, cit., voi. II, p. 912; voi. in, p. 1320 11 Walter Eitan alle delegazioni israeliane all'estero, 31 agosto 1950, AN, ME, 2413/2 12 Moshe Sharett al CC del Mapai, 21 aprile 1952, APL, 23/52 13 Sintesi della riunione del 22 dicembre 1949, AN, ME, 2413/2; cfr. anche Yeshayahu A. Jelinek, «Un'oasi nel deserto: il consolato israeliano a Monaco», in Studies in Zionism (in inglese). Tel Aviv, 1988, pp. 81 sgg 14 Eliahu Livneh al ministero degli Esteri, 20 settembre 1950, e Gershon Avner a Livneh, 28 settembre 1950, AN, ME, 2539/1 15 Yeshayahu Forder e Moshe Shapira, 1° gennaio 1951, DK, VII, p. 617 16 Yehoshua Freundiich, a cura di, Documenti relativi alla politica estera israeliana, 1950, voi. V, p. 609 (Gerusalemme, Archivio nazionale, 1988) 17 Shiomo Ginossar a Gershon Avner, 2 novembre 1950, in Y. Freundiich, op. cit., voi. V, p. 617 18 Mordecai Kidron a Walter Eitan, 9 gennaio 1950, AN, ME, 2413/2 19 Gideon Rafael a Abba Eban, 19 febbraio 1951, AN, ME, 2413/2 20 Eiyashiv Ben-Horin a Gershon Avner, 6 novembre 1950, in Y. Freundiich, op. cit., voi. V, p. 629; Ben-Horin a Gershon Avner, 6 novembre 1950, AN, ME, 2539/1 (I) 21 Michael Amir al dipartimento per l'Europa orientale, 13 novembre 1950, in Freundiich, op. dt., voi. V, p. 650; Shlomo Gmossar a
Gershon Avner, 2 novembre 1950, ivi, p. 617; cfr. anche il parere del console israeliano a Monaco, ivi, p. 666 22 Walter Eitan a Michael Amir, 22 novembre 1950, AN, ME, 2413/2 23 Michael Brecher, Dccisions in Israel's Foreign Policy, Londra, Oxford University Press, 1974; Yehudit Auerbach, «Decisioni di politica estera e mutamenti di posizione: Israele-Germania 1950-1965», tesi di laurea, Gerusalemme, Università ebraica, 1980; Yitzhak Gilad, «L'opinione pubblica israeliana e le relazioni fra Israele e la Germania occidentale, 1949-1965», tesi di laurea. Università di Tel Aviv, 1984; Rudolf Herbst e Constantin Goschler, a cura di, Wiedergutmachung in der BundesrepublikDeutschland, Monaco, R. Oidenburg, 1989 24 N. Sagi, op. cit., pp. 7 sgg.; Yeshayahu A. Jelinek, «Israel und die Anfange der Shillumim», in L. Herbst e C. Goschler, op. cit., pp. 199 sgg 25 Memorandum di Paul Màrz, 17 marzo 1943, ACS, S/25 5188; per altri memorandum sulla questione delle riparazioni (dal 1941 in poi), cfr. S/26 1325; S/25 5188; S/90 526; S/90 527 26 Ministero degli Esteri israeliano, Documents Relating to the Agreement between the Government of Israel and the Government of the Federal Republic of Germany (in inglese), Gerusalemme, IPS, 1953, pp. 9-11 27 N. Sagi, op. cit., p. 36; Haim Yahil al CC del Mapai, 13 dicembre 1951, APL, 23/51
28 Martin Buber spiega le ragioni per cui ha accettato il premio Goethe dall'università di Amburgo, in «Haaretz, 31 dicembre 1951; Mordecai Nurok, 19 dicembre 1951, DK, X, p. 717; Haim Boger, 9 gennaio 1952, DK, X, p. 934, ecc.; per altre reazioni cfr. Gershom Scholem, C'è una ragione. Tel Aviv, Am Oved, 1982, p. 121 e Lettera ai direttore, in «Haaretz», 20 dicembre 1951; Martin Buber, Briefivechsel aus sieben fahrzehnten, Heidelberg, Lambert Schneider, 1975, voi. Ili, pp. 308 sgg 29 Pinhas Rosen, 5 dicembre 1949, DK, III, p. 228 sgg.; Avraham Sheftel e Yonah Kosoi, DK, III, p. 235 30 Walter Eitan a Zeev Sherf, 22 dicembre 1949, AN, ME, 2539/1 31 Eliezer Kaplan a Moshe Sharett, 21 marzo 1950, AN, ME, 2417/1 32 Gershon Avner a Daniel Levin, 27 novembre 1949, in Y. Rosental, op. cit., p. 650 33 ACS, S/35 70; il rapporto Mendelsohn si trova anche in AN, ME, 2417/1, insieme ai rilievi effettuati da Arieh Yehuda David del ministero dell'Industria e del Commercio durante una riunione congiunta dell'EAE e del gabinetto, 2 maggio 1950 34 Shmuel Tuikowsky a Ernst Ostermann, 27 ottobre 1950; Ostermann a Tuikowsky, 10 gennaio 1951; Moshe Sharett a Gershon Meiron, 8 marzo 1951; Meiron a Sharett, 12 marzo 1951 (tutti in AN, ME, 2417/1) 35 Moshe Sharett a Eliezer Kaplan, 2 luglio 1950, AN, ME, 2417/1 36 Karl Marx, Bekenntnis zur Verpflichtung: Interview der «Allgemeinen» mit Bundeskanzier Dr. Adenauer, in «Allgemeinen Wochenzeitung der Juden
in Deutschland», 25 novembre 1949, pp. 1 sgg 37 Shlomo Kadar a Moshe Sharett, 29 dicembre 1950, AN, ME, 2417/1 38 Ministero degli Esteri israeliano, Documents Relating to the Agreement..., cit., pp. 13-24, 28-39 39 Gershon Avner a Maurice Fischer, 6 aprile 1951; Fischer a Avner, 3 maggio 1951, ecc., AN, ME, 2543/4; David Horowitz, La vita al microscopio. Tel Aviv, Masada, 1975, p.89 Note 499 40 M. Sharett, Non ci sono stati contatti con i tedeschi a Parigi sulla questione delle riparazioni, in «Haaretz», 25 dicembre 1951, p. 1 41 D. Horowitz, La vita al microscopio, cit., pp. 86 sgg.; Maurice Fischer a Gershon Avner, 3 maggio 1951, ecc., AN, ME, 2543/4 42 Deutscher Bundestag, 27 settembre 1951, copia dei verbali, AN, ME, 2543/6; cfr. anche Ministero degli Esteri israeliano, Documents Relating to the Agreement..., cit., pp. 41 sgg.; Eliezer Shinar, Sotto il fardello del dovere e dell'emozione. Tel Aviv, Schocken,1967, p.20 43 Gershon Avner a Ester Herlitz, 11 novembre 1951, AN, ME, 2543/6 44 Gershon Avner a Walter Eitan, 21 agosto 1951, AN, ME, 2417/3 45 Due bozze della dichiarazione di Adenauer si trovano in AN, ME, 2543/6; una terza bozza, vergata sulla carta di un ristorante di Wiesbaden, si trova in AN, ME, 532/8; cfr. anche Kai von Jena, Versonung mit Israel? Die deutsch-israelischen Verhandlungen bis zwn Wiedergutmacliungsabkomnien von 1952, in «Vierteijahreshefte fùr Zeitgeschichte», n. 34,1986, pp. 457 sgg.; Rudolf Huhn, «Die Wiedergutmachungsverhandiungen in Wassenaar», in L. Herbst e C.
Goschler, op. cit., pp. 141 sgg 46 Nahum Goldmann a Moshe Sharett, 14 settembre 1951, ACS (Nahum Goldmann), Z-6 2345 47 Gershon Avner a Walter Eitan, 21 agosto 1951, AN, ME, 2417/3 48 DBG, 25 settembre 1951 49 Walter Eitan a Eliahu Livneh, 24 settembre 1951, AN, ME, 532/8; cfr. anche Gershon Avner a Gideon Rafael, 25 settembre 1951, AN, ME, 2417/3 50 Bozza della reazione con commento di Walter Eitan, AN, ME, 2417/3 51 Ministero degli Esteri israeliano, Documents Relating to the Agreement..., cit., pp. 44 sgg., 56 sgg 52 La dichiarazione del Dr Adenauer, in «Haaretz», 3 ottobre 1951, p. 2. :'3 Ministero degli Esteri israeliano, Documents Relating to the Agreement..., cit., pp. 56 sgg.; cfr. anche Moshe Sharett a Walter Eitan, 20 novembre 1951, in Y. Rosental, op. cit., p. 821 54 Nahum Goldmann, Memorie, Gerusalemme, Weidenfeld & Nicolson, 1972, p.236 55 Moshe Sharett al CP del Mapai, 5 maggio 1952, APL, 26/52 56 Yosef Sprinzak al CC del Mapai, 13 dicembre 1951, APL, 23/51 57 A7.ne Karlebach, Amalec, in «Maariv», 5 ottobre 1951, p. 3 58 Arieh Sheftel al CC del Mapai, 13 dicembre 1951, APL, 23/51 59 Meir Dworzecki al CC del Mapai, 13 dicembre 1951, AFL, 23/51 60 David Ben Gurion al CC del Mapai, 13 dicembre 1951, APL, 23/51 61 Ibid XI. «Gas contro gli ebrei» 1 DBG, 30 ottobre 1951; David Den Gurion al CC del Mapai, 13 dicembre 1951, APL,23/51
2 Natan Alterman, «Tre cose sulla richiesta di riparazioni alla Germania», in La settima colonna, cit., voi. Ili, p. 386; Arieh Gelblum, Buber sulla questione dei contatti con la Germania, in «Haaretz», 7 gennaio 1952, p. 1 3 Concluso il sondaggio sulle riparazioni, in «Maariv», 9 gennaio 1952, p. 4; sulle modalità del sondaggio, cfr. «Maariv», 3 gennaio 1952, pp. 1 sgg 4 Menahem Begin invita ad arruolarsi e ad agire, in «Herut», 1° gennaio 1952, p. 1. 5 Begin alla grande manifestazione in Zion Street a Gerusalemme, in «Herut», 8 gennaio 1952, p. 1 6 Eric Silver, Begin, Londra, Weidenfeld & Nicolson, 1984, p. 7 7 Il sangue delle vittime non tacerà, in «Herut«, 2 gennaio 1952, p. 1 8 Nessuna cosa al mondo può giustificare i negoziati con la nazione degli assassini tedeschi, in «Herut», 6 gennaio 1952, p. 1 9 Manifesti sulle riparazioni, Archivio Jabotinsky, 9/8/3 1 H 10 Nessuna cosa al mondo..., cit 11 «Herut», 4 gennaio 1952, p. 1 12 Non ci schiereremo con gli eredi di Hitler, in «Al Hamishmar», n. 8, gennaio 1952, p. 1; cfr. anche A. Karlebach, Amalec, cit 13 «Herut», 4 gennaio 1952, p. 1 14 Menahem Begin, 7 gennaio 1952, DK, III, p. 891 15 David Ben Gurion, ivi, III, p. 897 16 Elimelech Rimalt, ivi, III, p. 899 17 Begin alla grande manifestazione..., cit 18 Scontri sanguinosi delle bande fasciste a Gerusalemme, in «Davar», 8 gennaio 1952, p. 1; Raduno dell'Herut e scontri, in «Haaretz», 8 gennaio 1952, p. 1 19 Begin alla grande manifestazione..., cit
20 Menahem Begin, 7 gennaio 1952, DK, X, p. 906 21 Police in 2-Hour Street Battle, in «Jerusalem Post», 8 gennaio 1952, p. 1 22 Yaakov Hazan, 10 marzo 1949, DK, I, p. 55 23 David Ben Gurion al CC del Mapai, 13 dicembre 1951, APL, 23/51; cfr. anche Zaiman Aran, 8 gennaio 1952, DK, X, p. 922 24 David Ben Gurion, Teoria e pratica, Tel Aviv, Mapai, 1953, voi. Ili, p. 278 25 Yosef Sprinzak et al., 7 gennaio 1952, DK, X, pp. 901 sgg 26 Shalom Rosenfeld, Esplosione di collera e odio a Gerusalemme, in «Maariv», 8 gennaio 1952, p. 2 27 Yohanan Bader, Jo e la Knesset, Tel Aviv, lanim, 1979, p. 62 28 Menahem Begin, 7 gennaio 1952, DK, X, p. 905 29 DBG, 6 gennaio 1952 30 S. Rosenfeld, art. cit.; DK, X, p. 905 31 Menahem Begin, 7 gennaio 1952, DK, X, p. 906 32 S. Svislovsky, La Knesset ha pianto, in «YediotAharonot», 8 gennaio 1952, p. 2 33 DBG, 11 gennaio 1952 34 D. Ben Gurion, Teoria e pratica, cit., voi. Ili, p. 278 35 Ben Gurion stava per dichiarare fuorilegge l'Herut, in «Yediot Aharonot», 9 gennaio 1952, p. 1 36 Telegrammi di solidarietà e lettere di cittadini, 7-13 gennaio 1952, p. 1, ABG 37 Isser Harel, Sicurezza e democrazia, Tel Aviv, lanim, 1989, p. 190 38 M. Bar-Zohar, David Ben Gurion, cit., voi. II, pp. 925 sgg 39 La piazza non governerà, in «Haaretz», 8 gennaio 1952, p. 2; Azriel
Karlebach, Ecco il limite, in «Maariv», 8 gennaio 1952, p. 4 40 9 gennaio 1952, DK, X, pp. 962 sgg 4! Haim Landau, 21 gennaio 1952, DK, X, p. 1036; Meir Argov, 9 gennaio 1952, DK, X, p. 944 42 Yohanan Bader, 17 marzo 1952, DK, XI, p. 1588 43 Arieh Ben-Eliezer, 8 ottobre 1951, DK, X, p. 242 44 Haim Landau, 21 febbraio 1955, DK, XVII, p. 880 Note 501 45 Haim Landau, 5 dicembre 1949, DK, III, p. 234; Yohanan Bader, DK, III, p. 232 46 Moshe Sharett, 15 marzo 1950, DK, Vili, pp. 1320 sgg.; cfr. anche Ministero degli Esteri israeliano. Documenti Relating to the Agreement..., cit., pp. 20 sgg 47 Menahem Begin, 2 aprile 1951, DK, Vili, p. 1548 48 E. Gutman, op. cit., p. 5 49 Y. Bader, op. cit., p. 49 50 Ivi, p. 50 51 E. Gutman, op. cit., p. 4 52 Y. Bader, op. cit., pp. 54 sgg 53 Ben Gurion al CC del Mapai, 13 dicembre 1951, APL, 23/51 54 Y. Bader, op. cit., pp. 58, 62 55 Menahem Begin, 7 gennaio 1952, DK, X, p. 905 XII. «Il bambino ha viaggiato gratis» 1 Tutti i documenti diplomatici sui negoziati di Israele con la Germania sono a disposizione dei ricercatori nell'Archivio nazionale di Gerusalemme.
L'Archivio Nahum Goldmann (ANG) si trova all'interno dell'Archivio centrale sionista (ACS). Sia Konrad Adenauer sia Nahum Goldmann hanno raccontato nelle loro memorie lo svolgimento delle trattative. Altrettanto hanno fatto diversi funzionar;, israeliani e tedeschi. La cronologia dei negoziati, basata soprattutto sui testi autobiografici dati alle stampe, si trova in Y. Gilad, op. cit., mentre la loro descrizione, da un punto di vista soprattutto israeliano, si trova in N. Sagi, op. cit., e in Yehudit Auerbach. Ben Gurion e le riparazioni tedesche, Gerusalemme, Yad Ben-Zvi, in corso di stampa. Il punto di vista tedesco è descritto in L. Herbst e C. Goschler, op. cit 2 Konrad Adenauer, Erinnerungen 1953-1955, Stoccarda, Deutsche Verlagsanstalt, 1966, p. 144 3 E. Shinar, op. cit., p. 28 4R.Huhn,flf(.cct.,p.l43 5 Yeshayahu Ben-Porat, Conversazioni, Tel Aviv, Idanim, 1981, pp. 44 sgg eJCT.pp.9sgg 7 K. Adenauer, op. cit., p. 137 SIvi,p.Ul 9 ANG, Z-6 1998 10 Eliahu Tabin, colloquio con l'autore (registrato), 9 maggio 1990; Maurice Fischer al ministro degli Esteri, 6 aprile 1952, AN; memorandum di Eliezer Dorot, 9 aprile 1952, AN, ME, 2544/1 11 Eliezer Shinar a Walter Eitan, 23 dicembre 1951, AN, ME, 2417/3; sui contatti, diretti e indiretti, con la Germania orientale, tramite l'Unione Sovietica, cfr. AN, ME, 2418/3-15,2444/1, ecc 12 Memorandum del dipartimento investigativo, 5 agosto 1952, AN, ME, 2543/9 13 Moshe Tsuriel a Nahum Goldmann, 22 luglio 1954, ANG, Z-6, 2016 14 Abba Eban a Dean Acheson, 3 aprile 1952, ANG, Z-6 1985; cfr.
anche Acheson a Moshe Sharett, 3 giugno 1952, ivi 15 Jacob Blaustein, A Dramatic Era in the History ofNew York, New York, AmericanJewish Committee, 1966, pp. 7 sgg 16 Minute di lettere di John McCloy e Harry S. Truman a Konrad Adenauer, redatte a quanto sembra da Nahum Goldmann, ANG, Z-6 2010; cfr. anche N. Goldmann, op. cit., pp. 240 sgg 17 Maurice Fischer alla delegazione per le riparazioni, 4 giugno 1952, AN, ME, 2417/6; sulla missione di Klein cfr. anche R. Huhn, ari. cit., p. 143 18 E. Shinar, op. cit., pp. 31 sgg 19 Nahum Goldmann a Konrad Adenauer, 19 maggio 1952, ANG, Z61998; N Goldmann, op. cit., pp. 241 sgg.; K. Adenauer, op. cit., pp. 146 sgg 20 Delegazione per le riparazioni al primo ministro, 13 giugno 1952, AN, ME, 2417/6 21 Ministero degli Esteri israeliano, Documents Relating to the Agreement..., cit., pp. 125 sgg 22 Michael Michaeli, Commercio estero e importazione di capitali in Israele, Tel Aviv, Am Oved, 1963, pp. 32,431 23 E. Shinar, op. cit., pp. 44 sgg.; Moshe Sharett al CP del Mapai, 5 settembre 1952, APL, 26/52 e anche 26 marzo 1953 24 E. Shinar, op. cit., pp. 52 sgg.; Zaiman Aran al CP del Mapai, 14
aprile 1953, APL, 23/53; Haim Landau e David Ben Gurion, 3 aprile 1953, DK, XIII, pp. 862 sgg 25 Dov Shilansky, In una prigione ebraica. Dal diario di un prigioniero politico, Tel Aviv, Armoni, 1980, pp. 21, 26 26 Tom Segev, La prigione santifica, in «Haaretz» (supplemento), 26 febbraio 1982, pp. 7 sgg 27 D. Shilansky, op. cit., pp. 10 sgg 28 DBG, 17 aprile 1953 29 Colloquio con l'autore 30 Arrestato il capo del Belar, in «Maariv», 7 settembre 1953, p, 1 31 N. Goldmann, op. cit., p. 250 32 David Ben Gurion a Nahum Goldmann, 2 luglio 1952,17 settembre 1953, ABG 33 Ivi, 2 luglio 1952 34 Banca di Israele, Le riparazioni e il loro effetto sull'economia israeliana, Gerusalemme, Banca di Israele, 1965, pp. 65 sgg 35 E. Shinar, op. cit., p. 63 36 Hillel Dan, Una strada non lastricata. La storia di Solel Boneh, Tel Aviv, Schocken, 1963, p.342 37 Banca di Israele, op. cit., pp. 171 sgg 38 M. Michaeli, op. cit., pp. 38 sgg 39 Banca di Israele, op. cit., p. 111 40 Hans Gunter Hockerts, «Anwalte der Verfoigten: Die United Restitution Organization», in L. Herbst e C. Goschler, op. cit., pp. 249 sgg.; Norman Bentwich. The United Restitution Organization, 1948-1968, Londra,
Vallentine, Mitchell, s.d 41 Le citazioni seguenti sono tratte da decine di migliaia di fascicoli conservati negli uffici della United Restitution Organization (URO) a Tel Aviv. Desidero esprimere la mia gratitudine al compianto direttore Avner Rom per avermi permesso di esaminare il materiale, a patto di rispettare l'anonimato dei richiedenti. Altre migliaia di fascicoli analoghi sono conservati nell'Archivio centrale per la storia del popolo ebraico a Gerusalemme, ma non sono consultabili. Cfr. anche Christian Pross, Wedergutmachung: Der Kleinkrieg gegen die Opfer, Francoforte, Athenaeum, 1988 Note 503 42 Yosef Falk a Walter Eitan, 9 gennaio 1956; Benyamin Usar a Falk, 20 gennaio 1956, AN, ME, 2545/1 43 Michael Landsberger, L'effetto dei risarcimenti tedeschi sui consumi e il risparmio in Israele, Gerusalemme, Banca di Israele, 1969, p. 6 44 Israel Weinberg (avvocato) contro il procuratore generale, PCS, 1973, XXVII (2), pp. 314 sgg 45 Procuratore generale al primo ministro, al ministro degli Esteri e delle Finanze, 10 aprile 1956, AN, ME, 2445/1; Levi Eshkol, 31 dicembre 1956, DK, XXI, p. 600; Benyamin Mintz, 31 dicembre 1956, DK, XXI, p. 601; per altri dibattiti sull'argomento, cfr. DK del 28 gennaio 1957,
XXI, pp. 873 sgg.; 9 aprile 1957, XXII, pp. 1767 sgg.; 26 marzo 1957, XXII, pp. 1520 sgg.; 10 aprile 1957, XXII, pp. 1772 sgg.; 29 maggio 1957, XXII, 2033 sgg.; 3 febbraio 1960, XXVIII, pp. 543 sgg.; 18 luglio 1960, XXIX, pp. 1893 sgg.; 19 giugno 1963, XXXVII, pp. 2131 sgg 46 M. Landsberger, op. cit., p. 21 47 Citato da Dan Giladi in «L'effetto dei risarcimenti individuali tedeschi sul movimento dei kibbutz», relazione presentata all'Istituto per il lavoro e la ricerca sociale della Histadrut e all'Università di Tel Aviv, 1976, p. 18 48 Moshe Sharett, 13 marzo 1951, DK, Vili, p. 1230 49 E. Shinar, op. cit., p. 75 50 Deutscher Bundestag, 10 Wahiperiode, Bericht der Bundesregelung uber Wiedergutmachung und Entscfiadigung fiir nationalsozialistisches Unrecht sowie uber die Lage der Sinti, Roma, una verwandter Gruppen, Drucksache 10/6287, Bonn, 31 ottobre 1986, p. 30 51 Eliahu Livneh a Walter Eitan, 27 novembre 1952, AN, ME, 2413/2 52 David Ben Gurion, La rinascita dello Stato di Israele, Tel Aviv, Am Oved, 1969, voi. I, p. 423 53 Citato in D. Giladi, «L'effetto dei risarcimenti individuali tedeschi sul movimento dei kibbutz», cit., p. 17 54 Eri Jabotinsky e Golda Meir, 27 marzo 1950, DK, IV, pp. 1153 sgg XIII. «È così difficile per noi, giudici di Israele» 1 L'uomo che fece esplodere il caso Kastner, in «Haolam Hazeh», 23 giugno 1955, p.4 2 Israel: on Trial, in «Time», 11 luglio 1955, pp. 19 sgg 3 Shalom Rosenfeld, Causa penale 124, Tel Aviv, Kami, 1955, p. 18; cfr. anche il verdetto della Corte distrettuale di Gerusalemme
(originale), p. 2, il verdetto della Corte suprema (originale), p. 128, entrambi conservati nella Biblioteca di Yad Vashem, Gerusalemme, nonché in PCS, 1958, XII, pp. 2017 sgg 4 DBG, 29 dicembre 1947; 10 gennaio 1948; 22 giugno 1951 5 S. Rosenfeld, Causa penale 124, cit., pp. 100,182 6 Israel Rudolf Kastner, Der Kastner Bericht uber Eichmanns Menschenhandel in Ungarn, Monaco, Kindler, 1961 7 Mordecai Nurok, 29 giugno 1949, DK, I, p. 868 8 Aggredito un ebreo sospettato di avere collaborato con la Gestapo, in «Haaretz», 6 gennaio 1946, p. 3 9 D. Shilansky, op. cit., p. 18 10 David Ben Gurion all'EAE, 24 febbraio 1946, ACS 11 Testimonianza di Ruth Aliav, ABG. 12 Roman Friester, Sema compromessi. Tel Aviv, Zemora Beitan, 1987, pp. 290 sgg 13 Shin, Collaboratori, in «Hatsofeh», 9 gennaio 1946, p. 2 14 Eliahu Dobkin al CE della Histadrut, 5 settembre 1945, AL, XVm, p. 34 15 Proposta di legge contro i criminali di guerra ebrei, in «Haaretz», 10 novembre 1949, p. 4 16 Mordecai Nurok, 29 novembre 1949, DK, III, pp. 187 sgg 17 Proposta di legge contro i criminali di guerra ebrei, cit 18 VCD, 1951-1952, V, pp. 146 sgg 19 Ibid.; cfr. anche VCS, 1964, XVIII, pp. 285 sgg 20 VCD, 1951-1952, V, pp. 152 sgg 21 VCS, 1959, XIII, p. 1056 22 Citato da Roni Stauber in Il dibattito politico sul processo Kastner nella stampa
di partito, in «Hatsionut», n. 13,1988, p. 226 23 Dov Yosef, La colomba e la spada, Tel Aviv, Masada, 1975, pp. 321 sgg 24 Dan Ofri, Mio marito non ha detto nient'altro che la verità, in «Yediot Aharonot» (supplemento «Shiva Yamim»), 17 marzo 1967, pp. 5 sgg 25 Yehiel Gutmann, Il procuratore generale contro il governo. Tel Aviv, Idanim, 1981, p. 89, 26 Tom Segev, Coscienza e giustizia in Haim Cohen, in «Haaretz» (supplemento), 13 marzo 1981, p. 7. Cfr. anche Michael Shashar, Haim Cohen, giudice della Corte suprema, Gerusalemme, Keter, 1989, p. 98; Y. Gutmann, op. cit., p. 89 27 Moshe Sharett, Diario personale, Tel Aviv, Sifriat Maariv, 1978, voi. n, p. 510 (23 maggio 1954) 28 Il dottor Kastner sul banco dei testimoni, in «Haaretz», 19 febbraio 1954, p. 8; Kastner: i servizi di controspionaggio erano al corrente dell'arrivo dei paracadutisti in Ungheria, in «Haaretz», 1° marzo 1954, p. 1; Eichmann mi ha detto: sono disposto a venderle un milione di ebrei, in «Haaretz», 2 aprile 1954, p. 8 29 Uri Avneri, L'uomo dell'anno: Shmuel Tornir, in «Haolam Hazeh», 14
settembre 1955, p.3 30 Citato in Isser Harel, La verità sul delitto Kastner, Tel Aviv, Idanim, 1985, pp 152 sgg 31 DBG, 6 luglio 1953 32 I. Harel, La verità sul delitto Kastner, cit., pp. 55 sgg.; VCD, 1958, XV, pp. 233 sgg.; VCS, 1958, XII, pp. 1541 sgg 33 S. Rosenfeld, Causa penale 124, cit., pp. 242 sgg 34 Ivi, p. 248 35 L'uomo che fece esplodere il caso Kastner, cit 36 R. Ben-Shushan, Come non comperare, in «Haaretz», 3 dicembre 1953, p. 3; Ancora sull'affare del grano, in «Haaretz», 25 marzo 1954, p. 2 37 S. Rosenfeld, Causa penale 124, cit., p. 194 38 Benyamin Halevy a David Ben Gurion, 22 dicembre 1953, ABG; cfr. anche Eliakim Rubinstein, I giudici della Terra, Tel Aviv, Schocken, 1980, p. 135 39 Verdetto della Corte suprema (originale), p. 167; cfr. anche VCS, 1958, XII, 2017 sgg 40 S. Rosenfeld, Causa penale 124, cit., p. 36 41 Ivi, p. 51 42 Il verdetto del processo Gruenwald-Kastner, in «Haaretz», 27 giugno 1955, p. 4 XIV. «Ha venduto l'anima al diavolo» 1 Citato da R. Stauber, art. cit., pp. 226 sgg.; cfr. anche p. 225 2 T. Segev, Caro lettore, in «Koteret Rashit», 13 maggio 1987, pp. 20 sgg
3 Il caso Avneri-Tamir, in «Yediot Aharonot», 26 ottobre 1980, p. 11. 41. Harel, La verità sul delitto Kastner, cit., p. 331 5 U. Avneri, art. cit., pp. 3 sgg 6 Ibid 7 Ibid 81. Harel, La verità sul delitto Kastner, cit 9 Teddy Kollek, For Gerusalem, Londra, Weidenfeld & Nicolson, 1978, p. 53 10 M. Sharett, op. cit., voi. II, pp. 376, 392,414,425,430,443,463,479,483,508, 543, 562 11 Ivi, voi. Il, p. 453 (9 giugno 1954); Sharett racconta la missione di salvataggio di Brandi in «Maariv», 6 giugno 1954, pp. 3, 6 12 M. Sharett, op. cit., voi. II, p. 562 (29 luglio 1954) 13 Le citazioni del verdetto della Corte distrettuale di Gerusalemme sono tratte dall'originale, conservato nella Biblioteca di Yad Vashem, p. 179; cfr. anche VCS, 1958, XII, pp. 2017 sgg 14 Verdetto della Corte distrettuale di Gerusalemme, cit., pp. 20 sgg 15 Ivi, pp. 38, 51, 53 16 Ivi, pp. 117,125 sgg 17 Ivi, pp. 157 sgg 18 M. Sharett, op. cit., voi. IV, p. 1073 (22 giugno 1955) XV. «Le prime crepe» 1 Citato da R. Stauber, art. cit., pp. 230 sgg 2 Uri Avneri, Il processo Sharett, in «Haolam Hazeh», 30 giugno 1955, pp. 3 sgg 3 Sul verdetto, in «Hapoel Hatsair», 28 giugno 1955, p. 3 4 M. Sharett, op. cit., voi. IV, p. 1073 (24 giugno 1955) 5 La lettura del verdetto, in «Haaretz», 24 giugno 1955, p. 2 6 Moshe Keren, Problemi passeggeri e permanenti, 1977, Gerusalemme, Keren, 1978, p.210 7 Ivi, p. 188
8 Menahem Begin et al. al CC dell'Herut, 26 giugno 1955, Archivio Jabotinsly. H/l-6/0/9 9 28 giugno 1955, DK, XVIII, pp. 2107 sgg 10 M. Sharett, op. cit., voi. IV, p. 1074 (28 giugno 1955) 11 Riunione dei deputati del Mapai, 28 giugno 1955, APL, 11-2-6 12 29 giugno 1955, DK, XVIII, pp. 2146 sgg 13 M. Sharett, op. cit., voi. IV, p. 1081 (4 luglio 1955). u Ivi, pp. 1081 sgg. (5 e 6 luglio 1955) 15 T. Kollek, For Jerusalem, cit., p. 47; Arthur D. Morse, Mentre sei milioni morivano: la soluzione finale e l'inerzia dell'Occidente, trad. it. Milano, Mondadori, 1968; Ben Hecht, Diniego, Tel Aviv, Israel Press, 1970 16 Yonah Kesse et al. alla segreteria del Mapai, 12 luglio 1955, APL, 24/55 17 Natan Alterman, «Ancora sulle due vie», in La settima croce. Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1989. 18 Natan Altern-ian, Sulle due vie, a cura di Dan Laor, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad,1989 19 Citato in R. Stauber, ari. cit., pp. 234 sgg 20 David Ben Gurion a A.S. Stein, 17 agosto 1955, ABG 21 Yehoshua Kastner a David Ben Gurion, 19 gennaio 1958; Ben Gurion a Kastner, 5 febbraio 1958, AN, UPM, 5432/16 22 David Ben Gurion a A.S. Stein, 18 agosto 1955, ABG 23 Ben Gurion rifiuta di confutare il falso alibi del criminale di guerra Krumey, in «Herut», 7 febbraio 1965, p. 1 XVI. «Il profeta Geremia, per esempio» David Ben Gurion e Menahem Begin, 17 ottobre 1956, DK, XXI, pp. 110 sgg.; Begin, 7 novembre 1956, DK, XXI, p. 197 2 Irving Sider e Harold Greenberg, Otto Skorzeny: il nazista dietro Nasse»", in «Maariv», 19 ottobre 1956, p. 4; fotografia di Mein Kempf,
in «Maariv», 5 novembre 1956, p. 2; Sema intermediari (editoriale), in «Maariv», 5 novembre 1956, p. 4; Eliezer Wiesel, L'ufficiale delle SS che ha programmato la deportazione egiziana, in «Yediot Aharonot», 23 dicembre 1956, p. 2; Un Zvi Greenberg, Un tempo per le parole e un tempo per la pioggia, in «Maariv», 27 luglio 1956, p. 3 3 Yitzhak Meir Levin, 7 novembre 1956, DK, XXI, p. 209; cfr. anche Baruch Azanya (Mapai), DK, XXI, p. 212 4 D. Ben Gurion, La rinascita dello Stato di Israele, cit., p. 546; Mordecai Bar-On, La sfida e la lotta, Be'er Sheva, Università Ben Gurion, 1991, p. 85. Cfr. anche Mordecai Bar-On, Le porte di Gaza. La politica della difesa e la politica estera di Israele 1955-1957, Tel Aviv, Am Oved, 1992 5 DBG, 8 novembre 1956 6 M. Ben-Zohar, David Ben Gurion, cit., voi. In, pp. 1281,1294 7 David Ben Gurion, «Discorso agli ufficiali delle forze armate israeliane», 4 aprile 1957, in Unicità e fini, Tel Aviv, Maarahot, 1972, p. 294 8 VCS, 1960, XL1V, p. 410; Moshe Kordov, Undici berretti verdi alla sbarra. Tel Aviv, A. Narkis, 1959; Tom Segev, Kfar Kassem. La bandiera nera, in «Haaretz» (supplemento), 22 ottobre 1981, pp. 5 sgg 9 M. Sharett, op. cit., voi. Vili, p. 2219 (21 giugno 1957) 10 Avner (Walter) Bar-On, Lf storie mai raccontate, Tel Aviv, Idanim, 1981, pp. 81 sgg.; Esther Vilenska, 13 novembre 1956, DK, XXI, p. 248; David Ben Gurion, 12 dicembre 1956, DK, XXI, p. 462 11 Poles, Com'è potuto succedere?, in «Haaretz», 28 dicembre 1956, p. 2; Natan Alterman, La zona del triangolo, in «Davar», 7 dicembre 1956, p. 3; Uri Avneri, Il seme della distruzione, in «Haolam Hazeh», 19 dicembre
1956, p. 3; Rabbi Benyamin, Kfar Kassem alle porte della Knesset, in «Ner», novembre-dicembre 1956, p. 19; Yehoshua Bar-Yosef, Gli incidenti di Kfar Kassem, in «Davar», 18 dicembre 1956, p. 2; Yeshayahu Leibowitz, lettera, in «Haaretz», 28 ottobre 1958; lettere al direttore, in «Haaretz», 2 novembre 1958; II terribile incidente di Kfar Kassem, in «Davar», 17 ottobre 1958, p. 1; cfr. anche Dan Horowitz, Un giudizio severo ma necessario, in «Davar», 31 ottobre 1958, p. 2; Ron Linenberg, L'episodio di tifar Kassem nella stampa israeliana, in «Medina Vemimshai», n. 6, inverno 1972, pp. 48 sgg 12 «Yediot Aharonot» (editoriale), 13 dicembre 1956, p. 2; S. Svislotzki, È stato in evento orrendo e spaventoso, in «Yediot Aharonot», 13 febbraio 1956, p. 2; Yair Note 507 Amikam, Linciaggio nel nome di «Non uccidere», in «Yediot Aharonot», 13 febbraio 1956, p. 2; Shmuel Segev, Kfar Kassem riceverà 250.000 lire, in «Maariv», 12 dicembre 1956, p. 2 13 VCS, 1960, XLIV, p. 410 14 Aharon Zisling alla riunione di gabinetto del 27 giugno 1948, Archivio Hakibbutz Hameuhad (Zisling), sezione 9, scatola 9, fascicolo 3, 15 Shimon Peres, La fionda di Davide, Gerusalemme, Weidenfeld & Nicolson, 1970, p. 56 16 DBG, 29 dicembre 1957
17 Ivi, 4 settembre 1956 18 Y. Auerbach, «Decisioni di politica estera e mutamenti di posizione: Israele-Germania 1950-1965», cit., pp. 162 sgg.; David Ben Gurion, 24 dicembre 1957, DK, XXIII, p. 484; Menahem Begin, 7 gennaio 1958, DK, XXIII, p. 564 19 David Ben Gurion, 7 gennaio 1958, DK, XXIII, p. 589 20 David Ben Gurion a Yitzhak Ben-Aharon, 14 febbraio 1958, ABG 21 David Ben Gurion, 24 dicembre 1958, DK, XXIII, p. 483 22 David Ben Gurion a Yariv Ben-Aharon, 3 luglio 1963, 14 luglio 1973; BenAharon a Ben Gurion, 9 luglio 1963, ABG 23 Uri Avneri, Il verdetto, in «Haolam Hazeh», 15 gennaio 1958, pp. 3 sgg 24 Le citazioni del verdetto della Corte suprema sono tratte dall'originale, nell'ordine: pp. 156, 23,175, 47, 56, 93,103,195; VCS, 1958, XXII, pp. 2017 sgg 25 1. Harel, La verità sul delitto Kastner, cit., p. 200 26 Ivi, p. 203 27 D. Ofri, art. cit 28 Aharon Megged, Pietra miliare, in «Masa», 22 marzo 1957, p. 1 29 Pinhas Rosen a Haim Cohen, 17 gennaio 1958, AN, UPM, 5432/16 30 Shmuel Tamir, Uri Avneri et al.,6 gennaio 1971, DK, LIX, pp. 861 sgg.; cfr. anche I. Harel, La verità sul delitto Kastner, cit., pp. 287 sgg.; e Y. Gutmann, op. cit., p. 351 XVII. «Non è affatto certo che i nostri figli resteranno vivi» 1 Granaten aus Haifa, in «Der Spiegel», 26 giugno 1959, p. 18 2 David Ben Gurion al CC del Mapai, 28 giugno 1959, APL, 23/59; cfr. anche Y. Auerbach, «Decisioni di politica estera e mutamenti di posizione: Israele-Germania 1950-1965», cit., pp. 170 sgg.; Y. Gilad, op. cit., pp. 175 sgg
3 Ben Gurion al CC del Mapai, 28 giugno 1959, APL, 23/59 4 La vendita di armi alla Germania. Una questione di coscienza, in «Haaretz», 26 giugno 1962, p. 2 5 15 novembre 1954, DK, XVII, pp. 85 sgg 6 29 marzo 1959, DK, XVII 7 David Ben Gurion al CC del Mapai, 28 giugno 1959, APL, 23/59 8 Moshe Sneh e Levi Eshkol, 24 giugno 1959, DK, XXVII, p. 2360 9 29 giugno -1° luglio 1959, DK, XXVII, pp. 2371 sgg 10 S. Peres, op. cit., p. 58 n Y. Gilad, op. cit., pp. 201 sgg 12 16 marzo 1960, DK, XXVIII, pp. 918 sgg.; David Ben Gurion, 20 gennaio 1960, DK, XXVIII, pp. 420 sgg.; I. Harel, Sicurezza e democrazia, cit., p. 328 13 D. Ben Gurion, La rinascita dello Stato d'Israele, cit., p. 563; M. Bar-Zohar, David Ben Gurion, cit, voi. Ili, pp. 1371 sgg.; Inge Deutschkron, Bonn and Jerusalem. The Strange Coalition, New York, Chilton, 1970, pp. 117 sgg 14 Y. Gilad, op. cit., pp. 220 sgg.; 5 gennaio 1960, DK, XXVIII, pp. 247 sgg.; 16 marzo 1960, DK, XXVm, pp. 918 sgg XVIII. «Che ci odino pure e che vadano al diavolo» 1 Isser Harel, La casa in via Garibaldi, Tel Aviv, Maariv, 1975, pp. 22 sgg., 161 sgg 2 Procuratore generale contro Adolf Eichmann. Verdetto e sentenza, cit., pp. 72 sgg 3 Simon Wiesenthal, Ich Jagte Eichmann, Stoccarda, Gùtersioh Mohn, 1961; Tuvia Friedman, Nazi Hunter (in inglese), Haifa, Istituto per la documentazione dei crimini di guerra, 1961 4 I. Harel, Sicurezza e democrazia, cit., pp. 319 sgg.; Isser Harel, La crisi degli scienziati tedeschi, 1962-1963, Tel Aviv, Maariv, 1982, pp. 146 sgg. Cfr. anche Tom Bower, The Pledge Betrayed, Garden City, N.Y,
Doubleday, 1982, p. 396 5 DBG, 6 dicembre 1959, citato in M. Bar-Zohar, David Ben Gurion, cit., voi. Ili, p.1374 6 DBG, 15 maggio 1960, citato in M. Bar-Zohar, David Ben Gurion, cit., voi. Ili, p. 1375; I. Harel, La casa in via Garibaldi, cit., pp. 161 sgg., 253 sgg 7 David Ben Gurion, 23 maggio 1960, DK, XXIX, p. 1291 8 Natan Alterman, «La bilancia della giustizia», in La settima colonna, cit., vol. II,p.497 9 L'accusa contro Eichmann deve essere preparata meticolosamente, m «Haaretz», 27 maggio 1960 10 I. Harel, La casa in via Garibaldi, cit., pp. 22 sgg., 161 sgg 11 David Ben Gurion a Frieda Sason, 24 maggio 1960, ABG 12 The Beast in Chains, in «Time», 6 giugno 1960, pp. 24 sgg 13 N. Alterman, «La bilancia della giustizia», cit., p. 400 14 David Ben Gurion a Yitzhak Y Cohen, 10 aprile 1961, ABG; Ben Gurion a Nahum Goldmann, 2 giugno 1960, ABG 15 The Eichmann Case as Seen by Ben-Gurion, in «New York Times Magazine», 18 dicembre 1960 16 David Ben Gurion, 12 giugno 1962, DK, XXXIV, p. 2294 17 Gershon Hall, Un tribunale internazionale a Gerusalemme per Eichmann, in «Haboker», 31 maggio 1960, p. 1; Rafael Bashan, L'intervista della settimana, in «Maariv», 27 gennaio 1961, p. 10 18 David Ben Gurion a Nahum Goldmann, Goldmann a Ben Gurion, 2 giugno 1960, ABG 19 David Ben Gurion al CC del Mapai, 2 giugno 1960, APL, 23/60; Moshe Meiseis. Il duello Ben Gurion-Goldmann, in «Maariv», 3 giugno
1960, p. 2 20 David Ben Gurion a Nahum Goldmann, 2 giugno 1960, ABG 21 Ibid.; David Ben Gurion a Yitzhak Y Cohen, 10 aprile 1961, ABG 22 Herbert B. Ehrman a David Ben Gurion, 28 febbraio 1961; Ben Gurion a Ehrman, 13 marzo 1961, ABG 23 Joseph M. Proskauer a David Ben Gurion, 31 maggio 1960; Ben Gurion a Proskauer, 18 luglio 1960, ABG 24 The Eichmann Case as Seen by Ben-Gurion, cit 25 David Ben Gurion a Joseph M. Proskauer, cit 26 David Ben Gurion a Yitzhak Y. Cohen, 10 aprile 1961, ABG Note 509 27 Ibid 28 David Ben Gurion a Joseph M. Proskauer, 18 luglio 1960, ABG 29 The Eichmann Case as Seen by Ben-Gurion, cit 30 Il giorno del grande shock, in «Maariv», 24 maggio 1960, p. 1; Eichmann non è un uomo, in «Maariv», 3 giugno 1960, p. 4; Herzi Rosenblum, Sheheheyanu!, in «Yediot Aharonot», 24 maggio 1960, p. 2; Moshe Sneh, 8 giugno 1960, DK, XXIX, p. 1471; Shmuel Tamir, Il diavolo alla sbarra, in «Yediot Aharonot», 27 maggio 1960, p. 2; Verdetto della Corte suprema (originale), pp. 15,103, 4, ristampato in VCS, 1958, XII, pp. 297 sgg 31 Moshe Sneh, 8 agosto 1960, DK, XXIX, p. 2106 32 Yitzhak Oishan, Deliberazioni, Tel Aviv, Schocken, 1978, pp. 315 sgg 33 «Davar» (articolo di fondo), 28 maggio 1960, p. 1; Moshe Sneh, 8 agosto
1960, DK, XXIX, p. 2106 34 Haim Ben-Asher e Rachel Cohen, 26 dicembre 1949, DK, m, pp. 313 sgg.; cfr. anche 21 marzo 1950, IV, pp. 1103 sgg 35 Yosef Lamm e Menahem Begin, 26 dicembre 1949, DK, III, pp. 313 sgg 36 Pinhas Rosen, 27 marzo 1950, DK, IV, pp. 1147,1161 37 Zorach Warhaftig, 27 marzo 1950, DK, IV, p. 1152; Nahum Nir Rafalkes, 1° agosto 1950, DK, VI, p. 2393 38 PCD, 1951-1952, V, p. 172 39 Pinhas Rosen, 27 marzo 1950, DK, IV, p. 1147; Nahum Nir Rafalkes, 1° agosto 1950, DK, VI, p. 2393 4(1 Moshe Erem, 27 marzo 1950, DK, IV, p. 1151 41 Zorach Warhaftig, 27 marzo 1950, DK, IV, p. 1147 42 Avraham Zeliger, Bureau 06, in «Rivon Mishteret Yisrael 4», n. 13, febbraio 1962, pp. 8 sgg, 43 Rachel Auerbach, Testimoni e testimonianze al processo Eichmann, in «Yediot Yad Vashem», n. 28, dicembre 1961, pp. 35 sgg 44 Y. Gilad, op. cit., pp. 241 sgg., 370 45 Gideon Hausner, lì processo di Gerusalemme, Tel Aviv, Beit Lohamei Haghe taot e Hakibbutz Hameuhad, 1980, pp. 294-305 46 Y. Oishan, op. cit., pp. 315 sgg 47 Rafael Bashan, L'intervista della settimana, in «Maariv», 3 ottobre
1969, p. 16 48 18 gennaio 1961, DK, XXX, pp, 754 sgg.; 31 gennaio 1961, DK, XXX, pp. 855 sgg.; cfr. anche Eliakim Rubenstein, Giudici della Terra, Tel Aviv, Schocken, 1980, pp. 162sgg 49 8 agosto 1960, DK, XXIX, p. 2106 50 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. Milano, Feltrinelli, 19934, p. 13 XIX. «Sei milioni di volte No/» 1 G. Hausner, op. cit., pp. 312 sgg 2 Procuratore generale contro Adolf Eichmann. Verdetto e sentenza, cit., pp. 137 sgg 3 Gideon Hausner a David Ben Gurion, 24 marzo 1961; Ben Gurion a Hausner, 28 marzo 1961, ABG 4 G. Hausner, op. cit., pp. 324 sgg 5 Procuratore generale contro Adolf Eichmann. Dichiarazione preliminare, Gerusalemme, Merkaz Hahasbara, 1972, p. 7. 6 Sei milioni di anime si levano a gridare, in «Haaretz», 21 maggio 1947; D. Shilansky, op. cit., p. 20; VCS, 1959, XIII, p. 1056 7 David Ben Gurion, «Eterna Israele», in Annuario governativo 1954, Gerusalemme, DEG,1954, pp.18,9,14 8 Procuratore generale contro Adolf Eichmann. Dichiarazione preliminare, dt.,p. 127 9 G. Hausner, op. cit., pp. 324 sgg
10 Haim Curi, La gabbici di vetro. Il processo di Gerusalemme, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1962, p. 13 n Natan Alterman, «Il primo giorno», in La settima colonna, cit., voi. Il, p. 501 12 Procuratore generale contro Adolf Eichmann. Dichiarazione preliminare, dt-, p. 124 13 G. Hausner, op. cit., pp. 327,245 14 H. Curi, op. cit., p. 73 15 Rivka Joselewska al processo Eichmann, udienza 30, verbali. Biblioteca di Yad Vashem 16 Gabriel Strassman, Che cosa ci ha insegnato il processo Eichmann, in «Maariv», 11 dicembre 1981, p. 27 17 Moritz Fleischman al processo Eichmann, udienza 16, verbali. Biblioteca di Yad Vashem; H. Guri, op. cit., pp. 33, 245, 268 18 G. Hausner, op. cit., pp. 341, 344; Pinhas Freudiger al processo Eichmann, udienza 51; Joel Brand al processo Eichmann, udienza 56, verbali. Biblioteca di Yad Vashem 19 La richiesta di Tamir e i relativi articoli di giornale si trovano nell'Archivio Beit Jabotinsky e nella Biblioteca di Yad Vashem 20 G. Hausner, op. cit., p. 344 21 Procuratore generale contro Eichmann. Verdetto e sentenza, cit., p. 183 22 Tzivia Lubetkin e Yitzhak (Antek) Zuckerman al processo Eichmann, udienza 25; Abba Kovner al processo Eichmann, udienza 27, verbali. Biblioteca di Yad Vashem 23 G. Hausner, op. cit., p. 334 24 Ivi, p. 349 25 fai, p. 351 26 Deposizione di Adolf Eichmann, udienze 75 sgg., verbali. Biblioteca
di Yad Vashem 27 Procuratore generale contro Eichmann. Verdetto e sentenza, cit., p. 280 28 H. Curi, op. cit., pp. 146,154,176,183,187 29 G. Hausner, op. cit., p. 390 30 Procuratore generale contro Eichmann. Verdetto e sentenza, cit., p. 42; G. Hausner, op.cft.,p.351 31 H. Curi, op. cit., p. 187 32 Procuratore generale contro Eichmann. Verdetto e sentenza, cit., pp. 279 sgg 33 Ivi, pp. 285 sgg 34 Fatelo!, in «Maariv», 15 dicembre 1961, p. 1 35 Elisabeth Young-BruehI, Hannah Arendt. For Lave of the World, New Haven, Yale University Press, 1982, p. 332 36 Yerahmiel Cohen, «La questione della responsabilità degli ebrei nel loro sterminio da parte dei nazisti nelle opere di Bruno Bettelheim, Raul Hilberg e Hannah Arendt, e il dibattito da esse suscitato», tesi di laurea, Gerusalemme, Università ebraica, 1972, pp. 45 sgg 37 F.A. Krummacher, a cura di. Die Kontroverse Hannah Arendt, Eichmann, una Note 511 die Juden, Monaco, Nymphenburger Verlagshandiung, 1964; Jacob Robinson, And the Crooked Shall Be Made Straight, New York, MacMillan, 1965; Arieh Leon Koboby, Un paese criminale contro una società morale; M.
Mushkat, Eichmann a New York; Natan Eck, Gli odiosi articoli di Hannah Arendt, tutti in «Yediot Yad Vashem», n. 31, dicembre 1963, pp. 1 sgg.; scambio di lettere fra Gershom Scholem e Hannah Arendt, in «Yediot Irgun Olei Merkaz Eropa», n. 33, 16 agosto 1964; cfr. anche Gershom Scholem, Atti significativi, Tel Aviv, Am Oved, 1982, p. 91; A.E. Simon. Ritratto di Hannah Arendt, in «Molad», n. 21, opuscolo 179-180, pp. 239 sgg.; Ruth Firer, Gli autori dell'insegnamento, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1989, pp. 138 sgg 38 G. Hausner, op. cit., pp. 409 sgg 39 David Ben Gurion, 12 giugno 1962, DK, XXXIV, p. 2293 40 H. Guri, op. cit., pp. 245 sgg 41 Shmuel Hugo Bergmann a Geula Cohen et al., 27 luglio 1961, Archivio Bergmann, Biblioteca nazionale e universitaria, Arch. 40 1502/1558 42 Shmuel Hugo Bergmann, Tagebucher, Briefe, 1948-1975, Konigstein, Jùdischer Verlag bei Athenaeum, 1985, voi. II, p. 415 (1° giugno 1962); p. 395 (21 dicembre 1961) 43 Archivio Martin Buber, Biblioteca nazionale e universitaria, unità 630 44 Ivi, Pinhas Rosen a Martin Buber, 29 aprile e 7 maggio 1962; G. Hausner, op. cit., p. 428 45 Martin Buber et al. a Yitzhak Ben-Zvi, 30 maggio 1962, Archivio Buber 46 Yehuda Bacon al processo Eichmann, 7 giugno 1961, udienza 68, verbali, Biblioteca di Yad Vashem; cfr. anche Paintings from Hell, in
«Haolam Hazeh», 17 maggio 1961, pp. 12 sgg 47 Yehuda Bacon a Martin Buber, 4 novembre 1958, Archivio Buber 48 S.H. Bergmann, op. cit., voi. II, p. 415 (1° giugno 1962) 49 Rafael Bashan, L'intervista della settimana, in «Maariv», 27 gennaio 1961, p. 10; Philosopher's Plea, in «Time», 23 marzo 1962, p. 23; G. Hausner, op. cit., p. 445 50 H. Arendt, op. cit., p. 259 51 Michael Shashar, Yeshayahu Leibowitz sul mondo, Gerusalemme, Keter, 1987, vol. XXXII, pp. 79 sgg XX. «Le tenebre non prevarranno» 1 The Atom, in «Time», 26 dicembre 1960, p. 11; David Ben Gurion, 21 dicembre 1960, DK, XXX, p. 545; Levi Eshkol, 18 maggio 1966, DK, XLV, p. 1469 2 David Ben Gurion all'inaugurazione del centro di fisica nucleare presso l'Istituto Weizmann, 20 maggio 1958, ABG, dossier «Ben Gurion, scienziati e umanisti» 3 Yisrael Dostrovsky, «L'istituzione della Commissione per l'energia atomica», in David Ben Gurion e il progresso scientifico in Israele, Gerusalemme, Accademia nazionale israeliana delle scienze, 1989, pp. 44 sgg 4 Yaakov Hazan e Tawfik Tubi, 6 agosto 1962, DK, XXXIV, pp. 3059 sgg 5 Yehuda Ben-Moshe, Venticinque anni prima di Vanounou, in «Koteret Rashit», 26 novembre 1986, p. 16 6 Shimon Peres, 23 maggio 1966, DK, XLV, pp. 1480 sgg 7 David Ben Gurion al CC del Mapai, 13 dicembre 1951, APL, 23/51 8 Moshe Dayan al CC del Mapai, 28 giugno 1959, APL, 23/59. 9 Y. Dostrovsky, «L'istituzione della Commissione per l'energia atomica», cit, pp. 44 sgg
10 E.D. Bergmann a Meir Yaari, 25 luglio 1966, Hashomer Hatsair - Archivio Kibbutz Haartsi (Archivio personale di Yaari), B-ll (3) n 3 novembre 1964, DK, XLI, pp. 223 sgg.; Esther Raziel-Naor, 27 gennaio 1960, DK, XXVIII, p. 486 12 Isser Harel, La crisi degli scienziati tedeschi, 1962-1963, Tel Aviv, Maariv, 1982, p.65 13 20 marzo 1963, DK, XXXVI, pp. 1568 sgg 14 1. Harel, La crisi degli scienziati tedeschi, cit., pp. 74 sgg 15 David Ben Gurion, 7 aprile 1963, DK, XXXVI, p. 1748 16 T. Kollek, For Gerusalem, cit., p. 154 17 David Ben Gurion, 13 maggio 1963, DK, XXXVII, p. 1821; Abba Sikra, La Terza Organizzazione Sionista, in «Hazit Haam», 28 marzo 1933, p. 2. Cfr. anche M. Bar-Zohar, David Ben Gurion, cit., voi. Ili, p. 1546; Abba Ahimeir, Dal taccuino di un fascista, in «Herut», 15 agosto 1955, p. 2; Il dibattito Ben Gurion-Ahimeir, in «Maariv», 26 novembre 1964, p. 6 18 Y. Gilad, op. cit., pp. 270 sgg 19 David Ben Gurion a Haim Curi, 15 maggio 1963, ABG, citato in M. BarZohar, David Ben Gurion, cit., voi. Ili, p. 1547 20 T. Kollek, For Gerusalem, cit., p. 155 21 David Ben Gurion, 13 maggio 1963, DK, XXXVII, p. 1823; Menahem Begin, 17 marzo 1964, DK, XXXIX, p. 1427; Y. Gilad, op. cit., pp. 270 sgg 22 Y. Gilad, op. cit., pp. 369 sgg.; Rachel Auerbach, Testimoni e testimonianze al processo Eichmann, in «Yediot Yad Vashem», n. 28, dicembre 1961, pp. 193 sgg.; Haim Yehil a Moshe Sharett, 22 marzo 1953, ACS, ANG, Z6 2016 23 28 luglio 1954, DK, XXVII, p. 2229; M. Sharett, op. cit., voi. IV, p. 958 (24 aprile 1955); 15-171uglio 1957, DK, XXII, pp. 2389 sgg.; 24 dicembre 1957, DK, XXIII, p. 481
24 Israele e la Germania, in «Haaretz», 19 luglio 1954, p. 2; Gershom Schocken a Moshe Sharett, 19 luglio 1954, AN, ME, 2413/3 25 2 luglio 1956, DK, XX, pp. 2154 sgg.; Yaakov Tsur, Diario parigino, Tel Aviv, Am Oved, 1968, p. 272 26 Elimelech Rimalt, 12 ottobre 1964, DK, XLI, p. 11 27 E. Shinar, op. cit., pp. 93 sgg.; Moshe Sneh, 10 dicembre 1963, DK, XXXVIII, p.473 28 20 maggio 1964, DK, XL, pp. 1860 sgg.; 19 ottobre 1964, DK, XLI, pp. 57 sgg.; 18 novembre 1964, DK, XLI, pp. 384 sgg.; Y. Gilad, op. cit., pp. 349 sgg 29 16 marzo 1965, DK, XLII, pp. 1540 sgg 30 Y. Gilad, op. cit., p. 434 31 Y. Ben-Porat, op. cit., p. 25; cfr. anche Amos Elon, Non è mai troppo tardi per imparare, in «Haaretz», 5 maggio 1966, p. 1; Id., In una terra ossessionata dal passato, Tel Aviv, Schocken, 1967 32 Levi Eshkol, 23 maggio 1966, DK, XLV, p. 1518; Adenauer se n'è andato dopo una discussione su questioni di Stato con Levi Eshkol, in «Maariv», 10 maggio 1966, p.l 33 Esther Raziel-Naor, 17 maggio 1966, DK, XLV, p. 1443; Yaakov Solomon, La mia via, Tel Aviv, Idanim, 1980, pp. 274 sgg.; Un conflitto apparentemente superfluo, in «Haaretz», 6 maggio 1966, p. 2 34 Rolf Pauis, colloquio con l'autore (registrato), 23 novembre 1989 Note 513 35 15 luglio 1953, DK, XIV, p. 1946; 23 maggio 1955, DK, XVII, p.
1241; 10 dicembre 1956, DK, XXI, p. 429 36 Levi Eshkol, 12 luglio 1966, DK, XLVI, p. 2100 37 18 ottobre 1961, DK, XXXII, pp. 134 sgg.; 2-3 gennaio 1962, DK, XXXII, pp. 580 sgg.; 9 gennaio 1962, DK, XXXII, pp. 902 sgg 38 Haim Bar-Lev, 13 febbraio 1985, DK, I, p. 1620 XXI. «Ci pensavamo tutti» 1 «Nitsots», n. 15 (s.d., ma presumibilmente febbraio-marzo 1967); Natan Shaham, C; vuole più coraggio, in «Maariv», 7 luglio 1967, p. 13 2 David Ben Gurion, 23 maggio 1966, DK, LV, pp. 1508 sgg 3 Shimon Samet, Tel Aviv in un momento critico, in «Haaretz», 2 giugno 1967, p. 2; R. Ben-Shoshan, L'economia ha superato la prova, in «Haaretz», 9 giugno 1967, p. 3; Con coraggio e determinazione, in «Haaretz», 1° giugno 1967, p. 2; Le partenze da Lod rallenteranno fra un paio di giorni, in «Maariv», 19 maggio 1967, p. 8; Attallah Mansour, La Voce della Palestina di Shukeiry chiama alla rivolta gli arabi israeliani, in «Haaretz», 1° giugno 1967, p. 2; Michael Bar-Zohar, II mese più lungo. Tel Aviv, Le vin-Epstein, 1968, p. 153 4 The Seventh Day, registrato e stampato a cura di un gruppo di giovani kibbutzim, Londra, Andre Deutsch, 1970, pp. 160 sgg 5 Yitzhak Rabin, Libro di bordo, Tel Aviv, Maariv, 1979, p. 148 6 Shiomo Nakdimon, Verso l'ora zero, Tel Aviv, Ramdor, 1968; Eitan Haber, Domani ci sarà la guerra. Le memorie del generale di brigata Yisrael Lior, segretario militare dei primi ministri Levi Eshkol e Golda Meir, Tel Aviv, Idanim, 1987, pp. 157 sgg 7 Yehoshafat Harkabi, Fra Israele e il mondo arabo. Tel Aviv, Maarahot, 1968, pp 39 sgg 8 Eliezer Livneh, Rispunta il pericolo di Hitler, in «Haaretz», 31
marzo 1967, p 2; Fra Hitler e Nasser, in «Haaretz», 5 giugno 1967, p. 2; cfr. anche Ritorno a Monaco, lettere al direttore, in «Haaretz», 31 maggio 1967, p. 2; Yohanan Lahav, Diario della crisi, in «Yediot Aharonot», 2 giugno 1967, p. 17 9 Y. Rabin, op. cit., p. 161; Michael Brecher, Decisions in Israel's Foreign Policy, New Haven, Yale University Press, 1975, pp. 333 sgg 10 Alzatevi e gridate, o voi abitanti di Sion! (editoriale), in «Haaretz», 8 giugno 1967, p.2 11 Grandi eventi (editoriale), in «Al Hamishmar», 8 giugno 1967, p. 1 12 Silvi Keshet, Mio caro Uzi, in «Haaretz», 8 giugno 1967, p. 2 13 Uri Ramon, «La coscienza dell'Olocausto durante la guerra dei Sei giorni», in Dapim Leheker Hashoah Vehamered, raccolta A, 1969, pp. 59 sgg 14 Arieh Ben-Eliezer, 22 luglio 1968, DK, LII, p. 2729 15 The Seventh Day, cit., pp. 160,173 16 Menahem Begin, 20 giugno 1977, DK, LXXX, p. 67 17 Meiron Medzini, L'ebrea orgogliosa. Tel Aviv, Idanim-Yediot Aharonot, 1990, p.406 18 Leni Yahil, Come parlare dell'Olocausto?, in «Gesher», nn. 1 e 2,1979, pp. 144 sgg 19 M. Medzini, op. cit., p. 434 20 Ehud Praver, colloquio con l'autore (registrato), 15 giugno 1990 21 Cfr. anche Amnon Lin, 26 giugno 1985, DK, CI, p. 3147. 22 Matti Golan, The Road to Peace: A Biography of Shimon Peres, New York,
Warner Books, 1989, p. 152; Shimon Peres, colloquio con l'autore (registrato), 27 agosto 1990; Shimon Peres, Diario di Entebbe, Tel Aviv, Idanim, 1991, pp. 68, 92 XXII. «Hitler è già morto, signor primo ministro» 1 Omri Mishor, Tavola rotonda a Musrara, in «Al Hamishmar», 27 febbraio 1979, p. 4; Gabriel Stern, «La lezione dell'Olocausto per i sefarditi e gli ashkenaziti», in «Al Hamishmar», 27 aprile 1979, p. 4 2 Yitzhak Navon, 14 marzo 1978, DK, LXXXII, p. 2047 3 Dan Bar-On e Oron Sela, «Il circolo vizioso fra la realtà e l'Olocausto nei giovani israeliani», relazione sulla ricerca condotta dall'Università Ben Gurion, Dipartimento di scienze comportamentali, 1990, p. 39 4 Moshe Katsav, 14 marzo 1978, DK, LXXXII, p. 2058 5 Menahem Begin, 20 giugno 1977, DK, LXXX, p. 65 6 Menahem Begin, 20 giugno 1979, DK, LXXXIV-LXXXVI, pp. 3115,3126 7 Gershon Jakobson, All'ONU Herzog ha fatto a pezzi il sionismo, in «Yediot Aharonot», 11 novembre 1977, p. 1 8 Menahem Begin, 20 novembre 1977, DK, LXXXI, p. 463 9 Dov Shilansky, 27 settembre 1979, DK, LXXXIII, p. 403; cfr. anche DK, LXXXIII, p. 3800, interpellanza n. 2059 10 Gideon Alon, Begin: se l'Iraq riproverà a costruire un reattore nucleare, noi reagiremo, in «Haaretz», 10 giugno 1981, p. 1 n Menahem Begin, 2 aprile 1951, DK, Vili, p. 1548 12 Menahem Begin, 1° settembre 1977, DK, LXXX, p. 752; cfr. anche 15 agosto 1977, DK, LXXX, p. 674 13 Arieh Naor, // governo in guerra: il funzionamento del governo israeliano durante la guerra in Libano, 1982, Tel Aviv, Yediot Aharonot, 1986, pp. 47 sgg 14 Menahem Begin, 29 giugno 1982, DK, 10, II, p. 2973
15 Rapporto della commissione d'inchiesta sugli avvenimenti nei campi profughi di Beirut, 1983, p. 55 16 Menahem Begin, 18 giugno 1982, DK, 10, II, p. 2747 17 Arieh Zimuki, Begin a Reagan: mi sento come se avessi mandato l'esercito a Berlino a distruggere Hitler nel suo bunker, in «Yediot Aharonot», 3 agosto 1982, p. 1 18 Amos Oz, Hitler è già morto, signor primo ministro, in «Yediot Aharonot», 21 giugno 1982, p. 6 19 Herzi Rosenblum, Balbettio infantile, in «Yediot Aharonot», 2 luglio 1982, p. 2 20 Il professor Leibowitz definisce giudeo-nazista la politica di Israele in Libano, in «Yediot Aharonot», 21 giugno 1982, p. 7 21 Lili Calili, La dirczione di Yad Vashem ha vietato lo sciopero della fame sul terreno del museo, in «Haaretz», 13 agosto 1982, p. 3 22 Hanoh Bartov, Vietato l'accesso, in «Maariv», 11 gennaio 1983, p. 5. Cfr. anche Yehiam Weitz, Una tempesta in un bicchier d'acqua, in «Davar», 10 gennaio 1983, p. 5 23 Boaz Evron, L'Olocausto: un pericolo per la nazione, in «Iton 77», n. 21, maggio-giugno 1980, pp. 12 sgg.; cfr. anche Yehuda Bauer, Un tentativo di chiarezza, in «Iton 77», nn. 22-23, settembre-ottobre 1980, pp. 18 sgg.; Boaz Evron, Il chiarimento del chiarimento, in «Iton 77», n. 24, novembre-dicembre 1980, pp. 36 sgg 24 Yair Tsaban, 21 febbraio 1983, DK, C, pp. 1423 sgg 25 Moshe Dayan, 5 luglio 1978, DK, LXXXIII, p. 3391 Note 515 26 Yoram Aridor, 23 novembre 1977, DK, LXXXI, p. 499 27 Menahem Begin, 3 giugno 1981, DK, XCI, pp. 2896 sgg.; cfr. anche Amnon
Rubinstein, 3 giugno 1981, DK, XCI, p. 2894 28 Menahem Begin, 9 luglio 1979, DK, LXXXIV-LXXXVI, p. 3391 29 Yohanan Meroz, Tutto per niente?, Tel Aviv, Sifriat Poalim, 1988, p. 67 XXIII. «Nei profondo dell'anima» 1 Meir Kahane, Le spine negli occhi, Gerusalemme, Istituto per l'idea ebraica, 1980 2 Yair Kotler, Heil Kahane, Tel Aviv, Modan, 1985, pp. 292 sgg.; PCS, 742/84, verdetto, 31 ottobre 1985; cfr. anche Tribunale Tel AvivJaffa, causa civile 45860/90, Meir Kahane contro Yitzhak Lior et al. (in possesso dell'autore); PCS, vol. 39 (2), p. 302 e vol. 42 (4), p. 197 3 «Forme di razzismo fra gli studenti e lassismo del sistema scolastico», DK, 2 gennaio 1985, C, pp. 1023 sgg.; «Rapporto dell'Istituto Van Leer sul pericolo dell'estremismo fra i giovani», 26 giugno 1985, DK, CII, p. 3132; «Dopo le ricerche sui giovani: non l'isteria democratica, ma la sobria storia sionista e politico-militare», 2 dicembre 1985, DK, CVI, pp. 688 sgg. Cfr. anche Istituti di ricerca Dahaf e Van Leer, Orientamenti politici e sociali fra i giovani, 1987 4 Haike Grossman, 25 novembre 1986, DK, CVI, p. 397 5 29 luglio 1985, DK, CII, p. 3751; 31 luglio 1985, DK, CII, pp. 3865, 3898 6 E. Praver, colloquio con l'autore, cit 7 Forze di difesa israeliane, corpo degli specialisti della formazione, «Guida per il comandante», 5 maggio 1986. Citazione autorizzata dal portavoce militare 8 Forze di difesa israeliane, corpo degli specialisti della formazione, «All'ordine del giorno», 26 aprile 1987. Citazione autorizzata dal portavoce militare 9 E. Praver, colloquio con l'autore, cit
10 Dan Sagir, Nei battaglione si sapeva che eravamo una compagnia di killer, in «Haaretz», 31 luglio 1989, p. 11 n Uzi Baram e Yitzhak Rabin, 2 agosto 1989, DK, 12,1, p. 3616 12 Cfr., per esempio, Gershom Schocken, 2 gennaio 1956, DK, XIX (2), p. 685 13 Tom Segev, Il caso di Mohammed Abu Wardi, in «Koteret Rashit», n. 203, 22 ottobre 1986, p.ll 14 Ori Nir, L'amministrazione civile ha vietato la distribuzione di «Al-Fajr» a causa della pubblicazione di una vignetta antisemita, in «Haaretz», 18 settembre 1988, p. 2 15 Zvi Harel, Moledet ha denunciato «Davar» per calunnia, in «Haaretz», 26 luglio 1989, p. 5; Congresso internazionale (annuncio), in «Maariv», 30 ottobre 1988, p. 2; Le scuse, in «Maariv», 31 ottobre 1988, p. 18 16 Zeev Sternhell, Banai, Struzman, Farago, in «Hadashot», 2 giugno 1986, p. 11 17 No al distintivo giallo, in «Hadashot», 2 giugno 1989, p. 2 18 Dan Almagor, Rimpianti, in «Yerushalaim (Yediot Aharonot)», 16 dicembre 1988, p. 23 19 Doron Meiri, Ho pensato al boicottaggio dei tedeschi contro gli ebrei, in «Hadashot», 27 novembre 1990, p. 8; Tribunale speciale militare M/l/90, procuratore militare contro col. Yehuda Meir, verdetto, p. 13 (in possesso dell'autore) 20 Israel Has Roomfor Ali, in «Newsweek», 17 ottobre 1988, p. 64; Yerah
Tal, Ci stiamo abituando: una repressione pericolosa, in «Haaretz», 11 ottobre 1988, p. 2; Aharon Megged, Falsità, in «Haaretz», 14 ottobre 1988, p. C3; David Avidan, Non ditelo a Gath, in «Hadashot Shel Shabbot», 14 ottobre 1988, p. 23 21 Sidra DeKoven Ezrahi, «Aharon Appelfeld: The Search for a Language», in Jonathan Frankel, a cura di, Studies in Contemporary Jewry, 1984, vol. I, p. 366 22 Dalia Rabikowitz, «Non si uccide due volte un bambino», in Vero amore. Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1987, p. 64 23 Roli Rosen e Ilana Hammerman, I poeti non scriveranno poesie. Tel Aviv, Am Oved, 1990; cfr. anche Hannah Yaoz, La letteratura ebraica sull'Olocausto come letteratura storica e transtorica, in «Eked», 1980; Avraham Hagorny-Green, L'Olocausto nella nostra poesia, in «Eked», 1970 24 Art Spiegelman, Maus (edizione in ebraico), Zemora Beitan, 1990 25 Stan Johnson, Dibattito senza precedenti in Unione Sovietica sull'antisemitismo e l'Olocausto, in «Maariv», 27 settembre 1961, p. 1 26 Noah Klieger, Non « Un altro libro», in «Yediot Aharonot», 18 agosto 1988; Yoram Harpaz, Non sparate sul traduttore, in «Kol Hair», 28 aprile 1989, p. 31; Moshe Zimmerman e Oded Heiibrunner, a cura di. Capitoli dal «A/fan Kampf» di Hitler, Gerusalemme, Akademon, 1992 27 Moshe Nissim, 25 giugno 1985, DK, CI, p. 3061 28 Stato di Israele contro Ivan John Demjanjuk. Verbali del processo, 1 marzo 1987, pp. 1065 sgg. (in possesso dell'autore) 29 Stato di Israele contro Ivan John Demjanjuk. Verdetto, 18 aprile
1988, pp. 1 sgg. (in possesso dell'autore). Cfr. anche Torri Telchholz, The Trial of Ivan the Terrible, New York, St. Martin's Press, 1990; Wilhelm L. Wagenaar, Identifying Ivan, Cambridge, Harvard University Press, 1989 30 Stato di Israele contro Ivan John Demjanjuk. Verdetto, cit, p. 9 XXIV. «L'Olocausto e l'eroismo» 1 Avraham Levinson, consultazione sul progetto di un Museo della Diaspora, 4 giugno 1945, AYV, scatola YV/l-YV/9 (fascicolo 14); cfr. anche il simposio organizzato da Yad Vashem, 10 giugno 1956, AN, ME, 2388/16 2 Yitzhak Arad, colloquio con l'autore (registrato), 12 maggio 1990 3 Avraham Shionsky, Voto, in Poesie, Tel Aviv, Sifriat Poalim, 1971, vol. IV, p. 84 4 Arieh Leon Kokobi, Il paese criminale contro la società morale, in «Yediot Yad Vashem», n. 31, dicembre 1963, pp. 1 sgg 5 Nahum Goldmann alla direzione di Yad Vashem, 1° febbraio 1956, verbale, AN, ME, 2388/16 6 Haim Ben-Asher, 27 marzo 1950, DK, vol. IV, p. 1158; Procuratore generale contro Adolf Eichmann. Verdetto e sentenza, cit., pp. 189 sgg.; «Legge sulla commemorazione dell'Olocausto e dell'eroismo», bozza non datata, AN, ME, 2388/15/A; DK, XIV, p. 2455; cfr. anche Yaakov Rosenthal, Yad Vashem, commemorazione dei martiri e proposte legislative, in «Haaretz», 13 aprile 1953, p. 2; Yisrael Gutman, a cura di. Enciclopedia dell'Olocausto, Gerusalemme, Yad Vashem, Sifriat Poalim, 1990, vol. V, p. 1282 7 D.Z. Pinkas all'EAE, 4 settembre 1946, ACS, S/26 1326; Le ceneri dei martiri polacchi saranno sepolte a Tel Aviv, in «Haaretz», 12
settembre 1946, p. 4 8 Yaakov Zerubavei e Beri Loker all'EAE, 26 giugno 1949, ACS 9 Yosef Gorny, La ricerca dell'identità collettiva, Tel Aviv, Am Oved, 1986, p. 106 Note 517 10 Haim Guri, Da quel fuoco, in Letture per la celebrazione del Giorno dell'Olocausto e dell'eroismo, Gerusalemme, Merkaz Hahasbara e Yad Vashem, 1975, p. 60 11 Mordecai Shenhabi, «Proposta alla sede centrale del Fondo nazionale ebraico», 10 settembre 1942, e relativa documentazione (19421945), Archivio HashomerHatsair (Archivio Shenhabi), 4-1-F; cfr. anche AYV, YV/l-YV/9 eYV/lO-YV/19; Yehuda Koren, Piangere per i forni, in «Davar Hashavua», 29 agosto 1986, pp. 8 sgg.; ivi, 5 settembre 1986, pp. 6 sgg 12 M. Shenhabi, «Proposta alla sede centrale del Fondo nazionale ebraico», cit 13 Appunti sulla riunione con il CC di Hashomer Hatsair, 18 giugno 1946, AYV, YV/l-YV/9, fascicolo A 14 Ipotesi per il progetto del Monte della Memoria, 8-9 aprile 1956, AN, ME, 2388/16 15 Mordecai Shenhabi, appunti, 14 e 21 agosto 1944, AYV, YV/lYV/9,
fascicolo A 16 M. Shenhabi, «Proposta alla sede centrale del Fondo nazionale ebraico», cit 17 David Ben Gurion ad Avraham Granot, 21 aprile 1952, ABG, Corrispondenza 18 Mordecai Shenhabi ad Avraham Granot, 6 novembre 1951; Yosef Weitz et al. alla sede centrale del Fondo nazionale ebraico, 3 febbraio 1953, AYV, YV/lYV/9 (fascicolo IO); cfr. anche Mordecai Shenhabi ad Abba Houshi, 21 ottobre 1954, AN, ME, 2388/15/A 19 «Yad Vashem, progetto di monumento alla Diaspora distrutta», 2 maggio 1945, AYV, YV/10-YV/19, fascicolo II 20 «Yad Vashem», dépliant pubblicitario, 1° marzo 1948, AN, ME, 2388/15/A; dibattiti su Vaad Haleumi, AYV, YV/l-YV/9, fascicolo XIV, conferenza a Yad Vashem, 13 luglio 1947, scatola YV/10-YV/19, fascicolo I; cfr. anche le decisioni del congresso ACS, 1326 S/26 21 «Yad Vashem»: elementi del progetto (s.d.), AYV, scatola YV/10YV/19, fascicolo II 22 Ben-Zion Dinur a David Ben Gurion, 3 aprile 1953, AN, UPM, 5564/2 23 Yad Vashem al Dipartimento relazioni pubbliche del ministero degli Esteri, 6 gennaio 1954, AN, ME, 2388/15/A; cfr. anche 2520/13/A; Dipartimento relazioni pubbliche alle delegazioni israeliane all'estero, 24 marzo 1953, AN, ME, 2388/15/a 24 DBG, 26 giugno 1951 25 Corrispondenza con esperti di diritto internazionale, corrispondenza con David Ben Gurion e Moshe Sharett, pareri di avvocati e relazione
della commissione Feinberg, AYV, Archivio amministrativo, vol. 1950-1952; proposte legislative, parere di Robinson e ulteriore corrispondenza, AN, ME, 2388/15/A; cfr. anche 2388/16 26 Ben-Zion Dinur all'esecutivo di Yad Vashem, 1° febbraio 1956, AN, ME, 2388/16. Cfr. anche Hannah Zeifeld, L'origine del termine «Shoah», in «Masua», n. 15,1987, pp.101sgg 27 Ben-Zion Dinur, 12 maggio 1953, DK, XIV, pp. 1310 sgg. Cfr. anche «legge sulla commemorazione dell'Olocausto e dell'eroismo», cit 28 12 maggio 1953, DK, XIV, pp. 1310 sgg.; 18 maggio 1953, DK, XIV, pp. 1331 sgg.; 19 agosto 1953, DK, XIV, pp. 2402 sgg 29 12 aprile 1951, DK, IX, pp. 1655 sgg 30 Segreteria del Mapai, 20 marzo 1953, AL 24/53 31 Mordecai Nurok et al., 18 giugno 1958, DK, XXIV, pp. 2118 sgg 32 «Legge sul Giorno commemorativo dell'Olocausto e dell'eroismo», 10 marzo 1959, DK, XXVI, p. 1385. 33 Baruch Azania et al., 8 marzo 1961, DK, XXXI, pp. 1264 sgg., 1300 sgg., 1504 sgg., 1590 34 Aharon Yadiin, 13 marzo 1961, DK, XXXI, p. 1313 35 Shlomo Shamgar, Bande neonaziste mettono a soqquadro Berlino, in «Yediot Aharonot», 22 aprile 1990, p. 2 36 Aviezer Golan, L'incontro di Parigi, in «Yediot Aharonot», 2 maggio 1989, p.2 37 Letture per la celebrazione del Giorno dell'Olocausto e dell'eroismo, cit., pp. 12 sgg 38 Mozioni, 2 agosto 1977, DK, LXXX, pp. 564 sgg, 39 Moshe Kol all'amministrazione di Yad Vashem, 1° febbraio 1956, AN, ME, 2388/16
40 Gideon Hausner, Zorach Warhaftig, 16 dicembre 1968, DK, LUI, p. 698; cfr. anche S.Z. Kahane a Zeev Sharef, 7 giugno 1956, AN, UPM, 5564/2; Judith T. Baumel. Una voce di lamento: l'Olocausto e la preghiera, Ramat Gan, Università BarIlan, 1992; Menahem Friedman, Gli Haredim e l'Olocausto, in «The Jerusalem Quarterly», n. 53, inverno 1990, pp. 115 sgg 41 Ot Vaed, dépliant pubblicitario non firmato e non datato (in possesso dell'autore) 42 Meir Dvorzetzki, Avraham Granot e Yitzhak Gruenbaum all'esecutivo di Yad Vashem, 16 luglio 1954, AN, ME, 2388/15/A XXV. «Il resto della tua vita con Monik e Frieda» 1 Citato in Nili Keren, «L'influenza degli opinion leader e degli studi sull'Olocausto sullo sviluppo del dibattito pedagogico e sui piani di studio nelle scuole secondarie e nell'insegnamento non istituzionalizzato in Israele, 1948-1981 », tesi di laurea. Università ebraica, 1985, p. 29 2 Y. (Antek) Zuckerman, op. cit., pp. 304 sgg 3 Margaret Larkin, I; sole non si è fermato, Tel Aviv, Maarahot, 1984 4 Meir Dvorzetzki all'amministrazione di Yad Vashem, 13 dicembre 1954, AYV, vol. 1953-1955 5 Nili Bornstein, Chiedo di aspettare, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1973, p. 27; Dina Vardi, I portatori del segno. Dialoghi con i membri della seconda generazione dell'Olocausto, Gerusalemme, Keter, 1990; Aaron Hass, In the Shadow of the Holocaust, Ithaca, Cornell University Press, 1990;
Amnon Neustadt, Israels Zweite Generation, Berlino, Bonn, Verlag J.H.W. Dietz, 1987; Dan Bar-On e Oron Sela, Effetti psicosociali dell'Olocausto sulla seconda e terza generazione, Be'er Sheva, Università Ben Gurion. Dipartimento di scienze comportamentali, 1991 6 T. Dror, Pagine di testimonianze..., cit 7 Ivi, vol. I, pp. 13 sgg 8 Proposte di legge per vietare l'impiego di simboli e termini nazisti, 19 febbraio 1986, DK, 11, II, pp. 798 sgg.; legge per la commemorazione dell'Olocausto e dell'eroismo, Yad Vashem (emendamento sulla cittadinanza onoraria dei giusti non ebrei), 14 gennaio 1985, DK, 11,1, p. 1152; 25 marzo 1985, DK, 11, L p. 2156; comunicato del ministero della Giustizia con l'offerta di un milione di dollari a chiunque contribuisca a portare Mengele in giudizio in Israele, 7 maggio 1985, DK, 11,1, p. 2374; Meir Kahane, 11 giugno 1986, DK, CVII, p. 3067 9 Dibattito sul 40° anniversario della sconfitta della Germania nazista e dei Note 519 suoi fantocci, 6 maggio 1985, DK, 11,1, pp. 2367 sgg.; legge per la commemorazione dell'Olocausto e dell'eroismo, Yad Vashem (proposta di emendamento), 19 febbraio 1985, DK, 11,1, p. 1712; estradizione in Israele dell'arcivescovo Tarifa, 21
gennaio 1985, DK, 11,1, pp. 1276 sgg 10 Le richieste israeliane per la concessione della cittadinanza tedesca, 13 febbraio 1985, DK, CI, pp. 1655 sgg.; interrogazioni parlamentari 1000,1002, 5 giugno 1985, DK, CII, pp. 2767 sgg.; approvazione del governo della visita in Germania del presidente, 3 dicembre 1986, DK, CVI, p. 570 11 Hans Mordow a Yitzhak Shamir, 2 marzo 1990; dichiarazione del Parlamento della Germania dell'Est, 23 aprile 1990 (versione completa in possesso dell'autore. Citazioni autorizzate dal ministero degli Esteri) 12 Michael Handelsaltz, Soltanto la Filarmonica israeliana può e deve mettere fine al boicottaggio di Wagner, in «Haaretz», 12 aprile 1990, p. A5 13 La rivoluzione e i suoi pericoli, in «Maariv», 12 novembre 1989, p. 14; Yeshayahu Ben-Porat, Contro la riunificazione della Germania, in «Yediot Aharonot», 12 novembre 1989, p. 2; Id., No alla Germania unita, in «Yediot Aharonot», 20 novembre 1989, p. 2; Israele e la riunificazione della Germania, in «Haaretz», 20 febbraio 1990, p. Bl; Una nuova potenza, in «Maariv», 2 ottobre 1990, p. 12; Dov Genihovski, La riunificazione della Germania, in «Yediot Aharonot», 2 ottobre 1990, p. 2; Il presidente della Knesset: Per il popolo ebraico è l'ora del sacco e della cenere, in «Maariv», 3 ottobre 1990, p. 1; n presidente della Knesset: Per noi è un giorno di lutto, in «Yediot Aharonot», 3 ottobre 1990, p. 1; Bronia Klebansky, La riunificazione della Germania deve preoccuparci (lettera), in «Haaretz», 23 marzo 1990, p. B9; II presidente della Knesset:
Il concerto rock dalla Germania in televisione: insensibilità e rozzezza, in «Yediot Aharonot», 20 luglio 1990, p. 8 14 Shaul Ben-Haim, 11 ministro degli Esteri Arens a Bonn: Abbiamo assoluta fiducia nella Germania unita, in «Maariv», 16 febbraio 1990, p. 3; cfr. anche Ministri: L'approvazione della riunificazione della Germania da parte di Arens è un peccato contro la storia e un disprezzo dell'Olocausto, in «Maariv», 16 febbraio 1990, p. 1; Akiva Eldar, Arens smentisce, in «Haaretz», 18 febbraio 1990, p. A3 15 L'opinione pubblica e la riunificazione tedesca, in «Yediot Aharonot», 6 luglio 1990, p. 1; cfr. anche «Der Spiegel Special», n. 2, pp. 61 sgg XXVI. «Che cosa c'è da capire? Sono morti, ecco tutto» 1 Haim Nahman Bialik, Sulla soglia della casa di preghiera, in Opere complete di H.N. Bialik, Tel Aviv, Dvir, 1941, p. 7, 2 Shmuel Cracowski, «Progetti di memoriali e di Istituti commemorativi ideati dai superstiti», in Yisrael Gutman e Adina Drechsler, a cura di. Il «resto», 19441948, Gerusalemme, Yad Vashem, 1991, pp. 351 sgg 3 Decisioni della Commissione per lo studio dell'Olocausto e dell'eroismo, 13-14 luglio 1947, ACS, 1326 S 26 4 «Legge per la commemorazione dell'Olocausto e dell'eroismo», Yad Vashem, 1953, DK, XIV, p. 2455 5 Avraham Wine, «Le opere commemorative, fonti per lo studio della
storia delle comunità ebraiche d'Europa», Yad Vashem, Raccolta di studi sull'Olocausto e l'eroismo, IX (1973), pp. 209 sgg.; Jack Kugelmass e Jonathan Boyarin, From a Ruined Garden: The Memorial Boote of Polish Jewry, New York, Schocken Books, 1984 6 Natan Alterman, Cade la città, in Poesie che furono, cit., p. 220. 7 Ka-tzetnik, Il conflitto. Tel Aviv, Levin Epstein-Modan, 1975, p. 114 8 Pinhas Sheinman, 14 marzo 1978, DK, LXXXII, p. 2050 9 Proposta di legge sull'interdizione della negazione dell'Olocausto, 15 luglio 1958, DK, C, pp. 3452 sgg.; CVIII, pp. 3533, 3479 10 Codice penale (Offese alla sensibilità religiosa e tradizionale), par. 173, in Eliahu Winograd, a cura di, Dinini, vol. XXI, pp. 9336 n William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, trad. it. Torino, Einaudi, 1964; Hermann Rauschning, Gesprache mit Hitler, Zurigo - New York, 1940; Konrad Heiden, Der Fuhrer. Adolfo Hitler: l'epoca della irresponsabilità, trad. it. Firenze, Sansoni, 1974 (ristampa); Alan Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, trad. it. Milano, Mondadori, 1979; Joachim Fest, Hitler, trad. it. Milano, Rizzoli, 1975. Cfr. anche Uri Avneri, La svastica, Tel Aviv, Sifrei Mada Veinformatsia, s.d 12 H. Arendt, op. cit.; Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, trad. it. Torino, Einaudi, 1999; Isaiah Trunk, fudenrat, Gerusalemme, Yad Vashem, 1979; Ruth Bondi, Edelstein against Time, Tel Aviv, Zemora Bitan Modan, 1981; Yehoshua Soboi, Ghetto, Tel Aviv, Or Am, 1984 13 Gabriel Bach, colloquio con l'autore (registrato), 17 maggio 1990 14 Yisrael Gutman e Gideon Greif, a cura di, L'Olocausto nella storiografia. Conferenze e dibattiti al V Congresso internazionale degli studiosi dell'Olocausto, Gerusalemme, Yad Vashem, 1978 15 S. Salomon, J crimini sionisti nella distruzione della Diaspora, 1988
(stampato a spese dell'autore) 16 D. Porat, Una leadership intrappolata, cit., p. 493 17 S.B. Beit-Zvi, Il sionismo postugandese nella crisi dell'Olocausto, Tel Aviv, Bronfman, 1977 18 Yosef Avner, Avraham Kushner e Tom Segev, La conversazione di «Nitsots» con David Ben Gurion, in «Nitsots», 28 aprile 1968, p. 2 19 Uriel Reingold, Ho fatto una scelta? Non posso rimangiarla, in «Lamerhav», 25 aprile 1968, p. 3 20 D. Ben Gurion, La rinascita dello Stato d'Israele, cit., p. 57 21 Hanzi Brand, colloquio con l'autore, 30 agosto 1990 22 Motti Lerner, Kastner, Tel Aviv, Am Oved, 1988; Ben-Ami Feingold, L'Olocausto nel teatro ebraico, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1989 23 Gerhard Riegner, colloquio con l'autore (registrato), 23 giugno 1989 24 Joel e Hanzi Brand, Il diavolo e l'anima, Tel Aviv, Ledori, 1960; cfr. anche Joel Brand, l'inviato dei condannati a morte, Tel Aviv, «Ayanot», 1957; Amos Elon, L'ora zero. Tel Aviv, Idanim, 1980 25 Cfr. anche l'intenzione del governo polacco di aprire un convento cattolico ad Auschwitz, interrogazione parlamentare n. 1970, 8 aprile 1986, DK, CVII, p. 2589; mozioni, 28 maggio 1986, DK, CVII, pp. 2842 sgg 26 W. Laqueur, op. cit.; Walter Laqueur e Richard Breitman, Breaking the Silence, Tel Aviv, Schocken, 1988 XXVII. «Quando vedi un cimitero... » 11 sette nani di Auschwitz, in «Haaretz», 19 luglio 1949, p. 1. 2 Bilha Noy, «L'Olocausto nelle scuole primarie israeliane negli anni Quaranta e Cinquanta nei ricordi degli allievi», inedito. Citazione autorizzata dall'autore Note
521 3 N. Keren, op. cit., pp. 31 sgg. Cfr. anche A. Shapira, Terra e potere, cit., p. 485, 4 G. Bach, colloquio con l'autore, cit 5 N. Keren, op. cit., pp. 71 sgg.; cfr. anche il dibattito sull'insegnamento della consapevolezza ebraica nelle scuole, 4 marzo 1958, DK, XXIII, p. 504 6 Citato in N. Keren, op. cit., p. 143 7 Ivi, p. 180 8 Ruth Firer, Gli agenti della lezione. Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1989 9 Cit. ivi, p. 31. 1° Ivi, p. 35 11 Ivi, pp. 97 sgg 12 N. Keren, op. cit., pp. 224 sgg 13 Ivi, pp. 196 sgg 14 Tom Segev, Alle prese con l'Olocausto, in «Haaretz» (supplemento), 14 settembre 1979,p.9 15 26 marzo 1980, DK, LXXXVIII 16 Prove d'esame per i diplomandi (in possesso dell'autore). Citazione autorizzata dal ministero dell'Istruzione e della cultura 17 Uri Farago, «La consapevolezza dell'Olocausto fra gli studenti della scuola secondaria in Israele, 1983», in Dapim Leheker Tekufat Hashoah, raccolta C, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1984, pp. 159 sgg 18 Amos Oz, In terra di Israele, trad. it. Genova, Marietti, 1982, p. 185 19 «Fonti per il dibattito sugli ebrei credenti durante e dopo l'Olocausto», libretto ciclostilato a cura di Ot Vaed; cfr. anche Fede e Olocausto. Analisi del significato religioso-ebraico dell'Olocausto,
Gerusalemme, Ministero dell'Istruzione e della Cultura, 1980 XXVIII. «Ma io, che cosa provo?» 1 Cerco i miei fratelli. Viaggio della gioventù in Polonia, Gerusalemme, Ministero dell'Istruzione e della cultura, 1990 2 Ivi, pp. 61 sgg.; Preghiere del venerdì sera a Crocevia, Gerusalemme, Ministero dell'Istruzione e della Cultura, p. 38 3 Yemima Avidar-Chernowitz e Mira Lube, Due amici si mettono in cammino, Tel Aviv, Bronfman, 1972 4 Abba Kovner, La mia sorellina, citato in Natan Cross e Itamar Yaoz-Kaset, a cura di, L'Olocausto nella poesia ebraica. Antologia, Gerusalemme, Yad Vashem e Hakibbutz Hameuhad, 1984, p. 194 5 Shabtai Teveth, Istantanee: Russia, Polonia, in «Haaretz», 31 agosto 1990, p. B4; cfr. anche A chi appartiene Auschwitz?, in «Haaretz», 7 settembre 1990, p. B2; Yoram Brunovski, Dall'antisemitismo all'antipolonismo, in «Haaretz», 7 settembre 1990, p.135 6 Yehudit Hendel, ?1 villaggi silenziosi. Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1987, p.3L
7 DBG, 18 giugno 1948 8 Tzvika Dror, Nitsanim. Il kibbutz costruito due volte, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad e Pubblicazioni del ministero della Difesa, 1990, p. 17 9 Ibid 10 Mira Kedar, Canzone salvata dal fuoco, in I rami delfico, Tel Aviv, Sifriat Poalim, 1990, p. 8. 11 Zeev Jabotinsky, L'inno del Betar, in Poesie, Gerusalemme, Eri Jabotinsky, 1947, p. 25; Zeev Jabotinsky, Sansone, Tel Aviv, Maariv, 1976, p. 271; 18 ottobre 1961, DK, XXXII, pp. 134 sgg.; 2-3 gennaio 1962, DK, XXXII, pp. 580 sgg.; 9 gennaio 1962, DK, XXXII, pp. 902 sgg 12 Torri Segev, Vale la pena vivere?, in «Haaretz» (supplemento), 11 giugno 1981.pp.l2 sgg " Tom Segev, Soldiers of Evil, New York, MacGraw-Hill, 1987, p. 211 14 Libretto in ricordo del viaggio in Polonia del liceo Ben Gurion, Petah Tikvah, ottobre 1989 (in possesso dell'autore) 15 Eliezer Lidowski, colloquio con l'autore, 13 luglio 1989; cfr. anche la testimonianza di Lidowski, HU, ICJ, ODO, 62 (4); Eliezer Lidowski, E la scintilla non scoccò, Tel Aviv, Associazione dei partigiani, combattenti e ribelli del ghetto, 1986 16 D. Bar-Qn e O. Sela, «Il circolo vizioso fra la realtà e l'Olocausto nei giovani israeliani», cit., p. 58 17 Ibid 18 Yehuda Elkana, Per dimenticare, in «Haaretz>', 16 marzo 1988, p. 18 19 Nili Keren, Per imparare, in «Haaretz», 16 marzo 1988, p. 13; Nira Feldman, Per ricordare, in «Haaretz», 23 marzo 1988, p. 13; Yisrael Eldad, L'apparente genocidio dell'oblio, in «Haaretz», 14 aprile 1988, p. 9; cfr. anche «Politika», n. 8, giugnoluglio 1986
20 Y. Hendel, op. cit., p. 60 21 Moshe Dayan, Pietre miliari. Tel Aviv, Idanim, 1976, p. 191 22 Annuncio del Centro per la salvaguardia del patrimonio dell'eroismo ebraico, in «Haaretz», 29 gennaio 1991; cfr. anche Senza tappeto rosso (editoriale), in «Haaretz», 25 gennaio 1991; Yehiam Weitz, Sì, è successo anche a noi, in «Davar», 25 gennaio 1991, p. 18; Gideon Alon, Conversazione quotidiana con Minaiti Zeiger, in «Haaretz», 27 gennaio 1991, p. A2; Lili Calili, Sondaggio: il 50% degli abitanti di Tel Aviv e di Haifa soffre d'ansia, in «Haaretz», 29 gennaio 1991, p. A3; Anat Meidan, I superstiti dell'Olocausto e le maschere antigas, in «Hadashot», 21 febbraio 1991, p. 20; Jurgen Keil, Come ci si sente da tedeschi?, in «Haaretz», 21 febbraio 1991, p. B2 23 Noah Klieger, Perché no?, in «Yediot Aharonot», 7 ottobre 1990, p. 20 Epilogo 1 Yossi Peled, colloquio con l'autore (registrato), 2 luglio 1990 2 Citato in Storia della guerra di indipendenza, prefazione di David Ben Gurion, Tel Aviv, Maarahot, 1959, p. 272 3 Yossi Peled a Haim Curi, 18 dicembre 1985 (copia in possesso dell'autore). Citazione autorizzata da Yossi Peled e Haim Guri 4 Yitzhak Rabin a Dachau, 8 settembre 1987 (testo completo in possesso dell'autore). Citazione autorizzata dall'ufficio del ministero della Difesa 5 Natan Alterman, Il piatto d'argento, in La settima colonna, cit., vol. I, p. 154 6 Ehud Barak ad Auschwitz, 7 aprile 1992 (testo completo in possesso dell'autore). Citazione autorizzata dall'ufficio del capo di Stato
maggiore 7 Yitzhak Shamir a Gerusalemme, 6 luglio 1972 (testo completo in possesso dell'autore). Citazione autorizzata dall'UPM Note 523 8 Nahum Rackover, La legge ebraica nella legislazione della Knesset, Gerusalem: l'Olocausto fra gli studenti della scuola e Tel Aviv, Istituto pedagogico dei kibbutz; Lettere a Bergen-Belsen, Tel Aviv, Hakibbutz Hameuhad, 1978, w p' 12 Zeidan Atshi e Menahem Begin, 3 giugno 1981, DK, XCI, p. 2897